Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 19 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxxv.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 19 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Russo Perez

Schiavetti

Uberti, Relatore

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Cianca

Bellavista

Togliatti

Mastino Pietro

Condorelli

Moro

La seduta comincia alle 11.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione sul disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

Riprendendo la discussione su questo disegno di legge occorre esaminare l’alinea h) dell’emendamento proposto dall’onorevole Schiavetti all’articolo 47:

«h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano».

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, il primo comma dell’articolo 45 del progetto di Costituzione, articolo già approvato dall’Assemblea, stabilisce che: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi, al raggiungimento della maggiore età». Vi è poi un altro articolo, del quale ancora non abbiamo discusso, cioè la prima disposizione finale e transitoria, che così dice:

«È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.

«La disposizione dell’articolo 56 della Costituzione per l’eleggibilità a Senatore non è applicabile ai ministri, sottosegretari, deputati e consiglieri nazionali fascisti.

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste».

Richiamo l’attenzione dell’Assemblea sopra la norma contenuta nell’ultimo comma. Noi dobbiamo ancora discutere questo problema, cioè se le leggi possano limitare, anche temporaneamente, l’eleggibilità ed il diritto di voto per responsabilità fasciste.

È, quindi, opportuno che dell’emendamento Schiavetti si torni a parlare soltanto quando saremo chiamati a discutere il terzo comma della prima disposizione finale e transitoria del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, come conclude?

RUSSO PEREZ. Che si sospenda la discussione sull’emendamento Schiavetti, e che di esso si torni a parlare quando discuteremo del terzo comma della prima disposizione finale e transitoria. L’ho già detto e mi pare che sia molto semplice.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, sarebbe stato più semplice che ella avesse sollevato la questione all’inizio della discussione, perché la sua proposta di sospensiva riguarda non solo la lettera dell’emendamento Schiavetti che oggi è in discussione, ma tutte le disposizioni dell’articolo 47, non soltanto del testo Schiavetti, ma anche del progetto del Governo e di quello della Commissione.

RUSSO PEREZ. Signor Presidente, riconosco che ella ha in parte ragione, nel senso che, se l’idea fosse venuta prima a me o a qualche altro dei colleghi, sarebbe stato meglio; ma questo non significa che io non abbia ragione nel chiedere che venga rimandata la discussione.

PRESIDENTE. Ella mi insegna che si tratta di una proposta di sospensiva, avanzata durante il corso della discussione. A tenore del Regolamento non può essere presentata da un singolo deputato, ma occorrono quindici firme.

LUSSU. Chiedo che si continui nella discussione.

RUSSO PEREZ. Domando se vi sono quindici deputati che appoggino la mia proposta. Il Regolamento stabilisce che non c’è bisogno di una dichiarazione scritta, purché colui che fa la proposta dichiari di avere con sé ed abbia effettivamente quindici deputati disposti a farla propria.

PRESIDENTE. Le faccio osservare che ella è in errore.

RUSSO PEREZ. Io non ho nulla da osservare, se non chiedere che la proposta sia passata ai voti. Forse ho torto perché ho ragione!

PRESIDENTE. Non le mie idee vanno rispettate, ma il Regolamento. È vero che si può sostituire alle firme anche l’atto materiale e semplice della presenza dei consenzienti, ma solo per materie tassativamente indicate. Quando invece si tratta di una sospensiva, il Regolamento chiede, e le ragioni sono intuibili, che la proposta sia presentata per iscritto, con le firme di quindici deputati.

RUSSO PEREZ. La presenteremo.

PRESIDENTE. Durante il tempo che ella impiegherà per raccogliere le quindici firme, la discussione deve continuare.

Passiamo alla lettera h) dell’emendamento dell’onorevole Schiavetti, del quale do nuovamente lettura:

«h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano».

Questa parte dell’emendamento si riferisce ad una disposizione già approvata dall’Assemblea e che porta la lettera e) nello stesso articolo 47, del seguente tenore: «le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale».

Chiedo all’onorevole Schiavetti se nonostante l’Assemblea abbia già proceduto all’approvazione di questa norma, insista nell’emendamento.

SCHIAVETTI. Insisto.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore ad esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione aveva esplicitamente posto l’esclusione dal voto di tutti coloro che avevano ricoperto le stesse cariche previste nei commi approvati. Non può accettare la dizione «qualsiasi» per la sua imprecisione, per la sua vaghezza, mentre in norme come questa occorre una esatta delimitazione. Ritiene poi di dover richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulle conseguenze possibili, sugli arbitri cui una tale norma affidata a commissioni locali può dar luogo. Per esempio, vi sono di quelli che, pur avendo ricoperto la carica di podestà nel periodo della repubblica sociale, sono stati poi eletti sindaci democraticamente: fatto che s’è verificato in tutti i partiti. Si tratta, per lo più, di persone che, durante il periodo del fascismo pseudo repubblicano, hanno creduto di adoperarsi in qualche modo per rendere meno aspra l’occupazione del tedesco, per difendere le popolazioni. Chi è stato nel Nord durante l’occupazione tedesca comprende esattamente questa mia osservazione.

Il voler, quindi, stabilire che l’aver ricoperto in quel tempo la carica di podestà faccia perdere il diritto di voto vorrebbe dire non solo mettere in crisi tante amministrazioni comunali, ma anche commettere ingiustizia. Per questi motivi che sono un riflesso del criterio fondamentale che ha animato la Commissione questa deve respingere anche questo ulteriore emendamento Schiavetti.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Sottosegretario per l’interno a esprimere il parere del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si associa al parere della Commissione.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la lettera h) dell’emendamento Schiavetti, di cui è stata data già lettura.

(Segue la votazione per alzata e seduta).

Non essendo possibile stabilire con precisione l’esito della votazione, procediamo per divisione alla votazione della lettera h) dell’emendamento.

(È approvata).

Comunico all’Assemblea che è stata presentata dagli onorevoli Russo Perez, De Maria, Bencivenga, Mazza, Colitto, Coppi, Di Fausto, Gullo, Bellavista, Bonino, Rodinò Mario, Lagravinese Pasquale, Bergamini, Rodi, Coppi, De Maria e Ayroldi una richiesta di sospensiva della discussione dell’articolo 47.

Apro la discussione avvertendo che possono parteciparvi soltanto due oratori in favore, compreso uno dei proponenti, e due contro.

MAZZONI. Ma l’articolo 47 è in parte già votato, quindi non si può chiedere la sospensiva.

PRESIDENTE. La sospensiva, una volta votata, vale per la parte dell’articolo che non è stata approvata, perché non si può con una sospensiva distruggere i risultati di votazioni già avvenute.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Io intendo tutto il valore politico di questa richiesta (Commenti a destra) e mi duole che il Regolamento non consenta di proseguire in questo dibattito, consenta cioè di prendere in esame la proposta di sospensiva, perché se questa avvenisse noi chiederemmo la votazione per appello nominale (Interruzioni – Commenti a destra) e legheremmo così a una responsabilità precisa tutti coloro che votassero per la sospensiva. (Proteste a destra).

Ripeto, appare assurdo, non ad ogni spirito politico ma ad ogni uomo di buon senso, che possa essere chiesta in questo momento la sospensiva su di un articolo il quale è stato già discusso ed in notevole parte approvato. L’articolo è una unità organica di cui ogni parte condiziona ed integra l’altra. Se il Regolamento consentisse di sollevare eccezioni di questo genere, vorrebbe dire che nessuna discussione parlamentare sarebbe più concepibile e potrebbe essere condotta a compimento.

Quindi io dico che la Presidenza non può mettere in discussione la richiesta formulata, con uno spirito politico di cui prendiamo atto, dall’onorevole Russo Perez e dai suoi colleghi. (Approvazioni – Rumori – Commenti).

RUSSO PEREZ. Con uno spirito giuridico, non politico.

BELLAVISTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Io non ho nulla da insegnare all’ufficio di Presidenza, maestro e donno di regolamenti, che si regolerà secondo il Regolamento, piaccia o no all’onorevole Cianca.

A quest’ultimo però devo confessare che io condivido l’apprezzamento sullo spirito politico che c’è, senza dubbio, nella richiesta di sospensiva ma non precisamente quello che l’onorevole Cianca crede di intravedere. Un altro, e ve lo dico subito, stretto parente dello spirito politico c’è e si chiama spirito giuridico, che pare abbia disertato quel settore dell’Assemblea. Ma noi lo ricondurremo a voi, con vostra buona pace. C’è spirito politico e giuridico per la sospensiva della parte non approvata dell’articolo 47 per una ragione semplicissima…

Una voce a sinistra. Littori!

BELLAVISTA. A chi? Ma se io ho una preoccupazione altruistica? Potrei ad esempio insorgere in difesa del vostro Mario Alicata, direttore comunista della «Voce» di Napoli, littore «emerito di molto merito».

Una voce a sinistra. Non guardiamo se si deve salvare questo o quello. È una norma generale.

BELLAVISTA. Ma è soprattutto la preoccupazione di quell’elemento sistematico della legge che ci consiglia la sospensiva. Nelle disposizioni finali e transitorie della Costituzione è chiaramente stabilito che la legge limita temporaneamente l’eleggibilità e il diritto di voto per responsabilità fascista. Quello che noi chiediamo è di mettere, per necessità sistematica – irrinunciabile, se si vogliono fare leggi buone e perfette – in relazione il terzo comma della prima delle disposizioni finali e transitorie con il resto dell’articolo 47. Sospendere non significa certo rigettare o rifiutare; e nella sospensiva non c’è altro spirito politico che quello che fa alzare i giuristi a parlare, perché le leggi siano degne del loro nome e della buona tradizione giuridica italiana. (Applausi a destra – Rumori a sinistra – Commenti).

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Vorrei anzitutto conoscere quale sarebbe la sorte degli emendamenti già approvati da questa Assemblea nel caso, per noi assurdo, che fosse approvata la sospensiva.

BELLAVISTA. Sono stati già approvati!

SCHIAVETTI. Allora noi abbiamo una sospensiva di questo genere: colpisce alcune categorie e non colpisce altre che sono legate alle prime.

Secondo me la proposta di sospensiva si può fare, ma della discussione e non già della votazione, come dice l’articolo 93 del Regolamento che parla esclusivamente della discussione. Ma io credo che ormai noi siamo in sede di votazione e non di discussione; quindi la richiesta dell’onorevole Russo Perez non è da accogliere. (Commenti).

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. In mezzo a questo dibattito vivace vorrei dire una parola serena. Noi stiamo approvando una legge che è stata distaccata dalla legge elettorale passiva perché c’è la necessità di procedere alla revisione delle liste elettorali. Il decreto-legge del 28 settembre 1944, n. 247, non prevede la compilazione delle liste elettorali, ma soltanto la loro revisione; oggi abbiamo ancora unicamente le liste elettorali che sono state adoperate per il 2 giugno. Tutte quante le revisioni che sono necessarie da allora ad oggi non si possono fare se non si approva questa legge. Se si vogliono fare nella primavera prossima le elezioni, per tutto il congegno dei termini per rivedere le liste, è necessario che entro brevi giorni abbia ad essere approvata la legge, senza della quale non si possono rivedere le liste.

Non ci rimane da votare che in merito alla lettera q) e all’ultimo capoverso dell’emendamento Schiavetti. Mi sembra che in questa situazione sia molto meglio procedere nelle votazioni. La sospensiva non farebbe che ritardare l’approvazione di tutta la legge, provocando quindi l’impossibilità della revisione delle liste. Avrei capito se si fosse voluto lo stralcio dell’articolo 47; ma non comprendo come oggi si possa fare. L’onorevole Bencivenga aveva proposto la soppressione. Avrebbe potuto essere proposta la sospensiva finché non fossero state approvate le norme transitorie di cui nella Costituzione, ma bisognava che fosse stata posta all’inizio dell’esame dell’articolo 47. Ma si osserva che questo articolo potrebbe poi risultare in contrasto con la Costituzione. Vuol dire che, se, per ipotesi, quando si discuteranno le norme transitorie della Costituzione, l’Assemblea venisse nella deliberazione di non ammettere alcuna disposizione che escluda dal diritto di voto, è evidente che allora cadrebbe la norma posta in questa legge all’articolo 47. Ma il ritardo nell’approvazione della legge renderebbe impossibili nella primavera prossima le elezioni cori le liste rettificate.

PRESIDENTE. L’onorevole Marazza, Sottosegretario per l’interno, ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si rimette alla decisione dell’Assemblea; però non può non associarsi alle considerazioni della Commissione, in quanto una eventuale sospensiva ritarderebbe in tale misura la revisione delle liste, che si dovrebbe escludere fin da ora la possibilità di convocare i comizi elettorali per la primavera prossima.

PRESIDENTE. Domando all’onorevole Russo Perez di precisare il termine di scadenza della sospensiva. Se ho compreso bene il suo concetto, la sospensiva dovrebbe durare fino al momento in cui non si fosse discusso la disposizione transitoria della Costituzione che ha attinenza con la disposizione di cui si discute.

RUSSO PEREZ. Chi vieta all’Assemblea – anche perché si dimostri che non vi è nella mia proposta quello spirito politico a cui accennava l’onorevole Cianca – di anticipare la discussione su di una norma transitoria?

PRESIDENTE. Allora, è da intendere che sia sospesa la discussione dell’articolo 47 fino a che l’Assemblea non si sia pronunciata sulla norma transitoria ricordata dall’onorevole Russo Perez.

È bene che l’Assemblea tenga presente la portata della sospensiva.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su questo argomento non posso concedere la parola a nessuno, perché già due oratori hanno parlato in favore e due contro.

Quindi, onorevole Togliatti, potrò concederle la parola solo per dichiarazione di voto.

Pongo in votazione la proposta di sospensiva della discussione sull’articolo 47, con la intesa che questa sospensiva vale fino al momento in cui l’Assemblea avrà deciso in merito alla norma transitoria ricordata dall’onorevole Russo Perez.

L’onorevole Togliatti ha facoltà di parlare per dichiarazione di voto.

TOGLIATTI. Premetto che condivido l’opinione di quei colleghi, i quali trovano strano, dato anche ciò che il Regolamento prevede, che si addivenga a un voto di sospensiva a metà discussione di un articolo.

 

Voci. Votato un articolo, la discussione è chiusa.

TOGLIATTI. Lascio alla Presidenza di decidere la questione.

Nel merito della questione desidero precisare i motivi per i quali il Gruppo parlamentare comunista voterà contro la sospensiva. Credo quindi di essere perfettamente nel Regolamento e di avere diritto alla parola.

Prima di tutto ritengo pertinenti gli argomenti esposti testé dal Relatore della Commissione, onorevole Uberti. Non si può ritardare indefinitamente l’approvazione di questi articoli. Abbiamo bisogno di risolvere rapidamente questa questione per poter fare le liste elettorali. Mi pare che questo solo argomento parli contro la sospensiva, qualunque sia la posizione che si può avere nei riguardi delle proposte che si stanno discutendo.

Desidero però esprimere un’opinione anche sul merito e qui debbo dire che nel nostro gruppo molti colleghi pensano che parecchie delle misure che sono state proposte e che abbiamo in parte approvato ed in parte respinto, particolarmente le proposte dell’onorevole Schiavetti, siano misure molto severe. E ne spiegherò il perché.

Una voce a destra. Le avete votate!

TOGLIATTI. Sì, le abbiamo votate. La severità consiste nel fatto che era possibile prevedere in questo campo una linea differente, di maggiore generosità ed ampiezza, una linea che andasse nella direzione di quell’opera di conciliazione e di pacificazione, che credo siamo nella maggioranza in questa Assemblea ad auspicare e che noi comunisti auspichiamo con la stessa sincerità con cui l’auspicano altri partiti e colleghi di altri settori. (Rumori a destra). Però, onorevoli colleghi, una linea di maggiore generosità e di maggiore ampiezza, un indirizzo per la conciliazione e la pacificazione nei confronti soprattutto di coloro che furono esponenti, direi dei gradi medi o più bassi, dell’abominevole regime fascista, presuppone da parte del fascismo come tale, senza «neo», un disarmo. Questa è la condizione preliminare e prima perché sia possibile una politica di generosità e di conciliazione. Ma quando vediamo che l’avversario, anziché disarmare, approfitta anche di quelle prove tanto grandi di generosità, che abbiamo dato nei suoi confronti, per discendere di nuovo in campo con le sue stesse posizioni e per condurre con le stesse armi di ieri la stessa lotta che ieri condusse – e che ci ha portato dove ci ha portato – allora, signori, siamo costretti a dire che qui vi è un equivoco, un errore, un travisamento delle posizioni. Qui si sorprende la nostra buona fede. (Applausi a sinistra). Abbiamo saputo che ieri il Presidente del Consiglio ha ricevuto una delegazione di cittadini italiani della provincia di Gorizia, delle regioni recentemente ritornate all’Italia dalla temporanea occupazione alleata. Ebbene, questa delegazione è andata a riferire, come verrà riferito anche in quest’Assemblea, che il passaggio all’amministrazione italiana ha significato uno scatenamento di violenze fasciste (Vivi rumori a destra) esattamente uguali a quelle esercitate nel 1919, 1920 e 1921 e in quelle regioni e in tutta Italia contro le organizzazioni dei lavoratori e le organizzazioni democratiche… (Rumori e proteste a destra – Interruzioni dell’onorevole Pajetta Giuliano). In quelle città e in quei villaggi sono state assaltate, saccheggiate ed incendiate le sedi dei partiti democratici. (Interruzioni e rumori a destra).

Sì, signori. E se in quei partiti democratici sono iscritti dei cittadini italiani di nazionalità non italiana…

Voci a destra. Basta, basta!

TOGLIATTI. Finché sto alla tribuna parlo. Questo è il mio diritto.

Voci a destra. È una dichiarazione di voto!

TOGLIATTI. Se iscritti a quelle associazioni democratiche e a quei partiti democratici sono dei cittadini italiani di nazionalità non italiana, questo è un motivo perché noi ancora più rigorosamente rispettiamo nei loro confronti tutte le libertà. (Interruzioni e commenti a destra). La realtà è che voi (Indica la destra) non avete imparato niente dalla esperienza. (Applausi a sinistra – Vive interruzioni a destra). Se noi vi lasciassimo fare voi trascinereste l’Italia un’altra volta. (Applausi a sinistra – Proteste a destra).

PRESIDENTE. Onorevole Togliatti, permetta. Se il Regolamento non stabilisce nessun limite massimo per le dichiarazioni di voto, dice però che queste devono consistere in una pura e succinta spiegazione del voto.

TOGLIATTI. …per la via in cui l’avete trascinata oppure l’avete lasciata trascinare. Ieri, ancora, per le strade di Roma, nei comizi indetti da fascisti, si sono cantati inni fascisti e si procede con metodi fascisti.

Concludo la mia dichiarazione di voto: nel momento in cui assistiamo a questa ripresa di virulenza fascista, in questo momento, anche se nel fondo noi avessimo potuto auspicare una legge la quale desse prova di maggiore generosità e non contenesse disposizioni così severe, in questo momento non possiamo che aderire a questo emendamento e respingere la proposta di sospensiva, che viene avanzata da quella parte. (Indica la destra). (Applausi a sinistra – Commenti).

MASTINO PIETRO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, io non posso avere la pretesa, parlando per mio conto personale, di portare in questa Assemblea una nota che sia esclusivamente politica, ma intendo ricordare la questione della interpretazione dell’articolo 93, nel senso che quelle ragioni formali che a mio avviso si devono opporre a che sia posta in votazione la sospensiva…

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Mastino Pietro. Le ho dato la parola per dichiarazione di voto; quindi ella non può dire altro che le ragioni che la portano a votare contro o in favore.

MASTINO PIETRO. Io voterò contro la sospensiva e dicevo che le ragioni di forma, per me diventano di sostanza, ed è per ciò che io do il voto contrario alla sospensiva. Sarebbe superfluo precisare all’Assemblea come una cosa sia discutere ed altra cosa votare una legge. L’articolo 93 quando prevede la possibilità di una sospensiva, la prevede solo nel caso della discussione della legge. L’onorevole Presidente ha però tenuto a chiarire che, se anche noi abbiamo discusso la legge, non abbiamo però ancora discusso l’emendamento, di modo che, secondo l’apparente sua interpretazione, noi saremmo sempre in campo di discussione. Questo, a sommesso mio avviso, non è esatto, perché l’articolo 93 quando parla di discussione che dà luogo a possibilità di sospensiva, parla di discussione sulla legge, non di discussione sugli emendamenti. E noi siamo nel pieno della votazione. La discussione della legge è già superata. Per arrivare ad una diversa interpretazione, dovrei supporre, da parte dei compilatori del Regolamento, l’ignoranza di una cosa così chiara: la diversità tra discussione da un lato e votazione dall’altro.

Questa ragione di forma diventa quindi di sostanza e mi consiglia a votare contro la sospensiva a meno che il Presidente non crederà che spetti a lui, nella sua qualità, di decidere, non mettendo neanche in votazione la sospensiva. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Fo ancora osservare all’onorevole Mastino che la proposta di sospensiva si riferisce all’intero articolo 47 di cui è in corso la discussione.

CONDORELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi! Sono tre mesi che noi abbiamo approvato l’articolo 45 della Costituzione nel quale è affermato: «Sono elettori tutti i cittadini di ambo i sessi che hanno raggiunto la maggiore età». Questa è ormai una norma costituzionale del nostro Paese, per nostra volontà. Ancora la norma costituzionale che dà al legislatore la possibilità di creare delle eccezioni a questo principio non è stata approvata. Noi dunque, mentre siamo in iter di formazione della Costituzione, cominciamo a violarla in modo flagrante e patente. Deploriamo di esserci accorti di ciò soltanto quando era in corso l’approvazione dell’articolo 47. (Interruzioni a sinistra).

Ce ne siamo accorti sufficientemente in tempo però, per dare alla Nazione la sensazione che se noi siamo i formatori di questa Costituzione ne siamo ancora in questo momento i vigili custodi. È una esigenza necessaria di diritto, di politica costituzionale, sospendere la discussione di questo articolo di legge.

E non vi è nessun argomento regolamentare che ci potrebbe fermare su questa via. Non si dica che noi sospendiamo a metà l’approvazione di una norma. Un articolo di legge (questo è ovvio per chi si intende di legge) può contenere infinite norme; tante sono le norme quanti sono i precetti.

Qui vi è una serie di precetti che potrebbe giungere all’infinito, cioè sino a dove arriverà la fantasia dell’onorevole Schiavetti. Noi ci possiamo e ci vogliamo dunque fermare a questo punto. Io non sono sicuro dell’esito di questo voto; temo che questo voto darà ancora una volta la prova della scarsa sensibilità giuridica e politica di questa Assemblea. (Rumori a sinistra).

Comunque, io protesto sin da adesso contro l’eventuale risultato di un voto contrario e dico al popolo italiano (Rumori a sinistra) che male ha posto la sua volontà di restaurazione del diritto in mano a dei rappresentanti che violano la Costituzione nel momento stesso in cui la formano. (Applausi a destra – Rumori a sinistra).

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Io vorrei affrontare la questione brevissimamente, al di fuori di ogni faziosità politica e soltanto dal punto di vista giuridico e dell’opportunità.

Effettivamente, noi finora, nel lavoro costituzionale, ci siamo occupati del diritto di voto in una disposizione nella quale è detto che limitazioni non possono essere stabilite se non in conseguenza di sentenza civile o di condanna penale, e poi si è aggiunto per indegnità morale, allo scopo di comprendere talune categorie tradizionalmente escluse dal diritto di voto.

È prevista poi, tra le disposizioni transitorie e finali, una norma, la quale stabilisce limitazioni temporanee da fissarsi per legge alla eleggibilità e al diritto di voto, per responsabilità fasciste.

Quindi, fino a questo momento la Costituente ha espresso la sua volontà nel senso di sottrarre le categorie degli elettori al possibile arbitrio di una legge futura, stabilendo in modo preciso quali sono le cause in presenza delle quali il diritto di voto può essere sospeso. Evidentemente la disposizione transitoria aveva una sua ragion d’essere in relazione ad una situazione politica contingente, in vista della quale stabiliva un’eccezione a quel principio.

Ora, discutendo noi questa legge e non avendo ancora approvato questa disposizione transitoria, ci poniamo in qualche modo in contrasto con la volontà che, fino a questo momento e senza esclusione di nuove deliberazioni a complemento, la Costituente ha espresso.

Certamente, se la sospensiva volesse significare un rinvio sine die o, per lo meno, alle calende greche, della discussione della legge, si andrebbe incontro ad inconvenienti non soltanto di carattere politico – come è possibile intendere – ma anche di carattere pratico, data l’urgenza della redazione delle liste elettorali.

Ed allora io dico: spogliamo la questione di ogni carattere politico e mettiamoci d’accordo. Io faccio questa formale proposta: la Costituente stabilisca di affrontare la votazione e la discussione di questa norma transitoria nella prima seduta dedicata alla materia costituzionale.

RUSSO PEREZ. L’ho detto anche io!

MORO. Poiché la materia costituzionale è all’ordine del giorno, noi non abbiamo nessuna difficoltà a stabilire ciò. Si potrebbe rimandare alla seduta di domani e così potremmo tranquillizzare ogni scrupolo e sodisfare ogni esigenza. (Rumori a sinistra).

SCHIAVETTI. Una proposta in sede di dichiarazione di voto! (Commenti).

MORO. Quindi, per rispondere all’onorevole Schiavetti, io dico che noi votiamo in favore della sospensiva a questa condizione precisa, che la norma transitoria venga in discussione nella prima seduta dedicata alla materia costituzionale. (Applausi al centro e a destra – Commenti).

RUSSO PEREZ. E così cade la speculazione politica dell’onorevole Togliatti!

PRESIDENTE. Onorevole Moro, è evidente che qualora l’Assemblea approvasse la sospensiva, l’Assemblea stessa, in sede di Costituzione, avrebbe facoltà e diritto di fissare anche immediatamente la discussione della norma transitoria.

Con questo chiarimento, ed intendendosi che la sospensione dura fino a che non sia stata decisa l’approvazione o meno della norma transitoria più volte ricordata, pongo in votazione la proposta di sospensiva. (Commenti a sinistra).

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione, la proposta è approvata).

Sì intende che l’Assemblea potrà anche oggi stesso in sede di discussione sulla Costituzione decidere di passare senz’altro all’esame dell’articolo 1 delle Disposizioni Transitorie.

Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

La seduta termina alle 12.15.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Sul processo verbale:

Sforza, Ministro degli affari esteri

Rodinò Mario

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Gullo Fausto

Mortati

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Gavina

Piccioni

Silipo

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La sedata comincia alle 16.

MAZZA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Dopo il mio breve discorso sulle relazioni fra i partiti di massa e la burocrazia, avrei voluto, in seguito ad una impressione, erronea per fortuna, che alcuni colleghi ebbero di una mia frase su certi uomini politici del Mezzogiorno, domandare la parola sul processo verbale del giorno dopo per chiarire il mio pensiero. Purtroppo, gravi affari di Stato mi trattennero al Ministero degli esteri e non potei intervenire. Sono quindi grato al mio collega ed amico onorevole Mario Rodinò, che ieri chiese che io chiarissi il mio pensiero, perché ciò mi dà la possibilità oggi d’intervenire sul processo verbale. Io mi rendo perfettamente conto che quando si vuol parlare con estrema brevità, come sempre faccio in questa Assemblea, perché credo nella necessità di affrettare i nostri dibattiti, si corre il rischio di essere a volte fraintesi, tanto più che l’improvvisazione è spesso una infida compagna. Ma poiché si tratta di chiarire il mio pensiero circa il Mezzogiorno, è evidente che, essendovi stata una interpretazione, ripeto per fortuna erronea, potrei non essere creduto in parola se oggi mi sbracciassi qui in espressioni e giudizi più conformi al mio pensiero, ma dei quali si potrebbe pensare che sono l’effetto di un equivoco di cui sarei in parte responsabile. Quindi preferisco non far parlare me stesso oggi, ma me stesso nel 1946, quando, come scrittore d’un libro, che pubblicai a Milano e dove è un capitolo sul Mezzogiorno e sul Settentrione, dissi fra l’altro – non abbiano paura i colleghi che vanità di autore mi faccia leggere a lungo: – «Tocca a noi italiani del Nord ricordare e far ricordare a tutti che è il Mezzogiorno che ha dato all’Italia i più puri eroi dello spirito; che è il Mezzogiorno che ci ha dato i primi e i più eletti martiri del nostro Risorgimento con gli impiccati della Repubblica del 1799; che dalle loro ceneri uscirono vendicatori gli Spaventa, i Settembrini, i De Sanctis e tanti altri. Per parte mia – e questa è profonda impressione del mio spirito – se non fosse che la mia dimora fra Bari, Salerno e Napoli nel 1943-44 fu resa più lunga dalla troppo lenta tattica militare, per cui l’Italia pagò con città distrutte la cecità e le idee fisse di certi governanti stranieri, io benedirei il cielo di essere rimasto un paio d’anni in mezzo ad una civiltà tanto più raffinata della nostra». E più oltre: «La lotta dei Lombardi contro le paludi della pianura del Po durò quattro o cinque secoli, ma finirono col trionfare e fecero della loro terra una delle regioni più ricche d’Europa. Nel Mezzogiorno il lavoro è più eroico, perché deve rinnovarsi costantemente, salvo in due o tre casi privilegiati, un po’ dappertutto, come sulle pendici del Vesuvio, dove dopo ogni eruzione bisogna ripiantare dal nulla le viti. La lotta del meridionale italiano con la sua terra è uno dei più nobili esempi di resistenza umana; ma è muta e non è gesticolante; ed è per questo che i giornali e la letteratura propagandistica ne tacciono». Potrei continuare a lungo; ma tutti hanno capito quanto profonda sia la mia devozione per il Mezzogiorno. Aggiungerò una cosa, che è utile si sappia: che questi sono i miei giudizi come uomo privato e come modesto scrittore. Ma ben più importante è che io possa dire, come Ministro degli esteri, che stimo inconcepibile un rinascimento, una trasformazione, una estensione della forza e della influenza morale e materiale dell’Italia nel mondo, che non riconoscano come loro necessaria condizione primordiale la ricostruzione, la resurrezione, lo sviluppo crescente di tutta la vita italiana del Mezzogiorno; senza questa è inutile che noi pensiamo di poter diventare un giorno il grande Paese che giustamente speriamo di diventare. (Applausi).

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Desidero ringraziare l’onorevole Sforza per i chiarimenti, le dichiarazioni e le citazioni, da lui forniti a questa Assemblea.

Son sicuro che le parole che egli ha pronunziato saranno apprese con soddisfazione da tutti i napoletani e da tutti i meridionali, che troppo spesso si vedono misconosciuti e che, ricordando che il Conte Sforza è autorevole membro del Governo in carica, spereranno ancora una volta che la situazione meridionale sarà affrontata e che i problemi di Napoli e del Mezzogiorno, eternamente urgenti, eternamente insolubili, eternamente incompresi, saranno finalmente portati sul piano di una pratica realizzazione.

Voglio fare un brevissimo richiamo. Ho avuto occasione pochi giorni fa di leggere un discorso, che l’onorevole Colajanni, nel 1901, 46 anni fa, pronunziò alla Camera dei deputati nell’interesse del Mezzogiorno. Ebbene, leggendo quel discorso fatto 46 anni fa, alcune di quelle argomentazioni mi son sembrate ancora così vive, così palpitanti, così rispondenti alle effettive, condizioni di squilibrio che tuttora persistono, che vi assicuro, onorevoli colleghi, che quel discorso, per la sua massima parte, potrebbe esser riletto oggi in quest’Aula non come una riesumazione, ma come una realtà contingente. Quarantasei anni sono molti, anche per la vita di una Nazione e vorrei chiudere questo brevissimo incidente, prendendo l’occasione per dichiarare ancora una volta nell’Assemblea nazionale italiana che il problema del Mezzogiorno è il problema dell’avvenire d’Italia e che, finché esso non sarà risolto, come solo può esserlo, con unità di intenti e con realtà di giustizia, noi costruiremo sul vuoto!

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Posso aggiungere una sola parola, non sul processo verbale, ma come continuazione del mio pensiero.

Stamattina stessa ho dato istruzioni nei negoziati tra l’Italia e gli Stati Uniti che si faccia ogni sforzo per escludere la divisione in due categorie degli italiani, che come uomo del Nord io sento come un’offesa. Nelle statistiche americane si scrive: italiani del Nord e italiani del Sud. Ero umiliato, come italiano del Nord, perché mi sentivo distaccato da alcuni uomini, fra i più nobili rappresentanti dell’Italia, che erano appunto uomini del Sud. (Applausi).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca; Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. Prego l’onorevole Segretario di dare lettura dell’ordine del giorno presentato dall’onorevole Gullo Fausto.

MAZZA, ff. Segretario, legge:

«L’Assemblea Costituente,

premesso che la divisione dei poteri dello Stato non può significare in un ordinamento veramente democratico se non distinzione delle funzioni armonicamente operanti, nel quadro unitario dei poteri stessi, perché l’attività dello Stato, nei suoi vari aspetti, si esplichi sempre nel rispetto assoluto della sovranità e della volontà del popolo;

afferma la necessità che il potere esecutivo venga organizzato nella Costituzione in modo che esso tragga la sua necessaria autorità soltanto dalla volontà popolare manifestata attraverso la concessione della fiducia da parte della Camera dei Deputati».

PRESIDENTE. L’onorevole Gullo Fausto ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

GULLO FAUSTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Questa che si discute oggi è la parte della Costituzione che indubbiamente mostra in maniera più manifesta quale sia stato il contrasto delle divergenti opinioni e come le norme che noi oggi esaminiamo siano spesso il risultato di un compromesso. E si sa che spesse volte nei compromessi si riesce a realizzare i soli svantaggi, essendo costretti a lasciare da parte i vantaggi delle varie e contrastanti soluzioni. Io non vorrò – perché la cosa richiederebbe un tempo molto maggiore di quello concessomi – fare, alla stregua di tale premessa, un esame analitico di tutta la parte che oggi esaminiamo e discutiamo. Mi limiterò a brevi accenni, con più speciale riferimento al potere esecutivo, non senza aver presenti le parole, oltre modo significative, che si leggono nel rapporto del Thouret alla Convenzione francese: «Quando, dopo un lungo dispotismo, una Nazione si sveglia e si costituisce, il suo principale nemico in questa situazione è allora il potere esecutivo».

Evidentemente, il potere esecutivo ha sugli altri poteri dello Stato il vantaggio della continuità della sua azione e quindi la possibilità maggiore di varcare i limiti segnati alla sua attività. Ma un principio deve essere ben fermo in una Costituzione che si ispira ai principî della democrazia parlamentare, e cioè che non vi può essere autorità di Governo la quale non tragga i motivi e le ragioni della sua esistenza il più direttamente possibile dalla sovranità popolare.

Vi è un’esigenza che noi riconosciamo, una esigenza resa più acuta dagli ultimi avvenimenti della storia non soltanto d’Italia ma di tutte le Nazioni democratiche, quella, cioè, della stabilità del Governo, cui incombe il pericolo delle frequenti crisi, che turbano così profondamente la vita economica, politica e sociale del Paese. Ed è stato giustamente osservato da vari oratori che non è precisamente il mezzo migliore e più efficace di assicurare la stabilità del Governo quello di far ricorso ad accorgimenti, dirò così, esteriori, quasi che essa possa essere il risultato di un meccanismo più o meno ben congegnato. La continuità del Governo, per quanto possa costituire un’esigenza di primo piano nella vita della Nazione, non può non accompagnarsi a quella necessità di cui parlavo poc’anzi, e cioè che il Governo tragga la sua autorità dalla sovranità popolare, perché in tanto il Governo democratico è pienamente legittimo, in quanto nella sua attività non si stacchi mai da essa, che è l’unica fonte da cui trae il suo potere e la sua autorità.

Ora, come il presente progetto ha conciliato questa duplice esigenza? A questa domanda è legata senz’altro la principale questione, che si risolve affermando che il Governo può assicurarsi di avere con sé la sovranità popolare solo attraverso l’ottenuta fiducia da parte dei rappresentanti del popolo, cioè da parte di coloro che sono i legittimi rappresentanti della volontà e quindi della sovranità popolare.

Ma è appunto qui che viene ad inserirsi l’altra grossa questione, quella cioè del Senato. Nel momento in cui si stabilì di accogliere il sistema bicamerale, ci si è trovati di fronte ad una serie di problemi. Ed è proprio nella soluzione di tali problemi che più si nota il compromesso cui ha fatto ricorso la Commissione dei Settantacinque per cercare, come dicevo, di conciliare le contrastanti opinioni.

Superando, e di molto, i limiti segnati dalle norme contenute nel progetto, si è a lungo, in questo dibattito, parlato del Senato. Si è affermato prevalentemente che fosse necessario creare una Camera diversa dalla Camera dei deputati, al fine d’evitare un inutile doppione. Una Camera diversa, una Camera, cioè, che ripeta i suoi poteri da altra fonte da quella da cui li ripete la Camera dei deputati. Ma è intuitivo che questa fonte, per quanto diversa, non può non immedesimarsi anche essa in una manifestazione della volontà e della sovranità popolare.

La Commissione ha pensato ad un ordinamento di carattere regionale, ma anche qui vien fuori il compromesso e un compromesso strano, perché il progetto pensa che sia sufficiente, perché si abbia un’Assemblea elettiva di tipo regionalistico, segnare in una norma che i rappresentanti debbono essere nati o domiciliati nella Regione. Norma quanto mai strana, della quale non si riesce ad intendere il significato.

Quasi non sia concepibile, come invece è nel fatto che parecchi, per esempio, dei più appassionati meridionalisti non sono del Mezzogiorno d’Italia, ma di altre regioni. Senza dire che, di fronte a quell’esigenza unitaria che deve essere alla base di tutto l’ordinamento dello Stato, non è né opportuno né simpatico porre questa limitazione.

Ma basta poi ciò a creare un’Assemblea politica di tipo regionalistico? E, nel porre tale domanda, ho presente l’altra norma che fissa cinque rappresentanti per ogni Regione, oltre quelli eletti dai Consigli regionali in proporzione degli abitanti.

Come si manifesta questo speciale carattere che si vuole imprimere alla Camera dei Senatori?

È opportuno a questo proposito ricordare che nello stesso progetto è detto che anche i senatori, come i deputati, rappresentano non il collegio che li elegge, ma tutta la Nazione. E allora?

Qualche oratore, ricordo l’onorevole Piccioni, ha parlato della opportunità che si dia al Senato un altro carattere, un carattere di rappresentanza di categorie, a base di interessi. Ma, sia il Senato a carattere regionalistico, sia a carattere rappresentativo di categorie di interessi, sorge qui un problema che non si è affrontato e che è questo: non v’è, in una democrazia parlamentare, possibilità per un’Assemblea politica, quale è la Camera dei deputati e quale si vorrebbe che fosse il Senato, che non sorga dal popolo indiscriminatamente considerato.

Quando si crea una qualche discriminazione e in base ad essa si istituisce un’Assemblea di tipo regionalistico oppure di tipo, diciamo così, corporativistico, si farà tutto meno che una Assemblea politica, si snaturerà il concetto stesso di sovranità, che non può non identificarsi nel popolo indiscriminatamente inteso.

Con ciò non si vuol negare l’esistenza dei contrastanti interessi, i quali hanno il loro proprio campo d’azione al di fuori dell’Assemblea, nelle varie organizzazioni, operaie, padronali, professionali, ecc. L’Assemblea politica, nel momento in cui viene costituita, vuol essere qualche cosa che trascende i singoli interessi, siano essi di carattere regionalistico o professionale. Non è concepibile un’Assemblea politica che si informi a criteri particolaristici. Ma il più grave è che, essendosi voluto fare del Senato, nonostante tutto, un’Assemblea politica, si è riconosciuto anche a questa Assemblea la possibilità e la facoltà di concedere o non concedere la fiducia al Governo. Col progetto, insomma, vengono concessi pari diritti alla Camera dei deputati e a quella dei senatori.

Avendo così disciplinato ed organizzato questa delicata materia, la Commissione si è trovata senz’altro nella condizione di prevedere una continuità di contrasti, una continuità di attriti fra queste due Assemblee fornite di pari poteri.

Mi duole che non sia presente l’onorevole Nitti. Egli non si spiegava, nel suo discorso dell’altro giorno, come mai la Commissione dei Settantacinque avesse organizzato, a fianco di queste due Camere, una terza Camera, l’Assemblea Nazionale. L’Assemblea Nazionale è la risultante necessaria dell’organizzazione delle due Camere, quella dei deputati e quella dei senatori. Nel momento in cui la Commissione ha creato le due Camere con pari diritti, con pari facoltà, è sorta senz’altro la facile previsione del contrasto e quindi del marasma, della stasi nella macchina statale. Da qui la necessità di creare un organo, attraverso il quale comporre e superare il contrasto. Si sarebbe indotti a pensare che col progetto si sia avuto cura di creare i pericoli, per avere la soddisfazione di avvisare nello stesso tempo ai mezzi per ovviarvi.

Create le due Camere, necessariamente doveva venir fuori questa terza che siede fra le due da arbitra, appunto per comporre i ben facilmente prevedibili contrasti.

Ma non è questo soltanto il pericolo: il pericolo è che un Senato così formato, con tali poteri, possa addirittura capovolgere il giudizio dato dalla Camera dei deputati, che è quella che veramente, direttamente rappresenta la volontà e la sovranità del popolo.

Né vale obiettare che nell’Assemblea Nazionale la Camera dei deputati ha la prevalenza del numero.

È un argomento che va fino ad un certo punto, perché appunto può accadere questo: che una considerevole minoranza della Camera dei deputati, può, unita ad una maggioranza di membri della seconda Camera, avere la prevalenza. Ma non si creano in tal modo elementi perturbatori della vita politica dello Stato?

Che cosa accadrà, onorevoli colleghi, quando la Camera dei deputati avrà negato la fiducia al Governo, se, in seno all’Assemblea Nazionale, mediante un piccolo scarto di voti, la fiducia al Governo verrà invece concessa? Potrà allora concepirsi un Governo rivestito dell’autorità e del prestigio che deve assolutamente avere? Che cosa noi pensiamo di potere attribuire, sotto l’aspetto del valore politico e costituzionale, al voto opposto che può venir fuori dall’Assemblea Nazionale, rispetto a quello che è stato dato precedentemente dalla prima Camera? Del voto dato cioè da quella Assemblea Nazionale cui parteciperebbe, ripeto, un Senato improntato, nella sua costituzione, ad un carattere regionalistico o, peggio ancora, ad un carattere corporativistico?

Come può concepirsi che l’unilaterale atteggiamento di interessi particolaristici possa e debba avere un peso decisivo contro il volere della Camera dei deputati, la quale più direttamente rappresenta la volontà di tutto il Paese?

E ciò ha condotto manifestamente il progetto anche ad un altro inconveniente: i suoi redattori si sono cioè trovati di fronte al problema della responsabilità ministeriale. Il Governo deve essere responsabile. Era stato già sancito nell’articolo 85, nella norma cioè con cui si fissa l’irresponsabilità del Capo dello Stato, che sono i Ministri competenti ad assumere la responsabilità dei suoi atti.

Ma si è creduto di ripetere la norma nell’articolo 89. Che cosa si è voluto significare con tale ripetizione?

Questo interrogativo ci porta a domandarci se esista in Italia, stando alla Costituzione che noi andiamo creando, il Consiglio dei Ministri, o se esso invece debba considerarsi superato. Si badi infatti che, ove pure si legga con la maggior attenzione il progetto, non si riuscirà a comprendere con chiarezza se la Commissione ha creduto che il Consiglio dei Ministri debba ancora continuare ad avere la sua funzione e quindi ad esistere, o se abbia invece creduto meglio di condensare la responsabilità ministeriale nella figura del Primo Ministro, venendo a ricalcare, sotto questo riguardo, le orme della legislazione fascista.

Il fascismo, del resto, non aveva fatto in questo se non dare sistemazione giuridica ad un’assodata tradizione, che conferiva un particolare prestigio ed una particolare autorità alla figura del Presidente del Consiglio. Ora, è sembrato che la Commissione abbia voluto riprendere, in certo modo, questa sistemazione giuridica data dal fascismo alla figura del Primo Ministro, ed ha stabilito che il Governo della Repubblica è composto dal Primo Ministro, il quale – dice poi l’articolo 89 – dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile. Ma nello stesso articolo 89 si legge subito dopo che «i Ministri sono responsabili collegialmente degli atti del Consiglio dei Ministri». Ma, insomma, vi è ancora il Consiglio dei Ministri o non vi è più? Perché, se vi è il Consiglio dei Ministri, la figura del Capo del Governo, del Presidente del Consiglio, così come sorge dal progetto, non ha una sua giustificazione, in quanto la responsabilità del Consiglio dei Ministri, la responsabilità cioè collegiale, esclude una responsabilità propria in tal senso del Capo del Governo. Ma se si resta, invece, fermi alla prima parte dell’articolo 89 («Il Primo Ministro dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile») non si può non escludere invece la responsabilità collegiale, dato che tale responsabilità viene ad essere condensata e riassunta nella figura del Primo Ministro.

Anche qui è evidente il compromesso.

Parlando del potere esecutivo, intendo soprattutto soffermarmi – ed è il punto centrale di questo mio modestissimo discorso – sulla veramente strana anomalia contenuta nell’articolo 93 del progetto. Invito gli onorevoli colleghi a valutare in tutta la sua importanza questo articolo 93. Un Governo non dirà mai in una maniera aperta: «io faccio a meno del consenso popolare». Anche Mussolini diceva di governare col consenso del popolo. Non vi è stato e non vi sarà mai un Governo che dirà il contrario; non sono però mancati i Governi che hanno esercitato la loro attività e la loro autorità contro la volontà e la sovranità popolare. E si sono serviti a tal fine di vari mezzi e vari strumenti che essi hanno inserito accortamente nel meccanismo costituzionale, tentacoli idonei a contestare la usurpata autorità illegittima. L’articolo 93 crea appunto due strumenti di tal genere: esso infatti disciplina costituzionalmente, ossia inserisce nella Costituzione due istituti: il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. È un fatto nuovo; non v’è Costituzione al mondo che contenga la disciplina di questi due istituti…

TOSATO. Non è esatto.

GULLO FAUSTO. …uno, istituto di consulenza giuridico-amministrativa, e l’altro, istituto di consulenza e accertamento contabile. Sono due strumenti della cui necessità nella vita nazionale ognuno di noi può essere più o meno convinto; ma, insomma, non sono, non vogliono essere, non possono essere due istituti costituzionali.

Basti citare la Costituzione dell’Inghilterra. L’Inghilterra non conosce la Corte dei Conti, in quanto il controllo finanziario contabile è manifestazione diretta della Camera dei Comuni, la quale, ad ogni principio di legislatura, costituisce speciali Commissioni che fanno in pratica quello che da noi fa la Corte dei Conti.

Non è dunque una necessità di natura e di indole costituzionale, così come non è una necessità di natura costituzionale il Consiglio di Stato, quel Consiglio di Stato che – dobbiamo dirlo – a differenza della Corte dei Conti, non ha sul serio una brillante origine democratica. Il Consiglio di Stato nacque come Consiglio personale del monarca assoluto. La sola Costituzione che disciplini il Consiglio di Stato è quella del 1799, la Costituzione – chiamiamola così – di Buonaparte Primo Console. Essa, a fianco del Senato, del Tribunato, del Corpo legislativo, e dei consoli poneva il Consiglio di Stato. Vi fu chi vide senz’altro l’enorme pericolo di questa introduzione e lo denunciò; ma naturalmente la volontà preponderante di Bonaparte ne ebbe ragione. Entrato nella Costituzione quasi di straforo il Consiglio di Stato, divenne senz’altro l’organo più importante nella vita dello Stato. Esso continua a vivere anche nella Costituzione di Napoleone non più Primo Console, ma imperatore, e diviene il pilastro della tirannia bonapartista.

E perché soprattutto? Perché al Consiglio di Stato fu affidato uno dei compiti più gelosi e più delicati del meccanismo costituzionale: fu affidato il compito di studiare e formulare le leggi da presentare all’Assemblea legislativa.

Il pericolo contenuto nell’articolo 93 è nel fatto che si è voluto dare una disciplina costituzionale ai due istituti – Consiglio di Stato e Corte dei Conti – portando alla conseguenza che domani, quando una Camera legislativa voglia modificare in questo punto l’ordinamento dello Stato, dovrà necessariamente seguire la speciale procedura richiesta per la modificazione della Costituzione.

Ma oltre questo, altri e più seri pericoli esistono. Non è inopportuno ricordare, a questo proposito, quanto sia forte lo spirito di corpo, del Consiglio di Stato, quello spirito di corpo che il manuale del perfetto caporale dice, sì, essere un sentimento apprezzabile, ma di cui bisogna paventare e temere le esasperazioni.

A tal fine può essere molto utile leggere una pubblicazione fatta proprio a cura del Consiglio di Stato, e che è opera di una Commissione di cui era Presidente l’onorevole Ruini.

Badate, io non avrei paura della cosa, se potessi ipotizzare un Ruini eterno Presidente del Consiglio di Stato. Dell’onorevole Ruini ognuno di noi sa quanto egli sia poco invadente, e non ci sarebbe dunque pericolo. Ma noi dobbiamo pensare anche ai successori di lui.

Bene, nella relazione che questa Commissione ha redatto e con la quale si rivolge appunto ai costituenti perché meditino sull’importanza del Consiglio di Stato, ricordando che il Consiglio di Stato è «organo di consulenza giuridico-amministrativa del Governo e del Parlamento», si afferma che tale consulenza si svolge in una cerchia ristretta, e che è necessario che questa cerchia venga allargata.

Proprio quello che contribuì a creare la enorme potenza del Consiglio di Stato nella Costituzione napoleonica, ossia lo studio e la formazione delle leggi, è ciò che viene chiesto dalla relazione.

Si dice in questa relazione: «i controlli dovrebbero esercitarsi prima della definitiva deliberazione del Consiglio dei Ministri autorizzando la presentazione al Parlamento.

«In realtà su un atto del potere esecutivo, il parere relativo di carattere giuridico-amministrativo da allegarsi obbligatoriamente al disegno potrebbe costituire importante elemento per la discussione e l’esame in seno al Parlamento».

In definitiva si chiede di attribuire al Consiglio di Stato l’importantissimo compito di studiare e di preparare i progetti di legge che il Governo dovrà presentare alla Camera.

Questo non significa altro se non assumere la parte più importante dell’attività legislativa dello Stato.

Ora, quando dovesse essere approvato questo articolo 93, il quale, al Consiglio di Stato, quale organo di consulenza giuridico-amministrativa e di tutela della giustizia nell’amministrazione, attribuisce rilevanza costituzionale, ci si troverebbe senz’altro di fronte ad un fatto certo, e cioè ad un Consiglio di Stato il quale accamperebbe il suo diritto di esercitare un’azione decisiva nella formazione delle leggi, preparando e formulando i relativi progetti da sottoporre all’esame ed all’approvazione dell’Assemblea.

Ma vi è di più: il Consiglio di Stato afferma anche che: «Un esame sostanziale potrebbe innanzi tutto riguardare la costituzionalità delle norme amministrative».

Ecco come gradualmente, creato il varco, tutto finisce per passare attraverso il Consiglio di Stato. Non basteranno una Camera dei Deputati, un Senato, un’Assemblea nazionale, un Consiglio economico, tutta una varietà di assemblee deliberanti. Il Consiglio di Stato, quale organo di consulenza giuridico-amministrativa, vuole avocare a sé anche la facoltà di esaminare la costituzionalità delle leggi.

È inutile che creiamo una o due Camere, che diamo questa o quest’altra composizione particolare alla seconda Camera. Condensiamo tutto nel Consiglio di Stato e facciamone l’organo accentratore di tutta l’attività politica della Nazione. La democrazia si identifica nel Consiglio di Stato!

E ciò dico senza soffermarmi su quella che è l’esperienza di ognuno di noi che è stato al Governo in questi ultimi tempi. Si dice dagli amatori del bel tempo andato che una volta occorreva riunire le Gazzette Ufficiali di parecchie annate per fare un volume possibile. Invece ora quei buoni, antichi tempi sono passati: vi è un diluvio, una valanga, una tempesta di leggi. Non ho tanta tenerezza per il buon tempo passato. La verità è che allora la vita, nella sua semplicità e linearità, non richiedeva che un numero esiguo di norme legislative.

Ora invece la vita, nella sua complessità e fluidità, determina un mutamento continuo di situazioni e di rapporti per cui non si riesce a contenere tutto questo complesso di attività sociali nello schema fragile di poche disposizioni di legge. Occorre una ricca, abbondante legislazione che si rinnovi non più a distanza di decenni o di anni, ma a distanza di mesi.

È la situazione che sta alla base della legge, che crea la legge e che, modificandosi richiede una legge diversa. Ora, coloro che sono stati Ministri in questo tumultuoso periodo hanno tratto dalla loro pratica ministeriale questa convinzione: che questi istituti, Consiglio di Stato e Corte dei Conti, frequentemente si palesano non più fonti di illuminati consigli ma cause di ostacoli insormontabili, sia per il complicato meccanismo che è loro proprio e che naturalmente porta alla conseguenza di un’azione che si svolge lentamente e faticosamente, sia anche per uno spirito conservatore che di solito li anima e che fa ad essi vedere con diffidenza ogni innovazione legislativa che scava profondamente nella vita della Nazione, pur se essa costituisca la premessa del rinnovamento che tutti quanti diciamo di desiderare. Ora, immettendo nella Costituzione il Consiglio di Stato, si dà ad esso la possibilità di esercitare un’influenza di molto maggior rilevanza nella vita dello Stato.

C’è da pensare con nostalgia financo al Senato di nomina regia. Può apparire senza altro come una istituzione rivoluzionaria. Ma non solo il Consiglio di Stato viene organizzato costituzionalmente, ma anche la Corte dei Conti.

Ho già detto che l’Inghilterra non ha un istituto che sia simile alla nostra Corte dei Conti, in quanto il riscontro contabile-finanziario è considerato una delle prerogative più gelose della Camera bassa. E anche in ciò il progetto contiene una ingiustificata innovazione: marcia a ritroso finanche di fronte allo Statuto albertino, il quale sanciva una superiorità, sul terreno finanziario, della Camera popolare; qui è cancellata, perché, anche di fronte a ciò, le due Camere hanno uguali poteri.

La Corte dei Conti, dicevo, è istituto di riscontro contabile e finanziario. Ma anch’essa tende ad allargare il suo campo d’attività, non senza suscitare contrasti impreveduti.

A proposito di contrasti ho già parlato di quelli facilmente prevedibili tra le due Camere, quando ad esse si conceda parità di poteri. Ed io noto con soddisfazione come ieri l’onorevole Fuschini, conscio di tale pericolo, ha affermato senz’altro la necessità, per la salvezza stessa dello Stato democratico, che la Camera dei Deputati abbia la prevalenza su quella dei Senatori.

Ma altri contrasti si profilano inserendo nella Costituzione il Consiglio di Stato e la Corte dei Conti. La Corte dei Conti mira anch’essa ad allargare di molto i confini della sua competenza, non vuole arrestarsi al mero riscontro contabile e finanziario, vuole andare oltre; tanto oltre, che in questa relazione del Consiglio di Stato – è quanto mai interessante, invito i colleghi a procurarsela – la Commissione dice: «Pur senza volere ora interferire nella soluzione dei problemi concernenti la Corte dei Conti, sembra potersi riconoscere col generale consenso che quell’alto controllo non debba costituire un duplicato e vada in ogni modo ricondotto alla sua vera natura finanziario-contabile ed a questi limitati fini di merito, di mera osservanza della legge, secondo le stesse possibilità e la competenza dell’organo, reagendo alla ben nota tendenza della Corte stessa ad estendere il proprio compito (questa estensione va ad invadere proprio il campo, cui il Consiglio di Stato tiene gelosamente) al campo a lei estraneo dell’esame del buon uso delle norme di legge, invadendo così addirittura talora l’apprezzamento del merito amministrativo, con effetti sempre rallentatori e raramente correttivi dell’azione dell’Amministrazione dello Stato». Quando si è letto questo periodo, ci si domanda: come mai il Presidente della Commissione, che ha redatto questa relazione, e che è nello stesso tempo il Presidente della Commissione dei Settantacinque, può, nonostante ciò, ritenere giusto ed opportuno inserire nella Costituzione la Corte dei Conti, la quale dimostra di sapere il fatto suo, mettendo in pericolo proprio il campo che il Consiglio di Stato vuole tutto riservato a sé?

E il contrasto sorge fin da ora, quando ancora, cioè, i due istituti non sono dichiarati costituzionali; lasciate che venga approvato l’articolo 93, e vedrete cosa verrà fuori, con un Consiglio di Stato che vuole addirittura essere il domino dell’attività legislativa, con la formulazione e l’esame della costituzionalità delle leggi, e con una Corte dei Conti, la quale, secondo quanto afferma lo stesso Consiglio di Stato, cerca di decampare dai suoi limiti e di andare ben oltre.

Occorre senz’altro affermare che questa norma va esclusa dalla Costituzione. Vedo in questa un pericolo maggiore che in qualche altra norma, magari più sonora e rumorosa. La Costituzione deve essere tale da assicurare alfine al nostro Paese un Governo veramente democratico, che attinga direttamente cioè, e sempre, la sua forza e la sua autorità dalla volontà e dalla sovranità del popolo. Esaminato sotto questo profilo, ritengo che l’articolo 93 costituisca un serio pericolo per lo sviluppo democratico del nostro Paese.

Alcuni di noi pensavano, sì, ad una riforma dei due istituti, ma in senso perfettamente opposto. Pensavano, se mai, a svuotarli di parecchie attribuzioni e facoltà che, in parte per virtù di legge e in parte per virtù di consuetudine, essi son venuti assumendo. Nessuno di noi pensava di dare all’attività di questi istituti una sfera più ampia di attribuzioni, tanto meno di farne istituti costituzionali. E ciò vale anche per il Consiglio di Stato come organo di tutela e di giustizia della Nazione. Ebbene anche limitando l’esame all’aspetto giurisdizionale dell’attività del Consiglio di Stato, in cui molti di noi possono concordare (la giustizia amministrativa affidata al Consiglio di Stato ha oramai una lunga tradizione, che può essere valutata senz’altro favorevolmente), non possiamo tuttavia non considerare come importanti correnti ci siano nel pensiero giuridico moderno che tendono all’unificazione in un solo organo di tutta l’attività giurisdizionale dello Stato. Le varie relazioni presentate dalla Magistratura alla Costituente, sia come ordine sia come associazione, tutte sostengono la necessità di accentrare nell’organo della Magistratura ordinaria tutta l’attività giurisdizionale dello Stato. Tralasciamo di esaminare se è giusto ed opportuno che qualche giudice speciale – presa questa parola nel suo significato tecnico, non nel senso deteriore – sopravviva ancora, data la complessità stessa della vita moderna e la moltiplicazione delle sue attività, a giudicare le quali si richiedono competenze specifiche. Può essere giusto ed opportuno che vi siano giudici speciali; ma d’altro canto non si può contestare, come ho detto, che vi è un’autorevole corrente a favore della unicità dell’organo giurisdizionale. E se domani l’Assemblea legislativa riterrà di aderire a tale corrente giuridica, si troverà di fronte una norma costituzionale da modificare e, quindi, nella necessità di mettere in discussione la Costituzione per inserire in essa norme diverse in quanto suggerite da criteri diversi.

E così è per l’altra attività del Consiglio di Stato, quale organo di consulenza giuridico-amministrativa, anch’esso soggetto alla possibilità di una organizzazione diversa o a quella addirittura della soppressione. Senonché questo è pur l’aspetto meno importante della questione; quello più grave è che noi, inserendo nella Costituzione questi due istituti, creiamo (è bene affermarlo con chiarezza e fermezza) degli ostacoli a che il Paese si rinnovi alfine democraticamente, a che sorga sul serio, sulle rovine del fascismo e della guerra, un’Italia nuova che ubbidisca soltanto ad una sola necessità, ad una sola superiore e sovrana esigenza: che sia rispettata, sempre e dovunque, la volontà del popolo. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Essendo stati illustrati i vari ordini del giorno, ha facoltà di parlare uno dei Relatori, l’onorevole Mortati.

MORTATI, Relatore. Parlo come correlatore della Commissione dei Settantacinque sul titolo dedicato al Parlamento, allo scopo di formulare alcune osservazioni sui rilievi che sono stati mossi qui, in sede di discussione generale, a questa parte del progetto, e per accennare io stesso ad alcune critiche, naturalmente uniformandomi allo spirito del progetto, al quale ho dato la mia opera e la mia approvazione.

Un tema obbligato di esame in questa materia è naturalmente quello del bicameralismo. Io non mi fermerò a riesaminare ancora le ragioni che possono confortare la tesi che sostiene l’esigenza del sistema bicamerale, o a ribattere le obiezioni sollevate. Vorrei semplicemente rilevare alcune impostazioni troppo astratte che sono state formulate qua dentro a sostegno della tesi contraria al bicameralismo. Proprio adesso abbiamo sentito, dall’onorevole Gullo, ripetere ancora una volta la tesi secondo la quale non è possibile pensare ad un regime bicamerale, in quanto la unicità della volontà popolare non tollera che questa si esplichi mediante molteplici modi di manifestazione. Mi pare che non ci possa essere un punto di vista più astratto di questo, che considera un popolo sempre e necessariamente come unità indifferenziata, che contesta sub specie aeternitatis, la possibilità di un bicameralismo, indipendentemente da quelle che possono essere le condizioni dei vari paesi nelle varie epoche storiche. Come tutti sanno, questa è una posizione di pensiero di origine illuministica, che fu assunta dalle Costituzioni rivoluzionarie francesi costruite sulla base di una struttura sociale resa omogenea dall’esclusione dalla vita politica, sotto diverse forme, dell’antica nobiltà e del popolo non fornito di censo. Come pensare di poter dare validità universale ad un’ideologia così strettamente condizionata a particolari condizioni storiche?

Inficiata dalla stessa astrattezza è anche l’eccezione che si vorrebbe porre a questa regola, secondo quanto è stato qui ripetutamente affermato: quella che sarebbe costituita dallo Stato federale. Non c’è nulla di più inesatto di questo. Non è affatto vero che nello Stato federale ci sia un’esigenza istituzionale interna ad esso, che porti ad esigere due forme di rappresentanza popolare, quella dello Stato nel suo complesso e quella dei singoli Stati membri, e ciò perché nello Stato federale, una volta che esso sia formato, l’ultima istanza, il potere supremo, viene ad essere costituito non dai singoli Stati ma da tutto il popolo nella sua unità indifferenziata. Ed è a questo organo costituito dal popolo che si affida la funzione della revisione costituzionale.

Se negli Stati federali, di norma (ma non sempre, perché abbiamo esempi di Stati federali in cui non c’è duplicità di Camere parlamentari, come nella Costituzione tedesca di Weimar, in cui c’è uno Stato federale, o per lo meno largamente decentrato, con decentramento garantito costituzionalmente, e dove tuttavia non esiste una seconda Camera, concorrente alla formazione delle leggi tale non potendosi ritenere il Reichsrat), vi è una duplicità di rappresentanza parlamentare, ciò avviene non per una esigenza intrinseca, essenziale a questa struttura statale, ma per ragioni di opportunità, perché essendovi differenziazioni costituite dai singoli Stati, differenziazioni di interessi, si ritiene opportuno che queste differenziazioni siano riflesse nell’organo supremo dello Stato, nel potere legislativo. Quindi la ragione che giustifica negli Stati federali la doppia Camera è una ragione che va oltre l’ambito di applicazione che riceve dalla Costituzione, cioè che è applicabile al di là di questo ambito, perché l’esigenza che la promuove è più vasta di quella che non sia costituita dai bisogni organizzativi dello Stato federale.

Si è dagli avversari del bicameralismo citato anche l’esempio inglese; si è detto che l’Inghilterra ha in realtà una sola Camera, essendo stata la Camera dei Lords, dopo la riforma del 1911, svuotata dell’antico potere, pari ordinata rispetto ai Comuni. Ma anche questa osservazione pecca di astrattezza, e ciò perché, anzitutto, non tiene conto di quello che, al di là dei poteri giuridici, è il valore morale della Camera dei Lords, trascura cioè la rilevanza politica delle sue deliberazioni; perché inoltre non tiene conto della esistenza di larghe correnti dell’opinione pubblica inglese, le quali agitano il problema della riforma della Camera dei Lords, appunto per aumentarne l’efficienza di fronte all’altra Assemblea, ed in terzo luogo non considera il complesso di fattori di varia natura che in Inghilterra influiscono a temperare l’azione della prima Camera, i suoi eventuali abusi e quindi rendono meno sentita la esigenza di una seconda Camera. Non si pensa che, fra l’altro, in Inghilterra si verifica l’inserzione nello Stato delle forze organizzate del lavoro, le quali non pongono delle istanze sovvertitrici dell’ordine costituito e del metodo democratico, ma trovano la loro espressione ed il mezzo di assunzione di una diretta responsabilità politica nel partito politico che li rappresenta. Informate ad una considerazione anch’essa, secondo me, non strettamente aderente alle esigenze veramente essenziali di una seconda Camera sono altresì alcune delle giustificazioni che si vogliono addurre a sostegno dell’introduzione di tale istituto. Questo può dirsi dell’opinione, che abbiamo inteso affermare anche qui dentro, secondo cui la seconda Camera risponde al bisogno di porre dei freni, dei limiti, di esercitare una azione ritardatrice e di ripensamento dell’azione della prima Camera. Senza dubbio questa azione ritardatrice è importante, ma non può assumersi come l’essenza, la vera ragione d’essere del sistema bicamerale. Infatti questa azione ritardatrice, questo freno, questo ripensamento, questa riflessione si potrebbero ottenere con altri mezzi, e sono state infatti ottenute in certi ordinamenti con altri mezzi, o con la istituzione di certe magistrature speciali, l’eforato, il tribunato, ecc., o ancora mediante l’obbligo fatto alla Camera unica di ritornare sulle sue deliberazioni, imponendo cioè ad essa una duplice deliberazione ad intervallo di tempo. Se si vuole identificare l’esigenza veramente essenziale che giustifichi il costituirsi di un sistema bicamerale bisogna rintracciarla altrove, e precisamente nel bisogno dell’integrazione del suffragio. Bisogna chiedersi in altri termini se, data una determinata struttura sociale, questa struttura sia sufficientemente espressa e rispecchiata nella Camera unica, bisogna porsi il problema del modo di attuare la massima possibile efficienza rappresentativa nel Parlamento, in modo che esso rispecchi fedelmente gli interessi della Nazione in tutta la loro varietà e complessità. Problema fondamentale questo dell’organizzazione della rappresentanza politica, da cui dipendono le sorti della democrazia moderna.

Poiché è dalla dimostrazione della possibilità di collegare lo Stato con la società nel mondo contemporaneo, divenuto così vario, complesso ed eterogeneo, è da questa dimostrazione data sul terreno della realtà, che si potrà smentire la tesi che vede lo Stato di massa organizzabile solo in funzione di un regime totalitario.

Ora, come ricercare se sia raggiunta questa pienezza di efficienza rappresentativa? Non astrattamente, non in base ad idee preconcette, ad apriorismi, ma in base a considerazioni desunte dalla realtà di un singolo paese. Considerazioni che devono, in primo luogo, muovere dall’esame della forma del Governo, dal tipo del regime instaurato, poiché è dalla funzione che il Parlamento deve adempiere nel regime che devono argomentarsi le esigenze della sua organizzazione.

In secondo luogo, questa pienezza di efficienza rappresentativa bisogna desumerla dalla struttura politica e sociale del Paese in un determinato momento storico ed, insieme, dai compiti che si attribuiscono allo Stato.

Ora, per quanto riguarda il primo punto, cioè il tipo di regime, bisogna osservare che esso, da noi, secondo quanto risulta dal progetto in esame, non si conforma al tipo di regime parlamentare puro, ma invece realizza un tipo di regime parlamentare misto, o semidiretto. E ciò per l’esistenza di due istituti: lo scioglimento ed il referendum, i quali si inseriscono nel congegno costituzionale precisamente allo scopo di far sì che il popolo non sia una istanza pura e semplice di preposizione dei titolari della Camera rappresentativa, ma divenga invece un organo di decisione politica, organo di ultima istanza, chiamato a risolvere i conflitti che sorgono fra gli altri organi costituzionali e a dire la sua parola decisiva quando si presentino questioni di vasto rilievo politico.

Quindi, questo tipo di regime, in quanto esige dal popolo pronunce di merito politico, importa, più ancora che altre forme, la ricerca delle strutture migliori per l’organizzazione del corpo elettorale, le forme, cioè, più idonee a riflettere convinzioni e volizioni, a collegarle con interessi stabili e reali, che siano il meno possibile frutto di improvvisazioni o di impulsi irriflessivi e momentanei.

Se si passa poi all’altro criterio orientativo della ricerca delle migliori strutture rappresentative, cioè alla composizione sociale dello Stato ed ai compiti che esso si assume, sono da prendere in considerazione insieme alle condizioni generali proprie di tutti gli Stati moderni, quelle particolari del nostro Paese.

Non mi fermerò qui ad illustrare problemi e situazioni, che sono a tutti noti: mi limiterò a ricordare che gli aspetti speciali del problema organizzativo degli Stati moderni derivano da tre fatti. Anzitutto, dall’allargamento del suffragio, che nel nostro paese ha fatto passare il corpo elettorale da mezzo milione qual era nel 1870 a 25-28 milioni; ciò che dà vita ad una differenza non solo quantitativa, ma qualitativa, perché determina una trasformazione profonda e sostanziale tale da far sorgere problemi assolutamente nuovi di organizzazione.

In secondo luogo, dall’ampliamento dei compiti statali, i quali sono passati dalla pura e semplice conservazione dell’ordine pubblico ad interventi sempre più penetranti nel campo dei rapporti economico-sociali.

Infine, dal fenomeno associazionistico, che ha alimentato la formazione di organismi così potenti da porsi come competitori dello Stato e da metterne in pericolo l’esistenza. Si è parlato a proposito di tale fenomeno di un nuovo feudalesimo, che ha rotto la vecchia unità statale, quale si era formata nel mondo moderno, ed ha fatto venir meno la esclusività e pienezza della sua sovranità.

Ora il problema fondamentale è precisamente di ordinare queste masse ingenti di cittadini, in modo che i loro interventi siano consapevoli; di inserire nello Stato gli organismi sociali senza che perdano la loro libertà e spontaneità di azione; ed infine, di ottenere che gli interventi nel campo economico e sociale da parte dello Stato, sempre più sollecitati dalla pressione di tali masse, siano quanto più possibile aderenti agli interessi generali e sottratti agli influssi egoistici di gruppi limitati.

A questi problemi comuni a tutti gli Stati moderni si aggiungono per l’Italia quelli che sorgono dalla sua struttura geografica ed economica. L’Italia è infatti il Paese forse più differenziato che ci sia in Europa, e ciò per un complesso di ragioni di carattere storico, nonché di condizioni di ordine ambientale ed economico-sociale.

Ora, posti i termini della questione della seconda Camera nel modo che ho fatto, come si deve risolvere il quesito proposto sulla più piena ed integrale forma di rappresentanza politica? Attraverso quali mezzi si ritiene di poter realizzare in effetti tale pienezza di rappresentanza? Basta una sola Camera ad esprimerla? Che una sola Camera non basti si potrebbe desumere anche dal semplice fatto della riforma regionale; riforma che è stata ormai approvata dall’Assemblea e che deve essere presa come base per derivarne tutte quelle ulteriori conseguenze che in essa sono implicite, soprattutto con riferimento all’organizzazione del potere legislativo.

La riforma regionale non sarebbe infatti completa, essa anzi sarebbe, a mio avviso, frustrata nei motivi e negli intendimenti che ne hanno informato l’istituzione, sarebbe deviata dalle finalità politiche che l’hanno promossa, se non trovasse il suo svolgimento e la sua più propria applicazione nell’ordinamento del Parlamento, nel dar vita ad una forma specifica di rappresentanza politica.

Questa esigenza è stata ieri molto perspicuamente affermata dall’onorevole Condorelli ed io credo opportuno ora ribadirla, ponendo in più chiaro rilievo questa necessità di trasportare negli organi costituzionali del potere legislativo un riflesso dell’ordinamento regionale.

È questo, onorevoli colleghi, uno dei punti meno compresi, forse anche da alcuni di coloro che hanno voluto la riforma regionale, ma tuttavia dei più essenziali per la vitalità del sistema posto in essere: ed è per questa ragione che io ritengo opportuno soffermarmici brevemente. Con la creazione delle Regioni non si sono infatti voluti tanto risolvere dei problemi generici di educazione politica o di garanzia delle libertà. Sono questi dei fini importanti indubbiamente, ma non sono, a mio avviso, gli essenziali della riforma regionale.

Con tale riforma si è invece soprattutto inteso di promuovere e sollecitare l’organizzazione dei grandi gruppi di interessi omogenei nel loro interno dal punto di vista territoriale e sociale, e differenziati dagli altri per le diverse condizioni storiche, geografiche, economiche, allo scopo di far pervenire le voci più chiare e genuine di questi interessi all’atto delle deliberazioni di politica generale, sicché tali deliberazioni risultassero il più possibile aderenti alla varietà dei bisogni reali di tutta la società.

E, nel promuovere l’attuazione di tale intento, si è voluto tenere presente soprattutto il Mezzogiorno, la parte d’Italia cioè meno progredita rispetto alle altre, onde sollecitare in essa una più efficiente coscienza politica, ed in tal modo dare ad essa maggior peso nell’attività statale.

Messi in chiaro tali intenti, è facile comprendere come siano state cagione di sorpresa e siano apparse frutto di incomprensione le accuse che alla riforma regionale sono venute da uomini politici del Sud – ricordo, fra le altre, quella mossa dall’onorevole Gullo – secondo cui quella riforma veniva a seppellire le speranze del Mezzogiorno e veniva a negare o a compromettere gli affidamenti di soluzione del problema meridionale.

Deve invece essere riaffermato che chi ha patrocinato la riforma non è mai caduto nell’errore di ritenere che il problema meridionale si dovesse risolvere nell’ambito delle singole Regioni cui viene concessa l’autonomia. Noi sappiamo bene che i problemi meridionali si possono risolvere solo sul piano nazionale, nell’ambito della politica generale dello Stato, in occasione delle decisioni in materia di politica doganale, tributaria, agraria, dei trasporti, degli scambi internazionali, della stessa politica estera.

Ma, appunto per questo, noi pensiamo che sia necessario conferire alle Regioni più arretrate la possibilità di raggiungere, attraverso l’organizzazione regionale, una coscienza più piena dei loro problemi, dei loro bisogni unitariamente intesi, per poterli rappresentare al centro con quella maggior forza che viene dalla loro visione integrale e dalla loro organizzazione.

Donde l’esigenza di dare alle Regioni una voce specifica nel Parlamento, di fare cioè delle Regioni non già delle pure e semplici circoscrizioni elettorali, bensì un centro unitario di interessi organizzati da far valere unitariamente ed in modo istituzionale. Donde ancora quelle altre particolarità organizzative che appaiono nel progetto che, anche dalle finalità che si sono chiarite, possono lasciare perplessi. Così si dica della correzione all’equivalenza dei suffragi, che si è voluta realizzare attraverso l’attribuzione di un numero fisso di senatori per ogni Regione, all’infuori della loro consistenza demografica, correzione che dai suoi proponenti è stata pensata appunto in funzione del potenziamento politico del Mezzogiorno meno esteso e meno popoloso del Nord. Sicché, se è apparso spiegabile l’intervento di alcuni comunisti contro il Senato regionale, è stato invece ragione di sorpresa vedere un autonomista e un meridionalista come l’onorevole Lussu muovere in breccia contro di esso, negando così questa prima ed essenziale funzione che un Senato regionale può esercitare in Italia, per conseguire una maggiore perequazione di trattamento, ed una più rapida valorizzazione politica del Sud.

Le osservazioni fatte in principio a proposito dell’organizzazione dello Stato federale confermano quanto adesso ho detto per le Regioni, essendovi piena analogia fra i due casi; essendo cioè, pur nella differenza dei due tipi di ordinamento, comune l’esigenza ad una specifica rappresentanza degli interessi differenziati, cui si conferisce un proprio rilievo costituzionale. Ma ora è da chiedersi: potrebbe attuarsi efficacemente tale collegamento organico fra Regioni e Stato se le Regioni intervenissero negli organi centrali come entità indifferenziate? L’esigenza che si è prospettata non sarebbe che assai imperfettamente soddisfatta se la rappresentanza regionale non riflettesse l’effettivo aspetto economico-sociale delle singole Regioni, le articolazioni e nervature di ognuna di esse, se non ne riflettesse la fisionomia specifica.

Posto il caposaldo del Senato regionale, sono dati anche certi elementi più specifici per la soluzione del problema della sua composizione e della sua differenziazione dalla prima Camera. Il punto di vista assunto consente di mostrare la incongruità delle proposte che sono state fatte per attuare questa differenziazione. Tale incongruità si palesa chiaramente per quanto riguarda il collegio uninominale, che viene raccogliendo suffragi anche da parte di alcuni settori di questa Camera, da cui non si sarebbero sospettate iniziative di questo genere. Il collegio uninominale, dal punto di vista territoriale, è troppo ristretto per poter fornire la base per una rappresentanza di interessi locali; evidentemente esso non potrebbe portare al Parlamento che voci di interessi troppo ristretti per assumere rilevanza politica. D’altra parte, le speranze riposte da alcuni nel ritorno al collegio uninominale sembrano anacronistiche, perché le benemerenze attribuite ad esso sono da limitare al funzionamento passato, mentre si deve tenere conto della enorme trasformazione che sì è venuta verificando nella organizzazione della vita politica, e che farebbe funzionare il sistema uninominale in un modo completamente diverso da quello esperimentato nel secolo scorso, o ai primi di questo.

Non mi pare neanche che sia il caso di ricorrere al collegio uninominale allo scopo di attuare una maggiore e migliore selezione di uomini. Anzitutto, non è vero – e lo ha osservato qui l’altro giorno anche l’onorevole Sforza – che si debba addebitare al rigetto del suffragio uninominale la decadenza qualitativa nella composizione del Parlamento. Se questa decadenza c’è stata – e dovrebbe essere discusso se è vero – sarebbe da accertare se non sia da addebitare invece ad altri fattori. L’onorevole Sforza esattamente ricordava l’effetto negativo che sulla selezione di uomini rappresentativi ha esercitato la guerra. Le guerre moderne attuano una selezione a rovescio, differentemente da quanto avveniva per le guerre passate, in cui gli eserciti venivano reclutati soprattutto su base professionale, quando non c’era l’obbligo di tutti i cittadini alla prestazione del servizio militare. Mutata questa situazione, ripeto, le guerre sono venute a dare luogo ad una selezione a rovescio; e quindi anche nel campo delle capacità politiche vi è stata una riduzione di elementi utilizzabili.

D’altra parte è assurdo pensare che le scelte dei candidati fatte dai partiti nelle elezioni a scrutinio di lista non siano dirette da intenti selettivi. Evidentemente, è interesse dei partiti, specialmente dei grandi partiti, che non sono formazioni sottoposte a fluttuazioni e a vita contingente, ma hanno vita duratura, di scegliere gli uomini migliori.

Ma, a prescindere da ciò, ed in ogni caso, il collegio uninominale, come ho detto, non soddisferebbe a quella esigenza, della quale ho parlato come necessaria per la composizione della seconda Camera, che è l’integrazione del suffragio attraverso l’acquisizione e la rappresentanza di tutti quegli interessi particolari che valgano a riprodurre negli organi legislativi la fisionomia, il volto delle varie parti di questa nostra Nazione, così varia e così composita.

E allora quale altro criterio si potrebbe far valere per realizzare una tale rappresentanza? Bisogna trovare questo criterio, non solo, ma iscriverlo nella Costituzione.

Da questo punto di vista si può affermare l’esistenza di una lacuna nell’articolo 55 del progetto, che non differenzia abbastanza le due Camere. Questa esigenza di differenziazione è necessaria in un sistema bicamerale, perché ha carattere costituzionale la posizione di quei principî che, appunto perché valgono a determinare la diversa fisonomia delle due Camere, costituiscono la ragion d’essere del bicameralismo ed assicurano la funzionalità del regime in un senso anziché in un altro.

Quindi, il fatto che la Costituzione non demarchi questa distinzione, costituisce una lacuna alla quale bisogna ovviare introducendo almeno il principio fondamentale di organizzazione della seconda Camera.

Quale deve essere questo criterio per corrispondere alle esigenze di cui ho parlato?

È dalla constatazione dalla impossibilità di trovare un’altra soluzione che soddisfi ad esse che è nata la proposta, presentata dai democristiani, di fare del Senato regionale una rappresentanza di interessi professionali. Proposta di fronte alla quale altri partiti si sono irrigiditi in pregiudiziali, in fini, di non ricevere, senza mai compiere alcun tentativo di collaborazione per il superamento delle difficoltà che il sistema proposto presenta, e che sono anche gravi, ma che non rappresentano un ostacolo insormontabile.

Le obiezioni che si sono a questo proposito fatte non sono serie e sono state confutate da altri. Il discorso pronunciato ieri dall’onorevole Piccioni ha dato una dimostrazione abbastanza esauriente della loro infondatezza.

Così, il dire che i partiti esauriscono tutta la funzione rappresentativa è una affermazione che, almeno in Italia, in questo momento storico, deve ritenersi infondata. E noi, uomini di partito, dobbiamo avere il coraggio di affermare che questo non è vero e non corrisponde alla coscienza diffusa nel Paese. I partiti riflettono in Italia lo stato di scarsa educazione politica del nostro popolo, mancano di salde tradizioni di attaccamento agli ideali di libertà, raccolgono un’infima minoranza della popolazione, mentre la gran massa è estranea ad essi e non vive la loro vita. Donde deriva fra l’altro la tendenza dei partiti al dogmatismo ed alle generalizzazioni, che può fare intendere falsamente e togliere loro di rispecchiare i bisogni reali del Paese. I partiti, inoltre, non riescono ancora ad esprimere una aristocrazia di valori tecnici e politici capaci di far fronte ai compiti sempre difficili e specializzati dello Stato.

Del resto, questi riconoscimenti, queste constatazioni coraggiose ma doverose della realtà denunciata, non mancano, ed anche da parte non sospetta. Ricordo per esempio una lettera aperta che è stata diffusa qualche mese fa a firma dell’onorevole Riccardo Lombardi, con la quale si incitava la Confederazione generale del lavoro ad assumere la direzione della politica del nostro Paese. In ciò era chiara anzitutto l’ammissione della insufficienza dei partiti ai compiti che dovrebbero essere i loro specifici; e dall’altro lato, la constatazione del distacco fra la posizione di fatto e quella di diritto rivestita dall’organismo a cui si riferiva l’onorevole Lombardi.

Si è obiettato ancora (e ce n’è traccia nell’ordine del giorno dell’onorevole Giolitti), che la forma di rappresentanza professionale sarebbe conservatrice e reazionaria.

Ma anche questa è una affermazione troppo astratta e perciò infondata se presa in questa sua genericità. Che storicamente questa forma di rappresentanza sia stata fatta valere con intenti reazionari è una constatazione fondamentalmente esatta. Si possono ricordare, fra i tanti esempi che si potrebbero addurre, i tentativi fatti da Bismarck nell’intento precisamente di attuare una monarchia costituzionale sulla base di una rappresentanza di ceti, un tentativo che effettivamente corrispondeva ad intenti reazionari o conservatori. E, oltre che nella prassi politica, tale orientamento è palese anche nella maggior parte delle fonti dottrinali in materia.

Ora, nessuno di noi pensa (e credo che ripugni a tutti attribuirci intenzioni di questo genere) di voler creare una rappresentanza politica professionale con scopi reazionari. Nessuno di noi vuole fare della seconda Camera qualcosa di simile al cavallo attaccato in senso opposto alla direzione del carro, secondo l’immagine di Franklin. Se si volesse tradurre il nostro pensiero con una analoga raffigurazione si dovrebbe pensare alle due Camere come a due cavalli attaccati nello stesso verso, forniti di capacità e di attitudini diverse, l’uno più adatto alla corsa, l’altro più idoneo alle salite scoscese, e quindi ad un insieme di attitudini complementari capaci di dare al carro dello Stato un ritmo regolare ed ordinato.

Oggi, nel mondo contemporaneo, nello spirito della nostra Costituzione che è diretta a dar vita ad una Repubblica fondata sul lavoro, nessuno potrebbe seriamente pensare di far concorrere forze che non si basino su questo fattore e che non mirino a potenziare il lavoro nelle sue varie forme, nessuno penserebbe a dare a tale rappresentanza una origine non elettiva da parte di tutti gli appartenenti alle varie attività produttive. E per quanto riguarda l’obiezione rivolta a questa forma di rappresentanza secondo cui essa, contenendo necessariamente un elemento di deviazione del suffragio universale, darebbe luogo ad una istituzione non democratica, si può rispondere che secondo il criterio da noi assunto, il peso da attribuire ai vari gruppi rappresentati dovrebbe corrispondere alla efficienza numerica degli appartenenti ad essi, con quelle eventuali deviazioni, che potranno farsi nei singoli casi, secondo quanto è espresso nell’ordine del giorno Piccioni. Questa eventuale, e in ogni caso tenue rettifica, fatta in considerazione del lavoro qualificato, non è arbitraria, come si dice, ma risponde alla convinzione della coscienza collettiva contemporanea che attribuisce una presunzione di maggiore capacità a forme di attività che implicano una maggiore preparazione e alle quali è connesso un maggior grado di responsabilità. In ogni modo, è da osservare che questa valutazione, questa attribuzione di un peso specifico alle varie categorie, dovrebbe essere compiuta dalle forze politiche dominanti, che la dovranno determinare attraverso intese fra di loro, onde adeguarla nel modo più esatto alla realtà sociale. Naturalmente non è da pensare che riforme di questo genere possano realizzarsi e trovare il loro assetto soddisfacente tutto ad un tratto; ciò dovrà avvenire per tentativi, attraverso una serie di successive approssimazioni. Bisogna però mettersi decisamente per la via tracciata e così solo si potrà raggiungere la massima possibile perfezione.

Si può accennare infine all’ultima obiezione che si suole addurre e che è stata addotta anche ieri dall’onorevole Giolitti: quella della insuscettibilità di queste organizzazione di categoria ad assurgere alla visione di interessi generali, essendo per loro natura legati ad una visione parziale e limitata dei problemi politici, e quindi incapaci ad assurgere alla considerazione di interessi sintetici, riassuntivi, quali quelli che devono offrire il contenuto alle deliberazioni del Parlamento. Ma contro questa affermazione è anzitutto da allegare quanto risulta dalla esperienza concreta, che mostra come queste forze agiscano di fatto nel campo politico. Non si tratterebbe perciò di trasformare la situazione esistente, ma se mai semplicemente di regolare questa situazione, di far sì che l’influenza politica, esercitata da queste forze in via di fatto, sia giuridicamente regolamentata, ed esse assumano la responsabilità dei loro interventi nel campo politico.

Esaminando poi la questione da un punto di vista più ampio, è da rilevare tutta la inesattezza della tesi che pensa ad escludere carattere politico all’azione di gruppi sociali rivolta alla tutela di interessi economici, poiché invece non esiste questione economica, anche la più modesta, che non incida sulla politica. È necessario che le forze sociali, i gruppi professionali che invocano certe provvidenze, certe forme di tutela, certi interventi dello Stato, siano messi in condizioni di valutare le ripercussioni politiche di queste loro richieste e di considerarle nel complesso degli interessi collettivi. D’altra parte, l’interesse generale di cui i partiti si dicono portatori non è qualche cosa di bello e fatto, non sorge in virtù del potere carismatico di alcuni capi ma dal confluire, dal dibattersi, dall’urtarsi di interessi contrastanti. Ed è ben noto che anche in partiti (come quello socialista) che presumono di rappresentare e tutelare l’insieme degli interessi di certe collettività, si determinano prevalenze di alcuni di questi a danno di altri, meno efficienti dal punto di vista della loro capacità a farsi valere. Si rende perciò necessario dare a tutti i gruppi sociali la possibilità di assumere consapevolezza dei loro bisogni e educarli a farli valere sul piano politico. La sintesi che ne risulterà sarà più piena e più aderente alla realtà sociale.

Bisogna altresì ricordare che ad influire sulle categorie economiche, nel senso di indurle a trascendere la visione troppo gretta o egoistica dei loro interessi particolari, valgono in primo luogo l’organizzazione stessa del suffragio professionale che deve tendere decisamente ad operare delle sintesi progressive, in modo da elevare, attraverso passaggi successivi, dalla base più vasta, a rappresentanze più ristrette, a vere aristocrazie che valgano a depurare questi interessi dagli aspetti troppo particolaristici che rivestono alla loro origine. In secondo luogo si deve pensare che nella formazione di un Senato di categoria dovrebbero intervenire non solo elementi di derivazione dai gruppi economici, ma anche categorie professionali non economiche, che potranno meglio valutare gli interessi della generalità, gli interessi dei consumatori, e quindi agire come elemento equilibratore. Bisogna altresì tener presente che la rappresentanza professionale non è destinata a soppiantare quella dei partiti, ma ad integrarla; e da essa dovranno derivare utili scambi ed influenze, che varranno a dare ai partiti il senso della concretezza ed ai rappresentanti delle categorie il senso della politicità.

Quindi, a me pare che approvare l’ordine del giorno Piccioni, che contiene dei lineamenti così rassicuranti circa le intenzioni della Democrazia cristiana in ordine a questa riforma che afferma, delle direttive le quali potranno svolgersi in progresso di tempo con piena aderenza alla realtà sociale italiana, significa incamminarsi verso la sola via che potrà dare alla rappresentanza politica la sua piena espressione, e costituire la giustificazione più esatta e più integrale dell’istituzione della seconda Camera, dando alla nostra Costituzione un’impronta di modernità, ed avviando lo Stato al migliore adempimento dei suoi nuovi compiti ed all’attuazione di una vera democrazia. Mostrarsi contrari, potrebbe interpretarsi come voler mantenere la massa elettorale allo stato amorfo e indifferenziato, onde poterla usare quale strumento docile di azione politica, eliminando la valorizzazione nel campo politico degli enti, che sono la grande realtà contemporanea, e nei quali l’uomo riesce ad acquistare il senso dell’individualità, nei vari aspetti che la compongono, e ad affermare l’esperienza della solidarietà con gli uomini legati a lui dalla stessa sorte.

Quanto si è detto sulla struttura da dare all’ordinamento bicamerale e circa i fini integrativi della rappresentanza da assegnare alla seconda Camera vale a giustificare il perché di certe affermazioni che si leggono nella Costituzione; e anzitutto vale a giustificare il perché della parità delle due Camere. La parità è suggerita, e vorrei dire, imposta, dalle esigenze che si sono dette. Una Camera regionale, che deve riflettere gli interessi regionali nella varietà dei loro aspetti, non potrebbe realizzare i compiti che sono ad essa assegnati se non fosse posta in condizioni di parità rispetto all’altra. Parità imposta dall’uguale efficacia rappresentativa, che deriva alle due Camere dalla uguale origine popolare, dal carattere di reciproca integrazione che esse vengono a rivestire. Non sarebbe possibile predeterminare a priori un loro diverso peso politico. Questa diversità potrà affermarsi attraverso la prassi avvenire, che potrà precisamente determinare in modo stabile, o di volta in volta, una maggiore influenza dell’una rispetto all’altra e quindi corrispondentemente una maggiore remissività dell’una all’altra. Ma pregiudicare la questione, cioè volere a priori imporre un peso diverso, significa precludere possibilità di svolgimento utili, derivabili da questa posizione di originaria parità giuridica delle due Camere.

Si potrebbe anche aggiungere che questa posizione di parità può essere utilmente impiegata allo scopo di contribuire a determinare una maggiore stabilità del Governo. Ma questo è tema che non tratterò, perché lo svolgerà il collega onorevole Tosato.

Dovrò fare ora un breve cenno alla questione delle categorie degli eleggibili,contro cui sono state rivolte critiche varie.

Anzitutto si può osservare che la determinazione di categorie di eleggibili ha la sua ragion d’essere, indipendentemente dalla forma di rappresentanza che si presceglie. Quindi, anche se non si dovesse accettare la proposta, da noi formulata, della rappresentanza di interessi (per cui evidentemente le categorie di eleggibili verrebbero ad acquistare una significazione particolare, e che implicherebbe una predeterminazione della proporzione numerica degli eleggibili nelle varie categorie), rimarrebbe sempre utile la predeterminazione di categorie, intesa come vincolo posto agli elettori nella scelta dei loro rappresentanti al Senato. Essa ha una sua ovvia ragion di essere, in quanto attraverso essa si vuole attuare una selezione dei rappresentanti capace di dare alla seconda Camera un maggiore tecnicismo, garantendo una maggiore preparazione dei suoi componenti.

Si possono fare delle critiche al modo concreto con cui queste categorie sono state formulate. Non mi fermerò analiticamente su di esse. Osservo che alcune sono troppo estese. Si può convenire facilmente in questa affermazione, quando si pensi ai consiglieri comunali, pei quali si è disposto che basta la permanenza nella carica per quattro anni, cioè per la durata di una sola elezione, ed anche in piccolissimi comuni, per acquistare titolo a senatore. L’esperienza acquisita con la copertura di questo ufficio è insufficiente a documentare una specifica attitudine al compito che si viene ad assumere con la elezione a senatore. Così viceversa ci sono delle restrizioni, che potrebbero eliminarsi.

Si potrebbe, per esempio, pensare ad aggiungere una categoria di cittadini, forniti di meriti eccezionali, di benemerenze particolari, che naturalmente dovrebbero essere poi oggetto di esame da parte del Senato stesso in sede di verifica dei poteri, onde valutare, nel caso concreto, l’esistenza delle benemerenze stesse, nel grado richiesto, come avveniva per analoga categoria nel vecchio Senato, secondo la prassi instauratasi.

Un’osservazione vorrei fare per quanto riguarda la proposta formulata in alcuni emendamenti di affidare al Capo dello Stato la nomina di alcuni dei componenti del Senato, secondo una percentuale più o meno piccola.

Non penso che sia opportuno mettersi per questa via. Se si affida al Capo dello Stato la nomina di uomini di capacità eccezionali, di straordinarie benemerenze, evidentemente a questa nomina non si potrebbe dare il carattere dì nomina temporanea, ma di nomina a vita.

In questo modo si verrebbe ad alterare più o meno sensibilmente la fisionomia politica della Camera, quale esce dalla elezione.

Se invece la nomina in parola avvenisse in via temporanea, essa, dovendo avvenire col concorso del Governo in carica, si risolverebbe in un premio ad uno dei gruppi di cui fosse espressione il Governo stesso, con il risultato di alterare la fisionomia e la proporzione delle forze politiche, quali sono espresse dal voto.

Quindi, anche per questo riguardo, penso che sia opportuno conservare la struttura del progetto, sia dal punto di vista del mantenimento delle categorie, se pure opportunamente rivedute, sia dal punto di vista nella esclusione di ogni intervento del Capo dello Stato nella nomina (pochi o molti essi siano) dei membri del Senato stesso. Questi cenni riassuntivi mi pare possano essere sufficienti per quanto riguarda la parte organizzativa del Senato.

Vorrei fare ora alcune osservazioni riferentisi al Parlamento considerato nella sua funzionalità. È stato osservato da parte comunista che il procedimento relativo al funzionamento legislativo è troppo lento e tale da impedire e pregiudicare quella rapidità e quella snellezza di azione legislativa, che sembra ed è effettivamente, senza dubbio, necessaria per corrispondere alle esigenze di uno Stato moderno. L’onorevole Corbi ieri ci ha fatto addirittura una descrizione apocalittica di quanto potrebbe avvenire in base alle disposizioni contenute nel progetto. Potrebbe darsi il caso – egli ha detto – che per una intera legislatura non si fosse in condizione di legiferare. L’onorevole Corbi è caduto in qualche distrazione ed ha dimenticato alcune disposizioni del progetto. Ma prima di rilevare queste omissioni, che inficiano l’esattezza delle sue previsioni, vorrei mettere in evidenza la forma mentale che sembra presiedere a queste critiche. È una forma mentis che rispecchia e riproduce una impostazione analoga a quella data alla critica fatta al bicameralismo ed alla concezione di una seconda Camera che non attingesse direttamente dal popolo indifferenziato la sua origine. Si dice anche che qualsiasi complicazione di procedura nella formazione delle leggi proposte dalla maggioranza numerica espressa in un certo momento dalla volontà popolare costituisce una remora dannosa. Ora, il punto di vista da cui queste osservazioni partono può essere pericoloso, perché quando si comincia a vedere in ogni elaborazione accurata della legge un danno, e a considerare tale ogni forma di ripensamento, di accertamento della effettiva rispondenza della legge proposta ai bisogni reali, si corre il rischio di finire con il considerare una remora la stessa esistenza della legge: cioè si trova che è una remora il fatto di un atto di predeterminazione generale e astratta posta all’attività concreta, degli organi dello Stato. Si corre cioè il rischio di invocare ad un certo momento il fine politico di un dato regime come l’elemento capace di arrestare in pratica il funzionamento della legge, autorizzandosi l’interprete a non osservare la legge, in quanto ritenga nei singoli casi che essa contraddica al fine politico da cui lo Stato è mosso. È un’esperienza che tutti ricordiamo. Sappiamo in quali Stati si è realizzato questo processo, che ha portato dalla semplificazione del processo legislativo fino alla negazione del valore della predeterminazione generale ed astratta, che noi invece consideriamo come necessaria garanzia della libertà dei cittadini e procedimento essenziale per dare all’azione dello Stato carattere di legalità. Nessuna meraviglia per tali posizioni mentali. Sappiamo che in certe epoche storiche il processo di trasformazione è così violento da non tollerare l’ostacolo che può essere costituito dalla legge. Ma bisogna intendersi: se riteniamo di essere effettivamente in una di tali epoche dobbiamo rinunciare a fare una Costituzione o dobbiamo per lo meno rinunciare a farla nel senso verso il quale ci siamo finora messi. Se invece si ritiene che siamo in una situazione storica in cui è possibile un ordinamento democratico, allora è necessario predisporre un procedimento legislativo in cui intervengano tutte le forze, i congegni e gli organi che appaiono opportuni per dare all’attività legislativa, alle riforme che attraverso essa sono realizzabili, la garanzia della necessaria ponderazione e per assicurare loro il concorso di tutte le forze democratiche, ed, in ultima istanza, del popolo nella sua unità.

Queste considerazioni di carattere generale non vogliono significare oblio delle esigenze caratteristiche dolio Stato moderno, esigenze che derivano dalle due circostanze, che ho ricordato, cioè dall’ampliarsi dell’intervento statale, estendentesi ad attività prima precluse allo Stato, e dal tecnicizzarsi progressivo della legislazione.

Ora a queste esigenze il progetto ha tentato di provvedere con l’attuazione di varie forme di decentramento legislativo: decentramento regionale, decentramento affidato alle Commissioni legislative, decentramento affidato al Governo. Trascuro per il momento il decentramento relativo alla Regione e mi fermo sugli altri due.

Il decentramento alle Commissioni, che è stato oggetto di particolare esame da parte degli oratori che sono intervenuti nella discussione, è previsto nell’articolo 69. Questo articolo considera in realtà due ipotesi diverse e presenta una procedura che potrebbe chiamarsi abbreviata ed un’altra che invece ha propriamente carattere decentrato.

Vi è stata una proposta dell’onorevole Rubilli di sopprimere l’articolo 69, nella considerazione che esso contiene una materia propria del Regolamento. Ora, a me non pare esatta questa critica dell’onorevole Rubilli. Innanzi tutto, per quanto riguarda la procedura che ho chiamato abbreviata, cioè la procedura di urgenza, la sua inserzione nella Costituzione ha questo scopo: di imporre al futuro Parlamento l’adozione di un procedimento del genere, cioè escludere che si possa lasciare all’arbitrio del Parlamento di adottarlo o non. Nell’attuale nostro Regolamento è prevista, sia pure in forma incompleta, questa procedura abbreviata. Ma il futuro Regolamento della Camera potrebbe anche non adottarla; quindi l’inserzione nella Costituzione della disposizione criticata vuole renderla obbligatoria, e come tale non può ritenersi superflua.

Per quanto poi riguarda la procedura decentrata, cioè la possibilità di deferire alle Commissioni non il semplice esame preliminare del progetto, ma un più ampio intervento in esso, la sua previsione nella Costituzione è necessaria perché evidentemente non si potrebbe modificare il procedimento normale, prescritto dal primo comma dell’articolo 69, se non si stabilisse, nella Costituzione stessa, l’autorizzazione a derogare ad esso.

Quindi, la proposta dell’onorevole Rubilli non è accettabile, dato l’evidente rilievo costituzionale sia dell’una che dell’altra disposizione.

Vi sono state altre critiche all’articolo 69, nel senso di ritenere insufficienti le disposizioni adottate, e di patrocinare l’ampliamento dei poteri delle Commissioni. Ieri questa tesi è stata con molto acume affermata dall’onorevole Condorelli, e prima un accenno lo aveva fatto l’onorevole Preti. Mi pare che l’onorevole Condorelli abbia affermata la opportunità di ritornare al sistema che era stato adottato nella legge del 1938, cioè fare una ripartizione di competenza fra Commissioni e plenum attribuendo alle une e all’altro una competenza distinta secondo la materia.

Io non credo che questa proposta sia da adottare; non lo credo perché vi sono riforme, vi sono progetti di legge che sotto l’apparenza di una modesta importanza, possono in particolari momenti assumere un valore, una qualificazione politica rilevante, sicché il sottrarli alla conoscenza dell’Assemblea potrebbe riuscire poco utile.

Invece, il sistema adottato dalla Commissione mi pare che sia il più pregevole ed il più raccomandabile. È un sistema che lascia alla discrezionalità delle Camere di accertare, di volta in volta, l’opportunità. di ricorrere a questo procedimento decentrato. Quindi, deve precedere una delibazione da parte della Camera, del contenuto del progetto in relazione al momento politico, all’importanza che esso assume in una determinata situazione. Potrebbe essere oggetto del futuro Regolamento delle Camere che questa attività delibativa delle Camere, per giudicare dell’opportunità del rinvio alle Commissioni, sia resa più facile attraverso la costituzione di un organo che abbia il compito di riferire intorno ad essa. Secondo il progetto, è il Governo, oppure il singolo proponente, in caso di iniziativa parlamentare, che richiede il deferimento alle Commissioni. Ci si può chiedere: chi riferisce su questo punto? Per semplificare la procedura e per evitare che si vada alle Commissioni, che dovrebbero riferire circa l’opportunità del deferimento, mi pare che sarebbe opportuno ricorrere ad un organo speciale. Io penserei ad un organo, che comincia a funzionare di fatto anche da noi, e che dovrebbe trovare una menzione espressa nel futuro Regolamento della Camera: il Consiglio dei Presidenti, istituto che c’è in altri regolamenti parlamentari, e che è formato non solo dall’Ufficio di presidenza della Camera, ma dai Presidenti dei vari gruppi parlamentari. Esso potrebbe essere bene qualificato, in quanto rappresentativo di tutti i partiti presenti alla Camera, ad esercitare il compito di riferire alla Camera circa l’opportunità del deferimento alle Commissioni delle leggi che non presentino una importanza tale da richiedere la discussione e l’approvazione da parte della Camera in seduta plenaria.

Si potrebbero fare delle critiche al modo come è congegnato l’articolo 69. Si potrebbe osservare questo: che le Camere per l’articolo 69 vengono ad assumere la responsabilità dell’approvazione, senza però che essa sorga sulla base di una discussione; cioè esse dovrebbero approvare delle leggi che non hanno discusso e su riferimento alla semplice relazione da parte delle Commissioni che le hanno esaminate e discusse. Questo inconveniente è in primo luogo temperato dal fatto che l’articolo 69 consente delle dichiarazioni di voto. Intorno a queste dichiarazioni di voto c’è da fare un rilievo formale, per il fatto che la legge, secondo lo stesso articolo 69, deve essere votata a scrutinio segreto cioè con un procedimento di votazione, che non può consentire dichiarazioni atte a scoprire l’orientamento dei singoli votanti. Vi sarebbe perciò una deroga al principio della incompatibilità fra lo scrutinio segreto e la dichiarazione di voto. È una osservazione formale di scarsa importanza, ma che meritava di essere rilevata, perché non apparisse come una involontaria disarmonia dell’articolo stesso.

Ma c’è l’osservazione sostanziale formulata: che la Camera verrebbe ad assumere la responsabilità di un progetto che essa non ha esaminato. L’obiezione può essere, se non vinta, per lo meno attenuata dalla considerazione che nelle Commissioni sono rappresentati proporzionalmente i vari gruppi della Camera, e c’è quindi un riflesso perfetto della composizione politica di questa. Penso che non si possa andare oltre, e perciò non si possa aderire alle proposte degli onorevoli Preti e Condorelli, perché le Commissioni hanno due difetti: anzitutto che sono corpi per loro natura specializzati e quindi risentono del difetto della eccessiva specializzazione; in secondo luogo sono corpi che agiscono in segreto, e quindi senza la garanzia e il vantaggio della pubblicità. A questo secondo inconveniente si potrebbe però ovviare attraverso l’obbligo della pubblicazione dei verbali delle Commissioni non solo da comunicare ai membri della Camera che devono approvarne le deliberazioni, ma da rendere di pubblica ragione con la loro inserzione negli atti parlamentari, in modo che tutti ne possano prendere visione.

Se nei limiti già visti il decentramento alle Commissioni può rendere utili servizi e può facilitare il compimento dei lavori legislativi, non si deve dimenticare che spetta alla Camera, nella sua pienezza, la responsabilità dell’assunzione in proprio della parte più rilevante del lavoro legislativo. Se è vero che l’attività legislativa del plenum, come ci mostra anche l’esperienza di questa nostra Assemblea, incontra ostacoli è da prevedere e da sperare che tali ostacoli siano superati dalla disciplina dei partiti, disciplina che è ancora insufficiente, ma che si può perfezionare, e che deve condurre ad ottenere che alle sedute intervengano i membri più competenti nelle singole materie in discussione e intervengano con quella disciplina, assiduità e temperanza che precisamente sono imposte dalla gravità del compito affidato.

Un altro punto al quale devo fare accenno brevemente, ma che è di notevole importanza, e che potrebbe trovare qualche menzione nella Costituzione, è quello relativo al problema del coordinamento finale delle leggi approvate alle Camere.

Sarebbe opportuno che questo problema fosse affrontato, perché dalla natura stessa delle Assemblee, specie se molto numerose, possono derivare, nella votazione dei singoli articoli, delle disarmonie capaci di compromettere l’unità sistematica della legge, e rendere difficile ed incerta l’interpretazione. Sarebbe quindi opportuno prevedere e trovare il congegno adatto per evitarle. È un’esigenza di certezza del diritto, di cui non possiamo disinteressarci.

Quanto al decentramento legislativo attuato con delegazione del potere legiferante in senso formale al Governo, di cui si occupa l’articolo 74, non sono state sollevate critiche. Mi pare che esso possa soddisfare, soprattutto per l’inserzione che è stata fatta della predeterminazione dei criteri direttivi da parte della Camera, diretta a temperare l’arbitrio del Governo nello svolgimento della attività delegata.

C’è stata una proposta dell’onorevole Crispo di sopprimere l’ultimo comma dell’articolo 74, relativo all’estensione a questi decreti legislativi delle norme riguardanti il referendum, ed il controllo di costituzionalità delle leggi. Ma mi pare che le considerazioni poste a sostegno della proposta non siano soddisfacenti, né persuasive.

Per quanto riguarda il referendum, mi pare che non vi sia ragione di impedire quegli interventi popolari stabiliti per le leggi formali; non mi pare che l’intervento del popolo debba essere precluso per il fatto che non vi sia stata richiesta del medesimo sulla legge di delegazione, in quanto può darsi benissimo che la legge di delegazione non incontri ostacolo da parte del popolo, o dei gruppi che potrebbero promuovere la richiesta del referendum, e che invece il suo svolgimento dia luogo ad una richiesta del genere.

In ogni caso, rimarrebbe sempre in piedi l’ipotesi del referendum abrogativo, e non si capisce perché si possa chiedere l’abrogazione dì una legge e non invece quella di un decreto legislativo emesso dal Governo.

Anche per quanto riguarda il controllo di costituzionalità, non si vede perché si dovrebbe sottrarre il decreto legislativo a questo sindacato: se mai, vi sarebbero ragioni di più per richiederlo. L’onorevole Crispo ha osservato che non spetta alla Corte costituzionale di valutare la corrispondenza tra le direttive poste dal Parlamento nella legge di delegazione e l’attuazione che di queste direttive il Governo abbia fatto.

Anzitutto, si può osservare che, anche ammesso che non spetti alla Corte costituzionale un tale sindacato, non viene meno l’esigenza di questo, potendo esso adempiere ad un’altra funzione: quella del controllo della costituzionalità, sia formale che sostanziale, delle disposizioni del decreto stesso. Rimane quindi dimostrata la necessità, e non solo l’opportunità, di mantenere in piedi queste disposizioni proposte dalla Commissione.

Dovrei ora fermarmi brevemente sui decreti-legge. Per i decreti-legge, com’è noto, il progetto di Costituzione tace, ed allora si è domandato: questo silenzio cosa significa? Significa divieto del loro impiego, oppure significa un’implicita loro ammissione, o un volere lasciare impregiudicata la questione? A mio avviso, non c’è dubbio che il silenzio significa divieto. In una Costituzione che, come fa la nostra, applica il principio della separazione dei poteri – con buona pace dell’onorevole La Rocca – in una Costituzione di carattere rigido, come quella che risulta dal progetto, e che ammette un controllo di costituzionalità delle leggi, non è dubbio che il silenzio circa la competenza del Governo ad emanare decreti di urgenza con efficacia legislativa importi un divieto.

Si potrebbe pensare il contrario considerando la necessità come fonte autonoma di diritto. Ma qui – senza ingolfarmi in una discussione di carattere teorico – vorrei osservare che, anche ammesso che la necessità si possa invocare come fonte, bisognerebbe dimostrare che l’organo abilitato ad accertare l’esistenza della necessità, nei singoli casi, possa essere il potere giudiziario.

Evidentemente, non si può giungere a questa conclusione, perché quando parliamo di necessità come fonte non ci riferiamo ad una necessità astratta, ci riferiamo a quella che giustamente è stata chiamata istituzionale, cioè inerente ai fini dell’istituzione dello Stato, da valutare in un determinato momento, in una determinata contingenza politica. Evidentemente questa necessità relativa a certi fini politici non può essere accertata dall’autorità giudiziaria, la quale non può perciò invocarla né presumerla esistente. L’autorità giudiziaria deve quindi negare validità al provvedimento legislativo del Governo che la ponesse a suo fondamento.

Vi sono senza dubbio dei casi nei quali si può ritenere che la previsione dell’ammissibilità dei decreti-legge sia necessaria. Sorge, a questo proposito, spontaneo pensare al caso della guerra. Caso che, in sede di Commissione, fu considerato, e per il quale si pensava di formulare un articolo ad hoc, che doveva sostenere le varie ipotesi di deroga a disposizioni normali. Fu poi forse per una mera dimenticanza che non si dette corso alla proposta; ma ad essa si potrà molto facilmente ovviare.

All’infuori di questo caso della guerra, e forse altresì di quello dei decreti catenaccio, non mi pare che la decretazione di urgenza debba essere consentita. L’esperienza ha infatti dimostrato come qualsiasi tentativo di regolamentazione e di disciplina dell’emissione dei decreti-legge sia stata sempre esiziale, e non soltanto sotto il regime fascista. Essa ingenera da una parte la tentazione da parte del Governo di abusarne per la più rapida realizzazione dei fini della sua politica; dall’altra parte, vorrei dire, eccita la condiscendenza del Parlamento, il quale tende a scaricarsi dei compiti di sua spettanza.

La impossibilità di stabilire limiti rigidi (e quindi suscettibili di un efficace sindacato giudiziario), accompagnata ai fenomeni di psicologia politica accennati, portano fatalmente ad una invadenza dell’esecutivo in quelli che sono i precipui poteri del legislativo. Invadenza dell’esecutivo significa predominio della burocrazia nella formazione della legge, per la quale essa non ha, oltre che la responsabilità politica, neppure la preparazione tecnica necessaria.

D’altronde è da osservare che, nei tempi in cui viviamo, nel secolo della radio e dell’aeroplano, si rende possibile provvedere ad una rapida convocazione del Parlamento quando ciò sia richiesto dall’urgenza di disciplinare per legge qualche materia. Può ammettersi che in casi eccezionalissimi si palesi impossibile provvedere neanche con queste convocazioni e procedura di urgenza, ma allora non sarà grave né pericoloso lasciare che il Governo emani, sotto la sua precisa responsabilità, i provvedimenti necessari, i quali verrebbero ad assumere un’efficacia di fatto. La responsabilità così assunta dal Governo per queste violazioni della Costituzione dovrebbe essere sanata attraverso la presentazione dei cosiddetti «bill di indennità».

A me pare quindi che, salve le tenui eccezioni cui ho fatto ora cenno, il riaffermare l’assoluto divieto del decreto-legge sia cosa saggia ed opportuna, e non contrastante con le esigenze di uno Stato moderno.

Passo ora ad una osservazione che non è stata fatta, ma che mi pare di un certo rilievo, e sulla quale non posso quindi astenermi dal richiamare la vostra attenzione: intendo alludere alla questione della molteplicità delle fonti legislative. È innegabile, onorevoli colleghi, che di fronte a questa molteplicità si rimane alquanto perplessi. Lo Stato moderno, certamente, esige una maggiore varietà di forme adatte ai suoi molteplici compiti. Ma bisogna evitare l’eccesso, atto ad ingenerare incertezza nel diritto. Nell’ordinamento che si va approvando vi sono, oltre le leggi regionali, per quanto riguarda l’attività legislativa che promana direttamente dallo Stato, anzitutto le leggi costituzionali.

Qualcuno ha pensato, accanto a queste leggi di valore costituzionale, a leggi cioè che senza essere costituzionali avrebbero valore-costituzionale, come quelle che si riferiscono all’approvazione dello statuto delle Regioni con ordinamento speciale, o per la disciplina dell’attività finanziaria delle Regioni, ecc. Io penso che questa differenziazione non esiste; quando la Costituzione parla di leggi costituzionali in questa materia, io ritengo che si voglia riferire ad un unico tipo di leggi, per le quale si esige una speciale procedura di formazione.

Vi sono poi delle leggi che si potrebbero chiamare semi-costituzionali. L’unico esempio è dato dall’articolo 95, il quale prescrive che in materia di ordinamento giudiziario e di istituzione di tribunali speciali occorre che intervenga nell’approvazione delle leggi stesse una maggioranza qualificata, e precisamente la maggioranza assoluta. Ora, a me pare che questa categoria di leggi non si giustifichi, non trovi nessun addentellato nel sistema e porti ad una complicazione che non è utile. Perciò mi auguro che questa disposizione, venuta per l’iniziativa isolata di una Sottocommissione, scompaia dal testo della Costituzione.

Poi vi sono altre fonti, che citerò tanto per elencarle, per mostrare la complessità assunta dalla nostra Costituzione in materia. Vi sono le leggi emesse dal Parlamento, quando esso legifera da solo, le leggi del Parlamento quando esso legifera insieme al popolo, che interviene attraverso il referendum, le leggi formate dal concorso di un solo ramo del Parlamento e del popolo, ciò che si verifica in caso di conflitto fra le due Camere, quando una Camera si rifiuta di approvare e si ricorre al referendum popolare, e il referendum approva il deliberato della prima Camera.

Poi vi sono le leggi dell’Assemblea Nazionale, ma veramente queste si riducono ad una sola, nell’ipotesi dell’amnistia, perché gli altri interventi di detto organo riguardano casi non di attività legislativa, ma amministrativa o politica.

Un breve cenno devo fare, per finire, sul referendum, che è stato oggetto delle critiche di un collega di parte comunista, l’onorevole Corbi.

Vorrei osservare che queste critiche comuniste all’istituto del referendum peccano di contraddittorietà, in vario senso. Anzitutto sono contradittorie con l’affermazione, ripetutamente fatta dai colleghi di parte comunista, a proposito della seconda Camera, che i partiti esauriscono tutta la realtà politica, perché la riflettono fedelmente. Pare strano che, se il partito rappresenta e rispecchia fedelmente nel Parlamento la realtà politica, si consideri poi come contrastante con l’attività legislativa parlamentare l’appello al popolo. Tale appello dovrebbe confermare l’operato dei partiti, se è vero che v’è questa corrispondenza perfetta. Ma a me pare che vi sia una contraddizione ancora più grave rispetto al principio della sovranità popolare quale è inteso dai comunisti, e che trova la sua piena realizzazione nella legge del numero, nel dogma della metà più uno. Se c’è un istituto che realizzi al massimo questo principio, è precisamente il referendum, che corregge a tal riguardo l’istituto della rappresentanza proporzionale, in quanto si attua attraverso la maggioranza; cioè con l’adozione del principio maggioritario.

Se il referendum assume come sua base lo stretto principio maggioritario, nel quale si ritiene realizzarsi nel modo più pieno la sovranità popolare, si dovrebbe considerarlo come l’istituto più democratico, e non invece incontrare l’opposizione da chi sia partito da quelle premesse.

Si è osservato – ed è una vecchia accusa – che il referendum rompe l’unità dell’azione governativa, crea una frattura, una discontinuità, introduce degli elementi che potrebbero non armonizzare con la politica generale del Governo. E questa affermazione potrebbe trovare conferma anche positiva, ad esempio, nella Svizzera, patria di origine e campo sperimentale del referendum, che offre frequenti esempi di disegni di legge presentati d’accordo da tutti i partiti, che poi incontrano l’opposizione popolare espressa nel referendum. Vi sarebbe, quindi, la constatazione di questo fenomeno della mancata saldatura tra popolo e rappresentanza parlamentare, e della disarmonia conseguente nello svolgimento di una data politica da parte degli organi costituzionali.

Ma io ritengo che è proprio la constatazione di questo fenomeno che giustifica l’istituto del referendum. È però ovvio che questo deve essere considerato differentemente, a seconda che si attua in un sistema parlamentare puro o in un sistema parlamentare che, in virtù dell’istituto dello scioglimento della Camera, si richiama ad elementi di democrazia diretta, perché lo scioglimento importa il deferimento all’arbitrato popolare di determinate controversie o questioni costituzionali. Il referendum è precisamente sulla stessa linea, risponde alle stesse esigenze e tende alla stessa finalità dello scioglimento: e quindi un regime che ammette questo, non può considerare ad esso ripugnante il referendum, che invece in certo modo lo completa.

Ritornando a quanto dicevo, osservo che precisamente la constatazione di uno scarto fra partiti e opinione pubblica viene a giustificare ancora di più l’adozione di questo istituto, perché questo contrasto fra rappresentanti e rappresentati può significare o una deficienza dei primi o una deficienza dei secondi. O sono i primi che interpretano male la volontà popolare e i bisogni reali del popolo, e allora è giusto che la loro attività sia arrestata dal popolo; o è il popolo che è scarsamente educato, e allora è ai partiti che si deve imputare tale situazione, ed il rimedio non può essere quello di escludere il popolo, bensì di eccitare il suo spirito politico, la sua sensibilità ai problemi politici, la sua capacità di intendere gli interessi generali, il che è compito specifico dei partiti, che non possono rigettare i mezzi per facilitare il raggiungimento di tali fini.

Proprio a ciò giova la politicizzazione degli interessi nei quali il popolo vive la sua vita di ogni giorno; ed è anche col servirsi delle varie associazioni spontanee e col loro inserirle nella vita politica che si può agevolare la sensibilità popolare alla voce degli interessi collettivi.

Il referendum è in sostanza una garanzia di libertà, in quanto può preservare da riforme non sentite o affrettate, ma non può certamente pregiudicare l’adozione di quelle che rispondano alla coscienza collettiva. Perché dovrebbe impedire in Italia le riforme sociali, l’attuazione per esempio della riforma agraria, come diceva ieri l’onorevole Corbi? Affermazioni di questo genere non si capiscono perché, o queste riforme incontrano l’opposizione delle masse, e allora giustamente dovrebbero essere impedite, o sono aderenti a bisogni sentiti dalla maggioranza, e allora il referendum non può agire sul loro esplicarsi.

In pratica, la stessa difficoltà di attuazione del referendum in un organismo così complesso come è un grande Stato moderno, si pone come un ostacolo di fatto al suo impiego frequente. C’è una remora precisamente nella difficoltà di mettere in moto una macchina così complicata. La importanza del referendum sta, dunque, più nell’azione potenziale che può esercitare col frenare le tentazioni di intemperanza dei partiti al potere, col renderli più meditativi circa la convenienza delle riforme proposte in confronto ai bisogni del popolo, che non nel suo impiego effettivo.

Non sono esatte, poi, le critiche dell’onorevole Corbi e la visione catastrofica che ha affacciato, secondo cui un’intera legislatura potrebbe essere arrestata nella sua azione. L’onorevole Corbi ha dimenticato quelle disposizioni del progetto di Costituzione per cui la dichiarazione d’urgenza da parte del Parlamento vale ad impedire l’adozione del referendum. Effettivamente, basta dichiarare urgente una legge, anche senza la maggioranza dei due terzi, perché l’adozione del referendum sia impedita e quindi la legge possa avere il suo corso normale.

Per concludere, vorrei fare poi qualche osservazione sul modo come il referendum è stato congegnato. Vorrei osservare che le critiche che sono state fatte all’iniziativa popolare non sono persuasive. Si è detto che 50 mila elettori (tanti sono quelli che dovrebbero promuovere l’iniziativa legislativa) potrebbero facilmente trovare almeno un deputato che faccia propria la proposta. Ma io osservo che il valore politico dell’iniziativa di un solo deputato è infinitamente minore di quello rivestito dall’iniziativa di 50 mila cittadini. Quindi, mi pare che, sotto questo aspetto, sia opportuno conservare questo istituto.

Dei dubbi possono sorgere, e sono stati formulati, circa il referendum nel caso di conflitti fra le due Camere.

E le critiche sono state promosse da taluni, come l’onorevole Fuschini, i quali partono dal contestare la possibilità di una posizione di parità delle due Camere. Ma siccome si è sostenuto da parte mia che questa posizione di parità non solo è opportuna ma è necessaria (perché è la condizione perché il bicameralismo, così come è concepito da noi, funzioni), cade la possibilità di dare la prevalenza ad una delle Camere e quindi è necessario che questo conflitto sia portato al popolo. Non potrebbe essere portato, secondo me, utilmente neanche all’Assemblea Nazionale, perché il trasferire all’Assemblea Nazionale compiti che non sono di direttiva politica, ma legislativi, traviserebbe la fisionomia che si è voluta dare a questo istituto. Quindi, anche per questo punto, è opportuno conservare la disposizione del progetto. Sola ragione di dubbio potrebbe essere se sia opportuno in questo caso subordinare l’adozione del referendum alla richiesta della Camera che è rimasta in minoranza, la cui approvazione cioè di un disegno di legge non ha avuto l’adesione dell’altra.

Più gravi incertezze sono sollevate dal referendum sospensivo, cioè dalla facoltà data al popolo di chiedere la sospensione dell’entrata in vigore di una legge, in attesa del referendum. I dubbi, come dicevo, sembrano giustificati non tanto dall’osservazione che ciò ritarda l’entrata in vigore della legge, ma dal fatto che la ritarda per l’intervento di un numero esiguo di cittadini. Tale ritardo, però, specie poi quando si tenga presente il correttivo dell’urgenza di cui ho parlato, non è una cosa straordinaria. Noi abbiamo esempi analoghi in altre legislazioni. Per esempio la Costituzione di Weimar ammetteva la possibilità che un terzo, cioè una minoranza dei membri del Reichstag, chiedesse ed ottenesse la sospensione per due mesi dell’entrata in vigore di una legge. È una garanzia accordata alle minoranze, che può non ritenersi inopportuna.

Ma l’obiezione più grave da fare a questo istituto è quello dell’incertezza che potrebbe ingenerare nel diritto, incertezza che deriva dalla necessità di procedere a più pubblicazioni perché la legge deve essere pubblicata nel momento dell’approvazione delle due Camere. Poi interviene il periodo di sospensione in attesa che si possa promuovere la procedura di referendum; e poi bisognerebbe naturalmente fare una seconda pubblicazione quando la legge fosse definitivamente approvata. Ora questa molteplicità di pubblicazioni potrebbe ingenerare dubbi da parte dei cittadini, e sotto questo aspetto a me pare che si dovrebbe riflettere anche sopra la norma in parola. Forse si potrebbe rinunciare a tale specie di referendum, ma solo a patto di modificare l’ultimo comma di questo articolo 74 che, nel consentire l’abrogazione della legge con referendum, pone la condizione che essa sia in vigore da almeno due anni. Se sopprimessimo questo termine di due anni, cioè se il referendum potesse chiedersi ed attuarsi subito dopo l’entrata in vigore della legge, allora la conservazione dell’istituto del referendum sospensivo potrebbe apparire meno rilevante.

E così ho finito. Nel corso di questa discussione sono state rivolte accuse varie a questa parte del progetto. Si è detto da taluni che qui dentro c’è un centone di disposizioni prese qua e là dalle varie Costituzioni. Purtroppo è difficile fare qualche cosa che non trovi precedenti nel passato. Avviene quasi sempre che, quando si crede di aver fatto una scoperta, poi si accerta che quella stessa cosa era stata già trovata, magari duemila anni prima di Cristo, in Cina.

Questa constatazione è una salutare scuola di mortificazione del nostro orgoglio.

Comunque, si può affermare che questo progetto è l’opera di persone che hanno lavorato con grande fervore e passione e si sono sforzate di creare, non delle costruzioni tecnicamente perfette, bensì uno strumento adatto al nostro Paese, con riferimento alle sue esigenze di oggi, onde avviarlo ad una democrazia sostanziale, radicata nella coscienza e fondata sull’interesse, fattiva e operosa della più gran parte dei cittadini.

Formulo l’augurio che uno stesso fervore da parte dell’Assemblea, rivolto a migliorare il canovaccio tracciato, giovi a dare vita ad un Parlamento che, arricchito di efficienza rappresentativa per il concorso di tutte le forze vitali della Nazione e razionalizzato nei suoi congegni e nella sua procedura, promuova ed accompagni la resurrezione e l’ascesa della Patria. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di domani, nella quale parleranno i Relatori onorevoli Conti e Tosato, e il Presidente della Commissione onorevole Ruini.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. La seduta antimeridiana di domani si inizierà alle 11, anziché alle 10, in considerazione del fatto che nella prima mattina si riuniscono alcune Commissioni.

Per ciò che riguarda le interrogazioni, esse saranno svolte nella seduta antimeridiana di sabato prossimo, se domattina l’Assemblea concluderà l’esame della legge sull’elettorato attivo; altrimenti saranno svolte nella seduta pomeridiana di lunedì.

GAVINA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GAVINA. Ieri si era rimasti d’accordo con il Ministro Segni nel senso di discutere nella seduta antimeridiana di domani l’interpellanza da me presentata a nome del Partito comunista; e la Presidenza era d’accordo.

PRESIDENTE. Mi sembra che l’accordo sia intervenuto nel senso di fissare lo svolgimento di questa interpellanza nella prima seduta riservata alle interrogazioni e alle interpellanze. L’Ufficio di Presidenza ritiene che fino a quando non sarà stata esaurita la discussione del disegno di legge sull’elettorato attivo non sia opportuno distrarre tempo per la discussione di interrogazioni e tanto meno di interpellanze, le quali ultime occupano un tempo maggiore.

PICCIONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. Desidero che sia precisato questo punto: sabato si tiene soltanto seduta antimeridiana; questa seduta sarà dedicata o alle interrogazioni o al seguito della discussione della legge elettorale, se questa non sarà esaurita domani; e non già alla discussione del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. La discussione del progetto di Costituzione sarà probabilmente rinviata, dopo la seduta pomeridiana di domani, a martedì prossimo.

SILIPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SILIPO. L’onorevole Tupini si è dichiarato disposto a discutere un’interpellanza da me presentata lunedì nel pomeriggio; pertanto, chiedo che essa sia iscritta all’ordine del giorno della seduta di lunedì.

PRESIDENTE. Ella sa che l’ordine del giorno di una seduta non si può fissare che nella seduta immediatamente precedente. La seduta pomeridiana di domani sarà dedicata al seguito della discussione del progetto di Costituzione; parleranno gli onorevoli Conti, Tosato e Ruini. Poi la discussione potrà essere rinviata a martedì, dovendosi procedere alla votazione degli ordini del giorno, che occuperà del tempo.

Concludendo: domani, nella seduta antimeridiana alle ore 11, seguito della discussione della legge sull’elettorato attivo; nella seduta pomeridiana, alle ore 16, seguito della discussione del progetto di Costituzione; sabato mattina, se nella seduta antimeridiana di domani avremo esaurito la discussione della legge elettorale, ci occuperemo di interpellanze e di interrogazioni; altrimenti, queste saranno discusse nella seduta pomeridiana di lunedì.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e del tesoro, per conoscere se non intendano adottare per gli alti funzionari collocati a riposo senza aver raggiunto i limiti necessari al godimento della pensione, lo stesso trattamento usato dal Ministero degli affari esteri in favore di alcuni funzionari, e cioè la corresponsione una tantum di una somma pari a due annualità di stipendio.

«Cifaldi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno recedere dalla decisione di non accogliere la legittima richiesta dei segretari degli istituti medi, i quali da tempo hanno chiesto il passaggio dal gruppo C, in cui ingiustamente si trovano, al gruppo B, e ciò per porre fine ad una condizione di inferiorità ingiustificabile.

«L’interrogante fa notare che il Ministro della pubblica istruzione, interrogato, ha riconosciuto giusta l’aspirazione della categoria ed ha dichiarato che aveva predisposto uno schema di provvedimento inteso a migliorarne la carriera, nel quale era incluso l’inquadramento del personale, di cui si parla, nel gruppo B, ma che il Ministro del tesoro non aveva dato il proprio assenso.

«Silipo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quanto di vero ci sia nelle informazioni di certa stampa circa aggressioni avvenute in questi giorni nella zona ritornata alla Madre Patria.

«Bettiol».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, circa due disposizioni contenute nel decreto 14 luglio 1947, che bandisce concorsi per cattedre negli istituti governativi di istruzione media, e più particolarmente circa i paragrafi 4 e 9.

«L’una (comma d) del paragrafo 4), che è ripetizione di un articolo transitorio – l’articolo 38 – della legge 19 gennaio 1942, n. 86, legge Bottai sulle scuole non regie, e con cui si ridà nuova transitorietà ad un articolo transitorio nel 1942, mirando a favorire insegnanti, già favoriti, in quanto, senza i titoli indispensabili, hanno potuto per anni insegnare, riduce logicamente il numero dei posti a cui potrebbero aspirare insegnanti non ecclesiastici e penetra in un campo da cui sarebbe bene si tenesse lontano; l’altra disposizione (paragrafo 9) conferisce al Ministro la facoltà di negare a chicchessia – fuori dei casi previsti in commi precedenti – «l’ammissione ai concorsi a cattedre con decreto non motivato ed insindacabile».

«Ora l’interrogante, pur supponendo nell’onorevole Ministro senso indubbio di onestà e di giustizia, desidera sapere a quali casi intenda alludere e quale legge a lui assegni questa larga facoltà, che egli ritiene non potrebbe mai esser concessa ad un Ministro.

«Poiché il termine del concorso scade il 30 settembre, l’interrogante prega l’onorevole Ministro a voler dargli risposta prima di tale data.

«Longhena».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno e utile allo sviluppo delle bonifiche nel Mezzogiorno di Italia e nelle Isole il facilitare i finanziamenti ai Consorzi all’uopo costituiti, anche da parte di Enti di credito e di privati risparmiatori, col concedere la garanzia ai mutui, che detti Consorzi contrarrebbero per l’esecuzione di progetti, debitamente approvati dal Comitato provinciale di bonifica e dal Genio civile.

«Ciò al fine di far concorrere il capitale privato accanto ai finanziamenti dello Stato ad un’opera economica e sociale di interesse generale, qual è la bonifica, e per accelerare il ritmo dei lavori secondo il voto espresso dal Convegno di Napoli per le trasformazioni fondiarie, tenutosi nell’ottobre 1946. L’interrogante ritiene che i Consorzi possano agevolmente contrarre mutui, qualora questi godano di privilegi ipotecari sui terreni bonificati, nel caso che lo Stato non garantisca la quota dovuta dai Consorzi nelle opere finanziate dallo Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica), per sapere quali provvedimenti intenda prendere, in via definitiva, contro l’impresa appaltatrice del mantenimento dei reduci tubercolotici nel sanatorio antitubercolare di Chiaravalle Centrale (Catanzaro), la quale, nonostante le ispezioni governative, le proteste del Comitato regionale della Croce Rossa, delle famiglie e del pubblico e i reclami dei ricoverati, continua, per fini speculativi, nel cattivo trattamento di questi, la cui spesa grava sul bilancio dello Stato.

«L’interrogante fa presente di avere svolto all’Assemblea Costituente, nella seduta del 18 marzo 1947, una interrogazione in merito e di avere avuto, anche per iscritto, assicurazione della Presidenza del Consiglio di un intervento pronto ed efficace.

«Con grave delusione dell’interrogante, degli ammalati e del pubblico, il maltrattamento dei ricoverati è continuato, tanto che il Comitato regionale della Croce Rossa, nella persona della sua ispettrice, ha rinnovato la sua protesta.

«Poiché trattasi di reduci, che nel servizio militare contrassero il male, di cui oggi sono afflitti, e che dalla Nazione non possono essere abbandonati a se stessi ed a una illecita speculazione, che, perfino ostenta i cumulati profitti, fra l’indignazione generale, l’interrogante chiede che sia posto fine a un simile stato di cose col rilevare l’impresa dalla gestione, con provvedimento d’imperio, ed affidare questa al Comitato della Croce Rossa Italiana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del tesoro e delle finanze, per conoscere se non ritengano opportuno ed urgente che i fabbricati distrutti o danneggiati da eventi bellici siano resi esenti dall’imposta progressiva sul patrimonio – per la quale è imminente, da parte dei proprietari, l’obbligo della denunzia – e ciò in considerazione che per questi fabbricati il reddito, quando non è del tutto cessato, è stato abbondantemente assorbito – e lo sarà ancora per molti anni – dai gravi oneri imposti dalla ricostruzione, ai quali lo Stato non partecipa che per determinate aliquote, in rapporto al reddito del contribuente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’Africa italiana, delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritengano immorale ed inumano il trattamento ancora riservato ai reduci e profughi d’Africa ai quali, rientrati in Italia, si applica il cambio di lire 72 per ogni sterlina risultante a loro credito, credito che è frutto di inenarrabili sacrifici e rinunce, e ciò in stridente contrasto del cambio ufficiale della sterlina ed ancor più di quello del mercato libero. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per sapere se non ritengano doveroso – a fronte delle enormi distruzioni subite dai fabbricati dell’Istituto delle case popolari di Messina – integrare con ulteriore stanziamento il contributo concesso con decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato, n. 359 dell’8 agosto 1947, tenuto presente che l’Istituto autonomo non è in condizioni di contrarre con un ente finanziatore un mutuo a lunga scadenza ed a tasso sopportabile per procurarsi i rimanenti 285 milioni indispensabili per realizzare le costruzioni, cui sono destinati i fondi già stanziati. Ciò in considerazione che alla distanza di quasi 40 anni dal terremoto 1908 non è ancora ultimato lo sbaraccamento, tanto che sussistono oltre 2000 baracche in pessime condizioni, anti-igieniche, nelle quali vivono circa 10 mila persone in attesa che un Governo democratico provveda. Ciò anche perché lo sbaraccamento di Messina è tuttora impegnativo per lo Stato, che seguita a percepire le addizionali in base alla legge del gennaio 1909. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’Africa italiana, del tesoro e delle finanze, per sapere le ragioni per cui ai profughi d’Africa, attraverso procedure defatiganti e dispendiose, s’è fino ad oggi procrastinato il pagamento del risarcimento dei danni subiti per il forzato abbandono dei propri beni d’Africa, dove s’erano recati a svolgere opera di civiltà.

«Se non ritengano opportuno accelerare – con un ufficio stralcio convenientemente organizzato – queste procedure, anche in considerazione del lungo tempo già trascorso e della continua svalutazione della moneta a causa della quale gli interessati finirebbero, in un lontano avvenire, con l’incassare una percentuale dei propri crediti irrisoria e tale da non consentir loro di riprendere o iniziare qualsiasi attività.

«Se non ritengano ancora opportuno – per accelerare la riammissione nel processo produttivo nazionale dei profughi di Africa – di disporre un congruo acconto da pagarsi salvo conguaglio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se intenda ripristinare la pretura del comune di Montefusco (Avellino).

«L’interrogante ritiene che detto ripristino possa e debba precedere quello delle altre sedi soppresse dal fascismo, per le quali è noto che il Ministero della giustizia ha proposto invano al Ministero del tesoro la ricostituzione.

«Infatti a favore del ripristino della sede di Montefusco dovrebbero giocare due ordini d i fattori:

1°) politico, perché la sede fu soppressa per consentire al capo della polizia fascista Bocchini di istituire la pretura nel suo paese di origine, San Giorgio del Sannio;

2°) umanitario, perché attualmente i cittadini di Montefusco sono sottoposti alla giurisdizione del Tribunale di Benevento, pur facendo parte della provincia di Avellino, cosicché sono costretti a servirsi di mezzi di trasporto divergenti, raddoppiando le spese e aumentando le difficoltà.

«L’interrogante confida pertanto in un provvedimento isolato che ponga fine allo stato di disagio creato dalla mancata coincidenza della circoscrizione giudiziaria con quella amministrativa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere quale azione intendano svolgere per definire, una buona volta e con sollecitudine, la posizione penale, e per ciò stesso amministrativa, del sindaco del comune di Taurasi (Avellino) dottor Caggiano Marciano.

«L’interrogante ritiene che non dovrebbe esser lecito all’autorità giudiziaria lasciar passare tanti mesi prima di emettere un giudizio sulla imputabilità del dottor Caggiano, contro il quale da tempo sono state sporte documentate denunzie di reati vari e gravi da parte tanto di privati quanto di autorità.

«La Procura generale della Corte di appello di Napoli, non pronunciandosi con la celerità che la questione richiede, è infatti moralmente responsabile dello stato di eccitazione, di disordine, e talora anche di fisica violenza, che si è determinato nel piccolo centro, ove il sindaco Caggiano è ormai impopolare tra la maggioranza dei cittadini, che attendono che egli abbia il giusto guiderdone della sua scorretta condotta morale ed amministrativa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere se, nell’applicazione del secondo comma, di cui all’articolo 29 del decreto legislativo 12 ottobre 1945, n. 669, sulla disciplina delle locazioni degli immobili urbani, non creda opportuno, come sembra all’interrogante, dar disposizioni perché, nei confronti dei perseguitati politici e razziali (nonché dei partigiani), si tenga conto della pratica impossibilità in cui questi si trovavano ad acquistare immobili prima del 24 marzo 1942, talché la disposizione contenuta nel detto comma sia, per costoro, dichiarata non applicabile, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arcangeli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se siano in elaborazione provvedimenti relativi alla ricostituzione di una speciale polizia di frontiera e alla sistemazione militare-professionale ed amministrativa del personale già in servizio permanente effettivo nella ex milizia confinaria, specialità che, per lo svolgimento del suo particolare servizio d’istituto, era alle dirette dipendenze di impiego del Ministero dell’interno.

«In caso affermativo, l’interrogante desidera sapere se è nelle previsioni del Ministro l’esame della possibilità di un eventuale riassorbimento e reimpiego del suddetto personale specializzato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Fabriani».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 18.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 18 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Sul processo verbale:

Russo Perez

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Moro

Schiavetti

Uberti, Relatore

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Russo Perez

Negarville

Taviani

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

La seduta comincia alle 11.

COVELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

Sul processo verbale.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, mi avvalgo del Regolamento per prendere la parola sul processo verbale, onde chiarire un mio pensiero quale risulterebbe da quel documento. Il pensiero espresso ieri da me con qualche interruzione e con delle precise dichiarazioni, credo che fosse molto chiaro.

Io chiesi perché mai fosse stata scelta la data del gennaio 1925 e non la data del novembre 1922. Intendevo fare il rimprovero, a molti fieri «antifascisti della prima ora» e dei sempre presenti in quest’aula, di avere escluso quel periodo nel quale essi fecero atto di adesione al regime… Che Mussolini fosse un dittatore non fu scoperto solo nel gennaio 1925! La marcia su Roma non aveva detto nulla a costoro? E l’approvazione della legge sui pieni poteri?! E quando Mussolini qui, in quest’aula «sorda e grigia» (così qualificata da lui), disse che avrebbe potuto fare di essa un bivacco dei suoi manipoli, io non ero presente, ma so che di tutta quella selva di uomini uno solo ebbe il coraggio di gridare: «Viva il Parlamento!». Fu Modigliani. Onore a lui, il quale ha diritto di essere qualificato un antifascista di sempre; e non soltanto voi delle sinistre, ma anche noi delle destre abbiamo il dovere di onorarlo come un uomo che è stato sempre fedele al suo pensiero. Ma tanti fieri antifascisti di oggi, come quel mio amico Dante Veroni, che ha tutto l’aspetto di un cavaliere spagnolo (Si ride), e credo che abbia la coscienza per lo meno abbastanza conservatrice quanto il suo nobile aspetto, che ha proposto persino l’inasprimento di codeste disposizioni!…

VERONI. Ma se è stato approvato!

RUSSO PEREZ. Prego l’amico Veroni, che stimo, di non insistere in proposte di codesto genere… Si ricordi che nel suo collegio c’era quel tale Visocchi, che, se non fosse stata approvata la sua proposta di ieri, potrebbe essere nuovamente candidato.

Innalziamoci al disopra di ciò. Ho presa la parola perché sventuratamente la mia ironia non è stata compresa nemmeno dai nostri giornali. È stata semi compresa dal redattore dell’Unità, che ha scritto: «Russo Perez con un sorriso amaro…». Ho detto semi compreso, perché il mio sorriso non era «amaro» ma leggermente ironico. Ad evitare equivoci, affinché qualcuno non si ostini a fingere di capire che io abbia, ieri, fatto quella proposta sul serio, sia detto ancora una volta e ben chiaro che io ed i miei colleghi di Gruppo abbiamo votato e voteremo contro tutte le esclusioni, non per spirito fascista o antifascista, ma perché siamo contro ogni persecuzione improducente e perché è necessario che una buona volta si ponga fine a questa catena di violenze (Rumori a sinistra), ed i miei colleghi della sinistra dovrebbero pensare che, se ci sarà, domani, un Governo reazionario, esso potrà approvare un’altra legge in cui si dica che quelli che hanno votato ora per l’esclusione dall’elettorato di alcune categorie di fascisti sono a loro volta esclusi dal diritto di elettorato attivo e passivo… (Vivi rumori a sinistra). Faccio osservare un’altra cosa: io comprenderei che si escludessero dal diritto di eleggibilità coloro che si ritiene abbiano peccato, perché essere nominati deputati o senatori è certamente un privilegio; ma quello di votare è un dovere, dato che la legge pone una sanzione per gli astensionisti, sul cui certificato penale si scrive: non ha votato. Quindi voi impedite ad alcuni, a molti cittadini, l’esercizio di un dovere. Stando così le cose, perché non impedite loro di andare sotto le armi, perché anche quello è un dovere?!

Per queste ragioni voteremo contro, perché noi vogliamo un’opera di pacificazione ed auspichiamo ardentemente quel giorno in cui la madre del partigiano ucciso e la madre del fascista ucciso si ricongiungano a pregare sulla tomba dei loro cari. (Applausi a destra – Vivi rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione sul disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Chiedo all’onorevole Moro se insiste nella domanda di appello nominale avanzata ieri.

MORO. Mi dispiace di dover insistere nella richiesta di appello nominale.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Schiavetti se insiste nel suo emendamento.

SCHIAVETTI. Insisto, ma per disincagliare la discussione, proporrei di rimandare a più tardi la votazione di questa lettera f) che ha suscitato tanti contrasti, e di continuare con l’esame dell’articolo, per guadagnare tempo.

PRESIDENTE. Se non vi sono obiezioni, si può accogliere la proposta dell’onorevole Schiavetti di accantonare la votazione sulla lettera f), restando d’accordo che l’appello nominale, chiesto ieri, non è stato finora ritirato.

MORO. Sono d’accordo.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Allora continuiamo l’esame dell’art colo 47.

Relativamente alla lettera f) in discussione, è stato presentato un emendamento aggiuntivo dagli onorevole Crispo e Rubilli del seguente tenore:

«Aggiungere alla lettera f):

«f-bis) la condizione dei senatori, per i quali fu emessa sentenza di annullamento del pronunciato dell’Alta Corte di giustizia, dovrà essere riesaminata a seguito del giudizio di rinvio».

Chiedo agli onorevoli Crispo e Rubilli se, dato il legame stretto che unisce questa aggiunta all’emendamento Schiavetti, non ritengano opportuno di accantonare anche l’esame di questo emendamento.

CRISPO. Sta bene.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE. Passiamo alla lettera g), che è del seguente tenore:

«g) consigliere nazionale».

La pongo in votazione.

(È approvata).

Passiamo alla lettera h), che è del seguente tenore:

«h) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale».

La pongo in votazione.

(È approvata)

Passiamo alla lettera i), che, nel testo governativo, è del seguente tenore:

«i) prefetto o questore nominati per titoli fascisti e capo di provincia».

La Commissione ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere, dopo le parole: capo di provincia le seguenti: o questore nominato per gli stessi titoli dalla pseudo repubblica sociale».

Avverto che identico emendamento è stato proposto dall’onorevole Schiavetti con la lettera o). Se nessuno domanda la parola pongo in votazione la lettera i) emendata ai sensi della proposta della Commissione, accettata dal Governo, e che assorbe l’emendamento Schiavetti.

(È approvata).

Passiamo alla lettera l) del testo governativo, che è del seguente tenore:

«l) ufficiale generale od ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria».

A questa lettera è stato proposto un emendamento dall’onorevole Schiavetti secondo il quale si aggiunge la categoria dei «moschettieri del duce» e si estende l’esclusione a tutti gli ufficiali della milizia in genere, mentre il progetto del governo limita l’esclusione agli ufficiali generali e quelli superiori.

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Questa disposizione da me proposta è presa dalla legge elettorale per le elezioni alla Costituente.

PRESIDENTE. La frase «in servizio permanente retribuito» è comune al testo del Governo e all’emendamento Schiavetti.

Prego l’onorevole Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione che aveva approvato un suo emendamento ha poi deliberato di accettare il nuovo testo governativo. Non può accettare l’emendamento dell’onorevole Schiavetti per tutte le ragioni che furono già da me esposte, in quanto tende ad estendere le esclusioni ad un eccessivo numero di persone, anche a quelle che non sono gli elementi motori del passato regime (partito, governo, parlamento), con il duplice danno di diminuire il valore del provvedimento verso gli autentici responsabili, i veri capi, e di far solidarizzare con questi gli elementi periferici, meno responsabili. Per la categoria dei «moschettieri del duce» è poi assai difficile rintracciarne gli appartenenti.

PRESIDENTE. Chiedo il parere del Governo sull’emendamento.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si associa a quanto ha detto l’onorevole Uberti: tanto la Commissione, quindi, che il Governo si oppongono a questa estensione.

PRESIDENTE. Questo emendamento dell’onorevole Schiavetti darà luogo a due votazioni perché, come l’Assemblea ha udito, la prima parte riguarda l’inclusione della categoria dei «moschettieri del duce», mentre l’altra riguarda l’estensione della norma a tutti gli ufficiali della milizia.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che voteremo a favore dell’esclusione dal diritto di voto per la categoria dei «moschettieri del duce», mentre invece voteremo contro per quanto riguarda l’estensione della sanzione a tutti gli ufficiali della milizia.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la privazione del diritto di voto per la categoria dei «moschettieri del duce».

(È approvata).

Passiamo ora a votare l’altra parte dell’emendamento dell’onorevole Schiavetti, del seguente tenore: «ufficiale della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito».

L’Assemblea tenga presente che tutto il resto dell’articolo è invariato.

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione, non è approvata).

Ricordo agli onorevoli colleghi che l’inclusione dei «moschettieri del duce» è stata già approvata. Cosicché pongo in votazione la lettera l) nel testo proposto dal Governo, che, con l’aggiunta dei «moschettieri del duce» risulta così formulata:

  1. l) «moschettiere del duce, ufficiale generale ed ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria».

(È approvata).

Passiamo alla lettera aggiuntiva f) dell’onorevole Shiavetti:

«f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative».

Su questa aggiunta domando il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Se l’onorevole Schiavetti, che fa parte della Commissione, avesse sottoposto la sua proposta, almeno nell’ultima seduta di tre giorni fa, sarebbe stato possibile al Relatore di riferire la deliberazione della Commissione. Tuttavia devo rilevare che ci troviamo di fronte ad un emendamento sul quale la Commissione non ha potuto esprimere esplicitamente il suo parere, e che in ogni modo si scosta talmente dal criterio che ha ispirato la Commissione nel redigere il suo testo, che essa non può non respingerlo. Alle sinistre, che ritengono di porre norme di maggiore severità, rilevo che invece gli emendamenti dell’onorevole Schiavetti rappresentano, con le sue estensioni, un’attenuazione del valore della primitiva norma stabilita dalla Commissione. Perciò, interpretando lo spirito che ha animato la Commissione nello stabilire il suo testo, non posso che dichiararmi contrario.

PRESIDENTE. Chiedo l’opinione del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo non accetta la lettera f) dell’emendamento Schiavetti.

PRESIDENTE. Metto in votazione la lettera f) dell’emendamento Schiavetti, del seguente tenore:

«f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative».

(Dopo prova e controprova, è approvata – Proteste al centro e a destra).

Voci. Il computo non è esatto!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, faccio loro presente che la Presidenza non proclama il risultato della votazione se non quando tutti i Segretari, rappresentanti vari partiti, si sono messi d’accordo sull’esito della votazione. (Commenti al centro e a destra). L’Assemblea comprende che procedere ad un’altra votazione sarebbe addirittura arbitrario. (Rumori e proteste al centro e a destra).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Signor Presidente, non vi è dubbio che se i Segretari hanno sbagliato… (Vivi rumori a sinistra). Ad ogni modo il parere espresso da tutta l’Assemblea impone una revisione della votazione con altro sistema. (Proteste a sinistra).

PAJETTA GIULIANO. Ma quale Assemblea?!

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, non saprei proprio come accontentarla.

RUSSO PEREZ. Signor Presidente, io dico questo: democrazia! democrazia! (Vivi rumori a sinistra).

PAJETTA GIULIANO. Lei parla di democrazia! (Rumori in tutti i settori – Interruzioni).

RUSSO PEREZ. Facciamo la politica in gaiezza, come diceva San Francesco. Perché siete così feroci?

L’Assemblea impugna la votazione! (Rumori a sinistra).

PAJETTA GIULIANO. Quale Assemblea? È lei forse l’Assemblea?

RUSSO PEREZ. Ci dica almeno i risultati numerici, signor Presidente! (Rumori a sinistra – Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, le do lettura dell’articolo del Regolamento.

RUSSO PEREZ. Lo conosco! Gliene faccio grazia.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, chiunque deve convenire che il Presidente, anche se volesse, non potrebbe condiscendere in questo caso al suo desiderio neppure se fosse espresso dall’Assemblea! (Rumori al centro e a destra).

RUSSO PEREZ. Non sono d’accordo. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. L’articolo 103 dispone: «Il voto per alzata e seduta è soggetto a riprova, se c’è chi la richieda prima della proclamazione. Il Presidente e i Segretari decidono del risultato della prova e della riprova, che possono ripetersi; se rimane ancora dubbio, si procede per divisione».

RUSSO PEREZ. E la riprova?

Una voce a sinistra. C’è stata. (Interruzioni – Commenti).

NEGARVILLE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NEGARVILLE. Quando poco fa è stato respinto il primo emendamento dell’onorevole Schiavetti, io ho avuto l’impressione, con i conti che ho fatto, che le cose non erano tanto chiare; ma mi sono guardato bene dal contestare la proclamazione del Presidente. Mi pare che introducendo, nelle nostre votazioni, un precedente di questo genere, tutti i deputati avrebbero diritto di far ripetere una votazione. Se poi teniamo conto del fatto che vi sono degli spostamenti di persone, di gente che è nei corridoi e che non è stata presente, e che potrebbe essere presente adesso, noi potremmo avere un risultato differente, sempre se il Presidente accondiscendesse ad una nuova votazione, cosa che è contraria al Regolamento. Il risultato differente da quello proclamato minorerebbe l’autorità della Presidenza, che proclama solo dopo aver consultato i Segretari.

Ora, io mi oppongo alla ripetizione della votazione, perché è contraria al Regolamento e perché costituirebbe un precedente che tornerebbe a discredito dell’Assemblea. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Quando si parla di riprova, ci si riferisce ad una nuova votazione per alzata e seduta. Quando il risultato rimanga dubbio, allora soltanto si procede per divisione. Ma l’Ufficio di Presidenza è stato unanime nel valutare l’esito della votazione, dopo che gli onorevoli Segretari hanno col massimo scrupolo controllato i voti nella prova e nella riprova.

Prego quindi i colleghi di non voler creare difficoltà ai nostri lavori con pretese che non hanno alcun fondamento nel Regolamento, anzi, che vi sono contrarie. Ripeto che, dopo fatta la votazione per alzata di mano, si è fatta la riprova della votazione per alzata e seduta. I Segretari sono stati concordi nell’accertamento del risultato.

Il Presidente ha proclamato questo risultato. Questo è il suo compito.

Se mi è lecito aggiungere qualche cosa di personale, dirò che io sono uso a non seguire neppure il conteggio per rimettermi interamente all’opinione dei Segretari, che ho sempre constatato concorde.

Sono sicuro di mantenermi sempre, come è mio stretto dovere di Presidente, al di sopra della mischia. (Applausi a sinistra e al centro).

Segue la lettera g) dell’emendamento Schiavetti, del seguente tenore:

«g) segretario politico del fascio o segretaria del fascio femminile di comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti (censimento 1936)».

Chiedo al Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. L’emendamento non fa che riprodurre il primitivo testo governativo. La Commissione all’unanimità ha deliberato di sopprimerlo. Non capisco perché adesso lo si voglia riprendere. La soppressione fu approvata anche dai commissari comunisti.

TAVIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Chiedo la votazione per appello nominale sulla lettera g) dell’emendamento Schiavetti.

PRESIDENTE. L’onorevole Taviani ha avanzato richiesta di appello nominale. Chiedo, a norma dell’articolo 97 del Regolamento, se è appoggiata da quindici deputati.

(È appoggiata).

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale, sulla lettera g) dell’emendamento dell’onorevole Schiavetti, testé letto.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole Ruggieri.

Si faccia la chiama.

Hanno risposto sì:

Allegato – Amadei – Amendola – Arata – Assennato – Azzi.

Baldassari – Bargagna – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Basso – Bei Adele – Bellusci – Bianchi Bianca – Bibolotti – Bocconi –Bonomelli – Bruni.

Cacciatore – Cairo – Canevari – Caporali – Carboni Angelo – Carpano Maglioli – Cevolotto – Chiarini – Chiostergi – Cianca – Colombi Arturo – Corbi – Corsi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

De Filpo – De Mercurio – De Michelis Paolo – Di Giovanni – Donati – D’Onofrio.

Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fietta – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giacometti – Giolitti – Giua – Grazia Verenin – Grieco – Gullo Fausto.

Iotti Nilde.

Jacometti.

Laconi – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Lizzadri – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lozza – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Magnani – Magrin – Malagugini – Maltagliati – Marchesi – Mariani Enrico – Massola – Mastino Pietro – Mazzoni – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molè – Momigliano – Morandi – Moranino – Moscatelli – Musolino.

Negarville – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Oro.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pera – Persico – Piemonte – Pieri Gino – Pratolongo – Pressinotti – Priolo.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Salerno – Sansone – Sapienza – Sardiello – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Secchia – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Stella.

Targetti – Tega – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Treves.

Vernocchi – Veroni – Vigorelli – Villani.

Zanardi – Zappelli.

Hanno risposto no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Aldisio – Arcaini – Arcangeli.

Bacciconi – Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bellato – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Bergamini – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchini Laura – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bubbio – Burato.

Caccuri – Caiati – Camposarcuno – Candela – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Enrico – Carignani – Caronia – Carratelli – Castelli Avolio – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Colitto – Colombo Emilio – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo.

Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dossetti.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Ferrario Celestino – Ferreri – Foresi – Franceschi – Fuschini.

Galati – Garlato – Giacchero – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Filippo – Guidi Cingolani Angela.

Jervolino.

Lagravinese Pasquale – La Pira – Lazzati – Leone Giovanni – Lettieri – Lizier.

Malvestiti – Mannironi – Marazza – Marconi – Martinelli – Mastino Gesumino – Mattarella – Mazza – Medi Enrico – Merlin Umberto – Miccolis – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Moro – Mortati – Murdaca – Murgia.

Nicotra Maria – Notarianni – Numeroso.

Pallastrelli – Pecorari – Perlingieri – Perugi – Piccioni – Pignedoli – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Rapelli – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Roselli – Rubilli – Rumor – Russo Perez.

Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Schiratti – Scoca – Spataro – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Venditti – Viale – Vicentini – Villabruna.

Zerbi.

Si è astenuto:

Conti.

Sono in congedo:

Badini Confalonieri.

Campilli – Canepa – Caso.

Dominedò.

Geuna – Giannini – Gullo Rocco.

Jacini.

La Gravinese Nicola – La Malfa – Lucifero.

Micheli – Montemartini.

Paolucci – Parri – Perrone Capano.

Tremelloni – Tumminelli.

Zotta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari procedono al computo dei voti).

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione per appello nominale:

Presenti                  309

Votanti                   308

Maggioranza           155

Hanno risposto      146

Hanno risposto no   162

Astenuto                   1

(L’Assemblea non approva).

Il seguito della discussione è rinviato alla seduta antimeridiana di domani. Nella seduta pomeridiana di oggi sarà fissata l’ora d’inizio.

La seduta termina alle 13.15.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Rodinò Mario

Presidente

Codacci Pisanelli

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Macrelli

Condorelli

Piccioni

Fuschini

Giolitti

Corbi

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

DE VITA, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Credo di interpretare il pensiero di molti deputati che in questa Assemblea rappresentano le popolazioni meridionali, pregando lei, signor Presidente, affinché – data l’assenza dell’onorevole Sforza – voglia invitarlo a precisare e specificare che cosa egli nel suo discorso di ieri ha inteso di dire quando, dopo aver fatto richiamo all’assenza dell’onorevole Porzio dall’Aula, ha parlato di lunga corruzione degli uomini del Sud. A me sembra sommamente desiderabile ed opportuno che ogni sapore offensivo, ogni più lontana ombra di dubbio venga tolta a quelle parole, così poco opportune, perché offesa a delle popolazioni, le quali, mi sembra, hanno per il loro equilibrio, per la loro adattabilità e per il loro attaccamento al Paese, meritato più e meglio dell’apprezzamento dell’onorevole Sforza.

Data l’assenza dell’onorevole Sforza, prego lei, signor Presidente, di farsi interprete di questi sentimenti, che – ripeto – so condivisi da molti colleghi che rappresentano qui il Meridione d’Italia.

PRESIDENTE. Onorevole Rodinò, io non posso intervenire per eccitare l’onorevole Sforza a fare le dichiarazioni ch’ella desidera, ma poiché le sue parole chiarissime e cortesi sono registrate a verbale, l’onorevole Sforza ne prenderà visione, e si regolerà come crederà.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Ho chiesto di parlare sul processo verbale, anzitutto per esprimere quanto ha già espresso il collega Rodinò; e quindi non ho che da associarmi alle sue parole e a quelle del Presidente. Ritengo che il Ministro degli esteri sia andato oltre il suo pensiero, come egli spiegherà.

In secondo luogo – e non so se questo possa riferirsi al processo verbale, in quanto è anche questione di caso personale – debbo rilevare che non mi sembra corretto che sui giornali vengano pubblicati i resoconti relativi alle nostre sedute segrete.

Ho chiesto di parlare, in quanto la questione mi riguarda personalmente, perché leggendo l’Unità di stamane ho rilevato – e mi permetto di farlo presente – che vi si trova un appunto relativo alla nostra seduta segreta di ieri sera. Io non avrei mai esposto le conclusioni cui noi siamo giunti, se non fossero state rese pubbliche in questa maniera. Si legge tra l’altro:

«L’onorevole Codacci Pisanelli (d. c. riempiva quindi di sé la seduta con un discorso definito nobile, in cui, affermando di voler mantenere integro il patrimonio morale lasciatogli dagli avi, si dichiarava contrario a qualsiasi aumento di indennità. Dalla sinistra gli si faceva notare che, probabilmente egli alludeva al proprio patrimonio materiale, ammontante, a quanto si dice, a svariati miliardi.

«La Camera approvava quindi l’aumento delle indennità secondo la proposta discriminante fra ricchi e poveri, presentata da Scoccimarro: partiva quindi da sinistra una osservazione poco rispettosa sulla «integrità» dell’onorevole Codacci.

«Tutto sembrava finito, ma ancora si notava nella Camera un movimento di diffuso nervosismo. Destre e centro parlavano concitatamente e proponevano di riporre in votazione la proposta Scoccimarro: il che veniva fatto col risultato che la proposta veniva questa volta bocciata. L’aumento d’indennità verrà così corrisposto finalmente anche al miliardario Codacci Pisanelli».

Poiché non ho nulla da nascondere, ritengo opportuno far presente che il patrimonio lasciato dai miei genitori è costituito da 78 ettari di terreno e una casa, terreno che essi hanno lasciato ai loro undici figli, di cui sono stato tutore.

Quindi prendano atto gli informatori dell’Unità, che tanta correttezza dimostrano, che non sarò nemmeno toccato dall’imposta patrimoniale, perché la quota di ciascuno non raggiunge il minimo previsto dalla legge.

Questo tengo a far presente. E se non ho risposto all’accusa contro la mia integrità, è stato perché potevo ben dire a chi l’ha scagliata, cioè al capo del più disciplinato partito d’Italia: da che pulpito viene la predica!

Ho accennato alla terra. Non ho accennato alla casa, alla casa che, con il suo lavoro, mio padre ha potuto lasciare a noi perché, se qualcuno dei figli avesse voluto dedicarsi poi all’attività politica, non avrebbe dovuto approfittare della sua posizione di governo per farsi assegnare come abitazione ville… di Federzoni.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli De Falco, Puoti e Vilardi non fanno più parte del Gruppo parlamentare dell’Uomo qualunque ed hanno chiesto di essere iscritti al Gruppo misto.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Passiamo allo svolgimento degli ordini del giorno.

Il primo è quello dell’onorevole Macrelli, del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente,

considerata la convenienza del sistema bicamerale;

ritenuto che – in coerenza con l’adozione dell’ordinamento regionale – la seconda Camera deve essere eletta su base regionale;

delibera

che il Senato della Repubblica sia costituito secondo i seguenti criteri:

1°) a ciascuna Regione sia attribuito, oltre ad un numero fisso di cinque senatori, un senatore per duecentomila abitanti;

2°) un terzo dei senatori assegnati a ciascuna Regione sia eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale;

3°) sia attribuita al Presidente della Repubblica la nomina di un ristretto numero di senatori (10-15);

4°) per l’eleggibilità a senatore sia fissata l’età di 40 anni;

5°) la libertà di scelta dei senatori non sia limitata mediante indicazione di categorie».

L’onorevole Macrelli ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è così chiaro e preciso che credo non abbia bisogno di molte parole a commento.

Premessa naturale e logica, derivante del resto dai principî morali e politici cui si inspira la dottrina del partito repubblicano, è l’affermazione della convenienza, starei per dire, della necessità, del sistema bicamerale.

D’altro lato, non può disconoscersi che la tendenza comune a quasi tutte le Costituzioni moderne è ed è stata quella di affidare il potere legislativo a due Camere, anche se alcune hanno voluto dare una maggiore preminenza alla Camera dei Deputati in confronto alla seconda Assemblea.

Noi crediamo però che – data la natura e le finalità del potere legislativo – debba affermarsi la piena parità di poteri dei due rami del Parlamento.

Uguaglianza di diritti e di doveri per l’una e per l’altra Assemblea: è questione di giustizia civile, morale, politica.

Altra affermazione di principio contenuta nel mio ordine del giorno è quella che del resto noi abbiamo consacrato nella legge costituzionale. Noi abbiamo creduto di dare una nuova struttura e quindi una nuova fisionomia, un nuovo volto caratteristico alla Repubblica italiana nata dal libero voto e dalla libera coscienza popolare il 2 giugno 1946, attraverso la ripartizione della Nazione italiana in Regioni: principio, questo, nettamente democratico e starei per dire rivoluzionario. Quindi era opportuno, era politicamente esatto che noi per la seconda Camera fissassimo questo criterio della base regionale, ed io penso e credo che l’Assemblea Costituente sarà unanime o quasi nel riconsacrare quanto del resto aveva accettato la Commissione dei 75.

Leggo infatti nella relazione dell’onorevole Presidente Ruini queste parole: «Nella molteplice gamma delle varie soluzioni la Commissione è stata quasi unanime nello stabilire che la seconda Camera debba avere base regionale in rapporto alla nuova struttura che viene introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione».

Le Regioni quindi dovranno avere (noi accettiamo quello che la Commissione ha proposto) ciascuna un numero fisso di 5 senatori ed un senatore per 200 mila abitanti, e saranno i Consigli regionali a nominare almeno un terzo dei senatori. Ma è legittima la domanda che tutti quanti noi ci siamo posti ed alla quale abbiamo cercato di dare, a seconda del punto di vista politico da cui partivamo, una risposta aderente alla realtà, alle necessità del momento ed anche alla nostra fede: e per gli altri due terzi come si provvede?

Le soluzioni prospettate in seno alla Commissione furono varie, come varie sono state quelle che altri colleghi hanno esposto all’Assemblea. Certo noi avremmo voluto affermare una nostra idea, una idea che risponde a quelle che sono le condizioni particolari, speciali della vita politica italiana in relazione anche a quelle che sono state le norme ormai segnate nella Carta costituzionale attraverso le discussioni che abbiamo fatto e attraverso gli articoli che abbiamo approvato.

Un nostro valoroso collega, appartenente al Gruppo repubblicano, ebbe a contrapporre il nostro pensiero a quella che era stata la proposta venuta, se non erro, dai rappresentanti di un grande partito, il democristiano, i quali avevano accennato alla possibilità che il Senato fosse l’espressione della volontà dei Consigli comunali o dei collegi di consiglieri comunali.

Il collega Perassi, a questo proposito, pensava – insieme a noi, naturalmente – che invece questa delega per la nomina dei Senatori fosse affidata ai rappresentati eletti a suffragio universale in ciascun mandamento o circondario della Regione, scelti fra gli elettori iscritti nei Comuni, del mandamento o del circondario, in proporzione agli abitanti, secondo le modalità determinate dalla legge. Badate, non è un principio nuovo: è stato accolto anche in altre legislazioni, in altre Costituzioni. Le nostre Commissioni hanno creduto di superare questa proposta. Con ogni probabilità, in sede di emendamento, dovremo ritornare sul problema ed allora discuteremo; ognuno esprimerà la propria idea e l’Assemblea emetterà la sua decisione.

Aggiungo di più: noi avremmo preferito anche non dimenticare l’altra tendenza comune alle legislazioni moderne, quella cioè di assicurare una rappresentanza degli interessi economici. Dopo la prima guerra mondiale quasi tutti gli Stati si sono indirizzati verso questa tendenza. Se voi guardate alla lontana America, agli Stati Uniti – questa grande repubblica democratica – voi trovate, per esempio, persino che la Camera di commercio (dico la Camera di commercio) in un certo senso è considerata quasi come la terza Camera del Congresso, in cui altri organismi professionali, sindacali, culturali, hanno un’importanza veramente considerevole nell’opera legislativa. Ma noi abbiamo compreso le opposizioni, abbiamo sentito e sentiamo le difficoltà.

La stessa relazione della Commissione dei Settantacinque segna in proposito le seguenti parole: «la difficoltà di organizzare i necessari congegni e di ottenere una «dosatura» fra le varie categorie rappresentate ha consigliato la Commissione (e la Commissione consiglia noi) di accettare quel testo che è sottoposto al nostro esame ed alla nostra eventuale approvazione».

Gli altri due terzi del Senato dunque saranno eletti a suffragio universale e naturalmente, aggiungiamo noi, col sistema proporzionale. Noi abbiamo assistito in questi ultimi giorni ad una schermaglia fra il collega Lussu e l’eminente collega Porzio a proposito del collegio uninominale.

Mi si dice anche che qualche partito d’importanza nazionale, nel senso materiale della parola, e cioè partito di massa, abbia intenzione di insistere sul principio del collegio uninominale a proposito della nomina dei senatori.

Finora nessun emendamento, a questo proposito, è stato presentato, che io sappia. Sarà presentato a suo tempo e discuteremo allora la questione.

Fin da questo momento io vi dico che noi siamo contrari al sistema di elezione col collegio uninominale.

Il sistema poteva essere comodo ed utile, vorrei dire aderente alla realtà, in altri tempi, quando la democrazia, la vera democrazia, quella che noi intendiamo veramente espressione della coscienza e della maturità del popolo italiano, era semplicemente un mito, quando le elezioni costituivano soltanto la espressione, la vittoria, in certi casi, delle caste e delle classi. Oggi il Paese ha assunto altra fisionomia; dopo la prima e la seconda guerra, dopo il tormento sofferto, l’anima del popolo è ben diversa; i lavoratori sono entrati in pieno nella vita politica, nella vita nazionale, ormai sono diventati gli arbitri, devono essere gli arbitri della vita del nostro Paese. Ed è bene, allora, che anche i partiti, i quali sono espressione della coscienza popolare, dicano alta la loro parola, soprattutto quando si tratti di nominare i rappresentanti di un popolo nelle future Assemblee legislative, le quali dovranno continuare l’opera, che noi modestamente ma tenacemente abbiamo perseguito.

Quindi, non collegio uninominale, ma suffragio universale col sistema della proporzionale, sistema di democrazia e di giustizia, civile e politica.

Ma, nonostante queste mie parole, che vi potranno sembrare espressione dell’animo di un uomo un po’ idealista e sentimentale, il quale non dimentica la tradizione del partito cui appartiene, nel mio ordine del giorno ho segnato un’altra cosa, che non dovrà, io penso, portare un senso di meraviglia in voi, onorevoli colleghi.

All’articolo 55 del progetto di Costituzione si parla di Camera dei senatori. Io mi associo alle osservazioni e alle proteste fatte ieri dall’onorevole Nitti. Perché Camera dei senatori? C’è una tradizione italiana, romana e latina; c’è l’affermazione della volontà di tutti i popoli in materia costituzionale. Si è parlato sempre di Camera dei deputati, ma si è parlato anche sempre di Senato, e allora perché vogliamo proprio noi, in questa nostra nuova Costituzione, nella Costituzione della Repubblica italiana, parlare di Camera dei Senatori? Parliamo dunque di Senato e di Senato della Repubblica.

Dicevo dunque: la seconda Camera, il Senato della Repubblica, sia costituito secondo i seguenti criteri: 1°) a ciascuna Regione sia attribuito, oltre ad un numero fisso di 5 senatori, un senatore per 200.000 abitanti; 2°) un terzo dei senatori assegnati a ciascuna Regione, sia eletto dal Consiglio regionale ed il resto a suffragio universale. Ho detto in proposito il mio pensiero succintamente, tralasciando i particolari. Il Regolamento fissa in venti minuti il limite di tempo per svolgere un ordine del giorno. Mentre parlo guardo sempre il quadrante dell’orologio, ed ora stanno per scoccare i venti minuti e l’illustre Presidente sta per interrompermi, sebbene appartenga al mio Gruppo. (Si ride).

Onorevoli colleghi, nell’ordine del giorno c’è una proposta che credo finirete per approvare, anche se non è in relazione a quello che vi ho detto prima: sia attribuita al Presidente della Repubblica la nomina di un ristretto numero di senatori. Per acquietare poi le coscienze timorate di qualche collega o di molti colleghi, ho posto tra parentesi due cifre: 10-15. Deciderete voi, ma io ho voluto affermare il principio, soprattutto per una ragione: se per l’articolo 86 del progetto di Costituzione il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e, su proposta di quest’ultimo, nomina i Ministri, io penso che a maggior ragione egli possa avere il diritto di scegliere alcuni senatori.

Badate che io pongo questa mia proposta in relazione all’ultima parte dell’articolo 56 del progetto, la quale comprende una elencazione di categorie di persone tra le quali debbono essere scelti i senatori. Se guardate l’ultima parte del mio ordine del giorno troverete che io chiedo sia lasciata piena libertà di scelta per gli elettori; quindi nessuna indicazione di categorie; la nomina dei senatori non deve avere limiti di sorta. Noi pensiamo che i cittadini italiani possano e debbano nominarsi i loro rappresentanti secondo la loro coscienza e la loro fede, starei per aggiungere anche secondo il loro interesse. Ma la legge, e soprattutto la legge costituzionale, dopo aver affermato quei principî etico-politici, che noi già abbiamo consacrato, non può né deve porre limiti di nessuna specie.

Orbene se voi rileggete la confusa elencazione dell’articolo 56 (che non è, badate, solo indicativa, ma è tassativa), voi vedrete che esiste una lacuna, alla quale si è accennato incidentalmente anche stamattina in una discussione molto vivace svoltasi nell’Assemblea, ed è una lacuna a cui possiamo ovviare soltanto con la proposta che vi abbiamo fatto; noi pensiamo cioè che ad un certo momento il Presidente della Repubblica, cioè la più alta autorità dello Stato, possa scegliere alcuni senatori, almeno fra coloro che onorano la Patria con alte benemerenze scientifiche ed artistiche.

Leggete l’articolo 56, onorevoli colleghi, e guardate le categorie in elenco. Potremmo fare della critica e della facile critica, non dico demagogica, ma una critica che porterebbe alle mie parole il vostro consenso. Io mi fermo alla prima parte, ove è l’accenno ai decorati al valore nella guerra di liberazione 1943-45. E quelli della guerra 1915-18? Signori, io appartengo ad un partito, che ha dato dei volontari nelle Argonne ed in Serbia, nel Carso e nell’Isonzo: dovunque hanno pagato col loro sangue. Questi sono dimenticati. La guerra del 1915-18 non esiste per i nostri legislatori, non esiste per la Commissione dei Settantacinque.

Ora, noi non vogliamo qui stabilire rapporti tra categoria e categoria, tra persona e persona, tra classe e classe. Ecco perché, per una ragione superiore morale, diciamo: nessuna limitazione, nessuna elencazione.

L’articolo 56 deve parlare soltanto della composizione della Camera dei senatori o, meglio, del Senato della Repubblica, senza fissare limiti, senza stabilire norme per le categorie da cui i senatori si devono scegliere. E poi affidando al Presidente della Repubblica la prerogativa cui accenna il mio ordine del giorno, pensiamo di non urtare contro il principio della sovranità popolare; pensiamo anzi di dare una più alta espressione all’autorità, alla dignità del Capo dello Stato ed anche un maggior prestigio alla seconda Assemblea legislativa della Repubblica italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Condorelli ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

affermata la necessità di uno Stato libero e forte, di un potere legislativo idoneo al sufficiente esercizio della sua funzione, di organi adatti ad assicurare l’equilibrio e la stabilità della vita costituzionale,

passa all’ordine del giorno».

Ha facoltà di svolgerlo.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, io appartengo alla non esigua schiera di coloro che, sebbene non sia di moda, hanno un profondo rispetto per la legge costituzionale che andiamo a sostituire, profondo rispetto per quella legge costituzionale che espresse il regime, l’ordinamento sotto il quale l’Italia, già divisa, serva dello straniero, poté assurgere all’unità, e nel giro di mezzo secolo divenire una grande democrazia protagonista di storia.

Io perciò con grande timore e tremore mi accosto a quella legge per osservarne le ragioni di conservazione e le ragioni di modificazione. Ma pur avendo uno stato d’animo simile, al cospetto di quella veneranda Carta costituzionale che ha retto il mio Paese per quasi un secolo, riconosco tuttavia che in essa, nel corso del processo costituzionale che si era svolto nel nostro Paese verso la fine del secolo scorso e poi nel primo ventennio del presente, si erano determinati tre difetti sostanziali, difetti per altro comuni a tutte le Costituzioni di quel tipo.

Il primo difetto è la inadeguatezza del potere legislativo alla sua funzione; il secondo è quello che sembra fatale, della instabilità del Governo; il terzo è quello di una disfunzione, di una incapacità che hanno questi apparati costituzionali ad esprimere delle garanzie sufficienti, adatte ad assicurare l’equilibrio e la stabilità della stessa vita costituzionale.

Io esaminerò, col consenso del Presidente, partitamente questi tre difetti. Cercherò di individuare i rimedi affrontati dal progetto contro di essi e li valuterò criticamente anche al fine di presentare qualche precisa proposta.

Il primo difetto è indiscutibile. I Parlamenti sono ormai divenuti incapaci alla funzione legislativa. Se qualcheduno fuori di qui potrebbe avere dubbi in proposito qua dentro nessuno potrebbe averne. E la ragione è ovvia: senza pensare ad una decadenza dei Parlamenti (eppure ci si potrebbe pensare), bisogna pur riconoscere che lo Stato nell’epoca moderna ha allargato immensamente la cerchia dei suoi fini e perciò della sua attività e perciò anche delle leggi che devono regolare questa attività in quanto diretta ai fini più varî. Perciò quel fenomeno che fu detto di elefantiasi legislativa, che esattamente non è elefantiasi perché non è una disfunzione, è la necessità di una più vasta, di un’immensa, di una ciclopica funzione. Lo Stato deve legiferare costantemente nella vita di oggi ed è evidente che non vi può essere Parlamento che possa seguire questo moto così veloce della legiferazione. L’onorevole Clerici nel suo notevolissimo discorso ci ha dato delle cifre, cifre assai significative, che tutti quanti conoscevamo se non nella esattezza numerica, nella evidenza del fenomeno.

I Parlamenti non possono assolvere tutti i loro compiti legislativi ed allora è chiaro che i Parlamenti così come sono costituiti sono incapaci a legiferare.

Che rimedio si era trovato? Il rimedio si era trovato sotto il precedente regime costituzionale: le deleghe legislative sempre più vaste, e i decreti-legge. Dico subito che erano espedienti. Malgrado lodevoli sforzi della dottrina, non era facile dimostrare che la delega legislativa ed il decreto-legge potessero andare d’accordo con la lettera dello Statuto. Ma c’era la necessità, l’impossibilità di fare diversamente, e, giustificati sotto formula scientifica più o meno esatta, avevano prestato un fondamento giuridico a questa realtà di fatto inoppugnabile.

Che cosa si è fatto nel progetto? Si è fatto, anzi si è progettato, il nobile tentativo di restituire integralmente ai Parlamenti la funzione legislativa, al punto che si prevedono soltanto le deleghe legislative, ma per casi e tempi determinati, escludendo perciò, implicitamente, le deleghe generali e si escludono, col silenzio, i decreti-legge. Si discuterà forse dai futuri, se il progetto passerà, se e come il decreto-legge è stato abolito.

Io penso che formalmente sarebbe abolito, perché quando la nuova legge non prevede un istituto già esistente, già riconosciuto e regolato con legge, bisogna dire che, col totale riordinamento della materia, ha voluto abolire quell’istituto. Ma sono sicuro che la prassi prima, la dottrina poi, ridaranno vita al decreto-legge, perché non è possibile farne a meno.

Ed allora, tanto vale prevederlo senz’altro: prevediamo il decreto-legge e discipliniamolo in modo che non si possano verificare degli abusi. Prevediamo che in caso di guerra, di pubblica calamità, in materia fiscale, quando vi sia grave pericolo di un ritardo, il Governo ha la facoltà di emettere norme giuridiche aventi valore di legge, salvo la presentazione al Parlamento entro un brevissimo termine.

E poi, bisogna finalmente decidersi ad adottare un sistema attraverso il quale i Parlamenti possono salvare la loro funzione legislativa: quello delle commissioni. I Parlamenti in seduta plenaria non possono legiferare; possono legiferare soltanto quelle poche volte in cui è proprio necessario legiferare in questa forma. Ma io non vedo quale esigenza di democrazia si oppone a che leggi ordinarie, leggi che non presentino un profondo interesse politico o costituzionale, possano essere votate da commissioni costituite proporzionalmente alla formazione dei vari partiti rappresentati in un Parlamento.

Si potrebbe anche stabilire una serie di materie nelle quali non è possibile adottare questo sistema: nella serie rientrerebbero certamente la materia costituzionale, la materia fiscale e la legge di approvazione del bilancio.

Si potrebbe anche stabilire che, ove nelle commissioni non si raggiungessero certe maggioranze, vi fosse la possibilità di un esame plenario-da parte della Camera. Ma, indubbiamente, il sistema ordinario di formazione della legge deve essere quello delle commissioni, altrimenti il Parlamento, per voler molto fare, per voler rivendicare a sé la funzione legislativa, la perderà totalmente.

Un’altra deficienza, come accennavo, nel nostro ordinamento costituzionale, è stata quella dell’instabilità dei governi. È inutile illustrarla; è risaputa, anzi si può dire che è questa la crisi permanente di un certo tipo di Stati.

Ora, certamente, i redattori del progetto si sono preoccupati di questo inconveniente ed hanno avvisato per combatterlo dei sistemi, o meglio dei piccoli accorgimenti. E trovo strano che si sia financo protestato perché si è stabilito che per presentare una mozione di sfiducia è necessaria l’adesione di tanti deputati che costituiscano il quarto dei componenti la Camera. Io penso che una mozione che abbia un qualsiasi fondamento, che abbia una qualsiasi rispondenza alla situazione obiettiva delle cose e che abbia anche una rispondenza a quelle che possono essere le speranze di una sua affermazione, troverà facilmente un quarto dei deputati che vi aderiscano; non si muove all’attacco di un Governo se non si è perlomeno sicuri, in partenza, dell’adesione della quarta parte dei deputati. Poi, strada facendo, si potranno trovare gli altri; ma che all’inizio di un’azione di questo genere non si possa disporre di questo quarto, può essere prova della capricciosità, della tatticità inutile di una mozione, ed è giusto che essa non sorga a turbare la vita del Paese.

Un altro accorgimento che si è escogitato è quello del diritto di appello che avrebbe il Governo all’Assemblea Nazionale; ove, infatti, non si volesse rassegnare al voto di sfiducia di una delle Camere, un articolo del progetto prevede che il Governo possa appellarsi all’Assemblea Nazionale, cioè ai due rami del Parlamento riuniti. Questo accorgimento è veramente discutibile, perché tutto dipende da come sarà formato il Senato: vogliamo chiamarlo senz’altro così perché è pensabile che la nuova denominazione avrà la vita stessa del progetto. Se infatti si parla di senatori, è chiaro che vi debba essere un Senato, senza del quale non vi potrebbero essere i senatori.

Tutto dipende dunque, dicevo, da come questo Senato sarà formato. Se questo Senato sarà, come è stato previsto nel progetto, quasi un doppione della Camera dei Deputati, nulla di male che queste due Camere, come dicevano i pubblicisti del Cinquecento, si raccozzino insieme. In fondo, c’è da supporre che isolatamente ognuna delle due Camere voterebbe come voterà il complesso delle due insieme, perché lo schieramento delle forze nei due rami del Parlamento sarà pressappoco eguale.

Se però si introducessero alcuni o molti dei criteri di nomina dei senatori che si vanno proponendo, talché il Senato non sarebbe, nella sua composizione, omogeneo con l’altra Camera, questo raccozzamento non sarebbe possibile perché non si possono sommare valori eterogenei. È chiaro infatti che la rappresentatività della volontà espressa dalla Camera dei Deputati eletta a suffragio popolare non sarebbe omologa con la rappresentatività della volontà espressa da questo corpo che non è completamente elettivo e comunque non poggiato sul suffragio universale.

Io non posso per altro riconoscere che questi accorgimenti abbiano risoluto il problema: al contrario, questo grave problema della instabilità dei Governi rimane aperto. Saranno probabilmente i futuri legislatori che lo potranno risolvere o forse, lo potrà il costume politico. Si sarebbe potuto pensare ad un Capo del Governo eletto o dal popolo direttamente o dalla Camera elettiva: eletto per un determinato numero di anni. Ma allora sarebbe stata necessaria l’esistenza di un Capo dello Stato – se non si fosse voluto arrivare ad una repubblica presidenziale, perché in Italia questa è da tutti generalmente esclusa – di un Capo dello Stato, dicevo, che avesse tali poteri da poter garantire la stabilità della Costituzione di fronte al grande vigore del Capo del Governo che potrebbe divenire pericoloso per l’equilibrio della Costituzione. Ma non sono riforme, queste, che entrino nell’orizzonte attuale della nostra politica. Il problema, ripeto, rimane insoluto e temo che sia la tabe che comincerà a rodere il nostro edificio costituzionale nel momento stesso in cui lo facciamo nascere. Noi ci dobbiamo dichiarare impotenti, o per lo meno constatare che il progetto, per il sistema adottato, è impotente a risolvere questo, che era forse il problema più importante della Costituzione. Sarà stata colpa più degli eventi che degli uomini, ma il fatto, obiettivamente, è certamente questo: il popolo italiano si attendeva soprattutto un Governo stabile, un Governo che governasse. Da questa Costituzione, fondata per giunta sul suffragio universale proporzionale – parlo essenzialmente del proporzionale – non potranno venir fuori in nessun caso dei Governi stabili che possano esplicare una duratura, e così solo efficace, attività. Chi diventa Ministro, prima che si impossessi delle fila dell’Amministrazione, deve prepararsi a sgombrare i cassetti e a lasciare il posto al successore.

Vi è poi il terzo difetto, che il progetto ha ereditato in pieno dalla Costituzione precedente, così come si era conformata nell’ultimo periodo della nostra vita pubblica: quello dell’instabilità e del disquilibrio della nostra vita costituzionale. È da tutti risaputo che la Costituzione albertina aveva predisposto un sistema rappresentativo puro, che viceversa fu immediatamente applicato come un sistema rappresentativo parlamentare. Le spiegazioni dottrinali dell’instaurazione di questo diverso sistema sono varie, ma sulla diagnosi non vi è dubbio; vorrei dire, sulla classificazione di questo sistema. Indubbiamente si era instaurato in Italia un sistema rappresentativo parlamentare nel quale domina questa caratteristica: la preminenza del Parlamento nella direzione della vita politica del Paese. Il Parlamento, anzi, la Camera elettiva, è chiamata a stabilire l’indirizzo della politica dello Stato e del Governo, e a sorvegliarne l’applicazione. Il Senato, la Corona, che prima erano elementi costitutivi della volontà statuale a titolo uguale, per lo meno nella teorica dello Statuto, colla Camera elettiva, si trasformarono da elementi frontistanti, cooperanti alla pari, in elementi di controllo, in vere e proprie garanzie costituzionali, dirette proprio a garantire la stabilità e l’equilibrio della vita costituzionale; ma l’indirizzo, la volontà decisiva, era certamente la volontà della Camera dei deputati.

Ora, è curioso guardare e le origini e il movimento e la direzione e i risultati ottenuti da questa evoluzione del principio democratico. Avvenne che proprio per l’azione del principio democratico vennero a mano a mano vuotandosi di potere quegli altri due organi che dovevano funzionare da controllo; ed allora mancarono quelle tali garanzie di stabilità che la legge pure avvisava. E sarebbe bastato – come bastò – che un partito o il capo di un partito, si impossessasse in un modo qualsiasi della maggioranza parlamentare, perché la Costituzione venisse immediatamente trasformata, perché lo Stato libero e costituzionale tramontasse da noi. È noto come ciò avvenne: la dittatura in Italia non fu instaurata con la marcia su Roma, e su questo siamo tutti d’accordo; ed io sostengo che non fu neanche instaurata nel gennaio 1925, fu instaurata con la legge elettorale del 1923, con quella legge elettorale che consegnò la Camera dei Deputati e per sempre, al partito fascista.

Che cosa potevano fare le garanzie costituzionali di fronte ad un simile voto della Camera dei deputati, che era Camera eletta nel 1921, in piena democrazia, con sistemi democratici? E il Senato avrebbe potuto dire no a quella legge, o lo avrebbe potuto dire la corona?

Evidentemente tutto ciò era fuori di ogni possibilità, non solo politica ma giuridica, proprio perché le garanzie di stabilità della nostra vita costituzionale erano state cancellate dallo svolgimento avuto dal processo della democrazia. E non è la prima volta che, dando luogo ad un fenomeno di eterogenesi dei fini, le tendenze verso una certa meta raggiungono meta assolutamente opposta.

Che cosa ci sarebbe voluto per impedire tutto ciò? Una Costituzione rigida ed un organo capace, non soltanto in diritto ma anche di fatto, di farla rispettare, un organo che avesse il potere non solo giuridico, ma anche reale, di fare rispettare la Costituzione.

Viceversa noi avevamo che un postulato della democrazia, in nome della libertà, era appunto la Costituzione flessibile; che un altro postulato della democrazia era la riduzione del potere regio e l’accentuarsi invece del potere proveniente dalla base, proveniente dal popolo.

Allora voi vedete come proprio due conquiste della democrazia furono la causa del seppellimento della democrazia in Italia.

Ora, noi che cosa abbiamo fatto di fronte a questa dura lezione della storia? Abbiamo avvisato le garanzie costituzionali, dirette ad affermare la stabilità di questa Costituzione, che pure abbiamo fatta e voluta rigida? A me pare assolutamente di no.

Io non ripeterò qui, perché lo sciuperei, quello che disse il comune maestro Vittorio Emanuele Orlando in un discorso pronunciato in quest’Aula in sede di discussione generale sulla Costituzione. Egli vi ha dimostrato con l’evidenza come, data questa Costituzione, noi marciamo con la massima facilità verso un totalitarismo; perché in sostanza questa Camera dei deputati è espressione del popolo (ed è giusto che lo sia), ma essa non trova nessun contrappeso nel Senato che pur si è voluto (si è adottato il bicameralismo, proprio per questa ragione); ma il Senato non potrà assumere nessuna funzione equilibratrice perché è composto su per giù come la camera dei Deputati, in esso si agitano le stesse forze e le stesse tendenze. Esso, ad un determinato momento, al momento della frana, sarà un materiale che accrescerà la valanga!

Si è provveduto – come si doveva provvedere necessariamente – a porre un Capo dello Stato, che dovrebbe essere un’altra garanzia della Costituzione? Ma sì: intanto esso non ha il prestigio di un re.

Beh, gli amici repubblicani non riconoscono il prestigio di un re, ma le folle, le masse, in genere lo riconoscono. I risultati del recente referendum, che appaiono quasi per metà favorevoli alla monarchia, furono, proprio secondo la tesi repubblicana, effetto del prestigio della monarchia; poiché non li volete attribuire ad un cosciente convincimento monarchico, dovete attribuirli alla sentimentalità delle masse. Indubbiamente sulle masse agisce ed ha sempre agito questo prestigio della monarchia.

Voi, dunque, avete nel progetto un Capo dello Stato che non ha il prestigio della monarchia, e non ha neanche i poteri giuridici sufficienti. Avete detto, nel progetto, che il Presidente della Repubblica rappresenta l’unità nazionale. È un errore giuridico. Non la rappresenta, perché la differenza fra la Monarchia e la Repubblica è proprio questa: che il Re non è rappresentativo di una Camera o di un corpo, mentre invece il Presidente della Repubblica è rappresentativo dell’Assemblea, del corpo che lo elegge. Il Presidente della Repubblica, è rappresentativo dell’Assemblea Nazionale…

Una voce a sinistra. E del popolo…

CONDORELLI. No, secondo il sistema del progetto è rappresentativo soltanto dell’Assemblea, quindi non è affatto rappresentativo dell’unità nazionale. Non la rappresenta dunque giuridicamente e non la rappresenta neanche storicamente, perché evidentemente fra un Presidente della Repubblica e la Nazione manca quel nesso storico ed organico che avvince una dinastia al suo popolo. Non c’è rappresentanza né giuridica né storica. Rimane, quella in discorso, una affermazione vuota che vorrebbe creare il mito, l’aureola attorno alla testa del Capo dello Stato, ma non ci può riuscire. È contro tutta quanta la realtà. Io mi sforzo di mantenermi in un ambiente teorico e scientifico…

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, mi duole che io debba farle osservare, proprio a questo punto, mentre cioè sta facendo propaganda monarchica… che ella ha da tempo superato i venti minuti.

CONDORELLI. Io faccio osservare che mi ero iscritto a parlare prima, poi si chiuse la discussione per quel fenomeno di ghigliottina…

PRESIDENTE. No, onorevole Condorelli, non usi questa espressione. Non erano presenti i deputati iscritti.

CONDORELLI. Non era assolutamente una censura alla Presidenza che volevo fare, signor Presidente. Avvenne di fatto così. Ma ebbi l’assicurazione dalla Presidenza che io avrei potuto svolgere ugualmente il mio pensiero. Del resto non chiedo molto tempo ed assicuro la Camera che sono alla fine.

RUSSO PEREZ. È bene che un Presidente repubblicano conceda più dei venti minuti regolamentari ai monarchici.

CONDORELLI. Dunque io dicevo questo: il Capo dello Stato non ha il prestigio di un monarca, non è niente affatto un rappresentante dell’unità nazionale…

Una voce a sinistra. Che cosa rappresenta?

CONDORELLI. È soltanto un magistrato.

Ha il comando delle Forze armate, ma un comando che non potrà mai esercitare neanche formalmente, neanche in apparenza, per la sua preparazione civile e politica.

Voci. E il re?

CONDORELLI. Lasciamo andare. Comunque l’ascendente che questi re avevano sulle Forze armate era notevolissimo e fu essenziale anche nella guerra di liberazione.

Avete tolto al Capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. Qualcuno con la solita mentalità giacobina, che guarda le cose secondo la logica formale e appunto perché formale non tocca la concretezza delle cose e perciò erra, ci dirà: «ma che cosa è in pratica questa sanzione? Il re non la rifiutava mai». Dio mio! Ma ci sono dei freni repressivi e ci sono dei freni preventivi. Questa sanzione del re, che non poteva mai mancare, era comunque un freno preventivo. Si inducevano le Camere, per lo meno sotto l’aspetto della contingenza politica, a non andare al di là di certi limiti oltre i quali non si poteva sperare la sanzione sovrana. Ed allora questo valeva per limitare il debordamento, se non per impedirlo.

La sanzione affidata al Capo dello Stato potrebbe avere questa funzione. Invece lo si è totalmente estraniato dalla funzione legislativa, che è poi la funzione più augusta dello Stato.

Forse si pensa di poter affidare la funzione di equilibratrice e di garante della Costituzione a quella famosa Corte Costituzionale, che è una delle grandi novità del Progetto. Se c’è qualcuno che s’illude che questa onorata riunione di avvocati, di professori e di magistrati, scelta proprio dal Parlamento che dovrebbe controllare, possa fermare domani un travolgimento costituzionale, io non posso che dolermi e condolermi con lui: è fuori della realtà. Potrà annullare qualche legge di secondaria importanza, così, come qualche tribunale dichiara incostituzionale una legge. D’ora innanzi lo farà questa Corte altissima, il più delle volte per rinvio da parte della magistratura ordinaria; ma credere che essa possa esercitare la funzione di stabilizzatrice della Costituzione è una utopia, è un assurdo.

Credetelo pure, la vita moderna è controsegnata da un fenomeno che io chiamo: Stato di masse, non in senso dispregiativo, ma in senso positivo; perché nell’epoca moderna le masse sono penetrate nella cittadella dello Stato. Ed è bene che sia così, perché da ciò non può non accrescersi la forza dello Stato. Però gli Stati di masse, i partiti di masse, le masse, hanno una tendenza – sociologicamente constatata – a produrre dei dittatori, e questo si dimostra storicamente e logicamente.

Si dimostra storicamente perché tutti i dittatori, da Giulio Cesare a Stalin o Mussolini, sono capi di grandi partiti popolari. Si dimostra logicamente, perché è chiaro che le masse non possono governare direttamente; non possono governare che attraverso il capo che più facilmente si esprime dalle masse, perché trova meno rivali. Viceversa le altre classi, gli altri partiti, si esprimono in oligarchie, che poi sono le avversarie naturali di queste dittature; tanto è vero che queste dittature sorgono abbattendo le oligarchie e cadono sotto il pugnale di Bruto che è espressione non di democrazia ma di oligarchia.

È questa la lotta continua – per legge sociologica – fra dittatura e oligarchia. Tutto sta a creare delle oligarchie, delle «élites» – come direbbe Pareto – legittime, che siano cioè, espressione della volontà e dell’interasse popolare; se no, non c’è altra via che la dittatura. Sono questi dittatori che riescono ad essere e a far credere di essere i ministri dell’interesse del popolo. Quale rimedio c’è? C’è un solo rimedio contro questo fenomeno ricorrente nell’età moderna: il Capo dello Stato che attinga il suo potere non dallo stesso principio da cui lo attinge il capo del partito di massa, ma dalla legge…

Una voce a sinistra. Divina!

CONDORELLI. …dalla legge stessa, dalla legge umana, investito direttamente dalla Costituzione, come ogni re moderno è rex ex lege. Un Capo di Stato, che esprima non un corpo, non un partito, non una massa, ma lo Stato unitariamente inteso, come volontà di diritto, e fornito di poteri reali, adeguati ai poteri formali e giuridici.

Riconosco che questa Camera non poteva creare un Capo dello Stato così fatto. Ma perciò, a mio avviso, ha fallito al suo compito.

Vi sono dei rimedi? No. Vi sono degli attenuativi, dei palliativi, degli espedienti, che suggerisco, così come la mia modesta indagine me li ha potuto suggerire. Appartenendo ad uno schieramento opposto, non avrei nessun interesse a collaborare alla formazione di questo istituto, ma in me grida soprattutto il sentimento di devozione allo Stato; e non posso volere che trionfino i miei ideali politici attraverso una catastrofe. Comunque, io vi suggerisco quello che, secondo il mio sincero convincimento, potrebbe attenuare questo difetto indiscutibile della nostra Costituzione.

Voi credete di non poter attribuire al Capo dello Stato il potere di sanzionare le leggi. Però, indubbiamente, se ne può attribuire uno, che, del resto, è già attribuito, in un certo senso, al Capo dello Stato.

Un articolo del progetto prevede che, quando esista disparere fra le due Camere – perché una respinga o comunque non approvi quello che l’altra ha votato – è possibile che il Capo dello Stato senta il popolo, perché dirima il contrasto verificatosi. Perché non attribuire al Capo dello Stato la facoltà di appellarsi al popolo? Anzi, non di appellarsi (perché non è necessario che ci sia un notamento di censura), di sentire la volontà del popolo, di fronte ad una legge, votata dai due rami del Parlamento, che gli lasci dei dubbi. Sarebbe un correttivo molto efficace; uno di quei tali freni preventivi; avrebbe quasi quella funzione pedagogica, che tante volte abbiamo invocato in questa Costituzione; renderebbe le Camere più attente nella interpretazione della volontà popolare, perché potrebbero temere la sanzione politica dell’annullamento di una legge da esse votata. E non mi pare che la democrazia sarebbe minimamente scalfita da una disposizione di questo genere, perché l’appello è all’origine del potere, è proprio al popolo.

Un altro rimedio è quello del Senato.

È veramente interessante come i partiti, che coscientemente o nel sub-cosciente sono totalitari – ritengo nel sub-cosciente, perché coscientemente totalitario non è nessuno in questa Camera – sono contrari sia ai poteri del Capo dello Stato, che vorrebbero ulteriormente ridotti, sia a questa seconda o prima Camera.

Ora, a mio giudizio, questa seconda Camera ormai non si può più discutere, quale che fossero in partenza le opinioni, perché c’è un fatto compiuto, che è quello delle Regioni. Si dice che in uno Stato federale il Senato è una esigenza di fatto: deve esserci necessariamente. Forse non abbiamo fatto uno stato federale ma soltanto regionale, che però si differenzia dallo stato federale solo per alcune sfumature. Noi non possiamo però, adesso, fare a meno di dare il completamento necessario, quale che sia stato il nostro atteggiamento di fronte al problema delle autonomie regionali, e di approvare necessariamente questa Camera delle Regioni o Senato. E dico che in fondo è anche bene che si sia trovata nel sistema questa ragione per dare una specifica funzione al Senato, che altrimenti forse ne sarebbe stato privo. Il Senato dovrà funzionare essenzialmente come Consiglio, come Camera delle Regioni, perché sarebbe invanito questo ordinamento regionale che si esaurirebbe alla periferia, se non avesse l’organo della sua difesa e della sua direzione proprio nell’organismo costituzionale centrale. Cosa se ne farà questa Regione dell’autonomia in materia di caccia, di pesca, di insegnamento professionale e tecnico, di urbanistica, magari anche in materia finanziaria, quando c’è un articolo 37 della Costituzione già approvato, che dice che con leggi si possono stabilire i programmi economici, cioè si può determinare la politica economica dello Stato?

Tutti noi sappiamo qual è l’origine vera della sperequazione tra regione e regione, tra Nord e Sud: è proprio la politica economica dello Stato. Non vi pare ora provvidenziale che al centro ci sia un elemento che possa autorevolmente intervenire in questa materia? Bisogna, secondo me, visto che le Regioni ci sono, che ci sia proprio per legittima difesa di queste Regioni, proprio nell’ambiente nel quale è necessario difenderle (come ci dimostra una triste esperienza ormai vecchia), questo organo essenzialmente destinato alla difesa economica delle Regioni, più che alla difesa costituzionale. Base regionale, dunque, del Senato, che darà funzione, vigore ed autorità al Senato, che altrimenti non ne avrebbe nessuna. E poi nulla esclude che a questo principio di rappresentanza regionale si possa anche associare il principio della rappresentanza di interessi: potrebbero benissimo essere combinati ed associati. Così avremmo creato un organo che ha funzioni sue, che gli darebbero tono e forza.

Io, onorevoli colleghi, ed ho finito, credetemi, contrariamente a quanto ha pensato il Presidente, sono stato mosso a queste mie osservazioni esclusivamente dal sentimento della devozione al mio Paese, che voglio ordinato in uno Stato libero e forte. È soltanto questo che mi ha diretto ed ha ravvivato questa mia volontà, nel momento in cui per effetto del deposito delle ratifiche che hanno dato un apparente crisma di legalità al protocollo di Parigi, si affondano i ferri di questi moderni Shylock nelle carni vive del popolo italiano. Noi, o colleghi, siamo italiani e proprio per vocazione nazionale, che ebbe sì alta espressione in Giuseppe Mazzini ed in Pasquale Stanislao Mancini, aspiriamo ad un mondo in cui col rispetto di tutte le parti, compresa la nostra, abbia finalmente pace questa umanità martoriata ed abbia fine il calvario della Nazione italiana. Ma se ciò non potesse avvenire, se questo sogno atavico della nostra stirpe non si dovesse verificare, non pensi alcuno che possano stabilmente essere separati da noi i nostri fratelli, quelli che fanno parte organicamente di questa Nazione italiana, che fra qualche anno sarà composta di 50 milioni di uomini, volitivi e coscienti. Noi, di fronte a questa tragedia, abbiamo un dovere preciso: creare uno Stato forte e libero, organizzare una società nazionale giusta e concorde, per la quale sia dolce e santo vivere e morire, potenziare la nostra cultura, ciò che possiamo e dobbiamo, secondo lo spirito universale di San Francesco, di Dante, di Galileo, in modo che si accresca in tutti gli italiani, al di qua ed al di là delle frontiere, l’orgoglio ed il desiderio della Patria. E questo sarà la garanzia del nostro avvenire, il pegno della sola riscossa che noi vogliamo. Incominciamo oggi, creando quello che a noi è demandato: uno Stato libero e forte. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Piccioni ha presentato il seguente ordine del giorno firmato anche dall’onorevole Moro:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che l’esistenza di una seconda Camera accanto a quella eletta a suffragio universale indifferenziato risponde alla necessità di integrare la rappresentanza politica, in modo che essa rispecchi la realtà sociale nelle sue varie articolazioni e tutti gli interessi politicamente rilevanti ed assicuri inoltre al lavoro legislativo, divenuto sempre più tecnicamente qualificato, il concorso di speciali competenze,

ritiene

che queste finalità si raggiungono, chiamando a partecipare alla seconda Camera i gruppi, nei quali spontaneamente si ordinano le attività sociali;

che tale rappresentanza deve essere realizzata – secondo un criterio di ripartizione a base territoriale regionale – con metodo democratico, mediante elezioni a doppio grado alle quali concorrano tutti gli appartenenti alle categorie sociali e in modo da promuovere la coordinazione degli interessi dei gruppi con l’interesse generale;

che la ripartizione dei seggi deve obbedire di massima al criterio della proporzione con l’entità numerica delle categorie ed insieme a quello della maggiore responsabilità del lavoro qualificato».

Ha facoltà di svolgerlo.

PICCIONI. Onorevoli colleghi, della vasta materia dei tre Titoli del progetto di Costituzione che sono in discussione, voglio limitarmi a considerare soltanto il problema della seconda Camera che è un problema, come è stato già detto da più parti, per molti aspetti di particolare e vitale importanza per il nuovo ordinamento democratico che noi stiamo costruendo.

Io credo di potervi risparmiare qualsiasi dissertazione intorno alla necessità, alla opportunità e convenienza del sistema bicamerale, perché se è vero che ci fu in seno alla Sottocommissione una discussione piuttosto animata anche a questo riguardo, nella discussione generale, che è avvenuta qui in questi giorni, mi pare che non vi siano state forti opposizioni, se non forse quella dell’onorevole Lussu, il quale mi pare che un po’ improvvisamente si sia convertito al sistema unicamerale.

LUSSU. L’ho sempre sostenuto in sede di Sottocommissione; solo che gli altri erano in maggioranza.

PICCIONI. Mi pareva che nella Sottocommissione fosse stato proposto dall’onorevole Lussu uno speciale ordine del giorno, che prevedeva la seconda Camera come Camera delle Regioni.

LUSSU. Era una proposta subordinata.

PICCIONI. In ogni modo, è inutile polemizzare, mi pare, a questo riguardo poiché le opposizioni si riducono, con tutto il riguardo verso l’onorevole Lussu, a ben poca cosa dal punto di vista della valutazione del progetto medesimo.

Ora, perché si ritenga in una democrazia moderna necessaria anche la seconda Camera, non starò a ripeterlo; lo ha illustrato ieri l’onorevole Ambrosini molto acutamente e lo stesso onorevole Nitti ieri, ed altri, ne hanno parlato.

Le ragioni sostanziali che militano a favore della seconda Camera si possono restringere a queste tre: la prima è quella di garantire l’equilibrio ed una certa integrazione del potere e della funzionalità della prima Camera; la seconda è quella di concorrere con una più ponderata competenza tecnica ed una maggiore maturità di esperienza alla elaborazione legislativa; la terza è quella di contribuire in qualche modo a risolvere il delicato problema di una maggiore stabilità del Governo parlamentare.

Ora, se si tengono presenti queste tre ragioni fondamentali, bisogna d’altra parte cercare di comporre, di formare la seconda Camera in modo tale che le ragioni che la giustificano trovino una seria applicazione, altrimenti, se non si riesce a dare alla Camera una composizione ed una funzionalità tale che possa seriamente rispondere a queste necessità sostanziali, si ricade in quello che si voleva evitare in partenza, cioè nell’aggravare in certo modo il difetto della Camera unica. Ed il criterio quindi che ci deve orientare nell’indagine, nell’esame della composizione della seconda Camera è precisamente questo: di non ricadere in un bis in idem della prima. Le difficoltà, evidentemente, ci sono e numerose, specialmente in un ordinamento che vuole essere genuinamente, autenticamente democratico. Non bisogna tuttavia farsi impressionare troppo dalle difficoltà medesime per ricadere, con un certo semplicismo e con una certa facilità, nel modo di composizione della prima Camera applicato anche alla seconda.

A me pare che dopo le lunghe discussioni che si sono avute in seno alla seconda Sottocommissione ed alla Commissione dei Settantacinque, per quanto si sia cercato di affrontare le difficoltà di una diversa, di una più differenziata formazione della seconda Camera, ci si sia poi lasciati impressionare, per ricadere, come è detto nel progetto, presso a poco nello stesso modo di formazione della prima Camera.

Ora, io ripeto quello che, con scarsa fortuna, avevamo detto in seno alla seconda Sottocommissione: che tenuta presente la necessità di un sano ordinamento democratico, di un ordinamento democratico non inteso in senso astratto, formalistico, che abbia come fondamento il suffragio universale che si esprime nella prima Camera, non ci si deve rifiutare di integrare il suffragio universale stesso con quelle altre forme di rappresentatività della struttura sociale moderna che hanno un peso forte, decisivo nella vita della collettività, dal punto di vista sociale ed anche dal punto di vista politico. Il suffragio universale va integrato attraverso una forma rappresentativa della stessa volontà popolare, non intesa come somma delle volontà individuali – così come è stato sempre inteso il suffragio universale ed i suoi risultati – ma come espressione di una volontà più organica, sia pure del popolo, veramente operante nella vita nazionale, volontà organica che si inquadra in certi gruppi, in certi nuclei, in certe categorie, che portano un peso veramente decisivo nella funzionalità della vita collettiva e nell’evoluzione stessa della vita sociale, dal punto di vista economico, dal punto di vista morale e politico.

Con questo, noi diciamo che per la seconda Camera (per non ripetere sempre questa parola è meglio parlare di Senato, perché, come giustamente osservava l’onorevole Nitti, non ha senso, ha un senso un po’ forzato il nome di Camera dei senatori da contrapporre alla Camera dei deputati, perché si sa cosa voglia dire Camera dei deputati, ma non si capirebbe quello che vorrebbe dire Camera dei senatori, in quanto senatore viene da Senato), noi proponevamo, non come affermazione di un principio programmatico nostro – ciò che può avere un po’ allarmato taluno dei nostri amici di altri partiti – ma come espressione di una esigenza sociale moderna, di costituire il Senato come rappresentativo di interessi politicamente rilevanti, interessi che si esprimono attraverso certe categorie sociali che hanno un peso decisivo nella vita collettiva.

Tutto questo da alcuni è stato inteso come non so quale tentativo di conservazione sociale ed economica, da altri come una riviviscenza appena larvata del corporativismo fascista.

L’accusa di conservatorismo economico e sociale è del tutto infondata. Io ho qui la relazione che per la riforma del Senato fece Francesco Ruffini insieme ad altri illustri senatori nel 1919-20, quando si sentiva, fin d’allora, la necessità di dare al Senato una funzionalità ed una rispondenza con le esigenze della vita moderna, che anche allora il Senato aveva scarsamente mostrato di possedere. Ebbene, in questa stessa relazione fatta da un eminente rappresentante del liberalismo italiano come Francesco Ruffini, vi sono due o tre capitoli che parlano della riforma del Senato dal punto di vista della rappresentanza degli interessi e delle categorie. E non è una trovata – per quanto altissimo e nobilissimo fosse l’ingegno di Ruffini – ma in detta relazione si rifà accuratamente la storia di tutti gli studi, di tutta la letteratura vastissima che in materia si era venuta sviluppando negli ultimi anni precedenti al regime fascista.

Ebbene, la riforma del Senato o la costituzione di una seconda Camera, concepita come espressione rappresentativa di interessi socialmente e politicamente rilevanti, era un postulato delle sinistre più avanzate e democratiche: ricorse recentissimamente qui, fra gli altri, il nome di Vandervelde che mi pare sia stato il Capo del socialismo belga. Ed anche in Italia ci fu un ordine del giorno dell’onorevole Vigna, se non isbaglio, socialista, il quale affermava la necessità, per procedere ad un rinnovamento delle strutture legislative costituzionali, di inserire nel Senato le rappresentanze di interessi.

Sicché, anche tenendo presente questo precedente, l’accusa di reminiscenze corporativistiche non ha ragion d’essere. Io arrivo anzi a dire che, se non avessimo dovuto affrontare lo sciagurato ventennio fascista, la riforma del Senato sarebbe probabilmente avvenuta lo stesso; e sarebbe avvenuta per la spinta delle forze più rappresentativamente democratiche del nostro Paese.

Il fascismo non ha avuto, del resto, che l’adulterazione della rappresentanza degli interessi. Basta pensare che l’organizzazione corporativistica fascista rispondeva ad uno schema, visto astrattamente, dall’alto, in funzione del totalitarismo fascista e veniva applicata, realizzata, imposta dall’alto, senza che fosse minimamente tenuto conto di quella che è la germinazione spontanea delle varie categorie, del loro concatenarsi nella vita sociale ed economica e della loro capacità di esprimersi per avere una rappresentanza adeguata; basta, dicevo, tenere presente tutto ciò per comprendere e per concludere che l’accusa di corporativismo mossa ad una impostazione di questo genere è del tutto campata in aria. E non bisogna, onorevoli colleghi, lasciarsi troppo trascinare da quelli che sono i residuati che operano certo nel subcosciente più di quanto non si creda, i residuati di stati d’animo che avevano, sì, una giustificazione genuina e profonda di fronte alla dittatura fascista, ma che bisogna però superare, che bisogna staccare dalla nostra coscienza per poter guardare veramente in faccia la realtà, per poter stabilire quello che autenticamente si può in pratica costruire per la democrazia italiana.

Ora, noi riteniamo in pratica che questa differenziazione della seconda Camera rispetto alla prima, sia l’unica differenziazione veramente seria, sia l’unica differenziazione veramente solida che sia possibile. Noi possiamo esaminare insieme tutte le altre forme escogitate più o meno al riguardo. E, nell’iter che questa discussione ebbe in seno alla seconda Sottocommissione, noi partimmo proprio da un ordine del giorno firmato dall’onorevole Einaudi, e che fu poi approvato, nel quale si invocava appunto la costituzione della seconda Camera in questo senso.

Passammo poi attraverso la camera delle Regioni per un quarto d’ora – non è durata di più – la Camera rappresentante dei Comuni e degli altri enti locali; e abbiamo finito col ricadere in quella formulazione che è contenuta nel progetto di Costituzione, che in fondo, tranne per quel terzo lasciato all’elezione dei Consigli regionali, risponde esattamente a quello che è il meccanismo e la formazione di istituti democratici.

Ora, questa prima impostazione trovò la Commissione concorde in questo senso, perché la seconda Sottocommissione così si espresse in un suo ordine del giorno: «Riconosciuta la necessità dell’istituzione di una seconda Camera, al fine di dare completezza di espressione politica a tutte le forze vive della società nazionale, passa all’esame del sistema del rapporto tra le due Camere e al modo di composizione di ciascuna».

Quindi, lo scopo è segnato chiaramente; ed è quello di dare espressione viva, espressione completa alle forze vive ed operanti della Nazione. Ora, le forze vive alle quali si riferiva il concetto di questo ordine del giorno si sono ridotte a che cosa? Si sono ridotte al suffragio universale diretto. Non è certo questo il concetto al quale ci si riferiva, e non è certo questa la determinazione che possa in qualche modo differenziare una Camera dall’altra.

Lo so qual è l’obiezione maggiore che viene fatta a questo riguardo, ed è quella che, in fondo, fece deviare poi il lavoro della seconda Sottocommissione, per andare in cerca di qualche altro modo e di qualche altra possibilità. L’obiezione maggiore che viene fatta è quella della pratica realizzazione di una visione di questo genere, di una concezione della seconda Camera, come quella a cui io mi sono riferito.

Ma qui io vorrei premettere che lo sforzo non è stato veramente eccessivo da parte di nessuno di noi per trovare una soluzione pratica, concreta, delle difficoltà, alle quali ci si riferisce. Ieri l’onorevole Ambrosini citava, per esempio, quello che era stato fatto, per quanto sotto una visione leggermente diversa, trattandosi di un organo essenzialmente consultivo, dalla Costituzione di Weimar.

Ma io dico, praticamente, quando si siano identificate le sette, otto, nove maggiori categorie che sono effettivamente quelle rappresentative dei maggiori interessi, delle maggiori attività sociali, nelle quali si articola la vita collettiva, per esempio: industria, commercio, agricoltura, istruzione o corpi accademici vari, libere professioni e arti, artigianato – se non si crede di poterlo includere in un’altra di queste categorie – ceti impiegatizi; e si riesca a prospettarsi quella che è, sotto il profilo economico e sociale, la dinamicità della vita moderna, attraverso queste espressioni più salienti e più rilevanti; quando si sia fatto questo e si sia risolto l’altro problema, a cui noi non intendiamo minimamente sfuggire, di identificare la posizione del lavoro e dei lavoratori, o intesa come categoria o come categorie per sé stanti o operanti nell’ambito di ciascuna categoria, associando l’espressione dell’uno o dell’altro termine che operano nel processo produttivo, mi pare che si abbia davanti a sé il quadro di quelle che sono le maggiori e più operanti attività sociali della vita del Paese.

E quando, per il rapporto nei confronti di ciascuna categoria, si tenga presente – come è detto in un inciso del mio ordine del giorno che è stato interpretato, mi pare, un po’ troppo rigorosamente – una certa proporzionalità col numero delle categorie, come ho detto, e con la maggiore responsabilità del lavoro qualificato (due fattori, due elementi che devono giocare concordemente e non disgiuntamente per poter arrivare all’espressione di un equilibrio economico che ha in se stesso gli elementi di un equilibrio sociale), mi pare che non sia un problema assolutamente insolubile quello di realizzare la rappresentanza di tali categorie.

Per esempio (per fare una esemplificazione ancor più concreta e, direi, più visibile), la struttura della seconda Camera, così concepita, secondo il nostro modo di vedere, dovrebbe trovare veramente la sua ambientazione nell’orbita della Regione.

Ma quando, in ciascuna Regione si siano definite (e questo il Consiglio regionale lo può fare, perché ha tutte le legittimità democratiche per farlo), quali sono le categorie produttive predominanti nell’ambito della Regione stessa, ed in rapporto alla popolazione si stabilisca quanti devono essere i rappresentanti delle varie categorie, non rimane da risolvere che il problema dell’elezione dei senatori stessi.

Su questa elezione mi riservo di presentare, a conclusione della discussione generale un progetto completo, se il principio formulato nel mio ordine del giorno sarà accolto. Come può essere fatta tale elezione? Le soluzioni sono diverse. C’è chi prevede i collegi di categoria, che direttamente nominano il rappresentante di categoria. C’è chi – come me – in maniera forse più pratica, pensa che i rappresentanti di categoria possono limitarsi alla designazione, per esempio, di una terna per ciascuna categoria, lasciando al Consiglio Regionale l’ultimo atto della scelta, nella elezione dei vari rappresentanti.

Può sembrare, esposto in questo modo, un progetto piuttosto complicato e farraginoso, ma tale non è, se si considera realisticamente secondo le varie fasi attraverso le quali il progetto stesso si esaurisce o si perfeziona.

Comunque, questa è una questione di attuazione pratica che da nessuno può essere ritenuta insolubile. Basta applicarsi e trovare il modo e il verso di risolverla praticamente. Quel che più conta e più vale è decidere se, nella composizione della seconda Camera, deve essere veramente realizzato un principio di rappresentatività democratica diversa dalla rappresentatività data esclusivamente dal suffragio universale.

E se questo principio si accetta, evidentemente la sua realizzazione effettiva non trova altra forma concreta ed aderente alle necessità ed all’esigenza della vita sociale al di fuori della rappresentanza d’interessi. Oggi, quelli che sono gli interessi veri della vita nazionale sono prementi e pressanti e giocano anche nella vita politica, tanto che non si può credere di tenerli fuori dalle aule legislative o dai poteri dello Stato. Mentre se, accanto alla genuina rappresentanza politica della prima Camera voi vorrete una seconda Camera che, senza ferire il principio della sovranità popolare, senza contraddire il principio dell’investitura da parte della volontà popolare, perché questa delle categorie è altresì volontà popolare come quella del suffragio universale, svolga la sua azione, si potrà avere un quadro armonico di quelle che sono le vedute di carattere generale che sono rappresentate anche dalle ideologie dei singoli partiti, ma anche l’espressione di questi interessi concreti, economici, culturali, sociali e politici.

Le competenze non sono invenzione di nessuno. Le competenze sono un fatto reale, sociale, effettivo e non si può prescindere da esse proprio nel campo della massima espressione della volontà collettiva. Ora, attraverso un congegno di questo genere, evidentemente anche questo problema potrebbe essere avviato ad una soluzione. Io non voglio naturalmente esagerare in nessun modo e ritengo che l’applicazione di una visione strutturale della seconda Camera, come quella che io ho cercato di delinearvi, difficilmente può trovare una applicazione immediata, perché presuppone evidentemente un enorme lavoro di organizzazione, di ordinamento di categorie, di interessi che, in questo dopoguerra, in questo dopo disfatta, è reso ancor più difficoltoso. Si potrebbe ricorrere oggi soltanto alla Confederazione generale del lavoro e ad altre Confederazioni di imprenditori di lavoro, ma esse non esauriscono il quadro delle attività sociali e non sociali.

Bisogna dunque prevedere un certo periodo di tempo per il quale e nel quale questa «categorizzazione», diciamo, possa essere realizzata con una certa spontaneità e secondo certe direttive, ai fini, appunto, della composizione della seconda Camera.

Cosa sarebbe, per esempio, indispensabile in maniera assoluta? L’anagrafe delle categorie, almeno questa: avere l’anagrafe per dire quali sono le maggiori categorie, come si differenziano fra di loro, e potere, su questa concludere praticamente il sistema della realizzazione della loro rappresentanza. Questo è elemento indispensabile, e saremmo avventati noi stessi se volessimo sostenere che siamo oggi in condizioni di poter realizzare una struttura della seconda Camera come quella alla quale mi sono riferito. Però, è importante aver sollevato il problema in questa sede. Se il principio viene accettato e se si possono determinare, insieme con il principio, le direttive generali entro le quali si prevede che in un non lontano domani una riforma di questo genere possa essere attuata, questo dà un valore nuovo, moderno, socialmente più aderente alle condizioni della vita moderna, alla nuova Costituzione che stiamo approvando.

PRESIDENTE. Onorevole Piccioni, la prego di voler concludere.

PICCIONI. Ho finito. Io penso, in contrasto con molti altri, che l’ordinamento regionale – quali che possano essere le difficoltà nelle quali si viene muovendo o si andrà movendo – sia una riforma che rinnovi veramente la funzionalità dello Stato democratico italiano. Io penso che il Senato, concepito come noi lo concepiamo e come ci siamo sforzati di delineare nell’ordine del giorno che ho presentato, completerebbe questo rinnovamento, in senso democratico e in senso sociale, della nuova democrazia italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Fuschini ha presentato un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente

afferma la necessità che il Parlamento sia costituito da due Camere, delle quali la prima rappresenti, attraverso il suffragio universale diretto e la rappresentanza proporzionale dei partiti, o correnti politiche, gli interessi generali della Nazione, e la seconda, mediante un suffragio organico a doppio grado, rappresenti gli interessi territoriali ed economici a base regionale;

riconosce l’opportunità che le Camere possano riunirsi in Assemblea Nazionale e deliberare esclusivamente sui seguenti casi:

  1. a) nomina del Presidente della Repubblica e sua messa in istato di accusa;
  2. b) conferimento di maggiori poteri al Governo in caso di guerra;

ritiene che alle Camere siano assegnati uguali poteri per svolgere i rispettivi compiti, restando peraltro stabilito che, in caso di contrasto fra le loro deliberazioni, esperiti appositi accorgimenti procedurali, abbia la prevalenza la decisione della prima Camera, fermo il ricorso al referendum popolare».

Ha facoltà di svolgerlo.

FUSCHINI. Onorevoli colleghi, la prima parte dell’ordine del giorno da me presentato è stata già sviluppata, in questo momento, dal collega onorevole Piccioni con quella perspicacia che lo distingue; e nei passati giorni i colleghi onorevoli Clerici, Codacci Pisanelli e Ambrosini avevano pur essi insistito sull’opportunità che la seconda Camera sia costituita in base alle categorie di interessi di carattere economico. Nel mio ordine del giorno accenno anche agli interessi territoriali. Non vi è bisogno di spendere parole su questa distinzione perché già nell’articolo 55 del progetto di Costituzione abbiamo affermato che la seconda Camera deve rappresentare anche gli interessi territoriali, allorquando abbiamo stabilito che ad ogni Regione sia data la rappresentanza speciale di cinque Senatori e quindi abbiamo manifestato il proposito che gli interessi locali, nella nuova organizzazione dello Stato, siano rappresentati da individui specificamente scelti dai Consigli regionali.

Non credo che su questo punto vi sia dissenso in altri settori; perché numerosi rappresentanti di altri settori hanno accettato il principio della rappresentanza degli interessi territoriali. Quando si è discusso, nella Sottocommissione e nella Commissione dei settantacinque sulla opportunità che gli interessi locali fossero rappresentati, non solo siamo arrivati alla rappresentanza delle Regioni, ma vi è stata persino la proposta che la seconda Camera fosse nominata attraverso un sistema elettorale che ha la caratteristica precipua di esprimere gli interessi locali, quale è il sistema del collegio uninominale.

Non voglio attardarmi, ripeto, su questo punto, perché ritengo che l’Assemblea abbia ormai tutti gli elementi per potere prendere la sua decisione al riguardo, in modo che la formazione della seconda Camera rispecchi una differenziazione di espressioni popolari, che non sia identica alla manifestazione delle espressioni popolari, che si hanno nella formazione della prima Camera. Perché è fuori dubbio che, se ormai la maggioranza dell’Assemblea accetta il principio del bicameralismo, mi pare anche concorde nel ritenere che la seconda Camera debba essere diversa nella sua origine, nella sua formazione, dalla prima; altrimenti, noi avremmo un bis in idem, che non porterebbe nessun vantaggio nella elaborazione delle leggi e nella costituzione dei Governi.

Ora, avendo accettato il principio del bicameralismo, ci dobbiamo domandare se esso sia stato rispettato nel progetto di Costituzione.

Io ritengo che nel progetto vi sia una novità di gran peso politico, che merita di essere considerata attentamente: il funzionamento delle due Camere unite in Assemblea Nazionale, su cui voglio richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi.

Se voi esaminate attentamente il progetto, vi trovate di fronte non ad un semplice regolamento della riunione delle due Camere, ma di fronte alla creazione di una vera e propria terza Camera. Siamo di fronte ad una forma di unicameralismo, se non di tricameralismo. Ritengo che questa sia una deviazione dal sistema bicamerale e che questa deviazione vada corretta, per evitare che quest’Assemblea Nazionale si sostituisca e si sovrapponga al libero svolgimento dei lavori delle due Camere separate.

L’articolo 61, infatti, dice che «l’Assemblea Nazionale deve adottare un proprio regolamento a maggioranza assoluta dei suoi membri». La Camera dei deputati e il Senato avranno un loro regolamento proprio, ma anche un regolamento proprio dovrà avere l’Assemblea Nazionale. È questo il dato di fatto più notevole che caratterizza ogni Assemblea organizzata.

La Presidenza di questa terza Assemblea da chi sarà tenuta? Lunga discussione vi è stata su questo punto nella seconda Sottocommissione, e l’articolo 60 ha stabilito che, a turno, la Presidenza dell’Assemblea Nazionale sarà tenuta ora dal Presidente della Camera dei deputati, ora dal Presidente della Camera dei senatori. Costituirà un proprio ufficio e la stessa Assemblea Nazionale, come le due Camere, potrà deliberare di riunirsi persino in Comitato segreto. Quindi vi sono, nelle disposizioni del progetto, delle norme che fanno apparire l’Assemblea Nazionale come una terza vera e ben distinta Assemblea.

Le sue funzioni sono molteplici e di diversa importanza. Per esempio, gravissima disposizione questa: che le funzioni del Presidente della Repubblica, quando non potranno essere esercitate direttamente dal Presidente stesso potranno essere esercitate dal Presidente dell’Assemblea Nazionale. Così, quando si debba procedere alla nomina del Presidente della Repubblica, tocca al Presidente dell’Assemblea di indire la convocazione delle Camere.

L’Assemblea Nazionale è dunque un organo di maggiore e più viva rilevanza di quel che non siano la Camera dei deputati ed il Senato stesso. Ma vi è ancora di più, vi è un delicato momento della vita politica del Parlamento nel quale si è voluto inserire l’intervento dell’Assemblea Nazionale. L’articolo 87 stabilisce che, una volta costituitosi un Governo, questo Governo deve presentarsi all’Assemblea Nazionale e «ottenere con voto nominale ed a maggioranza assoluta dei componenti» la fiducia dell’Assemblea stessa. L’articolo 88 poi completa e dilata questa disposizione, cioè stabilisce che, in seguito al voto di sfiducia dato da una Camera, se il Governo non intende dimettersi, può ricorrere in appello all’Assemblea Nazionale. Ora io ritengo che questo, dal punto di vista parlamentare e dal punto di vista politico, sia un grave errore che potrà portare gravi conseguenze di carattere politico. Non credo, onorevoli colleghi, che la stabilità del Governo possa realizzarsi con questo espediente giuridico.

Le crisi ministeriali, sono state frequenti in passato nel nostro Paese, ma sono state meno frequenti che in altri Paesi di carattere parlamentare, come la Francia. Si vorrebbe limitarle, e ciò è plausibile, ma non credo che si possa ciò ottenere con questo espediente, e far sì che un Governo, colpito da un voto di sfiducia di una Camera, possa rimarginare la ferita al suo prestigio col fare riunire tutte e due le Camere. È un’illusione, perché evidentemente, siccome Camera e Senato avranno posizioni numeriche di carattere completamente diverso, le loro deliberazioni unitarie, per quanto si voglia fare e stabilire, saranno sempre influenzate dalla prevalenza di quelle correnti politiche che si verificheranno in ogni Camera. Qualunque sia il modo di formare il Senato, rimane per me indubbio che il Senato, dal punto di vista politico, rispecchierà molto da vicino la distribuzione dei seggi della Camera dei deputati.

Ora, in questa situazione è evidente che anche andando davanti ad Un’Assemblea Nazionale, la maggioranza che si è stabilita per dare o negare la fiducia al Governo in una Camera non si modificherà gran che nella Assemblea Nazionale, anche senza rilevare che la prima Camera, che ha un numero di membri molto superiore alla seconda, avrà sempre la possibilità di prevalere. Si tratta quindi, a mio avviso, di un meccanismo inutile, che affatica il sistema parlamentare e lo svolgimento della vita politica del Paese, che non può trarre vantaggio dalle ripetizioni di discussioni che posso considerare in precedenza assolutamente inoperanti. Del resto, non si creda di poter creare la stabilità di Governo con degli espedienti di carattere giuridico costituzionale, o di carattere parlamentare. È bene certamente studiare i mezzi per impedire voti di sfiducia promossi di sorpresa. Nel decreto del 16 marzo 1946 è stato già stabilito che, presentata una mozione di sfiducia, questa non può essere discussa immediatamente, ma si lascia al Governo la facoltà di rispondere entro quarantotto ore, e occorre che la mozione stessa riporti la maggioranza assoluta dei suffragi dei componenti l’Assemblea. Questa disposizione si è dimostrata già efficace e opportuna, per la prima parte, come abbiamo tutti potuto constatare a proposito della mozione di sfiducia presentata dall’onorevole Nenni.

Ora, questo mi sembra sufficiente perché nelle Camere si possa impedire una discussione improvvisa che sfoci in un voto di sfiducia. Ma questa disposizione, che riguarda la nostra Assemblea Costituente, può essere riprodotta nel progetto di Costituzione, e potrà essere meglio precisata nei regolamenti delle rispettive Camere.

Del resto, egregi colleghi, il problema della stabilità del Governo non è un problema di carattere giuridico, ma è un problema di carattere politico. Da che cosa deriva questa instabilità del Governo? Deriva, secondo me, da due fenomeni.

Il primo fenomeno si riferisce alla composizione e, direi, al frazionamento dei partiti. Il frazionamento dei partiti non è un fenomeno che sia sorto a causa del sistema proporzionale, ma è la risultante – permettete che lo dica – della ineducazione politica in cui si trova il nostro Paese; tanto è vero che non si è ancora ben compreso che il sistema del Governo democratico si fonda su una maggioranza alla quale si oppone una minoranza che occorre rispettare con grande senso di responsabilità e di equilibrio, che i gruppi acquistano lentamente con la quotidiana esperienza delle esigenze parlamentari.

Ammesso anche che la proporzionale possa aver accentuato questo frazionamento, lo ha però accentuato in bene, perché ha consentito che ogni forma di ideologia o corrente politica possa avere la sua rappresentanza nel Parlamento. Manca inoltre, oggi, lo spirito per la formazione dei Governi, manca cioè lo spirito di coalizione fra i partiti. Perché questo spirito di coalizione dei partiti possa sorgere è necessario fare molti esperimenti, e non bisogna rammaricarsi troppo se della instabilità così detta dei Governi stiamo dando troppe prove. Certamente, con un sistema parlamentare veramente operante si potrà eliminare quello che accade oggi, che ogni tre mesi vi è bisogno di fare una nuova combinazione ministeriale. Questo dipende da un elemento straordinario, di carattere assolutamente eccezionale, che vi è nella disposizione di legge, con la quale si deferisce al Governo ogni potere legislativo.

Ora, il potere legislativo essendo quasi per intero nelle mani del Governo, è evidente che ciò provoca frequenti reazioni in coloro che non partecipano alla formazione delle leggi. Ma questa situazione non si potrà ripetere quando si sarà in un regime di normalità costituzionale, che si attuerà con la distinzione del potere esecutivo dal potere legislativo.

In passato questa distinzione era esattamente osservata. La divisione dei poteri, che si dice essere una teoria caduta, nel campo degli studi costituzionalisti, io credo che abbia ancora, nella pratica, la sua necessità di vita e di rispetto. Noi dobbiamo rispettare ed informare tutta l’attività collettiva politica a questo principio fondamentale: che il potere legislativo dove essere ben distinto, come diceva ieri l’onorevole Ambrosini, dal potere esecutivo. E se il potere legislativo informa di sé e domina per certi riflessi la situazione del potere esecutivo, ben distinte sono le loro funzioni. Il potere legislativo troverà sempre la possibilità di esprimere la sua volontà nell’esame, nelle reiezioni o nelle approvazioni dei disegni di legge e potrà così dare al potere esecutivo, anche in fatto di legislazione, una sua direttiva e una sua volontà.

Il secondo fatto che influisce sulla instabilità del Governo è indubbiamente quello degli uomini chiamati come capi partito o capi di maggioranze a formare il Governo.

Nella nostra storia parlamentare e politica si avverte facilmente che quando vi sono stati degli uomini forti, degli uomini di grande prestigio nazionale, allora la stabilità dei Governi si è avuta senza grandi difficoltà. Se voi aveste la volontà di verificare e studiare, come ho avuto occasione di fare in altri tempi, le crisi che si sono manifestate durante il periodo della vita di Cavour e della sua attività politica, potreste constatare che Cavour ha governato l’Italia (salvo interruzioni di breve durata, di pochi mesi, interruzioni atte a dare riposo a questo grande Capo di Governo) per oltre 9 anni.

De Pretis, altro uomo politico che dal 1876 detenne le sinistre di allora, ha governato il Paese per più di undici anni, salvo una breve interruzione dei tre Ministeri Cairoli, che nel complesso tennero il Governo per poco più di due anni.

Se venite poi vicino a noi, troverete che la presenza di Giolitti diede al nostro Paese una stabilità di Governo che nel suo complesso può essere considerato di 10 anni, con interruzioni intermedie di piccoli Ministeri; Ministeri, si diceva allora, di luogotenenza che durano ciascuno pochi mesi.

RUBILLI. Ma quegli uomini non rinascono. Bisogna adattarsi con quelli che ci sono e quindi trovare altri mezzi.

FUSCHINI. Non è detto che l’Italia sia talmente esaurita da non portare alla ribalta della vita parlamentare e politica uomini di valore. Bisogna dunque, a mio avviso, tener conto che la stabilità del Governo dipende anche da quegli uomini capaci ed avveduti che sappiano realizzare il consenso dei partiti e ottenere per il loro prestigio, per la loro autorità, per la loro capacità, la fiducia del Parlamento e del Paese.

Questi uomini non potranno non sorgere anche da questa Assemblea e dalle Camere che sorgeranno dopo l’approvazione della nuova Costituzione. Ci sono già virtualmente: capi dei partiti che saranno chiamati a diventare una volta o l’altra capi di maggioranze mediante la coalizione di partiti diversi.

Ed è a queste coalizioni che si dovrà dare assistenza e che bisognerà sorreggere con grande senso di responsabilità e lealtà da parte dei gruppi che le formeranno, non dimostrandosi troppo frettolosi nell’attendere i risultati che esse potranno dare. Non bisogna credere che in due o tre mesi possa essere attuato un programma, non bisogna credere che in poche settimane un Governo possa esprimere un indirizzo politico.

Non intendo fare critiche ad alcuno in questo istante; le mie modeste osservazioni tendono soltanto a dimostrare che la stabilità del Governo non dipende da disposizioni di regolamento parlamentare o da disposizioni della Costituzione, ma dipende, nel suo complesso, dall’educazione politica che sapranno dimostrare i partiti nella loro attività parlamentare.

Concludendo questa parte del mio breve discorso, mi sia lecito affermare che la creazione di un’Assemblea Nazionale quale terzo organo del nuovo Parlamento non è affatto necessaria e può presentare delle incognite che ne danneggeranno il regolare funzionamento.

Io quindi mi attengo, perché è l’esperienza che lo insegna, al puro sistema bicameralista, sicuro che questo bicameralismo potrà funzionare veramente da equilibratore della vita dello Stato, sia in senso politico, sia in senso sociale.

È necessario tener fermo questo sistema, anche perché il creare una terza Assemblea – come diceva ieri molto saggiamente l’onorevole Nitti – richiederà una sede, richiederà una presidenza, richiederà dei funzionari, richiederà delle spese; perché voi non potrete pretendere che tutta la sua organizzazione, tanto delicata, possa farsi o dalla Camera o dal Senato. Se deve essere una cosa distinta, deve avere anche la sua autonomia, dal punto di vista amministrativo e burocratico.

Si potrà però mantenerla – secondo il mio ordine del giorno – soltanto per la nomina del Presidente della Repubblica, qualora la Camera addivenga alla nomina del Presidente della Repubblica in forma parlamentare, anziché con elezione diretta da parte del popolo. Se dovessi dichiarare la mia personale preferenza a questo ultimo riguardo, dichiarerei di essere favorevole alla forma parlamentare della nomina del Presidente della Repubblica. Ma se la maggioranza volesse invece che la nomina del Presidente della Repubblica fosse decisa dal voto del popolo, io non oserò oppormi. È evidente allora che la necessità dell’Assemblea Nazionale per la nomina del Presidente della Repubblica non avrebbe più ragione di essere. E potrebbe cadere allora anche l’altro caso nel quale ho ammesso che l’Assemblea Nazionale possa essere utile nei momenti difficili e gravi, in cui la Patria venisse trascinata contro sua volontà, per situazioni internazionali, a dichiarare la guerra. In questo caso l’Assemblea Nazionale potrebbe essere chiamata, non dico a deliberare la dichiarazione di guerra, perché oggi, nella pratica, si è veduto che non vi sono più tali dichiarazioni, ma per stabilire quali debbano essere i poteri da conferirsi al Governo responsabile per il periodo della guerra.

Mi permetto di fare un’ultima osservazione ed ho finito. Abbiamo discusso molto se le due Camere debbano avere poteri identici o meno; io sono convinto a questo riguardo che occorra una gradazione la quale stabilisca che, in caso di conflitto per l’approvazione di una determinata legge o di una determinata deliberazione, fra la prima e la seconda Camera, la prevalenza spetti alla Camera che rappresenta gli interessi generali del Paese, come noi riteniamo e vogliamo che sia la Camera dei deputati.

La prevalenza della Camera dei deputati sul Senato trova la sua ragion d’essere nella realtà storica che ci ha accompagnato sin qui, nonostante che la situazione sia stata diversa: realtà storica che ci insegna che il Senato ha tenuto sempre verso la Camera dei deputati un atteggiamento riguardoso e condiscendente. Molte vie, d’altronde, vi saranno sempre per risolvere i conflitti e eliminare le frizioni che potranno sorgere fra le due Camere; ma deve in ogni modo essere affermato nella Costituzione il principio della prevalenza della prima Camera sulla seconda.

Siccome però in pari tempo si è inserito nel progetto di Costituzione l’appello al popolo attraverso il referendum, ritengo opportuno che ciò non sia dimenticato e perciò, proponendo una preminenza della prima Camera sulla seconda, ammetto che resti salvo sempre il ricorso al referendum.

Mi lusingo che queste mie proposte possano essere accolte da tutti i colleghi perché esse rispecchiano, a mio parere, l’interesse che tutti abbiamo al buon funzionamento del futuro Parlamento.

Onorevoli colleghi, lasciatemi formulare un augurio, quello cioè che la Costituzione che dovrà essere definitivamente conclusa, non oltre il 31 dicembre – ultimo limite della nostra capacità politica e giuridica – sia una Costituzione che possa garantire il rispetto della legge e il consolidamento della Repubblica. (Vivi applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Giolitti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la II Parte della Costituzione deve fondare un ordinamento della Repubblica tale da garantire la realizzazione del sistema di diritti e doveri sanciti nella I Parte e tale da sodisfare ai due requisiti essenziali della democraticità e della efficienza delle istituzioni parlamentari;

ritiene che la seconda Camera debba trarre origine dalla volontà direttamente espressa dall’intero corpo elettorale, secondo un sistema che permetta il miglior apprezzamento dei requisiti personali;

afferma che una seconda Camera di tipo corporativo sarebbe contraria allo sviluppo e al funzionamento delle istituzioni parlamentari in senso veramente democratico e moderno;

afferma altresì che una seconda Camera di tipo regionalistico si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nella Costituzione;

delibera che la seconda Camera venga eletta a suffragio universale col sistema uninominale e in base a determinati requisiti per l’elettorato passivo, tali però da non incidere sul carattere democratico della Camera stessa e da assicurarne la composizione più adeguata ai suoi fini».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIOLITTI. Onorevoli colleghi, mi capita qualche volta – e penso sia capitato ad altri colleghi miei coetanei – di sentirmi dire: «Come, deputato, lei così giovane?». Quasi che in Parlamento sia sconveniente starci senza barba bianca. Orbene, mi pare che questa associazione di idee – conformista e conservatrice – tra Parlamento e barba bianca si sia insinuata anche in qualche parte del nostro progetto di Costituzione, perché, se esaminiamo questa sezione prima del Titolo primo della seconda parte del Progetto stesso, non vi riscontriamo il minimo sforzo di ringiovanire le nostre istituzioni parlamentari, di adeguarle cioè alla esigenze moderne della vita politica.

In sostanza, io credo che né il modo di formazione della seconda Camera né la natura dei suoi poteri, così come sono configurati nel progetto di Costituzione, valgano ad indicarci quella che è l’esigenza funzionale, in senso moderno, alla quale la seconda Camera deve rispondere. Dirò ancora di più: mi pare che il modo di composizione della seconda Camera, previsto in questi articoli 55 è 56 del progetto, non sodisfi neanche a quelle esigenze fondamentali di democraticità e di efficienza cui, a nostro avviso, devono rispondere le istituzioni nelle quali si concreta l’ordinamento della Repubblica.

Mi pare che queste due esigenze siano i criteri fondamentali in base ai quali noi dobbiamo giudicare questa seconda parte del progetto di Costituzione. È appunto per questa ragione, perché mi sembra che il progetto non sodisfi pienamente a queste esigenze che riteniamo essenziali, che ho presentato, anche a nome del mio Gruppo, l’ordine del giorno che mi propongo di illustrare con la massima concisione.

Come è noto, il mio partito in linea di principio è favorevole al sistema unicamerale, appunto perché lo ritiene più rispondente a quelle esigenze di democraticità e di efficienza di cui ho detto ora, e anche perché lo ritiene più rispondente a quelle che sono, direi, le premesse contenute nella prima parte, già approvata, della Costituzione. Perché io credo che nell’esame di questa seconda parte non dobbiamo mai perder di vista la prima parte che abbiamo già approvata, con la quale abbiamo garantito certi diritti; e qui ora, con l’ordinamento della Repubblica, dobbiamo fornire gli strumenti adeguati perché tali diritti possano trovare pratica realizzazione. Quindi nella critica del progetto di Costituzione – critiche che noi vogliamo evidentemente costruttive – deve esserci anche di guida questo criterio delia sua rispondenza alia prima parte della Costituzione già approvata.

Ora, nonostante quella nostra posizione di principio alla quale ho accennato, favorevole al sistema unicamerale, noi abbiamo accettato il sistema bicamerale, in quanto abbiamo ritenuto sostanzialmente valida, nelle condizioni attuali del nostro Paese, l’esigenza di una maggiore ponderazione nell’opera legislativa.

Meno valida, invece, riteniamo l’esigenza, diciamo così, regionalistica, alla quale, secondo alcuni, dovrebbe rispondere la seconda Camera, perché, a nostro avviso, essa si giustificherebbe solo ove le autonomie regionali avessero quel carattere federalistico che non è stato accolto nel progetto di Costituzione. Quantunque di diverso avviso si sia manifestato il collega Condorelli, di fatto il progetto di Costituzione – e fortunatamente, secondo noi – non ha accolto in nessuna misura un’impostazione federalistica delle autonomie regionali. E d’altra parte pensiamo che anche in pratica una base regionalistica per la composizione della seconda Camera varrebbe proprio in quanto si accetti in pieno il criterio federalistico; allora si avrebbe ragione di stabilire un numero fisso per Regione, e allora il sistema sarebbe semplice e praticamente di facile applicazione; mentre se noi cerchiamo di inserire e di conciliare questo sistema, questa base regionalistica nella composizione della seconda Camera, con altri requisiti, ne vien fuori quel miscuglio ibrido che troviamo formulato nell’articolo 55, dove poi, praticamente, il tentativo di dare una base regionale alla Camera dei senatori viene frustrato non foss’altro che da quella disposizione secondo la quale nessuna Regione può avere un numero di senatori maggiore del numero dei deputati.

Quella che noi nettamente respingiamo è l’idea di fare della seconda Camera una rappresentanza, diciamo, di tipo corporativo. La respingiamo non soltanto per l’impossibilità di una sua attuazione pratica, ma anche in mancanza (come ha del resto ammesso l’onorevole Piccioni) di un’anagrafe professionale e per il crescente numero di categorie professionali in relazione al continuo sviluppo della divisione del lavoro. E allora si vede che di fronte a queste difficoltà di attuazione pratica si ricorre a sistemi che poi non sodisfano completamente; queste idee, che possono anche apparire suggestive, non riescono a trovare pratica applicazione e soluzione. Quando si parla di questa rappresentanza di interessi di categoria, ci si muove in una sfera di concetti giuridici e politici che possono avere aspetti suggestivi e interessanti; ma quando scendiamo all’attuazione pratica, incontriamo difficoltà. E nessuno degli oratori che ha sostenuto questa tesi ha risposto alle obiezioni di carattere pratico.

Ora, noi non dubitiamo affatto della lealtà delle intenzioni di chi propugna questo sistema della rappresentanza d’interessi, ma vediamo che di fatto sotto quella proposta si può profilare il pericolo di un ritorno anche larvato a quella che era la Camera dei fasci e delle corporazioni. Non voglio, ripeto, avanzare alcun dubbio sulle intenzioni, ma formulare una critica sulle conseguenze di fatto che possono derivare dall’accettazione di una simile proposta; perché, di fatto, una rappresentanza degli interessi di categoria mi sembra non possa venire ad avere altro scopo che la difesa di determinati interessi, giacché tutti gli interessi di categoria, a nostro avviso, si trovano già rappresentati in forma politica nella prima Camera, attraverso i partiti, i quali, nella società in cui viviamo, sono i soli che possano tradurre sul piano politico nazionale e generale i particolari interessi economici, perché possono dare a questi una forma politica, che è quella che deve trovare espressione in una rappresentanza politica. Ché se invece si vogliono far valere solamente esigenze di carattere tecnico, allora si sia coerenti e si faccia di questa rappresentanza di interessi di categoria un corpo tecnico e non politico: se ne faccia un Consiglio della Repubblica, per esempio; ma se ha da essere un corpo politico, deve sodisfare a esigenze politiche e soprattutto deve dare forma politica agli interessi che rappresenta.

Ma non soltanto per queste ragioni noi siamo contro questa cosiddetta rappresentanza di interessi di categoria. Siamo contrari anche perché ci sembra che essa venga ad incrinare il principio fondamentale sancito nella nostra Costituzione, e in parte già approvato: il principio della sovranità popolare. Ci sembra che la determinazione delle categorie non potrebbe essere che arbitraria e artificiosa e tale appare proprio dagli argomenti con cui è stata sostenuta quella tesi. E così pure arbitraria sarebbe la determinazione dei limiti e delle modalità dell’elettorato attivo e passivo, a meno che si intenda rispettare rigorosamente la proporzione numerica delle diverse categorie. Ma anche qui è difficile in pratica mantenere questo rigoroso rispetto della proporzionalità numerica, e d’altra parte vediamo che in tutte le proposte che sono state fatte la proporzionalità numerica è stata sempre affiancata (per citare le espressioni dell’onorevole Piccioni) dal peso d’una maggiore responsabilità del lavoro qualificato. Quindi, c’è un certo dosaggio che si viene a fare fra il peso numerico delle categorie e il peso economico di certi interessi, dosaggio che non può essere altro che arbitrario e che, a nostro avviso, rischia di ledere la sovranità popolare. Perciò mi sembra che questa proposta della rappresentanza della seconda Camera non soddisfi all’esigenza di democraticità delle istituzioni parlamentari.

Mi sembra però anche che essa finisca col nuocere all’efficienza di queste istituzioni, perché la rappresentanza di interessi di categoria non offre in sé un principio di integrazione proprio, tale da superare la netta differenziazione fra i vari gruppi di interessi che in una rappresentanza di questo tipo vengono assunti nella loro immediatezza. E d’altra parte anche qui vi è una obbiezione pratica. Evidentemente un simile tipo di rappresentanza è inconciliabile o difficilmente conciliabile con il principio della decisione a maggioranza; ma l’applicazione del principio della decisione all’unanimità o dell’accordo delle categorie di volta in volta specificatamente interessate a ogni determinato problema trova grandi difficoltà di applicazione pratica.

Il fatto è, onorevoli colleghi, che a nostro avviso i gruppi professionali non possono sostituire né integrare i partiti. Sono i partiti, secondo noi, che viceversa permettono precisamente l’integrazione degli interessi di categoria e la loro mediazione con l’interesse generale.

Ma abbandoniamo il terreno della teoria e guardiamo all’esperienza. C’è stata una esperienza nel campo di queste Camere di tipo corporativo. Che cosa ci insegna a questo proposito l’esperienza più o meno recente? Io, appunto per non lasciare il minimo dubbio che possa sorgere da me un sospetto sulle buone intenzioni e sulla perfetta lealtà di coloro che hanno sostenuto questa tesi, voglio semplicemente rispondere citando le parole del Kelsen (dall’opera Vom Wesen und Wert der Demokratie). Il Kelsen, dopo aver criticato a fondo sul piano teorico la cosiddetta rappresentanza d’interessi, conclude in questi termini: «Non vi è da stupirsi che l’organizzazione corporativa non abbia servito che ad uno o a vari gruppi per stabilire il loro predominio sugli altri; cosicché è lecito presumere che la rivendicazione recentemente di nuovo formulata d’introdurre una organizzazione corporativa, non manifesta tanto il bisogno di una partecipazione organica di tutti i gruppi professionali alla formazione della volontà statale, quanto piuttosto la volontà di potenza di certi gruppi d’interessi ai quali la Costituzione democratica non sembra più offrire possibilità di successo politico. Non è degno di nota il fatto che una simile rappresentanza venga richiesta, nel campo borghese, proprio nel momento in cui si presenta la possibilità che il proletariato, finora minoranza, conquisti la maggioranza, e che il parlamentarismo democratico minacci di ritrovarsi contro quel gruppo al quale aveva finora assicurato il predominio politico?».

L’esigenza dunque che ci fa ritenere opportuna una seconda Camera è quella di una maggiore ponderazione e competenza nell’opera legislativa, tale da realizzare al tempo stesso una piena efficienza ed una assoluta democraticità dell’istituto parlamentare. In altri termini, a noi sembra che, se accogliendo il suggestivo ammonimento di Giorgio Washington, vogliamo predisporre quel piattino sul quale versare il thè troppo bollente che potrebbe prepararci la prima Camera, dobbiamo però evitare di incorrere nell’obbiezione di Beniamino Franklin, il quale citava l’esempio dei due cavalli che tirano in opposte direzioni. Ora mi sembra, come dicevo, che il progetto di Costituzione negli articoli che esaminiamo non sodisfi pienamente a siffatte esigenze. Perché? Quali sono le critiche che faccio a questa parte del progetto? Voglio fare anzitutto una osservazione. A me sembra che tutto quello che nelle norme regolanti la composizione dei poteri della seconda Camera non concorra a sodisfare le esigenze che ho prima indicato, costituisce sempre, in ultima analisi, il residuo di un altro movente – antidemocratico – che è all’origine storica della seconda Camera: porre un freno alla sovranità popolare, per un senso di sfiducia nel popolo, per salvaguardare le prerogative della monarchia o i privilegi di determinate classi o ceti, a seconda dei casi che si sono presentati nella storia; e credo che di questi residui il progetto ne contenga non pochi.

Altri colleghi hanno fatto una critica a fondo nell’articolo 55, che è appunto quello nel quale si compendiano tutte queste questioni. Ricordo le critiche dei colleghi Preti e Giacometti a proposito del limite di 25 anni per l’elettorato attivo, del numero fisso di senatori per regione, delle categorie di eleggibili, delle elezioni di secondo grado per due terzi dei senatori attraverso i Consigli regionali, e via dicendo. Evidentemente questo è un miscuglio di disposizioni riflettenti tendenze diverse spesso contrastanti. Ho sentito, a proposito di questo articolo 55, il collega Codacci Pisanelli dire che in questo modo si verrebbe a riprodurre nella seconda Camera la composizione politica della prima. Mi permetta il collega di osservargli che così egli dimostra di voler battere ancora quella strada di cui il Lees-Smith, nella sua classica opera sulle seconde Camere, ha da tempo mostrato l’errore, la strada per cui si vorrebbe sottrarre la seconda Camera all’influenza dei partiti, quasi a farne uno strumento per costringere la prima Camera a una maggiore aderenza a quello che si pretende essere, al di fuori dei partiti, lo stato d’animo dell’opinione pubblica. Ora, qui mi pare che siamo di fronte al solito misconoscimento dei partiti, della funzione democratica dei partiti. Così ci si inoltra in un vicolo cieco, perché la strada giusta e realistica è un’altra: riconoscere la funzione democratica ed ineliminabile che i partiti hanno assunto nella vita politica moderna; e su questa base del riconoscimento della funzione essenziale dei partiti affrontare realisticamente il problema della seconda Camera perché essa risponda, appunto, alle esigenze di una moderna democrazia parlamentare. Anzi, per noi, il fatto che la composizione politica della seconda Camera venga a corrispondere a quella della prima costituisce un pregio e non un difetto, perché questo significa che la seconda Camera corrisponde evidentemente a quella che è la volontà popolare che si esprime nella forma più diretta, attraverso il suffragio universale nell’elezione dei membri della prima Camera. Noi critichiamo il progetto proprio perché ci sembra non conduca a un tale risultato, risultato che del resto gli studi e le esperienze più recenti dimostrano essere un presupposto essenziale. Così, per esempio, nella Costituzione norvegese che ha dato ottima prova da oltre centotrenta anni; così nella famosa Conferenza Bryce del 1917, per la riforma della Camera Alta in Inghilterra, dove si proponeva che i membri della seconda Camera venissero scelti dalla prima proprio per garantire questa, se non identità, per lo meno corrispondenza di conformazione politica fra le due Camere. Non so perché la seconda Sottocommissione non abbia considerato più attentamente queste soluzioni, che hanno carattere molto moderno e pratico.

Non è ora il momento di riproporre soluzioni di questo genere, che ci farebbero risalire molto indietro nella discussione. La proposta concreta, intorno alla quale si è orientato il mio Gruppo, è precisamente quella formulata nel mio ordine del giorno: elezione della seconda Camera a suffragio universale col sistema uninominale, in base a determinati requisiti di eleggibilità, riprendendo la proposta avanzata, in sede di Sottocommissione, dall’onorevole Grassi, mi pare. Del resto, una proposta di questo tipo si avvicina molto all’idea fondamentale espressa da Cavour nel suo scritto, del 1848, sulla riforma del Senato, dove egli proponeva appunto che il Senato derivasse da una elezione popolare, ma non identica nel modo a quella della prima Camera.

A nostro avviso, il sistema uninominale consente una scelta secondo le qualità, le attitudini e le competenze personali; inoltre, consente di mantenere un più stretto legame fra eletto e interessi locali degli elettori. Ci sembra, quindi, rispondere, per questi aspetti, alle esigenze cui riteniamo debba rispondere la composizione di una seconda Camera democratica ed efficiente.

Il suffragio universale è anche esso, evidentemente, una condizione assoluta non solo di democraticità, ma di efficienza; perché il ricorso al suffragio universale per la elezione della seconda Camera ne garantisce la composizione corrispondente a quella della prima ed elimina o riduce le cause di eventuale conflitto tra le due Camere. D’altronde, solo nel caso di elezione a suffragio universale è ammissibile un conflitto inter pares tra le due Camere; perché, se la seconda Camera non derivasse dal suffragio universale, un eventuale conflitto non potrebbe non essere risolto, a priori, a vantaggio della prima Camera. Nel caso di divergenza fra due Camere, che traggano origine diversa per la diversa composizione del corpo elettorale, il conflitto può diventare grave e insanabile intorno a questioni politiche fondamentali. L’onorevole Einaudi, nella seconda Sottocommissione, volle dimostrare i vantaggi di conflitti tra le due Camere, anche frequenti. Se in linea teorica questa tesi può essere suggestiva, ritengo che, di fronte ai problemi urgenti e gravi che si porranno al Parlamento italiano, si rischi, a lasciar fermentare i germi di possibili conflitti, di scardinare l’istituto parlamentare e di evocare l’azione diretta. Allora, altro che esigenze di ponderazione e di riflessione nella formazione delle leggi! Se non garantiamo la massima efficienza dell’istituto parlamentare, rischiamo veramente di far prendere la decisione dalla piazza. Ed in certi casi questo rischio potrebbe verificarsi ove accettassimo l’ipotesi del referendum, come soluzione di eventuali conflitti.

Dunque, la elezione a suffragio universale della seconda Camera è anche questione di efficienza, ed essa non incide per nulla sulla funzione essenziale della seconda Camera che è quella di obbligare la prima Camera ad un riesame del disegno di legge secondo emendamenti e proposte conformi ai principî fondamentali ai quali si ispira la legge stessa, e non alla rinuncia a quelle finalità politiche essenziali, perché questo rivelerebbe un contrasto politico fondamentale, inammissibile, perché sostanzialmente contradittorio alla unicità della fonte dalla quale le due Camere traggono origine e forza.

Onorevoli colleghi! Si parla molto di crisi dello Stato moderno ed anche da noi, in Italia, si sente sposso lamentare la decadenza del senso dello Stato. È certo che il delicato sistema dell’equilibrio dei poteri sul quale i regimi parlamentari da oltre un secolo e mezzo si sono poggiati, ha spesso scricchiolato sotto il peso di nuovi problemi, quali lo sviluppo tecnico della vita moderna, la formazione dei monopoli capitalistici, l’avvento delle masse nella vita politica e, di conseguenza, la formazione dei grandi partiti democratici: le istituzioni parlamentari hanno subìto la prova più dura di fronte a questi compiti nuovi. Già dalla metà del secolo XIX si trovano i segni del discredito dei Parlamenti in seno all’opinione pubblica. Tutti abbiamo visto come l’aumentata potenza della stampa, il peso dei congressi dei partiti e delle grandi organizzazioni di massa abbiano diminuito l’autorità e il prestigio del Parlamento. Ora, se nella nuova Costituzione vogliamo gettare le basi di una moderna repubblica democratica in Italia, dobbiamo anzitutto preoccuparci di rafforzare il Parlamento e di innalzarne l’autorità e il prestigio. Come possiamo assolvere a questo compito? Limitando forse quelle altre libertà e forme di espressione, di associazione e di rappresentanza? Ma questo sarebbe antidemocratico ed in contrasto col progredire stesso della storia. Dobbiamo proporci di dar vita ad un Parlamento veramente democratico ed efficiente. Questa è la via da seguire. Questo del Parlamento è precisamente, secondo me, il banco di prova della nuova Costituzione. Per questo dobbiamo mettere da parte gli interessi di partito, di classe e di ceto, perché qui sono in giuoco gli interessi stessi e le sorti della democrazia parlamentare. Ci pensino coloro che se ne proclamano i più strenui fautori. Noi non consideriamo la democrazia parlamentare come l’ultima e perfetta forma di democrazia, tuttavia la riteniamo la più adeguata alle condizioni attuali del nostro Paese. Questa democrazia parlamentare noi vogliamo rafforzare in Italia, ed a questo precisamente tende l’ordine del giorno che ho svolto e che ho presentato anche a nome del mio Gruppo. Tutte le nostre proposte tendono sinceramente e lealmente a questo scopo: edificare in Italia una solida, moderna, progressiva Repubblica democratica parlamentare. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Corbi ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che la procedura prevista nel progetto di Costituzione per la formazione delle leggi comporta necessariamente ritardi e conflitti pregiudizievoli al buon esercizio della funzione legislativa, ritiene:

1°) che i conflitti delle due Camere debbano essere limitati e risolti nell’ambito del Parlamento, con la prevalenza del voto della prima Camera;

2°) che la procedura prevista per la formazione delle leggi sia opportunamente modificata in modo da assicurare la tempestività e certezza della norma».

Ha facoltà di svolgerlo.

CORBI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, il mio ordine del giorno è stato originato dalla preoccupazione che i cittadini italiani, leggendo la nuova Costituzione, non abbiano a ripetersi ancora una volta: fatta la legge, trovato l’inganno. Perché potrebbe avvalorarsi il sospetto legittimo che la prima parte della Costituzione, che contiene indubbiamente innovazioni profonde nel campo sociale, economico e politico della nostra vita nazionale, voglia poi essere praticamente elusa con la seconda parte; in quanto che gli organi che dovrebbero assicurare la realizzazione di queste innovazioni e i progressi fatti in campo costituzionale non li permettano, non li rendano possibili.

Ed altra preoccupazione mia è quella che lo stesso istituto parlamentare tragga discredito dal fatto che la sua funzionalità e la sua efficienza sono compromesse da un sistema macchinoso, qualche volta confuso, ove i poteri che si dànno all’una e all’altra Camera non sono sempre fissati per accelerare il processo legislativo e per emettere norme chiare e che abbiano efficacia tempestiva.

Quale era il compito dei Settantacinque? Indubbiamente era quello di darci uno strumento legislativo rispondente alle esigenze di uno Stato moderno, il quale si caratterizza appunto per la sua nuova socialità, per il potenziamento dello Stato e per le nuove attribuzioni del potere legislativo.

È certo che oggi uno Stato moderno deve adempiere a compiti ed a funzioni molto più gravosi di quelli di un secolo fa, all’inizio, cioè, dei regimi, parlamentari. Oggi il potere esecutivo ed il potere legislativo devono preoccuparsi di cose che prima invece erano affidate al fruttuoso dinamismo di una classe dirigente la quale aveva di fronte a sé grandi possibilità, ma che oggi invece, per ragioni che sono nelle cose, non è più in condizione di poter garantire lo sviluppo democratico e progressivo della vita sociale; per cui è necessario che intervenga lo Stato a coordinare, regolare e disciplinare. Lo vediamo ogni giorno: per il carovita, per i braccianti, per i metallurgici, ecc.

Nuovi e maggiori sono quindi i compiti di uno Stato moderno, e, per corrispondere alle esigenze dei tempi, il Parlamento deve essere un organo il quale possa efficacemente, tempestivamente dare norme che regolino la vita in tutti i campi.

In sostanza, noi avevamo bisogno di un ordinamento dello Stato che fosse il più democratico ed efficiente, e tale cioè che non pregiudicasse o non potesse mai, in qualsiasi modo, venire a ledere o a compromettere quei principî che erano stati già stabiliti nella prima parte di questa Costituzione.

Risponde il progetto in esame alla esigenza esposta? Non sembra. Io ho avuto l’impressione, leggendo la seconda parte della Costituzione, che vi siano delle incongruenze, qualche volta perfino dei paradossi, ed anche qualche innocente finzione. Vi sono articoli che minacciano di appesantire tutta l’attività legislativa, per cui si corre il rischio che nessuna legge sia possibile rendere esecutiva. E credo che ciò sia dovuto al fatto che si è voluto appiccicare al vecchio il nuovo, perché il vecchio e il nuovo non hanno trovato la necessaria armonizzazione; perché, come diceva poco fa il collega Giolitti, si è avuta sempre la preoccupazione di garantire gli interessi di alcune classi con danno del popolo.

Anche quando si parla di referendum e si mostra affanno nel ricercare qualcosa che possa far dire che questa Costituzione è Costituzione moderna e democratica; poiché l’intenzione è tradita dagli attributi dati alla seconda Camera, dalla procedura che si suggerisce per la formulazione delle leggi. In un certo punto si parla di iniziativa popolare. È questa una di quelle innocenti finzioni di cui prima parlavo ma contro di essa non lancerò nessuno strale. Lasciamo pure in questo testo costituzionale quella parte dell’articolo 68 che suona così: «Il popolo ha sempre l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno 50.000 elettori, di un disegno redatto in articoli». È proprio indispensabile? Serve a qualche cosa? Io non credo. Non credo perché ci sarà sempre un deputato che, forse ai soli fini elettorali, arriverà prima di 50.000 elettori a proporre un disegno di legge. Ad ogni modo non è questo il difetto grave della Costituzione; perciò, ripeto, lasciamo stare. Ma ci sono ben altre innocenze. Innocenze? Il referendum! Io premetto di non essere un avversario dichiarato del referendum, anzi credo che il referendum possa essere uno strumento utile quando se ne fa un uso parsimonioso, il che però non mi sembra avvenga secondo quanto è proposto nel progetto.

Esaminiamo un po’ quale dovrebbe essere il curriculum di un disegno di legge secondo la procedura prevista. Temo che si possa arrivare ad un assurdo: che in cinque anni (dico un paradosso) nessuna legge esca dal Parlamento italiano. Perché? Supponiamo, colleghi, che un deputato e un senatore propongano un disegno di legge. I due disegni di legge vertono sulla stessa materia, ma differiscono in qualche cosa: nella sostanza o in altro. Ebbene, le due Camere si riuniranno ciascuna per conto proprio per discutere, formulare, rendere la legge completa nei suoi articoli; e passeranno (siamo generosi), se si tratterà di una legge importante, con tutto l’altro lavoro che vi sarà da fare, due mesi per l’esame in sede di Commissione; perché ormai l’esperienza ci dimostra che c’è bisogno di tempo quando si tratta di leggi anche non molto importanti e decisive.

A un determinato momento le due leggi, pronte, verranno portate in discussione e si dovrà pure esaminare quali di queste due leggi debba avere la precedenza o se sia possibile fonderle in una per rivolgere l’esame delle due Camere su uno solo di questi disegni di legge. E può passare (e voglio essere generoso) un mese per le trattative che ci saranno tra le due Camere e per la discussione che ne seguirà. Ad un certo momento si raggiunge l’accordo e uno dei due disegni di legge, supponiamo quello della prima Camera, va all’esame della seconda Camera. Può verificarsi benissimo il fatto previsto dal testo della Costituzione: e cioè che la seconda Camera lasci passare tre mesi e non risponda.

Allora il Presidente della Repubblica chiederà alla seconda Camera che si pronunzi. Passeranno due mesi e, se la seconda Camera non sarà del parere della prima, si avranno due posizioni diverse, quella della prima e quella della seconda Camera.

In questo caso cosa accadrà? Il Presidente della Repubblica ha il diritto di indire il referendum, ma può anche non pronunciarsi, perché l’articolo 70 dice che il Presidente ha facoltà di indire il referendum, ma non vi è tenuto a rigore di termini. Quindi, il Presidente della Repubblica non si pronuncia e questa legge rimane sospesa. Oppure, il Presidente indice il referendum. Il referendum, allora, richiederà – non voglio dire molto – almeno tre mesi, per la preparazione tecnica necessaria e per i comizi, nei quali tutti i partiti vorranno dire la propria. Il referendum si fa e respinge la legge. Sono passati quindi dieci mesi e ancora la legge non si è fatta; dieci mesi, ma possono essere anche più.

Facciamo ora il caso più favorevole: che la legge si faccia, perché le due Camere si trovano d’accordo. Però accade (è un caso che può molto facilmente verificarsi) che questa legge non venga approvata con la maggioranza dei due terzi, ed allora 50 mila elettori sono in diritto di chiedere il referendum. Si fa il referendum, che decide per il sì o per il no; ma questo referendum, a sua volta, non è valido perché ad esso non hanno preso parte i due quinti degli elettori.

Mi sembra che si possa davvero concludere che questo è il sistema per non fare le leggi.

Io riscontro queste manchevolezze ed addebito queste gravi deficienze all’ordinamento che si è voluto dare all’istituto parlamentare, al volere la seconda Camera dotata di certi poteri. Non dirò qui nessuna parola per dimostrare non solo la inutilità del Senato, ma anche la ingiustificata insistenza con la quale lo si richiede.

Altri oratori hanno avuto occasione di parlare prima di me contro l’istituzione della seconda Camera, ed io mi rimetto a quanto essi hanno detto. Ma ormai – diciamocelo francamente – la seconda Camera è cosa scontata. Anzi, posso dire che qualche argomentazione ha convinto anche noi sulla utilità che oggi in Italia, per la situazione particolare che attraversiamo – dopo tanti anni ci siamo reincamminati sulla strada della democrazia e perciò dobbiamo procedere attentamente, con molto giudizio – la seconda Camera possa avere una funzione utile; però facciamo in modo che questa seconda Camera sia veramente utile, che non sia di intralcio. Perché non adottiamo il sistema approvato dalla Costituente francese? Voi sapete come questo sistema sia chiaro, sia lineare, e soprattutto come esso consenta una spedita opera legislativa. Con questo sistema, su cui non vorrò dilungarmi perché ciascun collega ben lo conosce, avviene che le Camere hanno ambedue il diritto di iniziativa; ma quando sorgono conflitti, qualora la seconda Camera, ad esempio, sia in disaccordo con la prima, la legge ritorna alla prima Camera e questa, in seconda lettura, ove confermi a maggioranza assoluta il suo primo parere, determina l’esecutività della legge, la quale diviene così operante.

Si tratta, in sostanza, di quanto diceva poc’anzi l’onorevole Fuschini, ed io accetto pienamente questa parte del suo ordine del giorno perché io apprezzo lo sforzo che egli fa perché le due Camere non vengano configurate in modo da annullarsi vicendevolmente nel loro compito.

Ed inoltre, una volta adottata la seconda Camera, si cerchi di farla funzionare secondo criteri più pratici, direi, ed anche più moderni. Per qual motivo, ad esempio, l’approvazione dei bilanci deve essere materia demandata alla seconda Camera? Ma non è questa competenza specifica della prima Camera e soltanto di essa? Non è questa forse la giustificazione storica dell’assemblea elettiva della Camera dei deputati? È questa, del resto, prerogativa esclusiva della prima Camera in varie Costituzioni: nella francese, nell’argentina, nella canadese, nella jugoslava, nella polacca e in quelle di vari altri Paesi.

Si convenga che la materia finanziaria è la chiave del potere esecutivo e che è la prima Camera quella che rispecchia meglio le esigenze del Paese. Per la possibilità che hanno i componenti della prima Camera di avvertire le reali esigenze del Paese nella contingenza del momento politico, per la stessa vita che i suoi membri conducono a contatto diretto con gli operai, con i contadini, con gli impiegati, ecc., la Camera dei deputati meglio risponde allo scopo.

Così dicasi per quanto riguarda l’amnistia, fatto squisitamente politico, che indubbiamente la prima Camera può meglio giudicare, e per il diritto di inchiesta; così per la fiducia al Governo, ad evitare, in questo caso, quei facili conflitti che possono verificarsi.

Io ho citato, onorevoli colleghi, alcuni casi in cui indubbiamente la prima Camera ha senz’altro, direi, non dei diritti, ma dei doveri maggiori che non la seconda nei confronti del Paese e del Governo. Altre circostanze poi possono sorgere numerosissime, e per questo appunto è utile e necessario adottare quanto proponeva poc’anzi l’onorevole Fuschini, che cioè, in ciascun caso, ove sorgano conflitti fra le due Camere, sia in definitiva la prima quella che decide.

E mi consenta l’onorevole Presidente di dire ancora qualche cosa sull’istituto del referendum. Io ne ho sentito qui fare i più grandi elogi; ho sentito dall’onorevole Preti che il referendum è una garanzia democratica, è un correttivo dello strapotere dei partiti, equivale alla democrazia diretta. Sono d’accordo in gran parte, ma solo in parte, perché il referendum, se non è bene utilizzato, può diventare un espediente ostruzionistico con maschera democratica. L’articolo 72 ce lo conferma. E quell’esempio che poco fa io avevo fatto della povera e grama vita che dovrebbe fare un disegno di legge per vedersi bocciato dopo tanto tempo di travagliato cammino, sta a dimostrare proprio che il referendum può servire a tutti coloro i quali hanno interesse acché una legge fondamentale – la riforma agraria, ad esempio – non abbia a passare mai; una legge sulla nazionalizzazione delle industrie o delle banche non possa venire in Italia, come invece viene in Inghilterra.

Con questo articolo 72, poi, si dà un potere enorme ai grandi partiti, ai partiti di massa – e sono io a dirlo, membro di un partito di massa – perché i grandi partiti saranno arbitri della situazione. Sarà facile per un grande partito riuscire ad ottenere le firme necessarie per far indire il referendum ogni qual volta ad esso parrà. E, d’altra parte, sarà difficile che una legge possa passare a maggioranza di due terzi, o, meglio, possono darsi molti casi in cui questa esigenza non venga soddisfatta. E allora le leggi, per quanto bene elaborate, per quanto studiate, ponderate, non diverranno esecutive. E poi, non notate una incongruenza? Si vuole la seconda Camera come un organo di maggiore riflessione e di maggiore competenza; però, ad un certo momento, ci si dimentica assolutamente di questa maggiore competenza, di questa riflessione, e allora l’esito di tutto un lungo dibattito dipenderà non dallo studio, dalla riflessione, dal senso di responsabilità dei legislatori, ma dal partito il quale è più attrezzato dal punto di vista della propaganda, dei mezzi, e che potrà nel Paese con facilità anche prospettare una legge per quello che non è, interpretare una legge come non dovrebbe essere interpretata: in altri termini, si rende possibile ingannare così gli elettori, perché ci si può servire anche della peggiore demagogia nell’illustrare una legge alle popolazioni che debbono pronunciarsi con un referendum.

L’esito di un referendum non sarebbe, quindi, altro che la volontà dei partiti più forti, i quali possono imporre, per i mezzi, per la forza che hanno, la loro volontà al Paese. Pensino a questo quei deputati che appartengono ai partiti delle minoranze: le minoranze non avrebbero più nessuna funzione nella vita parlamentare se non quella di protestare; ma le proteste non fruttano molto.

E ancora vorrei dire – per rispondere all’onorevole Preti – che il referendum non è la democrazia diretta, perché la democrazia diretta ha proprie istanze, una propria prassi, è qualcosa che si svolge, si articola, si forma in una maniera completamente diversa. Dico queste cose, perché non si confonda il referendum con la democrazia diretta, che noi rivendichiamo e ci poniamo come obiettivo da raggiungere.

E, infine, del referendum si vuole dire che è un correttivo – per taluni sarebbe un correttivo – dello strapotere dei partiti.

Ma questo ormai non si ammette più, non può essere più ritenuto valido questo argomento oggi!

E vi cito le parole – non sono parole mie, ma parole di un uomo che certo non poteva essere tacciato di simpatie per le sinistre – vi cito le parole di Garlanda, deputato e giornalista, che scriveva: «Gli Italiani non hanno ancora capito che Governo parlamentare vuol dire Governo di partito. Essi non si sono ancora resi conto che tutti quelli che vogliono che un certo numero di idee prevalgano nel Governo del loro paese, devono iscriversi ad un partito che si faccia propugnatore di quelle idee».

Mi sembra che queste parole possano oggi utilmente ripetersi. Ed è certo che i partiti sono oggi la rappresentanza più autorevole e qualificata, sono una realtà della nostra vita democratica; e parlare di strapotere dei partiti significa parlare di strapotere della democrazia, perciò credo, in ultima analisi, sia un non senso parlare di strapotere dei partiti in regime democratico. E sono convinto che se in Italia noi avessimo avuto anche nei vecchi Parlamenti, anche nei primi Parlamenti dello Stato italiano, dei partiti con chiara fisonomia e con chiari programmi, non avremmo assistito a quel trasformismo parlamentare che è tanto nociuto al Paese e che, anche se involontariamente, ha aperto la strada a quel regime che oggi, in questa Costituzione, noi vogliamo condannare.

Infine, il referendum – così come è previsto in questo testo costituzionale – può venire a turbare l’unità dell’indirizzo politico ed a paralizzare di conseguenza l’azione governativa e parlamentare. Si pensi che un Governo può veder passare una legge, la quale è condizione di altre leggi, ma che, rimanendo sola, avulsa da quelle altre che dovrebbero invece essere approvate, non ha ragione di essere: ragion per cui il Governo si troverebbe ad un certo momento nella impossibilità di assolvere il suo programma e le sue funzioni.

Voglio richiamare la vostra attenzione, onorevoli colleghi, su questo fatto: il referendum può scavare solchi profondi fra Regione e Regione, specialmente quando una legge riguardi questioni economiche, quando cioè una legge può favorire gli interessi industriali di alcune Regioni d’Italia ma può pregiudicare gli interessi di altre Regioni che hanno una economia diversa. E allora noi assisteremmo ad una lotta spietata fra Regione e Regione, perché, se la legge, nel quadro generale dell’economia nazionale, è buona e giusta, perché il legislatore la vede con più lontana prospettiva, però, colui che è chiamato a decidere immediatamente, e non ha possibilità né capacità di un più ampio giudizio, può dare un voto dettato non dagli interessi nazionali ma da motivi immediati e contingenti, con grave danno di tutto il Paese.

Dunque il referendum può diventare una arma pericolosa e nociva.

Io non so quanto ci sia di vero e non faccio mio quanto ha pubblicato un giornale che ho qui; è stato scritto e pubblicato di una certa circolare vaticana, del febbraio di quest’anno.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, devo avvertirla che ella ha ormai superato i limiti di tempo consentiti per lo svolgimento degli ordini del giorno.

CORBI. Sarò brevissimo. Del resto la citazione che devo fare è breve.

UBERTI. Da dove l’ha presa?

CORBI. Lei potrà poi anche smentire.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, continui a parlare; le raccomando però la brevità.

CORBI. La circolare suona così: «In linea di massima il progetto risponde sufficientemente allo spirito cristiano; tuttavia potrebbero verificarsi situazioni di fronte alle quali si impone una tempestiva presa di posizione. Non mancherà il centro di seguire gli avvenimenti, pronto a lanciare l’appello alla periferia per quelle manifestazioni di consenso di massa necessarie in regime democratico per suffragare la legittimità delle richieste. Occorre al riguardo predisporre alla periferia opportuni apparati per l’organizzazione tempestiva di liberi referendum».

UBERTI. Ma da dove l’ha presa?

PRESIDENTE. Onorevole Uberti, non interrompa.

CORBI. Onorevole Uberti, è forse stato lei a redigerla come uomo di Azione cattolica? Parla per fatto personale?

Che cosa potrebbe accadere se questa circolare fosse vera? Che uno Stato straniero deciderebbe delle leggi che in Italia si possono e non si possono fare. Questa è la conseguenza di quanto ho letto. (Commenti).

Poiché, onorevole Presidente, ella è stata già generosa nel concedermi qualche minuto in più, con grande rincrescimento dell’onorevole Uberti, la pace del quale non voglio più turbare, concludo dicendo che ho ascoltato con interesse quanto ha detto l’onorevole Condorelli quando ha parlato della necessità di assicurare al Parlamento una funzionalità più sicura di quanto questo progetto preveda.

Io mi auguro che l’articolo 69 nei successivi ordinamenti interni del Parlamento venga applicato e che le Commissioni (si studierà poi come farle funzionare) abbiano effettivamente maggiori poteri onde assicurare una maggiore possibilità nel legiferare e riparare a quegli inconvenienti che notiamo in questa Assemblea Costituente, dove si è in troppi a discutere e dove spesso, come accade in questo caso, vi sono anche deputati i quali si fanno richiamare dal Presidente per aver superato i limiti di tempo consentili. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Pratolongo e Scoccimarro hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti siano stati presi o si intenda prendere per garantire le istituzioni democratiche e le libertà dei cittadini nella provincia di Gorizia contro le aggressioni e violenze scatenate da provocatori nazionalisti e fascisti a danno di italiani e sloveni e delle organizzazioni democratiche; e per l’arresto e la punizione dei responsabili dei gravi fatti accaduti nei giorni scorsi».

Interesserò i Ministri interrogati affinché facciano sapere, possibilmente domani, quando intendano rispondere.

È stata presentata la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi che lo hanno indotto:

  1. a) a riservare ai maestri elementari provvisori reduci, combattenti ecc., un numero di posti inferiore a quello accantonato per legge in seguito al concorso del 1942, e a non riservare agli stessi la metà dei posti resisi disponibili dal 6 gennaio 1942 fino al 15 aprile 1946, data della legale cessazione dello stato di guerra;
  2. b) a non avvalersi della facoltà concessagli dall’articolo 7 del decreto legislativo 26 marzo 1946, n. 141, che gli consentiva l’assegnazione dei posti riservati mediante concorso per soli titoli fino al 31 dicembre 1946;
  3. c) a riservare agli insegnanti medi combattenti, reduci, ecc., un numero di posti inferiore di ben 736 a quello dei posti accantonati nei concorsi di cui ai decreti ministeriali 18 febbraio 1941 e 28 dicembre 1942, senza peraltro mettere a concorso la metà dei posti resisi vacanti dal 1942 al 1947;
  4. d) per sapere, infine, se non creda opportuno rielaborare il bando di concorso pubblicato nella Gazzetta Ufficiale 158 del 14 luglio 1947, accogliendo le richieste degli insegnanti elementari e medi reduci, combattenti, ecc., contenute nell’ordine del giorno votato dal Congresso del giugno del corrente anno.

«Pignatari, Longhena, Caporali, Carboni, Vigorelli, Villani, Persico, Reale, Crispo, Filippini, Preti, Lami Starnuti, Zanardi, Paris».

Interesserò il Ministro della pubblica istruzione affinché voglia far conoscere, possibilmente entro domani, quando intenda rispondere a questa interpellanza.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga giusto equiparare le case coloniche a quelle dei centri urbani ai fini del contributo statale per danni bellici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quale è lo stato attuale dei servizi sanitari della Sicilia e per conoscere i motivi per i quali, dopo ben quattro anni dalla liberazione dell’Isola, non si sia provveduto a regolarizzare, con l’invio di un medico provinciale di ruolo, la direzione dei servizi sanitari della provincia di Catania, che risulta ancora nelle mani di un incaricato provvisorio ed estraneo all’Amministrazione sanitaria.

Chiede altresì di conoscere se è vero e da chi e per quali motivi venne impedito di prendere possesso dell’Ufficio provinciale di sanità pubblica di Catania, al dottor Giuseppe Musumarra, medico provinciale di ruolo, ivi destinato con ordinanza del 1° marzo 1944 del Ministero dell’interno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quali motivi abbiano indotto i Ministri competenti all’esonero della ricchezza mobile C-2 e complementare sui redditi di lavoro, soltanto per gli impiegati statali, escludendo dal beneficio la restante parte dei lavoratori che costituisce la maggioranza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per conoscere se non credano di concerto procedere all’emanazione di un decreto che preveda, in analogia a quanto è stato fatto da parte del Ministro delle poste e delle telecomunicazioni per la estensione della rete telefonica, un fondo speciale, eventualmente da ripartirsi in più esercizi finanziari, per provvedere all’impianto di illuminazione elettrica nei comuni (o nelle borgate superiori a 1000 abitanti) che ne sono sforniti e che non hanno risorse economiche tali da poter direttamente finanziare i relativi lavori.

«Il provvedimento, che si impone in una Nazione civile, nell’anno di grazia 1947, e che non avrebbe in realtà bisogno di sostenitori, potrebbe, a differenza del decreto 30 giugno 1947, n. 783, sulla rete telefonica, estendersi a tutto il Paese senza limitarlo all’Italia meridionale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta),

«Sullo, Lettieri, Giordani, Mazza, Mattarella, Castelli Avolio, Codacci Pisanelli, BUBBIO, CASSIANI, Trimarchi, De Caro Gerardo, Galati, Rodinò Ugo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno trasmesse ai Ministri competenti per la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.54.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXXI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 17 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Bencivenga

Coppi

Scelba, Ministro dell’interno

Uberti, Relatore

Lussu

Schiavetti

Crispo

Laconi

Russo Perez

Fabbri

Rubilli

Priolo

Fogagnolo

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Bubbio

Gasparotto

Moscatelli

Cianca

Moro

Micheli

Gronchi

Votazione nominale:

Presidente

La sedata comincia alle 11.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Zotta.

(È concesso).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Chiedo all’onorevole Bencivenga se mantiene il suo emendamento soppressivo dell’articolo 47, di cui ieri non poté concludersi la votazione per mancanza di numero legale.

BENCIVENGA. Mantengo l’emendamento, che rappresenta il pensiero politico del mio Gruppo, ma non insisto nella richiesta di appello nominale.

PRESIDENTE. Allora pongo in votazione per alzata di mano l’emendamento dell’onorevole Bencivenga, che propone la soppressione dell’articolo 47.

(Dopo prova e controprova, l’emendamento non è approvato).

Passiamo all’emendamento già svolto dell’onorevole Coppi. Se ne dia lettura.

AMADEI, Segretario, legge:

«Sostituire il primo comma col seguente: «Oltre i casi previsti dall’articolo 2 non sono elettori, per il periodo rispettivamente sottoindicato, coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. – Per vent’anni:
  2. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  3. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  4. c) le stesse cariche nel partito fascista repubblicano;
  5. d) ministro o sottosegretario dello pseudo governo fascista repubblicano;
  6. e) componente del direttorio nazionale e del consiglio nazionale del partito fascista repubblicano.
  7. – Per dieci anni:
  8. a) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica dal 3 gennaio 1923;
  9. b) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato;
  10. c) segretario politico federale del partito fascista repubblicano;
  11. d) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista.

III. – Per cinque anni:

  1. a) segretario politico federale del partito fascista dopo il 3 gennaio 1925;
  2. b) deputato o senatore che dopo il 3 gennaio 1925 abbia votato leggi fondamentali intese a mantenere in vita il regime fascista;
  3. c) prefetto o questore nominato per titoli fascisti;
  4. d) ufficiale generale della milizia volontaria sicurezza nazionale;
  5. e) ufficiale generale o superiore che abbia prestato servizio effettivo nelle forze armate della pseudo repubblica sociale; ufficiali di pari grado della guardia nazionale repubblicana, delle brigate nere, dei reparti speciali di polizia politica della pseudo repubblica sociale;
  6. f) consigliere nazionale».

PRESIDENTE. Onorevole Coppi, ella insiste nel suo emendamento?

COPPI. Dichiaro di non insistere nell’emendamento che ho proposto. Ritengo che i criteri ai quali si ispira il mio emendamento potranno trovare sede forse più opportuna quando discuteremo dell’elettorato passivo. Mi riservo però, ove il corso della discussione lo imponga, di insistere su taluni dei criteri ai quali il mio emendamento si ispira.

PRESIDENTE. Vi è poi l’emendamento presentato dagli onorevoli Schiavetti, Lussu, Cianca, Tega, Chiostergi, Vernocchi, Giua, Fornara. Se ne dia lettura.

AMADEI, Segretario, legge:

«Sostituire il primo comma con i due seguenti:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2 non sono elettori per dieci anni coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  2. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  3. c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista;
  4. d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista;
  5. e) segretario o vicesegretario federale (o carica equipollente) sin dalla prima organizzazione del partito fascista; fiduciaria o vicefiduciaria delle federazioni dei fasci femminili;.
  6. f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative;
  7. g) segretario politico del fascio o segretaria del fascio femminile di comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti (censimento 1936);
  8. h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano;
  9. i) consigliere nazionale;
  10. l) deputato che, dopo il 3 gennaio 1925, abbia votato leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista; senatore che sia stato dichiarato decaduto dall’Alta Corte o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi;
  11. m) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica o nominati dal 3 gennaio 1925;
  12. n) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale;
  13. o) prefetto o questore nominati per titoli fascisti; capo della provincia o questore nominati dal governo della pseudo repubblica sociale;
  14. p) «moschettiere del duce», ufficiale della milizia volontaria sicurezza nazionale, in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alle milizie ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria;
  15. q) ufficiale che abbia prestato effettivo servizio nelle forze armate della pseudo repubblica sociale, ufficiale della guardia nazionale repubblicana, o componente delle brigate nere, delle legioni autonome e dei reparti speciali di polizia politica della pseudo repubblica sociale.

«Sono eccettuati dalla privazione dei diritto elettorale coloro che siano dichiarati non punibili ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 7 del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, e coloro che, prima del 10 giugno 1940, abbiano assunto un deciso atteggiamento contro il fascismo».

PRESIDENTE. Questo emendamento stabilisce anzitutto il principio della sospensione dall’esercizio del diritto elettorale portata a dieci anni invece che a cinque, come propone il progetto governativo.

Credo, quindi, che sia necessario prima mettere in votazione questa determinazione del termine di dieci anni; poi porrò ai voti i vari commi dell’emendamento che si riferiscono alle categorie da sospendere dall’esercizio del diritto elettorale.

Il pensiero sia del Governo che della Commissione è già stato manifestato sopra tutto l’emendamento nella passata seduta. Ad ogni modo, invito il Governo ad esprimere il suo parere sull’emendamento Schiavetti, limitatamente alla proposta di elevare a dieci anni il periodo di sospensione dall’esercizio del diritto elettorale.

SCELBA, Ministro dell’interno. Mi rimetto allo dichiarazioni già fatte.

PRESIDENTE. Cioè contro l’emendamento.

SCELBA, Ministro dell’interno. Sì, contro l’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Vorrei pregare l’onorevole Schiavetti di non insistere su questo suo emendamento, perché evidentemente egli stesso, che ha partecipato alla discussione in seno alla Commissione, sa che l’emendamento della Commissione va considerato nel suo complesso organico, e che si è arrivati a stabilire il termine di cinque anni come termine transattivo tra le varie proposte, e che, d’altra parte, non si basa, come il primitivo testo del Governo, sulle pronunce precedenti, ma si basa sull’impostazione di una norma oggettiva, svincolata da tutte le pronunce fatte, per modo che ha obiettivamente un valore morale oggettivo maggiore. Tanto è vero che tutti quelli che avevano sostenuto un parere diverso, come l’onorevole La Rocca, e lo stesso onorevole Schiavetti, sono arrivati ad accettare questa proposta transattiva, che è stata presa alla unanimità. Vuol dire che in futuro, quando vi sarà una nuova legge elettorale, se la situazione fosse per esigere un numero maggiore di anni, potrà sempre esser fatto.

Quindi è molto meglio che rimaniamo sopra la deliberazione già presa, senza arrivare ad una estensione che non recherebbe alcun vantaggio maggiore di quello che è stato già proposto nel testo della Commissione, deliberato, ripeto, concordemente e col consenso dello stesso onorevole Schiavetti.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Siccome anch’io ho firmato l’emendamento dell’onorevole Schiavetti convinto di fare una cosa estremamente seria e moralizzatrice, sono obbligato a difenderlo. Se ho ben capito, il collega onorevole Uberti ha limitato il suo intervento alla questione dei cinque anni e dei dieci anni. Se si limitasse solamente a questa questione, potremmo anche facilmente andare d’accordo perché, evidentemente, il riesame che noi ci proponiamo di fare fra dieci anni, lo faremo fra cinque anni, ma su tutte le altre questioni l’emendamento Schiavetti non va ritirato.

Io ho presentato un emendamento per cui gli ufficiali volontari nella guerra contro il popolo spagnolo siano compresi nella categoria degli esclusi. È stato rilevato dall’onorevole Ministro dell’interno, che pur aderisce in linea di massima, che praticamente questo creerebbe delle complicazioni. Limito la mia constatazione solo a questo punto. Vi è un lato umano, va bene, ma vi è anche un lato politico. Devo ricordare ai colleghi che, quando ero Ministro, sostenni la necessità che le famiglie povere dei volontari caduti in Spagna, anche fascisti, dovessero essere aiutate perché non può cadere su di esse una sanzione.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, scusi: in questo momento si parlava dell’emendamento Schiavetti, mentre lei parla del suo emendamento.

LUSSU. Parlo del mio emendamento per non prendere la parola due volte. È questione di risparmio di tempo. Del resto, finisco subito.

Il criterio che noi sostenevamo va limitato, non ai volontari in Spagna, ma agli ufficiali volontari, in senso, quindi, restrittivo, ed è un criterio che comporta una sanzione politica morale. Quando io ho sostenuto che le famiglie dei Caduti hanno diritto alla pensione, evidentemente era una questione morale, ma il criterio politico va mantenuto, perché dobbiamo moralizzare la ripresa democratica dello stato e così per i punti dell’emendamento Schiavetti che sono punti essenziali che vogliono marcare un indirizzo politico e morale.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Schiavetti se insiste nella sua proposta di elevare a dieci anni il periodo di sospensione dell’esercizio del diritto elettorale.

SCHIAVETTI. Insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Schiavetti limitatamente alla determinazione del periodo di sospensione dall’esercizio del diritto elettorale che, secondo questo emendamento, viene portato a dieci anni.

(Dopo prova e controprova, è approvato).

Passiamo alla votazione dell’elenco compreso nell’articolo 47.

L’Assemblea si renderà conto della necessità assoluta di procedere alla votazione lettera per lettera, perché a ciascuna lettera possono essere stati portati emendamenti, e inoltre vi possono essere dei deputati favorevoli a una lettera e contrari ad un’altra.

Pongo in votazione la lettera a) dell’articolo 47 del nuovo testo proposto dal Governo, del seguente tenore:

«a) segretario o vicesegretario del partito fascista».

(È approvata).

Pongo in votazione la lettera b) del seguente tenore:

«b) membro del gran consiglio del fascismo»;

(È approvata).

Pongo in votazione la lettera c) del seguente tenore:

«c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista».

(È approvata).

Prima di passare alla lettera d) del testo, sarà opportuno mettere in votazione la lettera d) dell’emendamento Schiavetti che è del seguente tenore:

«d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista».

Su questo sarà opportuno che la Commissione esprima il suo parere.

UBERTI, Relatore. È una questione di carattere generale, perché tutti gli emendamenti proposti dall’onorevole Schiavetti rappresentano un’altra situazione. Egli ha ripreso l’elenco delle esclusioni che era nella legge elettorale fatta per la Costituente; ma, in quell’occasione, si era voluti essere particolarmente severi, in quanto che si trattava di costituire l’Assemblea che doveva deliberare circa l’ordinamento e gli istituti del nuovo Stato democratico e antitotalitario.

Oggi, invece, vi è una situazione diversa, in quanto si tratta di eleggere il Parlamento di carattere ordinario. Vi è poi una ragione essenziale e ben più profonda, che cioè prima vi era l’esame di merito da parte delle Commissioni, mentre ora si deve stabilire una norma obiettiva per la quale colui che ha coperto quella determinata carica, indipendentemente da qualsiasi atteggiamento posteriore, per il solo fatto di aver coperto quella carica viene escluso dal diritto di voto. Se noi ora ammettiamo questi elenchi con la disposizione messa in testa all’articolo 47 (che, cioè, qualunque sia l’atteggiamento preso ed altri atteggiamenti collaterali, il solo fatto di aver coperto quella carica comporta l’esclusione dal voto), evidentemente facciamo una disposizione che è molto più rigorosa che non quella stabilita con la legge per la Costituente, perché, in base alla legge per la Costituente, le Commissioni comunali e quelle mandamentali potevano entrare nel merito. Qui, invece, per poter ovviare ad una della maggiori ingiustizie che si sono realizzate, per cui talvolta colui che aveva maggiori responsabilità, attraverso influenze e conoscenza di membri della Commissione, è riuscito a svincolarsi dalle sanzioni la Commissione ha voluto stabilire invece una norma obiettiva, assoluta, che cioè nessuna Commissione possa intervenire nel merito a discriminare.

Perciò è necessario, avendo modificato il criterio fondamentale della norma, arrivare a stabilire solamente le maggiori cariche per le quali si presume – indipendentemente da quelli che possano essere stati i modi di svolgimento di quelle attività – che chi le ha ricoperte ha assunto responsabilità determinati per la vita del passato regime. Dato questo criterio fondamentalmente diverso, che è stato posto dalla Commissione, ritengo che non possa essere sostenuto il criterio di estendere le esclusioni secondo la proposta fatta dall’onorevole Schiavetti. Se noi esaminiamo il merito, certo tutte queste categorie possono comprendere dei responsabili, ma con responsabilità di grado diverso, per cui si rende doverosa una indagine di merito, anziché andare a stabilire quello che si è voluto fare dalla Commissione, che cioè, indipendentemente da ogni altra attività, per il solo fatto di aver coperto quella carica, si presume una responsabilità assoluta. Vorrei perciò ancora pregare l’onorevole Schiavetti di non insistere nella sua elencazione, perché, diversamente, noi faremmo certamente una norma infinitamente più grave che non quella stabilita per la Costituente (Approvazioni a sinistra). Voi volete fare una norma più grave, ma in questo modo si può andare incontro a gravissime ingiustizie, poiché molte Commissioni hanno trovato naturale e perfettamente giusto di poter fare queste discriminazioni. Ora, poiché il carattere della norma oggi è profondamente diverso, almeno come è stata proposta dalla Commissione, questa ad unanimità, aveva deciso di respingere tutti questi emendamenti. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha compreso, si tratta non di un emendamento, ma di un’aggiunta, cioè si indica un’altra categoria di sospesi dall’esercizio del diritto elettorale. La dizione precisa è questa: d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista.

La pongo in votazione.

(Dopo prova e controprova, è approvata).

Passiamo alla lettera d), del testo governativo:

«d) segretario politico federale del partito fascista».

A questa lettera è stato presentato il seguente emendamento dall’onorevole Schiavetti, lettera e) del suo testo:

«e) segretario o vicesegretario federale (o carica equipollente) sin dalla prima organizzazione del partito fascista; fiduciaria o vicefiduciaria delle federazioni dei fasci femminili».

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Nell’emendamento Schiavetti bisognerebbe dire al plurale: «o cariche equipollenti». Si tratta, evidentemente, di un errore di stampa.

PRESIDENTE. Sta bene: si dirà: «o cariche equipollenti».

Chiedo all’onorevole Relatore il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione aveva espresso parere contrario. Se adesso i Commissari votano differentemente, il Relatore non può che dire che la Commissione aveva approvato un testo diverso e perciò la Commissione, come tale, non può che riaffermare la sua precedente deliberazione contraria, non senza far rilevare, per il valore dell’opera dalle Commissioni parlamentari, il fatto di atteggiamenti di taluni commissari, diversi in sede di Commissione e in Assemblea.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Vorrei sapere dalla cortesia del presentatore dell’emendamento quali dovrebbero essere le «cariche equipollenti», per intendere il concetto dell’emendamento.

PRESIDENTE. Io non ho la competenza specifica in materia e, quindi, do la parola all’onorevole Lussu.

LUSSU. Significa questo: nel testo è detto: «Segretario o Vicesegretario federale». Queste due cariche sono venute in un secondo tempo, quando le cariche venivano dall’alto; prima di questo secondo tempo queste cariche erano elettive, ma esplicavano la stessa funzione. Quindi, «cariche equipollenti» significa tanto del primo, quanto del secondo tempo. (Commenti).

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Schiavetti con la correzione: «o cariche equipollenti».

(È approvato).

Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Veroni, del seguente tenore:

«Alla lettera d) sostituire le parole: del partito fascista, con le seguenti: e componenti del direttorio federale del partito fascista».

(Dopo prova e controprova, è approvato).

Pongo in votazione la lettera e) nel testo governativo:

«e) le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale»;

(È approvata).

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Credo che molti colleghi non abbiano capito il valore della norma votata. Il Governo, secondo appare dal testo, si limita ad escludere dal diritto elettorale soltanto le massime cariche del Partito fascista repubblicano.

UBERTI, Relatore. No. Non è esatto. Le medesime cariche già indicate.

SCHIAVETTI. Ma le medesime dei commi precedenti, quelle indicate alle lettere a), b), c), d), quindi le massime cariche.

PRESIDENTE. Quando si dice «le medesime cariche» è chiaro che ci si riferisce a tutte quelle che sono state indicate in precedenza nell’articolo. Ora, in base alla votazione dell’Assemblea, sono state richiamate anche quelle indicate nei suoi emendamenti aggiuntivi.

SCHIAVETTI. Non mi pare.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. L’onorevole Schiavetti ha presentato un emendamento in cui non soltanto le cariche che sono indicate qui, ma tutte quelle conferite dalla repubblica sociale, senza distinzione, portano all’esclusione dal voto. L’emendamento Schiavetti, quindi, ha un’estensione infinitamente più larga di quello del Governo.

PRESIDENTE. Permetta, onorevole Laconi: lei ha perfettamente ragione, ma noi metteremo in votazione prima il testo del Governo, giacché abbiamo deciso, per semplicità di votazione, di regolarci in modo da esaurire prima le votazioni sopra le proposte del disegno di legge, poi quelle relative alle proposte contenute negli emendamenti aggiuntivi.

Pongo in votazione la lettera f) del testo governativo:

«Ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica o nominati dal 3 gennaio 1925».

(È approvata).

È stato presentato dalla Commissione un emendamento aggiuntivo del seguente tenore:

«Aggiungere dopo la lettera f) la seguente:

«f-bis) deputati che dopo il 3 gennaio 1925 abbiano votato leggi o mozioni intese a mantenere in vita il regime fascista; i senatori nelle stesse condizioni, eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia».

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Perché non portare il termine addirittura al novembre 1922?

UBERTI, Relatore. Che senso ha il novembre del 1922? Da dove viene fuori questa data?

Voci. Che c’entra il novembre del 1922?

RUSSO PEREZ. Io intendevo richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulla stranezza della data proposta dalla Commissione, per la quale l’appoggio dato al regime anteriormente ad essa non conta nulla…

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Io sono contrario all’emendamento, perché l’articolo, quale è proposto, comprende un elenco di cariche precise e se non risulta da altre proposte di modificazioni che io ignoro, o da altre varianti, che pure ignoro, tutte le categorie di cariche che sono indicate nel progetto di articolo concernono degli elementi precisi di obiettività, di modo che una Commissione comunale ha gli elementi di fatto necessari per vedere se si verifichi o no l’ipotesi che uno abbia ricoperto una determinata carica. E fino a quando si tratta di un giudizio che concerne un fatto accertabile nei suoi elementi costitutivi, queste Commissioni comunali hanno la competenza e la possibilità di fare accertamenti e constatazioni in conformità al vero. Facendoli in difformità, le decisioni sarebbero emendabili in base ad elementi precisi di fatto. Ma quando, invece, con l’emendamento suggerito dalla Commissione, si entra nell’apprezzamento della natura di un voto per sapere se quel determinato deputato o quel determinato senatore ha, col proprio voto, contribuito al mantenimento del regime fascista, ecc., si entra in un campo strettamente soggettivo di valutazione e si esce completamente da tutta quella che è l’economia dei casi esemplificati nella legge, per cui dal rilievo di una circostanza di fatto si sconfina in un apprezzamento di carattere assolutamente soggettivo e personale, che per sua natura mi pare non possa essere affidato ad una Commissione eletta da un qualsiasi Consiglio comunale in uno degli ottomila comuni d’Italia.

Mi pare di molta gravità questa considerazione, perché l’adozione dell’emendamento altererebbe tutta l’economia dell’articolo e tutte le caratteristiche delle categorie che sono state indicate.

RUBILLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho chiesto di parlare per una dichiarazione di voto, anche a nome dei colleghi liberali, per quello che riflette i senatori che si vorrebbero escludere dalle liste elettorali.

La questione non ha grande importanza, trattandosi di un numero limitato di persone, ma deve essere richiamata su di essa l’attenzione dell’Assemblea dal punto di vista giuridico, perché bisogna tener conto anche del pronunciato della Corte di cassazione. (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Quale pronunciato?

RUBILLI. Un momento; lasciate che spieghi il mio concetto; poi l’approverete o non l’approverete; ma permettetemi di esporlo con precisione. (Commenti). Per ora almeno io non voglio nemmeno occuparmi di proposito della questione di merito, per esaminare se sia giusta o meno la sanzione proposta. E dovrebbe sempre ritenersi giusta solo sino ad un certo punto, perché, secondo noi liberali, dovrebbe bastare l’ineleggibilità. Una disposizione di legge in tal senso potrebbe essere più che sufficiente; ma dire che non debbono essere nemmeno iscritti come elettori nelle liste elettorali, coloro che pure hanno rivestito la carica di senatori in verità mi pare troppo. (Interruzioni a sinistra). In questo modo si arriverebbe ad un eccesso. Per esempio, se fossero viventi oggi Marconi e Puccini, sarebbero esclusi anche dalla facoltà di votare. (Commenti a sinistra). Sarebbe proprio un’odiosa esagerazione. Almeno il diritto al voto non dovrebbe mai essere negato a chi è incorso solo in responsabilità politiche, sia pure di non lieve entità.

Comunque, della questione di merito potremo parlare più tardi e forse anche di qui ad un momento. Sotto il profilo giuridico io ricordo ora, che i senatori vennero sottoposti ad un rigoroso giudizio sull’opera che avevano spiegato durante il regime fascista; di molti, perciò, si pronunziò la decadenza, ma poi è sopraggiunta una sentenza della Corte di cassazione che ha annullato i provvedimenti che all’uopo si credette di adottare.

Una voce a sinistra. Nella forma.

RUBILLI. Nella forma, sia pure, ma basta la forma, basta il vizio procedurale, basta anche la mancanza di motivazione perché una sentenza non sia più valida. Ora, noi non ci sentiamo in grado di sopprimere anche la Corte di cassazione, come l’altro giorno, con una semplice battuta, è stato demolito il Consiglio di Stato, affermandosi che nonostante dei funzionari sottoposti a giudizio di epurazione abbiano visto regolarmente accolto in Consiglio di Stato il ricorso cui avevano diritto, saranno egualmente cacciati dalla pubblica amministrazione. Sono questi dei criteri rivoluzionari ai quali non possiamo in alcun modo aderire. Una sanzione qualsiasi, anche di semplice non iscrizione nelle liste elettorali, non può mai derivare da un provvedimento che non è definitivo. Occorrerà prima comunque ripetere un giudizio, e regolare dopo la sentenza della Corte di cassazione la sorte dei singoli senatori.

Non dite che qui si tratta soltanto di applicare un criterio politico, perché anche quello che venne prima valutato e sino alla Corte di cassazione è un criterio politico. In un’Assemblea legislativa, che non è un semplice comizio, non deve sorgere uno stridente, inconciliabile conflitto con le nostre supreme libere istituzioni.

Le leggi in base alle quali si emisero pronunziati di epurazione non vennero fatte né dalla Consulta né da altra Assemblea, ma proprio da quegli uomini che oggi non vorrebbero rispettarle! Se in queste leggi che pure hanno un carattere esclusivamente politico essi posero la facoltà di ricorrere, per i funzionari, al Consiglio di Stato, e, per i senatori, alla Cassazione, occorre che questa facoltà sia legalmente ed efficacemente esercitata.

Per queste considerazioni noi votiamo contro la sanzione per cui si vorrebbe l’esclusione dalle liste elettorali dei senatori di cui è stata pronunciata la decadenza, rimettendoci al pronunciato della Corte di cassazione (Commenti a sinistra), ed aspettando perciò che si giunga ad una soluzione definitiva con mezzi legali. (Commenti a sinistra).

Voci a sinistra. Ai voti!

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Insieme ai miei compagni di Gruppo, voterò contro l’emendamento aggiuntivo proposto dalla Commissione così come abbiamo già votato e voteremo contro tutte le norme che tendono ad eliminare dalla massa elettorale delle persone, che rimangono vive ed operanti e delle quali sì può pensare che, mediante codeste norme persecutorie, diventeranno più fasciste di prima.

Ho voluto fare questa dichiarazione di voto perché qualcuno potrebbe avere interesse a mostrare di credere che io avessi fatto sul serio quella proposta di retrodatazione al novembre 1922.

Voci a sinistra. Si voti!

PRESIDENTE. Evidentemente è il Presidente che, più di ogni altro, ha interesse a che la votazione proceda con speditezza, quindi, se non passo subito alla votazione, ci deve essere un qualche impedimento; in questo momento è stato presentato dal Governo il seguente emendamento:

«Deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925 e senatori, tranne coloro che sono stati discriminati dall’Alta Corte di giustizia o che non furono ad essa deferiti».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di svolgere l’emendamento.

SCELBA, Ministro dell’interno. L’emendamento proposto dal Governo colpisce, con la sanzione della sospensione del diritto elettorale, tutti i deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925, così come è proposto anche dall’emendamento dell’onorevole Schiavetti, nonché tutti i senatori.

Si fa eccezione unicamente per i senatori che non furono deferiti all’Alta Corte di giustizia, perché il loro antifascismo fu ritenuto assolutamente indiscusso e indiscutibile, o coloro che furono discriminati dall’Alta Corte.

Questo emendamento comprende nella sanzione i senatori di cui si è parlato l’altro giorno, cioè quelli per i quali c’è stato un pronunciato della Cassazione.

L’emendamento dell’onorevole Schiavetti, che tende a colpire con la sanzione della perdita del diritto elettorale i senatori che abbiano votato mozioni o leggi fondamentali del regime fascista, pecca di deficienza, perché non è precisato quali siano queste leggi fondamentali, non è precisato chi dovrebbe giudicare dell’attività politica di così alti rappresentanti politici quali i senatori, che, per legge, possono essere giudicati esclusivamente dal corpo di cui facevano parte, mentre adesso il giudizio verrebbe rimesso a delle semplici Commissioni comunali e questa possibilità mi pare veramente una mostruosità giuridica. Dal punto di vista pratico mi pare poi, che non possiamo affidare un giudizio implicante una valutazione politica a delle semplici Commissioni comunali, giudizio che una legge precedente dello Stato aveva rimesso all’Alta Corte costituita dal Governo, perché il Governo sentiva l’esigenza politica e morale che la valutazione dell’attività di questi senatori fosse fatta da un organo adatto. Per evitare questo, l’emendamento del Governo fissa delle categorie, cioè dice che tutti i senatori sono colpiti dalla perdita del diritto elettorale eccezion fatta per due categorie: 1°) la categoria dei senatori che non furono mai deferiti all’Alto commissario per l’epurazione ed all’Alta Corte di giustizia perché dichiaratamente antifascisti. Mi pare che questa eccezione sia fin troppo ovvia; 2°) i senatori che sono stati espressamente discriminati dall’Alta Corte; perché non possiamo rimettere in discussione il giudizio già fissato da una magistratura creata appositamente dal Governo per giudicare la condotta politica di questi senatori. Ora, se una magistratura a carattere eccezionale speciale ha deciso che questi senatori non collaborarono con il fascismo, che questi senatori non apportarono un contributo al regime fascista, noi non possiamo mettere in discussione il giudicato di essa, affidando una nuova decisione ad una semplice commissione comunale.

Questo mi pare che la nostra Assemblea non potrebbe assolutamente accettarlo senza mettere in discussione i principî fondamentali del diritto. Io insisterei, quindi, su questo emendamento che non pregiudica nessun elemento politico, perché sancisce, in un certo senso, il principio della colpevolezza di tutti i senatori, salvo due categorie, la cui attività antifascista o la cui mancanza di apporti al regime fascista sono state accertate dall’Alta Corte.

PRESIDENTE. Chiedo al Relatore il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La proposta della Commissione, specialmente per quanto riguarda l’ultima aggiunta relativa ai senatori che non furono deferiti all’Alta Corte, implica solamente l’ammissione al voto di quei dieci senatori che l’Alto Commissariato non deferì all’Alta Corte e che furono membri della Consulta Nazionale: Benedetto Croce, Einaudi, Bergamini, De Nicola, ed altri che fecero già parte della Consulta Nazionale. Pertanto, è necessaria questa aggiunta.

C’è una nuova modifica apportata dal Governo, che a me sembra sia decisamente opportuna per questa considerazione: perché, mentre per i senatori attraverso l’elenco dei discriminati dell’Alta Corte e di quelli non deferiti si arriva alla certezza di quelli esclusi dal diritto di voto, ben diversamente accade quando si debbano stabilire quali siano le leggi fondamentali intese a mantenere in vita il regime fascista. È oggettivamente difficile esigere l’elenco di quelle che si considerano leggi fondamentali fasciste, lo è anche maggiormente, anche per l’inadeguatezza dell’organo, se tale giudizio dovesse rimanere affidato a Commissioni comunali o mandamentali.

Ora, per i deputati si era invece lasciata la formula: «I deputati che dopo il 3 gennaio 1925 abbiano votate leggi e mozioni intese a mantenere in vita il regime fascista», perché non si trovava una formula giuridica più concreta e precisa; perché, per esempio, la dizione «oppositori nell’Aula», era di difficile interpretazione. Adesso con la formula proposta: «I deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925», si vengono a colpire tutti i deputati eletti nel 1929 quando nell’Aula non c’era neanche l’opposizione. (Interruzioni a sinistra – Commenti). Se non si lascia che il relatore esprima l’opinione e informi delle decisioni della Commissione, rinunzio a parlare. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non si può impedire al Relatore di esprimere il parere della Commissione. La prego, onorevole Uberti, di voler continuare.

UBERTI, Relatore. La relazione che ho fatta e che è stampata, fu approvata all’unanimità, per cui non comprendo perché oggi, la mia illustrazione trovi tanti oppositori.

Ora, la formula della Commissione che è: «I deputati che dopo il 3 gennaio 1925 abbiano votato leggi, ecc.», presuppone un giudizio di merito da parte delle Commissioni comunali. Come fanno le Commissioni comunali a fare questo accertamento? Per i senatori, il nuovo regime aveva nominato un’Alta Corte che ha esaminato nel merito. Possiamo noi seriamente demandare alle Commissioni comunali e mandamentali una simile indagine? Vi sono dei comuni ed anche dei mandamenti dove non vi sarà neanche la possibilità di consultare gli Atti parlamentari. Tutte le Commissioni comunali dovrebbero venire a Roma per consultare gli Atti parlamentari, per prendere nota di coloro che votarono o no le leggi fasciste. Vi sarebbero poi, una infinità di decisioni diverse, perché una Commissione comunale potrebbe essere severissima ed un’altra indulgente. Quindi, si stabilirebbero delle sperequazioni nei giudicati. Ora, se fosse possibile arrivare a trovare una formula di carattere oggettivo, anche per i deputati, sarebbe molto meglio. Però, vorrei esprimere al Governo una osservazione.

Adottando la formula: «deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925» si vengono ad escludere tutti i deputati eletti nel 1924, che facevano parte della lista fascista. Si potrebbe eventualmente dire: «tranne i deputati eletti nel 1924, facenti parte della lista fascista». Sarebbe per lo meno una norma obiettiva, alla quale si potrebbe riferirsi. Altrimenti, escluderemmo tutti i deputati eletti nel 1924, i quali possono non essere stati rieletti nel 1929. (Interruzioni a sinistra).

Se sono stati eletti nel listone, hanno votato evidentemente anche le leggi fasciste.

PRESIDENTE. Sicché, la Commissione propone un emendamento all’emendamento del Governo?

LIBERTI, Relatore. La Commissione desidera sentire se il Governo accetta la proposta.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo accetta.

PRIOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Concordo perfettamente con quello che ha detto l’onorevole Uberti. Piuttosto che indagare su chi ha votato o meno una legge fondamentale, è preferibile stabilire dei punti fermi. Per i senatori, siamo di accordo: i discriminati sono discriminati.

Voci a sinistra. No; ed i discriminati non giustamente?

PRIOLO. Per i deputati possiamo riferirci alle elezioni capestro, quelle del 6 aprile 1924: allora, dopo una battaglia accesa, dirò di più sanguinosa (candidati uccisi, bastonati, ecc.), gli antifascisti dei vari partiti di opposizione, eletti, fummo un centinaio circa. Tutti gli altri deputati, i fascisti, costituivano una massa eterogenea, minacciosa, una canea ignobile ed urlante: ora bisogna che a costoro, che hanno prostituito il Parlamento, venga applicata una sanzione morale: la loro identificazione è facilissima, perché basta leggere i nomi dei componenti la XXVII legislatura. (Approvazioni a sinistra).

SCHIAVETTI, Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Per quel che riguarda in genere i senatori, la data 3 gennaio 1925 ha valore storico inconfondibile.

Per i senatori che, a nostro parere, sono stati ingiustamente discriminati dall’Alta Corte di giustizia, ritengo oneste le preoccupazioni sollevate da molte parti, di non affidare a Commissioni comunali e provinciali le decisioni sopra casi così delicati, lontani dal loro ambiente. Questi casi potrebbero essere deferiti ad una commissione parlamentare – da indicare in altro articolo – la quale potrebbe facilmente indagare quali senatori hanno votato le leggi fondamentali.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Prego gli onorevoli colleghi di rinunciare agli. emendamenti e di attenersi al testo proposto dalla Commissione. Ho sentito dall’onorevole Uberti che su tale testo ci fu l’unanimità; quindi tutti i settori furono d’accordo.

L’onorevole Priolo cerca dei punti fermi e crede di averli trovati. Non credo che ci siano punti fermi in materia così fluttuante. Egli vuole escludere, per esempio, soltanto i deputati candidati della lista fascista. E quegli altri, che, appartenendo ad altre liste, collaborarono col Governo, non dovrebbero essere esclusi? Non collaborarono forse con atti rilevanti all’affermazione del regime, onorevole Priolo? Non fate distinzioni, perché si entra in un campo molto pericoloso. Lasciate le cose così come stanno. S’intende, che noi voteremo contro, anche così come stanno.

PRIOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Propongo che da coloro i quali furono eletti nel 1924 siano esclusi quelli che fecero la secessione aventiniana (ed è logico), il gruppo di oppositori nell’Aula e quelli che non giurarono. Infatti abbiamo avuto alcuni, che furono eletti, ma non vennero e non giurarono. Escludiamo questi tre gruppi, ed a tutti gli altri applichiamo la sanzione. (Approvazioni).

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Propongo che dopo la parola «deputato», siano aggiunte le parole: «consiglieri nazionali».

PRESIDENTE. Le faccio osservare che i consiglieri nazionali sono già compresi in una lettera a parte, vale a dire nella lettera g) del testo proposto dal Governo.

Onorevole Uberti, intende presentare un emendamento al testo del Governo?

UBERTI, Relatore. Attendiamo la proposta dell’onorevole Priolo.

PRIOLO. Sto cercando di redigerlo in maniera concreta e possibilmente di accordo con la Commissione. (Approvazioni al centro).

UBERTI, Relatore. Non si può improvvisare un emendamento in materia tanto delicata. D’altra parte non vorrei che apparisse come un emendamento mio personale.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, avendo fatto parte della Commissione parlamentare elettorale ed avendo seguito tutta la discussione che ci fu in quella occasione, io posso riassumere all’Assemblea alcuni concetti fondamentali. Il principio che fu accettato da tutti all’unanimità fu quello di escludere deputati e senatori che comunque avessero preso parte e partecipato a rafforzare, con le loro leggi e la loro attività, il regime fascista.

Per quello che si riferisce ai deputati, non c’è dubbio che, adottando la formula suggerita dall’onorevole Priolo, si viene a precisare che tutti coloro che furono eletti nel 1924 – tranne quelli che furono dichiarati decaduti, o perché presero parte alla secessione aventiniana, o perché preventivamente non giurarono e non vollero intervenire in quella Assemblea, e quelli che furono oppositori nell’Aula (e sappiamo quali sono perché poi furono dichiarati consultori nazionali) – appartennero al regime fascista. Quindi, noi possiamo benissimo da queste tre esclusioni (aventiniani, e sappiamo quali sono; quelli che non giurarono, e li conosciamo perché furono pochi; ed oppositori nell’Aula, e li conosciamo perché furono dichiarati successivamente consultori nazionali), dichiarare tutti gli altri sotto la sanzione.

Per quanto riguarda i senatori, la situazione è anche per me più chiara. Per i senatori vi è stata una legge che li deferì all’Alta Corte di giustizia. Vi furono dei senatori non deferiti in quanto l’Alto Commissario ritenne che quei senatori, che poi furono in tutto dieci o dodici, fossero indubbiamente antifascisti, figure esemplari della vita del Paese. Un esempio è dato dall’onorevole Bergamini.

Su questo punto, quindi, abbiamo la sicurezza che essi non parteciparono all’attività del regime fascista.

In secondo luogo, abbiamo una lista certa, ossia ci furono dei senatori che furono deferiti all’Alta Corte di giustizia e l’Alta Corte li discriminò. Sono circa ottanta, per cui in totale si arriva ad un centinaio.

Non posso prendere in esame quelli che oggi hanno ottenuto dalla Cassazione l’annullamento della decisione dell’Alta Corte di giustizia perché io, non come Ministro guardasigilli, ma come cittadino, ritengo che quella sentenza non può avere valore, poiché attraverso delle capziosità è arrivata ad annullare una decisione, non tenendo presente che manca l’organo che dovrebbe riprendere l’esame nel merito, per cui questi signori in seguito ad essa ritornano nel Senato. Ed oltre i trentadue che, in questo modo, hanno avuto annullata la decisione dell’Alta Corte di giustizia, ci sono altri 150 ricorsi. Quindi, non è possibile; anzi noi presenteremo subito una legge all’Assemblea in cui dichiareremo che è sciolto il Senato perché furono dichiarate cessate le sue funzioni, ma ha continuato la sua attività in altre materie, come nella materia giurisdizionale. Quindi, noi dichiareremo decaduto il Senato. (Applausi).

RUBILLI. Ma questa legge non c’è ancora!

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. La faremo. E siccome la legge precedente stabilisce che la posizione giuridica dei senatori deve essere regolata dalla Costituente, noi diciamo che daremo, salva l’approvazione dell’Assemblea, il titolo onorifico di senatore e l’indennità ferroviaria soltanto a quelli che non furono rinviati all’Alta Corte di giustizia e a quelli che dall’Alta Corte di giustizia furono discriminati, appunto per mettere una barriera a quella che può essere una nuova invasione di senatori. (Applausi a sinistra).

RUBILLI. Siamo d’accordo, ma ci vuole una legge.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Sarà una legge che presenterò alla vostra approvazione. Potremo mettere questo anche nella legge elettorale, cioè esclusi quelli che non furono deferiti all’Alta Corte di giustizia perché notoriamente antifascisti o quelli che l’Alta Corte di giustizia, che fu l’organo chiamato ad esaminare se questi senatori avessero votato o no le leggi fasciste, ha già esaminato. Non possiamo tornare su un giudizio già pronunciato.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Relatore di esprimere il suo parere sul punto di vista dell’onorevole Ministro di grazia e giustizia.

UBERTI, Relatore. Dopo la dichiarazione del Ministro Grassi, la quale, in sostanza, aderisce alla proposta Priolo, come Relatore della Commissione, d’accordo anche con un altro membro della Commissione, onorevole De Michelis, abbiamo presentato un emendamento il quale corrisponde a questo criterio obiettivo.

PRESIDENTE. Si dia lettura dell’emendamento presentato dagli onorevoli Uberti, Priolo e De Michelis.

AM AD EI, Segretario, legge:

«Deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925 e quelli eletti il 6 aprile 1924, eccetto, per questi ultimi, i deputati dichiarati decaduti perché aventiniani, quelli che non giurarono e quelli che fecero parte dell’opposizione nell’Aula».

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. L’onorevole Priolo ha dichiarato che, come elemento discretivo per l’ultima categoria, sarebbe stato assunto il fatto della nomina alla Consulta.

Ora, sta di fatto che qualche deputato, che non ha votato le leggi fasciste, non venne nominato nella Consulta.

Non vorrei che la carenza di questo elemento bastasse per farlo decadere. Quindi non è criterio discretivo l’essere nominato consultore, è il fatto di essersi schierato all’opposizione nell’Aula.

PRIOLO. L’onorevole Bubbio ha perfettamente ragione.

PRESIDENTE. Faccio rilevare all’onorevole Bubbio che l’aver fatto parte della Consulta non figura più nell’emendamento come elemento discretivo.

GASPAROTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Mi dichiaro favorevole al testo originario della Commissione per quanto riguarda la prima parte, e cioè quella che delibera la decadenza dal mandato elettorale a coloro che dopo il 3 gennaio 1925, abbiano votato leggi e mozioni intese a mantenere il regime fascista.

Per i senatori parleremo dopo. Mi dichiaro favorevole perché, prima di tutto, questa data 3 gennaio 1925 è già acquisita. nella nostra storia parlamentare, come, ha detto l’onorevole Schiavetti, e trova riferimento nei testi votati dal Governo, e dalla Consulta precedentemente accettati; secondariamente (e questo è l’argomento più delicato, particolarmente rivolto all’onorevole Priolo) noi ritornando sulle elezioni, che furono relativamente libere, del 1924, veniamo a ferire il principio del suffragio popolare.

Qualunque siano i deputati eletti dal popolo, essi sono legittimamente investiti del mandato e su questo mandato non è lecito discutere. Abbiamo invece il diritto di giudicare la condotta di quei deputati che, comunque scelti dal popolo dopo la data del 3 gennaio, abbiano votato mozioni o leggi che hanno ferito le guarentigie parlamentari. Quindi giudico giuridicamente e politicamente esatto il testo adottato originariamente dalla Commissione.

RUSSO PEREZ. E quelli che prima di quella data votarono i pieni poteri non concorsero con atti rilevanti a dar vita al regime? (Commenti).

GASPAROTTO. Notate, colleghi, che io non sono fazioso; pur avendo qualche motivo di risentimento non sono fazioso…

RUSSO PEREZ. È questa legge che è faziosa!

GASPAROTTO. …voto tranquillamente queste restrizioni, perché, l’ultima parte dell’emendamento Schiavetti porta una norma di alta equità, perché dice che da tutti questi casi di privazione del diritto di voto sono eccettuati coloro che non sono stati dichiarati punibili ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 7 del decreto legislativo 27 luglio 1944 e coloro che prima del 10 giugno 1940 abbiano assunto un deciso atteggiamento contro il fascismo. Perché dobbiamo conoscere, ed io che non sono stato mai fascista lo riconosco per primo, che ci furono fascisti in buona fede, i quali ad un certo momento si sono liberamente ravveduti e sono passati a netta opposizione.

UBERTI, Relatore. Però hanno collaborato col fascismo! (Commenti).

GASPAROTTO. Quindi, mi sento tranquillo, di fronte all’ultima parte dell’emendamento Schiavetti.

Per quanto riguarda invece i senatori, siamo perfettamente d’accordo che ci deve essere l’eccezione per quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia. Ma se però fra questi vi sono coloro che hanno effettivamente sostenuto il regime fino all’ultimo momento – e ciò può essere rilevato dagli appelli nominali e dagli atti parlamentari. – costoro possono essere esclusi e dichiarati immeritevoli di appartenere al corpo elettorale.

PRIOLO. Io non concordo affatto con quello che ha detto l’onorevole Gasparotti: la Camera eletta il 6 aprile 1924 fu la Camera più ferocemente fascista. (Applausi – Commenti).

Voci. Matteotti! Matteotti!

PRESIDENTE. Possiamo ora procedere alla votazione della lettera: f-bis). Per la parte riguardante i deputati pongo in votazione l’emendamento proposto dagli onorevoli Uberti, Priolo e De Michelis:

«deputati eletti dopo il 3 gennaio 1925 e quelli eletti il 6 aprile 1924, eccetto, per questi ultimi, i deputati dichiarati decaduti perché aventiniani, quelli che non giurarono e quelli che fecero parte dell’opposizione nell’Aula».

(È approvato).

Pongo in votazione la seconda, parte della lettera f-bis):

«senatori, eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia e quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia».

Una voce. Si potrebbe dire: «non deferiti alla stessa».

PRESIDENTE. Nel coordinamento si potranno vedere questi emendamenti formali: meglio del resto un eccesso piuttosto che un difetto di indicazione.

(Dopo prova e controprova, è approvata).

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Ritengo che debba restare inteso che la parte del mio emendamento che parla dei senatori è di carattere aggiuntivo e non ha quindi a che vedere con ciò che abbiamo votato ora. Si tratta di un’eccezione all’eccezione. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Schiavetti, la questione sarà risolta quando ella chiederà, come ha diritto, che sia messo in votazione il suo emendamento; ma, come prima impressione, mi pare che non si possa condividere la sua opinione.

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Non credo di essere in errore, poiché faccio rilevare che l’eccezione testé votata è fatta anche nel mio emendamento. Ad essa però è aggiunta un’altra cosa: ed è su quest’altra cosa appunto che dovrà pronunciarsi l’Assemblea.

MOSCATELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOSCATELLI. Mi pare che si sia fatta confusione: io domando che venga fatta una votazione separata per i senatori che non sono stati deferiti all’Alta Corte e per quelli che dall’Alta Corte sono stati discriminati.

PRESIDENTE. La sua richiesta, onorevole Moscatelli, non può essere accolta, perché la parte dell’emendamento di cui lei parla è stata già votata.

Chiedo ora all’onorevole Schiavetti quale parte del suo emendamento vuole che sia messa ai voti.

SCHIAVETTI. Questa: «o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi».

Per cui tutto l’emendamento risulterebbe del seguente tenore:

«f-bis) deputato che, solo il 3 gennaio 1925, abbia votato leggi fondamentali intese la mantenere in vigore il regime fascista; senatore che sia stato dichiarato decaduto dall’Alta Corte o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi».

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Vorrei semplicemente chiarire un po’ la situazione. Mi pare che si è votato dopo aver stabilito questo concetto: che i senatori tutti devono essere compresi in questa disposizione, facendo queste due eccezioni: i senatori i quali non furono deferiti, e quelli che, deferiti, furono discriminati dall’Alta Corte di giustizia. Siccome abbiamo già stabilito questo principio, l’Assemblea non può tornare sopra tale decisione con un’altra proposizione che li escluderebbe. È il Regolamento che si oppone. Il Regolamento si oppone anche a che si metta in votazione un’altra proposizione, la quale sarebbe in contraddizione con quello che abbiamo votato.

SCHIAVETTI. Non è in contraddizione.

UBERTI. Relatore. È in contraddizione aperta.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Se mi si permette, è in contraddizione, perché l’effetto di questa votazione è che i senatori discriminati hanno diritto ad essere inclusi nelle liste elettorali. Ora, se essi hanno questo diritto, in base ad una votazione che abbiamo fatta, non è possibile stabilire un’altra proposizione che avrebbe comunque un effetto diverso. Questo, per la forma; e la forma è sostanza nella vita parlamentare, perché non si può tornare su una votazione già fatta.

Ma, ad ogni modo, voglio tranquillizzare – (Interruzione dell’on. Cianca) onorevole Cianca, lei dirà poi tutta la sua opinione – anche sulla sostanza dell’emendamento. Quando ho chiesto e vi ho proposto questa formula, essa aveva anche questo significato: siccome l’Alta Corte di giustizia ha esaminato questi senatori proprio da questi punti di vista delle votazioni che hanno fatto durante quel periodo, per sostenere il regime fascista, ed ha pronunciato una decisione, la quale deve far stato (in quanto si tratta di un organo giurisdizionale ad hoc che l’ha adottata), non possiamo tornare su questa questione con altre determinazioni, di forma incerta, tanto più che dobbiamo dare il senso della certezza del diritto e ci siamo sforzati di darlo in questa maniera, dicendo che tutti i senatori sono esclusi dal diritto elettorale, tranne queste due categorie.

Quindi, sia per la sostanza che per la forma, che costituiscono preclusione ad ogni emendamento, credo che la nuova proposta non possa essere presa in considerazione.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. È evidente che all’emendamento Schiavetti si oppone la deliberazione già adottata, perché con essa si è voluto proprio escludere un esame di merito da parte delle Commissioni mandamentali e comunali, e abbiamo cercato, invece, di arrivare ad una precisazione obbiettiva tale che si potrebbe individuare addirittura l’elenco di coloro che sono ammessi al voto.

Quindi, la proposta dell’onorevole Schiavetti è proprio in antitesi con la deliberazione già votata.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. L’onorevole Guardasigilli mi consentirà di fargli rilevare che la sua eccezione di forma non è fondata.

L’onorevole Schiavetti ha presentato un emendamento, nel quale è detto che sono esclusi dalla sospensione del diritto di voto quei senatori i quali siano stati discriminati dall’Alta Corte di giustizia, purché non abbiano partecipato alla votazione di leggi fondamentali del regime fascista. Si tratta, cioè, di sancire il criterio a cui si è riferito in principio l’onorevole Grassi; criterio di carattere politico, che ha valore fondamentale indicativo in una legge, la quale tende a stabilire delle sanzioni di carattere politico.

Ora, che l’Alta Corte abbia pronunciato delle sentenze che hanno discriminato alcuni senatori, non è un fatto che contrasti con l’elemento obiettivo addotto durante la discussione dall’onorevole Schiavetti, il quale, essendo andato in Senato ed avendo compulsato gli atti parlamentari di quella Assemblea, ha stabilito che alcuni senatori, discriminati dall’Alta Corte di giustizia, avevano dato voto favorevole alle leggi fondamentali del fascismo.

Io ho assistito con legittimo stupore allo strano succedersi di emendamenti su emendamenti tra loro contradittori, proposti dal Governo. La legge che stiamo esaminando è una legge di carattere politico. Non sarebbe concepibile che noi colpissimo con la sanzione della sospensione elettorale delle categorie di secondo ordine e che facessimo sfuggire a questa sanzione politica uomini di alta responsabilità fascista. (Vivi applausi a sinistra).

Il Governo ha detto, per bocca dell’onorevole Grassi, che il criterio che lo aveva animato era precisamente quello di colpire uomini che, nell’esercizio del loro mandato politico, avevano assunto responsabilità precise di fronte al fascismo. Ora, questo criterio è precisamente riaffermato nell’emendamento Schiavetti; il quale, pur accettando che devono essere esentati dalla sospensione del voto i senatori discriminati dall’Alta Corte, stabilisce un’eccezione che è piena di significato politico e dà un senso a tutta la legge: una sanzione per coloro che risulta abbiano votato a favore delle leggi fondamentali del fascismo. (Applausi a sinistra).

Una voce a sinistra. Ai voti l’emendamento Schiavetti.

RUSSO PEREZ. Non è un’aggiunta, è una modificazione.

UBERTI, Relatore. L’emendamento Schiavetti non si può votare (Commenti a sinistra), perché non si possono votare due proposizioni contradittorie. La votazione testé fatta esclude l’aggiunta dell’onorevole Schiavetti.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Il parere mio e del mio Gruppo è che l’emendamento dell’onorevole Schiavetti non possa essere messo ai voti; e in ciò mi associo alle ragioni espresse molto chiaramente dai Ministro Guardasigilli.

In effetti, quando è stata votata la parte precedente dell’articolo, è stata votata con questo intento e con questo spirito: che essa concludesse la materia. (Commenti – Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. No!

MORO. Sarebbe stato opportuno che queste riserve, invece che dopo, fossero state fatte prima.

Da parte nostra s’intendeva concludere la materia, che finiva col punto. E mi pare chiaro che con ciò s’intendesse esaurita questa parte della discussione.

Comunque, anche se l’Assemblea dovesse ritenere, col suo voto, che l’emendamento Schiavetti debba essere posto ai voti, nella sostanza io esprimo il dissenso del nostro Gruppo da quel punto di vista. Innanzi tutto con quest’emendamento si viene a togliere quel carattere di oggettività che si è cercato di dare a questa norma, allo scopo di evitare che si riprendessero infinite discussioni, contestazioni e contro contestazioni. Ci si è fermati così ad alcune qualifiche oggettivamente riconoscibili. Ora, ciò è indispensabile, se si vuole rendere questa legge praticamente attuabile nel corso dei prossimi mesi con quella certezza di diritto che è indispensabile per dare al popolo italiano la sensazione della giustizia.

Qui noi ci troviamo invece di fronte al tentativo di dar vita ad un nuovo giudizio di merito e quindi alla necessità di creare un organo idoneo il quale riveda le deliberazioni di una Corte che fu creata da un Governo democratico e giudicò sempre riscuotendo la fiducia di quell’ordinamento politico dal quale aveva preso vita. Io non escludo, certo, perché tutti commettiamo degli errori, che anche l’Alta Corte di giustizia abbia commesso degli errori. Dice l’onorevole Schiavetti di aver fatto accertamenti particolari ed io non metto in dubbio che abbia potuto accertare elementi tali che avrebbero dovuto condurre ad un diverso giudizio. Potrebbe darsi però che l’Alta Corte avesse ritenuto di giudicare in quel modo sulla base di una complessa valutazione, perché non si giudica mai su punti particolari, ma sempre in una visione di insieme. Comunque ci troviamo di fronte ad una decisione definitiva di un organo democratico e noi in questa sede non possiamo ritornare su questa decisione, facendo un’eccezione all’eccezione, alla quale si potrebbe fare poi l’altra eccezione prevista dall’ultimo comma dell’emendamento Schiavetti, perché eventualmente questi senatori potrebbero essere esclusi dalla sanzione in base all’ultima disposizione che, nel suo senso di giustizia e di opportunità, l’onorevole Schiavetti ha creduto di proporvi. Quindi si vede come ragioni di opportunità consiglino di fermarsi a questo punto, ritenendo conclusa la materia con le deliberazioni che abbiamo prese (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Concordo con quanto ha detto l’onorevole Moro (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti chiede che sia messa in votazione la sua proposta di aggiungere all’articolo approvato le eccezioni alle eccezioni e cioè, secondo un testo definitivo, aggiungere, dopo le parole «discriminati dall’Alta Corte di giustizia», le altre: «senatori purché non abbiano partecipato all’approvazione di leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista o dei loro principî informativi». Questa è la richiesta che fa l’onorevole Schiavetti. Data la natura della questione, che io mi limito a qualificare discutibile dal lato regolamentare, credo opportuno interrogare l’Assemblea sopra la facoltà che l’onorevole Schiavetti abbia o non di chiedere che l’Assemblea si pronunci sopra il suo emendamento aggiuntivo.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, sono i miei ricordi universitari che mi costringono a pregare la Presidenza di non mettere ai voti la proposta Schiavetti. Non può essere messa ai voti perché in contradizione stridente con la norma che già abbiamo approvata (Interruzioni a sinistra); signor Presidente, non soltanto perché, secondo quanto disse or ora un collega: «lo spirito della norma votata era che con quella si esaurisse la materia», ma perché sostanzialmente noi abbiamo stabilito che una determinata categoria di senatori abbia il diritto elettorale. Quando si viene a votare la proposta Schiavetti, noi per questa categoria, dopo avere stabilito che tutti, dal primo all’ultimo, hanno diritto di voto, verremmo a stabilire che alcuni di essi non lo avranno più. (Rumori a sinistra) È così! È evidente!

Chiunque ha studiato il diritto – studiato comprendendolo – non può che essere d’accordo con me. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. La Presidenza ha deciso d’interrogare l’Assemblea sul diritto che competa o meno all’onorevole Schiavetti che il suo emendamento venga posto ai voti.

Pongo pertanto ai voti la proposta di mettere in votazione l’emendamento Schiavetti.

MICHELI. Chiedo l’appello nominale (Commenti animati a sinistra).

PRESIDENTE. Le faccio osservare, onorevole Micheli, che ella ha chiesto l’appello nominale dopo che io avevo già indetto la votazione. (Commenti – Rumori prolungati – Richiami del Presidente).

MICHELI. Ho chiesto l’appello nominale in tempo utile.

PRESIDENTE. Io ho l’assoluta certezza che la votazione era già stata indetta. Ella non vorrà insistere nella sua richiesta, che è in antitesi con il Regolamento. Mi appello quindi alla sua lealtà. (Commenti).

MICHELI. Anch’io chiedo un appello; ma il mio è un appello nominale. (Rumori a sinistra). Voi (Accenna a sinistra) avete paura dell’appello nominale. (Commenti – Rumori a sinistra). Siete pavidi e timorosi. Opporsi a una votazione nominale non è democratico. Io l’ho chiesta in tempo opportuno.

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, visto che la mia opinione non è per lei sufficiente, leggo il Regolamento; spero che ella gli darà fede più che alla mia parola; Al terzo comma dell’articolo 97, il Regolamento dice: «La domanda deve essere formulata al momento in cui il Presidente, chiusa la discussione, dichiara di doversi passare ai voti e prima che egli abbia invitato la Camera a votare».

L’onorevole Micheli, del resto, non perde nulla nella sostanza del suo diritto, perché, quando l’Assemblea passerà alla votazione sull’emendamento Schiavetti, egli potrà chiedere su di esso l’appello nominale.

Pongo in votazione la proposta di procedere alla votazione dell’emendamento Schiavetti.

(Dopo prova e controprova, è approvata).

Dovrò ora porre ai voti l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Schiavetti, tendente ad inserire, dopo le parole: «eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia», le altre: «purché non abbiano partecipato all’approvazione di leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista o dei loro principî informativi».

Seguono poi le parole: «e quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia».

Su questo emendamento è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Micheli, Moro, Salvatore, Nicotra, Restagno, Conci, Rodinò Ugo, Roselli, Carignani, Marconi, Zaccagnini, Turco, Monticelli, Taviani, Cimenti, Carratelli.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Desidero, per chiarezza di posizione politica, insistere sul fatto che la nostra opposizione all’emendamento dell’onorevole Schiavetti non ha alcun motivo particolare o personale. (Commenti animati a sinistra). Inutile che voi sogghignate: noi ci esprimiamo da galantuomini, quali abbiamo diritto di essere ritenuti. (Applausi al centro – Commenti a sinistra). Nel vostro che io chiamerei parossismo di parzialità politica, in certi momenti, voi non vi accorgete che noi qui stiamo discreditando, ad uno ad uno, gli organi creati dalla nuova democrazia. (Applausi al centro). L’Alta Corte di giustizia è uno di questi perché, se io non m’inganno, l’Alta Corte di giustizia non è un reliquato del regime fascista, ma è una creazione del nuovo regime. Oggi, noi, in fondo, andiamo a rivedere ciò che l’Alta Corte ha fatto, discreditandone il prestigio di fronte all’opinione pubblica. A voi ed al vostro equilibrio giudicare se politicamente questo sia utile. Noi pensiamo di no. Ed è per questa affermazione di principio che noi votiamo contro l’emendamento dell’onorevole Schiavetti. (Applausi al centro).

Votazione per appello nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale sull’emendamento proposto dall’onorevole Schiavetti.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale incomincerà la chiama.

Comincerà dall’onorevole Martino Enrico. Si faccia la chiama.

AMADEI, Segretario, fa la chiama.

Rispondono sì:

Allegato – Amadei – Amendola – Arata – Assennato – Azzi.

Bargagna – Barontini Ilio – Basso – Bei Adele – Bellusci – Bianchi Bianca Bibolotti – Bonfantini – Bonomelli – Bosi – Bruni.

Cacciatore – Carpano Maglioli – Cartìa – Cevolotto – Chiaramello – Chiostergi – Cianca – Colombi Arturo – Corbi – Corsi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Aragona – De Filpo – Della Seta – De Vita – Di Giovanni – Di Vittorio – D’Onofrio.

Fantuzzi – Faralli – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fiore Fiorentino – Fioritto – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giacometti – Giolitti – Giua – Grieco – Gullo Fausto.

Iotti Nilde.

Jacometti.

Laconi – Lami Starnuti – La Rocca – Lizzadri –Lombardi Riccardo – Longo –Lozza – Luisetti – Lussu.

Magrassi – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Marchesi – Mariani Enrico – Massola – Mastino Pietro – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Momigliano – Montagnana Rita – Morandi – Moranino – Moscatelli.

Nasi – Negarville – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Novella.

Pajetta Gian Carlo – Paris – Pastore Raffaele – Pera – Persico – Pesenti – Piemonte – Pistoia – Platone – Pratolongo – Pressinotti – Priolo.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Maria Maddalena – Roveda – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Sansone –Santi – Sapienza – Schiavetti – Scoccimarro – Secchia – Sereni – Silipo – Stampacchia.

Targetti – Tega – Togliatti – Tonello – Tonetti – Treves.

Valiani – Vernocchi – Veroni – Villani.

Zanardi – Zappelli.

Rispondono no:

Abozzi – Alberti – Aldisio – Arcaini.

Bacciconi – Balduzzi – Baracco – Bellato – Belotti – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchini Laura – Bovetti – Bozzi – Bubbio.

Camposarcuno – Candela – Cappi Giuseppe – Carboni Enrico – Caroleo – Caronia – Castelli Avolio – Chieffi – Clampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Conci Elisabetta – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Cremaschi Carlo.

De Caro Gerardo – Del Curto – De Maria – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Foresi – Franceschini.

Gabrieli – Galati – Giacchèro – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi.

Jervolino.

Lazzati – Lettieri – Lizier.

Malvestiti – Mannironi – Marazza – Marconi – Martinelli – Mastino Gesumino – Mattartela – Mazza – Medi Enrico – Merlin Umberto – Micheli – Monticelli – Montini – Moro – Murgia.

Nicotra Maria – Notarianni.

Pallastrelli – Pastore Giulio – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Reale Vito – Restagno – Rivera – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rubilli.

Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Stella – Sullo Fiorentino.

Taviani – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Tosato – Tosi – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Viale – Vicentini – Villabruna.

Zerbi.

Si è astenuto:

Conti.

Sono in congedo:

Badint Confalonieri – Bastiarìetto.

Campilli – Canepa – Caso – Cotellessa.

Dominedò.

Foa.

Geuna – Giannini – Guidi Cingolani.

Jacini.

Lagravinese Nicola – La Malfa – Lucifero.

Montemartini.

Paolucci – Parri – Perrone Capano.

Tremelloni – Tumminelli.

Zotta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione nominale. Prego gli onorevoli Segretari di procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico che l’Assemblea non è in numero legale per deliberare.

I nomi dei deputati assenti senza regolare congedo saranno pubblicati sulla Gazzetta Ufficiale.

La seduta è sciolta e l’Assemblea è riconvocata per domani alle ore 11 per riprendere lo svolgimento del suo ordine del giorno.

La seduta termina alle 13.45.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxx.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Ambrosini

Nitti

Sforza

Rodinò Mario

Presidente

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Riunione in Comitato segreto:

Presidente

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Ambrosini. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, l’aver riassunto in una discussione generale i tre Titoli della Parte seconda del progetto di Costituzione impone la necessità di riguardarli nel complesso.

I dispareri, che si erano manifestati nella seconda Sottocommissione e nella Commissione dei Settantacinque, si sono riaffacciati una questa Assemblea, e si riferiscono in modo direi attenuato alla formazione ed alle attribuzioni dell’esecutivo (Capo dello Stato e Governo) ed, in modo più deciso, alla composizione dell’organo legislativo. Nell’impostazione generale, da qualche collega con semplici accenni e da qualche altro esplicitamente e con insistenza, come ad esempio dall’onorevole La Rocca, è stato posto in discussione uno dei problemi fondamentali di tutto l’ordinamento dello Stato moderno, il principio della separazione o della distinzione dei poteri, assumendosi che si tratta di un principio che deve ritenersi tramontato e comunque non più utile e rispondente alle esigenze della vita politica odierna.

Io mi permetto subito di osservare che forse c’è un equivoco nella interpretazione del principio, giacché ritengo che, se esso viene giustamente valutato secondo le ragioni che ne causarono la formulazione e secondo lo spirito col quale ha agito e continua ad agire (e necessariamente deve essere da noi mantenuto, come in sostanza è mantenuto dal nostro progetto di Costituzione), gli equivoci e le critiche qui pronunciate dall’onorevole La Rocca e da altri egregi colleghi possano, se non scomparire, per lo meno risultarne di molto attenuati.

In sostanza, per quanto non parlasse esplicitamente sullo stesso punto, forse alla identica direttiva critica generale si orientava l’appassionato discorso ieri pronunziato dall’onorevole Lussu, quando, parlando dell’organo legislativo, egli diceva che il sistema bicamerale non solo è inutile, ma che è dannoso, nocivo, e che bisogna assolutamente arrivare (anzi egli la proponeva in modo esplicito) alla sua abolizione. Faceva in qualche modo riscontro a quanto l’altro ieri aveva detto l’onorevole La Rocca quando nella fine del suo discorso egli si rammaricava che la nostra situazione politica non fosse ancora arrivata al punto di maturità tale da consentire delle Assemblee legislative ed esecutive ad un tempo.

Ora, per quanto il progetto di Costituzione sia abbastanza chiaro in proposito, e non sarebbe quindi necessario aggiungere parola per diradare dubbi, pur tuttavia io credo opportuno che la chiarezza assoluta sia stabilita o ristabilita su questo punto basilare per tutta l’organizzazione politica dello Stato.

Questa chiarificazione è tanto più opportuna in quanto del problema si parlò a lungo nella seconda Sezione della seconda Sottocommissione a proposito dell’ordinamento della Magistratura e del potere dei giudici. Furono allora sollevate delle questioni ed avanzate delle critiche che possono connettersi con l’argomento fondamentale del quale stiamo ora occupandoci.

Perché il principio della così detta separazione dei poteri non deve considerarsi tramontato? perché continua ad essere attuale? perché deve essere mantenuto? Il motivo fondamentale l’aveva in sostanza indicato Aristotile, dal punto di vista generalissimo, quando osservava che l’animo umano è soggetto e pervaso dalle passioni, e quindi è meglio, per quanto è possibile, di affidare il regolamento delle cose, più che agli uomini, alle norme giuridiche, alla legge. Altri pensatori ripresero l’argomento; Montesquieu lo sviluppò in pieno, guardando alla Costituzione inglese e al meccanismo concreto col quale le libertà degli individui si erano affermate e potevano continuare ad esistere, ed elevandosi a considerazioni che non hanno in nulla perduto di valore e di efficacia anche nell’epoca attuale. Egli diceva che un’esperienza eterna dimostra che ogni uomo che ha il potere è portato ad abusarne e quindi non v’è altro rimedio per evitare gli abusi che quello di limitare l’esercizio del potere: il potere freni il potere. Dalla distinzione delle funzioni fondamentali dello Stato (legislativa, così detta esecutiva, giurisdizionale) si passa alla distinzione degli organi ai quali attribuire ognuna di queste tre funzioni.

L’organo legislativo fa la legge, detta cioè le norme giuridiche che debbono presiedere ai rapporti degli individui e dei gruppi fra loro e con lo Stato; norme con carattere di astrattezza e di generalità; l’organo esecutivo esplica gli atti di governo e di amministrazione con riferimento a casi e a situazioni concrete; l’organo giurisdizionale commina le pene ai trasgressori della legge penale e risolve le controversie civili nei casi particolari in cui gli interessati eccitano lo svolgimento della sua funzione.

Ognuno di questi tre organi, di questi tre poteri deve esercitare la sua funzione in modo indipendente. Se l’organo esecutivo avesse la facoltà di cambiare nei casi particolari la legge, di elevarsi a legislatore, sarebbe influenzato dalla considerazione del caso particolare e potrebbe èssere indotto a cambiare la norma giuridica obbedendo a sentimenti di simpatia o antipatia, a pressioni di interessi, a valutazione instabile dello stesso bene pubblico. Gli inconvenienti e i danni sarebbero più gravi ed addirittura irreparabili se una tale facoltà potesse venire esercitata dall’autorità giudiziaria.

I diritti degli individui e degli enti sarebbero sottratti all’impero delle norme giuridiche prestabilite ed abbandonati alla discrezione o all’arbitrio dell’autorità. Non si avrebbe la certezza del diritto né la sua garanzia; la libertà dei cittadini sarebbe minacciata. Per mantenere la certezza del diritto e la libertà dei cittadini occorre tenere fermo il principio della distinzione dei poteri, dell’attribuzione cioè delle funzioni fondamentali dello Stato ad organi diversi, indipendenti nell’esercizio della propria funzione.

È qui, onorevoli colleghi, che sta l’essenza, la vera portata della teoria della divisione dei poteri. Alcuni di quelli che la combattono portano la questione all’esasperazione, all’assurdo, prospettando una divisione meccanica dei poteri che non è stata né può èssere propugnata da alcuno.

Occorre dunque precisare che non si tratta di disarticolare lo Stato attribuendo la sovranità a poteri distinti, isolati e privi di qualsiasi collegamento. Non v’è contrasto fra i due principî proclamati dalla rivoluzione americana prima e poi dalla rivoluzione francese nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino, fra il principio cioè della sovranità nazionale unica e l’altro della separazione dei poteri. L’articolo 16 di tale Dichiarazione dice che nella società dove non vi è il principio della separazione dei poteri non vi è Costituzione, cioè non vi è libertà. È la ripetizione di quello che aveva detto Montesquieu; ma che deve essere interpretato non rigidamente, come non rigidamente fu interpretato nel paese dove il principio della separazione è più decisamente affermato, negli Stati Uniti d’America. Infatti, se è vero che vi è una distinzione – che si dice netta – tra legislativo, esecutivo e giudiziario, è pur vero che vi sono delle interferenze fra tali poteri. Il Presidente, capo e padrone effettivo dell’esecutivo, ha una influenza indiretta sulla legislatura e deve mettersi in rapporto con le Camere per attuare la sua politica, specie nel campo finanziario. I Ministri o più propriamente i Segretari di Stato, cioè del Presidente, non possono essere tratti dalle Camere e non hanno ingresso nelle Camere e non sono responsabili di fronte ad esse; ma mantengono ugualmente con esse i contatti e la collaborazione partecipando alle sedute delle Commissioni parlamentari. E d’altra parte il legislativo, per mezzo di una delle sue branche, del Senato, partecipa a funzioni esecutive vere e proprie, essendo chiamato ad approvare la nomina dei Segretari di Stato, degli ambasciatori, dei giudici della Corte suprema fatta dal Presidente e ad approvare i trattati internazionali dal Presidente conclusi.

Quindi, il principio contro il quale si levano di tanto in tanto voci così appassionate, non è stato mai inteso né tanto meno applicato in modo rigido. E allora, se si interpreta giustamente, eliminando le esagerazioni, si vede che esso è giusto; che è opportuno ed anzi necessario che venga mantenuto, sia pur implicitamente come fa il nostro progetto della Costituzione, perché in modo concreto siano garantiti quei diritti che abbiamo affermati nella prima parte della Costituzione.

Non neghiamo che in periodi non normali, in periodi agitati, in periodi rivoluzionari, il principio della separazione può subire delle eclissi. È la forza delle cose: i limiti e freni suaccennati non possono esistere. Quindi non deve far meraviglia che da alcuni decenni, da varie parti, si tira a palle infuocate contro tale principio, ritenendolo sorpassato e, per giunta, ingiusto e dannoso. Ma quando si deve stabilire un ordinamento politico basato su situazioni normalizzate, quando si devono dettare norme intese a garantire lo svolgimento delle libertà, l’assetto equilibrato della società e dello Stato, allora è evidente che il principio che poteva ritenersi eclissato debba riprendere tutto il suo prestigio e tutta la sua forza.

Onorevoli colleghi, basterebbe una prova per tutte per dimostrare che il vecchio Montesquieu è più vivo di prima e che le sue parole hanno sapore della più grande attualità.

MANCINI. È questione di gusti.

AMBROSINI. Guardate la Costituzione dell’U.R.S.S., la Costituzione staliniana del 1936, guardate il Titolo che si riferisce alla Magistratura. Basterebbe soffermarsi sull’articolo 112 che testualmente dice: «I giudici sono indipendenti ed obbediscono soltanto alla legge».

Io credo che non sia necessario insistere su questo punto, che fu discusso avanti alla seconda Sezione della seconda Sottocommissione, e che potrà tornare in discussione quando ci occuperemo dell’ordinamento giudiziario.

Basterà qualche breve accenno. Credo opportuno dire che, parlando dell’argomento, non intendo riferirmi a situazioni del passato o del presente, ma guardare all’assetto avvenire. Bisogna essere cauti. Quando si dice che l’autorità giudiziaria deve adeguarsi alle correnti democratiche, occorre precisare tassativamente quello che si vuole, e comunque occorre evitare di spingere questo corpo, questa autorità, questo potere (si chiami come si vuole) verso una via che può essere pericolosa per tutti!

Perché, onorevoli colleghi, non è giusto dire, come facendogliene un appunto, che il magistrato è conservatore. Egli deve in un certo senso essere conservatore, nel senso che egli deve ubbidire alla legge, applicare la legge. Spetta ai corpi legislativi di segnare le norme giuridiche e di cambiare le leggi quando siano ingiuste o inapplicabili, od anche soltanto non rispondenti alla psicologia del popolo.

Il potere legislativo acquista così la preponderanza di fronte agli altri poteri; col che si evita quella differenziazione rigida e quella assoluta eguaglianza dei tre poteri, a cui per arrivare all’assurdo e al paradossale accennano taluni critici della teorica in questione.

Circa poi la rispondenza delle norme legislative alla psicologia del popolo nei vari momenti storici, cade acconcio richiamare quello che osservò Solone quando, rispondendo a certe critiche, disse che nell’elaborare la Costituzione, aveva tenuto conto dei pregiudizi del suo popolo.

Non c’è da farsi illusioni: nessuna legge costituzionale o ordinaria può avere vigore se non va incontro ai desideri, alle aspirazioni del popolo, se, in qualche modo, non è in armonia con la sua volontà, col suo sentimento. È opportuno aggiungere che, quando le leggi sono inapplicabili, sono ingiuste o si dimostrano inopportune, non deve affidarsi ai magistrati il compito terribile di raddrizzarle. Cominciando col fare il bene, essi possono deviare ed esercitare un simile potere in modo arbitrario.

Quando una legge esiste, gli organi dell’esecutivo, sia negli atti di governo che in quelli dell’amministrazione, e più ancora gli organi del potere giudiziario devono uniformarsi alla legge. Senza questo, noi potremmo parlare di diritti e di libertà, ma, siatene sicuri, non ci sarebbe certezza di diritto, non ci sarebbe garanzia di libertà, né nei singoli cittadini, né nei gruppi sociali; il che causerebbe danno non solo agli interessati, ma a tutta la società e porterebbe al disgregamento dello Stato! (Applausi).

Passiamo a parlare in modo specifico del potere legislativo. Lo spirito animatore del principio della separazione dei poteri influisce anche nella questione relativa alla divisione o meno dell’organo legislativo in due Camere? In sostanza, affermato il principio dell’unicità della sovranità, si vorrebbe che unico fosse l’organo che ne eserciti le funzioni.

Si può in proposito citare per tutti quanto nel secolo scorso argomentò Armand Marrast sostenendo la necessità di una Camera unica:

«La sovranità è una, la Nazione è una, la volontà nazionale è una» diceva l’assertore della unicità dell’Assemblea.

«Come dunque si vorrebbe che la delegazione della sovranità non fosse unica?».

Riguardando dal punto di vista concreto il gioco delle forze politiche, aggiungeva: «Se voi mettete una Camera accanto all’altra, voi arriverete ad uno di questi due risultati: o le Camere sono d’accordo ed allora una doppia discussione, un doppio voto non servono a nulla, e possono nuocere ritardando la legge; oppure sono in disaccordo, come avverrà più spesso, ed allora avrete stabilito una lotta negli alti poteri dello Stato.

«Le due Camere sono, dunque, un principio di disordine. Da questa lotta una delle Camere uscirà necessariamente indebolita».

Ora, è evidente che una qualche ragione c’è in questa argomentazione. Ma dobbiamo domandarci se essa è tale da portare fatalmente alla conseguenza della necessità di una sola Camera.

Gli inconvenienti lamentati indubbiamente esistono – sarebbe da ciechi negarli – ma sono proprio tali da distoglierci dal seguire quel sistema bicamerale, che ci è tramandato dalla tradizione, che continua ad essere sostenuto da scrittori e da uomini politici, sia pure per motivi diversi? Il più illustre dei nostri colleghi, l’onorevole Orlando, nella prefazione ad un libro apprezzabile sul Senato di un giovane, Giorgio Tupini, dopo di avere esposto i motivi di dubbio, ha finito per professarsi favorevole all’istituzione di una seconda Camera.

Passando ad esaminare più concretamente la questione, vediamo quali sono le ragioni che hanno sempre indotto pensatori ed uomini politici a propugnare la necessità di una seconda Camera e che hanno spinto i costituenti ad adottarla.

Sono varie. Si è qui parlato della funzione specifica del Senato come corpo tecnico sperimentato e tecnicamente più preparato per la migliore redazione delle leggi. Non occorre insistervi.

Dirò appresso, parlando della composizione del Senato, di un altro scopo specifico a cui esso dovrebbe assolvere come corpo composto, anche solo parzialmente, da rappresentanti diretti delle varie categorie della produzione, da una rappresentanza cioè che andrebbe ad integrare quella che si trova nella Camera dei deputati, per rispecchiare e dar voce e peso specifico a tutte le forze che compongono la struttura della società.

Ma anzitutto il Senato è stato sempre riguardato come un’Assemblea destinata alla maggiore ponderazione, come un corpo chiamato a frenare le generose impazienze che eventualmente si manifestino in modo precipitato nella prima Camera.

L’onorevole La Rocca l’altro ieri si riferiva a Cavour per rammentare la sua non adesione al sistema albertino di costituzione del Senato. Ma è necessario completare l’accenno al pensiero di Cavour: «vogliamo costituire (egli diceva) la gran macchina politica in modo che l’impulso acceleratore sia combinato con la forza moderatrice; vogliamo, accanto la molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme».

Forse questa proporzione può sembrare di maniera, ma il concetto è ben chiaro, e si riattacca al principio della necessità del freno, del contrappeso che è opportuno che ci sia in uno stesso potere, nel legislativo, dividendolo in due branche, in due Camere, che assicurino l’equilibrio ed evitino eventuali dannose intemperanze. Può considerarsi ancora oggi di attualità quanto, in proposito, scrisse nel 1788 uno degli uomini illuminati e democratici del nuovo mondo, rivolgendosi ai suoi concittadini di New York per chiedere l’approvazione della Costituzione di Filadelfia anche riguardo all’istituzione del Senato. Egli diceva: «Ad un popolo così poco accecato dai pregiudizi e non corrotto da lusinghe quale quello a cui mi rivolgo, io non esiterò ad aggiungere che una tale istituzione può essere talvolta necessaria allo stesso popolo contro i suoi temporanei errori e delusioni. Come il freddo e deliberato giudizio della comunità deve in tutti i regimi liberi prevalere in definitiva sulle vedute dei suoi dirigenti, così vi sono particolari momenti nei pubblici affari nei quali il popolo, stimolato da qualche irregolare passione e da qualche illecito vantaggio, o ingannato dall’artificiosa opera di uomini interessati, può chiedere misure che esso stesso dovrebbe dopo lamentare o condannare.

«In tali momenti critici come sarà salutare l’interferenza di qualche temperato e rispettabile corpo di cittadini, che sospenda il lancio della freccia che colpirebbe il popolo, fino a quando la ragione, la giustizia e la verità possano riguadagnare la loro autorità sopra lo sviato spirito pubblico!».

L’insegnamento e l’ammonimento possono servire anche a noi.

Mi diranno alcuni colleghi: «ma se è ormai stabilito che una seconda Camera verrà istituita, perché attardarsi a parlarne ancora per sostenerla?».

Rispondo subito: perché è bene che venga istituita con una votazione senza sottintesi, non tiepidamente e con rassegnazione come se si trattasse di un errore che non si può evitare e di accettare o subire il Senato come un male inevitabile, ma volenterosamente, con convinzione e con la sicurezza che l’istituzione della seconda Camera sarà utile al Paese. Il Senato nascerà così con maggiore prestigio e potrà nel modo più adeguato assolvere al compito che gli è assegnato dalla Costituzione.

Come deve essere composto il Senato? Naturalmente, qui vengono i maggiori contrasti. Ma, prima di addentrarmi nell’argomento, accenno anzitutto a quello sollevato specialmente dall’onorevole Rubilli, il quale chiedeva nientemeno che il Senato fosse composto dallo stesso numero dei membri della prima Camera.

RUBILLI. Con diminuzione di questi, essendo elettiva l’una e l’altra. Quando il Senato era di nomina regia, si comprendeva che il numero dei componenti fosse inferiore a quello della Camera dei Deputati; ma, essendo ora tutte e due le Camere elettive, perché non equipararle per numero e per importanza? Quattrocento l’una e quattrocento l’altra.

AMBROSINI. Data la sua precisazione, il mio dissenso si attenua soltanto, ma non scompare.

Tutto sommato, sono completamente d’accordo con quanto l’onorevole Conti, nella seconda Sottocommissione, tassativamente disse riguardo al numero dei componenti del l’Assemblea, giacché ritengo che il Senato, appunto per la sua natura speciale, debba essere composto di un numero di membri inferiore a quello della Camera dei deputati.

L’altro punto, sul quale pregiudizialmente io mi permetto di dire una parola, è quello che riguarda la stabilità del Senato. Noto l’assenso dell’onorevole De Michelis, il quale l’altro giorno me ne aveva parlato.

La questione venne posta nella seconda Sottocommissione ed ha continuato a formare oggetto di discussione e di meditazione.

Onorevoli colleghi, occorre, specialmente nella mutevole vita moderna, che ci sia una qualche àncora, un qualche punto di stabilità. La mutevolezza nella composizione delle Assemblee si ripercuote sulla mutevolezza della legislazione; e la mutevolezza della legislazione finisce per turbare gravemente gli interessi del popolo e specialmente la visuale generale che all’interno ed all’estero deve aversi della politica dello Stato.

Per assicurare questa stabilità tanti legislatori hanno ritenuto opportuno che, mentre la prima Camera si muti completamente, a periodi determinati e prima dello scadere della sua vita ordinaria in caso di scioglimento, la seconda Camera abbia un’esistenza continuativa da mantenersi a mezzo di rinnovamenti periodici soltanto parziali. Ci sono seconde Camere che durano sei, otto, dieci anni. C’è il sistema di rinnovarle per metà o per un terzo o per un quarto. La misura è questione di dettaglio; si può scegliere qualsiasi sistema; ma ritengo opportuno, utile, quasi necessario, appunto in considerazione del succedersi continuo degli eventi della vita moderna, che si affermi una certa stabilità nella vita di uno degli organi legislativi.

Noi questa stabilità potremmo riuscire ad averla quando istituissimo un Senato che duri in permanenza, rinnovandosi non compietamente, ma solo parzialmente a data fissa.

Si avrebbero così due vantaggi: quello della stabilità e l’altro inerente alla ripresa di contatto, per mezzo del rinnovamento parziale, con la pubblica opinione e col corpo elettorale, qualunque sarà per essere.

Passiamo alla composizione del Senato. Anche qui le legislazioni ci offrono svariati esempi. I diversi sistemi, che sono stati escogitati dagli studiosi e dai legislatori, non hanno lasciato contento nessuno. Ed è naturale, giacché è impossibile arrivare a raggiungere la perfezione. Io non andrò ad elencare i diversi sistemi, perché all’ora in cui siamo arrivati e nell’aspettativa dei discorsi degli onorevoli Nitti e Sforza, è opportuno stringere ed andare avanti rapidamente. Quindi mi limiterò a sottoporre all’Assemblea quelle considerazioni che possono giustificare la richiesta della composizione di un Senato sulla base di un sistema misto.

L’Assemblea sa che il Gruppo al quale ho l’onore di appartenere, oltre ad altri Gruppi di questa Camera, ha sostenuto e sostiene il principio che suole chiamarsi della «rappresentanza degli interessi». È una espressione poco simpatica e spesso non è adeguata. È bene dire subito che quando noi parliamo di rappresentanza degli interessi, non intendiamo affatto riferirci a sistemi di classi, a metodi e sistemi come quelli che vi erano nella Germania o nell’Austria fino al 1918. Noi intendiamo riferirci agli interessi, alle forze vive del Paese, alla produzione, al lavoro in tutte le sue manifestazioni, con particolare riguardo (come dirà l’onorevole Piccioni nel suo ordine del giorno) alle forze del lavoro qualificato ed intellettuale. Noi cioè affermiamo che, mentre in quello che si chiama parlamento politico c’è la rappresentanza politica delle ideologie dei cittadini indifferenziati, raggruppati per settori elettorali dal punto di vista territoriale, ci debba essere una seconda Camera nella quale abbiano posto, anche limitatamente, le rappresentanze di quelle forze sociali che per il congegno elettorale non arrivano a trovar ingresso nella Camera dei Deputati. Questa Camera, fondata sui partiti, non basta. Ne occorre una altra composta in modo da rispecchiare la volontà delle organizzazioni economiche e sociali, culturali e lavoratrici in genere.

Si dice in contrario, che una tale rappresentanza specifica non è necessaria in quanto tali forze hanno già modo di farsi valere per mezzo dei partiti. Ciò può in parte ammettersi, ma non basta.

I partiti si basano sulle ideologie, partono da alte vedute di insieme, da un proprio modo di vedere e di sentire le cose della Nazione ed anche del mondo, da una propria Weltanschauung, che necessariamente porta a riguardare da quell’alto punto di vista le cose particolari piegandole al raggiungimento degli scopi supremi segnati nel programma del partito.

Ma oltre alla necessità di indirizzare la società sulla scia della grande luce delle ideologie, si appalesa opportuno sentire la voce dei singoli interessi particolari, si appalesa opportuno che questi, come tali, riescano ad avere una propria rappresentanza, che acquistino la possibilità di dire il proprio pensiero, non solo per la maggiore competenza che sicuramente metterebbero nell’esprimerlo, ma anche per la responsabilità che direttamente ne assumerebbero.

LUSSU. Può citarci un esempio di interessi non rappresentati qui dentro? Gli ufficiali in congedo…

AMBROSINI. Onorevole Lussu, lei sa come io seguo i suoi slanci con ammirazione ed affetto, ma, mi perdoni, la sua domanda non è giusta. Un esempio? Agricoltura, commercio, industria, trasporti terrestri, marittimi ed aerei. Come rappresentante degli agricoltori qui chi c’è? Quali saranno quando la futura Assemblea dovrà discutere della riforma agraria? Fatalmente l’agricolture, che appartiene al partito o parla per il partito, deve non solo tener conto delle vedute del partito ma subordinare tutte le esigenze particolari della sua categoria alle esigenze generali del partito, oppure propugnarle obliquamente, prospettandole sotto la vernice dell’interesse di partito. Onorevole Lussu, ciò lei lo ha detto varie volte nella seconda Sottocommissione, quando parlava di interessi a volte obliqui che si fanno valere attraverso ai partiti.

Ma non sarebbe molto meglio, molto più giusto che ci siano rappresentanti speciali che dicano apertamente e tassativamente quello che è l’interesse della propria categoria?

Una voce a sinistra. Questo è corporativismo.

AMBROSINI. Non è esattamente corporativismo della maniera alla quale vi riferite. Preciso subito. Innanzi tutto, permettetemi, non si chiede di stabilire su questa sola base tutta la composizione dell’Assemblea. Noi chiediamo che un settore di essa venga destinato alle rappresentanze delle categorie. Così finalmente noi sapremmo dai rappresentanti degli agricoltori, dai grandi proprietari ai medi i proprietari e ai piccoli coltivatori, quale è il loro punto di vista specifico specie nelle riforme che dovranno farsi.

Ma quale male ne deriva? Lussu, tu lo dicesti l’altra volta ed altri egregi collegi come te. Rispondo alle vostre obiezioni. C’è il pericolo, dite, che l’Assemblea si trasformi in una Assemblea di interessi che lottano per soverchiarsi, con la conseguenza che i componenti, i rappresentanti di un gruppo la vincano sugli altri e impongano la propria tirannia, oppure che non si riesca a stabilire la supremazia di alcun gruppo né ad arrivare ad una comune soluzione, col che si avrebbe il disordine e il caos. Ma questo può avvenire, avviene anche con i partiti, specie sul piano internazionale. Non devo dirlo a voi. Lo sapete bene (la tragedia della guerra lo insegna), mentre sulla base degli interessi, discutendo al tavolino, sarebbe facile accordarsi, all’inverso difficilissimo diventa l’accordo quando entrano in gioco le ideologie; le guerre più terribili e feroci sono state le guerre di ideologia.

Il pericolo che prospettate è quindi di molto esagerato, e comunque diventa infondato quando si ammetta nell’Assemblea soltanto una qualche rappresentanza limitata delle forze della produzione e del lavoro. Non ne verrebbe alcun danno. Si avrebbe il vantaggio di sapere apertamente quello che desidera la categoria. C’è inoltre da tenere conto del fatto, che facendo parte di un’Assemblea, i rappresentanti delle singole categorie saranno influenzati da quella che è l’aria generale che si respira nell’Assemblea e sentiranno quindi l’opportunità di indirizzare le loro richieste in modo da non urtare in maniera violenta contro gli interessi delle altre categorie e da adattarle all’interesse generale del Paese.

Comunque sarà l’Assemblea che finirà per decidere con la sua responsabilità, guardando e valutando tutti i vari interessi particolari in vista dell’interesse generale della Nazione.

Quindi l’inconveniente al quale si accenna non esiste o può ridursi al minimo, giacché è il congegno stesso di funzionamento dell’Assemblea che riduce gli eccessi e ristabilisce l’equilibrio.

Ci sono altre obiezioni.

Nella seconda Sottocommissione, quando si discusse questo argomento (che ci prese per tanto tempo), a un certo punto anche gli onorevoli Lussu, Laconi, Grieco e Paolo Rossi si mostrarono per lo meno impressionati e propensi a pigliare in considerazione la nostra proposta, ma prospettando altri dubbi ed inconvenienti, che secondo loro renderebbero il sistema praticamente inattuabile.

L’onorevole Paolo Rossi obiettò che è difficile fare l’elenco delle categorie. Un po’ l’obiezione, che onorevole Lussu mi ha fatto ora: difficile stabilire quali sono le categorie. E poi che è ancora più difficile distribuire fra le varie categorie quel determinato numero di seggi che verrebbe assegnato ai rappresentanti delle categorie.

Risposi allora ampiamente e rispondo ora brevemente perché il tempo incalza e sono anch’io ansioso di sentire la parola dell’onorevole Nitti, rispondo che le obiezioni possono agevolmente venire risolte, e che comunque non sono insuperabili. In proposito abbiamo l’esempio di molte legislazioni. Non vi parlo di quelle vigenti prima del 1918 nella Germania e nell’Austria, dove c’era la rappresentanza per classi; non vi parlo nemmeno di quelle alle quali accennò il collega Clerici quando parlò delle prime Costituzioni italiane dell’800, che sostanzialmente non facevano che copiare la Costituzione francese voluta da Napoleone; ma faccio richiamo ai sistemi adottati nei tempi recenti. Io le ho qui tutte elencate; non vi annoierò con una indicazione specifica. I libri ne parlano ampiamente, e possono essere consultati con facilità. L’argomento non è affatto nuovo giacché se ne è sempre parlato quando è venuta in discussione l’organizzazione del lavoro, verso la fine del secolo scorso e nel nostro secolo, quando le classi lavoratrici specialmente hanno pensato, attraverso alle proprie organizzazioni, ad entrare nel vivo delle forze dello Stato e ad arrivare – non con la rivoluzione, ma attraverso forme legali, con la costituzione di corpi consultivi e deliberativi formati dai rappresentanti delle varie categorie – ad arrivare alla conquista del potere. Come può dirsi che ci siano difficoltà su questo punto? Si pensi che non in Italia ma in quasi tutti i paesi del mondo si sono costituiti tali organi consultivi. Non mi si risponderà certo che l’ostacolo esiste soltanto quando si tratta di costituire un corpo che si chiami per avventura Senato, e che non esiste più quando si tratta di costituire un altro corpo che si chiami Consiglio Superiore del lavoro o Consiglio dell’economia o altro? (Commenti a sinistra).

Gli inconvenienti e le obiezioni sarebbero perfettamente uguali.

Ora, se è stato trovato il modo di superare quelle obiezioni, di risolvere quegli inconvenienti, per i Consigli del lavoro ed i Consigli economici, lo stesso o identici sistemi possono seguirsi per organizzare un altro corpo da chiamare Senato.

Faccio richiamo ad una sola legislazione, alla Costituzione di Weimar, la tanto deprecata Costituzione di Weimar, a proposito della quale proprio potrebbe dirsi che è stata ingiustamente criticata per il fatto che non resistette che poco. Ma, onorevoli colleghi, quando c’è un uragano non c’è ombrello che salvi dalla pioggia, e quando c’è terremoto non ci sono case asismiche che resistano allo scuotimento della terra; ora, la Costituzione di Weimar non resse perché non solo ci fu un uragano, ma un terremoto. Tuttavia se noi dobbiamo giudicare, dobbiamo guardare alle situazioni normali.

Bene, la Costituzione di Weimar in quel famoso articolo 165, col quale si istituiva il Consiglio economico del Reich, che rappresentava una transazione tra il sistema occidentale dei parlamenti ed il sistema sovietico dei consigli, in quell’articolo 165 affermò il principio a cui noi facevamo richiamo nella seconda Sottocommissione e che continuiamo avanti a quest’Assemblea a propugnare, sia pur limitatamente, cioè non per la composizione di tutto il Senato, ma solo per una parte di esso. Anche all’Assemblea di Weimar furono fatte le stesse obiezioni al sistema di composizione del Consiglio, giacché le obiezioni non derivano dallo spirito cervellotico dell’uno e dell’altro deputato, ma vengono dalla natura delle cose. Ma è dalla stessa natura che sono suggeriti i rimedi. L’articolo 165 affermò il principio; l’attuazione fu rimessa alla legge speciale. Lo stesso potremmo fare noi.

Come fu composto il Consiglio economico del Reich nel primo tempo con una legge di carattere provvisorio? Fu costituito con un totale di 326 membri, così distribuiti fra le categorie: 68 rappresentanti dell’agricoltura e delle foreste, 68 dell’industria, 44 del commercio, banche e istituti di assicurazione, 34 delle imprese di trasporto, 36 del piccolo commercio e della piccola industria, 30 dei consumatori (comuni, associazioni di consumatori e organizzazioni femminili), 16 dei funzionari e delle professioni liberali, e di altre 24 persone nominate dal Governo.

Avvenuta la distribuzione dei seggi fra le varie categorie, sorse la questione se questi rappresentanti dovessero essere nominati sul piano nazionale o su quello regionale, sorse cioè la stessa obiezione che fu sollevata nella seconda Sottocommissione e che si affaccia anche qui all’Assemblea. Ma la questione fu bene risolta per la formazione di quel Consiglio economico, come bene potrebbe essere risolta da noi per il Senato.

Ma si presenta un’altra obiezione, che ugualmente potrà essere superata. Avanti alla seconda Sottocommissione il collega onorevole Paolo Rossi obiettò: «Ma, in questo modo, voi cristallizzerete la situazione». No, risposi e rispondo, noi non cristallizzeremmo la situazione perché domani potrà benissimo procedersi alla revisione delle categorie prese in considerazione e dei posti prima assegnati a ciascuna categoria.

Se è così – e così è – perché respingere la nostra proposta?

Fu detto nella seconda Sottocommissione e numerose volte ripetuto anche in questa Assemblea, che si tratterebbe di un sistema antidemocratico. Mi si permetta, onorevoli colleghi, che io risponda a una simile obiezione, come dire, candidamente: confesso infatti che io provo una certa esitazione quando sento dire che si tratta di un sistema antidemocratico.

Ma, onorevoli colleghi, un sistema è antidemocratico o per l’obietto o per l’intenzione la quale lo determina. Ora, io credo su questo punto di poter parlare non solo a nome mio personale, ma a nome di tutto il Gruppo al quale ho l’onore di appartenere, quando vi dico che non v’è in noi la minima idea che un tale sistema sia determinato da spirito antidemocratico, e tanto meno che possa funzionare in modo antidemocratico. Noi siamo ben lontani dal volere che la Camera dei deputati sia diminuita nel suo prestigio e nel suo potere; noi vogliamo semplicemente integrarla con l’adozione di un sistema il quale risponda a quelle tali necessità cui abbiamo dianzi accennato.

Quindi credeteci, noi parliamo con lealtà assoluta, in noi non c’è il minimo recondito pensiero che una simile riforma possa portare a conseguenze antidemocratiche.

Ma c’è di più: l’ho detto in varie occasioni. La proposta riforma tende ad attuare una più perfetta democrazia, a completare la rappresentanza che è nella Camera dei deputati, giacché la rappresentanza delle categorie dovrebbe venire ugualmente formata per mezzo delle elezioni. Per altro, tenetelo presente, da qual parte sono venute, nel secolo scorso e nell’attuale, proposte simile alla nostra? Sono venute principalmente da quelli che si chiamavano partiti estremi: nel 1919 da noi, dalla Confederazione italiana dei lavoratori e dalla Confederazione generale del lavoro.

Nella seconda Sottocommissione – permettetemi, onorevoli colleghi, che vi dica che non fu per un motivo polemico (credetemi, non amo la polemica), ma per dimostrare il mio assunto – io mi riferii, fra gli altri, leggendone vari passi, ad un discorso dell’onorevole Cabrini. No, Cabrini non era, né può certamente passare per antidemocratico. Non rileggerò qui il discorso, che è consacrato nei verbali della seconda Sottocommissione, e che si trova per altro nei resoconti della Camera del 1919. Cabrini chiedeva in quel discorso la trasformazione del Senato in un corpo di rappresentanze professionali. L’onorevole Paolo Rossi ribatté allora subito che Cabrini era un soreliano. Gli risposi e ripeto che non occorre fare simili indagini. L’interessante è stabilire che non si trattava certo di un reazionario. Aggiungo che l’onorevole Cabrini si faceva allora eco del pensiero esplicitamente manifestato dalla Confederazione generale del lavoro nel maggio del 1919; la quale Confederazione ritornò nell’ottobre dello stesso anno sull’argomento con un voto esplicito indirizzato al Ministro dell’industria e del commercio.

C’è un aureo libro – mi consentirà l’onorevole Meuccio Ruini che io lo citi – pubblicato nel 1920, dal titolo II Consiglio nazionale del lavoro, nel quale egli, che fin dal 1906 aveva propugnato il sistema del quale ci occupiamo, riporta con assennati commenti il testo delle richieste della Confederazione generale del lavoro.

È proprio istruttivo; ed è istruttivo non solo per dimostrare che la nostra è una richiesta nient’affatto antidemocratica, ma anche per la sostanza delle considerazioni che in quel testo sono limpidamente enunciate. Nel voto della Confederazione generale del lavoro si chiede «che tutta la materia legislativa riguardante il lavoro venga affidata ad un organismo costituito con la rappresentanza delle classi lavoratrici, delle categorie professionali, con l’intenzione di sottrarre completamente alla Camera elettiva il suo diritto di interloquire nella formazione di leggi, che, pur interessando solamente certe categorie, involvono la politica finanziaria ed economica dello Stato». Nella motivazione del voto si prospettano quasi tutti gli argomenti che noi abbiamo illustrati per sostenere la nostra richiesta di riforma. Non leggo per non prendere altro tempo. Mi limito a notare che la Confederazione proponeva che il Consiglio nazionale del lavoro, trasformandosi da corpo consultivo in corpo deliberante, venisse composto dai rappresentanti di tutte le classi e categorie.

In quel tempo c’era il progetto di riforma del Senato. Il grande maestro e uomo politico di prim’ordine che, con tutta la signorilità dei suoi modi e la benevolenza del suo tratto, aveva una fermezza veramente eroica, Francesco Ruffini, relatore al Senato su questo progetto, aveva presentato delle proposte concrete per riformare una parte del Senato proprio sulla base sulla quale noi ci soffermiamo; la Confederazione generale del lavoro andò più avanti, chiedendo nell’ottobre 1919 addirittura la soppressione del Senato e la sostituzione di tale Assemblea con l’Assemblea composta dai rappresentanti delle categorie.

LUSSU. Ma venti anni fa era in auge il biplano, oggi è in auge il monoplano. È la stessa questione.

AMBROSINI. Raccolgo la interruzione e ringrazio l’onorevole Lussu. E allora, caro Lussu, non si tratta (perché ho detto, egregi, onorevoli colleghi, che noi dobbiamo esaminare con assoluta obiettività i problemi), non si tratta di inconvenienti insuperabili, ma di una questione di principio, e di una questione più generale di principio, che riguarda non la composizione del Senato – se si parla di monoplano – ma l’Assemblea unica; si tratta di un’obiezione che tende a scuotere quello che deve essere uno dei pilastri della Costituzione, e che il nostro progetto ha accettato in pieno, cioè il sistema bicamerale.

Passo ad un altro punto sul quale la seconda Sottocommissione si soffermò ed è opportuno che anche qui noi ci soffermiamo, per vedere se è possibile ricorrere ad un altro sistema allo scopo di formare, anche in parte, il Senato su una base diversa da quella della Camera.

La vita del Paese, oltre che sulle ideologie, oltre che sugli interessi delle forze vive della produzione (si è tanto irriso riguardo a questa espressione «forze vive della produzione»; ma sapete dove si trova questa espressione? proprio nel voto della Confederazione generale del lavoro dell’ottobre del 1919), la vita del Paese si basa anche sugli interessi territoriali, delle Regioni, delle Provincie e dei Comuni. Se ne discusse tanto nella seconda Sottocommissione! E l’illustre Presidente (che allora era l’onorevole Terracini) sospese e rinviò per tre volte le sedute per dar modo ai vari gruppi di intendersi. E si era arrivati ad un’intesa, sulla base appunto della rappresentanza degli interessi territoriali; intesa che poi solo parzialmente resistette alle nuove critiche. Resistette solo riguardo alla rappresentanza da attribuire alle Regioni. La soluzione concordata è qui stata sottoposta a nuove critiche. Io ritengo che la rappresentanza delle Regioni come tali debba essere mantenuta, dal momento che noi abbiamo adottato l’ordinamento regionale per tutto lo Stato. Mi rendo conto (voi lo sapete: io che ho propugnato la riforma regionale, sono stato sempre tassativamente, nettamente contrario al sistema federale), io mi rendo quindi conto delle obiezioni che si muovono all’attribuzione di un numero uguale di senatori ad ogni Regione, perché una tale attribuzione costituisce uno dei tratti caratteristici del sistema federale; ma ritengo che ciò non possa portare alla soppressione delle rappresentanze regionali. Alle Regioni, come tali, deve assegnarsi una propria rappresentanza, comunque costituita. È, ripeto, una conseguenza logica di quanto abbiamo stabilito adottando l’ordinamento regionale.

Andiamo alla rappresentanza degli interessi territoriali dei Comuni. La seconda Sottocommissione l’aveva ammessa. Le discussioni e le critiche riferentisi specialmente ai criteri di attuazione di questo tipo di rappresentanza portarono poi alla scelta di un altro progetto. È opportuno riprendere qui l’esame del problema. I precedenti della legislazione francese del 1875 e del 1884 possono servirci di guida. La legge del 1875 aveva costituito un collegio dipartimentale, provinciale, composto oltre che dei deputati e dei consiglieri generali e di circondario, di delegati eletti, uno per ogni Consiglio comunale. Parigi ebbe un solo delegato come il più piccolo Comune della Francia. Le critiche furono gravi. Gambetta qualificò il Senato come il Gran Consiglio dei Comuni rurali.

Nel 1884 si fece la riforma, adeguandosi la distribuzione del numero dei delegati comunali fra i Comuni a seconda della relativa importanza. Noi potremmo, se vogliamo arrivare ad applicare il principio egualitario fino alle ultime conseguenze, adottare il sistema di attribuire ai Consigli comunali la potestà di eleggere un numero di delegati direttamente proporzionato al numero degli elettori o al numero della popolazione. Riguardo alla composizione del Senato aggiungo infine (senza soffermarmi sulla proposta perché altri colleghi ne hanno parlato) che ritengo opportuno che una percentuale, per quanto minima, dovrebbe essere lasciata alla nomina del Capo dello Stato, o essere affidata all’elezione della Camera dei deputati, o, in ogni caso, essere confidata allo stesso Senato col sistema della cooptazione. Riassumendo: io sarei per la composizione di un Senato su base mista: della rappresentanza degli interessi delle categorie della produzione intesa nel senso più vasto, e della rappresentanza degli interessi territoriali delle Regioni e dei Comuni, integrando le due rappresentanze con un numero di senatori nominati dal Presidente della Repubblica.

Egregi colleghi, io devo fare qualche altra considerazione sul potere esecutivo e sul sistema dei rapporti fra legislativo ed esecutivo. Indubbiamente, la forma di Governo è determinata dal sistema dei rapporti tra questi due poteri. Dirò subito, andando senz’altro quasi alla conclusione, senza darne la dimostrazione perché il tempo incalza, che non propendo per nulla, che anzi sono completamente contrario, a quella tendenza, che pur debolmente è stata manifestata in questa Assemblea, per il sistema direttoriale, tipo Svizzera, e che non sono nemmeno favorevole al sistema presidenziale. Non intendo con questo secondo riferimento pregiudicare la questione del sistema di nomina del Capo dello Stato. Credo opportuno notare in proposito che, se per avventura quest’Assemblea venisse nella decisione che il Capo dello Stato debba essere eletto direttamente dal popolo, ciò non importerebbe affatto adozione del sistema presidenziale, perché questo sistema è caratterizzato non dal fatto che il Presidente è eletto dal popolo, ma dal fatto che il Capo dello Stato è contemporaneamente Capo del Governo, e che i Ministri sono nominati dal Capo dello Stato e sono soltanto di fronte a lui responsabili, talché non entra per nulla in gioco il meccanismo di voti di fiducia o di sfiducia da parte delle Camere. È evidente che noi, per mille ragioni, non potremmo accettare un tale sistema.

E allora non resta altro che adottare il sistema parlamentare. Ma anche qui bisogna intenderci. C’è un regime parlamentare classico, quello inglese, che ora si è trasformato perché il Primo Ministro, che resta – come fu chiamato – il re senza corona, il vero domino dell’esecutivo, se è sempre nominato dal Capo dello Stato, sostanzialmente è indicato dal corpo elettorale nelle elezioni generali, dal cui risultato si vede subito chi deve essere nominato primo Ministro. Il Governo, il Gabinetto, da questi formato, ha in massima il carattere unitario e omogeneo, e può quindi essere stabile.

Ora non possiamo illuderci, egregi colleghi, di adottare un tale sistema, perché esso presuppone due grandi partiti, uno di maggioranza e l’altro di minoranza, che convogliano le forze politiche del paese. È un congegno, che non corrisponde affatto alle nostre condizioni. Del regime parlamentare, nelle sue linee essenziali, noi possiamo mantenere alcuni pilastri fondamentali. Sforziamoci di creare un potere esecutivo forte; altrimenti è la democrazia stessa che viene messa in pericolo. Per avere un potere esecutivo forte è anzitutto necessario avere un Capo dello Stato che non sia soltanto un simbolo. Da varie parti, nella dottrina, nel mondo politico e in alcune Costituzioni dell’altro dopo guerra, si seguì quel sistema della così detta razionalizzazione del regime parlamentare, che in fondo non è altro che una trasformazione profonda di esso realizzantesi con la diminuzione dei poteri e della figura del Capo dello Stato. Questa Magistratura deve essere dotata di poteri adeguati al suo altissimo compito.

Nessuno abbia paura di questi poteri del Capo dello Stato; non abbia paura anche perché egli non può esercitarli di suo proprio arbitrio e da solo.

Il regime parlamentare è un congegno così delicato e difficile che farebbe perdere la testa a quegli studiosi che volessero classificarlo con una formula semplice e lineare. Per questo gli inglesi si limitano a descriverne le particolarità. Nel regime parlamentare l’esecutivo è un organo complesso composto del Capo dello Stato e del Governo; il quale Governo poi a sua volta è composto del primo Ministro e degli altri Ministri; e tutto questo organo deve funzionare come un congegno di orologeria, in armonia e d’accordo, perché altrimenti il sistema non funziona e salta in aria.

Il congegno è molto delicato e difficile, ma è il congegno, che solo, nelle circostanze del mondo attuale, specie da noi, può garantire la libertà al popolo e nello stesso tempo la energia e la continuità dell’esecutivo.

Alcune Costituzioni dell’altro dopo guerra diminuirono, anche formalmente, i poteri del Capo dello Stato, attribuendoli al Governo, e lasciando a lui soltanto alcuni poteri tassativamente indicati nella Costituzione. No! Il Capo dello Stato deve partecipare a tutta l’attività dell’esecutivo in base al congegno proprio del regime parlamentare classico.

Secondo: bisogna evitare che la posizione del Capo dello Stato sia resa instabile, non solo in diritto – il che fa il nostro progetto di Costituzione – ma anche in via di fatto – il che noi dobbiamo raccomandare alle future Assemblee legislative, perché nel funzionamento della macchina parlamentare e dell’esecutivo non ricorrano a quegli espedienti, che possano indurre o costringere il Capo dello Stato alle dimissioni, come varie volte avvenne in Francia, sotto la terza Repubblica, con tutte le conseguenze che gli storici hanno constatato. (Interruzioni a sinistra). Il Capo dello Stato non ha propria volontà esclusiva. Inconvenienti ce ne sono in tutti i sistemi. Qualsiasi sistema potrebbe essere sottoposto a numerosissime critiche. Bisogna vedere fra i vari inconvenienti quale è il minore.

Ebbene, secondo il nostro modesto modo di vedere, la stabilità del Capo dello Stato è un bene, che supera gli eventuali inconvenienti; anche perché – siccome il Capo dello Stato non può agire per volontà particolaristica individuale, ma deve adeguare la sua volontà a quella del Governo, il quale a sua volta non può restare in carica se non con la fiducia delle Camere – praticamente è impossibile la dittatura, praticamente sono le Camere ad avere la direttiva e la bussola dello Stato. Vero è che il Capo dello Stato può sciogliere le Camere; ma deve essere d’accordo col Governo. Ed in questo caso nessuno ha da lamentarsi, perché è il corpo elettorale, che in definitiva, nell’esercizio della sua sovranità, deciderà, tracciando le direttive al nuovo Governo, alle quali direttive il Capo dello Stato deve uniformarsi.

Veniamo alla composizione del Governo, ultimo punto al quale devo accennare. Non faccio alcun riferimento a situazioni esistenti o del passato; guardiamo all’avvenire. La questione della stabilità del Governo è da noi ardua come quella della quadratura del circolo. Non abbiamo forze sufficienti a fare questa quadratura; né potremmo – e sarebbe male, a mio modo di vedere – con norme pretenziose dettate nella Costituzione, volere disciplinare eventi, che non sono disciplinabili.

Ho sentito l’altro ieri il collega onorevole Rubilli attaccare la proporzionale, addebitando ad essa la instabilità dei Governi. Si giudichi come si vuole il sistema della proporzionale; ma questa colpa non le si può dare, perché le valutazioni statistiche mostrano che col sistema del collegio uninominale la carta politica riusciva e riuscirebbe così variopinta di partiti, come col sistema della proporzionale. Se il Paese è molto frazionato, non c’è sistema elettorale che riesca a creare artificialmente pochi partiti e tanto meno due soli partiti. Vorrei anche osservare che altri inconvenienti, lamentati dall’onorevole Lussu riguardo al collegio uninominale, purtroppo non può dirsi che siano scomparsi dopo l’adozione di altri sistemi.

Adunque, è impossibile che da un Parlamento composto di molti partiti possa sorgere un Governo omogeneo, formato da un partito che abbia la maggioranza assoluta. Ed allora che fare? Era stata affacciata la proposta di un sistema presidenziale di Governo consistente nell’elezione da parte delle Camere del Capo del Governo per la durata di un minimo di due anni; ne parlammo al principio col collega onorevole Tosato e con altri. Ma la proposta era inaccettabile. Si tratterebbe di una specie di sistema presidenziale ridotto, ed avente come perno il Capo del Governo e non il Capo dello Stato. Respingendo il sistema nei riguardi del Capo dello Stato, è logico che non si può accettarlo nemmeno per il Capo del Governo.

A quale altro sistema ricorrere adunque per avere un Governo omogeneo? Ad un Governo di minoranza o di maggioranza relativa? Ma questo, se è possibile e necessario in periodi di emergenza, non è possibile sicuramente in periodi normali.

Ed allora, egregi colleghi, è bene che riconosciamo esplicitamente che fino a quando permane questa situazione, cioè della divisione del Paese in tante correnti politiche, è impossibile, qualsiasi sistema elettorale si scelga, che si arrivi ad avere nel Parlamento un partito di maggioranza assoluta, e che è quindi impossibile arrivare alla costituzione di un Governo omogeneo.

Non c’è che il Governo di coalizione. Se è così, occorre ricorrere a correttivi che però non possono scriversi nella legge, ma che debbono affidarsi solo al costume politico e al generale senso di responsabilità.

È successo finora, per necessità contingenti delle quali diedero spiegazione vari autorevoli colleghi di questa Assemblea, è successo che partiti partecipanti al Governo di coalizione criticassero od oppugnassero provvedimenti deliberati dal Governo del quale coi propri esponenti essi facevano parte. Si è detto che ciò era inevitabile perché i partiti, perdendo quasi la libertà di opposizione nel seno del Governo, erano costretti a riprenderla e ad esercitarla nel paese. Non è qui il caso di soffermarsi sul passato; ma è il caso di affermare che ciò non dovrebbe ripetersi per l’avvenire. Si, caro Conti: dobbiamo affidarci al costume, al nostro senso di responsabilità, al patriottismo e al senso di responsabilità di tutto il popolo, delle classi dirigenti e specie di coloro che saranno eletti nelle future Assemblee legislative.

Siccome nelle circostanze dell’epoca attuale non è possibile altra forma di Governo che quella del Governo di coalizione, sarà indispensabile – se non si vuole sabotare scientemente o inconsapevolmente il funzionamento del Governo – che i partiti i quali si accordano su un minimo di programma nell’entrare a far parte del Gabinetto, si comportino in conseguenza coerentemente agli impegni presi. Se l’impegno diventasse pesante dovrebbero lasciare la coalizione, non sabotarla.

Naturalmente nessuna norma costituzionale può disciplinare questa materia. Dobbiamo affidarci al costume, onorevoli colleghi, in questa materia noi non possiamo che affermare un’esigenza fondamentale per la vita del Paese ed invocare la buona volontà e la cooperazione dei partiti, che sono tutti legati, come tutti indistintamente, individui e gruppi senza alcuna esclusione siamo legati, alla stessa sorte della Nazione.

Noi abbiamo bisogno, nel grave periodo che attraversiamo, nel caos internazionale e nell’immenso disagio interno del Paese, di un Governo che sia stabile e forte, di un Governo che assicuri la continuità e l’efficienza della politica dello Stato, di un Governo che permetta al popolo di risollevarsi dalle rovine, di un Governo che dimostri all’estero la dignità di questa sacra Patria, dell’Italia, che pur oggi, torturata, dilaniata ed offesa nel suo corpo fisico, sente di avere un’anima che può affrontare tutte le tempeste e può ancora dire al mondo una parola di armonia, di equilibrio e di pace nell’interesse nostro e di tutti gli altri. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Io intendo limitarmi a poche osservazioni sui titoli I, II, III di questa parte del progetto di Costituzione. Siamo ora veramente nella Costituzione. Finora abbiamo parlato di tutto, tranne che della Costituzione. Forse per questo la Camera era prima molto più affollata (varietas delectat), ed ora è diventata deserta. È forse anche per caso che io trovo oggi un certo numero di ascoltatori!

Ora si discute la vera Costituzione. Sinora, discorsi vani, anche di oratori facondi, che hanno detto tante cose, ma non hanno parlato della Costituzione. Costituzione è quell’insieme di disposizioni che regolano l’ordinamento dello Stato. Dell’ordinamento dello Stato non si è finora mai parlato; ora incominciamo a parlarne ed entriamo in un ordine di considerazioni e di studi che riguardano la vita del Paese.

Però la discussione incomincia tardi. Noi abbiamo davanti a noi brevissimo tempo, ed in questo brevissimo tempo dobbiamo fare troppe cose, che sono di gran lunga più complesse e difficili di quelle che abbiamo discusso finora.

Abbiamo davanti a noi la limitazione del tempo: noi dobbiamo aver finito il nostro lavoro per il 31 dicembre. Io sono stato il responsabile del suggerimento della data del 31 dicembre. Fra le proteste dell’onorevole Nenni e l’indignazione di alcuni che trovavano quasi sconveniente prorogare il termine che la legge non prevedeva e si scandalizzarono. Ma poi anche quelli che dicevano non volere ciò che io volevo, consentirono a piegarsi davanti alla necessità. Si era perduto troppo tempo e si doveva riparare al tempo perduto. Ma ora, non io e non forse altri, credo, oserà chiedere un’altra proroga. Noi dobbiamo, per il 31 dicembre, avere esaurito il nostro compito. Quindi, lavoro difficilissimo, perché adesso viene quella parte della nostra Costituzione che è soggetta ad una maggiore cura dei dettagli e che dovrebbe essere esaminata con ogni serietà. Finora abbiamo parlato di tante cose inutili: rinuncia alla guerra di conquista (quando siamo in difficoltà di difendere noi stessi), garantire ospitalità a tutti coloro che si trovano a disagio nei loro paesi! Abbiamo promesso al popolo italiano tante cose, troppe cose che non saremo in condizione di fare o di dare e tutto questo in articoli di Costituzione! Adesso non si può divagare né perdere tempo e si deve discutere seriamente e in dettaglio, senza nuove fantasie, gli articoli che riguardano la vita fondamentale del nostro Paese. Ora, dunque, occorre che non solo discutiamo con calma e serenamente, ma che discutiamo senza preconcetti, non in quanto non vi siano grandi affermazioni di principî da farsi. Dobbiamo fare brevemente, nel termine di tre mesi, disposizioni che richiedono attenta osservazione e cura di dettagli. Io voglio limitarmi a fare una serie di osservazioni e più che altro una serie di domande.

Io avvertii già nei due discorsi del 10 aprile e dell’8 maggio le difficoltà contro cui ci saremmo urtati nel fare la Costituzione nella parte essenziale. Quello che mi sorprende in questo Titolo della Costituzione è la sovrabbondanza e lo spirito di uniformità. Si è avuto cura di aumentare tutte le istituzioni fino all’iperbole. Bisognava ridurre il più possibile, si è aumentato il più possibile. Il legislatore (questa volta è difficile dirlo perché parecchi sono stati i legislatori; non si può parlare della mens legis, della mente del legislatore), i legislatori di diversa origine, animati da diverse passioni, hanno voluto mettere una parte di loro stessi, e tutto è finito spesso in un compromesso che toglie efficacia. Ora, due cose mi sorprendono come osservazione generale su questa parte: la prima è un eccesso di dilatazione, un desiderio di aumentare, e l’altra è l’uniformità. Tutto è stato soggetto, in questa Costituzione, alla dilatazione e alla uniformità. Ciò è caratteristica soltanto italiana, perché in nessun Paese esiste l’ipertrofia dei titoli e delle funzioni. Qui, se si dice: la Camera dei Deputati dura 5 anni, si deve ammettere che anche il Senato dura 5 anni. Non c’è nessuna ragione perché duri anch’esso 5 anni. Ma se non si accetta la stessa durata, pare che si offenda, come si dice, la democrazia. La democrazia è messa in tutte le cose, sopra tutto in quelle in cui non entra affatto. Troppa uniformità da un lato e dall’altra la sovrabbondanza di funzioni. Se mi permettete, siamo quasi nella situazione delicata in cui si trovano gli operai di molte fabbriche, in cui si trovano gli impiegati di molti uffici. Si sono ammessi come operai anche molti che non sono e di cui non è bisogno, non perché erano necessari, ma perché bisognava dare loro una occupazione. In alcune fabbriche, su tre operai solo due lavorano; in molti uffici su tre impiegati non so se due lavorano. Forse sì, forse no. Ma nessuno oserebbe mandarli via e nessuno osa, perché, per ragione di pace sociale si è creduto necessario metterli dentro. Ora qui si sono create e si creano molte diverse situazioni per cui bisogna aumentare in tutti i modi il numero dei legislatori.

Vi assicuro, e non dico queste parole a caso, che in nessun paese di Europa e in nessun grande paese di America, si è fatto tanto cattivo uso del numero per regolare la vita dello Stato, quanto se ne fa in Italia.

Se ora esaminiamo i Titoli che sono sottomessi alla nostra indagine, questo è il primo fatto che colpisce.

Cominciamo dalle Camere legislative. È venuta, prima di tutto, la grande disputa: una Camera o due Camere. Non so perché si diceva che le democrazie volevano una Camera, che molta parte della democrazia non ammetteva la seconda Camera. Io non conoscevo questa legge della democrazia, e non mi so spiegare perché l’invenzione delle due Camere non è stato un fatto di volontà conservatrice, è stato un fatto determinato da lunghe vicende della storia e voluta dalla democrazia. Una cosa però sappiamo ed è che i paesi che hanno avuto una sola Camera sono sempre precipitati nel caos o nelle tirannie. E questo è accaduto dovunque: non vi è nessun Paese che abbia potuto reggere al disastro di una sola Camera…

LUSSU. Roma per duemila anni.

NITTI. La ringrazio. Roma durò solo mille anni. La vera Roma fino all’ultimo degli imperatori aveva speciali ordinamenti, per cui i poteri del Senato e delle Magistrature si compensavano e si completavano. Roma aveva un ordinamento del tutto diverso. Il Senato aveva un grande potere, ma che era limitato dal potere delle alte Magistrature e dal potere dei tribuni della plebe. E il Senato era limitato nel suo funzionamento dalla stessa sua formazione. Il Senato era un’Assemblea conservatrice, che aveva un suo speciale ordinamento e che doveva assoggettarsi ad esso con rigida disciplina. Roma non è materia di confronto con nessuno dei paesi moderni. Aveva la provvida istituzione della dittatura. Vicino alle grandi Magistrature, quando le cose andavano male, era il Senato stesso che decideva di andar via e che conferiva tutti i poteri ad un dittatore, che, in generale, durava solo qualche settimana, al massimo eccezionalmente fino a sei mesi. La istituzione della dittatura dette buona prova, finché non venne un uomo senza scrupoli, che fu Mario (che non so perché le democrazie trattano con tanto rispetto) che deformò la dittatura. Prima di Mario nessuno aveva prorogato la dittatura oltre il breve termine di qualche mese. La dittatura era la grande istituzione democratica ed il grande correttivo degli errori dell’Assemblea parlamentare. Ma noi non conosciamo nessun paese moderno che abbia fatto la prova di un Governo che sia durato a lungo con una sola Camera, sopra tutto se si tratti di un paese latino, e non dico di razza latina, come si dice sempre a sproposito, perché non esistono razze latine, ma paesi di razze diverse e che sono di lingua e di civiltà latina, e però hanno una fusione in certe tendenze generali dello spirito.

Ora, Roma antica aveva per disposizione naturale del popolo attitudini politiche eccezionali. Non aveva la nostra impulsività e quando arrivava al correttivo o alla dittatura era perché le lotte, che il Senato non poteva eliminare, richiedevano eccezionale rimedio.

I Romani avevano il concetto e il sentimento dello Stato e della sua continuità: non facevano niente in maniera impulsiva. Davano gli onori del trionfo anche al generale vinto se credevano che egli avesse agito con coraggio e con competenza. Roma sapeva vincere e durare: nella guerra di Spagna durò 198 anni e non si stancò mai. La continuità era nel carattere del popolo: noi quando siamo andati in Libia, abbiamo preteso lo stesso anno di arrivare nell’interno; i romani per arrivare nell’interno hanno atteso oltre un secolo.

I Romani, come tutti i veri popoli conquistatori, avevano il senso della continuità. Ora, non si farà mai un paese ordinato con una unica Camera: si possono avere costituzionalmente le forme più diverse; ma mai si potrà stabilire che vi sia una Camera unica. Badate che la caduta recente della Repubblica di Spagna, cui è seguita la dittatura, è dipesa proprio dall’aver adottato una unica Camera.

Io ho molto conosciuto (veniva spesso da me a Parigi) il Presidente di quell’Assemblea, Santiago Alba. Veniva con lui qualche volta il capo dei conservatori Sanchez Guerra, uomo austero e nemico della dittatura. Ho scritto la prefazione al libro di Santiago Alba sulle dittature. Alba mi diceva: la Repubblica spagnuola era destinata a perire, perché aveva una sola Camera e non poteva avere ordine. E aveva una sola Camera perché i conservatori, volendo fare opposizione e ostruzionismo al movimento democratico, si allontanarono e non votarono quando si dovette decidere della seconda Camera.

Tutto andò male, e allora non fu possibile avere un’Assemblea seria, e sopra tutto moderata. Si ebbe un’Assemblea unica, che passò di errore in errore, dopo di che a causa o con il pretesto dell’assassinio di un deputato che non fu punito, vi fu una violenta reazione che fini nella dittatura militare.

Non bisogna considerare la seconda Camera come un ornamento costituzionale. La seconda Camera è una necessità. Nel progetto di Costituzione è ammessa. Abbiamo cominciato però con offenderla, perché nel nostro progetto che esaminiamo, il nostro Senato ha avuto un nome sconcio: è chiamato «Camera del Senato». E chi ha pensato a un simile orrore, non dirò errore? Ma come! «Senato» è un nome glorioso. In tutte le strade di Roma troviamo ancora scritto Senatus Populusque Romanus. Nell’America stessa la seconda Camera si chiama Senato; tutti i grandi popoli che hanno voluto costituire un’Assemblea hanno cercato di chiamarla Senato. Il più grande tragico, Shakespeare, ammiratore di Roma e incurante delle precisazioni della storia, attribuisce a tutti i grandi popoli, a cominciare da Atene, un Senato.

Perché poi questo errore? Forse perché qualcuno di quelli che hanno preparato il progetto di Costituzione ha letto che in Inghilterra c’è una Camera dei Comuni e una Camera di Lords. Ma lì è tutt’altra cosa! Quelle non sono due Assemblee create dal popolo: sono due Assemblee che vivono da tanti secoli, l’una in origine rappresentativa della nobiltà terriera e della ricchezza fondiaria, l’altra rappresentativa del commercio delle città e dei traffici. E l’una è sempre vissuta indipendente dall’altra; e ciascuna ha avuto una sua formazione storica e giuridica: spesso in lotta con il sovrano.

Con mia sorpresa, mi trovo di fronte a un fatto nuovo, a una proposta che mi ha vivamente sbalordito: noi abbiamo o siamo minacciati di avere un organismo senza storia e senza serietà che si chiama «Assemblea Nazionale». Non mi sarei aspettato mai una simile sorpresa. Che cosa è e che cosa può essere l’Assemblea nazionale? Nei tempi normali, noi chiamiamo «Assemblea nazionale» in Francia come in Italia la riunione per un sol giorno o per due quando le due Camere si riuniscono nella sala di una di esse per un argomento che richiede l’intervento di entrambe. In Italia si riunivano a Montecitorio perché l’Aula del Senato era troppo piccola.

Ma quando si riunivano? Si riunivano in Italia all’inizio della nuova legislatura, quando il sovrano, pronunziato il discorso della Corona, assisteva al giuramento dei deputati. Io stesso ho presieduto la prima riunione della XIX legislatura. Era cosa di un giorno, anzi di poche ore. Si riunivano senatori e deputati e poi non si riunivano più mai, se non per speciale evento come l’apertura di una nuova sessione. Chi avesse creduto cristallizzare la riunione, che doveva avere la durata di un giorno, in un’Assemblea permanente con funzioni proprie e sede propria sarebbe stato considerato pazzo.

Ora, e questo è sbalorditivo ed è unico al mondo, si vuol creare un’Assemblea Nazionale permanente, enorme e assurda, che non esiste in nessun paese del mondo, perché non ha ragione di esistere; perché, o sopprime una delle due Camere, o le sopprime tutte e due. Che cos’è quest’Assemblea Nazionale che, come dicevo, è unica ed è contemplata dagli articoli 60, 61, 74 e 75 del progetto di Costituzione e che, siccome non affrontano la questione, ma la presentano in tante forme, non dànno l’idea che si tratta di una nuova Camera, che è del tutto diversa, che ha funzioni diverse e che si sovrappone alle altre ed ha poteri permanenti.

Non è qui il caso di avere dubbiezza, perché l’onorevole Ruini stesso, il Relatore, ci toglie ogni dubbio. Egli non ha esitato a dirlo anche lealmente: si tratta di una nuova Camera che, naturalmente, dovrà avere i suoi uffici, la sua sede, i suoi mezzi di vita. Noi faremo una terza Camera, la quale sarà una riunione delle due Camere che esistono, ma non avrà un suo scopo e quindi è ridicolo che abbia la sua funzione. È vero che il disegno di legge le attribuisce funzioni ipotetiche. Sarà, si dice, come un Consiglio superiore della Nazione. E che cos’è questo Consiglio superiore? L’onorevole Ruini ha avuto forse qualche dubbiezza, e l’ha risoluta senza scrupolo. Questa Camera diventa, egli ha detto, in un certo senso: «un istituto nuovo che la nostra Carta introduce: l’Assemblea Nazionale, e Cioè il Parlamento che funziona a Camere riunite per atti di singolare importanza, come l’elezione del Presidente della Repubblica, l’espressione di fiducia e sfiducia al Governo, le deliberazioni della mobilitazione generale e dell’entrata in guerra – tutte cose che si fanno in un giorno – e così – fatto nuovo e strano – dell’amnistia e dell’indulto (la cui attribuzione al Parlamento costituisce, un novum della Costituzione), infine la designazione di chi deve far parte di organi rilevanti nell’ordinamento dello Stato, quali il Consiglio Superiore della Magistratura e la Corte costituzionale. Pur serbando la bicameralità, si pongono le basi di una trattazione unitaria dei problemi fondamentali».

Ma la trattazione unitaria si è sempre fatta: Montecitorio e Palazzo Madama, sede del Senato, sono a qualche centinaio di metri di distanza. Bastava un usciere per fare arrivare gli atti dall’una all’altra Camera, senza inutile solennità. Non vi è ragione, quindi, di fare nientemeno che un’Assemblea Nazionale! E poi, sul serio, vogliamo far discutere alla Assemblea Nazionale – la quale è più che una sola Camera: sono due Camere – provvedimenti come l’indulto e l’amnistia? È prudente, è saggio, è utile? E che cosa deve fare questa Assemblea? Se non ha lavoro, deve crearselo.

Potete ben immaginare quale numero di uffici, quale folla di funzionari! E questa cosiddetta Assemblea Nazionale, con la Camera e il Senato riuniti, sarebbe composta di circa mille persone. Dovendo avere sede propria, dovrebbe avere assai più di mille partecipanti. Nessun palazzo di Roma può contenere una così enorme accolta di legislatori in forma duplicata. Occorrerebbe, se l’Assemblea avesse carattere permanente e non finisse nel giorno stesso in cui è convocata, tutta una situazione nuova.

Questa Camera non ha scopo di esistere, non ha modo di esistere, non deve esistere! E la solennità sua stessa sarebbe inutile spesa in questo momento in cui tutte le spese devono essere ridotte. Sarebbe dissipazione enorme per la cosa più inutile.

Abbiamo noi veramente necessità di creare questa nuova Camera? E perché tanti legislatori e anche in funzione duplice?

Sapete ciò che sorprende quando si esaminano i nostri ordinamenti? Noi vogliamo avere più uomini che devono fare le leggi che non ne abbiano tutti gli altri paesi del mondo. Vogliamo, creando adesso una Camera enorme, un Senato enorme, riunirli e vogliamo fare dell’unione di tutte e due le Assemblee un’Assemblea enorme, un’Assemblea Superiore, che è senza precedenti in qualunque paese del mondo e che si presta solo al ridicolo.

Noi potevamo fare al più un deputato per ogni duecentomila abitanti, o se vi piace, almeno per ogni centocinquantamila. Noi vogliamo fare invece un deputato per ogni ottantamila abitanti. Vi pare che non sia un eccessivo numero?

Ora, se vi piace, vi leggerò quello che è negli altri paesi, anche nei più grandi di noi. Noi pretendiamo che, siccome vi è una numerosissima Camera dei deputati, dobbiamo fare un numerosissimo Senato o, come si dice per offesa Camera dei senatori. E allora siamo andati a dire che vi sono per ogni Regione (si calcola tutto; io non sono d’accordo, ma voi siete in questa via, che sulla base delle Regioni si debba fare tutto, e si è pure di accordo, nel seno di qualche partito di massa, che bisogna fare un Senato).

Quindi, si vogliono dare nientemeno che ad ogni Regione cinque senatori, numero fisso – e poi un senatore per ogni duecento mila abitanti.

Sapete l’America quanti senatori ha per ogni Stato? Due. E noi facciamo di queste acrobazie, e noi pretendiamo di fare delle Assemblee serie che si reggano su questa base! E accadrà dei legislatori come della nostra moneta, che più ne emettiamo e più diminuisce di valore; più aumenta il numero dei nostri legislatori e più essi diminuiranno di serietà e di prestigio!

Io vi do l’esempio del più grande paese del nostro tempo: gli Stati Uniti d’America. Gli americani si può amarli, si può non amarli, ma in materia politica ci presentano un fatto unico nel mondo moderno. Questi Stati Uniti, che si presentano veramente come un paese così potente, sono nella loro vita costituzionale di una continuità e di una stabilità impressionante! Dal 1787 essi sono sempre allo stesso posto. Hanno cambiato tutte le forme di vita, son passati dalla vita pastorale primitiva alla grande industria, da paese di ricchezza pastorale e agricola a paese di sconfinata ricchezza, ma hanno sempre la stessa legge costituzionale e la forza della Costituzione non è mai variata, e non è mai diminuito il suo prestigio.

L’Osservatore Romano (di cui sono lettore) non so perché ha ricordato spesso che nello spazio di 150 anni la Francia è il paese che ha mutato 13 Costituzioni: solo la Spagna può pretendere di averla superata.

Gli Stati Uniti dal 1787 non hanno mutato mai la Costituzione. La Costituzione americana, profondamente democratica, veramente democratica, che ha creato la rivoluzione francese; la stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 non è che la riproduzione integrale dello Statuto che fecero gli emigrati in America. Erano i perseguitati dalla tirannia della religione ufficiale che giungendo in America si fecero uno Statuto per regolare i loro rapporti sulla nuova terra e quello Statuto divenne la carta della democrazia moderna.

Ora, se non abbiamo un modello di Costituzione da imitare, guardiamo piuttosto agli Stati Uniti che ad altri paesi: naturalmente mutatis mutandis in ordine di grandezza e di tempo. Noi dobbiamo guardare verso l’ordinamento costituzionale che ha meglio resistito a tutte le bufere.

Quanti sono i legislatori degli Stati Uniti? Negli Stati Uniti vi sono 96 senatori. Siano grandi o piccoli Stati, devono avere tutti come plenipotenziari nello Stato centrale lo stesso numero di rappresentanti, due per ogni Stato, e nessuno ha mai preteso più di due rappresentanti.

E quale è il numero dei deputati? Noi pretendiamo che se il Senato duri cinque anni, la Camera deve durare cinque anni, e le due Camere devono essere regolate allo stesso modo, ciò che è non solo inutile ma anche dannoso. Democrazia non vuol dire uniformità.

Quindi, quale è l’ordinamento degli Stati Uniti? Gli Stati Uniti hanno una Camera dei Rappresentanti (noi diciamo Camera dei Deputati) che dura due anni perché è una Camera eletta direttamente dal popolo e si vuole dia la viva sensazione del paese. Quindi la Camera si rinnova ogni due anni. Si può sapere ciò che il paese pensa e desidera e saperlo a brevi intervalli.

E quanti sono i Senatori? Sono 96. I Deputati invece sono 435, cioè assai meno di noi, della nostra Costituente. Dunque noi abbiamo meno di un terzo degli abitanti degli Stati Uniti (e non vi faccio il paragone di potenza e di ricchezza) e siamo qui dentro molto più numerosi dei rappresentanti degli Stati Uniti che sono soltanto 435.

Quanto dura il Presidente della Repubblica? Dura quattro anni; quindi con la durata delle Assemblee nessuna uniformità. La democrazia non richiede uniformità; spesso anche l’esclude.

Negli Stati Uniti dunque la Camera dei Rappresentanti è rinnovata ogni due anni, il Presidente della Repubblica dura quattro anni ed i Senatori durano sei anni e si rinnovano ogni due anni di un terzo. Il Senato dunque non si scioglie. Questo è altro errore in questo progetto di Costituzione che ci presentate. Si può sciogliere la Camera e nello stesso modo il Senato? No, il Senato in America non si scioglie mai. Anche in Francia non si scioglieva il Senato. Quale era in Francia la situazione? La Francia aveva una Camera che durava quattro anni, aveva un Presidente della Repubblica che durava sette anni (periodo per me troppo lungo) e aveva poi un Senato che durava nove anni e si rinnovava di un terzo ogni tre anni. Voi dire che per avere la democrazia bisogna avere le stesse leggi. No, le stesse leggi si può averle nel loro contenuto politico essenziale, non già nella loro forma e nel loro funzionamento.

Ora, dunque, noi ci troviamo di fronte alla grande potenza americana che ha 531 deputati e senatori: meno di quanti noi siamo qui in questa sala della Costituente. Non credo che questo esempio sia privo d’importanza. Si tratta del Paese che ha creato la democrazia. La democrazia è una creazione americana, e l’America è stata la prima Repubblica del mondo veramente democratica.

Il Senato deve essere la seconda Camera, e va concepito quale è nella sua reale funzione. Ora, nel Progetto, mi trovo di fronte a una serie di questioni di cui non trovo la spiegazione. Come deve essere eletto da noi il Senato? Qui vi è una cosa che m’imbarazza: non vi sono solo disposizioni riguardanti l’elettorato del Senato, vi sono anche le disposizioni per le categorie degli eleggibili. Chi sono gli eleggibili? È una novità piuttosto spiacevole. Con che diritto fissiamo quelli che devono essere gli eleggibili? Perché fissiamo addirittura le liste degli eleggibili? L’età: 35 anni. Bisognerebbe arrivare per lo meno a 40. La stessa parola «Senato» (i patres) dice che non erano dei giovani senatori. Ma vi è la categoria degli eleggibili che mi imbarazza e per cui trovo la cosa anche più strana. Noi non abbiamo il diritto di fissare queste categorie. Noi non facciamo un Senato economico e professionale; allora si spiegherebbero le categorie. Ma volendo lasciare al Senato il carattere di Assemblea politica non si spiega perché dovremmo indicare chi è eleggibile. Se noi volessimo entrare nell’idea di Senato e di Camera a fondo sindacale o corporativo od a fondo censitario, me lo spiegherei. Ma ora, con che diritto facciamo categorie chiuse?

Qualche volta si cade anche nell’irragionevole.

Trovo, per esempio, che, anche prima di fissare le categorie degli eleggibili, la prima eleggibile, vi è una disposizione che mi sbalordisce e deve essere un errore: è quella secondo cui agli elettori si impone di essere nati o domiciliati nella regione. Nessuno di noi può essere eletto senatore se non è nato o domiciliato nella Regione. Cosa grave, perché è una limitazione assurda e inspiegabile. Se non si è nati bisogna andarsi a domiciliare. Ma chi, in un Paese libero, concede queste limitazioni territoriali? Si può concepire maggiore stravaganza? Si può arrivare, come in America, perfino a togliere il diritto di voto ai cittadini della Capitale. La Capitale deve essere fuori contestazione; non vi devono essere vere lotte politiche. La Capitale deve rappresentare il luogo dove tutti si possono incontrare serenamente al di fuori dei partiti. Non conosco le ultime disposizioni al riguardo. I cittadini di Washington non erano né elettori né eleggibili. Questa idea è entrata anche nei singoli Stati. Lo Stato di New York non ha per capitale New York, ma Albany, che in paragone è una piccola città. E così sull’Oceano Pacifico vi è la grandissima città di San Francisco; ebbene, la capitale dello Stato della California è Sacramento.

Dunque, si possono imporre limitazioni, se vi sono ragioni di diritto e scopo di utilità pubblica. Ma perché i candidati devono essere nati o domiciliati nella Regione dove vogliono essere eletti? Non lo trovo né logico né conveniente.

Poi vi sono le categorie di eleggibili. Non vi devo negare la mia sorpresa. Con tutto il rispetto che ho per i partigiani e per i combattenti contro il Fascismo, trovo però molto strano che la prima categoria degli eleggibili è rappresentata dai decorati al valore della guerra di liberazione 1943-45. Ora, a queste categorie di persone si possono rendere tutti gli onori, ma come si può creare questa categoria a parte? Come si può ammettere una misura di questo genere, che non sia estesa a tutti i decorati di guerra, i quali hanno tanto sacrificio sostenuto? Come si può rinchiudersi nel breve periodo 1943-45, quale che sia lo scopo e la dignità? Ammesso che si voglia tenere conto dell’elemento del valore in qualche categoria, non possiamo considerare soltanto il valore militare, ma anche il valore civile. Se vogliamo costituire una categoria di privilegiati, quella dei decorati al valore, possiamo dire che tutti i decorati al valore civile e militare sono eleggibili. Perciò, senza mancare affatto di riguardo verso i partigiani, mi pare che si faccia atto di giustizia e di dignità nel considerare tutti coloro, che hanno dato il loro sangue e messo la loro vita a servizio della Patria.

Bisogna poi cominciare col rivedere il nome di Camera dei senatori e trovare il mezzo di distinzione.

Dobbiamo dare alla Camera e al Senato gli stessi diritti; ogni limitazione dell’uno o dell’altro è ingiusta. Nello stesso Statuto albertino le leggi di carattere finanziario devono essere sottoposte prima alla Camera dei deputati, come Camera eletta a suffragio più largo. Non possiamo negare lo stesso diritto al Senato. In che stabilire la differenza?

Prima di tutto nell’elettorato. Io credo, non vi scandalizzate, che ciò che vogliamo fare in materia di Regioni non durerà. Voi siete tutti in gran parte per le Regioni; non lo sarete a lungo di fronte ai risultati della forma attuale di suffragio e di elezione. Io credo invece che bisogna ritornare, mediante un processo di revisione, alla realtà, cioè a un sistema più logico. Non so se la proporzionale, di cui è mia la colpa originaria, abbia dato buona prova. Devo riconoscere che sono stato io che ho messo il primo nome alla legge della proporzionale. Non prevedevo le esagerazioni e le deformazioni che sono sopravvenute. Le conseguenze sono estese a tutte le amministrazioni che non funzionano più, perché con la proporzionale non hanno modo di ordinarsi e di formare gruppi omogeni che abbiano maggioranza. Tutto ciò non ha nulla a che fare con la democrazia, che può esistere con qualunque forma elettorale e non è legata all’una o all’altra.

Mi chiedo se non sia il caso di procedere ad una revisione di questa materia, e ciò voglio sottoporre al parere e alla decisione dei miei amici democratici cristiani, «le quadrate legioni», come direbbe Mussolini (Si ride), che impongono il rispetto, a parte tutte le altre considerazioni, per il numero e, quando riesce loro, per la disciplina. Ora, le quadrate legioni considerino se proprio conviene loro di spingere a tutti i costi la proporzionale o non volere piuttosto che almeno una Camera sia eletta col collegio uninominale. Noi potremmo ottenere, poiché il collegio uninominale si presta meglio alla scelta dei candidati, che esso renderebbe ancora dei servigi. Noi ci ostiniamo: tante cose, che crediamo durevoli, non lo sono: noi siamo in continua mutazione. (Interruzione dell’onorevole Piccioni). Anche le nostre Assemblee sono un po’ come le sabbie mobili del deserto. Non sappiamo più quelli che sono i partiti, che si uniscono e si disuniscono, annunziando nuove formazioni e nuove eliminazioni (Interruzione dell’onorevole Piccioni): ed allora ci dobbiamo preparare a molte mutazioni. Basta osservare le cose da vicino.

Ed ora vengo ad un piccolo argomento. Noi abbiamo visto che con il nostro progetto di Costituzione vi sarà, oltre alle due Camere legislative, quella Assemblea – che spero non vi sarà perché non ha ragion d’essere – che riunisce il tutto, ed è cioè molto vicino al nulla.

Una voce al centro. Non c’è nemmeno il locale!

NITTI. Sì, non c’è nemmeno il locale! Accanto a queste grandi formazioni ve ne è qualcuna piccolina, perché infatti accanto a queste due Camere, a una nuova grandissima Camera si forma un camerino (Si ride), di cui ho trovato notizia piuttosto reticente e riservata anche nelle parole del Relatore.

In alcuni paesi si è fatta un’agitazione per avere camere professionali o di carattere economico, e si voleva in alcuni che la seconda Camera avesse carattere sindacale ed economico. Vi erano i conservatori che la volevano in un senso, mentre i rivoluzionari aspiravano a qualcosa di sindacale che preludesse a formazioni sindacaliste. Poiché in Italia non si nega nulla a nessuno (si vuole un posto in Parlamento e lo si dà, si vuole una mutazione, la si dà), c’è insomma molta condiscendenza, si è detto: perché non diamo posto anche a questa Camera? Ed allora hanno osato proporre un camerino specifico in cui questa novissima Camera è ospitata provvisoriamente, ma si dice (e lo dice anche il Relatore) che questa Camera può rendere ancora qualche servizio (quale?) ma che poi si dovrà vedere come darle un assetto, con un’apposita legge. Rimandiamo tutto a leggi future, cercando ipotecare il futuro.

Anche qui vi sono le Regioni che comandano. In fondo, si vuole che il Senato sia formato dalle Regioni. Ma poi vi è una certa incertezza nel determinare queste cose. Molti rimangono nell’indeterminato proprio quando bisogna invece avere soprattutto la precisione.

Ora, viene l’ultima parte dell’argomento che noi dobbiamo trattare e che riguarda il Capo dello Stato. Noi ci siamo tanto preoccupati del Capo dello Stato, ma soltanto per perdere tempo alcuni giorni, per stabilire quale forma di giuramento dovevamo stabilire per il Capo dello Stato. In verità, io trovavo quella discussione piuttosto inutile, perché il Capo provvisorio dello Stato non poteva prestare giuramento ad una Costituzione che non esiste, e noi prestando giuramento a lui, avremmo prestato giuramento alla Costituzione che non avevamo fatto. Quindi, la questione si è spenta perché non aveva importanza.

Capo dello Stato. Come nominarlo? Anche adesso che si parla del Capo dello Stato si sente parlare anche di Regioni, quelle regioni che non abbiamo fatto, che non so se faremo e so ancor meno se potranno vivere. Scusate la sincerità, e non vi offendete: siete veramente sicuri? Io non lo sono. Quanto tempo occorrerebbe se non avessimo i prefetti di quelle provincie che volevate abolire, e che non avete abolito. Abbiamo conservato l’equivoco della Regione e mantenuto la Provincia, il Comune, e si è pensato anche all’idea di restaurare i circondari; così noi distruggevamo da una parte ciò che volevamo far sorgere dall’altra.

Riportiamoci alla Sicilia: siete ben sicuri che la prova delle Regioni sia riuscita? (Interruzione dell’onorevole Piccioni). Siete ben sicuri che non avrete urti che possano essere fatali non soltanto all’unità, ma alla solidità dello Stato? Io non ho prevenzioni. La prima volta che quasi ragazzo fui eletto deputato, fui eletto anche in Sicilia. Mi è rimasto sempre impresso il grande sentimento di cordialità per quel paese che non mi conosceva e che mi eleggeva, e pensate se non ne parli con rispetto. Siete sicuri che con la Sicilia ci intenderemo presto? Siete sicuri che noi potremo dare alla Sicilia ciò che essa vuole? Siete voi sicuri che queste Regioni che noi creiamo al confine d’Italia, dove vi sono popolazioni incerte e che non lavorano in favore dell’Italia, siete sicuri che resteremo uniti con la stessa unità di sentimento, con la stessa fede patriottica? Io non so. Molte cose dovremo modificare e molte mutare.

E veniamo all’argomento del Capo dello Stato. Il Presidente della Repubblica è un personaggio che ha grande importanza, perché egli viene a rappresentare, in questo divagare di passioni e torbido periodo che viene, e non potremo evitare, la persona che deve significare lo spirito di unione e di solidarietà nazionale.

Noi dobbiamo desiderare che il Presidente della Repubblica abbia il necessario prestigio. Signori, io non credo che la Repubblica corra pericolo se noi siamo uomini prudenti, savi e non esageriamo. Le monarchie in Europa non sono morte ora, sono morte il 1919. La guerra solo crea le rivoluzioni. Non vi sono state nei tempi nostri rivoluzioni senza guerre, né guerre senza rivoluzioni. Il vecchio Eraclito diceva profonda verità quando affermava che la guerra è la sola cosa che crea e distrugge. Noi saremmo ancora con l’impero d’Austria, con l’impero germanico, con gli czar se non ci fosse stata la guerra del 1914!

Scusate voi socialisti che io dica tutto il mio pensiero. Voi siete qui a causa della guerra; i socialisti germanici, cioè i veri marxisti cantavano inni al tempo di Guglielmo per cui bisognava opporsi alla guerra e piuttosto fare la rivoluzione che la guerra. Poi non la fecero mai la rivoluzione. La rivoluzione è venuta dalla guerra. L’Europa prima della guerra era sotto il dominio di quattro grandi imperi che disponevano dei quattro quinti dell’Europa del continente: la Russia, l’Austria Ungheria, la Germania e la Turchia. Tutti i quattro grandi imperi si sono sfasciati per effetto della guerra.

Non esiste ora un solo Stato monarchico sul loro territorio.

L’Inghilterra stessa fuori del continente può oramai considerarsi come una immensa unione di repubbliche presiedute da un re.

Dovunque sono soltanto repubbliche. La guerra ha tutto sovvertito. Credete che le monarchie, che le grandi monarchie che sono cadute ritornino? Credete che ciò possa avvenire in tempo prossimo e senza rivolgimenti? Nessuno sa. Ma non osservate che in Europa, dopo di allora, quando erano cadute le grandi monarchie continentali, erano rimaste solo due monarchie di secondo ordine: non la potenza dei quattro grandi imperi scomparsi. Erano rimaste l’Italia e la Spagna. Ora le monarchie sono cadute anche in Italia e in Spagna. E se è caduta in Spagna, nello Stato più clericale di Europa che esiste, dove c’è un dittatore che sarebbe anche lieto di ristabilire la monarchia per uscire senza violenza dalle sue difficoltà, vuol dire che la restaurazione delle monarchie è veramente difficile. (Approvazioni).

BENEDETTINI. Non credo. (Commenti).

NITTI. Io non credo in Italia al pericolo delle monarchie, a meno che non si facciano tali serie di errori, di assurdità, di persecuzioni o di violenze da creare un movimento monarchico irresistibile che ora non esiste.

BENEDETTINI. Esiste. (Si ride – Commenti).

FUSCHINI. Non è un pericolo, è una cosa allegra. (Commenti).

NITTI. Noi abbiamo la Repubblica e naturalmente dobbiamo avere un Presidente della Repubblica. Vedo anche dalle discussioni che si sono fatte a proposito della elezione del mio antico amico De Nicola che con l’idea di repubblica si unisce senza volere il costume monarchico. Si discuteva quale palazzo si dovesse assegnare al Presidente della Repubblica italiana come residenza, il Palazzo del Quirinale o qualche cosa di simile; quali assegni speciali dovesse avere. Per farne che cosa? Egli si è regolato assai bene rinunciando.

Io ora vi prego di considerare che nel mondo di antiche repubbliche non esistono veramente che gli Stati Uniti d’America e la Svizzera, che non hanno mai avuto da lungo tempo crisi di libertà. Prima della guerra del 1919 in Europa non esistevano che due repubbliche, la Francia e la Svizzera, non ne esistevano altre. Rimangono però rispettabili monarchie oltre che in Inghilterra, in Olanda, in Belgio e sopra tutto nei Paesi Scandinavi. Io le ho visitate. I sovrani scandinavi sono uomini seri, e ho avuto con loro rapporti cordiali e dignitosi. Queste monarchie sono così serie che non hanno avversari. Il Re Cristiano di Danimarca mi parlava ancora con tono socialista e con le tendenze di un convinto, tanto che gli feci alcune modeste osservazioni e gli dissi che tale linguaggio non mi pareva reale, ma piuttosto avveniristico.

Ora credete che questo cammino della vita e della storia possano cambiare? Per noi la questione nel momento attuale non è monarchia o repubblica, ma è di fare una solida e onesta repubblica, perché se ci discreditiamo noi stessi, facciamo male alla causa nella quale diciamo di credere. Quindi, niente diffidenze, ma cuore saldo e volontà ferrea, per difendere le istituzioni che abbiamo creato, senza inventare pericoli immaginari e tremare a ogni stormire di fronda. Le cose morte non risorgono! (Applausi). Nessuno minaccia la repubblica seriamente: se vi sono minacce vengono dagli stessi repubblicani, per spirito di diffidenza, per rinnovato desiderio di persecuzioni e non spento desiderio di lotte civili.

Quali sono i tipi di repubblica? Non abbiamo noi nel mondo, ormai, che la grande repubblica americana, con tutti gli errori, le corruzioni, il dinamismo popolare, con le sue intemperanze, i suoi eccessi di vitalità, che ha superato tutte le ore più difficili ed è uscita più potente nella sua struttura.

Ora, quale è la Costituzione della repubblica americana? La repubblica americana elegge il suo presidente, il quale è capo dell’esecutivo. Non vi sono ministri, ma segretari del presidente; e quindi il presidente rappresenta tutto lo Stato ed è, in generale, dotato del più grande ascendente. Nessuna fastosità. Noi, quando parliamo del Presidente della Repubblica, pensiamo subito alla dignità della presidenza o agli assegni quasi reali da attribuirgli.

Fatevi dire le indennità degli altri Presidenti.

Il Presidente della Repubblica degli Stati Uniti, che è a capo del paese più ricco, quanto ha avuto e quanto ha di assegno? Aveva prima della guerra del 1914 appena 50.000 dollari l’anno, aumentati durante la guerra a 75.000. Ora non so di quanto sia stato aumentato l’assegno e se sia aumentato; ma comunque la sua misura è molto inferiore a quella che ciascuno può pensare in Europa.

Gli stessi re del passato prossimo nei paesi nordici non avevano quel grande appannaggio che molti di voi credono…

CONTI. Soltanto il nostro si trattava bene…

NITTI. Parlando del nostro, l’assegno della Corona in Italia, la dotazione detta «lista civile» secondo lo Statuto albertino è fissata all’avvento al trono di ogni nuovo sovrano e per la durata di tutta la vita del sovrano stesso. Ora io che ho natura di ricercatore, andavo a sfogliare tutti i documenti che nella discussione parlamentare potessero illuminarmi. Trovai che nell’ordinamento inglese il re d’Inghilterra non può disporre dei fondi che la «lista civile» gli accorda se non nella misura consentita dai differenti capitoli del bilancio della lista stessa.

Quindi la lista civile inglese ha capitoli differenti: il Parlamento dà i fondi che sono distribuiti secondo stabilisce il Parlamento: tanto per la rappresentanza, tanto per la vita interna della Corte, tanto per beneficenza, ecc.

Quando andai alla Camera dei deputati feci questa proposta: ero molto giovane e credevo ancora che gli argomenti svolti fossero sempre efficienti. Non voglio, dissi, che sia diminuita la lista civile del sovrano ma desidero soltanto che, come in Inghilterra, la nostra lista civile sia divisa in capitoli e che la spesa sia regolata conseguentemente. Ma la mia proposta sembrò stravagante ai conservatori, sembrò quasi che io parlassi come un rivoluzionario. E allora io non fui eletto a fare parte della Commissione; fu eletto il mio concittadino onorevole Torraca, che era un conservatore vecchio tipo e desiderava, se possibile, aumentare la lista civile senza nulla discutere.

Ma ora, ora dunque in America e tanto più nella disordinata Europa, non vi sono grandi assegni ai Capi di Stato e tanto meno in paesi repubblicani.

E la Svizzera? La Svizzera in questo momento sembra il paese più ricco, o almeno quello che ha con la Svezia la migliore situazione monetaria d’Europa. Ebbene, sapete voi chi è anzitutto oggi il Presidente della Repubblica in Isvizzera? La Svizzera ha un ordinamento speciale, per cui sette individui votati dell’Assemblea Nazionale prendono il potere e diventano Ministri. Uno dei sette è a turno Presidente della Repubblica e vi è un vicepresidente che gli succede nell’anno seguente. Il Presidente della Repubblica è quindi un personaggio modesto, il quale aveva – non so se in questi ultimi tempi in tale assegno vi sia stata modificazione – appena duemila franchi oltre il modesto stipendio di Ministro.

Una voce a sinistra. Ora ne ha cinquemila.

NITTI. Bene, ora ne ha cinquemila: troverete ad ogni modo che è una cifra veramente modesta. Quando il Presidente della Repubblica Svizzera ha necessità di spese eccezionali è il Consiglio nazionale che ne decide sempre nei limiti di grande modestia.

In Francia bisogna sempre ricordare che la Costituzione del 1875 fu scritta da monarchici e che la forma repubblicana fu decisa quasi per caso, da un solo voto di un deputato ignoto. Ma anche in Francia il Presidente non ha più un assegno molto elevato.

La Francia era incerta. La maggioranza era monarchica. Fu repubblica dopo il 1870 quando la grande maggioranza voleva la monarchia. Ma i monarchici erano divisi fra legittimisti (conte di Chambord) e organisti, e i bonapartisti non erano concordi.

Sarebbe prevalsa la monarchia legittimista se non vi fosse stata la ostinazione del conte di Chambord, che la bandiera dovesse essere non più il tricolore, ma la bandiera con i gigli, cosa che offese tutti i patrioti e gli uomini che venivano dalla rivoluzione.

In quasi tutti i paesi repubblicani la difficoltà è di trovare presidenti che abbiano qualità superiori. La mediocrità è spesso conseguenza della democrazia, che vive di gelosie e diffida degli uomini superiori.

Dopo Thiers in Francia venne MacMahon, generale ben lontano dalla grandezza, e dopo di lui Grévy, avvocato modesto che fu eletto per la seconda volta e dovette poi dimettersi per lo scandalo di suo genero Wilson che vendeva le decorazioni della Legion d’Onore.

Le tre grandi personalità della Repubblica francese: Gambetta, vero creatore della Repubblica, Ferry, creatore dell’impero, e Clemenceau che ebbe il maggior merito della vittoria del 1918, non furono mai eletti, e a Clemenceau fu preferito Deschanel!

Anche negli Stati Uniti non sarà sempre facile, perché bisogna sfuggire alla tentazione di sfoggiare tutto ciò che rappresenta la vanità della forma esteriore monarchica e non far cadere la scelta su uomini troppo mediocri.

In Italia non vi è solo il pericolo di uomini che si credono adatti a tutte le cose e sono pronti a sacrificarsi per servire lo Stato in posizioni molto onorevoli, ma vi sono sempre partiti disposti a elevare i loro uomini più insignificanti ai posti più elevati.

Perché il Presidente possa essere veramente devoto alla Costituzione e ne sia il vigile custode, bisogna prima di tutto che noi gli diamo tale Costituzione saggia e moderata e realistica che egli possa difenderla sinceramente.

Finora abbiamo lavorato troppo male in questo senso. La Costituzione che prepariamo non è l’ideale. Gran parte cadrà. Ma la parte che ora noi elaboriamo, e che è la sola essenziale, siamo ancora in tempo di fare in modo conveniente, se vi toglieremo tante vane e inutili cose che si pretendono possano esservi introdotte.

Riusciremo? Dopo avere perduto tanto tempo senza lavorare seriamente, nel breve spazio di tempo che ci rimane riusciremo se agiremo con oculata prudenza e con saggezza.

Non ci sono consentiti troppi nuovi errori dopo tanti che se ne sono fatti.

Con il 31 dicembre il nostro mandato, anche dopo le proroghe, sarà finito.

Sono stato io che mi sono assunto la responsabilità della proroga al 31 dicembre e che ne ho per la prima volta parlato e sostenni l’assurdità di proroghe troppo brevi. Speravo in un lavoro efficiente e forse devo constatare che la proroga era necessaria, ma noi non abbiamo fatto cose troppo efficaci, pur tenendo troppe sedute.

Ma ora niente più proroghe.

Esaurito bene o male e certo più male che bene il nostro mandato, dobbiamo ora lasciare posto ai nostri successori, che certo rivedranno ciò che noi abbiamo fatto. Come ho ripetuto più volte è impossibile che la Costituzione da noi preparata non sia completamente riveduta.

Quando potranno essere fatte le nuove elezioni? In aprile o più probabilmente in giugno.

Credo che voi non ignoriate i risultati dei lavori fatti al Ministero dell’interno. Si crede che anche l’Assemblea esaurendo i suoi lavori a fine dicembre, le elezioni non si potranno fare che in giugno.

Il terribile equivoco delle Regioni sarà al massimo del disordine. Vi saranno veramente le Regioni in efficienza e avranno modo di funzionare? In realtà solo attraverso le prefetture e i prefetti la macchina dello Stato potrà ancora funzionare.

E vi sono problemi ancora più gravi e urgenti.

Lo Stato è lungamente vissuto sulla unione di partiti al Governo. Ora un solo partito ne è la base destando le inevitabili gelosie degli altri e contrasti profondi. Il Governo dispone incontrastato di tutta la finanza, cioè di tutte le risorse della nazione, essendo parte grandissima del reddito nazionale assorbita dallo Stato.

Come regolare la situazione entro il 31 dicembre e come fare le elezioni, in un periodo di grandi difficoltà e di inevitabili conflitti?

Non sappiamo con quale animo e vorrei dire con quale fiducia il pubblico potrà andare alle elezioni.

Credete che sia anche utile consultarlo con referendum e sapere ciò che pensa della Costituzione che abbiamo preparato?

In Francia ciò si è fatto. Forse in Francia il popolo ha più lunga tradizione di libertà e maggiore sensibilità politica.

Si potrà o si dovrà fare il referendum in Italia?

FUSCHINI. Era prestabilito che si facesse il referendum.

NITTI. Io credo che il referendum si dovrebbe fare e che vi sono anche impegni per farlo. Ma è inutile agitare proposte senza prevederne il risultato. So che alcuni partiti sono, se anche non lo manifestano, favorevoli, altri contrari. Potremo noi escluderlo decisamente senza avere alcuna dubbiezza? Vorrei sapere soprattutto fin da ora che cosa pensano i democristiani e che cosa pensano comunisti e socialisti, perché di questi due grossi movimenti sarà la responsabilità. Fare le proposte di referendum senza che vi sia l’adesione degli uni e degli altri, o almeno degli uni, dei più numerosi, mi pare un salto nel buio. Ad ogni modo è bene che su questa materia tutti si pronuncino lealmente e coraggiosamente. Troppe cose io ancora dovrei dire e mi riserbo in parte dire sugli articoli.

Io non ho voluto farvi un discorso politico, come vedete; io ho voluto esprimervi delle dubbiezze. Vi prego di riflettere su alcune cose che vi ho dette. Considerate che io sono al di fuori e al disopra di ogni vanità; che non ho aspirazioni, che non ho alcuna passione di parte, ma solo la fede in una unione nazionale per la difesa contro le minacce che pesano sul nostro Paese.

L’Italia non ha mai da secoli attraversato ore di così grande pericolo, né mai è stata minacciata nella sua stessa esistenza come ora.

Occorre una comune volontà di salvezza. Altra volta ho detto che l’Italia è una fortezza assediata. O tutti cadiamo o tutti ci salviamo: io spero che tutti ci salveremo. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Sforza. Ne ha facoltà.

SFORZA. Onorevoli colleghi, sarò brevissimo, non solo per la tarda ora, ma perché stimo – a meno che non si abbiano argomenti profondissimi da svolgere – che noi dobbiamo provare il nostro desiderio di finire presto facendo discorsi della maggiore possibile brevità.

Se non ho chiesto di parlare che all’ultimo momento è perché ho sperato fino all’ultimo che qualcheduno di noi sottoponesse all’Assemblea il problema di cui ora vi intratterrò. Se non sbaglio, esso non è stato toccato finora dai colleghi. Dico se non sbaglio, perché, mentre è di moda dire tanto male dell’Assemblea Costituente, io confesso che, quando ho il tempo di leggere i resoconti sommari, sono sovente ammirato dell’acutezza e della profondità di vedute che dall’una parte e dall’altra della Camera si esprimono. Ma la mia vita è così dura e sono così pieno di occupazioni che non sono sicuro di aver letto tutti quanti i resoconti sommari. Credo quindi dover mio attirare l’attenzione dell’Assemblea su un punto che mi sta a cuore, pur conscio come sono che, non essendo io né un tecnico della scienza politica né un professore famoso, tutto quello che potrò dire non sarà che il risultato della mia lunga se pur modesta esperienza personale dei fatti e delle loro cause.

A me sembra che è vano parlare di Camera alta o di monocameralismo, di Assemblea suprema o no, di poteri più o meno diretti del Presidente della Repubblica; quando noi facciamo una Costituzione, cerchiamo di fare quanto è possibile, quanto è in nostro potere, ma ben sappiamo che l’avvenire del nostro Paese non dipende dalla perfezione degli articoli che compileremo, ma dipende dagli uomini. E noi purtroppo ci vediamo in questa situazione, che in Italia diminuiscono gli uomini di alto valore politico e morale; così del resto accadde anche dopo l’altra guerra; chi di voi si trovò in quest’Aula nel 1919-20 come me, avrebbe voluto vedere fra noi dieci o venti amici intimi di cui conoscevamo il valore; ohimè, eran sepolti sul Carso, e noi pagammo con una carenza di uomini anche la scarsa difesa che facemmo all’attacco fascista.

Quindi è inutile perseguire la creazione la più cristallina e la più scientifica degli articoli della Costituzione se noi non cerchiamo anche di creare pel pochissimo che possiamo le vie psicologiche, umane, morali, che creino un personale politico il quale, sia con una Costituzione mediocre sia con una Costituzione perfetta, faccia il suo dovere verso l’Italia, verso la Repubblica italiana, verso l’Europa.

Si è parlato qui di varie Costituzioni. Io voglio confessarvi la mia ignoranza: non ho mai letto la Costituzione di Weimar, ma tutti gli statisti e costituzionalisti con cui parlai nel triste periodo dal 1920 al 1930, tutti mi hanno detto che era la meraviglia delle meraviglie. Bastò che un maresciallo traditore fosse Presidente della Repubblica, bastò che un pagliaccio epilettico terrorizzasse questo Presidente della Repubblica, perché la più bella delle Costituzioni cadesse come una pera marcia. Quindi dobbiamo fare gli uomini che abbiano il sentimento del dovere verso la patria everso la democrazia.

Io credo che posso in brevissimi momenti indicarvi uno dei casi che mi è venuto in risalto leggendo il progetto. All’art. 56, sesto capoverso, vedo che «possono essere nominati membri del senato, i magistrati e i funzionari dello Stato e di altre pubbliche amministrazioni di grado non inferiore, ecc., ecc.». È su questo punto che io voglio attirare la attenzione dell’Assemblea, aggiungendo che il pericolo che vedo pel Senato lo vedrei egualmente per la Camera. E perché?

Ve lo dirò rapidamente; e poi avrò assolto il mio compito e la mia coscienza sarà tranquilla.

Eccovi la prova della vanità relativa di tanti discorsi sulle Costituzioni; uno dei problemi massimi della nostra vita politica è fissato in un articolo non scritto: la costituzione dei grandi partiti di massa. Che sia un bene, che sia un male; che il bene sia maggiore del male, che il male sia maggiore del bene, questo non ci riguarda.

Ora noi siamo nel periodo dei partiti di massa anche se, grazie a Dio, esistono altresì alcuni partiti, come quello dalle cui file vi parlo, partiti che hanno una fiamma viva individualistica e feconda che sarà a volte preziosa nelle lotte fra i grandi giganti.

Questo noi dobbiamo tenere presente per il bene dei partiti di massa, per il bene della Repubblica italiana e per il bene della nostra vita morale: che più forti sono i partiti di massa, più influenti sono i partiti di massa e più indipendente, più sacrosantamente indipendente, più impervia ad ogni pressione e corruzione deve essere l’amministrazione pubblica: altrimenti si scenderà rapidamente al livello dei più bassi e corrotti paesi del mondo.

Badate, sia ben chiaro che dicendo questo non son mosso dalla menoma avversione verso i partiti di massa: constato che sono un fatto di storia naturale, constato che per lungo tempo esisteranno, constato (non c’è l’amico Porzio ed allora oserò dirlo), pensando alla prolungata se pur rara corruzione di certi «galantuomini» del Sud…

MAZZA. Noi potremmo pensare a quelli del Nord.

SFORZA. …che i partiti di massa possono portare le discussioni a un livello di concetti morali invece che d’interessi materiali. Pensando che i partiti di massa possono fare questa cosa meravigliosa, ricostituire, rinsaldare al massimo l’unità nazionale, anche morale, dalle Alpi alla Sicilia, sono convinto che i partiti di massa potranno nel complesso fare più bene che male alla cosa pubblica, ma ad una condizione: che non diventino a turno, secondo che il fato delle elezioni darà loro il potere, i proprietari discrezionali dell’amministrazione pubblica. E quando io vedo che si propone dalla Costituzione attuale (trovandoci noi in un lungo e, spero, felicemente lungo periodo di partiti di massa) la elezione di numerosi funzionari – senza neppure la fissazione di un numerus clausus – mi domando: com’è che non si vede il pericolo di tutto ciò? È vero che circa il personale della nostra burocrazia, con cui da mesi e mesi sono in contatto, sia con quella del mio Ministero sia di altri, io posso ben testimoniare, checché si sia detto e malgrado le corruzioni del fascismo e della guerra, che essa continua, nei suoi alti gradi e anche nei gradi minori, ad essere veramente uno degli elementi più rispettabili della nostra vita pubblica.

Ma come osar di offrir loro una troppo grossa tentazione? Per un impiegato, per un professore di università, anche prima del fascismo, entrare nel Senato era come entrare nell’empireo prima della morte, era una gioia suprema. Ma allora non c’erano partiti di massa; come i nostri funzionari potrebbero oggi essere eletti se non dopo essere stati accettati nella lista di un grande partito di massa al quale essi dovranno aver prima dato prove indubbie di devozione, forse di cieca obbedienza?

Pensate soprattutto alla formazione dei funzionari in Italia. Il funzionario è per buona parte figlio di funzionario, non ha, come noi tutti qui abbiamo, una regione, una città, un gruppo di villaggi, che sono la vita della nostra vita, che sanno come siamo nati e cresciuti, che hanno fede in noi. Per moltissimi funzionari il ricordo natio è una sede di Prefettura o Intendenza di finanza o di Tribunale, da Cuneo a Caltanissetta. Essi non hanno quasi mai un legame speciale, una regione o circoscrizione, che li vorrebbe eleggere. Come potranno essere eletti? Essi non potranno essere eletti che attraverso la protezione di un grande partito di massa, a cui essi vorranno bensì opporre il sentimento del loro dovere e la loro coscienza intatta; ma sapete come van le cose. Quando si comincia con una prima concessione, è la via insaponata che porta alle scivolate più impreviste.

I partiti. Io mi auguro che da noi i partiti di massa diventino così forti, così sicuri della loro coscienza e delle loro virtù morali e politiche, che non avranno nessun bisogno di farsi per tali guise una clientela. Sono stati citati poc’anzi molti episodi della vita politica dell’Europa e del mondo. Io vi voglio citare una sola cosa. Quali sono – credo che nessuno possa negarlo, quale che sia la sua dottrina politica – le due più potenti ed efficienti democrazie esistenti attualmente nel mondo, nel mondo almeno che concepisce l’esistenza di più partiti? Sono gli Stati Uniti d’America e la Gran Bretagna; sono anche paesi che hanno i partiti più specificamente divisi. Quali partiti di massa più forti che il partito democratico ed il partito repubblicano agli Stati Uniti? Quali partiti più grandi in Inghilterra che il formidabile partito laburista ed il partito unionista o conservatore?

Ebbene, questi due paesi hanno un Gabinetto, in cui il posto più modesto, il posto che nessuno desidera, è quello di Ministro dell’interno. Se conoscete qualche amico all’Ambasciata britannica o americana a Roma, domandategli a bruciapelo chi è il Ministro dell’interno del suo paese. Egli si gratterà la testa e risponderà: non lo so; non ne ho sentito parlare.

Questa è la vera atmosfera di democrazia pura, alta e forte, che permette di accettare anche tutti i funzionari dell’interno nel gruppo dei candidati, perché non vi sono prebende da sperare, non vi sono atti di corruzione da temere. Purtroppo, in Italia, a questo punto ancora non ci siamo; non certo perché si sia da meno, ma perché siamo troppo poveri.

Badate, io ho detto che i nostri funzionari, data la fame che soffrono, sono ancora in parte veramente eroici. E gli uomini politici, che cercano di dare la colpa ai funzionari, allontanano da sé una responsabilità, che probabilmente pesa su di loro.

Ricordo, mesi fa, l’onorevole Scoccimarro da quel banco, essendo Ministro delle finanze, dichiarò ufficialmente che egli era ammirato dell’onestà, della spartana austerità dei maggiori funzionari del Ministero delle finanze. Chi, come voi, come me, ricorda i tempi avanti al 1914, sa bene che degli uomini come Luciolli alle finanze, Brofferio al tesoro, Vigliani all’interno, Malvano e poi Contarmi agli esteri, erano veramente dei tipici servitori dello Stato, che giorno e notte non pensavano che allo Stato. Questi tipi di uomini noi possiamo ancora ricostituire per l’Italia; e se possiamo, dobbiamo. Ma noi non dobbiamo domandare l’impossibile e quindi non dobbiamo domandare ai funzionari che vogliamo elevare all’alto rango dei nomi che ho citato, non possiamo permetterci di dire loro: badate, se vi mettete con quel partito o con quel tal altro, diventerete senatori, deputati e con ciò tanti vantaggi. Questo è proporre l’immoralità a coloro che vorremmo siano onesti, che vorrebbero essere onesti. Certe prebende, certi vantaggi e certi alti premi noi dobbiamo senza dubbio creare pei funzionari, anche al di fuori della loro carriera; perché no la Corte Suprema? Ma non il Parlamento, almeno finché l’Italia non sia arrivata a quel grado di elevazione a cui sono giunti, insieme colla prosperità, i due grandi paesi in cui nessuno sa chi è il Ministro dell’interno. Ricordatevi che l’onestà della burocrazia domani si giudicherà unicamente a questa stregua: dal suo grado di indipendenza dai partiti, questi nuovi sovrani del periodo attuale; e ricordiamoci anche che i partiti possono e debbono guadagnare prestigio alle loro dottrine, alle loro forze, con larghi programmi di riforma sia lenta sia rapida, ma non certo attraverso maneggi di influenze, mezzi meschini e subdoli che possono bensì giovare per un’elezione, ma che alla lunga colpirebbero di morte coloro che li usano. Noi dobbiamo desiderare forti i partiti, ed io mi auguro in un certo senso che tutti siano forti, perché la storia non è che il ricamo di cui tutti i partiti sono i fili, per ostili che siano fra di loro. Sì, dobbiamo desiderare anche la forza morale del partito che ci è opposto, perché questo rialzerà noi stessi, rialzando l’insieme della vita pubblica. E dobbiamo far sentire e ricordare ai partiti che o vinceranno per le loro grandi idee morali, ché se vincessero unicamente con capziose manovre di accaparramenti di funzionari, i loro trionfi saranno frutti di cenere e tosco.. (Applausi al centro).

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Indichi il fatto personale.

RODINÒ MARIO. Desidererei che l’oratore precedente, l’onorevole Sforza, specificasse perché ha inteso di poter dire, in assenza dell’onorevole Porzio, che poteva elencare tra le cause di una decadenza e di una crisi italiana la progressiva corruzione del Mezzogiorno.

PRESIDENTE. Non vedo in ciò materia per un fatto personale, e perciò non le posso dare la parola.

SFORZA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ho escluso che sussista un fatto personale per l’onorevole Rodinò. Lei non ha, dunque, ragione di rispondere.

SFORZA. Supporre che io possa giudicare così il Mezzogiorno è offesa personale. L’onorevole Rodinò ha completamente frainteso il mio pensiero.

MAZZA. Il Mezzogiorno l’ha già giudicata!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non aprano in una maniera tanto inopportuna la discussione su un problema di così alta importanza.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16. Avranno la parola i presentatori di ordini del giorno e gli onorevoli Relatori. Domani si terrà seduta anche alle 11, in seguito alla constatata mancanza di numero legale nella seduta di questa mattina, per il seguito della discussione del disegno di legge sull’elettorato attivo.

Interrogazione e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. È pervenuta alla Presidenza la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per conoscere quali provvedimenti intendono finalmente adottare in ordine al seguente fatto, già dall’interrogante portato alla diretta conoscenza dell’onorevole Ministro della difesa fin dal 9 giugno 1947, senza ottenere a tutt’oggi evasione:

«Il 20 maggio 1947, in Treviso, un capitano della Divisione «Folgore», al comando di un reparto di soldati armati di mitra, occupava, espellendone il proprietario, una casa sita in Treviso, via Canova, di proprietà Pagnossin Giuseppe. Non vi erano stati, e del resto non potevano legittimamente essere emessi, provvedimenti di requisizione dell’immobile e, tra gli altri, lo stesso sindaco di Treviso, onorevole Antonio Ferrarese, aveva preavvertito l’ufficiale in oggetto della illegittimità della preannunciata azione violenta.

«Nella casa in tale modo avuta libera si installò il Comando della Divisione «Folgore», che tuttora (9 settembre 1947) la occupa e la usa direttamente concorrendo nella persistente violazione del diritto e delle numerose disposizioni di legge, le quali assicurano l’inviolabilità del domicilio privato (articolo 8-bis della nuova Costituzione!) ed imporrebbero alle autorità costituite della Repubblica italiana di intervenire in difesa del diritto e della legge, tra l’altro imponendo a chicchessia il ripristino immediato della situazione giuridica preesistente all’infrazione oltre la punizione a termini di legge dell’autore di essa.

«Per il fatto suddetto è in corso azione penale, presso il Tribunale militare di Padova.

«Costantini».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Interesserò i Ministri dell’interno e della difesa perché facciano sapere quando intendano rispondere.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Ministro di grazia e giustizia di far presente ai Ministri dell’interno e della difesa che probabilmente la seduta antimeridiana di giovedì prossimo sarà dedicata allo svolgimento delle interrogazioni e che pertanto in questa seduta potrebbe essere svolta anche l’interrogazione dell’onorevole Costantini.

È stata presentata anche la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Ai Ministri dei lavori pubblici e del tesoro, per conoscere i motivi per i quali nulla di sostanzialmente concreto sia stato fatto a favore di coloro che sono rimasti senza tetto in seguito al terremoto dell’11 maggio scorso in Calabria.

«Gli interpellanti chiedono che, essendo la necessità di trovare e di applicare provvedimenti a sollievo di tante miserie tale da non consentire ulteriori dilazioni, la presente interpellanza sia discussa con carattere d’urgenza.

«Silipo, Gullo Fausto, Musolino, Mancini, Sardielllo, Priolo, Caroleo, Mazzei».

Chiedo il Governo quando intenda rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Interesserò i Ministri dei lavori pubblici e del tesoro perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Riunione in Comitato segreto.

PRESIDENTE. Ricordo che fra dieci minuti l’Assemblea si riunirà in Comitato segreto.

Interrogazioni e interpellanza

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sul funzionamento dell’Ufficio pensioni nel suo Ministero, nel quale due subalterni dell’Università di Pavia sono stati collocati regolarmente a riposo e non hanno avuto liquidata né pensione, né buonuscita due anni dopo cessato il servizio.

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del commercio con l’estero e della marina mercantile, per conoscere i motivi che hanno determinato l’emanazione del decreto ministeriale 6 agosto 1947, con cui si limitano, così gravemente da praticamente sopprimerle, le agevolazioni concesse agli armatori con l’articolo 3 del decreto ministeriale 20 agosto 1946.

«Salvatore».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere ì motivi che hanno provocato lo scioglimento della prima Commissione di maturità classica del liceo governativo di Acireale.

«Marchesi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga opportuno, nella imminenza delle semine, di emanare un decreto col quale si stabilisca la obbligatorietà di una congrua percentuale di terreni da coltivare a grano; obbligo cui non debba sottrarsi alcun proprietario, tranne i piccolissimi.

«Tale obbligo, naturalmente integrato dalla corresponsione di un equo prezzo rimunerativo del cereale, corrisponde al desiderio di numerosi lavoratori del Modenese che si sono già favorevolmente espressi in convegni sindacali e politici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merighi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’interno, della difesa, del tesoro, dei lavori pubblici e di grazia e giustizia, per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati e quali altri intendano adottare per provvedere, colla urgenza reclamata dalla imminente stagione delle piogge e del freddo, alla riparazione dei danni provocati dalle paurose esplosioni verificatesi la sera del 31 luglio 1947 nel polverificio «Vulcania» in agro di Montichiari (Brescia), in cui erano, altresì, costituiti depositi di esplosivo per conto del l’Amministrazione militare, a causa delle quali, se fortunatamente non si sono lamentate vittime umane, in vasto raggio esteso a più comuni sono stati rovinati edifici pubblici (chiese, scuole, asili, ospedali) e parecchie centinaia di case private, con scoperchiamento di tetti, sradicamento e distruzione di porte e di infissi, lesioni gravi ai muri e frantumamento di vetri, per un complessivo ammontare di danni di circa lire 500.000.000; e per conoscere se non siano allo studio, per essere quanto prima attuate, nuove norme, in sostituzione delle vigenti, rivelatesi insufficienti anche altrove, intese a garantire persone e cose dai danni derivanti dall’esercizio di industrie così pericolose. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere se non reputi necessario ed urgente disporre che, nell’itinerario Napoli-Siracusa-Malta-Tripoli, della motonave Città di Messina venga incluso lo scalo nel porto di Reggio Calabria, onde servire tutta la Calabria, sia per il movimento dei viaggiatori che per il trasporto delle merci e della posta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se – in mancanza di una legge analoga a quella del 2 ottobre 1919, n. 1853, per la sistemazione in organico dei segretari comunali reggenti nominati durante lo stato di guerra – non ritenga equo che i segretari comunali reggenti e provvisori senza patente (legge 1° settembre 1940, n. 1488), i quali abbiano prestato per oltre un triennio lodevole servizio, vengano almeno ammessi alla prova di esami per l’abilitazione alle funzioni di segretario comunale, sostituendo il servizio prestato al titolo di studio (licenza media superiore) richiesto dall’articolo 175 della legge comunale e provinciale 27 giugno 1942, n. 851. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazzei».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e della pubblica istruzione, per conoscere le ragioni le quali determinano la trattenuta del 2 per cento eseguita dallo Stato sulle pensioni miste degli insegnanti, anche relativamente alla quota a carico di enti pubblici diversi dello Stato; per conoscere, altresì, i motivi per i quali con telegramma 15 luglio 1947, n. 210053/142617, del Ministero del tesoro, inoltrato alle Delegazioni provinciali del tesoro, venivano esclusi dal benefìcio degli anticipi accordati alle pensioni dirette ed indirette, i titolari di pensioni miste, anche se essi, in base alle disposizioni del regolamento organico dell’Amministrazione dalla quale dipendevano, avevano diritto ad un trattamento pari a quello degli insegnanti statali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti intende adottare allo scopo di eliminare un grave inconveniente che si verifica, con frequenti ricorrenze annuali e particolarmente nel più cruciale dei periodi della campagna irrigatoria, a danno dell’agricoltura del comprensorio irriguo del Consorzio Canale della Vittoria nella provincia di Treviso onde con il repentino abbassarsi, sotto il limite della competenza, della portata del Piave a Nervesa viene a mancare, nella vasta plaga, la possibilità dell’irrigazione già difficoltosa anche con la portata di diritto.

«Quanto sopra, tenendo conto che la chiave di volta del problema sta nella tempestività della regolazione degli scarichi a Soverzene, dei quali è responsabile e beneficiaria la Società adriatica di elettricità, la quale è tenuta, a norma del disciplinare di concessione, a ridurre la propria derivazione per l’invaso del Lago di Santa Croce, onde assicurare le competenze ai Consorzi di irrigazione, e altresì nell’impedire fattivamente le abusive derivazioni, talvolta cospicue, operate a mezzo di vistose opere di sbarramento e deviazione del filone del Piave; compito questo che dovrebbe essere con cura espletato dagli Uffici del Genio civile interessati al bacino imbrifero del Piave. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quali precise disposizioni siano state impartite in favore dei piccoli produttori diretti, che non produssero grano a sufficienza per gli usi familiari e per gli agricoltori sinistrati dalla tempesta, perché sia dato in tempo utile il grano per la semina. Gli interroganti fanno presente che qualora il detto grano da semina non fosse messo a disposizione di codesti benemeriti coltivatori, molti appezzamenti di terreno non sarebbero seminati, e questo con grave danno per la produzione e per l’interesse nazionale. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Scotti Alessandro, Grilli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritengano necessario, in ossequio al più elementare spirito di democrazia, provvedere a modificare sollecitamente l’articolo 25 del testo unico della legge comunale e provinciale del 1934, il quale determinala composizione della Giunta provinciale amministrativa (sede amministrativa) in dieci membri, dei quali soltanto quattro sono designati dalla rappresentanza provinciale e gli altri sei sono funzionari governativi, per modo che questi ultimi dominano costantemente nelle decisioni con assoluta irrisione di ogni principio di effettiva democrazia, cioè di rispetto della volontà popolare.

«La norma suddetta, di marca tipicamente fascista, ha modificato le precedenti leggi comunali e provinciali, in virtù delle quali i membri governativi erano tre – compreso il prefetto – e quattro i membri elettivi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Costantini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) l’ammontare della spesa sostenuta dall’Amministrazione ferroviaria per l’elargizione del cosiddetto «premio della ricostruzione» fatto ad una esigua parte del personale ferroviario;

2°) i criteri seguiti nella distribuzione di detto premio e in base a quali probanti accertamenti sia avvenuta la scelta del personale gratificato;

3°) se nella attribuzione del premio non vi sia alcun atto arbitrario del Ministero dei trasporti e in caso affermativo quali provvedimenti intenda adottare a carico dei responsabili di un ingiustificabile sperpero, mentre si accusano ristrettezze finanziarie e deficit di bilancio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giua».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se il Governo non ritenga opportuno e necessario prorogare al 31 ottobre 1947 il termine per la presentazione delle denunce per l’imposta patrimoniale progressiva.

«Il testo delle disposizioni in materia è stato pubblicato solo il 4 settembre corrente e quindi il mantenimento del termine del 30 settembre 1947 – oltre a causare notevolissimo aggravio ai contribuenti senza vantaggio alcuno per l’Amministrazione – rappresenta un vero e proprio svisamento delle intenzioni della Costituente, la quale quando nel luglio 1947 approvò il testo delle nuove disposizioni pensò accordare ai contribuenti un congruo termine per le denunce nella evidente e fondata previsione che la pubblicazione della legge avrebbe seguito di pochi giorni l’approvazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Aldisio».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per migliorare i servizi marittimi con la Sardegna e particolarmente quelli della linea Olbia-Civitavecchia, i quali sono dei tutto insufficienti ed inadatti alle necessità del traffico. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Mastino Gesumino, Carboni Enrico».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se e quali provvedimenti intendano adottare di fronte all’allarmante moltiplicarsi dei disastri edilizi, e se non credano giunta l’ora di prendere in considerazione le proposte che i vari organi del Consiglio nazionale delle ricerche hanno ripetutamente formulate per un miglioramento della tecnica delle costruzioni – proposte che sono state fino ad ora rese vane dalla resistenza passiva della burocrazia e dall’ostinato rifiuto del Tesoro a concedere quel minimo di mezzi finanziari che sarebbero stati necessari per la loro attuazione.

«Colonnetti, Giacchero, Firrao, Di Fausto».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 19.30.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 16 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Votazione nominale:

Presidente

La seduta comincia alle 11.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale dele liste elettorali. (16).

Ricordo all’Assemblea che dobbiamo concludere l’esame dell’articolo 47.

Nell’ultima seduta sono stati illustrati tutti gli emendamenti presentati, sui quali si sono anche pronunciati il Governo e la Commissione. Si deve quindi procedere ora alla votazione dei vari emendamenti, fra i quali ha la precedenza quello dell’onorevole Bencivenga, in quanto trattasi di emendamento soppressivo dell’intero articolo. Qualora questo emendamento non sia approvato, si passerà alla votazione dell’emendamento dell’onorevole Fabbri, in quanto è parzialmente soppressivo. Successivamente si passerà alla votazione dell’emendamento Coppi, dato che stabilisce un criterio diverso sul periodo della sospensiva del diritto elettorale. Mentre, infatti, il progetto governativo, approvato dalla Commissione, stabilisce un unico periodo, l’emendamento Coppi stabilisce il principio di una divisione in tre periodi della sospensione del diritto elettorale. Quindi sarà necessario che prima l’Assemblea voti sopra l’accettazione o meno di questo principio, e poi passi alla votazione degli altri emendamenti.

Altro emendamento è quello dell’onorevole Schiavetti, il quale determina il periodo di sospensiva in misura maggiore di quello stabilito dal Governo.

Passiamo, quindi, alla votazione dell’emendamento Bencivenga che dispone appunto la soppressione dell’articolo 47.

Su questa votazione è stato chiesto l’appello nominale dagli onorevoli. Bencivenga, Lagravinese Pasquale, Miccolis, Mazza, Russo Perez, Venditti, Abozzi, Rodinò Mario, Mastroianni, Caroleo, Colitto, Castiglia, Fabbri, Bergamini e Capua.

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione per appello nominale. Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale avrà inizio la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dall’onorevole Merlin Umberto.

Si faccia la chiama.

AMADEI, Segretario, fa la chiama.

Hanno risposto sì:

Abozzi.

Bencivenga – Bergamini.

Capua – Caroleo – Castiglia – Colitto – Condorelli.

Fabbri.

Lagravinese Pasquale.

Mastrojanni – Mazza – Miccolis.

Perugi.

Rodinò Mario – Russo Perez.

Venditti.

Hanno risposto no:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Amadei – Arata.

Bacciconi – Balduzzi – Baracco – Barontini Ilio – Bei Adele – Bellusci – Bernini Ferdinando – Bertone – Bettiol – Bianchi Bianca – Bianchini Laura – Bibo- lotti – Bocconi – Bonomelli – Bruni – Bulloni Pietro.

Cairo – Calosso – Camposarcuno – Candela – Canevari – Caporali – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carpano Maglioli – Cartìa – Castelli Avolio – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cingolani Mario – Clerici – Codacci Pisanelli – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Coppi Alessandro – Corsi – Cosattini – Cremaschi Olindo – Crispo.

De Filpo – Del Curto – Della Seta – De Maria – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Giovanni – Donati.

Facchinetti – Faccio – Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Fiorentino – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini.

Gabrieli – Gallico Spano Nadia – Gavina – Giua – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grilli – Guerrieri Filippo – Gullo Piocco.

Laconi – Lami Starnuti – La Rocca – Lizier – Lizzadri – Longhena – Longo – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Marchesi – Martinelli – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mattarella – Mazzoni – Merighi – Micheli – Minio – Molinelli – Momigliano – Morandi – Morini – Moro – Moscatelli – Murgia.

Nasi – Nenni – Nobili Tito Oro – Notarianni.

Pacciardi – Pallastrelli – Paris – Pastore Raffaele – Pecorari – Pera – Perassi – Persico – Pesenti – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Platone – Priolo.

Reale Eugenio – Reale Vito – Ricci Giuseppe – Rivera – Romano – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo.

Saccenti – Salvatore – Sampietro – Santi – Sapienza – Saragat – Sardiello – Scelba – Schiavetti – Scoccimarro – Secchia – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Sullo Fiorentino.

Targetti – Taviani – Tega – Titomanlio Vittoria – Tonello – Tonetti – Treves – Trimarchi – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vernocchi – Veroni – Vicentini – Villani.

Zaccagnini – Zanardi – Zappelli – Zerbi – Zuccarini.

Si sono astenuti:

Conti.

Schiratti.

Sono in congedo:

Badini Confalonieri – Bastianetto – Bertola.

Campilli – Canepa – Caso – Cotellessa.

Dominedò.

Foa.

Gasparotto – Geuna – Giannini – Guidi Cingolani.

Jacini.

La Gravinese Nicola – La Malfa – Lucifero.

Montemartini – Morelli Luigi.

Paolucci – Parri – Perrone Capano.

Quarello.

Storchi.

Tosi – Tremelloni – Tumminelli.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli segretari numerano i voti).

Comunico che dalla numerazione dei voti risulta che l’Assemblea non è in numero legale per deliberare.

I nomi dei deputati assenti senza regolare congedo saranno pubblicali nella Gazzetta Ufficiale.

La seduta è sciolta e l’Assemblea è riconvocata per domani alle ore 11 per riprendere lo svolgimento del suo ordine del giorno.

Rimane ferma la convocazione per il pomeriggio di oggi alle ore 16 per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

La seduta termina alle 12.

LUNEDÌ 15 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXVIII.

SEDUTA DI LUNEDÌ 15 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Russo Perez

Lussu

Presentazione di disegni di legge:

Sforza, Ministro degli affari esteri

Presidente

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Interrogazione (Svolgimento):

Presidente

Sforza, Ministro degli affari esteri

Lussu

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Fuschini

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

COVELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati onorevoli Jacini e Gasparotto. (Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Gli onorevoli Persico, Mastrojanni, Montini, Corbi, Pajetta Giuliano, Cifaldi, Pellegrini, iscritti a parlare, non sono presenti: s’intende che vi abbiano rinunciato.

È iscritto à parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, non mi propongo di fare un discorso per diverse ragioni. Anzitutto, per non recare offesa alla vostra preparazione. La materia è sovrabbondante, la bibliografia estesa ed estesi sono i lavori preparatori, onde anche un amanuense intelligente può trovare facilmente la materia per preparare un discorso che appaia, o anche sia, intelligente e dotto. In secondo luogo, abbiamo dinanzi a noi un termine che si avvicina a passi di gigante, il 31 dicembre, che dobbiamo considerare come una barriera invalicabile; e quindi è nostro dovere essere brevi.

In terzo luogo, in base a quello che è stato già detto ed a quello che può supporsi sarà detto, possiamo esser certi che saranno presentati così numerosi emendamenti, da appagare anche i gusti più difficili.

Quindi, si tratta soltanto di rinunziare alla piccola vanità di fare apparire come pensiero proprio quello che può essere pensiero altrui o pensiero comune.

Per conseguenza, farò poche osservazioni su alcuni degli articoli della Parte seconda – Titoli I, II e III – del progetto di Costituzione.

L’articolo 55 dice che la Camera dei senatori sarà eletta a base regionale. Non mi spavento troppo di questa frase, per quanto vorrei che si dicesse: «La Camera dei senatori è eletta a base territoriale; ad ogni Regione sarà attribuito tale numero di senatori». Perché io vorrei ricordare il meno possibile questo sacrificio che si è imposto al corpo dell’Italia peninsulare, regionalizzandola, anche suo malgrado.

RUBILLI. Un siciliano dice questo. E la Sicilia?

RUSSO PEREZ. Ho detto di proposito «Italia peninsulare».

RUBILLI. Facciamo due Italie; quante Italie ci sono?

RUSSO PEREZ. Cari colleghi, dimostratemi che vi sia un’altra Regione, per la quale la concessione dell’autonomia sia atto di saggezza politica come per la Sicilia, ed io diventerò autonomista anche per quella Regione.

RUBILLI. Può darsi pure che ve ne pentiate.

UBERTI. L’abbiamo dimostrato!

MAZZA. È vero che metterete la tassa sul sale?

RUSSO PEREZ. S’intende; così vi faremo pagare il sale più caro per rifarci di una parte dei quattrini che ci costano certe industrie del Nord.

Come vedete, il disaccordo è quasi pieno. Durante i lavori preparatori l’onorevole Perassi disse, invece, che tutti i commissari erano d’accordo che la seconda Camera dovesse essere espressione di interessi regionali. L’onorevole Lussu, sempre un po’ eccessivo, arrivò perfino a volerla chiamare «Camera delle Regioni».

Si è discusso, durante i lavori preparatori, se questa elezione di secondo grado dovesse esser fatta dai Consigli comunali; i Consigli comunali furono bocciati. Ma non ci si accorse che le stesse ragioni, per le quali fu considerato opportuno escludere i Consigli comunali, avrebbero dovuto far consigliare l’esclusione delle Assemblee regionali.

A me pare che gli assessori, i deputati regionali, gli onorevoli, come loro piace chiamarsi – tra poco in Italia tutti i cittadini saranno onorevoli, tranne i detenuti per reati comuni; perché per i reati politici, dal piombo dei mitra all’oro delle medaglie, il giudizio varia col tempo e con gli uomini – abbiano già troppe attribuzioni, perché si possa dar loro anche quella di eleggere i senatori.

Le ragioni per cui non ritengo opportuno che siano le Assemblee regionali ad eleggere i membri della Camera Alta sono diverse. Anzitutto in codesti consessi (Consigli comunali, Assemblee regionali) vi è già la divisione ferrea dei partiti, quindi la partitocrazia imporrebbe la sua legge anche alla seconda Camera, che verrebbe ad essere formata per forza e schieramento dei gruppi contrapposti, in modo analogo ai consessi che hanno svolto il ruolo di elettori di secondo grado.

In secondo luogo si accrescerebbe oltre misura l’influenza della Regione sulla Nazione, onde, mentre l’onorevole Ruini disse che si era scelto questo sistema in base alla nuova struttura dello Stato, io penso che sarebbe stato opportuno scartarlo precisamente a cagione della nuova e, secondo me, infausta struttura dello Stato.

D’altra parte bisogna riconoscere che una differenziazione tra le due Camere è opportuno ci sia. Naturalmente il criterio di questa differenziazione può essere vario. L’onorevole Ruini ricordava quei detti un po’ retorici di Beniamino Franklin, che parlava del calesse tirato in due opposte direzioni, o quell’altra frase di spirito di Washington e di Jefferson, i quali parlavano del thè troppo caldo, che bisogna versare nel piattino perché si raffreddi! Come vedete, retorica. Ma le ragioni serie ci sono; e sono state bene individuate dall’onorevole Ruini, a pagina 10 della sua ottima relazione. Egli dice: «L’istituto della seconda Camera è prevalso nella Commissione, per l’opportunità di doppie e più meditate decisioni, e pel contributo che può dare con un altro esame, nella sua diversa composizione e competenza, una seconda Camera».

Questa differenziazione taluni la ricercano e la pongono nel criterio dell’età degli elettori e degli eligendi; altri la pongono nel sistema elettorale, anziché a suffragio diretto, col sistema dell’elezione di secondo grado; altri nella scelta dei designati a deputati, che dovrebbero rappresentare speciali categorie di interessi economici, interessi professionali ed interessi culturali. Secondo me la cosa più sensata è quella che disse, durante i lavori preparatori, il mio esimio collega, l’onorevole Giovanni Porzio: considerate la Camera Alta come una Corte di appello, come un magistrato di secondo grado. Io aggiungo che la differenziazione nasce dalla duplicità. In Corte di appello vi sono dei magistrati reclutati con lo stesso metodo dei loro colleghi del tribunale. Molte volte gli stessi giudici, che sei mesi prima appartennero ad un collegio di primo grado, sei mesi dopo appartengono ad un collegio di secondo grado. Ed è molto bene che vi sia un giudizio di secondo grado. Faccio questa osservazione: se, quando si discute degli interessi di un uomo, e tante volte di modesti interessi patrimoniali di un uomo, si pensa che sia necessario il giudice di seconde cure e a volte anche il giudice di terze cure (come la Corte Suprema), quando si tratta di grandi interessi nazionali come volete che non ci sia codesto secondo grado di giurisdizione? Dunque, nel fatto della duplicità vi è già il concetto di differenziazione. Ma volete che ci sia un altro concetto di differenziazione? Faccio mia la proposta dell’onorevole Rubilli, che questa volta non può essere in disaccordo con me: quella del collegio uninominale, del quale sono partigiano strenuo anche per l’elezione del Parlamento, per le ragioni che accennerò. La ragione principale, secondo me, è quella della necessità di moderare la prepotenza dei partiti politici, la partitocrazia che, senza dubbio, ha profondamente vulnerato le libertà democratiche ed ha tolto l’indipendenza ai rappresentanti del popolo, i quali, come durante il famoso ventennio, debbono dipendere più da coloro che stanno in alto, più da quelli che comandano nei partiti, anziché dalle masse elettorali, perché molte volte l’elezione è già fatta con la designazione. Pensate ai candidati a cui il partito fa l’onore ed il favore di metterli ai primi posti nelle liste nazionali. Costoro, col solo fatto di essere designati, sono già riusciti; tanto è vero che qui ci sono parecchi che sono entrati nel Parlamento per questa via e non per il suffragio degli elettori.

Ed allora, che cosa ne nasce? Ne nasce – siamo uomini – la necessità di adulare, di coartare, di intimidire coloro che hanno nelle mani la possibilità di designarci nelle prossime elezioni. Tanto è vero, onorevoli colleghi, che la partitocrazia ha profondamente vulnerato la libertà, l’indipendenza degli uomini politici, che adesso l’unico presidio della libertà si ritrova nella votazione segreta. Lo splendore della coscienza deve rifugiarsi nell’ombra, che di solito è cara ai traditori. Ma solo così, è doloroso, alcuni uomini, che qui rappresentano il popolo, si svincolano dalla schiavitù di coloro da cui dipende la propria sorte elettorale. Quindi, se anche il principio del collegio uninominale non fosse accettato per quanto riguarda l’elezione della prima Camera, io chiedo che sia accettato almeno per quanto riguarda l’elezione della seconda Camera, della cosiddetta Camera Alta.

Durante i lavori preparatori, vi fu l’onorevole Einaudi che sostenne questa tesi, e credo che vi sia stata anche una proposta dell’onorevole Grassi, attualmente Ministro di grazia e giustizia, perché due terzi dei senatori fossero eletti col sistema del collegio uninominale. L’onorevole Einaudi sostenne la stessa tesi, come l’onorevole Rubilli, alla Consulta, ma allora gli si disse che non era il momento di parlarne, perché non si trattava del Parlamento normale, ma dell’Assemblea Costituente, e sembrava giusto, opportuno, anzi necessario, che nell’Assemblea Costituente fossero rappresentati tutti i partiti, tutti gli aggruppamenti che avessero una certa consistenza. Ma quando l’onorevole Einaudi tornò a parlarne in questa Assemblea, gli si disse che non era neanche questa volta il caso di parlarne perché tutti oggi sono favorevoli allo scrutinio di lista e al sistema proporzionale, E l’onorevole Einaudi diceva che succede un po’ come successe durante la rivoluzione francese, e cioè che coloro i quali hanno ottenuto una posizione elevata mediante l’uso di un determinato sistema, naturalmente diventano indulgenti verso il sistema che in quelle alte posizioni li ha mandati. E questo succede anche qui. Poco fa ho sorpreso un sorriso, quando si parlava di collegio uninominale, sul volto quasi sempre sorridente dell’amico Uberti. Evidentemente egli è per lo scrutinio di lista e si vede che è ben visto dai dirigenti del suo partito. (Si ride). Durante i lavori preparatori vi fu, a favore del sistema uninominale, anche il parere espresso dall’onorevole Togliatti. Egli disse che interpretava il suo pensiero e «credo» disse – quindi non era perfettamente sicuro – il pensiero dei suoi amici schierandosi coi fautori del collegio uninominale.

Non so se fatti interni di partito abbiano prodotto qualche cambiamento, ma mi auguro che l’onorevole Togliatti e i suoi amici siano ancora d’accordo sul proposito di sostenere tale sistema.

L’onorevole Piccioni il 29 gennaio si mostrò perplesso dinanzi a questa proposta; ma dopo due giorni, nello spazio di 48 ore, la perplessità era svanita ed egli si dichiarò paladino del collegio plurinominale, del sistema dello scrutinio di lista.

Alcuni dicono che la questione non sia attuale; che l’opportunità di un ritorno al collegio uninominale non sia sentita, oggi, dalla maggioranza degli uomini politici. Io lo nego. Io credo che la coscienza di molti uomini politici senta l’attualità del problema, ma che essi, naturalmente, si schierino contro il sistema per ragioni di convenienza.

Pensate, del resto, che durante i lavori preparatori la bocciatura della proposta avvenne soltanto con 32 voti favorevoli contro 27 contrari. E allora la vera ragione è quella che dico io: non che la questione non sia attuale; essa è perfettamente attuale, ma ci sono molti che temono di non ritornare, o di ritornare con maggiore difficoltà nel futuro Parlamento o nel Senato, ove si approvasse la legge del sistema uninominale. E perché questo? Bisogna pur dirlo: perché, naturalmente, i mediocri sono più dei buoni. Io chiedo all’Assemblea un atto di coraggio: che mi dimostri, approvando il sistema uninominale, che i buoni sono in maggior numero dei mediocri.

Contro questo Sistema sono stati avanzati degli argomenti che io non esito a qualificare speciosi. Anzitutto, si dice che vi sarebbe un ibridismo nella coesistenza dei due sistemi.

Che significa ibridismo? Nella zoologia vi sono ibridi che sono animali magnifici. Il mulo ha la costanza dell’asino, l’intelligenza del cavallo, e la forza di tutti e due sommati insieme. È uno splendido animale, utilissimo. Quindi è un argomento specioso. Poi vi è un altro argomento, che mi sembra più specioso del primo. Si è detto: approvare il sistema uninominale per l’elezione, sia pure parziale, dei membri del Senato sarebbe un inficiare il sistema della proporzionale vigente per l’elezione dei deputati. Non credo che valga la pena ribattere questo argomento.

Se si cerca appunto una differenziazione, io, pensando che è difficile che si ottenga un ritorno al collegio uninominale per quanto concerne l’elezione dei deputati al Parlamento, propongo che, per lo meno, si adotti tale sistema per l’elezione dei senatori. È proprio una differenziazione che si cerca e noi proponiamo questa.

Si è detto anche che, col sistema uninominale, si renderebbero ancora più forti le baronie industriali del Nord contro le baronie agrarie del Sud.

Neanche questo argomento ho capito. Io non ho conosciuto mai, tranne che nei discorsi dell’onorevole Li Causi, le baronie del Sud. Quanto alle baronie industriali del Nord, so che sanno imporsi molto bene anche con la proporzionale e lo scrutinio di lista. Dunque, argomenti seri nessuno.

Onde, per concludere su questo punto, mi associo alla proposta dell’onorevole Rubilli con questa modifica: che tutti i senatori siano eletti col sistema uninominale.

RUBILLI. Questa è la mia proposta tranne per un quarto… ma per il resto: che tutti quanti siano eletti a collegio uninominale. Siamo d’accordo.

UBERTI. Siete d’accordo voi due!

RUBILLI. Si capisce, parlo con lui.

RUSSO PEREZ. Le ho detto la ragione, onorevole Uberti.

Poi viene l’articolo 55 in relazione all’articolo 58, nomina regia; o meglio, il re non c’è più, nomina di una parte di senatori da parte del Capo dello Stato, del Presidente della Repubblica.

Io sono favorevole a questo sistema; anzi, vorrei che l’aliquota riservata alla libera scelta del Capo dello Stato fosse abbastanza notevole; direi un terzo dei senatori.

Contro la cosiddetta nomina regia si fanno delle critiche che l’onorevole Einaudi, durante i lavori preparatori, dimostrò infondate.

Si dice che, normalmente, i senatori eletti per libera scelta dai Capo dello Stato sono, come suol dirsi, troppo governativi, troppo ligi al Governo in carica.

Questo non era esatto neanche allora, perché, in fondo, la nomina sembrava che la facesse il re, ma in realtà la faceva il Presidente del Consiglio: quindi la gratitudine del neo-senatore era diretta verso il presidente del Consiglio del momento e non verso la maestà del re. Naturalmente, quando vi era un cambiamento nel Governo, il senatore nominato a vita non aveva più ragione di mostrare questa gratitudine e riacquistava la sua indipendenza.

Ma questo, del resto, non avrebbe importanza oggi, perché allora, quando vi erano senatori di nomina regia, erano tutti di nomina regia, mentre ora ci accontenteremmo di un terzo. Io sarei già sodisfatto se mi accordaste questo terzo, onorevoli colleghi: ed allora rimangono i due terzi che potranno controbilanciare questa pretesa, ma per me inesistente, governatività dei senatori eletti dal Capo dello Stato.

Codesti senatori dovrebbero essere nominati a vita. Io penso che sia un necessario completamento del sistema della nomina a libera scelta del Capo dello Stato, quello della nomina vitalizia, perché, appunto, il Capo dello Stato dovrebbe scegliere degli uomini eminenti, conosciuti nel mondo della cultura, nel mondo dell’arte, ovvero per le alte cariche di Stato che hanno occupato, titoli che non si distruggono col passare degli anni e col variare delle vicende politiche.

Io sarei del parere che non dovrebbero essere nominati senatori coloro che occupano, ma soltanto coloro che hanno occupato alti posti nell’amministrazione dello Stato.

Per questi uomini eminenti l’onorevole Ambrosini propose, durante i lavori preparatori, la nomina a vita da parte del Capo dello Stato. A ciò si oppose colui che oggi presiede questa Assemblea, l’onorevole Terracini, il quale disse così – sono sue parole, signor Presidente: «Questi uomini eminenti, appunto perché schivi della vita del Paese, sono i meno indicati a far parte di un Congresso politico; non potendo rendersi interpreti dei bisogni e delle aspirazioni del popolo». E ricordò che Manzoni, Carducci, Marconi raramente varcarono le soglie del Senato.

Ma io chiederei all’onorevole Terracini se non sia vero che quegli insigni uomini, per quanto abbiano raramente varcato le soglie del Senato, ne abbiano ugualmente consolidato ed accresciuto il prestigio. E poi, non è sempre esatto che codesti uomini eminenti siano schivi della vita del Paese: molte volte questi uomini sono schivi di quegli accostamenti ai capi dei partiti, accostamenti che sarebbero necessari per divenire candidati nel loro collegio. Ed allora, di questa loro fierezza non dobbiamo punirli, ma premiarli…

RUBILLI. Aveva ragione l’onorevole Terracini.

PRESIDENTE. Grazie, ma non interrompa, onorevole Rubilli.

RUBILLI. Noi parliamo degli uomini eminenti che abbiano attitudini politiche; ma se si tratta di mandare al Senato dei Verdi…

RUSSO PEREZ. I Verdi sono morti, quindi non possiamo più eleggerli senatori. Ma è anche vero che oggi, se fosse vivo Marconi, vigendo il sistema caro all’onorevole Terracini, non potremmo eleggerlo alla carica di senatore.

RUBILLI. E faremmo benissimo!

RUSSO PEREZ. Non è detto che uomini del genere non siamo adatti ad essere degli ottimi parlamentari. Come può escluderlo?

PRESIDENTE. La prego, onorevole Russo Perez, passi ad altro tema.

RUSSO PEREZ. Ho finito, onorevole Presidente. Per quanto riguarda, poi, le categorie dei senatori, vorrei che questa elencazione fosse compito della legge ordinaria. Così le categorie potrebbero variare secondo i tempi e le vicende politiche. Se, per esempio, ci fosse una maggioranza biecamente reazionaria, potrebbe mettere in queste categorie i grandi datori di lavoro: se, invece, la maggioranza fosse intelligentemente progressiva, vi potrebbe mettere i datori di sciopero.

Vi è poi l’articolo 79 che parla del sistema per eleggere il Capo dello Stato. Il progetto dice che il Capo dello Stato deve essere eletto dall’Assemblea Nazionale. Io sono invece del parere che il Capo dello Stato debba essere eletto direttamente dal popolo per ragioni che non vi dirò perché vi ho promesso di non fare un discorso, vi ho promesso di essere breve: chi vuole quindi conoscere queste ragioni legga la relazione dell’onorevole Ruini a pagina 11, righe da 35 a 44.

Ed ho finito. (Applausi a destra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Sono iscritti a parlare gli onorevoli: Nobile, Perrone Capano, Selvaggi, Pera, Priolo, Zuccarini, La Gravinese Pasquale, Castiglia. Non essendo presenti, si intende che vi abbiano rinunciato. Segue nell’ordine l’onorevole Lussu, che è presente. Ha facoltà di parlare.

LUSSU. Altri colleghi del mio Gruppo interverranno ora o successivamente, a proposito di altre questioni comprese nei Titoli che dobbiamo discutere; io mi limiterò a toccare esclusivamente il problema della seconda Camera. Ebbi già occasione, durante la discussione generalissima, parlando dopo gli onorevoli colleghi Rubilli e Tupini, di intervenire per esprimere delle opinioni critiche sulla questione. Dimostrai allora, particolarmente all’onorevole Tupini, come il parlamentare autorevole francese del secolo scorso che egli citava a sostegno della democraticità della seconda Camera, non fosse un democratico, come egli sosteneva, ma un costante e tradizionale conservatore, non sempre moderato.

Ma oggi non è mia intenzione ritornare sul carattere conservatore della seconda Camera, poiché, posta in questi termini, la questione non servirebbe a nulla; se mai, servirebbe solo a maggiormente entusiasmare quei pochi che sostengono la seconda Camera con spirito e con fini non democratici.

Oggi io desidero solo, senza peraltro pensare di spostare le forze politiche di questa Assemblea, porre in rilievo la irrazionalità e la non modernità di questo istituto parlamentare che, per il fatto stesso che chiamiamo, per forza d’inerzia, Senato, dimostra la sua arcaicità. Intanto, sarà di un certo interesse far notare che nessuno finora ha parlato a sostegno dello schema ufficiale sulla seconda Camera, così come è uscito dai lunghi e laboriosi sforzi della seconda Sottocommissione e come è arrivato in quest’Aula. Cioè, quella paziente costruzione di compromesso, che tendeva a mettere d’accordo e quelli che sostenevano la soppressione radicale della seconda Camera, e quelli che ne sostenevano la radicale composizione a tipo corporativistico; quella sapiente e laboriosa opera di compromesso, che è costata la fatica di circa due mesi, non è servita a gran che. Io sono dell’opinione che, se questa Assemblea si permettesse il lusso accademico di discutere ancora per due mesi il problema della seconda Camera, non arriverebbe ad una soluzione migliore e maggiormente accettabile. Perché, mi sono chiesto, questa impossibilità o impotenza ad elaborare un tipo di seconda Camera accettabile, mediamente accettabile? Non certo perché all’Assemblea manchino uomini di lunga esperienza politica e parlamentare, o uomini preparati, tecnicamente preparati, sul diritto pubblico comparato, vecchi o giovani che potrebbero essere maestri qui e altrove; e tanto meno perché facciano difetto a questa Assemblea uomini di buona volontà, ma semplicemente perché la seconda Camera non va. Questa è la ragione. Non va, né come è uscita dai lavori della seconda Sottocommissione, né in altro modo. Non va. Cioè non trova posto razionale in una democrazia come la nostra, che, malgrado i suoi difetti e i suoi equivoci, aspira a diventare una democrazia moderna; democrazia che risponda in termini pratici alle esigenze della vita collettiva, così come le impongono il dinamismo e la diffidenza vergo i pletorici organismi burocratici, compresi quelli politici, e, non ultimo per noi italiani, che abbiamo perduto tanto tempo, il desiderio di non perderne ancora di più.

Nel discorso, fra i più notevoli pronunciati in questa Assemblea, del collega della democrazia cristiana onorevole Clerici, così ricco di motivi vivi e moderni, è emerso, più o meno chiaramente, il concetto dell’inutilità della seconda Camera.

La seconda Camera, infatti, è inutile. Se mi si permette la similitudine, paragonando le due Camere ai due occhi, dei quali l’occhio destro rappresenti la seconda Camera e l’occhio sinistro la prima Camera, ebbene, la seconda Camera è l’occhio destro con sulla pupilla una o più cateratte; dato che questo male non indifferente si comunica da un occhio all’altro, non solo si rischia che non veda il secondo occhio, ma che non veda neppure il primo.

In conclusione, senza offendere la suscettibilità di alcuno in quest’Aula, la seconda Camera è l’occhio destro, con qualche cateratta, della vita parlamentare.

Vi è, contro questa tesi – che non è solo mia né del mio Gruppo, ma di molti altri in quest’Aula – l’opinione, nettamente contraria, di uno dei massimi e, giustamente, più autorevoli uomini politici che siedano in quest’aula: l’onorevole Presidente Nitti. Ma la sua – mi sia permesso – più che una tesi costituzionale politica, è un atto di fede, un puro atto di fede. Egli, che pur passa per scettico, ultimamente, prima che noi prendessimo le vacanze, in un suo breve intervento, ha parlato della seconda Camera, del Senato, con accenti che si potrebbero chiamare romantici. Come, egli ha domandato, come sopprimere il Senato, che fu la grandezza del nostro passato?

E quale passato, di grazia? Il Senato, qui a Roma, ha avuto due passati: uno recente e uno remoto, molto remoto. Il recente provoca scarsamente i nostri rimpianti e le nostre nostalgie; e neppure quelle dell’onorevole Nitti stesso. Il Senato recente è quello regio, anzi, quello regio-fascista. Quel Senato, onorevoli colleghi (lo si può dire perché è un giudizio politico), quel Senato era diventato una stalla. In quel Senato sono entrati i cavalli, gli asini e i muli di Caracalla. Quel Senato chiede una cosa sola del legislatore costituente: d’essere seppellito e dimenticato. Ed aggiungerei – credo senza irriverenza – che vi si potrebbe anche porre una lapide con sopra scritto quello che io ho letto su una tomba di un cimitero di cani inglese: «Qui giace Boby, il delizioso animale che suonava il piano con la coda».

Vi è l’altro Senato, quello remoto, molto remoto, di Roma antica. Credo che siamo tutti d’accordo qui dentro, compreso l’onorevole Presidente Nitti, nel ritenere (qualche nostalgico del passato remoto ed anche recente probabilmente non la pensa nello stesso modo) utile e salutare che di Roma antica oggi parli solo l’archeologo e non il politico. Quando in Italia oggi i politici parlano di Roma antica, si rischia di ritornare indietro, certamente indietro, ma non si fa un passo avanti. Questo non ha inteso certo neppure l’onorevole Nitti. Egli ha inteso solo rievocare in modo parlamentare-costituzionale la austera assemblea romana che rappresentò nel passato una grande civiltà nel mondo.

Ma quella non era una seconda Camera nel senso che questa istituzione ha nella civiltà democratica moderna; quella era una Camera unica, che non ne aveva di contrappeso un’altra. Era l’unica Camera, la sola assemblea legislativa ed esecutiva di quei tempi remoti. Sicché, in conclusione, lo stesso onorevole Nitti, con la sua nostalgia del Senato romano, porta anch’egli un contributo alla tesi per l’istituzione di una Camera unica, per la soppressione della seconda Camera, per l’unico Parlamento, per la Camera dei Deputati.

Non è poi esatto quanto ha affermato l’altro giorno un nostro vecchio ed autorevole collega al quale l’Assemblea ha prestato la più grande attenzione, l’onorevole Rubilli, che cioè, il buonsenso stesso ci indica la seconda Camera come necessaria, poiché la seconda Camera esisterebbe dappertutto, in tutti gli Stati democratici del mondo.

Ebbene, il buonsenso non ci può affatto consigliare la seconda Camera, poiché la seconda Camera non esiste dappertutto. Esiste dappertutto solo negli Stati ad organizzazione federale. Là obbedisce ad una necessità di coesione nazionale e serve a riportare al centro quanto l’organizzazione periferica allontana e disgiunge. È la rappresentanza paritetica al centro, ed in forma unitaria, dei molteplici particolarismi differenziatori: è la sintesi degli interessi locali.

Ma negli altri Stati, no, onorevole Rubilli.

Non è di nessuna utilità pratica, ai nostri fini, esaminare le varie Costituzioni unitarie degli Stati moderni, che conosciamo tutti più o meno bene, fra le quali ne esiste perfino una la quale stabilisce che la seconda Camera è eletta dalla prima. A noi interessano principalmente quei grandi paesi a civiltà affine alla nostra, diciamo a civiltà occidentale, come l’Inghilterra e la Francia, da cui derivano essenzialmente le nostre tradizioni e i nostri costumi parlamentari.

L’Inghilterra ha una seconda Camera? Sì, ha la seconda Camera, ma la seconda Camera in questo Paese trae la sua origine e fonda la propria natura nella monarchia, tanto che, detronizzato Carlo I, Oliviero Cromwell non riuscì mai a far funzionare la Camera dei Lords nel modo tradizionale, e durante il suo governo nessun lord mise mai piede nella Camera alta. Con suo figlio le cose mutarono; ma suo figlio, è risaputo, preparò la restaurazione monarchica.

Esiste oggi la Camera dei Lords come seconda Camera, cioè con uguaglianza di poteri così come sostengono debba essere da noi i fautori della seconda Camera? Non esiste affatto.

Dopo la grande campagna politica, condotta in modo solenne prima dell’altra guerra da Asquith e Lloyd George, e che si concluse con la vittoria di questi ultimi, la Camera dei Lords in Inghilterra politicamente ha cessato di esistere. Non è certo essa che può far cadere un Ministero. Questo potere ormai non esiste neppure in teoria, neppure in linea di diritto, poiché in linea di diritto esiste solo la facoltà del Governo – se lo ritenga opportuno – di nominare tanti Lords quanti ne vuole, finché la maggioranza della Camera dei Lords abbia raggiunto la maggioranza della Camera dei Comuni. La Camera dei Lords è oggi in Inghilterra, a un dipresso, quello che era il Senato in Italia prima del fascismo, vale a dire un istituto pleonastico di mera coreografia che non poteva mai, in nessun modo, opporsi alla volontà decisa della Camera dei Deputati. Dopo De Pretis, che pure era maestro di compromessi e sempre conciliante, non ci si è mai azzardati di discutere, neppure in teoria, se il Senato potesse mettere in minoranza il Governo. «Il Senato non fa crisi», diceva carezzandosi la lunga e bianca barba l’infermo De Pretis. Il Senato non fa crisi. Cioè, politicamente, non esiste.

In Francia poi la questione è stata risolta e in linea di diritto e in linea di fatto. Il Senato è stato soppresso, ed al suo posto è stato creato il Consiglio della Repubblica: compromesso fra quelli che negavano e quelli che sostenevano il Senato. Il Consiglio della Repubblica, come dice la sua stessa denominazione, è una Consulta che funziona egregiamente. Tutti ne sono sodisfatti, compreso il M.R.P., che sostenne fino all’ultimo il Senato. Chi abbia seguito regolarmente il quotidiano del M.R.P. L’Aube, avrà visto con quale compiacimento questo partito apprezza la costituzione di questo nuovo organismo parlamentare dello Stato moderno francese. Io credo che faremo opera saggia se, abbandonando l’orgoglio di non copiare nulla da un altro paese e abbandonando tutti i nostri astrusi progetti, introducessimo anche noi in Italia questo eccellente istituto che, mentre dà la possibilità di far rendere dei grandi servizi al Paese, per l’attiva loro presenza e collaborazione, a uomini che non sono dei politici di prima linea – come direbbe l’onorevole Rubilli –, nel medesimo tempo non intralcia fazione politico-legislativa del vero Parlamento.

L’opinione di quanti credono che si possa oggi, nel secolo delle forze politiche tecnicamente organizzate, dei grandi partiti politici, creare una seconda Camera con poteri eguali a quelli della Camera dei deputati, senza farne un duplicato, è pura illusione.

Comunque si costruisse una seconda Camera – con elezione a suffragio universale o con elezione di secondo grado – essa sarebbe sempre la risultante delle stesse identiche forze politiche, che hanno composto la prima Camera; sarebbe pertanto un duplicato e un duplicato vano. E sarebbe, per giunta, un istituto, che apparirebbe sempre subordinato, politicamente, alla volontà della prima Camera. Poiché, – non facciamoci illusioni! – se alla prima Camera siederanno i massimi leaders dei partiti politici – oggi Nenni, Togliatti, De Gasperi, Giannini, ecc., e domani i loro successori – alla seconda Camera non dico che andranno gli scarti, ma non più quelli che i partiti politici a coscienza politica matura e l’opinione pubblica considerano come i grandi capi politici, verso cui va la fiducia non solo dei partiti organizzati, ma di quelle masse non inquadrate, che formano l’opinione e che dànno il loro giudizio alla vita del Paese. Per cui la prima Camera apparirebbe come la sola grande Camera, quella che guida politicamente la Nazione; e la seconda Camera apparirebbe una specie di dama di compagnia, assai dispendiosa, ma inutile, malgrado le denominazioni letterarie magniloquenti. Sarebbe una cosa meschina.

Non credo abbia un successo, allo stato attuale della discussione, il progetto della Commissione. Nessuno ne è soddisfatto; probabilmente neppure l’onorevole Ruini, che, per dovere di ufficio, penso, dovrà sostenerlo. Io non mi vi soffermo neppure.

Non mi pare che abbia migliore probabilità di successo il progetto radicale, inizialmente presentato alla seconda Sottocommissione e riportato in quest’Aula ultimamente, della seconda Camera a tipo corporativo.

Dalla esposizione, fatta pure con ingegno e dottrina dall’onorevole Codacci Pisanelli, questa seconda Camera è apparsa una cosa fredda e catalettica.

UBERTI. Una cosa da venire.

LUSSU. Anche prima che l’onorevole Codacci Pisanelli parlasse, così era apparsa. Ed io credo che solo per una pura questione di principio la Democrazia cristiana osi ancora farlo proprio. Da quello che ne sappiamo, pare che, voi stessi, onorevoli colleghi democristiani, andiate alla ricerca di un’altra formula, d’una formula di compromesso, di una formula eclettica, ma che non sosterrete fino all’ultimo questa seconda Camera così stranamente composta.

Io richiamo la vostra attenzione sulla proposta sostenuta dall’onorevole Rubilli l’altro giorno e da lui così brillantemente perorata. Tutta l’Assemblea ha seguito la sua esposizione con molto interesse. Fra tanti schemi, a molti, in quest’Aula, è apparso uno dei meno peggiori. Io ne parlo appunto perché quello schema, contenuto nell’ordine del giorno che l’onorevole Rubilli ha presentato, costituisce un pericolo. Secondo la sua proposta la seconda Camera, cioè il Senato, dovrebbe essere elettiva solo per tre quarti, mentre un quarto dovrebbe essere di nomina presidenziale. A me ed a parecchi altri questo progetto non è apparso migliore di altri. Innanzi tutto la seconda Camera, se la seconda Camera ci dovesse essere, non potrebbe essere che elettiva, sia con elezioni generali a suffragio universale, sia in altra forma, ma dovrebbe essere elettiva, perché la democrazia moderna non consente che vi siano rappresentanti puramente artificiosi e non reali ed effettivi. Una Camera, nella democrazia del XX secolo, non può essere, se vuole avere un qualsiasi valore od un qualsiasi prestigio, che elettiva. Questa nomina dall’alto poi, questa nomina presidenziale, non sarebbe altro che la nomina da parte del Governo, una specie quindi di sistema maggioritario per cui il Governo, cioè le forze politiche che hanno avuto il predominio alle elezioni generali a suffragio universale, avrebbe il diritto di aggiungere una sua esclusiva percentuale a quella già esistente. E, malgrado le buone intenzioni dell’onorevole Rubilli, questa percentuale sarebbe sempre fatta di uomini non già senza partito, o di uomini non di prima linea politica o di uomini senza marcato colore politico, ma sarebbe fatta di uomini politici a colore politico ben definito, sarebbe cioè una percentuale politica che traviserebbe le reali forze risultanti alle elezioni generali politiche. Sarebbe, in poche parole, il sistema spicciolo per cui il Governo potrebbe fare, in modo certo e a suo arbitrio, della seconda Camera, la sua maggioranza politica.

Ma il lato più grave della proposta Rubilli è quello per cui tre quarti della Camera sarebbero eletti col sistema del collegio uninominale, e più grave ancora il fatto che Togliatti – questo illustre, freddo e incorreggibile maestro di errori (Si ride)ha dimostrato le sue simpatie per l’istituto del collegio uninominale. Io oso sperare che il collega Togliatti non voglia aggiungere ancora una perla luminosa alla sua collana già lunga. Questo collegio uninominale sarebbe il duplicato laico dell’articolo 7.

Collegio uninominale? Basta avere sentito le ultime espressioni idilliache in suo favore del collega Russo Perez, per capire di che natura esso sia. Io non avrei mai creduto, nel corso della ma vita di assistere alla rievocazione di questo collegio uninominale, che si riteneva fosse stato distrutto per sempre. Lo Stato e la società sono usciti dal fascismo e dalla guerra fascista in uno stato di corruzione, che sarebbe ben difficile immaginare maggiore. Ebbene, solo il collegio uninominale potrebbe darci la misura di una corruzione maggiore. La soppressione del collegio uninominale è stata un progresso per lo sviluppo della democrazia nazionale…

MAZZA. Ce ne siamo accorti!

LUSSU. ..in Italia. Il suo ripristino, anche solo per la seconda Camera, sarebbe un infallibile regresso.

«Ce ne siamo accorti»! Ma non è affatto vero quello che si diceva dopo l’altra guerra e quello che si dice oggi, che la crisi di allora è la crisi di oggi, per cui è difficile costituire un Governo di maggioranza stabile; non è affatto vero che quella crisi, che poi ci portò al fascismo ed alla guerra, sia la ragione della soppressione del collegio uninominale. Così la possono pensare alcuni rispettabili colleghi, i quali concepiscono la politica come una specie di scienza matematica, ma la crisi dell’altro dopoguerra e questa crisi non derivano affatto dal collegio uninominale: i fattori sono infinitamente più complessi e più seri, fra i quali, non ultima, l’arretratezza della nostra capacità di vita democratica, questa nostra difficile capacità di subordinare gli interessi individuali e di categoria agli interessi generali del Paese. E questo è democrazia. Col collegio uninominale non si sarebbe evitata affatto la crisi ed avremmo avuto una più meschina vita politica.

Quest’Assemblea annovera molti giovani colleghi, preparati più di quanto noi stessi e l’opinione pubblica non ritenessimo; ma essi sono troppo giovani e ignorano quale sia stato il livello di bassa corruzione toccante gli elettori e gli eletti del collegio uninominale. Meno, naturalmente, nelle regioni del Nord, dove la democrazia aveva ed ha più vaste basi che non nel collegio elettorale; di più nel Sud dove la vita politica era un meschino mondo concentrico, gravitante attorno al fatto elettorale, in cui il deputato era un eroe…

PORZIO. Ma nessun eroe! Erano delle persone elevate. Che significa questo?

LUSSU. Collega Porzio, poiché ci divide questa concezione sul collegio uninominale…

PORZIO. Sì, ma senza gratuite offese!

LUSSU. No, è esperienza di vita politica.

PORZIO. No.

LUSSU. È maturazione di coscienza politica…

PORZIO. Posso fare l’elenco dei collegi uninominali del Sud!

PRESIDENTE. Onorevole Porzio, è una questione controversa.

PORZIO. Sì, ma non è tollerabile più questo eterno Nord e Sud!

PRESIDENTE. La prego, onorevole Porzio, non interrompa.

PORZIO. Noi non abbiamo inventato Mussolini, non abbiamo eretto cappelle votive!

PRESIDENTE. Onorevole Porzio, se vuole la parola, la chieda, altrimenti devo pregarla di tacere.

LUSSU. Consiglio il collega Porzio, per la buona conservazione della sua salute, ad uscire, perché devo dirne di più grosse.

PORZIO. Ed io interromperò! (Si ride).

LUSSU. Comunque, io non sarò addolorato dalle sue interruzioni.

Nel mezzogiorno, dicevo, il deputato eletto a collegio uninominale era una specie di eroe da melodramma dalla cui voce dipendevano gli attori, i cori, l’orchestra, il pubblico. È del Sud che io parlo, di cui ho una viva e profonda esperienza.

Io, ancora giovanissimo, quasi ragazzo, ho visto il deputato del collegio uninominale entrare al palazzo di Prefettura, dal prefetto, seguito da uno stuolo di elettori clienti i quali per il loro numero, provenienti da differenti villaggi…

MAZZA. Anche adesso.

LUSSU. …occupavano non solo l’anticamera, ma le scale e la piazza.

MANCINI. Questo avviene anche con la proporzionale.

MAZZA. È la stessa cosa.

LUSSU. Ho conosciuto, ancora giovanissimo, dei deputati a collegio uninominale ricevere dei telegrammi dai loro elettori, dai quali erano invitati a giocare una quaterna secca o un ambo alla ruota di Roma. Ho conosciuto dei deputati a collegio uninominale i quali, così come oggi noi perdiamo il tempo correndo da un Ministero all’altro, correvano da un negozio all’altro della capitale per comprare scarpe o liquori per le nozze prossime dei loro elettori. E persino ho conosciuto un deputato a collegio uninominale ricevere la richiesta dagli eiettori del suo collegio perché acquistasse un ordigno speciale per i fuochi artificiali della festa del Santo patrono. Ed ho conosciuto un deputato a collegio uninominale, qui dentro, che dopo che il Governo aveva posto il voto di fiducia, parlò chiedendo la strada per il suo villaggio e subordinò la concessione del voto favorevole alla costruzione di questa strada.

Togliatti non insista su questo collegio uninominale, che è la corruzione certa della coscienza politica del Mezzogiorno e delle Isole.

Io capisco che ci sono dei correttivi, ed uno ne è l’istituto autonomistico, per cui molti problemi vanno discussi e risolti sul posto, ma questo istituto è stato così manipolato durante la sua discussione che è molto tenue e stentato. La gran parte dei problemi, per la continuità dei rapporti che legano la periferia col centro, si risolveranno qui, per cui il deputato a collegio uninominale sarebbe uno strumento (non l’onorevole Porzio, che è un asso…).

PORZIO. Ma che asso!

LUSSU. …uno strumento di una vita fatta di meschinità, di questioni e favori personali, di un’attività costante cui sfugge sempre il problema centrale, che per la democrazia è l’interesse generale.

Io mi auguro che questa Assemblea fatta più saggia dall’esame obiettivo e sereno dei vari progetti che abbiamo esaminato, rinunzi non soltanto al collegio uninominale (il collegio uninominale non deve più ritornare in Italia se vogliamo elevare le nostra coscienza politica nazionale) ma arrivi anche a sopprimere definitivamente la seconda Camera.

Io credo che è un errore quello che molti colleghi democratici pensano: che con le due Camere la democrazia sia più corretta, più moderna, più onesta e più seria.

Io credo agli istituti parlamentari, perché credo alla democrazia.

Ma non credo affatto che la democrazia sia compendiata esclusivamente nell’istituto parlamentare: la democrazia vive non solo al Parlamento, ma vive vieppiù alla periferia, alla base, nella coscienza dei cittadini anzitutto, nell’educazione dei cittadini, nella moralità del popolo, nella moralità politica. Rivive nelle Camere del lavoro, nelle cooperative, nei sindacati, nei comuni, anche nei villaggi più lontani, rivive in qualunque parte i cittadini vivano la loro vita collettiva e partecipino consapevolmente alla vita dello Stato.

È a questa forma di democrazia alla base che devono andare gli sforzi e i desideri del l’Assemblea Costituente! (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Giannini, Adonnino, De Filpo, Cairo, Bernamonti, Buffoni, iscritti a parlare, sono assenti.

Gli onorevoli Minio, Laconi e Fuschini hanno dichiarato di rinunziare.

Onorevoli colleghi, restano per domani iscritti a parlare due deputati, e poi i relatori.

Considero pertanto che tutti coloro che non hanno preso la parola al momento in cui ho fatto l’appello del loro nome, abbiano rinunziato a parlare

Domani parleranno ancora gli onorevoli Nitti e Sforza e poi darò la parola ai relatori, cosicché per domani sera avremo terminato questa discussione generale e mercoledì passeremo allo svolgimento degli emendamenti.

FUSCHINI. Sarebbero dovuti decadere anche gli altri iscritti.

PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, suppongo che lei non voglia dire che ho evitato oggi di far decadere, per obbligo di Regolamento, un notevole numero di colleghi. Ho fatto l’appello di 26 nomi.

FUSCHINI. Avrebbe potuto farlo di 28, onorevole Presidente.

PRESIDENTE. Hanno parlato due colleghi; 24 non hanno risposto, o hanno dichiarato di rinunziare alla parola. Per oggi è sufficiente.

Comunque, ella sa che può presentare un ordine del giorno da svolgersi entro i 20 minuti regolamentari. Questo dico anche per gli altri colleghi che volessero portare almeno in questa maniera il loro contributo alla nostra discussione. Si tenga tuttavia presente che l’ordine del giorno, per poter essere svolto, deve essere presentato prima della chiusura della discussione.

Presentazione di disegni di legge.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare per la presentazione di alcuni disegni di legge.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Ho l’onore di presentare all’Assemblea Costituente i seguenti tre disegni di legge:

1°) «Approvazione degli accordi di carattere economico stipulati in Roma fra l’Italia ed i Paesi Bassi il 30 agosto 1946»;

2°) «Approvazione degli accordi di Carattere economico stipulati a Roma fra l’Italia e la Danimarca il 2 marzo 1946»;

3°) «Approvazione degli accordi di carattere economico stipulati in Roma, fra l’Italia e l’Ungheria il 9 novembre 1946».

PRESIDENTE. Do atto al Ministro degli affari esteri della presentazione di questi disegni di legge che saranno trasmessi alla Commissione competente.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Targetti, De Michelis, Vernocchi, Minio, Montagnana Rita, Marchesi, Lussu e Cianca hanno presentato la seguente interrogazione urgente al Ministro dei trasporti:

«Per sapere se non gli risulti che mentre si è solleciti a promuovere gli epurati, favorendoli anche col fissarne l’anzianità nel nuovo grado dal gennaio dell’anno scorso, si procede con una lentezza ostruzionistica alla riassunzione in servizio ed alla ricostruzione della carriera dei ferrovieri che la persecuzione fascista esonerò, facendo nascere la persuasione, sia negli interessati che in quanti altri sono a conoscenza della cosa, che gli organi burocratici competenti siano fuorviati nell’adempimento del loro dovere da inconsolabili nostalgie fasciste».

Interesserò il Ministro dei trasporti, che non è presente, affinché dichiari se riconosce l’urgenza dell’interrogazione e quando intenda rispondervi.

Interrogazione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Lussu, Targetti, Canevari e Nasi hanno presentato la seguente interrogazione al Ministro degli affari esteri:

«Per conoscere se risponda al vero che i funzionari del Ministero degli esteri, che giurarono fedeltà al governo di Salò e a questo prestarono il loro servizio sino alla fine, stiano per essere riassunti in carriera. Nel caso affermativo, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere per impedire che la rappresentanza italiana all’estero possa essere affidata a tali elementi».

Invito l’onorevole Ministro degli affari esteri a manifestare quando creda di poter rispondere a questa interrogazione.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Benché non preparato da precise informazioni a rispondere a questa interrogazione, credo che il desiderio degli onorevoli interroganti sarà sodisfatto se io dirò loro che è esatto che gli agenti del Ministero degli esteri che servirono la repubblica di Salò sono rientrati nei ruoli del Ministero degli esteri: ma ciò è accaduto in seguito ad una precisa decisione di organi supremi quale il Consiglio di Stato, basata su un vizio formale del provvedimento di collocamento a riposo.

Questa è stata l’obbedienza ad una formalità; ma è mio desiderio precisare che quei funzionari subito dopo essere rientrati automaticamente a causa di detta decisione ed essere stati da me contemporaneamente sospesi dal grado e dallo stipendio in attesa di un procedimento disciplinare potranno, in base a decisione giuridicamente ineccepibile, essere nuovamente ricacciati. (Approvazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LUSSU. Mi dichiaro perfettamente sodisfatto e ringrazio l’onorevole Ministro degli affari esteri per questa sua affermazione così precisa che non lascia dubbi. Mi permetto profittare di questa occasione per ricordare all’onorevole Ministro degli affari esteri se non sia il caso di pensare finalmente a quei funzionari che nel 1928 entrarono al Ministero degli affari esteri esclusivamente per meriti fascisti, compromettendo il prestigio della nostra rappresentanza.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Questo è un altro problema, che esula dalla interrogazione cui ho testé risposto. Né parlerò confidenzialmente con l’amicò Lussu (Commenti).

LUSSU. Grazie!

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Domani vi saranno due sedute: alle 10 per il seguito della discussione del disegno di legge sull’elettorato attivo e sulla revisione annuale delle liste elettorali; alle 16 per proseguire l’esame del progetto di Costituzione.

FUSCHINI Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Per domani mattina alle 10 sono convocate le Commissioni permanenti per l’esame dei disegni di legge. Si potrebbe tenere seduta soltanto il pomeriggio, anche per discutere la legge sull’elettorato attivo, che rientra fra i compiti istituzionalmente demandati all’Assemblea.

PRESIDENTE. Abbiamo in linea generale concordato di destinare le sedute mattutine alla discussione dei disegni di legge; e pertanto bisogna tenere delle sedute la mattina se vogliamo condurre a conclusione questo disegno di legge già discusso in due sedute antimeridiane.

FUSCHINI. Per domani mattina sono convocate tutte e tre le Commissioni permanenti.

PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, solo la seconda Commissione e la terza: quindi due Commissioni, non tre.

FABBRI. C’è anche quella degli statuti regionali.

PRESIDENTE. Allora invece che alle 10, fissiamo la seduta alle 11.

FUSCHINI. Si potrebbe tener seduta soltanto nel pomeriggio.

PRESIDENTE. No, i pomeriggi devono essere riservati sempre e soltanto al progetto di Costituzione; non possiamo incominciare a trasferirvi anche i disegni di legge.

FUSCHINI. Per quanto riguarda il progetto di Costituzione noi abbiamo guadagnato molto tempo su quello che lei ha ultimamente previsto.

PRESIDENTE. Non possiamo che compiacercene. Ma siccome lunedì mattina non abbiamo tenuto seduta, martedì bisogna farla. Lei ricorda, i colleghi tutti certamente ricordano, che il disegno di legge sull’elettorato attivo avrebbe dovuto essere discusso prima dell’inizio delle vacanze. In quel momento da parte del Ministero dell’interno era venuta anzi al proposito una sollecitazione, forse più urgente del necessario. Da allora è passato un mese e mezzo e credo che sia giunto davvero il tempo di concludere sull’argomento, in modo che gli uffici amministrativi competenti siano posti in grado di tradurre in pratica quelle che saranno le decisioni del l’Assemblea.

Comunque, considerato che per domani mattina alle 10 sono convocate due Commissioni permanenti, invece che alle dieci cominceremo la seduta alle 11. Non resta più d’altronde che un articolo, sul quale anzi il dibattito si è già in parte svolto.

Faccio presente ai colleghi che dopo il termine della seduta pomeridiana l’Assemblea si riunirà in Comitato segreto per esaminare e decidere alcuni problemi interni di carattere tecnico-amministrativo.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere se non ritenga giusto ed opportuno estendere l’indennità di caropane istituita con decreto legislativo 6 maggio 1947, n. 433, a favore dei pensionati dello Stato ed Amministrazioni autonome, anche ai titolari di assegni di medaglie al valor militare, i quali attualmente ricevono per medaglia di bronzo un assegno di circa lire 20 mensili e per medaglia d’argento di lire 57. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere quali provvedimenti abbia adottato o intenda adottare al fine di provvedere all’assistenza dei ciechi di Italia, i quali, tramite gli organi centrali del l’Unione nazionale ciechi, il 3 maggio 1947, gli hanno presentato apposito pro-memoria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Russo Perez».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi a favore degli studenti che si iscrissero e frequentarono i corsi di quella scuola di medicina e chirurgia che si istituì in Asmara nel 1941 a seguito delle cessate relazioni con la Madre Patria, e vi sostennero regolari esami alla fine di ogni corso.

«La Facoltà di medicina di Roma, interessata dal Ministero della pubblica istruzione, nella seduta del 25 febbraio 1945 esprimeva parere favorevole al riconoscimento degli studi compiuti, non autorizzando per altro la Scuola al conferimento della laurea. Riconfermava tale parere favorevole nella seduta dell’11 aprile 1946.

«Oggi molti studenti sono in grado di conseguire la laurea in Patria, solo a seguito delle opportune decisioni del Ministero della pubblica istruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«La Gravinese Nicola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quanto ci sia di vero nella notizia, ampiamente diffusa in provincia di Chieti, e riferita anche dalla stampa, secondo la quale il prefetto di detta provincia avrebbe già deciso – e sarebbe in procinto di emettere il relativo decreto – di costituire la Deputazione provinciale chiamandovi a farne parte, quali membri effettivi, cinque democristiani, tre liberali ed un qualunquista, i quali sono, ad eccezione del presidente, tutti monarchici, dimenticando che siamo in Repubblica e senza tenere nemmeno conto dei risultati non solo delle elezioni amministrative ma anche di quelli delle elezioni politiche, nelle quali ultime le varie liste riportarono la seguente votazione: Partito democristiano, voti 84.264; Unione democratica indipendente lavoro e libertà, 20.365; Partito repubblicano, 18.205; Partito socialista italiano, 13.339; Unione democratica nazionale, 11.845; Partito, comunista, 9948; Fronte dell’Uomo qualunque, 6151; Partito d’azione, 5722. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, per sapere se sia vero:

che nell’agosto 1946 il Ministero dei lavori pubblici dispose la costruzione di due case asismiche nel comune terremotato di Sant’Egidio alla Vibrata (Teramo), lungo la via Adriatica;

che successivamente, per l’intervento del solo sindaco, il quale agì senza il parere della Giunta e del Consiglio comunale, l’ingegnere capo del Genio civile di Teramo propose che la costruzione avvenisse in altra località con onere maggiore per lo Stato e per il comune, dovendo colà crearsi un’apposita via d’accesso, con nuove fognature e nuovi impianti idrici, e con enorme danno di vari piccoli proprietari, aventi solo un ristretto spazio intorno alle proprie case;

che, su ricorso dei predetti, il prefetto ordinò un altro sopraluogo del Genio civile, che dié ad essi ragione;

che nuovamente si oppose il sindaco provocando un altro accesso sul posto dell’ingegnere capo dello stesso Genio civile il quale, pubblicamente e con consenso del pro-sindaco e di due assessori, confermò che il sito migliore, sotto ogni aspetto, era quello originariamente prescelto in Via Adriatica;

che però insorse ancora il sindaco, in odio a quei piccoli proprietari, suoi avversari politici, e, per evitare che la costruzione avvenisse in quello stesso sito, autorizzò un cittadino ad edificarvi una officina meccanica;

che, fatto novello ricorso al prefetto di Teramo, questi, con lettera del 20 maggio, rispose testualmente: «Esaminati attentamente gli atti e dopo aver interessato il Genio civile, si ritiene che l’area più idonea alla costruzione delle case asismiche è quella sita lungo la Via Adriatica»;

che si addivenne finalmente all’asta ed all’aggiudicazione dei lavori, per l’importo di 25 milioni, mentre quello preventivato nel 1946 era di 12 milioni;

che il 2 agosto doveva avvenire la consegna dei lavori stessi ma, per ordini giunti dall’alto, a seguito dell’intervento di un deputato democristiano, sollecitato e divulgato dal sindaco, che è dello stesso Partito, essa venne sospesa e pare che sia il Ministero, sia il Provveditorato di Aquila, sia il Genio civile di Teramo, sia il prefetto abbiano cambiato parere, decidendo che la costruzione in oggetto non avvenga più, nonostante l’asta e l’aggiudicazione già eseguite, in quell’area della Via Adriatica! (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere se non ritengano urgente provvedere alla costruzione del carcere giudiziario a Foggia, in considerazione che dopo lo smantellamento di quello vecchio, attualmente viene adibito ad uso di carcere un vecchio asilo di mendicità.

«Detto provvedimento è tanto più urgente, in quanto una grave disoccupazione affligge questa città, particolarmente nel campo dell’edilizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Imperiale».,

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministro dell’interno, per sapere se intenda, con urgente provvedimento, disporre che per gli attuali concorsi di sanitari condotti il limite di età sia elevato ad anni 50 nei confronti dei mutilati ed invalidi della guerra 1915-18 che abbiano partecipato a concorsi sospesi a causa della guerra 1940-43, non essendo giusto che esso, che è stato fissato per molti concorsi in altre Amministrazioni dello Stato, non sia esteso ai sanitari condotti che si trovano in questa speciale ed apprezzabile condizione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tripepi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e dell’industria e commercio, per conoscere se sono stati edotti che le assegnazioni del ferro per Messina restano regolarmente inevase sin dal 1946 a tutt’oggi, con evidente arresto della ricostruzione della città quasi del tutto distrutta dagli eventi bellici e larga persistenza di disoccupazione.

«Per conoscere, altresì, se ritengano di emanare in merito quei provvedimenti opportuni, adatti ed efficaci per l’urgente eliminazione di tanto interessato inconveniente. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Salvatore».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 17.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali. (16).

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Al termine della seduta: Comitato segreto.

SABATO 13 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXVII.

SEDUTA DI SABATO 13 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali (Seguito della discussione):

Presidente

Cosattini

Uberti, Relatore

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Buffoni

Bettiol

Mannironi

Schiavetti

Fuschini

Veroni

Scelba, Ministro dell’interno

Covelli

Coppi

Fabbri

Bencivenga

Lussu

Giua

Patricolo

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Scelba, Ministro dell’interno

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 10.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Tosi.

(È concesso).

Seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali. (16).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

Ricordo che nell’ultima seduta era stato approvato l’articolo 29. Dobbiamo ora passare all’articolo 30. Avverto che il Governo ha presentato diversi emendamenti concordati con la Commissione.

Si dia lettura dell’articolo 30.

RICCIO, Segretario, legge:

«Non più tardi del 31 dicembre il sindaco, con avviso da affiggersi all’albo comunale e in altri luoghi pubblici, invita chiunque intenda proporre ricorsi contro la ripartizione del comune in sezioni, la circoscrizione delle sezioni, la determinazione dei luoghi di riunione di ciascuna di esse, l’assegnazione degli elettori alle singole sezioni e il trasferimento di essi da una ad altra sezione, a presentarli entro il 15 gennaio alla Commissione elettorale mandamentale, anche per tramite dell’ufficio comunale che ne rilascia ricevuta.

«Durante questo periodo, il testo della deliberazione di cui all’articolo 26, con i documenti relativi e con un esemplare delle liste di sezione, deve rimanere depositato nella segreteria del comune perché ogni cittadino possa prenderne visione.

«Dell’avvenuta pubblicazione dell’avviso è data immediata notizia al prefetto, al quale dev’essere trasmessa, altresì, una copia della deliberazione.

«Il sindaco, non oltre il 25 gennaio, trasmette al presidente della Commissione elettorale mandamentale il testo della deliberazione con i documenti e gli eventuali ricorsi presentati, insieme con due esemplari delle liste delle nuove sezioni e l’elenco delle variazioni apportate alle liste delle sezioni preesistenti.

«Entro il 31 marzo la Commissione mandamentale decide sui reclami, approva le nuove liste di sezione, e le variazioni a quelle delle sezioni preesistenti, tenendo conto delle decisioni adottate ai sensi dell’articolo 22 e autentica le liste, attestando in calce a ciascuna di esse il numero degli elettori che vi sono compresi, dopo aver riportato, sopra i due esemplari delle liste relative alle sezioni preesistenti depositati presso di essa le variazioni già approvate.

«Il Presidente vidima ciascun foglio con la propria firma e il bollo della Commissione.

«I due esemplari delle liste di sezione restano depositati nell’ufficio della Commissione elettorale mandamentale fino a quando non saranno indette le elezioni.

«Le decisioni della Commissione mandamentale sono immediatamente comunicate alla Commissione comunale che apporta all’altro esemplare delle liste le conseguenti variazioni.

«Entro quindici giorni dalla comunicazione, il sindaco provvede, con le modalità di cui all’articolo 17, ultimo comma, a notificare agli interessati le decisioni della Commissione sui reclami proposti.

«La Commissione mandamentale, qualora accerti, d’ufficio o su denunzia degli interessati, l’esistenza di errori materiali di scritturazione od omissioni di nomi di elettori regolarmente iscritti nelle liste generali, può apportare le occorrenti variazioni alle liste di sezione fino al secondo giorno antecedente a quello delle elezioni, dandone immediata notizia al sindaco che provvede ad informarne tempestivamente i presidenti delle singole sezioni».

PRESIDENTE. A questo articolo il Governo ha proposto il seguente emendamento:

«Scinderlo nei due articoli seguenti:

Art. 30.

«Nori più tardi del 31 dicembre il sindaco, con manifesto da affiggersi all’albo comunale e in altri luoghi pubblici, invita chiunque intenda proporre ricorsi contro la ripartizione dei comune in sezioni, la circoscrizione delle sezioni, la determinazione dei luoghi di riunione di ciascuna di esse, l’assegnazione degli elettori alle singole sezioni e il trasferimento di essi da una ad altra sezione, a presentarli entro il 15 gennaio alla Commissione elettorale mandamentale, anche per tramite del Comune che ne rilascia ricevuta.

«Durante questo periodo, la deliberazione di cui all’articolo 26, corredata dei documenti relativi e di un esemplare delle liste di sezione, rimane depositata nell’ufficio comunale perché ogni cittadino possa prenderne visione.

«Dell’avvenuta pubblicazione del manifesto è data immediata notizia al prefetto, al quale dev’essere trasmessa, altresì, una copia della deliberazione.

«Il sindaco, non oltre il 25 gennaio, trasmette al presidente della Commissione elettorale mandamentale la deliberazione di cui all’articolo 26 con i documenti e gli eventuali ricorsi presentati, insieme con due esemplari delle liste delle nuove sezioni e l’elenco delle variazioni apportate alle liste delle sezioni preesistenti.

«Per la ricezione degli atti da parte della Commissione elettorale mandamentale e per gli eventuali inadempimenti del Comune, si osservano le disposizioni di cui al terzo e quarto comma dell’articolo 21».

Art. 30-bis.

«Entro il 31 marzo la Commissione mandamentale decide sui reclami, approva le nuove liste di sezione, e le variazioni a quelle delle sezioni preesistenti, tenendo conto delle decisioni adottate ai sensi dell’articolo 22 e autentica le liste, attestando in calce a ciascuna di esse il numero degli elettori che vi sono compresi, dopo aver riportato sopra i due esemplari delle liste relative alle sezioni preesistenti depositati presso di essa, le variazioni già approvate:

«Il presidente vidima ciascun foglio con la propria firma e il bollo della Commissione.

«I due esemplari delle liste di sezione restano depositati nell’ufficio della Commissione elettorale mandamentale.

«Le decisioni della Commissione mandamentale sono comunicate, entro lo stesso termine di cui sopra, alla Commissione comunale che apporta all’altro esemplare delle liste le conseguenti variazioni.

«La Commissione mandamentale, qualora accerti, d’ufficio o su denunzia degli interessati, l’esistenza di errori materiali di scritturazione od omissioni di nomi di elettori regolarmente iscritti nelle liste generali, può apportare le occorrenti variazioni alle liste di sezione fino al secondo giorno antecedente a quello delle elezioni, dandone immediata notizia al sindaco che provvede ad informarne tempestivamente i presidenti delle singole sezioni».

Pongo in discussione l’articolo 30 nel nuovo testo.

Chiedo alla Commissione se lo accetta.

UBERTI, Relatore. La Commissione lo accetta.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. Questo progetto prevede un eccessivo numero di scritturazioni. Si prevede la formazione di tre liste, una delle quali dovrebbe essere depositata presso la Commissione mandamentale. Io vorrei sapere dalla Commissione quale è la funzione di queste tre liste e richiamo l’attenzione dell’Assemblea sul costo di queste scritturazioni e sulla spesa cui si va incontro.

Trovo detto qui: «…Il sindaco, non oltre il 25 gennaio, trasmette al presidente della Commissione elettorale mandamentale la deliberazione di cui all’articolo 26 con i documenti e gli eventuali ricorsi presentati, insieme con due esemplari delle liste delle nuove sezioni e l’elenco delle variazioni apportate alle liste delle sezioni preesistenti».

Poiché il numero massimo degli elettori per ogni sezione è stato portato ad 800, si renderà necessario presentare un elenco per tutte le sezioni. Sarebbe questo un quarto elenco di tutti gli elettori. Ecco perché, per semplificare, vorrei, quindi, che si dicesse che le liste debbono essere accompagnate dall’elenco delle variazioni per le nuove iscrizioni per evitare di dare un nuovo elenco.

PRESIDENTE. Onorevole Cosattini, lei così presenta un emendamento. La prego di depositarne il testo al banco della Presidenza.

L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. Alla terza lista depositata presso la Commissione mandamentale non si può rinunciare, perché il deposito delle liste e la loro conservazione da parte della Commissione mandamentale sono garanzie contro possibili manomissioni delle liste nelle mani del Comune. Quindi, trattandosi di una garanzia per tutti, ritengo che anche l’onorevole Cosattini vi aderirà. Invece importante è la sua osservazione riguardante le limitazioni delle variazioni alle nuove iscrizioni e alle cancellazioni, perché dovendosi rifondere tutte quante le sezioni per ridurle da mille elettori a 800, ne risulterebbe che le liste delle variazioni comprenderebbero di fatto tutti gli iscritti, mentre quello che è importante per la Commissione mandamentale è di conoscere solo le nuove iscrizioni oppure le cancellazioni, per portare su questi punti maggiormente la propria attenzione.

Quindi l’emendamento proposto dall’onorevole Cosattini per questa parte ritengo che possa essere utilmente accettato.

PRESIDENTE. L’onorevole Marazza ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Concordo con il Relatore.

PRESIDENTE. L’emendamento Cosattini è del seguente tenore:

Al quarto comma, dopo le parole: «elenco delle variazioni» aggiungere le altre: «per nuove iscrizioni o per radiazioni».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Pongo in votazione l’art. 30 che, con l’emendamento Cosattini testé approvato, è del seguente tenore:

«Non più tardi del 31 dicembre il sindaco, con manifesto da affiggersi all’albo comunale e in altri luoghi pubblici, invita chiunque intenda proporre ricorsi contro la ripartizione del comune in sezioni, la circoscrizione delle sezioni, la determinazione dei luoghi di riunione di ciascuna di esse, l’assegnazione degli elettori alle singole sezioni e il trasferimento di essi da una ad altra sezione, a presentarli entro il 15 gennaio alla Commissione elettorale mandamentale, anche per tramite del Comune che ne rilascia ricevuta.

«Durante questo periodo, la deliberazione di cui all’articolo 26, corredata dei documenti relativi e di un’esemplare delle liste di sezione, rimane depositata nell’ufficio comunale perché ogni cittadino possa prenderne visione. Dell’avvenuta pubblicazione del manifesto è data immediata notizia al prefetto, al quale dev’essere trasmessa, altresì, una copia della deliberazione.

«Il sindaco, non oltre il 25 gennaio, trasmette al presidente della Commissione elettorale mandamentale la deliberazione di cui all’articolo 26 con i documenti e gli eventuali ricorsi presentati, insieme con due esemplari delle liste delle nuove sezioni e l’elenco delle variazioni per nuove iscrizioni o per radiazioni apportate alle liste delle sezioni preesistenti.

«Per la ricezione degli atti da parte della Commissione elettorale mandamentale, e per gli eventuali inadempimenti del Comune, si osservano le disposizioni di cui al terzo e quarto comma dell’articolo 21».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 30-bis del quale è stata data lettura e che è una parte del primitivo articolo 30, che Commissione e Governo hanno convenuto di dividere in due articoli.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. Faccio rilevare che se il presidente della Commissione vidima ciascun foglio con la propria firma dovrà sottoporsi ad una fatica improba per firmare migliaia e migliaia di copie! Non sarebbe sufficiente il solo timbro?

UBERTI, Relatore. La firma è l’unico metodo di vera garanzia: il timbro lo possono mettere anche altri, là firma no. È meglio lasciarla.

COSATTINI. Non insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 30-bis.

(È approvato).

Passiamo al Titolo IV «Dei ricorsi giudiziari». Si dia lettura dell’articolo 31.

RICCIO, Segretario, legge:

«Contro le decisioni della Commissione elettorale mandamentale o delle sue Sottocommissioni, qualsiasi cittadino può proporre impugnativa davanti alla Corte d’appello con semplice ricorso, sul quale il presidente fissa, con decreto, l’udienza di discussione della causa in via d’urgenza.

«Analoga azione può essere promossa per falsa o erronea rettificazione delle liste elettorali, fatta a norma dell’articolo 23, secondo comma.

«Il ricorso dev’essere notificato, col relativo decreto di fissazione d’udienza, all’elettore o agli elettori interessati ed alla Commissione elettorale, a pena di nullità, entro venti giorni dalla notificazione di cui al penultimo comma dell’articolo 23 se è proposto dallo stesso cittadino che aveva reclamato o aveva presentato direttamente alla Commissione una domanda d’iscrizione o era stato dalla Commissione medesima cancellato dalle liste; entro trenta giorni dall’ultimo giorno di pubblicazione della lista rettificata, negli altri casi».

PRESIDENTE. Il Governo propone di sostituire l’ultimo comma col seguente:

«Il ricorso dev’essere notificato, col relativo decreto di fissazione d’udienza, all’elettore o agli elettori interessati ed alla Commissione elettorale, a pena di nullità, entro venti giorni dalla notificazione di cui al penultimo comma dell’articolo 23 se è proposto dallo stesso cittadino che aveva reclamato o aveva presentato direttamente alla Commissione una domanda d’iscrizione o era stato dalla Commissione medesima cancellato dalle liste; entro trenta giorni dall’ultimo giorno di pubblicazione della lista rettificata, negli altri casi. I termini anzidetti sono raddoppiati per i cittadini emigrati all’estero di cui all’articolo 11».

Questo emendamento è stato accettato dalla Commissione.

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 31 che, con l’emendamento testé approvato, è del seguente tenore.

«Contro le decisioni della Commissione elettorale mandamentale o delle sue Sottocommissioni, qualsiasi cittadino può proporre impugnativa davanti alla Corte d’appello con semplice ricorso, sul quale il presidente fissa, con decreto, l’udienza di discussione della causa in via d’urgenza.

«Analoga azione può essere promossa per falsa o erronea rettificazione delle liste elettorali, fatta a norma dell’articolo 23, secondo comma.

«Il ricorso dev’essere notificato, col relativo decreto di fissazione d’udienza, all’elettore o agli elettori interessati ed alla Commissione elettorale, a pena di nullità, entro venti giorni dalla notificazione di cui al penultimo comma dell’articolo 23 se è proposto dallo stesso cittadino che aveva reclamato o aveva presentato direttamente alla Commissione una domanda d’iscrizione o era stato dalla Commissione medesima cancellato dalle liste; entro trenta giorni dall’ultimo giorno di pubblicazione della lista rettificata, negli altri casi. I termini anzidetti sono raddoppiati per i cittadini emigrati all’estero di cui all’articolo 11».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 32. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il ricorso coi relativi documenti dev’essere, a pena di decadenza, depositato nella cancelleria della Corte di appello entro dieci giorni dalla notifica. La causa è decisa, senza che occorra ministero di procuratore o di avvocato, sulla relazione fatta in udienza pubblica da un consigliere della Corte, sentite le parti o i loro difensori, se si presentano, ed il pubblico ministero nelle sue conclusioni orali.

«Qualora il ricorso sia riconosciuto temerario o manifestamente infondato, la Corte di appello, con la medesima sentenza di rigetto, condanna il reclamante al pagamento a favore dell’erario dello Stato di una somma da lire 1.000 a lire 5.000».

PRESIDENTE. Il Governo propone di sostituire il secondo comma col seguente:

«Per i cittadini emigrati all’estero, il ricorso è depositato entro il termine di sessanta giorni dalla data della notificazione».

Questo emendamento è accettato dalla Commissione. Lo metto ai voti.

(È approvato).

L’articolo 32 pertanto risulta così modificato

«Il ricorso coi relativi documenti dev’essere, a pena di decadenza, depositato nella cancelleria della Corte di appello entro dieci giorni dalla notifica. La causa è decisa, senza che occorra ministero di procuratore o di avvocato, sulla relazione fatta in udienza pubblica da un consigliere della Corte, sentite le parti o i loro difensori, se si presentano, ed il pubblico ministero nelle sue conclusioni orali.

«Per i cittadini emigrati all’estero, il ricorso è depositato entro il termine di sessanta giorni dalla data della notificazione».

Lo pongo in votazione con l’intesa che rimane impregiudicato il problema del diritto di voto dei cittadini italiani nati all’estero sul quale, come si ricorderà, l’Assemblea si è riservata di decidere.

(È approvato).

Segue l’articolo 33. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il ricorso può essere proposto anche dal procuratore della Repubblica presso il tribunale competente per territorio nello stesso termine e con le stesse modalità di cui ai precedenti articoli 31 e 32; nel medesimo termine, il procuratore della Repubblica, qualora riscontri nel fatto che ha dato origine al ricorso estremi di reato, promuove l’azione penale».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 34. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il pubblico ministero comunica immediatamente le sentenze della Corte di appello al presidente della Commissione elettorale mandamentale nonché al sindaco, il quale ne cura l’esecuzione e la notificazione, senza spesa, agli interessati.

«La sentenza della Corte di appello può essere impugnata dalla parte soccombente col ricorso in Cassazione, anche senza ministero di avvocato. Può essere impugnata anche dal procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello che ha emesso la decisione.

«Tutti i termini del procedimento sono ridotti alla metà.

«Sul semplice ricorso il presidente fissa, in via d’urgenza, l’udienza per la discussione della causa. La decisione è immediatamente pubblicata e comunicata alle autorità di cui al primo comma».

PRESIDENTE. Il Governo propone il seguente emendamento, accettato dalla Commissione:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«Le sentenze della Corte d’appello sono comunicate immediatamente dalla cancelleria, oltreché al presidente della Commissione elettorale mandamentale, al sindaco che ne cura l’esecuzione e la notificazione, senza spesa, agli interessati».

Lo pongo in voti.

(È approvato).

Il Governo ha anche proposto il seguente emendamento, pure accettato dalla Commissione:

Sostituire il terzo e il quarto comma col seguente:

«Tutti i termini del procedimento sono ridotti alla metà, fatta eccezione per i ricorsi dei cittadini emigrati all’estero. Sul semplice ricorso il presidente fissa, in via di urgenza, l’udienza per la discussione della causa. La decisione è immediatamente pubblicata. Per l’esecuzione e notificazione delle sentenze della Corte di cassazione si osservano le disposizioni di cui al primo comma».

Do lettura dell’articolo 34 con gli emendamenti testé approvati:

«Le sentenze della Corte d’appello sono comunicate immediatamente dalla cancelleria, oltreché al presidente della Commissione elettorale mandamentale, al sindaco che ne cura l’esecuzione e la notificazione, senza spesa, agli interessati.

«La sentenza della Corte di appello può essere impugnata dalla parte soccombente col ricorso in Cassazione, anche senza ministero di avvocato. Può essere impugnata anche dal procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello che ha emesso la decisione,

«Tutti i termini del procedimento sono ridotti alla metà, fatta eccezione per i ricorsi dei cittadini emigrati all’estero. Sul semplice ricorso il presidente fissa, in via di urgenza, l’udienza per la discussione della causa. La decisione è immediatamente pubblicata. Per l’esecuzione e notificazione delle sentenze della Corte di cassazione si osservano le disposizioni di cui al primo comma».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 35. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«I ricorsi giudiziari non hanno effetto sospensivo dei provvedimenti o delle decisioni contro i quali sono proposti».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo al Titolo V: «Disposizioni varie». Si dia lettura dell’articolo 36.

RICCIO, Segretario, legge:

«Qualora per effetto di modificazioni intervenute nelle circoscrizioni comunali occorra procedere alla compilazione delle liste elettorali di un nuovo comune, questo è tenuto a provvedervi, non oltre novanta giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale del decreto col quale è costituito, mediante stralcio dei propri elettori dalle liste del comune ex capo luogo.

«Le liste, compilate in conformità del comma precedente, sono immediatamente trasmesse alla Commissione elettorale mandamentale che, entro quindici giorni dalla recezione, le munisce del visto di autenticazione, restituendo uno degli esemplari al comune.

«La stessa procedura si applica nel caso in cui una o più frazioni o borgate si distacchino da un comune per essere aggregate ad un altro.

«Il termine previsto nel primo comma è ridotto della metà per le variazioni da apportarsi alle liste dei comuni nei quali si è verificato il distacco.

«Qualora la pubblicazione del decreto recante modificazioni nella circoscrizione di uno o più comuni avvenga prima che sia esaurita la procedura di revisione annuale, la compilazione delle liste e le variazioni di cui ai commi precedenti sono effettuate in tale sede, sempreché lo stato delle operazioni relative lo consenta.

«Nel caso in cui il decreto sia pubblicato dopo la convocazione dei comizi elettorali, i termini previsti dal presente articolo decorrono dal decimo giorno successivo a quello stabilito per le elezioni. Ove la convocazione sia stata indetta per la elezione dei Consigli comunali, i comizi sono sospesi con provvedimento del prefetto e i termini anzidetti decorrono dalla data del provvedimento di sospensione».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 36-bis. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«A richiesta dei comuni e delle Commissioni elettorali, i pubblici uffici devono fornire i documenti necessari per gli accertamenti relativi alla revisione delle liste».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Segue l’articolo 37. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Tutti gli atti concernenti l’esercizio del diritto elettorale, relativi al procedimento amministrativo o al giudiziario, sono redatti in carta libera ed esenti dalla tassa di registro, dal deposito in caso di soccombenza per il ricorso in cassazione e dalle spese di cancelleria».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 38. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«La copia delle liste generali di ciascun comune, autenticata dalla Commissione elettorale mandamentale, è conservata negli archivi della Commissione stessa, sotto la responsabilità del presidente.

«Le liste generali del comune devono essere riunite in uno o più registri debitamente numerati e conservate nell’archivio comunale.

«Le liste devono recare l’indicazione dell’anno e del numero di protocollo dell’incartamento relativo alla iscrizione di ciascun elettore.

«Chiunque può copiare, stampare o mettere in vendita le liste elettorali del comune».

PRESIDENTE. Il Governo ha proposto il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La copia delle liste generali di ciascun comune, autenticata dalla Commissione elettorale mandamentale, è conservata negli archivi della Commissione stessa».

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Faccio osservare che la norma: «sotto la responsabilità del presidente», che figurava nel testo ministeriale, non è stata soppressa ma è stata trasferita nelle Disposizioni penali in cui sono fissate le varie responsabilità e le rispettive sanzioni. Comunque, accetto l’emendamento.

PRESIDENTE. Dopo questo chiarimento del Relatore, pongo in votazione l’emendamento del Governo al secondo comma.

(È approvato).

L’articolo 38, con l’emendamento testé approvato, risulta così formulato:

«Gli atti relativi alla revisione annuale delle liste elettorali sono sempre ostensibili a chiunque.

«La copia delle liste generali di ciascun comune, autenticata dalla Commissione elettorale mandamentale, è conservata negli archivi della Commissione stessa.

«Le liste generali del comune devono essere riunite in uno o più registri debitamente numerati e conservate nell’archivio comunale.

«Le liste devono recare l’indicazione dell’anno e del numero di protocollo dell’incartamento relativo alla iscrizione di ciascun elettore.

«Chiunque può copiare, stampare o mettere in vendita le liste elettorali del comune».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Possiamo all’articolo 39. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sindaco o chi ne esercita le funzioni, i componenti delle Commissioni elettorali ed i rispettivi segretari sono personalmente responsabili della regolarità degli adempimenti loro assegnati dalla presente legge».

PRESIDENTE. Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 40. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«In caso di ritardo, da parte degli organi comunali, nell’adempimento dei compiti prescritti dalla presente legge, il prefetto delega un suo commissario.

«Le relative spese sono anticipate, salvo rivalsa verso chi di ragione, dal tesoriere comunale.

«Delle infrazioni alla legge, che hanno provocato l’invio del commissario, il prefetto dà notizia al procuratore della Repubblica presso il tribunale nella cui giurisdizione trovasi il comune».

PRESIDENTE. Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue il Titolo VI: «Disposizioni penali». Si dia lettura dell’articolo 41.

RICCIO, Segretario, legge:

«Chiunque, essendovi tenuto per legge, non compie, nei termini e modi prescritti, le operazioni per la revisione delle liste degli elettori, la compilazione e l’affissione degli elenchi o non fa eseguire le notificazioni relative, è punito con l’ammenda da lire 1.000 a lire 5.000.

«Se l’omissione è dolosa, la pena è della reclusione sino ad un anno e della multa da lire 2.000 a lire 10.000».

PRESIDENTE. Il Governo ha proposto il seguente emendamento, accettato dalla Commissione:

Sostituire il primo comma col seguente:

«Chiunque, essendovi obbligato per legge, non compie, nei termini e modi prescritti, le operazioni per la tenuta e la revisione delle liste degli elettori, la compilazione e l’affissione degli elenchi o non fa eseguire le notificazioni relative o non cura la conservazione delle liste e degli atti relativi, è punito con l’ammenda da lire 1.000 a lire 5.000».

L’articolo 41, con l’emendamento testé approvato, è del seguente tenore:

«Chiunque, essendovi obbligato per legge, non compie, nei termini e modi prescritti, le operazioni per la tenuta e la revisione delle liste degli elettori, la compilazione e l’affissione degli elenchi o non fa eseguire le notificazioni relative o non cura la conservazione delle liste e degli atti relativi, è punito con l’ammenda da lire 1.000 a lire 5.000.

«Se l’omissione è dolosa, la pena è della reclusione sino ad un anno e della multa da lire 2.000 a lire 10.000».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 42. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Chiunque iscrive nelle liste o negli elenchi un elettore che non aveva il diritto di essere iscritto o cancella un elettore che non doveva essere cancellato, ovvero non iscrive un elettore che aveva il diritto all’iscrizione o non cancella un elettore che doveva essere cancellato, ovvero include o sposta arbitrariamente schede dallo schedario di cui all’articolo 5, è punito con l’ammenda da lire 1.000 a lire 5.000.

«Se il fatto è doloso, la pena è della reclusione sino ad un anno e della multa da lire 2.000 a lire 10.000».

BUFFONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUFFONI. Ritengo che qui si faccia una certa confusione tra colpa e dolo. Vi sono fatti che evidentemente possono essere dovuti a negligenza ed anche fatti che possono essere voluti dolosamente. All’articolo 42 si parla di chi «include o sposta arbitrariamente schede…». Il concetto di spostare arbitrariamente non importa più il concetto di negligenza, ma di dolo.

PRESIDENTE. Faccio osservare che vi è il capoverso successivo in cui è detto: «se il fatto è doloso…».

BUFFONI. Ma quando si sposta arbitrariamente una scheda, non si tratta più di colpa, ma di dolo e mi pare, quindi, che l’avverbio «arbitrariamente» dovrebbe essere eliminato, perché se c’è un errore o negligenza non c’è arbitrio.

i» UBERTI, Relatore. Ma si può fare questo anche in buona fede.

BUFFONI. È un po’ difficile.

PRESIDENTE. Se gli onorevoli colleghi mi permettono di intervenire in questa discussione, vorrei osservare che l’onorevole Buffoni proporrebbe di sopprimere l’avverbio: «arbitrariamente», nel senso che se si ammette l’arbitrio si fa una presunzione di dolo.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Si potrebbe anche togliere l’avverbio «arbitrariamente». Rilevo però che vi possono essere tre ipotesi: che lo spostamento delle schede sia fatto d’ufficio, che sia fatto per errore, per negligenza e infine per dolo. Con la norma in questione si vuol punire il secondo caso, essendo il terzo, quello in cui concorra il dolo, punito nel comma successivo.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. Mi pare che il collega Buffoni sia caduto in equivoco. Può darsi che un impiegato, di sua spontanea iniziativa, compia un atto nella certezza di compiere qualche cosa di necessario, ed allora abbiamo un arbitrio in quanto egli può essere non autorizzato. Questo è un caso colposo.

MANCINI. Allora è un errore, non un arbitrio.

PRESIDENTE. L’onorevole Buffoni insiste nella sua proposta?

BUFFONI. Sì.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta Buffoni di sopprimere l’avverbio «arbitrariamente» del primo comma.

(Dopo prova e controprova, non è approvata).

Pongo in votazione l’articolo 42 nel testo della Commissione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 43. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Chiunque forma una lista o un elenco di elettori in tutto o in parte falsi, ovvero altera o sopprime, in tutto o in parte, una lista o un elenco di elettori, è punito con la reclusione sino a tre anni e con la multa da lire 3.000 a lire 20.000.

«Alla stessa pena soggiace chiunque sottrae od altera schede, registri e documenti relativi alle liste ed agli elenchi degli elettori».

Passiamo all’articolo 44. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Chiunque, con qualsiasi mezzo atto ad ingannare o sorprendere l’altrui buona fede, ottiene indebitamente per sé o per altri che sia effettuata un’iscrizione o non sia effettuata una cancellazione negli elenchi e nelle liste degli elettori o che sia effettuata la cancellazione d’uno o più elettori, è punito con la reclusione sino ad un anno e con la multa da lire 1.000 a lire 10.000.

«Tali pene sono aumentate di un sesto se il colpevole sia componente di una Commissione elettorale comunale o mandamentale».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Il Governo ha proposto un articolo 44-bis, accettato dalla Commissione. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Chiunque proponga, a termini dell’articolo 31, un’impugnativa avverso le decisioni della Commissione elettorale mandamentale o delle Sottocommissioni, o per falsa od erronea rettificazione delle liste elettorali, è punito, ove il ricorso sia riconosciuto temerario o manifestamente infondato, con la multa da lire 1.000 a lire 5.000.

«La condanna è pronunciata dalla Corte di appello con la medesima sentenza che rigetta l’impugnativa».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato)

Passiamo all’articolo 45. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Chiunque, contrariamente alle disposizioni della presente legge, rifiuta di pubblicare ovvero di far prendere notizia o copia degli elenchi e delle liste degli elettori e dei relativi documenti, è punito con la reclusione sino a sei mesi e con la multa da lire. 1.000 a lire 5.000».

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Segue l’articolo 46. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Le condanne per i reati previsti dal presente Titolo, ove venga dal giudice applicata la pena della reclusione, importano sempre l’interdizione dai pubblici uffici per un tempo non minore di due e non superiore a cinque anni.

«Il giudice può ordinare, in ogni caso, la pubblicazione della sentenza di condanna.

«Resta sempre salva l’applicazione delle maggiori pene stabilite nel Codice penale o in altre leggi per i reati non previsti dalla presente legge.

«Ai delitti dolosi previsti dal presente Titolo non sono applicabili le disposizioni degli articoli dal 163 al 167 e 175 del Codice penale e dell’articolo 487 del Codice di procedura penale, relative alla sospensione condizionale della pena e alla non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale».

BUFFONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUFFONI. Io mi permetto di proporre la soppressione dell’ultimo comma dell’articolo 46 che esclude dalla concessione della sospensione condizionale della pena i reati dolosi elettorali. Io comprendo che si vogliano severamente punire i delitti dolosi in materia elettorale, ma ritengo ingiusto che si introduca nella nostra legislazione, con deliberazione dell’Assemblea, per determinati reati, il divieto di concedere la condanna condizionale, perché così si va contro il principio informatore della legge, che accorda il beneficio del perdono ai condannati. Questo principio è che si deve tener conto della qualità non del delitto ma del delinquente; la sospensione condizionale della pena è una concessione che si fa «ad personam» e non si fa per determinati reati.

Insisto perché non si approvi questo comma. Sarà il magistrato che, in considerazione del fatto e della persona, deciderà se applicare o no il beneficio della condanna condizionale. Stabilire che per determinati reati non debba essere applicata la condanna condizionale, mi sembra assolutamente erroneo ed ingiusto.

BETTIOL. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BETTIOL. Si può venire incontro, da un punto di vista astratto, sentimentale, alla proposta dell’onorevole Buffoni, ma io credo che, tenuto conto della natura di questi particolari reati ed anche del momento storico in cui ci troviamo, sia opportuno, ragionevole cercare, diciamo, di impedire al giudice di fare un troppo largo uso di un potere che in sostanza porta spesso ad un rilassamento della giustizia penale. Quindi io ritengo che si debba votare l’articolo, respingendo l’emendamento che tende in sostanza a privare di efficacia concreta tutte queste norme penali, che invece mirano ad evitare che il processo di formazione delle liste sia arbitrariamente violato e sia quindi compromessa a priori la possibilità di una regolare e normale elezione, che è fondamentale in questo momento nel quale bisogna educare ad un clima democratico le coscienze dei cittadini.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione insiste nel proprio testo.

PRESIDENTE. Prego il Governo di esprimere il suo parere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si associa al parere della Commissione.

PRESIDENTE. Pongo in votazione i primi tre commi dell’articolo 46 sui quali non vi sono emendamenti.

(Sono approvati).

Pongo in votazione il quarto comma, del quale l’onorevole Buffoni ha chiesto la soppressione, non accettata né dalla Commissione né dal Governo.

(È approvato).

L’onorevole Mannironi ha fatto pervenire alla Presidenza la seguente proposta di un articolo 46-bis aggiuntivo:

«Per i reati previsti negli articoli precedenti si procede a giudizio direttissimo».

L’onorevole Mannironi ha facoltà di svolgere la sua proposta.

MANNIRONI. Mi pare che la mia proposta non abbia bisogno di essere illustrata a lungo. A me sembra che, da tutta l’impostazione data alla regolamentazione della materia in esame, il giudizio direttissimo sia appropriato e necessario di fronte a violazioni di legge che il legislatore si propone di reprimere rapidamente.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Relatore di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI, Relatore. La Commissione, non avendo esaminato il problema, si rimette all’Assemblea.

PRESIDENTE. Prego il Governo di esprimere il suo parere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Anche il Governo si rimette all’Assemblea.

BETTIOL. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BETTIOL. Mi pare non sia opportuno abusare di questo procedimento direttissimo, il quale viene a creare delle eccezioni alle possibilità di difesa da parte dell’imputato. Io credo quindi che si debba votare contro la proposta dell’onorevole Mannironi.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo aggiuntivo 46-bis proposto dall’onorevole Mannironi, in merito al quale sia il Governo che la Commissione hanno dichiarato di rimettersi all’Assemblea.

(Non è approvato).

Passiamo all’articolo 47. Se ne dia lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2, non sono elettori, per cinque anni, coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;

b)membro del gran consiglio del fascismo;

  1. c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista;
  2. d) segretario politico federale del partito fascista;
  3. e) le stesse cariche nel partito fascista repubblicano;
  4. f) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica nominati dal 3 gennaio 1925;
  5. g) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale;
  6. h) consigliere nazionale;
  7. i) deputato e senatore che, dopo il 3 gennaio 1925, abbiano votato leggi fondamentali intese a mantenere in vita il regime fascista;
  8. l) prefetto o questore nominati per titoli fascisti;
  9. m) ufficiale generale o ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale.

«La cancellazione dalle liste elettorali di coloro che si trovano nelle condizioni di cui al presente articolo può aver luogo in ogni tempo e qualunque sia lo stato delle operazioni di revisione delle liste, ma non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali».

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. V’è un nuovo testo di questo articolo elaborato dal Governo in seguito a nuove proposte fatte dalla Commissione e ad un ulteriore conseguente esame della questione.

Questo nuovo testo è stato comunicato alla Commissione.

PRESIDENTE. Ma la Commissione è in grado di pronunciarsi?

UBERTI, Relatore. La Commissione ritiene che possa iniziarsi senz’altro la discussione su questo nuovo testo presentato dal Governo.

PRESIDENTE. Se ne dia allora lettura.

RICCIO, Segretario, legge:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2, non sono elettori, per cinque anni, coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  2. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  3. c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista;
  4. d) segretario politico federale del partito fascista;
  5. e) le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale;
  6. f) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti, in carica o nominati dal 3 gennaio 1925;
  7. g) consigliere nazionale;
  8. h) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale;
  9. i) prefetto o questore nominati per titoli fascisti e capo di provincia;
  10. l) ufficiale generale od ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria.

«Il termine stabilito nel primo comma decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge. Nei confronti di coloro i quali siano stati già cancellati o non iscritti nelle liste elettorali per avere ricoperto taluna delle cariche sopraelencate, il termine decorre dalla data della «pronuncia» o del «provvedimento» con cui fu disposta la privazione temporanea del diritto elettorale.

«La cancellazione dalle liste elettorali di coloro che si trovano nelle condizioni di cui al presente articolo può aver luogo in ogni tempo e qualunque sia lo stato delle operazioni di revisione delle liste, ma non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali.

«La Commissione elettorale comunale provvede d’ufficio agli accertamenti necessari ed alle conseguenti cancellazioni dalle liste generali e sezionali. Il sindaco notifica agli interessati, ai sensi dell’articolo 17, le decisioni della Commissione. Il segretario comunale elimina dallo schedario elettorale le schede corrispondenti.

«Copia del verbale relativo alle operazioni predette è trasmessa al prefetto, al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente per territorio ed al presidente della Commissione elettorale mandamentale.

«La Commissione elettorale mandamentale effettua le cancellazioni, sulla scorta degli anzidetti verbali, nelle liste generali e nelle liste di sezione depositate presso di essa.

«Contro le cancellazioni disposte a norma del presente articolo è ammesso ricorso alla Commissione elettorale mandamentale entro venti giorni dalla notificazione di cui al quarto comma. Per i cittadini emigrati all’estero si osservano le disposizioni degli articoli 11, 18 e 22.

«Nel caso in cui il ricorso sia accolto l’interessato ha diritto alla reiscrizione nelle liste elettorali in qualunque tempo; ma non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali».

PRESIDENTE. Come l’Assemblea non ignora, la Commissione ha diritto, in questo caso, di chiedere il rinvio di ventiquattr’ore per pronunciarsi. Se tuttavia la Commissione ritenesse che un termine molto minore – per esempio, la sospensione di un’ora della seduta – fosse sufficiente, forse l’Assemblea non avrebbe niente in contrario.

Crederei anche opportuno di provvedere alla distribuzione agli onorevoli deputati del nuovo testo del Governo, dato che non si tratta soltanto di qualche lieve emendamento, ma di emendamenti di notevole importanza.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Ricordo che la discussione di questo progetto di legge, del resto a norma di Regolamento, si è svolta fin dall’inizio sopra il testo della Commissione. Quindi il nuovo testo presentato dal Governo deve essere considerato come un emendamento al testo della Commissione. Siccome tutte le questioni sollevate dal nuovo testo ministeriale sono già state discusse dalla Commissione, per cui questa ha in merito la sua opinione, ritengo che si possa subito discutere punto per punto il nuovo testo del Governo, considerandolo come emendamento al testo della Commissione, in quanto questa, tranne un emendamento riguardante i senatori, mantiene per tutto il resto il suo testo.

PRESIDENTE. La Commissione è d’accordo di discutere senz’altro il nuovo testo del Governo, o chiede una breve sospensione di almeno tre quarti d’ora?

UBERTI, Relatore. Ritengo inutile, ripeto, una sospensione, in quanto il nuovo testo non è che un emendamento al testo della Commissione e su di esso la Commissione si è già intrattenuta.

SCHIAVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCHIAVETTI. Mi associo alle considerazioni del collega Uberti, e mi permetto di deplorare questo sistema del Governo di intervenire all’ultimo momento, con un emendamento di sorpresa in una questione di tanta delicatezza. Il Governo ha avuto tutto il tempo per farci conoscere le sue intenzioni e i suoi testi. Abbiamo infatti discusso in una riunione della Commissione l’ultimo testo del Governo. Ora c’è un ultimo emendamento che è ancora più ultimo di quello dell’ultimo momento. Credo che non sia serio tutto ciò e credo che noi dobbiamo considerare l’emendamento del Governo come qualsiasi altro emendamento e passare senz’altro alla discussione.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Sono di parere completamente contrario a quello dell’onorevole Schiavetti, per due ragioni: prima di tutto, perché sia salvo un principio di carattere parlamentare, che cioè il Governo ha sempre il diritto di presentare emendamenti a proposte o disegni di legge anche da esso presentati. Questo come affermazione di carattere, direi, parlamentare. In secondo luogo, credo che sia necessario un momento di riflessione da parte della Commissione, per esaminare la portata di questi emendamenti e trovare un punto d’accordo anche sulla valutazione degli emendamenti. Credo che una sospensione di mezz’ora o tre quarti d’ora possa essere sufficiente per superare questa piccola difficoltà sorta all’ultimo momento.

Faccio quindi la proposta formale che la seduta sia sospesa per tre quarti d’ora o un’ora per riprendere poi l’esame del disegno di legge.

PRESIDENTE. La proposta dell’onorevole Fuschini è di sospendere la seduta, riprendendola alle 11.30. In questo frattempo si potrebbe distribuire agli onorevoli deputati il nuovo testo governativo.

VERONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERONI. Pur non dissentendo da quello che il collega Schiavetti ha detto, e cioè che sarebbe stato opportuno che il Governo avesse presentato prima di oggi questi emendamenti in una materia così delicata, come quella del diritto al voto da concedere o non concedere ad alcune categorie politiche, debbo riconoscere che il collega Fuschini ha, dal punto di vista parlamentare, perfettamente ragione: il Governo ha sempre il diritto di proporre emendamenti a disegni di legge presentati dal Governo stesso o anche di iniziativa parlamentare.

Quindi, io penso che si imponga la necessità di un rinvio, anche per più di mezz’ora o tre quarti d’ora; perché ho ascoltato la lettura degli emendamenti proposti dal Governo e ve ne sono alcuni che si allontanavano molto da quelli che erano stati i risultati dello studio della Commissione. L’Assemblea deve pertanto essere posta in condizione di poter raffrontare i risultati degli studi della Commissione con gli emendamenti presentati dal Governo.

Quindi mi associo al collega Fuschini perché sia data all’Assemblea la possibilità di compiere tale esame.

PRESIDENTE. La proposta dell’onorevole Fuschini è di sospendere la seduta fino alle 11.30.

VERONI. Ma come è possibile esaminare questa questione con l’orologio alla mano?

PRESIDENTE. Allora lei non si associa alla proposta dell’onorevole Fuschini?

VERONI. Io mi sono espresso chiaramente. Non credo che si debba rinviare. Dobbiamo decidere stamane. Rimane da stabilire se debba trattarsi di mezz’ora o di tre quarti d’ora di sospensione.

PRESIDENTE. La questione, dal lato regolamentare e precedurale, è molto semplice. Giustamente l’onorevole Fuschini ha rivendicato il diritto del Governo di presentare emendamenti. Il diritto e l’interesse dell’Assemblea sono tutelati dalla norma regolamentare che dà diritto a dieci deputati di far domanda per il rinvio di ventiquattro ore della discussione del progetto di legge. Abbiamo quindi soluzioni diverse: si può accettare la proposta dell’onorevole Fuschini e rinviare la seduta alle 11.30; se poi vi sono dieci proponenti che lo domandano, si può rinviare di ventiquattro ore.

FUSCHINI. Possiamo sospendere anche fino a mezzogiorno.

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Vorrei replicare all’onorevole Schiavetti. Non comprendo perché, se è dato ad un deputato (e ì colleghi ne fanno larghissimo uso) di presentare emendamenti all’ultimo momento, quando già si discutono gli articoli, debba essere deplorato il Governo se, valutato meglio un articolo, abbia ritenuto di proporre un emendamento al testo primitivo, sottoponendolo, quarantott’ore prima, all’approvazione parlamentare. Non posso accettare la deplorazione dell’onorevole Schiavetti, perché con questo verremmo a limitare i poteri e i diritti del Governo.

Per quel che riguarda il merito della questione, il Governo si rimette pienamente all’Assemblea: essa può sospendere per mezz’ora o per un’ora o rinviare, perché ciò è indifferente, desiderando il Governo lasciare alla Assemblea piena libertà.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Vorrei fare un chiarimento, perché a me sembra che questa discussione sia un po’ fuori luogo. Il Governo aveva presentato un primo testo. La Commissione ne ha elaborato un altro. Ora il Governo, nel suo emendamento, non propone delle cose nuove: esso non fa che riprendere parte di quello che era già stato proposto e che la Commissione ha già esaminato. Per ciò, riconvocandosi, la Commissione non potrebbe che ripetere quanto ha già deliberato.

PRESIDENTE. Per semplificare la discussione, richiamo l’Assemblea sulla proposta dell’onorevole Fuschini di sospendere la seduta per un’ora.

COVELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COVELLI. Propongo di proseguire nella discussione degli articoli e di accantonare al discussione su questo articolo 47 per rimandarla a lunedì.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la proposta che ha la precedenza, cioè quella dell’onorevole Covelli, di rinviare la discussione dell’articolo a lunedì.

(Non è approvata).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Fuschini di sospendere la seduta per un’ora.

(È approvata).

(La seduta, sospesa alle 11, è ripresa alle 12.5).

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione dell’articolo 47, nel nuovo testo presentato dal Governo:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2, non sono elettori, per cinque anni, coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  2. b) membro del gran Consiglio del fascismo;
  3. c) componente del direttorio nazionale o del Consiglio nazionale del partito fascista;
  4. d) segretario politico federale del partito fascista;
  5. e) le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale;
  6. f) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica o nominati dal 3 gennaio 1925;
  7. g) consigliere nazionale;
  8. h) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale;
  9. i) prefetto o questore nominati per titoli fascisti e capo di provincia;
  10. l) ufficiale generale od ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L. alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria.

«Il termine stabilito nel primo comma decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge. Nei confronti di coloro i quali siano stati già cancellati o non iscritti nelle liste elettorali per avere ricoperto taluna delle cariche sopra elencate, il termine decorre dalla data della «pronuncia» o del «provvedimento» con cui fu disposta la privazione temporanea del diritto elettorale.

«La cancellazione dalle liste elettorali di coloro che si trovano nelle condizioni di cui al presente articolo può aver luogo in ogni tempo e qualunque sia lo stato delle operazioni di revisione delle liste, ma non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali.

«La Commissione elettorale comunale provvede d’ufficio agli accertamenti necessari ed alle conseguenti cancellazioni dalle liste generali e sezionali. Il sindaco notifica agli interessati, ai sensi dell’articolo 17, le decisioni della Commissione. Il segretario comunale elimina dallo schedario elettorale le schede corrispondenti.

«Copia del verbale relativo alle operazioni predette è trasmessa al prefetto, al procuratore della Repubblica presso il tribunale competente per territorio ed al presidente della Commissione elettorale mandamentale.

«La Commissione elettorale mandamentale effettua le cancellazioni, sulla scorta degli anzidetti verbali, nelle liste generali e nelle liste di sezione depositate presso di essa.

«Contro le cancellazioni disposte a norma del presente articolo è ammesso ricorso alla Commissione elettorale mandamentale entro venti giorni dalla notificazione di cui al quarto comma. Per i cittadini emigrati all’estero si osservano le disposizioni degli articoli 11, 18 e 22.

«Nel caso in cui il ricorso sia accolto l’interessato ha diritto alla reiscrizione nelle liste elettorali in qualunque tempo, ma non oltre la data di pubblicazione del manifesto di convocazione dei comizi elettorali».

L’onorevole Coppi e altri hanno presentato il seguente emendamento a questo articolo:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2, non sono elettori, per il periodo rispettivamente sottoindicato, coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. – Per vent’anni:
  2. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  3. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  4. c) le stesse cariche nel partito fascista repubblicano;
  5. d) ministro o sottosegretario dello pseudo governo fascista repubblicano;
  6. e) componente del direttorio nazionale e del consiglio nazionale del partito fascista repubblicano.
  7. – Per dieci anni:
  8. a) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica dal 3 gennaio 1923;
  9. b) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato;
  10. c) segretario politico federale del partito fascista repubblicano;
  11. d) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista.

III. – Per cinque anni:

  1. a) segretario politico federale del partito fascista dopo il 3 gennaio 1925;
  2. b) deputato o senatore che dopo il 3 gennaio 1925 abbia votato leggi fondamentali intese a mantenere in vita il regimo fascista;
  3. c) prefetto o questore nominato per titoli fascisti;
  4. d) ufficiale generale della milizia volontaria sicurezza nazionale;
  5. e) ufficiale generale o superiore che abbia prestato servizio effettivo nelle forze armate della pseudo repubblica sociale; ufficiali di pari grado della guardia nazionale repubblicana, delle brigate nere, dei reparti speciali di polizia politica della pseudo repubblica sociale;
  6. f) consigliere nazionale.

L’onorevole Coppi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

COPPI. Svolgo telegraficamente le ragioni che mi hanno indotto a presentare questo emendamento. Nel testo presentato sostanzialmente dalla Commissione e dal Governo si ha un termine di sospensione dal diritto elettorale unico per tutte le categorie di colpiti. Mi pare che un criterio di questo genere urti contro ragioni di giustizia, perché, ad esempio, viene messo sullo stesso piano sia il segretario o vicesegretario del partito fascista, che un più o meno innocuo consigliere nazionale.

Ritengo sia opportuno fare una graduazione di responsabilità e mi pare anche non sia il caso di preoccuparsi eccessivamente se in questa graduazione di responsabilità i termini vengano portati all’insù e non all’ingiù; termini alti: venti anni per certe cariche, dieci anni per altre; il minimo: cinque anni.

Per giustificare questo aggravamento della sanzione non ho motivo di illustrare le ragioni a questa Assemblea.

Le ragioni mi sembrano chiare, anzi sono tanto chiare che proprio non mette conto spendere parole in argomento. Ma, tanto per dare un chiarimento all’Assemblea dei motivi che mi hanno indotto a presentare l’emendamento e per citare una delle piccole cose, delle minime cose che il cessato regime consumava, permettano gli onorevoli colleghi che io dia lettura, in parte, di una deliberazione, per esempio, della Prefettura di Modena del 1941, esattamente del 27 dicembre 1941.

Si tratta di un impiegato del Comune di Modena.

La deliberazione dice così:

«Vista la nota, ecc., con cui il commissario prefettizio di Modena prende notizia di una comunicazione del segretario federale del partito nazionale fascista circa l’espulsione dal partito del vigile urbano, ecc. (il nome non interessa), con la motivazione: «Non ha mantenuto fede al giuramento prestato». Vista lettera di discolpa dell’interessato dalla quale risulta che egli non contesta. Vista la nota, ecc., con cui il segretario federale di Modena comunica che non è in corso nessuna procedura tendente a modificare il provvedimento di espulsione; ritenuto che, per effetto della espulsione dal partito nazionale fascista, l’interessato deve essere messo al bando della vita pubblica nella quale è da comprendersi anche la vita del comune, che, come ente ausiliario, fa parte della unità etica e politica della vita statale e, non avendo l’interessato tenuto fede al giuramento prestato al partito fascista ed essendosi verificato automaticamente lo stato di incompatibilità con le generali direttive della politica del Governo che autorizza la dispensa dal servizio per motivi politici; visto, ecc., decreta: l’interessato per i motivi specificati in epigrafe è dispensato dal servizio di vigile urbano del comune di Modena».

Vorrei anche ricordare agli onorevoli colleghi un altro piccolo fatto che non ebbe conseguenze.

Nel Senato (non ricordo la data, non prevedevo di dovere parlare di questo, e non mi sono munito di documentazione; ad ogni modo mi sorregge la memoria, almeno in parte) venne in discussione se per esercitare la professione di avvocato si dovesse o meno essere iscritti al partito nazionale fascista. E vi furono dei Senatori, anzi, vi fu specialmente un Senatore, che non nomino…

Voci. Il nome, il nome!

COPPI. No, non lo voglio nominare… il quale sostenne tale tesi. Nel Senato, per fortuna, si alzò una voce a contrastarlo – diverse voci, anzi – una più autorevole delle altre, una voce del Trentino, quella del senatore Conci, se ben ricordo. Quindi, io ritengo che la sanzione che è prevista nell’articolo 47, così come è proposta nel testo della Commissione, e sostanzialmente nel testo governativo, sia, per certe determinate categorie, troppo blanda.

Debbo anche spiegare agli onorevoli colleghi che ho fatto una certa discriminazione fra coloro i quali hanno appartenuto semplicemente al partito nazionale fascista e coloro che hanno appartenuto al partito fascista repubblicano. Mi pare che la condizione di questi ultimi sia assai più grave, perché il delitto peggiore, a mio modo di vedere, che il fascismo abbia commesso, è ancora stato quello di aver gettato il Paese in una guerra civile.

Naturalmente, il criterio che io ho seguito nella sospensione per venti anni, dieci anni e cinque anni, è un criterio mio personale, è un criterio che può e deve essere discusso.

Debbo precisare che al paragrafo secondo del mio emendamento, per una dimenticanza di carattere materiale, ho omesso una lettera i), che si riferisce a coloro che sono stati componenti del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista.

Ritengo di non dovei dare ulteriori spiegazioni. Eventualmente, nel corso della discussione, potrò ancora intervenire.

PRESIDENTE. È stato presentato il seguente emendamento all’articolo 47 dagli onorevoli Schiavetti, Lussu, Cianca, Tega, Chiostergi, Vernocchi, Gina, Fornara:

«Oltre i casi previsti dall’articolo 2, non sono elettori per dieci anni coloro i quali hanno ricoperto le seguenti cariche:

  1. a) segretario o vicesegretario del partito fascista;
  2. b) membro del gran consiglio del fascismo;
  3. c) componente del direttorio nazionale o del consiglio nazionale del partito fascista;
  4. d) ispettore nazionale o ispettrice nazionale delle organizzazioni femminili del partito fascista;
  5. e) segretario o vicesegretario federale (o carica equipollente) sin dalla prima organizzazione del partito fascista; fiduciaria o vicefiduciaria delle federazioni dei fasci femminili;
  6. f) ispettore o ispettrice federale, eccettuati coloro che abbiano esercitato funzioni esclusivamente amministrative;
  7. g) segretario politico del fascio o segretaria del fascio femminile di comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti (censimento 1936);
  8. h) qualsiasi carica politica del partito fascista repubblicano;
  9. i) consigliere nazionale;
  10. l) deputato che, dopo il 3 gennaio 1925, abbia votato leggi fondamentali intese a mantenere in vigore il regime fascista; senatore che sia stato dichiarato decaduto dall’Alta Corte o che, pur non essendo stato dichiarato decaduto, abbia partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi;
  11. m) ministro o sottosegretario di Stato dei governi fascisti in carica o nominati dal 3 gennaio 1925;
  12. n) membro del tribunale speciale per la difesa dello Stato o membro dei tribunali straordinari della pseudo repubblica sociale;
  13. o) prefetto o questore nominati per titoli fascisti; capo della provincia o questore nominati dal governo della pseudo repubblica sociale;
  14. p) «moschettiere del duce», ufficiale della milizia volontaria sicurezza nazionale, in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alle milizie ferroviaria, postelegrafonica; universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria;
  15. q) ufficiale che abbia prestato effettivo servizio nelle forze armate della pseudo repubblica sociale, ufficiale della guardia nazionale repubblicana, o componente delle brigate nere, delle legioni autonome e dei reparti speciali di polizia politica della pseudo repubblica sociale.

«Sono eccettuati dalla privazione del diritto elettorale coloro che siano dichiarati non punibili ai sensi dell’ultimo comma dell’articolo 7 del decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159, e coloro che, prima del 10 giugno 1940, abbiano assunto un deciso atteggiamento contro il fascismo».

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

SCHIAVETTI. Questo mio emendamento corre sulla falsariga delle esclusioni dal diritto elettorale previste dalle norme per l’elezione dell’Assemblea Costituente. Un esame alquanto accurato delle disposizioni che, in materia di esclusione dal diritto elettorale, sono state finora proposte, porta alle seguenti constatazioni.

Abbiamo avuto, prima, le esclusioni previste dalla legge con la quale sono stati eletti i deputati alla Costituente, esclusioni abbastanza severe, esclusioni a nostro parere giuste; poi vi sono state le esclusioni previste nel progetto di legge governativo, quello che è sottoposto oggi alla nostra approvazione; poi vi sono state le esclusioni proposte dalla Commissione che ha esaminato questo progetto; poi v’è stata la serie delle esclusioni proposte al penultimo momento dal Governo; poi, finalmente, v’è stata oggi un’altra serie di esclusioni proposte dal Governo durante questa seduta.

Ora, è facile notare che in tutte queste serie di esclusioni si constata un decrescendo di severità, un adattamento ad un clima di tolleranza e di remissione verso il regime fascista, che noi non possiamo in alcun modo tollerare! (Applausi a sinistra).

Per darvi qualche esempio di carattere concreto, vi dirò che la Commissione, nel suo progetto – e già quello della Commissione è un progetto abbastanza severo – non ha considerato fra gli esclusi, gli ispettori nazionali e le ispettrici nazionali del partito fascista; gli ispettori e le ispettrici federali; i segretari politici dei fasci e le segretarie dei fasci femminili nei comuni con popolazione superiore ai 10.000 abitanti; coloro ai quali sono state conferite cariche da parte del partito fascista repubblicano, salvo quelle che implicavano una più grave responsabilità; non ha considerato i capi di provincia ed i questori nominati dal governo fascista repubblicano: e per fortuna questi li abbiamo inclusi all’ultimo momento; non ha considerato i moschettieri del duce, gli ufficiali della milizia, indicando soltanto gli ufficiali generali e gli ufficiali superiori; e il Governo, nell’emendamento che ci propone all’ultima ora, vorrebbe che non si considerassero i deputati e i senatori i quali hanno votato le leggi fondamentali del regime fascista ed hanno contribuito a tenere in piedi il regime fascista.

Evidentemente, se noi ci addentriamo in una serie minuta e complicata di discriminazioni, lasciamo sfuggire un mucchio di gente. Vi prego di notare che qui non si tratta di condannare nessuno all’ergastolo, non si tratta di fare dei martiri: si tratta di privare dell’elettorato attivo coloro i quali hanno sostenuto il regime fascista. Quindi gli scrupoli di coscienza che alcuni si fanno non sono, a mio modo di vedere, sussistenti.

Non saremo perfetti nella giustizia distributiva, ma saremo giusti in generale.

Noi proponiamo in questo emendamento che le esclusioni dal diritto elettorale siano sancite, per tutte queste categorie, per la durata di dieci anni. Vi è poi il problema singolarmente grave dei deputati e dei senatori, i quali, come or ora ho ricordato, hanno votato le leggi fondamentali del regime fascista.

A questo riguardo, la Commissione è d’accordo che debbano essere colpiti i deputati escludendoli dal diritto elettorale ed è d’accordo di escludere parimenti i senatori che siano stati considerati decaduti dall’Alta Corte di giustizia.

Ma, ora, debbo sottoporre all’Assemblea i risultati di una breve ricerca da me fatta l’altro giorno. Io ho voluto consultare, per l’anno 1928, gli Atti parlamentari del Senato per vedere un po’ come si sono comportati quei cento senatori circa, che sono stati discriminati dall’Alta Corte di giustizia. Naturalmente in quel periodo le votazioni delle leggi avvenivano, come ora, a scrutinio segreto e riesce quindi molto difficile il poter individuare la condotta di questi senatori. C’era però, per fortuna, in quell’epoca, nel Senato, un’opposizione liberale e democratica la quale ha cercato, specie in occasione della votazione delle leggi di carattere fondamentale, di preporre alla votazione delle leggi stesse la discussione di un ordine del giorno, in cui venissero affermati dei principî fondamentali in opposizione a quelli fascisti.

In questo modo evidentemente l’opposizione liberale cercava di inchiodare la responsabilità dei senatori ligi al regime fascista, e noi verremmo meno a questa specie di mandato politico che ci è stato affidato dai vecchi Senatori fedeli alle libertà del Risorgimento, se lasciassimo senza alcun effetto queste indicazioni di responsabilità. (Vivi applausi a sinistra).

Orbene, io ho preso in esame due votazioni: una è del 12 maggio 1928, sulla riforma della rappresentanza politica.

Si trattava di mettere in piedi la famosa Camera dei quattrocento (non era ancora la Camera corporativa), i cui membri erano tutti indicati dal Governo senza nessun’altra alternativa per il corpo elettorale.

Ci fu un ordine del giorno Garofalo, favorevole naturalmente ai criteri informatori della legge fascista; ci fu un ordine del giorno Ruffini che si dichiarò invece contrario alla legge fascista «per non privare il popolo italiano del diritto di scegliere liberamente i propri rappresentanti».

Siamo dunque in tema di leggi fondamentali fasciste.

Orbene, con immensa sorpresa, io, che avevo sott’occhio l’elenco dei Senatori discriminati dall’Alta Corte di giustizia, ho trovato che, salvo errori od omissioni, ci sono dieci Senatori discriminati che hanno votato l’ordine del giorno Garofalo e che hanno votato contro l’ordine del giorno Ruffini che chiedeva il mantenimento della libera scelta da parte del popolo dei propri rappresentanti.

Questi Senatori sono: Conci avv. Enrico, Dallolio Alfredo, generale d’armata; Salvago Raggi, ambasciatore e marchese, ora, credo, defunto; Sechi Giovanni, ammiraglio di squadra; Segrè Sartorio Salvatore, conte; Sirianni Giuseppe, ammiraglio di squadra; Tacconi Antonio, avvocato; Thaon di Revel, grande ammiraglio; Tolomei Ettore, conte; Rota Francesco, conte.

È un piccolo mazzetto di ammiragli e di titolati!

Voi sapete quante volte noi abbiamo detto che il paese ha bisogno, ha sete di giustizia! Il paese ha troppe volte constatato che si colpiscono i piccoli responsabili della dittatura fascista! Ora invece, egregi colleghi, voi vi trovate di fronte ai grandi responsabili della dittatura fascista e voi li colpirete in modo estremamente tenue e darete al Paese un esempio altamente educativo, se, per lo meno, escluderete dal diritto di voto questa gente che, per la sua posizione sociale e per le stesse benemerenze che aveva acquistato in altri settori verso il Paese, avrebbe dovuto sentire il bisogno di difendere la libertà costituzionale del Paese stesso!

C’è stata poi al Senato, il 15 novembre 1928, la discussione di un ordine del giorno Appiani, ordine del giorno fascista, che diceva: «Il Senato, convinto della necessità che il gran consiglio fascista abbia il suo posto tra gli organi costituzionali, passa alla discussione degli articoli». Ordine del giorno prettamente fascista.

Ho trovato altri nove senatori discriminati, quasi tutti quelli di prima, in più Ciraolo Giovanni, i quali hanno votato a favore dell’ordine del giorno Appiani.

Questa è la ragione per cui nel mio emendamento, alla formula generale: «Senatori che sono stati dichiarati decaduti dall’Alta corte di giustizia» io ho aggiunto: «o che, pur non essendo stati dichiarati decaduti, abbiano partecipato all’approvazione delle leggi di cui sopra o dei loro principî informativi»; senza questa aggiunta i senatori che hanno votato le leggi fasciste sfuggirebbero a una sanzione che deve essere, ripeto, un esempio e una indicazione! (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Cosattini, Mazzoni, Faccio, Stampacchia, Nobili Tito Oro, Tega, Bonfantini, Bianchi Bianca, Barbareschi, Fioritto, Romita, Bocconi, Mariani Enrico, Fornara, Montemartino, Giua, D’Aragona e Carpano Maglioli, hanno presentato il seguente emendamento aggiuntivo:

«e) I giornalisti che, a sostegno del regime fascista o dell’occupante tedesco, abbiano cooperato in modo rilevante ad ingannare la pubblica opinione».

PRESIDENTE. L’onorevole Cosattini ha facoltà di svolgerlo.

COSATTINI. Ritengo che poche considerazioni siano sufficienti a dimostrare che solo ragioni di giustizia ci guidano nel proporre l’esclusione dal diritto di voto, dei giornalisti postisi al servizio dei nemici della Patria. Noi abbiamo un concetto elevato della funzione del giornalismo; abbiamo coscienza della grande influenza che esso può esercitare sull’opinione pubblica, e vorremmo, nel considerarne la funzione, poterla vedere sempre sotto la luce d’una lotta ideale per la giustizia e per la libertà. Purtroppo abbiamo invece dinanzi alla mente il ricordo di vent’anni di dittatura fascista, durante la quale troppo di giornalismo si è degradato a servo della tirannide, per cui non vi è stato problema che non sia stato prospettato sotto una luce falsa. Nel ricordo degli anni tragici che abbiamo trascorso, vediamo soverchio numero di fumivendoli, contro la missione della stampa sulla società, fattisi complici della tirannia, contro il Paese e peggio, durante l’occupazione tedesca, strumento dell’invasore. Non possiamo dimenticare come attraverso alle pubblicazioni di giornali, alle comunicazioni fatte da giornalisti alla radio – abbiamo ancora nell’orecchio il senso di orrore procuratoci dalle loro voci – nelle corrispondenze dall’estero, in cento altre manifestazioni, essi non abbiano mancato di sostenere quanto vi era di più turpe e di più vile. Non può passare senza riprovazione il concorso da loro usato ad annebbiare e ad avvelenare l’opinione pubblica. Se abbiamo assistito, nella nostra vita travagliata, a fatti veramente penosi, a torture inflitte a nostri concittadini, a violenze e a barbarie, che hanno macchiato il nome del nostro Paese, ciò è dovuto alla insana propaganda di costoro che, dimentichi della loro posizione di italiani, non hanno esitato a schierarsi a fianco dei nemici.

Per queste ragioni riteniamo che, accanto a coloro che hanno esercitato funzioni direttive nel partito fascista, concorrendo con le loro forze a sostenerlo e à difenderlo, non si possa dimenticare anche l’opera nefasta di questi profanatori dell’opinione pubblica, e sia giusta sanzione impedire ad essi il diritto più alto che spetta al cittadino: quello di essere elettore e quello di poter essere eletto. Confidiamo, quindi, che l’Assemblea voglia accogliere la nostra proposta. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Fabbri e altri hanno presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere gli ultimi sei commi dell’articolo 47».

L’onorevole Fabbri ha facoltà di svolgerlo.

FABBRI. Il mio emendamento soppressivo concerne esclusivamente una questione di procedura a proposito della eventuale cancellazione di elettori, che si ritiene non abbiano il diritto di voto. Ora, dal momento che per l’esclusione si considereranno dei requisiti obiettivi, quali saranno determinati dalla votazione di questa Assemblea, e dal momento che nella legge vi sono dei termini per la rettifica ordinaria e periodica delle liste elettorali, e per i relativi ricorsi, per le varie procedure, per i rimedi contro il loro esito, ecc., non vedo il motivo per cui, relativamente a questa categoria di cittadini, di cui all’articolo 47, che in definitiva non dovrebbero risultare inclusi nelle liste, si stabilisce una procedura di cancellazione specialissima, al di fuori di qualunque termine, del tutto anormale, che può protrarsi fino alla data di pubblicazione del manifesto che indice i comizi. Trovo inopportuna questa norma che si presta a sorprese pericolose nel periodo della lotta elettorale; perché, evidentemente, alla vigilia della pubblicazione del manifesto, si possono fare le accuse più avventate, le affermazioni più strambe, alcune delle quali implicano un giudizio strettamente soggettivo come quello, del resto, di cui mi offriva l’esempio l’oratore che ha parlato prima di me: privare un tale giornalista del diritto di voto, perché ha scritto un articolo in un certo senso.

Una voce a sinistra. Ha disonorato la stampa!

FABBRI. Il giudizio sulle richieste di privazione del diritto di voto è rimesso ad una deliberazione di una Commissione nominata dal Consiglio comunale. Questa deliberazione del Consiglio comunale, presa in pendenza delle elezioni e quando è già pubblicato il manifesto, mi pare cosa detestabile e preoccupante, tanto più che le liste sono da anni a disposizione di tutti gli interessati, di tutte le organizzazioni, di tutti i partiti che hanno la possibilità di presentare ricorsi come per tutti gli altri casi. Quindi, io sono nettamente contrario a questa procedura di eccezione che può provocare, all’ultimo momento, per un cittadino la perdita del diritto di elettorato attivo, o, se si tratti di un candidato, del diritto di eleggibilità.

In tal caso, in un certo comune, una Commissione comunale potrebbe escludere dalle liste un cittadino già virtualmente candidato ufficiale di un partito, e contro questa esclusione non vi è che una possibilità di ricorso che funzionerà, in definitiva, – se si è fatto un sopruso – cinque anni dopo, cioè alla prossima convocazione dei comizi. Tutto ciò mi pare anormale, pericolosa fonte di sopraffazioni inaudite che, specialmente nel periodo elettorale, possono determinare delle legittime reazioni se specialmente una Commissione comunale dovesse fare degli abusi. Io invito l’Assemblea a sopprimere nell’articolo tutto quanto concerne questa procedura di eccezione, permettendo che per i cittadini privati dal diritto di essere inclusi nelle liste elettorali ai sensi dell’articolo 47, valgano tutte le disposizioni che noi abbiamo considerato nella legge per coloro che non hanno il diritto di essere iscritti nelle liste elettorali: ed in conseguenza valgano gli stessi termini, sussista la possibilità degli stessi ricorsi, degli stessi rimedi; per tutti si applichi il diritto formale comune. Questo è il mio concetto.

PRESIDENTE. L’onorevole Veroni e altri hanno presentato il seguente emendamento:

Alla lettera d) sostituire le parole: del partito fascista, con le seguenti: ed i componenti del direttorio federale del partito fascista;

L’onorevole Veroni ha facoltà di svolgerlo.

VERONI. La legge che in sede di Consulta votammo per la creazione della Costituente prevedeva all’articolo 6 la sospensione dell’esercizio del diritto di voto dei Vice segretari federali. Il progetto che attualmente è al nostro esame ha escluso i Vice segretari federali dalla sospensione del diritto di voto, ed ha quindi reso più aderente agli interessi dei fascisti la disposizione della legge di cui discutiamo.

La stessa legge per la composizione della Costituente escludeva dall’esercizio del diritto di voto gli ispettori e le ispettrici federali. L’attuale progetto di legge non ha conservato questa norma ed ha ammesso all’esercizio del voto gli ispettori e le ispettrici federali. Quando discutemmo allora la legge – e gli atti parlamentari ne fanno fede – si discusse ampiamente se, oltre ai Vice segretari federali e agli ispettori e ispettrici federali (che furono poi privati del diritto di voto), dovessero essere compresi dalla sospensione dell’esercizio del diritto di voto anche i componenti dei direttori federali. Molti autorevoli colleghi affermarono in quella occasione, e produssero esempi convincenti che i componenti dei direttori federali esercitarono frequentemente un’azione politica fascista di maggior rilievo di quella propagandistica degli ispettori e delle ispettrici federali, perché i componenti di direttori federali, avendo partecipato a deliberazioni di natura politica di grande importanza, dovevano tutti assumere la piena responsabilità delle loro azioni. Avvenne in sede di Consulta che per pochi voti questa sospensione dall’esercizio del diritto di voto dei componenti di direttori federali non fu approvata. Ora è questa l’occasione nella quale la Costituente deve riprendere la questione rimasta allora sospesa, perché nessuno di noi può dimenticare – ed un collega autorevole me lo ricorda ora – che era proprio in seno ai direttori federali che si decidevano le azioni talvolta delittuose che venivano poi eseguite dai comandati dal regime fascista. Non vi è, quindi, nessuna ragione per cui i componenti del direttorio federale non debbano essere anch’essi compresi nella sospensione dell’esercizio del diritto di voto. (Approvazioni a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Bencivenga ha presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere, l’articolo 47».

(Commenti a sinistra e al centro).

L’onorevole Bencivenga ha facoltà di svolgerlo.

BENCIVENGA. Sarò brevissimo. Le ragioni che consigliano la soppressione di questo articolo sono di carattere etico e patriottico. (Commenti a sinistra). Io trovo assolutamente assurdo che si continuino a fomentare le divisioni tra italiani in un momento nel quale è necessario raccogliere tutte le forze della Nazione per superare la crisi dell’ora. (Commenti a sinistra – Rumori).

DE MICHELIS. Tra assassini e vittime c’è differenza!

BENCIVENGA. D’altra parte le critiche mosse a questo articolo del decreto dimostrano quanto sia difficile dare vita a una disposizione precisa al riguardo. Per queste considerazioni, per un alto sentimento di patriottismo, per dovere di coscienza, propongo la soppressione dell’articolo 47 anche a nome del Gruppo parlamentare dell’uomo qualunque. (Rumori a sinistra – Commenti).

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore ad esprimere il parere della Commissione sul nuovo testo presentato dal Governo e sui varî emendamenti proposti.

UBERTI, Relatore. Lo spirito dell’articolo 47, così come era stato proposto, emendato dalla Commissione, aveva una caratteristica fondamentale: sganciarsi completamente da quelle che erano le pronunce di epurazione e dai giudicati emessi, in quanto completamente diversi l’uno dall’altro, alcuni estremamente severi ed altri di una indulgenza veramente straordinaria, e causa perciò di una situazione anormale di mancanza assoluta di giustizia distributiva, per cui vediamo che sono stati assolti, oppure sono stati amnistiati i responsabili maggiori del regime fascista, mentre sono stati colpiti altri i quali avevano responsabilità meno gravi.

Di fronte a questa situazione, la Commissione ha voluto impostare diversamente l’articolo 47. Il Governo continuava sulla scia delle pronuncie e tendeva a stabilire, per quelle pronuncie nelle quali non era stato stabilito il termine di durata dall’esclusione dal voto, di arrivare a fissare anche per quelle una durata. Invece, la Commissione ha ritenuto più giusto e più opportuno porre una norma, di carattere oggettivo, cioè di allontanarsi da ogni giudicato, per stabilire che basta aver ricoperto alcune determinate cariche di indubbia responsabilità – e perciò un numero ridotto di casi nei quali questa responsabilità non può essere pretestata – per non avere per un limitato periodo di tempo il diritto di voto. S’è voluto evitare ogni indagine di merito, ogni nuovo processo, per limitarsi all’accertamento del fatto di aver ricoperto quelle determinate cariche.

Si è in altre parole voluto evitare che si rinnovasse quanto è avvenuto nella epurazione, cioè che sono andati per aria i minori responsabili ed invece i maggiori ne sono usciti esenti, attraverso influenze, attraverso giudicati, attraverso amnistie, le quali hanno fatto sì che l’epurazione è diventata realmente una cosa profondamente ingiusta. Ed in questa linea ho trovato un alleato proprio nell’onorevole Schiavetti, che in questo momento viene qui a fare la critica alla proposta della Commissione, che ha avuto in lui uno dei principali sostenitori. La tendenza era netta e precisa nel rinunciare alle categorie inferiori, che possono avere minore coscienza politica vera e propria, e colpire invece i veri responsabili, i massimi esponenti, i veri capi.

Ed il pericolo maggiore è questo, caro Schiavetti, che per volere arrivare ad una giustizia assoluta non si arrivi neanche a stabilire quella che è giustizia verso i maggiori responsabili, verso i veramente colpevoli.

In merito alla esclusione di alcuni senatori la Commissione, in un primo tempo, aveva escluso tutti i senatori che avevano votato le leggi fondamentali del regime fascista. Difficoltà estrema era di stabilire quali fossero queste leggi e difficoltà estrema era quella di arrivare ad un procedimento di accertamento, di valutazione in riferimento alle persone. Ed allora, siccome vi era stato il fatto che il nuovo regime aveva creato l’Alta Corte di giustizia, la quale aveva esaminato la situazione dei senatori, si è stabilito, senza entrare nel merito, di prendere, come dato di fatto, quello che è stato deciso dall’Alta Corte, eccettuando dalla norma di esclusione solo quelli che erano stati discriminati.

Ora, che cosa è avvenuto? Schiavetti vuole estendere questa conclusione della Commissione sotto forma di emendamento aggiuntivo. La Commissione durante la sospensione della seduta ha esaminato anche questa nuova proposta dell’onorevole Schiavetti, ma non ha ritenuto di poterla accogliere, perché è difficile fissare quali sono tutte le leggi fondamentali del regime fascista, perché non potendo affidare tale incarico a commissioni comunali bisognerebbe creare un nuovo organo di valutazione, perché infine questo significherebbe trascurare le indagini già fatte da un organo come l’Alta Corte, organo creato appositamente dal nuovo regime.

È vero che il testo della Commissione in questo modo fa un trattamento diverso fra deputati e senatori, ma per quanto si sia ricercato non si è riusciti à trovare, per i pochi casi di deputati i quali hanno fatto l’opposizione nell’Aula, una formula giuridica che sia diversa da questa. Saranno pochi casi per i quali sarà facile l’accertamento. Invece per i senatori i casi sono ben più numerosi e si dovrebbe arrivare a dare alla Commissione elettorale comunale la potestà di indagare se un senatore ha votato le fondamentali leggi fasciste, compito al di là della loro possibilità, oppure creare un nuovo organo mentre ne abbiamo già uno (formato d’accordo con tutti i partiti, dopo la liberazione), che ha già condotto autorevolmente a termine la sua indagine e ai cui giudicati le commissioni comunali possono riferirsi.

È vero quello che ha detto l’onorevole Schiavetti, che qualche giudicato, rarissimo, possa esser discutibile – ogni giudizio umano può essere fallace – ma l’Alta Corte di giustizia ha tenuto conto anche di altri fatti concomitanti al rilievo del voto e ad ogni modo, fra gli inconvenienti enormi di creare un nuovo esame della situazione dei senatori e quello di prendere come dato di fatto le discriminazioni operate dall’Alta Corte di giustizia, è innegabile che è un vantaggio avere – anche se vi sono come in tutti i giudicati umani delle dubbiezze, delle cose poco esatte, dei casi particolari in cui si possa soggettivamente non convenire – tutta una situazione già valutata da un organo altissimo,

Circa la proposta di graduazione del periodo di esclusione avanzata dall’onorevole Coppi, devo rilevare che dal punto di vista della giustizia assoluta certamente la proposta dell’onorevole Coppi sarebbe fondata, ma qui dobbiamo fare provvedimenti che non rivestano un carattere complicato, bensì trovare la formula più semplice. Vuol dire che fra 5 anni, quando si esaurirà la nuova legislatura (e storicamente si riscontra che ogni legislatura modifica sempre la legge elettorale prima di indire le elezioni), se si rileverà che per qualche caso sia necessario prolungare il termine, la nuova Camera potrà sempre farlo.

Per quello che riguarda l’osservazione dell’onorevole Fabbri, che verrebbe cioè istituita una procedura particolare per questi casi, per cui alla vigilia delle elezioni, in un clima arroventato, si potrebbero decidere senza le necessarie garanzie casi di inclusione e esclusione, osservo che c’è una norma già approvata per la quale, a partire dal giorno in cui si pubblica il manifesto che indice le elezioni, le liste vengono bloccate; da quel giorno sono quelle che sono. Ora, è evidente, anche per questi casi, che dal giorno in cui sono indette le elezioni la certezza delle liste viene ad essere stabilita. La Commissione, per vero, aveva soppressi i tre commi relativi a questa particolare procedura. Il Governo la ha riproposta.

Sentiremo il Governo. La Commissione pensa che quando abbiamo la garanzia che una volta indette le elezioni le liste restano bloccate, le incertezze, le preoccupazioni dell’onorevole Fabbri vengono superate. Tuttavia non è contraria che anche per questi casi si applichi la procedura ordinaria.

Vi è l’emendamento dell’onorevole Cosattini riguardante i giornalisti. Dal punto di vista morale, sono d’accordo con lui. Però il testo proposto mi sembra molto lato. Bisognerebbe che fosse studiato in modo preciso, così che rappresenti una norma di carattere giuridico ben delimitata, in quanto dobbiamo metterci in mente che sono le Commissioni comunali e mandamentali che debbono applicare questa norma, a meno che non si crei un apposito organo centrale. Bisognerebbe arrivare ad una precisazione molto più aderente alla realtà, per modo che poi non accadano arbitrî.

C’è poi l’emendamento Veroni; l’onorevole Veroni vorrebbe arrivare a completare le deliberazioni prese dalla Consulta, aumentando le esclusioni fatte allora, dicendo che allora non si è fatto tutto quello che si doveva fare.

Mi permetta, onorevole Veroni; non solo la situazione è diversa, ma anche lo spirito della proposta della Commissione segue proprio un indirizzo opposto. Allora eravamo di fronte ad una posizione particolare: la Costituente non è un normale Parlamento, tende a costituire i fondamenti del nuovo Stato. È evidente che in quella occasione le esclusioni dal diritto di voto potevano essere maggiori che non oggi per un Parlamento ordinario. Indubbiamente anche una fiduciaria di fascio femminile ha aderito al regime fascista; ma la sua responsabilità è diversa, è ben diversa da quella dei capi del partito, del Parlamento, del governo fascista, in una parola dei centri motori del regime fascista.

Un certo grado di responsabilità vi è naturalmente in questa ed altre cariche non contemplate, ma siamo di fronte ad un problema ben grave, quello di dire: coloro i quali hanno assunto le maggiori responsabilità nel passato regime, li escludiamo, non solo da essere eleggibili, ma anche da essere elettori.

Ora, di fronte a una situazione di questo genere, la proposta del collega Veroni è contraria allo spirito che ha diretto la Commissione nell’arrivare, cioè, a sganciarsi da quelli che erano i pronunciati di questo periodo e colpire solamente i maggiori ed i veri responsabili.

Perciò pregherei l’onorevole Veroni di non voler insistere, perché evidentemente noi abbiamo di fatto ridotto l’elencazione in confronto a quelle che erano le proposte del Governo, e l’abbiamo ridotta proprio per dare un significato politico, che cioè queste esclusioni dal voto non sono tanto per poter togliere dalla partecipazione alle elezioni gente in contrasto col nuovo regime, quanto per dare una sanzione ai veri responsabili.

Vengo ora agli emendamenti proposti dal Governo. Tra questi emendamenti ve ne sono alcuni di fronte ai quali la Commissione deve insistere nel suo testo. Altri, invece, che la Commissione accoglie.

Per quanto riguarda la lettera e) la Commissione proponeva: «Le stesse cariche del partito fascista repubblicano». Invece il Governo propone:

«le medesime cariche di cui alle lettere precedenti, durante la pseudo repubblica sociale».

È una modificazione di forma, non sostanziale, per cui, se il Governo insiste, la Commissione ha deliberato di accettare la formula governativa.

Invece, insiste perché sia inserita la formula relativa ai deputati e senatori, in questa precisa espressione:

«deputati che, dopo il 3 gennaio 1925…

RUSSO PEREZ. Perché non c’è il 1924?…

UBERTI, Relatore. …abbiano votato leggi o mozioni intese a mantenere in vita il regime fascista, e senatori, eccetto quelli discriminati dall’Alta Corte di giustizia».

Su questo punto, la Commissione ha deliberato in una precedente seduta all’unanimità meno uno, nella riunione tenuta durante l’interruzione della seduta dell’Assemblea, all’unanimità.

Poi, alla lettera f), il Governo ha proposto di aggiungere: «prefetti o questori nominati per titoli fascisti, o capi di provincia».

La Commissione desidererebbe poter completare il testo in questo senso:

«o capi di provincia, o questori nominati per meriti fascisti dalla repubblica sociale».

Poi, alla lettera m) della Commissione, che diventa l) nel testo proposto ultimamente dal Governo. In essa era detto: «ufficiale generale o ufficiale superiore della milizia volontaria sicurezza nazionale». Al che il Governo ha proposto ora di aggiungere: «in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi religiosi, sanitari, assistenziali e gli appartenenti alle legioni libiche, alla milizia ferroviaria, postelegrafonica, universitaria, alla G.I.L., alla D.I.C.A.T. e Da. Cos., nonché alla milizia forestale, stradale e portuaria». Ora, dopo ampio dibattito, la Commissione ha deciso di accettare alla unanimità quest’aggiunta.

Vi è poi un’altra aggiunta da parte del Governo e cioè: «il termine stabilito nel primo comma decorre dalla data di entrata in vigore della presente legge». Anche qui la Commissione accede all’emendamento del Governo.

Ma c’è poi un’aggiunta che la Commissione non ritiene di potere accettare. È la seguente: «Nei confronti di coloro i quali siano stati già cancellati o non iscritti nelle liste elettorali per aver ricoperto taluna delle cariche sopra elencate, il termine decorre dalla data della «pronuncia» o del «provvedimento» con cui fu disposta la privazione temporanea del diritto elettorale». Ora, sotto questo riguardo, si è fatto rilevare che, con la formula della Commissione, si verrebbero a danneggiare coloro i quali hanno avuto un’esclusione dal voto per un periodo minore di cinque anni, mentre sarebbero invece avvantaggiati coloro i quali hanno avuto una condanna superiore ai dieci anni. Ebbene, la Commissione invece, proprio richiamandosi a quel concetto di giustizia distributiva che deve informare ogni deliberazione dello Stato, ha ritenuto che sia assai preferibile giungere ad una norma uguale per tutti. È da notarsi infatti che molte volte, queste pronunzie, queste deliberazioni, sono state fatte in momenti o climi differenti, l’una rispetto all’altra e con giudicanti tanto diversi che, ad esempio, nella stessa provincia si sono avute per la stessa imputazione esclusioni per dieci anni ed altre solamente per un anno ed anche meno. Ci troviamo, quindi di fronte al pericolo di sanzionare con questa disposizione situazioni profondamente diverse. È per questo motivo che la Commissione ha deliberato all’unanimità di non accedere al criterio che ha informato questa aggiunta, e sembra che anche il Governo si sia, per questo riguardo, affiancato alla Commissione.

E con ciò ho terminato le mie osservazioni. Concludendo, vorrei pregare i colleghi di volersi convincere che, in realtà, si è pervenuti ad un non lieve sforzo di conciliazione, perché nella Commissione, in principio, vi era disparità profonda di pareri. Sarebbe pertanto veramente opportuno ed auspicabile che la Camera potesse ritrovarsi tutta veramente concorde su una linea che rappresenta indiscutibilmente un principio di equanimità e di giustizia.

È pertanto evidente che, soltanto allontanandosi da quella che può essere una giustizia assoluta, irraggiungibile, e in pari tempo allontanandosi altresì da quella che potrebbe rappresentare una sanatoria generale non meno ingiusta, si può pervenire ad un vero senso di concreta giustizia, rispondente alle possibilità pratiche di attuazione.

Si pensi, ad esempio, quali maggiori, più giusti e più equi risultati avrebbe avuto l’epurazione, se, anziché scendere sino ai minimi gradi, si fosse fermata su una determinata linea: non ci sarebbero oggi al Consiglio di Stato quindicimila reclami che non si sa come evadere, tanto che si pensa ad una generale sanatoria per i gradi minori. È veramente inutile e dannoso discostarsi dal criterio di realizzare norme possibili, applicabili, miranti alle maggiori e non discutibili responsabilità, nella vana ricerca di una giustizia perfetta. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Dopo che l’onorevole Relatore aveva già incominciato a parlare, è stato presentato alla Presidenza un nuovo emendamento firmato dall’onorevole Lussu e dagli onorevoli Giua, Veroni, Bennato, Nobili Tito Oro, Tega, Vernocchi, Fornara, Merighi e Fioritto, del seguente tenore:

«Aggiungere all’elenco dell’articolo 47: ufficiali volontari della guerra di Spagna appartenenti a corpi combattenti fascisti».

Ha ora facoltà di parlare l’onorevole Lussu per svolgere il suo emendamento.

LUSSU. Rinuncio a svolgerlo.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro dell’interno, per esprimere il parere del Governo sugli emendamenti proposti.

SCELBA, Ministro dell’interno. Fra il testo dell’articolo 47, formulato dal Governo, compresi gli ultimi emendamenti proposti, e il testo formulato dalla Commissione, non vi è una sostanziale difformità, perché, per quanto riguarda le categorie, l’unica difformità si riferisce ai senatori decaduti, di cui dirò appresso.

Le modifiche apportate dal Governo al precedente testo riguardano questioni di principio e di procedura.

Questioni di principio: una legge dello Stato aveva stabilito che si potesse essere privati del diritto elettorale fino a dieci anni appartenendo a determinate categorie, rimettendo ad apposite Commissioni comunali lo stabilire concretamente la misura della durata della perdita del diritto elettorale. Oggi, con le proposte della Commissione, la quale indiscriminatamente stabilisce una sospensione dal diritto elettorale per cinque anni, e qualora questa proposta venisse accettata, si avrebbero queste conseguenze: che coloro che avevano avuto dalle Commissioni una sospensione maggiore di cinque anni, vedrebbero ridotta questa sospensione ai cinque anni proposti dalla Commissione; mentre altri, che avevano avuto una sospensione inferiore ai cinque anni, vedrebbero aggravata da una nuova legge la loro posizione, nonostante che una Commissione abbia giudicato sulla sospensione del diritto elettorale. È una questione di principio: si dovrebbe stabilire almeno che nel termine di sospensione si tenesse conto delle decisioni già emanate dalle Commissioni stabilite da una legge e alle quali una legge dello Stato aveva demandato in concreto di stabilire il termine di sospensione. Comunque, il Governo, richiamata su questo punto l’attenzione dell’Assemblea, e tenuto conto delle osservazioni fatte dal Relatore, cioè che nell’applicazione concreta di queste disposizioni si sono verificate patenti e larghe ingiustizie, non ha nessuna difficoltà ad accettare il criterio addotto dalla Commissione, fissando per tutte le categorie la sospensione per un termine non superiore ai cinque anni.

C’è poi un’altra conseguenza su cui io intendo richiamare l’attenzione dell’Assemblea Costituente, e cioè che qualcuno di costoro, ai quali si era applicata la sospensione per un termine di un anno per esempio, perché la Commissione non aveva ritenuto di applicare all’attività di questo soggetto una sanzione maggiore, ha potuto partecipare concretamente a delle elezioni, alle elezioni amministrative per esempio. E oggi noi verremmo a privare questi cittadini, che hanno esercitato il diritto elettorale, e lo hanno esercitato in base ad una legge dello Stato, del diritto di voto.

Ora, queste contraddizioni mi paiono di una certa importanza, e io richiamo l’attenzione dell’Assemblea Costituente su questo punto, per vedere se non sia preferibile accettare il testo del Governo, che mi pare risponda più a un criterio di giustizia, di legalità, diremo, che non il testo della Commissione. Comunque, il Governo si rimette alla decisione dell’Assemblea.

Per il resto si tratta di questioni di procedura, che esamineremo concretamente a mano a mano che discuteremo le singole parti dell’articolo. Intendo invece esprimere il pensiero del Governo sugli emendamenti che sono stati proposti dai varî componenti di questa Assemblea.

Io non posso accettare gli emendamenti proposti dai varî oratori perché, in sostanza, tutti questi emendamenti tendono ad allargare da un canto la sfera degli elementi colpiti dalla sospensione del diritto elettorale, e dall’altro ad aumentare la durata della sospensione. In questo si concretizzano i varî emendamenti presentati dagli oratori.

Ora io mi permetterei di fare un modestissimo richiamo all’Assemblea, ed il richiamo è questo: che è facile, naturalmente – e vi sono cento ragioni per coloro che hanno sofferto durante il ventennio le vessazioni fasciste – essere portati alla durezza, ad escludere tutti coloro che hanno attivamente partecipato alla vita del fascismo affermandone la sua supremazia.

Ma, onorevoli colleghi, tutti i partiti hanno creato a questo riguardo delle larghe esenzioni, hanno creato delle vaste amnistie. Quando noi abbiamo stabilito nella legge che la sospensione dal diritto elettorale non poteva essere superiore ad una certa data, ciò non è stato stabilito da un Governo di colore, ma da un Governo di Comitato di liberazione nazionale; è stato il Governo dei sei partiti che ha stabilito le sanzioni contro il fascismo, considerando anche il diritto elettorale, limitando questo diritto. E tutti i partiti, onorevoli colleghi, compresi i rappresentanti del Partito d’azione (al quale mi pare appartenga l’onorevole Schiavetti) hanno aderito a questo concetto dopo ampia e completa discussione in cui tutti questi casi che oggi vengono sottoposti all’Assemblea Costituente furono vagliati ed esaminati.

Ma arriveremmo– direi – a degli assurdi se si dovesse accettare qualcuna delle proposte formulate dall’onorevole Schiavetti. Per esempio: segretari delle sezioni fasciste, segretari sezionali fascisti. Noi, nella legge per l’elezione alla Costituente, abbiamo stabilito un criterio più rigoroso, ma un criterio molto più largo è stato stabilito in sede di eleggibilità ai Consigli comunali, perché s’intese affermare che dalla partecipazione alle elezioni per la Costituente dovessero essere esclusi tutti gli elementi che politicamente avessero concorso all’affermarsi del regime fascista ed alla sua permanenza al potere, ma nelle elezioni amministrative locali un criterio più largo doveva usarsi, specialmente per determinati Comuni. E noi ci siamo trovati d’accordo nel ritenere, per esempio, che i podestà fascisti potessero essere eletti ed elettori, in quanto considerazioni obiettive e di fatto hanno portato a ritenere che molta gente ha fatto il podestà fascista perché era la persona più rappresentativa del luogo, perché era l’unica persona adatta per tale carica. (Interruzioni a sinistra).

Onorevoli colleghi, non essendo stato nessuno di noi podestà fascista, possiamo giudicare obiettivamente la questione. Si era ritenuto di far questo. (Interruzioni a sinistra).

Io richiamo questo argomento per dire che il Governo del Comitato di liberazione nazionale ha escluso queste categorie dalle sanzioni elettorali; e noi oggi vogliamo ritornare su queste questioni? Io dico che l’Assemblea, nella sua sovranità, è padronissima di decidere diversamente, ma non si può non consentire questo richiamo di carattere storico (che si riferisce a storia molto recente, alla vita del Governo del Comitato di liberazione nazionale); io dico che noi arriveremmo oggi a privare del diritto elettorale quei cittadini ai quali abbiamo riconosciuto il diritto di essere eletti consiglieri comunali o sindaci (Commenti a sinistra), il che rappresenterebbe un contrasto assolutamente inammissibile.

Ripeto, ho il dovere di richiamare l’attenzione dell’Assemblea su queste conseguenze, salvo il diritto dell’Assemblea di decidere sovranamente su questi punti; ma mi pare che io abbia almeno il diritto di sottoporre queste considerazioni al senso di responsabilità degli onorevoli colleghi.

Così lo stesso argomento vale anche per i componenti dei direttori fascisti, di cui parla l’emendamento dell’onorevole Veroni.

Onorevoli colleghi, noi parliamo di componenti del direttorio fascista come parliamo di segretari di fascio, ma ci riferiamo indiscriminatamente a tutto il periodo del regime fascista, cioè a dire anche a chi venti anni fa fu componente di segreteria di fascio o componente di federazione fascista e che poi, esaurita questa carica, non ha esplicato mai nessun’altra attività politica. (Commenti).

Onorevoli colleghi, prego di volere ascoltare quello che sto riferendo. Questi argomenti furono discussi e vagliati in seno al Consiglio dei Ministri, nel Governo in cui erano rappresentati tutti i partiti; se non ricordo male, si stabilì, per esempio, che la sanzione riguardasse unicamente i podestà dei grandi comuni e degli ultimi cinque anni. L’onorevole Gullo può ricordarsi della questione, se ha la memoria più felice di me. Si disse: ma possiamo colpire nella stessa maniera il segretario fascista di un qualsiasi Comune anche di mille abitanti? Con l’emendamento Schiavetti si porta a 10 mila, mentre prima si era parlato di 20 mila.

Per le elezioni della Costituente il Governo unanime fu d’accordo nello stabilire dei criteri più gravi che non fossero stabiliti, per esempio, per le elezioni amministrative, dato il valore non soltanto reale ma simbolico che rappresentava l’elezione della Costituente che doveva essere la Costituente dell’antifascismo; per cui non potevano essere elettori uomini che avevano partecipato in qualche maniera alla responsabilità direttiva del fascismo.

SCHIAVETTI. Dopo l’effetto controproducente dell’amnistia abbiamo il dovere di essere più severi.

SCELBA, Ministro dell’interno. Questo potrà essere un argomento, onorevole Schiavetti.

Torno di nuovo alla discussione. La mia non è che l’esposizione di argomenti non nuovi, che già indussero i Governi passati, nei quali erano rappresentati tutti i partiti, a scartare quelle stesse esclusioni che oggi vengono riproposte. L’emendamento – ripeto – non si potrebbe accettare senza una offesa alla giustizia: nel senso che varrebbero posti sullo stesso piano coloro che furono segretari dei fasci durante la guerra e coloro che lo furono al principio del fascismo, anche per pochi mesi. Vi sono casi di persone che sono state segretari politici o componenti di direttorio di un fascio soltanto quindici giorni o un mese. Non possiamo colpire nella stessa maniera il dirigente fascista durante il periodo della guerra ed il dirigente che lo è stato nel periodo anteriore per quindici giorni e dopo non si è più occupato di politica ma si è interessato soltanto dei propri affari.

Questa, onorevoli colleghi, è la situazione che noi creeremmo. Giudicherà l’Assemblea Costituente se debba o no sancirla. Va considerato inoltre che, accogliendosi l’emendamento Schiavetti, verrebbe tolto oggi il diritto elettorale ad elementi che, per un complesso di leggi, abbiamo lasciati, attraverso le amnistie o le discriminazioni, anche a posti di responsabilità direttiva nel campo della burocrazia o in altri campi. Per esempio, vi è il caso di un alto funzionario dello Stato che fu moschettiere del duce ma che si è ritenuto possa meritare di assumere una funzione direttiva in una amministrazione statale. Si tratta di una designazione fatta non da me, ma da persona assolutamente insospettabile appartenente ai banchi dell’estrema sinistra. Questo cittadino che oggi occupa una certa posizione amministrativa nello Stato fu discriminato: non gli si può negare oggi il diritto di voto, mentre poi egli avrà facoltà di regolare, vigilare e controllare la stessa attività e la stessa funzione elettorale. Si dice: questa è un’accusa contro leggi che sono state approvate. Sarà una accusa, ma è la conseguenza dell’applicazione di quelle leggi delle quali siamo tutti corresponsabili.

A me pare che con l’emendamento Schiavetti non sono state sufficientemente valutate tutte le conseguenze di ordine politico ed amministrativo, tutte le incongruenze che si creerebbero nella nostra vita amministrativa e politica. Io ho il dovere di richiamare l’attenzione dell’Assemblea su queste incongruenze, salvo la decisione dell’Assemblea stessa in un senso o nell’altro.

Quanto ai giornalisti, ricordo che è stata scartata in passato una disposizione che colpisse il giornalismo, salvo che esso abbia assunto forme particolari, come quella di collaborazionismo durante la pseudo repubblica di Salò.

L’emendamento Cosattini è troppo generico.

Chi giudicherebbe ed in quali limiti? Noi attribuiremmo al criterio discrezionale ed anche all’arbitrio di una semplice Commissione elettorale, che può essere rappresentativa di un solo partito, come avviene nei piccoli Comuni, il compito di decidere sul diritto più alto del cittadino. Quali incongruenze, quali sperequazioni, quali ingiustizie concrete potranno manifestarsi?

La disposizione di cui all’emendamento, così come formulata, non offre nessuna garanzia. Noi abbiamo il dovere di colpire; ma abbiamo il dovere di non lasciare all’arbitrio di alcuno di decidere sull’esercizio dei diritti del cittadino.

Volete colpire i giornalisti? Stabilite misure concrete, limiti congrui e giusti, e organi giudicanti che diano garanzia di giustizia e di imparzialità. L’Assemblea non può accettare, a mio giudizio, una formulazione così generica come quella proposta.

Il Governo ha esaminato il problema dei volontari di Spagna. Oggi da tutte le parti si chiede che il provvedimento col quale fu tolta la pensione ai mutilati e agli invalidi della guerra civile di Spagna venga revocato. Dico da tutte le parti. Quando si discusse quel provvedimento si riconobbe che volontari di Spagna ve ne sono stati certamente; ma molto maggiore fu il numero dei combattenti inviati da Mussolini in unità organiche dell’esercito. Mussolini li mandò sotto la formula del volontariato, perché non poteva mandare formazioni regolari dell’esercito italiano a combattere in Spagna. Non so quanti siano i veri volontari; non so chi siano. Ma noi non possiamo non prospettarci le difficoltà obiettive che presenta una discriminazione di questo genere: stabilire se un ufficiale sia partito volontario o come membro d’una formazione organica dell’esercito, comandata a combattere in Spagna.

Prendo l’esempio degli ufficiali di marina. I sottomarini che operavano allora nel Mediterraneo, affondavano navi anche di Paesi coi quali l’Italia non era in guerra! Ebbene, a compiere queste operazioni non è improbabile che sia stato comandato un ufficiale di carriera, senza che questi avesse la possibilità di ribellarsi, perché in quel momento chi dava l’ordine era un rappresentante dei poteri costituiti, e non era possibile sottrarvisi, salvo ad uomini che avessero una fede antifascista decisa e lottassero per questa fede. Mi pare molto difficile creare discriminazioni in questo campo e quindi potere includere nella legge l’emendamento proposto dall’onorevole Lussu, quantunque la finalità da lui perseguita corrisponda ad un senso di giustizia e quantunque tutti condanniamo gli elementi che parteciparono volontariamente alla guerra civile in Spagna. Io vedo insomma, le difficoltà pratiche di concretizzare questa discriminante, perché la situazione obiettiva in cui si svolsero i fatti rende difficile distinguere gli autentici volontari da coloro che eseguirono ordini impartiti dal governo legale.

PRIOLO. Gli ufficiali di complemento venivano interpellati.

SCELBA, Ministro dell’interno. Per quanto riguarda i questori sono d’accordo nell’accettare l’emendamento della Commissione, inteso a colpire tutti i questori nominati dalla pseudo repubblica, non quelli che erano nell’Amministrazione ed esercitavano i loro poteri, a colpire coloro che furono nominati questori per meriti fascisti, che vanno considerati alla stessa stregua di coloro che furono nominati per il medesimo motivo capi delle provincie.

Veniamo ai senatori, l’ultima categoria sulla quale si è polarizzata l’attenzione. In questa categoria rientra un numero molto limitato di persone, e pertanto si tratta soltanto di risolvere un quesito giuridico e di giustizia obiettiva. Può darsi che una difesa di un semplice principio giuridico possa portare ad inconvenienti sul terreno etico e politico; ma la violazione di un principio giuridico fondamentale in uno Stato democratico può essere foriero di ben più vasti pericoli. Qual è il principio giuridico che vogliamo difendere con la nostra proposta di non escludere dall’esercizio del diritto di voto i senatori discriminati per effetto della sentenza della Cassazione? Noi difendiamo il principio della non ammissibilità, in diritto, del criterio del bis in idem. Non possiamo ammettere che sullo stesso fatto si torni a giudicare per la seconda volta, perché è principio basilare dell’ordinamento giuridico italiano e di qualsiasi ordinamento giuridico democratico, che su di un fatto, una volta giudicato, qualunque sia la sentenza, anche se sia errata (tante volte le sentenze lo sono) non è più possibile ritornare con un nuovo giudizio,

CIANCA. Cosa c’entra questo sul piano politico?

VERONI. Ma qui si tratta di un giudizio politico!

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole Veroni, lei è avvocato e giurista ed è stato anche Sottosegretario per la giustizia; e mi pare che per un avvocato la distinzione della politica dal diritto, quando la politica dovesse violare il diritto, che è la risultante di un ordinamento politico, non possa essere un principio accettabile. C’è un giudizio politico che possiamo dare, se lo possiamo dare, perché non credo spetti alle assemblee parlamentari il giudicare di altre autorità nell’esercizio dei loro poteri sovrani. Possiamo criticare, ma non arrogarci anche questi poteri.

Noi non possiamo, per un giudizio politico e per una valutazione politica, scardinare un principio che è basilare per un ordinamento democratico, perché rappresenta la garanzia del diritto, la legalità, il rispetto della legge, rappresenta una garanzia della democrazia, anche se, nel caso in oggetto, come valutazione politica, noi possiamo essere d’accordo nel dire che la sentenza della Cassazione è stata sbagliata.

Ora, che cosa è avvenuto? La Cassazione ha dichiarato, ed ha ritenuto che questi senatori non siano stati dei collaborazionisti e che nei loro confronti non si siano verificate le condizioni giuridiche stabilite dalla legge, cioè a dire che essi non abbiano concorso a instaurare e a consolidare il regime fascista. Questo è il giudizio della Corte di cassazione, che è il supremo organo giurisdizionale dello Stato, contro il quale non è dato a noi di poter decidere diversamente, anche se possiamo farne una valutazione politica. (Interruzioni e commenti a sinistra).

SCHIAVETTI. La Corte di Cassazione non è entrata nel merito.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ma, onorevoli colleghi, ciò che conta in una decisione non è la motivazione ma il dispositivo. (Interruzioni a sinistra). Vi sono qui molti avvocati i quali mi potranno dire se dal punto di vista giuridico io dica grosse eresie. Può darsi politicamente, ma giuridicamente non mi pare di dire eresie quando affermo che quello che conta è il dispositivo di una sentenza, non la sua motivazione, che può anche essere difettosa. Ora, la valutazione che io faccio delle sentenze della Corte di cassazione è che questi giudicati escludono, in sé e per sé, nel caso in esame, che nei confronti dei senatori discriminati si siano verificate le condizioni che dovevano portare alla loro espulsione dal Senato.

SCHIAVETTI. La Corte di cassazione ha annullato le sentenze di decadenza senza entrare nel merito, esclusivamente per difetto di motivazione. Nel merito dobbiamo entrare noi.

SCELBA, Ministro dell’interno. Vorrei rispondere che anche se la questione stesse in questi termini, non per questo muterebbe il mio avviso in materia, perché noi, onorevoli colleghi, non possiamo escludere dal voto se non quei senatori che da una sentenza sono stati dichiarati in condizione di non potere più far parte del Senato; e non possiamo applicare la stessa disposizione nei confronti dei senatori contro i quali non esiste più una sentenza di questo genere.

Vi è una diversità di criterio e di giudizio, una diversità di posizione giuridica, fra senatori che espressamente furono dichiarati collaborazionisti del fascismo ed altri senatori che non si trovano in queste condizioni, perché nei loro confronti manca una sentenza che accerti il loro collaborazionismo.

Onorevoli colleghi, si tratta di parva materia, di piccola cosa, perché non sarà il voto di 50 o 60 senatori che potrà spostare un qualsiasi esito elettorale. Né con questo noi verremmo meno al principio di colpire i responsabili del fascismo, perché i responsabili del fascismo sono precisati nominativamente dall’Alta Corte, che li ha dichiarati decaduti per essere stati collaborazionisti del regime. Quindi non pregiudichiamo neppure questo principio, mentre con un intervento diverso noi verremmo a violare un principio giuridico fondamentale.

Il Governo insiste pertanto nel chiedere l’approvazione del testo che ha presentato nella sua ultima edizione, con le modificazioni apportate dalla Commissione, che accetta.

Un’ultima parola all’onorevole Fabbri, per quanto riguarda la particolare procedura, prevista dall’articolo 47, per i ricorsi avverso le cancellazioni dalle liste elettorali per i motivi elencati nello stesso articolo. Non ho difficoltà ad accettare le osservazioni dell’onorevole Fabbri, anche perché il suo emendamento sostanziale riprende il testo della vecchia legge in materia di epurazione. Dal momento che la materia dei ricorsi è regolata nella legge, in via generale, da altre disposizioni di carattere obiettivo, accetto l’osservazione e posso, se l’onorevole Fabbri insiste nel suo emendamento, accettare la soppressione, pur non vedendo nessun pregiudizio nel mantenimento della formulazione presentata dal Governo.

GIUA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIUA. Onorevoli colleghi, cercherò di comprimere il senso di pena che ho provato per effetto di alcune interruzioni dell’altra parte dell’Assemblea e della esposizione del Ministro dell’interno in merito a questo articolo 47 riguardante l’esclusione dall’elettorato attivo dei responsabili del regime fascista.

Questa Assemblea si è riportata ancora alla questione dell’epurazione e dell’amnistia. Non sono io che debbo difendere la mancata epurazione, né il decreto di amnistia, che ha finito col liberare molti criminali fascisti. Ma a me pare che la mancata epurazione si possa giustificare col fatto che in Italia non vi sono state le condizioni, i mezzi a disposizione dello stesso Governo, per non far morire di fame gran parte dei responsabili della politica del fascismo. Qualcuno anche per il decreto di amnistia può trovare la giustificazione che le carceri italiane non sarebbero state sufficienti per contenere tutti i responsabili del fascismo.

CONDORELLI. A che titolo parla l’onorevole Giua?

PRESIDENTE. Onorevole Giua, lei ha chiesto la parola per una dichiarazione di voto?

GIUA. Farò una dichiarazione di voto, in riferimento soprattutto all’emendamento relativo agli ufficiali volontari della guerra di Spagna.

Volevo dire che, in merito all’esclusione di questi responsabili del fascismo, le giustificazioni addotte dall’onorevole Ministro dell’interno mi pare provochino veramente un senso di pena, perché l’onorevole Ministro dell’interno, il quale non rappresenta solo un Ministero qualsiasi, ma rappresenta anche il più numeroso Gruppo parlamentare alla Costituente, ha voluto trovare giustificazioni che non si possono assolutamente accettare per tali.

Qui noi siamo di fronte ad una sanzione morale e, particolarmente, all’unica sanzione morale che veramente la Costituente possa prendere nei confronti dei responsabili del fascismo.

PRESIDENTE. Permette, onorevole Giua: si limiti ad illustrare l’emendamento che ha presentato insieme con l’onorevole Lussu e che l’onorevole Lussu non ha svolto. La invito a concludere.

GIUA. Insisto nell’affermare che tutti gli emendamenti presentati, ad eccezione di quello dell’onorevole Bencivenga, devono essere approvati dalla Costituente, unicamente per dare al Paese la sensazione che qui non si fanno vendette, ma che semplicemente i costituenti non hanno voluto fare altro che dare sanzioni morali ai responsabili del fascismo: e quella della esclusione dalle liste elettorali è indubbiamente la massima sanzione morale con cui noi siamo in grado di colpirli. Se poi vi sarà, come ha detto poc’anzi l’onorevole Ministro dell’interno, qualche funzionario che è potuto rientrare nel proprio ufficio in virtù dell’amnistia, ebbene, questi potrà almeno essere colpito da questa grave sanzione morale.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

UBERTI, Relatore. Ringrazio l’onorevole Ministro di avere accettato il testo della Commissione e vorrei pregare tutta l’Assemblea di volerlo approvare. La Commissione è convinta infatti, onorevoli colleghi, che esso rappresenti uno sforzo notevole di conciliazione e di giustizia.

Per quanto concerne la questione dei senatori, vorrei chiarire che il testo della Commissione ammette che siano eccettuati dalla esclusione del voto solo i senatori discriminati dall’Alta Corte di giustizia.

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Debbo precisare che sarebbe stato perfettamente inutile il chiarimento da me poc’anzi formulato circa il principio giuridico invocato per la questione, ove non si fosse voluto interpretare che io intendevo alludere ai senatori comunque discriminati, ivi compresi quindi quelli giudicati dalla Corte di Cassazione.

UBERTI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà

UBERTI, Relatore. Debbo a mia volta chiarire che su questo punto c’è diversità di pareri tra Commissione e Governo, in quanto la Commissione ritiene che l’Alta Corte di giustizia abbia pronunziato un giudizio di merito laddove la Cassazione ne ha pronunciato soltanto uno di forma.

PATRICOLO. Chiedo di parlare per una mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PATRICOLO. Constatati l’importanza dell’argomento e l’esiguo numero dei deputati presenti, e soprattutto il desolante e strano deserto sui banchi della Democrazia cristiana, partito di Governo, chiedo che si proceda alla verifica del numero legale.

PRESIDENTE. La verifica del numero legale, come lei m’insegna, onorevole Patricolo, è subordinata alla circostanza che l’Assemblea stia per procedere ad una votazione. Evidentemente, onorevole Patricolo, nessuno ha dichiarato – e doveva essere il Presidente a dichiararlo – che si stava per procedere ad una votazione.

PATRICOLO. Mi perdoni, signor Presidente: è stata implicita la sua dichiarazione che saremmo passati alla votazione, quando ella ha consentito che l’onorevole Giua parlasse per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Forse mi sono espresso male o forse ha interpretato male lei le mie parole. Io ho inteso dire all’onorevole Giua che egli aveva diritto di parlare in due ipotesi: o per svolgere l’emendamento presentato da lui insieme con l’onorevole Lussu, o per fare una dichiarazione di voto; ma non si era ancora in sede di votazione.

Comunque, l’onorevole Patricolo e gli altri colleghi che fanno la domanda di verifica del numero legale avrebbero diritto al suo accoglimento se si passasse alla votazione. Ma data l’ora molto tarda e dato che la votazione importerebbe non poco tempo, possiamo essere tutti d’accordo nel rinviare il seguito della discussione di questo disegno di legge ad altra seduta. Se non vi sono osservazioni in contrario, così rimarrà stabilito:

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’interno e dell’agricoltura e foreste, per conoscere l’atteggiamento del Governo ed i provvedimenti che esso intende prendere di fronte al pericolo della perdita di gran parte del raccolto agricolo: pericolo che si profila a seguito degli scioperi in corso in Alta Italia che costituiscono una grave minaccia per la produzione e l’alimentazione del Paese.

«Selvaggi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e ì Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’agricoltura e foreste, per conoscere:

1°) se non ritengano opportuno e doveroso esporre innanzi all’Assemblea Costituente ed alla pubblica opinione i precisi termini del dissidio che ha determinato lo sciopero delle maestranze agricole del Nord, con grave minaccia di fare perdere al Paese decine di milioni di quintali di prodotti pronti al raccolto, riso, patate e barbabietole, nonché di compromettere le future semine ed il mantenimento di un ingente patrimonio zootecnico;

2°) se, fatto salvo il diritto di astensione dal lavoro per proclamato sciopero di categorie sindacali, è usato rispetto alla libertà di quanti, a ragione od a torto, condividendo le ansie e preoccupazioni dell’intera Nazione, intendono anteporre l’interesse di questa a quello personale;

3°) se risponde al vero che i motivi i quali hanno determinato l’agitazione esorbitano da un ordinario conflitto di natura sindacale salariale;

4°) quali provvedimenti il Governo ha finora adottato e quali intende adottare per allontanare dal Paese un’altra sciagura;

5°) se ritengono di denunziare alla pubblica opinione le responsabilità del fatto a chiunque esse siano da attribuirsi, elevandosi così al di sopra di ogni competizione di interessi sindacali o politici.

«Miccolis, Rodinò Mario, Rodi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se intenda effettivamente garantire, di fronte alle ripetute aggressioni e intimidazioni a danno di agricoltori e di lavoratori agricoli, l’incolumità personale e la completa libertà del lavoro a tutti coloro che non intendono sottomettersi o partecipare ad uno sciopero, come quello dei braccianti dell’Italia del Nord, che appare chiaramente inspirato ad un meditato disegno politico di sabotare la produzione e di scalzare l’autorità dello Stato.

«Bellavista, Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per sapere se nelle trattative in corso col Governo jugoslavo si sia discusso:

  1. a) della restituzione dei motopescherecci italiani sequestrati a causa di un preteso sconfinamento nelle acque territoriali jugoslave;
  2. b) della regolamentazione dell’esercizio della pesca nell’Adriatico, allo scopo di riconoscere ai nostri pescatori i diritti sempre goduti e senza i quali la nostra pesca in Adriatico sarebbe virtualmente resa impossibile.

«Tozzi Condivi».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno, preciserò martedì o mercoledì quando potrò rispondere alle interrogazioni direttemi. Quanto agli argomenti in esse trattati, il Governo si riserva di fare dichiarazioni innanzi all’Assemblea anche non in sede di risposta ad interrogazioni. Interesserò gli altri Ministri interrogati perché facciano sapere al più presto quando intendano rispondere.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non creda di comunicare i risultati dell’inchiesta eseguita a carico degli uffici del Genio civile di Cagliari, relativa alla abusiva assegnazione di alloggi ricostruiti; per conoscere, altresì, se e quali adeguati provvedimenti sono stati adottati a carico dei funzionari responsabili e come sia stata possibile la lunga e larga frode senza che gli organi dirigenti e centrali intervenissero.

«Corsi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle poste e telecomunicazioni, per conoscere se intenda riprendere in esame ed emendare le disposizioni relative al riposo festivo degli uffici telegrafici dei comuni rurali sprovvisti di comunicazioni telefoniche.

«È opinione degli interroganti che giustizia e umanità impongono il dovere di non lasciar privi di ogni rapido collegamento con il mondo piccoli centri rurali, in cui possono manifestarsi d’improvviso urgenti esigenze di ordine vario, per le quali non si può attendere ventiquattro o quarantotto ore di tempo e che, se è da convinti cristiani rispettare il riposo festivo, è poco cristiano recare danni e forse lacrime a poveri nuclei umani abbandonati in nome del riposo medesimo.

«All’onorevole Ministro domandano pertanto accorgimenti atti a conciliare i desideri di onesti lavoratori con quelli di modeste collettività. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Sullo, Nobile, Ciampitti, Mannironi, Giordani, Fuschini, Mazza, Bettiol, Fioritto, Vernocchi, Fornara».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere, in rapporto alle distruzioni causate dalla eruzione del Vesuvio del marzo 1944, se intenda:

  1. a) aumentare il contributo statale, disposto con il decreto-legge 14 gennaio 1947, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 6 marzo 1947, n. 54, dal 59 per cento al 75 per cento;
  2. b) disporre che il contributo sia corrisposto non solo per le costruzioni, ma anche per l’importo del suolo su cui sarà costruito;
  3. c) disporre il risarcimento anche per i danni ai fondi coperti dalla lava e per i mobili distrutti;
  4. d) riaprire il termine, di cui al decreto surrichiamato, per la presentazione delle domande;
  5. e) promuovere l’espropriazione di una zona di terreno, su cui far sorgere il nuovo paese su un piano regolatore preparato dal Genio civile. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio Stefano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere se e quali provvedimenti siano allo studio circa la corresponsione di un assegno continuativo di assistenza ai privi della vista, secondo le comunicazioni del Ministero in data 30 luglio 1947. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bulloni, Targetti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle poste e telecomunicazioni, sulla necessità della sollecita istituzione in Reggio Calabria del servizio dei conti correnti postali, dato che attualmente tutta la Calabria dipende dall’ufficio esistente presso la Direzione provinciale delle poste di Catania.

«Ora una tale dipendenza, se poteva essere giustificata molti anni or sono, quando lo sviluppo dei conti correnti postali nelle province calabresi era molto limitato, non trova alcuna ragione d’essere, ma anzi riesce molto dannosa alle categorie commerciali ed a quanti se ne servono per le loro rimesse di denaro e per i loro accreditamenti, oggi, che questo servizio statale è largamente diffuso in tutte le provincie calabresi e specie in quella di Reggio.

«Inoltre l’Ufficio dei conti correnti di Catania è sovraccarico di lavoro.

«L’autonomia siciliana aggiunge, poi, una altra ragione di più alla legittimità della proposta di sganciamento del servizio dei conti correnti postali, interessanti le provincie calabresi, da Catania e per l’istituzione di un ufficio conti correnti presso la Direzione provinciale di Reggio, che, disponendo di una sede degna ed avendo dell’ottimo personale, è benissimo in grado di poterlo accogliere.

«Per convincersi della necessità e dell’opportunità di tale istituzione il Ministero competente non avrà che da dare una occhiata alle cifre, che rappresentano lo sviluppo dei conti correnti postali nella regione calabrese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 14.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 15 settembre 1947.

Alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica, italiana.

VENERDÌ 12 SETTEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXVI.

SEDUTA DI VENERDÌ 12 SETTEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Foresi

Congedi:

Presidente

Votazione segreta sul disegno di legge: Approvazione degli Accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, tra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Rubilli

La Rocca

Di Gloria

Comunicazioni del Governo:

De Gasperi. Presidente del Consiglio dei Ministri

Chiusura della votazione segreta:

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Annunzio di trasformazione di una interpellanza in mozione:

Presidente

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

FORESI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FORESI. Onorevoli colleghi, se mi fosse stato consentito ieri di essere presente all’inizio della seduta, allorché con pensiero fraterno e gentile gli onorevoli colleghi Tonello e Grilli commemorarono il defunto deputato onorevole Ventavoli, mi sarei volentieri anch’io associato a tale commemorazione. Lorenzo Ventavoli, figlio della Val di Nievole, dedicò tutto se stesso, in giovinezza e nell’età matura, al popolo di questa valle, il quale gli ha tributato le più commosse onoranze.

Figlio di povera gente, prima ancora che sulle pagine dei trattati di sociologia, aveva imparato a difendere gli umili e gli oppressi con la sua esperienza personale, giacché egli era non solo povero ma veramente figlio della miseria, di questo turpe vizio sociale che a volte spinge a molti atti insani nella vita.

Egli amò sempre da lavoratore la causa dei lavoratori; e l’amò non demagogicamente, ma cercando il loro vero bene, inculcando in essi la consapevolezza dei loro diritti ed anche dei loro doveri. Giovanissimo venne in quest’Aula, dove il suo nome già risonava per la difesa che ne fece, durante la XXIV legislatura l’onorevole Filippo Turati, quando Ventavoli, per essere rimasto fedele alle sue idee, venne iniquamente tratto in arresto.

Il fascismo spazzò via Vincenzo Ventavoli dalla vita politica, ed Egli dovette emigrare in Alta Italia, ove visse del proprio lavoro di operaio, di muratore, pur essendo dotato di ben più elevate capacità lavorative. Ma Ventavoli sopportò tutto con senso di assoluta dignità e, quando venne la liberazione, ebbe per tutti il gesto del perdono, e non già quello della recriminazione e della vendetta.

Io conobbi Ventavoli quando, giovanissimo lui e giovane anche io, eravamo candidati della circoscrizione di Pisa e di Livorno. Per quanto io fossi suo avversario politico, rimasi meravigliato e commosso nello scorgere tanta lucentezza di idee in un giovane e modesto lavoratore. Ebbi poi occasione di incontrarmi nuovamente con lui in terra di Val di Nievole dove la Provvidenza mi aveva portato, e l’ho apprezzato ancora, di più e ancora meglio. Egli mi ha avvicinato in una attività che era tanto cara al nostro cuore, e che è tanto cara al mio cuore: quella di difendere le sorti di una cooperativa di lavoratori, degna veramente di questo nome, alla quale egli ha legato la sua memoria.

A nome del popolo di Val di Niévole, a nome di ogni amico o avversario della mia provincia, io mi associo alla commemorazione fatta ieri dai colleghi e prego la Presidenza di far giungere alla Famiglia Ventavoli il nostro commosso fraterno saluto.(Applausi).

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Lucifero, Campilli, Tremelloni.

(Sono concessi).

Votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Approvazione degli Accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, fra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945.

PRESIDENTE. Come gli onorevoli colleghi ricordano, ieri stabilimmo di rinviare alla seduta odierna la votazione sul disegno di legge per l’approvazione degli Accordi commerciali e di pagamento stipulati a Roma, fra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945.

Procediamo pertanto alla votazione a scrutinio segreto su questo disegno di legge.

(Segue la votazione).

Le urne resteranno aperte, mentre si proseguirà nello svolgimento dell’ordine del giorno.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Primo iscritto a parlare è l’onorevole Zotta. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Rubilli. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Onorevoli colleghi, ritengo che questo capitolo di cui ci occupiamo sia il più importante della nostra Costituzione; anzi, arriverei a dire che rappresenti per se stesso tutta quanta la Costituzione, perché gli Stati liberi, le Nazioni democratiche, poggiano unicamente sulla vita e sull’attività parlamentare.

Anche le disposizioni le quali riflettono i diritti fondamentali del cittadino hanno – credo – un’importanza relativa e più modesta, perché nelle Nazioni democratiche i diritti che riguardano la libertà sono completamente rispettati, quelli che riguardano i rapporti economici e sociali sono rispettati nei limiti del possibile, anche se non sono sanciti nella legge costituzionale, anche se non sono scritti in nessuna legge.

Si è aggiunto qui – è vero – per la nostra Costituzione italiana, un altro argomento che senza dubbio è di grandissima importanza: cioè la riforma regionale. E questa riforma ormai è stata approvata dall’Assemblea, e non se ne parli più! e Dio ce la mandi buona, e possa perdonare i vostri peccati, con i 22-23 Parlamenti che vi proponete di istituire in Italia. Ad ogni modo sarebbero così due gli argomenti di maggiore portata per la nostra Costituzione, e uno dei due è senza dubbio l’argomento di cui oggi discutiamo.

Comincio da qualche osservazione in ordine al Capo dello Stato, poiché ho sentito l’altro giorno dire che non è da approvarsi la forma di elezione stabilita e progettata dalla Commissione e che occorrerebbe che il Capo dello Stato fosse eletto direttamente dal popolo. Certo, è questo un gran concetto; e se fosse possibile, in Italia specialmente, non vi sarebbe difficoltà per attuarlo. Ma credo che in fondo, fino ad un certo punto, vi possa essere una maggiore o minore differenza tra l’una e l’altra forma di elezione, perché si può ben ritenere, anche secondo il progetto della nostra Costituzione, che è proprio il popolo, sia pure in una forma indiretta e per mezzo dei suoi rappresentanti, che elegge il Capo dello Stato. Se, come pare, il Senato sarà elettivo e se concorrono per la elezione tutte e due le Camere con l’aggiunta del Presidente dell’Assemblea regionale, e di un rappresentante del Consiglio regionale, io mi domando che si vuole di più per dire che in fondo il Capo dello Stato è eletto dal popolo? D’altronde, noi non dobbiamo proporci di imitare altri Stati i quali si trovano in condizioni, se non completamente, certo molto diverse. Noi provvediamo ad una Costituzione che riguarda l’Italia, e quindi dobbiamo tener conto di quelle che sono le attuali condizioni dell’Italia nostra. Perciò dobbiamo considerare che i Capi dello Stato, i Presidenti di Repubblica, non sorgono così d’un tratto né si trovano tanto facilmente; e se abbiamo anche presente che veniamo da una triste, però molto lunga, parentesi di più di un ventennio in cui la vita pubblica ed ogni attività politica sono state completamente soffocate, si comprenderà benissimo che non sarà facile, di qua e di là, in una città od in un’altra, trovare se non a stento, attraverso non lievi difficoltà, qualche persona che possa assurgere all’elevatissima carica di Capo dello Stato.

E siccome in questo ambiente parlamentare più che fermarmi su concetti astratti e dottrinari mi piace rimanere sempre sul terreno pratico, io vi ricordo, onorevoli colleghi, quello che si è verificato tra noi quando abbiamo dovuto pensare alla scelta di un Capo provvisorio dello Stato e quello che ebbe a ripetersi allorché correva la voce che il Capo provvisorio dello Stato volesse allontanarsi o dare le sue dimissioni.

Ora, voi ricorderete tutte quante le ansie e le nostre preoccupazioni che rappresentavano, sì, una espressione di omaggio per un uomo che tutti quanti ammiriamo, rispettiamo ed amiamo, ma non celavano anche le grandi difficoltà per la sostituzione e per una nuova scelta di colui che avrebbe potuto prendere il posto di Capo dello Stato. Non sorgevano che quattro o cinque nomi – anche meno di quattro o cinque – e su questi si aggirava una possibile scelta; ma si trattava sempre di uomini che non potrebbero mai sottoporsi ai disagi ed alle fatiche di una elezione che venga dirottamente dal popolo ed obblighi ad un lungo complesso movimento elettorale. Basta adunque il voto di tutti quanti i legittimi rappresentanti del popolo, per affermare che una elezione deriva dal popolo, e che è il popolo intero che acclama il Capo dello Stato, da un punto di vista giuridico e politico insieme, mentre in linea di praticità bisogna pure riconoscere che in Italia specialmente, e nel momento attuale per lo meno, non si può fare diversamente.

Si è detto anche che, secondo la Costituzione, appare scarsa l’attività del Capo dello Stato in materia legislativa, e che, in fondo, si riduce ad una mansione puramente notarile, poiché egli si limiterebbe soltanto a mettere una firma. Ma, insomma, la firma non rappresenta soltanto l’atto materiale di segnare il nome. Il Capo dello Stato, quando appone la sua firma ad una legge, la esamina e la considera; e quindi è un’altra valutazione che si aggiunge a quella delle Camere parlamentari. Del resto, più di questo non potrebbe esservi altro, e non si potrebbe concepire un maggiore intervento da parte del Capo dello Stato in materia legislativa.

Si intende, poi, che la vera e proficua azione di un Presidente nelle varie manifestazioni della vita nazionale dipende più che altro dalle qualità della persona: vi può essere un Capo dello Stato che non si occupi di niente e si limiti solamente a firmare; vi può essere invece un Capo dello Stato, il quale senta il bisogno e specialmente il dovere di ficcare gli occhi dappertutto, anche dove non dovrebbe ficcarli, e di ogni cosa voglia rendersi debito conto per dare opportuni suggerimenti e consigli. Una attività maggiore o minore, scarsa o intensa, dipende dalla sensibilità personale dell’eletto, come del resto si verifica per tutte le cariche politiche.

Non credo, in verità, di fronte alle norme stabilite dal progetto di Costituzione, di aggiungere altro per quel che riguarda il Capo dello Stato.

Qualche considerazione in ordine al Governo.

Si è detto da parecchie parti e con plauso che la nuova Costituzione si è preoccupata molto di circondare di cautele l’eventuale voto di sfiducia. E così si ritiene che si sia risolto un grande problema, purtroppo di assai difficile soluzione; si sia riusciti cioè a garantire più o meno la stabilità del Governo.

Che la Commissione abbia fatto qualcosa al riguardo non lo saprei negare. Ma molto poco in verità, poiché non sono affatto convinto che quello che si è stabilito riesca davvero a produrre quella stabilità che tanto si desidera pel Governo. Riconosco però che nulla si poteva concretare di meglio nel campo legislativo per raggiungere uno scopo che deriva da ben diversi fattori.

Le norme proposte riescono quindi di scarso valore ed in pratica si riveleranno inefficienti o del tutto inattuabili.

In fondo, cosa c’è nel progetto? Che il voto di sfiducia deve venire da una mozione motivata. La motivazione non mancherà mai anche se debba essere scritta e non orale. Inoltre deve essere firmata da un quarto dei componenti di una delle due Camere.

Ora io mi domando: qual è il Governo che in un’Assemblea non ha un quarto di oppositori? Sarebbe una grande fortuna se esistesse un Governo di tal genere, ma forse non esiste nel mondo; tanto meno poi in Italia ho notizia che sia mai esistito un Governo, sia pur forte, o diretto da uomini d’indiscusso valore personale e politico, che non avesse neppure un quarto di oppositori e raggiungesse la quasi unanimità di consensi.

Quindi non sarà certo difficile trovare in una delle Camere un quarto dei componenti che firmino la mozione pel voto di sfiducia ad un Governo. Ed allora che si è concluso di serio? Si può essere così ingenui da credere che con tali mezzucci si possa davvero concorrere a garantire la stabilità del Governo? Ma vi è molto di più e di meglio, si aggiunge, nella Costituzione.

Infatti, una Camera potrà arrivare al voto di sfiducia. Ma sin’ora, con un simile voto, il Governo era obbligato a dimettersi; obbligato, si capisce, fino ad un certo punto, poiché si trattava sempre di una questione di carattere morale e politico, anziché di carattere giuridico; ma certo, secondo la tradizione e le consuetudini, e le norme quasi costantemente seguite, il Governo non poteva fare a meno di rassegnare le sue dimissioni. Adesso le cose possono andare anche diversamente, perché il Governo, se condannato, diremo così in prima istanza, dal voto di sfiducia di una delle due Camere, può produrre appello, può fare una specie di ricorso a sezioni unite, convocando insieme le due Assemblee parlamentari. È bocciato, a mo’ d’esempio, dalla Camera dei deputati? si rivolge anche al Senato dove vede se può racimolare i voti che mancano per formare comunque una maggioranza. Ma questa è teoria non è pratica; si può scrivere in una legge, il che non è difficile, ma non risolve nulla nella realtà. Non riesco a comprendere come mai un Governo possa reggersi e tenersi in piedi, se non ha più appoggio in tutte e due le Camere. Il sussidio di una Camera coi pochi voti racimolati non permette alcun serio funzionamento di fronte all’ostilità dell’altra Camera. Perciò dicevo che si tratta di norme assolutamente inattuabili; questo ricorso a sezioni unite non potrà mai far sì che il Governo acquisti quella stabilità che ha completamente perduta in una delle due Camere. Il Governo è stabile solo se ha una vera, effettiva maggioranza, altrimenti ha perduto qualsiasi autorità, ed anche se non nel senso strettamente giuridico, per tradizione, per buona norma politica deve dimettersi, e non può regolarsi diversamente. I correttivi a cui ora si vuol ricorrere dimostrano ad esuberanza le giuste, gravi preoccupazioni sorte da un pezzo, specialmente in Italia, per questa instabilità deplorevole e produttiva di enormi danni per la Nazione, ma non le elimina e non le attenua affatto.

È inutile farsi illusioni; la stabilità del Governo, onorevoli colleghi, non può dipendere che dal modo come sono costituite le Assemblee. Se voi insistete con il sistema proporzionale, allo scopo di garantire il diritto di ingresso a tutte le minoranze, anche le più piccole – il che se è lodevole, non è poi assolutamente indispensabile – dovete rassegnarvi a subire anche il danno che deriva da questo sistema, e che consiste nell’instabilità del Governo e nell’incertezza di ogni sua attività. Finché permane la proporzionale, mettetevelo in mente, colleghi, non potrete avere che i Governi che si sono succeduti dal 1919 al 1922, non potrete avere che Governi come quelli che abbiamo da qualche anno a questa parte, trascinantisi a stento tra mille difficoltà quotidiane e tra crisi che troppo spesso si succedono. Questo desideravo dire in ordine al Governo, anche per rispondere a coloro che con troppa facilità e con esagerato entusiasmo hanno prestato fede a norme costituzionali prive purtroppo di ogni consistenza pratica e reale.

Una. parola sola su quanto riguarda la sezione relativa alla formazione delle leggi. Mi pare che alcune delle norme proposte non si trovino in sede propria nella legge costituzionale. Per esempio, quelle di mero carattere procedurale, sull’esame e sulla discussione delle leggi, credo che non debbano trovar posto nella Costituzione. Negli Statuti, anche nel nostro Statuto, non vi sono mai state queste norme. Esse, finora, erano più propriamente collocate nel Regolamento della Camera dei deputati e nel Regolamento del Senato: sono principî formali e regolamentari nello stesso tempo. Quindi, quell’articolo 69, più o meno lungo, che si riferisce appunto alle consuete modalità di funzionamento per le Assemblee parlamentari, sarà meglio che venga stralciato dalla legge costituzionale e posto invece in quello che sarà il Regolamento della Camera dei deputati o il Regolamento della Camera dei senatori. Sarà certo che le due Camere dovranno avere ciascuna un proprio Regolamento, e perciò non può dirsi in alcun modo opportuna ora l’approvazione dell’articolo 69, quando non sappiamo nemmeno come sarà formato il Senato e come potrà funzionare, trattandosi di un’Assemblea di nuova istituzione; né d’altra parte si può impedire che anche secondo il modo con cui le due Camere saranno costituite ed organizzate, possano ciascuna nel proprio Regolamento fissare norme procedurali diverse per l’esame e la discussione delle leggi.

Sono poi un po’ perplesso per quello che riguarda la disposizione relativa all’amnistia e all’indulto. Afferma il progetto che all’amnistia e all’indulto debbono provvedere le due Assemblee riunite. Ora, il concetto è giusto, è bello, e mi piace. Quando si tratta di qualche provvedimento individuale come si verifica per la grazia, basterà affidarsi ad altre autorità che esaminino il caso singolo, e provvedano come meglio si richiede. Ma, se oggi le sentenze di assoluzione o di condanna sono pronunciate in nome del popolo, sarà corretto ed opportuno politicamente che anche il popolo, sia pure a mezzo dei suoi rappresentanti, si pronunzi su provvedimenti d’indole generale dovuti a speciali e talora eccezionali contingenze. Soltanto il popolo deve avere facoltà di eliminare o attenuare quelle condanne che in suo nome sarebbero pronunziate o sono state di già pronunziate.

Ripeto che il concetto è bellissimo e lo accetterei senz’altro. Però è pericoloso. Questi decreti di amnistia e d’indulto devono essere mantenuti segretissimi fino alla loro pubblicazione e non è affatto prudente farli conoscere parecchio tempo prima. Io so quello che avveniva quando c’era la consuetudine dei decreti di amnistia e di indulto a data fissa; io so quello che si verificava ad ogni gravidanza, annunciata al quinto mese, della principessa di Piemonte. Era facile notare l’esultanza dei condannati, come non di rado poteva constatarsi una maggiore facilità alla perpetrazione dei delitti. A qualche imputato io talora chiedevo: «Ma, insomma, perché questo piccolo delitto? Perché questa bastonata, questa aggressione che non era proprio giustificata?». Mi si rispondeva: «Adesso sta per venire l’amnistia». Ora, comprenderete il perché della mia preoccupazione. Se un decreto, di amnistia o di indulto dovrà essere deliberato dall’Assemblea Nazionale, i giornali cominceranno ad annunciarlo per lo meno una settimana prima; e poi bisognerà metterlo all’ordine del giorno, e poi non sappiamo quanto tempo si impiegherà per approvarlo. Ed intanto diventa noto e di pubblica ragione che sta per arrivare l’amnistia ed il condono, il che può essere motivo di facile spinta al delitto. Ecco il pericolo che io temo con la norma proposta.

Ora, nella mia indecisione, io sarei, in verità, per decidermi a non fare niente ed a mantenere le cose come stanno. Rinunciamo pure all’idea lodevolissima di vedere pronunciati questi atti di clemenza di larga portata dai rappresentanti del popolo, e diamo maggior peso al pericolo che, in vista dell’amnistia nota innanzi tempo, possa sorgere, quasi di un incoraggiamento non desiderato né voluto al delitto.

Ho pensato però in pari tempo che possa esservi qualche temperamento che dia modo di provvedere a tutte le esigenze cui la Costituzione s’informa. Poiché in fondo l’intervento dei rappresentanti risponde più che ad altro ad un concetto ideale, essendo sempre un decreto di amnistia e di condono preparato dai tecnici, ed in guisa che occorra soltanto un’approvazione, una specie di ratifica da parte dell’Assemblea senza ampio dibattito. Opportune e non difficili modalità concilierebbero il duplice scopo di una formale correttezza politica e democratica con la necessità che sia evitato quel pericolo di cui innanzi ho fatto cenno.

Vorrei quindi pregare la Commissione di esaminare questa possibilità; mantenendo il concetto fissato nella legge costituzionale e dichiarando che un provvedimento di amnistia e condono, preparato ed esaminato dal Governo, sia sottoposto all’approvazione delle due Assemblee, nello stesso giorno in cui è presentato, senza neppure essere annunziato nell’ordine della seduta, ed immediatamente deciso, senza ampie discussioni, che la materia del resto non richiede, dovendosi solo valutare ragioni di maggiore o minore opportunità, per le quali bastano semplici dichiarazioni di voto.

Non so sino a qual punto ciò sia possibile, e mi limito solo a richiamare al riguardo l’attenzione dei componenti della Commissione. Ma, o nel modo che ho proposto o con altro mezzo non sarà poi difficile ottenere che un decreto di amnistia e di condono non si renda troppo prematuramente ed inopportunamente noto.

Premesse queste poche osservazioni qua e là su quello che riguarda il Governo, o il Capo dello Stato o la formazione delle leggi o i provvedimenti di amnistia e di condono, veniamo ora a quella che è la questione più importante: la costituzione del Parlamento.

È per questo appunto, io dicevo, che l’argomento in esame richiede tutta la nostra attenzione, perché la vita parlamentare è per se stessa tutta quanta la democrazia, e con essa si confonde.

Questo è il momento in cui si decide dell’avvenire della Nazione, la quale si poggia nelle sue legittime esigenze di ogni genere sulla bontà e l’efficacia delle leggi che verranno emanate. All’uopo occorre prima di ogni altro che ci occupiamo della istituzione di una seconda Camera, per vedere se ora si riconosca indiscutibile la sua utilità. Io so che di questo si è largamente discusso anche in seno alla Commissione, e vi sono stati pareri in diverso senso. È prevalso in maggioranza il parere di mantenere la seconda Camera, ma debbo pure ricordare che anche qui, nell’ambiente dell’Assemblea, non tutti i pareri siano concordi ed orientati nello stesso senso; difatti, quando io presi la parola in quella che si chiamò discussione generalissima della legge costituzionale, accennai appunto al Senato e dimostrai che così come è congegnato nella legge costituzionale può anche rappresentare una. superfetazione, perché non sarebbe che la riproduzione fedele della Camera dei deputati, con gli stessi partiti più o meno nello stesso numero; quindi non avverrebbe che una inutile ripetizione, ed ogni partito nel Senato si sentirebbe legato al proprio partito della Camera dei deputati, il che porterebbe ad una votazione identica a quella della Camera dei deputati e perciò completamente inutile. Ricordo che allora da questi banchi di sinistra e da molte parti mi si interruppe e si disse: riconosciamo questa inutilità, ed è per ciò che noi non la volevamo e non la vogliamo la seconda Camera.

Qualche giorno dopo parlò l’onorevole Nenni e disse, ricordando quello che io avevo esposto qui in Assemblea: «Forse ha ragione Rubilli; la seconda Camera diventa inutile. Che ne facciamo?».

Credo perciò che non ancora ci siamo completamente intesi sulla utilità, anzi su quella che io credo una necessità della seconda Camera. E questo dissenso, secondo me, può derivare anche dal fatto che noi teniamo, di solito, troppo presente quello che è stato il nostro Senato.

Si sa che rappresentava il vecchio Senato: è stato sempre un organismo molto debole, un organismo di scarsa vitalità e di più scarsa efficacia politica, sebbene costituito da persone per la maggioranza autorevolissime. Gli uomini politici guardavano con diffidenza al Senato, anzi, e sarei quasi per dire, che lo consideravano con una certa ripugnanza. Ognuno preferiva di essere deputato attraverso le elezioni, dopo di aver sostenuto lotte talora accanitissime, ma col conforto, con l’appoggio, con la fiducia dei propri elettori. Nessuno voleva andare al Senato: finché era possibile, preferiva rimanere alla Camera dei deputati.

Il Senato rappresentava una specie di collocamento a riposo; e si sa che al collocamento a riposo ci si rassegna quando proprio la invalidità è completa e non ci permette di fare altro; quindi alla Camera che per lo più si chiamava alta, si arrivava tardi e stanchi.

Ora, s’intende che il Senato, inteso in questo senso, e circondato da un’aureola poco simpatica, destava diffidenze e non era molto apprezzato. Spesso poi la nomina a senatore rappresentava il mezzo per consolare un povero deputato sconfitto, che pure era stato tanto fedele al Governo, fin troppo fedele, e qualche volta per troppa fedeltà sacrificando i suoi sentimenti, e perfino i veri interessi nazionali; veniva quindi aspettato e meritato il premio di consolazione e si andava al Senato. Talora il laticlavio rappresentava una semplice espressione di omaggio, e bisogna riconoscere quasi sempre giustificata, ma con l’effetto di mandare in un’Assemblea politica uomini che di politica non si erano mai occupati e ne erano rimasti sempre lontani, completamente ignorandola.

Vi può essere, per esempio, un uomo più elevato, più grande di Giuseppe Verdi, il Genio italiano nella sua più fulgida, mirabile espressione, che ha commosso tante generazioni nel mondo e che continuerà a commuoverle, le farà esultare, piangere o sorridere per tanti e tanti secoli ancora? Ebbene, nessuno può venir meno al sentimento della più profonda, della più spontanea ammirazione per chi ha tanto onorato l’umanità e non l’Italia soltanto. Ma perché mandarlo al Senato? Che vi andava a fare? Vi erano tanti altri modi e più appropriati, e migliori ancora per esprimergli la venerazione e la gratitudine della Patria!

Non so se sia vero un aneddoto che mi venne riferito, oppure soltanto verosimile, poiché non posso garantirne l’autenticità; mi si disse che in una delle poche volte in cui intervenne ad una seduta, non trovò di meglio da fare che rivestire di note musicali un piccolo diverbio fra due senatori. Questa era la sua vera, la sua grande e nobile missione, l’arte, non la politica.

Ho citato un esempio dei più impressionanti, ma altri ancora e non pochi ne potrei ricordare. Insomma, in virtù di quelle nomine regie, spesso non si sapeva bene se si trattasse di un più o meno onorato collocamento a riposo oppure di un pietoso conforto ad una sconfitta elettorale o anche di qualche cosa che rimanesse incerta tra la carica politica e l’onorificenza.

E poi generali, ammiragli, alti funzionari dello Stato, persone munite di alti titoli nobiliari e di ricco censo, per lo più tutta gente che non brillava troppo per attitudini politiche, di guisa che non di rado sorgevano voci autorevoli invocanti una riforma del Senato.

Si capisce perciò che i Governi solevano trascurare la seconda Camera, e non la temevano affatto; nessuna crisi dalla medesima, per quanto io ricordi, è stata mai provocata.

Il Governo, di cui del resto ben di rado facevano parte e molto limitatamente dei senatori, si preoccupava soltanto della Camera dei deputati che frequentavano e vigilavano assiduamente, mentre al Senato di tanto in tanto apparivano membri del Governo, e spesso di quelli che non erano poi tra i più autorevoli.

Se fosse stato consentito, forse vi sarebbero andati anche soltanto dei Sottosegretari, ma a questi ne era inibito l’accesso; era un modo d’onorare almeno nella forma la Camera Alta.

Sono venute poi le epurazioni, le discriminazioni, le decadenze, le impressioni che si trattasse di un’Assemblea troppo permeata di spirito fascista e di attaccamento al regime; anche questo ha contribuito a lanciare un certo discredito verso il vecchio Senato.

Di simili concetti ed anche assai esagerati, se pure posti su di un fondamento di verità, hanno indubbiamente risentito alcuni uomini politici, e forse anche un poco i componenti della Commissione, per esprimere una certa perplessità sulla creazione di una seconda Camera o sul modo di costituirla.

Ma noi non dobbiamo pensare a quello che era il Senato; noi dobbiamo pensare al Senato che desideriamo, al Senato che vogliamo, quale ente davvero attivo e vitale per l’interesse del Paese. Così, allontanata ogni diffidenza, risulterà chiaro che non bisogna affatto respingere l’idea di ottenere una maggiore valutazione ed un perfezionamento delle leggi, specialmente di quelle più importanti, con una sapiente, oculata collaborazione delle due Camere.

Basterà del resto al riguardo osservare che una seconda Camera esiste in quasi tutte le Nazioni, così in quelle che si trovano in una condizione meno evoluta di fronte a noi, come in quelle che ci eguagliano o anche ci superano per importanza e tradizione politica. Anche questa persistenza dovunque del sistema bicamerale, deve indurci a ritenere che ne sia stata a lungo sperimentata l’utilità.

Conviene adunque soltanto ora preoccuparsi del modo migliore di organizzazione e di funzionamento. Ora, se la seconda Camera deve essere conservata, è assolutamente necessario che ad essa sia conferita la stessa dignità, lo stesso prestigio che ha la Camera dei deputati. Questo concetto mi pare assolutamente fondamentale: che non si venga a creare un Senato cui si possa anche nelle apparenze attribuire una minore importanza; le due Camere debbono essere due entità identiche, sempre però nei rapporti della rispettiva autorità e del rispettivo prestigio.

Ora, a me pare che questo concetto non sia stato seguito dalla Commissione; e perciò dicevo che la Commissione ha potuto forse lasciarsi alquanto impressionare da quegli apprezzamenti cui poc’anzi accennavo, sempre se si vuol tener presente il Senato di un tempo ormai sorpassato. Intanto, se, come abbiamo detto, la Camera Alta deve essere in tutto pari per dignità e prestigio a quella dei deputati, mi pare non vi sia dubbio che uguale ne debba essere anche il numero dei componenti. (Commenti). Perché infatti questo numero dovrebbe essere minore?

Una voce a sinistra. Perché l’Aula è più piccola! (Si ride).

RUBILLI. Bella ragione! Se l’Aula è piccola, andranno magari all’aperto o si troveranno un’altra Aula, o un posto che sia pure capace e decoroso. (Interruzione dell’onorevole Micheli). Ebbene, anche noi nei primi tempi avevamo un’Aula piccola, e tu te ne devi ricordare, caro Micheli.

Avevamo un’Aula assai più piccola di questa e molti di noi stavano in piedi. Vogliamo scherzare un poco, e sia, ma non si opporrà sul serio la difficoltà dell’Aula.

Mentre adunque parto dall’idea di un egual numero di componenti, vedo che mentre per la Camera è stabilito un deputato per ogni 80.000 mila abitanti, per il Senato la proporzione è di uno ogni 200.000 abitanti. (Commenti). Io dico che si potrebbe ridurre pure il numero dei deputati; non vi sarebbe niente di male: i partiti potrebbero essere anche contenti se invece di dieci, ad esempio, mandassero cinque rappresentanti; potrebbero scegliere i migliori: la designazione sarà più oculata. Non so perché vi debbano essere 555 o 556 deputati; diminuitene pure il numero, se volete; l’Assemblea funzionerà lo stesso. Vedete: non funziona bene anche nella seduta odierna, quando non siamo molti poi qui riuniti? Numero ridotto ed Assemblea ugualmente perfetta: il popolo allo stesso modo ben rappresentato anche con una riduzione alla metà in questa Aula, tanto più che è il popolo medesimo che per la maggior parte dovrà eleggere i suoi senatori. Ma se volete mantenere questo numero elevato per i deputati, dovete concederlo anche al Senato. Stabilendo un deputato ogni 80.000 abitanti e un senatore ogni 200.000, avreste un Senato che per il numero dei componenti sarebbe al di sotto della metà della Camera dei deputati. Ritorneremmo così agli antichi inconvenienti, perché senza dubbio l’inferiorità di numero importerebbe una minore considerazione della seconda Camera, la quale influirebbe assai meno della Camera dei deputati, il che non è giusto, nelle vicende della vita e dell’attività parlamentare. Anche di fronte all’azione ed alle decisioni del Governo, quale importanza avrebbe una piccola Assemblea di fronte ad una grande e numerosa Assemblea? Non avrebbe mai la possibilità di determinare un voto di sfiducia efficace o una crisi qualsiasi. È più che sufficiente allora al Governo per mantenersi una buona maggioranza nella Camera dei deputati.

È vero però che vi sono in aggiunta cinque senatori per ogni Regione. Donde e come sia sorta l’idea di questi cinque, davvero non me lo so spiegare. Perché? È un omaggio alla Regione? Una nuova impronta che derivi dal concetto regionale? Non bastava aver fatta una folle riforma con i relativi Parlamenti? I rappresentanti dei Consigli regionali devono intervenire per la nomina del Capo dello Stato; e vada pure; ma che debbano dare anche cinque componenti al Senato per conto loro, non riesco proprio a spiegarmelo. (Commenti). Lo so che tutto quello che riguarda la Regione per voi è sempre giusto e merita la più grande considerazione.

Ma, aggiungendo anche i cinque componenti per ogni Regione, non si arriva che ad un centinaio e si avrà così un Senato che sarà poco più della metà per numero di componenti della Camera dei deputati. Eh no! lo desidero una seconda Camera eguale per numero, per dignità e per prestigio alla prima Camera, a quella dei deputati. Che volete fare? Una Camera ed una cameretta? No, no. Le due Camere devono essere delle stesse dimensioni. (Commenti). Intendiamoci bene adunque prima di ogni altro su questo punto, che pure attiene ad un efficace e valido funzionamento del Senato. Ed allora rimane un problema che riconosco di non agevole soluzione. Come organizzare il Senato? Io ho presentato un ordine del giorno che rappresenta quello che di meglio son riuscito ad escogitare. Trovate voi se vi è possibile altra soluzione più giusta ed opportuna. Ma consideriamo e riflettiamo bene ora che ne è il momento. Perché, se vogliamo un Senato che funzioni con eguale zelo, con eguale efficacia e utilità della Camera dei deputati, dobbiamo stare attenti al modo col quale esso deve essere costituito, sempre informandoci sin quanto e dove è possibile ai concetti fondamentali di una sana democrazia.

Si è rivelato qui per la prima volta in Assemblea, nei discorsi degli oratori precedenti, un nuovo concetto: il concetto delle categorie e delle corporazioni. Finora non se ne era parlato, né mi pare che ve ne sia ampia traccia nei resoconti dei lavori della Commissione, che sono sin troppo voluminosi e rendono tutt’altro che agevole ogni ricerca.

Ma certo, qui in Assemblea è la prima volta che se ne fa cenno. È stato giustamente di già risposto che non vorremmo proprio essere ridotti a riprodurre la Camera dei fasci e delle corporazioni di non lieto ricordo.

Si replica dall’altra parte: e che importa che questa Camera rappresentò una riforma fascista?

Disse ieri uno dei migliori rappresentanti del Partito democristiano, che ho tanto ammirato e col quale tanto mi sono congratulato ieri (e sono lieto che egli sia presente per ripetergli i miei sentimenti con sincerità ed affetto): ma, in fondo, non c’è nulla di male. Se il fascismo ha fatto qualcosa di buono, sol perché l’ha fatto il fascismo lo dobbiamo abolire?

Il suo concetto, dal punto di vista astratto, non è per nulla ingiustificato; dovunque si trovi qualcosa di buono lo dobbiamo prendere.

Ma, amico mio, seppure fosse qualcosa di buono quel Consiglio delle corporazioni, credi pure, collega, ci rassegneremmo ad accettarlo con la più grande amarezza, e sentiremmo lacerarci il cuore. Tu non eri in questa Aula quando venne votata quella riforma, la quale rappresentò la distruzione anche di quegli avanzi, di quelle parvenze che ancora vi erano del glorioso Parlamento italiano! E noi che eravamo qui, a questo posto, onorati di sedere a fianco di Giovanni Giolitti, ascoltammo la sua fiera protesta quando vide che cadeva perfino e completamente il Parlamento italiano. Egli disse che non avrebbe più posto piede in quest’Aula, e difatti andò a morire poco dopo a Cavour. Egli che era stato qui nell’Aula, il più autorevole, il più fiero e formidabile oppositore del fascismo (Commenti a sinistra), quando senti approvare quella riforma, non poté frenare la più viva, coraggiosa, energica pretesta. (Interruzioni a sinistra). È inutile che interrompiate; rimane scolpita nella storia della Nazione a caratteri indelebili quella che si chiamò l’opposizione nell’Aula. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

RUBILLI. In quel momento in cui tutto un saldo e tradizionale orientamento politico spariva, il vecchio piemontese che aveva visto anche gli albori del Parlamento italiano, che aveva vissuto nel Parlamento e per il Parlamento, si senti quasi colpito al cuore, e, come per un destino, chiuse gli occhi alla vita proprio quando si spensero completamente e definitivamente le libere istituzioni parlamentari!

Eppure ad onta dell’età assai inoltrata appariva ancora robusto e vegeto e sarebbe stato in grado di governare e salvare l’Italia se voi lo aveste voluto e se il fascismo non lo avesse sopraffatto per colpe che vennero da ogni parte. Ma lasciamo andare, non ritorniamo al passato! Sarà meglio riprendere l’argomento di cui oggi ci stiamo occupando.

Dunque non c’imponete, per carità, di riprendere in esame proprio quella riforma la quale distrusse il Parlamento, perché ci obblighereste davvero ad un grande sacrificio. E ciò direi anche se quella Camera dei fasci e delle corporazioni potesse meritare plauso e lode. (Interruzione dell’onorevole Clerici).

Ma ditemi, colleghi miei, che cosa fece di buono?

Una voce. Niente.

RUBILLI. È stato un esperimento, sì, ma un esperimento completamente fallito. Né si dica che non poteva far nulla perché viveva in tempi di tirannia; ciò significa che non poteva far nulla nel campo politico, ma nel campo tecnico, economico e sociale, in cui veramente era chiamata a svolgere l’opera sua, avrebbe potuto fare delle buone ed utili leggi. Non ha fatto niente, e niente rimane dell’opera di quel consesso.

Noi potremmo persino sentirci obbligati a vincere ogni senso di legittima ripugnanza se potessimo convincerci che dall’esempio precedente derivi un’esigenza che anche oggi s’imponga pel bene del Paese; ma non ci sentiamo la forza di ripristinare una istituzione, che nella sua breve e confusa esistenza non si è dimostrata affatto utile per l’Italia.

E, d’altronde, mi domando: davvero credete che qui le varie classi sociali non siano rappresentate? Ma qui ci siamo tutti quanti di ogni gradazione, di ogni categoria. Noi rappresentiamo un repertorio ampio e completo.

Una voce. Troppi avvocati!

RUBILLI. Va bene, molti avvocati! Ora vedremo di chi è la colpa. Qui trovate i rappresentanti di tutte le classi sociali. Non mancano né professori, né medici, né avvocati, né industriali, né commercianti. e nemmeno operai o contadini. Chi vi ha detto che i contadini non sono alla Camera? I contadini hanno fatto un partito proprio, si sono presentati alle elezioni per l’Assemblea Costituente; e si presenteranno la prossima volta forse in tutte quante le circoscrizioni. Essi avrebbero qui maggiori rappresentanti senza un errore che non dipese da loro, ma da un disguido postale, perché non solo presentarono liste in più di tre circoscrizioni, ma pensarono anche ad una lista nazionale; e così avrebbero avuto un maggior numero di posti coi resti. La lista nazionale però venne respinta dalla Corte di cassazione per un caso imprevisto; era arrivato tardi il certificato di presentazione di lista in una delle circoscrizioni, e quindi alla scadenza dei termini di rigore non erano completi i documenti richiesti dalla legge.

Ma poi voglio anche dirvi: chi intendete per contadino? Io non intendo per contadino l’uomo politico o il politicante che si mette a capo di un’associazione di contadini. Questi sono dei contadini solo per esigenze ad utilità elettorali, ed assumono una qualità che loro non compete affatto. Per contadino io intendo colui che zappa la terra. Non so veramente fino a qual punto sia proprio indispensabile ed opportuno che colui che zappa la terra sia distratto dalle sue modeste e utilissime mansioni, per venire qui dove si sentirebbe un po’ disperso in questo ambiente parlamentare. Ma, ad ogni modo, che venga! A me pare che la rappresentanza delle varie classi di cittadini sin da ora sia completa; ma se a voi pare diversamente, completatela pure, perché ne avete facile mezzo, senza ricorrere a rinnovare la Camera dei fasci e delle corporazioni, con cui volete imporre ad una Camera nascente, al Senato, un’impronta tutt’altro che di lieto auspicio.

È vero che vi sono troppi avvocati e professori: ma di chi la colpa, mi domandavo poc’anzi? La colpa è di chi comanda in Italia, di chi guida, di chi dirige la Nazione. Chi comanda? Chi guida? Chi dirige? Sono i partiti, oggi. Dunque, essi dovrebbero provvedere. Noi, partiti di minoranza, non possiamo provvedere in nessun modo; perché solo a furia di grandi stenti riusciamo appena a prendere un quoziente, quando, come avviene pur troppo di frequente, il frutto del nostro lavoro non va completamente a beneficio dei resti elettorali.

Non possiamo perciò permetterci il lusso di completare alla Camera la rappresentanza delle varie classi sociali. Voi, grandi partiti, perché mandate troppi avvocati e troppi professori?

Una voce al centro. Ha ragione!

RUBILLI. Perché scegliete solo i professori? Qui, vi ricordate degli operai e dei contadini al solo scopo di impressionare il pubblico, e far colpo sulle masse operaie con semplici, belle parole; ma, quando preparate le liste, non li includete affatto gli operai ed contadini, ad essi non pensate proprio e tanto meno date loro i voti di preferenza; ve li prendete voi, avvocati e professionisti. E voleteche noi provvediamo alla rappresentanza dei contadini? Dovete pensarci voi.

Ma, vi ripeto, non vi prendete troppo fastidio al solo scopo di giustificare una strana idea che vi è sorta, pari all’idea fissa della proporzionale o della regione, State pur tranquilli, le classi sono qui di già al completo, né reclamano una maggiore rappresentanza. Comunque, rimediate come meglio vi pare perché siete ricchi ed esuberanti di mezzi. Voglio suggerirvelo e ripetervelo ancora una volta. Riducete il numero degli avvocati e dei professori e sostituiteli con contadini ed operai; e date ad essi i voti di preferenza. Farete anche buona impressione e dimostrerete la vostra sincerità, mettendo da parte la Camera dei fasci e delle corporazioni ormai tramontata e passata alla storia tra le vicende dolorose dell’Italia.

Ma in una discussione parlamentare non mi sembra opportuno che dobbiamo perderci in vuote astrazioni.

È proprio un criterio pratico e di possibile attuazione quello a cui v’informate? Ed allora, quando avremo il Senato? Oggi non abbiamo categorie organizzate, non abbiamo questi enti, da cui possa uscire la rappresentanza del Senato.

Un collega considera la sua Milano. Milano è una città che tutti vi invidiamo ed ammiriamo. Dico v’invidiamo, ma con sentimenti di simpatia, di affetto e di orgoglio d’italiani.

Ma Milano non è tutta l’Italia. Né il resto dell’Italia è come Milano.

Nel Mezzogiorno non abbiamo organizzazioni sindacali ed enti concreti e solidi in rappresentanza di classi, che possano nominare i componenti del Senato. Bisognerebbe creare simili istituzioni e fare un lavoro piuttosto lungo e complesso. E quanti anni ci vogliono? Quando avremo allora il Senato? Io non lo so. Praticamente adunque il vostro concetto è inattuabile.

Noi siamo già in ritardo con la Camera dei deputati. E pur certo che noi notiamo ovunque un disagio non lieve nel nostro popolo; ed il disagio è determinato senza dubbio dalla guerra; siamo convinti che non sarebbe stato possibile in alcun modo di evitarlo. Ma, onorevoli colleghi, a questo disagio, si aggiunge anche una grande inerzia legislativa, che acuisce ampiamente le non lievi difficoltà in cui il popolo vive. Fra qualche settimana si discuterà una mozione, la quale trae origine, occasione o pretesto da un innegabile disordine nazionale, e comunque ha sempre largo fondamento di verità. Ma vi abbiamo contribuito noi e vi contribuiamo ancora. Non possiamo fare leggi. Non abbiamo fatto niente. Non possiamo prendere provvedimenti di carattere economico e sociale che potrebbero almeno contribuire ad attenuare il malcontento. Abbiamo ritardato troppo. L’Italia, il Paese, aspetta la sua Camera dei deputati ed aspetta, in pari tempo, la seconda Camera, se, come pare, dovrà essere istituita.

Ogni attività legislativa oggi è affidata al Consiglio dei Ministri.

Troppo poco! Ed è anche per questo che il disagio non diminuisce, ma va anzi sempre aumentando in Italia.

Se si dovessero organizzare le categorie e le classi, comprendete benissimo che non arriveremmo mai almeno per ora a dare un Senato al Paese. Ma si dirà: noi vogliamo solamente un’affermazione per l’avvenire. Quello che proponiamo potremo almeno vederlo attuato in seguito, fra sei, otto, dieci anni. Ma che pretendete? Affermazioni, pegni ed ipoteche legislative e politiche a lunga scadenza? E chi lo sa anche tra pochi anni come il     mondo nelle sue alterne varie vicende si sarà trasformato?! Il mondo oggi può cambiare a momenti. Chissà cosa avverrà tra sette od otto anni, chi può dire di essere certo di ciò che potrà avvenire domani?

Pensiamo a quello che dobbiamo fare ora: in seguito avremo tutto il tempo utile per pensare ad ulteriori innovazioni, meglio studiate, meglio preparate dagli avvenimenti che si succedono. Anche accettando il concetto così eloquentemente ed abilmente esposto ieri dal collega Clerici – il cui discorso, ripeto, tanto ammirammo – il problema resta insoluto. Qualunque affermazione astratta ed ideale si voglia fare per l’avvenire, occorre sempre provvedere al modo di costituire il Senato: per ora, almeno per una prima volta, una soluzione ci è imposta immediatamente e non ammette dilazione di sorta, poiché per l’anno prossimo, e non fra cinque, sei, otto anni, il Senato deve esistere e funzionare. Quale adunque potrà essere la soluzione migliore? Un Senato di nomina presidenziale o un Senato con la nomina di componenti chiamati a prendervi parte di diritto? Non mi pare possibile. La prima ipotesi ricorderebbe troppo la nomina regia ed è da scartare: non si adatterebbe alle condizioni moderne ed ai tempi nostri, né risponderebbe a carattere democratico. Un Senato con la nomina di componenti che vi prendono parte di diritto? Sarà possibile in Inghilterra forse, o in altri Paesi dove esistono antiche tradizioni di nomi, di titoli o di famiglie, ma non è possibile fra noi, e poi ricorderebbe troppo il concetto di casta. Non resta adunque che il sistema elettivo; l’espressione anche pel Senato della volontà popolare. Ora si tratta di vedere come questa elezione debba essere disciplinata e quali temperamenti per necessità di cose debba avere.

Io non saprei concepire un Senato – di già l’ho detto a proposito della discussione generalissima, che ho ricordato poco fa – il quale fosse tutto quanto elettivo. Senza dubbio io non credo che sia il caso di fare nomine al Senato, come avveniva prima, solo a titolo di omaggio, di onorificenza e di ossequio al nome delle persone ed al loro ingegno. Ma, d’altra parte, non è possibile trascurare di far tesoro, anche per la vita pubblica, di tante mirabili attività che possono contribuire alla formazione delle leggi ed alla soluzione dei più gravi problemi politici, economici, sociali che interessano la vita del Paese.

E poi non è giusto, anche dal punto di vista giuridico, mettendo da parte le idee di opportunità, che le nomine siano lasciate tutte quante agli uomini di partito e che non si faccia posto anche a chi non è nei partiti. I partiti rappresentano, sì, la forza preponderante in Italia e dominano il Paese: siamo d’accordo. Ma non si può dire che l’Italia sia tutta rappresentala solo dai partiti. Tanta gente vive fuori dei partiti e forse si tratta della maggioranza, in confronto al popolo che è organizzato nei partiti. Io dico: perché questo popolo, pur esuberante, pur degno di ogni riguardo – che non vuole assoggettarsi ad un vincolo e ad una disciplina di partito – non deve vedere che anche dal suo seno siano scelti dei rappresentanti in una grande assemblea politica parlamentare?

Quindi, vi è un criterio di giustizia, a prescindere da legittime esigenze di opportunità e di utilità, che imporrebbe di far sì che una parte dei componenti del Senato sia sottratta alla libera elezione, in cui predomina coi sistemi attuali soltanto il concetto di partito. Vi sono persone in Italia, che sono elevatissime per studi e per qualità superiori di mente, che non si adattano, per il grado o pel carattere o per una forse malintesa dignità, ai comizi pubblici o alle competizioni elettorali. Noi altri ci presentiamo agli elettori, facciamo la nostra propaganda, ma poi compiuto il nostro dovere, vincitori o vinti, eletti o non eletti, mangiamo e dormiamo lo stesso con identica tranquillità a casa nostra; invece gli uomini di grande prestigio, se sono sconfitti, si sentirebbero moralmente annientati. Ora, comprenderete che bisogna pure tener conto di questi caratteri, Di questi sentimenti, che sono anche rispettabili. Ed allora, perché un nucleo di persone, che potrebbero rendersi utili alla Nazione, deve rimanere fuori e ne devono entrare altre non di rado prescelte più che per le loro qualità ed attitudini, per l’incomprensibile capriccio elettorale? Non si altera affatto il concetto di democrazia se una piccola parte del Senato è riservata all’oculata scelta del Presidente, la cui autorità deriva pure da una espressione popolare ed elettorale. Anzi qui potete scegliere un duplice sistema. Io ne ho indicato uno, ma ve ne potrebbe essere qualche altro, purché una piccola parte almeno sia esclusa dal metodo elettivo, ed ho ridotto nel mio ordine del giorno questa parte ad un quarto, riservando agli elettori i tre quarti, cioè la grande maggioranza dei componenti. Vi potrebbe essere, dicevo, anche qualche altro mezzo per raggiungere lo stesso scopo. A me è sembrato che per la piccola parte di cui ho fatto cenno, la nomina da parte del Presidente potesse ben sostituirsi a quella che un tempo era la nomina regia, perché oggi, come era prima il re, il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato.

Altrimenti si potrebbe pure stabilire che i componenti del Senato, cui è riservato il quarto dell’Assemblea, fossero prescelti in determinate categorie e con determinati gradi o titoli. Decidete anche a questo modo, se vi pare. Scegliete il sistema che volete: l’uno o l’altro mezzo, l’uno o l’altro metodo risolve il problema di far partecipare all’attività ed alla vita politica parlamentare italiana anche questi uomini ai quali noi dobbiamo essere grati per il contributo che possono dare per le loro qualità all’avvenire ed al benessere della Nazione.

Restano poi gli altri tre quarti. Per questi, unico mezzo è quello delle elezioni. Non c’è altro. Il dissenso sorge però sul metodo delle elezioni. Perché, vi domando, siamo o non siamo d’accordo che questo Senato debba essere una Camera ugualmente elevata, per prestigio e per dignità, a quella dei deputati? Siamo d’accordo che essa non deve essere una inefficace riproduzione della Camera dei deputati? Ripeto all’uopo per quelli che non erano presenti o l’hanno dimenticato ciò che dissi altra volta. Al Senato andranno tanti socialisti, tanti comunisti e tanti democristiani; a questo punto, il Senato è bell’e formato, l’Assemblea funziona al completo; salvo piccole più o meno imponderabili e non sempre concordi, pattugliette di liberali, qualunquisti o azionisti e forse, perché no? anche con qualche monarchico impenitente.

Ma naturalmente sono sempre tre le forze preponderanti. Ed allora r comunisti, come dissi, legati dalla disciplina di partito, come i socialisti dell’uno e dell’altro Gruppo, come i democristiani, in ogni discussione si riporteranno senz’altro all’atteggiamento tenuto nella Camera dei deputati dai rispettivi rappresentanti del proprio partito, e perciò la legge rimane intatta, come è passata nella prima Camera rimane nella seconda, che perde quindi ogni ragione di essere e diventa davvero inutile. Quale è il modo allora per eliminare questo inconveniente? Dobbiamo escogitare un sistema diverso di organizzazione, che diversifichi il Senato dalla Camera dei deputati.

Un primo mezzo al riguardo è in quel quarto di riserva, e per gli altri tre quarti bisogna preferire il collegio uninominale. L’idea a proposito del Senato non è del tutto mia, sebbene sia un uninominalista convinto, ed abbia sempre all’uopo lottato accanitamente, ma inutilmente. Però, questa volta non ho prescelto io il collegio uninominale e nemmeno Einaudi, che pure è un uninominalista come me. I due discorsi contro la proporzionale alla Consulta sono stati pronunciati da Einaudi e da me. Prima parlai io e poi Einaudi, nella stessa seduta, e si capisce che parlammo invano. Non so se vi sia stato qualche altro. Non lo ricordo. Insomma, la proposta ora pel Senato venne dall’onorevole Togliatti. È stato lui che la fece; però durò una giornata.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Fu l’onorevole Grassi.

RUBILLI. Può darsi, non l’ho presente, che l’abbia inoltrata anche il collega Grassi. Comunque la fece sua e la sostenne l’onorevole Togliatti, cui io domando: perché se ne pentì da un giorno all’altro? Che sognò la notte? Si dice che la notte porti consiglio, ma talora porta anche delle cattive idee. Perché mettersi in conflitto con se stesso, ed andare alla Commissione per rinunziare al concetto lodevolissimo del collegio uninominale?

Io non lo so come gli sia venuto in mente. Ad ogni modo la proposta è sua.

TOGLIATTI. Non vi ho rinunziato.

RUBILLl. Io l’ho appresa da lei, l’ho accolta e la faccio mia, riproducendola.

TOGLIATTI. Non vi ho rinunziato ancora.

RUBILLI. Non avevo sentito bene, ma tanto meglio. Ne sono proprio contento. (Si ride). A prescindere da un senso di orgoglio personale, non mi dispiace di vedermi sorretto da un uomo così autorevole per le sue qualità personali e per la sua funzione di capo di uno dei grandi partiti.

Io rispetto gli uomini di tutti i partiti quando valgono. Dove trovo uomini di valore, li ammiro ed apprezzo. Dunque, dicevo, non solo per vedermi sorretto da un uomo di indiscutibile autorità, ma anche per cominciare ad acquistare una piccola speranza che la mia idea sia accreditata ed avvalorata.

RUSSO PEREZ. Esiste anche una sinistra, che siamo noi.

RUBILLLI. Mi rivolgo anche a voi, da una parte e dall’altra. Io qui non rappresento che ben poco. Posso rappresentare me stesso, il che per un ambiente parlamentare non è molto. Quindi faccio appello all’una e all’altra parte e domando di essere appoggiato dai vari settori.

Insomma il collegio uninominale mi pare la migliore idea, ed è sorta spontanea da uomini diversi, non preparata ne organizzata.

Se poi vi fossero delle fobie speciali verso il collegio uninominale, io dico, volgiamo anche lo sguardo, se vi pare, verso lo scrutinio di lista maggioritario. Ma insomma, vogliamo o non vogliamo che il Senato non rappresenti una riproduzione fedele della Camera dei deputati, perché l’opera sua diventerebbe allora inefficace ed inutile?

Su questo punto credo che dobbiamo essere ormai tutti quanti concordi. Ed allora, se è così, non v’è che un mezzo solo: poiché il Senato deve essere sempre per la maggior parte elettivo, occorre un metodo diverso di elezione, quale che sia, di fronte a quello che si segue per la Camera dei deputati. Mi pare ciò assolutamente chiaro ed indiscutibile.

So di avere un poco anche abusato della vostra bontà e cortesia e di essermi troppo attardato nell’esporre i miei concetti; anche per questo non voglio aggiungere altro. Ma si tratta di un argomento grave, su cui è bene che ognuno dica completamente e sinceramente il suo pensiero; in ogni discorso e in ogni parola – quando sgorghi dall’anima e sia pronunziata con libera coscienza – vi può essere una parte di verità.

Onorevoli colleghi! Che cosa volete che vi aggiunga? La mia conclusione è questa. Io comprendo le difficoltà che affrontiamo nel triste periodo che si attraversa, io sento tutto quanto il peso della nostra responsabilità. Nei disagi che la storia ha riservato alla nostra generazione, nelle condizioni attuali, sull’argomento in esame non dobbiamo farci guidare da idee preconcette, dobbiamo mettere da parte ogni competizione di partito: unico deve essere il nostro scopo, il nostro pensiero, unica la nostra mèta, contribuire, in adempimento di un grande dovere, con tutte le forze della nostra intelligenza, a dare all’Italia un Parlamento, come il Paese lo desidera e lo attende, degno delle nostre antiche, alte, gloriose tradizioni politiche e storiche, un Parlamento che sia veramente in grado di garantire gli interessi più vitali della Patria e di sollecitarne ampiamente ed efficacemente la pronta ricostruzione morale e materiale. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole La Rocca. Ne ha facoltà.

LA ROCCA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi. Con l’ordinamento della Repubblica, cioè con la struttura dello Stato, e, quindi, con i rapporti fra i poteri, veniamo al fulcro della Costituzione.

E non si vuole, con quest’affermazione, diminuire in alcun modo il pregio e il rilievo di quella parte del testo costituzionale, già approvata, che si riferisce ai diritti e alle libertà dei cittadini e al nuovo indirizzo nel campo economico e sociale.

È stato già osservato, con finezza mentale e con autorità, che il tratto caratteristico, l’impronta veramente originale della nostra Costituzione consiste nel fatto che essa non si restringe a registrare e a sanzionare, per via di norme, il presente, quello che esiste, quello che è stato già conquistato e realizzato, ma accoglie in sé elementi programmatici destinati a servir di guida e di orientamento all’azione futura dello Stato, offre una base giuridica all’attività legislativa di domani, accoglie in germe l’avvenire.

E, da questo punto di vista, il Progetto, nel suo insieme, può dirsi un riflesso della nostra realtà obiettiva, della situazione storica concreta: un riflesso della svolta che attraversiamo, piena di quella lotta dei contrari, degli opposti, come dicono i filosofi, che è l’anima vivente della dialettica, l’essenza dell’evoluzione, della legge generale del divenire: della lotta tra il vecchio e il nuovo, tra ciò che decade, si decompone e muore e ciò che nasce, si forma, si sviluppa.

La Costituzione che, per molti aspetti, sa ancora del passato, ha ancora molte delle sue radici nel passato, apre, tuttavia, una finestra sull’avvenire; vuole, anzi, essere un ponte lanciato verso l’avvenire, per un profondo rinnovamento della struttura della società, più che maturo, non soltanto nel pensiero degli uomini, ma nella materialità delle cose, nelle condizioni obiettive, e necessario alla tutela permanente delle libertà democratiche e della pace, per la consacrazione di principî acquisiti alla coscienza giuridica, politica, sociale del nostro popolo e a cui deve corrispondere un’effettiva realizzazione di nuovi diritti, che, nelle riforme di carattere economico, nella progressiva trasformazione dell’insieme dei rapporti sociali, nel mutamento della base materiale, debbono trovare il terreno per il loro esercizio e la loro sanzione.

Ma che vale enunciare principî, se non si creano gli strumenti e gli organi per attuare queste formulazioni programmatiche?

Una Costituzione, che, difficilmente, è la realtà di un’ideologia, l’applicazione di un sistema filosofico; che è, piuttosto, il frutto delle circostanze, il prodotto dei costumi e di situazioni storiche particolari: una Costituzione, che può non esistere come documento in cui è scritto un dato ordinamento giuridico, ma dev’essere viva nella sua sostanza, come dimostrano la storia di Roma antica e quella dell’Inghilterra dell’età moderna, entrambi questi popoli essendo stati privi, o quasi, di una Costituzione nel senso di un complesso organico di disposizioni concernenti l’ordinamento dello Stato: una Costituzione è, innanzitutto, un piano per il funzionamento degl’istituti: un piano e un binario.

Essa è un diritto, ma è, pure, un insieme istituzionale, un insieme che, nel linguaggio della realtà, si chiama «governo».

La scienza del governo è la scienza politica, che, nei secoli XVIII e XIX, si chiamava Montesquieu, Rousseau, Mably, Constant, Chateaubriand, ecc.

La democrazia moderna ha bisogno di questa scienza politica, la quale non può basarsi, interamente, sulle formule della fine del secolo XVIII o degl’inizi del secolo XIX, che, ormai, non hanno più alcuna realtà sociale, non abbracciano più l’insieme dei fenomeni politici.

Le vecchie teorie costituzionali erano, sopra tutto, teorie giuridiche, fondate sulla logica del diritto.

Oggi, i ritocchi costituzionali non si compiono soltanto con accorgimenti tecnici, ma con un ardimento dottrinale, con contributi nuovi alla scienza politica.

Tutta la parte introduttiva del testo, quella dell’affermazione dei diritti, antichi e nuovi, della proclamazione dei principî, rischia di rimanere lettera morta, un complesso di aspirazioni senz’alba, di propositi senza domani, se la macchina statale ha la ruggine nelle sue ruote, o, peggio, ha dei bastoni nei raggi delle sue ruote. La vita del Paese può essere paralizzata dalle deficienze, dalle manchevolezze degli istituti che siamo chiamati a creare.

E giova ricordare il monito di Constant, che fu, comunque, un amico della libertà.

«Dichiarazioni in favore della sovranità del popolo non oppongono alcuna barriera alle usurpazioni del potere», egli scriveva.

Sono sempre i depositari del potere, legislativo od esecutivo, ad esprimere la volontà del popolo sovrano.

Perciò, è facile a tutti i Governi – e in ispecie ai rappresentativi – quando i diritti individuali non sono garantiti da solide istituzioni, di far volere al preteso sovrano tutto quanto può servire per opprimerlo come suddito, oppure, per la strada opposta, giungere al medesimo risultato, e cioè di opprimerlo come suddito per far sanzionare la sua schiavitù comò sovrano.

Buonaparte diede numerosi esempi di tal genere.

E, avanti di addentrarci nell’analisi degl’istituti, poniamoci una domanda.

L’ordinamento che elaboriamo costituisce o no un passo innanzi sulla via della democrazia, sulla via del progresso, di fronte all’organizzazione sancita nello Statuto albertino?

Per molti o per taluni aspetti, indubbiamente sì: costituisce un passo innanzi.

A parte la forma istituzionale, nella Carta albertina, concessa nel modo che tutti sanno, il monarca era la fonte del potere, la fonte e il depositario del potere: capo dell’esecutivo, di gran parte del legislativo, radice e arbitro del giudiziario, praticamente al rimorchio dell’esecutivo.

E la sovranità popolare?

La sovranità popolare entrava nell’edificio costituzionale per la porta di servizio.

Una conquista realizzata è il rovesciamento della concezione che informava gli articoli 5 e 8 dello Statuto, con il trasferimento di atti di gran rilievo costituzionale dal Capo dello Stato ai rappresentanti del popolo. Altro vantaggio ottenuto è il superamento della nomina dall’alto di un ramo del Parlamento, che esce tutto dal suffragio universale.

E, sotto la specie teorica, alla stregua di uno schema già tracciato in parte da Aristotele, quale sistema adottava lo Statuto, quale forma di governo?

Accoglieva il sistema parlamentare, ma in embrione, in potenza, a traverso la disposizione di un articolo, che stabiliva la responsabilità dei Ministri, del Gabinetto.

L’onorevole Orlando lo ha già notato.

La forma parlamentare si è, poi, affermata nella pratica, nell’attuazione delle norme, per il carattere così detto elastico della Carta albertina: carattere così elastico che non solo ha consentito ai gruppi reazionari dominanti di farsi via via la mano alla dittatura, ma ha accolto il fascismo e gli ha permesso di vivere e di portarci alla rovina.

Nella nuova Costituzione è stato, invece, affermato, nettamente, il principio della sovranità popolare.

«La sovranità appartiene al popolo», è sancito nell’articolo 1, già approvato.

Alla stregua del testo, il popolo, nel quale risiede la sovranità, è la sorgente del potere: l’unica sorgente.

Ma, da questo principio, così chiaramente, solennemente espresso, non si sono tratte le necessarie conseguenze.

Se una (e non frazionabile) è la fonte della sovranità, è assurdo ammettere ed accettare che possano esistere poteri diversi: divisi, distinti o magari opposti.

Il potere non è che uno: quello del popolo; e dal popolo, da cui emana, dev’essere esercitato, nei modi che saranno convenuti.

E qui viene in campo la questione della separazione dei poteri, presentata dai giuristi del secolo XIX come la tutela dei diritti dei cittadini e il baluardo della libertà.

All’Assemblea francese, se ne è discusso, con grande ampiezza.

Conviene dirne qualcosa, rapidamente.

Com’è noto, il principio della separazione dei poteri, già delineato da Aristotele nella sua Politica, ha trovato la sua esposizione più compiuta in Montesquieu, che, ne Lo spirito delle leggi, difendeva, in sostanza, la proprietà.

Montesquieu sosteneva che, in un buon ordinamento statale, è necessario che il potere attribuito ad un’autorità abbia un limite nel potere di un’altra autorità, in modo che un potere arresti l’altro.

Questo principio ha avuto la sua ragion d’essere ed ha adempiuto anche a una funzione progressiva: ha aiutato la libertà a nascere e il cittadino a mettersi in piedi.

Ma, come ogni regola politica, esso ha un valore relativo, poiché è nato e si è sviluppato in condizioni storiche determinate.

Si trattava, alla fine del secolo XVIII, di combattere l’assolutismo monarchico, e bisognava trovar le formule capaci di giustificare la lotta contro il potere assoluto del re.

Si esagerarono le differenze tra le due funzioni naturali del potere politico: quella di definire le norme generali dell’ordinamento, cioè, di elaborare le leggi, e quella di applicare la legge ai casi particolari.

Si giunse così, a una divisione del potere, lasciando al re, o a chi lo rappresentava, al Capo dello Stato, la funzione esecutiva e rimettendo al popolo, per il tramite dei suoi eletti, la funzione legislativa.

In breve, nella tappa di transizione, che condusse dalla monarchia assoluta al regime liberale, il re conservava il potere esecutivo, mentre il potere legislativo s’incarnava nella nazione o in certi elementi privilegiati della nazione.

In fondo, lo scopo principale di molti teorici della separazione era quello d’indebolire il potere, dividendolo; e impedire l’azione arbitraria dello Stato nei riguardi dei cittadini: ciò al tempo in cui l’ufficio dei partiti liberali consisteva nell’opporre all’onnipotenza monarchica, forte del suo passato e delle sue tradizioni, l’idea della libertà.

Tuttavia, a chi guarda le cose con chiarezza, non sfugge l’osservazione di Kelsen: che, dopo Montesquieu, si fece valere la separazione dei poteri, non per spianare la strada alla democrazia, ma piuttosto per conservare, al monarca, eliminato in parte dalla legislazione per effetto del movimento democratico, la possibilità di esercitare un potere proprio nel campo esecutivo.

A ogni modo, la formula rispondeva alle circostanze; e il dogma della separazione fu il nucleo ideologico della monarchia costituzionale: cioè, del compromesso fra il diritto divino e la sovranità popolare.

E informò di sé due regimi principali e taluni altri, intermedi.

Da un lato, come si è detto, la monarchia costituzionale, in cui il re manteneva la funzione esecutiva, e gli eletti del popolo, in generale, esercitavano la funzione legislativa o vi partecipavano; e, dall’altro, nei Paesi dove non esisteva un monarca, come nella Repubblica degli Stati Uniti, il sistema presidenziale, nel quale il popolo elegge direttamente due poteri diversi; e, con due manifestazioni diverse della sua volontà, crea due poteri distinti e separati: da una parte, il presidente, incaricato, sopra tutto, della funzione esecutiva, e, dall’altra, un’assemblea, incaricata della funzione legislativa.

Ma la teoria della separazione, necessaria nelle condizioni storiche della fine del secolo XVIII o degli inizi del XIX, via via che si è allontanata dalle circostanze che la generarono, ha cessato di essere un fattore di progresso, per la ragione che, vinta la battaglia contro i residui dell’assolutismo monarchico, il compito storico della teoria di Montesquieu è ormai esaurito.

Già nel 1848, Un grande repubblicano, Grévy, sosteneva che il mantenimento della separazione dei poteri costituiva «il grande errore politico del nostro tempo».

Si tratta, in sostanza, di un principio superato, artificiale e anacronistico, che tende a rappresentare lo Stato come una sovrapposizione di organi quasi indipendenti gli uni dagli altri e che, pur lavorando alla stessa opera generale, farebbero ciascuno operazioni essenzialmente diverse e avrebbero ciascuno una sfera d’azione propria, dalla quale ogni altro potere sarebbe escluso.

Di là dalle deformazioni, tra filosofiche e giuridiche, che parlano di due poteri, lo studio della realtà politica mostra che esiste solamente una distinzione di funzioni.

La pratica insegna che la separazione dei poteri, concepita in una maniera astratta, è un’impossibilità: che il legislativo e l’esecutivo sono intimamente legati e solidali, formano le due ruote di una stessa macchina e che, se i loro movimenti non si accordano, tutta la macchina non funziona.

Senz’aggiungere che la separazione dei poteri, teoria caratteristica del secolo XVIII, anteriore alla democrazia moderna, si è rivelata, nei fatti, una maledizione: una maledizione per gli uomini della stessa rivoluzione borghese.

Basterà ricordare la Costituzione dell’anno III, quella di Fruttidoro, alla fine del secolo XVIII, e che può dirsi il gradino del dispotismo napoleonico; la Costituzione della seconda Repubblica francese, che consentì il colpo di Stato del 2 dicembre, il 18 brumaio di Luigi Bonaparte, alla metà del secolo XIX, e la bastarda Costituzione di Weimar, elaborata da dottrinari, con a capo Preuss, che dette modo al Presidente del Reich, padrone dell’esecutivo, di aprire le porte a Hitler e precipitare la Germania nell’abisso.

In tutt’e tre queste circostanze, la frattura tra l’esecutivo e il legislativo permette alla crisi sociale di sboccare nel fango della dittatura: e un regime caporale pianta gli sproni nei fianchi del popolo.

Gli americani, alla luce dell’esperienza, hanno riesaminata la questione, elaborando una teoria più sottile: quella delle bilance e dei contrappesi (checks and balances): con organi del Governo che si equilibrano gli uni con gli altri, collaborano gli uni con gli altri, si controllano gli uni con gli altri e, con questa azione reciproca, somigliando un po’ a quella dei contrappesi, contribuiscono alla armonia del Governo.

Ma, prescindendo dalle nebbie teoriche o da esperienze conformi alle condizioni particolari di altri popoli, la regola di una democrazia non falsa, né bugiarda, deve tendere all’unità del potere.

L’onorevole Ruini, nella sua relazione al progetto, inclina, invece, alla «possibilità di forme molteplici e diverse della sovranità popolare», e, scrivendo che la formula di Montesquieu è solo «in parte superata», sostiene, con… garbo, «quel tessuto costituzionale di ripartizione ed equilibrio dei poteri, che ha costituito una conquista e un presidio di libertà».

In definitiva, egli si rifiuta di trarre le necessarie conclusioni dal riconoscimento del principio della sovranità popolare, agitando lo spettro di un Governo d’Assemblea, nel caso che il potere si concentrasse nel Parlamento, che pure è l’organo di più immediata derivazione dal popolo, e presentando il Gabinetto, il Capo dello Stato o la Magistratura quali commessi e agenti d’esecuzione del legislativo.

L’onorevole Orlando, maestro di diritto, dopo essersi domandato in quale casella teorica, alla stregua dell’elenco aristotelico, dovrebbe essere assegnato l’ordinamento costituzionale della nostra Repubblica, secondo il testo in esame, dice che la Commissione ha inteso di adottare il sistema parlamentare, per contrapposto ai tipi di Governi presidenziale e direttoriale, con disposizioni atte ad assicurare la stabilità dell’azione governativa; ma conclude che, a rigor di termini, l’ordinamento, previsto dal progetto, non costituisce «una forma parlamentare» e meno che mai consolida l’autorità del Governo, rafforza il potere esecutivo.

Nella indagine sui caratteri dell’istituto parlamentare, l’onorevole Orlando afferma: «Intanto, la famosa divisione di poteri», riconoscendo che il sistema tiene distinti il legislativo e l’esecutivo e che le due funzioni, diverse nella loro portata e nel contenuto, «sono affidate ad organi sovrani», cioè, «liberi da ogni gerarchia tra loro, equivalentisi, interferenti»: «tutto un gioco di equilibrio»; principalmente «compartecipazione».

E demolisce il Progetto, mostrando perché, secondo il suo giudizio, gli elementi propri della forma parlamentare non hanno riscontro nel testo: con un Capo dello Stato ridotto a una figura decorativa, escluso dal Parlamento dall’attività legislativa, e sfornito della sanzione, in quanto è chiamato a promulgare le leggi approvate dalle due Camere; con l’Assemblea Nazionale che annulla, di fatto, il sistema bicamerale e realizza il totalitarismo d’Assemblea, crea la Camera unica, che detiene effettivamente tutti i poteri: perché elegge il Capo dello Stato e lo supplisce, delibera la mobilitazione e l’entrata in guerra, l’amnistia e l’indulto, mette in istato d’accusa il Presidente della Repubblica, concede fa fiducia al Governo o gliela nega, nomina i membri della Corte costituzionale: che è, insomma, «il vero fulcro, il centro dell’esercizio della sovranità nella struttura costituzionale», con un Primo Ministro che concentra in sé l’autorità effettiva e «può fare quello che vuole», può essere un dittatore.

Queste, in succo, le critiche dell’onorevole Orlando.

Da parte sua, l’onorevole Nitti, che si attiene al sodo, al concreto, al linguaggio delle cifre e non inclina all’ottimismo e si richiama a Solone per una Costituzione la quale sia «la più pratica e la più conveniente», mostra di ritenere anche lui che l’Assemblea sia onnipotente, notando, però, «una tendenza per cui tutto fa capo al Governo».

In ordine alla struttura dello Stato, il problema fondamentale è quello dei rapporti fra i poteri. Più particolarmente, il nodo della questione è nei rapporti fra il potere legislativo e il potere esecutivo.

In sostanza, i rapporti fra il legislativo e l’esecutivo, il loro grado di separazione e la gerarchia tra loro si trovano alla base della diversa organizzazione dei regimi democratici, che sono frutto di una lunga evoluzione storica.

A differenza del regime presidenziale, che realizza nella maniera più netta la separazione dei poteri, e di quello direttoriale (sul modello svizzero) – caratterizzato dall’esistenza di un esecutivo collegiale, non revocabile per il termine del mandato, e agli ordini del legislativo, di cui è l’espressione – il regime parlamentare rappresenta un insieme complesso: che ha per elemento principale la responsabilità ministeriale, e, pur creando dei poteri distinti, prevede e organizza la loro collaborazione, la loro associazione, il loro accordo: onde la norma della responsabilità politica del Governo, che, per vivere, ha bisogno della fiducia del Parlamento.

Intanto, il principio dell’equilibrio dei poteri, ricordato dall’onorevole Orlando come l’asse del sistema, non esclude la possibilità di una concorrenza o di una rivalità fra loro, anche se Duguit sostiene che il regime parlamentare è costituito essenzialmente sulla base dell’eguaglianza dei due organi dello Stato – il Parlamento e il Governo – e Mirkin-Guetzévitch afferma che, in detto sistema, la lotta tra il legislativo e l’esecutivo non esiste più, in quanto l’esecutivo è l’organo del popolo e la differenza tra il legislativo e l’esecutivo nella loro formazione è unicamente nel grado di formazione: il Parlamento nascendo direttamente dalle elezioni e l’esecutivo uscendo anch’esso dalle elezioni, ma per il tramite della maggioranza parlamentare: cioè, con una scelta di secondo grado.

Qui non mette conto occuparsi dei tipi ibridi di Governo, che riuniscono elementi del regime parlamentare e del regime presidenziale, com’è avvenuto nel caso della Costituzione di Weimar, che fu un ponte gettato sul caos per giungere a qualcosa di peggio della restaurazione monarchica: alla dittatura terroristica del nazismo.

Ora, se la storia, nel suo insieme, è, come riconoscono gli stessi scrittori borghesi, una storia di lotte tra classi che dominano e classi che sono dominate, tra classi che opprimono e classi che sono oppresse (e i risultati di queste lotte costituiscono le varie tappe dell’evoluzione), è lecito affermare, in linea generale, e riferendosi particolarmente, all’epoca moderna, che lo sviluppo dell’organizzazione sociale, come riflesso e riassunto di determinate condizioni storiche, è, nelle sue soste, nei suoi zig-zag e nei suoi progressi, una serie di attriti e di conflitti tra il potere esecutivo e il potere legislativo.

E si tratta di questo: che i gruppi sociali, i quali detengono il potere (economico e politico) non solo mirano a conservarlo, ma a rafforzarlo: e, quando si vedono minacciati nel godimento dei loro privilegi, rompono i patti, calpestano le leggi e ricorrono ad altri mezzi, per tenersi in sella: ricorrono a quei colpi di mano, che poi sono colpi di Stato, e si risolvono col piantare lo scarpone militare sul collo dei popoli: in altri termini, si traducono nella scomparsa del legislativo di fronte all’esecutivo.

Le Nazioni hanno compiuto un’esperienza tragica, al riguardo, e, per giunta, hanno pagato un altissimo prezzo.

Basterebbe ricordare la nascita e il consolidarsi del bonapartismo in Francia, alla fine del secolo XIX, e la nascita e il consolidarsi del fascismo in Italia, in Germania, ecc. nell’altro dopo guerra.

E a che servono, o a che possono servire le più solenni dichiarazioni di diritti, se, a un dato momento, l’esecutivo batte il pugno sul tavolo e mette i fucili all’ordine del giorno, annullando l’arma della critica con la critica delle armi e disponendo che gli stivaloni dei generali passino sulle tavole della legge?

Il Governo deve avere stabilità per assolvere ai suoi compiti, per esercitare la sua azione, per attuare il suo programma: ma il Governo non deve e non può avere mano libera, e tanto meno il modo di sovrapporsi al Paese e spianare la strada ad un ritorno offensivo di quelle forze che già una volta ci hanno trascinati al disastro, e non sono morte.

Il fulcro della questione è nei rapporti tra il legislativo e l’esecutivo.

E lo Stato, detto libero, tanto per buttare polvere negli occhi, è un non senso.

Dal punto di vista letterale, grammaticale, uno Stato libero non è altro che uno Stato libero nei confronti dei cittadini: cioè, uno Stato, con un Governo dispotico.

Tutti sappiamo benissimo che cosa è lo Stato, come e perché nacque e perché dura.

Per la costituzione di un regime veramente democratico, è necessario costruire uno Stato, che non sia più l’organo, lo strumento di dominio di categorie ristrette ed egoistiche, di pochi gruppi di privilegiati, ma diventi lo Stato degli italiani, di tutti gli italiani: lo Stato su cui il popolo che lavora mette finalmente il suo sigillo.

Cominciamo dall’esame della struttura, delle funzioni, dei poteri del Parlamento.

Esso si compone di due Camere: la Camera dei deputati e la Camera dei senatori, che, sebbene non sorgano nel medesimo modo sulla medesima base e presentino, più che una differenza, addirittura una sproporzione nel numero dei loro membri, sono poste dal Progetto sullo stesso piano.

Considerate ognuna in sé e per sé, adempiono allo stesso compito, esercitano la stessa funzione, ristrette ad essere due rami dell’attività legislativa, e sono fornite dello stesso potere, quanto alla formazione delle leggi, con uno stridore manifesto, che si risolve in un danno d’imprevedibile portata per il ritmo della vita nazionale.

Infatti, le due Camere avendo parità di poteri – ove un disegno di legge, approvato dall’una Camera, sia rigettato o non accolto dall’altra, il disegno resta lettera morta, cioè la funzione legislativa è colpita dalla paralisi, è praticamente annientata, distrutta, con la facoltà al Presidente della Repubblica di rinviare la decisione sul conflitto fra le due Camere al giudizio popolare, con un referendum sul disegno non approvato.

In altri termini, da un lato, una sosta, che potrebbe anche somigliare alla morte, nella elaborazione delle leggi e, dall’altro, un’arma tremenda, rilasciata, con una cambiale in bianco, al Capo dello Stato, di indire, in caso di contrasto fra le due Camere, il referendum e provocare continui disordini, gettare il Paese in convulsioni e agitazioni periodiche, che rischiano di mettere, ogni volta, tutto in discussione e in gioco.

E, se l’urto fra i due rami del Parlamento nasce da una questione di secondaria importanza, il male che ne risulta può essere contenuto entro certi limiti.

Ma se il contrasto si afferma sopra argomenti e materia che rappresentano interessi vitali della Nazione, quali conseguenze ne derivano?

Ne deriva, ad esempio, che le riforme di struttura, dettate dalla necessità della marcia progressiva del nostro popolo, sono relegate in soffitta; che l’organizzazione dell’industria, della produzione, del lavoro rimane allo statu quo, con i complessi monopolistici e la ricchezza concentrati nelle mani di una cricca di plutocrati, che si servono del privilegio economico per stabilire la loro egemonia sulla vita del Paese, per farsi ancora una volta arbitri della vita della Nazione: per continuare, da una parte, a opprimere, a sfruttare, ad asservire; per creare, dall’altra, le premesse, economiche e politiche, della rinascita di un passato di miseria e di lutti, con regimi tirannici all’interno e con una politica di brigantaggio nel campo internazionale: passato che dev’essere seppellito, nella fossa comune della storia, senza speranza di resurrezione.

Ne deriva che la riforma agraria che è il centro, il fulcro di quella rivoluzione democratico-borghese che, al tempo del Risorgimento, dette qualche passo innanzi, ma si arrestò, non si svolse, e che, oggi, bisogna compiere e sviluppare in modo conseguente, non si attua e continua ad essere dibattuta in controversie accademiche nelle rassegne e nei giornali.

Ne deriva che la disciplina e il controllo del credito, cioè la tutela dei risparmi dei cittadini e la sorveglianza sulla circolazione della ricchezza, restano una visione d’avvenire.

Ne deriva, insomma, che il rinnovamento democratico, richiesto dalla situazione come il mezzo più efficace per sbarrare la strada ad un nuovo sopravvento delle forze antipopolari e antinazionali, diventa una frase; che la trasformazione nel campo industriale, agrario, bancario, ecc., che non può essere più oltre ritardata e che, sola, garantisca l’esercizio effettivo delle libertà e dei diritti dei cittadini, si muta in un’aspirazione romantica di poeti baciatori di stelle.

Il problema è di una gravità enorme.

Noi siamo in debito verso la storia, per non avere condotta fino in fondo la nostra risoluzione democratico-borghese, per non avere spazzati via i resti di una civiltà decomposta, di un’epoca morta.

La dittatura terroristica del fascismo, che dev’essere considerata l’epilogo, la conclusione della politica seguita dalla casta reazionaria, dominante, non è stato un fenomeno del caso.

L’Italia ha potuto essere il terreno dell’esperimento fascista per una situazione particolare, per il concorso di circostanze particolari. Per il fatto, ad esempio, che, accanto ai vestigi, ai residui della feudalità, con la sopravvivenza del latifondo, si sono via via sviluppati gli elementi del capitalismo più avanzato e tuttavia agonizzante, del capitalismo dei monopoli, dell’imperialismo; per il fatto che è stato possibile ai gruppi più rapaci, più briganteschi del capitale industriale e bancario di stringere, con l’aiuto della monarchia, un’alleanza col capitale agrario, col blocco agrario del Sud e trasformare il Mezzogiorno e le Isole in una colonia di sfruttamento, mantenere gran parte del Paese in condizioni di arretratezza e imbavagliare e coprire di catene tutta la Nazione, e portarla, in definitiva, al disastro.

Gli elementi obiettivi delle condizioni materiali di ieri non sono scomparsi: in taluni circoli si lavora, anzi, e si lotta per conservarli.

Fino a quando una tale situazione non muta, è sempre vivo il pericolo di un ritorno offensivo di quelle forze, che hanno cagionata la rovina del Paese.

Dal punto di vista tecnico, legislativo, il motore di questo profondo rivolgimento economico e sociale, nell’orbita della legalità democratica, non può essere se non il Parlamento.

Ora, il Parlamento, per il modo con cui è stato concepito e organizzato, induce a pensare non al thè troppo caldo da versarsi nella sottocoppa, perché si raffreddi, ossia all’opportunità di una seconda Camera per un più ponderato esame, per una più matura riflessione, soprattutto per un freno agli eccessi e alle passioni di un’Assemblea popolare, secondo il pensiero di Washington e di Jefferson, ricordato dall’onorevole Ruini; ma induce, piuttosto, a pensare ai due cavalli di Franklin, che, mettendosi a tirare in senso opposto, inchiodano il carro legislativo all’immobilità, cioè, condannano la vita nazionale alla stagnazione, alla cachessia.

E, qui, bisognerebbe discorrere dell’organizzazione del Parlamento, del modo di formazione dei suoi organi, del sistema da approvare: unicamerale o bicamerale.

Bismarck ricordava che l’imperatrice Caterina dispose un giorno che fossero poste delle sentinelle a guardia di alcuni fiori bellissimi, spuntati per miracolo in un’aiola dei suoi giardini.

Dopo anni e anni, non restava di quei fiori neppure il ricordo; e le sentinelle continuavano a montar la guardia al luogo deserto, a ciò che non esisteva più.

Così è di tante altre cose nella vita. Si seguita a vegliare sulle cose morte, a custodire i sepolcri scoperchiati e vuoti.

La ragion d’essere delle Camere Alte consisteva nell’impedire il trionfo dei movimenti liberali al tempo delle monarchie, passate dalla tappa dell’assolutismo allo stadio costituzionale.

In altri termini, la seconda Camera era uno strumento nelle mani dell’autorità regia, per imbrigliare l’impeto della volontà popolare.

Già nel secolo XIX, la dottrina democratica è nettamente unicameralista: in Francia, essa si sviluppa sotto il secondo Impero e nel primo periodo della terza repubblica con i discorsi di Goblet, di Naquet, di Clemenceau, e poi, verso la fine del secolo, con le proposte dei radicali, che presentano un disegno di legge per la soppressione del Senato.

Secondo le correnti ideologiche più strettamente legate alle grandi masse popolari, gli argomenti addotti da Siéyès sulla questione sono più che mai validi.

È la teoria della sovranità nazionale, secondo la quale il Parlamento rappresenta la volontà popolare, che non ha bisogno di esprimersi che una volta sola.

Se vi sono due Camere, o queste non hanno sopra un determinato oggetto la medesima opinione, e allora una di esse tradisce la volontà nazionale e la sua esistenza è un male; oppure le due Camere si dimostrano d’accordo, e, in questo caso, la seconda è inutile.

Per venire al concreto: o il Senato esprime la stessa volontà della Camera dei Deputati e non serve a niente; o esprime una volontà diversa, e allora una delle due Camere riflette meno fedelmente dell’altra la volontà del Paese.

Ci sarebbe da aggiungere che se il contrasto fra i due rami del Parlamento si riferisce non al carattere più o meno democratico della loro elezione, ma alla diversità delle persone e ad altri fattori accidentali, il risultato è causa di complicazioni, di confusione e di ritardo.

Da parte dei sostenitori del sistema bicamerale, si oppone invece che la volontà della legge non dev’essere confusa con l’elaborazione della legge, la quale richiede riflessione, maturità, esperienza particolare, preparazione tecnica, ecc.

In definitiva, il grande argomento a sostegno del bicameralismo, è questo: che le leggi debbono passare per il filtro di un minuto, attento, pacato esame e che il dare un solo organo alla formazione e all’espressione della volontà nazionale è un rendere questa formazione e questa espressione troppo subitanea, precipitosa, inconsiderata: onde l’opportunità di doppie e più meditate decisioni, e l’utilità del contributo che può dare, con un nuovo esame, «nella sua diversa composizione e competenza», una seconda Camera.

Questo compito può essere ritenuto ancora utile. Ma non vorrei che si trattasse di altro: di tradurre in pratica politica il pensiero di Hallam: che le assemblee numerose inclinano agli eccessi, con passioni concitate e irresponsabilità collettiva: sì che la democrazia, il regno assoluto della maggioranza, sarebbe il più tirannico degli ordinamenti.

Alcuni bicameralisti dichiarano, infatti, apertamente che un’assemblea unica, eletta a suffragio universale, tende a concentrare in sé tutto il potere dello Stato, a rendere l’esecutivo e il giudiziario suoi servitori, senza possibilità di limiti o di freni: lungo Parlamento o Convenzione, non importa.

Si cita Robespierre, che aspirava ad un Governo costituzionale; si tira in ballo l’autorità di Proudhon, che è autorevole fino ad un certo punto.

La maggioranza, ritenendosi fonte del diritto, affermando, anzi, di costituire il diritto, diventerebbe dispotica.

Di qua, secondo alcuni, la necessità, per la democrazia, di organizzare un centro di resistenza contro il suo prepotere.

È, in ultima analisi, la tesi esposta nel Governo rappresentativo da Stuart Mill, e rimessa più o meno a nuovo.

Impedire che un’assemblea unica possa esercitare la sua volontà, senza il concorso o il controllo di alcun altro.

Stuart Mill scriveva: «In ogni Costituzione dovrebbe esistere un centro di resistenza contro il potere predominante. Di conseguenza, in una Costituzione democratica, occorrerebbe creare un centro di resistenza contro la democrazia».

E, nella concezione del filosofo inglese, questo «centro di resistenza» s’identificava in un «corpo conservatore, inteso a moderare e a regolare «l’influsso democratico», prendendo a modello, per la composizione di detto corpo, che avrebbe dovuto avere, come suoi tratti caratteristici, la saggezza, la competenza e una speciale educazione, l’antico Senato romano, formato, come tutti sanno, dei capi della gente patrizia, e dei consoli, dei censori, dei pretori, degli edili, dei questori, dei tribuni.

Così, da un lato, la Camera dei Deputati, come espressione e rappresentanza del sentimento popolare, e, dall’altro, il merito personale, sperimentato e avvalorato da pubblici servizi reali e confermato dalla pratica, in una Camera di riflessione, chiamata a correggere gli errori del popolo e a contenerne gl’impulsi.

Ma, oltre le difficoltà e gl’inconvenienti di un tale modo d’impostare il problema, già rilevate da Cavour in un articolo sul Senato, Mill e i suoi seguaci tendono a trasportare, nel clima moderno, un sistema che diede i suoi frutti nell’antichità, in altre circostanze e in una diversissima situazione storica: senza notare che il Senato romano, al tempo della Repubblica, se fu un corpo politico di gran rilievo e tra i più importanti finora conosciuti, ebbe, per altro, in una certa misura, un’impronta democratica, perché i suoi membri erano eletti alle cariche pubbliche, da cui derivavano, nei comizi centuriati e tributi e dovevano, pertanto, considerarsi levati al seggio senatoriale dalla fiducia popolare, sia pure con una indicazione di secondo grado, mentre oggi, gli alti posti negli uffici pubblici hanno il crisma del potere esecutivo e una Camera costituita, generalmente, di competenze acquistate nella carriera amministrativa, non sarebbe se non il braccio lungo dell’esecutivo in un ramo del Parlamento, proprio come il vecchio Senato di nomina regia.

Si può osservare: il progetto esclude ogni intervento dell’esecutivo nella formazione della seconda Camera, la quale sorge, come la prima, unicamente sopra una base elettiva, ha, alla sua origine, come la prima, unicamente il suffragio universale.

Dai verbali, foltissimi, della Commissione apparisce chiaramente che si tendeva ad aprire un varco all’influenza dell’esecutivo nella composizione del Senato, destinando un certo numero di nicchie a determinati santoni di gradimento del Capo dello Stato e, perciò, del Capo del Governo, con il pretesto della celebrità.

Da quei verbali risulta pure che della seconda Camera – accolta, in linea di principio, da tutti i partiti, se bene con criteri diversi – si è cercato di fare, sotto la specie della rappresentanza organica delle così dette «forze vive», a base di categorie e d’interessi, una nuova edizione, riveduta e corretta, e, forse, peggiorata, della vecchia Camera corporativa di tipo fascista.

Le due proposte furono respinte, dopo lunghe discussioni, accese controversie e una dura lotta.

Adesso, la tesi della rappresentanza organica, già prospettata in Commissione, ritorna, in un modo o nell’altro, nei discorsi degli onorevoli Codacci Pisanelli e Clerici, e l’onorevole Rubilli, che da poco ha finito di parlare, sostiene l’utilità e la necessità di una parziale nomina della seconda Camera da parte del Capo dello Stato, per consentire ad uomini illustri di partecipare alla vita politica senza esporsi ai fastidî e ai rischi di una campagna elettorale.

Ma, col sistema delle rappresentanze delle categorie – a prescindere dalla sua origine antidemocratica – in pratica, sul terreno concreto, come si farebbe a stabilire il collegio elettorale per la scelta dei candidati? Quali sono le forze e quali sono questi interessi che debbono essere rappresentati? A parte l’argomento che gli interessi sono rappresentati dai partiti (che esprimono e tutelano determinati interessi), poiché si dice: ci possono essere interessi non conglobati nei partiti, bisognerebbe specificare quali essi sono e come si traducono in collegi elettorali. Su quali basi e con quali liste? E non si rischia di cacciare dalla porta di servizio la sovranità popolare che è entrata nell’edificio costituzionale a bandiere spiegate? Noi non ci opponiamo ad alcun modo di formazione della seconda Camera, purché esso abbia una garanzia di democrazia, purché sia rispettato il principio della volontà popolare come unica sorgente di questa formazione e non si operi spostamento artificiale nei rapporti di forza e non si tenda a favorire alcune Categorie a danno di altre.

Con la rappresentanza organica degli interessi, attraverso le categorie, dovrebbe essere soddisfatto il desiderio che tutte le forze siano convogliate: anche quelle che non militano nei partiti. E non si otterrebbe l’intento. Vi sarebbero sempre alcuni che si lamenterebbero di essere stati esclusi. Allora, i lavoratori, i contadini da un lato; e poi? Poi, gli avvocati, gli ingegneri, i medici, gli artigiani, i pensionati, i professori, le industrie, le università, le banche, che per altro sono già largamente rappresentate. Ma, in definitiva, non ci opponiamo a niente, a patto che ogni innovazione abbia il suggello democratico.

Allo stato, la Camera dei senatori è, come già si è detto, sul medesimo piano di quella dei deputati: e la prevalenza numerica della prima Camera sulla seconda può pesare, forse, soltanto nella unione dei due rami del Parlamento in Assemblea Nazionale.

Che cosa dice sulla questione l’onorevole Orlando, che è, indubbiamente, il tecnico più autorevole dell’Assemblea?

Dal punto di vista teorico, egli sostiene che il bicameralismo deve servire a questo: a stabilire un «sistema di equilibrio» con la prima Camera, «per impedire che una Camera sola si attribuisca un potere senza limiti e senza contrappesi».

Mutatis mutandis, è un po’ il concetto di Mill e dei suoi seguaci; ed è, in un certo senso, il compito che Mill assegna alla seconda Camera.

Intanto, nel campo dottrinale, l’onorevole Orlando si discosta dal filo del pensiero politico liberale sull’argomento: da quello di Cavour, per esempio.

Cavour, scrittore, si occupò dell’istituto del Senato, in pagine che, ancora oggi, si leggono con interesse.

Egli scriveva: «Noi non esitiamo a dichiararci fautori dello stabilimento di due Camere legislative: non già per giungere con ciò ad ottenere l’equilibrio dei poteri, ma per assicurare l’azione progressiva e regolare delle nostre istituzioni politiche. L’equilibrio in meccanica indica lo stato d’immobilità, stato che mal si addice alle società moderne, spinte irresistibilmente nelle vie della civiltà: e perciò riputiamo fallace ed erronea la trita metafora, con la quale tanti pubblicisti hanno cercato di provare l’utilità di una seconda Assemblea.

«Gli ordini politici dello Stato debbono essere stabili in vista di un moto continuo, di un non interrotto svolgimento; ma di un moto, di uno svolgimento ordinati e progressivi; e, quindi, riputiamo indispensabile il dividere il potere legislativo fra due assemblee, nell’una delle quali l’elemento popolare, la forza motrice, predomini; mentre nell’altra l’elemento conservatore, coordinatore, eserciti una larga influenza.

«Respingendo l’idea dell’equilibrio, vogliamo costituire la gran macchina politica in modo che l’impulso acceleratore sia combinato con la forza moderatrice; vogliamo, accanto alla molla che spinge, il pendolo che regola e rende il moto uniforme. Ma, per ciò ottenere, non basta scrivere nello Statuto che vi saranno due Camere: bisogna ancora far sì che quella il cui ufficio si è di temperare l’ardore dell’altra possegga una forza intrinseca tale da opporre efficace resistenza alle passioni violente degl’impeti popolari disordinati, alle fazioni incomposte e sovvertitrici dell’ordine».

Ed ecco il punto sul quale tutti i politici e gli scrittori di una determinata corrente si trovano d’accordo: la necessità di una Camera alta, a carattere conservatore, che sia un muro contro le spinte o le intemperanze di un’Assemblea popolare.

L’onorevole Orlando, che, primo fra tutti, vuole la seconda Camera, ma non è contento del modo con cui s’intende istituirla, perché, alla stregua del Progetto, gli pare che sia un «doppione» della prima e, perciò, manchi della «differenza qualitativa», riconosce che la funzione della seconda Camera sta, principalmente, nell’essere un «freno» «contro la temuta onnipotenza dell’altra».

La realtà politica ha un suo linguaggio, non confondibile.

Nei Paesi, dove il parlamentarismo è nato e si è svolto, sia pure con uno spirito e una attuazione diversi, in Inghilterra e in Francia, la seconda Camera è stata, ormai, decapitata, è stata ridotta concretamente a nulla: è diventata un ricordo storico.

Nel Regno Unito, dopo il Parliament act del 1911, non accade di discutere sulla necessità tecnica della Camera dei Lords, che non ha il potere di «frenare» i bills più importanti, e, sopra tutto, i money bills. La Camera dei Lords, che ha avuta tanta parte nello svolgimento della storia inglese, della grandezza nazionale inglese e nella formazione del regime parlamentare, non è più un corpo politico: è una tradizione.

In Francia, il Senato è una Camera consultiva: esprime dei pareri, e non esercita alcun controllo politico sull’esecutivo.

Nell’U.R.S.S., la seconda Camera, tanto per intenderci, ha una fisonomia e un compito particolari: esprime gl’interessi e i bisogni delle varie Nazioni che compongono la grande Repubblica federale; ha, perciò, una sua ragione di essere.

Ma l’onorevole Orlando, per portare acqua al molino del bicameralismo, che, tra parentesi, non ha nulla da vedere col principio del regime parlamentare, interpreta la storia a suo modo, lasciando intendere che, alla luce dell’esperienza, una Camera sola costituisce, oltre tutto, un pericolo o una minaccia per la democrazia.

Egli dice, in sostanza, che il secondo bonapartismo, che chiama il fascismo francese, nacque anche dal fatto che la Costituzione repubblicana del 1848 non creò una seconda Camera.

Questa non è un’accademia e non può essere consentito di stendersi in divagazioni e polemiche di natura storica, anche se di molto interesse.

Qui ci troviamo in sede politica: abbiamo la responsabilità di porre i fondamenti di una democrazia che vogliamo durevole, siamo chiamati a creare un nuovo Stato; ed è opportuno, e giova, chiarire alcuni concetti, di grande portata, anche dal punto di vista pratico, concreto.

Il bonapartismo ha altre radici, al di fuori dell’esistenza o meno del sistema bicamerale. Il suo principale carattere storico è dato dal potere, appoggiato alle baionette, che, cercando di sembrare indipendente dai partiti, manovra tra due forze sociali ostili, che più o meno si controbilanciano; e profitta della lotta politica, giunta al più alto grado di acutezza, per levarsi ad arbitro del destino del Paese e mettersi, praticamente, al servizio di determinati interessi, che sono quelli del capitale.

E sarebbe un grave errore credere che la democrazia escluda il bonapartismo. È precisamente il contrario. Il bonapartismo nasce proprio nel seno della democrazia; come ha mostrato due volte la storia di Francia, come ha confermato, in diverse condizioni, l’esperienza ultima dell’Europa al tempo del nazi-fascismo, quando certi rapporti si stabiliscono tra le classi sociali e il contrasto politico entra in una certa fase.

Chi va a scuola dai fatti e si nutre delle lezioni della storia, sa che il bonapartismo è una forma di Governo che nasce dallo spirito controrivoluzionario di alcuni gruppi della borghesia, in mezzo a riforme democratiche e alla rivoluzione democratica.

Questo conviene rilevare, oggi, in sede di Assemblea.

La creazione o meno di una seconda Camera non entra in alcun modo nella questione del sorgere e dell’affermarsi del bonapartismo.

Del resto, proprio la Convenzione, tanto temuta e calunniata, dette il primo passo verso il sistema bicamerale, assicurando alle decisioni del legislatore il vaglio successivo di due Camere, sia pure in posizione diversa, cioè con diversa potestà.

Ma i due Consigli legislativi non impedirono il 18 brumaio del generale Bonaparte, che si levò, con la frusta e con i cannoni, sulla separazione e sull’equilibrio dei poteri, posti rigorosamente a base della Costituzione del 5 fruttidoro.

Il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, a proposito della unicameralità o della bicameralità, sembra perseguitato dal fantasma della Convenzione che, pure, compì un’opera grandiosa: proclamò la Repubblica; istituì il suffragio universale; batté, con eserciti improvvisati, l’Europa reazionaria e monarchica, coalizzata contro l’Ottantanove; salvò la Francia e la civiltà borghese dalla corda di Brunswick, che si avvicinava a Parigi con la forca «in fronte alle sue schiere» e minacciava d’impiccare mezzo mondo.

Egli teme sempre che si possa scivolare sul piano inclinato del Governo d’Assemblea.

In realtà, questo Governo non lo vuole né lo propone nessuno: e, tanto meno, lo abbiamo prospettato o sostenuto noi.

Ma non mi sembra che si debba averne tanta paura, come se si trattasse della porta dell’inferno.

Il Governo d’Assemblea non è, nel suo principio, essenzialmente diverso dal Governo parlamentare.

In concreto, sia nel Governo d’Assemblea che nel Governo parlamentare, il Gabinetto, che costituisce il Governo nel senso stretto della parola, ha bisogno, per vivere, della fiducia del Parlamento.

È questo il tratto caratteristico che distingue il Governo parlamentare e il Governo d’Assemblea dal Governo presidenziale e da quello direttoriale, che fanno eleggere il Gabinetto per una durata fissa.

Il Governo d’Assemblea, che rappresenta un tipo particolare del regime parlamentare (alcuni pubblicisti scrivono: una specie di alterazione di detto regime), ha una sua concezione della funzione dell’esecutivo e del legislativo.

Mentre il Governo parlamentare classico, che ha il suo modello nel Gabinetto inglese, richiede un esecutivo forte, armato del diritto di scioglimento delle Camere, che dirige il Parlamento, che ha l’alta mano sul lavoro legislativo ed è, in pratica, il motore dello Stato; il Governo detto «convenzionale», in una posizione subordinata di fronte al l’Assemblea, tende a concentrare nel Parlamento l’iniziativa e la responsabilità, a rendere il controllo parlamentare incessante e rigoroso, in breve, a dare al Parlamento, oltre la supremazia giuridica, la supremazia funzionale.

E non lo dico io. Riassumo, fedelmente, il pensiero di un tecnico di chiara fama: del francese Giraud, che non può essere considerato un giacobino sovvertitore e neanche uno scrittole d’avanguardia.

In linea di principio, non mi pare che una tale concezione significhi dare calci alla democrazia: o abbassarla, degradarla, corromperla.

Da noi, lo stesso onorevole Mortati, che è da ritenersi uno scolastico ortodosso del diritto costituzionale, ammette che il Governo d’Assemblea, se ha un posto a sé e un carattere suo proprio per la fissità di durata, data la mancanza della podestà di scioglimento, rientra nel tipo parlamentare, «per la necessità del costante accordo fra il Parlamento e il Governo e della compenetrazione fra i due poteri».

Il nocciolo del problema, che è il nocciolo della scienza politica, sta qui: nei vitali rapporti fra il Parlamento e il Governo, tra il legislativo e l’esecutivo, che il sistema, nel suo fondamento, tiene separati e distinti, assegnando i due poteri ad organi sovrani di legislazione e di esecuzione, i quali, pure compenetrandosi e controllandosi, possono essere contrastanti.

Tra i due, chi ha la prevalenza?

Questo è il punto.

Abbiamo, dunque, due Camere, con eguale potestà, che si attua e si esaurisce nel momento solenne della formazione della legge.

Sul piano politico, oltre un’azione di critica o un controllo in senso generale, esse, come organi distinti, non possono, in concreto, nulla.

Il voto contrario di una Camera non determina le dimissioni del Ministero, che, alla stregua del progetto, rimane in carica, se vuole, non ostante sia stato posto in minoranza in un ramo del Parlamento; e si presenta all’Assemblea nazionale, cioè alle due Camere riunite, per la fiducia o la sfiducia.

Ed ecco una prima questione da risolvere.

Accettato, in via di massima, il sistema bicamerale, la cui necessità è presentata dalla maggioranza dei teorici del diritto costituzionale come un dogma per il buon funzionamento del regime parlamentare; ammesso che, contrariamente alla tesi di Siéyès, non esiste, sopra ogni argomento, minimo o importante, semplice o complesso, una netta e precisa volontà nazionale che il Parlamento debba tradurre in articoli di legge; che, tra le diverse soluzioni possibili di un problema politico, e, sopra tutto, fra le numerose modalità di una stessa soluzione, non vi è, necessariamente, una scelta sola e mette conto studiare e discutere, prima di decidere, la opinione di una seconda Camera che, per effetto di circostanze diverse e per la competenza specifica dei suoi membri, può avere una reale efficacia.

Accettato e ammesso tutto questo, giova mantenere le due Camere sopra un piede di eguaglianza assoluta, secondo il progetto, con le conseguenze che ne derivano di eventuali dissidi insanabili nel Parlamento, di una probabile anchilosi o impotenza della funzione legislativa, di continui interventi del popolo, nel suo insieme, per una pronunzia diretta sulla materia controversa; o non conviene piuttosto limitare, entro certi limiti, la parità giuridica nei confronti dell’attività legislativa, o anche dell’attività d’indirizzo politico generale, e accogliere il principio della prevalenza di una Camera sull’altra? E, nella specie, della più numerosa su quella più ristretta, in determinati casi, per determinate materie e subordinatamente al verificarsi di determinate circostanze (riesame, cioè rinnovo di deliberazione con maggioranza speciale, decorso di tempo, ecc.), come avviene in quasi tutta l’Europa continentale, dove la seconda Camera è un che di mezzo fra la tradizione e la superstizione, come si praticava, del resto, anche in Italia, vigente lo Statuto albertino, ritenendosi dai nostri parlamentari che il Senato fosse incompetente a qualsiasi iniziativa in materia finanziaria e dovesse, in ultima analisi, passare in secondo piano di fronte alle deliberazioni prese dalla Camera dei Deputati.

Lo stesso onorevole Ruini inclina a desiderare una certa prevalenza dell’una Camera sull’altra, da collocarsi in una giusta inquadratura costituzionale.

Una seconda questione, e di grande importanza, è quella della composizione della Camera dei senatori.

Ed è chiaro che il modo con cui questa Camera sarà formata, eserciterà una notevole influenza sulla soluzione del tema della parità, intiera o limitata, dei due organi legislativi.

L’onorevole Orlando afferma che il problema di maggior rilievo nei riguardi della Camera dei Senatori è d’istituirla «in maniera diversa» da quella dei deputati; che, ove la seconda Camera dovesse essere, nella sua costituzione, un duplicato della prima, «sarebbe inutile farne due»: e aggiunge che, nelle condizioni organizzative fissate dal progetto, egli, bicameralista convinto, è quasi indotto a rinunciare a una seconda Camera che, su per giù, è la stessa dell’altra.

Ma, relativamente ai modi di formazione della seconda Camera, di cui il diritto comparato dà un ampio schema, respinto il criterio di una nomina, anche parziale, da parte del Capo dello Stato o della Camera dei deputati o per cooptazione della stessa Camera dei Senatori; esclusa, nettamente, la possibilità di nomina per ereditarietà, per appartenenza a dati uffici, per il possesso di determinati requisiti, ecc., anche se, nello stabilire le categorie degli eleggibili, non si è peccato di soverchia fedeltà alla democrazia e si è ristretta la sfera dell’elettorato passivo a strati sociali in cui si vede riapparire il sistema del censo; riconosciuto e affermato il principio che la seconda Camera deve rappresentare, come la prima, l’emanazione della sovranità popolare, dev’essere democraticamente espressa dal popolo e non deve tendere a correggere o a spostare, in una qualsiasi maniera, il risultato del suffragio universale; posto tutto ciò, appare evidente la difficoltà, e l’impossibilità, forse, di costituire due Camere che, se non sono fatte proprio con il medesimo stampo, risultino profondamente o radicalmente differenziate.

Al riguardo, quale fu l’orientamento di Cavour? quale posizione egli prese, nella discussione sull’argomento, al tempo della preparazione della Carta albertina? quale direttiva egli diede agli uomini di parte sua, anche se l’eredità da lui lasciata sulla questione non è stata raccolta, e si è via via coperta di muffa?

In primo luogo, egli ammetteva, esplicitamente, che il sistema elettivo, per la formazione della seconda Camera, era «il solo razionale, il solo opportuno», anche nelle condizioni dell’Italia di allora.

E continuava: «Perché due Camere popolari? Perché creare due istituzioni identiche, destinate a concorrere al medesimo scopo? È questo un accrescere le complicazioni del meccanismo costituzionale, senza renderlo più regolare e più perfetto; è un aumentare le difficoltà di governare, senza rendere il potere più solido, le libertà popolari più estese».

Qui, come si vede, Cavour riconosceva che il bicameralismo, contrariamente alle affermazioni di taluni ideologi, i quali lo propugnano per garantire stabilità al Governo, ecc., non rafforza la potenza del legislativo, non snellisce la macchina statale e non ne accresce il rendimento; che un potere concentrato in un solo organo ha, in generale, maggior vigore e che le decisioni sono prese molto più rapidamente e facilmente da una assemblea che da due.

Ma, accennato al solito argomento, cioè, al vantaggio di sottoporre le disposizioni legislative a una duplice discussione in assemblee distinte, a patto che il modo di elezione delle due Camere non sia identico, concludeva: «Noi crediamo facile il costituire una seconda Camera, animata da un istinto conservatore bastevole a porre un argine efficace agli impulsi talvolta eccessivi della Camera dei deputati, senza costituire un corpo elettorale privilegiato: e ciò soltanto con l’imporre ai candidati alcune condizioni di eleggibilità e col variare la composizione dei collegi elettorali e con l’aumentare la durata del mandato dell’eletto».

Ecco l’opinione di Cavour sulla seconda Camera.

Tale opinione, a parte il termine più lungo del mandato, da rigettarsi per varie ragioni: per non appesantire ulteriormente il procedimento legislativo, già lento e farraginoso, e non mettere altri germi di dissidi e di pericoli in un bicameralismo spurio; tale opinione si ritrova, grosso modo, alla base delle decisioni della Commissione.

In buona sostanza, una prima differenza tra le due Camere c’è, per la diversità dell’elettorato e dell’eleggibilità.

Tutti gli elettori, che hanno compiuto i venticinque anni, sono eleggibili a deputati, ma non a senatori.

Inoltre il diritto attivo di voto per la composizione della seconda Camera non può essere esercitato col raggiungimento della maggiore età, ma è limitato agli elettori che hanno superato i venticinque anni.

È sodisfatto, per questa via, il desiderio di coloro che, ritenendo la bicameralità un assioma di diritto pubblico, attribuiscono alla seconda Camera una funzione ritardatrice della procedura legislativa per una più meditata valutazione della convenienza politica delle leggi e per una migliore formulazione tecnica, con una selezione dell’elettorato attivo e passivo: con un maggior senso di responsabilità e di maturità nel corpo elettorale, fornito dall’età, e con la presunzione di una capacità politica, amministrativa e tecnica negli eleggibili, ristretti, secondo il progetto, a talune categorie, che bisognerà rivedere e allargare, allo scopo di consentire agli esponenti delle classi lavoratrici di essere inclusi nelle liste e partecipare alla lotta.

Poi, c’è la rappresentanza regionale: cioè il terzo dei senatori riservato all’elezione dei Consigli per dare alla seconda Camera un’impronta regionale, in rapporto alla nuova struttura introdotta in Italia con la creazione dell’ente Regione.

Per l’onorevole Orlando, questo è molto poco, o non è nulla.

Ma, a voler mantenere in piedi il sistema bicamerale e differenziare in una qualche misura i due organi legislativi, non è possibile fare di più e andare oltre, a meno che, per il modo di formazione della seconda Camera, non si voglia ricorrere a mezzi di scelta non legati all’elezione diretta da parte del corpo elettorale; alla nomina dall’alto, o per coaptazione, o su designazione di collegi speciali, o per l’appartenenza a dati uffici, o per il possesso di date competenze, o per la copertura di certe cariche o per la espressione d’interessi che, si dice, rimarrebbero compressi o confusi con altre forme di rappresentanza, ecc., ipotesi da scartarsi tutte, senz’altro.

Infine, la differenza della seconda Camera dalla prima deve consistere, secondo il criterio dello stesso Cavour, in un diverso modo di reclutamento dei due rami del Parlamento: cioè, in una diversità del sistema elettorale e della composizione dei collegi.

E questo obiettivo potrebbe essere raggiunto, per esempio, con l’adozione del collegio uninominale per la elezione dei senatori.

Per questa via sarebbero forse soddisfatte tutte le aspirazioni: una seconda Camera, come rappresentanza del merito personale, delle qualità, della competenza, della cultura, ecc., anche come valorizzatrice dell’individuo. Ebbene, il collegio uninominale permette al corpo elettorale di fermarsi pure sulla capacità, sulle virtù dell’uomo; vi sarebbe la scelta dell’individuo, con un vaglio democraticamente compiuto. Da un lato, quindi, la differenza qualitativa nella composizione dei membri e, dall’altro, la origine dal suffragio, con un altro sistema di elezione, che avrebbe un gran peso sul piano politico, perché consentirebbe un rinnovamento parziale, nel corso della legislatura, che la proporzionale, per il suo meccanismo, esclude, e darebbe modo di saggiare qua e là la pubblica opinione, di tentarne il polso, di conoscerne gli umori: il che ha un’importanza grandissima in Inghilterra e determina, con gli spostamenti parziali nei collegi, la caduta dei Ministeri, che tuttavia hanno sempre la maggioranza ai Comuni.

Accettazione, dunque, del bicameralismo, non ostante un’opposizione iniziale di principio; ma nessuna concessione ad argomenti artificiali, come quelli di freno, di equilibrio e via di seguito della Camera dei senatori all’opera dell’altra Camera, ed esigenza del rispetto del principio democratico, conseguente, sul terreno parlamentare.

Per la compiutezza dell’esposizione, oltre una critica dettagliata al procedimento per la formazione e l’applicazione delle leggi, pieno d’intoppi, di soste, d’intralci, con proposte e rigetti, con studi di Commissioni e possibilità di dissensi fra le due Camere, con rinvii al popolo e sospensive da parte del popolo, ecc., sarebbe necessario parlare dell’iniziativa legislativa, attribuita, forse, a troppe fonti, come nota l’onorevole Orlando, e dell’istituto del referendum, nuovo nella vita costituzionale italiana, destinato ad aprir la via a una manifestazione diretta della sovranità popolare come base dell’edificio democratico, a dar modo al popolo di funzionare nel sistema quale ultima istanza; ma di cui non è opportuno abusare, perché il referendum, da misura democratica, non rischi di convertirsi in una misura antidemocratica, permettendo anche a una minoranza esigua di adoperare quest’arma o d’inforcare questo cavallo, per attraversare, ritardare o impedire in parte l’attività legislativa, come osservò l’onorevole Togliatti in sede di Commissione.

Ma di tali argomenti si potrà discorrere particolarmente quando si passerà all’approvazione dei singoli articoli, con proposte di emendamenti.

La questione fondamentale, ora, è quella dei rapporti fra Parlamento e Governo.

Il nodo è qui. È qui l’essenza della vita politica del Paese: e alla stregua dell’organizzazione di questi rapporti e del funzionamento dei vari organi, legislativi ed esecutivi, si attua o non si attua la sovranità popolare.

L’onorevole Orlando, dopo aver ricordato, tra le dichiarazioni di principio, di tendenza approvate dalla Commissione, l’ordine del giorno Perassi «per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi, tuttavia, con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo», sostiene che la forma prescelta nello schema in esame, contrapposta, evidentemente, da un lato, alla Repubblica presidenziale e, dall’altro, a quella direttoriale, ha la facciata, l’apparenza del sistema parlamentare, «dove, però, sia rafforzata l’autorità del Governo», ma non ne ha i lineamenti, lo stile, sopra tutto l’essenza, sboccando addirittura in una forma di «totalitarismo di assemblea», che assomma tutti i poteri ed «ha le chiavi della cassaforte».

A conferma della sua tesi, allega la intiera «esautorazione» del Capo dello Stato, l’indebolimento dell’esecutivo, con relativa mancanza di unità di funzione, il prevalere di una Camera unica, che «dispone di tutte le leve».

Le critiche presentate da un maestro come l’onorevole Orlando obbligano a riflettere: ma, dopo un attento esame, esse non persuadono. Anzi, si è indotti a giungere alla medesima conclusione dell’onorevole Orlando – vale a dire che non ci troviamo, forse, sul terreno di un vero sistema parlamentare – per altre vie e per altre ragioni.

In primo luogo, non è giusto affermare che il Capo dello Stato ha, nel Progetto, una parte secondaria, con funzioni tra simboliche e rappresentative; anche se gli è conferita la sola promulgazione delle leggi e non la sanzione: attributo, quest’ultimo, che si è dimostrato una lustra anche nei regimi monarchici e che, in ogni caso, non è necessario ad un Capo dello Stato concepito (ma non troppo!) quale titolare di un potere neutro, moderatore e coordinatore, ossia quale custode della Costituzione, come riconosce lo stesso onorevole Mortati, che pure è un tecnico della materia.

Il Capo dello Stato è investito, secondo il Progetto, di un troppo ampio potere, di cui potrebbe essere tentato di abusare; ha modo di esercitare un’azione politica vastissima ed importante; e se, alle funzioni, non poche e non lievi, che già gli sono attribuite, si aggiungesse la facoltà di sanzionare o di porre veti sospensivi o l’altra di far derivare, essenzialmente, dalla sua autorità il Gabinetto, pur col bisogno, in una tappa successiva, della fiducia del Parlamento, usciremmo dai limiti, generalmente riconosciuti, del sistema parlamentare ed entreremmo nello schema di un regime presso che presidenziale o con lineamenti ed alterazioni presidenziali.

Egli non ha la figura del «fannullone», disegnata dall’onorevole Orlando, ma una posizione quanto mai solida, nella cornice costituzionale.

Rappresenta l’unità nazionale; promulga le leggi ed emana i decreti legislativi e i regolamenti, nomina agli alti gradi i funzionari dello Stato; accredita e riceve i rappresentanti diplomatici; ratifica i trattati internazionali e dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea; concede la grazia e commuta le pene (e, quindi, partecipa al potere legislativo); presiede il Consiglio Superiore della Magistratura; ed ha, inoltre, compiti generali, che non s’inquadrano in una definizione giuridica di poteri; ha funzioni non rigorosamente delineate è, perciò, più vaste, di equilibrio, di influenza, di coordinamento, di persuasione, di arbitrato: missione che già s’incarna così felicemente nelle qualità dell’attuale Capo dello Stato, nell’altezza del suo ingegno, nella virtù della sua esperienza, nel suo senso di serenità, di imparzialità, di responsabilità, nel suo spirito di dedizione intiera agl’interessi superiori della Nazione.

E, di là da questo, che non sa di decorazione soltanto, il Capo dello Stato tiene nelle sue mani un potere immenso, che si esplica in quattro attribuzioni, costituzionalmente determinate e sostanziali, vitali, decisive.

Prima: egli nomina e, quindi, revoca il Primo Ministro e i Ministri. In altri termini, il Gabinetto che, praticamente, dirige, controlla, guida il Parlamento, nasce dalla decisione del Capo dello Stato, in base a una valutazione sua personale della situazione politica generale, a un suo modo d’interpretarla e di trovarvi una soluzione idonea.

Il Gabinetto, che si è formato per volontà del Capo dello Stato, deve presentarsi all’Assemblea per il collaudo, ossia per il voto di fiducia: ma è evidente che, in periodi di crisi, la scelta del Governo da parte dell’organo supremo ha un’influenza grandissima, che non è solo d’indicazione e d’orientamento; ha un peso, che direi schiacciante.

Seconda: in caso di dissenso fra le due Camere per l’approvazione di un disegno di legge, il Presidente della Repubblica ha facoltà d’indire un referendum popolare, di chiamare, cioè, tutto il Paese a dirimere la controversia, con consultazioni generali che possono seguirsi anche a brevi intervalli ed essere il lievito di gravi perturbamenti e scoppi di passioni.

Terza: ha il comando delle forze armate. Oltre che presiedere il Consiglio Supremo di difesa, stringe nel pugno il bastone vero, di spone della forza senza frasi, che, in ultima analisi, decide di tutto e diventa legge, interviene e spazza via ogni altra cosa: abbatte anche questa tribuna, imbavaglia il pensiero e manda, incatenato, il diritto a meditare sulla sua impotenza, nella cella di un carcere.

Lassalle diceva, giustamente, che la Costituzione è, innanzi tutto, il cannone.

Quarta: può sciogliere le Camere. Il potere di scioglimento è considerato, da tutti, il mezzo caratteristico del meccanismo per ristabilire un equilibrio venuto meno, per creare un nuovo rapporto di fiducia che si è rotto fra la maggioranza dell’Assemblea e il Governo, o per accertare la corrispondenza fra gli orientamenti popolari e quelli degli organi rappresentativi, in base al sospetto di mutamenti intervenuti, nello stato della pubblica opinione, durante la legislatura, o per affrontare problemi di considerevole importanza politica, non agitati nel corso della campagna elettorale, ecc.

È l’intervento della volontà personale del Capo dello Stato nel Governo, nel Parlamento, nel Paese: possibile sempre, specie in momenti delicati e complessi e con l’esistenza di forze politiche frazionate.

È l’arma più tremenda che si possa mettere nelle mani del Capo dell’esecutivo, il quale, per giunta, ha, alle sue spalle e ai suoi ordini, le baionette.

Il Progetto attribuisce questo formidabile potere al Presidente della Repubblica, «puramente e semplicemente», come scrive l’onorevole Tosato nella sua relazione, cioè senza limiti, senza subordinarne l’esercizio al consenso di altri organi.

È la via per la trasformazione del regime parlamentare in regime presidenziale, secondo il netto giudizio di un altro relatore, che è l’onorevole Mortati.

La controfirma ministeriale non è un limite né un impedimento.

O il Primo Ministro è d’accordo col Capo dello Stato e concorre alla formazione e alla manifestazione della volontà di lui, per il provvedimento da adottare e per assumerne la responsabilità; e, in questo caso, il Governo ha un’autorità enorme sull’Assemblea e la tiene sotto la sua minaccia, col pretesto che le Camere, a un dato momento, non rappresentano più l’opinione del Paese; o il Primo Ministro non è d’accordo col Capo dello Stato e nell’ipotesi, presso che assurda, di un rifiuto della controfirma, può essere liquidato e mandato a casa, alla stregua del parere di un costituzionalista come l’onorevole Ruini. Tutto dipende dalla personalità del Capo dello Stato e dall’uso che egli intenderà fare delle sue facoltà discrezionali.

Né il Capo dello Stato trova un qualsiasi ostacolo, per l’esercizio del potere di scioglimento, nell’obbligo, strappato a stento in sede di Commissione, delle consultazioni con i Presidenti delle due Camere, perché il giudizio di questi due uomini può avere un qualche rilievo dal punto di vista politico, ma, giuridicamente, costituzionalmente, non è in alcun modo vincolante.

Il Capo dello Stato ascolta, per la forma, e «continua. a mangiare», come il gatto di Krilov, a cui il cuoco, in cucina, faceva prediche di morale e di regole di buon costume.

E Mirabeau aveva un bel gridare che lo scioglimento permette al popolo di dimostrarsi il sovrano di tutti i legislatori.

Il potere di scioglimento non è solo la chiave di volta di un ordinamento democratico, come dice Blum e come ripete, da noi, l’onorevole Ruini: esso è una clava nel pugno dell’esecutivo, che può levarla, sull’Assemblea e sul Paese, su per giù quando vuole, e nel momento ritenuto più opportuno.

Infine, nelle parole dell’onorevole Tosato, ad «evitare che il Capo dello Stato si trovi, rispetto al Parlamento, in una posizione di assoluta dipendenza», a liberarlo da «una situazione d’inferiorità», si è provveduto ad allargare il normale collegio elettorale del Capo dello Stato con l’aggiunta di un certo numero di membri estranei, facendo eleggere il Presidente dall’Assemblea Nazionale, con la partecipazione dei Presidenti e di un componente dei Consigli regionali.

E c’è chi preferisce un altro sistema di elezione, per dare una maggiore autonomia al Capo dello Stato.

Si propone, cioè, di farlo eleggere direttamente dal popolo, per «stabilire un potere più saldo» in mezzo alle fluttuazioni dei partiti, per ricostruire il pilastro caduto della potestà dell’esecutivo monarchico, con un Presidente che, avendo, come suo piedistallo, una sorta di plebiscito popolare, possa più agevolmente mettersi, se non proprio sulle orme di Cesare e di Bonaparte, almeno sopra quelle di Hindenburg.

Il Capo dello Stato non è, dunque, «esautorato».

È vero il contrario. E con le funzioni attribuite dalla Costituzione al Presidente della Repubblica, il figlio spirituale di qualche Boulanger, anche senza i galloni di generale, avrebbe modo di preparare brutti giorni al Paese e gettarlo in pericolose avventure.

E tanto meno è vero che, nel testo proposto, si è abbassato, depresso, mortificato l’esecutivo, come Gabinetto.

La Commissione, nella sua maggioranza, ha creduto di adottare una forma di Governo parlamentare, con dispositivi costituzionali atti a superare la così detta crisi di autorità e ad ovviare agli inconvenienti del parlamentarismo.

Si è cercato, innanzitutto, di assicurare la stabilità e l’unità governativa, di creare un Governo forte e durevole, che non sia una «Commissione parlamentare», un «Comitato dell’Assemblea», e, corretti, con mezzi meccanici, i difetti del sistema relativi alla debolezza dell’esecutivo, si è cercato di evitare gli eccessi del parlamentarismo, nel senso di un’invadenza dei membri delle Camere nella sfera governativa.

Da queste intenzioni e da questa volontà è nata l’Assemblea Nazionale come un coronamento del sistema parlamentare, per compiti ed atti di singolare importanza.

Quest’Assemblea, cioè il Parlamento a Camere riunite, non serve a correggere un bicameralismo bastardo per la trattazione dei problemi fondamentali; ma è chiamata, sostanzialmente, a dare la maggiore stabilità possibile al Governo.

Lo affermano, senza equivoci, il Presidente della Commissione, onorevole Ruini, e il relatore sull’argomento, onorevole Tosato.

L’Assemblea elegge il Presidente della Repubblica, delibera la mobilitazione generale e l’entrata in guerra, l’amnistia e l’indulto, ecc.; ma, in primo luogo, esercita quel controllo politico che è proprio delle Camere rappresentative: conferisce la fiducia al Governo, nominato dal Capo dello Stato, o gliela nega.

Per superare le imboscate parlamentari del vecchio tempo, per eliminare, al possibile, dalla vita politica il corto circuito delle crisi ministeriali a catena, non si ammette che una sola Camera provochi la caduta del Governo; e si stabilisce che la fiducia e la sfiducia siano espresse, con una procedura particolare, dal Parlamento raccolto in Assemblea Nazionale.

Si sarebbe tentati di pensare che la Camera dei senatori sia stata istituita, da un lato, come contrappeso a quella dei deputati, nella funzione legislativa, e dall’altro, per accrescere di trecento membri l’Assemblea che deve decidere dell’indirizzo della politica generale e creare più facilmente una base di solidità e di durata al Gabinetto, con a capo un Primo Ministro, il quale regge veramente il timone e può condurre, come vedremo, la nave dello Stato nei mari o nelle secche che vuole.

Non compromesso, dunque, fra i sostenitori della Camera unica e i sostenitori delle due Camere, con la conclusione che i primi avrebbero messi nel sacco gli altri, sotterrando la bicameralità sotto il coperchio di un’Assemblea convenzionale, totalitaria;

L’Assemblea, come si è visto, serve principalmente a tenere in sella il Governo e a consentirgli di… cavalcare.

L’onorevole Orlando si duole, a ragione, del procedimento singolare, per il quale un Ministero, in minoranza in una delle due Camere, e non ostante i ripetuti voti contrari di essa, non si dimette e continua a governare.

E vede, in questo, un modo di fiaccare le reni al Governo, mentre si tratta di rafforzarlo con espedienti tecnici, di consolidarlo con una formula costituzionale, di là dalla realtà politica.

Qui sorge, in maniera fondata, il dubbio se poniamo mano a costituire un regime parlamentare, o non costruiamo, invece, un edificio di tipo intenzionalmente parlamentare, ma con tali innovazioni nella struttura, da imprimergli un carattere diverso e farne un’altra cosa.

Per motivi opposti, si arriva alla conclusione dell’onorevole Orlando.

Il regime parlamentare dovrebbe, nella sua essenza, annullare la separazione dei poteri, sostituendo ad essa una distinzione di funzioni tra organi diversi, legati da stretti rapporti di connessione e di dipendenza reciproca.

Così afferma l’onorevole Mortati nella sua relazione.

L’onorevole Orlando, a proposito del sistema, e dal punto di vista astratto, parla di un orologio, di cui il Gabinetto rappresenta il bilanciere.

È un vivere insieme, egli dice, del Parlamento e del Governo: cioè, di organi sovrani, ognuno dei quali partecipa all’altro, «in maniera da determinare una collaborazione e da impedire la sopraffazione».

Nel Progetto, si divide manifestamente il potere, che è uno, e dev’essere uno.

Si crea un distacco tra il legislativo e l’esecutivo; si scavano solchi e si levano muri tra l’uno e l’altro, e, senza condizioni di sorta, nel silenzio assoluto della norma costituzionale, sulla possibilità di contrasti, di conflitti tra i vari organi, che adempiono a funzioni diverse, ma appaiono poteri distinti, sta sospesa la mazza dello scioglimento ad libitum, ad arbitrio di Sua Eccellenza, come nelle grida manzoniane.

C’è l’Assemblea Nazionale, il Parlamento nel suo insieme, che si riunisce per deliberazioni solenni e in circostanze eccezionali: principalmente per dare, con il suo voto, il crisma dell’autorità al Governo: ciò che l’onorevole Orlando definisce la «nomina» effettiva.

Assolto tale compito, se non è all’ordine del giorno l’accusa di alto tradimento contro il Capo dello Stato o la mobilitazione o la guerra, l’Assemblea si scioglie, cioè si divide nei due rami originari, che si controbilanciano e sono chiamati a provvedere all’esercizio della funzione legislativa: alleggeriti dal peso di troppe discussioni politiche per non essere distratti dalla loro attività fondamentale.

Così, è spazzato il campo da quelle «bucce di limone», su cui i Governi di una volta cadevano all’improvviso, per gl’intrighi di qualche esperto manovratore; e gli onorevoli Ruini, Mortati, Tosato e altri possono star contenti e dormir sereni.

Allo scopo di rendersi conto, di là dalla lettera del testo, dello spirito con cui si è inteso creare un sistema parlamentare sui generis, non è male risalire alle fonti del dibattito, ai verbali della Commissione.

Non entro in dettagli. Mi restringo all’essenziale.

Secondo una tesi, sostenuta da molti, il Governo, dopo la nomina da parte del Capo dello Stato, si presentava all’Assemblea, per la fiducia: ottenutala, restava in carica per un periodo fisso, almeno due anni: per governare, si diceva.

La proposta, in questi termini, cadde.

Ma, in un certo senso e in una certa misura, si è raggiunto il medesimo obiettivo, per altra via, con accorgimenti tecnici, con inciampi di procedura.

Poiché, per un canone del regime parlamentare, il Gabinetto non può vivere senza il consenso del Parlamento, si è salvata la forma, per decenza.

Il testo dice: «Entro otto giorni dalla sua formazione, il Governo si presenta alla Assemblea Nazionale per chiederne la fiducia».

Ora, il credere possibile una levata di scudi contro il Gabinetto, entro un così breve termine dalla nomina fatta dal Capo dello Stato, mi sembra veramente un’ingenuità.

Il Governo, voluto e designato al Parlamento dal Presidente, afferra le redini e le tiene.

E, per levargliele di mano, se guida male, o troppo a modo suo, ci vuol fatica assai, come diceva il poeta.

La sfiducia, rinnovata, ripetuta, di una Camera, di quella dei deputati, ad esempio, non provoca, necessariamente, la crisi di un Governo che abbia la pelle dura, o non l’abbia fine e delicata come la giovane principessa della novella di Andersen, che sentiva la durezza di un pisello, posto sullo schienale del letto, attraverso montagne di materassi di piume.

Gladstone, ricordato dall’onorevole Orlando, si dimetteva, per veder ridotta, alle elezioni, la sua maggioranza.

Da noi, si può governare contro il popolo con una trentina ed anche con una ventina di voti in più.

A buttar giù il Governo, si richiede un… terremoto parlamentare. Occorre una mozione di sfiducia, motivata, e con una coda lunghissima di firme, con le firme di un terzo dei componenti di una Camera; sì che, alla stregua degli attuali rapporti di forza, in una Camera come questa, oltre il democratico cristiano, nessun altro partito potrebbe, da solo, presentare una mozione di sfiducia.

Poi, occorre che l’Assemblea Nazionale si convochi e si pronunzi.

Ed è probabile che una maggioranza contraria al Governo in una Camera sia annullata da una maggioranza in senso opposto nell’altra.

Ecco il fondamento vero e la reale missione dell’Assemblea.

Altro che accordi di corridoio tra unicameralisti e bicameralisti!

Lo confessano gli onorevoli Ruini, Tosato e altri: il complicato procedimento per l’espressione della fiducia, dopo la costituzione del Gabinetto, o della sfiducia, in sede di appello, tende ad imporre una seria «riflessione» ai rappresentanti del popolo, a richiamarli «al più alto senso di responsabilità», cioè, alla considerazione della realtà, per le conseguenze che possono nascerne.

Esso è un modo, come scrive, con garbo eufemistico, il Presidente della Commissione, di «regolare il pluralismo dei partiti»; e la Assemblea esiste per mettere più facilmente insieme una maggioranza, per impedire che il Governo sia scosso dalle tempeste e rovesciato.

L’istituto dell’Assemblea Nazionale, che non garba all’onorevole Orlando per il timore del totalitarismo, è stato creato, insomma, perché funzioni da parafulmine del Governo o da campo trincerato.

E il Governo è pensato e congegnato come organo che sovrasta: non come sintesi viva della volontà del Parlamento, non come il braccio operoso del Parlamento, non come il pensiero del Parlamento che si traduce in azione.

«Niente Giunta esecutiva dell’Assemblea», esclama, con molta franchezza, l’onorevole Ruini.

Sarebbe una concezione alla Kelsen, che non può dirsi, né dal punto di vista teorico, né da quello politico, un petroliero, e tanto meno un portatore di energie atomiche sovvertitrici.

Di più, il Governo, organizzato non quale strumento di attuazione dell’indirizzo del legislativo, ha, in un angolo, a portata di mano, l’arma dello scioglimento, per consigliare i membri delle Camere a usar prudenza, per ammonire l’Assemblea ad essere… saggia, nel suo stesso interesse.

E l’onorevole Orlando dice che si è diminuito di autorità l’esecutivo, e, in questo modo, si è alterata e contraffatta la fisonomia del sistema parlamentare.

No, questa fisonomia è stata sconciata, perché si è cercato di dare alla sovranità popolare una corona di cartapesta.

Si consideri la composizione del Gabinetto.

Qui si è rotto perfino con le nostre tradizioni parlamentari; con la pratica della democrazia avanti il fascismo.

Il Presidente del Consiglio non è primo tra eguali, primus inter pares, secondo l’antica formula; ma ha una figura e una posizione a sé, di grandissimo rilievo: è il pilota effettivo, il vero comandante della nave dello Stato.

Egli propone i suoi collaboratori al Presidente della Repubblica, che li nomina.

II Gabinetto, pertanto, è un coro docile intorno a lui.

Poi, dirige la politica generale del Governo, e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico e amministrativo di tutti i dicasteri, promuovendo e coordinando l’attività dei Ministri.

È, dunque, il Primo Ministro – e la novità si riscontra pure nella terminologia – che dà la sua impronta all’orientamento dello Stato; ed ha i poteri necessari, di fronte ai Ministri, per assicurare l’unità dell’azione governativa.

Con questa base costituzionale, ognuno immagina fin dove si possa arrivare nella realtà dell’attuazione.

L’onorevole Orlando se ne preoccupa, se ne allarma, anzi, giustamente, anche se, prima, ha denunziato l’abbassamento dell’esecutivo.

Egli ragiona così: il Primo Ministro esercita di fatto i poteri del Capo dello Stato, perché ne risponde; ha ai suoi ordini la polizia; dispone, per il tramite dello Stato Maggiore, dell’esercito; manovra l’Assemblea e ne trasferisce in sé l’autorità: è proprio un dittatore.

È un nuovo, capo a cavallo, con frusta e sproni.

Questa è la verità.

Ma c’è da augurarsi, per il bene del Paese, che non si voglia o non si ardisca giungere a tanto.

Né vale riferirsi alla pratica inglese.

Innanzi tutto, il sistema parlamentare britannico ha, come suo tratto caratteristico, l’armonia fra i due poteri, l’intima unione del legislativo e dell’esecutivo.

In Inghilterra, il Gabinetto, che è l’organo attivo dell’esecutivo, esercita effettivamente il potere e regola tutta l’attività dello Stato; ma esso esprime la volontà della Camera dei Comuni ed è il Comitato della maggioranza parlamentare.

E il successo della Costituzione britannica, nata da una grande calma legislativa, da una elaborazione continua e graduale, da uno sviluppo storico lento e progressivo, che non si riscontra, in analoga misura, in nessun altro ordinamento giuridico, se non nel diritto romano e nel diritto canonico, è dovuto, da un lato, a una situazione obiettiva ed ad un complesso di circostanze (il sistema dei due partiti, il modo di scrutinio, la mentalità britannica come riflesso di condizioni particolari, ecc.) che non esistono e non è probabile si riproducano altrove, e, dall’altro, all’organizzazione e al funzionamento degl’istituti, alla strettissima connessione degli organi sovrani tra loro.

Secondariamente, il Primo Ministro, che, fin dal tempo di Pitt, dirige il Governo, gode di una grande autorità e supera, forse, in potenza lo stesso Presidente americano, non per attributi e facoltà che gli derivano da una norma scritta, da un paragrafo costituzionale, ma per essere egli il leader del partito di maggioranza alla Camera dei Comuni.

L’evoluzione del parlamentarismo inglese può riassumersi in questi termini: il potere passato dal re ai Comuni e, per una gran parte, dai Comuni al Gabinetto e dal Gabinetto al Primo Ministro, che è il Capo effettivo, come dice Graik, per volontà popolare.

Ora, non bisogna illudersi. Non si creano, con formule giuridiche, condizioni obiettive che mancano, che sono di là da venire.

Il prestigio del Presidente del Consiglio, la stabilità ministeriale e l’unità dell’azione governativa sono problemi politici, problemi di maggioranze, dell’esistenza dei grandi partiti organizzati.

Perciò i procedimenti meccanici, adottati dalle Costituzioni europee dopo il 1918 per stabilizzare l’esecutivo, hanno dato mediocrissimi frutti.

Non mi stendo nel formulare conclusioni e proposte precise. Esse si ricavano dalle premesse, dall’esposizione critica sulla struttura del progetto nel suo insieme.

Noi, forse, non siamo ancora saliti ad un così alto grado di sviluppo, da istituire assemblee rappresentative, che parlino e agiscano, che decidano ed attuino le loro deliberazioni: che siano legislative ed esecutive ad un tempo, secondo la concezione democratica più compiuta.

Ma dobbiamo tendere, con tutte le forze, a creare un ordinamento dello Stato, che non ponga barriere alla manifestazione e al trionfo della sovranità popolare, che assicuri la Nazione da sorprese spiacevoli e garantisca l’esercizio dei diritti e il godimento delle libertà riconquistati con tanta lotta, con tanto patimento, davvero con sudore di sangue.

La Costituzione, nata nel presente, dalle condizioni e dall’esigenze del presente, deve vivere nell’oggi, con gli occhi volti al futuro.

Anche senza retorica, si ricorda, di continuo, l’eredità di gloria della nostra scienza giuridica e politica.

Siamo stati il serbatoio spirituale della terra: ma non possiamo vivere di rendita sul passato, né limitarci a custodire, come in un museo, il patrimonio che ci è stato tramandato dai padri.

Quella ricchezza di pensiero e d’istituti dobbiamo saperla accrescere, secondo il monito della parabola evangelica, dove si dice che il Maestro tolse i talenti all’uomo timoroso e torpido che, per conservarli, li sotterrò, invece di farli fruttare.

Le nostre tradizioni c’impongono un determinato metro e l’altezza, come una legge necessaria, allo stesso modo che Odisseo poneva dinanzi ai pretendenti il suo arco smisurato.

Il nostro voto è che l’Assemblea riesca a foggiare un ordinamento dello Stato, adeguato ai tempi nuovi, rispondente ai bisogni che premono, conforme alla situazione storica concreta, un ordinamento profondamente e schiettamente democratico, che consenta, nella libertà, nella giustizia sociale, nel progresso, alla volontà popolare di esprimersi e di concretarsi in atti, un ordinamento, che sia rappresentativo ed espressivo del nostro genio nazionale, della somma di vita vissuta dalla nostra gente, di quelle superiori apparizioni dell’energia spirituale e morale che tante volte illuminarono il cielo tumultuoso della nostra storia. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

Comunicazioni del Governo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi onoro informare l’Assemblea che il Capo provvisorio dello Stato, con decreto in data 9 settembre 1947, ha, su mia proposta, incaricato il Ministro del tesoro. professore Gustavo Del Vecchio di reggere per interim il Ministero del bilancio durante la temporanea assenza dell’onorevole professore Luigi Einaudi.

Con altro decreto in data 12 settembre 1947 il Capo provvisorio dello Stato ha nominato, su mia proposta, di concerto con il Ministro dell’industria e del commercio, l’onorevole avvocato professore Antonio Cavalli, deputato all’Assemblea Costituente, Sottosegretario di Stato per l’industria ed il commercio.

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta. Invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È inscritto a parlare l’onorevole Di Gloria. Ne ha facoltà.

DI GLORIA. È strano ma è vero. L’Assemblea Costituente solo da ieri ha iniziato i suoi lavori squisitamente, essenzialmente, prevalentemente costituzionali giacché, come poco fa ne ha fatto cenno l’onorevole Rubilli, la materia specifica del diritto costituzionale è proprio tutto ciò che riguarda l’ordinamento dello Stato.

Dobbiamo riconoscere intanto che il Titolo I della parte II del Progetto di Costituzione, a parte alcune mende inevitabili, rivela pregi di indubbia modernità sia nello spirito che lo informa che nel suo contenuto. Riaffermata la necessità del sistema bicamerale per evitare risoluzioni affrettate e scarsamente riflettute e per una generica garanzia di equilibrio, esamineremo, sia pure brevemente, giacché questo solo ci interessa, la composizione della seconda Camera, il funzionamento di ambedue le Camere, il potere d’iniziativa legislativa popolare ed il referendum.

I giuristi più aperti alle idee di democrazia hanno sempre cercato di evitare che la seconda Camera diventasse un ostacolo o un sostanziale rinnegamento delle forze rappresentative della Nazione espresse nella e dalla prima Camera. Per questa ragione i sistemi di nomina per diritto ereditario, quelli da parte del potere esecutivo e quello per cooptazione di corpi già esistenti, sono stati giustamente esclusi giacché essi avrebbero posto accanto al primo consesso, espressione di forze reali, un consesso di uomini retrivi o comunque scarsamente rappresentativi.

I sistemi di elezione della seconda Camera, quelli più idonei a favorire la formazione di organi rappresentativi, sono dunque quelli per suffragio popolare o quelli fondati sul criterio di scelta di speciali commissioni la cui composizione ci riporta indirettamente al suffragio popolare.

Per la elezione del Senato il nostro progetto di Costituzione segue tutt’e due i criteri: un terzo del Senato infatti dovrebbe essere eletto dai Consigli regionali e due terzi per suffragio universale. Nel primo caso si ha un suffragio popolare indiretto o mediato; nel secondo caso un suffragio popolare diretto od immediato.

Noi siamo d’avviso che anche la seconda Camera, tutta quanta, debba essere eletta a suffragio universale.

Qualcuno può pensare che in tal modo si darebbe vita ad un doppione, ad un bis in idem della prima Camera; ma tutto ciò non è vero in quanto che le due Camere, se uguali risultassero per il modo della loro elezione, molto diverse risulterebbero nella loro composizione, dati i particolari e speciali requisiti richiesti per diventare deputati o senatori. Non è il sistema di elezione in sé e per sé che dà il tono ad un consesso, quanto la sua intima composizione. È chiaro che se nella prima Camera prevarrà il criterio puramente politico della rappresentanza popolare, nella seconda Camera accanto a tale criterio politico dovrà esserci concomitante o prevalente anche il criterio della competenza.

Senza voler fare del Senato una completa gerontocrazia o una vera accademia di scienziati, di letterati e di giuristi è necessario quindi che in esso, in linea di massima, prevalga il criterio della competenza non disgiunto da quello politico della rappresentanza popolare. Se renderemo elettivo il Senato in base a suffragio universale, costringeremo anche i cittadini competenti nelle varie branche dell’attività tecnica, scientifica ed artistica ad occuparsi di politica e a prendere dimestichezza con la politica stessa. Non avremo cioè degli uomini politici incompetenti, né degli uomini competenti negati alla politica. Non avremo i difetti del corporativismo né saranno offesi i principî della rappresentanza popolare. In tal modo, quindi, rappresentatività e competenza andranno unite per il maggiore decoro e per la vera affermazione della democrazia in Italia.

Se il metodo da seguire per la elezione della seconda Camera dovesse essere, come a nostro avviso sarebbe opportuno, il suffragio popolare diretto, si potrebbe fare una eccezione in base a disposizioni transitorie, solo per quei deputati all’Assemblea Costituente che abbiano l’anzianità di almeno tre legislature. Essi potrebbero far parte de jure del nostro Senato in seguito a nomina ufficiale da parte del Capo dello Stato. Ebbene, noi pensiamo, che certi uomini, qui presenti, rovinati nella loro onesta carriera politica dalla triste e trista parentesi incostituzionale del fascismo, possano vedere riconosciuta la loro fedeltà all’ordine e al progresso costituzionale venendo a far parte di diritto del nostro primo libero Senato elettivo.

D’altra parte questi egregi colleghi, forti della loro esperienza parlamentare, farebbero scuola ai nuovi, a quelli futuri, e renderebbero il consesso senatoriale più autorevole e meglio rispondente ai bisogni della Nazione.

Fino da ora facciamo questa raccomandazione, sicuri che se ne terrà conto anche se essa turba la rigida consequenzialità dei principî giuridici che abbiamo detto di seguire. L’articolo 68 riconosce anche al popolo il potere di iniziativa legislativa.

Non si può essere contrari, in linea di massima, a tale articolo; però conviene sottolineare, sia pure per incidenza, che il potere di iniziativa legislativa popolare può essere un’arma pericolosa, se si tiene conto della scarsa maturità politica del nostro popolo e della scarsissima tradizione costituzionale del medesimo.

Un referendum abrogativo, se si vuole, è più consigliabile del potere di iniziativa legislativa popolare, se è vero, come è vero, che è molto facile individuare gli errori compiuti e distruggere il mal fatto, specialmente quando le conseguenze dell’errore sono cadute sulle nostre spalle, e che è molto difficile sostituire ad essi e ad esso qualcosa di meglio e di bene architettato.

Ma se il referendum abrogativo è comunque preferibile al potere di iniziativa legislativa popolare, noi siamo del parere di non seguire il sistema svizzero in materia di conflitto tra le due Camere ma piuttosto quello francese. Anziché ricorrere al referendum, con tutta la perdita di tempo inevitabile perché necessaria, sul disegno di legge non approvato da una Camera, sarebbe meglio risolvere i conflitti deferendoli all’Assemblea nazionale, ossia al Parlamento che funziona a Camere riunite.

La nuova maggioranza, formata da senatori e deputati, sarebbe decisiva per la formazione o meno della legge, in caso di controversia, ed il popolo non patirebbe nessun affronto ai suoi diritti originari essendo l’Assemblea nazionale rappresentativa di tutto il popolo. Non si avrebbe, seguendo questo sistema, nessuna interruzione nella vita dello Stato e le due Camere eviterebbero in un certo qual modo una loro diminutio capitis o una loro, sia pure relativa, vacatio operis. Un’ultima osservazione sulla seconda Camera.

L’articolo 55 dice che la Camera dei senatori è eletta a base regionale e che ogni Regione avrà il suo numero fisso di senatori. Che la seconda Camera sia composta di rappresentanti di singole Regioni è un bene perché ognuno di essi porterà una visione concreta dei problemi locali pur mantenendo vivi ed operosi i rapporti tra Regione e Stato. I senatori, e qui soccorre il criterio della competenza, dovranno ricondurre nei limiti di una benintesa autonomia la vita delle Regioni, impedendo che esse, attraverso organi meno competenti ed affetti da troppo particolarismo, confondano autonomia con autosufficienza, con grave pericolo per la vita intera della Nazione.

In altre parole, i senatori, questi rappresentanti delle singole Regioni in seno alla seconda Camera, dovranno con la loro azione legislativa provvedere a moderare gli impulsi autarchici di certe Regioni per la salvezza e la tutela degli interessi generali del Paese.

In conclusione, noi affermiamo i seguenti punti: 1°) necessità di ammettere a far parte di diritto del nuovo Senato i deputati all’Assemblea Costituente, che abbiano l’anzianità di almeno tre legislature; 2°) demandare all’Assemblea Nazionale i conflitti delle due Camere su disegni di legge non approvati; 3°) elezioni per suffragio universale diretto di tutto il Senato, eccezion fatta per quei deputati all’Assemblea Costituente che abbiano almeno tre legislature, i quali vi dovrebbero far parte di diritto in base a disposizioni transitorie; 4°) porre maggiori misure limitative al diritto di referendum e di iniziativa legislativa popolare in conformità di quanto abbiamo osservato precedentemente.

Due parole anche sul Capo dello Stato e sul Governo.

Se in fatto di conflitti tra le due Camere il progetto di Costituzione ha seguito il sistema svizzero, in fatto di elezione del Capo dello Stato, in merito alle sue attribuzioni e ai suoi poteri, ha seguito invece il sistema francese con il quale, in definitiva, si è sostituito ad un monarca ereditario un monarca temporaneo ed elettivo, con scarsa influenza nella vita politica del Paese.

Senza desiderare una repubblica di tipo presidenziale per lo strapotere che in essa ha il Presidente – basti pensare alla pericolosa arma del veto sulle leggi del Parlamento – preferiremmo tuttavia che l’elezione del Capo dello Stato avvenisse per suffragio popolare, dal che gliene deriverebbe maggiore autonomia e saldezza di potere. Se il Presidente della Repubblica viene eletto dall’Assemblea Nazionale, esso sarà molto facilmente la diretta emanazione delle forze politiche espresse da essa; se invece fosse eletto dal popolo, il Presidente potrebbe anche essere l’espressione di una minoranza.

Certo, se tutto viene visto secondo la visuale ristretta dell’interesse dei partiti, è più giusto che il Capo dello Stato sia eletto dall’Assemblea Nazionale; ma se si considera che il Capo dello Stato deve essere al di sopra dei partiti per rappresentare tutto il popolo, non vi sarebbe niente di male se ad esercitare tale funzione superiore fosse chiamato anche un uomo di forze politiche minoritarie.

Può darsi anzi che sia più facilmente imparziale un uomo non sostenuto da grandi forze politiche, che non l’uomo spalleggiato da un grande partito del quale non potrebbe non sentire la pressione.

In quanto al Governo, pur essendo contrari all’eccessiva forza di ogni esecutivo, riaffermiamo la necessità della piena efficienza della macchina statale. Se un Governo democratico non sa mettere in atto quanto si stabilisce per il bene del Paese e non sa incutere rispetto ed obbedienza alla volontà della legge, esso si dimostra il migliore alleato della dittatura: i veri nemici della libertà sono sia quelli che la negano per principio, sia quelli che non la sanno difendere, o non se ne vogliono servire per attuare una maggiore giustizia sociale.

Il potere esecutivo, ben precisato nei suoi compiti e nei suoi limiti, deve essere un fattore sussidiario di libertà. Possa il Governo di domani essere il fedele interprete della volontà della Nazione solennemente espressa dalle leggi del Parlamento.

E con questo augurio ho finito le mie osservazioni. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Cevolotto, Nobili Tito Oro, Calosso, Mazzei, Bozzi, Riccio, Terranova, Covelli, Cortese, Bovetti, si intende che abbiano rinunziato a parlare.

Dato il grande numero degli assenti, bisogna concludere che questa è proprio una settimana di faticoso avviamento. E dire che non vi dovrebbe essere altro impegno per noi se non quello di venire all’Assemblea! (Approvazioni).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto sul disegno di legge: Accordi commerciali e di pagamento stipulati in Roma fra l’Italia e la Svezia, il 24 novembre 1945.

Presenti e votanti     290

Maggioranza           146

Voti favorevoli        286

Voti contrari             4

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Ambrosini – Amendola – Angelucci – Arata – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Bacciconi – Baldassari – Balduzzi – Barbareschi – Bardini – Basso – Bei Adele – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belottl – Bencivenga – Bennani – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bettiol – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bocconi – Bonomelli – Bonomi Paolo – Bordon – Bosco Lucarelli – Bosi – Braschi – Brusasca – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caldera – Calosso – Camposarcuno – Candela – Canevari – Caporali – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Capua – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cassiani – Castelli Avolio – Cavallari – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cimenti – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corsanego – Corsi – Cosattini – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

Damiani – D’Aragona – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Vita – Di Fausto – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio.

Fabbri – Fabriani – Faccio – Fantuzzi – Farini Carlo – Fedeli Armarido – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Filippini – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Fuschini.

Gabrieli – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gotelli Angela – Grieco – Grilli – Guariento – Guerrieri Filippo – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Iotti Leonilde.

Jacini –_ Jacometti.

Labriola – Lami Starnuti – Landi – La Pira La Rocca – Leone Giovanni – Lettieri – Lizzadri – Lombardi Riccardo – Lombardi Ivan Matteo – Longhena – Longo – Lozza – Lussu.

Magnani – Magrini – Malagugini – Malvestiti – Mancini – Mannironi – Marazza – Marchesi – Mariani Enrico – Marinaro – Martinelli – Massola – Mastino Gesumino – Mastino-Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Molinelli – Momigliano – Montagnana Mario – Montemartini – Monticelli – Montini. – Morandi – Moro – Mortati – Moscatelli – Murgia – Musolino.

Nasi – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Oro – Numeroso.

Pacciardi – Pallastrelli – Paratore  – Paris – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pella – Pellegrini – Perassi – Perlingieri – Persico – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignatari – Pignedoli – Pistoia – Platone – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quintieri Adolfo.

Raimondi – Reale Vito – Recca – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Russo Perez.

Salerno – Sampietro – Sansone – Santi – Sapienza – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Secchia – Sereni – Simonini – Spallicci – Spataro – Stampacchia – Stella – Sullo Fiorentino.

Targetti – Tega – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tomba – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Treves – Turco.

Uberti.

Valenti – Valiani – Valmarana – Venditti – Vernocchi – Veroni – Vicentini – Vischioni.

Zaccagnini – Zanardi – Zannerini – Zuccarini.

Sono in congedo:

Adonnino.

Badini Confalonieri – Baracco – Bastianetto – Bertola.

Canepa – Caso – Castiglia – Cingolani Guidi Angela – Colonnetti – Cotellessa.

Foa.

Geuna – Giannini.

La Gravinese Nicola – La Malfa.

Macrelli – Morelli Luigi.

Paolucci – Parri – Pera – Perrone Capano.

Quarello.

Restagno.

Segala – Storchi.

Tumminelli.

Zerbi.

Annunzio di trasformazione di una interpellanza in mozione.

PRESIDENTE. Comunico all’Assemblea che, sciogliendo la riserva con cui l’onorevole Togliatti aveva accompagnato l’altro giorno il suo annuncio di trasformare eventualmente la sua interpellanza al Governo sulla politica interna, in mozione, l’onorevole Togliatti ha appunto provveduto a questa trasformazione. Il testo della mozione, che reca oltre quella dell’onorevole Togliatti, le firme degli onorevoli Scoccimarro, Longo, D’Onofrio, Secchia, Novella, Rossi Maria, Laconi, è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente, di fronte alle misure delle autorità di pubblica sicurezza e prefettizie che limitano la libertà di propaganda e agitazione, e le libertà democratiche in generale, nega la sua fiducia al Governo e passa all’ordine del giorno».

La discussione di questa mozione sarà abbinata, avendolo il Governo consentito, con quella dell’onorevole Nenni, sottoscritta anche da altri deputati, già fissata per la seduta pomeridiana di martedì prossimo 23 settembre.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Avverto che domani, sabato, vi sarà seduta alle 10, per il seguito della discussione sulle norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e la revisione annuale delle liste elettorali.

Ho pensato che fosse più opportuno non porre all’ordine del giorno le interrogazioni, perché in tal modo c’è molta probabilità che si possa concludere domani stesso la discussione sopra questo disegno di legge. Avremo così la prossima settimana tutta libera per portare innanzi rapidamente la discussione sul progetto di Costituzione.

Interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. E stata presentata la seguente interpellanza, con richiesta di svolgimento urgente:

«Il sottoscritto chiede d’interpellare il Ministro dei trasporti, per conoscere a quali criteri di amministrazione o politici si è inspirato per disporre:

1°) che il premio cosiddetto di ricostruzione fosse assegnato solo al sette per cento degli agenti e del perché, nella scelta di tale sette per cento, siano stati preferiti quasi tutti i funzionari di categoria A, alla quale categoria appartiene questo Ministro quale capo servizio della trazione, con la conseguente esclusione di quasi tutto il personale esecutivo. E del perché nella scelta dei funzionari premiati vi siano stati molti che erano rimasti fuori servizio per epurazione e che quindi non avevano contribuito in alcun modo alla ricostruzione delle ferrovie;

2°) che venisse assegnata una indennità di carica da un minimo di lire 4000 a un massimo di lire 18.000 solo ai funzionari di gruppo A per modo che si è determinata una forte disparità fra gli stipendi dei gradi alti e dei gradi medi e minimi;

3°) che al grado 6° delle categorie B e C fossero promossi agenti che fino al 25 luglio 1943 erano in servizio permanente di milizia; che nel febbraio 1944 erano stati epurati e che avendo ripreso servizio alla fine dell’anno 1946 si sono visti promossi «per merito» con decorrenza primo gennaio 1946.

«Rileva l’interpellante che tali ingiusti provvedimenti hanno creato un grande fermento fra tutto il personale ferroviario con grave danno dell’Amministrazione e del servizio che deve farsi risalire ad esso Ministro per l’emissione dei provvedimenti suelencati.

«Sansone».

Comunicherò al Ministro dei trasporti questa interpellanza, sollecitando una risposta.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere:

1°) i motivi che hanno determinato lo scioglimento del Consiglio di amministrazione degli Ospedali di Perugia;

2°) le ragioni per le quali il decreto di scioglimento, emesso in data 12 luglio 1947, è stato, dal prefetto di Perugia, comunicato, al Presidente del predetto Consiglio, soltanto un mese dopo la sua emissione, e cioè l’11 di agosto;

3°) se, dalle varie inchieste compiute, sono emersi, a carico degli amministratori, elementi di accusa e di colpa che giustificassero il provvedimento;

4°) se non ritenga necessario ed urgente, nell’interesse della verità, della moralità pubblica e della giustizia, di dare pubblicità ai risultati delle inchieste già da tempo effettuate.

«Vernocchi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere quale conto ha tenuto dei consigli dati da alcuni oratori alla Costituente, in ordine ai pericoli per il carattere nazionale che nascono dall’eccesso dei programmi scolastici in età giovanile, e all’assurdità dell’esame di Stato, in cui il giovane deve esporre un’enciclopedia del sapere umano di fronte ad esaminatori a lui ignoti.

«E in base a quali criteri educativi abbia esautorato gli esaminatori di Stato del liceo di Acireale, inviando illegalmente un ispettore ad annullare certi rigorosi giudizi da loro coscienziosamente dati in applicazione dei regolamenti ministeriali sull’esame di Stato.

«Calosso».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere quando avranno inizio i lavori per la ricostruzione dei ponti sul fiume Tanaro in regione Rocca di Arazzo e Motta di Costigliole d’Asti, essendo dette opere assolutamente necessarie per il transito e il commercio di quelle operose e numerose popolazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro del tesoro, per sapere quali provvedimenti intendano prendere in merito ai problemi assistenziali presentati dall’Unione italiana dei ciechi e in modo speciale in merito alla richiesta di un assegno continuativo, che valga ad assicurare la soddisfazione dei bisogni più urgenti. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Abozzi, Mastino Pietro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non creda opportuno e giusto costituire presso ciascun Tribunale commissioni che determinino l’ammontare dell’equo canone in materia di affitti di fabbricati, analogamente al provvedimento in materia di fondi rustici, di cui al decreto legislativo 1° aprile 1947, n. 277. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Abozzi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga utile e possibile disporre l’istituzione di una manifattura tabacchi a Piacenza.

«In questa città già esiste un grande magazzino per tabacchi grezzi, occupante una area di circa 40.000 metri quadrati con sei capannoni e locali per gli uffici e l’alloggio del dirigente.

«Ben potrebbe, detto magazzino (attualmente adibito esclusivamente alla conservazione e stagionatura dei tabacchi grezzi e la cui area, oltre ad essere suscettibile d’ampliamento, è pure raccordata alla ferrovia dello Stato), esser suscettibile di trasformazione in manifattura vera e propria, tenendosi presente che, ante guerra, esisteva già un impianto per l’estrazione e la lavorazione dei sughi di nicotina: impianto che non sembra si voglia più mettere in efficienza.

«Va ricordato che la campagna piacentina e delle vicine provincie (specie quella dell’Oltre Po pavese) è produttrice di ottima qualità di tabacchi, e che il clima di questa regione è estremamente favorevole per la stagionatura e lavorazione del tabacco.

«Una iniziativa del genere, infine, riuscirebbe quanto mai opportuna per il sollievo della disoccupazione, specie femminile, in una città in cui, per molte e già note ragioni, la disoccupazione costituisce un male grave e allarmante. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’industria e commercio e del lavoro e previdenza sociale, per sapere se non ritengano necessario intervenire, con adeguati provvedimenti, a favore di quella vasta categoria di lavoratori messi a riposo, per limite di età, col sistema della liquidazione in base ai fondi di previdenza istituiti presso le aziende dove avevano prestato la loro opera.

«Il capitale loro corrisposto, e che era formato da trattenute effettuate sugli stipendi di anteguerra, è sfumato quasi subito, ed oggi questi disgraziati sono ridotti all’indigenza più penosa.

«Per un elementare dovere di giustizia e di assistenza sembra più che mai indispensabile porre un qualche rimedio a così dolorosa condizione di lavoratori, alcuni dei quali hanno speso una vita intera per il lavoro e per la società. Una forma d’intervento che non costituirebbe alcun rilevante aggravio per lo Stato, potrebbe consistere nell’istituzione obbligatoria, presso le ditte ed enti interessati, di un fondo di assistenza sul quale dovrebbero essere erogati ai vecchi dipendenti licenziati per limite d’età congrui assegni mensili o annuali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arata».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.25.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul disegno di legge:

Norme per la disciplina dell’elettorato attivo e per la tenuta e revisione annuale delle liste elettorali.