Come nasce la Costituzione

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ANTIMERIDIANA DI SABATO 22 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXXI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 22 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Molinelli                                                                                                         

Martino Gaetano                                                                                           

Presidente                                                                                                        

 

Interrogazioni (Svolgimento):

Sforza, Ministro degli affari esteri                                                                     

Pajetta Giuliano                                                                                             

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Mancini                                                                                                            

Silipo                                                                                                                

Sardiello                                                                                                         

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Presidente                                                                                                        

 

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Lami Starnuti                                                                                                  

Carboni, Relatore                                                                                              

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Castelli Avolio                                                                                              

Mazza                                                                                                               

Caroleo                                                                                                           

Colitto                                                                                                             

Zotta                                                                                                                

Mannironi                                                                                                        

Bubbio                                                                                                              

Dozza                                                                                                               

Cosattini                                                                                                          

 

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Molinelli                                                                                                         

Dugoni                                                                                                              

Monticelli                                                                                                       

 

Interrogazioni e interpellanze (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana precedente.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Molinelli. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Desidero chiarire e completare le informazioni fornite martedì scorso a questa Assemblea dall’onorevole Ministro dell’interno a proposito dei tafferugli accaduti domenica scorsa a Sant’Elpidio a Mare.

Premetto, come deputato della circoscrizione marchigiana e personalmente, il mio più vivo rincrescimento per la parte che in essi è toccata all’onorevole Mastrojanni, e questo rincrescimento è tanto più vivo in quanto, proprio il giorno innanzi, viaggiando con l’onorevole Mastrojanni verso Ancona, egli ebbe ad esprimermi, a proposito della composizione e della funzione del suo partito, idee che io ho creduto e credo di poter interpretare come un suo desiderio di vedere il partito qualunquista uscire dalla sua posizione attuale di calderone del malcontento nazionale.

PRESIDENTE. Bisogna che ella, onorevole Molinelli, si attenga al regolamento e faccia soltanto delle rettifiche, non delle polemiche, o addirittura un discorso politico.

MOLINELLI. Stavo appunto esprimendo l’espressione del mio rincrescimento all’onorevole Mastrojanni e dicevo quali ne erano i motivi principali. Mi pare quindi di essere in argomento.

Comunque mi limiterò a ripetere ancora una volta il mio rincrescimento personale per quello che è accaduto all’onorevole Mastrojanni. Detto questo, però, debbo immediatamente aggiungere che l’espressione usata dal Ministro dell’interno di aggressione nei confronti dell’onorevole Mastrojanni non è esatta. (Interruzione dell’onorevole Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato all’interno).

Il regolamento della Camera dice che è permesso di prendere la parola sul processo verbale per una rettifica ed io sto appunto rettificando. (Interruzioni Commenti).

L’espressione che io intendo rettificare è inserita nel processo verbale. (Interruzioni al centro).

Una voce a sinistra. Lasciate che parli.

PRESIDENTE. Dobbiamo restare, però, nei limiti concessi dal regolamento.

MOLINELLI. Nel resoconto sommario della seduta è stato stampato che si trattava di un’aggressione contro l’onorevole Mastrojanni. Ora, come deputato delle Marche, ho il dovere di difendere la mia regione. Debbo dunque dichiarare che i fatti di Sant’Elpidio a Mare si sono svolti così. Domenica scorsa a Sant’Elpidio a Mare… (Interruzione dell’onorevole Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno) …erano indette due diverse manifestazioni: un convegno di zona dei partigiani, in preparazione del loro congresso regionale, ed un convegno di zona o regionale – non so bene – del partito qualunquista.

Le due manifestazioni si svolsero contemporaneamente senza il minimo incidente: soltanto un’ora e mezzo dopo alcuni partigiani, presentatisi nella trattoria del paese e chiesto da mangiare, si sentirono rispondere dall’oste con la richiesta della tessera annonaria e della carta di identità. È certo un bel saggio di correttezza da parte di un oste chiedere la tessera annonaria, per quanto questo non avvenga in nessuna parte d’Italia, ma chiedere la carta d’identità, questa è una esagerazione.

Tra l’oste ed i partigiani insorse diverbio. Ad un certo punto intervenne in questo diverbio un tal signor Bertolazzi, commensale dell’onorevole Mastrojanni, che i partigiani ben conoscevano, per essere egli stato capitano dei carabinieri repubblichini, in servizio nella zona quale addetto alla 110° legione della cosiddetta guardia repubblichina, epurato, braccio destro del famigerato rastrellatore di patrioti Torregrossa.

È evidente che l’intervento di questi e di altro commensale dell’onorevole Mastrojanni, tale Alberto Sabatini, anch’egli fascista repubblichino, non poteva riuscire gradito ai partigiani.

Insorse diverbio, durante il quale furono scambiati dei pugni ed alcuni, disgraziatamente, colpirono anche il nostro collega.

Devo però aggiungere che nessuno dei presenti conosceva personalmente l’onorevole Mastrojanni.

Questo è il fatto. Tuttavia, perché si sappia in quale ambiente il fatto si è svolto e perché non si creda ad una eccessiva rissosità dei mei corregionali, io potrei all’onorevole Mastrojanni citare uno per uno i nomi di quasi tutti i componenti alla sua riunione.

Tra essi si trovavano, e circolavano per Sant’Elpidio a Mare sotto gli occhi dei partigiani, elementi di questo genere:

Evangelisti, segretario politico del Fascio di Sant’Elpidio a Mare nel periodo repubblichino; ferito a Fermo il 13 giugno 1944 in conflitto coi partigiani; salvato dai tedeschi e rifugiato al Nord.

Stella, addetto all’ufficio politico investigazioni della 110° legione della guardia repubblichina; rastrellatore di partigiani; volontario franchista in Spagna.

Ferretti, repubblichino; rastrellatore di patrioti; aiutante di Evangelisti.

Massoni, di Ascoli, repubblichino, già facente parte del plotone di esecuzione che fucilò a Porta Romana due partigiani.

Tonnarelli, idem.

Bucci, squadrista repubblichino; bastonatore di patrioti.

Vagnoni, idem.

E potrei continuare, perché ho altri nomi; ma li risparmio.

Questo è il fondo, sul quale si basa il partito qualunquista nelle Marche.

Se io volevo prima ricordare le parole dell’onorevole Mastrojanni, era appunto per mettere in evidenza il contrasto tra le sue intenzioni, certo lodevoli, e la realtà pratica del qualunquismo nostrano.

E vede, onorevole Presidente, questo è il fondo, ma non è tutto.

Vorrei che fosse qui l’onorevole Segni per ascoltarmi.

Il resto del partito qualunquista nelle Marche è composto di quegli agrari, i quali hanno intimato in quest’ultimo periodo migliaia di disdette ai contadini.

PRESIDENTE. Non si diffonda!

MOLINELLI. Concludo molto rapidamente, citando come altra fonte della pacificazione, alla quale tendono i qualunquisti delle Marche, il giornale «Il cratere», organo del qualunquismo marchigiano, ove, a proposito della Federterra, e a proposito dell’episodio per cui un’amministrazione democristiana è stata defenestrata per essere sostituita da un sindaco repubblichino (Rumori al centro), tentativo peraltro non riuscito (Commenti), si scriveva nei termini seguenti: «Mentre a Martignano erano stati mobilitati la questura ed i carabinieri di Ascoli, si verificano questi incidenti… che la Federterra teneva il suo congresso per illudere nuovi ingenui… Più fraudolenti di così, si muore».

Ora, la Federterra non è un’insegna luminosa; essa è un’organizzazione di uomini; e degli uomini che si sentono dare dei fraudolenti hanno il diritto di rispondere con qualche ceffone.

PRESIDENTE. Concluda, perché questo è un argomento estraneo al processo verbale.

MOLINELLI. Concludo, citando ancora questo giornale. Una volta ebbi occasione di dire all’onorevole Giannini che egli è un borsaro nero delle parolacce. Giannini non immagina né quanto egli è imitatore, né quanto è imitato.

Ricordo il tempo quando Benito Mussolini scriveva sul Popolo d’Italia «scaracchi grossi due soldi» e credeva di essere originale. Comunque l’onorevole Giannini fa scuola. In polemica con un giornale di Ascoli, democristiano, i qualunquisti scrivono: «Del numero unico speciale dedicato a noi, potremmo al massimo fare quell’uso che si fa della carta inutile, sempre che lo consenta lo spessore del foglio e la specie del gabinetto». Onorevole Presidente…

PRESIDENTE. Lo dica all’Assemblea, non si rivolga a me.

MOLINELLI. Questo dunque è l’ambiente nel quale è successo un tafferuglio domenica. Io non l’ho descritto che in parte. Il fatto è che quell’ambiente locale si collega con l’ambiente nazionale. C’è oggi infatti nel Paese un tentativo in atto…

PRESIDENTE. Concluda.

MOLINELLI. …il tentativo di portare l’epopea partigiana dinanzi al pretore: questo noi non lo permetteremo. (Applausi a sinistra).

Una voce a destra. È uno Stato nello Stato.

MARTINO GAETANO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Prendendo la parola, io desidero solo esprimere, a nome mio e dei miei amici liberali, il vivo rammarico per una frase di quella pur elevata deplorazione dell’onorevole Terracini nella seduta antimeridiana del 18 marzo, frase, che potrebbe sembrare, a chi non fosse sufficientemente informato della grande nobiltà, della grande levatura morale dell’onorevole Terracini, quasi giustificazione degli episodi di violenza che noi abbiamo invece deplorato. La frase si riferiva alla inopportunità della esibizione di certe persone in pubblici comizi o in pubbliche manifestazioni.

Io vorrei che mi fosse consentito, onorevoli colleghi, di rievocare in questa occasione un ricordo personale. Io ascoltai, in quest’aula, da una delle tribune del pubblico, nel novembre del 1920, la nobile, colorita parola di Filippo Turati. Egli parlava sui fatti sanguinosi di Bologna, che avevano commosso l’opinione pubblica di tutto il Paese e parlava non solo al di sopra, ma contro il suo partito, in nome dell’umanità, in difesa della libertà. (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Non interrompano!

MARTINO GAETANO. Gli alti accenti di quel mago della parola, pur nell’atmosfera arroventata dal contrasto delle parti, sapevano toccare l’anima degli uomini, a tal punto che io, non socialista, mi sentii irresistibilmente trascinato all’approvazione e all’applauso. Venni espulso dalla tribuna in omaggio ai regolamenti della Camera. Ma quelle parole, ma quegli accenti non hanno abbandonato mai il mio ricordo; essi sono rimasti scolpiti nell’animo mio.

Questo, onorevoli colleghi, avrei voluto sentire io ora (e sono deluso per non averlo sentito) nelle parole dell’onorevole Molinelli, una nota di alta e sincera… (Interruzioni a sinistra).

MOLINELLI. Se mi fosse stato possibile di parlare…

MARTINO GAETANO …umanità, tale da superare l’interesse della parte, per ispirarsi esclusivamente all’interesse degli uomini.

Io vorrei, onorevoli colleghi, che fosse realtà il sogno di quel nostro scienziato, così ricco di fantasia, che prevedeva non lontano il giorno in cui sarà possibile, per il progresso della scienza e della tecnica, captare e ingrandire le onde eteree, affievolite, sì, ma forse ancora sempre esistenti, promosse nel passato dalla voce degli uomini; quando diventi forse possibile udire ancora una volta financo l’urlo di Achille. Vorrei che realtà divenisse quel sogno, perché in occasione come l’odierna noi potessimo far riecheggiare in quest’aula a nostro ammaestramento, ad ammonimento per il Paese e per i governanti, la commossa, sublime parola di Filippo Turati, di quel grande e vero apostolo (e profeta) di una migliore umanità. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, è mio dovere di rispondere all’onorevole Martino per stabilire con esattezza quanto è avvenuto nella seduta passata e per richiamare alla memoria di tutti i colleghi le parole dette dal nostro amatissimo Presidente, onorevole Terracini, del quale è inutile che io rilevi la serenità assoluta e la nobiltà nel coprire il suo Ufficio di alta responsabilità.

L’onorevole Terracini – io ho qui il resoconto sommario, per caso, perché l’ho richiamato per continuare la discussione sulla legge comunale e provinciale, e leggo queste parole che riassumono con molta fedeltà il suo pensiero – ha detto:

«Se le passioni di parte, pur comprensibili, che eccitano così profondamente ancora in questo tempo il nostro Paese, in conseguenza delle rovine materiali e morali che non solo la guerra, ma la dittatura ha lasciato in tutto il nostro territorio e in mezzo al nostro popolo, riescono a giustificare le violenze di lotte politiche, che tuttavia sono deprecabili, credo che si debba più di ogni altro deplorare il fatto che queste violenze giungano fino al misconoscimento di quella autorità morale che è rappresentata, nell’Italia repubblicana, dall’Assemblea Costituente e si incorpora e riverbera in ciascuno dei suoi componenti».

Con queste parole l’onorevole Terracini deplorò il fatto per il quale l’onorevole nostro collega Mastrojanni ha riportato delle lesioni, le quali sono fortunatamente di poca importanza. Se l’onorevole Terracini aggiunse la deplorazione per il fatto che elementi che furono autori di violenze e di politica reazionaria nel passato regime si fossero mostrati in pubblico, l’onorevole Terracini disse certamente cosa alla quale io per primo mi associo, e sono sicuro che tutta l’Assemblea si associerà. (Applausi).

Credo d’interpretare il pensiero di tutta l’Assemblea nel precisare che nessuna parola pronunciata dall’onorevole Terracini possa essere oggetto del, sia pure larvato, rilievo dell’onorevole Martino. Credo di poter affermare che sarete tutti d’accordo nel deplorare quanto è avvenuto a carico e nei confronti di un rappresentante dell’Assemblea; credo che saremo tutti d’accordo nel considerare chiusa ogni discussione intorno all’episodio doloroso e ad altri incidenti del genere, e nell’invocare da parte di tutti una grande serenità ed il proposito di procedere con altezza d’intenti nei nostri lavori. (Applausi).

Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni. L’onorevole Ministro degli affari esteri è pronto a rispondere alla seguente interrogazione urgente dell’onorevole Pajetta Giuliano, firmata anche dagli onorevoli Bardini, Saccenti, Leone Francesco, Fedeli Armando, Pacciardi, Lussu, Barontini Ilio, Scotti Francesco, Longo, Pellegrini, Noce Teresa, Giua:

 

«Per conoscere se intende intervenire per via diplomatica, analogamente a quanto fece con successo nell’autunno scorso l’onorevole Pietro Nenni, al fine di impedire l’esecuzione dell’ingiusta condanna a morte pronunciata in questi giorni dal Tribunale speciale di Madrid contro i giovani democratici diciottenni Sanchez, Cano, Saz Esteban, Arraz, La Fan, Beringez Arago, Adolfo Gonzales, Guya Arollo, Isabella Gonzales, Yste Garcia, Isabella Torralba».

 

L’onorevole Ministro degli affari esteri ha facoltà di rispondere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Rispondo subito all’interrogazione dell’onorevole Pajetta ed altri. E la mia risposta sarà la sola degna di un libero Governo italiano, di un’Italia tornata, dopo una lunga parentesi innaturale, alle tradizioni di solidarietà internazionale e di rispetto alla vita umana, che è sacra: tradizioni conformi all’indole del nostro popolo.

Mi farò un dovere di compiere immediatamente, stamani stesso, i passi più opportuni presso il Governo spagnolo per indurlo a concedere la grazia ai giovanetti e giovanette che sono stati condannati a morte dal Tribunale speciale di Madrid.

Confido che la preghiera degli interroganti sarà presa in considerazione, come già accadde mesi fa quando in un caso analogo agì il mio predecessore onorevole Nenni.

Ne saremmo lieti come di uno di quei successi che onorano ugualmente chi formula la domanda e chi vi accede non per convenienza internazionale; ma per quella umanità cui non possono essere insensibili tutti i Governi e tutti i partiti. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Pajetta Giuliano ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

PAJETTA GIULIANO. Ringrazio l’onorevole Ministro degli esteri per la sollecitudine con cui egli ha voluto rispondere alla interrogazione con richiesta di urgenza recante le firme, oltre che di coloro che hanno avuto la sorte di conoscere da vicino la tragedia della Spagna, anche di altri illustri amici del popolo spagnolo come Longo, Pacciardi, Lussu.

Purtroppo il nome di Alcalà di Henares, che molti di noi conoscevano anche da lontano, come quello di una culla della cultura, è diventato sinonimo di un orribile carcere e del tribunale speciale. Vorrei insistere, anche a nome dei miei colleghi, nel raccomandare un intervento per salvare questi giovani condannati a morte. Si tratta di un caso particolarmente terribile. Da sette giorni questi giovani e queste ragazze fanno lo sciopero della fame.

Isabella Torralba è diventata pazza sotto la tortura; due fratelli e due sorelle fanno parte di questo gruppo di giovani condannati da giudici che appartengono a quei tribunali speciali franchisti che sono stati installati al potere dalle armi di Mussolini e di Hitler.

È per questo che credo di poter ringraziare l’onorevole Ministro degli esteri per l’impegno preso qui oggi. Ma vorrei ancora insistere nella più fervida raccomandazione. Il conte Sforza ha conosciuto all’estero cosa voleva dire cercare di far qualche cosa per i nostri che erano detenuti nelle galere o deportati al confino e penso che può sentire molto bene questo desiderio, che credo deve essere di tutti gli italiani liberi e democratici, di fare il possibile e l’impossibile per salvare la vita di questi giovani, così come è stato possibile nell’autunno salvare la vita di altri patrioti spagnoli. In tal modo, col nostro esempio e con la nostra solidarietà, potremo incoraggiare la resistenza democratica del popolo spagnolo. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Mancini, al Ministro dell’interno, «sulla situazione alimentare della provincia di Cosenza, che ha determinato gli incidenti di Bonifati e Diamante e potrebbe provocarne altri più gravi».

L’onorevole Sottosegretario di Stato all’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Questa interrogazione è stata passata all’Alto Commissario per l’alimentazione, per competenza, il quale ha risposto che non era ancora in grado di fornire gli elementi del caso.

Prego, quindi, l’onorevole interrogante di voler attendere.

PRESIDENTE. L’onorevole Mancini ha udito? Il Governo la prega di attendere.

MANCINI. Prendo atto della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato, e credo che questa interrogazione non si svolgerà più.

Vorrei però pregare l’Alto Commissario per l’alimentazione di fare a meno di spedire in una provincia, che da quattro giorni è senza pane, dei telegrammi a firma di un tale Pellegrino, il quale annunzia l’arrivo di piroscafi carichi di grano come nella fiaba, mentre il grano non arriva.

Vi è un paese, Diamante, di 4.500 abitanti, la cui popolazione mi ha fatto avere in una lettera un esposto nel quale dichiara che dal 1° settembre 1946 – dico 1946 – non ha avuto alcuna distribuzione di pasta e che da 36 giorni la popolazione è affamata in attesa della misera razione di pane: manca il pane quotidiano e non nel senso metaforico della parola.

Io penso, carissimo compagno ed illustre Sottosegretario all’interno, che la situazione di questa provincia è così grave che potrebbe determinare atti di esplosione abbastanza preoccupanti.

Qui si è parlato di qualche atto di violenza individuale, che è stato stigmatizzato da tutti. Si tratta di tafferugli e incidenti personali. Ma la violenza collettiva, alcune volte, rappresenta una ragione di vita, per cui tutto il Paese, e specialmente il Governo, debbono preoccuparsi. Bisogna prevenire.

Ora, non vorrei mettere, come suol dirsi, olio sul fuoco, né esacerbare le difficoltà dell’ora. Ma esorto il Governo a finirla una buona volta con questa ostinata indifferenza nei riguardi delle regioni meridionali. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Silipo, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, «per sapere quali provvedimenti intendano prendere, onde eliminare la situazione anormale ed insostenibile che si è creata a Crotone, in provincia di Catanzaro, in seguito all’atteggiamento dei grossi agrari del luogo, i quali si rifiutano di fornire alla città prodotti agricoli non contingentati, animali da macello e latticini, sebbene possano farlo a prezzo di esportazione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il prefetto di Catanzaro, all’uopo interpellato, ha riferito dettagliatamente sulla situazione alimentare di Crotone, affermando che essa non differisce sostanzialmente da quella di tutti gli altri centri della provincia, nei cui mercati la rarefazione dei prodotti alimentari non contingentati e particolarmente delle carni bovine e dei latticini è dipesa da cause economiche diverse e principalmente dal cattivo andamento stagionale.

Esistendo, infatti, in provincia allevamenti a pascolo brado, questi risentono di tutte le avversità metereologiche; conseguentemente, i capi bovini si presentano, nei mesi invernali, in uno stato di denutrizione tale che difficilmente, in tale periodo, danno una resa superiore al 42 per cento.

Non è, poi, da escludersi l’incidenza, sul fenomeno della rarefazione della carne, della situazione dei prezzi che, rimasti, in provincia di Catanzaro, bloccati al consumo, non hanno potuto resistere alla concorrenza delle province limitrofe, tanto che ultimamente, dopo che anche l’Ente comunale di consumo di Catanzaro ha dimostrato di non poter vendere a tali prezzi, questi sono stati riveduti consentendo un certo miglioramento nella situazione degli approvvigionamenti.

Né il Prefetto avrebbe potuto aderire alla richiesta, frequentemente rivoltagli, di bloccare il prezzo alla produzione senza contravvenire ad un espresso divieto dell’Alto Commissariato per l’alimentazione, che avrebbe visto diversamente rotto l’equilibrio del mercato nazionale stabilito in seguito alla determinazione di rendere libero il mercato delle carni.

Analoga è la situazione del mercato dei formaggi, per i quali occorre anche tener presente che questi sono, in provincia di Catanzaro, appena all’inizio della produzione e, per quanto in particolare riguarda la questione della ricotta, questa è scomparsa in un primo tempo dal mercato di Crotone a causa del prezzo inadeguato, inferiore a lire 100 il chilogrammo, fissato dal Sindaco.

Il Prefetto, mentre ha dato comunque assicurazione di aver rivolto la sua particolare attenzione alla situazione di Crotone, ha comunicato di aver tenuto, in sede provinciale, frequenti riunioni sulla situazione alimentare, invitando a parteciparvi altresì i rappresentanti di Crotone che non hanno mosso alcun particolare rilievo, ed ha assicurato che, in ogni caso, non avrebbe mancato di adottare opportuni ed adeguati provvedimenti ove dovessero verificarsi situazioni particolari che, all’infuori delle cause economiche di carattere generale, denunziassero l’esistenza di una preordinata ed ingiustificabile resistenza da parte degli agricoltori locali al normale approvvigionamento del mercato di Crotone.

PRESIDENTE. L’onorevole Silipo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SILIPO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario per l’interno delle spiegazioni che ha creduto fornire; in quanto ad essere sodisfatto, dichiaro che non lo sono nella maniera più assoluta e più categorica. La situazione, che si è creata a Crotone, ha un aspetto molto diverso ed è determinata da cause che differiscono molto da quelle citate dall’onorevole Sottosegretario per l’interno o, per meglio dire, dal prefetto di Catanzaro.

Citerò alcuni fatti; ma prima desidero rilevare che bisogna tener presente che Crotone è al centro della produzione agricola della provincia di Catanzaro e che il nome della cittadina, in questa Assemblea, è stato pronunziato due volte: la prima, in seguito ai fatti dolorosi del settembre ultimo scorso, la seconda, oggi.

Vediamo ora se le informazioni fornite al Governo dal prefetto di Catanzaro siano complete. Sta di fatto che gli agrari della zona affermalo pubblicamente – e di ciò è a conoscenza il Commissario di pubblica sicurezza del luogo, il quale, probabilmente, non sarà stato interrogato dal prefetto – che è loro intenzione di affamare la città, sol perché questa si è data un’amministrazione socialcomunista. I fatti confermano questa nostra categorica affermazione.

Si è cercato di andare incontro ai proprietari per sodisfare le esigenze della popolazione senza loro danno economico, anzi sodisfacendo in pieno la loro ingordigia. Tutto è stato vano. Per esempio, si è lasciato libero il prezzo delle ricotte; ma, nonostante questo, vengono mandate a Catanzaro e altrove. Perché, essendone libera la vendita, non devono essere vendute allo stesso prezzo anche a Crotone? Vengono dunque mandate in altri luoghi, senza un giustificabile motivo! Mancano totalmente le carni bovine ed ovine, nonostante che i macellai del luogo si dichiarino disposti a pagarle a prezzo di esportazione, in modo che i proprietari non verrebbero a perdere nulla. Attualmente la popolazione vive di verdura o di prodotti manipolati ed importali dall’Italia centro-settentrionale, prodotti che costano molto e che, di conseguenza, non tutti possono comprare. Le ortaglie vengono dalla provincia di Cosenza, da Corigliano e da Rossano. Che cosa hanno fatto gli agrari per eliminare questo stato di cose? Hanno chiesto una volta l’autorizzazione di aprire uno spaccio per la vendita delle carni fresche – certo per pigliar tempo – e l’hanno ottenuto: hanno macellato quattro bovini soltanto a capodanno, il 1° gennaio 1947, e poi basta! Hanno chiesto ed ottenuto il permesso di aprire uno spaccio per la vendita di leguminose: lo spaccio è rimasto aperto pochi giorni c sono stati venduti solo pochi quintali di favette e ceci non commestibili!

Il Sindaco, preoccupato della situazione, invitò il Prefetto a tenere una riunione in Prefettura, e a questa riunione partecipò il Presidente dell’Associazione degli agricoltori dottore Caputi Antonio. Vi parteciparono anche il Vice-sindaco di Catanzaro e il Direttore della S.E.P.R.A.L. Esaminata la situazione, si convenne che per ogni 100 animali da macello esportati, cinquanta sarebbero stati destinati a Catanzaro e a Crotone e venduti al prezzo di esportazione. Nella riunione il Caputi dichiarò che il numero fissato gli sembrava eccessivo, che però lo accettava, visto che non ne derivava danno ai suoi rappresentati. Quale fu il risultato della riunione avvenuta in febbraio? Quando, pochi giorni dopo, il Presidente dell’Ente comunale di consumo si recò a Crotone per concludere gli acquisti, gli furono offerti 100 agnelli!

La verità, ripeto, è un’altra e sarebbe stato facile stabilirla, se l’onorevole Sottosegretario si fosse domandato se era concepibile o comprensibile che in una città come Crotone dovessero mancare questi generi. La verità è quella che ho detto, ed è stata riconosciuta, ma non mi sorprende che il Prefetto non l’abbia detta. Evidentemente egli ha fatto sapere soltanto quello che gli conveniva che si sapesse.

Onorevole Sottosegretario, tenga presente che a Crotone sono in contrasto due concezioni diverse, due mondi: il passato con le sue sopravvivenze feudali e il presente con la sua sete di una più equa giustizia sociale; non dimentichi che a Crotone, l’unico centro industriale della provincia, che, per buona o cattiva sorte, sorge nel cuore del latifondo e che, perciò, offre alloggio ai grossi agrari e latifondisti, il contrasto fra questi due mondi è più stridente che altrove, e la lotta non è lieve.

PRESIDENTE. La prego di concludere.

SILIPO. Il caso è molto serio.

PRESIDENTE. Anche il regolamento è una cosa seria. Concluda.

SILIPO. Il caso è molto serio per poter essere esaminato in base al tempo concesso dal Regolamento; tuttavia mi avvio rapidamente alla conclusione. La lotta, dicevo, sempre che si è svolta in regime democratico, si è conchiusa con la vittoria degli operai e dei contadini. Difatti prima del fascismo nella città c’era un’amministrazione socialista; alla caduta del fascismo, è stata eletta un’amministrazione social-comunista, dopo la parentesi del fascismo, durante il quale spadroneggiarono agrari ed industriali, dopo che si versò anche del sangue, ed a versarlo fu un operaio: Nicoletti! Oggi, agrari ed industriali, non rassegnati alla sconfitta, si agitano e si dimenano in tutti i sensi: i padroni della terra non rifuggono dalle più volgari speculazioni.

Per essi tutto è buono, se serve a creare ostacoli all’Amministrazione, ad allontanare il popolo ingenuo da essa. Così nel settembre scorso si speculò sul prezzo. Si disse allora che il prezzo non era adeguato e che perciò venivano soppressi i rifornimenti. Oggi, c’è il prezzo libero ed i generi spariscono lo stesso, per cui è evidente che si tratta d’un attacco contro l’Amministrazione comunale; si cerca – ripeto – di staccare la popolazione dalla Amministrazione liberamente eletta, si cerca di produrre una frattura con l’intento, che non sarà naturalmente realizzato, di tornare al potere.

Io ritengo che l’azione del Governo sia quella di prevedere e non soltanto provvedere. Non si dimentichino i fatti del settembre scorso. Anche allora gli agrari promisero e non mantennero, con le conseguenze che ormai tutti sanno, conseguenze che hanno lasciato strascichi, tanto è vero che ancora sono in stato di arresto cinque operai, per cui ho presentato un’interrogazione al Ministro di grazia e giustizia, per sapere i motivi per i quali si mantengono in carcere, mentre altri, pur avendo gli stessi capi d’accusa, sono stati da tempo rimessi in libertà. Il motivo segreto, ma il vero, è da ricercarsi certamente nel fatto che le cinque persone, delle quali parlo, fanno parte della Commissione interna degli stabilimenti industriali della Montecatini e della Pertusola. Concludendo, si vuole ancora provocare disordini, si vuole ancora spingere all’esasperazione chi ha scosso il giogo dello schiavismo agrario ed industriale?

Denunziando all’Assemblea e al Governo la situazione di Crotone, ho fatto il mio dovere e non vorrei che domani dovesse scoppiare qualche grave incidente e venisse ad essere invocata di nuovo l’autorità della legge! Il Governo, attraverso le mie dichiarazioni, è investito della responsabilità di quello che potrebbe accadere a Crotone domani, dove si potrebbero ripetere fatti ancora più incresciosi di quelli già denunziati, nonostante l’ottimismo del prefetto, che è troppo leibniziano! (Applausi a sinistra).

SARDIELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Desidererei conoscere i motivi per i quali, dopo che nella seduta antimeridiana di lunedì 17 l’onorevole Ministro dell’interno aveva accettato una mia interrogazione di urgenza all’Alto Commissariato per l’alimentazione e ai Ministri dell’interno e dei trasporti, relativa ad agitazioni in parecchi paesi della provincia di Reggio Calabria per mancanza di pane, detta interrogazione non è stata iscritta all’ordine del giorno di oggi.

Dal verbale di tale seduta risulta che l’onorevole Scelba, Ministro dell’interno, ha dichiarato che avrebbe risposto nella seduta antimeridiana di sabato.

SCELBA, Ministro dell’interno. Abbiamo passato la interrogazione alla Presidenza del Consiglio, perché non è di competenza del Ministero dell’interno, in quanto l’Alto Commissariato per l’alimentazione dipende dalla Presidenza del Consiglio e spetta a quest’ultima di rispondere; ma suppongo che non sia ancora in possesso di tutti gli elementi, poiché mi consta che sono state chieste informazioni alle autorità locali. Il rinvio dipende da questo motivo.

SARDIÉLLO. Io l’aveva indirizzata appunto al Presidente del Consiglio.

Raccomando che la risposta venga al più presto, perché le agitazioni nella provincia di Reggio Calabria continuano e sono preoccupanti.

PRESIDENTE. Per il rinvio di una precedente interrogazione al Ministro dell’interno ed all’Alto Commissariato per l’alimentazione è stata data la stessa spiegazione, cioè che il Commissariato per l’alimentazione non era pronto a dare le indicazioni che erano state chieste.

MANCINI. Per lo meno che si abbia la risposta lunedì. Il Commissario non manda la risposta perché non manda grano!

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Pajetta Giuliano, Mattei Teresa, Marchesi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i motivi dell’avvenuta sostituzione del Commissario nazionale alla Gioventù Italiana, professore Giorgio Candeloro, con un funzionario della pubblica istruzione, ed in particolare, per sapere se con tale nuova nomina si voglia avviare la ripartizione dei compiti e quindi del patrimonio dell’ex G.I.L., bene comune della gioventù e del popolo italiano, nei termini previsti dal decreto-legge 2 agosto 1943, affidando cioè questi beni ai Ministeri della difesa e della pubblica istruzione, che non possono soddisfare le giuste esigenze delle organizzazioni giovanili e sportive, le quali vedono, in una diretta assegnazione in uso alla gioventù ed allo sport dei beni dell’ex G.I.L., una forma di concreto aiuto dello Stato alla vita ed allo sviluppo dello sport e delle organizzazioni giovanili. Gli interroganti chiedono quindi all’onorevole Presidente del Consiglio se non ritiene necessario di invitare, innanzi tutto, il nuovo Commissario della G.I. a non pregiudicare con alcuna ripartizione la situazione patrimoniale dell’ex G.I.L., e di provvedere immediatamente alla destinazione definitiva del patrimonio e dell’attività dell’ex G.I.L., attraverso l’emanazione di un nuovo decreto-legge, alla elaborazione del quale siano messi in grado di partecipare, oltre ai competenti organi governativi, anche, in veste di tecnici, gli esponenti delle organizzazioni giovanili nazionali democratiche e del C.O.N.I., affinché questo decreto possa nel miglior modo corrispondere alle aspirazioni ed agli interessi della gioventù e dello sport».

Poiché il tempo assegnato alle interrogazioni è trascorso, desidero conoscere dall’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio quando potrà rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo è pronto a rispondere subito.

PRESIDENTE. Resta inteso che lo svolgimento dell’interrogazione avrà luogo nella seduta antimeridiana di martedì prossimo.

Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni.

Abbiamo esaurito l’esame degli articoli 1 e 2 nella seduta precedente.

Passiamo ora all’esame dell’articolo 3 nel testo della Commissione:

«L’articolo 97 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Le deliberazioni dei Consigli comunali e delle Giunte municipali, non soggette a speciale approvazione, divengono esecutive dopo la pubblicazione nell’albo pretorio e l’invio al prefetto, che dovrà essere effettuato entro otto giorni dalla data delle deliberazioni stesse.

«Il prefetto può pronunciarne l’annullamento per motivi di legittimità entro venti giorni dal ricevimento».

Sono stati presentati a questo articolo numerosi emendamenti.

Il primo è il seguente:

Sostituirlo col seguente, sopprimendo anche gli articoli 5, 6, 7, 10 e 14:

«Sugli atti delle provincie o dei comuni sarà esercitato il solo controllo di legittimità; e, per le deliberazioni indicate dalla legge, l’autorità deliberante può essere invitata dagli organi di controllo, con istanza motivata, a riesaminare il merito della deliberazione».

Lami Starnuti, Gullo Rocco, Persico, Rossi Paolo, Di Giovanni, Morini.

L’onorevole Lami Starnuti ha facoltà di svolgerlo.

LAMI STARNUTI. Con l’emendamento io mi ero proposto di sopprimere tutti i controlli di merito che le vecchie leggi comunali e provinciali ed anche il progetto di legge in discussione mantengono sull’attività amministrativa dei comuni.

La Commissione incaricata di riferire sul progetto di legge ha dichiarato che non accetta questi emendamenti perché il progetto di legge, per la sua modesta natura, non consente modificazioni profonde. L’onorevole Ministro degli interni ha dichiarato che l’emendamento lo avrebbe accettato come raccomandazione, in previsione di modifiche più larghe e più complete che egli si propone di presentare all’Assemblea Costituente per la sistemazione giuridica dei comuni e degli enti locali. In queste condizioni io non ho difficoltà a ritirare il mio emendamento.

La questione che io sollevavo è di tale importanza e di tale profondità che non può essere turbata da considerazioni estrinseche alla materia medesima. In sede di discussione del progetto di Costituzione, del resto, noi affronteremo tutta la materia delle autonomie locali e delle libertà da concedere agli enti locali. Mi riservo in quella discussione di mantenere quest’ordine di idee affinché gli enti locali non subiscano più inframmettenze di merito da parte di organi estranei ad essi.

E, giacché ho la parola, se l’onorevole Presidente me lo consente, dirò che, anche gli altri emendamenti da me proposti, (uno che riguarda ancora il controllo di merito sui comuni, un altro che riguarda la disciplina dell’approvazione dei conti consuntivi e un quarto che riguarda la situazione giuridica dei segretari comunali), non avrò difficoltà a suo tempo a ritirarli, prendendo atto delle assicurazioni che l’onorevole Ministro dell’interno ha dato di considerarli come raccomandazioni, di richiamare su di essi l’attenzione del Governo e di presentare tra poco provvedimenti legislativi per la risoluzione dei problemi cui si riferiscono gli emendamenti medesimi. Con la loro presentazione io mi proponevo di richiamare all’attenzione dell’Assemblea Costituente questi problemi e, in particolare modo, oltre la condizione giuridica degli enti locali, il problema dei segretari comunali che non può più oltre essere differito.

Sono moltissime le amministrazioni comunali in contrasto col Ministero dell’interno a proposito del loro segretario generale.

Vi sono dei segretari comunali in Italia che fanno il giro da un comune all’altro, inviati dal Ministero dell’interno presso determinate amministrazioni comunali e respinti sistematicamente dalle amministrazioni le quali rivendicano, a buona ragione, il diritto di scegliere esse il capo del loro personale e dei loro servizi. Bisogna che il Ministero dell’interno si decida a risolvere questo problema, che è fondamentale anche esso per l’autonomia non solo amministrativa, ma, direi, morale e politica dei comuni e delle amministrazioni comunali.

L’onorevole Ministro ha dichiarato all’Assemblea che fra qualche settimana presenterà un disegno di legge sulla condizione giuridica dei segretari comunali. Sarà opportuno che tutta questa discussione la facciamo allora, in quella occasione. Nessuno di noi pensa che i segretarî comunali abbiano nocumento economico e morale dalla riforma; nessuno di noi rifiuterà la sua adesione ad una sistemazione giuridica della carriera dei segretari comunali. Ma resti ben chiaro, almeno per le nostre dichiarazioni e per il nostro atteggiamento, che i segretari comunali dovranno tutti, indipendentemente dalla categoria o dalla classe dei comuni, ritornare alla dipendenza diretta e totale dell’amministrazione comunale, alla quale danno la loro opera e la loro collaborazione. (Applausi).

DOZZA. Chiedo di parlare sull’emendamento Lami Starnuti.

PRESIDENTE. Essendo stato ritirato non posso concederle di parlare su di esso.

Quanto agli altri, ella, se vorrà, avrà occasiono di esprimerò il suo avviso in proposito al momento opportuno.

All’articolo 3 sono stati proposti altri emendamenti. Se ne dia lettura.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

Sostituirlo col seguente:

«Gli articoli 97 e 148 del testo unico e 2 del decreto legislativo luogotenenziale 1° novembre 1944, n. 426, sono abrogati e sostituiti dal seguente articolo:

«Le deliberazioni delle Amministrazioni comunali e provinciali, non soggette a speciali approvazioni, divengono esecutive dopo la pubblicazione nell’albo pretorio. Esse devono essere inviate, entro otto giorni dalla data della deliberazione, al Prefetto che ne accusa ricevuta.

«Il prefetto può pronunciarne l’annullamento per motivi di legittimità, entro venti giorni dal ricevimento».

Mannironi.

Sostituirlo col seguente:

«L’articolo 97 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Le deliberazioni dei Consigli comunali e delle Giunte municipali, non soggette a speciale approvazione, divengono esecutive dopo la pubblicazione per quindici giorni all’albo pretorio e l’invio al prefetto, che dovrà essere effettuato entro otto giorni dalla data delle deliberazioni stesse.

«Nel caso di urgenza, le deliberazioni possono essere dichiarate immediatamente eseguibili col voto espresso di due terzi dei componenti i Consigli o le Giunte.

«Entro dieci giorni dal ricevimento, il prefetto deve pronunciare l’annullamento delle deliberazioni che ritenga illegittime.

«Nel caso di mancato invio delle deliberazioni al prefetto nel termine stabilito nel primo comma del presente articolo, le medesime s’intendono decadute».

Castelli Avolio, Stella, Tambroni, Tozzi Condivi, Cremaschi Carlo, Bubbio, Guerrieri Filippo, Belotti.

Sostituirlo col seguente:

«L’articolo 97 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Le deliberazioni dell’Amministrazione comunale, escluse quelle relative alla mera esecuzione di provvedimenti già adottati e perfezionati, devono essere trasmesse in duplice copia al prefetto.

«Il prefetto munisce di visto di esecutività le deliberazioni, che non siano soggette a speciali approvazioni, sempreché le riconosca regolari.

«In caso contrario può pronunciarne l’annullamento per motivi di legittimità.

«Indipendentemente dal visto di esecutività, le deliberazioni per le quali non sia richiesta speciale approvazione, autorizzazione o parere, diventano esecutive dopo trascorsi venti giorni da quello in cui sono pervenute alla prefettura, senza che questa abbia comunque interloquito.

«È in facoltà del prefetto di richiedere, quando lo ritenga opportuno, la trasmissione anche delle deliberazioni relative alla mera esecuzione di provvedimenti già adottati. In tal caso si applicano a dette deliberazioni le norme, di cui al comma secondo, terzo e quarto del presente articolo.

«Sono immediatamente esecutive le deliberazioni non soggette a speciali approvazioni, quando la maggioranza dei due terzi dei votanti dichiari che vi è evidente pericolo o danno nel ritardarne l’esecuzione.

«La trasmissione, di cui al primo comma del presente articolo, è fatta entro otto giorni dall’adunanza e in nessun caso prima che le deliberazioni siano state affisse all’albo pretorio, in conformità dell’articolo 128 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148».

Zotta.

Sostituire il secondo e terzo comma con i seguenti:

«Le deliberazioni dei Consigli e delle Giunte municipali, dopo la pubblicazione all’albo pretorio, devono essere trasmesse in duplice copia al prefetto, entro otto giorni dalla loro data.

«Il prefetto ne accusa ricevuta nei tre giorni dalla ricezione.

«Le deliberazioni, non soggette a speciale approvazione, divengono esecutive ove il prefetto, nei venti giorni dal ricevimento, non ne pronunci l’annullamento per motivi di legittimità».

Mazza.

Nell’ultimo capoverso sostituire le parole: «Il prefetto può» con le altre: «Spetta al prefetto di».

Caroleo.

Aggiungere alle ultime parole dell’articolo le seguenti: «di cui dà immediato avviso alla Amministrazione comunale».

Colitto.

PRESIDENTE. Io vorrei che l’onorevole Relatore ed il Governo esprimessero il loro parere su questi emendamenti e dichiarassero quali di essi accettino. L’onorevole Carboni, Relatore, ha facoltà di parlare.

CARBONI, Relatore. La Commissione, come dichiarai nella discussione generale, accetta l’emendamento presentato dall’onorevole Castelli Avolio, il quale risolve i dubbi manifestatisi circa l’opportunità della sostituzione della pronunzia di annullamento al visto preventivo di legittimità.

Però, la Commissione propone di modificare l’emendamento Castelli per quel che riguarda la maggioranza richiesta per la dichiarazione d’immediata eseguibilità delle deliberazioni d’urgenza; e, cioè, propone che la maggioranza di due terzi dei componenti i Consigli o le Giunte sia ridotta alla maggioranza assoluta; e quindi che si dica: «con voto espresso della metà più uno dei componenti i Consigli o le Giunte».

La ragione di questa modificazione è che specialmente nei Consigli dei comuni maggiori, nei quali vige il sistema proporzionale, sarebbe assai difficile raggiungere la maggioranza dei due terzi. Con l’accettazione dell’emendamento Castelli si può ritenere assorbito quello dell’onorevole Mazza. Quest’emendamento, se non erro, è ispirato alla stessa finalità che si propone il collega Castelli Avolio.

Viene assorbito anche l’emendamento dell’onorevole Caroleo, che propone la sostituzione dell’espressione «il prefetto può» con la frase «spetta al prefetto», allo scopo di meglio scolpire il concetto dell’obbligatorietà. Questo concetto, infatti, trova espressione anche più recisa nell’emendamento Castelli Avolio, dove si usa il verbo «deve».

L’emendamento dell’onorevole Zotta sovverte il criterio innovatore del disegno di legge, in quanto vorrebbe ricondurci al sistema della legge del 1915, vorrebbe cioè far rivivere il visto preventivo di legittimità. La Commissione quindi non lo accetta.

Quanto, infine, alla proposta dell’onorevole Colitto e di altri colleghi che sia sancito l’obbligo del prefetto di dare avviso del ricevimento delle deliberazioni, la Commissione ritiene che non vi sia bisogno di gravare gli uffici con quest’altra formalità, essendoci sempre modo di provare il ricevimento e la data di esso e non sembrando che su tal punto possano sorgere serie contestazioni, specialmente se le amministrazioni comunali si premuniranno con la spedizione per raccomandata.

In conclusione, la Commissione accetta l’emendamento Castelli Avolio con la modificazione che dicevo e respinge, o ritiene assorbiti, tutti gli altri.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di esprimere l’avviso del Governo in riferimento agli emendamenti presentati.

SCELBA, Ministro dell’interno. Dichiaro di accettare l’emendamento Castelli Avolio. Prego però il presentatore di non insistere sul termine di dieci giorni. È una questione pratica, non sostanziale; ma, se vogliamo che le cose avvengano seriamente, bisogna stabilire venti giorni, come già tutti gli altri emendamenti propongono.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Castelli Avolio di dichiarare se insiste sul termine di dieci giorni.

CASTELLI AVOLIO. Dichiaro di non insistere sul termine di dieci giorni, così come rinuncio anche alla maggioranza dei due terzi, accedendo alla proposta dell’onorevole Relatore di stabilire la maggioranza nella metà più uno.

PRESIDENTE. Invito la Commissione a pronunciarsi sul termine.

CARBONI, Relatore. La Commissione non ha niente da obiettare al riguardo.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Mazza di dichiarare se insiste nel proprio emendamento.

MAZZA. Non insisto, perché lo ritengo assorbito da quello Castelli Avolio.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Caroleo se insiste nel suo.

CAROLEO. Non insisto, perché lo ritengo anch’io assorbito da quello Castelli Avolio.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Colitto se insista nel suo.

COLITTO. Insisto e ne espongo brevemente le ragioni. L’ultimo capoverso dell’articolo 3 del progetto fissa un termine, entro il quale il prefetto ha il potere-dovere di pronunziare l’annullamento delle deliberazioni del Consiglio e della Giunta.

Tale termine è di giorni venti e decorre non dal giorno dell’invio della deliberazione, ma dal giorno del ricevimento da parte della prefettura della deliberazione. Ora a me pare che sia opportuno che la prefettura dia immediato avviso all’amministrazione comunale del ricevimento della deliberazione. Se il termine decorresse dal giorno dell’invio della deliberazione, anch’io penserei che non sarebbe necessario che la prefettura desse notizia all’amministrazione comunale del ricevimento; ma quando il termine di giorni venti – come si legge nel progetto – devesi ritenere decorrente dal giorno del ricevimento, io penso che sia indispensabile che la prefettura dia all’amministrazione notizia del ricevimento. Perché? Ma perché l’amministrazione comunale sappia con precisione quando, non essendosi il prefetto avvalso del potere-dovere di annullare la deliberazione, possa ritenersi la deliberazione diventata esecutiva.

La mia proposta trova il suo fondamento nell’ultimo capoverso dell’articolo 211 della legge comunale e provinciale del 1915: «Il prefetto e il sottoprefetto – disponeva quel capoverso – manda della deliberazione immediata ricevuta all’amministrazione comunale».

Del resto, lo stesso Relatore del progetto ha finito col riconoscere il mio emendamento teoricamente giusto, quando ha detto che non è necessario che si scriva. Mi è sembrato ch’egli volesse dire che s’intende che della ricezione si debba dare avviso. Ma io penso che la chiarezza non è mai eccessiva.

PRESIDENTE. Onorevole Zotta, ella insiste nel suo emendamento?

ZOTTA. Insisto e desidererei chiarirlo.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Il disegno di legge vuole portare due modifiche: una, l’abolizione del controllo generale di merito, e su questa nessuna perplessità; l’altra, la sostituzione di un controllo successivo e repressivo ad un controllo preventivo. E qui l’innovazione non si giustifica, sia perché non si ravvisano quei motivi di urgenza che costituiscono il substrato di questo provvedimento legislativo, sia perché è infondata dal punto di vista tecnico-giuridico.

Non esistono motivi di urgenza per questa ragione: in quanto la circostanza che il controllo prefettizio su di una deliberazione di un ente locale sia espletato dopo, anziché prima che il provvedimento acquisti efficacia esecutiva, non muta affatto il rapporto di dipendenza dell’ente di fronte allo Stato, attenuandolo. Agire legittimamente non significa ledere l’iniziativa o la libertà di alcuno. È un dovere di tutti. Il controllo di legittimità, perciò, non lede i principî di autonomia e di libertà che sono alla base di questo provvedimento. L’innovazione consisterebbe allora in questa mera circostanza accidentale: che l’intervento prefettizio si esplichi in un momento successivo anziché in un momento preventivo, circostanza la quale, non presentando alcun motivo di urgenza ed attenendo esclusivamente ad un profilo tecnico-giuridico, potrà benissimo essere oggetto di studio in sede di revisione organica della materia.

Inoltre, perché mutare il tradizionale controllo preventivo in controllo successivo e repressivo? Non ne vedo la ragione. Vi è, si dice, la grande mole di lavoro dinanzi alla Prefettura. Forse questa mole di lavoro diminuisce se il controllo, invece di essere preventivo, è successivo e repressivo? Indubbiamente no. E allora la medesima circostanza obbiettiva agisce ugualmente in entrambi i casi, rendendo nel primo discutibile l’utilità del controllo preventivo, nel secondo l’utilità del potere di annullamento. La sostituzione di questo a quello, sotto tale profilo, non produce effetto giuridico o politico apprezzabile.

Sorride forse al legislatore l’idea della speditezza? Decorsi venti giorni – forse egli dice – il prefetto abbia o non interloquito, cessa dal potere di annullamento e la deliberazione svolge la sua vita normale, senza indugio od intoppo.

Neanche questo argomento può essere di ausilio; poiché il medesimo sistema semplificativo vige in forma preventiva nell’attuale testo unico, ove si prevede appunto che le deliberazioni diventino esecutive dopo trascorsi venti giorni da quello in cui siano pervenute alla Prefettura senza che questa abbia comunque interloquito.

Qui bisogna trovare le ragioni che giustificano tutto un mutamento amministrativo che risponde alla tradizione amministrativa degli enti locali in Italia. Se poi si carezza l’idea della immediata esecutività della deliberazione, tutto si riduce ad evitare il ritardo di poco più di venti giorni. Ma costituisce questo un vantaggio, quando sulla deliberazione pende la spada di Damocle della possibilità di un annullamento? Non è meglio attendere? Il danno derivabile dall’attesa di venti giorni – ma può seriamente parlarsi di danno? – è sempre più lieve di quello derivabile dal l’annullamento di una deliberazione, cui si sia data esecuzione. Si evita che rapporti giuridici ed economici vengano sconvolti con grave turbamento nella sfera della vita individuale e sociale.

FUSCHINI. Questa questione dell’urgenza è ammessa anche nel suo emendamento.

ZOTTA. Sì, l’esecutività immediata quando c’è l’urgenza, con tutte le responsabilità previste dall’articolo 252. Ma non in via normale. Ed allora, se voi escludete questa esecutorietà immediata, in che cosa consiste la novità? O è controllo preventivo o successivo. Delle due l’una. Noi escludiamo il preventivo ed adottiamo il principio del potere di annullamento, e quindi il controllo repressivo, il quale si esplica quando l’amministrazione ha già spiegato la sua efficacia. Ed allora, se è così, quale motivo sta alla base?

Si è detto anche: l’ente pubblico deve agire come il privato, la cui attività non è imbrigliata continuamente nel suo movimento: il potere statale subentra in forma repressiva, quando vi sia lesione della legge. Io vi dico che anche questo è un argomento errato, perché non regge il paragone: il privato, sì, ha soltanto il dovere di non ledere gli interessi degli altri e può benissimo trascurare gli interessi propri; ma l’ente pubblico ha il dovere di provvedere agli interessi propri e agli interessi altrui; ha il dovere di provvedere agli interessi propri, che sono interessi della collettività locale e della collettività nazionale. Ed ecco perché vi è questo controllo preventivo di legittimità, che sta ad arginarne l’azione, perché questa non solo non leda gli interessi altrui, ma non leda i propri, che coincidono con gli interessi statali.

Ecco la ragione di questa intensità e di questa diversità di controllo.

D’altronde, mi affretto ad aggiungere un altro argomento: quale novità mi portate, quando introducete un controllo di repressione che già esiste nella nostra legislazione? Si dimentica forse l’articolo 6 del testo unico della legge comunale e provinciale? Il potere di annullamento esiste nel nostro ordinamento giuridico e non è limitato neppure dal termine dei 20 giorni.

Poi, non capisco questo emendamento presentato ed accettato, il quale non si sa bene se importi un controllo preventivo o un controllo successivo, perché, se considerate il giuoco di questi termini, voi vedete che una deliberazione, ad esempio, fatta il giorno 1° spiega la sua efficacia il giorno 15. Quando presentate questa stessa deliberazione al prefetto nei termini qui segnati, questa deliberazione potrebbe essere annullata dal prefetto il giorno 9. Sicché fino al 15 questa deliberazione è suscettibile di un controllo di legittimità preventiva; dal 15 – con l’aumento di termine da 10 a 20 giorni – dal 15 al 29 questa deliberazione è suscettibile di un controllo repressivo. Ma anche da questo punto di vista non mi sembra organica questa nuova revisione della materia, e soprattutto insisto – per il profilo che essa ha di carattere tecnico-giuridico – che essa non venga ad esser presa in esame con molta fretta (come forse, purtroppo, si è fatto l’altro giorno quando in sede di votazione si sono approvati due principî completamente contrapposti) e che venga esaminata con molta attenzione.

Ecco la ragione della mia proposta. L’emendamento da me proposto non è che la riproduzione di una norma che già vige: quella che ha abolito il governatorato di Roma e che ha dato agli enti locali la struttura giuridica del 1915.

PRESIDENTE. Onorevole Mannironi, ella insiste nel suo emendamento? Credo che si tratti di una piccola differenza di testo.

MANNIRONI. Il mio emendamento tendeva a semplificare, assorbendo in un unico articolo il contenuto degli articoli 9, 11 e 19; però manteneva nella sua sostanza lo spirito informatore del progetto che dalla stessa Commissione era stato sostenuto.

Ora, di fronte agli altri emendamenti presentati, mi permetto di fare alcune osservazioni.

PRESIDENTE. Tenga presente che alcuni emendamenti sono stati ritirati.

MANNIRONI. Sì, ma a proposito dell’emendamento di cui ha parlato il collega Zotta, desidererei ricalcare la critica che egli ha fatto; e lo farò rapidamente.

Io trovo che la soluzione prospettata dal collega Castelli Avolio e dagli altri colleghi sottoscrittori ha una forma di ibridismo che si presta alla critica fondata che ha fatto il collega Zotta.

In sostanza, qui non si sceglie tra i due logici estremi: non si vuol rendere esecutiva, immediatamente dopo la pubblicazione nell’albo pretorio, la deliberazione, ma si pretende invece che decorrano 15 giorni, quando ancora non è intervenuto il controllo della Prefettura per eventuali modifiche alla deliberazione stessa.

Ora, a me pare che qui noi dovremmo decidere fra due poli opposti: fra il progetto, cioè, presentato dal Governo ed approvato dalla Commissione, che prevede la possibilità della immediata esecutività delle deliberazioni appena pubblicate nell’albo pretorio, oppure dobbiamo aderire alla proposta del collega Zotta che stabilisce il controllo preventivo e quello repressivo.

Mi limito a fare soltanto questi rilievi, dichiarando per altro che non intendo insistere nel mio emendamento, dato che il Governo e la Commissione hanno preferito abbandonare il sistema indicato nel progetto per la esecutività immediata delle deliberazioni.

BUBBIO. Chiedo di parlare contro l’emendamento Colitto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Ritengo che questo emendamento – che in linea teorica potrebbe anche considerarsi giusto – praticamente si risolve in un eccesso di burocrazia che noi tutti dobbiamo avere intenzione di limitare, se non vogliamo obbligare le prefetture a mandare tutti i giorni innumeri lettere ai comuni per dare atto della ricezione delle deliberazioni. Non dobbiamo caricare di spese e di altro lavoro questi uffici che sono già appesantiti dalle mille incombenze cui debbono attendere. D’altro canto, quando in Prefettura arriva una deliberazione, da un comune o dalla provincia, essa viene protocollata ed il protocollo costituisce quindi la prova della data in cui la deliberazione stessa è pervenuta. Gli stessi comuni protocollano a loro volta le deliberazioni che spediscono alla Prefettura. Quindi, il calcolo del tempo che intercorre tra la data di spedizione e quella di ricevimento può esser fatto in qualunque momento da qualunque amministrazione.

D’altra parte, non bisogna dimenticare che già l’articolo 3 stabilisce che le deliberazioni del Consiglio comunale e della Giunta municipale diventano esecutive dopo la pubblicazione; quindi il pericolo di pregiudizio per la mancata possibilità di eseguire una deliberazione non esiste; e non senza notare che la negazione del visto ha sempre il carattere di un evento eccezionale. Per tali ragioni voterò contro l’emendamento Colitto, augurando che il proponente non abbia ad insistere su di esso. (Approvazioni).

CASTELLI AVOLIO. Chiedo di parlare per rispondere alle osservazioni dell’onorevole Zotta.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CASTELLI AVOLIO. A me sembra, onorevoli colleghi, che la Commissione che ha elaborato la materia in merito al controllo di legittimità sulle deliberazioni dei comuni si sia trovata di fronte a due vie: o ritornare al sistema della legge comunale e provinciale del 1915 oppure trovare un altro sistema.

Qual è il sistema della legge del 1915? Lo ha detto apertamente l’onorevole Zotta e cioè: controllo preventivo. Ora, io non ripeterò quanto ho avuto l’onore di esporre all’Assemblea nella seduta di lunedì scorso, e cioè che i Comuni devono godere effettivamente di autonomia ed indipendenza dall’amministrazione centrale e dagli organi locali dell’amministrazione centrale. I comuni non sono dei minorenni che debbono essere sottoposti a controllo preventivo; noi possiamo giustificare il controllo successivo, cioè il controllo di legittimità da parte del prefetto per riscontrare che le deliberazioni dei Consigli comunali e delle Giunte municipali e quelle delle amministrazioni provinciali siano conformi a legge.

Che ci sia un controllo di merito da parte di un organo che fa parte dell’amministrazione locale e sia nel seno di essa, quale la Giunta provinciale amministrativa, sta bene; ma non possiamo ritornare al sistema del comune che è sotto il controllo del prefetto e che per dar corso alle proprie deliberazioni deve ottenere il visto di legittimità.

La disposizione predisposta dalla Commissione ministeriale segna un evidente progresso, un superamento del sistema della legge comunale e provinciale del 1915. Tenuto fermo questo punto, io non ho fatto altro, col mio emendamento, che introdurre un termine di vacatio di 15 giorni per la conoscenza della deliberazione.

Già dissi che occorre questo termine di vacatio perché non si tratta tanto di deliberazioni che riguardino una persona, ma di deliberazioni che riguardano la generalità dei cittadini. Si tratta cioè non di un atto amministrativo speciale, che viene di solito direttamente comunicato agli interessati, ma di un atto amministrativo generale dell’amministrazione comunale. Quindi il termine che ho introdotto nel mio emendamento, termine di 15 giorni dalla pubblicazione all’albo pretorio è un termine già ristretto di fronte a quello di 20 giorni introdotto nella Carta costituzionale quale termine di vacatio per la conoscenza dei provvedimenti legislativi da parte della generalità dei cittadini.

E allora si vede che c’è una profonda differenza tra il sistema proposto dalla Commissione ministeriale e il sistema della legge comunale e provinciale del 1915, perché mentre questo rappresentava un sistema di subordinazione all’autorità prefettizia, il sistema nostro salva il principio dell’autonomia e dell’indipendenza dei comuni e delle amministrazioni provinciali.

PRESIDENTE. Metto in votazione l’emendamento proposto dall’onorevole Castelli Avolio, nel seguente testo modificato dalla Commissione e dal Governo:

Sostituire l’articolo 3 col seguente:

«L’articolo 97 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Le deliberazioni dei Consigli comunali e delle Giunte municipali, non soggette a speciale approvazione, divengono esecutive dopo la pubblicazione per 15 giorni nell’albo pretorio e l’invio al prefetto, che dovrà essere effettuato entro 8 giorni dalla data delle deliberazioni stesse.

«Nel caso di urgenza le deliberazioni possono essere dichiarate immediatamente eseguibili col voto espresso della metà più uno dei componenti i Consigli o le Giunte.

«Entro 20 giorni dal ricevimento, il prefetto deve pronunziare l’annullamento delle deliberazioni che ritenga illegittime.

«Nel caso di mancato invio delle deliberazioni al prefetto nel termine stabilito nel primo comma del presente articolo, le medesime s’intendono decadute».

(È approvato).

Fo osservare agli onorevoli Colitto e Zotta che con questa approvazione i loro emendamenti sono assorbiti.

Passiamo all’esame dell’articolo 4:

«L’articolo 98 del testo unico predetto è abrogato».

Lo metto ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 5:

«L’articolo 99 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Nei comuni aventi popolazione superiore ai 100.000 abitanti sono sottoposte all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa le deliberazioni che riguardano i seguenti oggetti:

1°) bilancio preventivo e storni di fondi da una categoria all’altra del bilancio medesimo;

2°) spese vincolanti il bilancio per oltre cinque anni, salvo il disposto del secondo comma dell’articolo 332;

3°) applicazione dei tributi e regolamenti relativi;

4°) acquisto di azioni industriali;

5°) liti attive e passive e transazioni per un valore eccedente le lire 500.000;

6°) impieghi di denaro che eccedono nell’anno le lire 1.000.000, quando non si volgano alla compra di stabili ed a mutui con ipoteca o a depositi presso gli istituti di credito autorizzati dalla legge od all’acquisto di titoli emessi o garantiti dallo Stato;

7°) alienazioni di immobili, di titoli del debito pubblico, di semplici titoli di credito o di azioni industriali, quando il valore del contratto superi la somma di lire 1.000.000, nonché la costituzione di servitù o di enfiteusi, quando il valore del fondo ecceda la somma anzidetta;

8°) locazioni e conduzioni di immobili oltre i dodici anni o quando l’importo complessivo del contratto superi la somma di lire 500.000;

9°) prestiti di qualsiasi natura;

10°) assunzione diretta dei pubblici servizi;

11°) piani regolatori edilizi, di ampliamento e di ricostruzione;

12°) regolamenti di uso dei beni comunali, di igiene, edilità, polizia locale e quelli concernenti le istituzioni che appartengono al comune;

13°) ordinamento degli uffici e servizi e regolamenti concernenti il trattamento economico e lo stato giuridico del personale».

A questo articolo sono stati presentati i seguenti emendamenti:

Al secondo comma, alle parole: «Nei comuni aventi popolazione superiore ai 100.000 abitanti», sostituire le seguenti: «Nei comuni aventi popolazione superiore ai 500 mila abitanti.

Meda, Fuschini.

Al secondo comma, dopo le parole: Nei comuni aventi popolazione superiore ai 100.000 abitanti, aggiungere: e nei comuni capoluogo di provincia.

Mannironi

Al secondo comma alle parole: Nei comuni aventi popolazione superiore ai 100 mila abitanti, sostituire le seguenti: Nei comuni aventi popolazione superiore ai 500.000 abitanti.

Al n. 5°), alle parole: eccedente le lire 500.000, sostituire le seguenti: eccedenti le lire 1.000.000.

Ai numeri 6°) e 7°), alla cifra: 1.000.000, sostituire la cifra: 2.000.000.

Dozza, Molinelli, Platone, Ravagnan, Ruggeri.

Sostituire il n. 2°) col seguente:

2°) spese vincolanti il bilancio per tempo successivo alla durata normale dell’amministrazione in carica.

Condorelli, Colitto.

Al secondo comma sostituire i numeri 5°),),) e 8°) con i seguenti:

5°) liti attive e passive e transazioni per un valore eccedente le lire 1.000.000;

6°) impieghi di danaro che superano nell’anno le lire 2.000.000, quando non si volgano alla compra di stabili ed a mutui con ipoteca o a depositi presso gli Istituti di credito autorizzati dalla legge od all’acquisto di titoli emessi o garantiti dallo Stato;

7°) alienazioni di immobili, di titoli del debito pubblico, di semplici titoli di credito o di azioni industriali, quando il valore del contratto non superi la somma di lire 2 milioni, nonché la costituzione di servitù o di enfiteusi, quando il valore del fondo ecceda la somma anzidetta;

8°) locazioni e conduzioni di immobili oltre i dodici anni o quando l’importo complessivo del contratto non superi la somma di lire 1.000.000.

Preti, Villani.

 

Sostituire i numeri 5°),),) e 8°) con i seguenti:

«5°) liti attive e passive e transazioni per un valore eccedente le lire 2.500.000;

6°) impieghi di denaro che eccedono nell’anno le lire 5,000,000, quando non si volgano alla compra di stabili ed a mutui con ipoteca o a depositi presso gli istituti di credito autorizzati dalla legge od all’acquisto di titoli emessi o garantiti dallo Stato;

7°) alienazioni di immobili, di titoli del debito pubblico, di semplici titoli di credito o di azioni industriali, quando il valore del contratto superi la somma di lire 5.000,000, nonché la costituzione di servitù o di enfiteusi, quando il valore del fondo ecceda la somma anzidetta;

8°) locazioni e conduzioni di immobili oltre i 12 anni o quando l’importo complessivo del contratto superi la somma di lire 2.500,000».

Meda, Fuschini.

Aggiungere al n. 5°): o di valore indeterminato.

Sopprimere nel n. 8°) la disgiuntiva: o, e mettere al suo posto una virgola.

Aggiungere dopo il n. 13°):

14°) cambiamenti nella classificazione delle strade e progetti per l’apertura e ricostruzione delle medesime.

Colitto.

Aggiungere al n. 10°) le parole: e apertura di farmacie municipali, deliberata in deroga alle disposizioni vigenti circa l’esercizio delle farmacie.

Cosattini, Faccio, De Michelis, Costa, Giacometti, Piemonte, Luisetti, Tonello, Vigna, Giua, Persico, Merighi, Bordon, Targetti, Fioritto, Filippini, Tega, Grazi, Villani, Chiaramello, Pertini, Costantini, Cairo, Fogagnolo, Vischioni, Grazia.

Ripristinare il n. 12°) del testo unico:

12°) cambiamenti nella classificazione delle strade e progetti per l’apertura e ricostruzioni delle medesime.

Condorelli, Colitto.

PRESIDENTE. Invito la Commissione ad esprimere il suo parere in merito a questi emendamenti.

CARBONI, Relatore. A proposito dell’articolo 5 dovrei fare un’osservazione preliminare. Accettando la Commissione l’emendamento Meda-Fuschini (già approvato dall’Assemblea a proposito dell’articolo 1), si presenta la necessità della formulazione di un articolo aggiuntivo. Gli onorevoli Meda e Fuschini hanno proposto: «Al secondo comma, alle parole: nei comuni aventi popolazione superiore ai 100.000 abitanti, sostituire le seguenti: nei comuni aventi popolazione superiore ai 500.000 abitanti». Orbene, se ci si limitasse a deliberare tale sostituzione, l’articolo 5 del progetto governativo, riguardante, com’è formulato, tutti i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, disciplinerebbe solo quelli con più di 500.000 abitanti, e perciò verrebbe a mancare nella legge la previsione dei comuni con popolazione da 100.000 a 500.000 abitanti.

Quindi è necessaria la compilazione di un articolo 4-bis, relativo ai comuni con popolazione superiore ai 500.000 abitanti e nel quale si devono riprodurre i numeri 1° a 4° e 9° a 13° del disegno di legge ed i numeri 5° a 8° dell’altro emendamento Meda-Fuschini relativo ai valori.

Ho quindi così formulato l’articolo:

«Nei comuni aventi popolazione superiore ai 500.000 abitanti sono sottoposte all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa le deliberazioni che riguardano i seguenti oggetti:

1°) bilancio preventivo e storni di fondi da una categoria all’altra del bilancio medesimo;

2°) spese vincolanti il bilancio per oltre cinque anni, salvo il disposto del secondo comma dell’articolo 232;

3°) applicazione dei tributi e regolamenti relativi;

4°) acquisto di azioni industriali;

5°) liti attive e passive e transazioni per un valore eccedente le lire 2.500.000 o di valore indeterminato».

Con quest’ultima espressione «o di valore indeterminato», la Commissione accetta raggiunta proposta dall’onorevole Colitto.

«6°) impieghi di denaro che eccedono nell’anno le lire 5.000.000, quando non si volgano alla compera di stabili od a mutui con ipoteca o a depositi presso gli istituti di credito autorizzati dalla legge o all’acquisto di titoli emessi o garantiti dallo Stato;

7°) alienazione di immobili, di titoli del debito pubblico, di semplici titoli di credito o di azioni industriali, quando il valore del contratto superi la somma di lire 5.000.000, nonché la costituzione di servitù o di enfiteusi, quando il valore del fondo ecceda la somma anzidetta»…

Con un emendamento, presentato questa mattina, relativamente alla costituzione delle servitù, l’onorevole Costa, a proposito dell’articolo 5 e degli altri consimili, propone che si precisi «servitù passive». È questa una proposta che può essere accettata, perché ci dobbiamo preoccupare degli atti che costituiscono alienazione in danno del Comune. Nella formulazione dell’articolo aggiuntivo non ne avevo tenuto conto, perché l’emendamento Costa mi è stato comunicato nel corso di questa seduta.

«8°) locazioni e conduzioni di immobili oltre i dodici anni o quando l’importo complessivo del contratto superi la somma di lire 2.500.000».

Qui c’è un emendamento proposto dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE. C’è anche un emendamento dell’onorevole Mannironi e di altri.

CARBONI, Relatore. Io parlo degli emendamenti che si connettono alla formulazione dell’articolo aggiuntivo.

L’onorevole Colitto propone che non si dica «locazioni e conduzioni di immobili oltre i 12 anni o quando l’importo complessivo, ecc.», bensì «locazioni e conduzioni di immobili oltre i 12 anni, quando l’importo», ecc., cioè richiede il concorso simultaneo delle due condizioni, la durata di oltre 12 anni e l’importo complessivo, e pensa che l’inclusione della disgiuntiva «o» sia dovuta ad un errore materiale. Invece la Commissione ha inteso riferirsi a due ipotesi diverse, o l’una o l’altra, in quanto sia la durata di oltre 12 anni e sia, indipendentemente dalla durata, l’importo complessivo superiore alla somma di 2.500.000 lire, sono ragioni sufficienti per richiedere la necessità dell’approvazione della Giunta provinciale amministrativa.

«9°) prestiti di qualsiasi natura;

10°) assunzione diretta dei pubblici servizi».

A proposito dell’assunzione diretta dei pubblici servizi, viene fatto di discutere dell’emendamento che l’onorevole Cosattini ha presentato insieme agli onorevoli Faccio, De Michelis, Costa, Giacometti, Piemonte, Luisetti, Tonello, Vigna, Giua, Persico, Merighi, Bordon, Targetti, Fioritto, Filippini, Tega, Grazi, Villani, Chiaramello, Pertini, Costantini, Cairo, Fogagnolo, Vischioni, Grazia. L’onorevole Cosattini propone, che si aggiunga: «e apertura di farmacie municipali, deliberata in deroga alle disposizioni vigenti circa l’esercizio delle farmacie». Il concetto cui si è ispirato l’onorevole Cosattini circa l’opportunità che i comuni siano messi in condizione di poter gestire le farmacie municipali troverebbe consenziente la Commissione, qualora potesse essere attuato con la semplice modificazione della legge comunale e provinciale. Senonché, l’apertura e la gestione delle farmacie sono disciplinate da una legge speciale completamente estranea alla legge comunale e provinciale, e nella quale sono fissati principî incompatibili con la proposta Cosattini, che involge un problema di modificazione della legge speciale più che di quella comunale e provinciale. Per attuare il concetto dell’amico Cosattini e degli altri proponenti forse non sarebbe necessario modificare la legge comunale o provinciale, perché, dandosi in essa la facoltà di assumere la gestione dei servizi pubblici, vi si potrebbe ritenere compresa l’apertura di farmacie municipali. Sarebbe invece necessario, secondo il modesto pensiero mio e secondo il pensiero della Commissiono, modificare la legge sulle farmacie; tanto vero che i proponenti hanno avvertito il bisogno di specificare: «in deroga alle disposizioni vigenti circa l’esercizio delle farmacie». Ma non sembra che, in questo momento, senza aver preso conoscenza della legge speciale o senza avere approfondito il problema, si possa introdurre incidentalmente nella legge comunale e provinciale una deroga generica ed amplissima alle disposizioni vigenti circa l’esercizio delle farmacie, deroga della quale non possiamo prevedere la portata e le conseguenze. Nonostante la nobiltà dello scopo che ha mosso l’onorevole Cosattini e i suoi amici, mi pare che sia inopportuno, dal punto di vista giuridico e della tecnica legislativa, deliberare frettolosamente una deroga così ampia, così generica, così imponderata.

Quindi io vorrei proporre all’onorevole Cosattini di trasformare la sua proposta di emendamento in una raccomandazione al Governo, alla quale si assocerebbe in pieno la Commissione, perché si esamini il problema se, modificando la legge sulle farmacie, non sia il caso di consentire ai comuni l’apertura di farmacie municipali.

Riprendendo la lettura dell’articolo, interrotta con questa digressione sulle farmacie, dirò ch’esso prosegue in questi termini:

«11°) piani regolatori edilizi, di ampliamento e di ricostruzione;

12°) regolamenti di uso dei beni comunali, d’igiene, edilità, polizia locale e quelli concernenti le istituzioni che appartengono al comune;

13°) ordinamento degli uffici e servizi e regolamenti concernenti il trattamento economico e lo stato giuridico del personale».

Questa è la formulazione dell’articolo, conforme a quella degli articoli relativi alle altre categorie di comuni, dai quali diversifica soltanto per i valori.

Forse l’avere intercalato alla lettura dell’articolo le considerazioni sui vari emendamenti proposti ha reso meno chiara la percezione di esso, ma è servito ad alleggerire la discussione in modo che non avrò bisogno di ritornare su quegli emendamenti dei quali ho trattato.

PRESIDENTE. Vorrei domandare all’onorevole Relatore se ha tenuto presenti tutti gli altri emendamenti che sono stati proposti all’articolo 5, perché questo testo che ora ha presentato alla Presidenza potrebbe essere completato e integrato con gli altri emendamenti.

CARBONI, Relatore. Il testo da me presentato è completo e tiene conto di tutti gli emendamenti che potevano avervi riferimento. Gli emendamenti Dozza e Preti-Villani non hanno relazione con l’oggetto dell’articolo aggiuntivo perché si riferiscono ai comuni con popolazione tra i 100.000 e i 500.000 abitanti.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Dozza se insiste sul suo emendamento.

DOZZA. Aderisco all’emendamento Meda-Fuschini.

CARBONI, Relatore. L’emendamento Dozza ha, come dicevo, oggetto diverso da quello Meda-Fuschini da me inserito nell’articolo 4-bis, e mi riservo di parlarne a proposito dell’articolo 5 che dovrà riferirsi ai comuni con popolazione tra 100.000 e 500.000 abitanti.

PRESIDENTE. Onorevole Carboni, la prego di voler dire il parere della Commissione in merito.

CARBONI, Relatore. Onorevole Presidente, se lei me lo consente, io preferirei parlarne quando discuteremo dell’articolo 5, e vorrei raccomandare che in questo momento, per semplicità di discussione, si ponga in votazione l’articolo 4-bis, che si riferisce alle città con popolazione superiore ai 500.000 abitanti, le quali nella previsione del progetto di legge governativo non formano una categoria a parte, come si propone invece nell’emendamento Meda-Fuschini, che la Commissione ha accettato con i coordinamenti di cui ho parlato.

PRESIDENTE. Dovrei ora porre ai voti l’articolo 4-bis.

COSATTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. Osservo che, votandosi l’articolo 4-bis, si pregiudica la discussione dell’emendamento da me proposto.

Bisognerebbe chiarire che si fa riserva per l’emendamento da me proposto.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Mi pare che, approvandosi l’articolo 4-bis così come è stato formulato, si venga implicitamente a respingere la proposta da noi fatta a proposito dell’articolo 5.

PRESIDENTE. Si potrebbe rinviare la votazione dell’articolo 4-bis alla prossima seduta, per armonizzarla con tutte le altre proposte.

CARBONI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARBONI, Relatore. Mi pare che la questione sollevata dall’onorevole Cosattini sia preliminare alla votazione dell’articolo 4-bis, in quanto l’onorevole Cosattini propone che sia emendato il numero 10 con l’aggiunta relativa all’apertura delle farmacie municipali. Io ho fatto le mie dichiarazioni a nome della Commissione; penso perciò che si potrebbe procedere alla votazione, tanto più che la questione, si ripresenterà immediatamente a proposito dell’articolo 5. Qualora ciò non sia possibile, sarebbe opportuno rinviare il seguito della discussione.

PRESIDENTE. Data l’ora, propongo il rinvio della discussione alla prossima seduta. Nel frattempo i presentatori di emendamenti potranno concordare con il Presidente della Commissione l’ordine della discussione.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate alcune interrogazioni, con richiesta d’urgenza.

La prima è dell’onorevole Perrone Capano:

«Al Ministro dell’interno sull’incidente verificatosi ieri in danno dell’onorevole Benedettini, terzo entro brevissimo tempo di una serie analoga di episodi, la quale rivela da parte di taluni ambienti politici una sistematica e preordinata intolleranza dell’altrui libertà di opinione e di riunione e un diffuso spirito di violenza, assolutamente incompatibili con un regime democratico; e per conoscere sia i motivi per i quali la forza pubblica si è trovata sul posto soltanto dopo che l’incidente si era già svolto, sia i criteri in base ai quali il Governo intende porre fine ad un simile increscioso stato di cose».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Questa interrogazione pone una questione di carattere generale alla quale è già stato risposto tre giorni fa. Mi riprometto, comunque, di rispondere sul particolare incidente occorso all’onorevole Benedettini nella prossima seduta antimeridiana.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti altre interrogazioni con richiesta di urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda adottare contro le persone che devastarono la sede della sezione del Partito nazionale monarchico di Agrigento usando violenza sui soci presenti; come intenda provvedere in avvenire onde evitare il ripetersi di simili episodi delittuosi e provocatori, che causano viva agitazione nelle popolazioni e che potrebbero degenerare inevitabilmente in giustificate ritorsioni».

«Covelli».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati disposti in relazione ai gravi incidenti verificatisi nel comune di Serradifalco in provincia di Caltanissetta, dove un comizio qualunquista che si svolgeva nella massima tranquillità è stato proditoriamente e violentemente interrotto da elementi facinorosi individuabili, mentre i dirigenti del qualunquismo locale sono stati minacciati di morte nel caso continuino la loro propaganda.

«La forza pubblica locale è del tutto impotente a garantire l’esercizio della libertà.

«Rodinò Mario, Colitto, Rognoni, Mazza».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per conoscere se non credano che sia più opportuno e umano provvedere allo stato di bisogno delle popolazioni e al mantenimento dell’ordine pubblico con assegnazioni di lavori o stanziamento di soccorsi a tempo debito, anziché con il fuoco degli agenti di pubblica sicurezza. A Taranto il 18 corrente sono avvenuti sanguinosi incidenti; altri potrebbero intervenire se non si provvede; né il deprecare le intemperanze di una massa esasperata dall’estremo bisogno riscatterebbe la colpa di chi non ha saputo prevedere.

«Jacometti, Musotto».

«Ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio, per conoscere le ragioni del ritardo della pubblicazione del decreto che stabiliva l’assunzione obbligatoria di una determinata percentuale di invalidi e mutilati del lavoro da parte di ditte, enti, ecc., così come viene fatto per i mutilati e gli invalidi di guerra e se non ritenga di provvedere d’urgenza ad evitare ulteriori sofferenze a quei lavoratori che, dopo aver contribuito alla creazione della ricchezza nazionale, si vedono preclusa la via a dare ancora il loro contributo di capacità lavorativa alla rinascita del Paese.

«Bibolotti».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo potrà rispondere a queste interrogazioni mercoledì venturo.

PRESIDENTE. È stata inoltre presentata con richiesta di urgenza la seguente interpellanza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni per le quali, contrariamente ad ogni norma giuridica e con grave danno di un notevole numero di lavoratori, sia stato inopinatamente ritirato il permesso di pubblicazione del quotidiano fiorentino La Nazione italiana, permesso già accordato da mesi e recentemente confermato, senza che risultino intervenuti fatti nuovi atti a giustificare un così grave provvedimento, palesemente lesivo delle libertà fondamentali del cittadino.

«Codignola, Rossi Giuseppe, Maltagliati, Di Gloria, Amadei, Bruni Gerardo, Cianca, Cevolotto, Natoli, Mattei Teresa».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Questa interpellanza potrà essere svolta in una prossima seduta, che dovrebbe essere dedicata completamente alle interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta di urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i provvedimenti che intende prendere per assicurare il maggior incremento possibile alla attività dell’ente U.N.R.R.A.-C.A.S.A.S., in vista della imminente ripresa stagionale dei lavori edilizi.

Sembrerebbe che, nell’emanare le sollecitate provvidenze, si debbano tener nella dovuta considerazione gli elementi seguenti:

  1. a) i ragguardevoli risultati ottenuti dal C.A.S.A.S. in un solo semestre di attività, costituenti una prova indiscutibile dell’alto grado di efficienza tecnica ed organizzativa raggiunta dal citato ente;
  2. b) gli accordi intervenuti tra il Ministero dei lavori pubblici ed il C.A.S.A.S., che riguardano ormai l’insieme del nostro problema della ricostruzione;
  3. c) i grandiosi piani di lavori e di attività, minutamente predisposti, che la organizzazione del C.A.S.A.S. può attuare nei prossimi due anni, per lenire il problema dell’abitazione nelle zone più sinistrate del nostro Paese;
  4. d) le assegnazioni, non più procrastinabili, del fondo lire N.R.R.A.;
  5. e) la opportunità di concedere la massima autonomia possibile al C.A.S.A.S., e ciò anche nei confronti della Delegazione italiana presso l’U.N.R.R.A., la cui struttura e le cui finalità non appaiono atte a secondare il compito strettamente tecnico del C.A.S.A.S.

«Dugoni, Camangi, La Malfa, Fusco, Veroni, Cairo, Treves, Firrao, Marinaro, Jacometti, Castelli, Mastino Pietro, Pieri, Valmarana, Di Fausto, Fioritto, Persico, Pertini, Nasi, Carboni, Facchinetti».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Lo svolgimento di questa interrogazione potrà aver luogo al suo turno.

PRESIDENTE. L’onorevole Perrone Capano ha presentato la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non creda opportuno che, prima di disporre nuovamente il regime dell’ammasso totale dei prodotti cerealicoli per l’annata agraria in corso, tutta la politica alimentare del Governo sia sottoposta a discussione e ad esame da parte dell’Assemblea Costituente sicché, in materia così grave, che forma ormai oggetto di una copiosa, molteplice e dura esperienza, le indicazioni e le determinazioni relative partano dall’Assemblea stessa, che riflette tutte le correnti politiche del Paese».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo potrà rispondere in una seduta della settimana ventura.

PRESIDENTE. L’onorevole Martino Gaetano ha presentato la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Ai Ministri dell’interno e delle finanze e tesoro, per conoscere se sono state adottate misure in favore del comune di Castiglione di Sicilia danneggiato dalla recente eruzione dell’Etna. Il Comune suddetto ha perduto buona parte dei suoi boschi sui quali esso contava per sanare, in parte, il deficit del proprio bilancio: è pertanto indispensabile ed urgente assegnare provvisoriamente al comune di Castiglione una somma, in attesa dell’accertamento dei danni subìti».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo potrà rispondere in una delle prossime sedute antimeridiane.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Molinelli. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Vorrei sollecitare una risposta del Governo ad una interrogazione da me presentata da lungo tempo al Ministro dell’agricoltura e foreste in tema di disdette agrarie.

SCELBA, Ministro dell’interno. Assicuro che interesserò il Ministro competente.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Dugoni. Ne ha facoltà.

DUGONI. Vorrei sollecitare la discussione di una interpellanza al Ministro dell’interno relativa al prefetto di Massa.

SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò nella seduta che sarà prossimamente riservata allo svolgimento delle interpellanze.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Monticelli. Ne ha facoltà.

MONTICELLI. Il 14 marzo presentai una interrogazione a proposito delle perquisizioni domiciliari fatte dagli agenti della tributaria negli studi degli avvocati e procuratori per l’accertamento dell’imposta sull’entrata. L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro disse che il giorno dopo avrebbe precisato la data della discussione di tale interrogazione.

PRESIDENTE. Lei potrebbe pregare personalmente l’onorevole Sottosegretario di dare una risposta.

Mi permettano i colleghi di osservare che non viene messa in pratica una norma utilissima: la richiesta di risposta scritta alle interrogazioni.

Una voce. Le risposte non arrivano.

PRESIDENTE. Su ciò si potrebbe richiamare l’attenzione del Governo, dato che il termine per la risposta è di 6 giorni.

Ad ogni modo chiedo al Governo quando intende rispondere all’interrogazione dell’onorevole Monticelli.

SCELBA, Ministro dell’interno. Interesserò il Ministro competente.

Interrogazioni e interpellanze.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e delle interpellanze pervenute alla Presidenza.

DE VITA, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere i motivi per cui uno dei maggiori responsabili della sottrazione di 12 milioni di lire ai danni del Consorzio agrario di Bari sia stato messo in libertà e per sapere inoltre quali provvedimenti intenda prendere a carico del magistrato responsabile di tale liberazione.

«Pastore Raffaele».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e dei trasporti, per sapere se non ritengano indispensabile – anche a tutela della memoria di funzionari dello Stato caduti nell’adempimento del loro dovere – di riesaminare il parere del Ministero della guerra, secondo il quale ai ferrovieri Borgogni Egidio, Carozzi Nello, Fecchi Nello, Bastianelli Angelo, Belli Bruno, caduti il 2 dicembre 1943 durante una incursione aerea sulla stazione di Arezzo, mentre prestavano servizio su un treno della ferrovia Appennino Centrale, dovrebbe essere negato il riconoscimento della «Indennità presenza alle Bandiere», stabilita dal Regio decreto-legge 15 marzo 1943, n. 123, a favore del personale militarizzato deceduto in seguito a fatti bellici, motivando il diniego col fatto che l’evento bellico che determinò la morte si verificò durante il periodo dell’occupazione, dimenticando così che gli stessi ferrovieri furono militarizzati a norma dell’articolo 2 del Regio decreto-legge 30 marzo 1943 e che anche nel periodo dell’occupazione essi continuarono a prestare servizio alle popolazioni della zona a prezzo della loro vita.

«Santi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quando avrà luogo la istituzione in Campobasso della Sezione autonoma dell’ufficio tecnico erariale, che il Ministro dichiarava parecchi mesi or sono, con la sua risposta a una precedente interpellanza dell’interrogante, di aver deciso di istituire.

«Colitto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’interno, dell’agricoltura e foreste e dei lavori pubblici, per conoscere se non reputino opportuno promuovere un provvedimento legislativo che, abrogando il regio decreto il marzo 1923, n. 691 (in Gazzetta Ufficiale n. 85 dell’11 aprile 1923) richiami in vigore l’ultimo comma dell’articolo 60 (dal predetto decreto abrogato) della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità.

«Il comma dell’articolo 60 – di cui si chiede il ripristino – stabiliva che, in caso di retrocessione per l’ipotesi che il fondo «non ricevette in tutto o in parte la preveduta destinazione», il prezzo da pagare da parte del proprietario espropriato non poteva eccedere «l’ammontare dell’indennità ricevuta dal proprietario per l’espropriazione del suo fondo»; e rispondeva ad un indiscutibile criterio di giustizia diretto a ripristinare, senza danno, il proprietario nel suo diritto quando fosse cessato il motivo superiore dell’utilità pubblica, che legittimava l’espropriazione, e ad impedire, in conseguenza, l’ingiustificato arricchimento da parte dell’ente espropriante per l’eventuale aumentato valore del fondo.

«L’abrogazione di quel comma fu ispirata dal criterio statolatrico della legislazione fascista, forse non scevro di sotterranei riflessi particolari; e non è compatibile con il rinnovato spirito di difesa dei diritti dell’individuo.

«Il ripristino dell’ultimo comma dell’articolo 60, oltre che al segnalato motivo di guarentigia del diritto del cittadino, risponde ad una più rispettabile ed urgente esigenza: quella di consentire, mediante il facilitato diritto di retrocessione, il ritorno di molti fondi ai proprietari, che in regime di coltivazione diretta o di affitto riconquisterebbero alla coltivazione ed alla produzione appezzamenti, talora vasti, che dall’ente espropriante o sono abbandonati o non sono utilizzati a scopo di produzione agraria.

«Leone Giovanni».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Governo, per conoscere se intenda provvedere di urgenza a sistemare, secondo giustizia, la penosa situazione degli epurati di grado inferiore, i quali scontano le conseguenze di un atteggiamento politico non sempre pienamente documentato e obbiettivamente valutato; e se, di fronte alle sperequazioni affioranti da più parti e al sovraccarico di migliaia di istruttorie presso il Consiglio di Stato, non creda doveroso promulgare una sanatoria che valga ad equilibrare psicologicamente gli effetti della vasta amnistia che ha beneficati i quadri delle alte gerarchie fasciste; o se, in via subordinata, non creda per lo meno di disporre la facoltà per tutti gli epurati (statali, parastatali, dipendenti di enti locali) di adire il Consiglio di Stato per la revisione delle precedenti sentenze di epurazione.

«Caso, Delli Castelli Filomena, Tambroni, Ponti».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga necessario ed urgente distaccare dall’università di Napoli la Facoltà di ingegneria per ristabilire la Scuola superiore politecnica stoltamente soppressa dal regime fascista. Tale ripristino, che dovrebbe farsi riunendo nell’istituzione tutti e cinque gli anni di corso dell’ingegneria, è richiesta dalla necessità che anche il Mezzogiorno abbia, come sempre ha avuto nel passato, un suo Politecnico al pari delle regioni settentrionali.

«Nobile, Orlando Vittorio Emanuele, Nitti, Corbino, Labriola, Grieco, La Malfa, Lussu, Selvaggi, Colonnetti, Colonna di Paliano, Coppa, De Michele, Firrao, La Rocca, Leone Giovanni, Notarianni, Persico, Puoti, Rodinò Mario, Rodinò Ugo, Ambrosini, Amendola, Antonello, Basile, Bellusci, Bordò, Caprani, Codacci Pisanelli, Condorelli, Corsi, Corsini, De Martino, Farina, Ferrarese, Fioritto, Gorreri, Grassi, Lettieri, Li Causi, Maffi, Maltagliati, Marchesi, Mancini, Martino Gaetano, Miccolis, Morelli Renato, Musolino, Pastore Raffaele, Penna Ottavia, Perugi, Preziosi, Rescigno, Rubilli, Russo Perez, Sardiello, Scoca, Sicignano, Silipo, Sullo, Turco, Vilardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere – premesso che i terreni dei comuni di Poggiomarino, Terzigno e Striano e di alcune zone dei comuni limitrofi, furono nel 1943 invasi dai tedeschi, che ne distrussero buona parte dei prodotti, e nel 1944 coperti dal lapillo eruttato dal Vesuvio, che tutto coprì, onde fu financo data la esenzione fondiaria e furono disposte altre provvidenze governative – se il Governo intende dare immediatamente disposizioni di sospensione di accertamento e di pagamento dei sopraprofitti di guerra. E ciò ad eliminare un aggravio ingiusto e la contradizione evidente, in cui cadrebbe il Governo, che da una parte dispose la esenzione dalla fondiaria ed ora riscuoterebbe sopraprofitti per quella terra che fu incolta. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio Stefano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della finanze e del tesoro, per conoscere quali immediati provvedimenti intenda di prendere, perché ai cittadini italiani già residenti nelle nostre Colonie, o in paesi esteri nei quali, prima della guerra, operavano banche italiane e che, in dipendenza della guerra, hanno dovuto rimpatriare nelle più miserevoli condizioni, vengano restituiti i depositi fiduciari affidati alle banche. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Santi, Camangi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) quali provvedimenti intende prendere a favore del personale di ruolo delle ferrovie secondarie sinistrate, rimasto disoccupato in seguito alla cessazione degli esercizi;

2°) se non ritenga opportuno di invitare le ferrovie secondarie e le ferrovie dello Stato a riassumere gli agenti;

3°) se non ritenga opportuno intervenire perché la Mediterranea, interessata all’esercizio della ferrovia Arezzo-Fossato, collochi sulle altre sue linee (Centrale-Umbra, Nord-Milano e Calabro-Lucane) i ferrovieri della Arezzo-Fossato, che da molto tempo attendono di vedere realizzate le promesse loro fatte per una sistemazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Santi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se, allo scopo di decentrare il servizio catastale ora affidato in prima conservazione agli Uffici tecnici erariali nel capoluogo di Provincia ed in seconda conservazione agli Uffici distrettuali delle imposte dirette, sparsi nella vasta zona della Provincia, nell’interesse dei contribuenti e dello Stato, e ad evitare dannosi ritardi nell’esecuzione dei trapassi di proprietà, non sia opportuno istituire delle sezioni distaccate con lo stesso personale tecnico presso i singoli Uffici distrettuali delle imposte.

«Questo permetterebbe un opportuno decentramento di uffici, eliminerebbe delle spese non indifferenti agli interessati che devono da lontani comuni recarsi al capoluogo di Provincia per chiarimenti e sollecitare l’aggiornamento delle pratiche di voltura, che, dato il frazionamento della proprietà ed il vertiginoso succedersi dei possessori, crea confusione e danni ai contribuenti e non risparmio di tempo e spesa per l’Erario. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Chiaramello, Luisetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, sulla situazione in cui sono venuti a trovarsi molti studenti di scuola media, i quali conseguirono il loro diploma di scuola media superiore nelle sessioni di esami dell’anno scolastico 1942-43 senza poterne ottenere la relativa documentazione a causa degli eventi bellici. Tali studenti poterono egualmente ottenere l’iscrizione alle facoltà universitarie, ma sub conditione, e oggi, dopo aver completato i rispettivi corsi, superando anche i relativi esami, si trovano nella impossibilità di sostenere gli esami di laurea, perché tuttora sprovvisti di documentazione e materialmente impossibilitati ad ottenerne una, in quanto gli istituti di provenienza sono o distrutti con i relativi archivi dai bombardamenti subìti ovvero siti in città a quell’epoca comprese in territorio italiano, oggi invece facenti parte di territorio di altro Stato (Zara, Fiume, ecc.).

«L’interrogante chiede di conoscere quali provvedimenti si intende adottare a riguardo, tenendo presente che la maggior parte di coloro che si trovano nelle condizioni anzidette dovrebbero essere messi in grado di poter sostenere gli esami di laurea nella prossima estate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«La Gravinese Nicola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga necessario trasformare nelle scuole medie inferiori l’attuale insegnamento facoltativo della musica e canto in obbligatorio. L’insegnamento della musica, come attualmente si pratica, è irrazionale ed esposto allo scherno di tutti; né può ritenersi siano applicabili per studenti di così giovine età corsi facoltativi.

«D’altro canto, anche la formazione di insegnanti capaci e seri non può pretendersi se non istituendo cattedre di ruolo, come si è reso obbligatorio l’insegnamento dell’economia domestica per le alunne. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cotellessa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga doveroso e giusto, a distanza di 24 mesi dalla cessazione delle ostilità, che siano emanate norme amministrative per l’iscrizione a matricola delle campagne della guerra mondiale 1940-43 e della guerra di liberazione 1944-45.

«Tale riconoscimento apporta beneficî morali ed economici che interessano numerose categorie di cittadini, che hanno ben meritato del riconoscimento per l’opera prestata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cotellessa».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se, in accoglimento dei voti espressi dalla Giunta della Camera di commercio, industria e agricoltura di Avellino nella sua seduta del 10 marzo 1947, si intenda, come è augurabile, mantenere ferma ad Avellino la sede del 10° C.A.R.

«Alle ragioni addotte dalla Camera di commercio e di cui si è reso interprete con una sua interrogazione l’onorevole Preziosi, l’interrogante aggiunge che la sua esperienza personale di allievo ufficiale nella Caserma generale Berardi, in periodo di guerra, gli dà la cosciente sicurezza che non esistono in realtà ragioni militari di addestramento.

«Il problema è solo di natura politico-sociale e su questo terreno l’interrogante fa presente che:

Caserta, che ha indubbi meriti e tradizioni militari, ha altre possibilità di essere valorizzata, sia pure con le restrizioni imposte dal trattato di pace;

Avellino non ha altre possibilità di utilizzazione della veramente bella e accogliente caserma, che costituisce una delle realizzazioni edilizie migliori degli ultimi anni e che, con una spesa che incise notevolmente sull’Erario dello Stato, fu costruita per servire come scuola allievi ufficiali di fanteria.

«L’interrogante confida che il senso di giustizia distributiva tra le provincie prevarrà su ogni pressione contraria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se, nell’imminente bando di concorsi a cattedre negli istituti secondari, intenda:

1°) ammettere al concorso per titoli gli insegnanti in possesso di titolo di studio conseguito prima del 1925 e perciò con valore abilitante: detti insegnanti, invero, che hanno esplicato lunga e lodevole attività didattica (e molti hanno conseguito anche la idoneità in precedenti concorsi per titoli), appunto perché forniti di titolo già abilitante, non hanno potuto sostenere ulteriori esami di abilitazione;

2°) ammettere al concorso per titoli anche quei reduci che, pur non essendo abilitati, abbiano prestato servizio da supplenti o incaricati per un determinato periodo e con una determinata qualifica, e ciò perché molti reduci dal 1940 in poi si sono trovati nella impossibilità di partecipare ad esami di abilitazione;

3°) dichiarare esplicitamente l’ammissibilità al concorso per titoli anche di quegli insegnanti che già occupano cattedre di ruolo e siano forniti dell’abilitazione, insita nel titolo di studio o conseguita per esame, alla nuova cattedra cui aspirano;

4°) precisare, ai fini della riserva delle cattedre accantonate nei concorsi espletati nel 1941, 1942 e 1943, che per assimilati ai reduci debbano ritenersi soltanto coloro che ai detti concorsi non potettero partecipare, perché alle armi;

5°) distinguere, per i licei scientifici, le cattedre di matematica da quelle di fisica, ottenendo così un aumento delle cattedre a concorso, con una indiscutibile maggiore efficacia didattica;

6°) mettere a concorso anche le cattedre delle attuali classi di collegamento dei licei scientifici, istituti magistrali ed istituti tecnici, ed anche quelle, da trasformarsi in cattedre di ruolo, di discipline che attualmente in varie scuole secondarie, specialmente quelle di avviamento, cattedre di ruolo non hanno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non ritenga giusto disporre la soppressione del contributo per la bonifica delle valli del Sangro e dell’Aventino che dal 1934 gli abitanti del comune di Roccascalegna e di altri di quella zona sono costretti a versare al consorzio per la bonifica di dette valli, con sede in Chieti, senza che nulla siasi mai fatto, in quel campo, a vantaggio degli stessi comuni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri delle poste e telecomunicazioni e del lavoro e previdenza sociale, per sapere se e quando si decideranno ad intervenire presso la T.I.M.O. (Telefoni Italia Medio Orientale) perché cessi l’ignobile sfruttamento cui la predetta società continua a sottoporre le titolari dei posti telefonici pubblici (circa mille), corrispondendo ad esse, per un lavoro minimo di 12 ore al giorno, regolato da contratti iugulatorii di appalto, retribuzioni così misere (nella quasi totalità quelle di anteguerra) da provocare unanime riprovazione e legittimo sdegno, tanto che quella categoria di lavoratrici è in isciopero dal 15 marzo 1947. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i motivi per i quali il prefetto di Chieti – nonostante le proteste di quella cittadinanza – non ha ancora fatto insediare nel comune di Torino di Sangro l’Amministrazione eletta dal popolo il 10 novembre 1946 e mantiene in carica un commissario inviso a quella stessa cittadinanza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere i motivi per i quali non si è finora ritenuto di accogliere le reiterate, giuste richieste e le legittime proteste dell’Unione industriali consumatori carboni fossili degli Abruzzi, Marche e Molise, con sede in Pescara, tendenti ad ottenere che quella società cooperativa possa acquistare direttamente alla fonte il combustibile e riceverne periodiche, congrue assegnazioni, onde sopperire alle esigenze delle trenta industrie associate e provvedere, così, soprattutto alla ricostruzione di alcune provincie di quelle Regioni, che sono tra le più sinistrate dalla guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se sia a conoscenza del Ministero che l’abitato del comune di Roccascalegna (provincia di Chieti) sta per essere travolto da una frana che ha già fatto crollare alcuni edifizi ed altri ha gravemente lesionati; e, in caso affermativo, quali provvedimenti urgenti siano stati disposti o si intenda di adottare per evitare l’immane pericolo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Paolucci».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e della marina mercantile, per conoscere l’azione che intendono svolgere al fine di evitare che il mercato del pesce all’ingrosso di San Benedetto del Tronto trattenga ai venditori la percentuale del 2 per cento da versarsi alla locale Lega pescatori (1,30 per cento) ed alla locale Associazione armatori (0,70 per cento).

«Tale trattenuta è conseguenza di un accordo stipulato il 17 marzo, firmato da una minoranza di armatori, ma che la Lega pescatori intende far rispettare da tutti coloro che portano il prodotto al mercato locale, siano essi appartenenti alla base di San Benedetto o siano delle basi limitrofe.

«La trattenuta del 2 per cento è contro le vigenti disposizioni di legge sui mercati del pesce (legge 12 luglio 1938, n. 1487) e si risolve in una imposizione di contributo sindacale a carattere obbligatorio di vasta entità in quanto si calcola abbia fruttato finora alla sola Lega pescatori circa 8 (otto) milioni di lire, somma di cui non si conosce l’impiego. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tozzi Condivi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se risponda a verità, e in che misura, la notizia apparsa su di un giornale fiorentino del 16 febbraio 1947: «Parigi 15. – I giornali francesi esprimono il loro stupore per il fatto che la Presidenza del Consiglio italiano, tramite il Sottosegretariato, ha interdetto in Italia i famosi libri di Flaubert Salambo e Madame Bovary, affermando che si tratta di opere pornografiche». (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Binni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi per i quali, malgrado l’assenso da tempo dato dal Ministro del tesoro alla creazione di un ruolo transitorio degli insegnanti di educazione fisica, con svolgimento di carriera dal grado XI al grado VIII, non ancora ha creduto di apprestare i relativi provvedimenti, onde circa 6000 insegnanti della predetta disciplina si dibattono tuttora in notevoli quanto ingiuste difficoltà di natura economica e morale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se, di fronte al diffuso senso di amarezza prodotto nella generalità degli insegnanti secondari dalla circolare n. 671 del 7 febbraio 1947, relativa alle lezioni private, la quale, mentre suona aperta sfiducia nel sentimento di correttezza degli insegnanti stessi (ai quali toglie praticamente, nelle difficoltà attuali, ogni possibilità di onesto lavoro), è d’altronde in gran parte inattuabile, intenda revocarla e, fermo lasciando il divieto agli insegnanti di impartire lezioni private ai propri alunni, ritenga sufficiente stabilire che l’insegnante chiamato a far parte di una Commissione di esami denunzi al capo d’istituto le lezioni private impartite ad eventuali candidati, astenendosi nei loro confronti dalle operazioni degli esami stessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere, in dipendenza dei gravi danni provocati dal fiume Pescio, in provincia di Pistoia, a seguito della rottura degli argini. Si fa presente:

1°) che l’argine era da tempo pericolante e il Genio civile, al corrente di ciò, non sembra abbia avuto la facoltà di provvedere durante il periodo di magra;

2°) che occorre provvedere con urgenza a soccorrere e indennizzare i piccoli coltivatori da tale incuria gravemente danneggiati e altresì a predisporre per tutta la zona danneggiata congrui sgravi fiscali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Corsini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sull’organico dell’ordinamento notarile insufficiente ai bisogni della popolazione e sull’esito che parrebbe ancora lontano di due concorsi, uno per titoli ed uno per esami, che aperti per reduci disoccupati, dovrebbero rimediare alle insufficienze per vari motivi lamentate. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roselli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro delle finanze e tesoro, per conoscere le ragioni che si oppongono al saldo dei risparmi fatti da numerosi militari ex prigionieri addetti a lavori retribuiti, durante la loro prigionia, in Inghilterra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Piemonte».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro dei trasporti, perché voglia considerare la situazione veramente penosa, nella quale si trovano gli assuntori di stazione e di passaggi a livello delle ferrovie dello Stato e di dire se non ritenga necessario intervenire al più presto in loro favore con equi provvedimenti legislativi.

«Colitto».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri, perché dica se non ritenga opportuno che si provveda di urgenza alla rettifica del decreto del Capo dello Stato, emanato in data 22 giugno 1946, n. 3582 (registrato alla Corte dei conti il 5 settembre successivo al registro 15, foglio 93), con il quale venne disposta la divisione del Consorzio della Bassa Valle del Trigno, nelle provincie di Chieti e di Campobasso, in due consorzi, dei quali l’uno a sinistra del Trigno, in provincia di Chieti, e l’altro a destra, in provincia di Campobasso, attribuendo a quest’ultimo la zona di terreno di circa 600 ettari (delimitata dal fiume, stesso, dal mare e dal formale del molino Pantanella, che è il confine delle due provincie), che, pur trovandosi a sinistra del fiume, fa parte della provincia di Campobasso, ovviando così ad una situazione ingiusta per gli agricoltori molisani e non spiegabile dal punto di vista tecnico, perché è evidente da un lato che un consorzio di bonifica nella provincia di Campobasso non avrebbe ragione di essere, se la zona suddetta non venisse ad esso assegnata, ché così verrebbe il consorzio ad essere privato di quasi tutta la zona soggetta a bonifica idraulica, e, d’altra parte, assegnandosi le sue sponde a valle del fiume a due distinti consorzi, le opere relative alla sistemazione del fiume – parte integrante della bonifica – sarebbero eseguite separatamente dai due consorzi, che potrebbero adottare criteri diversi e comunque non intervenire tempestivamente. La divisione del Consorzio del Trigno in due consorzi fu determinata dall’intento di costituire con sede in Vasto un ente con territorio limitato alla provincia di Chieti (ettari 2626) e di creare altro ente, con sede in Termoli, per la parte di territorio in provincia di Campobasso (ettari 5820). Senonché, mentre dagli atti risulta che in tal modo avrebbe dovuto operarsi la scissione del consorzio, in realtà fu poi operata attribuendosi al consorzio di Campobasso 600 ettari di meno di quelli ad esso spettanti.

«Colitto, Morelli».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure le interpellanze saranno inscritte nell’ordine del giorno, qualora i Ministri interessati non vi si oppongano nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 12.20.

VENERDÌ 21 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXX.

SEDUTA DI VENERDÌ 21 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Per il cinquantennio di vita parlamentare di Vittorio Emanuele Orlando:

Presidente                                                                                                        

Orlando Vittorio Emanuele                                                                          

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Cevolotto                                                                                                        

Dossetti                                                                                                           

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana precedente.

(È approvato).

Per il cinquantennio di vita parlamentare di Vittorio Emanuele Orlando.

PRESIDENTE. (Segni di vivissima attenzione). Chiedo all’Assemblea di concedermi la parola sul processo verbale: per un fatto personale.

Uno speciale processo verbale – uno speciale fatto personale.

Un processo verbale che stende le sue annotazioni alla seduta di ieri e di ier l’altro e del mese scorso e dello scorso anno, e più in là, più in là ancora: fino a dieci anni fa, a venti anni, a cinquanta.

È il 21 marzo del 1897, ed i cittadini italiani – quel limitato strato di cittadini privilegiati che costituivano allora il Paese legale di fronte alla grande maggioranza ancora priva del diritto di voto – chiamati alle urne, avevano eletto i membri della XX legislatura. Dalle urne del Collegio di Partinico, in quel di Palermo, era uscito un nome: quello di Vittorio Emanuele Orlando. (Tutta l’Assemblea si leva in piedi Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Non nome ignoto ed oscuro; poiché la fama già lo illuminava nel campo dei più severi studi; e la cattedra di Diritto costituzionale della sua città natale menava vanto delle sue lezioni, contese con successo all’università di Messina, che lo aveva salutato Maestro dopo quella di Modena, dove, ventiquattrenne, fra uno stupore ammirato, aveva iniziato il suo insegnamento.

E tuttavia, così forte per ingegno e tanto nutrito di dottrina, fu con intimo tremore (ce lo confessava lui stesso alcuni giorni fa) che egli entrava dopo poche settimane nell’Aula del Parlamento – non questa, che ancora non levava la sua architettura severa, ma in quella antica che aveva accolto l’Assemblea elettiva subito dopo il suo trasferimento in Roma, capitale d’Italia.

Da quel giorno lontano – 50 anni, non solo nella vita di un uomo, ma in quella stessa di un popolo, costituiscono un’epoca intera, e lo sa il popolo italiano che, nel loro corso, ha dapprima vissuto le tappe di una faticata ma civile ascesa economica e politica e poi, affidatosi all’illusione di più facili ma ingiuste conquiste, ha perduto tutto o quasi tutto, e sta oggi, in fondo alla china, riapprestandosi ad una futura ascesa – da quel lontano giorno, rapidamente sedato il timore da novizio, Vittorio Emanuele Orlando ha fatto parte ininterrottamente della Camera, ancora per Partinico fino al 1919, poi, adottati col sistema proporzionale più ampi collegi, per il Collegio di Palermo.

Sarebbe superfluo che io richiamassi qui, minutamente, il suo curriculum politico, il quale s’intesse strettissimamente alla storia del Parlamento, dove egli si conquistò ben presto un posto preminente e, più ancora, alla storia stessa del nostro Paese alle cui sorti, come Ministro dapprima, poi come Presidente del Consiglio, a cominciare dal 1904 più volte presiedette. Fu in un momento tragico e nello stesso tempo mirabile della nostra Nazione che Vittorio Emanuele Orlando venne assunto alla massima responsabilità dello Stato: e là, fra il pericolo della disfatta che pareva inevitabile e l’impeto travolgente della rivincita, egli diede la misura piena delle sue capacità intellettuali, della sua forza morale, delle sue virtù civili, della sua fede incrollabile nel popolo italiano.

Riconoscimento massimo dei titoli che egli si era acquistati, la prima Camera veramente democratica che ebbe l’Italia lo chiamò, nel dicembre 1919, a dirigere i suoi lavori. E dallo scanno spinoso e più basso del Governo salito a questo seggio, posto più in alto, è vero, ma non sempre soffice ed accogliente come si crede, Vittorio Emanuele Orlando aggiunse alla sua lunga esperienza ed al suo lungo servizio in pro del Paese le fatiche di una Presidenza che ancora gli anziani ricordano ad esempio, per la sua sagacia comprensiva, sorridente, pronta e ferma.

Uomo di spiriti profondamente liberali, gelosissimo tutore delle libertà statutarie, amico – se pure con una certa timidità dinanzi al loro inarrestabile progressivo avanzarsi – delle più larghe masse popolari, Vittorio Emanuele Orlando fu tenace oppositore del fascismo; e non si dimentica che – fra i pochi dirigenti della vecchia classe politica italiana – seppe schierarvisi apertamente contro nell’ultima battaglia elettorale che il fascismo ardì permettere ed affrontare: a Palermo, nel 1925, per quel Municipio.

Poi si ritrasse da un agone politico ormai insozzato di ogni morale abominia, ritornando tutto a quegli studi dai quali trenta anni prima si era allontanato per tentare e luminosamente percorrere la strada dei pubblici incarichi.

La nuova democrazia italiana, irrorata dal sangue di migliaia, di decine di migliaia di combattenti e di martiri, ricollegandosi idealmente ai tempi del primo risveglio popolare che gli uomini più lungimiranti, più capaci, più onesti del liberalismo non oppugnarono ma favorirono, vede in Vittorio Emanuele Orlando come un messaggero dei tempi lontani che, consegnato il messaggio, non posa – ma, sia pure a rilento, riprende dietro alle schiere più giovani e più agguerrite la via che queste hanno già imboccata.

La settimana scorsa, nella chiusa fervida e sonora del suo bellissimo commento al progetto di Costituzione, Vittorio Emanuele Orlando ne salutava gli articoli sui diritti sociali ed economici proclamando il dovere della società a provvedere ai mali che essa determina e causa: la disoccupazione, la indigenza, la miseria, lo stesso vizio, lo stesso delitto. Ed egli trovò allora accenti di così profonda solidarietà umana che tutta l’Assemblea in ogni suo settore proruppe in applausi.

Onorevole Orlando, Ella, nel diuturno cinquantennale spettacolo – che dico? – nella partecipazione profonda alla vita del nostro popolo è giunto ad attingere alle fonti stesse della sua bontà, della sua saggezza, del suo amore; e così può riparlarne con tanta spontaneità il linguaggio.

E anche per questo che noi desideriamo oggi esprimerle il nostro rispetto affettuoso, la nostra ammirazione, il nostro augurio. Ella ci ammonisce, con la sua presenza, non solo alla serietà responsabile del pensiero, ma alla continuità serena e severa delle opere.

Ed è a nome di tutta l’Assemblea che esprimo l’auspicio – che è per noi una speranza – che Ella superi ancora oltre, agile ai tempi nuovi, nel mare burrascoso della vita, sempre nuovi promontori di anni, di fatiche, di successi. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Ha chiesto di parlare l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. (Segni di vivissima attenzione). Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, avvertirete subito nella vostra sensibilità che non è la solita frase retorica la mia: quella, cioè, con cui l’oratore dice che l’emozione tradisce la parola.

Questo lo sentite. Vi dirò solo che in me, in questo momento, il sentimento di gratitudine, per quanto profondo, è superato da un senso, non basta dire di modestia, ma di umiltà; di umiltà perché mi sento immeritevole dell’onore che mi fate.

Che ho fatto? Dell’essere vissuto a lungo non ho merito. Non è dipeso da me. Ché, se mai, alla Divinità, verso la Divinità non posso un pensiero rivolgere che sia oltre che di devozione anche di ringraziamento, perché per me fu rovesciato il voto del vecchio Simeone, cui lo Spirito Santo aveva assicurato che non sarebbe morto prima di aver visto la salute del mondo in Cristo. Quando egli questo voto poté esaudire, tenendo in braccio il Bambino, allora proprio nato, poté festosamente intonare il famoso inno: nunc dimitte servum tuum. Questo voto, di una lunga vita, per terminare con la visione di una fine in gloria, per me fu crudelmente rovesciato, se ho dovuto vivere sino ad assistere alla catastrofe del mio Paese.

Il Presidente ha alluso a quello che ho fatto per il mio Paese. Non posso meritare questo elogio; me lo perdoni. Nei rapporti fra i cittadini e la Patria il bilancio non ha la colonna del dare; non ha che quella dell’avere. Si deve tutto alla Patria; ce lo insegnano quelli che sono morti e sono pronti a morire per essa. Quindi non mi resta che la colonna del dare; per cui debbo umilmente chiedere scusa di tutti gli errori che ho commesso, di tutte le colpe che gravano sulle mie spalle, assumendo anche quelle di coloro che da me son dipesi.

Il capo si riconosce in ciò, nell’assumere per sé ogni responsabilità, tutta la responsabilità anche di coloro che agiscono in nome di lui.

Ed allora? Allora, se io posso attribuire a questa nobile, alta, magnifica cerimonia attuale un significato, io credo che essa sia utile, possa essere utile, sarà utile, ma come onore reso al Parlamento. Onorando colui che ha il titolo di essere il più vecchio parlamentare, si onora il Parlamento; convergendo, sia pure per un momento, in forma di affetto solidale, concordemente, il pensiero di tutti su quel mezzo secolo di storia, si fa opera squisitamente patriottica e parlamentare.

Perché parlamentare, questo sì, mi sento. Vi contribuisce forse l’esser io nato in Sicilia, in quella Sicilia che vanta il primo Parlamento della storia, superando la stessa Inghilterra. La prima ammissione dei delegati delle città nella curia del Re, che si aggiunsero ai prelati e ai baroni, avvenne nel Parlamento di Sicilia su convocazione di Federico II attraverso il suo grande Cancelliere, Pier delle Vigne, fin dal 1240. Il primo Parlamento inglese, quello detto di Simone di Montfort, che ammise i mercanti e i negozianti, è del 1265.

E lo mantenemmo più a lungo di tutti gli altri Stati d’Europa, salvo, naturalmente, l’Inghilterra, perché il Parlamento di Sicilia ininterrottamente visse e la sua autorità fu efficiente fino ai primi decenni del 1800.

Per le origini, dunque, per la mia vita di studi, per un’attività semisecolare posso dire di essere un parlamentare per eccellenza. I tanti discorsi da me pronunciati in Parlamento cominciano da quelli pronunciati nella vecchia aula, il cui ricordo topografico, fattone dal Presidente, ha provocato in me un’emozione particolare. Il primo periodo, dunque, fui nella primissima aula, quella che occupava il cortile: poi si passò nella auletta, e poi nell’aula di via della Missione; e finalmente in quest’aula che io inaugurai.

Ebbene, uno dei miei tanti discorsi, quello di cui sono più fiero, è il mio discorso di debutto, pronunziato nel febbraio del 1899. Per quanto io fossi entrato in Parlamento nella primavera del 1897, avevo dovuto fare un tirocinio. Allora i deputati di prima legislatura erano scarsi relativamente agli anziani ed erano visti da questi con poca benevolenza. Bisognava stare molto in guardia, bisognava cominciare con qualche interrogazione od alcuna modesta raccomandazione su di un capitolo di bilancio. Pervenni a fare un discorso politico – il primo in tal senso, ripeto – nel febbraio del 1899 e questo discorso fu per sostenere la sovranità del Parlamento.

Infatti, nei moti del 1898 erano stati arrestati e condannati molti di quelli che anche allora si chiamavano sovversivi, e che ora forse sarebbero considerati come destra. Ed erano stati condannati a 14 anni Filippo Turati e Luigi De Andreis, socialista l’uno, repubblicano l’altro. Nella condanna del Tribunale militare era compresa la perdita dei diritti politici e quindi la decadenza dalla qualità di deputato e la Camera fu invitata a prenderne atto. Io presi la parola e ci volle un certo coraggio. Io mi staccai da tutta la Camera e votai con l’estrema sinistra di allora – io che fui sempre liberale; liberale di sinistra, ma liberale – e sostenni che la Camera non doveva dichiarare la decadenza di Filippo Turati e di Luigi De Andreis, perché, come corpo sovrano, era soltanto essa l’arbitra di giudicare dei titoli di ammissione e di esclusione dei propri membri; e che la lettura della sentenza dimostrava che mancava la ragione della condanna. Ci volle, ripeto, un certo coraggio per sostenere questa tesi, giusta ma ardita; ma son fiero di quella mia prima affermazione, poiché fu per la difesa dei diritti del Parlamento.

Parlamentare io sono stato sempre e forse, vi dicevo, questa manifestazione, questa solennità odierna può valere come una specie di ponte che colleghi il vecchio Parlamento con il nuovo e con i futuri.

Io inauguro il ponte oggi; lo inauguro, ma per restare al di qua. Io sono con tutti i miei morti; io non sono che un’ombra che tende a confondersi con altre ombre; io i miei contatti li sento con i caduti del Carso, dell’Isonzo (Vivissimi, generali, prolungati applausi), con i caduti del Piave, che ascoltarono la mia parola allora, quando il popolo non si adunava con le cartoline in forma obbligatoria ma in un libero Parlamento. (Applausi). Questi poveri dittatori mi sembravano veramente meschini in confronto di me, quando riassumevo i sentimenti e l’animo di un popolo libero! Quando qui, in quest’aula, io commemoravo fra la generale emozione la ingenua poesia degli italiani rimasti al di là: «Monte Grappa, tu sei la mia Patria», Filippo Turati, capo dell’opposizione di allora, si alzò per dire: «Ma, onorevole Presidente, anche per noi Monte Grappa è la Patria»; e allora la Camera, tutta la Camera, si unì in quel grido. (Vivissimi, prolungati, generali applausi Il Presidente e tutti i deputati si levano in piedi). Quella era veramente l’Italia, tutta l’Italia, nell’augusta maestà del suo Parlamento!

Io, dunque, resto al di qua, con i morti che mi aspettano. A voi rivolgo il mio augurio con tutto un cuore paterno; la benedizione di un vecchio porta sempre fortuna. (Il Presidente e tutti i deputati si levano nuovamente in piedi Vivissimi, prolungati, generali applausi).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli Cappugi e Morelli Renato.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Cevolotto. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Onorevoli colleghi, vi fu chi scrisse che in questo dibattito io rappresentavo in certo modo il vecchio spirito anticlericale. Non è esatto; non è vero. Il vecchio spirito anticlericale non esiste più; e non c’è ragione che esista. Ebbe la sua ragione un tempo. Non dimentichiamo che il Risorgimento italiano – e lo riconosceva l’amico Jacini l’altro giorno – è stato fatto contro la Chiesa; e questo spiega il perché dell’anticlericalismo di una volta, con tutte le sue deformazioni. Ma oggi, dopo la conciliazione, che ragione vi può essere perché riprenda in qualche modo quel vecchio spirito e quel vecchio atteggiamento anticlericale, ormai superato? Badate che una ragione potrebbe esserci proprio in questo articolo 5, di cui noi discutiamo. Ed è per questo anche che noi ne paventiamo le conseguenze. Mentre si parla di pace religiosa, forse non ci si avvede che si mettono le basi per una ripresa di quella vecchia contesa che abbiamo ritenuto tutti fortunatamente superata. Da questo punto di vista voglio discutere pacatamente sul terreno giuridico, sul terreno politico, dell’articolo 5. Ed è lungi da me ogni spirito di parte o di fazione, ogni intenzione di riaprire dibattiti che considero ormai storici, e quindi superati.

Dell’articolo 5 discuto le due proposizioni, non una sola; anche la prima, anche quella che ha avuto qui dentro minore risonanza, della quale ha già parlato però in termini precisi l’onorevole Calamandrei: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Non ripeterò ciò che ha detto l’onorevole Calamandrei e che non mi sembra confutato dall’articolo che oggi ha scritto sul «Popolo» il collega onorevole Mortati. Non lo ripeterò, perché vorrei non dire quello che è stato già detto da altri; naturalmente, in certi limiti, perché il campo è stato talmente arato che qualche ripetizione è inevitabile. Non insisterò, quindi, nella posizione che ha proposto e risoluto – secondo me – l’onorevole Calamandrei; ma anche per altre considerazioni questo articolo, secondo me, non può andare.

«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine…» Che cosa vuol dire «nel proprio ordine»? Si è inteso certamente di dire «nel proprio ordinamento giuridico»; ma, perché non abbiamo messo le parole esatte, perché non abbiamo detto «ordinamento giuridico»?

Non l’abbiamo detto perché anche questo articolo, anche la formulazione di questa prima parte dell’articolo, è stata frutto di lunghe discussioni e di lunghe discordie; anche fra me e l’amico Dossetti. Dico l’amico Dossetti, perché nella consuetudine della prima Sottocommissione noi siamo diventati veramente amici, al di fuori di ogni differenza, di idee e di vedute, secondo il buon costume antico, secondo il costume che c’era prima del fascismo, quando essere avversari politici non voleva dire essere nemici e non rispettarsi reciprocamente.

Da queste discussioni, dicevo, è venuto fuori un articolo che da un lato non dice alcune cose e dice troppo dall’altro lato. Che cosa voleva, in sostanza, l’onorevole Dossetti? Voleva affermare questo: che l’ordinamento giuridico della Chiesa è un ordinamento originario o primario. Perché non si sono messi allora questi termini: «originario o primario?». Perché si tratta di parole che non sarebbero facilmente capite dal popolo, dal volgo, e perciò non sono adatte ad una Costituzione che deve essere tecnicamente esatta, ma che deve essere anche accessibile a tutti, e quindi chiara.

Il collega Dossetti voleva questo: che si dicesse che l’ordinamento giuridico della Chiesa è un ordinamento giuridico primario o originario, cioè non subordinato e non derivante dall’ordinamento statale. E su questo punto non ci sarebbe stata difficoltà, a parte la parola che poteva non essere opportuna, ed a parte il fatto che una Costituzione non è chiamata a dire che cosa è e come è un determinato ordinamento giuridico, ma ad ammetterlo o non ammetterlo, e a trarne le conseguenze costituzionali.

Che l’ordinamento giuridico della Chiesa sia originario è nozione che ormai nel diritto ecclesiastico è assunta senza contrasto. Nessuno di noi penserebbe di tornare alla teoria del grande Scaduto, il quale diceva che l’ordinamento della Chiesa ha un valore non di legge, ma di statuto di una semplice associazione; che gli ordinamenti della Chiesa assumono, quindi, l’aspetto di norme contrattuali fra gli associati, in quanto non appartengono al diritto pubblico. Ma questa è una nozione superata, ed è superata anche l’altra dello Schiappoli, il quale diceva che si tratta di regolamenti di un ente pubblico, se non dello Stato, che s’intendono emanati, a seconda della loro natura, per delegazione o concessione di facoltà regolamentare, amministrativa o giurisdizionale dello Stato.

Queste concezioni in fondo si basavano su questo punto: nel ritenere che non potessero sussistere nello Stato ordinamenti giuridici diversi dallo Stato, e sono state superate appunto dalla teoria, che ha ricordato l’onorevole Calamandrei, del Santi Romano, sulla pluralità degli ordinamenti giuridici.

Stabilito che possono coesistere nello Stato più ordinamenti giuridici interni, non c’è difficoltà a riconoscere che l’ordinamento giuridico della Chiesa è originario.

Una voce a destra. Ed autonomo.

CEVOLOTTO. Anche noi ammettiamo questo, lo ammettiamo e, quindi, siamo pronti a riconoscere l’indipendenza dell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, in questi limiti però: che agli ordinamenti statuali non possono appartenere norme che non derivino, almeno in modo mediato, dalla volontà dello Stato.

Come è possibile che l’ordinamento della Chiesa, ordinamento originario, e come tale indipendente da quello statuale – perché l’indipendenza non si discute – acquisti rilevanza giuridica per l’ordinamento statuale italiano, in cui noi affermiamo il principio che lo Stato è la sola fonte del diritto? La formula è del povero Mario Falco ricordato dall’onorevole Calamandrei: «Le leggi canoniche hanno effetti civili solo in quanto le leggi dello Stato glieli attribuiscono e nei limiti di tale attribuzione». Questa è la nostra tesi, e non può essere diversa.

Falco riconosceva l’autonomia della Chiesa in un senso forse non tecnico, più politico che tecnico, più politico che giuridico, cioè, come la facoltà riconosciuta alla Chiesa di regolare i propri affari interni senza immissione dello Stato; e anche la limitata efficacia civile attribuita a determinate leggi o a gruppi di leggi emanate dalla Chiesa.

In fondo, riconosciuta l’originarietà dell’ordinamento giuridico della Chiesa, si trattava di stabilire in che modo l’ordinamento della Chiesa poteva influire sull’ordinamento giuridico dello Stato. E qui i giuristi hanno lavorato, hanno lavorato con i metodi, con gli strumenti del diritto internazionale ed hanno in genere ammesso il concetto del rinvio formale. So che questo concetto in questo momento è, forse, sottoposto a revisione da parte di alcuni; ma ciò non importa agli effetti della nostra discussione.

Accettiamo, dunque, la formula del rinvio formale; resta ad ogni modo fermo il principio che nell’ordinamento giuridico della Chiesa le norme non hanno valore per l’ordinamento civile, se non in quanto lo Stato, se non in quanto la legge dello Stato attribuisca ad esse tale valore. In questi limiti non vi è nessuna difficoltà da parte nostra a riconoscere l’indipendenza dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Ma nell’articolo 5 – o 7 – si aggiunge un’altra parola: «sovranità». Ed ecco il punto: indipendenza e sovranità.

Ora, i giuristi della Chiesa, ultimamente i giuristi valorosissimi della «Civiltà Cattolica» hanno detto: «Ma, un ordinamento giuridico originario, primario, autonomo, indipendente, è un ordinamento giuridico sovrano; perché non volete riconoscere questo principio della sovranità dell’ordinamento giuridico della Chiesa?».

È una questione che fin dal Concordato aveva cominciato ad essere sollevata, perché dopo il Concordato, ad un certo momento, il Ministro Solmi – che era un giurista, o meglio uno storico del diritto – lanciò una sua formula che non ha avuto fortuna e non l’ha equiparato a Cavour (a parte se la formula così detta cavouriana, come dice l’amico Jacini, è di Cavour o di altri). Egli lanciò questa formula in un discorso parlamentare: «Chiesa libera e sovrana – Stato libero e sovrano».

Ma Mussolini allora, con una di quelle intuizioni generiche e superficiali, che qualche volta aveva anche nel campo giuridico, rispose: «Ma qui si spezza in due l’ordinamento sovrano dello Stato, io non concepisco due sovranità», e Solmi ritirò subito obbedientemente la sua formula.

Il Papa Pio XI, al quale non sfuggì in quel momento nessuna delle questioni che si opponevano da parte di Mussolini, in una lettera che dovremo più volte citare, perché è un documento fondamentale per le nostre ricerche, in quella lettera al Cardinale Gasparri, di cui ha parlato l’amico Calamandrei, rispondeva: «Nel Concordato sono in presenza, se non due Stati, certissimamente due sovranità pienamente tali, cioè pienamente perfette, ciascuna nel suo ordine, ordine necessariamente determinato dal rispettivo fine.

«Ove è appena d’uopo soggiungere che l’oggettiva dignità dei fini determina non meno oggettivamente e necessariamente l’assoluta superiorità della Chiesa».

Come risolvere il problema della sovranità dell’ordinamento giuridico della Chiesa, che incide e insiste sullo stesso territorio e sugli stessi soggetti della sovranità dello Stato? Questa è la difficoltà. Ed i giuristi della «Civiltà Cattolica», di fronte a questa difficoltà si sono trovati imbarazzati, ma l’hanno a modo loro risolta secondo il criterio dell’ordinamento giuridico esterno, cioè hanno detto: l’ordinamento giuridico della Chiesa è un ordinamento giuridico esterno, rispetto all’ordinamento statale e, quindi, le interferenze si dovranno regolare in base ad accordi. In altre parole si tratterebbe come se i cittadini italiani fossero cittadini aventi due cittadinanze (è un’immagine grossolana ma che può servire a rendere plastica la questione) e che sono, quindi, soggetti a due ordinamenti statali diversi.

In questo modo, se la formula dell’ordinamento giuridico esterno corrispondesse alla realtà, a noi il concetto di sovranità della Chiesa cattolica non darebbe ombra, in quanto, trattandosi di ordinamento giuridico esterno, non potrebbe avere influenza sull’ordinamento giuridico interno italiano, se non in quanto questo lo richiamasse e lo adottasse; e allora ogni questione sarebbe vana, sarebbe fuori posto. Senonché, giuridicamente, ordinamento giuridico esterno l’ordinamento della Chiesa rispetto allo Stato non è, e non può essere. È questo il punto. Infatti, gli stessi giuristi della «Civiltà Cattolica», lo stesso Lener, ad un certo momento, dicono: la molteplicità interna ed esterna degli ordinamenti giuridici, autonomi e sovrani, importa necessariamente la limitazione e, quindi, una definizione diversa della sovranità statuale; e aggiungono che certe limitazioni della sovranità statuale, per il fatto della coesistenza di due ordinamenti giuridici sovrani, sono inevitabili.

Allora non si tratta di un ordinamento giuridico esterno. Incide sugli stessi soggetti, incide anche sulle stesse materie; e sorge così la grossa questione delle «materie miste», che neanche i giuristi della Civiltà Cattolica hanno risolto, in quanto hanno dovuto ammettere e convenire che su questo punto non si poteva non riconoscere una diminuzione della sovranità dello Stato in conseguenza della esistenza di altra sovranità. Ordinamento giuridico esterno quindi non è.

Se il Lener fa ricorso alle teorie della pluralità degli ordinamenti giuridici, poiché l’aspetto interessante e nuovo di questa teoria è stato quello che riguarda la pluralità degli ordinamenti giuridici interni (la pluralità degli ordinamenti giuridici esterni non è mai stata in discussione), con ciò riconosce che anch’egli considera l’ordinamento della Chiesa rispetto a quello dello Stato come un ordinamento interno. All’infuori di ogni discussione dottrinale, noi pensiamo che la formula della sovranità, attribuita alla Chiesa, sia quanto meno ambigua, perché, riferendosi il riconoscimento della sovranità ad un ordinamento giuridico interno, coesistente coll’ordinamento giuridico dello Stato, porta alla conseguenza che, come ordinamento giuridico sovrano, nelle materie che gli sono proprie, può valere sopra l’altro ordinamento, quello dello Stato.

Quale dei due ordinamenti sovrani dovrebbe valere nelle materie miste? A proposito dei limiti, dei confini vorrei dire, degli ordinamenti giuridici dello Stato e della Chiesa, sono state proposte delle dottrine (è vero che non sono accettate, siamo d’accordo), che fanno pensare. Alludo alla dottrina così detta «della compressione», per cui l’ordinamento giuridico canonico sarebbe compresso e limitato dall’ordinamento giuridico statale e tutte le volte che vengano attentati questi limiti, si verificherebbe una espansione naturale dell’ordinamento giuridico canonico nel suo ambito, nell’ambito che gli dovrebbe esser proprio. Se noi adottiamo la formula dell’ordinamento giuridico sovrano della Chiesa – ed è evidente che si tratta di un ordinamento giuridico interno, non esterno – ciò può portare a delle conseguenze non lievi nel campo delle materie miste ed anche nel campo delle materie non miste.

Per esempio, ora la Chiesa non applica pene corporali neanche nei riguardi dei suoi soggetti e neanche in rapporto alle condanne che emana per i propri soggetti. Ma se domani la Chiesa, per un sacerdote il quale manchi ai suoi doveri, comminasse delle pene corporali, se il suo è un ordinamento giuridico sovrano, lo Stato dovrebbe essere tenuto a riconoscerne la sfera di applicazione almeno ai soggetti dalla Chiesa direttamente dipendenti.

Vi è anche nel Trattato qualche cosa a questo riguardo.

Infatti l’articolo 23, capoverso, del Trattato dice: «Avranno invece senz’altro piena efficacia giuridica, anche a tutti gli effetti civili, in Italia, le sentenze ed i provvedimenti emanati da autorità ecclesiastiche ed ufficialmente comunicati alle autorità civili, circa persone ecclesiastiche o religiose e concernenti materie spirituali o disciplinari». Però il Trattato vale per l’ordinamento giuridico della Chiesa, così come era quando il Trattato fu stipulato.

Una modificazione dell’ordinamento giuridico della Chiesa, posteriore al Trattato, potrebbe anche portare alla conseguenza della non applicazione del capoverso dell’articolo 23. Ma quando invece si riconoscesse la sovranità dell’ordinamento giuridico della Chiesa, è da discutere se le conseguenze non sarebbero diverse e peggiori.

Noi pensiamo che la formula del riconoscimento dell’ordinamento giuridico sovrano della Chiesa cattolica, non sia opportuna. Io parlo sulla linea dell’opportunità politica. A parte potremo discutere a lungo se la formula è esatta o non è esatta. Può darsi che in definitiva la tesi dei giuristi della «Civiltà Cattolica» abbia successo o non abbia successo. Lasciamo da parte la discussione teorica. Noi affermiamo che non desideriamo formule le quali importino comunque una diminuzione, una limitazione, un pericolo per la sovranità dello Stato nel suo ordinamento giuridico interno. Noi desideriamo che l’ordinamento giuridico della Chiesa valga nell’ordinamento giuridico interno dello Stato, in quanto la volontà dello Stato lo richiami. Ecco, perché sono contrario, anche oltre alle ragioni dette dall’onorevole Calamandrei, che pienamente condivido, a questa prima parte dell’articolo 5 e proporrò – veramente un po’ tardi, ma dieci colleghi con me lo sottoscriveranno – un emendamento in questo senso: «Lo Stato riconosce l’indipendenza della Chiesa cattolica nel suo ordinamento giuridico interno».

Punto e basta. E con questo punto e basta passo a discutere dell’altro comma dell’articolo 5 – o 7 –, cioè dell’inserzione nella Costituzione dei Patti Lateranensi.

Si è detto da più parti e non lo ripeterò – perché ho detto che voglio cercare di non ripetere, o di ripetere il meno possibile quello che è stato già da altri esposto – si è detto che questo richiamo ai Patti Lateranensi importa la cristallizzazione, l’inserzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione. Questo a me sembra evidente. Senonché, alla tesi muove obbiezioni, acutamente, come sempre, il nostro collega onorevole Mortati, in un articolo che è stato pubblicato questa mattina sul giornale II Popolo.

Dice Mortati: «Occorre mettere in rilievo la necessità di precisare la correlazione tra il primo e il secondo comma dell’articolo 5, in modo da ricavare l’esatto significato di questo e mostrare la fallacia dell’opinione espressa, oltre che dall’onorevole Calamandrei, da molti altri, secondo la quale dovrebbe ritenersi operata una recezione nella Costituzione dal contenuto dei Patti e, quindi, una trasformazione in costituzionali delle singole loro disposizioni. Quello che invece è assunto nella Costituzione è solo il principio concordatario, non i singoli Patti in cui questo è attuato e svolto».

Mortati, insomma, nega che col dire «I loro rapporti sonò regolati dai Patti Lateranensi», si sia operata una recezione dei Patti Lateranensi, nella loro struttura complessa, nella Carta costituzionale. E siccome Mortati è un acuto giurista, egli si propone subito l’osservazione che la nostra tesi è confermata appieno da ciò che segue:

«Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale».

Il che vuol dire che, se non vi fosse questa norma, per modificare i Patti sarebbe necessaria la revisione costituzionale. Ed allora essi Patti fanno parte della Costituzione.

Questa obiezione è evidente; del resto, anche se non fosse stata evidente, l’onorevole Mortati, con la sua acutezza, se la sarebbe formulata lo stesso.

Egli dice: «L’averlo espressamente indicato nel secondo comma è un errore di tecnica legislativa, che ha contribuito ad ingenerare il grosso equivoco, che si cerca di chiarire».

Allora, amico onorevole Lucifero, tu che hai voluto quell’aggiunta, non trovi buona accoglienza né da una parte né dall’altra. Tutti ti dicono che è stato un male; ma io credo che avevi ragione tu; e cioè: l’avere richiamati in questo modo i Patti lateranensi nella Costituzione significa averli inseriti nella Costituzione stessa.

La teoria dell’onorevole Mortati è, sì, acuta ed intelligente, ma non soddisfa.

Del resto, se soddisfacesse, il suo articolo porterebbe ad altre interessanti conseguenze.

Egli dice: «Ora, chiarito il significato dell’articolo 5, è facile argomentare che gli effetti che si sono voluti conseguire si otterrebbero anche se si rinunziasse a fare menzione dei Patti Lateranensi e si adottasse una delle varie formule suggerite ed approvate, come quella dei Patti concordati».

Ed allora, perché voi, democratici cristiani, non volete la dizione dei Patti concordati?

La sola conseguenza logica è infatti questa: se non vi è in voi il proposito e la volontà di inserire nella Costituzione, come norme costituzionali, i Patti lateranensi, allora accettate una delle opportune formule transattive proposte.

Voi non l’accettate; perché sapete che la vostra formula ha valore maggiore e diverso. Trattato e Concordato, secondo me, con questa formula vengono inclusi nella Costituzione.

Dice l’onorevole Mortati che non è vero.

Allora, scusate, perché, se non è vero, non consentite alla formula più chiara, che non lascia dubbi, che non consente equivoci?

Se la vostra intenzione non è quella che io vi attribuisco, allora è facile trovare una locuzione che dimostri che non si vuole inserire nella Costituzione i Patti lateranensi.

L’articolo 5 – o 7 – importa dunque l’inserzione del Trattato e del Concordato nella Costituzione, con tutte le conseguenze; a cominciare dall’articolo 1 del Trattato il quale richiama il principio dello Statuto albertino che «la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato».

L’articolo 1 dello Statuto aveva avuto una lunga evoluzione perché, mentre in realtà affermava il principio dello Stato confessionale, attraverso la formazione delle varie leggi successive, considerata quella Costituzione flessibile e quindi modificabile da leggi posteriori senza bisogno di variazione costituzionale, un po’ alla volta era stato eroso, era stato cambiato, aveva perso il significato primitivo.

L’articolo 1 aveva subìto un processo di demolizione, che è stato descritto da molti giuristi, e che aveva portato all’abrogazione, alla non influenza nella legislazione positiva del principio in esso consacrato. Parlo di principio, non di norma, perché ricordo che lo Jemolo ha sostenuto che l’articolo 1 dello Statuto non conteneva una vera e propria norma giuridica, e quindi non era possibile parlare né di abrogazione, né di desuetudine. Ma il principio era stato successivamente modificato e trasformato, tanto che i giuristi si domandavano quale era ormai il carattere dello Stato italiano che non era più Stato confessionale; ed ecco poi il Ruffini parlare di «giurisdizionalismo separatista», e lo Schiappoli parlare di «separatismo giurisdizionalista» con un’accentuazione della parola separatismo precedente a giurisdizionale; ed ecco altri ancora parlare di «nuovo giurisdizionalismo italiano», non nel senso del vecchio giurisdizionalismo, ma secondo un principio diverso e più accettabile da parte di tutti.

Insomma questo articolo 1 dello Statuto si era progressivamente trasformato e annullato, fino al Trattato Lateranense. Perché nel Trattato, riaffermandosi che la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato, si creò lo Stato confessionale, si volle creare lo Stato confessionale. Non lo dico io, lo dice il Concordato, poi lo dicono tutti.

Don Luigi Sturzo ha scritto un libro L’église et l’état, che è stato pubblicato in francese, tradotto dal manoscritto inedito italiano. Perciò non ha avuto in Italia – anche perché è un’edizione non troppo facile a trovare – quella diffusione che meritava, perché è un libro notevolissimo dal punto di vista storico, giuridico e politico.

In questo libro, a un certo punto, parlandosi della Conciliazione e delle sue conseguenze, Don Luigi Sturzo dice: «Il Vaticano si sforzò di dare allo Stato italiano l’impronta cattolica per assicurarsi che la religione cattolica sarebbe effettivamente, e non solo di nome, religione dello Stato. Tuttavia, se i termini del Concordato sono, prima di tutto, di carattere confessionale, lo spirito dello Stato fascista non è rimasto alterato, e il suo capo ha tentato con astuzia e con audacia di screditare questo confessionalismo che la stampa del mondo intero vantava, esaltando il nuovo Costantino che aveva dato la pace alla Chiesa».

E infatti quando Mussolini, con uno di quei tratti da giocoliere che gli erano propri, si accorse di una certa insurrezione che si manifestava da molte parti per le conseguenze dei Patti Lateranensi e per la creazione dello Stato confessionale, non si limitò a far scrivere quel libro di Morello (Rastignac) Il dissidio dopo la Conciliazione che tutti si sono meravigliati sia stato pubblicato in quel momento – e la pubblicazione non si spiega se non considerando che la pubblicazione fosse gradita a chi poteva proibirla – ma in due discorsi successivi al Parlamento, ha cercato di togliere con una mano quello che aveva dato con l’altra. Ha cercato – quanto meno – di non accentuare il confessionalismo dello Stato. Ma quello che c’era nel Concordato non poteva più toglierlo: ed era abbastanza, ed era troppo.

Senonché Papa Pio XI rispose immediatamente, punto per punto, in quella lettera al cardinale Gasparri, a cui ho prima fatto ricorso perché costituisce un documento di singolarissima importanza per spiegare la portata del Trattato. Io vi leggerò qualche cosa che l’onorevole Calamandrei non vi ha letto. Dice il Papa: «Culti tollerati, permessi, ammessi: non saremo noi a far questione di parole; la questione viene del resto non inelegantemente risolta, distinguendo fra il testo statutario e il testo puramente legislativo; quello per se stesso più teorico e dottrinale e dove sta meglio «tollerati»; questo inteso alla pratica e dove può stare anche «permessi» e «ammessi», purché però sia e rimanga chiaramente e lealmente inteso che la religione cattolica è, e solo essa, secondo lo Statuto e i Trattati, la religione dello Stato, con le logiche e giuridiche conseguenze di una tale situazione di diritto costitutivo, segnatamente in ordine alla propaganda…

«Più delicata questione ci si presenta quando, con tanta insistenza, si parla di non menomata libertà di coscienza e di piena libertà di discussione. Non è possibile che siasi inteso libertà assoluta di discussione, comprese cioè quelle forme di discussione che possono facilmente ingannare la buona fede di lettori poco illuminati e che facilmente diventano invece simulate forme di una propaganda non meno facilmente dannosa alla religione dello Stato e, per ciò stesso, anche allo Stato, e proprio in quello che ha di più sicuro la tradizione del popolo italiano e di essenziale la sua unità».

E segue quello che ha già letto l’onorevole Calamandrei e che conviene ripetere: «Anche meno ammissibile poi ci sembra che si sia inteso di assicurare intatta, assoluta libertà di coscienza; tanto varrebbe allora dire che la creatura non è soggetta al creatore, tanto varrebbe legittimare ogni formazione, o piuttosto deformazione delle coscienze anche le più criminose e socialmente disastrose. Se si vuol dire che la coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende di riconoscere, come si riconosce, che, in fatto di coscienza, competente è la Chiesa, ed essa sola, in forza del mandato divino, viene, per ciò stesso riconosciuto che in uno Stato cattolico la libertà di coscienza e di discussione debbono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica».

Questa è l’interpretazione che un’altissima autorità, quella di Pio XI, ha dato al Trattato, e ha dato con meditata parola, con altezza di pensiero, secondo il suo punto di vista e secondo quella che è la sua posizione di Papa, di capo della Religione cattolica, di rappresentante della Divinità in terra.

Trattato dunque che forma in Italia uno Stato confessionale, con tutte le conseguenze. Non vi è dubbio. E il Concordato infatti risponde appieno a questa premessa.

Anche se, in fatto, la legge fascista parla di culti «ammessi» e non «tollerati» – e ciò si deve indubbiamente considerare come un progresso, – è anche vero però che la parola «ammessi» significa ancor essa una condizione deteriore. Perché, insomma, la «religione dello Stato» porta come conseguenza che una religione ha posizione preminente sulle altre; che vi è una religione che sta al di sopra e le altre che si trovano in una posizione deteriore e subordinata. È tutto il travaglio del secolo XIX, questo. Ma in materia di libertà di coscienza e di religione, ha il diritto la maggioranza – qualunque essa sia – di imporre alla minoranza il proprio volere? Ha il diritto di permeare lo Stato della propria idea religiosa, anche se è l’idea della quasi totalità dei cittadini, siano o no in realtà praticanti? Questo è il punto. Se si ammette che la libertà di coscienza e di religione va intesa nel senso che questo diritto, da parte della maggioranza, qualunque essa sia, non c’è, allora il principio dell’uguaglianza, della parità delle varie religioni, è assoluto. E non vi può essere una legge dello Stato che crea ad un culto una posizione superiore, di fronte ad una posizione deteriore degli altri culti. Questo è il nostro principio, questa è la nostra affermazione.

Religione dello Stato vuol dire – e lo ha dimostrato lo Jemolo nelle sue lezioni del 1945-46 – appunto che una religione prevale, che non vi è parità per le religioni, e con ciò vien violata nella sua essenza la libertà di religione e di coscienza. Da noi le religioni non sono in condizioni di parità: i culti ammessi sono in una posizione inferiore. La legge sui culti ammessi ha un principio all’articolo 1 che sembrerebbe tale da garantire la libertà di coscienza e di religione: «Sono ammessi nel Regno culti diversi dalla religione cattolica apostolica romana, purché non professino principî e non seguano riti contrari all’ordine pubblico e al buon costume. L’esercizio anche pubblico di tali culti è permesso». Però, quale applicazione è stata fatta di questa legge fascista in concreto? La giurisprudenza delle nostre Corti giudiziarie non è un monumento di spirito liberale in questa materia. Del resto la storia della giurisprudenza è raccontata in quel volumetto del consigliere di Cassazione Piacentini, Nel decennale dei culti ammessi, che va letto e meditato. Una sentenza della Corte di appello di Roma dice che, poiché vi è una religione dello Stato, la quale ha una posizione superiore alle altre, non è permessa la propaganda del culto evangelico.

E, per esempio, io ho narrato anche altrove, e non vorrei ripetermi – ma forse vale la pena di farlo – che quando recentemente una Chiesa Valdese di Livorno invocò la legge che autorizza la ricostruzione delle chiese demolite dai bombardamenti a cura dello Stato, il Provveditorato alle opere pubbliche della Toscana rispose: «No, badate, quella legge riguarda soltanto le Chiese cattoliche, non le chiese valdesi».

BUONOCORE. E diceva bene.

CEVOLOTTO. E poteva dir bene, ma è appunto perché diceva bene che, secondo noi, diceva male, nel senso che non avrebbe dovuto essere così.

BUONOCORE. Le altre non sono chiese. (Commenti).

CEVOLOTTO. L’articolo 406 del Codice penale è già stato citato: pene minori per chi offende i culti ammessi in confronto delle pene stabilite per chi offende la religione dello Stato.

Ma il Concordato non è di per se stesso l’applicazione del principio di uno Stato confessionale?

Voi ricorderete quanto ha detto l’onorevole Condorelli sull’articolo 5: egli è stato l’unico oratore – al di là degli stessi democristiani – che ha difeso l’articolo 5. Ricorderete che egli disse: ma voi mandereste i vostri figliuoli a scuola da uno scomunicato?

Ora, nemmeno io ho mai avuto simpatia per i preti spretati, quando sono spretati per ragioni di indegnità; ma che cosa ha da fare questo con l’intima tragedia di un altissimo spirito, quale è stato Roberto Ardigò, col tormento di una vita purissima, che ha dovuto rinunciare alla fede – che era forse la sua speranza – per ragione del suo pensiero? E voi vorreste, ad un uomo di questa altezza, negare la cattedra che tanto degnamente ha tenuto e ha onorato? E non voglio parlare di altri; ma poiché l’articolo 5 si riferiva anche a casi contingenti, quando Mussolini, con uno di quei tratti da giocoliere che erano nel suo metodo, cercò di togliere anche qui ciò che aveva dato, e di sostenere che l’articolo 5 non aveva effetto retroattivo, Papa Pio XI gli rispose che per la sostanza di una vera ed effettiva forza retroattiva stavano lo spirito e la lettera degli articoli, stavano le reali e documentate discussioni svoltesi nel corso delle trattative. E Mussolini dovette togliere la cattedra a Ernesto Buonaiuti.

Per quanto riguarda l’articolo 36, esso dice che l’Italia considera fondamento e coronamento della istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica.

Qui non è questione dell’insegnamento catechistico nelle scuole; qui è questione di informare tutta l’istruzione pubblica al principio della religione cattolica, è questione di dare un tono a tutta l’istruzione pubblica impartita nelle scuole dallo Stato. É quindi questione di libertà e di parità, perché così un genitore protestante non può non mandare i suoi figli ad una scuola nella quale l’insegnamento non sia informato ai principî della religione cattolica; un genitore ebreo non può non mandare il figlio ad una scuola diversa dalla sua dottrina. La scuola deve essere neutra – secondo la nostra concezione – per rispetto alla libertà di tutti i cittadini. Anche qui, se ci fossero stati dubbi, si sono venuti subito chiarendo. Al primo tentativo di sostenere che la scuola dovesse restare quella che era rispose immediatamente Pio XI parlando agli allievi del collegio di Mondragone, e disse: «La facoltà dell’educazione spetta anzitutto al padre e alla madre, e spetta loro in maniera inderogabile, ineluttabile e insurrogabile. Lo Stato, poi, non può e non deve disinteressarsi dell’educazione dei cittadini, ma soltanto per porgere aiuto in tutto ciò che la famiglia non potrebbe darsi da sé. Lo Stato non può disinteressarsi della educazione ed è necessario che esso possa aiutare, perfezionare l’azione della famiglia, per corrispondere pienamente ai desideri del padre e della madre, per rispettare soprattutto il diritto divino della Chiesa. In certo modo si può dire che esso è chiamato a completare l’opera della famiglia e della Chiesa».

Le stesse cose ripeteva – con maggior rigore – nella lettera al Cardinal Gasparri: «Deve ancora necessariamente essere riconosciuto che il mandato educativo non spetta allo Stato, ma alla Chiesa, e che lo Stato non può impedire o menomare l’esercizio di tale mandato educativo che deve ispirarsi al tassativo insegnamento della verità religiosa». Non si tratta del solo catechismo; tutta l’istruzione deve essere improntata alle direttive della Chiesa cattolica. Questa è la portata dell’articolo 36.

Il matrimonio. Qui non è soltanto questione di ricezione dell’istituto del matrimonio cattolico nel diritto civile italiano; vi è qualche cosa di più; vi è una rinuncia da parte dello Stato ad una delle sue più gelose prerogative, la giurisdizione, il potere e dovere di rendere giustizia. L’articolo 34 recita: «Lo Stato italiano, volendo ridonare all’istituto del matrimonio, che è base della famiglia, dignità conforme alle tradizioni cattoliche del suo popolo, riconosce al sacramento del matrimonio, disciplinato dal diritto canonico, gli effetti civili». Dunque, il matrimonio regolato dal Codice civile cede al matrimonio canonico; il diritto del matrimonio è il diritto canonico. Da questo sono regolati i casi di nullità. Nullità non è una parola esatta, perché nel diritto della Chiesa non vi è propriamente il concetto di nullità del matrimonio, vi è semplicemente il fatto se si è perfezionato o no il sacramento e quindi il vincolo. Il riconoscimento, quindi, se il vincolo si è formato o no, salvo la dispensa dal matrimonio rato e non consumato, che è un’altra cosa e che non ha niente a che fare con la nullità o inesistenza del matrimonio per impotenza che esiste sia nel matrimonio canonico che nel matrimonio civile, ma con diversa concezione, perché nel matrimonio civile si ha riguardo all’impotenza coeundi, mentre nel matrimonio religioso si ha riguardo all’incapacità assoluta, non nel senso di mancata funzione degli organi atti alla consumazione del matrimonio, ma della mancata funzione degli organi che presiedono alla procreazione (ad esempio, la mancanza delle glandole seminali), che può portare alla carenza del vincolo per mancanza di un fine primario delle nozze quale quello di avere la prole.

Quindi diversità anche di struttura, che allarga i casi di inesistenza del matrimonio.

Poi rinuncia da parte dello Stato alla giurisdizione sul matrimonio. E questo è grave.

Le cause concernenti la nullità o inesistenza del matrimonio, nonché la dispensa dal matrimonio rato e non consumato sono riservate alla competenza degli organi giurisdizionali ecclesiastici; quindi lo Stato non ha più giurisdizione sul matrimonio celebrato col rito cattolico.

E questo è confermato dall’ultimo capoverso dell’articolo 34 che ha grande significato: «Quanto alle cause di separazione personale, la Santa Sede consente che siano giudicate dall’autorità giudiziaria civile». Se lo Stato italiano, con i suoi tribunali, può pronunciare la separazione legale dei coniugi è per benigna concessione della Chiesa cattolica.

Prendete questo articolo 34, con la rinuncia così grave, e confrontatelo con la legge sui culti ammessi:

«Il matrimonio celebrato davanti a qualunque ministro di uno dei culti indicati nel precedente articolo 3 produce dal giorno della celebrazione gli stessi effetti del matrimonio celebrato davanti all’ufficiale dello stato civile quando siano osservate le disposizioni degli articoli seguenti». Per questi casi il matrimonio è il matrimonio del diritto civile, per questi, le cause di nullità sono quelle del Codice civile, per questi, chi giudica della nullità è il giudice dello Stato italiano. Il matrimonio religioso ha valore per la coscienza e per la fede, ma quello che vale per lo Stato è il matrimonio civile che assieme con quel matrimonio religioso si è celebrato. Ecco quindi che se, per esempio, vi è un diritto, anch’esso primario, anch’esso originario, multimillenario, come la legge ebraica, la quale ammette il ripudio e quindi praticamente il divorzio, i cittadini ebrei che hanno celebrato il matrimonio ebraico, non hanno però la possibilità di far valere questa loro legge, perché il loro matrimonio è regolato dal Codice civile. Evidente riesce la disparità di trattamento, come conseguenza dello Stato confessionale. E potrei continuare. L’amico onorevole Jacini dice: Ma, vi sono delle disposizioni del Concordato che appariscono sfavorevoli per la Chiesa, eppure noi le accettiamo; nessuno domanda che vengano modificate. Egli cita, per esempio, la disposizione che proibisce agli ecclesiastici di appartenere a partiti politici.

Ma forse l’amico Jacini non è stato del tutto esattissimo, perché l’articolo 43, ultimo capoverso, dice: «La Santa Sede prende occasione della stipulazione del presente Concordato – osservate: non stipula, non conviene, ma prende occasione, per suo conto – per rinnovare a tutti gli ecclesiastici e religiosi d’Italia il divieto di iscriversi (e non soltanto di iscriversi) e «militare» in qualsiasi partito politico».

La Chiesa, nella sua sapienza, ha voluto e creduto di confermare anche nel Concordato, come proprio ordine spontaneo, che i suoi religiosi sono da lei obbligati a non iscriversi e a non militare in partiti politici.

Che poi prelati alti e bassi, vescovi o parroci, in occasione delle recenti lotte elettorali, non abbiano tenuto conto, né del comando, e neanche della riaffermazione del comando nel Concordato, questa è un’altra materia ed è faccenda di pratica politica quotidiana, che non interessa in questo dibattito.

Inserendo nella Costituzione questo Trattato e questo Concordato, noi riaffermiamo il carattere confessionale dello Stato con tutte le sue conseguenze. Viene in acconcio di sottolineare quello che diceva l’onorevole Mortati, il quale, facendo un’osservazione piena di spirito, osservava: «Se la democrazia cristiana insiste per l’esplicita menzione del Patto, ciò deriva dalla equivocità di contegno di molti avversari, che mentre da un lato affermano che non intendono procedere alla denuncia di esso, dall’altro insorgono contro simili clausole da essi ritenute inaccettabili. Se la riserva si riferisce al proposito di promuovere intese che dovranno giungere al riconoscimento consensuale di tali clausole, allora la nostra posizione non si differenzia da quella degli avversari; se poi invece essi celano il proposito di fare a meno degli Accordi, servono a giustificare la nostra insistenza nel richiedere quelle precisazioni, affinché in avvenire non si faccia a chiara lettera oscura glossa».

Egli però lealmente confessa che dal suo punto di vista, anche l’inserzione di una formula come quella proposta dall’onorevole Togliatti – patti concordatari – sarebbe garanzia sufficiente.

Però domanda a noi delle spiegazioni: Voi dite che non avete intenzione di attaccare il Trattato e il Concordato; ma d’altra parte insorgete e criticate sia il Trattato che il Concordato. Dove volete andare a finire? Dove mirate? Noi rispondiamo con la più assoluta franchezza: Noi siamo positivi, viviamo nella realtà, non abbiamo intenzione di fare quello che forse in questo momento non si potrebbe fare, ma che in ogni caso non sarebbe politicamente opportuno né di fare né di tentare. Noi additiamo i difetti del Concordato e i difetti del Trattato. Diciamo che vi sono, specialmente nel Concordato, patti che secondo noi vanno modificati, ma non intendiamo con questo di affermare che sia proprio urgente di promuovere una revisione del Concordato, e soprattutto non abbiamo nessuna intenzione di assumere un atteggiamento che possa comunque significare volontà unilaterale di modifiche senza l’accordo con l’altra parte. Non vogliamo però rendere impossibili queste trattative, questi accordi, e nemmeno renderli più difficili.

Ora, voi capite che la modifica di alcuni di questi patti sarà inevitabilmente un processo di discussioni, di accordi, di comprensione reciproca. Arrivo a dire che molte cose si potranno modificare senza bisogno di toccare esplicitamente il Trattato e il Concordato. Su molti casi singoli saranno possibili delle intese anche senza alterare la lettera del Trattato e del Concordato. Già basta non inserire il Trattato e il Concordato nella Costituzione, perché anche l’articolo 1 del Trattato abbia una consistenza ed una portata come principio, completamente diverse. Basta non inserire questo articolo 1 nella Costituzione perché si possa poi, non dirò resistere, perché non sarà il caso, ma non subire neanche la sollecitazione dall’altra parte di spingere la legislazione italiana nel senso confessionale. Vi è un articolo del Concordato – l’articolo 29 – che dice a questo proposito: «Lo Stato italiano rivedrà la sua legislazione in quanto interessa la materia ecclesiastica, al fine di riformarla ed integrarla per metterla in armonia con le direttive alle quali si ispira il Trattato stipulato con la Santa Sede e il presente Concordato». Segue una elencazione esemplificativa, la quale sembra confermare che si tratta della legislazione che interessa la materia ecclesiastica. Ma voi capite che «in quanto interessa la materia ecclesiastica» è termine un po’ vago. Per esempio, il matrimonio interessa la materia ecclesiastica? Certamente la Chiesa risponderà di sì: è un sacramento. Se i Patti Lateranensi non vengono a far parte della Costituzione, non diventano leggi costituzionali, su molti punti, anche senza bisogno di ricorrere a denunce che nessuno vuole, saranno possibili le intese. Ma non possiamo togliere allo Stato la facoltà di trattare senza trovarsi di fronte ad una norma che dice: se non raggiungete l’accordo nessuna modificazione è lecita. La Chiesa ben potrebbe irrigidirsi in una posizione assoluta, dicendo: voi nella Costituzione avete riaffermato il carattere confessionale dello Stato, voi avete riconosciuto che il Trattato ed il Concordato non si modificano che d’accordo con me. Io non mi muovo, e non consento modificazione alcuna.

Questo pericolo noi dobbiamo evitare, non altro. Non vogliamo rinnovare lotte che sono ormai fuori del nostro tempo. L’onorevole Nenni diceva: Mi preme di più una qualunque riforma nel campo agrario, economico o sociale che non tutte queste formule costituzionali.

Ed io dico: Nenni può avere ragione, ma badate – e questa è la mia conclusione, perché non vorrei abusare troppo del tempo che mi concede il Presidente – badate che andiamo incontro a un grave pericolo. Se voi inserite nella Carta costituzionale il Trattato, voi ponete le basi della prossima lotta, non dirò di religione, che non c’è mai stata in Italia, ma della prossima lotta clericale e anticlericale. Voi, creando uno Stato confessionale, fate del clericalismo; sorgerà l’anticlericalismo dall’altra parte, inevitabilmente, con tutte le deformazioni, anche le peggiori, anche quelle che noi non vorremmo mai perché ci ripugnano. Ci sarà di nuovo non una guerra di religione – la religione è sempre stata assolutamente libera in Italia anche nei tempi del più accesso anticlericalismo, anche quando la Chiesa combatteva l’unità d’Italia e la Santa Sede combatteva lo Stato italiano – ma ci sarà di nuovo la lotta contro la Chiesa politica da parte dei nuovi anticlericali e la responsabilità ricadrà tutta su di voi. Se voi volete creare uno Stato confessionale, voi andate incontro a questo pericolo. Noi ve lo additiamo e vi diciamo: cercate di superare questa posizione che, anche per voi, è una posizione sorpassata. Non insistete in formule che non hanno ragione di essere. Parlare di «pace religiosa» è un non senso, da noi, dove guerra religiosa non c’è stata mai.

Mussolini accettò il Concordato, così gravoso per lo Stato italiano, perché voleva arrivare a qualunque costo alla conciliazione. Quando Vittorio Emanuele Orlando trattò col Cardinale Cerretti, si pensò anche allora di costituire lo Stato della Città del Vaticano, ma non si parlò di Concordato. Il Concordato sarebbe venuto dopo e sarebbe venuto in altre condizioni e la Chiesa non avrebbe osato chiedere a Orlando quello che ha preteso da Mussolini, perché sapeva che a tutto si sarebbe adattato.

Non insistete in Patti che sono stati conclusi in una posizione specialissima, da un Governo che non rappresentava l’Italia e che voleva raggiungere il suo scopo al di fuori di quella che era la situazione politica reale anche contro gli interessi supremi dello Stato. Malgrado questo si è raggiunta felicemente la soluzione della questione romana, e ben sia; è una liberazione per tutti; ma non create al posto di quella questione, un’altra questione che potrebbe ancora dividere l’Italia. (Applausi a sinistra).

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Dossetti. Ne ha facoltà.

DOSSETTI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, mentre mi accingo al grave compito di concludere questo importante dibattito intorno ai l’articolo 5 del progetto di Costituzione, mi torna alla mente una frase di Disraeli che l’onorevole Presidente della Commissione dei 75 ci ha di frequente ricordata durante i nostri lavori. A proposito della efficacia delle discussioni parlamentari, disse un giorno Disraeli che durante la sua carriera politica aveva ascoltato infiniti discorsi, che pochissimi gli avevano fatto cambiare opinione, che nessuno gli aveva fatto modificare il voto. E naturalmente questo ricordo accentua un certo senso di scetticismo e di sfiducia sulla mia possibilità di determinare un mutamento nelle convinzioni e tanto più nelle deliberazioni dei colleghi che hanno criticato l’articolo 5.

D’altra parte il mio compito è, in qualche modo, facilitato dal fatto che io – per rispondere alle obiezioni tecniche e politiche sollevate durante questo dibattito – non ho da costruire un complesso edificio logico, ma posso limitarmi a un mezzo molto più semplice, direi quasi banale: limitarmi, cioè, a propalare un segreto, che gli spiriti magni del diritto, intervenuti in questa discussione – l’onorevole Orlando, l’onorevole Calamandrei e gli altri che con tanta scienza e abilità hanno attaccato l’articolo – vi hanno tenuto gelosamente nascosto.

Essi ci hanno fatto intravedere dei delicati strumenti giuridici e ci hanno detto che tali strumenti non consentono di approvare l’articolo 5, senza contraddire al carattere costituzionale delle norme che stiamo elaborando e senza, soprattutto, menomare la sovranità dello Stato.

E vi hanno detto, in certo modo, la verità; ma non tutta. Vi hanno detto la verità quanto agli strumenti che vi hanno mostrato: perché, è esatto, nessuno di essi consente l’approvazione dell’articolo 5. Ma non vi hanno detto che gli strumenti, di cui vi hanno fatto parola, sono vecchi e ormai da tempo superati e che essi, i grandi Maestri, sono appunto grandi perché nel segreto dei loro laboratori hanno saputo costruire e perfezionare altri strumenti, molto più recenti e raffinati, i quali ci permettono di compiere la delicata operazione che con gli altri non appare possibile.

Ma, per poterli impiegare efficacemente, occorre, anzitutto, usare una cautela che, invece, non è stata rispettata dall’ultimo oratore che mi ha preceduto, l’onorevole Cevolotto: cioè occorre mantenere distinti, nell’esame e nella trattazione, i vari principî affermati nell’articolo 5. L’onorevole Cevolotto ha troppo di frequente intrecciata la considerazione del primo comma con quella del secondo comma. Il primo riguarda la qualificazione delle due società, lo Stato e la Chiesa, ciascuna considerata in se stessa, cioè riguarda, diciamo, la considerazione, al di fuori di ogni contatto, statica; il secondo riguarda essenzialmente i loro rapporti e quindi la loro considerazione dinamica. Ora, non si può fare – e lo dimostrerò fra breve – una confusione tra i due aspetti e una trattazione contemporanea dei due argomenti.

Noi dobbiamo, dunque, distinguere rigorosamente i diversi principî affermati nell’articolo 5.

Il primo principio è quello contenuto nel primo comma: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Sapete già, da quanto ha detto l’onorevole Cevolotto, come sia nato questo comma. Esso è nato da una mia proposta che tendeva ad una affermazione più rigorosamente tecnica: «Lo Stato riconosce… come originari l’ordinamento giuridico internazionale, gli ordinamenti degli altri Stati e l’ordinamento della Chiesa».

Parve a qualcuno che questa affermazione avesse un suono un po’ troppo barbaramente tecnico ed insolito, ed allora si passò, soprattutto su iniziativa dell’onorevole Togliatti, alla formula attuale, meno tecnica ma di più evidente significato giuridico-politico. Però la espressione adottata ha lo stesso preciso significato della formula iniziale e alla luce di questa deve essere interpretata. Infatti, che cosa vuole dire riconoscimento dell’originarietà dell’ordinamento giuridico della Chiesa cattolica, se non appunto riconoscimento della indipendenza e sovranità della Chiesa stessa? E che cosa significa indipendenza della Chiesa (non nel senso incerto e nebuloso, accennato dall’onorevole Cevolotto, di una indipendenza che non si sa se sia esterna o interna allo Stato, ma indipendenza che è sovranità) se non appunto affermazione dell’originarietà dell’ordinamento canonico?

Le due formule sono di sicuro equivalenti. Per convincersene basta richiamare quella distinzione tra ordinamenti originari e ordinamenti derivati, che la reticenza un po’ gelosa ed egoista dell’onorevole Orlando e dell’onorevole Calamandrei non ci ha chiarito.

L’onorevole Calamandrei è stato il primo, mi pare, a parlarci di pluralità degli ordinamenti giuridici; e su questa pluralità è tornato l’onorevole Orlando e poi da ultimo l’onorevole Cevolotto, il quale ha anche fatto un fugacissimo cenno agli ordinamenti originari. Ma nessuno di essi, mi sembra, ci ha dato con deliberata precisione e nettezza il concetto di ordinamento originario: concetto che pure è uno di quei tali strumenti fondamentali usati in questo ambito misterioso della tecnica giuridica, di cui abbiamo sentito qui dire bene e dire male, ma che, in sostanza, è la piattaforma su cui per questi nostri problemi ci dobbiamo muovere.

Ordinamento originario è ogni ordinamento che non deriva la propria giustificazione e il proprio fondamento da altro: così che, si noti bene, la sua giuridicità, cioè la norma prima che sta alla sua base, si confonde con l’esistenza storica della società, di cui l’ordinamento è la veste giuridica.

Ordinamento derivato, invece, è ogni ordinamento che desume – deriva – la sua giuridicità, cioè la sua qualità di ordinamento giuridico, da un ordinamento superiore: ossia è tale che la sua norma fondamentale non si confonde con l’esistenza storica della società, ma si collega a un ordinamento superiore. Per esempio, quando l’articolo 107 del nostro progetto di Costituzione ci dice che lo Stato italiano si riparte in regioni e comuni, pone precisamente la norma fondamentale dei singoli ordinamenti, derivati, regionali e comunali.

A questa prima distinzione, dobbiamo farne seguire una seconda: tra ordinamenti originari che sono ordinamenti statuali e ordinamenti originari che non sono statuali.

Se, certo, l’ordinamento dello Stato è originario, ed è anzi la forma tipica, immediatamente evidente e per molto tempo ritenuta la sola, di ordinamento originario, è oggi ormai pacifico che vi possono essere ordinamenti giuridici originari che non sono statuali.

Orbene, per ammissione oggi comune, l’ordinamento della Chiesa Cattolica è un ordinamento originario. Cioè la dottrina giuspubblicistica ed ecclesiasticistica moderna è oggi unanime nel riconoscere che la Chiesa cattolica (noti bene l’onorevole Crispo, non la Città del Vaticano, che è il nucleo territoriale in cui hanno sede gli organi centrali della Chiesa, ma la Chiesa cattolica in quanto società universale e spirituale) ha una sfera propria in cui essa opera per la prosecuzione dei suoi fini spirituali e religiosi; una sua autosufficienza di mezzi e di strutture organizzative; una sua consolidazione storica; e perciò una propria giustificazione come ordinamento giuridico, che non deriva da nessun altro.

Ma quando si dice questo, quando cioè si dice che, anche indipendentemente dalla istituzione per me, cattolico, divina, che ha dato origine alla Chiesa, questa ha una consolidazione storico-giuridica che le consente di affermarsi come ordinamento originario, allora si dice appunto che la Chiesa cattolica ha una sua autonomia, che non è autonomia derivata come quella che noi ci apprestiamo a riconoscere alle regioni e ai comuni, ma è autonomia primaria, cioè vera indipendenza e sovranità.

Qualcuno di voi, o onorevoli colleghi, in merito a questa sovranità ha richiamato l’opinione di giuristi della «Civiltà Cattolica»: l’opinione del padre Lener, per esempio; ma tale richiamo non viene, in sostanza, a modificare il significato e la portata dell’originarietà dell’ordinamento canonico e della sovranità ad essa correlativa. Il concetto fondamentale rimane sempre questo: che di fronte all’originarietà dell’ordinamento statale e di fronte alla sovranità dello Stato, che si esplica essenzialmente come sovranità temporale, politica, territoriale, c’è invece una originarietà dell’ordinamento della Chiesa cattolica, cui compete una sovranità essenzialmente non temporale e non territoriale. Se ieri l’onorevole Calamandrei ci richiamava una frase del padre Lener che, avulsa dal contesto, poteva parere di significare in parte qualche cosa di diverso, tale frase voleva dire semplicemente che la sovranità della Chiesa, se non è temporale e territoriale, non è però fuori del tempo e dello spazio, proiettata solo nell’eternità e, se ha per oggetto proprio il mondo dello spirito e delle coscienze, non è per questo meno propriamente e concretamente sovranità in senso giuridico.

Ora questi concetti, che ho qui sommariamente ripreso, non sono un’escogitazione dei giuristi della «Civiltà Cattolica», ma sono un’opinione corrente tra i giuspubblicisti contemporanei. Anzi (poiché questo nome tanto autorevole e tanto meritevole di essere ricordato nel presente dibattito costituzionale, è già stato qui più volte citato), è stato appunto Francesco Ruffini, se non il primissimo, certo uno tra i primi ad affermare e diffondere il concetto della originarietà dell’ordinamento canonico. Oltre alle opere che tutti conoscete – e in particolare quei Diritti di libertà che sono stati più volte ricordati in questa aula – c’è un’altra opera di Francesco Ruffini, scarsamente nota, perché si tratta di un corso universitario, di cui son rimaste superstiti pochissime copie: Le Questioni di diritto ecclesiastico svolte nell’università di Torino, nell’anno accademico 1911-12. Ebbene, questo corso è in buona parte dedicato precisamente alla dimostrazione dell’autonomia della Chiesa cattolica, come autonomia primaria ed originaria. Da allora ad oggi tutta la dottrina giuspubblicistica italiana si è consolidata intorno a questi concetti.

Tutti i nostri maestri di diritto ecclesiastico, cattolici e non cattolici, cristiani e non cristiani (compreso fra questi Mario Falco, al cui nome, già qui da altri richiamato, ritorna il mio reverente ricordo) ci insegnano la stessa cosa.

Dunque, se si fossero applicati questi insegnamenti, si sarebbero molto facilmente superate le obiezioni sollevate contro il primo comma dell’articolo 5.

Si sarebbe superata l’obiezione dell’onorevole Orlando, il quale ci ha detto che la esplicita dichiarazione della sovranità della Chiesa è per lo meno superflua, dal momento che si ammette il principio della pluralità degli ordinamenti giuridici. Ma non basta, onorevole Orlando e onorevole Cevolotto, riconoscere la pluralità degli ordinamenti giuridici: occorre anche riconoscere, ed esplicitamente, che la Chiesa non soltanto è un ordinamento giuridico, ma è un ordinamento giuridico originario, e per ciò è sovrana nella sfera che le è propria.

Così si sarebbero superate le obiezioni sollevate dall’onorevole Calamandrei nel suo primo discorso e da lui ripetute e svolte ieri, e soprattutto si sarebbe superato il rilievo che questo primo comma non ci consente di capire se noi ci troviamo di fronte a un monologo dello Stato, cioè a una Costituzione, oppure a un dialogo, cioè a un Trattato. È sì, vero che noi siamo di fronte a una Costituzione; ma anche in questo lo Stato, quando parla di altri ordinamenti originari (siano essi statuali o no) non ne può parlare che come ne parla in un Trattato, cioè con l’affermazione della propria e col riconoscimento dell’altrui originarietà e sovranità.

Con questo, inoltre, cade anche l’altra obiezione – direi quasi piuttosto fiorentinamente scherzosa che obiezione seria – proposta dall’onorevole Calamandrei: ossia perché qui si parli della indipendenza e sovranità della Chiesa e non si parli, invece, di quella, per esempio, della Francia. Il perché è chiaro. Della qualifica di ordinamento giuridico e di ordinamento originario e della sovranità della Francia nessuno dubita; mentre della originarietà dell’ordinamento canonico e quindi della sovranità della Chiesa, oggi, tra i tecnici nessuno dubita… ma vi è qualcuno, fra i politici, che può avere convenienza a dubitare o a fingere di dubitare.

Infine, se l’onorevole Orlando e l’onorevole Calamandrei e gli altri, che qui sono maestri del diritto, non ci avessero defraudato del meglio della loro scienza, non sarebbero accaduti all’onorevole Crispo i varî infortuni che gli sono occorsi. E dire che l’onorevole Crispo del quale a tutti è noto l’acume giuridico e la forza dialettica, non è un laico del diritto, è un chierico. Anche se forse, in questa materia, sembra essersi arrestato agli ordini minori, direi anzi all’esorcistato, per la passione con la quale egli ha tentato di esorcizzare un demone, il demone della superbia temporale della Chiesa. Infatti egli ha finito per confondere cose profondamente differenziate e giacenti su due piani totalmente diversi, cioè: la sovranità di cui parla qui il primo comma dell’articolo 5, cioè la sovranità universale, ma non statuale, bensì del tutto singolare (spirituale e sovratemporale) della Chiesa cattolica; e la sovranità, invece, di cui al Trattato tra l’Italia e la Santa Sede o di cui alle leggi fondamentali dello Stato della Città del Vaticano, sovranità temporale, statale, e specificatamente limitata a un minuscolo territorio.

Concludendo, dunque, l’esame del primo comma dell’articolo 5, possiamo dire:

– da un lato, se qui parliamo di «indipendenza e sovranità della Chiesa cattolica», ne parliamo nel senso proprio e tecnico di cui alla mia proposta iniziale in sede di Sottocommissione, cioè nel senso che riconosce alla Chiesa cattolica la qualità di ordinamento giuridico originario e perciò un’autonomia primaria;

– d’altro lato, se noi, contrariamente ai desideri dell’onorevole Della Seta (che ha proposto il seguente emendamento: «Lo Stato e le singole Chiese sono, ciascuna nel proprio ordine interno, indipendenti e sovrane»), di questa sovranità e autonomia parliamo solo per la Chiesa cattolica e non per le altre Chiese, ciò non è per una ragione di principio, ossia perché neghiamo che qualsiasi altra Chiesa possa conseguire quella indipendenza e autonomia; ma è invece per un inoppugnabile dato storico, cioè per il fatto che sinora solo la Chiesa cattolica, per la universalità della sua diffusione, per l’indipendenza effettiva da qualsiasi Stato, per la completezza dei suoi organi (legislativi, amministrativi e giudiziari) e per la ininterrotta consolidazione storica del suo ordinamento, si presenta come ordinamento originario. Certo, onorevole Cevolotto, anche gli Ebrei hanno un loro ordinamento, una legge che io come cristiano non posso non rispettare e non riconoscere nei suoi precetti fondamentali di origine divina; ma come giurista non posso dire che oggi, di fronte al diritto e alla coscienza giuridica universale, l’ordinamento storicamente originario degli Ebrei sia originario anche in senso tecnico, si ponga cioè con tutta l’esteriorità, la completezza, l’autosufficienza di mezzi e di organizzazione, la consolidazione di una sua sfera di vigore (nel riconoscimento dello Stato e delle nazioni) propria degli ordinamenti giuridici primari e sovrani.

E quanto alle altre Chiese, specie a quelle scaturite dalla Riforma, o non sono ordinamenti originari o addirittura non sono per nulla ordinamenti giuridici. E sapete perché? Non perché noi neghiamo loro il carattere di ordinamento giuridico, ma perché esse lo rifiutano. Voi non potete dimenticare che Martin Lutero, alle mura del castello di Wittenberg, non bruciò soltanto la bolla papale di scomunica, ma bruciò anche il Corpus iuris canonici, qualificandolo come ereticale, antinaturale e anticristiano, affermando, quindi, la pretesa di una irriducibile contradittorietà tra il genuino spiritualismo evangelico e l’organizzazione della Chiesa come società giuridica. Non potete, non possiamo, dimenticare che, per lo spirito della Riforma, la Chiesa non può risultare anche di un ordinamento giuridico che leghi i fedeli; ma solo del vincolo interiore della comunanza di fede e di carità nei cuori. Non possiamo, insomma, dimenticare come tutte le Chiese che si riconducono allo spirito della Riforma si negano, e vantano di negarsi, come ordinamenti giuridici.

Passiamo ora al secondo principio, posto dall’articolo 5 del progetto, e precisamente presupposto (più che letteralmente affermato) nel secondo comma: il principio, cioè, che se la Chiesa e lo Stato sono entrambi ordinamenti originari esterni l’uno all’altro, indipendenti e sovrani, nel senso che ciascuno ripete la propria norma fondamentale da se stesso e dalla propria consolidazione storica e non dall’altro, allora i rapporti tra questi ordinamenti non possono essere regolati se non da una disciplina bilateralmente convenuta.

Anche a questo proposito, amici e colleghi (permettete e scusate se io ho confidenzialmente adoperato questo vocativo, perché mi pare che questo dibattito, avviandosi alla fine, ci abbia veramente resi, al di sopra delle nostre divergenze, più interamente amici e più intimamente capaci di intenderci l’un l’altro), mi sembra, dicevo, che anche a questo proposito noi dobbiamo prendere atto di una importante novità, che non ci è stata comunicata dai precedenti illustri oratori e che è da troppi ignorata: il problema dei rapporti fra Stato e Chiesa è un problema che da parecchi anni non si pone più nei termini filosofico-politici del passato e secondo le dibattute contrapposizioni ideologiche di laicismo o laicità e di confessionismo o confessionalità dello Stato. Troppi di noi non considerano che queste sono ormai larve del passato e che al loro posto, al posto della genericità delle vecchie dispute cui esse davano luogo, si è sostituito ora li rigore dimostrativo di precise formule giuridiche e, se mai, alcuni dei più raffinati concetti della moderna teoria generale del diritto.

Perciò, onorevoli colleghi, non aspettatevi che io resti legato, come a impostazione necessaria e fondamentale, al dilemma laicismo o confessionismo, che ha formato, nei giorni scorsi, la croce e la delizia di tanti di voi.

Quando io ne sento discorrere, provo un senso vago che mi riporta a uno dei miei più lontani ricordi infantili: al giorno in cui mia madre mi portò dalla campagna, dove vivevo, in città a trovare mia nonna. E allora, entrato nel «salotto bello» di mia nonna, due cose mi colpirono, due cose che poi hanno per me sempre caratterizzato mia nonna e i suoi tempi: cioè due mazzi vistosissimi di fiori di pezza sotto due campane di vetro e poi un quadro, o meglio una grande oleografia, che rappresentava la Vispa Teresa, che con la vestina volante e i capelli d’oro fluenti sulle spalle rincorreva farfalle.

Ora io mi chiedo: forse che le dispute sulla laicità non sono un po’ come fiori di pezza che hanno conservato i loro vivaci colori sotto campane di vetro? (Applausi al centro).

E quando sento soprattutto l’onorevole Nenni insistere su questo argomento, non so per quale mistero dell’inconscio, mi torna in mente l’oleografia di mia nonna con la Vispa Teresa (Si ride): non credo che si tratti per ragione dei capelli d’oro fluenti – nel caso dell’onorevole Nenni – sarà invece, per ragione delle farfalle.

Quando richiamiamo, per avvalorare la tesi del laicismo, la qualifica di repubblica laica che la Francia si è data nella nuova Costituzione e assumiamo questo come l’esempio dell’estrema modernità e spregiudicatezza, amici e colleghi, commettiamo un errore, un grosso errore. Non teniamo conto che in certo senso la Francia è in questa materia arretrata di una cinquantina d’anni (Commenti), cioè non teniamo conto che il laicismo francese, della legislazione separatista ed eversiva, è incominciato cinquant’anni dopo il laicismo italiano (Interruzioni a sinistra) e non ha ancora subìto quel completo processo di decantazione che invece ha subìto, come voi stessi avete più volte ripetuto, il laicismo italiano. (Applausi al centro). Quanto ai rapporti fra Stato e Chiesa, la Francia oggi può essere considerata, più o meno, in quello stadio che l’onorevole Nitti e l’onorevole Orlando ci hanno descritto per l’Italia negli anni 1917-19, cioè ai prodromi dell’accordo bilaterale, che in Italia si è già potuto conseguire, appunto perché noi abbiamo avute un processo di decantazione storica più avanzato.

Ma veniamo ormai al centro e alla sostanza del problema. La sostanza è questa: il principio prima enunciato dell’autonomia originaria dello Stato e della Chiesa cattolica, implica, per un rigore logico che non consente evasioni, tutta una serie concatenata di conseguenze, che ci porta come sbocco fatale all’altro principio della bilateralità necessaria della disciplina dei rapporti fra le due società. Implica, infatti, anzitutto, distinzione netta e sicura fra Stato e Chiesa e impossibilità di confondere le rispettive autorità, i rispettivi poteri e le rispettive sfere: nessun richiamo ai concetti di laicità e di separazione può assicurare una demarcazione così netta, così precisa come, invece, assicura la formula rigorosamente tecnica del riconoscimento reciproco della originarietà dei due ordinamenti.

Implica, in secondo luogo, parità. L’onorevole Cevolotto ha accennato ora a una tesi canonista di un’assoluta superiorità della Chiesa, e ha richiamato alcune opinioni che porterebbero a far temere una limitazione della sovranità dello Stato. Niente di tutto questo. Entrambe le potestà, per il fatto stesso che si riconoscono come ordinamenti originari e quindi non ripetenti la propria norma fondamentale l’una dall’altra, si vengono a porre – quanto al diritto – su un piano di parità. L’una e l’altra ha un proprio fine che ciascuna persegue autonomamente nel proprio ordine. Nessuna di esse delega o attribuisce poteri all’altra o può, per contro, in qualsiasi modo, diventare strumento dell’altra.

Implica, in terzo luogo, irrilevanza, per l’uno, della maggior parte dei fenomeni e dei rapporti, che formano oggetto diretto e fine proprio dell’altro ordinamento.

Implica, in quarto luogo, inevitabilità, tuttavia, di certi rapporti, in cui i due ordinamenti, aventi per soggetti sempre le stesse persone, hanno entrambi un interesse e che, quindi, divengono rilevanti tanto per lo Stato come per la Chiesa, tanto per la società temporale come per quella spirituale e sovratemporale. Il che basta perché i due ordinamenti debbano venire a contatto (sia pure in questa ristretta linea di confine). I miei amici Jacini e Giordani vi hanno già documentato storicamente la perenne e costante realtà di questo contatto e la inesistenza di esempi passati o presenti in cui il contatto sia sostituito effettivamente (e non nominalmente) e per tutti i rapporti (senza eccezione alcuna) dalla reciproca ignoranza integrale, cioè dal famoso parallelismo all’infinito. Al dato storico, possiamo ora aggiungere la prova tecnica. Il contatto non solo non è mai stato evitato, ma è inevitabile, come è quindi inevitabile il reciproco riconoscimento: precisamente perché non si può escludere in nessuna maniera che vi siano dei rapporti che, pur avendo carattere spirituale e formando, quindi, oggetto della sfera che è la sfera normale di interesse e di rilevanza per la Chiesa, tuttavia abbiano un certo interesse e una certa rilevanza anche per lo Stato, e viceversa.

Implica, in fine, l’impossibilità che il contatto (inevitabile) avvenga solo per atto unilaterale dell’uno o dell’altro ordinamento, e quindi la necessità che esso avvenga per via di atto bilaterale. Se il contatto è inevitabile, e se esso deve implicare il reciproco riconoscimento come ordinamenti primari, esso non può altro che avvenire attraverso un negozio bilaterale di diritto esterno fra ordinamenti originari, cioè attraverso quel tipo di negozio che si chiama concordato. Ove, invece, esso avvenga al di fuori dell’atto bilaterale, per atto unilaterale di diritto interno di uno dei due, o dello Stato o della Chiesa, allora si ha sempre disconoscimento, denegazione dell’originarietà dell’altro ordinamento, e assoggettamento (totale o parziale) dello Stato alla Chiesa, e quindi un regime almeno parzialmente teocratico, oppure assoggettamento (totale o parziale) della Chiesa allo Stato e, quindi, un regime, almeno parzialmente, giurisdizionalista.

Dunque, la disciplina bilaterale, concordataria, delle materie di comune interesse per la Chiesa e per lo Stato – e solo essa – non implica confusione tra le due potestà, come non implica limitazione né della sovranità dell’una né della sovranità dell’altra. Non implica confusione: infatti, ammettere il principio della necessaria bilateralità della disciplina degli interessi comuni, non implica per sé quelle commistioni, quelle ingerenze della Chiesa nello Stato e dello Stato nella Chiesa, che voi deprecate e che noi intendiamo evitare con zelo e passione per lo meno non minore della vostra. E ciò è tanto vero che, come notava da ultimo un insigne costituzionalista, che fa aperta professione di marxismo, il Crisafulli, nell’ultimo numero (gennaio-febbraio 1947) di «Rinascita», il sistema della coordinazione concordataria è un sistema adottato anche tra Stati non cattolici o da Stati pluriconfessionali.

D’altra parte, tale sistema non implica nessuna limitazione della sovranità statuale; lo riconosce, tra gli altri, appunto il Crisafulli in termini così categorici che non posso non citarli: «Tale circostanza (cioè la possibilità di concordati tra la Chiesa e Stati non cattolici) conferma quanto si è precedentemente osservato circa la sostanziale trasformazione venutasi verificando tra le forme medievali di unione fra Stato e Chiesa e le moderne unioni concordatarie: le quali ultime lasciano tanto lo Stato quanto la Chiesa perfettamente liberi e indipendenti nella propria sfera rispettiva; partono proprio dal presupposto di questa piena sovranità dei due ordinamenti; fondandosi sopra una convenzione bilaterale, liberamente stipulata e in questo senso analoga ai trattati internazionali, con la quale Stato e Chiesa si mettono d’accordo circa la regolamentazione giuridica da dare alle materie di interesse comune, alle inevitabili zone di interferenza tra i due poteri nel campo della vita associata, svolgentesi sul territorio statuale».

Qui, onorevoli colleghi, nel riconoscimento della necessità di una disciplina bilaterale delle materie, di comune interesse, è la vera separazione tra Chiesa e Stato, la vera indipendenza reciproca, la vera laicità, la vera libertà di coscienza.

Che cosa è, infatti, la libertà di coscienza se non questo: cioè il riconoscimento che certi fatti o atti o rapporti, che pure non sono irrilevanti per lo Stato, presentano un accentuatissimo carattere di specialità, che li differenzia da tutti gli altri entranti nella sfera di interesse dello Stato? E questa specialità sta appunto nella connessione che tali fatti o rapporti presentano con l’interiorità più riposta e più gelosa dello spirito e della coscienza individuale, sì che lo Stato deve ammettere che esso non può brutalmente intervenire, colla propria sola autorità e potestà, a disciplinare simili rapporti, senza violare l’arcano delle coscienze e deve, invece, convincersi che esso può soltanto regolarli d’accordo con la comunità spirituale, in cui la coscienza individuale effonde l’ineffabile ed esprime e tutela ciò che, normalmente, è inafferrabile e irrilevante per l’autorità temporale, per lo Stato.

Ecco in che cosa si concreta la vera libertà di coscienza.

Tutto ciò è tanto vero che può valere non solo nei confronti della Chiesa cattolica, ma anche di ogni altra comunità spirituale. Infatti che cosa diciamo noi nell’ultimo comma dell’articolo 5 del nostro progetto? Che lo Stato non disciplina quei rapporti speciali, che hanno interesse per le altre comunità o confessioni, se non dopo aver sentito queste ove lo richieggano.

Ora da tutto questo risultano due decisive conclusioni tecniche e politiche, a un tempo, e cioè:

in primo luogo, che se poniamo nella nostra Costituzione il principio della necessità di una intesa fra lo Stato e le singole confessioni religiose, ciò non è per fare piacere a una o più Chiese, ma per enunciare, nella sua piena portata e nei suoi termini più concreti, una delle fondamentali garanzie (la garanzia della libertà di coscienza) che formano appunto l’oggetto proprio e specifico di ogni Costituzione;

in secondo luogo, se questo principio, riconosciuto in linea generale per tutte le confessioni religiose, è realizzato con diverse formule tecniche per la Chiesa cattolica, da una parte, e per le altre Chiese dall’altra, ciò, come sempre, è soltanto una conseguenza del fatto che solo la Chiesa cattolica è ordinamento giuridico originario, con cui lo Stato, quindi, può e deve entrare in contatto attraverso un atto di diritto esterno fra ordinamenti giuridici primari (concordato); mentre le altre Chiese non sono ordinamenti primari o non sono affatto, o non vogliono essere, ordinamenti giuridici, e quindi lo Stato con esse non può entrare in contatto so non attraverso «intese interne», come presupposto di atti legislativi interni dello Stato stesso.

Il regime che vi ho descritto sinora e le giustificazioni che per esso vi ho date, sono tanto poco quei tali cavilli da leguleio, a cui accennava ieri l’onorevole Calamandrei, quei cavilli di un clericale preoccupato di assicurare alla Chiesa cattolica una superiorità limitatrice della sovranità dello Stato e discriminatrice fra cittadino e cittadino; sono, invece, tanto veramente l’espressione concreta dell’esatta, approfondita, moderna concezione della libertà di coscienza; che questo preciso regime e queste precise giustificazioni sono appunto le stesse preconizzate da una delle più fiere e democratiche coscienze della resistenza europea all’opprensione fascista, da una coscienza marxista e non cristiana. Qualcuno di voi avrà certo letto le pagine che Léon Blum (Commenti) ha scritto prigioniero di Vichy e della Germania hitleriana nella prigione del forte di Portalet e che sono state raccolte nel volume A l’échelle humaine. Ebbene, in questo libro (pag. 193) Blum, dopo avere rilevato i meriti acquisiti durante la guerra dalla Chiesa di Roma, e dopo avere constatato che «il concorso della Chiesa sarà infinitamente vantaggioso all’organizzazione della pace», auspica appunto che alla Chiesa di Roma e non meno a tutte le altre confessioni, sia data la sicurezza della pace religiosa e quindi la possibilità di dare il loro concorso pacifico e pacificatore alle comunità statuali e alla comunità internazionale. Ma per quale via? Per vie diverse:

alla Chiesa di Roma – «la sola, egli dice che si presenta sotto la forma di una gerarchia centralizzata e universale» – attraverso la generalizzazione del sistema dei concordati tra essa e tutti i singoli Stati;

mentre per le altre Chiese «il loro modo di rappresentanza non sarà fissato senza qualche difficoltà; perché le altre confessioni non sono costituite, come la Chiesa di Roma, sul tipo gerarchico di Impero (cioè di un ordinamento giuridico sovrano e universale)».

Ed ora veniamo al terzo e più dibattuto principio, affermato nell’articolo 5: cioè il riconoscimento dei Patti Lateranensi e l’impossibilità della loro modificazione se non per atto bilaterale.

Onorevoli colleghi, la mia dimostrazione, dopo i principî stabiliti, non richiede molte parole. Una volta stabilito il principio che lo Stato e la Chiesa sono ciascuno due ordinamenti originari, operanti su un piano di perfetta distinzione e di piena parità; e una volta ammesso che proprio il principio della loro distinzione (notate, il principio e l’esigenza della loro distinzione) esclude che i rapporti di comune interesse e rilevanza possano essere regolati con atto unilaterale di uno solo dei due; si sono poste le due premesse di un sillogismo, la cui conclusione non può essere che questa: il principio della bilateralità necessaria del regolamento dei rapporti di comune interesse, non può non applicarsi al regolamento già oggi esistente, cioè non può non importare il riconoscimento della bilateralità necessaria delle norme eventuali destinate a modificare le norme degli accordi stipulati nel 1929.

A questa conclusione si sono mosse obiezioni di varia natura: alcune di carattere tecnico ed altro di carattere politico; e, tra quelle tecniche, alcune generali e per così dire di principio e altre, invece, particolari, relative cioè a pretese incompatibilità specifiche fra singole disposizioni concordatarie e singole norme del nostro progetto di Costituzione.

Consideriamo, innanzitutto, le obiezioni tecniche di carattere generale. Esse si riducono sostanzialmente a quella fondamentale che noi abbiamo sentito enunciare fin dal primo discorso dell’onorevole Calamandrei; che egli ci ha ripetuto ieri sera e che questa sera, con un’efficacia che si avvale dello stesso tono di bonomia, con cui l’onorevole Cevolotto sa fare certe affermazioni decisive, ci è stata appunto testé ripetuta da lui nel suo ultimo intervento.

L’obiezione è questa: non si possono travasare, non si possono immettere per trasparenza (come ha detto l’onorevole Calamandrei), non si possono incorporare o incuneare o inserire nel tessuto organico della Costituzione (come ha detto l’onorevole Marchesi) le norme dei Patti Lateranensi, senza con ciò stesso contraddire al carattere costituzionale delle norme che stiamo elaborando. Come un po’ hanno detto tutti, da Orlando a Cevolotto, non si può costituzionalizzare un atto internazionale come il Trattato e un atto di diritto esterno come il Concordato, che hanno un valore storico contingente.

Orbene, noi siamo qui di fronte al più grave caso di quella reticenza, non so se gelosa o pudica, in cui si sono mantenuti di fronte a noi (laici o modesti chierici del diritto), i più illustri giuristi di questa Assemblea, gli onorevoli Orlando, Calamandrei e lo stesso onorevole Ruini per una frase un po’ oscura della sua relazione.

Eppure, bastava che essi applicassero all’articolo 5, secondo comma, una di quelle chiavette magiche che essi posseggono e che costituiscono uno degli strumenti della moderna dottrina generale del diritto, perché noi potessimo fare una scoperta di notevole importanza: perché noi potessimo scoprire che non è affatto vero che con questo comma si vogliano incorporare, incuneare, inserire, costituzionalizzare le norme del Trattato e del Concordato.

L’onorevole Pajetta, commentando una frase della relazione dell’onorevole Ruini, ci chiedeva ieri: «Ma, insomma, queste norme ci sono o non ci sono nella Costituzione? Ditecelo, per carità». Ecco che io ora le rispondo, onorevole Pajetta: «Queste norme non entrano affatto nella Costituzione».

Per convincersene, basta ricordare la distinzione tra norme materiali e norme strumentali; norme materiali quelle che disciplinano un fatto o un rapporto; e norme strumentali, e più precisamente, nel caso, norme sulla produzione giuridica, che non disciplinano alcun fatto o rapporto, ma semplicemente definiscono attraverso quale iter debbano essere prodotte certe altre norme giuridiche, che potranno essere eventualmente le norme materiali regolatrici di un certo fatto o rapporto.

Ora, la norma del secondo comma dell’articolo 5 non è una norma materiale, è una norma sulla produzione giuridica. Non è una norma che abbia per oggetto i molti precetti contenuti nei 27 articoli del Trattato e nei 45 articoli del Concordato; ma è una norma che ha per oggetto un precetto solo, e precisamente questo: cioè che le eventuali norme dirette a modificare le norme contenute nel Trattato e nel Concordato, debbono essere prodotte (ecco, perché la diciamo norma sulla produzione giuridica) attraverso un determinato iter, cioè l’accordo bilaterale. Ed è tanto vero che le norme contenute nel Trattato e nel Concordato non vengono «costituzionalizzate», restano cioè sul piano in cui si trovano ora di norme puramente di legge e non di norme costituzionali, che esse potranno essere modificate (rispettato l’iter dell’accordo con la Chiesa) senza il procedimento di revisione costituzionale, come dice appunto l’ultima parte di questo secondo comma dell’articolo 5.

Sì che il significato ultimo di questa norma, è semplicemente questo: stabilire quale sia il regime accolto dalla nostra Costituzione per le relazioni tra lo Stato e la Chiesa cattolica e stabilire, insieme, a quali condizioni dal regime prescelto si possa passare ad un altro diverso. Dei veri regimi possibili per i rapporti tra Stato e Chiesa, lo Stato italiano adotta il sistema della distinzione delle due podestà e della loro coordinazione attraverso un atto bilaterale; stabilisce, inoltre, che il passaggio da questo sistema al sistema della disciplina unilaterale delle relazioni con la Chiesa, cioè il passaggio dal Concordato a un sistema in tutto o in parte giurisdizionalista, non possa avvenire altro che attraverso il procedimento di revisione costituzionale.

Questa è la portata, questo è tutto il significato giuridico e politico della norma tanto contrastata dell’articolo 5: affermare esplicitamente quello che secondo le vostre dichiarazioni, onorevoli colleghi, nessuno vuole negare, cioè che per i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa Cattolica vige il sistema concordatario e la modifica unilaterale da parte dello Stato della disciplina esistente non può avvenire che attraverso un procedimento di revisione costituzionale.

Ditemi voi ora, colleghi ed amici, se questo implica in qualche modo compressione della sovranità dello Stato o qualsiasi limitazione o menomazione dell’ordinamento giuridico italiano. Implica soltanto una garanzia che la Costituzione dà, a chi?, non alla Chiesa (Commenti Interruzioni), ma a noi, a me, a voi, a tutti gli italiani…

CEVOLOTTO. Ma allora perché non accettate la formula proposta dall’onorevole Togliatti?…

DOSSETTI. La risposta è molto facile, onorevole Cevolotto. L’affermazione generale e di principio, contenuta nella formula proposta dall’onorevole Togliatti, sarebbe stata sufficiente, se proprio da lei, dall’onorevole Togliatti e da altri ancora non fossero state fatte troppe affermazioni (Commenti a sinistra) circa l’incompatibilità tra singole disposizioni del Concordato ed alcune norme della nuova Costituzione e circa, quindi, la possibilità che noi con queste derogassimo unilateralmente a quelle. (Applausi al centro).

E veniamo, dunque, alle obiezioni di carattere particolare contro il secondo comma dell’articolo 5.

Ormai voi, onorevoli colleghi, le sapete a memoria.

Cominciamo da quella, che si pretende ricavare dall’articolo 1 del Trattato. Si dice da molti, e lo ha ripetuto ieri sera l’onorevole Calamandrei con efficacia suggestiva, che l’articolo 1 del Trattato è incompatibile con la Costituzione di uno Stato democratico. Ieri sera, mentre l’onorevole Calamandrei parlava, io mi sono affrettato a registrare un passaggio decisivo del suo discorso. Egli ha detto: «L’articolo 1 dello Statuto albertino, afferma che la religione cattolica è la religione dello Stato; quindi implica lo Stato confessionale». Ha poi soggiunto essere assolutamente pacifico che dall’articolo 1 del Trattato sia scaturito uno Stato confessionale (ed è stato a questo proposito che ha richiamato la venerata memoria di Mario Falco); e senza dirci il suo concetto di Stato confessionale (e, tra parentesi, questa omissione deve imputarsi anche all’onorevole Cevolotto), è passato poi ad argomentare come se la nozione di Stato confessionale risultante dall’articolo 1 del Trattato includesse necessariamente tutta una serie di elementi. E precisamente:

1°) un giudizio di valore, che discrimini la religione assunta come religione dello Stato da tutte le altre e che dica essere quella l’unica vera e le altre sicuramente false;

2°) una situazione complessa, che gli onorevoli Calamandrei e Cevolotto non hanno qualificato, ma che in corrispondenza del loro pensiero vorrei denominare posizione strumentale dello Stato rispetto alla Chiesa: una posizione in cui lo Stato diventa strumento, ministro, servitore o mezzo di esecuzione (sia pure a limitati effetti) di determinate finalità della Chiesa;

3°) una posizione di inferiorità delle altre confessioni rispetto alla religione dominante, e una diminuzione della capacità giuridica degli appartenenti alle altre confessioni.

Ora a tutto questo io vorrei opporre alcuni rilievi.

Primo rilievo, che ha un carattere direi quasi soltanto erudito, ma che può avere un certo interesse: non è affatto vero che sia assolutamente pacifico che lo Stato italiano, in forza dell’articolo 1 del Trattato Lateranense, sia uno Stato confessionale. Ci sono dei giuristi che non hanno affermato questo, neanche dopo i Patti Lateranensi. E proprio Mario Falco, che l’onorevole Calamandrei ha voluto citare, nelle prime pagine del suo Corso di diritto ecclesiastico ha scritto che se l’articolo 1 del Trattato aveva fatto nascere il dubbio che si instaurasse di nuovo lo Stato confessionale e particolarmente una posizione di inferiorità giuridica degli appartenenti alle confessioni acattoliche, questo dubbio fu poi chiarito dai dibattiti immediatamente susseguiti all’11 febbraio e dalla disciplina giuridica concretata nelle leggi esecutive degli Accordi.

In secondo luogo, non è esatto che l’articolo 1 del Trattato significhi adozione dello Stato confessionale con tutte le conseguenze giuridiche denunciate o lasciate supporre specialmente dagli onorevoli Calamandrei e Cevolotto. Infatti, che cosa implica necessariamente e di sicuro l’articolo 1? Non tanto un giudizio di valore con precise conseguenze giuridiche, per cui tra la religione cattolica e le altre religioni esista necessariamente e giuridicamente la differenza che passa tra la verità assoluta e l’errore; ma piuttosto una constatazione di fatto, un dato storico, cioè che la religione cattolica è la religione della grande maggioranza del popolo italiano, con questa conseguenza giuridica sicura, che, ove lo Stato creda di ricorrere ad una cerimonia religiosa, per questa deve valersi del culto cattolico, essendo questo il culto della maggioranza degli Italiani. Né possono essere dedotte delle conseguenze arbitrarie dalle proposizioni, così insistentemente citate dagli onorevoli Calamandrei e Cevolotto, dalla lettera scritta da Papa Pio XI al Cardinale Gasparri, subito dopo la conciliazione, in seguito al noto discorso di Mussolini alla Camera. Se di quelle proposizioni vogliamo valerci, non possiamo onestamente valercene che inquadrandole nel pensiero comune della Chiesa e in particolare nella distinzione, ormai classica, tra tolleranza dogmatica (inammissibile) e tolleranza pratica (possibile in determinate ipotesi concrete) e tra libertà di coscienza e libertà delle coscienze. Possiamo allora comprendere benissimo come Pio XI, dovendo soprattutto polemizzare con le tesi mussoliniane dello Stato etico e del totalitarismo, che riducevano al nulla la persona e i diritti della coscienza, abbia rivendicato in modo tanto assoluto l’autonomia della coscienza che deve, alla fine, rendere conto di tutto a Dio e non può rimettersi come ad ultima istanza, all’autorità dello Stato. Ma questa intransigenza del Papa non implicava affatto violazione della libertà delle singole coscienze, né costrizione di esse ad una adesione non spontanea e non libera alla verità. Tanto è vero che lo stesso onorevole Calamandrei (con una contraddizione sottile e profonda che – se mi permette – è il vizio intimo del suo discorso così suggestivo) non ha potuto non rendere omaggio all’insegnamento di libertà e di tolleranza svolto dall’Osservatore Romano (e in particolare dal nostro amico Gonella) durante gli anni più duri dell’oppressione. Ma si chieda l’onorevole Calamandrei, o meglio, chiediamoci noi tutti, dove l’Osservatore Romano, dove Gonella trovavano la fonte per quelle affermazioni di libertà per tutti, anche per le coscienze non cattoliche e non cristiane, se non nella intransigente difesa della legge morale fatta appunto contro ogni arbitrio individualistico o statolatra dalle proposizioni di Pio XI? (Applausi al centro). Erano appunto le rivendicazioni fatte da Pio XI le stesse che consentivano e determinavano la sua energica difesa degli israeliti di contro alle leggi razziali; erano le stesse che lo inducevano, come hanno indotto il suo successore, il regnante Pontefice Pio XII, ad esplicare quell’opera generosa e benefica a favore degli appartenenti ad altre religioni, che ha meritato da parte dei capi delle diverse confessioni solenni dimostrazioni di gratitudine e di devozione verso il Capo della Chiesa Cattolica. (Applausi al centro).

Vediamo ora se l’articolo 1 del Trattato implichi, in qualche modo, una posizione strumentale o ministeriale dello Stato rispetto alla Chiesa. Certo gli onorevoli Calamandrei e Cevolotto non hanno esplicitamente usato questa formula; ma è innegabile che tutte le loro espressioni avevano appunto questo obiettivo, di prospettare ed agitare una preoccupazione, cioè che lo Stato possa essere ridotto a strumento temporale dei fini proprî della Chiesa.

Ora tale preoccupazione, onorevole Cevolotto e onorevole Calamandrei, non è solo vostra, ma potrebbe essere anche nostra, se ci fosse un residuo di pericolo al riguardo. Ma non c’è. Noi crediamo che sia una conquista, ormai realizzata, di una gradualità più piena e di un approfondimento più consapevole dello spirito cristiano, il processo di decantazione del pensiero e della prassi cattolica, verificatosi nell’ultimo secolo, per cui si esclude che lo Stato possa comunque essere ridotto a strumento del fine della Chiesa.

Voi non avete altro che informarvi e cercare di prendere più intimo contatto con le manifestazioni più recenti del pensiero cattolico in proposito. Io vorrei invitarvi, per esempio, a leggere quella magnanima opera di un magnanimo intelletto che è L’Eglise du Verbe incarné di Charles Journet, il più recente trattato di ecclesiologia speculativa, in cui è magnificamente inquadrata la funzione spirituale della Chiesa, al di fuori di ogni residuo temporalistico o di ogni residuo di strumentalismo statuale: veramente, come una conquista del più genuino e integrale spirito cristiano, del più coerente spirito cattolico. (Applausi).

A questa dottrina noi ispiriamo la nostra interpretazione dell’articolo 1 del Trattato Lateranense, al di fuori delle estensioni arbitrarie che ne vorrebbero fare gli onorevoli Calamandrei e Cevolotto per ricavarne conseguenze incompatibili con le norme che vogliamo porre a base del nostro Stato democratico.

Del resto, c’è anche un argomento testuale che conforta la nostra tesi. L’articolo 1 del Trattato non riproduce integralmente l’articolo 1 dello Statuto; ossia è caduta la parte in cui si diceva che «gli altri culti sono tollerati». Perciò l’articolo 1 del Trattato, che prende semplicemente atto di questo dato concreto, essere cioè la religione cattolica la religione della maggioranza del popolo italiano, non implica nessuna qualificazione deteriore, nessuna inferiorità giuridica di principio per gli appartenenti alle altre confessioni. Ecco, infatti, quanto dice proprio il Falco, alla cui autorità ha voluto fare appello ieri sera l’onorevole Calamandrei: «Il principio generale della irrilevanza della appartenenza alla Chiesa cattolica per la capacità giuridica dei cittadini è dunque riaffermato anche dopo l’articolo 1 del Trattato del Laterano».

La norma, dunque, dell’articolo 1 del Trattato non va artificiosamente gonfiata; certo non implica nessuna discriminazione nella capacità giuridica dei cittadini; soprattutto non ha una portata giuridica rigida e predeterminata, ma riceve il suo significato giuridico positivo dal complesso dell’ordinamento, nel quale si inserisce.

Perciò fermamente ritengo che essa sia senz’altro compatibile con l’ultimo comma di questo nostro articolo 5 (che del resto risulta da una proposta concordata fra me e l’onorevole Terracini); come la ritengo compatibile con l’articolo 7 del progetto, in cui si afferma l’eguaglianza dei cittadini, e con quell’articolo 14 in cui si afferma e si garantisce la libertà delle coscienze e dei culti: articolo 14 che – l’onorevole Cevolotto vorrà certo darmene atto – è stato proposto proprio da me e con una formula iniziale che forse era anche più insistentemente esplicita nel riconoscere la piena libertà delle coscienze non cattoliche. Il che, mi sembra, può essere una prova decisiva della sincerità del mio convincimento, che l’articolo 1 del Trattato non importa la minima contradizione o compressione per i principî fondamentali del nuovo ordinamento democratico, che stiamo elaborando.

Passiamo, ora, ad un’altra norma. Quella dell’articolo 5 del Concordato (esclusione da certi uffici dei sacerdoti apostati o irretiti da censura). È a noi tutti presente il caso famoso, che per molti può essere oggetto di commiserazione. Però non è sulla valutazione sentimentale o ideologica dell’articolo 5 del Concordato che noi ci dobbiamo soffermare (queste, se mai, ci potranno indurre a richiamare l’attenzione dell’altra parte per sollecitare una revisione); ma è sul dato puramente giuridico che noi dobbiamo ora concentrare la nostra attenzione; sulla contradittorietà tecnica con gli articoli 7 e 14 del nostro Progetto, in cui si afferma il principio dell’eguaglianza dei cittadini.

Ora, questa contradittorietà non sussiste. Infatti, anzitutto, l’articolo 5 del Concordato non pone un’esclusione generale per tutti i cittadini cattolici, ma solo per i sacerdoti, cioè soltanto per alcuni cittadini che volontariamente con un atto che è l’espressione di una consapevolezza e di una deliberazione suprema, misurato e meditato per anni, saputo e voluto come definitivo e irrevocabile (al modo stesso del matrimonio), sono entrati in uno status speciale, hanno acquisito poteri specialissimi e hanno assunto un impegno essenziale di perpetua subordinazione gerarchica. Quindi, possiamo già dire che non siamo in presenza di una discriminazione legale della capacità, ma di una discriminazione consensuale, fondata sul consenso del singolo: consenso, di cui, in questo caso, la legge italiana prende atto, facendo un’applicazione, particolare e a limitatissimi effetti, del principio, comunemente ammesso da tutti i cultori di diritto ecclesiastico, cioè che lo Stato riconoscendo la Chiesa come ordinamento la riconosce necessariamente «come struttura, come società disposta gerarchicamente, che genera una serie di vincoli e di relazioni tra i suoi membri» (Jemolo).

In secondo luogo, questa dell’articolo 5 non è la sola applicazione di questo principio, cioè che lo Stato può, senza contradire all’eguaglianza dei cittadini, tener conto del rapporto speciale che essi contraggano con la gerarchia ecclesiastica. Basterà ricordare oltre la norma dell’articolo 43 del Concordato (che fa divieto agli ecclesiastici di militare nei partiti politici), gli articoli 7 e 14 della vigente legge elettorale amministrativa, i quali escludono tutti gli ecclesiastici dalla eleggibilità a sindaco e, se in cura d’anime, anche dalla eleggibilità a consigliere comunale. Basterà ricordare le leggi del 1913 e del 1933, che escludono gli ecclesiastici dall’esercizio del notariato e dalla professione di avvocato.

Se voi ritenete che l’articolo 5 del Concordato sia giuridicamente incompatibile con le norme del nostro Progetto, allora dovete ritenere che queste norme derogano anche agli articoli 7 e 14 della legge elettorale amministrativa, e derogano alle nostre leggi sul notariato e l’avvocatura. (Interruzioni a sinistra).

Altra norma, di cui si è sostenuta la incompatibilità con la nostra nuova Costituzione è l’articolo 36 del Concordato, sulla istruzione religiosa nelle scuole. A parte la forma un po’ aulica e solenne in cui l’articolo è redatto, vorrei sapere – poiché nessuno ancora qui l’ha detto – in quali disposizioni legislative e in quale disciplina amministrativa si è concretato l’impegno assunto dallo Stato nell’articolo 36. Ve lo dirò io: semplicemente in una disciplina che assicura un modesto orario settimanale di istruzione catechistica nelle scuole elementari e medie, senza che questa implichi nessuna limitazione e nessun influsso (neppure indiretto) per gli altri insegnamenti e nessuna costrizione per coloro che non desiderano ricevere l’insegnamento religioso. Ora, questo è Stato confessionale? Questa è violazione della libertà delle coscienze? Ma perché qui nessuno ha ricordato che l’articolo 6 della legge sui culti acattolici e l’articolo 2 della legge 5 giugno 1930 consentono la dispensa dall’obbligo di frequentare l’insegnamento religioso per gli alunni i cui genitori ne facciano richiesta al Capo dell’istituto? Perché nessuno ci ha detto che gli articoli 23 e 24 del decreto esecutivo della legge sui culti ammessi consente anche agli appartenenti alle confessioni diverse dalla cattolica, quando il numero degli scolari lo giustifichi, di avere l’insegnamento religioso secondo la loro tradizione?

Dove è allora la discriminazione tra i cittadini? E dove è l’intrusione confessionale?

Del resto, onorevoli colleghi, allargate un po’ i vostri orizzonti e cercate di informarvi bene sulla vita interna di quegli Stati, che alcuni di voi sono soliti portare a modello di regime laico e separatista. Per esempio, l’America. Ci sono nella vita scolastica americana delle manifestazioni, che se fossero in Italia o fossero per caso sancite nel Concordato, darebbero luogo alle più sdegnate proteste. Una rivista francese (Esprit) di molta sensibilità e intelligenza, ha dedicato uno dei suoi ultimi numeri a una analisi acuta e sistematica dell’uomo americano e della vita americana. In quel numero, Grinberg-Vinavert ci illustra la religiosità degli americani (da lui prospettata come pura evidenza pratica) e ci dice tra l’altro: «Io mi ricordo del mio stupore, quando mi si avvertì che all’Università (si noti Università non confessionale, ma laica) i servizi religiosi della domenica facevano parte integrante del programma, e che coloro che séchaient la cappella più di cinque volte per semestre erano automaticamente rimandati».

Non mi risulta che nessuna disposizione applicativa del Concordato abbia sinora costretto l’onorevole Calamandrei, quale rettore dell’Università di Firenze, a prendere simili provvedimenti a carico dei suoi studenti. E la nostra collega, e mia concittadina, onorevole Iotti, ci potrà testimoniare che simili cose non accadono in Italia neppure all’Università Cattolica del Sacro Cuore (Approvazioni al centro).

Veniamo, infine, all’articolo 34 del Concordato (circa la giurisdizione ecclesiastica nelle cause matrimoniali). L’ho conservato deliberatamente per ultimo, perché è la maggiore ragione di scandalo; è, come ci ha detto l’onorevole Calamandrei, la più grave rinunzia fatta dello Stato italiano alla sua sovranità; è la più grave delle manifestazioni del nostro confessionismo statuale; la più intollerabile delle discriminazioni tra gli appartenenti alle diverse confessioni. Potrei valermi, al riguardo, di importanti considerazioni puramente tecniche per dimostrare come lo Stato possa senza alcuna limitazione della sua sovranità, anzi in forza di un suo atto sovrano, rinviare o fare valere nel proprio ordinamento così una norma, cioè un atto legislativo, come una sentenza cioè un atto giurisdizionale, di un altro ordinamento originario.

L’onorevole Cevolotto aveva ragione quando ci diceva che il riconoscimento dell’originarietà della Chiesa e, quindi, della sua sovranità e del suo ordinamento come esterno all’ordinamento statuale, implica che le norme canoniche o le sentenze canoniche non possano valere nel nostro ordinamento se non in forza di una norma o di un atto della sovranità statuale. Esattissimo. Ma questa norma operante il collegamento tra i due ordinamenti è appunto quella che noi troviamo nell’articolo 34 del Concordato. Per dimostrarvi che questo articolo 34, questo scandalo degli scandali, non contradice alle considerazioni più raffinatamente tecniche, posso servirmi di due argomenti decisivi.

Anzitutto un argomento di carattere direi quasi familiare, intimo alla nostra Commissione dei 75, e precisamente alla parte più intima della Commissione, il Comitato dei 18. Al Comitato dei 18 venne sottoposto l’articolo 94 del nostro Progetto, che qualifica la funzione giurisdizionale come «espressione della sovranità della Repubblica». Io interpellai, allora, l’onorevole Calamandrei sul significato esatto di questa qualifica (non perché io avessi alcun dubbio al riguardo, ché mi pareva che anche il mio poco lume mi consentisse di vedere chiaro e di non avere esitazioni, ma per avere da un processualista tanto autorevole una conferma decisiva). Orbene, l’onorevole Calamandrei, da me richiesto se in qualche modo l’articolo 94 potesse indurre un contrasto o una incompatibilità con il rinvio da parte del nostro ordinamento ad atti giurisdizionali di altro ordinamento, e specificamente alle sentenze canoniche previste dall’articolo 34 del Concordato, rispose di no nel modo più categorico e più esplicito, richiamando appunto i concetti che or è poco io ho avuto l’onore di esporvi. In più, l’onorevole Calamandrei mi dichiarò che la qualifica dell’articolo 94 del nostro Progetto aveva semplicemente un carattere dottrinale, non implicava dirette e specifiche conseguenze giuridiche concrete, ma voleva solo togliere di mezzo una dottrina, che in passato aveva avuto seguito e che tendeva a considerare la funzione giurisdizionale come una funzione minore dello Stato rispetto alla funzione legislativa e alla funzione di Governo; sì che alla fine l’articolo 94 voleva solo riaffermare il principio che la giurisdizione è espressione della sovranità statuale alla stessa stregua della legislazione e della funzione di governo. Io, naturalmente, presi atto di queste dichiarazioni e mi convalidai nel mio convincimento che non vi possa essere contradizione tra l’affermazione della giurisdizione come espressione della sovranità dello Stato e il rinvio che lo Stato stesso faccia, in virtù di una propria norma e secondo un congegno da esso disciplinato, ad atti giurisdizionali di altro ordinamento. A rimuovermi da tale convincimento non può naturalmente valere l’improvvisa e sorprendente conversione, con cui l’onorevole Calamandrei ha nel suo primo discorso in questa sede accennato (piuttosto sbrigativamente) a una contradizione tra l’articolo 34 del Concordato e l’articolo 94 del nostro Progetto.

In secondo luogo, a conforto della mia tesi, si può fare un raffronto che mi sembra tale non solo da togliere ogni preoccupazione in ordine all’articolo 34 del Concordato, ma se mai da orientare piuttosto le nostre riserve ben più giustificatamente su un altro caso di rinvio ad atti giurisdizionali stranieri. Ci sono, onorevoli colleghi, da quarantacinque anni, esattamente dal 1902, le cosiddette Convenzioni dell’Aja e poi altre convenzioni con gli Stati successori della monarchia austro-ungarica, le quali, proprio in materia di rapporti familiari, impegnano lo Stato italiano a dare esecuzione in Italia a sentenze pronunziate da tribunali stranieri, secondo la legge straniera, e dichiaranti, tra l’altro, la nullità (anche per capi non conosciuti dal diritto italiano) del matrimonio o addirittura dichiaranti il divorzio. Qui sì che ci possiamo trovare di fronte a una grave contradizione con i principî fondamentali del nostro ordine pubblico: specialmente quando accade, come purtroppo spesso accade, che cittadini italiani, attraverso un processo fraudolento con l’ausilio di professionisti specializzati e il dispendio di grosse somme, possano, per esempio, recarsi in Isvizzera e ottenere in breve tempo il cambiamento di cittadinanza, lo scioglimento del matrimonio, l’esecutorietà in Italia della sentenza di divorzio e, quindi, di nuovo il riacquisto della cittadinanza italiana.

FABBRI. Questo non è esatto.

DOSSETTI. Possiamo così ritenere demoliti tutti i presunti ostacoli tecnici all’approvazione dell’articolo 5. Restano, ormai, soltanto le obiezioni di carattere politico. Non vi spaventate. Non voglio fare per queste un’analisi e una confutazione così minuta, come ho fatto, ed era il mio compito, per le obiezioni di carattere tecnico. Del resto, alle argomentazioni propriamente politiche hanno già risposto con sapienza ed efficacia i miei amici onorevoli Jacini e Giordani. Mi basteranno pochissimi accenni.

Sostanzialmente le riserve, che sono state da più parti sollevate, si riducono a queste: che, anzitutto, Trattato e Concordato costituiscono degli atti importanti, ma contingenti e con un contenuto non in tutto attualissimo e politicamente adeguato allo spirito della nuova democrazia italiana; che se l’Italia, come ha detto l’onorevole Cevolotto, non vuole e non può, purtroppo (il «purtroppo» l’aggiungo io) denunziarli ora che si trova prostrata da tante rovine e preoccupata da tanti gravissimi problemi, d’altra parte non si può e non si deve cristallizzarli nella Costituzione; che inoltre la norma dell’articolo 5 porrebbe lo Stato in una posizione di inferiorità di fronte alla Chiesa nel caso di eventuali nuove trattative, perché vincolerebbe costituzionalmente lo Stato a non introdurre nessuna modificazione se non bilateralmente concordata.

Ora, alcune di queste obiezioni erano già cadute prima dei discorsi dei miei amici, demolite già da altri interventi. Ciò che hanno detto l’onorevole Orlando e l’onorevole Nitti, con tanta autorità e diretta scienza e personale esperienza, circa i precedenti dei Patti Lateranensi, ci dimostra come essi fossero maturi nella coscienza del popolo italiano, si può dire già conquistati assai prima del 1929. Così, quando l’onorevole Marchesi ci ha ripetuto che nessuno mai si è nemmeno sognato di denunciare gli Accordi del Laterano e di rinnegare quella che è la loro validità fondamentale (cioè la soluzione della Questione romana, inscindibilmente risolta dal Trattato e dal Concordato), ci ha confermato che la firma che sta in calce agli Accordi, oppure singole disposizioni marginali (come quella dell’articolo 5 del Concordato) non possono in alcun modo incrinare la sostanza della conquista storica che essi rappresentano e che il popolo italiano, la maggioranza del popolo italiano, ha democraticamente confermato e ratificato nelle elezioni del 2 giugno, dando il voto a quei partiti che hanno ora la maggioranza in questa Camera, specialmente a quei partiti popolari (che non sono soltanto la Democrazia cristiana) che avevano nel loro programma elettorale o nelle dichiarazioni solenni dei loro congressi come punto fermo il principio del riconoscimento dei Patti Lateranensi.

Ne è vero che l’articolo 5 del Progetto implichi per lo Stato un vincolo maggiore di quello che può legare la Chiesa, specie in ordine a future trattative. Non bisogna dimenticare che anche la Chiesa è legata ad una sua Costituzione, tanto più legata in quanto alcune norme di questa Costituzione sono per la Chiesa di diritto divino e, quindi, non modificabili neppure dall’autorità del Papa. Non bisogna dimenticare che la norma pacta sunt servanda, lega giuridicamente e moralmente gli organi della Chiesa, con una assolutezza e una intransigenza non conosciuta dagli organi dello Stato. Tutti, infatti, conosciamo, nella storia molti casi di concordati violati dagli Stati; non ne conosciamo nessuno di concordati violati, anche soltanto in una norma, dalla Chiesa. E dire che per la Chiesa i concordati sono stati molte volte un cattivo affare, tanto che è diffuso tra i canonisti l’aforisma: historia concordatorum, historia dolorum.

Infine, c’è la constatazione, che ha indotto l’onorevole Nitti a dichiararsi favorevole all’articolo 5, e che forse l’onorevole Nitti avrebbe fatto bene a sviluppare maggiormente, sì da renderla più persuasiva per tutti. Ad ogni modo egli ha posto nettamente il nucleo dell’argomento decisivo, al quale è ben difficile sottrarsi: non riconoscere oggi esplicitamente e puramente il principio della bilateralità necessaria per la produzione delle eventuali norme dirette a modificare la disciplina esistente, cioè i Patti del Laterano, significa ferire e sconvolgere tutto il nostro sistema giuridico-politico dei rapporti fra Stato e Chiesa.

Quando qualcuno di voi, onorevoli colleghi, ci domanda perché noi esigiamo che nel nostro testo costituzionale sia posta espressamente la norma che gli Accordi Lateranensi non possano essere modificati che per atto bilaterale, noi possiamo rispondere: perché abbiamo sentito qui dentro troppe affermazioni intese a sostenere la incompatibilità di singole disposizioni del Trattato e del Concordato con i principî della nostra nuova Costituzione e del nuovo Stato democratico, e tali affermazioni implicherebbero una conseguenza inevitabile, cioè che nell’atto in cui noi ci apprestiamo a porre nuove norme costituzionali, che si suppongono contrastanti col Trattato e col Concordato, in questo stesso atto noi non soltanto denunzieremmo implicitamente il Trattato e il Concordato, ma addirittura violeremmo il principio che, tutti d’accordo, vogliamo assumere a base del nostro sistema di rapporti fra Stato e Chiesa, ossia il principio concordatario.

Perché questo non sia, non c’è che un mezzo: riconoscere esplicitamente che tra gli Accordi Lateranensi e le disposizioni della Costituzione non vi è contrasto, e stabilire formalmente che il passaggio dall’attuale sistema concordatario al sistema in cui lo Stato unilateralmente disciplina i rapporti con la Chiesa, non può avvenire oggi surretiziamente e per trasparenza (per usare proprio una frase dell’onorevole Calamandrei) e non potrà avvenire domani in forza di una leggina deliberata quasi di sorpresa e con una maggioranza, fittizia ed effimera, ma solo in forza di un atto solenne, che sia espressione sicura della maggioranza del popolo italiano, cioè in forza di un procedimento di revisione costituzionale.

Questo è il significato giuridico, questa è la portata politica della norma che noi vi chiediamo di approvare. Con essa voi non date tanto una garanzia alla Chiesa, ma date una garanzia a tutti noi, a voi stessi (se, come dite, tanti sono anche tra voi i cattolici), date una garanzia alla libertà di coscienza di ogni cittadino. Ecco, perché questa è una norma da porre nella Costituzione: perché interessa noi tutti, in quanto membri della comunità statale italiana e interessa la maggioranza degli italiani, in quanto membri di quella comunità spirituale che è la Chiesa Cattolica.

Onorevoli colleghi, voi avete sentito nel dibattito, che ha preceduto questo mio discorso, la volontà comune che anima molti dei membri di questa Assemblea (vorrei sperare tutti), perché dal nostro sforzo risulti una Costituzione che dia veramente un volto nuovo al nostro Stato, che assicuri a tutti gli italiani una democrazia effettiva, integrale, non solo apparente e formale, ma veramente sostanziale, una democrazia finalmente umana.

Orbene, quando noi difendiamo l’articolo 5 del Progetto, noi non difendiamo una norma che interessa solo la Chiesa, ma difendiamo una norma che non può essere isolata dalla volontà comune e dall’impegno totale per la edificazione dello Stato nuovo, genuinamente e integralmente democratico.

Per me l’articolo 5 ha una stretta, inscindibile connessione con l’articolo 1, nel quale abbiamo affermato i caratteri della nostra nuova democrazia, e con tutte le altre norme – particolarmente con quelle relative ai rapporti economico-sociali – in cui noi abbiamo voluto fissare le nuove istituzioni, non solo libere, ma anche sicuramente giuste per tutti, per i poveri come per i ricchi, per i grandi come per i piccoli: ha una tale connessione, che si può dire che l’articolo 5 contenga, veramente, l’animazione nuova delle nuove strutture economiche, sociali e politiche dello Stato italiano.

Ecco perché noi non possiamo rinunziare all’articolo 5. Per non rinunziare all’anima del nostro futuro corpo statale. Perché non sia incrinato il nostro sogno di una comunità politica sostanzialmente e non solo formalmente rinnovata. Perché non si inserisca, in questo momento decisivo (come già alle origini del nostro primo Risorgimento) alla base del nuovo edificio quel contrasto interiore, quella riserva che potrebbe impedire a molti di noi, se non di dare la nostra opera e il nostro contributo esteriore, per lo meno di effondere nello sforzo ricostruttivo tutta la nostra interiorità, la porzione più gelosa e più preziosa del nostro spirito.

Sono stati ricordati qui più volte i nostri morti: tutti i nostri morti; ma specialmente i morti della resistenza all’oppressore, i morti per la libertà e la giustizia. Non è per indulgere a una convenienza retorica, che io qui voglio ricordare, fra i nostri tanti morti, un Morto a me particolarmente vicino.

Quasi due anni fa, il giorno di Pasqua del 1945, sull’Appennino Reggiano. Prima delle prime luci dell’alba, venivamo svegliati dall’annuncio che truppe, o meglio orde tedesche e fasciste avevano rotto una parte del nostro schieramento sul Secchia. Incominciava così una giornata di Pasqua, che fu giornata di duri combattimenti. Al mattino eravamo costretti a retrocedere; nel pomeriggio arrestavamo le orde che erano avanzate soprattutto valendosi di un tradimento (una parte di brigata nera si era camuffata da partigiani). Avevamo già avuto dei morti, parecchi morti. Verso sera il nemico fu ricacciato. La vittoria. Ma la sera fu triste. Proprio una delle ultime fucilate aveva colpito Elio, il nostro vice comandante di Brigata. Era venuto alla nostra brigata da formazioni garibaldine, dove si era fatto stimare ed amare. E tutti noi l’avevamo stimato ed amato, per la sua capacità, il suo valore, la sua bontà. Era ferito mortalmente, ma ancora non se ne rendeva conto e sperava nell’intervento chirurgico di un nostro amico; ma l’amico, oggi qui tra noi, non poté che annunziarci che la morte era ormai imminente. E allora qualcuno dovette assumersi il compito di far sì che quel sacrificio, iniziato con tanta generosità, conoscesse anche la suprema generosità: quella di consumarsi consapevolmente. Credetti così di dovergli dire che la vita era ormai finita per lui e di dovergli chiedere che egli consapevolmente la offrisse per noi: perché tutti diventassimo più buoni, più fedeli alla bandiera che servivamo, più disposti a immolarci come lui per il rinnovamento d’Italia. Bastarono poche parole perché egli comprendesse ed assentisse, e con gli ultimi esili sforzi della voce confermasse ciò che gli avevo chiesto. E noi presenti giurammo allora, di fronte a un sacrificio così grande e così consapevole, che avremmo sempre sentito e osservato l’impegno che esso importava per noi.

Questo è l’impegno, con il quale oggi vi parlo. Esso dice a voi tutti: a voi, venerandi maestri e seguaci di un’idea – l’idea liberale – che voi sentite ancora pulsare nel vostro cuore ma che, a un tempo, sentite doversi aprire e integrare in idee nuove; dice a voi, più giovani che avete conosciuto e superato le ultime battaglie nell’anelito rinnovatore della giustizia; dice a tutti che dobbiamo avvertire la pressura e il gemito del nuovo mondo che sta sorgendo e che dobbiamo inchinarci su questo mondo nuovo, con religioso rispetto, perché in nulla venga menomato e tradito il messaggio e il compito che i nostri morti ci hanno lasciato.

Il messaggio, cui si richiamava il primo discorso dell’onorevole Calamandrei, è un messaggio integrale: occorre non solo accogliere il testamento che ci sospinge a costruire nuove strutture sociali; ma occorre riconoscere che nelle nuove strutture, perché siano veramente nuove, più giuste e più umane, noi dobbiamo infondere il meglio di noi, la pienezza integrale della nostra coscienza. Ed è questo il momento in cui possiamo farlo, perché è il momento in cui si può verificare il vaticinio di un grande Cardinale, l’arcivescovo di Baltimora, il Cardinale Gibbon, che sessant’anni fa scriveva in un rapporto riservato alla Santa Sede: «Il secolo futuro sarà il secolo, in cui la Chiesa non si accorderà con i Principi o con i Parlamenti, ma si accorderà con le grandi masse popolari». (Vivissimi applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale sulle «Disposizioni generali» del progetto di Costituzione.

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16 per la discussione degli articoli.

Avverto che domani vi sarà anche una seduta antimeridiana alle 10.

La seduta termina alle 18.55.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

GIOVEDÌ 20 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXIX.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 20 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Capua                                                                                                               

Pallastrelli                                                                                                    

 

Congedo:

Presidente                                                                                                        

 

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Ruggiero                                                                                                          

Amendola                                                                                                        

Calamandrei                                                                                                   

Pajetta Giancarlo                                                                                          

Rodinò Mario                                                                                                  

Bassano                                                                                                            

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, sul processo verbale, l’onorevole Capua. Ne ha facoltà.

CAPUA. Desidero chiarire solamente, con due parole, una mia frase con la quale la collega onorevole Mattei, ha voluto polemizzare, forse perché non è stata interpretata nel suo esatto significato.

Dissi scherzosamente, nel mio discorso tenuto alcuni giorni fa, parlando delle urne, e ripetendo un vecchio motto popolare, che si potevano considerare infide, perché di genere femminile.

Ciò ha solamente il valore di una battuta, d’una di quelle scherzose battute che si interpolano in un discorso fra un concetto e l’altro, per renderlo meno barboso, perché, spesso, in questa sede, i discorsi che dobbiamo tenere sono barbosi.

Ora devo dichiarare che ogni parola che da ogni settore, giustamente, si leva in onore delle donne italiane, non può trovare che profonda eco nel nostro settore, perché noi, come tutti gli altri partiti, onoriamo e stimiamo altamente tutte le donne italiane, tutte indistintamente e quindi anche l’avversaria onorevole Mattei.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Pallastrelli. Ne ha facoltà.

PALLASTRELLI. Ho chiesto di parlare sul processo verbale, e mi duole che non sia presente l’onorevole Nitti, per rettificare, garbatamente, quanto egli disse l’altro giorno a proposito dei Deputati che nell’altra guerra hanno combattuto al fronte. L’onorevole Nitti ha ricordato, e giustamente, l’onorevole Ruini, ma non ha detto che i Deputati che nell’altra guerra furono al fronte e soprattutto coloro, come il sottoscritto, che non furono mai teneri per le radiose giornate di maggio, dalle quali originò il fascismo, hanno fatto tutti il loro dovere. Anzi egli ha, me lo consenta l’onorevole Nitti, con frase poco riguardosa affermato che spesso i Deputati al fronte furono di ingombro. Desidero ricordare all’onorevole Nitti e all’Assemblea i nomi di diversi Deputati che fecero il loro dovere di soldato. Anzitutto, l’onorevole Brandolin che cadde al fronte; ricordo poi l’onorevole Soleri che fu ferito, l’onorevole Gasparotto, l’onorevole Cavallari…

Una voce. Bissolati.

PALLASTRELLI. …Bissolati che, per quanto anziano, si prodigò nei combattimenti e fu ferito gravemente. Mi sovvengono i nomi del nostro collega Micheli, di Gortani, Pirolini, Bonomi, Labriola, Comandini, Arcà. Vorrei citare tutti, ma mi sarebbe difficile a tanti anni di distanza. In tutti i partiti vi furono combattenti valorosi. Credo che l’onorevole Nitti, che in quel giorno ha citato soltanto Ruini, sarà d’accordo con me che questa mia rettifica occorreva, perché negli atti parlamentari sia registrato il valore e l’opera che i Deputati combattenti hanno dato nell’altra guerra per la vittoria delle armi italiane. (Applausi).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Treves.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

RUGGIERO. La discussione sulle disposizioni generali del progetto ha avuto il merito incontestabile di rifuggire da qualsiasi considerazione astratta, in quanto che gli oratori hanno portato il loro esame su punti precisi e determinati. Anche io seguirò lo stesso criterio nel limite delle mie modeste possibilità. Tratterò una sola questione la quale però mi sembra che rivesta carattere di straordinaria importanza, ed è questa: è necessario consacrare nella Carta costituzionale il principio inderogabile della libertà di tutte le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Su questo punto non ha parlato ancora nessuno e ritengo che invece sia necessario far convergere l’attenzione dell’Assemblea su questo elemento, perché ad un certo punto riveste un carattere di grande elevatezza, ove si pensi che è in ballo il principio fondamentalmente umano della libertà.

La questione, onorevoli colleghi, è stata trattata nel progetto di Costituzione in varî articoli: l’articolo 5, l’articolo 7, l’articolo 14. Ma appunto perché è stata trattata in tanti articoli e non ha avuto una norma precisa, il principio che io modestamente vorrei venisse affermato nella Carta costituzionale appare confuso, ambiguo, incerto e pieno di ambagi.

Sono costretto, a malincuore, ma per una ragione di insopprimibile franchezza, a dichiarare che la ragione di questa confusione, di questa ambiguità, di questa incertezza e anche di questa reticenza, è stata determinata e voluta dagli onorevoli rappresentanti della Democrazia cristiana in seno alla Commissione. (Interruzioni Proteste al centro).

Andiamo piano, perché se cominciamo con le interruzioni adesso, alla fine l’Assemblea diventerà un inferno! (Commenti).

La questione, onorevoli colleghi, fu posta in sede di Commissione e fu proprio l’onorevole Cevolotto il quale volle che venisse inserita nel progetto di Costituzione una norma che tutelasse allo stesso modo la confessione cattolica e le altre confessioni.

L’onorevole Dossetti rispose in questa maniera (come vedete io documento le affermazioni): «Come cattolici – egli disse – noi ci riserviamo un giudizio di valore in ordine alla religione» – e fin qui niente di straordinario – «come riconoscimento costituzionale non abbiamo alcuna riserva in ordine al pluralismo delle varie religioni. Ritengo quindi che tutti i fautori della libertà di coscienza e di culto dovrebbero sentirsi tranquillizzati da questa dichiarazione».

Senonché, questa rimase solo una dichiarazione, di carattere tutto metafisico e astratto, perché non riuscì poi a trovare applicazione concreta e pratica nel progetto di Costituzione. (Interruzioni).

Una voce. Non è vero.

RUGGIERO. Tanto è vero che quando l’onorevole Cevolotto, il quale si era mosso con generoso ardore per affermare il principio della libertà religiosa, fece osservare alla Sottocommissione che nel Codice italiano esisteva, ed esiste purtroppo un articolo, il 404, e chiese che venisse introdotto nel progetto di Costituzione un principio o una norma che valesse a modificarne il contenuto normativo, i rappresentanti democratici riluttarono. Questo articolo 404, onorevoli colleghi, stabilisce che per tutti gli atti di vilipendio contro la religione vi è una determinata sanzione. Però, mentre stabilisce una sanzione per gli atti di vilipendio compiuti contro la confessione cattolica, ne stabilisce una minore nei confronti degli atti di vilipendio contro le altre confessioni religiose. Naturalmente bisogna insorgere contro questa condizione di disparità, di disuguaglianza troppo palese, quando si pensi che è consacrata in un Codice. All’osservazione dell’onorevole Cevolotto, rispose l’onorevole Moro in questa maniera: «Si dichiara contrario, perché ritiene che la tutela penale accordata dal Codice sia opportunamente graduata. È chiaro – dice l’onorevole Moro – che una tutela penale ci deve essere e che, in quanto alla sostanza, debba essere eguale per tutti; ma non posso concordare che questa tutela abbia eguale, concreta applicazione (nella sostanza quindi sì, nella pratica no!) perché la tutela penale – è sempre l’onorevole Moro che parla – deve essere graduata alla proporzione del danno arrecato. Se, quindi, si tratta di una confessione professata dalla maggioranza degli italiani, il danno evidentemente è maggiore».

Questa è la dichiarazione, la quale dà luogo ad una confusione che non può essere negata e che, comunque, afferma che il principio dell’eguaglianza delle confessioni viene, rispetto alla legge, nettamente negato.

Voi credete che possa accogliersi il principio enunciato dall’onorevole Moro? Secondo me, onorevoli colleghi, no. Perché? Perché il Codice penale e la Carta costituzionale non possono essere considerati alla stessa stregua, in quanto che il Codice penale regola una materia specifica, mentre la Carta costituzionale è invece un atto originario, il quale rinnuova profondamente tutta una civiltà giuridica e politica. Non possiamo quindi usare gli stessi concetti quando portiamo il nostro esame sul Codice e quando lo portiamo invece sulla Carta costituzionale.

L’onorevole Moro ha ragione quando afferma che maggiore è l’offesa e maggiore il danno, quando il vilipendio venga fatto nei confronti della religione cattolica, perché è professata dalla stragrande maggioranza degli italiani. Badate però che noi, se seguissimo questo suo principio, commetteremmo l’errore di portare sul piano, diciamo, legale, nemmeno giuridico, un principio costituzionale.

Non possiamo infatti prendere nella Costituzione, come indice di valutazione, il danno; dobbiamo prendere invece l’altro principio, che è un principio superiore, umano, cristiano: il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.

Non possiamo noi ricorrere, come può fare il Codice quando vi è costretto, perché non sempre lo fa, a questo carattere quantitativo che è il danno: ma dobbiamo richiamarci invece al concetto superiore della libertà. Se no, la Carta costituzionale diventa un sistema metrico decimale. E, badate, non può essere fatta (come spesso è accaduto in quest’Aula, nelle discussioni e sui giornali) la questione che le altre confessioni rappresentano una minoranza. È questo un argomento che, secondo la mia molto modesta opinione, si ritorce contro di voi, colleghi della Democrazia cristiana. La democrazia deve infatti tener conto delle minoranze. Io penso, anzi, che la maturità di una democrazia debba valutarsi proprio dal grado di libertà concesso alle minoranze.

Nessuno ha messo in dubbio – e spero non venga messo in dubbio – che l’Assemblea Costituente è quella che deve maggiormente tutelare questo principio. Quindi, non può essere accettata la teoria dell’onorevole Moro. E non potrebbe essere accettata neppure una considerazione che in quella Sottocommissione ebbe a fare in un suo intervento l’onorevole Merlin Umberto.

Io questa considerazione non so definirla; non so se sia assurda, se sia ingenua, se sia spontanea. L’onorevole Merlin, quando intervenne in questa specie di contesa che aveva per oggetto la libertà, tra l’onorevole Cevolotto e l’onorevole Moro, disse «che la proposta di eguaglianza di trattamento di tutte le confessioni costituirebbe un’ingiuria al Capo della religione professata dalla maggioranza degli italiani». Io non debbo fare delle osservazioni a questa opinione, perché potrei molto facilmente peccare di irriverenza verso il Capo della religione cattolica; ma non mi sembra sia questo un argomento che possa esser fatto valere in questa sede, o, domani, in altra sede.

Dunque questi, onorevoli colleghi, sono i presupposti, i precedenti di carattere giuridico che hanno portato poi alla creazione di quel piccolo mostro, che pure ci sta tanto travagliando e affannando, che si chiama articolo 5. Stabiliti questi presupposti, cioè stabilita questa profonda discordanza, questo contrasto, questo dissidio, che non si può negare tra quelli i quali intendevano giungere necessariamente all’affermazione del principio di uguaglianza dinanzi alla legge, e l’altra corrente, non poteva naturalmente nascere che l’articolo 5, con tutte le sue incertezze e ambiguità.

Bisogna un po’ vederlo questo articolo nel progetto di Costituzione! Nell’ultima parte esso dice: «Le altre confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I rapporti con lo Stato sono regolati per legge, sulla base di intese, ove siano richieste, con le rispettive rappresentanze».

Quando si legge questo articolo, non si può fare a meno di una considerazione, che è questa: la questione delle confessioni religiose è stata trattata in tante Costituzioni; tutte le Costituzioni si sono espresse a questo proposito con una frase lineare, semplice, diritta: «Tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge». Quindi si prova un certo senso di diffidenza quando ci si trova di fronte ad una norma espressa in una forma così confusa, ambigua e incerta. Se da parte vostra, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, si ritiene che nel presente progetto le confessioni siano state messe sullo stesso piano, io non so però che cosa accadrebbe se, per esempio, qualcuno si levasse in quest’Aula e dicesse: «I rapporti tra Stato e Chiesa regoliamoli in questa maniera: scriviamo che la Chiesa ha diritto di organizzarsi secondo i propri statuti». Il settore democristiano si leverebbe tutto in una protesta di fiamma. Ma da ciò si desume che non vi è una parità di tutela nei confronti delle due religioni e delle due confessioni rispetto alla legge.

Voi pretendete, a vostra garanzia e tutela, il richiamo e l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Carta costituzionale.

Badate, quando si dice «hanno diritto di organizzarsi» si prende in considerazione non la confessione intesa come ente concreto, come istituto religioso, ma il diritto di organizzarsi, cioè viene espressa solo l’autorizzazione alla possibilità di attuare questo diritto, che è futuro. Non è presa in considerazione l’entità giuridica, ma è presa in considerazione l’organizzazione eventuale; cioè si prende in considerazione il fatto attuale, dinamico dell’organizzazione, e non l’entità materiale della confessione intesa come istituto.

Noi diciamo: queste confessioni religiose, diverse dalla cattolica, esistono, hanno una storia, hanno una tradizione; sono un fatto. Ed allora, perché non debbono essere regolate per la tutela dei loro diritti in questa sede, dove viene regolato il rapporto fra Chiesa e Stato? Quindi, vedete che l’ambiguità è palese ed evidente. Perché prendere in considerazione l’organizzazione e non l’ente, perché l’attività e non il fatto? C’è una obiezione che si può fare ed è quella che esiste: l’articolo 14 del progetto, il quale consacra il principio della libertà religiosa nei confronti delle altre confessioni, così come nei confronti della confessione cattolica.

Dice l’articolo 14: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda, ecc.». Quella frase «forma individuale o associata» starebbe ad indicare, secondo una certa interpretazione, che qui possono anche le altre confessioni esercitare liberamente il loro culto, perché nell’articolo 14 è detto che tutti possono esercitare la propria fede anche in forma associata.

Senonché, questa fu una specie di piccola transazione a cui si dovette addivenire da parte del Presidente onorevole Tupini nei confronti delle richieste reiterate e infaticabili dell’onorevole Cevolotto. Intervenne però nella discussione anche l’onorevole Togliatti per fare un’osservazione, secondo me, molto esatta. Egli disse che questa è una norma che può garantire il diritto di esercitare da parte di chiunque quella che è la libertà religiosa e di culto; però, diceva l’onorevole Togliatti, che non vedeva la ragione per cui si dovesse parlare di «tutti» e non di organizzazioni precise. È una piccola sfumatura, se vogliamo, aggiungeva l’onorevole Togliatti. Per me, onorevoli colleghi, è una cosa importante. E ne dico la ragione.

Voi vedete che, mentre si chiede il riconoscimento e la tutela dei diritti di compagini e di istituti, che sono le confessioni religiose concrete, si risponde all’istanza con l’espressione «tutti». Qui la norma diventa astratta nella sua latitudine, e può non avere un destinatario preciso. Quindi c’è un’ambiguità.

E siccome noi abbiamo dimostrato un amore veramente spartano per la brevità della Costituzione, diciamo: «Per quale motivo non vogliamo ricordarci di questo amore spartano ed inserire nella Costituzione – ove si parla delle confessioni religiose – una formula molto breve, ma che ha il merito di essere molto chiara, cioè: tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge?».

Si potrebbe così, onorevoli colleghi, forse, conciliare anche l’articolo 14 con l’articolo 5. Comunque, io non presento emendamenti; a me preme solamente di far presente la necessità di una norma nitida, netta, precisa, categorica, la quale esprima in maniera inconfutabile che esiste un diritto, da parte di tutte le confessioni religiose, ad esercitare il diritto della propria fede.

Se a questo non si addiviene, bisogna pensare che veramente, anche in questo caso, la Costituzione è un po’ il frutto di un compromesso. Questo è stato detto; ma, secondo me, onorevoli colleghi, mi pare che sia detto male, perché la Costituzione non è frutto di un compromesso, se mai di una transazione. Compromesso è l’alienazione di prestigio e di decoro da parte di due partiti per conseguire un fine ed un interesse utilitaristico, mentre la transazione – specialmente nell’accezione politica inglese – è un atto di nobiltà, perché è abdicazione volontaria, cosciente, libera, spontanea di una parte dei postulati ideologici o degli interessi di un partito o dell’altro, per conseguire poi, in una sfera superiore di concordia, l’obiettivo del bene del Paese. Quindi, quando si voglia definire il progetto della Carta costituzionale, forse bisogna parlare più di transazione che di compromesso. Però, io penso che ci sono dei punti in cui non è consentito a nessuno di addivenire a compromessi o a transazioni che sieno: non è consentito a nessuno, per esempio, di addivenire a transazioni – intese in qualsiasi accezione e in qualsiasi forma – su quello che è il principio fondamentale della libertà. Quindi, nessun compromesso su questo punto e mi pare che dovremmo essere tutti d’accordo.

Dovremmo essere tutti d’accordo nello stabilire questo: che la Chiesa indipendente e sovrana nel suo ordine interno, non deve interferire su quella che è la coscienza dei singoli; così come non deve interferire né comprimere quella che è la necessaria libertà concessa alle altre confessioni, di esercitare il loro culto.

Invece, egregi colleghi, questo purtroppo non si verifica. Infatti, dobbiamo constatare (è questa una constatazione obiettiva) che la Chiesa frequentemente, assiduamente, forse quotidianamente, è portata alla compressione del sentimento della libertà. (Rumori Interruzioni al centro). E molte volte – come posso dimostrarvi – è portata a comprimere il sentimento della libertà nei confronti dei lavoratori. Badate che io non voglio assumere il termine «lavoratore» nella sua accezione politica e marxistica, voglio assumerlo in senso più universale di lavoratori intesi come creature umane.

E allora noi, nei confronti di costoro, vediamo che la Chiesa non cessa mai di esercitare un’influenza la quale è contro la libertà. (Commenti).

Adesso mi spiego con un esempio pratico: posso mostrarvi un bollettino della parrocchia di Gianzirri (Rumori). Come vedete, si tratta di un organo che ha il prisma ufficiale della Chiesa. (Commenti). A un certo punto il povero parroco, su cui non voglio riversare alcuna responsabilità, sapete che cosa dice? Che «per disposizioni dei superiori… (Rumori).

PRESIDENTE. Lascino parlare.

RUGGIERO. Intanto è necessario inquadrare quello che dirò servendomi della presentazione di questo bollettino. Comincia con un articolo di carattere polemico «Socialismo e lavoratori» e dice, per esempio, «che è doloroso e vergognoso nello stesso tempo vedere nel nostro Paese i lavoratori che si fanno negatori della libertà dell’uomo e della fede cattolica quando s’iscrivono ai partiti socialisti». Dobbiamo notare che v’è un articolo il quale vieta ai preti di fare la propaganda politica, ma non è di ciò che voglio parlare: c’è una cosa più grave. Continua sempre il parroco col dire: «90.000 nostri fratelli prigionieri non sono più tornati dall’inferno sovietico. Nenni e Togliatti non sanno darne notizie».

Noi non sappiamo perché le notizie non dovrebbe darle anche l’onorevole De Gasperi. (Approvazioni a sinistra). Ma la questione è un’altra (Rumori). State a sentire. Continua il bollettino: «Relativamente a coloro che sono tesserati nel socialismo, ci dispiace dover applicare le disposizioni dei superiori, cioè: 1°) coloro che sono alla direzione del socialismo sono privati dei sacramenti anche a Pasqua; coloro che hanno aderito alle cooperative, ecc., come i loro capi, sono privati dell’uso dei Sacramenti».

Volete sapere che cosa significa questo? Prima di tutto, se è consentita un’osservazione di carattere morale, significa che a un certo punto la Chiesa fa servire il Sacramento da galoppino elettorale… (Rumori Interruzioni al centro). In secondo luogo vien soffocata la libertà di coscienza. Se, per esempio, un socialista o un comunista si rivolge a taluno che stia per entrare in Chiesa e gli dice: se entri in Chiesa sarai percosso, sapete che cosa succede? Deve rispondere del reato di violenza privata, che è un reato grave. E così, quando è minacciata la mancata propinazione del Sacramento (Commenti)…

(Permettetemi di non usare il termine tecnico che si riferisce a questo atto).

…quando è negato il Sacramento vien fatta una minaccia la quale esercita una grande influenza sull’anima del lavoratore; però non si risponde di violenza privata. E sapete perché? Perché la Chiesa è indipendente e sovrana ed ha la facoltà di concedere o non concedere il Sacramento, mentre il comunista o il socialista non hanno la facoltà di usare o non usare i loro pugni, perché i loro pugni sono in ogni caso puniti dalla legge. Ma di fronte al principio umano e sovrano dell’etica, della libertà, i due atti si equivalgono. (Approvazioni a sinistra Commenti al centro).

Tenete presente che dovrebbe essere interesse di tutti consacrare nella Carta costituzionale, sempre e in ogni caso, il principio della libertà. Badate che noi siamo stati chiamati proprio per assolvere a questa altissima funzione; ed oggi, per la prima volta, il popolo italiano fa una solenne affermazione che si risolve in un’affermazione di libertà. È questo un atto il quale deve essere all’altezza del suo carattere.

Considerate che noi possiamo fare una Costituzione di sinistra o una Costituzione di destra, perché naturalmente ogni Costituzione non è che il portato delle condizioni sia pure temporanee del Paese, in cui la Costituzione viene fatta; ma questo non vuol dir niente, perché, l’aver fatto una Costituzione di sinistra o di destra, non inficia la natura sostanziale della Carta costituzionale, e se noi non riusciamo a sancire il principio della libertà, il nostro scopo sarà completamente frustrato.

Devo fare un’altra considerazione che può avere grande importanza: quando avremo compiuto questo atto che si chiama Costituzione, anche gli stranieri vorranno esprimere su di esso il loro giudizio, e costoro non porranno mente a quelle che saranno state le innovazioni nella organizzazione e struttura dello Stato. Non ci penseranno nemmeno! Si fermeranno a considerare se gli italiani, nel redigere la Costituzione, vi hanno affermato i principî universali della civiltà. Da questo esame può dipendere quella che sarà l’opinione che gli stranieri si faranno di noi. Ed ho la convinzione che molti di essi – ciò non vuole ammettere un vincolo di dipendenza verso gli stranieri, ma può essere una considerazione di qualche valore – si fermeranno a vedere se anche in Italia, come in tutti i Paesi del mondo, sia stata data alla religione, che può essere la loro religione, perché molti popoli non sono cattolici, la necessaria garanzia di libertà.

Noi esprimiamo il massimo rispetto verso la Chiesa cattolica ed anzi possiamo affermare, senza tema di smentita, che da parte nostra non è stato fatto mai nessun atto di vilipendio nei suoi confronti.

Però è necessario che la Chiesa abbia, nei confronti di quelli che sono i valori morali eterni, lo stesso rispetto.

Siamo disposti a concedere che la Chiesa cattolica abbia una posizione di preminenza rispetto alle altre religioni, perché in effetti rappresenta la stragrande maggioranza degli italiani e potremo arrivare anche a stabilire, per esempio, per la Chiesa cattolica la condizione del primus inter pares, che è una condizione giuridica e morale ineccepibile.

Può esistere una condizione di privilegio e di preminenza rispetto alle altre confessioni religiose, ma di fronte alla libertà che è sempre un principio eterno, tutte le confessioni devono essere uguali.

Noi riconosciamo che la religione ha un grande valore; non possiamo non riconoscere che nel campo morale essa funziona come limite e ha un valore ed una efficacia alle volte superiori alla stessa legge. Io personalmente non posso non riconoscere che la religione è un gran bene, quando penso che nei tuguri della mia terra, dove le famiglie vivono affastellate in una promiscuità veramente bestiale e dove le carni innocenti spesso sono artigliate dalla fame, il lumicino acceso innanzi alle immagini sacre è l’unico raggio, di speranza e di consolazione. Sappiamo tutti che la religione è stata un grande conforto in questo periodo di devastazioni e di sovvertimenti prodotti dalla guerra. Non possiamo negare, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, che tutte le nostre donne, le madri, le spose, le figlie, le sorelle, che hanno salutato lungamente dai davanzali e dalle soglie delle case qualcuno che è partito e che non torna più, trovano la rassegnazione nella pace della religione. Tutte queste cose le sappiamo (Commenti); però sappiamo anche che esiste un altro bene che è al di sopra delle nostre miserie e dei nostri crucci, un altro bene che sta al di sopra di tutte le direzioni di tutti i partiti, di tutti i campanili di tutte le Chiese del mondo, un altro bene che sta al di sopra di tutte le più alte montagne della terra e che si chiama libertà. E questa va rispettata. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Amendola. Ne ha facoltà.

AMENDOLA. Onorevoli colleghi, credo che, al punto in cui siamo giunti in questo nostro dibattito sulle disposizioni generali del progetto di Costituzione, la brevità sia d’obbligo, non solo per rispettare il tempo consentitoci dal nostro Presidente, ma anche perché, dopo che da una parte e dall’altra molteplici argomenti sono stati portati a sostegno delle varie tesi, conviene ormai cercare di trarre dalla discussione le conclusioni che si impongono.

Io non starò quindi a riprendere gli argomenti sostenuti con molta autorità dai colleghi che mi hanno preceduto, dall’onorevole Marchesi, dall’onorevole Ravagnan, dall’onorevole Targetti, dall’onorevole Basso, dall’onorevole Mancini e da altri a favore dell’emendamento proposto dall’onorevole Togliatti nella prima Commissione al primo capoverso del primo articolo e per il quale questo dovrebbe essere così formulato: «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». Mi limiterò invece ad esaminare più modestamente le obiezioni e le critiche che a questo emendamento sono state opposte dagli oratori di alcune parti di questa Assemblea.

Le obiezioni, le critiche, e anche le esitazioni e le preoccupazioni che sono state avanzate, si possono dividere in due gruppi: quelle mosse da oratori di parte liberale e qualunquista, e che sono obiezioni di merito, che contestano non solo il nostro emendamento, ma anche il terzo capoverso del primo articolo; e quelle espresse da altri colleghi di parte democristiana, che approvano il terzo capoverso, ed hanno anche presentato un emendamento per cui la Repubblica democratica dovrebbe essere «fondata sul lavoro», ma che esitano ad accettare l’emendamento da noi proposto nella forma chiara e semplice di «Repubblica democratica di lavoratori».

Dirò che le obiezioni più sostanziali, di merito che ci sono state opposte dagli oratori di parte liberale e qualunquista non mi hanno sorpreso. Non si può andare d’accordo con tutti. In certi casi, si deve anzi non andare d’accordo, quando si parte da presupposti così lontani e diversi.

Questa opposizione ci fornisce anzi la controprova della giustezza della nostra tesi, ci prova, ancora una volta, la necessità da noi avvertita che fin dal primo articolo sia espresso, in modo chiaro, semplice e popolare, e nello stesso tempo solenne e lapidario, il carattere della nuova Costituzione, il carattere che la precisa politicamente e storicamente, il carattere popolare e antifascista che essa deve avere, dopo la tragica esperienza vissuta dall’Italia nell’ultimo ventennio.

Gli argomenti opposti dai colleghi liberali e qualunquisti, in sede di Commissione ed anche qui, sono tolti dal bagaglio dottrinario del vecchio liberalismo, per il quale ogni limitazione delle libertà economiche dei singoli appare anche come una limitazione delle libertà politiche, e per il quale ogni concreta specificazione storica e sociale del concetto di democrazia appare non come un arricchimento della democrazia, ma come una sua limitazione.

Com’è melanconico ricordare oggi, di fronte a queste posizioni, i propositi espressi da molti amici liberali negli anni della cospirazione, quando essi riorganizzarono nuovamente il loro partito e quando, nelle lunghe discussioni che hanno intessuto la nostra vita di cospiratori, si affannavano a precisare che il loro non era un ritorno al vecchio liberalismo, ma l’affermazione di un nuovo liberalismo che si alimentava di nuove concezioni sociali; che il liberalismo non voleva dire necessariamente liberismo, libertà politica non voleva dire libertà per i monopoli, ed il liberalismo poteva essere accompagnato da una politica di solidarietà sociale.

Non so se gli amici di allora, che in questo modo difendevano la linea di un nuovo liberalismo, se ne siano andati o siano ancora rimasti in quello che si chiama ancora il partito liberale.

Certo è che di queste affermazioni e di queste ansie sincere, che ho conosciute allora in molti amici liberali, oggi non appaiono più tracce in questo ritorno alle concezioni dottrinarie del vecchio liberalismo.

Non voglio riprendere in questa sede una discussione che altri, con molta autorità, hanno già svolta, né riprendere una polemica che per venti anni, quando il fascismo ci toglieva la possibilità di agire apertamente, ci ha sufficientemente occupati. La polemica interna dell’antifascismo in venti anni è stata, infatti, sempre in questa contrapposizione fra comunismo e liberalismo, tra socialismo e liberalismo; e ci sembrava, in quel dibattito, essere arrivati a conclusioni, che avrebbero potuto permetterci, pur nella differenza di posizioni ideologiche, di lavorare insieme alla ricostruzione democratica del nostro Paese.

Ma queste discussioni sono oggi cosa vecchia, perché oggi, in fondo, dietro a questa ripresa dottrinaria degli argomenti del vecchio liberalismo c’è la sostanza politica della nuova situazione italiana e della funzione che in essa si è accinto ad assolvere il partito liberale. Vi è, infatti, in questa opposizione al nostro emendamento, in questa opposizione anche al terzo capoverso del primo articolo ed all’affermazione che la base della Repubblica è il lavoro, non tanto l’eco di preoccupazioni dottrinarie, quanto l’eco di preoccupazioni ben più concrete, le preoccupazioni di quei ceti che vedono come da questa formulazione apposta all’inizio della Costituzione dovrebbero derivare per essi delle conseguenze pratiche che li colpirebbero nei loro reali interessi privilegiati.

Vi è in questa posizione non tanto l’eco delle vecchie posizioni dottrinarie, quanto l’eco delle preoccupazioni dei grandi proprietari agrari che temono le riforme agrarie, dei grandi monopolisti che temono la riforma industriale, le nazionalizzazioni ed i consigli di gestione; l’eco delle preoccupazioni dei grandi affaristi e degli speculatori che temono che una Costituzione che si inizia con le parole chiare e precise di «Repubblica democratica di lavoratori» sia una Costituzione che apre la via a quel rinnovamento sociale ed economico che essi non vogliono, perché colpirebbe i loro interessi privilegiati, le basi delle loro posizioni egemoniche da essi occupate nella vita del Paese.

Questa è la sostanza politica che sta alla base del dibattito sull’articolo 1, ed essa si collega con quanto sta avvenendo nel Paese. Cresce nel Paese, e si fa ogni giorno più chiara e consapevole nelle grandi masse popolari, la preoccupazione di una possibile rinascita del fascismo.

I lavoratori sono sorpresi, inquieti, sdegnati di fronte all’impudenza e al cinismo col quale i responsabili della catastrofe hanno osato tornare sulla ribalta della vita italiana e, giorno per giorno, col denaro accumulato durante il ventennio, cercano di riconquistare nuove posizioni e di corrompere, di sabotare, di impedire che la ripresa democratica del Paese abbia libero corso.

Una grande collera sale dal cuore del popolo. Questa collera è una cosa di cui bisogna tener conto, o signori. Non scherzate col fuoco! (Interruzione dell’onorevole Capua). Il popolo ci domanda che la Costituzione italiana sia una Costituzione che possa impedire ogni ritorno di fascismo, sia una Costituzione che dia all’italiano garanzie di piena e sicura libertà. (Interruzione dell’onorevole Capua).

PRESIDENTE. Onorevole Capua, non interrompa.

AMENDOLA. La sola garanzia valida che può essere data al popolo italiano, giustamente indignato e preoccupato, la sola garanzia seria di libertà e di democrazia può essere fornita da quelle misure che impediranno che nella vita del Paese i gruppi privilegiati che ieri hanno dominato possano continuare a dominare; e queste misure concrete – riforma agraria, riforma industriale, piano economico, consigli di gestione – trovano il loro presupposto nella formula che noi domandiamo sia proclamata all’inizio della Costituzione, quale orientamento del nostro lavoro, come guida ed orientamento per la nuova via che il popolo italiano dovrà seguire, per la nuova via che sarà aperta dalla Costituzione che stiamo elaborando.

Oltre questo gruppo di opposizioni e di critiche, altre obiezioni ci sono mosse dai colleghi della Democrazia cristiana. Molti di questi hanno sentito con noi che ormai, di fronte all’esperienza vissuta nell’ultimo ventennio, i diritti della persona umana non possono essere garantiti soltanto sul piano politico, ma vanno garantiti anche sul piano economico e sociale. Essi quindi comprendono la necessità che il nuovo ordinamento democratico sia basato sul lavoro e riconosca i nuovi diritti del lavoro.

Tuttavia, pur partendo da queste premesse, essi esitano ad arrivare alle stesse conclusioni. E in sede di Commissione si sono pronunziati contro l’emendamento da noi proposto. Non mi sembra fondato il timore che è stato espresso, che la specificazione «di lavoratori» possa conferire un carattere classista alla Costituzione.

Infatti, l’articolo 29 del progetto definisce l’obbligo del lavoro in modo da abbracciare tutti coloro che compiono un lavoro socialmente necessario, manuale o intellettuale che sia. L’obbligo del lavoro è dunque «l’obbligo di svolgere un’attività o una funzione idonee allo sviluppo materiale e spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta».

Né da questa affermazione deriva l’obbligo, per lo Stato democratico, di separare, di distinguere completamente i lavoratori dai non lavoratori. Questo obbligo ci sarebbe stato, se fosse stata accolta una proposta avanzata in sede di Commissione dai democristiani, per cui i non lavoratori avrebbero dovuto venire esclusi dal diritto di voto. Io non mi nascondo le difficoltà pratiche che, nelle attuali condizioni economiche e sociali dell’Italia, deriverebbero da una norma simile, anche dando alla parola «lavoratori» il significato più generale che noi le abbiamo conferito. Ma i colleghi democristiani non hanno insistito su questa loro proposta.

La scelta quindi non la fa lo Stato, ma il singolo cittadino il quale, nella sua coscienza, sente se è un lavoratore o se un parassita, se è uno che dà il suo contributo allo sviluppo sociale del suo Paese, o se vive invece da parassita sui frutti del lavoro compiuto da altri. In realtà, dalla dichiarazione possono sentirsi colpiti solo coloro che sono, direi, consapevoli di questo loro stato di parassiti, coloro che passano sapendo di non lasciare tracce della loro oziosa esistenza, quelli che per ciò stesso si escludono dalla vita della Nazione. Perché, che cosa è la vita della Nazione se non la storia di coloro che lavorano e fanno col loro lavoro, col loro ingegno, che l’Italia sia il Paese che è, col suo volto cesellato da innumeri generazioni, il Paese che noi abitiamo, con le terre lavorate e le città e i monumenti e le fabbriche, tutto frutto del lavoro e dell’ingegno italiano?

Perché dunque, amici della Democrazia cristiana, questa esitazione? Perché questa perplessità di arrivare alle conseguenze logiche, dalle premesse da cui siete pure partiti? Io vedo in questa esitazione, in questa incertezza, un altro episodio, un altro esempio, di quello che io chiamerei lo stile democristiano, il carattere della vostra azione politica, il carattere dell’azione politica di un grande partito sul quale pesano tante gravi responsabilità e dal quale dipende invece tanta parte dell’incertezza e delle difficoltà stesse in cui si travaglia la nuova democrazia italiana.

Un grande partito che afferma alla base del suo programma le aspirazioni dei lavoratori ad un profondo rinnovamento sociale, ma che, quando si tratta di passare ai fatti che queste premesse comandano, allora esita, si arresta, fa un passo avanti e poi due in dietro. (Commenti al centro).

Ve ne ho dato la prova: ed è in questo primo articolo. Perché non venite con noi alle conclusioni che derivano delle premesse da cui dite di partire? Voi create così quello stato di incertezza e di malessere in cui si dibatte attualmente la democrazia italiana nel nostro Paese, e togliete al nostro Paese quella prospettiva, quella certezza, quell’entusiasmo, di cui esso avrebbe bisogno in questo periodo di difficile ricostruzione democratica, perché non si possono vincere le grandi battaglie politiche ed economiche che ci attendono, se tutta la democrazia italiana non è pervasa da una grande sicurezza, da una grande fede, da un grande entusiasmo nel suo avvenire. Voi quest’entusiasmo lo spegnete con la vostra esitazione, con la vostra perplessità, e causate in questo modo quell’arresto, quella paralisi, che noi dobbiamo superare, se vogliamo che la democrazia italiana possa vivere e prosperare. (Interruzioni Commenti al centro).

CINGOLANI. Non siamo in comizio!

AMENDOLA. Non abbiate paura, colleghi, e se credete veramente che il lavoro è il fondamento della Repubblica, non nascondete, vergognosamente, pudicamente, questa affermazione nelle pieghe di un capoverso che pochi leggeranno (Commenti al centro); ma proclamatelo solennemente, direi orgogliosamente, nella prima riga della Costituzione, in una dichiarazione che tutti gli italiani conosceranno e che dia a tutti i lavoratori la certezza o la fede nell’avvenire democratico del nostro Paese. (Interruzioni al centro).

E io credo che una nostra affermazione concorde – che è possibile – su questo primo articolo, avrebbe un grande significato e illuminerebbe i nostri lavori; permetterebbe di affrontare insieme le difficoltà che incontreremo nei prossimi articoli. Affrontiamo e superiamo insieme questa superabile difficoltà che ci troviamo davanti al primo articolo, e potremo fare della buona strada anche negli altri articoli.

Questa discussione sul primo articolo non è accademica; esprime politicamente il significato dei nostri lavori e segna l’indirizzo generale che noi vogliamo dare alla nostra Carta costituzionale. C’è stato in Italia, in questi ultimi anni, un grande rivolgimento politico e sociale, si è iniziato un grande processo rivoluzionario. Il nostro compito è di creare una Costituzione che permetta a questo processo rivoluzionario di svolgersi sul terreno della legalità democratica, per operare nel rispetto della legalità le necessarie modifiche della nostra struttura sociale.

Nello sviluppo di questo processo rivoluzionario abbiamo già vissuto due momenti essenziali, che non dobbiamo dimenticare: il momento della rivolta popolare contro il vecchio ordine di cose, e il momento in cui una nuova classe dirigente, uscita dal popolo, è apparsa nel fuoco di questa lotta popolare. Oggi viviamo faticosamente un altro momento, un momento in cui dobbiamo, nelle particolari ed originali difficoltà della nostra situazione, creare il nuovo e più giusto ordinamento da sostituire al vecchio che è caduto. Il primo momento – non dimentichiamolo – è quello della rivolta popolare. Sembra storia lontana, remota; ed è storia recente. Tra un mese, il 25 aprile, avremo compiuto due anni dalla data di quella insurrezione che ha concluso vittoriosamente il movimento nazionale che si era iniziato a Napoli, insurrezione nazionale alla quale hanno partecipato milioni di italiani, che vi hanno dato il loro contributo – contributo di opere, di eroismo, di sangue – e nella quale centinaia di migliaia di italiani hanno preso le armi. Mai nella storia italiana un movimento popolare ha abbracciato masse di italiani così ingenti ed ha richiesto ad uomini del nostro Paese così grandi sacrifici. E questo movimento, questa rivolta, questa lotta non erano solamente per cacciare dal nostro Paese lo straniero, il fascista; ma erano anche per dare all’Italia un nuovo ordinamento politico e sociale. Non lo dimentichiamo! Chi c’è stato si interroghi, ricordi quello che esso pensava, che cosa pensava che dovesse essere l’Italia che doveva uscire da questo tormento, che cosa speravano i compagni di lotta, quelli che non ci sono più. Chi non c’è stato compulsi i giornali clandestini dell’epoca, studi i documenti dell’epoca, i primi atti del Comitato di liberazione, gli atti del C.L.N.A.I., gli atti di quel nuovo potere popolare che nasceva nel corso della lotta, e che esprimeva in ogni sua affermazione questa volontà di rinnovamento politico, economico e sociale.

Oggi, questa aspirazione consacrata dal sangue di tanti caduti, che hanno voluto che dal fascismo, dalle rovine del fascismo e della guerra, nascesse un’Italia nuova più grande e più giusta, non deve essere dimenticata. Sarebbe una dimenticanza fatale! In quello stesso tormento rivoluzionario si è verificato un fatto nuovo: l’apparizione nella vita politica italiana di una nuova classe dirigente, uscita dal popolo, preparatasi nel lungo ventennio e che ha dimostrato in quegli anni e in quelle difficoltà le sue autentiche capacità, la sua tempra morale, la sua intelligenza politica. Oggi è di moda irridere la nuova classe dirigente antifascista. La cosa non ci sorprende. Ogni volta che un Paese vive un rivolgimento sociale, la vecchia classe dirigente sorride alla nuova classe dirigente che avanza, a queste nuove forze che avanzano, ma di fronte alle quali essa deve finire col cedere il passo. E così si tenta di irridere oggi alla nuova classe dirigente, maturatasi in carcere e nella lotta insurrezionale, una classe dirigente che non ha avuto la possibilità di un apprendistato democratico e che si è dovuta formare da sola, in condizioni di grandi difficoltà, ma che ha dimostrato di essere dotata di quelle qualità che sono necessarie perché una classe dirigente possa guidare un Paese. Questa classe dirigente ha dimostrato di avere una dedizione assoluta alla causa del popolo, ed un legame vivo ed operante col popolo, che gli permette di esprimere i bisogni del popolo e di difenderli in ogni occasione.

Quello che ha fatto, quando ha potuto agire liberamente questa classe dirigente e le pagine che ha scritto durante la lotta degli anni difficili, sono tra le migliori pagine della vita eroica del nostro Paese. Sono le pagine che hanno saputo scrivere i partigiani, e quelle scritte dai Comitati di liberazione, nella loro azione di governo e di amministrazione, pagine che onorano la nuova classe dirigente e che è bene siano ricordate qui. Molti di quegli uomini di primissimo ordine, molti di coloro che parteciparono al movimento del Comitato di liberazione, non si trovano in questa Assemblea perché le loro stesse qualità, il loro disinteresse e la loro modestia, hanno spesso impedito loro, a liberazione avvenuta, di conservare nei diversi partiti le posizioni tenute nell’ora del combattimento. Ma io credo che noi sentiamo in questa Assemblea la mancanza della loro concretezza, della loro aderenza ai bisogni del popolo. Molti di questi uomini, che hanno dimostrato in quel momento e in quelle difficoltà la loro capacità, le dimostrano ancora oggi, anche al di fuori di qui, nei municipi, nei sindacati, nelle cooperative, nelle associazioni popolari, in quel movimento democratico popolare che è il fatto nuovo che colora l’attuale situazione politica.

Perché sta avvenendo nel nostro popolo qualche cosa di nuovo: è il processo rivoluzionario che continua, ed è un fenomeno che forse sfugge a qualche osservatore superficiale: oggi le masse popolari hanno cominciato a partecipare alla vita politica del Paese ed alla soluzione dei problemi nazionali. Si sta compiendo così quella che è stata la più grande aspirazione dei democratici sinceri, che hanno combattuto in altri momenti della vita italiana ed arriva a compimento il grande moto unitario iniziatosi col Risorgimento. Anche nel nostro Mezzogiorno, tormentato e dolorante, i lavoratori, scuotendo finalmente le catene della loro oppressione, sono usciti finalmente alla luce della lotta politica cosciente e consapevole, sono usciti dall’isolamento, si sono uniti e organizzati, e lottano per strappare la terra ai proprietari latifondisti e per crearsi possibilità di vita più umane.

Non chiudete gli occhi, o signori, su questo fenomeno, su questo movimento, su questa entrata delle masse popolari nella vita politica della nazione. Questo è un fatto ormai permanente della nostra vita nazionale, il fatto rivoluzionario che è la base incrollabile della nuova democrazia che abbiamo costruito e che stiamo rafforzando. Uomini, donne, giovani, lavoratori si uniscono nelle loro organizzazioni sindacali, professionali, culturali, discutono i loro problemi, partecipano giorno per giorno alla soluzione dei loro problemi particolari e dei più generali problemi nazionali e danno finalmente allo Stato democratico italiano quel consenso, quel legame col popolo, che è mancato nel 1922 e la cui mancanza fu, appunto, una delle cause della nostra catastrofe.

Diamo a questo popolo di lavoratori fiducia nello Stato democratico, facciamo sì che lo Stato – che ad essi è apparso sempre come un nemico – appaia loro come uno Stato nel quale essi potranno democraticamente far trionfare le loro aspirazioni.

Questo è il mezzo per rafforzare veramente con la fiducia del popolo il nuovo Stato e per evitare gravi crisi sociali al nostro Paese.

Sul frontone dell’edificio che stiamo costruendo scriviamo la parola «Repubblica democratica di lavoratori», dimostrando così subito al popolo che la casa che stiamo costruendo è veramente la sua casa. I lavoratori italiani lavoreranno uniti per farla più forte e più sicura e per difenderla contro ogni minaccia, e saranno il presidio della nostra indipendenza e della nostra libertà. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, quello che sto per dire sarà poco più di una dichiarazione di voto anticipata sull’articolo 5, fatta non solo a nome mio, ma a nome del gruppo al quale appartengo.

Noi siamo fermamente e recisamente contrari all’articolo 5 com’è attualmente formulato, e per questo voteremo contro. Parrebbe superfluo mettere in evidenza questa che sembra una conseguenza di logica elementare; ma noi lo dichiariamo per distinguerci da quei colleghi autorevolissimi, i quali sono contrari all’articolo 5 e per questo voteranno a favore. (Si ride).

L’amico e collega La Pira, che mi dispiace non veder presente perché la sua presenza dà un senso di serenità e di possibilità di intesa alle nostre discussioni, l’amico La Pira, in quel discorso che tutti stemmo ad ascoltare con quel rispetto attento che merita la parola degli uomini che credono in quello che dicono, si lamentò che questa discussione che si svolge qui sui Patti lateranensi fosse quasi una irriverenza verso la Chiesa, e disse: «Date il voto favorevole a questo articolo 5 per una ragione di delicatezza verso la Chiesa, che ha tante benemerenze».

Ora io vorrei dire all’amico La Pira che riconosciamo anche noi che può essere non gradito alla Chiesa che qui si svolga questa discussione sui Patti lateranensi. L’onorevole Togliatti, nel suo ultimo discorso, lesse un testo latino, dal quale apprendemmo che la Sede apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei Governi i quali non sono costretti a riportare l’approvazione di un corpo rappresentativo. Questa discussione pubblica può essere incresciosa per la Chiesa; ma non siamo stati noi che l’abbiamo provocata (Interruzioni). Chi può aver mancato di delicatezza verso la Chiesa provocando questa discussione che non era né necessaria né utile, non siamo stati noi, amici democristiani; ma dal momento che questa discussione si deve fare, noi abbiamo il dovere di dire in proposito, con tutto il rispetto ma con tutta l’energia, il nostro pensiero.

Noi siamo contrari all’articolo 5, così come è formulato, perché lo consideriamo un errore; un errore per chi lo ha proposto, un errore per chi lo approverà: errore di carattere giuridico ed errore di carattere storicopolitico.

Errore di carattere giuridico, prima di tutto: direi anzi cumulo di errori di carattere giuridico.

Per il primo comma, che dice «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», questo è stato detto a sazietà; l’hanno detto gli onorevoli Orlando, Croce, Nitti, Labriola, che questo non è, né per la sua forma né per la sua sostanza, un articolo che possa trovar posto in una Carta costituzionale. È un articolo di un trattato internazionale; è un articolo in cui due enti, che si affermano tutti e due sovrani, si mettono d’accordo per riconoscere reciprocamente la loro sovranità. Ma la Costituzione, quella che noi stiamo discutendo, è l’atto di una sola sovranità: del popolo italiano, della Repubblica italiana. Qui parla soltanto il popolo italiano, la Repubblica. La Chiesa qui, in questa sede, in questo momento, non ha aperitio oris. Non c’è nessuno che la rappresenti; né credo che pensino di rappresentarla in questa sede gli amici democristiani, i quali sono stati mandati qui per rappresentare il popolo e non per rappresentare la Chiesa.

TUPINI. Il popolo cattolico!

CALAMANDREI. E se pretendessero di poter parlare anche in nome della Chiesa, pretenderebbero in questo momento di compiere quello che giuridicamente è un assurdo ed un monstrum, cioè un… contratto con se stessi. Lo Stato è sovrano e non c’è bisogno che la Chiesa ne riconosca la sovranità. È vero – lo ha detto l’amico La Pira e lo sentiremo ripetere io credo anche dal collega ed amico Dossetti – che ormai è comunemente ammessa la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. L’antica teoria, secondo la quale il diritto deriverebbe soltanto dallo Stato, è stata superata. Per merito di Benedetto Croce nel campo filosofico e poi, nel campo giuridico, per merito soprattutto di un’opera fondamentale di diritto costituzionale, L’ordinamento giuridico di Santi Romano, oggi è diventata comune la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, la quale insegna che il fenomeno giuridico, il sorgere originario del diritto non si verifica soltanto nello Stato, ma si verifica in tutte le istituzioni che naturalmente si formano nella società, in tutte le comunità, tra le quali, augusta e altissima, è la Chiesa. Ma questa teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici non ha niente a che vedere con questo articolo 5; perché, quando, come qui, ci si trova nel cuore di un ordinamento giuridico, cioè nell’interno di questa Assemblea Costituente, dalla quale deve scaturire la legge fondamentale dell’ordinamento giuridico di cui noi siamo i costruttori, allora noi dobbiamo darci cura soltanto di questo ordinamento giuridico, di cui siamo al centro, e soltanto in nome di esso possiamo creare le nostre leggi.

Che cosa pensereste voi di un articolo inserito nella nostra Costituzione, il quale dicesse così: «L’Italia e la Francia sono ciascuna, nel proprio ordine, indipendenti e sovrane»? (Ilarità Vivi commenti al centro).

Io mi dolgo che non sia presente il collega La Pira, perché vi insegnerebbe, colleghi democristiani, la moderazione e la sopportazione. (Commenti).

State ad ascoltare, e poi confutatemi, e non alzate le braccia con aria di meraviglia, perché quello che dico sono nozioni elementari che tutti i giuristi seri non possono non accettare.

PRESIDENTE. Lei ha ragione, ma non ponga degli interrogativi, perché altrimenti gli onorevoli colleghi risponderanno. Comunque, anche se ne ponesse ancora, prego i colleghi di non rispondere.

CALAMANDREI. Allora, io domando non agli amici democristiani, ma domando a me stesso che cosa potrei dire di un articolo così formulato; e da me stesso mi darò la risposta.

Questa argomentazione io la sottoposi già alla Commissione dei Settantacinque; ed allora chi si alzò a confutarmi fu l’onorevole Togliatti, il quale non mi interruppe, come fanno oggi gli amici democristiani, ma chiese la parola e cortesemente al suo turno mi obiettò: –  Un articolo di questa natura sarebbe inutile, sarebbe assurdo, perché questi due ordinamenti, l’Italia e la Francia, sono entrambi ordinamenti dello stesso ordine, e sarebbe superfluo e vano questa specie di scambio di cortesie, che consisterebbe nel riconoscere reciprocamente una sovranità inerente a diversità di ben distinti territori nazionali.

Ma – continuava l’onorevole Togliatti – quando si tratta di Stato e Chiesa, si tratta di due ordinamenti che vivono in due diversi ordini, ed appunto perché sono due ordinamenti su piani diversi questo riconoscimento reciproco di sovranità diventa necessario.

Questa argomentazione dell’onorevole Togliatti non mi persuade. Perché questo riconoscimento è qui necessario? Se veramente questi due ordinamenti vivessero su piani diversi, non mi pare che da ciò deriverebbe la conseguenza voluta da Togliatti. In che potrebbe consistere la diversità di piano di questi due ordinamenti? Si potrebbe pensare che lo Stato regoli l’ordine temporale, la Chiesa regoli l’ordine spirituale; ma se così fosse, se veramente questi due ordinamenti fossero interamente su piani distinti, in diverse dimensioni per così dire, questi due ordinamenti non si incontrerebbero mai; non ci sarebbe mai fra essi ragione di conflitto e di collisione; e non vi sarebbe bisogno dunque di reciproco riconoscimento.

In realtà, la ragione per la quale invece sorge l’opportunità di regolare le relazioni tra questi due ordinamenti è che vi è un terreno sul quale questi due ordinamenti sono tutti e due della stessa natura, tutti e due dello stesso ordine: di natura temporale, cioè, di natura politica. Ed è proprio questo terreno di carattere politico, in cui si verifica l’incontro e in cui nasce il problema.

Ho qui l’ultimo numero di Civiltà Cattolica, nel quale si legge un dotto articolo del padre Lener: Sovranità della Chiesa e sovranità dello Stato nella dottrina generale del diritto.

Il Lener osserva che per risolvere il problema «non sembra sufficiente il qualificare semplicemente spirituale la sovranità della Chiesa e temporale e politica quella dello Stato. Questa opposizione in via assoluta non è punto esatta; dimostrata invece la giuridicità dell’ordinamento canonico, la sovranità della Chiesa non può non essere riconosciuta anch’essa temporale e perciò stesso, in qualche guisa, politica».

Dunque è questo urto tra due ordinamenti, ambedue politici, che bisogna cercare di regolare; ed è un vaniloquio il formulare norme come quelle del primo comma dell’articolo 5, in cui questi due ordinamenti riconoscono reciprocamente la propria sovranità, perché quando si arriverà su un terreno pratico in cui nascerà il conflitto ed in cui si troveranno nei due ordinamenti norme divergenti e contrastanti, allora si tratterà di stabilire se devono prevalere gli ordinamenti dello Stato, la cui sovranità è stata riconosciuta dalla Chiesa, o se devono prevalere gli ordinamenti della Chiesa, la cui sovranità è stata riconosciuta dallo Stato !

Parliamoci chiari; questa norma del primo comma è assolutamente superflua (Interruzioni al Centro Commenti); è messa lì per far credere di aver risolto un problema che in realtà rimane insoluto, con una frase che sembra piena di significati arcani, ma che in realtà non significa nulla.

Ma più grave, onorevoli colleghi, è il secondo comma, quello che dice: «I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi».

Dicono gli amici democristiani (vorrei che capiste che quando vi chiamo amici non lo dico per complimento), che questa formula ha il valore di una constatazione storica. I Patti lateranensi ci sono stati; è una realtà storica che non può essere ignorata dalla nostra Costituzione.

Io potrei anche non essere contrario a che dei Patti lateranensi nella Costituzione si facesse un cenno al solo fine di ricordare un evento storico del passato. Per questo io avevo proposto che nella Costituzione vi fosse un preambolo, nel quale potrebbe essere utile e significativo tener conto, in maniera sommaria, di quelli che sono stati gli eventi fondamentali da cui è nata, attraverso il travaglio secolare, la Repubblica italiana; e tra questi eventi, potrebbe essere degnamente ricordata la soluzione territoriale della questione romana, ottenuta attraverso i Patti lateranensi. Ma quando questi Patti lateranensi me li volete inserire in un articolo della Costituzione, allora questo accenno storico diventa una norma giuridica, diventa un principio di diritto costituzionale; e in tal caso le conseguenze di questa trasformazione di una verità storica in una norma di diritto costituzionale sono assai gravi.

La prima conseguenza è questa: che prima di tutto si viene a stabilire che, d’ora in avanti, dal momento che i Patti lateranensi diventeranno parte, richiamati per rinvio, della Costituzione, e dal momento che essi non si potranno modificare se non d’accordo con l’altro contraente, noi avremo così introdotto nella nostra Costituzione una serie di norme che non saranno modificabili altro che col consenso di un’altra Potenza. Ma questa, onorevoli colleghi, è una ben grave menomazione! Io mi domando perfino se nel mandato che noi abbiamo avuto dal popolo – noi e voi, amici democristiani – ci sia, tra i poteri che ci sono stati delegati, quello di consentire rinunce e menomazioni alla sovranità italiana; di quella sovranità che è nostro dovere affermare, difendere e tener alta ed intatta nella nostra Costituzione.

Ma vi è una seconda conseguenza, anche più grave: che, in questo modo, attraverso il richiamo dei Patti lateranensi, si introducono di soppiatto nella Costituzione, mediante rinvio, quelle tali norme occulte, leggibili solo per trasparenza, che saranno in urto con altrettanti articoli palesi della nostra Costituzione, i quali in realtà ne rimarranno screditati e menomati.

È inutile ricordarli. Il principio della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, della libertà di coscienza, della libertà di insegnamento, il principio della attribuzione esclusiva allo Stato della funzione giurisdizionale, tutti questi principî costituzionali sono menomati e smentiti da norme contenute nei Patti lateranensi, le quali vengono tacitamente ricevute nel nostro ordinamento col secondo comma dell’articolo 5.

E se si volesse badare anche alle piccolezze, si troverebbero altri conflitti assai curiosi: così, ad esempio, mentre la nostra Costituzione ha abolito i titoli nobiliari, l’articolo 42 del Concordato dice invece che «L’Italia ammetterà il riconoscimento, mediante decreto reale, dei titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire». L’antitesi non potrebbe essere più categorica!

Ma, ripeto, non mi intingerò a rinnovare l’analisi già fatta ad esuberanza nelle precedenti discussioni. Mi limito a richiamare l’attenzione vostra, amici democristiani, su quella norma dei Patti lateranensi, che tutte le riassume: dico l’articolo 1 del Trattato:

«L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, per il quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».

È proprio sulla portata di questo articolo che io mi rivolgo agli amici democristiani, e specialmente a quelli di loro che sono giuristi.

Voi sentiste che l’onorevole Togliatti nel suo discorso diede un voto di biasimo ai giuristi; disse che nei lavori preparatori della Costituzione i giuristi non hanno lavorato bene.

Io non so se questo rimprovero sia giusto. Quando sento il politico che se la piglia coi giuristi, mi fa la stessa impressione di un uomo di affari, che, quando non gli tornassero i conti, se la pigliasse coi matematici, i quali hanno inventato che due e due fanno quattro. (Si ride).

In ogni modo, tra gli amici democristiani di giuristi ce n’è una quantità, e tra essi eminenti costituzionalisti: gli onorevoli Ambrosini, Caristia, Mortati, Tosato, Codacci Pisanelli; e poi, penalisti: Bettiol, Leone Giovanni, Moro; e poi un valoroso ecclesiasticista, l’onorevole Dossetti; e poi La Pira, e forse altri: e non parliamo degli avvocati, dei quali basta ricordare il valorosissimo amico Cappi.

Ora a questi giuristi esperti che sono uomini di coscienza, che hanno comune con me, non le idee politiche, ma il culto di questo alfabeto giuridico, di questa logica pulita e precisa, che è patrimonio comune di tutti i giuristi, io domando: ma non vi avvedete delle incongruenze, delle contradizioni, delle assurdità giuridiche, che si annidano in questo articolo 5?

E vi chiedo: dobbiamo o no fare una Costituzione democratica, che abbia alla sua base i diritti di libertà? Tra questi c’è il diritto di uguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di religione, la libertà di coscienza. Non vi accorgete che tutto questo è in contrasto con l’articolo 1 del Trattato, che consacra la religione di Stato e quindi lo Stato confessionale?

Io mi rivolgo con spirito di lealtà alla vostra coscienza e al vostro senso giuridico.

Potrò sbagliare, ma io sono uno di quegli uomini che anche in politica si fidano; forse perché non so liberarmi da quell’assioma dei giuristi il quale insegna che la buona fede è sempre presunta. Io mi rifiuto di credere a quell’insegnamento che mi è stato dato la prima volta che sono entrato in quest’aula, cioè che in politica invece è sempre presunta la malafede, e che quando una persona in quest’aula dice una cosa, si ha il dovere di credere che egli pensi assolutamente il contrario. (Ilarità).

Qui si sentono strani ragionamenti. Si parla dei comunisti. I comunisti affermano che sono veramente democratici, affermano che essi ammettono la pluralità dei partiti: ammettono e ammetteranno, anche se domani diventeranno maggioranza, i diritti dell’opposizione. Ma si sente dire: «Quando saranno maggioranza faranno il contrario di quel che dicono e si serviranno della democrazia per fare lo Stato totalitario». Ebbene, io invece credo alla democrazia dei comunisti: credo alla loro buona fede.

E così, viceversa, quando i democristiani dicono: «Noi vogliamo fare una costituzione basata sui diritti di libertà; «libertas» è il nostro motto; vogliamo garantire le libertà fondamentali dei cittadini, fra le quali la libertà di coscienza», io credo alla libertà dei democristiani. Ma allora si sente insinuare: «Lo dicono, ma il giorno in cui saranno maggioranza non lo faranno; spinti dal loro dogmatismo reprimeranno le minoranze che per loro saranno eretici dannati alla perdizione». (Proteste al centro).

Non vi allarmate; dico, in sostanza, cose favorevoli a voi (Si ride); perché io a queste insinuazioni non ci credo; credo che anche voi siate in buona fede. Mi rifiuto di ragionare qui come ragionavano quei due polacchi abituati a dire le bugie. Uno stava per partire, l’altro lo vede e gli domanda: «Dove vai?» «Vado a Varsavia». Ed il primo: «Bugiardo e traditore! tu mi dici che vai a Varsavia perché io creda che vai a Leopoli, e non mi accorga che vai davvero a Varsavia». (Si ride).

Ma io non voglio ragionare come questi polacchi sospettosi. E voglio parlare agli amici democristiani con assoluta franchezza. Una prima proposizione che mi sembra sicura è questa: che i Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale. Su questo credo non ci sia dubbio.

Una voce al centro: Il dubbio c’è!

CALAMANDREI. L’ha detto quel grande maestro di diritto ecclesiastico che fu Mario Falco, il cui cuore nobilissimo fu spezzato dalla infamia razziale; e l’ha detto un altro grande ecclesiasticista cattolico, lo Jemolo. Ma basta prendere un libro di consultazione quotidiana, come il Nuovo Digesto Italiano che è nello scaffale di tutti gli avvocati, e andare a leggere lì la voce «Confessionismo», redatta da un consigliere di Cassazione, il Piacentini. Anche lì lo Stato italiano, dopo i Patti lateranensi, è qualificato come Stato confessionale.

Se questo è esatto, ne deriva una seconda proposizione: che lo Stato confessionale è inconciliabile colla tutela della libertà di coscienza; perché, nel dare riconoscimento giuridico ad una religione di Stato, e col far passare così questa religione dal piano spirituale al piano temporale, inevitabilmente pone coloro che professano la religione dello Stato in condizione di favore e di privilegio giuridico, e in condizioni di inferiorità e di menomazione giuridica gli appartenenti alle altre religioni retrocesse al grado di religioni tollerate.

Ma quale parola più autorevole per dimostrarvi l’inconciliabilità fra Stato confessionale e libertà di coscienza, della stessa parola papale?

Il 30 maggio 1929, per rispondere a corti discorsi che erano stati fatti in quest’aula a commento dei Patti lateranensi, il Pontefice Pio XI scrisse una lettera al Cardinale Segretario di Stato in cui, protestando contro quelle affermazioni, scriveva fra l’altro: «Anche meno ammissibile sembra che si sia voluto assicurare incolume ed intatta l’assoluta libertà di coscienza. Tanto varrebbe dire allora che la creatura non è soggetta al Creatore, tanto varrebbe legittimare ogni formazione, o piuttosto deformazione, delle coscienze anche più criminose e socialmente disastrose. Se si vuol dire che la coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che, in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola, in forza del mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che, in uno Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione debbono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica».

È dunque proprio con l’augusta parola del Pontefice che viene consacrata la inconciliabilità fra Stato confessionale e libertà di coscienza, di cui finora vi ho parlato.

Ma, del resto, voi stessi lo riconoscete; perché, se io ben ricordo, l’amico La Pira, che mi dispiace non sia ora presente, perché mi avrebbe corretto se lo avessi citato in maniera inesatta, disse a un certo punto nel suo discorso: «Noi non vogliamo lo Stato confessionale; noi vogliamo lo Stato religioso». Ma lo Stato religioso non è un concetto giuridico; è quello Stato in cui la religione rimane di fuori dal campo giuridico; è quello Stato in cui vi è una religione prevalente di fatto, magari largamente prevalente, perché, di fatto, la maggior parte dei cittadini la seguono; ma in cui la prevalenza di fatto non è imposta o garantita colla legge.

Quando invece tale prevalenza di fatto diventa prevalenza di diritto, allora lo Stato religioso si trasforma in Stato confessionale.

E se è così, io domando agli amici democristiani: – Che cosa volete voi? Scegliete lo Stato democratico coi diritti di libertà, o scegliete lo Stato confessionale senza questi diritti? Se voi volete lo Stato democratico coi diritti di libertà, tra cui la libertà di coscienza inconciliabile con lo Stato confessionale, allora bisogna cancellare dal progetto di Costituzione l’articolo 5, così come è stato redatto. Se invece voi volete includervi, come vi avete incluso, il richiamo agli Accordi lateranensi, allora voi fate lo Stato confessionale: e dovete per forza rinunciare alla libertà di coscienza.

Ma allora è più sincero, più semplice, più esplicito, che voi trascriviate testualmente in questo articolo 5 della Costituzione l’articolo 1 del Trattato Lateranense: «La religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato»; e che la votazione si faccia, con maggior sincerità, su questo testo.

Signor Presidente, mi accorgo di aver raggiunto i trenta minuti consentitimi dal regolamento; se me lo permette, avrei da concludere brevemente.

Vi è ancora nell’atteggiamento dei democristiani un errore di carattere storicopolitico. Si dice: la menzione dei Patti lateranensi ricorda un evento storico, un evento storico che ha ricondotto in Italia la pace religiosa; questi accordi quindi vanno inseriti per celebrare, attraverso la loro menzione, questo grande evento che è stato il raggiungimento della pace religiosa.

È certo che i Patti lateranensi hanno risolto quella che si chiamava la «questione romana», la questione territoriale. Ma io sono assai in dubbio se proprio ai Patti lateranensi si debba riconoscere il merito di avere assicurata la pace religiosa.

Tutti sapete, lo dico col massimo rispetto, che i Patti lateranensi del 1929 furono stipulati dalla Santa Sede con lo Stato fascista (perché nel 1929 in Italia, per chi non lo ricordasse, c’era il fascismo). Io non ripeterò, come udii in quell’epoca da una povera vecchietta che aveva sentito parlare di questi accordi firmati dal Governo fascista: «Ohimè!, ohimè! La fine del mondo! La Chiesa si è messa d’accordo col diavolo». Non dirò questo; no: ogni contraente nelle relazioni internazionali, fa i suoi interessi; la Chiesa in quel momento ha potuto raggiungere, trattando col fascismo, i suoi scopi: ha fatto bene a cogliere il momento per sodisfarli. Io non rimprovero – anche se avessi l’autorità, che non ho, per farlo – chi contrasse questi accordi, che certo rafforzavano il fascismo in Italia, come mi parrebbe ingenuo rimproverare quei Governi stranieri che durante il fascismo hanno trattato col Governo fascista e hanno contribuito, con atti rilevanti, a tenere in piedi quel regime; e quando poi il regime è crollato, si è visto un eminente uomo di Stato fare appositamente un viaggio in Italia per recuperare le sue lettere, come ci si fanno restituire le lettere d’amore dopo la rottura del fidanzamento. (Applausi all’estrema sinistra).

Di questo non si può fare una colpa alla Santa Sede; ma dico che non bisogna dimenticare, per la storia, che questo Trattato del 1929 ha dovuto pur riconoscere l’ordinamento fascista come era in quel momento.

Nei Patti lateranensi non troviamo soltanto articoli, come l’articolo 26 del Trattato, il quale, dice: «La Santa Sede riconosce il regno d’Italia sotto la dinastia di casa Savoia» (che è evidentemente una disposizione superata dagli eventi); ma in certi altri articoli ci imbattiamo perfino in un esplicito riconoscimento di alcune tra le istituzioni più malfamate e nefaste del regime fascista.

Nell’articolo 37 del Concordato, si legge, ad esempio: «I dirigenti delle associazioni statali per l’educazione fisica, per l’istruzione premilitare, degli avanguardisti e dei balilla…» – Guarda chi si rivede! (Commenti).

Faccio un’osservazione che vorrei che voi teneste presente: lo Stato con cui ha trattato la Chiesa nel 1929 era uno Stato fascista, cioè uno Stato autoritario…

GUERRIERI FILIPPO. Scusi, lei non ha preso parte alla Commissione per il Codice di procedura civile? Ha concorso anche lei alle leggi fasciste.

CALAMANDREI. …e lo Stato autoritario è una forma diversa dallo Stato democratico. E quindi un trattato fatto con uno Stato autoritario, è un trattato il quale tiene presenti certe strutture, certe possibilità che non esistono più – o ne esistono di diverse – in uno Stato liberale o in uno Stato democratico. (Interruzioni Commenti). Ora, in uno Stato autoritario – come i colleghi sanno – i diritti di libertà non contano più. Lo Stato autoritario non si cura di difendere i diritti di libertà; ci ha rinunciato, li ha mandati in soffitta. Quindi è naturale che la Chiesa, trattando con uno Stato autoritario, il quale non si interessava di difendere i diritti di libertà, che non appartenevano più a quella concezione costituzionale sulla quale questo tipo di Stato era costruito, cercasse, di fronte a questo atteggiamento remissivo dell’altro contraente, di affermare in maniera assai penetrante la confessionalità dello Stato, colla quale la Chiesa ha potuto limitare, secondo i suoi fini la libertà di coscienza, dal momento che lo Stato, naturale custode di essa, aveva rinunciato a difenderla. Ma questo non si può più fare con lo Stato democratico, perché questo ha una struttura diversa, perché lo Stato democratico considera come suo compito essenziale la difesa di quei diritti di libertà di cui lo Stato autoritario non prendeva più cura. Bisogna quindi tener conto di questa diversità di struttura e di atteggiamento, di questa diversità di situazioni storiche; e non si può credere di poter mantenere domani, senza le opportune concordate modificazioni, questi accordi che sono nati in un clima in cui le esigenze democratiche non erano sentite e potevano quindi non essere rispettate. Ma poi, onorevoli colleghi, credete veramente che la pace religiosa provenga proprio dai Patti lateranensi e da questa menzione di essi che si vorrebbe inserire nella Costituzione? In realtà in Italia la pace religiosa c’è; ma c’è, perché è nello spirito, nei cuori; perché è diffusa nella coscienza del popolo.

Quando il 2 giugno furono fatte, con quell’esempio di civiltà e di ordine che conoscete, le elezioni politiche, a Firenze, nelle sezioni elettorali della periferia, quelle più rosse, in cui prevalsero con il 70 e 1’80 per cento i partiti di sinistra, nelle file di elettori che stavano ad aspettare per ore in ordine, senza proteste e senza impazienza (e i colleghi democristiani della Toscana ne possono testimoniare) soltanto una categoria di elettrici aveva la precedenza: le monache. E chi si curava di accompagnarle perché potessero votare prima degli altri, erano gli incaricati dal partito comunista. Questo episodio dimostra che la libertà religiosa, che la pace religiosa in Italia c’è. (Commenti). Si sono avuti, si sono visti episodi di tolleranza, che trenta, quaranta anni fa non sarebbero stati possibili, anche qui, in quest’aula. Ho udito io stesso, da questo banco, mentre si discuteva una interrogazione a proposito di un giornale che aveva mancato di rispetto al Pontefice e che per questo era stato sequestrato, risuonar da quei banchi (Accenna al centro) il grido di «Viva il Papa!» a cui tutto quel settore fece eco; e gli altri settori stettero in silenzio, senza protestare. (Commenti al centro Applausi a sinistra). Se voi pensate a quello che sarebbe successo trenta o quaranta anni fa, se lo stesso grido fosse stato lanciato in quest’aula, dovete riconoscere che c’è stato da allora un profondo mutamento nella coscienza politica del popolo italiano.

E così si è sentito pochi giorni fa l’onorevole La Pira terminare un suo discorso coll’invocazione a Dio ed alla Vergine Santissima, accompagnata dal segno della Croce. Nessuno ha protestato o ha riso: e questo è avvenuto perché in Italia la pace religiosa c’è già, e c’è senza bisogno dei Patti lateranensi. (Vivissimi applausi a sinistra Commenti al centro).

PRESIDENTE (Accennando al centro). Se si dicono cose sgradite protestano; se si dicono cose gradite protestano: sappiano ascoltare! Onorevole Calamandrei, la prego di concludere.

CALAMANDREI. Io ho superato di un quarto d’ora il mio tempo; se gli onorevoli deputati credono, smetto subito. (Commenti).

E allora mi domando: perché in Italia c’è la pace religiosa? Perché a un certo momento, negli anni della maggiore oppressione, ci siamo accorti che l’unico giornale nel quale si poteva ancora trovar qualche accento di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi, era L’Osservatore Romano; perché abbiamo esperimentato che chi comprava L’Osservatore Romano era esposto ad essere bastonato; perché una voce libera si trovava negli Acta diurna dell’amico Gonella; perché, quando sono cominciate le persecuzioni razziali, la Chiesa si è schierata contro i persecutori (Approvazioni) e in difesa degli oppressi; perché, quando i tedeschi ricercavano i nostri figliuoli per torturarli e fucilarli, essi, qualunque fosse il loro partito, hanno trovato rifugio – ve lo attesta un babbo – nelle canoniche e nei conventi; perché si sono trovati preti disposti ad offrirsi come ostaggio per salvare la popolazione di un Comune e riscattare col loro sacrificio la vita di tutti; perché si son visti religiosi che sono andati in montagna a combattere accanto ai partigiani di tutti i partiti, per rivendicare la libertà e la dignità di tutti gli uomini. Da questo, e non dai Patti lateranensi, è nata la pace religiosa. (Generali prolungati applausi).

Questa fratellanza degli umili, dei sofferenti e degli oppressi di fronte agli oppressori, di fronte al «fascista abietto» e al «tedesco lurco», ha ridato la pace religiosa all’Italia. Questa pace è nei cuori; non distruggetela, non mettetela in pericolo, amici democristiani, con piccole astuzie da legulei. (Commenti al centro Interruzione dell’onorevole Cingolani).

Io non so se voi conoscete (se non la conoscete vi consiglio di leggerla) la storia di fra Michele minorita, un fraticello appartenente all’ordine dei «Fraticelli della povera vita» che fu bruciato alla fine del ’300, perché sosteneva che il Vangelo non riconosce la proprietà privata; e che secondo la parola di Cristo, i beni terreni appartengono a tutti. Questa, in un certo periodo, fu considerata una eresia; e quei fraticelli – ai quali non posso pensare che non vada la simpatia di un uomo come La Pira che ha tanti punti di contatto con essi, lui che dà ai poveri la più gran parte del suo stipendio assai modesto di professore universitario – quei fraticelli furono perseguitati come eretici e condannati al rogo dal pontefice Giovanni XXII. Il supplizio di questo fra Michele avvenne a Firenze, sul finire del Trecento: e quando dal palazzo del Bargello fu condotto, tra due ali di popolo, nel luogo ov’era stato preparato il rogo, la gente a vederlo passare gli diceva: «Ritrattati, abiura, fra Michele, perché vuoi morire? Basta una parola che tu dica e sarai salvo».

Ed egli, secondo quel che riferisce la cronaca trecentesca, a chi gli domandava: «Perché vuoi morire?» rispose: «Questa è una verità che ho albergata in me, della quale non si può dare testimonio se non morto».

La morte per la propria idea, la morte per la propria fede; l’esser pronti a farsi uccidere per testimoniare una verità… Anche nel periodo della lotta clandestina si sono avuti a migliaia questi esempi: e proprio quando si è visto che ci sono ancora fraticelli e religiosi disposti a dare la vita per una fede di fratellanza umana, proprio allora è tornata la pace religiosa in Italia!

Ma perché io cito episodi lontani?

Io posso ricordare un altro esempio, che forse conosce anche la nostra collega Mattei, perché si tratta di uno studente di Firenze: il Coletti, un ragazzo di 18 anni, che un giorno tornò nascostamente dall’Appennino, dove era partigiano, a salutare la sua mamma a Firenze. Denunciato da una spia, fu arrestato, condannato a morte con altri quattro compagni da un tribunale speciale e fucilato al Campo di Marte. La mattina all’alba, quando il carrozzone della prigione andò a prenderli, gli altri quattro erano affranti, ed egli, che era credente, li consolava. A un certo punto parve che l’itinerario seguito dal carrozzone non fosse quello più breve per arrivare al Campo di Marte, ed allora uno dei compagni domandò: «Ma che strada ci fanno fare?» E lui rispose sorridendo: «Non te ne occupare: tutte le strade portano in Paradiso».

Colleghi democristiani, se veramente voi volete una democrazia in cui abbiano eguale dignità morale e politica tutti gli uomini che lavorano e soffrono, se volete portare la vostra fede al servizio di questa lotta di redenzione e di rinnovazione che ci sta dinanzi, non immiserite questo dibattito con l’introdurre di soppiatto nella Costituzione disposizioni che stabiliscano nello Stato distinzioni fra ortodossi ed eretici, fra reprobi ed eletti: per tutti gli uomini di buona volontà, di tutte le religioni, ricordatevi che tutte le strade portano in Paradiso! (Vivissimi prolungati applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pajetta Giancarlo. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIANCARLO. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, mentre ascoltavo, al termine della discussione preliminare, l’amico Ruini difendere l’operato dei Settantacinque, prima ancora che con le armi della dialettica che gli sono ben note e con il sussidio della dottrina, con tanto impeto giovanile e con tanta fierezza di padre sodisfatto della sua creatura, mi sono chiesto se questa più larga e più aperta discussione pubblica fosse destinata a rendere più acuti i contrasti, o se potesse invece rendere possibile un accordo maggiore di quello ottenuto nella Commissione. Mi sono chiesto insomma se essa avesse un significato politico, se potesse darci un risultato pratico, o se non si trattasse invece di una sorta di rito nella liturgia parlamentare, prima di procedere alla votazione degli articoli.

Ma in quella difesa, che è apparsa a tratti esaltazione, più che questo o quel risultato raggiunto, più che questo o quel pregio di architettonica costituzionale, è apparso in rilievo l’elemento fondamentale dell’opera dei nostri colleghi della Commissione: quella discorde concordia che li ha animati quando hanno lavorato insieme.

Ebbene, quasi al termine di questa più larga discussione, al termine dei dibattiti di questi giorni, quando già sono stati affrontati alcuni dei temi più scottanti, io credo che si possa affermare che quella concordia discorde è ancora fra noi e che essa ci può permettere di procedere insieme.

Si è detto che si sarebbe potuto, che si sarebbe dovuto evitare una discussione incresciosa, qui nell’Assemblea, a proposito dell’articolo 5, a proposito della formulazione costituzionale dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Ed oggi lo ha ripetuto ancora il collega Calamandrei. Io non condivido questa opinione: è stato bene che qui si sia discusso, ed apertamente discusso, di questo problema, ed è stato bene, perché la discussione si è svolta fin qui senza che nulla di increscioso la turbasse. C’è chi ha contestato e chi ha difeso, chi ha esitato e chi ha affermato con vigore, chi ha chiesto aiuto alla storia e magari alla teologia, c’è chi ha fatto questione di politica e di diritto, e qualcuno persino di galateo internazionale, e fino a Bisanzio ci ha portato con i suoi ricordi l’onorevole Nitti.

Ma, da ognuno che ha parlato con lealtà, è venuta una voce sola, la voce che ha detto che su una cosa l’Assemblea vuole essere concorde, che su una cosa è concorde il Paese: nel desiderio di pace, nel proposito che la pace religiosa aiuti l’Italia davvero a trovare il clima della sua resurrezione.

Alla luce di questo proposito è stato fino adesso considerato il problema. È in questo spirito che, al termine del dibattito, noi comunisti vogliamo ancora riaffermare e chiarire la nostra posizione. Vogliamo trovare la via perché la conciliazione non resti un nome vano.

Forse non mai, come dopo un duro periodo della loro storia, come dopo anni tristi ed oscuri, i popoli sentono il bisogno che il loro presente sia interpretato con immediatezza e gli uomini politici vogliono interpretare questo presente, con i suoi bisogni, le sue esigenze, e realizzarlo nelle sue possibilità. Ma nello stesso tempo, dopo che per tanti anni è sembrato che al popolo, non solo fosse rapita la libertà, non solo fosse negato il pane, ma anche che si volesse sottrarre qualche cosa ancora più caro, il senso dell’orgoglio nazionale, dopo che si è voluta contraffare la tradizione e la storia, si sente la necessità di riallacciarsi a questa storia in quello che ha di più vivo. Si sente, nel momento che si vuole spingere in alto l’albero nuovo di una storia nuova, il bisogno di ficcare a fondo le radici, perché esse si abbeverino di tutto quello che è vivo nelle linfe vitali della storia del nostro Paese.

Forse, onorevoli colleghi, che possiamo dimenticare oggi questa nostra storia, questa nostra tradizione, che possiamo pensare che essa non è più presente oggi, fra noi che vogliamo dare questa Costituzione nuova al nostro Paese?

Qualcuno, mi pare, ha detto qui che è invecchiata quella che è stata una delle grandi formule politiche del nostro Risorgimento, la formula «libera Chiesa in libero Stato». Io non credo che questa formula, che è antica e non è vecchia ancora, sia superata; non credo che il concetto, il pensiero che fu negli uomini che nei momenti decisivi della storia del nostro Paese l’hanno formulata, siano morti. Qui parleremo tra qualche giorno di regioni, di una diversa organizzazione amministrativa e anche politica del nostro Stato; da qualche banco già si è parlato persino di federalismo. Ma forse per questo noi diremo che la formula antica dell’unità della Patria sia morta? O non diremo piuttosto che cerchiamo che quella formula antica viva e si concretizzi ancora nel nostro presente e ci adoperiamo per dare una vita vera che non può essere semplicemente quella che ha avuto finora?

Allo stesso modo la formula «libera Chiesa in libero Stato» non è né invecchiata, né tanto meno morta.

Allora, quando essa fu per la prima volta espressa vi era tra lo Stato italiano e la Chiesa una grande guerra. Era come un intrico, come una selva che non si sapeva come si potesse aprire perché questo Stato nuovo passasse e pareva che l’elemento fondamentale fosse quello della separazione. Si doveva adoperare magari l’ascia e la spada in quella selva perché questo nuovo Stato trovasse la sua strada. Ma anche allora, dopo quella guerra e fuori da quell’intrico, il significato effettivo della separazione per quei nostri uomini politici non era certo quello dell’ignoranza reciproca. Non si voleva che i due organismi, le due società non si conoscessero e continuassero a procedere senza conoscersi. Anche allora l’elemento fondamentale era quello del rispetto e della libertà; rispetto apertamente proclamato dello Stato per la vita della Chiesa, nella sua organizzazione e nelle sue ideologie; rispetto richiesto dallo Stato nuovo, dallo Stato democratico alla Chiesa e agli uomini della Chiesa. E affermazione soprattutto della libertà per tutti i cittadini e della libertà di coscienza per i cattolici.

Ecco perché noi pensiamo che quella formula possa ancora ispirarci, che essa fosse e sia qualche cosa più di una formula. Fu Cavour che scrisse allora: «Forse potrò io segnare dal Campidoglio un’altra pace di religione, un trattato che avrà per l’avvenire delle società umane delle conseguenze ben altrimenti grandi della Pace di Westfalia?». E nella stessa relazione alla legge delle guarentigie il Lanza ci teneva a proclamare esplicitamente che la separazione della Chiesa dallo Stato non postulava e non poteva postulare la mutua ignoranza dei due organismi.

È per questo che noi pensiamo che possa e debba essere inserita nella Carta costituzionale del nuovo Stato italiano la volontà dello Stato italiano di concordare, in materia religiosa, la sua politica con la Chiesa cattolica.

Non consideriamo superflua questa dichiarazione e non comprendiamo gli scrupoli di certi colleghi.

Mi pare che l’onorevole Labriola abbia osservato l’altro giorno che la Chiesa cattolica è più giovane di tremila anni della piramide di Cheope, ma non sarà questo ad indurci a proporre un emendamento per inserire la piramide di Cheope nella Costituzione italiana, o a presentarne un altro per escluderne la Chiesa cattolica.

Un Concordato può e deve essere un elemento di pacificazione; esso rappresenta l’espressione giuridica di una pacificazione, dopo un urto, dopo un contrasto. Rappresenta, o può rappresentare, un Concordato, la conclusione alla quale, dopo i contrasti e gli urti, sono arrivati lo Stato e la Chiesa.

Questo fu appunto il significato di uno dei Concordati più famosi, quello di Napoleone.

Allora la leggenda fece dire dal «grognard»: «Quanti di noi sono morti, perché queste cose non tornassero!».

Ma il «grognard» della leggenda aveva torto. Quelli che non erano più non erano morti invano perché non tornassero quelle cose, che erano tornate nel Concordato, ma erano morti, e non invano, perché non tornassero quelle cose che non sono tornate più, né in quel Concordato, né in Concordati successivi. Noi pensiamo dunque che elemento fondamentale – ed in questo possiamo trovarci tutti d’accordo – sia oggi la volontà d’una politica concordata.

Questo è l’essenziale: il Concordato. Non il dettaglio, non il particolare; non questo o quel Concordato, non questo o quell’articolo, quasi lo si volesse far vivere d’una specie di vita eterna, inserendolo nella Costituzione.

Il collega La Pira ci ha fatto un discorso ricco di dottrina, di argomenti di diritto e di fede; ma il suo pluralismo non credo che abbia potuto convincere nessuno a questo proposito. Non sono valsi gli argomenti di dottrina e, direi, neppure quelli di fede, se è vero che il collega Bruni, il quale rappresenta i cristiani sociali, ha dichiarato che proprio per quella dottrina e per quella teoria non poteva accettare le conclusioni, che volevano inseriti nell’articolo 5 i Patti lateranensi.

Mi richiamo al collega Bruni, almeno per quel che riguarda gli argomenti di fede (non lo penso un eretico). Egli ha voluto dirsi qui una voce nel deserto; ma non è stato, ché l’abbiamo ascoltato ed applaudito, e io penso piuttosto a lui qui, solo fra i banchi delle sinistre, come a un Daniele in una fossa di leoni, in verità molto pacifici.

L’onorevole La Pira ci ha parlato delle molteplicità delle «società» ed ha voluto fare un paragone, che forse avreste trovato irriverente in qualcuno di noi. Ci ha parlato del villaggio con la chiesa, il municipio e la Camera del lavoro. Ci ha chiesto che fosse tenuto conto di ognuna di queste forme di organizzazione e di vita.

Ma dobbiamo pure ricordare che se noi abbiamo parlato e parliamo nella nostra Costituzione di libertà sindacale e di sindacato, non abbiamo fatto mai accenno a qualche sindacato particolare, non abbiamo fatto neppure una parola che si riferisca alla Confederazione generale italiana del lavoro. E parliamo di diritto internazionale; ci appelliamo ai principî universalmente riconosciuti, ma nessuno ha voluto, nessuno chiede che noi inseriamo in questa Costituzione questo o quel trattato, questa o quella forma di organizzazione internazionale. Nessuno ha chiesto che si inserisca il Trattato di pace, che pure abbiamo dovuto votare qualche giorno fa.

Noi non parliamo di Confederazione del lavoro, non parliamo di trattati internazionali.

Noi sentiamo, quando facciamo questa Costituzione, che vogliamo mettervi l’essenziale, quello che è la realtà storica, non quello che è contingente, quello che è soltanto un accadimento politico.

Qualcuno obietta: «È diverso». E noi riconosciamo che una diversità c’è.

E per quel che riguarda la Chiesa, ognuno accetta che ci sia qualcosa di più. Noi non parliamo delle chiese, o delle comunità religiose soltanto, ma parliamo esplicitamente della Chiesa cattolica. Perché della Chiesa cattolica in Italia nessuno potrebbe negare quello che rappresenta oggi e che ha rappresentato nei secoli per il Paese. La realtà storica è la Chiesa, non un fatto, un accordo che rimane pur sempre un fatto politico contingente.

La nostra volontà è di fare che sia la pace piena tra questa Chiesa e il nostro Stato. Non si tratta già di eternare quel trattato piuttosto che un altro; non già quel trattato con quelle particolari sue forme.

Perché, amici, quello che ci pare essenziale, è che ognuno di noi faccia uno sforzo per dare davvero la pace religiosa al nostro Paese.

Ma che cosa è questa pace religiosa? E l’abbiamo di già? Sono state discordi le voci a questo proposito.

Alcuni colleghi ci hanno detto: la pace c’è, non turbiamola. Ma qualche altro ha detto: non c’è, sono troppo spesso turbate le coscienze.

Ebbene, la realtà è forse più complessa. Non c’è più guerra e non c’è pace ancora, siamo in una situazione difficile, in un equilibrio instabile; per quanto quello che è certo, e che non deve essere sottovalutato, sia l’aspirazione a stabilire questa pace, sia il desiderio che c’è da ogni parte di fare che questo equilibrio divenga stabile davvero, perché si possa lavorare e costruire.

Noi vogliamo aiutare la pacificazione religiosa: noi vogliamo che questa aspirazione diventi realtà, e vorremmo che tutti ci aiutassero. L’amico La Pira, il dottore Serafico del centro (Si ride), ha detto: «Questa Costituzione è come un vestito, fate che si adatti al corpo della Nazione».

Ebbene, noi gli diciamo, pensando che possa farsi interprete autorevole di questa nostra richiesta: fate tutti che questo vestito non sia per nessun aspetto, sotto nessuna forma, una camicia di forza per nessun italiano, fate che sia davvero un vestito nuovo, per un popolo nuovo che vuol vivere una vita nuova.

L’argomento essenziale, fra quanti sono stati cercati a favore dell’articolo 5, è stato quello della delicatezza, delle garanzie, delle intenzioni. Ebbene, io vorrei ricordare a questo proposito il Rinnovamento; già allora Gioberti diceva: «Non bisogna misurare le relazioni future del Pontificato con gli Stati liberi da quelle che ebbe nel passato coi domini assoluti, dentro e fuori d’Italia, e la nuova politica, fondata sulla libertà religiosa, dall’antica, che aveva una base diversa».

Quali possono essere oggi le garanzie? Le garanzie non stanno sulla carta se non c’è un contenuto; per questo dovremmo volere tutti che la lettera e lo spirito corrispondano. Noi vorremmo, per la lealtà che ci anima, che non ci fosse contrasto.

Se pensassimo che i concordati non sono altro che pezzi di carta, certo non ci batteremmo né per questo né per altri articoli. Ma noi pensiamo che i concordati duraturi o le costituzioni vive sono quelli che vivono veramente nella coscienza popolare.

Ricordate altre esperienze, pensate per esempio a quella hitleriana. Quella era gente che non aveva bisogno di battersi per un articolo, per un’espressione. Hitler salì al potere ai primi del 1933 e il 20 luglio del 1933, con una fretta tutta sua, con la fretta di un regime che non poteva aspettare, perché aveva un appuntamento con l’abisso, già ci fu il Concordato che porta le firme del Cardinale Pacelli e di Franz Von Papen. Era una necessità per gli hitleriani: bisognava liquidare il partito del Centro, bisognava dimostrare che si poteva fare a meno di questo partito che rappresentava i cattolici tedeschi. E un ufficioso allora autorevole commentatore italiano, diceva che operava sui nazisti il «fascino dei Patti lateranensi».

Era il 20 luglio 1933 e già sei mesi dopo il Ministro bavarese Esser – e i nazisti avevano accettato anche il precedente concordato bavarese del 1924 – attaccò il Cardinale Faulhober e il giorno dopo faceva preparare un attentato contro l’altissimo prelato. Quella era gente che non si batteva certo per un articolo di Costituzione o di Trattato!

Una garanzia di più erano sempre disposti a darla, perché non davano quella della propria lealtà.

Si è parlato di garanzie, ma, a questo punto, potremmo dire: E le garanzie nei confronti degli altri, le garanzie nei confronti dello Stato, nei confronti dei laici, nei confronti degli acattolici?

Abbiamo inserito, mi pare, nella legge elettorale una clausola che vieta agli ecclesiastici di fare determinati atti che porterebbero la Chiesa ad interferire nella vita politica; ma nessuno di noi ha chiesto che queste norme siano precisate nella Costituzione. Voi, onorevoli colleghi, parlate di delicatezza: forse vi sentite offesi da qualche manifestazione anticlericale; ma, che direste se noi vi chiedessimo delle garanzie contro certa intolleranza formalistica che si è manifestata anche qui? Mi pare che un collega della Democrazia cristiana abbia chiesto che i mussulmani non abbiano diritto di essere sepolti in Roma. Badate che il collega Di Fausto non si riferiva a quei Saraceni che venivano nei secoli lontani a fare le loro scorrerie fin sotto le mura dell’urbe, intendeva parlare dei soldati di colore di una Nazione alleata, morti perché anche Roma fosse liberata dal giogo nazista.

Noi non pensiamo certo a chiedere garanzie costituzionali contro le aberrazioni del collega Di Fausto, il quale vorrebbe farci tornare più in dietro del 1861, quando i Ministri italiani dovettero battersi per far sì che un valdese trovasse degna sepoltura in un cimitero. Qui nessuno ha voluto fare riferimento alla tradizione regalistica, alle dottrine giurisdizionaliste.

Eppure è una tradizione italiana, fu quella una scuola italiana che ebbe un’alta funzione in un determinato momento della vita del nostro Paese, dando un contributo alla sua vita politica. Nessuno si è rifatto alla pur nobilissima tradizione di Pietro Giannone.

L’Italia liberale e democratica ha potuto abbandonare queste tradizioni, ma lo ha fatto chiedendo che fosse abbandonata la tradizione che le stava di fronte: quella teocratica. L’ha fatto perché l’Italia liberale e democratica ha sentito che c’era forza sufficiente nello Stato, senza bisogno di controlli e di ingerenze nel campo dello spirituale.

Ha sentito l’Italia democratica che si trattava di un problema di equilibrio, che si trattava soprattutto di un problema di libertà. Ed è per questo che oggi noi poniamo questo problema come un problema di democrazia e di libertà e non chiediamo che siano inserite delle formule le quali diano una maggior garanzia di quella che voi potete darci con la vostra vita e la vostra organizzazione, che sono determinate anche dal fatto che voi coabitate, in questa Italia, con noi e con gli altri partiti.

Ed è questa la garanzia che noi stessi possiamo dare a voi: la garanzia di tutta la vita del nostro Paese e del suo libero svolgimento democratico.

Abbiamo sentito in quest’aula i colleghi della Democrazia cristiana fare ripetute dichiarazioni sulla perfettibilità del Concordato. Nessuno di noi potrebbe oggi credere che il Concordato debba rimanere, nei suoi particolari, così come è stato pensato e redatto; in quei termini cioè per cui lo Stato fascista ha tolto il diritto d’insegnamento nelle Università italiane a Bertrando Spaventa, volevo dire al professore Ernesto Bonaiuti. Ma pensate un momento anche al maestro napoletano, pensate se Bertrando Spaventa, il vecchio filosofo, fosse vivo ancor oggi, se fosse arrivato non soltanto fino al 1929, ma sino ad oggi, al 1947! Non furono i fascisti a cacciarlo; lo cacciarono i Borboni, ed egli aveva dovuto abbandonare Napoli dove era sceso dal suo Abruzzo, ed aveva trovato la luce della filosofia. Era andato allora peregrinando in Italia ed aveva trovato modo di insegnare in Piemonte; poi quasi seguendo gli eserciti liberatori, aveva trovato un’altra cattedra mi pare in Emilia, e finalmente era ritornato ad insegnare nella sua Napoli, liberata dai garibaldini, e questa luce nuova di cultura europea, aveva potuto splendere nella città non più borbonica. Ora se Bertrando Spaventa avesse vissuto sino ad oggi, forse sarebbe tra di noi, gli elettori non gli avrebbero negato il loro voto. Ma ecco che si troverebbe l’onorevole Patrissi ad ingiuriarlo, dandogli del fuoruscito, e l’onorevole La Pira gli direbbe che è fascista, perché hegeliano; e infine – quello che sarebbe più grave – l’onorevole Gonella gli direbbe: «Professore, per Bertrando Spaventa non c’è posto in un’università italiana» (Applausi a sinistra). Forse soltanto l’onorevole Croce, fattogli un esame, lo accoglierebbe con le sue grandi braccia, a dimostrare le virtù cristiane della filosofia.

Amici democristiani, noi non possiamo farvi l’offesa di credere che voi vogliate cacciare Bertrando Spaventa dalle nostre università, che vogliate cacciare quello che può esserci – e non può essere soltanto fra di voi – di vita, di pensiero, di anima, di carattere e per questo non possiamo condividere l’opinione di quanti chiedono di votare questo articolo come sta.

Ricordiamo quello che fu lo Statuto albertino. Oggi tutti ne parliamo male, non lo vogliamo più, ne vogliamo uno nuovo. E nessuno ci chiede di inserire quel primo articolo al posto d’onore, salvo forse un accenno della Civiltà Cattolica, ma qui la Civiltà Cattolica viene citata soltanto dagli uomini di sinistra. Nel 1848, quando lo Statuto albertino fu regalato ai torinesi, ai sudditi del Regno di Sardegna, fu come un grido di giubilo. E infatti le Costituzioni per chi sono date? Per gli oppressi; le garanzie valgono soprattutto per le minoranze. Allora fu un grido di gioia per le nostre Valli Valdesi. Ecco che scendevano dal chiuso delle loro valli, «barbet», e venivano a Torino, a render grazie, ad aprire un tempio. E la prima prece fu certamente una preghiera per i Savoia che li avevano liberati, dopo averli perseguitati tanto. E le comunità israelitiche di Torino, di Casale, di Alessandria ringraziavano. L’emancipazione degli israeliti veniva realizzata ed era stato un sogno legato a tutto lo svolgimento progressivo del nostro Paese e della rivoluzione democratica europea. Erano le minoranze che sentivano che veniva una vita nuova. Quelle che venivano dette le «religioni tollerate», sentivano che l’evento per loro voleva dire vita e libertà.

Ma oggi siamo nel 1947; è passato quasi un secolo da quel giorno di marzo; volete un giudizio su questa nostra Costituzione, su questi nostri articoli? Ci viene da quelle minoranze, che non dicono certo preci in favore dei Settantacinque che non si apprestano ad aprire il tempio ed a cantare le lodi a chi vuole che sia votato quell’articolo. Queste minoranze non si sentono garantite, protestano, hanno mandato a tutti noi la richiesta che sia riveduta quella formulazione, pur senza nessuno spirito anticattolico, senza nessuna avversione alla Santa Sede. È che quello che poteva essere buono nel 1848 non è più buono oggi; e noi siamo in diritto di chiedere all’italiano – non sempre grammaticale – di Ruini più di quello che non chiedessero allora al francese di Des Ambrois i valdesi, gli israeliti, e quegli italiani che esaltarono come un gran giorno il giorno della Costituzione albertina.

Voi avete detto che non volete lo Stato confessionale; e noi diciamo ancora una volta che non vogliamo uno Stato ideologico. Possiamo dunque intenderci, e non con formule di deteriore compromesso, ma ricercando una intesa vera. L’onorevole Ruini ha detto l’altro giorno, che i patti non sono inseriti; poi ha aggiunto «ma» tante cose dice l’onorevole Ruini quando dice «ma» …

RUINI. Ho detto «ma»!

PAJETTA GIANCARLO. Noi non vorremmo che si cominciasse come per lo Statuto albertino: vi ricordate quanti articoli dei quali non si sapeva mai se c’erano o se non c’erano? Finché un bel giorno abbiamo saputo una cosa soltanto: che quello Statuto non c’era più per nessuno.

Era uno Statuto elastico, dice qualcuno; era qualche cosa in cui non si credeva, aggiungo io. Nessuno voleva realizzarlo, né quelli che lo avevano regalato, né quelli che lo avevano accettato, e per i quali non poteva essere che un punto di partenza. Noi vogliamo oggi che sia solenne, che sia chiara, bronzea, questa Costituzione, questa legge, fondamento della Repubblica nuova. La legge che crediamo di avere conquistata col sacrificio e che vorremmo, giorno per giorno, rigo per rigo, parola per parola, sentire nostra ed essere pronti e difendere col nostro sacrificio. Ecco perché chiediamo che questa legge sia tutta nostra, tutta chiara, e non vogliamo sentir dire dal Presidente di coloro che l’hanno chiamata alla vita dichiararci che c’è, ma che potrebbe anche non esserci. Io attendo con ansia il collega Dossetti portarci nuovi argomenti, perché credo che egli sappia che qui siamo in un’Assemblea di Deputati, eletti per giudicare secondo il diritto e secondo il criterio politico e spero che voglia ricordare quello che qualcun altro ha forse dimenticato.

Siamo nella Costituente italiana, e non sulla via di Damasco: non possiamo qui votare contro la nostra coscienza o considerare l’assurdo come una suprema prova di fede. Questo è un foro politico: qui siamo chiamati a sapere per che cosa votiamo ed a votare secondo quello che sappiamo.

Ecco perché noi dobbiamo ringraziare l’onorevole Nitti per l’apporto di argomenti che ha dato alla nostra tesi. Non so se i democristiani lo ringrazieranno per quel voto che porta loro dopo quanto ha prima sostenuto. Qualche cosa vorrei rispondere all’onorevole Nitti. Egli ha voluto, tra l’altro, determinare su che cosa dovremmo contrastare fra democratici cristiani e comunisti. Egli è maestro di politica e di dottrina, ma sulla politica del nostro partito, sulla strategia, sulla tattica, sul punto nel quale noi faremo l’alleanza o la romperemo, su questo il nostro partito non può cercar maestri fuori dalle sue file, anche se ascolta ogni voce. E vorrei soprattutto aggiungere che non accettiamo la conclusione di quel discorso: che non si debba qui votare contro il Papa. Qui non si voterà contro il Papa o per il Papa. Qui non voteranno contro questa potenza, contro questa alta autorità, coloro che contrastano quella determinata formulazione ed io spero che qui non voteranno per il Papa neppure quelli che la sostengono. Qui dobbiamo votare tutti solo per l’Italia, per la Costituzione democratica della Repubblica italiana.

Noi abbiamo solennemente dichiarato, sia qui come nell’Assise più autorevole del nostro partito, al nostro 5° Congresso nazionale, che noi non intendiamo chiedere il ripudio dei Patti.

Non vogliamo la denuncia unilaterale del Trattato del Laterano. Lasciate voi libera la via al loro perfezionarsi, lasciate libera la via a quello che voi stessi ritenete giusto.

Riflettiamo non soltanto ai dettagli curiosi, come l’inserimento dell’opera nazionale balilla nella nostra Costituzione, riflettiamo soprattutto a quello che ci può ferire più profondamente: alla firma di quei Patti. Ricordiamo allora, in quel già lontano 1929, l’onorevole Croce in Senato ad elevare la sua voce di coraggiosa protesta. Ricordatelo voi liberali; ed erano intorno a Croce, con la loro trepidazione e con il loro consenso, i migliori del nostro popolo, quelli che furono gli antifascisti di sempre, perché seppero intendere e resistere dopo aver inteso.

Consideriamo la coincidenza, che non è strana, di tanti dubbi, di tante voci autorevoli che vengono da settori diversi; le parole che ci ha detto l’altro giorno Croce ritornando fra noi, che ha detto Vittorio Emanuele Orlando e che ha detto Nitti. Noi non siamo pessimisti; non abbiamo nessun motivo di fare intendere da questi banchi voci di Cassandra, perché, giorno per giorno, abbiamo avuto fede nel nostro popolo e nel nostro Paese e, giorno per giorno, non abbiamo atteso profetando sventura, ma abbiamo contribuito a fare che questa storia di oggi divenisse realtà. Noi non siamo pessimisti: crediamo che il nostro Paese risorgerà libero, e gli uomini ricostruiranno; crediamo che questo possa ancora una volta avvenire nella concordia, nella collaborazione di coloro che rappresentano le masse fondamentali del nostro popolo.

Onorevoli colleghi, è unanime il desiderio di pacificazione: facciamo dunque che sia unanime la formula che deve consacrarlo. Lo sarà, se voi crederete alla comune volontà di pace, a quella pace, per la quale abbiamo dato la fatica e la vita, a quella pace fra gli uomini di buona volontà, alla quale pensando diciamo: Così sia. E vogliamo dire nella nostra fede, nella nostra certezza: Così sia! (Vivi applausi a sinistra).

(La seduta, sospesa alle 17.50, è ripresa alle 18,10).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rodinò Mario. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Onorevoli colleghi. La prima delle disposizioni che abbiamo in esame risente della preoccupazione di affermare decisamente e sin dall’inizio la democraticità del nuovo Stato italiano. «L’Italia è una Repubblica democratica», si proclama al primo comma. «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», si dichiara nel secondo capoverso. «La sovranità emana dal popolo», aggiunge l’ultimo periodo.

Si, certo, è innegabile che è sulla democrazia che si vuole fondare la nuova Repubblica italiana, ma a noi interessa di stabilire qui, sin dal primissimo rigo di questo primissimo articolo, su quale genere di democrazia avremo il diritto di contare, e la definizione di Repubblica democratica non mi sembra sufficiente ad assegnare e garantire al nuovo Stato italiano quel preciso carattere di democrazia parlamentare che è nel ricordo e nell’attesa del popolo italiano.

La tradizione della democrazia parlamentare italiana trova le sue radici e i suoi titoli di nobiltà nell’entusiasmo e nella probità degli uomini che fecero l’Italia, e l’apice della sua affermazione nel periodo precedente la guerra del 1914; quando la chiarezza e l’onestà delle istituzioni parlamentari italiane permisero che a lungo la nostra moneta, indice della sanità nazionale e della fiducia internazionale, battesse in tutte le Borse e su tutti i mercati del mondo il prezzo ed il valore dell’oro. Il fascismo, irridendo alla meritata sensibilità politica dei nostri avi e rovesciando la libertà e l’indipendenza degli istituti parlamentari, apre la via della rovina alla Patria. Orbene, noi crediamo che per ricostruire questa Patria occorra riattivare l’antica onestà politica e riportare gli istituti parlamentari più che mai aperti ed accessibili ad ogni lavoratore e ad ogni cittadino volenteroso e capace, allo splendore e alla trasparenza di un tempo.

Invero: la migliore tutela degli interessi del popolo scaturisce, naturale e insostituibile, dalla legittima concorrenza esistente fra una maggioranza interessata a bene amministrare per conservarsi il favore popolare, ed una minoranza interessata a rilevare ogni suo errore ed inadempienza allo scopo di carpirle detto favore e sostituirsi ad essa.

L’istituto parlamentare, rispondendo alla doppia funzione di tutelare l’affermazione ed il Governo della maggioranza e l’azione dei diritti delle minoranze, è la sola forma che renda possibile lo svolgimento regolare, nell’interesse del popolo, di questo perenne antagonismo, di questo leale conflitto, di questo giuoco di prestazioni e di controlli.

Perciò, se Repubblica deve significare «Governo di popolo», e quindi, «Governo creato e costituito nell’interesse del popolo», noi abbiamo ragione e diritto di esigere che si specifichi chiaramente e fin dal principio della legge costituzionale che è la democrazia parlamentare, quella che darà forma e vita alla Repubblica italiana. Non è la protezione della maggioranza quella che preoccupa: una maggioranza, se veramente omogenea e concorde (e se non lo è, non è maggioranza), sa tutelarsi da sé.

È la protezione delle minoranze quella che interessa ed è di questo che noi dobbiamo principalmente preoccuparci, affrontando chiaramente e tempestivamente il problema e ricordando la tattica dei comunisti, che guardano alla democrazia come ad un mezzo di conquista e non come ad un fine da conquistare.

Noi, qualunquisti, non possiamo dimenticare che nel discorso pubblicato nell’Unità del 12 gennaio, l’onorevole Togliatti ha dichiarato che democrazia per i comunisti più che tranquillo ed autorevole Governo parlamentare, significa: attività delle masse, delle classi popolari e del popolo ad opera di elementi di avanguardia organizzati dal partito di avanguardia della classe operaia!

Con questo genere di democrazia, attivissima ed organizzata, si giunge precipitosamente a trasferire le decisioni, delle libere e serene discussioni del Parlamento, alla corale proclamazione dei sì e dei no, delle adunate obbligatorie e oceaniche.

La differenza fra noi ed i comunisti, nei riguardi dell’istituto democratico, è nel fatto che noi vogliamo basarli, consolidarli e garantirli, questi istituti, per poterli pensare eterni e sicuri, mentre, ad essi, basta crearli ed utilizzarli per quel tanto che serve ai loro fini e non più.

Oggi, come minoranza, anche essi hanno tutto l’interesse di appoggiare ed approvare la nostra democrazia, che alla loro minoranza apre e garantisce tutte le porte, tutto il rispetto e tutte le libertà, e rende possibile la partecipazione al potere ed ogni legittima forma di propaganda e di consolidamento.

Domani, ligi alle teorie marxiste e al loro credo politico, con ragionamenti democraticamente progressivi o progressivamente democratici, potrebbero denunciare la inutilità della permanenza dell’istituto parlamentare, divenuto non producente per essi, e sopprimere, di conseguenza, ogni forma legale di opposizione e di controllo.

L’onorevole Togliatti, nel suo ultimo discorso ci ha preannunciato l’avvento al potere di una nuova classe dirigente.

Non abbiamo nulla in contrario, perché sappiamo che queste sostituzioni sono nelle regole del giuoco democratico, ma crediamo di avere il diritto di sorvegliare ed esigere che l’avvento e la successiva permanenza al potere di questa nuova classe si svolga col pieno e costante rispetto delle formule della democrazia parlamentare e sotto la tutela dell’articolo 50, che riconosce al cittadino il diritto e il dovere di insorgere contro coloro che limitano la sua libertà e i diritti garantitegli dalla Costituzione.

«Il problema della Costituzione è questo: bisogna che quanto è accaduto una volta non possa ripetersi più; il Paese non deve essere più in balìa dei gruppi che dominano, perché detengono i mezzi di produzione, ha dichiarato l’onorevole Togliatti, «ecco perché», ha aggiunto: «si deve formulare una Costituzione antifascista». Anche qui d’accordo; siamo qui per aiutarlo, ma vogliamo ricordargli che il miglior modo di fare una Costituzione antifascista è quello di fare una Costituzione veramente democratica, anche se questa è, anche e inevitabilmente, una Costituzione anticomunista. Costituzione democratica e antifascista significa necessariamente libertà di pensiero, di parola, di stampa, libertà di riunione e di associazione; rispetto assoluto e indiscusso dei diritti delle minoranze che devono sempre conservare il diritto legale di opporsi alla maggioranza e di fare tutto quanto è legalmente possibile per divenire, a loro volta, maggioranza e prendere il potere. Se su questo siete d’accordo, se potete garantirci che alle riforme per il benessere sociale, che prospettate ai lavoratori, intendete giungere attraverso le tranquille vie della democrazia e della giustizia piena ed eguale per tutti, realizzate da uomini competenti ed onesti, noi siamo qui, decisi a non procurarvi il benché minimo intralcio, disposti a collaborare e anche a scomparire, perché, come già è stato autorevolmente dichiarato da questo settore, nessuno più di noi ha a cuore la sorte futura e i legittimi miglioramenti dei lavoratori italiani, nessuno più di noi mira a risolvere la questione sociale raggiungendo una più equa distribuzione dei beni concessi da Dio, nessuno più di noi, al di sopra dei propri interessi e della propria persona, pone l’interesse e l’amore per la Patria e per il popolo. Ma, per queste stesse ragioni, nessuno più di noi combatterà strenuamente ogni qualvolta ci sembrerà che, con la violenza e con l’astuzia, voi cercherete di silurare ogni inizio di ripresa, di fiducia e di calma e indebolire l’integrità e l’efficienza delle forme e delle manifestazioni democratiche che sono e rimangono, per noi e per tutti, la sola e naturale difesa della nostra riconquistata dignità di uomini liberi.

È stato dichiarato che la sconfitta è un disastro dovuto alla politica di una determinata classe dirigente che, per egoismo, avrebbe portato il Paese verso la tragedia e il fallimento, di una classe dirigente che non ha saputo vedere e provvedere, anche quando vedere e provvedere doveva. Ora a me sembra che questa classe dirigente che ha fallito, non può essere identificata, come l’onorevole Togliatti fa, con la borghesia, la quale fu sempre considerata da Mussolini come una classe diversa e avversa alla classe dirigente fascista.

La verità è che si pensa e si tenta di sostituire la classe dirigente borghese, che ha fatto l’Italia e che, nella ultima guerra, nonostante la follia del capo e dei gerarchi e la carenza di mezzi e risorse, ha saputo per tre anni resistere ai più potenti imperi del mondo, dichiarandola espressione egoistica del capitalismo privato, e ci si preoccupa di sostituirla, in un momento così difficile, con una classe nuova, senza precedenti e senza esperienza, che non è rappresentata da lavoratori, ma da altri borghesi decisi a sfruttare, nel nome dei lavoratori, un capitalismo mostruoso, cento volte più egoista e cento volte più incontrollabile del capitalismo privato: il capitalismo di Stato!

Nella relazione che accompagna il progetto di Costituzione, il Presidente della Commissione dichiara che molti avrebbero desiderato di definire, subito e all’inizio del progetto, l’Italia «Repubblica di lavoratori», e che a tanto si è rinunziato soltanto per non creare parallelismi con altre Costituzioni che hanno forme di economia diverse da quella italiana. A me non sembra che ci sia una gran differenza tra il definire l’Italia, a similitudine della Repubblica sovietica, «Repubblica di lavoratori» come si sarebbe voluto fare, o definirla: «Repubblica che ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come si è fatto nel primo articolo delle disposizioni generali. Questa definizione premessa a quella della sovranità popolare, quasi si tratti di affermazione che presista e superi i poteri di questa stessa sovranità (che, pure, è la base naturale di ogni democrazia), a me sembra ispirata da equivoche formalità demagogiche ed in evidente contradizione con la precedente affermazione di democraticità della Repubblica, la quale importa e comporta la completa eguaglianza di tutti i cittadini nel diritto di partecipare alla direzione della cosa pubblica.

È di suprema utilità ed interesse specificare esattamente ed individuare, fin dal principio, la portata e la finalità delle affermazioni di questo progetto di Costituzione, ad evitare l’impostazione ufficiale di piani inclinati, che ignoriamo (o, meglio, non ignoriamo) a che cosa potrebbero condurci.

È noto che i testi marxisti e i partiti e le masse marxiste danno alla parola «lavoro» e «lavoratori» un significato molto più stretto e limitato di quello comune del vocabolario. La dizione, dunque, può prestarsi a doppie ed ambigue interpretazioni che, in una legge costituzionale, vanno evitate senza altro.

Gli italiani sono, per definizione tradizionale: «lavoratori»; tutta la loro storia è frutto delle loro braccia e del loro ingegno; tutta la loro terra ed infinite altre terre sono intrise del sudore della loro fronte; tutto il progresso della umanità, in ogni campo e in ogni settore, è legato al lavoro italiano.

Se per «lavoro», come è stato già detto qui dentro, deve intendersi e non può non intendersi, al disopra di ogni accezione di lavoro manuale, ogni azione ed ogni attività intese a procurare col braccio e con la mente un guadagno o una soddisfazione all’individuo ed un contributo materiale, intellettuale e morale alla vita comune, io mi domando: chi è che non lavora in Italia? Tutti lavorano in Italia, o, meglio, tutti aspirano a lavorare, e, forse, il lavoro più degno è quello di coloro che si affaticano a creare ed ampliare ogni attività di lavoro per gli altri, e il più commovente è quello di tanti che lavorano disperatamente a cercare un lavoro, che per tutti non c’è.

Se dunque il lavoro, inteso nel senso ampio e lato di questa nobile parola, è già base e fondamento, e anzi la sola base e la sola speranza della vita italiana; e se la percentuale di quelli che vogliono non lavorare in Italia e che possono permettersi il lusso di avere questa volontà, ammesso che ve ne siano, è talmente irrisoria e trascurabile da non poter formare oggetto di particolari provvedimenti e individuazioni in tema di legge costituzionale, perché dare proprio all’inizio della nostra Costituzione la sensazione di un possibile conflitto e in ogni caso di una differenziazione fra popolo e lavoratori, quando, come già è stato detto, il popolo italiano è un popolo di lavoratori?

A conti fatti, se porre alla base della Costituzione la santità e la indispensabilità del lavoro, unica speranza e unica sostanza di vita per la Repubblica, è doverosamente sacro, la proclamazione di una non identificata classe di lavoratori, privilegiata nei confronti del laborioso popolo italiano, non ha e non può avere che uno scopo demagogico ed elettorale, quello di giocare sull’equivoco e di permettere a qualcuno di dire, basandosi sulla assonanza di nomi fatti – repubblica di lavoratori, partito di lavoratori, camera dei lavoratori: – «Ecco abbiamo già riservato i posti; di qui e solamente di qui si passa in base alla nuova Costituzione; solamente di qui si entra per partecipare alla organizzazione e alla vita del Paese !». (Commenti).

Dopo avere, e giustamente, affermato che il lavoro è il fondamento della Repubblica, più serio e più onesto sarebbe stato di preoccuparsi del problema di procurare il lavoro ai lavoratori italiani, anziché di quello, tanto più facile, di assicurare loro la partecipazione politica, che non potrebbe mai loro mancare in una repubblica ordinata democraticamente e secondo i principî della sovranità popolare.

A me sembra che, dopo aver proclamato la necessità del lavoro, unica e vera fonte della rinascita della Patria, troppo nel progetto in esame e con troppa sorprendente facilità si parla di assegnazioni di lavoro, di possibilità di lavoro, di beneficî derivanti da una sempre più diffusa attività di lavoro, dimenticando che l’impiego di tutte le braccia e di tutti gli intelletti disponibili rimane per tutti i paesi in genere, e per il nostro in ispecie, il problema dei problemi.

Dopo le fandonie del fascismo, i cittadini hanno sete di sincerità ed è obbligo della democrazia, e quindi obbligo nostro, di rispondere a questa precipua e legittima esigenza.

Le manovre equivoche continuano. Durante le ultime elezioni fu affermata e diffusa una falsità: la Costituente vi darà pane e lavoro. Nelle prossime si darà vita ad una altra: la Costituzione ha assicurato a tutti il lavoro.

Non è giusto; consci della nostra responsabilità nei confronti del popolo, e assolutamente indifferenti alle sorti dei prossimi ludi elettorali, noi desideriamo che la Costituzione non rappresenti un inganno per nessuno e che i cittadini sappiano che tutti i provvedimenti derivanti dal lavoro italiano, privo di materie prime, sono e rimangono intimamente connessi e legati alla realizzazione di una sempre più vasta collaborazione economica internazionale. Come nell’articolo 4 di queste disposizioni generali è sancito e praticamente dichiarato che l’Italia, più che sulla forza delle sue armi, che non ha e che non può avere, conta, per i problemi della difesa e delle aggressioni, sull’esistenza di un’organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia ai popoli, così, anche per quanto riguarda i problemi del lavoro, occorrerebbe dichiarare in questa Costituzione, che il popolo italiano, per sodisfare le sue sempre crescenti necessità di lavoro, conta sul progressivo incremento di una collaborazione internazionale che renda possibile, nel nome di una superiore giustizia, lo scambio di materie prime con prodotti finiti.

Nessuno Stato, per quanto ricco e attrezzato, può infatti illudersi di vivere rinchiuso in se stesso, separato dalla comunità internazionale. Le follie dell’autarchia ci fanno oggi sorridere.

Mettere il lavoro quale fondamento della nuova Repubblica, va bene; ma le fondamenta, per rispondere alle funzioni di sostegno, debbono a loro volta essere ben poggiate e basate e non è possibile non domandarsi su che cosa poggeremo noi questo «lavoro fondamento» che figura garantito a tutti i cittadini e sul quale ci affrettiamo ad imporre tutto l’edificio della nuova Repubblica. Il problema del lavoro, considerato soltanto come problema di carattere interno e nazionale, è del tutto irreale e insolubile, e malamente è stato posto a perno principale dell’organizzazione costituzionale.

L’onorevole Nenni dichiarò giorni or sono che bisognava esaminare, e che avrebbe esaminato, il progetto di Costituzione, ponendosi da un punto di vista che chiamò: lo spiritò del 2 giugno.

È perfettamente giusto. Ma quello che non riesco a comprendere è come, e per quale errore di prospettiva, egli riesca, dal suo punto di vista, a vedere, breve e vicina come una scorciatoia, la strada dei suoi sogni, quella che dal Governo conduce al potere, al suo potere, naturalmente.

E poiché egli vi ha fatto richiamo, voglio anch’io guardare un po’, dal mio punto di vista, allo spirito del 2 giugno.

PRESIDENTE. Onorevole Rodinò, non dimentichi che l’onorevole Nenni ha detto queste cose in tema di discussione generale: lei invece parla ora in sede del 1° titolo e deve mantenersi all’argomento relativo al primo titolo.

RODINÒ MARIO. Certo l’obiettivo immediato cui occorreva mirare in quella epoca era quello di dar vita ad una Costituzione che, senza subire il riflesso e l’influenza di alcuna ideologia e di alcun interesse di parte, riuscisse ad individuare, con equilibrio, i limiti e le forme entro cui avrebbe poi dovuto evolversi la vita politica, economica e sociale del Paese; ma, per ottenere a tanto, la compilazione di questa suprema nostra legge regolatrice avrebbe dovuto affidarsi soltanto ad uomini capaci di guardare al compito come ad un problema tecnico, al pari di cultori di sport incaricati di predisporre le misure del campo e le regole del giuoco in cui altri dovranno impegnarsi.

Invece, al 2 giugno, per arrivare all’individuazione e alla scelta degli uomini destinati a compilare la Costituzione che avrebbe dovuto porsi al disopra delle passioni politiche ci si è affidati, addirittura, alle passioni politiche stesse!

È quindi naturale che il progetto risenta di questo fondamentale errore di procedura ed è inevitabile che esso rispecchi, allo stato, e che continuerà inevitabilmente a rispecchiare dopo le discussioni e le decisioni dell’Assemblea, non una cooperazione disinteressata ed omogenea, ma le tendenze politiche e le passioni, contrastanti ed opposte, che albergavano al 2 giugno nell’animo degli elettori italiani. A me non meraviglia, dunque, che il progetto sia il riflesso di una situazione politica, e, quindi, inevitabilmente, di un equilibrio e di un compromesso, ma meraviglia che questo equilibrio e questo compromesso non siano quelli che, in base allo spirito del 2 giugno, richiamato dall’onorevole Nenni, gli elettori avevano ragione e diritto di attendersi.

Il popolo il 2 giugno, nonostante venti anni di schiavitù…

PRESIDENTE. Permetta, onorevole Rodinò, veramente mi pare che lei stia sviando. Guai se ricominciamo a parlare in forma generale dello spirito che informa la Costituzione.

RODINÒ MARIO. Ma bisogna parlare dello spirito, oltre che dei fatti.

PRESIDENTE. Se lei parla dello spirito del 1° titolo sì; ma lei, mi pare, sta parlando dello spirito della Costituzione.

RODINÒ MARIO. Rientrerò subito in argomento. Il popolo al 2 giugno, nonostante venti anni di schiavitù e di disabitudine al voto, ha, di fronte alle elezioni per la Costituente, bandite in funzione dei simboli dei partiti politici, sentito e compreso subito, e con squisita sensibilità politica, che cosa gli chiedeva la scheda. Ha capito e sentito che, più che le leggi e le norme atte a stabilire l’orientamento politico del Paese, era l’orientamento stesso che si andava a decidere con quelle elezioni e, pertanto, ha sentito che la questione più scottante, il dilemma più urgente da risolvere era uno e uno solo: «L’Italia deve o non deve andare verso il comunismo?» Ed è su questo punto che il popolo il 2 giugno si è nella sua grandissima maggioranza pronunziato, votando, sostanzialmente ed unicamente: «pro» o «contro» il comunismo. (Commenti a sinistra). La divisione risulta chiara e nettissima: i «pro» sono tutti i voti assegnati alla lista ufficiale comunista, i «contro», invece, sono andati divisi fra tutti gli altri partiti, compreso quello socialista, perché molti hanno votato socialista ritenendo, allora, che una soluzione socialista di carattere intermedio avrebbe ostacolato l’avvento di un comunismo integrale, meglio che non una maggiore affermazione dei democristiani, dichiaratisi durante le elezioni nettamente anticomunisti, o dei qualunquisti, ancora più chiaramente e impegnativamente pronunziatisi in funzione anticomunista.

Io, personalmente, ho votato per la monarchia, per intimo sentimento di simpatia, ma ritengo che alcuni dei milioni di voti che si sono raccolti sul segno monarchico, più che a personale attaccamento per la forma monarchica e per la casa Savoia, sono da attribuirsi alla diffusa convinzione che la presenza del re avrebbe costituito un decisivo baluardo fra la nazione e il comunismo. Il popolo italiano non si è confuso il 2 giugno e, sentendo tutta la portata politica del voto cui era chiamato, ha, nonostante gli equivoci della propaganda, chiaramente e democraticamente dimostrato di desiderare in grandissima maggioranza una Costituzione ispirata a principî cattolici e di carattere liberistico; certamente, non comunista. È una Costituzione di questo genere che noi abbiamo il dovere di dargli.

Il popolo ha sentito il 2 giugno che, oggi, non vi sono che due isole idee politiche e, cioè, quella liberale e quella totalitaria nettamente diverse e contrastanti. La ipotesi di poter continuare, in seguito a un compromesso tra l’onorevole De Gasperi e l’onorevole Togliatti, ad essere governati da una soluzione intermedia che concili aspirazioni e precetti dell’una tendenza con norme e principî dell’altra è assolutamente puerile e inattiva, e tutta la politica italiana di questi ultimi tre anni lo dimostra…

Non siamo noi soltanto, è tutto l’orbe terracqueo che si trova oggi a dover rispondere a questo interrogativo formidabile, a questa questione, basilare ed improrogabile per tutte le politiche di tutti i paesi che non sono i tre grandi. Gli ultimi avvenimenti internazionali aggravano la posizione. In ogni animo di uomo e nella intera umanità vive una stessa attesa, una eguale incertezza.

Tra la economia liberale che basa la sua esistenza sulla attività di quei gruppi di privati cittadini – che preoccupano così gravemente le sinistre – e la economia totalitaria, che si basa su di un capitalismo unico di Stato – che, per tante varie e fondate ragioni, preoccupa così vivamente noi – occorrerà pure orientarsi e decidersi.

Posto di fronte alla propria responsabilità, il popolo, al 2 giugno, ha votato, ed un chiaro indiscutibile schieramento si è formato in Italia, individuando rapporti di valore e di forze fino allora non misurati. Un equivalente schieramento avrebbe dovuto ripetersi in questa Assemblea per dar vita a una Costituzione di equivalente carattere; ma il compromesso governativo, giustificato inizialmente dalla necessità di provvisoriamente e transattivamente governare in attesa della nuova Costituzione e delle nuove elezioni, attacca ed inficia anche gli orientamenti relativi alle norme costituzionali e minaccia di porre a base della vita nazionale, e per molti decenni, il frutto di un ulteriore e ben più grave compromesso politico.

Non è questo che la democrazia ha diritto di attendersi da coloro che da tutti i balconi e su tutte le piazze hanno fatto appello al suo nome. Essa, la vera democrazia, autentica e unica, esige che i rappresentanti del popolo mantengano fede alle assicurazioni e alle promesse in base alle quali sono stati eletti e continuino ad affrontare e combattere in sede parlamentare gli avversari individuati e denunziati nei comizi; essa vuole che i partiti, ad elezioni avvenute, sostengano e difendano a tutti i costi la pienezza e la integrità delle loro idee basilari e del loro credo politico, senza scendere a patteggiamenti e transazioni con gli avversari che più fieramente hanno combattuto ed in odio e dispregio dei quali hanno ricevuto il mandato elettorale.

Io credo che la massima parte degli elettori ha dato, il 2 giugno, il voto al partito prescelto per renderlo più forte e più idoneo a sostenere e difendere a viso aperto i suoi ideali ed il suo programma e non per permettergli di stringere accordi con i suoi più naturali avversari.

Gli articoli di queste disposizioni generali, gli ultimi, dei titoli seguenti, tutto l’insieme del progetto sono evidente frutto di transazioni. Essi non risultano animati da un unico spirito, da una stessa volontà. Non si sente in essi la guida di un pensiero decisamente orientato che leghi e colleghi idea ad idea e criterio a criterio. Ogni articolo non è l’espressione decisa di un concetto integro e organico e tradisce il lavoro di lima e la dosatura artificiale delle transazioni, sofisticazioni e modifiche cui è stato sottoposto durante la ricerca del punto di accordo.

Ora, a causa della importanza di ognuna di queste singole disposizioni, in nome di quel rispetto della personalità umana a cui fa richiamo l’articolo 6, io mi auguro che ogni partito senta la doverosa opportunità di abbandonare di fronte alla Costituzione le catene di impegni che vanno da una Segreteria all’altra, le votazioni patteggiate e scontate in anticipo, i do ut des, le soluzioni transattive e intermedie, per permettere ad ogni eletto dal popolo di prendere liberamente, di fronte a ogni principio, ad ogni articolo della legge costituzionale, la posizione dettatagli dalla sua personale convinzione e coscienza. Aggiungo che mi sembra logica e democratica la proposta di aggiungere fra le primissime disposizioni generali (a meno che non si ritenga più opportuno di porla fra le finali), una dichiarazione che subordini la definitiva approvazione della Costituzione, che questa Assemblea voterà, al risultato di un referendum popolare.

Nell’articolo 72 del progetto è prevista l’approvazione di leggi normali in base a referendum popolare. Nell’articolo 130 è previsto che, su richiesta di un solo quinto dei membri di una delle Camere, dovrà essere sottoposta a referendum popolare ogni legge di revisione costituzionale. L’articolo 1, nella prima parte dell’ultimo periodo, stabilisce: che la sovranità emana dal popolo, ma, nella seconda, immediatamente seguente, elude subito questa sovranità, assegnandole i limiti di una legge generale, sulla quale il popolo non ha avuto e non avrà, se si rifiuta la mia proposta, possibilità di direttamente e chiaramente esprimersi. Questi brevi rilievi mi sembra siano sufficienti a dare fondamento alla proposta stessa, che non è solo di chiara ispirazione democratica, ma è anche, dal punto pratico, di facile attuazione, dato che il referendum popolare potrebbe, con grande semplicità, e limitatissimo aggravio di spesa, rimanere abbinato alle operazioni di voto delle prossime elezioni politiche. Altro punto da rilevare è quello che la Costituzione, intorno a cui stiamo lavorando, è la prima Costituzione emanata da un Paese che (uscendo da un regime totalitario ed uscendone nelle condizioni in cui ci troviamo) si trova in grado di utilizzare una propria esperienza in materia.

Mi sembra, quindi, opportunissimo stabilire e ricordare chiaramente all’inizio di questa Costituzione, in un preambolo o in una disposizione generale (allo scopo di dare una impostazione base ed una finalità inequivocabile a tutto il testo del progetto) che la nostra esperienza – un’esperienza che ci è costata lacrime e sangue, la morte dei figli e la distruzione del Paese – ci insegna che è lo Stato accentratore e totalitario il principale nemico di quella autonomia e dignità della persona umana, che l’articolo 6 intende proteggere e custodire; è lo Stato accentratore e totalitario che va individuato e combattuto in tutte quelle manovre e quei metodi che gli italiani di oggi conoscono e riconoscono, ma, che quelli di domani potrebbero ignorare.

Ed è proprio in base alla nostra passata esperienza ed ai nostri ricordi totalitari che mi dichiaro nettamente ostile alla dizione dell’articolo 7 delle disposizioni generali, là dove esso assegna alla Repubblica il compito quanto mai imprecisato, elastico ed equivoco di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza degli individui, ecc.».

Questa equivoca dizione con la scusa di tendere ad una sempre maggiore uguaglianza sociale e di favorire lo sviluppo della persona umana, autorizza di fatto lo Stato a compiti ed azioni di così vasta e complessa portata, che potrebbero essere realizzati soltanto da uno Stato non meno autoritario e non meno totalitario di quello che è alla base di tutte le nostre sventure.

Ora, quello che noi desideriamo dalla Costituzione, e che la Costituzione è necessario che ci dia, è un complesso di norme generiche che garantiscano a tutti i cittadini di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale a cui essi appartengano la sicurezza dei diritti e l’esercizio della libertà.

E questa garanzia ci occorre principalissimamente contro lo Stato. La sicurezza e la difesa della personalità e indipendenza del cittadino affidate alla discrezione dello Stato non ci ispirano alcuna fiducia, perché crediamo che il nuovo Stato italiano, o qualunque altro, non agiranno mai nei confronti dei cittadini con modi e spirito sostanzialmente diversi da quelli con cui agirono, agiscono ed agiranno tutti gli Stati che, autorizzati ad esorbitare dalle semplici funzioni amministrative, hanno, con tutto il loro complesso di uffici e di personale, un solo principalissimo obiettivo, che supera di gran lunga qualsiasi preoccupazione di salvaguardare l’autonomia e la dignità dei cittadini: quello di comandare il Paese e i cittadini nel modo più sicuro e più spiccio, e di continuare a comandarli anche quando non ci sono più le iniziali approvazioni e consensi.

In dipendenza di tutte queste gravi e concrete preoccupazioni, l’amico onorevole Coppa ed io abbiamo presentato il seguente emendamento all’articolo 1°:

«Lo Stato italiano ha ordinamento repubblicano, democratico, parlamentare, antitotalitario.

«Suo fondamento è l’unità nazionale; sua meta la giustizia sociale; sua norma la libertà nella solidarietà umana».

Onorevoli colleghi, è inoppugnabile che in regime di vera democrazia tutto va disposto in riconoscimento e conformità del sentimento e dell’interesse della maggioranza del popolo.

Ora, se vi è un principio veramente popolare in Italia, se esiste in Italia un sentimento realmente comune e realmente diffuso nelle categorie e nelle masse, questo sentimento è quello della fede cattolica.

Questa indiscutibile verità dovrebbe, a mio parere, essere affermata all’inizio dell’articolo 5, perché è il riconoscimento di questo stato di fatto che dà sostanza, ragione e giustifica a tutto l’articolo.

Pertanto, anche qui, d’accordo con il collega e amico Coppa, ho presentato il seguente emendamento:

«Far precedere alla dizione dell’articolo 5 come riportata nel testo del progetto la seguente dichiarazione: «La religione cattolica è la religione professata dalla enorme maggioranza del popolo italiano».

Un emendamento del genere dovrebbe essere accettato, se si pensa che, in luogo della semplice affermazione storica proposta, lo Statuto Albertino, compilato in periodo di intense correnti ed attività anticlericali, e quando ancora le masse cattoliche non partecipavano ufficialmente alla vita pubblica italiana, riconosceva tale verità con una asserzione molto più esplicita e molto più impegnativa.

Un emendamento del genere dovrebbe venire approvato come espressione della gratitudine che non può legare il popolo italiano al Sommo Pontefice ed alla Chiesa cattolica, che tanti ulteriori dolori e lutti hanno risparmiato, all’Italia in genere ed a Roma in ispecie, tutti, nell’ora del pericolo, accomunando e tutti sorreggendo senza distinzione di fede e di parte, nobili interpreti di quel comando divino che in ogni umano ci addita un fratello.

Un emendamento del genere dovrebbe senz’altro essere approvato, in omaggio a quello spirito del 2 giugno a cui dianzi ho fatto richiamo, in quanto che uomini e partiti vorranno ricordare di aver tutti, nella propaganda elettorale, ostentato e garantito al popolo: ossequio e riconoscimento per fa sua Chiesa e per la sua fede. Oggi è giunta l’ora di provare la sincerità delle loro promesse.

Dalla dichiarazione, oggetto dell’emendamento proposto, dovrebbe, a mio parere, anche scaturire una migliore impostazione dell’articolo 14, per il quale l’affermata e legittima libertà di culto e di propaganda, riconosciuta ad ogni fede religiosa, dovrebbe trovare un limite non solo, come già stabilito, nelle esigenze dell’ordine pubblico e del buon costume, ma anche nella opportunità di evitare manifestazioni offensive per la religione cattolica e, di conseguenza, per la enorme maggioranza dei cittadini.

Sulla opportunità e convenienza di mantenere integri e vivi i patti in corso tra il Vaticano e l’Italia tutti, o per lo meno la gran maggioranza, si sono, qui dentro, pronunziati favorevolmente, e la questione controversa rimane solo se debba o meno la continuità dei Patti in corso essere garantita dalla Costituzione.

Si obietta dagli oppositori che nulla può esserci di comune tra la Costituzione di uno Stato e un trattato intercedente tra Stato e Stato. Si aggiunge ancora: che la sovranità dello Stato italiano rimarrebbe diminuita dalla impossibilità in cui verrebbe a trovarsi di poter denunciare il trattato senza prima provvedere a modificare la propria Costituzione e che ciò è tanto più rilevante in quanto ché la Santa Sede nulla aggiunge, in contraccambio della nuova garanzia italiana, agli impegni già assunti colla firma apposta al trattato. Si considera, in ultimo, vano ed antigiuridico, nei confronti del trattato, un impegno di carattere unilaterale.

Io sono un tecnico e non ho, naturalmente, la preparazione giuridica necessaria e neppure ho qui testi e volumi per discutere argomenti del genere; ma, così, a lume di candela, da uomo qualunque, ritengo che la inclusione dei patti italo-vaticani nella Costituzione italiana non deve e non vuole avere nessun riflesso nei riguardi dell’altro contraente e che, neppure, vuole avere lo scopo di influire sulla portata del Trattato, già vivo ed operante da tempo, indipendentemente dall’interessamento di questa Assemblea. L’inclusione dei Patti nella Costituzione, che dobbiamo deliberare, significa solo e unicamente che il nuovo Stato italiano, appunto perché il Trattato è sanamente vivo ed utilmente operante, deve, di fronte al popolo, che desidera dare al Trattato la massima stabilità e garantirlo da ogni improvvisa iniziativa di sconsiderati, impegnarsi a mai denunziarlo di propria iniziativa; rimanendo ogni eventuale decisione del genere subordinata alle procedure ed approvazioni richieste per le variazioni delle norme costituzionali.

Questo accordo interno, intercedente tra i componenti di quella collettività che rappresenta una delle parti contraenti, non ha e non può avere alcuna ripercussione giuridica nei confronti dei terzi. È il rappresentante legale di una famiglia che assume, nei riguardi dei componenti della famiglia stessa, impegno ufficiale di non denunciare, senza prima consultarli, la continuità di un contratto, che la famiglia, parte contraente, considera utile e gradito per i suoi interessi ed i suoi sentimenti.

Perché, con l’affermazione che è antigiuridico e non producente nei confronti dei terzi, rifiutarsi di ratificare un accordo intento a garantire uno dei maggiori beni dell’uomo: la tranquillità familiare? Un accordo che può portare e che porterà un essenziale contributo a quella pace e quella tranquillità di cui la grande famiglia italiana ha tanto bisogno?!

Pace fondata sulla concordanza per ogni coscienza e per ogni cuore dei doveri di cattolico con quelli di italiano.

Pace religiosa e cattolica da utilizzare per trasfondere nei rapporti cittadini quello spirito di fratellanza e di comprensione in cui, solo, è la soluzione e la chiave degli umani problemi.

Voglia Iddio che questa nostra nuova Repubblica senta la effettiva, imprescindibile necessità di adoperarsi per il raggiungimento di questa comprensione e di questa concordia.

Voglia Iddio che la nuova Repubblica senta che non è continuando con leggi ingiuste e partigiane a dividere gli italiani in fascisti e antifascisti, repubblicani e monarchici, settentrionali e terroni, che si ricostruisce la Patria! Voglia Iddio che la nuova Repubblica senta, come è necessario, come è indispensabile, che essa si avvicini, comprensiva e materna, al cuore di tutti i suoi figli e tutti li rinserri in un unico abbraccio, guidata da una sola finalità, nobile e grande: quella di cementare la fusione e di preparare, nella concordia e nella pace, il nuovo avvenire del popolo italiano. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bassano. Ne ha facoltà.

BASSANO. Onorevoli colleghi, a me capita oggi un duplice infortunio: di parlare a conclusione di una discussione alla quale hanno partecipato gli uomini più eminenti di questa Assemblea, e di essere stato quasi immediatamente preceduto, in una questione di ordine giuridico, da un giurista insigne quale l’onorevole Calamandrei, il quale oggi non è stato inferiore alla sua fama. Mi consenta, onorevole Presidente, non solo di attenermi al tema specifico che devo svolgere, ma di far anche alcune considerazioni di ordine generale.

PRESIDENTE. L’importante è che non oltrepassi la mezz’ora concessa con le sole considerazioni generali.

BASSANO. Io le prometto che parlerò forse anche meno di mezz’ora.

PRESIDENTE. La segnalerò allora per imitazione all’onorevole Rodinò. (Si ride).

BASSANO. Onorevoli colleghi, questa discussione, come è stato constatato da molti oratori che mi hanno preceduto, è stata, fin dalle sue prime battute, caratterizzata dalle critiche che quasi tutti i componenti della Commissione dei Settantacinque hanno rivolto al progetto di Costituzione alla cui redazione avevano partecipato. Prova, o meglio, conferma evidente di quello spirito di compromesso che aveva preso il sopravvento e che ognuno è venuto qui a denunziare nella parte in cui il compromesso non gli è stato favorevole. A questo forse – e senza forse – ha contribuito il modo stesso di formazione della Commissione, che sarebbe stato bene non costituire con criterio rigidamente politico e proporzionalistico, bensì chiamando a farne parte, insieme ai rappresentanti dei partiti e dei gruppi politici, gli uomini più eminenti per preparazione tecnica, per autorità, e, diciamolo pure, per obiettività. Non si sarebbe così verificato l’inconveniente, che è stato da alcuni lamentato, di non aver chiamato a far parte della Commissione uomini politici dell’autorità dell’onorevole Orlando, dell’onorevole Nitti, dell’onorevole Bonomi, il primo dei quali poi, per unanime riconoscimento, è il più eminente dei nostri costituzionalisti, e non ne sarebbe venuto fuori, come opportunamente ha rilevato l’onorevole Calamandrei, un progetto di Costituzione tripartitico come il Governo.

Se ad un compromesso, o ad una serie di compromessi politici fosse stato veramente necessario addivenire, ebbene questo compito doveva essere riservato all’Assemblea, non alla Commissione, la quale avrebbe dovuto esclusivamente preoccuparsi di sottoporci un progetto di Costituzione il più possibile obiettivo dal punto di vista politico ed il più perfetto possibile dal punto di vista tecnico.

Le posizioni, pertanto, si rovesciano e compito dell’Assemblea diventa ora quello di sventare i tanti compromessi e dare alla nuova Costituzione quel carattere di norma regolamentare della vita politica del Paese nel presente ed in un prossimo avvenire, che però lasci aperto l’adito a quelle nuove norme che l’evoluzione dei tempi potrà consigliare al legislatore di domani. Nel progetto di Costituzione che è sottoposto al nostro esame balza invece evidente il contrasto tra alcune norme di non immediata attuazione e di semplice orientamento per il futuro e altre norme invece con le quali a questo futuro si vorrebbe sbarrare il passo con formule che si propongono di incapsulare e rendere definitivo il presente.

Esempio tipico, vorrei dire prodotto tipico di questo insieme di errori, è l’articolo 5 del progetto di Costituzione, che vorrebbe regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e riesce, invece, ad assommare in pochi periodi tutta una serie di errori e di assurdi, giuridici e politici.

Il desiderio di rendere definitivo il presente, ed una eccessiva quanto infondata preoccupazione di pericoli per il domani, hanno fatto perdere alla Commissione l’esatta visione del problema, sotto il profilo giuridico, e non le hanno fatto tenere in giusta considerazione quelli che sono e sono sempre stati al riguardo i reali sentimenti del popolo italiano. I quali del resto, se dovessero per avventura mutare, non sarebbe certo possibile ostacolare od arginare con una norma costituzionale, che potrà valere solo fino a quando la volontà del popolo vorrà che duri.

Si è parlato molto, onorevoli colleghi, forse troppo, durante questa discussione, di pace religiosa. Se ne è parlato, dico, troppo, in quanto parlare di pace presuppone una guerra che l’ha preceduta, mentre questa guerra religiosa in Italia non v’è mai stata; nessuno l’ha mai voluta e, soggiungo, nessuno avrebbe potuto volerla, dati i sentimenti in grande prevalenza cattolici del popolo italiano.

Se un dissenso, o contrasto che dir si voglia, vi è stato tra lo Stato e la Chiesa cattolica, questo contrasto è stato di natura esclusivamente politica, non di natura religiosa; la cosiddetta questione romana altro non è stato che una questione politica, determinata, per giunta, da uno stato di necessità, cioè dalla impossibilità, per l’Italia, di unificarsi senza Roma. È quindi ad un contrasto politico, non ad una guerra religiosa che han posto fine i cosiddetti Patti lateranensi. I quali, anzi, stanno a rappresentare, più che altro, la sanzione di uno stato giuridico e di fatto, che lo Stato italiano aveva inteso mettere in essere sin dal 1871, con quel monumento di sapienza giuridica e politica che fu la legge delle guarentigie.

Come al riguardo ha acutamente osservato in un suo notevole scritto l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando, «il regime creato dagli Accordi del febbraio del 1929 non solo non si pone, come volgarmente si crede, in forma di negazione e di antitesi verso il regime instaurato dopo il 20 settembre 1870, e di cui l’espressione più alta e più caratteristica è la cosiddetta legge delle guarentigie, ma di questo regime è la continuazione. Continuazione, beninteso, attraverso un ulteriore stato di sviluppo, ma pur sempre come una derivazione logica e naturale dello stato precedente»…

Gli accordi del 1929 – ha detto sempre l’onorevole Orlando – stanno alla legge del 1871 come una accettazione sta ad una proposta. Poco monta – ha soggiunto l’insigne giurista – che questa accettazione sia seguita dopo circa un sessantennio e, come era da prevedersi, a condizioni più favorevoli per l’altro contraente.

Ora, se di tutto questo, onorevoli colleghi, avessero tenuto conto gli eminenti colleghi che hanno fatto parte della Commissione, essi avrebbero riconosciuto l’infondatezza di certe preoccupazioni che hanno condotto alla formulazione di un articolo che rappresenta una vera offesa alle nostre tradizioni giuridiche ed un autentico assurdo dal punto di vista politico.

Perché, infatti, dire, come dice la prima parte dell’articolo 5, «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»?

A parte quello che con tanta acutezza ci ha detto, non oggi, ma nel suo precedente discorso, l’onorevole Calamandrei, e che salta agli occhi non solo di un giurista insigne quale egli è, ma di un qualsiasi modestissimo cultore di studi giuridici, cioè che la Costituzione essendo non un dialogo, bensì un monologo, lo Stato vi parla in prima persona e quindi non si comprende come vi possa inserire il riconoscimento della propria sovranità da parte della Chiesa cattolica, la quale poi, si noti, non è parte nella Costituzione, e quindi lo Stato italiano non è autorizzato a parlare in suo nome; a parte ciò, che è di tutta evidenza, quale ragione, se anche la Chiesa cattolica fosse – mentre non è – parte nella Costituzione, avrebbe lo Stato italiano per far riconoscere dalla Chiesa la propria sovranità, quando questa sovranità rappresenta il presupposto stesso dell’opera costituzionale che noi stiamo svolgendo in questa Assemblea?

Quale bisogno, a sua volta, avrebbe la Chiesa cattolica di far riconoscere dallo Stato italiano la propria sovranità spirituale, quando questo riconoscimento, nel campo determinato dalla sua natura e dalle sue finalità, le viene dal diritto internazionale? Ed è proprio in questi precisi termini che il riconoscimento della sovranità spirituale della Chiesa cattolica è espresso nell’articolo 2 del Trattato del Laterano: «L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale, come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo».

E allora, onorevoli colleghi, dobbiamo forse dire che i giuristi che assistettero Mussolini nella redazione dei Patti lateranensi seppero far meglio della nostra Commissione costituzionale?

Pur trattandosi allora di un Trattato, quindi di un accordo bilaterale e non di un monologo, l’Italia non sentì il bisogno di chiedere alla Chiesa cattolica il riconoscimento della propria sovranità, così come la Chiesa cattolica non sentì il bisogno di richiedere allo Stato italiano il riconoscimento della propria sovranità nel campo internazionale in termini diversi da quelli fissati dal diritto internazionale.

Del resto, onorevoli colleghi, se questo riconoscimento della sovranità spirituale della Santa Sede si riscontra in modo esplicito nell’articolo 2 del Trattato del Laterano, esso lo si riscontrava già, in modo implicito, ma non meno chiaro, per la Santa Sede come per il suo Capo, nella legge delle guarentigie. L’articolo 1 di quella legge, che considera la persona del Sommo Pontefice alla stessa stregua in cui l’articolo 4 dello Statuto albertino considerava la persona del Re. «La persona del Re è sacra ed inviolabile», diceva l’articolo 4 dello Statuto albertino; «La persona del Sommo Pontefice è sacra e inviolabile», dice l’articolo 1 della legge delle guarentigie; l’articolo 3; gli articoli 6, 7, 8 e 9, che stanno a dimostrare come lo Stato italiano mettesse un limite alla propria sovranità di fronte a quella spirituale della Santa Sede; l’articolo 11, che riconosceva agli inviati dei Governi esteri presso Sua Santità ed a quelli di Sua Santità presso i Governi esteri le prerogative ed immunità che spettano agli agenti diplomatici secondo il diritto internazionale; l’articolo 12, che riconosce al Sommo Pontefice il diritto di corrispondere liberamente con l’Episcopato e con tutto il mondo cattolico, senza veruna ingerenza del Governo italiano, e fissa le norme perché questo diritto possa liberamente esplicarsi; sono queste tutte disposizioni che stanno a dimostrare come lo Stato italiano non abbia mai voluto, non diciamo disconoscere, ma neppure mettere in dubbio la sovranità spirituale della Santa Sede, e come sin da allora abbia considerato chiuso ogni suo contrasto con Essa nel campo politico. Parlare quindi di pace religiosa, quando non vi è mai stata una guerra religiosa, e quando allo stesso contrasto politico il popolo italiano volle immediatamente metter fine, costituisce un vero non senso.

Si abbandoni, quindi, la terminologia, errata sotto il profilo politico non meno che sotto quello giuridico, «lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», e se si vuole, nella nuova Costituzione, inserire l’esplicito riconoscimento della sovranità spirituale della Chiesa Cattolica, lo si inserisca nella forma stessa in cui già tale sovranità l’Italia ebbe a riconoscere nel trattato del Laterano, cioè nei termini stessi fissati dal diritto internazionale.

Questo, onorevoli colleghi, per quel che riguarda il primo comma dell’articolo 5.

Circa il secondo comma, circa, cioè, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, nessuno qui dentro – lo hanno detto uomini di tutti i partiti – pensa di voler mettere nel nulla i Patti lateranensi, per quanto si sia generalmente riconosciuto che essi, in molte parti, contrastano con le norme contenute nel progetto di Costituzione; per esempio – come ha già osservato l’onorevole Calamandrei – con le norme concernenti la libertà di insegnamento e con quelle per cui il cittadino non può essere distolto dai suoi giudici naturali.

Da questo, però, a stabilire in modo inderogabile che i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi, ci corre. A parte, infatti, che si verrebbe così a sanzionare senz’altro quella rilevata contradizione, ed a parte che a questo impegno di immutabilità da parte dello Stato italiano non corrisponderebbe e non potrebbe corrispondere, per la rilevata natura della Costituzione, un eguale impegno da parte della Chiesa cattolica; a parte ciò, sarebbe veramente strano che un Trattato – qualunque esso sia – divenisse parte integrante della Costituzione.

L’onorevole Ruini, che è troppo fine giurista per non comprendere l’importanza della obiezione, ha tentato nella sua relazione di giustificarlo con la opportunità che i Patti lateranensi entrino a far parte dell’ordinamento giuridico italiano. Ma, onorevole Ruini, quei Patti fanno già parte del nostro diritto pubblico interno, per essersi loro data esecuzione con una legge, la legge 27 maggio 1929, n. 810. Non vi è quindi bisogno di richiamarsi ad essi, a tale scopo, nella Costituzione, e nessuna ragione vi è, meno quella di mettere, inconsciamente, lo Stato italiano in una vera e propria condizione di inferiorità di fronte alla Chiesa cattolica, per dire che i rapporti fra Chiesa e Stato sono regolati dai Patti lateranensi. Condizione di inferiorità che – come ha già rilevato l’onorevole Calamandrei – viene ribadita ed aggravata dalla seconda parte del comma, là dove dice che qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale. Il che è tanto più grave quando si consideri che la necessità, o quanto meno la opportunità di modificare almeno alcune clausole del Concordato, è stata lealmente riconosciuta anche da eminenti colleghi della democrazia cristiana.

L’onorevole Jacini, ad esempio (l’ho rilevato dal resoconto sommario del suo lucido quanto elevato discorso), ha detto appunto che il Concordato contiene delle norme e delle clausole che possono essere senz’altro rivedute, come quelle che impongono il giuramento ai vescovi e quelle che regolano il matrimonio religioso. Non sembra allora strano che si voglia dare carattere di immutabilità ai Patti lateranensi nel momento stesso in cui da tutti si riconosce che, almeno parzialmente, dovrebbero essere modificati?

Tutto questo peraltro non significa che non si possa, nella Costituzione, affermare il principio che i rapporti tra lo Stato e la Chiesa continueranno ad essere regolati da patti che siano da considerare parte integrante del nostro diritto pubblico interno. Basterà all’uopo dire (ed in questo potremmo essere tutti d’accordo) che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica continueranno ad essere regolati da patti «concordatari». Si verrà, così, a riaffermare la volontà dello Stato italiano di continuare nello stesso regolamento di rapporti con la Santa Sede, senza però creare una condizione di disparità, la quale, in prosieguo di tempo, potrebbe nuocere piuttosto che giovare alla normalità di tali rapporti.

Non credo di dovere aggiungere altro. Prendendo la parola su questo scottante argomento, io mi sono proposto unicamente di dimostrare come, mettendosi da un punto di vista obiettivo ed ispirandosi a considerazioni di carattere strettamente giuridico, si possa giungere ad una formula che non sia di compromesso deteriore, ma che, conciliando tutte le tendenze ed unendoci tutti, esprima il sentimento unanime del popolo italiano e valga a dimostrare come si possa, al tempo stesso, essere buoni cattolici e buoni italiani. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue, nell’ordine di iscrizione degli oratori, l’onorevole Einaudi; ma, data la sua assenza, ritengo che abbia rinunciato alla parola, poiché egli era presente in Aula fino a pochi momenti fa.

Dovranno ancora parlare un relatore di maggioranza, l’onorevole Dossetti, ed un relatore di minoranza, l’onorevole Cevolotto.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 15.

La seduta termina alle 19.35.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 18 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 18 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Labriola                                                                                                          

Nitti                                                                                                                  

Orlando                                                                                                           

Mattei Teresa                                                                                                 

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Labriola, il quale ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea,

convinta dell’opportunità di modificare o togliere dalle parti in esame del progetto di Costituzione le formali proposte che appaiono superflue o giuridicamente inesatte;

convinta altresì che i principî fissati all’articolo 5 del progetto in esame non rispondono allo spirito laico delle istituzioni repubblicane;

passa all’ordine del giorno».

L’onorevole Labriola ha facoltà di parlare.

LABRIOLA. Onorevoli colleghi, non ho dato al mio ordine del giorno una conclusione concreta, fidando che l’onorevole Presidente, prima che sia licenziata la Costituzione, ne vorrà affidare la definitiva stesura ad un piccolo comitato, magari scelto fra gli stessi componenti della troppo numerosa e complessa Commissione, a cui dobbiamo l’attuale progetto, per dare ad esso una forma definitiva.

Io mi sono limitato ad accogliere nel mio ordine del giorno il sentimento comune dell’Assemblea, la quale non è sodisfatta dei termini e della forma dell’attuale progetto, anche nei casi in cui ne accetti la sostanza.

E passo ad una rapida disamina dell’articolo 5 del progetto, il quale articolo commina la inclusione dei Patti Lateranensi nella futura Costituzione.

I Patti Lateranensi consistono: 1°) in un Trattato che costituisce lo Stato della Città del Vaticano; 2°) in un Concordato riguardante la materia ecclesiastica ed i rapporti fra lo Stato italiano e le autorità ecclesiastiche; 3°) in un insieme di accordi finanziari, riguardanti rapporti di dare e avere fra i due poteri (peraltro di dare da parte dello Stato italiano, di avere da parte della Chiesa: come al solito!).

Ho distinto fra atto costitutivo dello Stato della Città del Vaticano (trattato politico) e Concordato, pur non ignorando che il Concordato è un trattato.

Il problema si riduce a questo: un trattato fra due potenze si può includere in una Costituzione? No, perché i trattati sono temporanei, modificabili ed annullabili. Mentre una Costituzione consacra, almeno teoricamente, condizioni di stabilità giuridica.

Ma, se nella Costituzione si considera la sua mutabilità, questa è un’altra ragione, opposta e non meno fondata per non includervi trattati. Il principio pacta sunt servanda implica che un trattato non può essere modificato unilateralmente, può solo essere annullato unilateralmente; mentre una Costituzione si può sviluppare e modificare.

C’è tuttavia una ragione fondamentale, dipendente dalla natura dei due istituti (Costituzione e trattato), che esclude la trasfusione e il trapiantamento del trattato nella Costituzione.

L’indole di una Costituzione è un rapporto fra cittadini e Stato, o fra cittadini e cittadini. L’indole di un trattato è un rapporto fra Stato e Stato. La diversità dei due istituti spiega la loro necessaria separazione pratica.

Un lemma di questa proposizione è che per dare ad un trattato una collocazione in una legge interna dello Stato vuolsi per lo meno l’autorizzazione del contraente. Bisognerebbe chiederla; bisognerebbe autorizzare a chiederla.

Sull’impossibilità d’includere un trattato in una Costituzione, vale la considerazione riguardante l’estinzione dei trattati. La teoria e la pratica ammettono che «vi sono casi in cui la volontà unilaterale può abolire il trattato» (Nuovo Digesto Italiano).

Vi è contradizione nel fatto che il Progetto di Costituzione prevede la revisione della Costituzione (articoli 130-131), e poi vuole inserire un trattato nella Costituzione. Se pacta sunt servanda, come si possono esporre i Patti stessi ad una revisione?

La prospettiva di revisione della Costituzione ci richiama al sistema dell’annullamento dei trattati. Essi possono essere annullati per volontà di una delle parti. È un diritto che compete ad ogni Stato «quando siano mutate le circostanze di fatto che avevano influito sulla conclusione del trattato». (Nuovo Digesto Italiano).

Gli esempi sono innumerevoli: 1870 – l’Austria dichiara di non sentirsi più obbligata al Concordato del 1855. L’Austria fa lo stesso con il trattato per la Bosnia e l’Erzegovina. La Russia abolisce la neutralizzazione del porto di Batum (1866) e poi del Mar Nero.

Il trattato dell’Avana (20 febbraio 1928) ammette, con certe precauzioni, l’abolizione unilaterale dei trattati. Del resto, è pratica ammessa che la guerra produce l’annullamento dei trattati.

Ora, se il Vaticano può unilateralmente abolire i Patti Lateranensi (per esempio il Concordato, che per ammissione univoca è un trattato); e i Patti Lateranensi siano inclusi nella Costituzione; potremmo riconoscere a uno Stato straniero il diritto di modificare la nostra Costituzione?

E se il Governo italiano volesse abolirli (per esempio, in caso di guerra) non ci sarebbe che il ricorso alla procedura di revisione, che è lunga, e può non riuscire.

Il rimedio dell’articolo 5 (non rivedibilità di modificazioni ai Patti bilateralmente accettati), non funziona proprio in questi casi in cui la bilateralità non esiste.

Il caso della guerra, in cui i Patti sono annullabili, come si collega con la inclusione di un patto nella Costituzione? E se la revisione fosse respinta, mentre la necessità di abolire i Patti fosse evidente per il Governo, il quale ne potrebbe esso conoscere le riservate ragioni, come si uscirebbe da questo garbuglio?

La questione non è di sapere se i Patti Lateranensi siano da conservare. Vi è certamente in essi qualche cosa, anzi vi sono troppe cose che uno spirito libero non può accettare (1° – il riconoscimento della dinastia sabauda; 2° – le feste religiose obbligatorie; 3° – l’insegnamento religioso; 4° – riconoscimento delle lauree in teologia; 5° – il divieto in Roma di manifestazioni anticlericali, ecc.). Ma di ciò si potrà parlare alla sua ora.

Non capisco se l’articolo 13 del progetto di Costituzione (divieto di costituire società segrete), si applichi alla massoneria. Questa sarebbe un’altra delle conseguenze dei Patti Lateranensi.

Il semplice quesito che discutiamo adesso, è di sapere se essi debbano includersi nella Costituzione.

L’opposizione a questa inclusione nasce tanto da ragioni formali, quanto da ragioni sostanziali. Queste ultime assommano nel punto che, con il dichiarare costituzionali i Patti Lateranensi, si dà allo Stato un carattere confessionale.

La questione preliminare che il problema presenta è se sia fondata la tesi che essi abbiano dato all’Italia la pace religiosa. A dire la verità, io non mi sono mai accorto ch’essa non ci fosse.

La tranquillità delle coscienze religiose consiste nel fatto che esse possono adempiere ai doveri religiosi senza riceverne impedimento, o senza essere sottoposte a limitazioni prescritte da autorità non religiose.

Nessuno, né in questa Assemblea, né fuori di essa ha mai fatto cenno di simili limitazioni.

L’esercizio del culto attiene ai diritti della persona. Questo progetto di Costituzione li riconosce nella maniera più ampia.

Del resto, anche sotto l’impero del cessato ordine politico (e non dico solo quello fascista, ma del pari il precedente liberale in tutte le sue gradazioni) le pratiche del culto non vennero mai, nella più tenue misura, ostacolate a chicchessia.

La stessa preoccupazione dell’ordine esterno avrebbe consigliato, come deve consigliare, in Paese quasi totalmente cattolico, l’assoluta astensione da ogni misura, la quale potesse essere interpretata, sia pure da una cattiva volontà, come un impedimento all’esercizio delle pratiche del culto.

Rendo omaggio al sentimento di tolleranza degli italiani, specie in una città dove sorgono insieme il monumento di Bruno, là dove il rogo arse, e una Chiesa elevata al Bellarmino che non solo accese quel rogo, ma volle ed impose il rinnegamento, contro la verità, del Galilei. Noto di passaggio che gli organi ufficiali della Chiesa non hanno mai cancellato la condanna dell’eliocentrismo, in nome del quale Bruno fu arso e il Galilei – contro la verità – costretto a disdirsi.

Ma, insomma al credente ed al praticante di una fede, che non hanno sempre bisogno di essere la stessa persona, non importano questioni amministrative, finanziarie e protocollari, come quelle che si considerano in un Concordato, o di riconoscimento di statali prerogative, come quelle stabilite nel trattato fondamentale fra il cardinale Gasparri e il cavalier Mussolini (11 febbraio 1929); ma semplicemente gli atti di culto che, secondo l’insegnamento religioso ricevuto e i propri convincimenti, egli è tenuto a prestare, oppure sente di dover compiere. E finché nulla si oppone a questo adempimento, nulla può turbare la sua coscienza religiosa. Aggiungerò che tutto quello che egli pretendesse oltre questo segno, non apparterrebbe più alla coscienza religiosa, ma al sentimento politico, come di chi miri non già alla sodisfazione delle sue mistiche esigenze, ma al conseguimento di pretese temporali.

Volete sul serio che un credente faccia una questione di puntiglio del sapere che i titoli nobiliari e le onorificenze cavalleresche largiti dal Vaticano (art. 42 del Concordato) sono tuttavia validi per lo Stato italiano, quando esso invece (art. IV delle disposizioni finali e transitorie) li abolisce, se conferiti da precedenti autorità italiane?

Ad ogni modo – ripeterò – qui noi non discutiamo del Concordato o del trattato fondamentale fra la Santa Sede e lo Stato italiano. Toglierne la menzione dalla Costituzione fondamentale della Repubblica non significa sopprimerli o annullarli. Almeno per il momento rimangono validi, e son da rispettare, come tutti gli altri trattati conclusi dallo Stato italiano. Che cosa accadrà appresso, non lo sappiamo. Non so se, con tanto furore di partiti proletari, marxistici e progressivi sia da prevedere una maggioranza laicistica – io non dico anticlericale – nella futura Camera dei Deputati. Praticamente parlando, la questione non potrebbe essere valutata se non soltanto da essa. Soltanto nel caso in cui la questione venisse innanzi ad essa, si potrebbero esaminare i destini dell’attuale Concordato e del Trattato fondamentale con il quale venne costituito lo Stato della Città del Vaticano con tutti i suoi annessi.

Faccio peraltro un’osservazione.

Pur mantenendo tutte le ragioni che, secondo me, rendono inammissibile l’idea di includere in una Costituzione due trattati internazionali; penso che si fanno delle grosse illusioni di maggiore stabilità coloro che li desiderano inclusi nella Costituzione medesima.

A parte il principio della rivedibilità della Costituzione, che il nostro progetto ammette, nulla vale l’opposizione alla rivedibilità dei Patti Lateranensi sancita nell’articolo 5 del progetto.

Lo Stato italiano non è nato ieri. Prima era una monarchia costituzionale, poi parlamentare, oggi è una repubblica democratica. I principî fondamentali del suo costume costituzionale (ed il costume e l’uso sono in questi casi la vera legge) importa che le nostre carte costituzionali sono sottoposte ad una continua rielaborazione da parte delle Assemblee regolarmente elette. Tutti i nostri costituzionalisti sono uniformi su questo punto. Ed allora la stessa clausola della non rivedibilità dei Patti Lateranensi è… rivedibile, purché, naturalmente, ci sia una maggioranza parlamentare disposta ad ammetterlo.

Il che è confermato da un’altra clausola dello stesso progetto di Costituzione. Infatti l’articolo 131 esclude dalla rivedibilità unicamente la forma repubblicana. Non discuto a questo posto l’articolo, che, se mai, offende la millenaria esperienza della labilità di tutte le umane istituzioni, comprese le religiose; perché, ad esempio, la religione cristiana non ha che duemila anni di vita, mentre la piramide di Cheope ne ha cinquemila, secondo un certo calcolo settemila, e l’uomo cinquecentomila.

Infatti, però, la Costituzione italiana esclude dalla rivedibilità soltanto la forma repubblicana. La non rivedibilità dei Patti Lateranensi è sottoposta alla condizione della «bilaterale» accettazione. Se una maggioranza parlamentare volesse rivederli, essa avrebbe anche un Governo disposto a fare lo stesso. Quindi l’eccezione formulata nel capoverso dell’articolo 5 non significa letteralmente nulla.

Tutto ciò spiega che i proponenti di questo capoverso, se mossi dalla illusione di assicurare ai Patti Lateranensi una stabilità che stesse oltre la loro comune natura di trattati, quindi modificabili per desiderio delle parti, e annullabili per volontà anche solo di una di esse, hanno sprecato la loro fatica. Nei limiti in cui le Assemblee legislative hanno implicita facoltà di trasformare i termini della Costituzione, nemmeno l’articolo 5, testo e primo capoverso, si salvano. Fortunatamente la «pace religiosa» non ha nulla a che vedere con queste cose.

Con esse ha solamente da vedere un desiderio di certe sfere – alle quali impensatamente portano adesione, con un curioso equivoco logico, anche uomini di sinistra – d’imprimere su questa nascente Repubblica un marchio di confessionalismo, un’impronta se volete.

È vano arzigogolare. L’articolo 1 del Trattato il febbraio 1929 stabilisce, riproducendo il testo dell’antico Statuto Albertino, che la «religione cattolica, apostolica e romana, è la sola religione dello Stato». Notate quel «sola». Non esiste possibilità di equivoco. Con quelle parole si affermano due cose: 1° che lo Stato deve avere – e quindi ha – una religione; 2° che questa religione è appunto la cattolica. A mio avviso, nessuna delle due tesi può reggere, in genere, per uno Stato moderno; non può reggere, ad ogni modo, per una Repubblica democratica, come quella che pretendiamo di aver fondata.

Si resta sorpresi sentendo da qualche parte affermare che la dichiarazione che lo Stato proclama la sua appartenenza alla religione cattolica non implica il suo confessionalismo. Non capisco che cosa da certe parti si voglia per riconoscere il carattere confessionale dello Stato; quindi da parte sua un obbligo di difesa di essa e di offesa, implicita, verso gli altri culti.

Elementi socialisti del pari sembrano meno offesi dalla dichiarazione di confessionalità dello Stato nella direzione del cattolicismo. Mi fa un curioso senso sentir dire che essi non intendono battere le strade del vecchio anticlericalismo. Quale, di grazia? L’Italia non giunse mai alla separazione dello Stato dalla Chiesa, rimanendo legata ad un vago giurisdizionalismo. Per confessati riguardi religiosi non riuscì ad adottare il divorzio. Dovette semplicemente adottare una serie di misure, fra il 1870 e il 1880, che riportarono allo Stato compiti ed istituti – per esempio, le opere pie – i quali prima appartenevano alla Chiesa. L’unica manifestazione di sensi divergenti da essa fu l’erezione del monumento a Giordano Bruno, che non si sarebbe avuta senza un atto di volontà di Francesco Crispi, al quale sarebbe tempo di cominciare a rendere qualche giustizia.

La tesi socialista sulla religione è che essa è cosa privata: così dissero in tutti i paesi le assemblee socialiste, così scrissero i teorici della parte.

L’opinione, che vedo diffondersi, della priorità del fatto organizzativo della classe lavoratrice rispetto alle particolari ideologie cosmiche del socialismo, io la credo erronea e pericolosa. Se il socialismo è liberazione terrena, esso è anche liberazione dalle metafisiche tradizionali. In un’assemblea socialista direi ben altro, ma questo non è il luogo per parlare di simili cose.

Ritornando a noi, la dichiarazione dell’articolo 1 del Trattato 11 febbraio 1929, è per me una dichiarazione di confessionalismo, che io non discuto in un trattato particolare – e che deve rispettarsi, finché non sia mutato – ma contro la quale io mi levo se volete inserirla in una Costituzione, che io debbo votare. Ripeterò ancora una volta che l’opporsi ad inserire la formula nella Costituzione, non vuol dire non rispettarla in un trattato speciale.

Adotto senz’altro il principio che uno Stato, qualunque Stato, non possa essere confessionale senza mutare la propria indole da organo del potere amministrativo in organo di una fede particolare, quindi delle stesse gerarchie ecclesiastiche. Sapete voi che per effetto dell’articolo 5 del Concordato noi non possiamo ammettere all’insegnamento o ad un impiego visibile un sacerdote che abbia smesso l’abito talare e sia stato colpito da censura ecclesiastica? Grazie a cotesto articolo 5, né Renan in Francia, né Ardigò in Italia sarebbero potuti mai divenire insegnanti nelle nostre scuole; ed altri men noti entrare negli uffici od in altri istituti di insegnamento. Se vi piace, lasciamo queste cose in un trattato particolare modificabile ed annullabile; non le introduciamo in una Costituzione, il cui carattere particolare è la stabilità, e la cui procedura di revisione è così complicata.

Lo Stato è un complesso di uffici e di organi. Esso non è un individuo senziente, c quindi i problemi della coscienza religiosa non lo riguardano. Esso non è né cattolico, né buddista, né confuciano, né ateo. Esso è un complesso amministrativo fornito di coazione: ecco tutto. Quando s’imbatte in organi del culto, prende con essi accordi particolari, da cui i Concordati o le leggi riguardanti gli altri complessi del culto.

Ammetto persino che un principato, una monarchia possano dichiarare una fede religiosa particolare. Essi consistono in una specificazione, in una differenziazione fra suddito, dinastia e sovrano. Il culto del sovrano è decisivo con tutte le sue conseguenze; anzi l’adagio del regime assolutistico è che la fede del principe è necessariamente la fede dei sudditi, da cui le complicazioni che nascono nel caso di aggiunzione di territori con popolazioni aventi culti diversi da quelli del principe.

La monarchia, poi, risente dal più al meno del diritto divino; ed anche il volteriano, sostanzialmente ateo, Federico II non tollerava che i sudditi scherzassero con le faccende del culto. Un altro Federico, quello di Svevia, forse non autore di un libro dei tre impostori, che gli si volle attribuire, ma certamente creatore della formula (e si sa chi era il secondo dei tre impostori), non aveva la mano leggiera quando i sudditi si permettevano di volgere verso l’eresia, e nessuno più di lui dette prova di crudeltà nell’avversarla. Una monarchia laica o addirittura indifferente verso la Chiesa probabilmente non esiste. L’Inghilterra è uno Stato protestante, ma confessionale; il Libro di Preghiera è sottoposto al Parlamento, e votato da esso. Una repubblica inglese è difficile a prevedere o a pensare. Secondo me, una delle ragioni che si oppongono al fatto, è l’inclinazione inglese al confessionalismo.

Il caso di una Repubblica democratica – e bisogna insistere sull’aggettivo – è differente.

Il progetto sottoposto al nostro esame può darsi che non si esprima con esattezza, quando dice che la sovranità «emana dal popolo», perché se emana soltanto, resta poi a vedere in chi risieda; nei tre partiti, forse? Ma essi non son padroni in eterno del corpo elettorale. Peraltro le intenzioni degli autori del progetto sono esplicite, ed essi vogliono dire appunto che la sovranità è un attributo del popolo, che la esercita per mezzo dei suoi rappresentanti.

Ora se la sorgente della sovranità è il popolo, è chiaro che trasmissioni divine non ce ne sono, salvo che nel popolo si manifesti appunto la divinità, opinione che non so quanto sia ortodossa. Del resto, il Dio di Mazzini mi ha appunto l’aria di rassomigliare al Dio di Spinoza: Deus sive Natura; e perciò lo spinozismo fu dall’opinione conformista considerato sempre come l’equivalente dell’ateismo, a torto naturalmente; ma di ciò non dobbiamo occuparci.

E appunto perciò elimino la disquisizione sulle conseguenze istituzionali del cattolicismo.

Ma di repubbliche ce ne sono tante. C’era anche la patrizia repubblica di Venezia. La nostra però è democratica, e questo implica qualche conseguenza nei riguardi della pretesa di farci adottare la formula confessionale del cattolicismo.

L’essenza logica del democratismo è la eguaglianza dei cittadini: in ciò che essi sono eguali. Insiste a. ragione uno scrittore socialista, al quale pur si deve la prima ventata di novità nel corpo diventato stantio delle dottrine socialiste, il Bernstein, che la democrazia è eguaglianza di trattamento, è considerazione interiore di eguaglianza fra i cittadini. L’articolo 7 del nostro progetto di Costituzione consacra appunto questo concetto.

Ma fra l’articolo 5 e l’articolo 7 del progetto vi è un evidente contrasto. Grazie all’articolo 5, cioè per il fatto d’includere nella Costituzione il Trattato dell’11 febbraio 1929, la nostra è una Repubblica di cattolici; per l’articolo 7 siamo una Repubblica di cattolici e non cattolici. E allora che se ne fa dell’essenza di una democrazia nelle nostre leggi?

Per l’articolo 7 i non cattolici sono cittadini di pieno diritto; per l’articolo 5 non lo sono. E vano sofisticare: se la nostra è una Repubblica cattolica, i non cattolici sono messi in una condizione d’inferiorità.

Si dice: sono pochi. Fossero pochissimi o uno solo, l’offesa c’è. Ma che siano proprio così pochi, non mi risulta. Ci sono i protestanti, gli «evangelici» dicono loro. Ci sono gli ebrei. Ci sono i liberi pensatori. Cotesti comunisti, cotesti socialisti sono o non sono marxisti? Lo proclamano a tutti i momenti. Supponiamo che siano. Ma allora non appartengono a nessuno dei culti ufficiali. Possono essere anche credenti: deisti, teisti, idealisti, che so io? Cattolici non sono. Ci sono i cristiano-sociali? La Chiesa li riconosce? E chi lo sa? Se noi siamo una Repubblica democratica, dobbiamo riconoscere il diritto di tutti i cittadini, anche dei non cattolici a vivere, senza morale diminuzione, nella comune Repubblica. E l’inclusione dei Patti Lateranensi nella Costituzione di una Repubblica – di una Repubblica democratica, dico! – è una potente offesa a protestanti, israeliti e soprattutto ai liberi pensatori.

Concludo.

Questa Repubblica non la volemmo soltanto per chiamar Presidente un capo che prima chiamavamo re. Questa Repubblica noi la concepiamo come uno spiraglio sull’avvenire.

Alto è il rispetto che professiamo per l’attuale Capo della Chiesa cattolica, e non minore quello per le altre gerarchie ecclesiastiche o per i nostri concittadini cattolici. Ma vogliamo che anch’essi rispettino noi.

Noi vagheggiamo una coscienza libera da mistiche nebbie. Ed amiamo la Repubblica perché – senza offesa altrui – scorgiamo in essa lo strumento per una realizzazione tutta umana e terrena. (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. (Segni di attenzione). Io mi permetterò di fare soltanto alcune osservazioni generali su questa parte della Costituzione proposta.

Devo dichiarare prima di tutto che io ho un senso di tristezza e – non so perché – la mia fantasia ricorre all’entrata di Maometto II a Bisanzio. Noi vogliamo occuparci di tante questioni astratte, di discutere di fede antica e nuova, di sistemi sociali dell’avvenire, mentre intorno a noi l’incendio divampa. Noi siamo, in questa ora, in una situazione terribile, perché vengono a mancare le cose più necessarie al Paese. Non sappiamo nemmeno quali difficoltà ci attendono, non fra un anno o due, ma forse fra un mese o due, e disponiamo delle nostre cose e del nostro avvenire con sicurezza, come se non avessimo nulla a temere, e avessimo riserve di beni e di crediti. Noi che abbiamo in questo momento tutto da temere, ostentiamo in ogni cosa un’assurda sicurezza o incoscienza. Discorriamo anche di fede religiosa, proprio come a Bisanzio, quando Maometto II era con le sue orde turche arrivato alle porte della città, e dentro fervevano ancora le dispute religiose.

Bisanzio, che fu a capo di grande civiltà, era ancora il paese di dispute che finivano quasi sempre in lotte spesso sanguinose. Erano tutti cristiani, ma ognuno a suo modo interpretava il cristianesimo. Si discuteva se la luce era creata o increata, se l’Arcangelo Gabriele per portare il messaggio a Maria attraversò o non attraversò lo spazio. Le discussioni e le lotte secolari fra gli Azzurri e i Verdi, le due fazioni che maggiormente dividevano gli animi, fazioni che oggi sotto altra forma si rinnovano, tutte queste discussioni, tutte queste lotte, mentre Maometto arrivava.

Noi ci troviamo di fronte ad un più terribile Maometto: le conseguenze della disfatta, la diffidenza ostile di buona parte dei vincitori, le minacce spaventevoli di cadute monetarie ed economiche, e di fronte a preoccupazioni per la deficienza di alimenti e delle cose più indispensabili alla vita. Dobbiamo risolvere difficoltà che anche a Bisanzio non esistevano. E noi vaghiamo nell’indeterminato, noi facciamo progetti sull’avvenire, come se avessimo la sicurezza dell’avvenire e disponessimo di ricchezze presenti, che non possediamo.

Nel seguito della discussione, io vi dirò quali impegni noi assumiamo praticamente nel momento attuale e per l’avvenire. Signori, non si possono assumere impegni a cuor leggero, quando noi dovremo, o prima o dopo, tener fede a questi impegni, e sin da ora sappiamo che non saremo in condizioni di farlo.

Voglio ora solo richiamare la vostra attenzione su alcune cose di queste disposizioni generali che mi paiono veramente non necessarie, e che sarebbe bene eliminare. Io sono sicuro che, quando saremo alla fine delle discussioni sulla Costituzione, si dovrà procedere non solo ad un coordinamento generale, ma, attraverso una Commissione poco numerosa formata delle stesse persone che han partecipato al lavoro precedente, o di persone nuove o di altre, dovremo esaminare quante contradizioni vi saranno e quante cose si potranno e si dovranno eliminare; e ciò prima di giungere alla votazione.

Io mi permetto di esprimere ora non già delle proposte, perché non ho voluto presentare emendamenti, ma solo osservazioni intorno alle decisioni che stanno per essere prese. E vorrei esprimere un timido desiderio, quello che, nel primo rigo di questa Costituzione, là dove è scritto: «L’Italia è una Repubblica democratica», si aggiungesse «e indivisibile». La parola è ripresa dalla Costituzione francese. Voi non troverete strano che, in questo momento in cui vi sono tante tendenze. di divisione, questa parola sia solennemente consacrata.

Vorrei permettermi anche di osservarvi che, ove è detto che la Repubblica ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, venisse tolta la parola «effettiva». Che cosa significa, infatti, «effettiva»? E come renderla effettiva? È qualche cosa forse come il voto obbligatorio? Che cosa vogliamo dire con «effettiva»? Io vorrei che questa parola fosse tolta; è qualche cosa come il voto obbligatorio, che si volle pur non attuare e poi si proclamò in modo inefficiente per applicarlo in apparenza, in modo ridicolo.

Vorrei poi che anche scomparisse l’articolo 4, il quale proclama che l’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli. Ditemi, o signori, in quale Costituzione di Paese serio nel mondo esiste questo principio? Nella Costituzione bolscevica, no; nella Costituzione inglese, no; nella Costituzione americana, neppure; perché volete dunque rinunziare così solennemente a cose che, sapete bene, non possiamo fare?

Ma non farà ridere all’estero l’idea che noi, che siamo sotto il dominio di fatto di altri popoli, e siamo ora deboli e inermi, ci prendiamo il lusso di darci per primi questa specie di obbligo morale, che non vogliamo la guerra di conquista? Vinti e umiliati ora ingiustamente, vogliamo darci il lusso di rinunciare a guerre e a conquiste? Tutto ciò mi fa ricordare quanto male fanno queste affermazioni di vanagloria. Il ridicolo è in Italia contagioso. Dalla Cina alcuni mesi fa, mi fu mandata la fotografia di una dichiarazione, pubblicata da un giornale cinese, (il North China Daily News) che il diplomatico che rappresentava l’Italia credette di fare, arrivando in Cina. Egli si proponeva di rassicurare i cinesi che l’Italia non ha mire imperiali, e che non vuole territori in Cina. (Commenti). Se i cinesi non fossero gialli per la loro razza, credo che diventerebbero gialli per eccesso di ilarità. Noi facciamo queste affermazioni ridicole con la Cina, che è uno dei quattro grandi che devono decidere di noi? E un nostro diplomatico si concede il lusso di dichiarare che noi non pensiamo ad avere alcun pezzo del territorio cinese, che l’Italia non ha mire imperiali! Credete che ciò non esponga all’ilarità?

Queste cose cui noi rinunziamo, queste cose che non possiamo fare, ma a cui rinunziamo, non contribuiscono certo alla nostra serietà nel mondo. Noi dobbiamo mantenerci nel campo della realtà; non dare alcun esempio di vanità ridicola. Il fascismo ci aveva abituato a queste concezioni irreali, quando, nei suoi progetti, conquistava e divideva il mondo. Noi non abbiamo la possibilità di rinunziare, per molti anni, ad alcuna guerra e ancor più ad alcuna conquista, in quanto non abbiamo la possibilità di farne. Perché assumiamo queste forme ridicole di rinunzia che non sono da noi? La cosa che rende triste è la vanità senza forza. Non diamo questo esempio di poca serietà e soprattutto di poca energia morale. Noi non dobbiamo rinunziare a niente, tanto più se non possiamo fare alcuna delle cose a cui diciamo di rinunziare. Prendiamo dunque quello che è reale e limitiamoci a rimanere nei limiti della nostra reale situazione.

Ora viene davanti a noi e forma oggetto della nostra attenzione l’articolo 5: i Patti Lateranensi. Vi dichiaro lealmente che sono assai dolente che questo articolo 5 si trovi nella Costituzione. È cosa che non avrei preveduta e che ora non mi spiego. I Patti del Laterano non riguardano in nulla la materia della Costituzione. E, perché si pensa di farne materia di un articolo speciale della Costituzione? Si crede forse di garantirne non solo l’esistenza, ma la durata? La Costituzione che noi prepariamo non è tale che possa con la sua durata garantire patti solenni e di durata indefinita. La verità è dunque che i Patti Lateranensi non danno maggiore garanzia, né maggiore sicurezza di durata, se messi nella Costituzione.

Crediamo noi in buona fede che questa Costituzione che ora discutiamo avrà lunga durata? Io non lo credo. Ed è semplice affermare in questa forma il dubbio, in quanto tutte le Costituzioni adottate dopo guerre perdute, non sono durate. Le Costituzioni che ora si fanno dureranno ancor meno delle precedenti. Pensate che la stessa Francia, che ha cambiato 13 Costituzioni in 150 anni, che, edotta dall’esperienza, pur avendo soppresso nella nuova Costituzione ciò che poteva essere materia di grande controversia, pur avendo mantenuto in tutto l’unità territoriale, pur non avendo ceduto ad alcuna fiacchezza verso tendenze disgregatrici e verso le autonomie, e avendo osato di dichiararsi persino laica, per evitare lotte interne; la stessa Francia, dico, ha fatto votare l’ultima Costituzione e dopo un referendum ha dovuto votarla ancora nuovamente per arrivare ad avere una Carta costituzionale.

E credete voi che noi potremo fare il miracolo di una Costituzione, venuta dalla disfatta, che abbia lunga durata? Nelle circostanze attuali, quando tutto il Paese è diviso, quando non si sa quale partito o quali partiti rappresentino il Paese, che cosa rappresenta una vera volontà collettiva?

Le correnti dell’opinione sono malsicure: i partiti stessi che non hanno idee definite, sono sempre mutevoli e, prima di dissolversi nella lotta, si dissolvono all’interno e sono tutti più o meno in crisi. Nulla sembra in questo momento stabile: né la situazione economica e finanziaria, né i partiti.

Credete dunque, signori, onestamente, che la Costituzione che nasce in sì difficile atmosfera sarà di tale lunga durata? Che i Patti Lateranensi affermati nel patto costituzionale saranno meglio garantiti? Io ne ho tutti i dubbi e anzi, oserei dire, ho la certezza del contrario.

Il patto Gasparri-Mussolini del 1929 che noi dovremmo ora non discutere, ma che dovremmo riconfermare, contiene disposizioni che, se nell’ora attuale fossero esaminate, sarebbero oggetto di controversie. Nell’avvenire potranno forse subire mutazioni volute consenzialmente e imposte dalla necessità.

La mia tesi è questa: noi non dovremo fare alcuna cosa che turbi le relazioni esistenti fra l’Italia e il Vaticano. Le condizioni quali furono stabilite da quell’accordo dobbiamo accettarle quali esse sono. In questo momento ogni discussione è vana e odiosa. L’Italia ha tali difficoltà di vita, tali turbamenti interni che, aggiungere nuove cause di turbamento sarebbe opera non benefica.

Io credo che non si debba ora modificare nulla; che la nostra Costituzione non debba nemmeno occuparsi di queste cose; ma credo che, successivamente, quando sarà ristabilito l’ordine interno, quando da una parte e dall’altra, dal Vaticano e dallo Stato, vi sarà cordialità e sicurezza di rapporti, tutte le cose che possono essere materia di conflitto o soltanto di attrito potranno essere onorevolmente, amichevolmente e serenamente discusse fra il Vaticano e lo Stato. I Patti Lateranensi hanno appena diciotto anni di esistenza, ma han dato prova di solidità. Hanno resistito ad un lungo periodo di guerra, alla fine sanguinosa di un regime, a forme politiche differenti e opposte: vi sono e vi saranno, senza dubbio, piccole e grandi difficoltà da superare per evitare contrasti che possono dipendere anche da piccole cose: ma non sono grandi ostacoli.

Nella Costituzione abbiamo stabilito, per esempio, l’abolizione dei titoli nobiliari, ed anche dei titoli cavallereschi, ma abbiamo accettato che il Vaticano abbia il diritto di conferire i titoli nobiliari e cavallereschi. (Commenti).

Dove sono o possono sorgere difficoltà di applicazione non è cosa che dobbiamo ricercare ora, non è materia da discutere e risolvere in sede di Costituzione. Ciò è anche più strano che voler discutere i trattati internazionali esistenti.

Gli storici dicevano che ogni difficoltà si risolve camminando: «solvitur ambulando». Non cerchiamo ora di risolvere queste difficoltà, ma neanche di nutrirci di vane illusioni. L’articolo 5 è una realtà; ma sarebbe vano illudersi che difficoltà reali più grandi non esistano e che non siano tali da rendere difficile in avvenire un Governo che non abbia largo spirito di serenità e di temperanza.

In questi giorni vi è stato in quest’Aula un risveglio strano ed inatteso di ideali religiosi. Realmente sincero? o prevalentemente politico? Io non posso dire. Abituato alle antiche Assemblee, essendo vissuto all’estero ed avendo frequentato assemblee politiche di diversa natura, non ho mai veduto, come in quest’Aula nei giorni passati scoppi di religione, al punto che l’onorevole La Pira, con fluidità di parola e con abbondanza di sentimento, ha finito il suo discorso con un inno alla Vergine e una preghiera, cosa largamente apprezzabile, ma che non era mai stata fatta in nessun’Assemblea politica del nostro Paese e che non risponde al carattere politico della nostra istituzione.

Ogni cosa ora è possibile, noi siamo arrivati al punto che abbiamo udito, anche da quella parte, che tra il comunismo e la religione cattolica non vi era alcun contrasto.

E l’amico, il dotto amico, onorevole Concetto Marchesi, volle usare il linguaggio del sentimento e ci disse perfino che vi è qualche cosa che nel comunismo rappresenta l’ideale religioso.

No, signori, mi dispiace di contraddirlo: il comunismo non è niente di tutto questo. Qualunque movimento di carattere marxista e comunista non può essere religioso, non lo è mai stato nel tempo nostro e forse non lo sarà mai, perché le due concezioni, comunista e cristiana, sono totalmente diverse.

Quando si parla del socialismo e del comunismo, come concezione non opposta al cristianesimo, si pensa a quello che fu il socialismo primitivo di Saint Simon o di Owen, che inventò la parola «socialismo», che prima di lui non esisteva e che è del tutto recente e rimane sempre indeterminata nel suo contenuto.

Ora, che cosa è il comunismo? Saint Simon ha scritto «Le nouveau Christianisme»; il suo socialismo lo ha chiamato nuovo cristianesimo, perché è una concezione puramente idealista, mentre il comunismo moderno è una concezione puramente materialista, si basa su una dialettica materialistica, e parlare di comunismo che possa diventare anche affine, o convivere amichevolmente col cattolicesimo è una cosa assolutamente assurda.

Quando guardate alla costruzione dell’ideale comunista, voi dovete escludere assolutamente l’idea religiosa. Marx considerava la religione come un fenomeno economico. Secondo le sue parole, la coscienza mistica non è che un riflesso di una realtà interiore economica e sociale. Egli considerava lo Stato e la società capitalista come enti che proiettavano sulla religione una immagine rovesciata del mondo, perché sono un mondo rovesciato. La religione è la teoria generale di questo mondo, è il suo riassunto enciclopedico, è la fantasia idealizzata della nostra natura umana, perché la natura umana non possiede altra realtà. Da questa premessa, diceva Marx, deriva l’idea che la soppressione della religione, concepita come illusoria felicità dei popoli, è la prima tappa verso il benessere ideale del popolo.

La critica del cielo si trasforma e si muta in critica della terra: la critica della teologia e della colpa.

Non è possibile che una concezione socialcomunista possa coincidere con una concezione cattolica e cristiana. La dialettica materialistica e la dialettica del proletariato di Marx non possono convivere con la morale cristiana.

L’onorevole Togliatti, con molta finezza di ragionamento, da quell’uomo profondo ed abile quale egli è, ha mostrato che noi abbiamo adesso una democrazia progressiva, che egli ha voluto vedere in una unione fra i comunisti e socialisti da una parte ed i democristiani dall’altra. Ma questa è una unione assolutamente provvisoria che si basa su circostanze politiche contingenti, che riguarda la situazione provvisoria del dopoguerra in un periodo di disordine. Per ciò, per produrre uno stato di vita tollerabile si ricorse, dopo il fascismo e dopo la disfatta militare, all’unione di partiti opposti ed estremi (non sappiamo, ma vedremo dopo, con quanta efficacia) e ad una convivenza che idealmente e spiritualmente non è possibile sia permanente in avvenire. Laddove il comunismo è arrivato, è scomparsa, o almeno ha avuto terribile eclisse, la religione. Voi non negherete quello che è avvenuto in Russia, dove sono scomparse per molto tempo tutte le tracce della vecchia religione, brutale e grossolana, se volete, come molti culti orientali anche troppo materialistici nel loro falso ascetismo. I Musei antireligiosi sono stati un’invenzione russa, ed è noto che anche ufficialmente il Governo per molti anni ha combattuto ogni forma di religione. Si è creata persino un’organizzazione di atei militanti, e vi sono stati, fin quasi alla guerra, oltre 7 milioni di atei militanti, per combattere la religione. Ciò era forse una necessità del momento rivoluzionario russo. Certamente tutto ciò si è andato ad attutire, ma lo spirito della dialettica materialista non deve, non può scomparire.

Dunque io non vedo la possibilità di una unione definitiva tra cattolicesimo e comunismo, vedo una unione temporanea in Italia come in Francia. Vedremo dopo con quali risultati. Ma, io non vedo per l’avvenire che sia possibile una società in cui comunisti e socialisti da una parte, e dall’altra partiti che si dicono cristiani, possano vivere insieme. Ogni loro concezione, ogni loro azione devono essere totalmente diverse, se non opposte.

Senza dubbio questi partiti che si dicono di sinistra più avanzata, si adattano, come si adattano anche le religioni, secondo i Paesi, secondo le circostanze, ma vi è qualche cosa che non può essere mutata. Il cristianesimo, nella sua essenza, non è conquista, è rinunzia. Se i cristiani troppo si affannano nella conquista, negano lo spirito di Gesù. Chi conosce la profondità dello spirito di Gesù, chi ne apprezza la divina bellezza, chi trova nelle parole di Gesù la base della nostra più grande concezione morale, credente o non credente, può ben comprendere la differenza fra la rinunzia e la conquista. Tutta la grandezza morale del cristianesimo si può riassumere negli apologhi, nei discorsi, nei sermoni di Gesù. Riunendoli insieme, non sono che da una trentina a quaranta pagine di stampa di un libro in sedicesimo di carattere, sono poche pagine appena. Ebbene quelle pagine di divina bellezza sono tutte nel fondo del nostro animo così in chi crede, come in chi non crede, e chiunque ha spirito morale le sente profondamente.

Noi non possiamo attribuire a Gesù, il quale fu tradito dopo morto, da quegli stessi che lo adoravano, nessuna cosa che non sia grande e divina.

Ora, io comprendo che la Chiesa abbia il suo orgoglio ed abbia nel suo spirito anche il bisogno di espansione e di grandezza. La parola «Laterano» deve dare alla Chiesa una grande esaltazione e forse, qualche volta, anche un’allucinazione. Quando si pronuncia la parola «Laterano», chi conosce la storia della Chiesa deve sentire, deve spiegarsi perché anche un Pontefice di spirito illuminato possa avere vertigini di grandezza.

Fu proprio un grande Pontefice, forse il più grande Pontefice politico, Innocenzo III, che concepì il più grande sogno di unione degli uomini. Prima assai di quella piccola, meschina ed intrigante istituzione che fu nei tempi nostri la Società delle Nazioni, egli concepì e tentò di attuare, nel 1215, con grande intelligenza e spirito superiore di morale, una unione di popoli civili come nessuno, né prima né dopo di lui, aveva ideato. Fra tutti i Papi politici che vi sono stati egli forse fu il più grande.

Egli convocò in Laterano, nel 1215, tutti i sovrani di Europa. Era un momento in cui la Chiesa era onnipotente, il solo momento in cui la Chiesa nel mondo conosciuto fu universale. Allora non era nata la riforma, la scissione di oriente non aveva grande importanza. Tutta l’Europa, tutto il mondo conosciuto erano cattolici. In tutto il mondo si parlava la stessa lingua, il latino, gli uomini di una qualche istruzione si intendevano fra loro. Noi non ci intendiamo più né nei sentimenti, né nel linguaggio.

Il Papa pensò di riunire a Roma tutti i sovrani, tutti i principî, tutti i vescovi, tutti gli uomini politici di Europa per proporre loro di adottare, come egli diceva, non soltanto una unità di fede religiosa e morale, ma anche costituzioni politiche di libertà, e perché si proclamasse la giustizia a base dei regni e si combattesse la tirannia. E tutti i grandi personaggi che vennero a Roma, sentirono il peso di quella grandezza morale che proclamava l’unione degli uomini nella libertà e nella fede.

Io comprendo come quelli che guardano al passato, come la Chiesa, e che contemplano nello stesso tempo l’avvenire, possano avere di questi sogni.

Purtroppo il sogno di Innocenzo III, alla vigilia del suo massimo sviluppo, cadde; cadde quando egli morì, l’anno dopo il Conclave.

Io comprendo anche che adesso alcuni sogni sono impossibili. Non vi è più una sola religione, ciò che era il sogno dei più grandi pensatori cristiani. Vi sono nel mondo attualmente 2205 milioni di uomini, di cui 1220 hanno religioni monoteiste e 886 milioni sono buddisti o seguaci di Confucio di Lao-Tze. Vi sono poi 110 milioni di uomini che non hanno religione o hanno culti pagani. I 1220 milioni di monoteisti sono 822 milioni di cristiani, 382 milioni di maomettani 16 o 18 milioni di ebrei. I cristiani, che pure sono i più progrediti e potenti, sono ben lungi dall’avere unità. In cifre approssimative, 436 milioni sono cattolici, 250 milioni sono evangelici, o, come si preferisce dire in Italia sono protestanti, e 136 milioni sono ortodossi. Siamo ben lontani da quell’ideale di religione universale che appassionò i più grandi spiriti. Anche i più grandi pensatori, come Leibnitz, aspiravano almeno, senza riuscire, alla unione dei cattolici e dei protestanti. Siamo ancora ben lontani e più che mai divisi! È il destino dell’umanità, che quando sta per congiungersi in grandi unioni, si disgiunge, quasi come i nostri partiti, che si congiungono sempre per disgiungersi.

Ora, anche fra i cattolici vi sono in politica molte o troppe divisioni.

Se mi permettete, ora vi devo parlare un momento di me. Spesso i miei amici o nemici democratici-cristiani sono molto scontenti di me e mi attribuiscono idee che non ho e non ricordano mai il mio passato. Io mi sono sempre occupato dei problemi che riguardano la questione religiosa in Italia. Nel 1890 (allora ero molto giovane) pubblicai un libro che aveva per titolo II socialismo cattolico. Quel libro – era di un uomo di non ancora 23 anni – produsse una profonda impressione, e la produsse soprattutto nel mondo cattolico. Era un libro mediocre, ma era preciso ed onesto. In esso spiegai come il cattolicesimo diventava, avvicinandosi alle masse popolari, per necessità più largo nella sua concezione sociale. Il libro produsse tale impressione che poco dopo, non so per quale coincidenza o concausa, uscì la mirabile enciclica del Papa Leone XIII. Quella enciclica Rerum novarum girò il mondo e penetrò le masse dei lavoratori. Il mio libro agitò specialmente i cattolici stranieri, e il cardinale Manning di Londra, soprattutto, volle discuterne a lungo come di una cosa della Chiesa. Ed allora si verificò anche il fatto più strano che quel libro (che era mediocre, poiché era una esposizione più che una critica) tradotto in Francia da un ammiraglio, che era uno degli uomini più eminenti nel campo cattolico, l’ammiraglio d’Oncieu de la Batie, penetrò largamente nel mondo cattolico e dovunque si diffuse. Emilio Zola scriveva allora il romanzo Roma. Come tutti i romanzieri, egli prendeva il materiale dove lo trovava. Prese questo mio libro e utilizzò materialmente parecchie pagine. Anatole France, che era spirito critico e spesso in contrasto con Zola, pubblicò in un giornale francese una critica che voleva essere amichevole, ma in realtà aspra, e in cui rideva dei romanzieri che avevano l’abitudine di prendere dai libri stranieri pagine intere. Zola rispose all’attacco e pubblicò nel Figaro un articolo intitolato «Le droit du romancier», sostenendo che il romanziere ha il diritto di prendere il materiale della sua opera dove lo trova. Fui talmente onorato che uomini così grandi si occupassero di un uomo così piccolo, come io era allora, che volli esprimere a Zola tutta la mia gratitudine e d’allora in poi lo vidi molte volte, lo visitai in Francia, egli venne in Italia e si stabilirono fra noi affettuosi contatti che son durati fino alla sua morte.

Devo a quel libro non notevole, ma sincero, una parte della mia fortuna letteraria originaria.

Fino allora la Chiesa non aveva, dopo il 1870, avuto mai rapporti con uomini di Stato. Fu un caso che mi mise a contatto con tutto il mondo cattolico e sociale.

Per ragioni di studio, passai circa due mesi nel monastero di Montecassino, dove era, vecchissimo ma vivido e giovanile, l’abate Tosti. Era storico celebre, ed aveva spirito libero. Era stato, con suo sacrificio, il primo ecclesiastico che aveva osato parlare di conciliazione fra lo Stato e la Chiesa. Egli era l’amico di un gruppo di meridionali detti neoguelfi: l’arcivescovo e cardinale Capecelatro, il professore Federico Persico, che poi fu mio suocero, Enrico Cenni avvocato e scrittore notevole e parecchi altri.

Mio suocero e suo cognato Cenni, di cui Filippo Meda ha voluto illustrare la vita, erano ferventi cattolici e liberali o, come si diceva di essi, neoguelfi. Era naturale, che, soprattutto dopo il mio libro sul socialismo cattolico, io prendessi interesse a tutto ciò che poteva avvicinare la Chiesa allo Sato.

Ma la conciliazione non era possibile con uomini politici che venivano dalla rivoluzione nazionale e avevano precedenti che non rassicuravano la Chiesa. Il primo tentativo fu fatto invano dal Tosti. Vi fu il tentativo di Crispi attraverso monsignor Carini. Questi era figlio di un generale garibaldino; Crispi era animato da una fiamma patriottica, voleva far servire all’Italia cattolica il suo patriottismo e i ricordi del suo passato. Era possibile una conciliazione? Era desiderabile? Si può vivere senza dubbio anche in un periodo difficile di diffidenze di rapporti fra Chiesa e Stato, ma non si può vivere in situazione di perenne diffidenza.

Ogni Paese civile ha la sua religione o le sue religioni. L’Italia non può essere che cattolica. Nella distribuzione geografica dell’Europa e delle religioni europee, secondo il Trattato di Westfalia, che non ha dato luogo a mutazioni, l’Italia è uno di quei paesi di struttura neolatina che compongono il gruppo cattolico, e che è unito a quei paesi d’Oriente che, come la Polonia, la Lituania e in parte l’Austria, costituiscono il blocco continentale europeo.

L’Italia, se deve avere una religione, non può avere che questa forma di concezione religiosa. Un popolo non è mai irreligioso. Nella nostra civiltà europea ci sono stati periodi in cui non pochi popoli hanno avuto una decadenza dello spirito religioso, ma non vi sono popoli completamente irreligiosi. Un popolo non abbandona mai una religione, se non per prenderne un’altra. L’Italia non può essere, nelle sue condizioni, che cattolica.

Io mi preoccupai, dunque, sempre di questo problema per trovare la via per cui l’Italia non deve trovarsi per ragioni politiche in conflitto di idee e di interessi con la Chiesa.

Ebbi sempre questo pensiero, anche quando non pensavo di fare ciò che desideravo per la pace religiosa.

Io non volli nel periodo terribile della vita italiana, che decise la guerra del 1915, partecipare ad alcuno entusiasmo bellico. La guerra proclamata male, strillata nelle strade in offesa al sentimento popolare, fu fatta contro il Parlamento e fu la vera distruzione delle tradizioni liberali. Con il maggio 1915 cominciò la caduta della vita parlamentare e del regime liberale: io non volli, dunque, essere fra quelli che acclamarono e imposero la guerra. Si disse allora che io, amico di Giolitti, e ministro del suo Gabinetto, ero neutralista. No signori, io non ero neutralista, io volevo che l’Italia seguisse il suo cammino con serietà e guidata solo dal suo interesse e dal suo sentimento senza interventi o pressioni di stranieri. Non volli associarmi alla guerra, quando nelle piazze dilagava la violenza. Coloro che si dolsero poi del fascismo ne gettarono allora il seme con il loro atteggiamento turbolento, e con la loro mancanza di rispetto al Parlamento e alla Costituzione.

Non fui, dunque, tra quelli che gridarono la guerra. Vi era in quel tempo un Ministero che non poteva contare sulla simpatia dei cattolici. Ora, una guerra lunga e aspra non si poteva facilmente condurre a termine senza avere la fiducia delle masse e senza avere favorevoli gli uomini della Chiesa a contatto del popolo.

Quel terribile patto di Londra, che io ho sempre considerato come un monumento di follia, perché, non si previde nulla e non si vide chiaramente quali erano gli interessi dell’Italia, era ignoto al pubblico, al Parlamento e anche ai ministri.

Nel Ministero vi erano allora uomini certamente notevoli, ma alcuni di essi, per la loro origine, non potevano avere la visione serena della vita italiana. Il Ministro Sonnino, uomo rispettabile e sotto ogni aspetto degno di considerazione, aveva una profonda avversione per la Chiesa e si preoccupò di escluderla da ogni azione internazionale da cui era possibile escluderla, soprattutto da quelle assemblee che dovevano decidere del mondo dopo la vittoria. Quando si fece il Patto di Londra non si parlava di Società delle Nazioni, ma si prevedeva bene qualcosa di simile. La Chiesa si trovò esclusa, dopo la vittoria, da ogni partecipazione all’opera di pace.

Son note le vicende per cui si giunse fatalmente al momento più drammatico della vita italiana, quando sotto il Ministero Boselli venne la catastrofe di Caporetto. Io non volli far parte del Ministero Boselli, benché egli mi avesse con molta insistenza richiesto di farne parte. Io odio i ministeri numerosi, perché sono inefficienti ed incapaci di azione. I Ministeri fatti di unione di partiti, se troppo numerosi, portano quasi sempre alla catastrofe. Il Ministero Boselli era numerosissimo: vi erano tutti i partiti e così si credeva essere al sicuro di tutte le responsabilità. Doveva necessariamente portare alla disfatta, proprio perché non vi era nessuno responsabile. Il Ministero Boselli, benché comprendesse uomini rispettabili, era formato, come ho detto, da uomini di tutti i partiti, intelligenti, mediocri o scadenti. Ognuno d’essi aveva la funzione di coprire la responsabilità del Governo con l’aiuto del suo Partito.

Si volle far credere che i capi militari soltanto ne avessero colpa. Ciò è vero: essi ebbero la grande colpa, ma vi furono anche altre responsabilità nelle condizioni di ordine sociale in cui si trovava il Paese.

Si fece una inchiesta su Caporetto. In fondo, era la simpatia, la fiducia che mancavano. Ora, dopo Caporetto fu necessario riunire le forze in una coalizione e si formò il Ministero Orlando-Nitti-Sonnino, il quale fortunatamente, attraverso tante vicende e con tanti sforzi, potette giungere fino alla vittoria.

Quando fui Ministro, cercai di mettermi d’accordo con la Chiesa. Io non debbo fare rivelazioni, sono cose note: sentii che con la Chiesa diffidente, o anche indifferente, era difficile vincere tutte le difficoltà.

Dal primo prestito che io feci, prestito audacissimo, perché dopo Caporetto, quando tutto era perduto, ebbi l’idea temeraria di rivolgermi al pubblico, volli aver fiducia e dar fiducia. Non volli la moratoria delle banche. Ordinai che gli sportelli delle banche rimanessero aperti. Lanciai un grandissimo prestito; forse, dato il valore della moneta, il più grande che sia stato fatto in tempi di guerra. I banchieri si erano rifiutati di garantire due miliardi. Io ne chiesi sei e, agendo da solo, realizzai assai più di sei miliardi e mezzo i quali, espressi in moneta attuale, sono una cifra astronomica. Fu allora che incominciai ad accostare gli uomini più eminenti della Chiesa. Ebbi fiducia in loro ed essi ne ebbero in me.

Io consideravo il Papa Benedetto XV come il maggior Papa politico dopo Leone XIII. La mia simpatia derivava dal fatto che egli aveva osato di compiere l’atto più audace contro la guerra di sterminio. Egli odiava la guerra. In tutta la mia azione ho sempre avuto lo stesso odio per la guerra. Non sono mai stato né rivoluzionario, né reazionario; so che la guerra determina sempre o la rivoluzione o la reazione. Fui sorpreso di ammirazione per il Papa Benedetto XV, che aveva avuto il coraggio durante la maggiore intensità della guerra, di rivolgersi a tutti i belligeranti e di gridare contro l’inutile strage e di dire che bisognava, nel mezzo della guerra, invitarli ad arrestarsi e trovare una intesa per evitare guerre future ancora più sterminatrici.

Le sue parole non furono comprese, non poterono arrivare al cuore dei capi dei paesi belligeranti, ma esse esprimevano una grande altezza morale. Benedetto XV fu calunniato anche in Italia, e si disse che egli diminuiva la resistenza dei cattolici contro i tedeschi. Cosa stupida, perché dall’una e dall’altra parte era presso a poco lo stesso numero di cattolici. Io, benché a lui ignoto, volli scrivere una lettera al Pontefice in cui gli dicevo la mia ammirazione. Seppi dopo che il Papa ne rimase compiaciuto. Quando fui dunque al Governo, volli continuare per la stessa via e tentare di preparare una futura base di conciliazione con la Chiesa cattolica. I cardinali che esercitano azione politica maggiore sono il Segretario di Stato, che sarebbe come dire il Ministro degli esteri e delle finanze, e il Segretario della concistoriale, come a dire il Ministro dell’interno, che si occupa dell’azione dei vescovi e della disciplina interna della Chiesa. Dopo il 1870 nessun importante uomo politico italiano, nessun Ministro si era mai incontrato con i grandi capi del Vaticano: e nessuno si incontrò dopo, fino agli accordi col Laterano. Nessun uomo politico italiano si era mai visto, né si vide mai penetrare in Vaticano. Io vedevo molto discretamente anche i più grandi capi della Chiesa. Li vedevo frequentemente, ma dovevamo agire discretamente nell’interesse della pacificazione desiderata. Io li incontravo in monasteri, in conventi, in luoghi tranquilli e sottratti alla curiosità…

CINGOLANI. Nell’orto dei Santi Giovanni e Paolo, Presidente.

NITTI. …e discutevamo con fiducia, parlavamo della guerra, della pace, dell’aiuto che la Chiesa poteva dare all’opera di pace. Il cardinale Gasparri volle, in diverse occasioni, farmi conoscere i suoi giovani collaboratori: Pacelli, il Papa attuale, Maglione, Cerretti, Todeschini, ecc., e con essi ebbi occasione di parlare degli stessi problemi. E quando ci vedevamo, eravamo molto prudenti, e vi era ragione di prudenza.

Vi era allora in Roma un ambasciatore di Francia, Camillo Barrère, che aveva troppe curiosità: era discendente del famoso Barrère della rivoluzione francese, di cui tutti gli storici raccontano che aveva in tasca sempre due discorsi, uno a favore e uno contro Robespierre. L’ambasciatore Barrère era arrivato a Roma dopo essere stato comunardo ed essere stato condannato a morte per aver preso parte anche al tribunale che fece fucilare l’arcivescovo di Parigi. Era diventato ambasciatore e uomo di mondo. Come sempre accade, i rivoluzionari, quando si decidono a passare nel campo conservatore, esagerano sempre. Egli per sentimento di gelosia non voleva che l’Italia si accostasse alla Chiesa, quando la Francia era sempre in contrasto; e, quando poteva, creava le più grandi difficoltà. Diffidava di me e si preoccupava di ogni mio movimento. Io dovetti spesso far mutare i luoghi dei miei colloqui. Dovetti anche sospettare di uno chauffeur e cambiarlo. Non vi era preoccupazione sufficiente.

Compariva nel giornale Le Temps qualche notizia o indiscrezione che aveva per scopo di procurare imbarazzi al Vaticano.

Che cosa sarebbe stato il Trattato con il Vaticano che si meditava? E quali sarebbero state le sue richieste? A che servirebbe ora parlarne? Vi dirò solo uno dei miei ricordi, se mi permettete un fatto personale. (Commenti). Io avevo un figliolo, anche lui uno dei miei tre morti, che aveva voluto andare alla guerra a sedici anni. Egli diceva, che io contrario alla guerra quando l’Italia non era in guerra, avevo il dovere di consentire che egli andasse in guerra quando la guerra era venuta e non si poteva sottrarsi ad essa. Mio figlio fu così il solo figlio di un uomo politico contrario alla guerra, che in guerra nobilmente fece al di là del suo dovere. Fu ferito due volte, tre volte decorato al valore, ed infine cadde prigioniero del nemico, in un reggimento quasi interamente distrutto.

Mi consentirete qui una parentesi.

In un terribile combattimento in cui i morti furono tanti, che mio figlio si trovò in necessità di assumere il comando del battaglione, egli si trovò vicino ad un ufficiale anziano, di cui voglio dirvi il nome. L’onorevole Meuccio Ruini (ed ecco, se mi consentite, il fatto personale, che non è offesa) ebbe una magnifica condotta e veramente eccezionale. Allora molti annunziavano di andare alla guerra. Ma, come diceva Ferdinando Martini, andare al fronte era considerare in modo speciale la guerra, come se il fronte cominciasse dall’ombelico. Rimanevano sempre lontani dalla battaglia.

Ora, un giorno Diaz mi disse: «Questi ufficiali guerrieri, che vengono qui, questi parlamentari che fan parlare dai giornali, dicono di fare la guerra e non la fanno. Mi creano molestie e fastidi. Solo pochi si battono realmente». E mi fece alcuni nomi. Mi aggiunse: «C’è però un ufficiale che non so se sia folle, o se voglia suicidarsi, quando si dà il segno di uscire dalla trincea è sempre il primo: si chiama l’onorevole Ruini. (Applausi).

Quindi, fra i tanti suoi difetti (e chi non ne ha?) l’onorevole Ruini non ha certamente quello della viltà.

La rispettosa tenerezza che ho per il Papa attuale, dipende anche dai miei ricordi personali. Quando mio figlio ferito cadde prigioniero e fu portato in Germania e io non ebbi più notizie di lui e lo credetti morto, fu il Nunzio Pacelli che me ne dette notizia attraverso il Vaticano e poi si occupò di lui. Mio figlio era in istato di depressione fisica, e soffriva profondamente, poiché nessuno si occupava di lui, aveva avuto ed aveva il tormento della fame. Non vi meraviglie rete, dunque, se io ho parlato di Pio XII con sentimento di devozione personale oltre che di rispetto per Pontefice.

Ma torniamo agli accordi col Vaticano. Era difficile definirne la base: mancava ogni precedente; tutte le proposte di conciliazione erano vaghe; ognuna delle questioni essenziali non era stata affrontata.

Durante la guerra i tedeschi avevano pensato a quali condizioni l’Italia dovesse soggiacere in caso di disfatta. E anche per compiacere ai cattolici tedeschi, si chiedevano che cosa si potesse imporre all’Italia. Era venuto a Roma il capo dei cattolici tedeschi, Erzberger: un uomo intelligente ed abile, aveva un programma definito e uno schema di Costituzione da imporre all’Italia.

Era un programma non benevolo ma, cosa inverosimile, meno scellerato di quel che mi attendevo e anche diverso, in parte, dalle mie previsioni. Il progetto di Erzberger era stato personalmente esaminato dall’imperatore Guglielmo e fu poi pubblicato in Germania: ma, appena finita la guerra il capo dei cattolici tedeschi, il disgraziato Erzberger, fu ucciso dai nazi, che lo detestavano quasi più dei comunisti.

I nazi odiarono sempre la Chiesa, che consideravano potenza nemica straniera, quasi come il comunismo. Non potevano perseguitarla allo stesso modo, dato il numero dei cattolici, ma l’odiavano allo stesso modo.

Con il cardinale Gasparri ebbi occasione di esaminare a lungo le questioni più essenziali, ed egli ebbe tanta fiducia in me da fissare nel discorso i principali suoi punti di vista. Ho creduto che il dovere dell’uomo politico sia il silenzio su tutto ciò che non è dovere, nell’interesse pubblico, pubblicamente discutere. Io non farò pettegolezzi e non ne chiederò ad altri.

Ed ora vengo all’onorevole Orlando.

L’amico Orlando non vorrà supporre che io dica cose meno riguardose per lui. Egli ha detto, nel suo recente discorso, che aveva avuto degli incontri a Parigi con rappresentanti del Vaticano e che, in seguito ad essi, per la prima volta (Interruzione dell’onorevole Orlando Vittorio Emanuele), si era parlato di accordi.

Io desidero essere preciso. Siccome stando all’estero ho avuto occasione di scrivere che avevo iniziato per la prima volta trattati per veri accordi, ho il dovere di precisare come stanno le cose. (Interruzione dell’onorevole Orlando Vittorio Emanuele).

In tanti anni che era stato Ministro dei culti, dell’interno e Presidente del Consiglio, l’onorevole Orlando non aveva mai manifestato alcuna iniziativa e volontà di modificare la situazione dei rapporti con il Vaticano. Presidente del Consiglio, aveva nel Gabinetto conservato come Ministro degli esteri l’onorevole Sonnino, che voleva nella sua diffidenza escludere il più possibile ogni partecipazione del Vaticano alla politica internazionale.

Quando mi trovavo a Parigi per la conferenza della pace che era alla fine dei lavori, capitò per caso un americano, certo monsignor Kelley, protonotario apostolico in Chicago.

Monsignor Kelley incontrò a Parigi, per caso, il consigliere di legazione italiano, commendator Brambilla, che aveva moglie americana. Era stato a Roma per vedere il Papa. Il Papa voleva dare un vigoroso impulso all’opera delle missioni in tutto il mondo e concretarle a Roma. Ma voleva riunire i fondi. Mancava però lo spazio. Bisognava ottenere una striscia di terra di alcuni chilometri ad occidente dei confini del Vaticano. Monsignor Kelley aggiunse che il Papa era favorevole a questa idea.

Si sarebbe incontrato volentieri, a questo scopo, con l’onorevole Orlando. Non era autorizzato ufficialmente e agiva in «a purely social way». Il 19 maggio 1919, monsignor Kelley si incontrò dunque per iniziativa di Brambilla nell’Hotel Meurice con l’onorevole Orlando nell’appartamento della signora Brambilla. Assistevano al colloquio lo stesso Brambilla e il giovane principe di Scordia.

Monsignor Kelley, dopo questa conversazione, invece di partire per l’America, andò a Roma e ripartì dopo pochi giorni con monsignor Cerretti.

Avvenne allora un secondo incontro all’Hotel Ritz. Monsignor Cerretti e Kelley discussero da soli con l’onorevole Orlando ed ebbero un lungo colloquio.

Monsignor Cerretti mostrò a Orlando un memoriale redatto dal cardinale Gasparri, in cui si parlava della cessione al Vaticano del territorio indicato. Questa cessione avrebbe potuto preparare agevolmente la soluzione della Questione romana.

L’onorevole Orlando non oppose difficoltà insormontabili, ma fece una pregiudiziale, la scelta del momento opportuno e la necessità di riferire al re e al Consiglio dei Ministri.

Monsignor Kelley era ignaro di tutta la situazione italiana.

La sua iniziativa era inattesa e colse l’onorevole Orlando alla vigilia delle dimissioni del suo Ministero.

Difatti fra il colloquio di fine maggio e le dimissioni del Ministero non corsero che soltanto tre settimane.

Né prima di quel tempo, né dopo quel tempo, l’onorevole Orlando ebbe mai occasione di occuparsi di accordi con il Vaticano.

In quanto a monsignor Cerretti, che io poi vidi durante il mio esilio a Parigi e a cui resi anche qualche servizio, egli si proponeva uno scopo immediato, oltre la questione del territorio Vaticano.

Il vero scopo che si proponeva era la sua fissazione di far entrare il Papa nella Società delle Nazioni: cosa impossibile per iniziativa ed opera del Ministero Orlando, perché vi era Sonnino Ministro degli esteri.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ed io che cosa ero?

NITTI. Bisognava fare prima la crisi del Ministero.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Se io volevo una cosa la ottenevo, e Sonnino avendo il senso della necessità di Stato avrebbe ceduto; e se non avesse voluto cedere avrebbe determinato la crisi.

NITTI. Invece, quando venne a Parigi Cerretti, il Ministero era virtualmente in crisi.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. È un errore o lo dimostrerò. Che cosa avvenne in quei venti giorni? Lo dirò dopo.

NITTI. Allora non si poteva far niente. Cerretti, ripeto, teneva ad una sola cosa: ottenere che Orlando, con l’autorità del Governo, riuscisse a fare entrare il Papa nel nuovo organismo della Società delle Nazioni. Nell’altra cosa non aveva nessuna possibilità. Quindi, io ho confermato, perché non ho detto niente di molto diverso, ciò che dice Orlando.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. È questione di punti di vista! (Si ride).

NITTI. Ho detto che non fu iniziato alcun movimento per accordi effettivi. Questi accordi vennero dopo, nella forma che sapete e che è inutile vi ripeta. Quando io mi dimisi da Presidente del Consiglio avevo tre idee su cui ero d’accordo col Vaticano.

Volevo prima di tutto aiutare il movimento che doveva evitare la guerra futura, cioè fare alla Germania condizioni accettabili dal nuovo Governo repubblicano e dal popolo; rinunziare al ridicolo processo all’imperatore Guglielmo e agli ufficiali tedeschi, cosa che il Vaticano desiderava molto più di me. E il Cardinale Gasparri mi scriveva e mi diceva perché io insistessi con ogni rigore in questa azione.

Eravamo, dunque, d’accordo in tre cose nell’azione politica internazionale: la prima di trovare un modo per rimettere in piedi la Germania, evitando prossime guerre o prossimi probabili e insanabili urti; la seconda, di fare lo Zollverein con la Jugoslavia. Infatti, non ho mai considerato la Jugoslavia come un Paese necessariamente nemico. La Jugoslavia è Paese necessariamente complementare dell’Italia, e l’Italia e la Jugoslavia hanno interesse ad avere una economia unica. Se fosse possibile, anche ora farei un accordo con la Jugoslavia e vorrei tornare al mio progetto di unione doganale che il Vaticano aiutava volonterosamente, perché sloveni e croati cattolici resistevano al mondo serbo e al mondo ortodosso, ed il Vaticano aveva interesse ad aiutare questo movimento.

Vi era una terza cosa che io volevo, ma il Vaticano non poté far nulla e io hoagito da solo: era di evitare che l’Italia si ingaggiasse in qualsiasi modo in guerra con la Russia, in relazione a rivendicazioni nazionalistiche di territori russi che noi non potevamo prendere, ed a cui sarebbe stato assurdo aspirare, come preparare una spedizione in Georgia o anche partecipare a qualche crociata antirussa.

Sulle tesi principali io, dunque, agii in pieno accordo. Quando tornai in Italia, nel mio discorso del 3 ottobre 1945 a Napoli, volli occuparmi dell’azione del Papa Pio XII durante la guerra e durante le persecuzioni razziali.

In quel mio discorso dissi una cosa molto grave: che mi ero incontrato all’estero, durante il mio esilio, con Monsignor Pacelli, e con lui avevo lungamente discusso della situazione europea che era molto delicata, e che ci eravamo trovati in tutto completamente d’accordo sulla situazione dell’Italia che destava già preoccupazioni.

Era un’affermazione grave, io dubitai persino che al Papa potesse dispiacere. Non era una indiscrezione, né io facendola pensai di compromettere in alcuna cosa il Vaticano. Ma temetti di aver fatto cosa non opportuna. Invece, dopo che il discorso mio fu pubblicato, trovai nell’Osservatore Romano le mie parole inquadrate in prima pagina, messe in rilievo come un fatto di una eccezionale importanza.

Non vi nascondo che rimasi turbato e commosso.

Nell’ora penosa dell’esilio vedevo la solenne conferma che il Pontefice ed io avevamo uno stesso ideale di politica internazionale.

Vengo alla conclusione. Noi discutiamo l’articolo 5. Io credo che sia stato grave errore mettere questo articolo nella Costituzione (Commenti). Fatemi dire. Non è utile e non è opportuno: è anzi un grande errore. Ciò non è materia di Costituzione, e averlo voluto includere nello schema di Costituzione fa credere che si è creduto dargli fondamento ancor più solido. Si suppone che noi facciamo una Costituzione talmente granitica che possa avere una durata di moltissimi anni, se non di secoli. No, signori, non ci illudiamo. La nostra Costituzione sarà fragile e breve come le altre Costituzioni che si fanno in questo periodo nei paesi vinti. Il mettere, quindi, nella Costituzione gli articoli del Vaticano non giova in alcun modo né per la durata, né per la garanzia della Costituzione stessa. Noi dobbiamo mantenere i Patti che ora esistono lealmente.

Dobbiamo non solo rispettare i Patti, ma avere sincera e amichevole relazione col Vaticano. In seguito si troverà modo di correggere ciò che non si potrà mantenere, ma sempre per accordo bilaterale. Noi dobbiamo ora rispettare quegli accordi così come sono stati fatti. Perché, dunque, metterli nella Costituzione? Se, come è probabile, nel tempo X, supponete fra un anno o due, dovremo rivedere la Costituzione, quegli accordi dovranno tornare in discussione. Ed allora quale sarà il vantaggio? Quale l’utilità? Io non la vedo, perché noi non possiamo certamente dire che quegli accordi sono tali da non aver bisogno di alcuna revisione; che, invece d’esser fatta consensualmente sarebbe fatta da un’Assemblea legislativa, non sappiamo per ora come composta.

Se dovessimo rifare la Costituzione, dovremmo rifare la stessa discussione attuale e forse una discussione ancora peggiore, perché non sappiamo quale situazione politica si produrrà. Io dunque vorrei pregarvi, se si potesse, di rinunziare a questo articolo 5. Ma poiché prevedo che questa materia diventi causa di contrasto politico, che può dividere gli animi profondamente, mentre io considero che ora, soprattutto, non solo è doveroso, ma necessario evitare ogni contrasto che turbi ancor più la pace interna, sento sorgere nel mio spirito una viva perplessità ed ho il dovere di dichiarare onestamente il mio pensiero.

La Chiesa ora ha un grande prestigio. Questo prestigio, anche presso i nemici, si è accresciuto ancor più per il suo mirabile contegno durante la guerra e le persecuzioni razziali. Il Papa ha detto parole divine di bontà e di grandezza. Non lo negherete nemmeno voi, anche se non siete cattolici.

La Chiesa cattolica ha accolto nei monasteri, nelle chiese, dovunque poteva, i perseguitati, senza domandare né la religione, né i precedenti, né i loro sentimenti politici, Pio XII ha contribuito alla salvezza di Roma: Egli vi ha contribuito parlando un elevato linguaggio, di cui anche i nemici sono rimasti compresi.

Ora, nessuno può volere in questo momento motivi di contrasto con il Pontefice e con la Chiesa. Se Egli rimanesse al di fuori di queste attuali dispute, se avesse domani l’idea di dire che non vi è partito cattolico, ma che i cattolici possono essere in tutti i partiti (Approvazioni), perché la religione non può essere un partito; se il Papa dicesse queste parole, avrebbe ancora ammirazione, più grande ammirazione di quella che ora non abbia.

Ora, mi chiederete, onorevoli colleghi, che cosa io farò. Io spero che si trovi un accordo e che l’articolo 5, se si vuol mantenere, sia presentato in forma che un accordo sia per tutti possibile. Ma se un accordo non vi sarà, io, piuttosto che concorrere ad accrescere la divisione degli animi in Italia e ad aumentare il turbamento dell’opinione pubblica, voterò l’articolo 5, anche così com’è. Ho molto meditato in questi giorni sull’articolo 5. Dal punto di vista politico e giuridico è un errore; ma in questo momento può diventare segnacolo di simpatia o di avversione e in ogni caso di lotta. Non votare l’articolo 5, respingendolo puramente e semplicemente, quali conseguenze politiche si possono avere? Non ve le accenno. La situazione diventa difficile e si aggrava. Quindi, per le ragioni suddette, io, contrario all’articolo 5 che credo un errore, lo voterò. (Commenti). Se è mantenuto e diventa causa di divisione politica.

Una voce a sinistra. È debolezza.

NITTI. Non è debolezza, ma è visione della realtà e sentimento di forza.

Supponete che l’articolo 5 sia respinto e che si formi su questo una maggioranza ostile… che voi (Indica il centro) tante volte meritereste (Si ride). Quale conseguenza voi vedete? Vedete o no il grande pericolo? Io prima e soprattutto ho il sentimento della Patria, e dell’unione che è in questo periodo necessaria: questo sentimento profondo, che in me è sincero, sovrasta tutto. Epperciò, se non si trova una forma conciliativa che possa riunire tutti, e l’articolo 5 diventa materia di divisione e di contrasto col Vaticano, io, anche con il sacrificio delle mie idee, se è necessario, voterò per l’articolo 5. (Vivi applausi Molte congratulazioni Commenti animati).

(La seduta, sospesa alle 18.30, è ripresa alle 18.50).

PRESIDENTE. L’onorevole Orlando Vittorio Emanuele ha chiesto di parlare per fatto personale. Ne ha facoltà.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Onorevoli colleghi, il discorso così denso di pensiero e di fatti, dell’onorevole Nitti, che tutti abbiamo udito ed ammirato, mi offrirebbe l’occasione di tutta una serie di fatti personali, storici però. La mia persona c’entra, in quanto io ho avuto assai gravi responsabilità in momenti storici cui l’onorevole Nitti si è pure riferito. Non vi è nulla, tuttavia, che si ponga in contrasto formale con quanto ha detto l’onorevole Nitti, che – ripeto – ho ammirato vivamente, anche a prescindere da quella solidarietà del tutto sui generis, che lega due vecchi uomini di altri tempi.

Il tema, per se stesso, richiama echi di voci passate ed oltrepassate, almeno parlo per mio conto. Ma, dal momento che la discussione si è diffusa in tal modo su aspetti storici della questione, io non posso non recare qualche contributo, e credo che convenga ad elevare ancora più il dibattito attuale, il collegarlo con gli eventi cui accennerò, perché è davvero storico il valore di quegli eventi.

Ora, un primo contributo storico, che si può apportare, si collega con le osservazioni del mio amico Nitti, cui rinnuovo – perché solo ora lo vedo entrare nell’aula – l’espressione della mia ammirazione e della mia solidarietà. Può recare, pertanto, un contributo utile alla discussione il ricordo della lealtà, della fedeltà, con cui l’Italietta del periodo prefascista (così la chiamerò d’ora in poi, giacché la storia conosce di questi appellativi ironici, che poi diventano gloriosi; e fu questa Italietta che fece grande l’Italia) (Applausi) il ricordo, dicevo, della lealtà, della fedeltà, con cui l’Italietta osservò quella che fu la legge delle Guarentigie, senza che vi fosse alcun bisogno d’includerla in uno Statuto costituzionale.

Lo Stato d’Italia fece, dunque, quella mirabile legge delle Guarentigie, a proposito della quale ricordo che, dopo una lunga discussione (c’è l’abitudine un po’ di screditarci dinanzi a noi stessi quando parliamo della lunghezza delle nostre discussioni; or la discussione della legge delle Guarentigie, di cui l’attuale è una derivazione, durò in Parlamento quasi tre mesi, e ne era relatore Ruggero Bonghi), dopo un laborioso ponderoso esame, mentre ormai si era arrivati alla fine, un Deputato chiese la parola e disse: «Ma, un momento: tutto questo che abbiamo stabilito, suppone lo stato di pace. Che cosa avverrà, se l’Italia si troverà in guerra? Come potrà essa rispettare tutte le guarentigie date al Pontefice, fra le quali il diritto di legazione attivo e passivo, il corriere diplomatico, la libertà di corrispondenza, la libertà di rapporti con tutti i suoi organi? Che cosa avverrà della legge in un caso simile? Potranno quelle garanzie esser mantenute anche in rapporti a Stati divenuti nemici?»

Ruggero Bonghi rispose su per giù, così: «Ma, caro collega, abbiamo stentato tre mesi per fare la legge nell’ipotesi della pace; se voi raggravate ora con l’ipotesi della guerra, non ne usciremo più. Sarà quel che Dio vorrà, sarà quel che sarà». E la guerra non fu preveduta. Toccò a me questo compito, come Ministro di giustizia e dei culti, quando la guerra fu dichiarata nel 1915. Formidabile responsabilità: ma io e i miei colleghi di allora non esitammo, noi, uomini pur di così diversa mentalità, di così diverso temperamento, quali eravamo, Salandra, Sonnino ed io. Non esitammo. «Correremo tutti i rischi» dicemmo; «ma le guarentigie di questa legge saranno mantenute». E le mantenemmo. È un titolo di onore per noi e per il Paese che rappresentavamo.

Ecco il valore del ricordo storico.

Lealtà da parte nostra, lealtà da parte della Santa Sede; né, ripeto, ci fu allora bisogno che la legge fosse compresa in un atto statutario. Bisogna riconoscere quella lealtà reciproca, bisogna specialmente ricordare una dichiarazione da parte della Santa Sede, con gratitudine sia pure, retrospettiva.

Fu, allora, formalmente dichiarato dal Cardinale Gasparri Segretario di Stato: «La Santa Sede, di fronte all’Italia in guerra, non intende punto creare imbarazzi al Governo di essa e mette la sua fiducia in Dio, aspettando la sistemazione della sua situazione non dalle armi straniere, ma da quei sentimenti di giustizia che si augura si diffondano nel popolo italiano». Bel gesto, che non bisogna dimenticare, e che stabiliva subito un contrasto di grande storia, quando si pensi alle altre volte, quando per la difesa di diritti temporali della Chiesa erano avvenuti interventi armati stranieri. Ma, d’altra parte, questo gesto metteva in evidenza il contrasto fra quella che era la situazione formale e quelli ch’erano i rapporti sostanziali.

Quando il mio amico Nitti diceva di tutto il pericolo ch’egli attribuiva alla possibilità di un urto fra la Santa Sede ed il Governo d’Italia in un momento così drammatico della vita del Paese nostro, diceva una cosa profondamente vera e giusta, ma a rimuovere tale minaccia già avevano spontaneamente provveduto e il buon senso italiano e il fondamentale spirito di italianità, da cui la Santa Sede non si dipartiì.

Sentite: io qui non pretendo farvi una lezione di storia; ma vi assicuro che in nessun momento, prima e dopo i Patti Lateranensi – anche dopo; ripeto: in nessun momento – l’intesa fra il Governo d’Italia e il Pontefice fu così piena, concorde, continua, come durante il periodo in cui fui Guardasigilli, dal 1908 al 1911. Fra me e il Santo Padre, Pio X, le relazioni furono sempre perfette e cordiali in maniera incomparabile.

E per quanto riguarda Benedetto XV, che fu il Papa della guerra, vi dirò questo; non aveva il carattere di Pio X, era meno santo e più politico. Però, dopo qualche incontro un po’ burrascoso al principio, potei ristabilire tale intesa che quando, sopravvenuta la crisi del Gabinetto Salandra, io lasciai l’ufficio di Ministro della giustizia per quello dell’interno, il Sommo Pontefice manifestò al Presidente del Consiglio il suo desiderio che i rapporti politici con la Santa Sede continuassero attraverso me, sebbene avessi lasciato il Ministero specificamente competente. Il che avvenne.

Ciò vi dimostra quale intesa si fosse stabilita anche con il Santo Padre che pontificò durante la guerra, e quest’intesa fu mantenuta con grande lealtà reciproca. Senza contravvenire al suo carattere di universalità, che vieta alla Chiesa di affermarsi nazionale verso qualsiasi popolo determinato, io debbo dire che il concorso da Essa prestato durante la guerra fu ispirato da sentimenti, che furono veramente di amicizia e di bontà per il nostro Paese.

Questa è la verità storica, la verità sostanziale, al di sopra della quale continuava ad apparire il dissidio formale. E precipitiamo verso quello che fu l’accordo finale; onde, nell’altro mio discorso all’Assemblea, potei affermare che la portata essenziale del Patto Lateranense, distinto dal Concordato – perché del Concordato allora non si parlò – cioè la costituzione in Stato indipendente di quella che ora si chiama la Città del Vaticano, fu conclusa con me; e che, quindi, io non posso in questo momento declinarne la piena corresponsabilità. Io non metto in dubbio, anzi mi compiaccio del contributo apportato dall’onorevole Nitti, mediante i rapporti che egli, prima e dopo, avrebbe avuto direttamente con alte Autorità ecclesiastiche. È certo questo, però, che quando avvenne il drammatico urto tra me e il Presidente della Repubblica americana, Wilson, ci fu un momento o, meglio, un periodo, in cui ogni giorno si pensava a fare qualche cosa che ferisse l’Italia per punirla della sua resistenza. Ed allora, in alcuni ambienti cattolici non italiani, si pensò di trarre profitto da quella circostanza per cercare di sollevare la questione romana. E un intrigo si svolse in questo senso. Non poco io dovetti vigilare e soffrire, allora, per infrangere e vincere le varie minacce, fra le quali s’inserì pure la questione della rappresentanza della Santa Sede nella istituenda Società delle Nazioni. La mia risposta, peraltro, quando me ne fu parlato, fu semplice: «Io non ho nessuna difficoltà, se ciò conviene alla Santa Sede – del che dubitavo fortemente – e se la Santa Sede tiene a farne parte, io non mi opporrò, però la proposta deve venire da me». E se non fosse venuta da me, avvertivo che le conseguenze potevano essere veramente tragiche, perché in quel caso io credevo che il Papa non potesse più rimanere a Roma. E non mancai di dirlo.

Ma anche qui bisogna riconoscere con gratitudine che la Santa Sede non partecipò mai a quei tentativi, e fece anzi quello che poté per impedirli. In fondo io credo che la venuta di quel Vescovo di Chicago, Monsignor Kelley, sia stata in origine determinata da questi scopi a noi ostili; ed ostili propositi contro di noi si agitavano specialmente nel Belgio, dove trovavano echi di consenso quei propositi per cui l’Italia si dovesse obbligare a subire una pace suo malgrado, col riaprire la questione romana in danno di essa.

Questo era possibile perché, in fatto, la questione romana era ancora aperta. Perciò, onorevoli colleghi, non lo dimentichiamo, non lo dimenticate: è un fianco aperto nelle vive difese dell’Italia il sussistere di una tale questione che possa risollevarsi. Ve lo dice uno che dimostrò di non temere di fronte alla possibilità di una tale minaccia. Ma, ripeto, la Santa Sede non soltanto rimase estranea a quelle manovre, ma dichiarò che non avrebbe mai accettato una soluzione imposta all’Italia: riconosciamolo pure, per rendere giustizia all’atteggiamento di Essa nella storia di quegli eventi. Intanto, li richiamo qui rapidamente.

In seguito ad un colloquio avuto con me a Parigi, Monsignor Kelley credette opportuno di far subito un viaggio a Roma; e dopo breve tempo, ne fece ritorno, questa volta, per iniziativa che risaliva al Vaticano, in compagnia di Monsignor Cerretti. Col quale io dovevo avere un lungo, decisivo colloquio, e fu in esso che furono gettate le basi dell’accordo tra la Santa Sede e l’Italia, cioè che la Città del Vaticano diventasse Stato indipendente.

Di questo parlammo; e concludemmo in maniera precisa e definitiva, come si può rilevare dal memoriale dello stesso Cerretti, pubblicato nella Rivista Vita e Pensiero, rivista notoriamente vaticana, organo dell’Università cattolica di Milano. Monsignor Cerretti, allorché lo rividi dopo la sua elevazione a cardinale, mi raccontò che egli aveva iniziato il suo memoriale subito dopo il colloquio avuto con me; e siccome era di domenica (ricordo questo curioso particolare da lui dettomi), avendo trovato le cartolerie chiuse, si era potuto alla fine provvedere di un quaderno in una cartoleria trovata per caso aperta in via Richelieu, perché tenuta da un israelita. E così, in quella giornata di festa, avvenne che un ebreo dovesse giovare ad una causa cattolica! (Si ride).

RUSSO PEREZ. Anche gli ebrei qualche volta servono a qualche cosa.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Questo memoriale o diario lo pubblicò, dunque, la Rivista Vita e Pensiero, ed io lo ripubblicai poi in un mio volume, il qual volume ha una curiosa storia – per così dire – di anonimato, perché io lo stampai quando già tutte queste cose erano note; non anticipai nulla, e non c’è nessun segreto che sia stato tradito da me.

E, per fare qui una parentesi anch’essa storica, addurrò un esempio di questa mia abituale riserva, a proposito di quanto giustamente ha detto il collega amico Nitti, a proposito cioè del grave errore, che furono le dimissioni del Gabinetto Salandra il 14 maggio 1915; grave errore, giacché diede davvero la sensazione che la guerra fosse imposta dalla volontà del popolo contro il Parlamento. Ebbene, nessuno sa che ebbe luogo una veramente drammatica riunione, e fu quando, appunto, Salandra ci convocò per comunicarci la sua decisione di dimettersi. Fu quello il più lungo Consiglio dei Ministri cui io abbia assistito. I Consigli dei Ministri, ai quali ho partecipato durante dieci anni duravano non più di una ora circa; e quando ora leggo che restano convocati anche di notte, fremo, perché penso che non è possibile che si arrivi fino in fondo senza commettere qualche sciocchezza. (Si ride). Almeno, io, quando è passata la mezzanotte, non ragiono più. Insomma, in quei tempi, tali eccessi non si verificavano, perché l’accordo si era formato prima fra i colleghi interessati e, in ogni caso, attraverso il Presidente del Consiglio, che era il regolatore dell’azione del Governo. Quella volta, invece, fu una riunione lunga, che, cominciata verso le quattro, terminò alle nove di sera.

Ebbene, ad opporci alla proposta di dimissioni fummo in due, io ed il povero Ciuffelli, ora scomparso anche lui, che facemmo valere l’impossibilità di recedere dall’impegno già preso con gli altri Stati alleati. Ma naturalmente, quando si tratta di dimissioni, non c’è maggioranza o minoranza; non c’è che il Presidente del Consiglio, e se egli rassegna il mandato, la crisi è avvenuta, dato appunto il valore, che nell’unità del Gabinetto ha il Presidente del Consiglio. E chiudo la parentesi, per tornare al mio libro.

Esso – come dicevo – ha una curiosa storia. Io lo pubblicai (sono miei articoli, del resto, che erano già comparsi in riviste americane), nel 1929, poco dopo gli accordi, perché allora ero libero dall’obbligo del segreto. E non lo diedi a nessuno editore di quell’epoca, cioè ad editori fascisti, perché tali erano quasi tutti i maggiori di allora; ma, per spirito d’intransigenza, lo diedi ad un sedicente editore, che era un allievo di Croce, antifascista. Egli possedeva qualche bene di fortuna ed aveva creato una sedicente casa editrice, nella quale si stampavano questi libri più o meno proibiti. Nessun giornale lo annunciò; nessun libraio lo espose.

Bisogna averli vissuti quei tempi; bisogna averli vissuti, sì! Io penso che non c’è cosa più sciocca del paragone tra coloro che si decisero, allora, ad andar via dalla Patria e coloro che vi rimasero, perché non si istituisce un paragone tra eterogenei. Quello di coloro che andarono via, certo, fu un grande sacrificio, un immenso sacrificio, che merita tutta l’ammirazione, tutta la devozione e riconoscenza, specialmente verso quelli che ahimè! non sono più tornati. Il paragone, dunque, non si può stabilire, e la situazione degli uni e degli altri sta ciascuna per sé; ma la vita di coloro che rimasero, la nostra vita, credete, non era allegra, perché ogni giorno si era esposti o ad una minaccia o ad una tentazione. (Commenti Approvazioni).

PRIOLO. Questo si è dimenticato e si dimentica!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Non diedi – ripeto – il libro, per spirito d’intransigenza, a taluno degli editori più in vista e, quindi, più o meno in uno stato di devozione verso il regime: lo diedi, invece, a quell’ignoto editore, che ebbe l’ardimento di pubblicarlo. Nessun giornale lo annunciò, nessun libraio lo espose: rimase perfettamente anonimo. Ciò malgrado – cosa curiosa – l’edizione si esaurì, ed allora è venuta fuori questa seconda edizione, la quale è qui, onorevoli colleghi, per puro caso. Non crediate che io l’abbia premeditatamente sottomano. In questo volume è riprodotto il memoriale o diario Cerretti e mi limiterò a leggervene solo la fine, quantunque la lettura di tutto sia interessante. Per esempio, quando dall’altra parte mi si mosse la questione che lo Stato-città sarebbe stato troppo piccolo e che conveniva estenderne il territorio, io risposi: A che giova? Ciò potrebbe imbarazzare; ed usai il paragone dell’infusorio e dell’elefante: sono tanto diversi tra loro per grandezza, eppure tutti e due si qualificano come esseri viventi!

Mi limiterò, dunque, a leggervene solo la fine: «9 giugno, 6.30 pomeridiane:Venne il signor Brambilla per dirmi che l’onorevole Orlando, ieri, nel colloquio avuto con l’onorevole Colosimo, Vicepresidente del Consiglio, a Oulx, a lungo discusse con lui sulla soluzione della Questione romana. Dopo avergli riferito la conversazione avuta con me, lo incaricò di informare di tutto il Re e separatamente tutti i Ministri. L’onorevole Colosimo si mostrò favorevole. L’onorevole Orlando ha detto tutto ciò al signor Brambilla in presenza di Aldovrandi, Capo di Gabinetto dell’onorevole Sonnino. Ciò farebbe supporre che anche Sonnino è al corrente della cosa. Mi assicura il signor Brambilla che tanto lui quanto il Marchese Della Torretta lavorano a tutt’uomo per indurre l’onorevole Orlando a far presto». Quindi, pareva che ci si tenesse…

E continuava: «…in vista della situazione politica d’Italia. Sembra, infatti, che la posizione dell’onorevole Orlando sia alquanto scossa e che gli scioperi e la crisi economica possano determinare una crisi ministeriale. Se in questo momento, l’onorevole Orlando se ne andasse, sarebbe un vero disastro». Mi pare che più chiaro di così non possa essere l’impegno che io ero pronto a prendere e che si era concluso, se il mio allontanamento appariva come un disastro.

«10 giugno. I giornali annunciano che l’onorevole Colosimo è stato ricevuto dal Re. Certamente egli deve avere già informato il Sovrano della questione.

«15 giugno. Il Ministero Orlando dimissionario».

Quindi, l’accordo era completo su questo punto. Perché, domanda il mio amico Nitti, esso non fu formalmente concluso? È una curiosità storica giustificata. Ma, adesso, vi dirò in quali termini l’impegno era stato preso e, perché esso avvenne a così poca distanza dalle mie dimissioni. Potrebbe, infatti, nascere il sospetto che non vi fosse lealtà da parte mia, e che io, moribondo come Capo del Governo, avessi voluto morire in gloria, come colui che aveva raggiunto la meta storica della conciliazione fra lo Stato e la Chiesa in Italia.

Però, se questa fosse stata la mia intenzione recondita, allora la cosa sarebbe stata molto semplice: avrei senz’altro acconsentito, perché mi si facevano premure in tal senso. La verità è che, quando io ebbi questi colloqui e venni a queste conclusioni, non prevedevo la mia crisi prossima, restando essa subordinata ad un evento. Era allora pendente il compromesso Tardieu, il quale risolveva le questioni adriatiche in quella maniera di accordo transattivo, quale fu poi conseguito col trattato successivo di Rapallo.

Io non fui mai intransigente. Sulla mia coscienza non pesa il rimorso che la mia ostinazione abbia contribuito a determinare la mancata conclusione delle trattative di Versailles. L’ostinazione era dall’altra parte. Allora, il compromesso Tardieu era stato, come dissi, da me accettato, ed io avevo ragione di credere che fosse accettato da tutti e definitivamente, perché quando comunicai la mia adesione al Presidente Wilson, egli venne incontro a me quasi abbracciandomi. I nostri rapporti personali erano, difatti, stati sempre amichevoli, ed anzi affettuosi prima dello scoppio dell’urto. E allora tornarono eccellenti. Egli mi disse, commosso, che ammirava il mio spirito di transazione e credeva che io mi fossi spinto fino al quel limite estremo che era compatibile con le aspirazioni italiane. E mi ringraziò. Considerate quel che significava un tale successo. Il giorno dopo era convocata la Delegazione austriaca per ricevere le condizioni della pace, e quanto al confine italo-austriaco c’era la nota: «Souspendu». Era un effetto dell’urto fra me e Wilson che veniva a comporsi per l’accettazione del compromesso Tardieu. E Wilson chiese al Segretario dei Quattro: «Perché non mandate anche il confine austriaco?».

«Siete voi, signor Presidente – rispose il segretario – che avete detto di aspettare». «Mandatelo» disse Wilson. Ed allora il segretario chiese: Qual è il confine? Quello del Patto di Londra?

E Wilson disse: «No, perché il confine del Patto di Londra non è giusto per l’Italia. Bisogna che siano annesse all’Italia anche le valli di Tarvis e di Sexten», che infatti ci furon poi date.

Pareva la conclusione del fatale dissidio, onde io dissi al Presidente: «Così anche la questione adriatica è a posto». Rispose: «No, io, come dissi, approvo; ma per il compromesso Tardieu che trovo giusto, bisogna che ci sia il consenso degli jugoslavi. Io non intendo imporre la mia volontà agli jugoslavi».

Questo io dico a proposito delle pretese odierne, per questo trattato orribile che ci si vuole imporre. C’era allora l’assenso di tutti e non fu tradotto in atto per rispettare la libertà di consenso degli jugoslavi. Io attesi una diecina di giorni e gli jugoslavi risposero che non accettavano, e quindi, la pace adriatica si trovò risospinta in alto mare. Ebbi allora la sensazione precisa che il mio dovere era di andarmene.

E feci ritorno a Roma. Convocai la Camera e la crisi avvenne senz’altro nella prima seduta, su una semplice questione di procedura sollevata da me. Passi erano stati fatti presso di me da altissimi parlamentari, nel senso di attendere e di cercare un accordo; ma risposi, che ritenevo la mia funzione come finita, e sentivo che rimanendo al Governo, ciò fosse in danno del Paese. Occorreva che altri si provassero. E fu così che me ne andai davvero volontariamente; me ne andai in seguito al mancato, ultimo tentativo da me fatto alla Conferenza di Versailles, di comporre allora e subito la questione. Se quel tentativo fosse riuscito, non avrei avuto ragione di dimettermi, né mi sarei trovato in condizioni politicamente tali da giustificare le mie dimissioni.

Ora, io avevo già detto chiaramente a Monsignor Cerretti, proprio a conclusione delle nostre trattative, quando egli mi domandò se potessimo pubblicare l’accordo: Aspettate; bisogna vedere qui come le cose si concludono. Se posso tornare nel mio Paese come il Presidente del Consiglio, che ha vinto la guerra ed ha concluso la pace (una pace, che io sapevo che tutti gli italiani avrebbero accettata in quel tempo, e tante cose si sarebbero in seguito evitate!), se ciò avviene, posso allora degnamente presentare e fare accogliere il nostro accordo. Avrò, in tali condizioni, tutto il prestigio necessario in questa mia azione di Governo; ed il Paese, in uno stato di euforia per i tanti pericoli affrontati e sormontati, sarà con me e accoglierà con entusiasmo anche quest’altra opera di pace. Altrimenti, no; e non conviene né a noi né a voi che un atto di tanta importanza storica avvenga in un momento di grave perturbamento, quando l’uomo politico che deve compierlo non ne ha più l’autorità sufficiente.

Ricordo questo mio proposito e me ne vanto; ma me ne vanto non come persona, bensì come rappresentante della tradizione di coloro che sono stati gli uomini di Governo dell’Italietta, in cui è anche compreso Francesco Nitti, che in tale tradizione è con me solidale, anche se sia di parecchio più giovane. (Si ride). È certo che se io in quel momento avessi voluto far precedere ad ogni altra considerazione la soddisfazione personale di passare alla storia come colui che aveva concluso la Questione romana, lo potevo; ma non lo volli e non me ne pento. Un’Italia libera può oggi liberamente conservare gli accordi, che io allora avevo preso in un momento decisivo per la vita del Paese. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritta a parlare la onorevole Mattei Teresa. Ne ha facoltà.

MATTEI TERESA. Onorevoli colleghi, parlare dopo il decano, dopo i più anziani di questa Assemblea è un compito un po’ difficile per una giovane donna. Ma, forse, uno dei pochi vantaggi che io presenterò, sarà quello di essere breve, anche perché mi sarebbe estremamente difficile diffondermi troppo in ricordi di gioventù. (Si ride).

Vorrei solo sottolineare in questa Assemblea qualcosa di nuovo che sta accadendo nel nostro Paese. Non a caso, fra le più solenni dichiarazioni che rientrano nei 7 articoli di queste disposizioni generali, accanto alla formula che delinea il volto nuovo, fatto di democrazia, di lavoro, di progresso sociale, della nostra Repubblica, accanto alla solenne affermazione della nostra volontà di pace e di collaborazione internazionale, accanto alla riaffermata dignità della persona umana, trova posto, nell’articolo 7, la non meno solenne e necessaria affermazione della completa eguaglianza di tutti i cittadini di fronte alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche. Questo basterebbe, onorevoli colleghi, a dare un preminente carattere antifascista a tutta la nostra Costituzione, perché proprio in queste fondamentali cose il fascismo ha tradito l’Italia, togliendo all’Italia il suo carattere di Paese del lavoro e dei lavoratori, togliendo ai lavoratori le loro libertà, conducendo una politica di guerra, una politica di odio verso gli altri Paesi, facendo una politica che sopprimeva ogni possibilità della persona umana di veder rispettate le proprie libertà, la propria dignità, facendo in modo di togliere la possibilità alle categorie più oppresse, più diseredate del nostro Paese, di affacciarsi alla vita sociale, alla vita nazionale, e togliendo quindi anche alle donne italiane la possibilità di contribuire fattivamente alla costituzione di una società migliore, di una società che si avanzasse sulla strada del progresso, sulla strada della giustizia sociale. Noi salutiamo quindi con speranza e con fiducia la figura di donna che nasce dalla solenne affermazione costituzionale.

Nasce e viene finalmente riconosciuta nella sua nuova dignità, nella conquistata pienezza dei suoi diritti, questa figura di donna italiana finalmente cittadina della nostra Repubblica. Ancora poche Costituzioni nel mondo riconoscono così esplicitamente alla donna la raggiunta affermazione dei suoi pieni diritti. Le donne italiane lo sanno e sono fiere di questo passo sulla via dell’emancipazione femminile e insieme dell’intero progresso civile e sociale. È, questa conquista, il risultato di una lunga e faticosa lotta di interi decenni. Il fascismo, togliendo libertà e diritti agli uomini del nostro Paese, soffocò, proprio sul nascere, questa richiesta femminile fondamentale, ma la storia e la forza intima della democrazia ancora una volta hanno compiuto un atto di giustizia verso i diseredati e gli oppressi. In una società che da lungo tempo ormai ha imposto alla donna la parità dei doveri, che non le ha risparmiato nessuna durezza nella lotta per il pane, nella lotta per la vita e per il lavoro, in una società che ha fatto conoscere alla donna tutti quei pesi di responsabilità e di sofferenza prima riservati normalmente solo all’uomo, che non ha risparmiato alla donna nemmeno l’atroce prova della guerra guerreggiata nella sua casa, contro i suoi stessi piccoli e l’ha spinta a partecipare non più inerme alla lotta, salutiamo finalmente come un riconoscimento meritato e giusto l’affermazione della completa parità dei nostri diritti.

La lotta per la conquista della parità di questi diritti, condotta in questi anni dalle donne italiane, si differenzia nettamente dalle lotte passate, dai movimenti a carattere femminista e a base spiccatamente individualista. Questo in Italia, dal più al meno, tutti lo hanno compreso. Hanno compreso come la nostra esigenza di entrare nella vita nazionale, di entrare in ogni campo di attività che sia fattivo di bene per il nostro Paese, non è l’esigenza di affermare la nostra personalità contrapponendola alla personalità maschile, facendo il solito femminismo che alcuni decenni fa aveva incominciato a muoversi nei varî Paesi d’Europa e del mondo. Noi non vogliamo che le nostre donne si mascolinizzino, noi non vogliamo che le donne italiane aspirino ad un’assurda identità con l’uomo; vogliamo semplicemente che esse abbiano la possibilità di espandere tutte le loro forze, tutte le loro energie, tutta la loro volontà di bene nella ricostruzione democratica del nostro Paese. Per ciò riteniamo che il concetto informatore della lotta che abbiamo condotta per raggiungere la parità dei diritti, debba stare a base della nostra nuova Costituzione, rafforzarla, darle un orientamento sempre più sicuro.

È nostro convincimento, che, confortato da un attento esame storico, può divenire certezza, che nessuno sviluppo democratico, nessun progresso sostanziale si produce nella vita di un popolo se esso non sia accompagnato da una piena emancipazione femminile; e per emancipazione noi non intendiamo già solamente togliere barriere al libero sviluppo di singole personalità femminili, ma intendiamo un effettivo progresso e una concreta liberazione per tutte le masse femminili e non solamente nel campo giuridico, ma non meno ancora nella vita economica, sociale e politica del Paese.

Vorremmo a questo proposito far notare che ad un attento esame del nostro progetto di Costituzione risulta evidente che là dove si riconoscono alle donne i loro nuovi diritti parimenti ne escono vantaggio e sicurezza nuova all’istituto familiare, alla fondamentale funzione della maternità e alla piena realizzazione dei diritti nel campo del lavoro.

Ed egualmente, là dove si sancisce ogni più importante e nuova conquista sociale è sempre compresa e spesso in forma esplicita una conquista femminile. Non vi può essere oggi infatti, a nostro avviso, un solo passo sulla via della democrazia, che non voglia essere solo formale ma sostanziale, non vi può essere un solo passo sulla via del progresso civile e sociale che non possa e non debba essere compiuto dalla donna insieme all’uomo, se si voglia veramente che la conquista affermata nella Carta costituzionale divenga stabile realtà per la vita e per il migliore avvenire d’Italia.

Ma una cosa ancora noi affermiamo qui: il riconoscimento della raggiunta parità esiste per ora negli articoli della nuova Costituzione. Questo è un buon punto di partenza per le donne italiane, ma non certo un punto di arrivo. Guai se considerassimo questo un punto di arrivo, un approdo. Può questo riconoscimento costituzionale esser preso a conforto e a garanzia dalle donne italiane, le quali devono chiedere e ottenere che via via siano completamente realizzate e pienamente accettate nella vita e nel costume nazionale le loro conquiste.

Vorrei fare osservare, onorevoli colleghi, che nessun regime per principio, nei tempi moderni almeno, osa pronunziarsi contro i diritti femminili in termini costituzionali.

Ricordiamo che vi fu un momento, circa 20 anni fa, in cui persino il fascismo si trovò in forse se concedere o no alla donna per lo meno l’elettorato attivo nel campo amministrativo. E passi in quel momento furono compiuti (ricordiamo qui il convegno che allora avvenne a Firenze organizzato dalle Associazioni femminili di allora) perché questa conquista fosse raggiunta. Questo diritto, lo sappiamo bene, fu subito dopo negato dal fascismo non solo alle donne che lo chiedevano, ma tolto anche agli uomini che già ne avevano goduto. Questo però ci indica chiaramente come ogni sistema politico moderno, anche il più reazionario, sia guardingo nel negare alla donna, in quanto donna, il godimento almeno formale dei suoi pieni diritti di cittadina.

Perciò noi affermiamo oggi che, pur riconoscendo come una grande conquista la dichiarazione costituzionale, questa non ci basta. Le donne italiane desiderano qualche cosa di più, qualche cosa di più esplicito e concreto che le aiuti a muovere i primi passi verso la parità di fatto, in ogni sfera, economica, politica e sociale, della vita nazionale.

Non dimentichiamo che secoli e secoli di arretratezza, di oscurantismo, di superstizione, di tradizione reazionaria, pesano sulle spalle delle lavoratrici italiane; se la Repubblica vuole che più agevolmente e prestamente queste donne collaborino – nella pienezza delle proprie facoltà e nel completo sviluppo delle proprie possibilità – alla costruzione di una società nuova e più giusta, è suo compito far sì che tutti gli ostacoli siano rimossi dal loro cammino, e che esse trovino al massimo facilitata ed aperta almeno la via solenne del diritto, perché molto ancora avranno da lottare per rimuovere e superare gli ostacoli creati dal costume, dalla tradizione, dalla mentalità corrente del nostro Paese.

Per questo noi chiediamo che nessuna ambiguità sussista, in nessun articolo e in nessuna parola della Carta costituzionale, che sia facile appiglio a chi volesse ancora impedire e frenare alle donne questo cammino liberatore.

È purtroppo ancora radicata nella mentalità corrente una sottovalutazione della donna, fatta un po’ di disprezzo e un po’ di compatimento, che ha ostacolato fin qui grandemente o ha addirittura vietato rapporto pieno delle energie e delle capacità femminili in numerosi campi della vita nazionale.

Occorre che questo ostacolo sia superato. L’articolo 7 ci aiuta, ma esso deve essere accompagnato da una profonda modificazione della mentalità corrente, in ogni sfera, in ogni campo della vita italiana.

Ad esempio – voglio portare questo esempio perché è tipico nel nostro Paese – anche qui, nella più alta Assemblea rappresentativa d’Italia, nell’Assemblea che dovrebbe raccogliere gli uomini più evoluti, gli uomini che più degnamente possono rappresentare le migliori tradizioni e il progresso d’Italia, alcuni giorni fa, noi deputate – noi che qui rappresentiamo tutte le donne italiane, le donne che attendono dal lavoro dell’Assemblea miglioramenti e passi in avanti per il loro Paese e per tutti i cittadini – abbiamo ancora una volta notato un’espressione comune e per noi dolorosa di dispregio che un onorevole Deputato, che sta negli ultimi settori della destra, ha usato, con la solita aria di disprezzo. Egli ha detto precisamente: «Sono di genere femminile e quindi sempre infide». (Ilarità).

È questo un malvezzo che penetra ovunque, che vive nel nostro linguaggio ormai come un luogo comune, che collabora a deprimere la donna, relegandola sistematicamente in una sfera di vita inferiore e semianimale.

Onorevoli colleghi, anche qui dunque – e questo purtroppo non è il solo esempio – fa capolino quella diffusa e negativa mentalità. Non solo contro le espressioni del linguaggio, ma noi dobbiamo protestare qui, pur senza invadere il campo di prossime discussioni, e per dare un esempio di quanto sia radicata questa mentalità deteriore, contro il malvezzo – e speriamo che sia solo malvezzo – che ha portato perfino il Comitato di coordinamento e di redazione della Commissione per la Costituzione ad includere, nonostante che la seconda Sottocommissione non si fosse pronunciata al riguardo, una forte limitazione per le donne nel campo della Magistratura.

L’articolo 98 suona infatti così: «I magistrati sono nominati con decreto del Presidente della Repubblica, su designazione del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da tirocinio. Possono essere nominate anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario».

Anche ammesso, come speriamo, che il futuro ordinamento giudiziario sia ben migliore di quello vigente, noi non possiamo ammettere che alle donne, in quanto tali, rimangano chiuse porte che sono invece aperte agli uomini. (Commenti).

Sia tolto ogni senso di limitazione e sia anzi affermato, in forma esplicita e piena, il diritto delle donne ad accedere, in libero agone, ad ogni grado della Magistratura, come di ogni altra carriera. Ma vi è di più – e questo dico per illuminare l’Assemblea sulla necessità di aiutare le donne italiane nella realizzazione dei loro diritti e nella difesa delle loro libertà –: occorre che nel nostro Paese non siano più ammesse disposizioni pubbliche o private che limitino la libertà umana e in particolare femminile, come la disposizione, ad esempio, che tuttora mi consta esistere e che vieta a determinate categorie di infermiere di contrarre matrimonio, pena la perdita del lavoro. Vi sono in Italia, fra queste particolari categorie, innumerevoli casi di lavoratrici costrette ad una vita familiare irregolare, numerose madri di figli illegittimi, solo perché, per non perdere il pane, devono rinunciare a contrarre regolare matrimonio. È questa una disumana ed immorale misura limitatrice della libertà, della dignità, della personalità umana di lavoratrici incolpevoli e dei loro incolpevoli figli.

Per questa ragione io torno a proporre che sia migliorata la forma del secondo comma dell’articolo 7 nel seguente modo:

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano «di fatto» – noi vogliamo che sia aggiunto – la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Voi direte che questo è un pleonasmo. Noi però riteniamo che occorra, specificare «di fatto». Vogliamo qui ricordare quello che avviene in altri paesi democratici. Si dice che l’Inghilterra, sia un paese democratico: ebbene, nella democratica Inghilterra le donne hanno conquistato formalmente il riconoscimento della parità assoluta dei diritti circa trent’anni fa, nel 1919. Ma ancora oggi in questa libera e democratica Inghilterra, dove le donne dovrebbero godere di tutti i diritti come gli uomini, poco si è fatto, perché ci si è limitati a sancire formalmente una conquista, che poi nessuno ha voluto realizzare nella pratica. E là, dopo trenta anni di vita democratica o di possibilità di vita democratica per le donne, queste non hanno potuto accedere a tutti i posti che loro spettavano. E noi vediamo che nella stessa Inghilterra è proibito, per esempio, di sposarsi alle maestre, alle insegnanti di alcune categorie. Orbene, noi riteniamo che questo esempio dell’Inghilterra possa servire per noi, che valga come insegnamento, valga a chiarire che quelle conquiste che noi donne facciamo nella vita nazionale – le conquiste giuridiche – non possono essere realizzate pienamente nella vita, se non sono accompagnate da altre conquiste, da conquiste di carattere sociale, economico, se non sono accompagnate, cioè, da una completa legislazione in proposito.

Onorevoli colleghi, se osserviamo da vicino questo progetto di Costituzione, malgrado il pessimismo più o meno artificioso con cui lo si critica o deplora da parte dei gruppi che rappresentano il passato e gli interessi della conservazione, possiamo affermare che in esso è uno slancio verso il progresso, verso la giustizia, verso la pratica attuazione di una società più umana, più giusta, migliore dell’attuale.

Siamo convinti che questo slancio avrebbe potuto essere più agile, più libero, che questa attuazione avrebbe potuto farsi anche più rapidamente.

Ma già in questa forma molto si potrà realizzare, ne siamo sinceramente convinte, se i grandi gruppi politici che rappresentano le masse lavoratrici collaboreranno alla traduzione fedele nelle leggi, nella vita e nel costume nazionale dei principî che nella Costituzione sono affermati.

Se cioè esiste realmente da parte di ognuno di questi gruppi la buona fede e la volontà realizzatrice, potremo con questa Costituzione raggiungere più rapidamente una forma di società migliore, che cancelli definitivamente le tracce, le rovine, i segni di oppressione del fascismo, che ne distrugga nel profondo le cause.

E se vi è questa buona fede, come noi desideriamo vi sia, allora dobbiamo realmente vedere in tutti i rappresentanti delle lavoratrici e dei lavoratori la stessa volontà, nella forma più chiara, più esplicita, più fattiva, di aiutare le donne italiane ad essere cittadine coscienti.

Mazzini, e tutti i nostri grandi che hanno pensato ed operato per l’avvento nel nostro Paese della Repubblica, ci hanno insegnato che la pietra angolare della Repubblica, ciò che le dà vita e significato, è la sovranità popolare.

Spetta a tutti noi, e lo afferma anche il Presidente della Commissione per la Costituzione nella sua relazione introduttiva, di partecipare attivamente alla gestione della cosa pubblica per rendere effettiva e piena questa sovranità popolare. Ma, perché questo accada veramente, occorre che accanto ai cittadini sorgano, si formino, lavorino le cittadine, fatte mature e coscienti al pieno adempimento di tutti i loro doveri, da quelli familiari ai civici, dal normativo ed educatore godimento dei loro pieni diritti.

Aiutateci tutti a sciogliere veramente e completamente tutti i legami che ancora avvincono le mani delle nostre donne e avrete nuove braccia, liberamente operose per la ricostruzione d’Italia, per la sicura edificazione della Repubblica italiana dei lavoratori. (Vivissimi applausi a sinistra Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a giovedì alle 15.

La seduta termina alle 19.55.

Ordine del giorno per la seduta di giovedì 20.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 18 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 18 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Gasparotto, Ministro della difesa                                                                     

Malagugini                                                                                                      

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Benedetti                                                                                                         

Selvaggi                                                                                                           

Villabruna                                                                                                      

 

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Carboni, Relatore                                                                                              

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Meda                                                                                                                 

Mannironi                                                                                                        

Caroleo                                                                                                           

Persico                                                                                                             

Bubbio                                                                                                              

Basile                                                                                                               

Fuschini                                                                                                            

Bovetti                                                                                                             

Molinelli                                                                                                         

Camangi                                                                                                           

 

Presentazione di una relazione:

Camposarcuno                                                                                                 

 

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

 

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Silipo                                                                                                                

Mancini                                                                                                            

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE L’ordine del giorno reca: Interrogazioni. La prima interrogazione è quella dell’onorevole Bellavista:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della difesa, per sapere se sia vera la notizia pubblicata da alcuni giornali della sostituzione e dell’esonero del generale Zingales, istruttore del processo relativo al tesoro di Dongo, e dei motivi che l’avrebbero determinata; e per conoscere, inoltre, se il Governo intenda interferire, o meno, sul normale svolgimento delle istruzioni giudiziarie, anche se connesse a processi di ricettazione di profitti di regime».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, s’intende che vi abbia rinunziato:

Sullo stesso argomento l’onorevole Malagugini ha presentato, chiedendo lo svolgimento d’urgenza, la seguente interrogazione:

«Interrogo il Ministro della difesa per conoscere le ragioni della sostituzione del generale Zingales nelle indagini circa il cosiddetto tesoro di Dongo, sostituzione che ha dato luogo a clamorosi commenti di una parte della stampa».

L’onorevole Ministro della difesa ha fatto sapere di essere pronto a rispondere all’onorevole Malagugini, e quindi, di conseguenza, all’onorevole Bellavista.

Ha facoltà di parlare.

GASPAROTTO, Ministro della difesa. Le interrogazioni degli onorevoli Bellavista e Malagugini in merito alle notizie divulgate dalla stampa circa l’istruttoria del processo cosiddetto del «Tesoro di Dongo», mi danno modo di rettificare interpretazioni inesatte che sono state presentate alla pubblica opinione.

Sta in fatto che, dopo un primo periodo di indagini condotte in via sommaria dal pubblico ministero, l’istruttoria – data l’importanza e la delicatezza delle questioni che sconsigliavano il prosieguo della stessa in via sommaria – da circa 20 giorni è stata affidata in rito formale al giudice istruttore del Tribunale militare di Milano, capitano Bruni, il quale vi attende tuttora. Di ciò fu data pubblica notizia.

Il procuratore militare non è, pertanto, attualmente l’istruttore del procedimento, ma egli esercita solo quelle facoltà di inchiesta e di assistenza agli atti istruttori previste dalla legge processuale penale.

Titolare della procura militare di Milano è il maggior generale della giustizia militare Venuti, il quale, già per alcuni mesi ammalato, trovasi in licenza di convalescenza. Per non lasciare scoperta la procura militare di Milano, la procura generale militare vi destinò l’8 gennaio, in temporanea missione, il maggior generale Zingales, distogliendolo dalla sua sede di Firenze. Ma successivamente è sembrato conveniente alla procura generale militare, tenuto conto dell’atteggiamento assunto dal funzionario con l’esprimere apprezzamenti e valutazioni dei fatti attraverso la stampa, con possibile pregiudizio dell’istruttoria in corso, di far rientrare lo Zingales alla sua sede di Firenze, sostituendolo con altro magistrato militare (il maggior generale Berutti, procuratore militare di Torino) sempre in via di temporanea missione, in attesa che il Venuti riprenda il suo posto.

Per un inatteso incidente il Berutti non ha potuto eseguire la disposizione nel giorno stabilito. La procura generale militare pertanto, poiché alla data del 13 marzo era stato stabilito il ritorno a Firenze dello Zingales, ha dovuto provvedere altrimenti proponendo la partenza per Milano del procuratore militare di Roma maggior generale Bellini. Questi avrà l’incarico di reggere temporaneamente la procura militare e nei riguardi del processo di Dongo avrà solo le facoltà normalmente spettanti al pubblico ministero, cioè di seguire il corso dell’istruttoria, senza invadere il campo riservato dalla legge al giudice istruttore.

È ancora da osservare che tutt’ora compito dell’Autorità giudiziaria militare è quello di stabilire se i fatti formanti oggetto del procedimento costituiscano il reato di abuso di preda bellica ovvero reato diverso. Ciò perché, solo nel primo caso la competenza rimarrebbe incardinata presso il tribunale militare, mentre diversamente la Corte Suprema di cassazione sarebbe chiamata a risolvere un eventuale conflitto di giurisdizione. È infatti inesatto dire, come è stato detto, che le Sezioni Unite della Corte di cassazione si siano già pronunciate in merito alla competenza. Con sentenza del 27 settembre 1946, le dette Sezioni Unite si limitarono invece a riconoscere che un conflitto di giurisdizione non esisteva, in quanto non due giudici si erano ricusati di prendere cognizioni del procedimento, ma un giudice ed un pubblico ministero. Non v’è alcuno in questa Assemblea che non avverta la portata di questo conflitto che involge una questione delicata in fatto e in diritto.

Questa la situazione risultante dagli atti. Sulla quale osservo che col passaggio già avvenuto dall’istruttoria al rito formale, per cui l’iniziativa passa al giudice istruttore, la procedura offre le maggiori garanzie di giustizia, sia per l’accusa che per la difesa.

Indipendentemente da ciò, ogni iniziativa processuale, sia da parte del pubblico ministero che del giudice istruttore, deve essere contenuta in termini di accorta riservatezza, con assoluta rinunzia a certe forme pubblicitarie che sono le meno adatte a condurre all’accertamento della verità, in quanto destinate a mettere in allarme denunziandi e testimoni. Se è sembrato alla procura generale militare, diretta da un reputato giurista che è sempre stato estraneo ai partiti e mai ad alcuno di essi legato, che il metodo usato dal procuratore militare di accettare, se non di provocare, interventi di stampa non sia conforme alle buone regole giudiziarie, il Ministro della difesa, che si propone di assicurare alla giustizia militare la più perfetta neutralità politica, non si sente di dissentire.

Ora l’istruttoria sarà continuata dal giudice istruttore con tutti i mezzi che la norma di legge gli appresta, e particolarmente con gli organi di polizia giudiziaria solleciti spesso più ancora dei giudici.

La risposta del Governo agli onorevoli interroganti è precisa: esso non intende mai intervenire sul normale svolgimento delle istruzioni giudiziarie, anche se comunque connesse a processi di ricettazione di profitti di regime. Per quanto riguarda il processo del cosiddetto «Tesoro di Dongo», il Governo raccomanda pubblicamente al magistrato di agire con tutta severità ed esemplare obiettività e di astenersi da manifestazioni pubblicitarie.

Se vi sono partigiani che hanno adombrato con illeciti profitti l’onore delle loro gesta militari, essi saranno giudicati con serenità, senza che questo possa dare ombra alla pagina che le formazioni partigiane hanno scritta nelle giornate della liberazione. I padri e le madri dei figli fucilati nelle piazze o spenti nelle carceri, guardando oltre le pagine del processo di Dongo, non possono che benedire le squadre popolane dell’alto lago di Como, le quali, senza attendere ordini da alleati, hanno sbarrato il passo all’uomo nefasto che aveva proclamato la guerra civile contro gli italiani (Vivi applausi) e hanno posto fine allo spettacolo miserando di lui e dei suoi pretoriani che, dopo aver tenuto in pugno i destini d’Italia, ad altro non pensavano che di mettersi in salvo colle loro amanti e coi tesori frodati al Paese. (Vivissimi applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Malagugini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MALAGUGINI. Dopo le parole nobilissime del Ministro della difesa, il mio compito si limita a prendere atto delle sue dichiarazioni sul terreno propriamente legale e giuridico, le quali fugano ogni dubbio avanzato da una parte della stampa che nel provvedimento di sostituzione del generale Zingales si dovesse vedere un illecito intervento del potere esecutivo nello svolgimento di una istruttoria penale.

Ma, quello che ha riempito l’animo mio, e – a giudicare dai consensi che ha provocato – della grande maggioranza di questa Assemblea, di profonda soddisfazione, è il tono caloroso e vibrato con cui l’onorevole Ministro ha rivendicato l’epopea dei partigiani. Perché, o colleghi, o amici, non dobbiamo nasconderci che attraverso la campagna scatenata a proposito del cosiddetto tesoro di Dongo si è cercato e si cerca di colpire gli uomini della resistenza e di infangare in blocco il movimento partigiano, arrivando fino alla improntitudine di mettere in dubbio la giustizia dell’atto compiuto su colui che bene il Ministro Gasparotto ha definito il responsabile principale delle sventure del nostro Paese. Il colonnello Valerio, chiunque esso sia, col suo gesto non ha soltanto obbedito a una deliberazione ed eseguito un ordine del C.V.L. che aveva il potere di darlo, ma ha raccolto l’incitamento e interpretato la volontà di tutto il popolo italiano. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Sono state presentate interrogazioni con richiesta di svolgimento d’urgenza, alle quali il Governo ha dichiarato che intende rispondere subito. Se ne dia lettura.

SCHIRATTI, Segretario, legge.

«Il sottoscritto interroga il Ministro dell’interno per sapere cosa gli risulta e quali provvedimenti ha adottato al fine di far luce sull’assassinio del giornalista De Agazio.

«Benedetti».

«I sottoscritti interrogano il Ministro dell’interno per conoscere quali provvedimenti abbia preso o intenda prendere:

  1. a) per le proditorie e premeditate violenze e percosse, cui è stato brutalmente sottoposto il 16 marzo 1947, l’onorevole Ottavio Mastrojanni, unitamente ad elementi del Fronte liberale democratico dell’U.Q., in località Sant’Elpidio a Mare (Ancona), da parte di circa 50 individui ben qualificabili e individuabili, mentre l’onorevole Mastrojanni ed i suoi amici, dopo una manifestazione politica svoltasi nel massimo ordine, consumavano il loro pasto in un pubblico locale;
  2. b) per l’aggressione di cui sono stati oggetto, e che ha portato a ferimento, con arma da punta e taglio e corpi contundenti, elementi del Fronte liberale democratico dell’U.Q. nello stesso giorno 16 marzo 1947, in Civitavecchia, da parte di elementi di estrema sinistra bene individuabili. Il modo col quale si è svolta l’aggressione e il numero degli aggressori (circa un centinaio) danno la netta impressione che l’aggressione avvenuta nella pubblica via fosse premeditata contro gli elementi del Fronte liberale democratico dell’U.Q., che si recavano alla spicciolata ed in numero esiguo (non più di sette), e non in corteo, ad un pubblico comizio dopo aver constatato la distruzione (sempre ad opera di elementi avversari) della sede del Fronte;
  3. c) per la serie di aggressioni che si svolgono in varie parti d’Italia contro elementi e sedi del Fronte liberale democratico dell’U.Q., aggressioni che, per il ritmo crescente e la contemporaneità, danno la precisa sensazione di rispondere ad un piano preordinato su tutto il territorio nazionale e al tempo stesso minacciano la libertà e la democrazia del popolo italiano, gettando il discredito sul Governo e sulla sua autorità ed offendono, per le violenze e gli oltraggi ad elementi dell’Assemblea Costituente, la dignità stessa del massimo organo politico e legislativo italiano.

«Selvaggi, Russo Perez, Bencivenga, Mastrojanni, Rodinò Mario, Tieri, Puoti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro dell’interno per conoscere, di fronte alle aggressioni organizzate contro oratori politici, intensificatesi in questi ultimi giorni, quali provvedimenti abbiano preso ed intendano prendere:

1°) per reprimere tali incidenti e per individuarne i diretti autori ed i loro ispiratori;

2°) per evitarne il ripetersi, e per garantire la libertà di parola e l’incolumità individuale.

«Villabruna».

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Per quanto riguarda l’assassinio del giornalista De Agazio sono in corso accertamenti da parte degli organi di polizia. Riterrei pericoloso comunicare all’Assemblea quelli che sono i primi accertamenti fatti dagli organi di polizia. Quando questi accertamenti saranno compiuti, l’Assemblea e il Paese ne saranno pienamente informati.

Devo aggiungere che alla polizia di Milano sono stati forniti tutti i mezzi necessari perché i responsabili di questo assassinio siano rintracciati e ritrovati. La ricerca di questi assassini è, peraltro, estremamente difficile, date le circostanze di tempo e di luogo in cui l’assassinio stesso è stato consumato.

Per quanto si riferisce alle violazioni contro la libertà di parola e di riunione che si sono verificate domenica scorsa, sento anzitutto il dovere di riportare i fatti nei termini precisi in cui si sono verificati, secondò le informazioni pervenute al Ministero dell’interno.

Mi riferisco anzitutto al caso dell’onorevole Lucifero: il comizio tenuto dall’onorevole Lucifero a Livorno, per quanto disturbato, si è potuto svolgere, e le aggressioni si sono verificate dopo il comizio. Gli aggressori, a seguito di intervento immediato e tempestivo del Ministro dell’interno presso gli organi di polizia di Livorno, sono stati scoperti e denunziati all’autorità giudiziaria.

Per quanto riguarda Civitavecchia, era stato indetto un comizio per l’inaugurazione della sede dell’«Uomo Qualunque». Con la polizia era stato concordato l’itinerario del corteo, che si doveva svolgere nella città; contrariamente agli accordi presi con gli organi di polizia, si è tentato di fare il corteo per altra via, facendo scontrare i rappresentanti dell’«Uomo Qualunque» con appartenenti al Partito repubblicano, i quali in quel giorno tenevano un altro comizio a Civitavecchia.

Sono nati incidenti e tafferugli. La situazione estremamente tesa, che si è determinata nella città, ha consigliato gli stessi rappresentanti dell’«Uomo Qualunque» a desistere dalla manifestazione che era stata indetta. Accertamenti sono in corso per scoprire i responsabili delle violenze compiute, soprattutto ed esclusivamente contro il «qualunquismo».

Per quanto riguarda gli incidenti di S. Elpidio, che sono stati più gravi, in quanto uno dei nostri colleghi è stato ferito, anche qui devo precisare che la manifestazione politica si è svolta liberamente e regolarmente, e che l’aggressione contro l’onorevole Mastrojanni si è verificata dopo il comizio, mentre l’onorevole Mastrojanni si accingeva a consumare il suo pasto. Egli è stato aggredito da un gruppo di partigiani che quel giorno tenevano un altro convegno. Anche qui, l’intervento pronto ed immediato degli organi di polizia, sollecitati personalmente dal Ministro dell’interno, è valso a scoprire i responsabili dell’aggressione e ad arrestarne due, mentre due sono latitanti e denunziati all’autorità giudiziaria. Questi sono i fatti nella loro realtà. Le conseguenze e le osservazioni che posso fare sono molto semplici: anzitutto noi non possiamo che deplorare la rinascita di questo spirito di intolleranza…

CAPUA. Questo è squadrismo!

SCELBA. Ministro dell’interno …ed il ritorno a metodi incivili di lotta politica e di aggressione. (Interruzioni a sinistra).

LEONE GIOVANNI. Quando riguarda voialtri, vi annunciano l’arresto dei responsabili. Quando ammazzate i nostri, si annunciano le scarcerazioni. E fate i martiri!

SCELBA. Ministro dell’interno. Noi non possiamo che deplorare, dicevo, il ritorno a metodi incivili. (Interruzioni degli onorevoli Russo Perez e Molinelli).

Dobbiamo deplorare l’aggressione di un Deputato, anche se pranzava con tre fascisti.

Coloro che della democrazia sono veramente assertori, non possono essere che unanimi nel deplorare questo ritorno ad uno spirito di intolleranza e a sistemi politici di cui il Paese ha fatto la tragica esperienza. (Applausi al centro e a destra).

Noi non possiamo non reagire contro questi tentativi che discreditano, non il Governo, ma soprattutto il regime democratico.

Dagli accenni che ho fatto, è risultato il pronto e tempestivo intervento del Governo, ed il Governo assicura l’Assemblea che, per quanto lo riguarda, farà il proprio dovere. Il problema dall’ordine pubblico non è soltanto un problema di polizia, ma se non è possibile evitare la violazione delle libertà politiche e civili, nessuno si attenda dal Governo l’impunità per le violazioni di esse che eventualmente siano commesse.

TOGLIATTI. Meno quando si tratta di violenze contro i comunisti, perché quelle restano impunite. (Commenti).

SCELBA, Ministro dell’interno. Non restano impunite, onorevole Togliatti. (Rumori a sinistra). Io posso ricordare all’onorevole Togliatti che quando un sindaco e una squadra dell’«Uomo Qualunque» nel leccese, rievocando sistemi fascisti, hanno compiuto un’azione punitiva contro una sezione del Partito comunista, il Ministro dell’interno è intervenuto personalmente presso il Prefetto, perché disponesse l’arresto immediato dei violatori, che sono stati arrestati.

Noi non facciamo una politica di parte, ma facciamo la politica della legge che è uguale per tutti. (Applausi).

SCOCCIMARRO. Ci dica, perché sono stati liberati gli assassini di Sciacca. (Commenti).

SCELBA, Ministro dell’interno. Ho risposto ad una precedente interrogazione del genere. La risposta non può darla il Ministro dell’interno, ma l’autorità giudiziaria. (Interruzioni a sinistra).

PASTORE RAFFAELE. L’autorità giudiziaria indipendente!

SCELBA, Ministro dell’interno. Ciò detto, onorevoli colleghi, io non posso non deplorare l’atteggiamento di certa stampa la quale cerca di presentare, per speculazione politica, in termini drammatici, una situazione che non è drammatica e cerca di svalutare l’opera del Governo. La stampa, che oggi pubblica a grandi titoli che il nemico è alle porte, non ha sentito il dovere di comunicare quello che il Governo aveva fatto per reprimere la violazione e per colpire i violatori della legge. (Rumori Commenti).

Onorevoli colleghi, se noi vogliamo che le lotte politiche italiane si svolgano sul terreno della serenità democratica, è necessario che tutti i partiti collaborino a quest’opera, perché la democrazia non è nella polizia, e non è negli istituti politici, ma è nel costume dei cittadini, è nel costume dei partiti e nel riconoscimento dell’autorità dello Stato e dell’opera che il Governo fa, perché, onorevoli colleghi, quando viene svalutata l’azione del Governo non si fa che aumentare la tensione che esiste nel Paese.

Occorre che tutti i partiti, occorre che tutti gli uomini, i quali sono preoccupati e sentono la necessità dello stabilimento di un regime democratico, collaborino con saggezza, serenità, obiettività, a questo fine. (Interruzione dell’onorevole Togliatti Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Benedetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BENEDETTI. Ringrazio l’onorevole Ministro per le sue dichiarazioni e mi rendo perfettamente conto della necessità che si continuino le indagini con tutta discrezione e che, pertanto, non è possibile per il momento dare maggiori comunicazioni all’Assemblea. Non aggiungerei parola se si trattasse di un delitto comune, ma, purtroppo, si tratta di un delitto politico, e l’assassinato è un giornalista.

Come uomo politico e come giornalista, mando anzitutto alla memoria del collega assassinato un reverente saluto. Io parlo, onorevoli colleghi, senza stimolo e senza odio di parte, da antifascista di tutte le ore, da uomo di cuore, da patriota che vede con trepidazione infinita il riformarsi della stessa situazione che ci condusse alla catastrofe venticinquennale, per la quale tutti noi abbiamo tanto sofferto. Un giornalista è stato assassinato, è caduto sulla breccia, quasi, direi, sul campo del dovere e dell’onore.

MOLINELLI. Sul campo della diffamazione contro i partigiani d’Italia! (Rumori Interruzioni a destra).

BENEDETTI. Io sono partigiano come voi, antifascista come voi.

Ma non mi domando se egli era fascista o antifascista. (Interruzioni all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. Prego di far silenzio.

BENEDETTI. Egli era reo soltanto di aver voluto indagare il mistero nel quale s’intravedono mani adunche che afferrano oro e grondano sangue! (Rumori a sinistra).

TOGLIATTI. Mani fasciste! Mani che finanziano i vostri giornali!

BENEDETTI. Oro maledetto! Fatale eredità di delitti! Era un fascista? Era un antifascista? Fu colpito dalle SS tedesche riportandone lesioni permanenti? Fu imprigionato dai repubblicani del nord? Fu imprigionato dai partigiani? Io non lo so. Questo per me non conta. Qualunque cosa egli sia stato, è morto per compiere l’altissimo dovere della ricerca della verità, quel dovere che tutti i giornalisti compiono con tanta abnegazione e con tanto coraggio.

Se per avventura, onorevoli colleghi, egli avesse ecceduto (e non pare, perché sotto lo pseudonimo di Alberto Rossi i suoi scritti sono stati accolti dai giornali più seri), se avesse ecceduto, il castigo avrebbe dovuto venire da voi, Governo, applicando non le leggi eccezionali, ma il Codice penale. La vostra (indica il banco del Governo) e, forse, anche la nostra responsabilità – di tutti noi – sta in ciò: che voi e noi abbiamo lasciato formarsi una situazione che consente libertà di azione ai sopraffattori di ogni sorta e di ogni tendenza, ai violenti, agli assassini, a tutti coloro che non rispettano l’autorità dello Stato e che credono soltanto nella forza delle loro organizzazioni armate.

Voi, Governo, avete il dovere di ristabilire il prestigio e l’autorità dello Stato. Se non voleste, se non poteste, se non sapeste, voi non sareste Governo e la vostra opera sarebbe soltanto l’inizio di una nuova eclissi della democrazia ed il preludio della guerra civile.

Noi, onorevoli colleghi, tutti noi, tutti i nostri amici, tutti i nostri compagni di fede, abbiamo il dovere di aiutare il Governo in questo compito. L’esortazione che sorge dalla tomba di Franco De Agazio, come da quelle di tutti indistintamente i martiri ed i morti della lotta politica, primo fra ogni altro Giacomo Matteotti, è che cessino… (Rumori all’estrema sinistra).

Una voce a sinistra. Non diffami Matteotti!

BENEDETTI …è che cessino, una volta per sempre le follie fratricide…

LI CAUSI. Mettere insieme Matteotti e De Agazio! È una spudoratezza! (Commenti Interruzioni).

BENEDETTI. Ripeto, perché lei ben comprenda, onorevole Li Causi, che il dovere di tutti noi è che cessi, una volta per sempre, la follia fratricida che insanguina e avvilisce l’Italia. (Applausi a destra Commenti).

RUSSO PEREZ. È veramente deplorevole che non sappiamo unirci tutti per eliminare le violenze, da qualunque parte esse vengano. È vergognoso! (Interruzioni. Rumori).

PRESIDENTE. Facciano silenzio! L’onorevole Selvaggi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

SELVAGGI. Dopo le dichiarazioni fatte dall’onorevole Scelba, in merito all’interrogazione presentata da me e da altri colleghi, devo dire che non sono completamente soddisfatto.

L’onorevole Scelba ha parlato di intervento pronto per trovare i colpevoli delle violenze, ma non ci ha parlato dell’intervento per impedire che le violenze, da qualunque parte esse vengano, di qua o di là, siano finalmente bandite, dalla democrazia italiana. E questo punto incide non solo sul discredito della democrazia, ma discredita la stessa autorità del Governo. Ed è sul Governo che principalmente ricade la responsabilità di quanto accade. Ed il passato lo sta a dimostrare. Troppe inchieste sono state insabbiate, troppe cose l’opinione pubblica non ha saputo. Troppe inchieste, come quella del Viminale e quella dei fatti dell’Emilia, sono ancora sospese.

MALAGUGINI. Abbiamo già letto il suo articolo di fondo.

SELVAGGI. Grazie. Lo senta a voce, adesso.

Ora, tutto questo porta ad una situazione per cui il Paese si sente coartato non solo moralmente ma anche materialmente. Questa situazione non ha che una alternativa: o il Governo applica in pieno la sua autorità e fa rispettare la legge a tutti, a qualsiasi parte, oppure si ricorre all’autodifesa e, come diceva il collega Pertini, si ritorna ai tempi del 1922, cioè si va verso la dittatura e della dittatura il popolo italiano non ne vuol sapere, qualunque colore essa abbia. (Vivi commenti Interruzioni).

LEONE FRANCESCO. Ci sono troppi squadristi. (Rumori a destra).

MICCOLIS. Squadristi siete voi che seguite gli stessi metodi. (Rumori).

LEONE FRANCESCO. Troverete pane per i vostri denti, questa volta, (Rumori Commenti).

CONDORELLI. Anche qui dentro sentiamo le minacce!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano!

COVELLI. Onorevole Presidente, ci si minaccia anche qui dentro! A questo siamo arrivati! (Rumori vivissimi Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Covelli, quando lei si rivolge, così come fa, ai colleghi dell’Assemblea, fa male, ma è un impulso comprensibile e me ne rendo conto; ma quando si rivolge a me con affermazioni come quelle che sta facendo, lei offende l’Assemblea nel suo complesso. (Approvazioni).

Prego anche i colleghi della sinistra di far silenzio; specialmente lei, onorevole Leone Francesco.

Onorevole Selvaggi, la prego di continuare.

SELVAGGI. L’onorevole Ministro Scelba ha detto che il problema della democrazia italiana è un problema di educazione e di costumi. Molto giusto; ma bisogna toccare il punto fondamentale; bisogna disarmare; troppe armi ci sono ancora in Italia e non abbiamo ancora sentito da parte del Governo l’annuncio di provvedimenti in questo senso. Bisogna disarmare materialmente e anche molti spiriti. Troppa agitazione c’è, troppi odii ci sono, (Interruzioni a sinistra) quando invece il Paese avrebbe bisogno della concordia di tutti per ricostruirsi e per mostrare la propria dignità di fronte a tutto il mondo. (Commenti Interruzioni).

Una voce a sinistra. Voi provocate con i vostri giornali.

SELVAGGI. Non abbiamo bisogno di lezioni da nessuno e meno che mai da voi. (Vivi rumori Interruzioni a sinistra).

L’onorevole Scelba ha parlato di giornali che non avrebbero riportato il comunicato del Governo. Prego l’onorevole Scelba di leggere i nostri giornali del mattino e troverà in essi riportato il comunicato dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio in merito all’episodio di Livorno dell’onorevole Lucifero e a quello dell’onorevole Mastrojanni. L’abbiamo riportato; abbiamo però il dovere di esprimere le nostre obiezioni, le nostre osservazioni e le nostre critiche perché su questi elementi si basa la democrazia e questo è il costume democratico. (Applausi a destra Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Villabruna ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

VILLABRUNA. Sento il dovere di ringraziare l’onorevole Ministro dell’interno per le assicurazioni che ci ha fornito; però, con altrettanta lealtà, dichiaro che attendo di conoscere e di controllare l’opera del Governo prima di dichiararmi completamente soddisfatto. I fatti che noi lamentiamo, e per i quali diciamo una parola di accorata protesta, ci preoccupano e ci rattristano per il momento in cui sono accaduti, e per il modo con cui si sono svolti. Io avverto un senso di amara ironia se penso che questi tentativi di violenza, diretti a soffocare la libera espressione della parola e del pensiero, avvengono proprio in questi giorni, mentre noi ci prepariamo a compilare quella Carta costituzionale che, nel rinnovato costume democratico, intende riconsacrare i diritti imprescrittibili della parola e del pensiero. (Approvazioni).

Ma soprattutto mi preoccupa il modo in cui questi fatti si sono svolti. Non si tratta di fatti sporadici o isolati. È una serie di attentati alla libertà, che con impressionante sincronismo si vanno verificando di città in città, e che si sono intensificati in questi ultimi giorni.

E allora noi abbiamo il diritto di pensare che questi fatti non abbiano carattere occasionale, ma che, sotto di essi, si celi il freddo calcolo di un piano prestabilito e di una organizzazione. (Interruzioni all’estrema sinistra Commenti).

A me pare, onorevoli colleghi, che sia legittimo il chiedersi: chi ispira, chi sobilla, chi prepara queste manifestazioni?

LI CAUSI. Ecco: chi sobilla? Risponda lei stesso a questa domanda. (Commenti).

VILLABRUNA. Ebbene, quando noi leviamo una protesta per questi attentati alla libertà, non intendiamo dolerci soltanto per l’offesa che è stata recata ad un collega, che appartiene al nostro partito, ma il nostro cuore e il nostro pensiero, si elevano al disopra dei partiti, perché noi pensiamo che quando la libertà dovesse andare perduta andrebbe perduta per tutti. (Commenti a sinistra).

Ora noi rivolgiamo una viva parola di raccomandazione al Governo, perché esso intervenga energicamente, e reagisca energicamente contro questi attentati alla libertà. E il Paese, onorevole Presidente del Consiglio, ve ne sarà grato. È ora di rassicurare il Paese, di dargli una fiducia, che comincia ad essere scossa e turbata. Soltanto per questa via, onorevole Presidente del Consiglio, convincerete il Paese che l’Italia è – non soltanto a parole – la terra della vera democrazia e della vera libertà. (Applausi).

PRESIDENTE. Poiché in due di queste interrogazioni si è parlato anche delle violenze che hanno subito nella giornata di domenica 16 marzo due membri di questa Assemblea, voglio e devo esprimere io stesso il sentimento di rammarico e di deplorazione per ciò che è avvenuto. Io credo che se le passioni di parte – pur comprensibili – che agitano ancora di questi tempi il nostro Paese, in conseguenza delle rovine materiali e morali che non solo la guerra, ma la dittatura, hanno lasciato in tutto il nostro territorio e in mezzo al nostro popolo, riescono ancora a spiegare la violenza della lotta politica, tuttavia deprecabile io credo che si debba però senz’altro deprecare il fatto che queste violenze giungano fino al misconoscimento dell’autorità morale rappresentata nell’Italia repubblicana dall’Assemblea Costituente e che si incorpora e si riverbera in ciascun componente di essa.

Noi sappiamo che vi sono gravi responsabilità che ancora non sono state scontate; che vi sono situazioni locali esacerbate forse dalla troppo tenace difesa di vecchie posizioni, che non comprendono le necessità dei tempi; vi sono, noi lo sappiamo, dei tentativi di rivalsa di forze le quali non comprendono che, anche solo con il mostrarsi, offendono l’animo popolare.

Ma tutto ciò penso debba costituire piuttosto oggetto di considerazioni da lasciare allo storico di domani; oggi dobbiamo pensare, invece, che ogni atto di violenza, tanto più quando si rivolga contro i rappresentanti eletti della Nazione, non può non colpire contemporaneamente l’autorità della nuova democrazia italiana e la dignità della nostra Assemblea.

È per questo che io ritengo di dover esprimere il più vivo rammarico per i fatti avvenuti e che perciò auspico che essi restino isolati in questa cronaca dura e dolorosa dei tempi attuali del popolo italiano. (Vivissimi generali applausi).

È così trascorso il tempo assegnato allo svolgimento delle interrogazioni.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni.

Essendo stata chiusa la discussione generale, si passa all’esame degli articoli. Ha chiesto di parlare l’onorevole relatore. Ne ha facoltà.

CARBONI, Relatore. Ho chiesto di parlare per premettere alla discussione sui singoli articoli e sui singoli emendamenti alcune considerazioni che spero gioveranno a semplificarla.

Come dicevo ieri, l’attuale disegno di legge ha un oggetto limitato a tre temi: controlli, adeguamento dei valori, commissioni di disciplina.

Il disegno di legge propone l’abolizione del controllo di merito attribuito al prefetto dalla legge del 1934 su tutte le deliberazioni dei comuni e delle provincie, fatta eccezione di alcune poche. Questo controllo generale di merito fu introdotto dal Governo fascista, invocando il principio della dipendenza gerarchica, allo scopo di rendere sempre più stretta la soggezione degli enti locali verso l’autorità governativa. Era naturale che, caduto il fascismo, ripristinata la democrazia, una delle prime preoccupazioni del Governo fosse quella di tornare all’antico sistema, di abolire questo controllo di merito, che è antitetico al principio democratico dell’autarchia degli enti locali, intesa come facoltà di agire liberamente nei limiti della legge.

Il disegno di legge che noi discutiamo si caratterizza precipuamente con l’abolizione del controllo di merito. Abolizione sulla quale io non ho bisogno di insistere, perché su di essa tutti o pressoché tutti gli oratori, che hanno partecipato alla discussione generale, sono stati concordi, fatta eccezione dell’onorevole Condorelli, il quale ha manifestato qualche preoccupazione per ragioni di carattere contingente più che sostanziale. L’onorevole Condorelli ritiene che non sia opportuna l’abolizione del controllo di merito in questo momento di risorgente democrazia, nel quale ancora non si hanno, secondo lui, amministratori sufficientemente capaci e competenti.

Ma alla preoccupazione dell’onorevole Condorelli si risponde facilmente, osservando che il controllo di merito non è abolito in maniera totale: è abolito il controllo deferito al prefetto; resta la tutela della Giunta provinciale amministrativa per le più importanti deliberazioni degli enti locali, per le deliberazioni che hanno contenuto finanziario; e si risponde altresì osservando che il sistema democratico offre in se stesso sufficienti sostitutivi di quel controllo prefettizio con la collegialità degli organi deliberanti, con il controllo delle minoranze, con il sindacato della pubblica opinione.

C’è un altro punto del disegno di legge, che merita un’attenta considerazione, ed è quello che si riferisce alla sostituzione di un potere di annullamento per motivi di legittimità al sistema, preesistente al fascismo, del visto preventivo di legittimità. Su questo punto – ed è spiegato nella nostra relazione – la Commissione ebbe qualche perplessità, perché si rappresentò il pericolo ed il danno dell’immediata esecuzione di deliberazioni annullate per illegittimità. E si preoccupò anche la Commissione che il prefetto, di fronte al fatto dell’avvenuta esecuzione, finisse col non fare più uso della facoltà di annullamento, nonostante la constatata illegittimità della deliberazione. Queste preoccupazioni furono superate non tanto per le ragioni esposte nella relazione ministeriale, quanto perché si considerò che le deliberazioni immediatamente esecutive sarebbero state quelle di minore importanza, essendo richiesta per le altre l’approvazione della Giunta provinciale amministrativa, e che di regola gli amministratori, nel loro senso di responsabilità, si sarebbero astenuti dal dare esecuzione prima della scadenza del termine fissato per la pronuncia di annullamento. Ad ogni modo i motivi d’incertezza possono essere eliminati con l’accettazione dell’emendamento Castelli Avolio, che concilia le opposte tendenze stabilendo che le deliberazioni divengono esecutive dopo quindici giorni di pubblicazione all’albo pretorio, e dopo l’invio al prefetto. Però la Commissione, accettando l’emendamento Castelli Avolio, propone d’introdurvi una correzione per quanto attiene alla maggioranza, con la quale dovrebbe esser dichiarata l’immediata esecuzione delle deliberazioni urgenti. L’onorevole Castelli Avolio propone che questa maggioranza sia rappresentata dai due terzi dei componenti dei collegi deliberanti. La Commissione ha considerato che sia molto difficile, se non impossibile, raggiungere una maggioranza di due terzi per le deliberazioni dei Consigli dei comuni dove vige il sistema proporzionale, ed anche per le deliberazioni delle attuali Deputazioni provinciali, e quindi ritiene opportuno che la maggioranza richiesta per la dichiarazione di immediata esecuzione sia ridotta alla metà più uno dei componenti dei collegi deliberanti.

Sempre sul tema dei controlli, la Commissione accetta anche l’emendamento Perassi, relativo all’articolo 19 del disegno di legge.

PRESIDENTE. Penso che sugli emendamenti la Commissione possa esprimere il suo parere articolo per articolo, per evitare che si faccia un doppio lavoro. Il Relatore potrebbe fare un accenno generico per quanto si riferisce agli emendamenti presentati.

CARBONI, Relatore. Col suo consenso, onorevole Presidente, riterrei non inutili questi sommari accenni preventivi, perché, indicando sin d’ora quali emendamenti sono accettati dalla Commissione, molto probabilmente si semplificherà la discussione, nel senso che i colleghi i quali avranno appreso che i loro emendamenti vengono accettati potranno forse dispensarci dal discuterli, e gli altri, che avranno appreso le ragioni per cui la Commissione non accetta quelli da loro proposti, potranno forse rinunciarvi.

Sulla materia degli emendamenti relativi ai controlli ero giunto al termine delle mie dichiarazioni e mi proponevo di passare agli altri due temi del disegno di legge: adeguamento dei valori e commissioni di disciplina, sui quali non ho da aggiungere nulla a quello che è detto nella relazione. Siccome però sul primo di questi temi c’è una folla di emendamenti, che si dovranno forse contemporare fra loro, credo che sia opportuno di dire fin da questo momento che la Commissione aderisce al concetto degli onorevoli Meda e Fuschini circa uno speciale trattamento per i comuni con popolazione superiore ai 500.000 abitanti. E per quanto riguarda l’adeguamento dei valori al mutato potere di acquisto della lira, la Commissione ritiene che quelli indicati nel disegno di legge debbano essere aumentati ed essere portati ai limiti degli emendamenti Preti-Villani, che sono i più corrispondenti al livello attuale della lira, con l’augurio che in un prossimo avvenire si possano convenientemente ridurre.

Dopo quanto ho detto circa il contenuto del disegno di legge e circa quelle correzioni che senz’altro possono essere accolte, debbo dichiarare che la Commissione condivide la opinione della unanimità o della quasi unanimità dei colleghi che hanno partecipato alla discussione generale, che cioè questo disegno sia troppo modesto ed incompleto in confronto alle esigenze universalmente sentite per una ben congegnata libertà degli enti locali.

Però la Commissione, come già dissi ieri, non può accettare quegli emendamenti i quali non attengano, più o meno direttamente, all’oggetto del disegno di legge, e ciò per evitare il pericolo di una legiferazione improvvisata, senza la preventiva ponderazione e senza il necessario coordinamento con altre disposizioni di legge, o per evitare la necessità di rinvio al Governo, che eliminerebbe i risultati modesti, ma pure utili, ottenibili dal presente disegno di legge. In questo caso si produrrebbe un effetto opposto a quello desiderato, in quanto che si differirebbe anche l’attuazione di quel primo avviamento alla libertà che è nel disegno stesso.

La riforma totale avverrà dopo la Costituzione, ed io spero che sia infondato o almeno eccessivo il timore di ritardo manifestato dall’onorevole Dozza, perché mi auguro che il Governo ed il futuro Parlamento sentiranno, tra i primi doveri, quello di deliberare la nuova legge che dovrà sostituire quella comunale e provinciale in aderenza ai principî della nuova Costituzione.

Con riserva di ulteriori delucidazioni, se ed in quanto necessarie, nella discussione dei singoli articoli, dichiaro intanto che la Commissione aderisce in pieno all’ordine del giorno proposto dall’onorevole Dozza per la riforma delle finanze locali, riforma indispensabile per dare un contenuto concreto di libertà agli enti locali.

La Commissione aderisce pure al ripristino dell’azione popolare, proposto dall’onorevole Persico. È una materia non strettamente attinente al tema del presente disegno, ma che pure ha una qualche relazione con esso. L’azione popolare, che costituisce indubbiamente un valido ausilio degli enti locali e che fu soppressa dal Governo fascista per antipatia verso tutto quanto ha sapore democratico, ha, dicevo, una certa attinenza con il tema dei controlli, perché fornisce un mezzo di concorso, di indiretto controllo popolare sull’attività delle amministrazioni, supplendo all’inerzia della loro azione.

Un altro punto, nel quale anche la Commissione concorda con quanto si è detto in questa discussione, è quello relativo alla modificazione della composizione delle Giunte provinciali amministrative. Oggi esse, con una lieve modificazione apportata dal Governo Badoglio, sono sempre costituite sulla base della legge fascista che dà la prevalenza all’elemento governativo sull’elemento elettivo. Ritiene la Commissione che la situazione si debba capovolgere. Questo è il proposito espresso in un emendamento dell’onorevole Persico. Ma la Commissione pensa che la composizione delle Giunte provinciali amministrative debba essere più snella di quella indicata dal collega Persico, e che esse potrebbero essere costituite da tre membri governativi e da quattro elettivi. La Commissione ha portato anche la sua attenzione sulla proposta soppressione dell’articolo 19, proposta fatta dall’onorevole Zotta, ma dichiara, con dispiacere, ch’essa, allo stato, non può essere accettata, perché esula completamente dal tema del presente disegno di legge. Così deve dirsi per l’emendamento Cosattini, relativo alle farmacie, che comporterebbe la necessità della modificazione di una legge speciale, che non può essere introdotta affrettatamente ed incidentalmente nella legge comunale e provinciale, come si propone dall’onorevole Cosattini, e che esigerebbe invece un esame attento ed approfondito.

La Commissione, pur apprezzando il concetto che ha ispirato l’onorevole Lami nella presentazione di un emendamento tendente alla costituzione di commissioni di bilancio presso i Consigli comunali eletti col sistema proporzionale, nei quali è molto difficile raggiungere la maggioranza necessaria per la approvazione dei bilanci, è d’opinione che neanche esso possa essere accolto, perché non attinente alla materia del disegno di legge.

C’è, infine, un altro argomento trattato nella discussione generale e sul quale convien dire qualche parola, ed è il tema della destatizzazione dei segretari comunali, tema molto delicato e grave, che la Commissione ritiene non potersi risolvere in questo momento, non soltanto perché esso implica la necessità di un ponderato esame, che non è stato fatto, e di una regolamentazione, che non si può improvvisare, ma anche perché conviene attendere l’esito degli studi e le proposte della Commissione paritetica, all’uopo costituita, di rappresentanti delle amministrazioni e dei segretari comunali.

Dopo tutte queste premesse, mi sia lecito esprimere l’opinione che il disegno di legge sottoposto al vostro esame, pur con l’eliminazione di quegli allargamenti che sono stati proposti nel corso della discussione generale, rappresenta un progresso, modesto ma pure apprezzabile, sulla via di quella libertà degli enti locali che è nelle aspettative democratiche di tutti noi. E non è motivo di soprassedere all’approvazione, perché esso non soddisfa in pieno alle esigenze di una completa libertà. Se – come non è dubbio – l’approvazione del disegno di legge costituisce una utilità, sarebbe dannoso differirla in attesa di una maggiore riforma non realizzabile prontamente.

Concludendo, la Commissione vi invita, onorevoli colleghi, a dare voto favorevole al disegno di legge in discussione opportunamente emendato, con la certezza che gli amministratori dei comuni e delle provincie d’Italia sapranno esser degni della fiducia del popolo anelante alla ricostruzione morale e materiale del Paese, nella libertà, nella democrazia e nella giustizia. (Vivi applausi).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Dichiaro che concordo pienamente con le osservazioni e con le conclusioni fatte dal Relatore, anche su punti specifici, quale il problema delle farmacie ed il problema dei segretari comunali.

Desidero aggiungere soltanto qualche parola per quanto riguarda l’articolo 19.

Sono pienamente convinto che l’articolo 19 in un ben ordinato regime democratico non dovrebbe esistere, perché il regime democratico si caratterizza dai limiti del potere discrezionale dell’autorità politica. Meno ampio è questo limite e più il regime è veramente democratico, cioè rispettoso delle leggi.

L’articolo 19 rappresenta una vecchia eredità fascista, in base alla quale si soppressero in Italia le libertà politiche e le libertà civili, perché, in base al vecchio articolo 3 della legge di pubblica sicurezza, trasfuso poi nell’articolo 19, il fascismo, senza nessun’altra disposizione, soppresse in Italia tutte le libertà, i partiti e la stampa.

Quindi, condivido pienamente le preoccupazioni espresse dai vari oratori intorno alla permanenza di questo articolo nella nostra legislazione. E le preoccupazioni sono fondate anche per l’assurda applicazione che molti prefetti, a seguito di pressioni o di agitazioni e di situazioni particolari, fanno, in concreto, di questo articolo 19.

Comunque, posso assicurare l’Assemblea di aver richiamato, fin dal primo giorno della mia assunzione del dicastero dell’interno, i prefetti sulla necessità che l’applicazione dell’articolo 19 sia riportata a quello che è lo spirito di questo articolo, soprattutto inteso nella nuova situazione e nel nuovo clima politico. Ed ho stabilito che i prefetti, applicando l’articolo 19, devono rimettere al Ministero dell’interno tutti i provvedimenti che essi emettono perché possa esercitarsi un sindacato da parte del potere centrale. Posso assicurare l’Assemblea che, dopo questa disposizione, di applicazioni dell’articolo 19 in Italia non se ne sono fatte più.

È, soprattutto, inammissibile che in base all’articolo 19 l’autorità politica possa interferire nel diritto privato. I fatti che si sono qui lamentati corrispondono veramente alla realtà: prefetti che intervengono a sospendere, in base all’articolo 19, l’esecuzione delle sentenze, o prefetti i quali instaurano, attraverso lo stesso articolo, il regime corporativo, dando valore legale o coattivo ad accordi fra le parti, che possono aver valore in quanto sono accordi fra le parti e rispettati dalle parti stesse. Tutte queste applicazioni arbitrarie che si sono verificate nel passato, oggi vengono meno perché ho dato istruzioni precise, richiamando al senso di responsabilità i prefetti che applicano questo articolo. Per quanto oggi non sia possibile sopprimere questa disposizione, poiché la soppressione o la modificazione dovrà essere inquadrata in tutto il nuovo ordinamento giuridico dello Stato, posso dare assicurazioni all’Assemblea che gli abusi lamentati non avranno più a ripetersi, perché, come ho detto, disposizioni precise sono state date per riportare l’applicazione di questo articolo nei limiti strettamente necessari e, soprattutto, tenendo conto della nuova situazione politica.

Sono un deciso autonomista ed assertore dell’economia comunale, non soltanto per educazione personale, non soltanto per studi, ma per tendenza politica. Quindi, in me troveranno piena e larga comprensione i voti di coloro i quali tendono a realizzare nelle leggi queste aspirazioni di autonomia comunale. Purtroppo esse oggi trovano una remora e un limite nella situazione finanziaria dei comuni, perché veramente non si può parlare di autonomia comunale quando non c’è una corrispettiva autonomia finanziaria, quando cioè i comuni, per la loro vita quotidiana, hanno bisogno del quotidiano intervento del Governo, il quale deve naturalmente assicurarsi un determinato controllo perché le somme – e sono diecine di miliardi – che lo Stato dà ai comuni non siano malamente spese.

Accogliendo i voti che sono stati espressi in emendamenti, io mi propongo di sottoporre al più presto possibile all’Assemblea un nuovo schema di disegno di legge che possa venire incontro alle aspettative e ai desideri dei comuni, per allargare il campo dell’autonomia comunale che il fascismo aveva assolutamente annientata e annullata.

Oggi viene presentato un disegno di legge del quale non ho la paternità se non in quanto faccio parte del Governo che lo ha approvato. Però, dopo avere studiato questo provvedimento, mi sono convinto che esso realizza qualche cosa di concreto e di positivo. Non è certo l’optimum che noi vorremmo; ma oggi rinviare e non approvare questo provvedimento di legge significherebbe danneggiare in concreto le amministrazioni comunali, le quali trovano nell’attuale legislazione una remora alla loro attività, che oggi è notevole perché è in una fase importante di ricostruzione. Prego quindi, l’Assemblea di volere approvare questo disegno di legge nei termini indicati, salvo le modificazioni che possiamo concretare con la Commissione e coi presentatori delle modifiche stesse, senza aggiunte però ed emendamenti che snaturino il disegno di legge, perché noi non possiamo introdurre in esso norme nuove che dovrebbero essere valutate ed esaminate in una più ampia visione di tutto il problema.

In sede di esame dei singoli articoli mi riservo di esprimere il parere del Governo sugli emendamenti presentati.

Per quanto si riferisce agli articoli aggiuntivi che sono stati presentati, devo esprimere, in linea di principio, il proposito del Governo di non accettarli o di accettarli solo come raccomandazioni, perché il Governo predisponga un nuovo disegno di legge in cui essi possano trovare accoglimento. Dichiaro anzi, fin da ora, che sono d’accordo in sostanza coi presentatori di questi emendamenti e li accetto senz’altro come raccomandazioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Dozza, ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente, mentre auspica alla realizzazione dell’autonomia amministrativa per i Comuni, fa voti affinché si provveda alla sollecita discussione del disegno di legge che reca modifiche alla legge sulle finanze locali, che è all’esame della competente Commissione, come necessario complemento delle modifiche alla legge comunale e provinciale».

Chiedo al Governo di esprimere il suo parere su quest’ordine del giorno.

SCELBA, Ministro dell’interno. Sono pienamente d’accordo con l’onorevole Dozza e accetto il suo ordine del giorno come raccomandazione.

PRESIDENTE. Do atto della dichiarazione del Governo relativa all’ordine del giorno dell’onorevole Dozza.

Passiamo ora alla discussione degli articoli.

Art. 1.

«L’articolo 87 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, è abrogato e sostituito dal seguente:

«I contratti dei comuni riguardanti alienazioni, locazioni, acquisti, somministrazioni od appalti di opere devono, di regola, essere preceduti da pubblici incanti, con le forme stabilite pei contratti dello Stato.

«È consentito di provvedere mediante licitazione privata:

  1. a) per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 500.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 100.000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazioni di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 500.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. b) per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti o che, pure avendo popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, siano capoluoghi di provincia, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 300.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 500,000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili se il canone complessivo non superi le lire 2,500,000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. c) per gli altri comuni con popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 150,000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 30,000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non ecceda le lire 150,000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni.

«Si può anche procedere alla trattativa privata quando il valore complessivo dei contratti non ecceda, per le singole classi di comuni, la metà delle cifre suindicate.

«Anche all’infuori dei casi previsti nel comma secondo, il prefetto può consentire che i contratti seguano a licitazione privata, quando tale forma di appalto risulti più vantaggiosa per l’amministrazione.

«Può anche autorizzare la trattativa privata, allorché ricorrano circostanze eccezionali e ne sia evidente la necessità o la convenienza».

A questo articolo gli onorevoli Meda e Fuschini hanno presentato il seguente emendamento:

Sostituirlo col seguente:

«L’articolo 87 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, è abrogato e sostituito dal seguente:

«I contratti di comuni riguardanti alienazioni, locazioni, acquisti, somministrazioni od appalti di opere devono di regola essere preceduti da pubblici incanti con le forme stabilite pei contratti dello Stato.

«È consentito di provvedere mediante licitazione privata:

  1. a) per i comuni con popolazione superiore ai 500.000 abitanti quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 2,500,000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 500,000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazioni di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non ecceda le lire 150.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni.

  1. b) per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 500,000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 100,000 ed il comune non resti obbligato oltre cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazioni di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 500,000 e la durata del contratto non ecceda i novi anni;

  1. c) per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti o che, pure avendo popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, siano capoluoghi di provincia, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 300,000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 60.000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazioni di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 300.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. d) per gli altri comuni con popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 150.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 30.000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 150,000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

«Si può anche procedere alla trattativa privata, quando il valore complessivo dei contratti non ecceda per le singole classi di comuni la metà delle cifre suindicate.

«Anche all’infuori dei casi previsti nel comma 2°, il Prefetto può consentire che i contratti seguano a licitazione privata, quando tale forma di appalto risulti più vantaggiosa per l’Amministrazione.

«Può anche autorizzare la trattativa privata allorché ricorrano circostanze eccezionali e ne siano evidenti la necessità e la convenienza».

Gli onorevoli Preti e Villani hanno presentato, a loro volta, il seguente emendamento:

Al terzo comma sostituire il seguente:

«È consentito di provvedere mediante licitazione privata:

  1. a) per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non eccede le lire 1.500.000;

2°) di spesa che non superi annuale mente le lire 250.000 ed il comune non resti obbligato oltre cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 1.500.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. b) per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti o che, pur avendo popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, siano capoluoghi di provincia, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 750.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 150.000 ed il comune non resti obbligato oltre cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 750.000 e la durata del contratto non superi i nove anni;

  1. c) per gli altri comuni con popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 400.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 75.000 ed il Comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non ecceda le lire 400.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni».

Domando agli onorevoli proponenti Meda e Fuschini se sono d’accordo con l’emendamento presentato dagli onorevoli Preti e Villani.

MEDA. Siamo d’accordo in questo senso, che il relatore ha già assicurato che aumenterà gli stanziamenti in conformità dell’emendamento Preti-Villani. Bisognerebbe perciò coordinare i due emendamenti e fonderli in uno solo.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore a esprimere il parere della Commissione.

CARBONI, Relatore. La Commissione accetta l’emendamento Meda-Fuschini che introduce la categoria di comuni con oltre 500.000 abitanti. Tuttavia, per quanto riguarda i singoli valori, essa crede doversi adottare quelli proposti nell’emendamento Preti-Villani. Occorre in conseguenza sostituire le cifre indicate nell’emendamento Meda-Fuschini con quelle proposte dagli onorevoli Preti-Villani, per modo che si potrebbe mettere in votazione l’emendamento Meda così corretto.

PRESIDENTE. Sono stati presentati inoltre i seguenti emendamenti:

Sostituire la lettera a) con la seguente:

  1. a) per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti o che, pur non avendo popolazione superiore ai 100.000 abitanti, siano capoluogo di provincia.

«Sostituire la lettera b) con la seguente:

  1. b) per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti.

«Mannironi».

«Sopprimere il terz’ultimo comma.

«Caroleo».

«Prima del penultimo comma aggiungere il seguente:

«Quando si tratti di acquisti di derrate, di combustibili, di carburanti e di simili generi di consumo si potrà procedere alla trattativa privata, qualunque sia il loro importo, purché gli acquisti stessi siano fatti in base ai prezzi desumibili da mercuriali e bollettini ufficiali ed i quantitativi siano limitati al fabbisogno di un quadrimestre.

«Bubbio».

Domando all’onorevole Mannironi se mantiene il suo emendamento.

MANNIRONI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Domando all’onorevole Caroleo se mantiene il suo emendamento.

CAROLEO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Domando all’onorevole Bubbio se mantiene il suo emendamento.

BUBBIO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Mannironi ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MANNIRONI. Il mio emendamento tende a salvaguardare la posizione di quei capoluoghi di provincia – pochi, pochissimi in verità – che hanno una popolazione inferiore non solo ai 100.000, ma ai 20.000 abitanti. Ora faccio rilevare che la proposta di voler considerare i comuni capoluoghi di provincia come comuni di prima categoria, venendo in tal modo ad annoverarli fra quelli che hanno una popolazione massima, è vecchia. Tale richiesta già venne avanzata dall’Associazione dei comuni, nel 1911, in un congresso tenuto a Roma.

Credo opportuno dover richiamare l’attenzione degli onorevoli colleghi sul fatto che i comuni che, sia pure con scarsa popolazione, sono assurti alla dignità di capoluoghi di provincia, si sono venuti a trovare in una condizione particolare proprio per il fatto che sono capoluoghi di provincia, e che pertanto molti dei loro problemi sono affini a quelli dei capoluoghi di provincia che hanno una popolazione molto più numerosa.

Debbo del resto far rilevare che la legge elettorale del gennaio 1946 ha equiparato tutti i capoluoghi di provincia, anche di scarsa popolazione, alle città più grandi, nel senso che ha consentito anche per essi che le elezioni avvenissero col sistema proporzionale.

Ora io proporrei che la posizione di questi capoluoghi di provincia con popolazione inferiore sia considerata alla stessa stregua dei comuni che oggi, dopo la proposta Meda-Fuschini, diventano di seconda categoria, cioè che hanno una popolazione superiore ai 100.000 abitanti.

PRESIDENTE. Domando alla Commissione se essa intende di confermare la sua dichiarazione, cioè se essa intende tuttora non accettare l’emendamento.

CARBONI, Relatore. La Commissione ritiene che sia opportuno mantenere i comuni capoluoghi di provincia nelle categorie previste nella legge vigente, con la quale si fa un trattamento di favore a tutti quei capoluoghi di provincia che non raggiungono la popolazione di 20 mila abitanti.

Per gli altri, non c’è ragione di passarli ad una categoria superiore.

PRESIDENTE. Invito il Governo a manifestare il suo avviso al riguardo.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo si oppone all’emendamento, perché il criterio tenuto a base è stato quello della popolazione, non già quello del capoluogo di provincia. Non possiamo, pertanto, accettare questo emendamento che verrebbe a sovvertire il criterio della legge.

MANNIRONI. Io volevo soltanto far rilevare che la qualità di capoluogo di provincia porta al sorgere di problemi così gravi e complessi da fare ravvicinare questi centri a quelli dei capoluoghi di provincia con popolazione maggiore.

PRESIDENTE. Ad ogni modo, il Governo e la Commissione non accettano il suo emendamento: ella lo mantiene?

MANNIRONI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento Mannironi, di cui è già stata data lettura.

(È approvato).

Segue l’emendamento dell’onorevole Caroleo, di soppressione del terz’ultimo comma.

Il terz’ultimo comma è il seguente: «Si può anche procedere alla trattativa privata, quando il valore complessivo dei contratti non ecceda, per le singole classi di comuni, la metà delle cifre suindicate».

L’onorevole Caroleo, ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

CAROLEO. Ho detto già le ragioni che consiglierebbero la soppressione della forma della trattativa privata nei contratti comunali. La disposizione in esame significa, infatti, che, per la metà dei valori indicati nell’articolo, tutte le contrattazioni degli enti comunali possono avvenire attraverso la forma della trattativa privata.

Ora, non per prevenzione contro gli amministratori, ma per liberare soprattutto costoro dal discredito e dall’ombra del sospetto, io proporrei questa soppressione, tanto più che l’ultimo comma dell’articolo 1 stabilisce che la trattativa privata può essere autorizzata in ogni caso dal prefetto, quando ricorrano circostanze eccezionali e ne sia evidente la necessità o la convenienza.

È vero che anche nelle forme dell’asta pubblica e della licitazione privata sono possibili le preordinazioni maliziose fraudolenti; ma c’è questo di diverso, che nelle licitazioni private e nell’asta pubblica le preordinazioni possono essere imputabili a coloro i quali sono chiamati a concorrere alla contrattazione, senza ingerenza dell’amministratore; mentre nella trattativa privata il sospetto e il discredito possono colpire principalmente l’amministratore, perché è da lui che proviene l’indicazione, la designazione, la scelta dell’unico partecipante alla trattativa. Perciò io insisto nel mio emendamento.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

CARBONI, Relatore. La Commissione, pur considerando apprezzabili le ragioni esposte dall’onorevole Caroleo, è dell’opinione che sia opportuno mantenere l’istituto della trattativa privata. Chi ha esperienza di vita amministrativa sa che in taluni casi è indispensabile ricorrere alla trattativa privata.

D’altra parte, il disegno di legge – che ripete la disposizione della legge del 1915; e per quanto io ne sappia, gravi inconvenienti non si sono frequentemente verificati – mantiene la trattativa privata in limiti molto più modesti della licitazione privata. Il pensiero dell’onorevole Caroleo, del resto, è contradetto dall’onorevole Bubbio, il quale invece vorrebbe che la trattativa privata per certi determinati acquisti fosse consentita senza limitazioni.

La Commissione perciò non accetta l’emendamento Caroleo.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Ho chiesto la parola, perché a me sembra che l’emendamento Caroleo risponda ad un criterio molto opportuno. Se abbiamo accettato l’emendamento Preti-Villani che aumenta le aliquote del limite massimo degli appalti, evidentemente noi avremmo che un appalto di un milione e cinquecentomila lire, cioè un appalto notevole – e sarà più notevole se la lira sarà rivalutata – potrebbe per metà della cifra, cioè per 750 mila lire, essere assegnato mediante trattativa privata.

Ora, noi sappiamo, specialmente nei piccoli comuni, a quali inconvenienti gravissimi dà luogo la trattativa privata. Siccome c’è la valvola di sicurezza dell’ultimo capoverso che consente sempre la trattativa privata quando ricorrono circostanze eccezionali e sia evidente la necessità della convenienza a farla, non credo che dobbiamo dare la via libera alle trattative private tutte le volte che si arriva alla metà della somma stabilita dall’articolo stesso. Quindi, pregherei i colleghi di approvare l’emendamento.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo di esprimere il suo parere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo si rimette all’Assemblea.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento dell’onorevole Caroleo, non accettato dalla Commissione, di sopprimere il terz’ultimo comma dell’articolo 1.

(È approvato).

Passiamo ora all’emendamento presentato dell’onorevole Bubbio, di cui è già stata data lettura.

L’onorevole Bubbio ha facoltà di svolgerlo.

BUBBIO. Chiunque abbia qualche pratica di amministrazione può riconoscere che nei comuni ricorrono frequentemente e periodicamente i casi di forniture di generi di consumo che debbono essere fatte di volta in volta ai prezzi correnti, con conseguente impossibilità di ricorrere alla licitazione privata e all’asta pubblica. Per esempio, un comune, che debba acquistare il pane pel suo convitto civico, non può ricorrere alla licitazione privata o peggio ancora all’asta pubblica, con tutte le formalità e le complicazioni relative, trattandosi di genere il cui prezzo è ufficiale.

Non mi si risponda che si potrà in tali casi ricorrere alla trattativa privata, mediante la autorizzazione prefettizia, giacché l’ultimo capoverso dell’articolo 1 del disegno di legge richiede che ricorrano circostanze eccezionali e ne sia evidente la necessità o la convenienza; due elementi, che invece non ricorrono nella fattispecie, in cui è vero il contrario, e cioè la normalità e la frequenza per l’ente di addivenire a siffatte forniture.

Un sindaco mi diceva ieri che in tali casi egli non prende alcuna deliberazione, il che è certo contro legge. Se noi vogliamo essere realisti, dobbiamo ammettere che in queste fattispecie, in cui si tratta di derrate di consumo, le quali abbiano un prezzo ufficiale desumibile da bollettini o mercuriali o quando l’acquisto sia limitato al periodo di un quadrimestre, ope legis, il comune possa fare gli acquisti a trattativa privata.

Coi tre requisiti predetti non ci può essere pericolo di sconfinamento e resta attuata la massima garanzia.

Col valore attuale della lira, anche un comune di limitata importanza per acquistare la legna per i suoi propri uffici, per un mese o due, supera il limite di cui al disegno di legge; quindi non si dovrebbe ostacolare questa innovazione che risponde a criterio di assoluta praticità.

È vero che, con l’emendamento Preti, il minimo è stato discretamente elevato, ma tuttavia non è ancora sufficiente per i casi esaminati, per i quali occorrono celerità e facilità di deliberazione, senza eccessive formalità.

Il concetto mio si inspira al principio dell’autonomia, e gli amministratori comunali, che hanno un senso di responsabilità, sapranno fare saggio uso di questa eventuale facoltà, nei casi ben determinati e ben precisati. Quindi insisto sull’emendamento.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

CARBONI, Relatore. La Commissione rileva che non vi dovrebbe essere bisogno di interloquire dopo che l’Assemblea ha voluto abolire l’istituto della trattativa privata. L’Assemblea ha considerato che l’istituto della trattativa privata non sia da mantenere, mentre invece l’emendamento Bubbio vorrebbe estendere la iniziativa privata senza limite, senza neppure quei limiti per i quali il disegno di legge l’ammetteva.

Quello che è il pericolo temuto dall’onorevole Bubbio, può, del resto, essere eliminato coll’applicazione dell’ultimo comma dell’attuale articolo 87, dove, come richiamava l’onorevole Persico, può essere autorizzata la trattativa privata, allorché ricorrano circostanze eccezionali e ne sia evidente la necessità o la convenienza.

BUBBIO. Non è così.

CARBONI, Relatore. La Commissione pensa che possa ricorrersi all’applicazione di questo ultimo comma per le ragioni già esposte e pertanto crede che non sia da accettare l’emendamento Bubbio.

PRESIDENTE. Invito il Governo a esprimere il suo parere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Credo anch’io che l’Assemblea non possa, per coerenza, che respingere l’emendamento.

PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Bubbio, non accettato né dalla Commissione, né dal Governo.

(Non è approvato).

BASILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa?

BASILE. Trovo che dopo la votazione che abbiamo fatto ora e quella precedente, se noi approvassimo l’articolo 1, così come è stato proposto, vi sarebbe una incongruenza, perché noi abbiamo voluto evitare che i Prefetti potessero consentire licitazioni private prima che siano esperiti pubblici incanti ed abbiamo autorizzato la trattativa privata allorché ricorrano circostanze eccezionali.

PRESIDENTE. Questa parte dell’articolo è rimasta. È stato sostituito soltanto il terz’ultimo comma.

BASILE. Ora, il primo comma dell’articolo 1 dice che i contratti dei comuni riguardanti alienazioni, acquisti, appalti, ecc., di regola devono essere preceduti da pubblici incanti. «Di regola», che cosa significa? che si potrebbe dire sempre: questa volta no, lo faremo la prossima volta.

Oggi non si fa credito, domani sì. In altri termini, questa formula sarebbe una scappatoia, darebbe la possibilità che un’amministrazione comunale si sottraesse, negli affari più importanti, all’obbligo – che è garanzia di moralità – dell’asta pubblica che deve essere sempre osservato.

Propongo pertanto, il seguente emendamento:

«All’articolo 1, comma primo, dopo le parole: appalti di opere devono, sopprimere le parole: di regola.

PRESIDENTE. Qual è il parere della Commissione su questa proposta?

CARBONI, Relatore. Le due parole «di regola» del primo comma dell’articolo sono necessarie, perché nel secondo comma si prevede l’eccezione, che è quella della licitazione privata.

Di regola si deve procedere ai pubblici incanti stabiliti nel primo comma; eccezionalmente alla licitazione privata prevista nel secondo comma. Se si abolissero le parole «di regola», faremmo una disposizione contradittoria, perché stabiliremmo nel primo comma l’obbligatorietà dell’asta pubblica, mentre, col secondo comma, ammettiamo la possibilità della licitazione privata.

BASILE. Già, è il contrario: distruggete la norma e lasciate le eccezioni?

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Fuschini. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Noi insistiamo nella nostra proposta e siamo contrari all’emendamento Basile.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Molinelli. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Anche noi siamo contrari all’emendamento Basile.

PRESIDENTE. L’onorevole Basile mantiene il suo emendamento?

BASILE. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Basile.

(Non è approvato).

Passiamo alla votazione dell’articolo 1.

Gli onorevoli colleghi tengano presente che è stato approvato l’emendamento Mannironi, che ha sostituito le lettere a) e b) del testo della Commissione. Ricordo che è stato approvato l’emendamento Caroleo per la soppressione del terz’ultimo comma. Ora si tratta di coordinare l’emendamento Meda-Fuschini con l’emendamento Preti e Villani, nel senso di sostituire le cifre proposte dagli onorevoli Preti e Villani a quelle dell’emendamento Meda-Fuschini.

In base a questo coordinamento, e tenendo conto degli emendamenti Mannironi e Caroleo, già approvati, l’articolo 1 risulta così formulato:

«L’articolo 87 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, è abrogato e sostituito dal seguente:

«I contratti di comuni riguardanti alienazioni, locazioni, acquisti, somministrazioni od appalti di opere devono di. regola essere preceduti da pubblici incanti con le forme stabilite pei contratti dello Stato.

«È consentito di provvedere mediante licitazione privata:

  1. a) per i comuni con popolazione superiore ai 500.000 abitanti quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 2.500.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 500.000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili se il canone complessivo non superi le lire 2.500.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. b) per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti o che, pur non avendo popolazione superiore ai 100.000 abitanti, siano capoluoghi di provincia, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 1.500.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 250.000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 1.500.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. c) per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 750.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 150.000 ed il comune non resti obbligato oltre cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazioni di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non superi le lire 750.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni;

  1. d) per gli altri comuni con popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, quando si tratti:

1°) di contratti il cui valore complessivo e giustificato non ecceda le lire 400.000;

2°) di spesa che non superi annualmente le lire 75.000 ed il comune non resti obbligato oltre i cinque anni, sempre che per lo stesso oggetto non vi sia altro contratto, computato il quale si oltrepassi il limite anzidetto;

3°) di locazione di fondi rustici, fabbricati od altri immobili, se il canone complessivo non ecceda le lire 400.000 e la durata del contratto non ecceda i nove anni.

«Anche all’infuori dei casi previsti nel comma 2°, il Prefetto può consentire che i contratti seguano a licitazione privata, quando tale forma di appalto risulti più vantaggiosa per l’Amministrazione.

«Può anche autorizzare la trattativa privata allorché ricorrano circostanze eccezionali e ne siano evidenti la necessità e la convenienza».

Chiedo alla Commissione e al Governò di dichiarare se accettano la formulazione dell’articolo 1, così come è stata letta.

CARBONI, Relatore. La Commissione ha già dichiarato di accettare l’emendamento Meda-Fuschini, aggiornato nei valori con quello Preti-Villani.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo accetta i valori indicati nell’emendamento Meda-Fuschini, ma quelli indicati nell’emendamento Preti-Villani gli sembrano eccessivi.

Devo pregare l’Assemblea di tener conto della realtà obiettiva. Per quanto la svalutazione della moneta possa giustificare prezzi così elevati, qui si tratta di contratti molto alti. Allo stato delle cose, personalmente, sarei contrario.

CARBONI, Relatore. Il rapporto tra i valori indicati nell’emendamento Preti-Villani e quelli della legge vigente è di uno a venti, e quindi credo che corrisponda con sufficiente approssimazione, se mai in difetto, al rapporto tra la lira attuale e quella d’anteguerra.

FUSCHINI. Vorrei far rilevare all’Assemblea che con la soppressione del terz’ultimo comma, per cui non si può procedere alla trattativa privata quando il valore complessivo dei contratti non ecceda, per le singole classi di comuni, la metà delle cifre indicate nei comuni in esame, mi pare che si possano accettare i valori proposti dagli onorevoli Preti e Villani. Noi abbiamo avuto la preoccupazione che fosse in vigore ancora la possibilità di arrivare alla trattativa privata per i contratti e per gli acquisti che erano inferiori alla metà delle cifre indicate nell’articolo. È peraltro da osservare che la trattativa privata sarà concessa soltanto con le garanzie stabilite dalla legge.

PRESIDENTE. Pongo ai voti l’emendamento proposto dagli onorevoli Meda e Fuschini, con gli aggiornamenti di cifre proposti dagli onorevoli Preti e Villani.

(È approvato).

Pongo ai voti l’articolo 1, nel suo complesso, con tutti gli emendamenti approvati, nella formulazione di cui ho già dato lettura.

(È approvato).

Passiamo ora all’articolo 2:

«L’articolo 88 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Sono comunicati al Consiglio di Prefettura, per il parere, i progetti di contratto da stipularsi dai comuni quando superino le lire 1.000.000 per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti; le lire 600.000 per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti o che, pur avendo popolazione non superiore ai 20.000 abitanti, siano capoluoghi di provincia; le lire 300.000 per gli altri comuni con popolazione non superiore ai 20.000 abitanti.

«Il Consiglio di Prefettura dà il suo parere tanto sulla regolarità del progetto, quanto sulla convenienza amministrativa».

È stato presentato dall’onorevole Mannironi il seguente emendamento:

Sostituirlo con il seguente:

«L’articolo 88 del testo unico è abrogato».

L’onorevole Mannironi mantiene questo emendamento?

MANNIRONI. Lo mantengo e desidero dirne le ragioni.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MANNIRONI. Sono d’accordo con coloro i quali hanno ritenuto che questo disegno di legge non consente eccessive innovazioni e radicali modificazioni della legge comunale e provinciale, perché penso che tutta questa materia debba essere rifusa e vista in un insieme organico per cui la riforma debba essere totale e tempestiva. Però ritengo che, mentre alcune modificazioni si stanno apportando, col disegno di legge in esame, sia opportuno arrivare anche qui ad una innovazione che mi sembra essenziale, fondamentale, se vogliamo snellire le amministrazioni comunali e se vogliamo ridare ad esse maggiore libertà ed autonomia.

L’articolo 88 della legge comunale e provinciale prevede che i progetti di alcuni contratti che hanno un certo limite di valore debbono essere sottoposti all’approvazione del Consiglio di prefettura. Al riguardo faccio rilevare che l’esame del Consiglio di prefettura è un doppione rispetto a quello della Giunta provinciale amministrativa. Il Consiglio di prefettura è composto solamente di impiegati di prefettura, completamente ligi alla volontà del Prefetto. Ora, quando noi invece sottoponiamo – com’è previsto e disposto in altro articolo della legge – questi contratti all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa, abbiamo tutte le garanzie necessarie perché i contratti stessi siano esaminati e controllati seriamente. Quindi mi pare che noi realizziamo una notevole economia di lavoro e di tempo.

Faccio rilevare all’Assemblea che tutti i contratti di una certa importanza, per l’articolo 99 del testo unico, sono sottoposti alla Giunta provinciale amministrativa che esprime un giudizio giuridico, tecnico ed amministrativo. Ora, se il giudizio è dato da questo organismo più completo che dà maggiori garanzie anche perché comprende membri elettivi, non vi è ragione per richiedere anche l’esame del Consiglio di prefettura che d’altronde si limita ad esprimere un semplice parere. Tale parere può ritenersi del tutto superfluo di fronte al giudizio pieno di merito che ne dà la Giunta provinciale amministrativa, della quale, del resto, fanno parte in genere gli stessi funzionari del Consiglio di prefettura.

Per tali motivi io proporrei senz’altro l’abolizione di questo articolo 88.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Non mi sembra che sopprimere l’articolo 88 giovi all’economia della legge, perché c’è un equivoco in quello che ha detto l’onorevole Mannironi: infatti non è richiesta l’approvazione del Consiglio di prefettura, che invece dà soltanto un parere sulla regolarità e la convenienza dei contratti. L’approvazione spetta poi alla Giunta provinciale amministrativa.

E che male c’è a sentire questo parere, non obbligatorio e non vincolante? Si potrà discutere sui limiti del contratto e sul progetto di spese, e sarà anche bene accettare le modifiche proposte dagli onorevoli Meda e Fuschini per gli aumenti in relazione all’adeguamento del valore della moneta. Ma, ripeto, non c’è ragione di sottrarre queste deliberazioni ad un semplice parere che, pur non essendo vincolante, può mettere in rilievo degli eventuali errori tecnici o amministrativi.

BOVETTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOVETTI. Desidero insistere sull’emendamento Mannironi. Chi abbia pratica di vita amministrativa sa che i Consigli di prefettura non hanno mai funzionato. È un organo pleonastico: significherebbe ora dar vita a funzioni e ad un organo che sono strettamente legati e subordinati al potere esecutivo.

PERSICO. I Consigli di prefettura possono funzionare ottimamente, se il prefetto li sa far funzionare.

BOVETTI. Nella maggior parte delle provincie non hanno mai funzionato. Ora a me pare che l’approvazione della Giunta provinciale amministrativa sia una garanzia più che sufficiente. Accettando invece il mantenimento della formula proposta dalla Commissione noi verremmo a creare un notevole intralcio all’esecuzione di queste opere che devono essere compiute con la maggiore sollecitudine. Mi associo quindi all’emendamento Mannironi.

MOLINELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. A nome del Gruppo comunista dichiaro che voteremo a favore dell’emendamento Mannironi.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Vorrei far presente agli onorevoli colleghi e alla Commissione che mi pare che la proposta dell’onorevole Mannironi riguardi una modificazione che noi, in linea di massima, potremmo accettare se fossimo in sede di riforma totale sui controlli preventivi e consuntivi dell’amministrazione dei comuni.

Questo problema dei controlli è gravissimo ed io credo che debba essere ristudiato completamente; ma noi non possiamo smontare, di un sistema, una piccola ruota, anche se questa piccola ruota potrebbe, in questo momento, esser messa da parte. Il controllo preventivo sui progetti deve essere un controllo preventivo di merito anche sulla convenienza o meno.

Una voce al centro. Quel controllo lo fa la Giunta.

FUSCHINI. Noi creeremmo un disordine amministrativo che sarebbe oltremodo grave. Noi faremo la legge con concetti completamente nuovi; non possiamo perciò incominciare con lo smontare un sistema di controlli, finché non ne avremo trovato un altro che potremo esser sicuri che andrà bene.

Mi oppongo quindi personalmente alla soppressione dell’articolo 88 proposta dall’amico onorevole Mannironi. Nell’articolo 88 si fa, in sostanza, un adeguamento di cifre adeguato alla svalutazione monetaria.

PRESIDENTE. Invito la Commissione e il Governo ad esprimere il loro avviso al riguardo.

CARBONI, Relatore. La Commissione si rimette all’Assemblea.

SCELBA, Ministro dell’interno. A me pare che l’onorevole Mannironi abbia accennato al fatto che questo controllo rappresenta un intralcio all’attività dei comuni. Credo che questo intralcio si possa superare accettando l’emendamento dell’onorevole Dozza, il quale fissa un termine al parere del Consiglio di prefettura, nel limite di venti giorni.

Stabilendo tale termine, avremmo tolto la possibilità di allungare notevolmente queste pratiche, mantenendo un controllo che, di per sé, può essere molto utile, soprattutto in questo momento, di vita caotica dell’amministrazione, data la stessa impreparazione degli uomini chiamati alla vita amministrativa.

Io credo, pertanto, che in questo momento si possa mantenere tale controllo, salvo ad esaminare, in un momento successivo, la possibilità della sua totale, abrogazione.

Ripeto, comunque, che l’argomentazione su cui l’onorevole Mannironi poggia il suo emendamento viene superata dall’emendamento dell’onorevole Dozza che io accetterei, stabilendo il termine di venti giorni al Consiglio di prefettura per l’espressione del proprio parere.

In questo senso sono contrario all’emendamento dell’onorevole Mannironi.

CAMANGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Aderisco all’emendamento dell’onorevole Mannironi, per le ragioni di carattere pratico che sono state già abbondantemente illustrate, ma anche per altre ragioni che mi permetto di sottoporre all’attenzione degli onorevoli colleghi.

Io credo che, se veramente vogliamo fare dell’autonomismo e della democrazia, bisogna incominciare a dare ai nostri amministratori il senso di responsabilità derivante soltanto dal senso della propria autonomia.

Finché noi metteremo infatti gli amministratori nella condizione di spirito di dover sempre, anche preventivamente, chiedere il parere e il permesso dei superiori, questo senso democratico non lo faremo mai nascere e sviluppare negli amministratori locali.

È sotto questo punto di vista che insisto sull’emendamento dell’onorevole Mannironi, sorprendendomi lo strano autonomismo del collega onorevole Persico, il quale invece tende sensibilmente a sottoporre gli amministratori locali al parere preventivo in tutte le loro azioni.

PRESIDENTE. Devo ora mettere ai voti l’emendamento Mannironi, che propone la soppressione dell’articolo 88 del testo unico.

MOLINELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Ho presentato un emendamento, che porta la firma dell’onorevole Dozza e di altri; quello dell’onorevole Mannironi assorbe il nostro, in quanto toglie anche i 20 giorni proposti nel nostro emendamento per l’approvazione del Consiglio di prefettura.

Quindi, noi voteremo pregiudizialmente l’emendamento Mannironi, salvo ad insistere sul nostro, qualora non fosse approvato.

PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Mannironi.

(È approvato).

S’intende allora ritirato il seguente emendamento:

Sostituire l’articolo 2 col seguente:

L’articolo 88 del testo unico predetto è abrogato e sostituito dal seguente:

«Sono comunicati al Consiglio di prefettura, per il parere, i progetti di contratto da stipularsi dai comuni, quando superino le lire 5.000.000 per i comuni con popolazione superiore ai 500.000 abitanti, le lire 2.000.000 per i comuni con popolazione superiore ai 100.000 abitanti; le lire 1.000.000 per i comuni con popolazione superiore ai 20.000 e non ai 100.000 abitanti, o che pur avendo popolazione non superiore ai 20.000 abitanti siano capoluoghi di provincia; le lire 500.000 per gli altri comuni con popolazione non superiore ai 20.000 abitanti.

«Entro venti giorni dal ricevimento il Consiglio di Prefettura dà il suo parere sulla regolarità del progetto».

Dozza, Molinelli, Platone, Ravagnan, Ruggeri.

Il seguito della discussione è rinviato alla seduta antimeridiana di sabato 22, alle ore 10.

Presentazione di una relazione.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Camposarcuno a recarsi alla tribuna per presentare una relazione.

CAMPOSARCUNO. Ho l’onore di presentare all’Assemblea la relazione della Prima Commissione permanente legislativa in merito a tre disegni di legge presentati dal Ministro della giustizia onorevole Gullo, cioè:

«Modificazioni al regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 560, relativo alla riforma dell’ordinamento delle Corti di assise»;

«Norme complementari al regio decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 560, relativo alla riforma dell’ordinamento delle Corti di assise»;

«Procedura per i reati di competenza della Corte di assise».

PRESIDENTE. Questa relazione sarà stampata e distribuita.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Ieri il Governo ha presentato direttamente all’Assemblea, a norma dell’articolo 3 del decreto 16 marzo 1946, tre disegni di legge di carattere costituzionale.

Per questi, come per altri della stessa natura, che potessero essere presentati in seguito, l’esame preliminare e la relazione potrebbero essere affidati alla Commissione per la Costituzione, anche per il necessario coordinamento.

Se non vi sono osservazioni, così rimarrà stabilito.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni con richieste d’urgenza.

SILIPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SILIPO. Ho presentato una interrogazione al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, riguardante la città di Crotone in provincia di Catanzaro ed avente carattere di estrema urgenza. Il Governo si è riservato di dare una risposta. Desidererei sapere quando il Governo è disposto a rispondere, data la situazione insostenibile che si è determinata in quella città.

MANCINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MANCINI. Ho presentato anch’io un’interrogazione sullo stesso argomento. Sono passati ormai quattro giorni e desidererei sapere quando il Governo intende rispondere. Si tratta di piroscafi di grano, che non arrivano mai, tanto è vero che le popolazioni hanno fermato i treni, dando l’assalto alle merci. Ed il Governo tace su questo, come tace su tutto ciò che riguarda il Mezzogiorno.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA. Ministro dell’interno. Il Governo risponderà nella seduta antimeridiana di sabato 22.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri (Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica) e il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritengano necessario, anzi indispensabile, l’istituzione di un Sanatorio antitubercolare nella provincia di Reggio Calabria, dove, per carenza di tale istituto, gli ammalati di tubercolosi sono costretti ad andare lontano dalle proprie famiglie, in altre provincie, con grave dispendio economico per la povera gente, fra cui la tubercolosi è più diffusa, con grave sofferenza morale per i familiari, obbligati a rimanere lontani, nei momenti in cui si richiede l’assistenza affettiva e morale dell’ammalato e con grave pregiudizio della sanità pubblica, in quanto molti affetti da tubercolosi rifiutano il ricovero per le ragioni suesposte.

«L’interrogante ricorda che il Comitato provinciale della Croce Rossa di Reggio Calabria ebbe a presentare istanza, in tal senso, all’Alto Commissariato per la sanità pubblica e che questi, accoltala, si fermò davanti ad ostacoli di carattere economico: ostacoli che l’interrogante ritiene invece superabili, perché esistono edifici militari, ormai disponibili, e riattatoli allo scopo e che, in ogni modo, una spesa fatta per ragioni di interesse pubblico, a favore di classi povere, non è mai onerosa per le ragioni sociali che la consigliano.

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non ritiene doveroso per lo Stato incoraggiare la trasformazione agraria, che, in questi ultimi mesi, è in pieno fervore, specie nella Calabria e particolarmente nella provincia di Reggio Calabria, mercé la concessione di contributi dati in base al decreto 1° luglio 1946, n. 32, per miglioramenti agrari, con l’assegnare a ciascun Ispettorato provinciale agrario, in proporzione del successo ottenuto precedentemente, maggiori fondi di quelli finora concessi e che si appalesarono assolutamente insufficienti, date le numerose richieste di coltivatori diretti e piccoli agricoltori.

«L’interrogante fa rilevare che la concessione dei contributi ai miglioramenti agrari, nella forma in cui è stata attuata, e cioè debitamente controllata e sorvegliata, ha risposto in pieno alle aspettative, sia per il sollievo della disoccupazione, sia per la grande utilità che deriva direttamente all’economia rurale e, indirettamente, alla ricostruzione economica nazionale.

«Musolino».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti urgenti intenda adottare per venire incontro ai giusti desiderata dei Vigili del fuoco, vale a dire di una delle categorie di lavoratori maggiormente benemerita, in mezzo alla quale esiste in questo momento un vivo fermento a causa delle gravi insopportabili condizioni in cui versa in questo periodo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montagnana Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se, tenendo presente che l’annessione degli Istituti superiori di magistero alle Università come Facoltà, si verificò senza modificare in alcun punto l’ordinamento di tali Istituti, non ritenga equo ed opportuno riconoscere il titolo di dottore a quanti conseguirono il diploma di magistero in lettere o filosofia presso quegli Istituti in epoca precedente all’annessione di cui sopra: provvedimento quanto mai necessario, che si richiama ad un precedente in materia di concessione del titolo dottorale agli ingegneri, che venne esteso anche a tutti coloro che avessero completato gli studi di ingegneria in epoca precedente al provvedimento legislativo in merito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario dell’alimentazione, per sapere se loro consta che alcune provincie, fra le quali Mantova, Verona e Venezia, contravvengono scandalosamente agli ordini di consegna di cereali e cruscami alla provincia di Trento, trattenendo per sé le quote di germi e crusche dovute a quest’ultima provincia in relazione agli ordini d’assegnazione, e come intendano provvedere. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se intenda accelerare la trasformazione dei Consorzi agrari e dell’Ente «Aziende agrarie» di Trento in vere e proprie cooperative di agricoltori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Carbonari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, l’Alto Commissario dell’alimentazione, e il Ministro delle finanze e tesoro, per sapere se, in relazione alle difficoltà imposte dalle speciali disposizioni a suo tempo emanate circa la qualità del prodotto, ed ai ritardi nella distribuzione alla popolazione civile, a mezzo tessere, della marmellata confezionata nell’estate 1946 con zucchero di assegnazione sia nel Nord che nel Centro-Sud; ed in considerazione del fatto che tale marmellata messa a disposizione delle Sezioni provinciali dell’alimentazione, in parte fu da esse rifiutata, in parte restò invenduta, con la conseguenza che le ditte produttrici furono esposte a perdite ed oneri rilevanti; non ritengano di dover concedere, in tutto o in parte, e con le modalità che saranno considerate più idonee, l’esonero dal pagamento del sovraprezzo sullo zucchero, fissato dal Comitato interministeriale dei prezzi, in data 28 marzo 1946, rispettivamente in lire 71,85, per le aziende del Nord ed in lire 50, per le aziende del Centro-Sud, per ogni chilogrammo di zucchero assegnato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della marina mercantile, per conoscere per quali motivi molti ufficiali superiori della Marina militare, che, in seguito all’avvenuta riduzione degli organici hanno lasciato il servizio attivo, pur essendo in possesso di tutte le condizioni previste dalla legge vigente (articolo 64 del Codice marittimo), non abbiano ancora ottenuto, dopo mesi di reiterate e continue richieste, né il libretto, né la patente di grado nella Marina mercantile, quando tale ritardo ingiusto ed illegale porta detrimento non lieve ed ostacolo gravissimo a quanti sono in attesa di inserirsi nella vita civile in un campo di attività perfettamente aderente alle capacità e naturali esperienze acquisite, e dove, pertanto, la loro opera potrà sicuramente dare un utile e considerevole apporto alla ricostruzione nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quali urgenti provvedimenti intenda adottare a favore dei 4000 ex operai arsenalotti di La Spezia, che in seguito ad ordini ricevuti 1’8 settembre 1943, abbandonarono l’Arsenale e furono costretti ad allontanarsi dalla città per trovare temporaneamente altrove lavoro e sfuggire ai frequentissimi rastrellamenti compiuti nella zona, e che tuttora sono in attesa di essere riassunti, mentre i loro posti sono occupati da mano d’opera arbitrariamente assunta dagli allora C.N.L. di fabbrica, in assenza della regolare autorità militare marittima. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno inscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.25.

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 17 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXVI.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 17 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Benvenuti                                                                                                        

Treves                                                                                                              

Assennato                                                                                                        

Froggio                                                                                                            

Valiani                                                                                                             

Mancini                                                                                                            

Labriola                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

La sedata comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario. Legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole La Gravinese Nicola.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Benvenuti. Ne ha facoltà.

BENVENUTI. Onorevoli colleghi, rileggo il testo dell’emendamento che avrò l’onore di svolgere dinanzi all’Assemblea:

«Sostituire l’articolo 6 col seguente:

«La Repubblica riconosce e garantisce l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana come diritti naturali e inalienabili.

«Essa riconosce e garantisce altresì i diritti essenziali delle formazioni sociali in cui si svolge la personalità di ciascun uomo».

Premetto, onorevoli colleghi, che questo emendamento non rappresenta la presa di posizione di un partito; rappresenta la difesa di un patrimonio comune a tutti gli uomini liberi. Io levo la mia parola in difesa dei diritti naturali originari, inalienabili della persona umana. La mia difesa si riallaccia ad un’altra difesa dei diritti dell’uomo, svolta nel parlamento italiano. Dobbiamo risalire al novembre del 1925. Allora la stessa causa veniva sostenuta, non da un modesto Deputato, ma da un giurista insigne, da una splendida coscienza e da un inflessibile antifascista, il senatore Francesco Ruffini. È questa per me una ragione di conforto, in quanto conferma il mio convincimento di difendere una causa giusta. Riprendere la battaglia per i diritti dell’uomo è un dovere, data la formulazione dell’articolo 6 del testo costituzionale. Mi si consenta un richiamo ai precedenti della nostra discussione, discussione generale, e discussione della parte generale del progetto di Costituzione. Tutti gli oratori hanno rievocato le classiche dichiarazioni dei diritti dell’uomo; tutti le hanno considerate come acquisite al nostro patrimonio giuridico e morale; tutti hanno ritenuto che, dal 1700 in poi, noi abbiamo acquistato coscienza di nuovi diritti della persona umana, cioè di quelli che oggi noi chiamiamo i diritti sociali. Sostanzialmente, impostando il problema dei diritti sociali, noi abbiamo impostato nella Costituzione il problema della redenzione delle classi proletarie. Redemptio proletariorum. L’espressione non è mia, è di un grande pontefice. Essa significa che tutti gli uomini e in particolare tutti i cristiani (ed i cristiani non si esauriscono in una particolare formazione, poiché anzi il Messaggio cristiano vive e opera anche oltre i confini della Chiesa visibile) sono chiamati a collaborare alla creazione di un mondo nuovo è migliore ove regni la giustizia e la fraternità.

Per questo scopo, naturalmente, abbiamo dovuto procedere ad una specie di parziale demolizione del sistema del nostro diritto privato. Ciò abbiamo consacrato nel nostro progetto costituzionale: la proprietà vi è garantita, ma essa assomiglia ormai, più che ad un istituto di diritto privato, ad una cellula fondamentale d’una società solidaristica. E così procedendo il progetto costituzionale muove al superamento di altri ostacoli di diritto che potrebbero frapporsi alla realizzazione di un assetto nuovo. Ed ecco che un articolo autorizza dei limiti al diritto di proprietà, un altro parla della partecipazione dei lavoratori alla gestione delle aziende: e il tutto è coordinato verso un sistema di attuazioni di carattere sociale (lavoro, scuola, assistenza, ecc.), che potrà veramente mutare il volto delle società italiane.

E su tutto questo nessun disaccordo sostanziale è insorto. Vi sono è vero i problemi della formulazione. Quando, anziché limitarsi ad impedire allo Stato di invadere certe sfere inviolabili (come la libertà dei cittadini), ci si propone di ottenere dallo Stato l’esecuzione di certe posticce attività sociali, sorgono problemi delicati: problemi di rapporti fra potere legislativo e potere costituente, fra il programma sociale e l’attuale realtà economica. La buona volontà di tutti potrà superare questi problemi, e dal testo costituzionale potrà uscire un messaggio unanime di profonda, di intensa fraternità per tutti gli italiani.

Senonché, a me non è parso, ascoltando i varî oratori, che la formulazione di questa fase di diritti nuovi dovesse significare l’oblîo o la perdita, anche solo parziale, delle classiche libertà fondamentali, di quelli che si chiamano i diritti di libertà, proclamati nella seconda metà del 700 e formulati nelle famose dichiarazioni di diritti.

Senonché, leggendo il testo dell’articolo 6 si ha la sensazione precisa che tutta la sostanza della dichiarazione dei diritti sia andata radicalmente perduta. Infatti, onorevoli, colleghi, basta leggere l’articolo stesso per convincersene.

Qual era la sostanza delle vecchie dichiarazioni dei diritti? Era che i diritti fondamentali dell’uomo (libertà della persona, di coscienza, di espressione, di associazione, di partecipazione alla vita politica) venivano proclamati come diritti originari della persona umana, non conferiti dallo Stato, indipendenti dal diritto dello Stato, indipendenti dallo Stato come fonte di diritto.

Ecco perché allora furono chiamati diritti naturali.

Di tutto questo, onorevoli colleghi, non c’è più traccia nell’articolo 6, il quale garantisce i diritti essenziali degli individui, ma è tutt’altra cosa. Anche le costituzioni elargite dai sovrani del secolo scorso garantivano i diritti, ma non li riconoscevano.

Notasi bene che l’articolo usa bensì i termini «invidiabile e sacro», ma tutto è portato sul piano metafisico, astratto; tanto vero che, eccezione fatta per la famiglia e il lavoro, in tutti gli articoli nei quali è trattata la materia dei diritti non si usa mai il verbo «riconoscere». E la conferma di questa interpretazione la troviamo nel testo originario della Sottocommissione: dove la sostanza della dichiarazione era rimasta, perché si proclamava che la Costituzione «riconosce» e garantisce i «diritti inalienabili e sacri» dell’uomo come singolo e nelle formazioni sociali. Il testo originario conteneva dunque il riconoscimento dei diritti. La modificazione intervenuta sembra significare che non si è voluto riconoscere i diritti dell’uomo; ma si è voluta, soltanto una semplice, vaga enunciazione di principio.

Vogliano darmi venia gli onorevoli colleghi: io sono un fanatico dei diritti dell’uomo. Forse la parola fanatico non è appropriata alla serenità di questa Assemblea. Dirò allora che sono un romantico dei diritti dell’uomo, e permettete, colla vostra indulgenza, che io faccia risuonare in quest’Aula il testo delle antiche, delle classiche dichiarazioni dei diritti dell’uomo di quei documenti venerandi, augusti, che hanno creato la storia e commosso tanti cuori.

La Costituzione americana dei 13 Stati dice: «Noi consideriamo come incontestabile ed evidente la seguente verità, che tutti gli uomini sono stati creati uguali, dotati dal Creatore di certi diritti inalienabili, tra questi in primo luogo la vita, la libertà, la ricerca della felicità».

La Costituzione dello Stato di Virginia proclamava: «Tutti gli uomini sono di natura ugualmente liberi e indipendenti, e hanno alcuni diritti innati di cui, entrando nello stato di società, non possono privare o spogliare la loro personalità».

E negli articoli aggiuntiva della Costituzione federale si proclamava il concetto d’intangibilità dei diritti umani da parte del potere legislativo: «Il Congresso non farà legge alcuna per istituire una religione o per proibire o restringere la libertà di parola o il diritto del popolo di ordinarsi pacificamente».

Questi sono i testi fondamentali della Costituzione americana.

Passando poi alle dichiarazioni della Francia rivoluzionaria ritroviamo gli stessi concetti. «Il potere legislativo – stabilisce la Costituzione del 1791 – non potrà fare legge alcuna che porti attentato o metta ostacolo all’esercizio dei diritti naturali garantiti dalla Costituzione. Il Governo è costituito per garantire il godimento dei diritti naturali dell’uomo».

Onorevoli colleghi, di tutto questo non c’è più traccia nell’articolo 6. Anzi la storia dell’articolo dimostra che non si è voluto accedere al riconoscimento dei diritti dell’uomo come diritti originari e indipendenti dai poteri dello Stato.

Naturalmente, quando, dopo l’epoca rivoluzionaria, venne l’epoca del cesarismo, si spensero i diritti dell’uomo. Nella stessa Costituzione termidoriana, la dichiarazione dei diritti dell’uomo si attenua, è sommersa nella legislazione imperiale.

Risorge nel 1814, quando Luigi XVIII elargisce la nuova costituzione, la Costituzione «octroyée». In questa Costituzione i diritti dell’uomo sono garantiti, ma non riconosciuti nel loro valore e carattere originale. Tanto è vero, che quando nel 1830 sopravviene la monarchia di luglio, con la dichiarazione del 7 agosto 1830 la Camera dei Deputati pronunzia un voto perché venga abolito il preambolo della Carta costituzionale del 1814, ritenendo offensivo della dignità nazionale che venissero concessi ed elargiti ai francesi dei diritti che loro già appartenevano originariamente.

Vi chiedo, onorevoli colleghi, se la nostra sensibilità di uomini liberi debba essere inferiore a quella dei deputati francesi della Monarchia di luglio, o se non dobbiamo invece ritenere offensiva per la nostra dignità di uomini e di cittadini la formulazione dell’articolo 6, nella quale i diritti dell’uomo sembrano elargiti e non riconosciuti.

È proprio contro questa offesa ai diritti fondamentali che levò la sua parola, nel 1925, il senatore Francesco Ruffini. Allora, chi recalcitrava al riconoscimento dei diritti dell’uomo, come diritti originari e inalienabili, era il guardasigilli fascista onorevole Alfredo Rocco. E quella seduta è stata non soltanto uno scontro di due dottrine, ma di due uomini. Il senatore Ruffini polemizzò infatti personalmente col ministro Rocco, che a Perugia aveva pronunziato un discorso, contro il quale appunto il Ruffini insorgeva.

Anche la libertà – aveva detto Alfredo Rocco – è una concessione dello Stato; le libertà quindi, ove vengano riconosciute, non sono che un riflesso dei poteri dello Stato. Contro questa argomentazione di pura marca teutonica, il senatore Ruffini contrapponeva i diritti di libertà: egli contestava che i diritti di libertà potessero essere dei diritti riflessi di quelli dello Stato; e riaffermava solennemente l’intangibilità e l’imprescrittibilità dei diritti del cittadino, i quali scaturiscono dalla concezione più profonda e più moderna della dottrina dello Stato: il quale, prima di essere fonte di diritto, è ordinamento del diritto, di quel diritto che ha una sua origine autonoma.

Soltanto in un secondo tempo sopravviene la legge, come manifestazione secondaria e tardiva; e viene elaborata la norma scritta per opera dello Stato.

Questa era, onorevoli colleghi, la parola accorata del grande giurista, il quale lamentava allora che le vecchie screditate concezioni germaniche potessero tornare alla base del diritto costituzionale italiano. Oggi, onorevoli colleghi, di fronte alla trasformazione sostanziale del testo dell’articolo 6, dalla quale si rileva che si è espressamente voluto disconoscere i diritti dell’uomo come diritti originari indipendenti dallo Stato, viene fatto di chiedersi se il germanesimo, due volte sconfitto, non si annidi ancora nelle pieghe del nostro testo costituzionale, con le sue teorie liberticide e il suo fatale spirito di regresso.

È contro questa eventualità che io levo la mia parola, onorevoli colleghi. Possono sussistere dubbi giuridici circa l’ammissibilità dei diritti fondamentali dell’uomo come diritti autonomi, anziché come diritti dello Stato? Io non lo ritengo, onorevoli colleghi. Premetto che io credo nei diritti di natura: ciò fa parte della mia concezione cristiana e spiritualistica della vita, ma i diritti dell’uomo, come diritti precedenti a qualsiasi diritto codificato in qualsiasi Costituzione, emergono sul piano scientifico, sul piano della scienza del diritto, indipendentemente dalle concezioni del diritto naturale. Il concetto di diritto naturale ha questa caratteristica: basta dare una scorsa al diritto pubblico moderno per rendersene conto. La scienza del diritto pubblico, si può dire (press’a poco), dalla metà del secolo scorso ha dato battaglia contro il diritto naturale. Ma il diritto naturale scacciato dalla porta, è sempre regolarmente rientrato dalla finestra. Non vi nascondo, egregi colleghi, il mio stupore quando pochi giorni or sono ho sentito l’onorevole Orlando, il nostro così amato e insigne maestro, proclamare in quest’Aula: «Ma che cosa significa che la famiglia è un istituto di diritto naturale?». Io mi sono affrettato, onorevoli colleghi, a studiare la questione proprio sui testi dell’onorevole Orlando; e permettetemi che vi legga una considerazione contenuta in uno studio del 1933, intitolato: «Teorie giuridiche dello Stato». È da notare che opere ciclopiche come quella dell’onorevole Orlando possono presentare diverse maniere, proprio come i grandi pittori: può darsi che questa sia l’ultima maniera dell’onorevole Orlando. Comunque vi leggo il testo; allude espressamente alla famiglia. Scrive Orlando: «Nessuno può seriamente credere che se in Italia il padre ha il diritto e l’obbligo di educare la prole, ciò si debba agli articoli 225 e seguenti del Codice civile… Lo stesso deve dirsi in generale per tutto il diritto; e ciò importa che quando uno Stato positivo stabilisce il suo ordinamento, esso si muove entro limiti predeterminati dalle condizioni svariate e complesse della coscienza giuridica».

Qui, onorevoli colleghi, abbiamo la restaurazione del diritto naturale sulla forma positiva. Il concetto è evidente: prima dello Stato, indipendente dallo Stato, esiste un diritto acquisito dei cittadini, e della famiglia in particolare, che resiste al diritto dello Stato, di fronte al quale lo Stato non ha libertà di scelta; nel quale, quindi, il diritto dello Stato non può e non deve intervenire; e, ove lo faccia, lo farà in virtù della forza di coazione di cui è munito, ma violando il diritto. Non dimentichiamo, onorevoli colleghi, l’articolo 147 del Codice civile fascista, ove si diceva che l’educazione e la istruzione della prole devono essere conformi al sentimento nazionale fascista: il che significava che i genitori italiani, per essere in regola con la legge, dovevano educare i loro figliuoli a detestare la libertà e a servire l’oppressione. Queste sono le aberrazioni a cui può arrivare una legislazione, quando dimentichi che la famiglia è una società di diritto naturale.

Il concetto che il diritto naturale risorge in nuova forma nella scienza del diritto pubblico moderno è rilevato dallo stesso Orlando in altri casi, dove egli studia altri autori di diritto pubblico, i quali ripudiano il diritto naturale come introduzione del soprannaturale nella scienza, e poi ritornano a dire quello che le vecchie concezioni del diritto naturale già avevano rilevato, cioè che alla base della società e prima della società vi è una norma che regola le associazioni elementari dell’uomo e ne costituisce il diritto di fronte al quale lo Stato è originariamente limitato. Questo, è il concetto moderno e scientifico dei diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.

Naturalmente, onorevoli colleghi, anche in Germania si è verificato questo fenomeno: cioè, appena è sorto l’astro bismarckiano questo ha trovato, come tutte le tirannidi, i suoi filosofi, i suoi teorici e i suoi giuristi. Ed abbiamo tutta la scuola classica del diritto germanico, i grandi autori, che sostenevano che di diritti dell’uomo, dell’individuo, non c’è neppure da discutere; tanto che uno di tali autori si scandalizzava, perché il diritto penale italiano tutela la libertà dei culti, e sosteneva che non si potesse parlare di questo tipo di libertà. Intanto si emettono cambiali e si fondano società anonime, in quanto lo Stato crea la rispettiva legge, e i diritti della persona, e la libertà di culto, e tutte le libertà sono ammesse nello stesso senso, cioè in quanto esistono le relative leggi dello Stato.

Ma la stessa Germania è andata liberandosi da questi funesti principî, e già alla fine dell’altra guerra e durante il periodo della Repubblica di Weimar, queste concezioni statolatriche erano in declino. Naturalmente, risorta la dittatura, arrivato al potere Hitler, si è avuta l’esasperazione della statolatria germanica, Se scorrete il diritto pubblico nazista, vedrete che non soltanto non sono considerati i diritti della persona, ma per tale concezione, la persona isolata non esiste, esiste solo il diritto della comunità, il quale si riflette sulla persona.

Onorevoli colleghi, io vi chiedo se sia possibile che di fronte a questo problema, se cioè i diritti dell’uomo siano diritti originari o se debbano considerarsi come elargiti dallo Stato, la nostra Assemblea e il nostro testo costituzionale possano rimanere neutri.

In altre parole, tra l’emendamento proposto e il testo dell’articolo 6 come progettato, c’è la stessa distanza che esisteva fra la dottrina di Alfredo Rocco e la dottrina di Francesco Ruffini.

Riconosciamo che i diritti dell’uomo sono originari e non sono conferiti da questa Costituzione, o riteniamo che i diritti dell’uomo in tanto esistono in quanto esiste un testo positivo che li conferisce? Io non posso dubitare sulla scelta da parte dell’Assemblea a questo riguardo. In sostanza, noi cittadini dell’Italia libera, repubblicana, antifascista, non chiediamo la elargizione di una nuova Costituzione, di un nuovo Statuto, chiediamo che la Repubblica riconosca i nostri diritti come già a noi originariamente spettanti, e come diritti preesistenti allo Stato e non tali da trovare la loro fonte nella sua attività legislativa.

Notiamo poi l’assurdo di una Costituzione che concedesse ai cittadini italiani quei diritti di cui sono già titolari, in forza dello stesso diritto costituzionale positivo. Per ottenere i diritti fondamentali di libertà non abbiamo bisogno della nuova Costituzione.

Mi si consenta di rammentare il pensiero di Cavour, il quale fin dal marzo del 1848, in un articolo sul «Risorgimento», scriveva che i principî fondamentali stabiliti dallo Statuto dovevano considerarsi perpetui ed irrevocabili in questo senso: che quelle libertà potevano essere allargate, potenziate, meglio garantite, ma non mai limitate. Quindi, è in base al vecchio Statuto che i cittadini italiani hanno la facoltà di ritenere a sé acquistate le libertà fondamentali e di ritenersi lesi nel loro diritto acquisito qualora la Costituzione non riconosca loro ciò di cui sono già titolari.

Ma non è questo il problema: non è al diritto positivo che io mi rifaccio. Mi rifaccio ai principî: se i diritti di libertà sono stati concessi nel 1848 dal regno sardo e poi estesi a tutte le provincie annesse al Piemonte, oggi è la Repubblica che deve riconoscerli indipendentemente da qualsiasi concessione, come diritti nostri, intangibili, imprescrittibili ed inviolabili.

Ecco, onorevoli colleghi, lo spirito ed il concetto del mio emendamento. A questo punto il mio dire dovrebbe inoltrarsi in nuovi svolgimenti: dovrei cioè, rifacendomi a quanto ha proposto l’onorevole Calamandrei, illustrare la necessità di sottrarre a qualsiasi procedimento di revisione costituzionale i diritti fondamentali dell’uomo. Condivido pienamente quest’ordine di idee; ma non chiedo di svolgerlo qui, perché il tempo stringe, e questa non è ancora la sede opportuna.

Mi si consenta solo un’osservazione: non esitiamo, onorevoli colleghi, ad introdurre nella nostra Costituzione delle norme giuridiche nuove rispetto alle altre Costituzioni.

Permettete che vi rammenti quanto scriveva cinque o sei anni fa un grande maestro di diritto, il professore Francesco Carnelutti. Egli osservava che noi ci preoccupiamo, e giustamente, di estendere le nostre esportazioni: e rilevava in proposito che c’è una cosa che possiamo sempre esportare e che trova rispondenza nella nostra migliore tradizione: il diritto».

Onorevoli colleghi, affermiamo dunque i diritti dell’uomo, riconosciamoli, muniamoli di una tutela sempre più intensa ed efficace. Proclamiamo, coi nostri testi costituzionali, e soprattutto coll’esempio, dinanzi al mondo, i principî del vivere libero. Con questo non soltanto avrà la nostra giovane Repubblica restituita la persona umana, al posto che le compete, cioè al più alto gradino nella scala dei valori, ma avrà reso un nobilissimo servigio alla causa sacra dell’umana libertà. (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Fusco. Non essendo presente, s’intende che vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Treves. Ne ha facoltà.

TREVES. Onorevoli colleghi, forse non sarebbe soltanto un pedantesco ricordo di scuola inserire in questa discussione un precetto del Machiavelli, «quelle buone leggi e quelle buone armi» poste dal Fiorentino a fondamento di ogni vivere civile.

Ma io lo farò solo per dire quanto caduca sia la seconda parte del precetto machiavellico e come invece debbano rifulgere «le buone leggi» a dar vita e fondamento ad ogni ordinato vivere di cittadini. Specialmente questo precetto mi sembra valevole per noi, che in questa Aula cerchiamo appunto di creare quelle buone leggi su cui deve per sempre fondarsi la nostra nuova Repubblica italiana. Ma il ricordo machiavellico mi viene suggerito, per contrapposto alle buone armi, proprio da un articolo del progetto di Costituzione che ci sta di fronte, quell’articolo 4 su cui io vorrei soffermarmi un istante, l’articolo per cui appunto le buone leggi dovrebbero per sempre escludere il ricorso alle armi.

È un articolo, nel suo spirito almeno, cui noi attribuiamo un’importanza fondamentale. A noi sembra di vedere in esso – nel suo spirito, se non ancora nella sua lettera – uno dei fondamenti principali su cui costruire il nuovo edificio italiano.

Già l’articolo 4 ha dato luogo ad una discussione elevata ed interessante in questa Assemblea, già si sono manifestati alcuni dubbi, già si sono avute alcune proposte di revisione, di modificazione, di emendamenti, ed è su queste proposte, e soprattutto sullo spirito di esse e su questi emendamenti, che prima di entrare nel vivo dell’argomento io desidererei soffermarmi un istante.

L’onorevole Russo Perez, che mi dispiace di non vedere al suo banco, è stato forse l’unico che ha introdotto una nota discorde – non voglio certo dire una nota stonata – proponendo addirittura di sopprimere questo articolo, forse per la difficoltà in cui egli si era trovato di distinguere fra guerre giuste e guerre ingiuste.

Egli, in fondo, ci ha detto che sono giuste tutte le guerre che si vincono e sono ingiuste tutte le guerre che si perdono. Non vorrei, data appunto l’assenza dell’onorevole collega, discutere questa sua opinione, che evidentemente si presterebbe a parecchie considerazioni, e non voglio neanche che l’onorevole Russo Perez si affatichi a studiare dal Medioevo in poi tutte le opinioni avanzate da teologhi, da politici e da filosofi sulle guerre giuste e ingiuste.

Del resto, l’onorevole Russo Perez non ha forse molta speranza che la sua proposta di soppressione venga accettata, perché egli stesso, in via subordinata, ha proposto un emendamento, piuttosto generico, in cui si dice che l’Italia condanna il ricorso alle armi nelle controversie fra le nazioni. Noi ne apprezziamo senza dubbio lo spirito, ma la Costituzione non è una specie di libro della discrezione, una raccolta di precetti morali, per cui si condanna in astratto una determinata norma, un determinato modo di procedere. La Costituzione è la legge, anzi la legge fondamentale, che permette o non permette, e non giudica sulla bontà morale, sulla bontà in astratto di determinate norme.

Tuttavia l’opinione dell’onorevole Russo Perez è già un passo avanti su quella espressa dal suo collega di Gruppo, onorevole Bencivenga, che anche mi dispiace di non vedere in quel settore deserto che mi sta di fronte. L’onorevole Bencivenga è una nobile figura di soldato, ma ha portato qui nella sua analisi dell’articolo 4, collegato con altri articoli attinenti a materie militari, una mentalità appunto più da soldato che da legislatore, ed ha proposto, fra l’altro, la costituzione di un comitato di esperti militari e di altre specialità, per disciplinare tutta questa materia della Costituzione. È una proposta che, se fosse accolta, probabilmente ci farebbe rimanere qui parecchi anni e non solo fino al 25 giugno. E poi io vorrei, col permesso degli onorevoli colleghi e senza la minima irriverenza per l’onorevole Bencivenga, ricordare al valoroso soldato un motto, del resto molto noto, di un grande uomo politico francese, non di sinistra, il quale, durante l’altra guerra sosteneva che «la guerra è una cosa un po’ troppo seria per essere lasciata soltanto ai generali».

A noi preme quindi che questo argomento, che questo articolo della Costituzione, non sia specialmente affidato ai generali, ma se mai sia commesso alla coscienza civile di tutti i cittadini italiani. I generali spesso (sia detto, ancora una volta, senza la minima irriverenza personale per l’illustre collega che mi dispiace di non vedere qui) ragionano spesso della prossima guerra con la mentalità della guerra precedente e allora siamo veramente un po’ fuori tema.

Anche l’onorevole Crispo si è voluto occupare di questo articolo ed ha suggerito una modificazione che ci trova più vicini, più consenzienti. In sostanza, l’onorevole Crispo propone di ritornare alla grande tradizione costituzionale francese in materia. Ed il suo emendamento riproduce, se non nella forma, nella sostanza, l’articolo 46 del primo progetto costituzionale francese che ritroviamo nel preambolo della Costituzione della repubblica francese. È esattamente lo stesso concetto, anche se forse la formula francese è leggermente migliore, sia nell’espressione che nella icasticità, poiché meglio afferma il concetto che la Repubblica francese non impiegherà mai le sue forze contro la libertà di alcun popolo. È un concetto che ci piacerebbe di vedere affermato anche nella nostra Costituzione, perché purtroppo la storia recente prova che ci possono essere attentati alla libertà dei popoli anche senza giungere alla formale dichiarazione di guerra, e nei quali sono coinvolte le forze, anche se non legalmente le truppe di altri Stati.

Ma noi, onorevoli colleghi, vorremmo qualche cosa di più in questo articolo 4; vorremmo un’affermazione più decisa. Noi auspicheremmo che l’Italia desse l’esempio con questo articolo di quel futuro diritto internazionale, e ancor più direi, costume democratico internazionale, che desideriamo possa un giorno reggere un mondo migliore e più giusto. Vorremmo vedere nell’articolo 4 incorporato il principio che la Repubblica non ricorrerà alla guerra come strumento di risoluzione dei conflitti internazionali. Se l’articolo 4 ha un senso, effettivamente esso deve superare questa astratta formulazione che condanna le guerre di conquista, specialmente in questa situazione politica e generale, specialmente dopo quello che è successo in questi ultimi anni, la tragedia di cui siamo ancora tutti pervasi e di cui ancora tutti soffriamo le conseguenze.

Io credo che dobbiamo affermare un principio più positivo, un principio valevole per oggi e per domani. È un principio, signori, che a noi di questo settore è molto caro, perché, veramente, risponde a tutta una tradizione del nostro partito. È un principio che da questi scanni i nostri padri e maggiori hanno sostenuto e difeso sin da prima dell’altra guerra mondiale. È un principio a cui noi teniamo a rimanere fedeli. Non è, come ci si potrebbe obiettare, un principio utopistico. Non si sorrida di questa nostra fiducia nella collaborazione, nell’arbitrato internazionale, non si ripeta quella posizione che era una volta, non troppo tempo fa, così diffusa – quella posizione per cui si sorrideva di compatimento e di superiorità di fronte al briandismo al locarnismo e al ginevrismo – sì, sorrisi che ci hanno purtroppo portati a conclusioni amare.

In quest’articolo noi vorremmo che fosse dalla Repubblica codificato che la guerra non deve essere strumento di risoluzione dei conflitti internazionali, un principio che veramente risponde a quella che è l’essenza della nostra nuova democrazia, quella democrazia che è sorta non da spiriti imbelli, ma proprio al contrario – detesto di fare retorica – dal grande apporto della guerra partigiana.

Anche le obiezioni che potrebbero venire da alcuni internazionalisti – per il principio cioè della bilateralità – non ci spaventano troppo, perché, oltre il diritto, a noi sembra che debba esistere anche la moralità internazionale: un principio che vorremmo vedere nettamente affermato nella Carta costituzionale della Repubblica italiana.

Nella situazione internazionale in cui viviamo, in questo urto di blocchi giganteschi, in questo scatenarsi di sfiducia e di interessi reciproci, può essere un nobile compito, per noi italiani, proprio quello di parlare della ragione. E non si dica che con ciò si fa del donchisciottismo inutile; direi, se mai, signori, che così si applica il buon senso di Sancio Pancia, che è una cosa diversa.

Ma, sento già sorgere e ritorcersi contro di me un’altra frase machiavellica, poiché ho avuto l’imprudenza di nominare il Segretario fiorentino all’inizio di questo mio intervento: il timore cioè che da noi si suggerisca la figura, e quindi la fine, dei profeti disarmati. Ebbene, signori, anche a questo punto io credo che potremmo ricordare i venti anni durante i quali hanno dominato i cosiddetti profeti armati, profeti che non erano che profeti di menzogna ed armati, appunto, soltanto di menzogne, perché anche le millantate armi si sono fortunatamente spuntate contro l’armatura della coscienza civile del mondo. Su questo terreno dei profeti armati e dei profeti disarmati noi non parteggiamo né per gli uni né per gli altri; ma preferiamo parlare di cittadini veramente consci della loro funzione, in questo mondo in tumulto.

Non è disdicevole, nella nostra piena e riconquistata sovranità, io credo, di inserire questo principio di veramente illuminata democrazia nella nostra Carta fondamentale: principio, del resto, che mi sembra si compenetri perfettamente nella seconda parte dell’articolo 4, quella limitazione di sovranità necessaria, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, ad un’organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. In ogni modo, oltre la dizione formale, noi vorremmo che tale fosse lo spirito di questo articolo che sul limitare della nostra Carta costituzionale, deve dare veramente il senso e la spiegazione della coscienza profonda del nostro popolo. Vorremmo che esso fosse un’affermazione positiva sul piano internazionale e un’effettiva garanzia di pace, di quella pace, mi si perdoni ancora il ricordo scolastico, che un poeta italiano godeva sorgere con le ali candide dal sangue versato, ma senza saper rispondere all’angoscioso dubbio del «quando?». Ebbene, signori, forse, quando gli italiani, oltre che cittadini della Repubblica democratica dei lavoratori, si sentiranno anche effettivamente cittadini del mondo. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastino Gesumino. Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Assennato. Ne ha facoltà.

ASSENNATO. Onorevoli colleghi, desidero intrattenere brevemente l’Assemblea sugli articoli 3 e 4 del progetto di Costituzione. In realtà l’articolo 3 non si presta agevolmente a una discussione, in quanto che esso è stato approvato quasi all’unanimità dalla Commissione. Parmi però necessario sottolineare anche il fatto che l’articolo 3 sia stato approvato col pieno accordo di tutti, sia perché l’accordo va sempre in qualche modo celebrato, perché può determinare conseguenze utili anche per altre disposizioni, sia perché dopo 25 anni di dispregio di tutte le forme di solidarietà internazionale, di retorica, di supremazia di forze, di indifferenza verso forme di solidarietà, parmi che la dichiarazione formulata dall’articolo 3, contenente l’impegno di immettere nel proprio ordinamento giuridico interno le norme generalmente accettate dall’ordine giuridico internazionale, richieda una certa attenzione da parte dell’Assemblea per le conseguenze, anche di carattere pratico, che ne possono derivare, ma soprattutto per l’orientamento che deve generare nella educazione dei giovani.

Vi è qualche cosa di nuovo nell’articolo 3. Il diritto internazionale era concepito e lo è tutt’ora – non direi che si sia molto allontanato dalle forme originarie – come un complesso di norme giuridiche che determinano gli obblighi e i diritti delle classi dominanti, delle unità che compongono la comunità internazionale.

La rinunzia alla guerra, consacrata nell’articolo 4, non va intesa in senso pacifista assoluto, cioè nel senso di rinunzia al diritto ed al dovere di difesa del territorio, dell’indipendenza, della libertà, della Costituzione, ma come ripudio delle guerre di aggressione, di predominio, di compressione della libertà altrui.

Vi è nell’affermazione contenuta nell’articolo 4 qualcosa di nuovo, che, pur ripetendo formulazioni analoghe del Patto di Kellogg, della Costituzione di Weimar o di altre recenti, ha particolare significato per la nostra Costituzione, essendo stati, purtroppo, noi a fare uso ed abuso dell’elemento guerra nella vita tra i popoli. Il che mi porta a rievocare – e di questo dovrebbero prendere atto particolarmente alcuni, che vorrebbero riallacciarsi al passato – l’operato di Giolitti; il quale, ammaestrato dalla facilità con cui il sovrano era propenso ad apporre firme ad atti di dichiarazione di guerra, propose di riformare lo Statuto nel senso di togliere al sovrano la facoltà della dichiarazione di guerra; il che significa che egli, per la conoscenza dell’individuo, delle costumanze sue e della sua dinastia, aveva ben compreso quanto fosse pericoloso l’avere affidato le sorti del Paese a chi non si preoccupava di osservare le norme costituzionali, ma soltanto di trarre profitto dalla dichiarazione di guerra.

Questo non significa, però, che con grande entusiasmo si possa confidare nelle forze innovatrici di questo diritto internazionale, di cui nelle norme generali si fa cenno. Anzi, si potrebbe rievocare la favola di Fedro: Ovis et leo. Nella realtà il leo si fece capo di questa società e perdurano certamente gli elementi della favola di Fedro.

Vi sono, però, nuove correnti, che danno bene a sperare; e questa speranza è realizzata dal comune assenso d’ogni corrente nel dare il proprio voto ad un articolo così formulato.

Queste nuove correnti sono rappresentate dal fatto che nella comunità internazionale non sono presenti soltanto gli elementi che ho citati, ma ve ne sono altri: vi è una serie di Paesi socialisti, i quali portano all’ordinamento internazionale il tributo del loro ordinamento interno, poiché ogni ordinamento riflette la struttura della società di cui è espressione.

Questi Paesi socialisti portano nella comunità internazionale la voce delle classi lavoratrici; portano un tributo di nuova democrazia, di nuovi orientamenti, tanto è vero che deve essere stato accolto con plauso il tentativo, anche se non riuscito interamente, della Federazione mondiale dei sindacati di far parte dell’O.N.U., tentativo che se non è riuscito appieno, non è detto che per questo non abbia una certa influenza e non determini delle simpatie, non determini cioè un apporto maggiore di democrazia, con una più larga base che viene poi espressa nel nuovo ordinamento giuridico internazionale.

Vi è, naturalmente, negli articoli 3 e 4 del progetto un orientamento, una tendenza e un programma, tanto che forse ad alcuni sarebbe parso opportuno comprendere quella formulazione nel preambolo, come orientamento generico richiamato anche da altre Costituzioni, e con la significazione particolare per noi, dopo 20 anni di fascismo, di dare la certezza che la guerra non avrebbe fatto parte del nostro bagaglio politico, e che avremmo cercato di immettere nel nostro ordinamento quanto potevamo di meglio delle norme internazionali generalmente accettate.

Si è ritenuto meglio di procedere, non ad una formulazione generica, ma precisa, impegnativa che serva come programma, come tendenza, come orientamento. Certo queste norme non sono ancora ben consolidate nella coscienza dei popoli, e potranno trovare maggiore possibilità di successo quando i nuovi elementi che saranno immessi, nella vita internazionale potranno dare un maggiore apporto.

In un volume, che è un monumento elevato a se stesso, uno storico inglese, dopo aver parlato delle miserie e delle grandezze del nostro Risorgimento, conclude quella storia italiana, un po’ lontana ormai, affermando che all’Italia non è concesso di svolgere una politica internazionale di forza e una politica internazionale propria; ma ammonendo che essa però, se orientata verso una sana democrazia, può costituire in Europa l’elemento più decisivo ed importante per la vita pacifica del consorzio europeo.

Egli osservava, tuttavia, che questo compito richiedeva uomini più capaci, uomini del genio di Cavour.

A noi non interessa di indagare chi potrà essere quest’uomo, ma interessa di conoscere la corrente donde potrà venire questo nuovo contributo che l’Italia potrà dare certamente alla compagine internazionale.

Ebbene, esso non potrà provenire che dalle file del lavoro, della classe lavoratrice. È di lì, dalla più sana democrazia, che potrà venire un impulso maggiore per le opere di bene e di solidarietà. È dalle classi lavoratrici, nella loro marcia verso l’unica famiglia socialista, che potranno sorgere le fondamenta di una vita di pace e di tranquillità.

È per questo che il partito socialista dà la sua adesione incondizionata agli articoli 3 e 4, così come sono proposti nel progetto. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Froggio. Ne ha facoltà.

FROGGIO. Onorevoli colleghi, il nostro compito fondamentale, quali rappresentanti e in nome del popolo, è di dare la Costituzione al nostro Paese. Il mandato a noi conferito non è però un mandato generico: noi non possiamo dare una qualsiasi Costituzione, perché il popolo ha espresso in modo chiaro e preciso la sua volontà, specificandola in due direzioni. Ha dato un ordine quanto alla forma istituzionale: deve essere repubblica; ha dato un ordine quanto alla sostanza: deve essere democrazia.

E a me pare che queste due direttive abbiano uguale nobiltà e siano state circondate da uguale solennità. Hanno avuto entrambe pari solennità perché, se è vero che, quanto alla forma istituzionale, il popolo ha risposto con la solennità della manifestazione diretta del referendum, è pur vero, però, che, quanto alla sostanza, si è avuta l’unanimità assoluta.

Si è avuta unanimità assoluta, perché tutti i partiti si sono proclamati democratici ed hanno manifestato la volontà di costruire un sistema democratico. Il popolo dunque ha detto: do a voi, miei rappresentanti, la mia fiducia, perché voi facciate una democrazia.

E noi abbiamo sentito, e lo ha sentito la Commissione, che queste erano e sono le volontà fondamentali del popolo; lo ha sentito a tal punto che le ha segnate nelle prime parole di questo progetto della Carta costituzionale quando, nell’articolo primo, ha affermato e scritto: l’Italia è una Repubblica democratica.

Ma, nonostante queste specificazioni, nonostante queste due linee direttive, nonostante tutto ciò, noi non potremo fare, non dobbiamo fare una qualsiasi Costituzione repubblicana e democratica, perché la Costituzione non è un esercizio teorico, non è una costruzione ideale su un terreno ideale: è, e deve essere, qualche cosa di concreto; deve essere una costruzione solida; deve, ancor più, essere una creatura viva. Non solo, ma deve esser capace di dar la vita, perché la Costituzione è premessa di storia futura, inserita nella realtà presente, guidata dalla storia passata.

La nostra Costituzione su quale realtà presente sorge? Essa sorge in un momento particolare, unico nella storia del nostro popolo; sorge, dopo un’interruzione della continuità della vita democratica del nostro Paese. Sorge per restaurare. Non può far proseguire in una semplice continuazione di sviluppo, ma deve riconfermare, quasi fondare la democrazia in Italia.

Ma non ho detto che la nostra Costituzione sorga dopo una frattura della continuità della vita della democrazia: essa sorge soltanto dopo una interruzione, Una parentesi, perché, se frattura vi fosse stata, se la democrazia fosse morta in Italia, non avrebbe potuto risorgere, e il nostro popolo non potrebbe oggi ridare a se stesso la forma del reggimento democratico.

C’è una prova, una prova nobilissima, una prova plastica di tutto ciò, ed è, se mi permettete, onorevoli colleghi, la presenza della nostra generazione, della generazione dei giovanissimi. Perché in quest’Aula siedono uomini che hanno conosciuto la democrazia e hanno vissuto quando l’Italia si reggeva a democrazia; siedono uomini che hanno raggiunto la maturità del loro pensiero e del loro essere, quando l’Italia aveva già perduta la sua forma democratica; siedono uomini, giovanissimi, gli ultimi venuti, che sono nati o che stavano appena per nascere alla vita, alla vita cosciente, quando già l’Italia non aveva più un reggimento democratico.

Noi non abbiamo conosciuto prima cosa fosse democrazia, non abbiamo vissuto mai prima d’ora in un reggimento di libertà e di democrazia. Questa deve essere una prova, una conferma, ed insieme una ragione di speranza e di certezza. La democrazia andrà innanzi non solo perché lo spirito non muore – e non può morire – ma perché già i suoi portatori nuovi si avanzano, sotto la guida degli antichi, a continuarne la fatica e a completarne l’opera.

Ma – è un dato di fatto che si deve imporre alla nostra intelligenza pensosa e alla nostra coscienza vigile – questa Costituzione sorge dopo un’interruzione della vita della democrazia in Italia. Interruzione, perché? Perché è avvenuta? Cosa insegna, cosa narra la. storia recente e passata, che cosa dice a voi, che cosa dice a noi l’esperienza della vita vissuta? Dice che una democrazia ha sostanzialmente tre grandi pericoli contro di sé: la dittatura; là non realizzazione della democrazia; l’assenza del popolo.

E dunque, perché questa Costituzione, che noi siamo stati chiamati a comporre, possa essere veramente premessa di vita futura, occorre innanzitutto che essa sia ordinata in modo da impedire un’altra interruzione, che potrebbe essere una frattura, questa volta. Ecco ciò che mi pare debba essere la prima fondamentale preoccupazione: ordinarci in modo che dall’esperienza del passato la democrazia e la forma democratica e gli istituti in cui essa si regge siano garantiti contro i pericoli che l’esperienza e la storia indicano.

Gli articoli 6 e 7, come tutti gli articoli della Costituzione, devono concorrere a tale scopo. Ma io credo che questi articoli 6 e 7 non siano due articoli qualsiasi, ma siano il fondamento, la pietra angolare, come è stato detto, dell’ordinamento della nuova democrazia italiana. E allora la conclusione è questa: occorre che gli articoli 6 e 7 siano anche fondamento di presidio, basi di garanzia contro i pericoli che possano minacciare di morte la democrazia. E qual è il primo pericolo? È la dittatura: primo non soltanto in ordine cronologico, guardando all’indietro, ma primo per una sua intrinseca pericolosità; primo, perché la dittatura minaccia non una parte del bene, ma minaccia tutto il bene: minaccia di schiantare, quando trionfa, la democrazia.

È l’esperienza che ce lo insegna; lo insegna la storia, lo insegnano i ricordi. Se noi riportiamo la nostra mente e la nostra attenzione sull’idea della dittatura, non sorge in noi un concetto, con la definizione: definitio nominis – si perdoni una volta tanto un po’ di latino anche a un democristiano – ma sorgono in noi due sensazioni, due riflessi di stato d’animo: noi sentiamo che la dittatura si associa ad una stasi e ad un turbine insieme. Ad una sensazione di stasi, di gelo, che raffredda, raffrena e fa spegnere la vita, ad una sensazione di turbine che schianta, travolgendola, la vita.

Potrebbe sembrar rettorica, e lo sarebbe se fossero parole, ma non lo è, perché è corredata da fatti; perché è un fatto quel livellamento continuo che spegne la persona umana; è un fatto che la vita di noi, di voi, di coloro, specialmente, che più hanno sofferto, ed ai quali io come giovane mi inchino con tutta riverenza, non conta nulla quando c’è la dittatura: c’è allora la possibilità di essere schiantati, e questo lo conosciamo così bene (e così anche la vita collettiva che risultò dalla vita di tutti, onorevole Li Causi), che sappiamo smascherare la dittatura, sappiamo cioè trovare, al di sotto della maschera, la realtà.

Lo sappiamo perché abbiamo sentito è partecipato al drammatico colloquio: da una parte la dottrina falsa, che cercava la giustificazione della dittatura (gli uomini, mi pare, non sono mai tanto malvagi da non cercare una giustificazione alla propria malvagità) e diceva: «Lo Stato è l’assoluto e tu, uomo, sei il relativo»; dall’altra parte l’uomo che rispondeva con la sua esperienza diretta: «No, io non sono un relativo, io sono qualche cosa di concreto e di autonomo; io ho una dignità mia che è diversa, nella sua natura, dalla tua, o Stato, perché va oltre questa vita».

E continuava quella dottrina: «Se tu sei relativo, effimero, non puoi che realizzarti nello Stato», mentre la risposta ritornava incalzante come prima: «No, ho una mia autonomia, ho un mio fine da raggiungere»; e concludeva con la conclusione tragica e tremenda: «poiché tu sei uomo – l’effimero, ed io – lo Stato – sono l’eterno, poiché tu sei il contingente, la parte, ed io sono il tutto, tu devi servire a me e non io, Stato, devo servire a te». E l’uomo, l’uomo che vive e sente, rispondeva: «No, non è così, è lo Stato che deve servire all’uomo».

Quando non bastava la dottrina, si passava agli argomenti della tentazione, si parlava di ordine: «Non hai l’ordine?». Si parlava di uguaglianza: «Ma non siete uguali?». Si parlava di pace. E la risposta era: «Non è uguaglianza un livellamento, non è ordine, non è pace: anzi, è una minaccia, di guerra continua; è una guerra continua quella che si sente e si soffre».

E, se non bastava ancora questo, allora la maschera cadeva. Si passava ad altro argomento. Alla dittatura è connaturata, per la sua stessa essenza, la violenza: Le affermazioni erano chiare ed incalzanti: «Io sono il diritto», diceva allora lo Stato. E il cittadino rispondeva: «Tu sei il diritto, a patto che questo diritto sia tale nella sostanza; se no, sei legalità soltanto, quando giustizia non c’è».

Si affermava: «Io ho l’autorità!». «No, l’autorità è il potere esercitato per il bene, non per il male; tu hai l’arbitrio, in questo modo». Si affermava ancora: «Io ho la forza». E si rispondeva da parte dell’uomo libero: «No, hai la violenza; hai la violenza che può, sì, far tutto, meno che schiantarmi del tutto». È testimonianza di uomini che hanno risposto, non a parole, a questo tragico dialogo, ma con gli atti della loro vita, con i fatti; di uomini che hanno risposto affermando la verità in cui credettero e che gridarono alta, come quei primi grandi martiri della libertà, i martiri di quel cristianesimo che è presidio di libertà, quando, portati dinanzi ai carnefici che li minacciavano di morte, rispondevano: «Si, puoi fare tutto di me, puoi anche uccidermi, ma non puoi farmi male».

E il pericolo è vivo; è sempre vivo, questo pericolo di un attacco, di una violenza alla democrazia da parte della dittatura, perché la dittatura assume forme, metodi diversi, subdoli alle volte. Si annida perfino in una democrazia. Si serve, per vivere, della stessa libertà concessa ai cittadini, agli uomini liberi; ne usa i mezzi, alcune volte; partecipa alla vita elettorale di un Paese; partecipa alla vita parlamentare; Hitler, il nazismo fecero così. Ma quando raggiunge il potere, cade la maschera. Allora finisce l’applicazione del metodo democratico e si passa ad un altro metodo; allora il potere diventa senza freno e senza limiti.

Mi si permetta di osservare che questi limiti io li intendo sostanzialmente in quella affermazione, creduta e vissuta, che la persona umana, che la sua dignità, la sua autonomia sono qualche cosa di sacro e di inviolabile. Non intendo parlare di limiti, come dire, parlamentari, ad esempio; non intendo parlare di minoranze, sebbene sia un dato di fatto che i movimenti a contenuto, a spinta totalitaria, raggiunto il potere, eliminano, presto o tardi, le minoranze. Non lo fanno perché esse possano essere d’intralcio, lo fanno perché non possono sopportare quella testimonianza viva della libertà insopprimibile; poiché è in contrasto con la loro stessa essenza il tollerare che altri uomini pensino, operino, si muovano in modo diverso, divergente dall’unica direzione segnata.

Non è dunque una ragione di paura, ma di essenza quella che li porta a ciò. Quindi il presidio è uno: confermare la persona umana, sacra ed inviolabile. E che questo sia vero, lo si può attestare con le parole di un grande italiano, in cui tutti convenite, lo spero, e conveniamo. Mazzini afferma: «O dobbiamo obbedire a Dio, o servire gli uomini. Uno o più, non importa. Se non regna una Mente suprema, su tutte le menti umane, chi può salvarci dall’arbitrio dei nostri simili, quando si trovano più potenti di noi?».

Ed ecco perché gli articoli della nostra Costituzione affermano questi caratteri di sacro, di inviolabile, di autonomo, della persona umana.

Il secondo pericolo è la non realizzazione della democrazia. È stato osservato da un pensatore profondo che la tragedia delle democrazie moderne è quella di non aver realizzato integralmente la democrazia. Le cause anche qui possono essere false dottrine, come quelle che creano, che costruiscono una figura di uomo irreale, perfino mostruosa. Irreale è quel cittadino che non ha cuore, che non ha doveri, ma è soltanto formato da articoli e da forze, fuori della vita, senza legami, senza doveri, Se si aderisce a questa figura così delineata, si finisce col non realizzare, con l’annientare in se stessa l’essenza della democrazia; si finisce col far cadere la dignità, la libertà, l’eguaglianza, perché la miseria opprime, la forza opprime; le forze avverse, quelle che vogliono impedire, in qualsiasi modo, l’espressione della libertà e della dignità, trionfano.

Bisogna dunque che a garanzia vi sia una concezione rispondente alla natura dell’uomo; bisogna che al cittadino e all’uomo siano riconosciuti tutti i diritti che da questa natura discendono; bisogna che gli sia riconosciuto il diritto di potersi associare con tutti coloro ai quali è legato da vari legami, da tutti quei legami che costituiscono l’intrecciarsi di vie e di relazioni fra gli uomini.

Ma la non realizzazione della democrazia può anche avvenire per un’altra causa: quella di una inesatta, incompleta o falsa concezione dello Stato, causa, che, in fondo, si lega alla prima, della falsa concezione dell’uomo o del cittadino. Ma può avvenire per un’altra causa, di natura diversa: per una deficienza di forze. Come nella dittatura si ha un eccesso di forze che sbocca nella violenza, così il fallimento della democrazia può avvenire per una deficienza di forze, che sbocca nella impotenza dello Stato. Lo Stato, dunque, deve non solo riconoscere prima e affermare poi i diritti fondamentali, ma deve garantirli e fare quanto è in esso perché quei principî e quei diritti si traducano in realtà concreta, siano vita reale per coloro che vivono in quel Paese e in quello Stato.

Lo Stato non ha soltanto doveri negativi – il lasciar fare, il lasciar correre – ma anche doveri positivi; ha limiti, ma anche specifiche funzioni. Per questo negli articoli 6 e 7 è affermato il principio che la Repubblica deve, per quanto adesso compete, tradurre in atto i principî che riconosce ed i diritti che garantisce.

Il terzo pericolo per la democrazia è l’assenza del popolo. La democrazia è governo del popolo: la sostanza, la vita della democrazia è il popolo: dal popolo, del popolo, per il popolo. Quindi se il popolo non partecipa, la democrazia non nasce, o se è nata, muore. Cosa si può fare? Cosa può fare lo Stato? Lo Stato non può fare molto in questo. Lo Stato può cercare di richiamare al dovere di partecipazione, può e deve togliere tutti quegli impedimenti che possono ostacolare la partecipazione del popolo; ma la partecipazione del popolo, in senso pieno, non dipende dallo Stato: dipende dal popolo stesso. Il popolo, è stato detto, «è un insieme di uomini uniti dalla forza delle stesse idee e degli stessi sentimenti, cioè dalla loro anima». Occorre che il popolo sia così, altrimenti è una massa. E dove è la massa non vive la democrazia; dove è la massa è il terreno propizio al sorgere della dittatura. Il popolo, per garantire la democrazia, deve saper distinguere il bene dal male, deve volere il bene, deve operare per il bene. Ed il nostro popolo che garanzia ci dà o ci ha dato contro quel pericolo? Ma il popolo dico – perdonate se sono stato forse lungo e frammentario – che garanzia, che prova ci ha dato di difendersi e di sapersi difendere da questo pericolo dell’assenza? Tutte le prove migliori: ha saputo distinguere fra il vero e il falso; allontanare da sé la tentazione della violenza, evitare gli eccessi, respingere ogni egoismo…

PRESIDENTE. Onorevole Froggio, l’avverto che lei ha già parlato mezz’ora.

FROGGIO. Me ne sono perfettamente reso conto, e perciò concludo, rilevando come il nostro popolo abbia dato la prova più completa di essere pienamente degno e di sostanzialmente volere un reggimento democratico.

Noi, in questa nostra Costituzione, facciamo la promessa di una garanzia. Il popolo ha dato la prova, ha dato già la sua garanzia; e, quando la garanzia si dà col sangue e col combattimento, essa, più che garanzia, diventa ed è consacrazione. La democrazia è stata consacrata in Italia non dalla Costituzione che è ancora da farsi, ma dal sacrificio del popolo. Non noi dunque dobbiamo consacrarla, ma è il popolo che l’ha consacrata; ed è per questo che a me pare ben si riferiscano a noi stessi ed al nostro momento le parole che Lincoln pronunciò sul campo di battaglia di Gettysburg: «Ma noi in senso più alto non possiamo dedicare, non possiamo consacrare, non possiamo santificare questo suolo. I coraggiosi, e vivi e morti, che qui combatterono lo hanno consacrato assai più altamente di quanto non sia in potere nostro aggiungere o togliere. Il mondo si accorgerà appena, né a lungo si ricorderà, di quanto noi oggi diciamo: mai tuttavia potrà dimenticare quanto essi fecero. A noi che siamo vivi, tocca piuttosto venire qui dedicati: dedicati al lavoro non ultimato che coloro i quali qui combatterono sì avanti inoltrarono.

«Sta piuttosto a noi di venire qui dedicati al gran compito che ancora ci resta innanzi; di derivare da questi morti onorati devozione accresciuta per la causa cui essi diedero la misura completa ed estrema della loro devozione: di decidere qui altamente che quei morti non siano invano morti; affinché questa nazione, sotto Iddio, conosca una seconda nascita di libertà, affinché il Governo del popolo, dal popolo, per il popolo, non scompaia dalla terra. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Valiani. Ne ha facoltà.

VALIANI. Onorevoli colleghi, parlo per motivare le ragioni per cui il Partito d’azione vota in favore dell’emendamento proposto dagli onorevoli Nenni e Togliatti, che vuole, come primo articolo del progetto di Costituzione, la seguente dizione: «L’Italia è Repubblica democratica di lavoratori». Per quale ragione noi voteremo questo emendamento? Fondamentalmente, perché, a differenza delle parti successive del medesimo articolo 1, che pone invece postulati etici e sociali, i quali meglio avrebbero il loro posto in un preambolo, questa dizione «Repubblicana democratica di lavoratori» pone un principio politico, il quale ha la sua storia politica ed è anche suscettibile di conseguenze giuridiche tali da doversi iscrivere in una Costituzione.

La Repubblica democratica dei lavoratori ha una storia nelle lotte politiche condotte dalle organizzazioni operaie, dai movimenti popolari, dai partiti di sinistra in tutti i Paesi europei dal 1848 fino ai nostri giorni. Dovunque la democrazia abbia fatto dei progressi, dovunque il movimento dei lavoratori, ed in generale i democratici-repubblicani conseguenti, si siano affermati come una forza politica, essi hanno posto questa esigenza di caratterizzare lo Stato democratico più coerente, cioè la Repubblica che poggia sui lavoratori.

Se guardiamo le battaglie che sostennero i democratici conseguenti in Francia, ancora alla fine del secolo scorso, poi in Spagna, in Italia stessa, se guardiamo alle tradizioni, alla lotta del movimento operaio per la democrazia, ancora prima del 1914 e successivamente, se guardiamo alla Germania e all’Austria, ai Paesi dell’Europa centrale, dappertutto questa idea politica della Repubblica democratica dei lavoratori o della Repubblica popolare, come in alcune Costituzioni dall’altro dopoguerra si espresse, è stata affermata.

Questa è un’idea politica, non un vago postulato etico, ma è necessario anche che sia tradotta in conseguenze giuridiche. Nel nostro progetto di Costituzione non si è immesso ancora – come a mio giudizio si deve immettere – questa dizione nella impostazione di alcuni degli organi, di alcune delle istituzioni della Repubblica stessa. Per esempio, per la seconda Camera si verrà ad una formulazione diversa di coloro che sono eleggibili a seconda che si sancisca o non si sancisca questo principio. Quando poi si verrà a discutere degli articoli relativi alla proprietà privata, alle sue garanzie, ai limiti che essa incontra nell’interesse generale della società, questa dizione di Repubblica democratica dei lavoratori sarà, o non sarà, il filo che ci dovrà orientare; significherà una presa di posizione all’inizio della Costituzione che può caratterizzare una parte notevole del resto della Costituzione medesima. Perciò, pur essendo ostili, come più tardi dirò, a varie affermazioni etiche che non trovano posto in un documento di diritto pubblico, quale deve essere fondamentalmente una Costituzione, noi difenderemo questa nozione preliminare e, per così dire, giudizio politico, preliminare, che l’Assemblea dà sul carattere, sugli scopi, sulla natura politica della nuova Repubblica e sulle forze che possono dirigerla, e domanderemo, come domandiamo a tutti i repubblicani coerenti, a qualsiasi partito appartengano, di votare a favore di questa dizione.

L’onorevole Togliatti ha notato come l’onorevole Orlando cercasse nella Costituzione qualche cosa che visibilmente mancava, cioè il soggetto, il sovrano. Io credo che la preoccupazione dell’onorevole Orlando fosse giusta. Nelle Costituzioni è implicito, è sottinteso un soggetto e, mentre nella monarchia costituzionale questo soggetto è evidentemente il sovrano per grazia di Dio e per volontà del popolo, nella Repubblica democratica invece soggetto può essere soltanto la forza politica che ha voluto la Repubblica e che è disposta a difenderla ad oltranza contro ogni e qualsiasi tentativo di restaurazione. Questa forza politica è nella dizione «Repubblica democratica dei lavoratori». Non basta in proposito richiamarsi alla volontà popolare, perché la volontà popolare caratterizza qualsiasi forma di Stato costituzionale, dalla monarchia costituzionale alla Repubblica conservatrice e alla Repubblica democratica.

Bisogna scegliere tra le varie forme di Stato costituzionale che si presentano davanti agli occhi nostri. La Repubblica democratica dei lavoratori qualifica una di queste forme; non è detto che la Repubblica democratica dei lavoratori debba necessariamente – come temono molti che avrebbero ragione di temerla, se questo fosse il pericolo che incombe su di noi – significare Governo di Assemblea. Io sarei contrario al Governo puro e semplice di Assemblea, soprattutto per l’incapacità sua di dare un reggimento durevole allo Stato. Le esperienze fatte col Governo di Assemblea non sono state mai felici in alcuna parte; tanto è vero che tale Governo non ha mai retto durevolmente.

Ma la Repubblica democratica dei lavoratori può essere costruita anche su un altro presupposto. Qualsiasi democrazia organizzata, anche il tipo di democrazia che corrisponde alla repubblica presidenziale (che sarà la proposta che noi faremo più in là), può entrare ed entra nel quadro della Repubblica democratica dei lavoratori.

Un esecutivo forte – quale che ne sia il modo di elezione – è possibile in una Repubblica democratica dei lavoratori, purché nelle autonomie popolari, che limitano ed insieme controllano l’esecutivo stesso e fissano la divisione dei poteri rispetto all’esecutivo, si garantisca la partecipazione del popolo lavoratore.

Perciò, mi pare che tutti i repubblicani coerenti, anche gli amici del partito repubblicano storico, i quali giustamente si preoccupano di non cadere sotto il cosiddetto «cesarismo di Parlamento», e vogliono larghe autonomie locali, possano, anzi credo, che debbano votare a favore di questo articolo. Perché la Repubblica democratica dei lavoratori ha questo significato, nel momento politico che attraversiamo: che non ci accontentiamo di istituire la Repubblica sulla carta, ma ci proponiamo di organizzare la Repubblica con le forze schieratesi a suo favore.

Si parla molto della inefficienza dei Governi tripartiti. In particolare, gli amici del partito repubblicano storico sono stati tra i primi a criticare la paralisi dei Governi di coalizione dopo la caduta del fascismo. Se pure si uscirà dai Governi di coalizione, come quello attuale, ibrido, il quale riunisce elementi, che non sono stati ancora conciliati (lo possono essere, ma non lo sono stati ancora), non si uscirà da questo sistema, se non gli si contrapporrà un altro sistema, un altro schieramento politico, uno schieramento delle sinistre democratiche. Questo schieramento politico delle sinistre ha il suo presupposto nel voto che dobbiamo dare a favore della dizione «Repubblica democratica di lavoratori».

Un grande democratico, Jaurès, uomo di sinistra – la cui figura può essere rivendicata dai socialisti di tutte le tendenze, dal movimento operaio nel suo insieme, ma anche dai democratici repubblicani puri, perché l’obiettivo della sua vita era di conciliare il movimento repubblicano col movimento operaio; figura che può essere non antipatica alla parte repubblicana della Democrazia cristiana, perché, pur socialista, egli seppe valorizzare l’elemento cristiano, che esiste in fondo al movimento socialista dei lavoratori – Jaurès dunque, quando pose in Francia per la prima volta il problema del fronte delle sinistre per le elezioni del 1893, che dettero, con la vittoria delle sinistre, alla Repubblica il suo vero carattere democratico, diceva: «Checché se ne possa dire, oggi non si tratta tanto di difendere la Repubblica, ma di dirigerla e di organizzarla».

Mi pare che questo sia anche il nostro compito.

Se ci limitiamo semplicemente a difendere la Repubblica, con leggi di difesa, giuste, ma insufficienti – perché non è mai con un provvedimento di polizia che si risolve il problema d’un nuovo Stato – se ci limitiamo a difenderla, la perdiamo. Perché tutte le volte che le repubbliche democratiche si sono poste in posizione difensiva, sono state, alla fine, travolte.

Bisogna che la Repubblica si organizzi, ed a tale scopo bisogna che abbia una direzione bene identificata. Bisogna identificarne il principio nella Costituzione medesima, qualificandola come Repubblica democratica dei lavoratori.

Amici repubblicani storici e amici democristiani, se voi rifiutate questa direzione, vi mettete su un terreno sul quale soltanto la polizia sarà a vostra disposizione per la difesa dello Stato.

Se volete difendere la democrazia, dovete identificare lo Stato con le forze sociali qualificate in questo emendamento.

E vorrei invitare gli amici repubblicani storici e quelli che sono repubblicani nella Democrazia cristiana a tener presente che soltanto in questo modo, con questo voto, noi possiamo chiudere il capitolo della lotta antifascista, la quale si chiuderà soltanto allorché saremo riusciti a creare su basi solide il nuovo Stato. Altrimenti ci troveremo sempre davanti al pericolo di ricadere nel passato regime dispotico.

Si chiuderà la lotta antifascista soltanto quando le masse lavoratrici, che hanno combattuto nel modo più efficace, avranno la sensazione che il nuovo Stato è il loro Stato, non più quello della democrazia liberale. Questo aveva anch’esso i suoi pregi, i suoi meriti. Che non disprezzeremo perché noi ne siamo figli; ma fu travolto dal fascismo. Non voglio cercare ora le responsabilità. Tutti i Paesi d’Europa furono travolti.

Se vogliamo creare un nuovo Stato che non si senta sempre in pericolo di essere travolto, dobbiamo dare ad esso un contenuto e delle garanzie giuridiche: innanzi tutto un principio ideale che lo metta al disopra, al di là della pura antitesi con la reazione e il fascismo, su un terreno su cui si possa costruire un solido edificio sociale.

Preso il problema da questo punto di vista, che è più importante e più elevato di quello che abbiamo dovuto adottare quando la nostra lotta era rivolta solo ad estirpare il fascismo, io credo che i deputati sinceramente repubblicani, a qualsiasi partito appartengano, dovrebbero votare secondo coscienza e non secondo le istruzioni del loro partito.

Benedetto Croce notava qui come sia importante che si voti secondo coscienza, in questo momento. Noi non chiederemo certamente all’onorevole Croce, che rappresenta un’altra forma di Stato, di votare per la Repubblica democratica dei lavoratori; ma possiamo chiederlo a tutti gli altri, ai democratici di tutti i banchi, e se essi lo voteranno, allora, sì, potremo uscire dalla coalizione ibrida di oggi, potremo creare una nuova coalizione, in cui possa avere la sua parte anche la Democrazia cristiana in quanto repubblicana (Commenti al centro).

Una nuova coalizione, dico, nella quale la Democrazia cristiana, o la parte repubblicana di essa, si volga verso sinistra, come aveva preannunziato nel suo Consiglio nazionale del 1945, e come purtroppo non ha saputo affermarsi nei due anni successivi.

Mentre dunque noi voteremo per la dizione dell’emendamento presentato dagli amici del partito socialista italiano e di quello comunista e chiediamo a tutti i repubblicani di votare in questo senso, debbo criticare il capoverso successivo dell’articolo 1, il quale suona così: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Per questo secondo capoverso, debbo confessare che condivido gli argomenti degli avversari monarchici che lo prendono in giro e credo a ragione. Il lavoro è infatti il fondamento di ogni vita; e a tanto maggior ragione è il fondamento di ogni vita sociale, di ogni Stato, sia esso dispotico, repubblicano, monarchico o quello che volete.

Se voi volete fare un preambolo, si potrà trovare il modo di mettervi al centro quella che si chiama la filosofia del lavoro; ma, nell’articolo 1, questa dizione genera solo confusione.

E ancora vi dirò che la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, che è invece un’esigenza giusta e concreta, non trova, a mio parere, posto in questo articolo 1, perché non costituisce un principio giuridico e politico, ma è un obiettivo sociale concreto. Quando verremo a discutere dei consigli di gestione, per i quali noi voteremo, là evidentemente questa volontà di far partecipare tutti i lavoratori alla realtà economica del Paese potrà essere affermata.

Per il resto, questo è l’obiettivo che si possono porre i partiti politici che hanno l’ambizione di organizzare le masse lavoratrici e di portarle alla vita pubblica: quando è garantita la libertà di propaganda; la libertà di stampa, la libertà di organizzazione, quando, in seno alla fabbrica, è garantito il consiglio di fabbrica, il resto non dipende che dalla volontà pratica e dal successo che questa politica ha nella classe lavoratrice stessa.

Quindi, approvata la dizione «L’Italia è una Repubblica democratica dei lavoratori», il successivo capoverso diventa pleonastico.

Non faccio qui una questione secondaria; almeno non mi pare. Credo che uno dei difetti fondamentali dell’antifascismo – difetto che noi scontiamo amaramente – fosse e sia quello di non aver tenuto e di non tenere presente l’importanza della chiara formulazione giuridica. Se l’epurazione è fallita, se l’amnistia ha dato risultati diversi da quelli di pacificazione che da essa ci si ripromettevano, ciò si deve, sì, a ragioni sociali e politiche complesse, che sono essenzialmente quelle di non aver potuto portare a termine in Italia la rivoluzione popolare, ma si deve anche alle incongruenze giuridiche di queste leggi stesse.

Io vi esorto perciò a non fare formulazioni incongruenti nella Carta costituzionale italiana.

Nell’articolo 6 – anch’esso formulato in modo confuso, ma che tuttavia esprime un principio generale giusto, cioè che la libertà e la dignità della persona umana, nonché l’interesse generale della società, dello Stato, sono principî filosofici ai quali si richiama la nuova Costituzione in questo articolo – sono comprese implicitamente, e si possono rendere più esplicite, le esigenze che hanno mosso i redattori del secondo capoverso dell’articolo primo. Rifacciamo l’articolo 6, in modo che sia chiaro che l’interesse generale della società è superiore ad ogni altro interesse particolaristico; e allora avremo dato alla Costituzione il suo nerbo.

E vengo all’articolo 4, a proposito del quale mi sono permesso di presentare un emendamento, di cui do lettura: cioè di sostituirlo col seguente: «L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale e respinge ogni imperialismo e ogni adesione a blocchi imperialistici. Accetta e propugna, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, qualsiasi limitazione di sovranità, che sia necessaria ad un ordinamento internazionale di pace, di giustizia e di unione fra i popoli».

Perché questo cambiamento? Perché questa proposta? Intanto, perché, se si accetta la dizione per cui l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di politica nazionale, ci si riferisce a un documento internazionale già esistente, e che l’Italia a suo tempo ha firmato, il Patto Briand-Kellogg del 1928, che conteneva questa dizione. E credo che rifarsi ad una tradizione politica internazionale – in un certo senso, di diritto internazionale – sia cosa utile, perché segna il cammino che noi dobbiamo percorrere, indica la critica alle deviazioni del passato, e dà un senso ben preciso alla nostra volontà di rinunciare alla guerra. Quando invece si dice: «L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli», si entra veramente in quel campo in cui si finisce sempre con lo stiracchiare i fatti, per dimostrare che si salvaguarda la libertà di un Paese intervenendo con le armi, o che viceversa la si salva non intervenendo. La storia recente è piena di contradizioni in proposito.

Basti pensare soltanto all’ultimo grande fatto di politica internazionale: il messaggio di Truman, che pone le frontiere strategiche degli Stati Uniti in Grecia e in Turchia, allo scopo – come dice il Presidente americano – di difendere la libertà di quei popoli. Io potrei anche pensare che la libertà di quei popoli non si difende efficacemente inviando degli istruttori militari a sostegno di Governi che non sono né democratici e neppure liberali. (Applausi a sinistra).

Non so fino a che punto quei governi abbiano dietro di sé il consenso di una parte del popolo. Ho letto recentemente in un grande giornale americano, molto vicino al partito repubblicano, un resoconto della situazione in Grecia, che farebbe supporre come quel Governo poggi soltanto su una ristretta parte del popolo. Ma quale che sia la base popolare di questo Governo, è chiaro che esso, che pone limitazioni di ogni genere alla libertà di stampa e di organizzazione di una parte delle forze politiche del Paese, non può essere considerato come un Governo democratico liberale. Tuttavia si vuole intervenire in difesa della libertà di quei popoli. Si potrebbero citare altri esempi, presi da altre parti; esempi infiniti che sono tutti davanti alla nostra mente, a cominciare da quello sciagurato giorno in cui si intervenne in Etiopia, per sostenere – si diceva anche lì – una libertà del popolo etiopico. Certo, anche quello del Negus non era un esempio di Governo liberale. Da quel giorno ad oggi gli esempi sono numerosissimi e provano soltanto che questo articolo darà luogo sempre a tante interpretazioni quante saranno le forze politiche in contrasto fra loro.

Il patto Briand-Kellogg aveva invece il vantaggio di fissare un principio generale, generalissimo, sul quale non ci doveva essere discussione: qualunque paese avesse dichiarato la guerra e si fosse valso della guerra come strumento di politica internazionale, sarebbe stato un paese condannato dalla coscienza civile.

Ricordo che alcuni uomini politici di rango internazionale del tempo discussero a lungo sulla definizione dell’aggressore, riallacciandosi a quel patto, e quelle discussioni formano ormai un capitolo della storia del diritto internazionale, anche se non contengono precise norme di diritto pubblico internazionale, perché il fascismo lo impedì.

Quindi, con questa dizione noi ci riallacciamo ad una nobile tradizione politica e diamo alla nostra Costituzione un senso ben preciso ed una mèta da raggiungere. Noi siamo incondizionatamente, e non soltanto in riferimento ad una certa interpretazione politica, per la rinunzia alla guerra. Se ci attaccheranno ci difenderemo, ma noi abbiamo il fermo proposito di non attaccare mai nessun altro popolo, sia esso un popolo retto con ordinamenti liberali o con altri ordinamenti. Non andremo più in Grecia né per battere Metaxas, né per difendere la libertà della Grecia contro il comunismo, come sostiene l’America.

Io chiedo che sia fatta questa modifica; la quale ne implica una successiva, cioè che noi dobbiamo respingere ogni imperialismo ed ogni adesione a blocchi imperialistici.

PRESIDENTE. Onorevole Valiani, la prego di concludere.

VALIANI. Cercherò di essere breve; però faccio presente che un oratore dell’altra parte ha parlato l’altro ieri per un’ora e mezzo.

Respingere dunque ogni adesione a blocchi imperialistici. Mi pare sia necessario di formulare oggi questo concetto nella nuova Costituzione, se vogliamo che questa possa valere nella realtà dei decenni che ci stanno di fronte.

È chiaro che proprio oggi, più che mai, noi siamo sollecitati di aderire a blocchi; è chiaro che grosse pressioni sono esercitate sulla democrazia e sulla Repubblica italiana per portarla ad aderire ad un blocco o ad un altro, ed è chiaro che la politica estera della nostra Repubblica e la sorte dei nostri ordinamenti politici non potranno non risentire nei successivi anni della pressione che sarà esercitata su di noi per farci aderire ad un blocco.

Ma noi non dobbiamo aderire a nessun blocco, nemmeno se ci si presenterà come avente per corrispettivo allettamenti di carattere economico e finanziario. Gli italiani non devono modificare la loro volontà di non commettere più i tragici errori del passato recente.

Credo che rafforzeremo questa volontà, questa capacità di resistenza, se sapremo codificarla nella Costituzione medesima. Infine la dizione per cui si accetta, non la limitazione di sovranità eventualmente necessaria, ma qualsiasi limitazione di sovranità necessaria al sorgere di un ordinamento internazionale di unione tra i popoli, mi pare importante: perché anche qui si finirà, altrimenti, col tirare la corda in un senso o nell’altro per dimostrare che una certa limitazione di sovranità è necessaria e quell’altra no.

In realtà, se ci vogliamo porre ad una altezza ideale nel desiderio di pace, di unione, che esiste fra i popoli e che solo può impedire una nuova guerra, noi dobbiamo affermare qualsiasi limitazione. Quali che siano le limitazioni di sovranità, purché servano a cementare l’unione fra i popoli e in particolare l’unità europea, dobbiamo accettarle. Nella dizione attuale io ho l’impressione che si sia voluto mettere lo Stato italiano un po’ sulla difensiva contro questo nuovo concetto dell’interesse comune mondiale, della sovranità mondiale, dell’unità europea e mondiale, che è il concetto nuovo della nostra epoca, il concetto informatore che trionferà, se l’umanità non vorrà distruggere se stessa nella barbarie.

Perciò chiedo il voto sull’emendamento che ho presentato. (Applausi a sinistra).

(La seduta sospesa alle 18,20, è ripresa alle 18,45).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mancini. Ne ha facoltà.

MANCINI. Dato il mio alto numero d’iscrizione, non speravo di parlare oggi; ma sono costretto a tenere la tribuna, per l’assenza di tanti colleghi, i quali – purtroppo – sono decaduti dal diritto di parlare in questa Assemblea sull’argomento all’ordine del giorno.

Confesso lealmente che, parlare dopo tanta oratoria e tanta dottrina, è davvero cosa assai imbarazzante. Spero di vincere il disagio, cattivandomi la benevolenza dell’Assemblea con la brevità e con la rinunzia, senza rimpianto, a citazioni storiche o dottrinarie. Già basterebbe scorrere i resoconti del Parlamento Subalpino per avere la disinvolta possibilità di infarcire il discorso di virtuosità erudite.

Dirò la mia opinione, senza pretese e senza intolleranze, con grande sincerità, nella speranza e nell’augurio che venga accolta con la stessa serenità con la quale io la formulo. Mi consenta, onorevole Presidente, mi consentano, onorevoli colleghi, che, prima di esporre il mio punto di vista, formuli due premesse, una nei rapporti dell’Assemblea e l’altra nei rapporti della Commissione dei Settantacinque.

Nei rapporti dell’Assemblea: questo dibattito, diciamolo con soddisfazione, ne ha rialzato il tono ed il prestigio che, purtroppo, per vicende varie, era stato attenuato e qualche volta compromesso. Dirò di più: il Paese ha superato quell’apatia, che lo rendeva estraneo ai nostri lavori e si interessa ora di questi dibattiti con fervido sentimento di adesione, perché sente e pensa che l’Assemblea diventa davvero la Costituente d’Italia. La quale lavora con intelletto d’amore, a formulare quella Costituzione, che sarà la guida della Repubblica democratica italiana.

L’altra premessa riguarda la Commissione dei Settantacinque, alla quale ho anch’io l’alto e ambito onore di appartenere. Non è nostra colpa se non ebbimo la lusinga di vedere fra di noi gli onorevoli Nitti, Orlando, Benedetto Croce, impareggiabili nell’arte dello scrivere che potrebbero apprestarci, anche oggi, come un giorno Ferdinando Martini apprestò la sua eleganza stilistica nei riguardi di un Codice, che seppe risciacquare nell’Arno. Fummo presieduti in modo impareggiabile dall’onorevole Ruini e ci dividemmo in tre Sottocommissioni, una presieduta da un Comunista, l’attuale Presidente dell’Assemblea, l’altra da un socialista, l’onorevole Ghidini, e la terza dall’onorevole Tupini, democratico cristiano.

Non avevamo dinanzi a noi che il vuoto. Diciamolo apertamente: la Francia aveva nel suo attivo tredici Costituzioni, come abbiamo appreso dall’onorevole Nitti; ma, più di siffatte Costituzioni, aveva nel suo passato una filosofia, una tradizione, una rivoluzione. Noi avevamo soltanto quel Codice Albertino, che venne elargito ai sudditi del Piemonte e fu esteso alle altre provincie d’Italia, man mano che esse, attraverso quella menzogna, che si chiamò il plebiscito, venivano annesse al Regno d’Italia. Avevamo però una fede, una grande fede, quella di dare al Paese un progetto di Costituzione, per cui potemmo vincere tutte le prevenzioni della passione di parte e trovare nella discordia la concordia. E ci affiatammo in tal modo, parlo della prima Sottocommissione, della quale facevo parte, che ci lasciammo tutti con un pegno di stima, di affetto, di amicizia, che non si oblia. Naturalmente, non presumiamo di aver creato un capolavoro; abbiamo fatto del nostro meglio. Valgaci il grande amore e il lungo studio. Sta a voi, soltanto a voi, rendere questo nostro progetto perfetto, eliminarne le parti inutili, correggerlo, epurarlo, farne un’opera che sia degna di questa nuova Italia. Siete voi, soltanto, i nostri correttori; da voi aspettiamo le modifiche opportune e i suggerimenti del caso, onde questo progetto sia davvero una Costituzione degna del popolo italiano.

Comunque, vorrei dire che tale lavoro non è poi tanto brutto come lo si dipinge; giacché vi sono in esso alcune norme così elette, dal punto di vista giuridico, etico e sociale, da metterlo in condizioni vantaggiose nei confronti di altre Costituzioni.

Ciò premesso, intendo limitare il mio dire all’esame dei 7 articoli, che vanno sotto il titolo «Disposizioni generali». Farò l’esegesi di siffatti articoli per dedurne tre obiezioni: una in ordine al titolo da sostituire a quello di «Disposizioni generali»; un’altra riguardante il nome di battesimo di questa nostra Repubblica; una terza interessante questo così «bestemmiato e pianto» articolo sette. Questa mia esegesi avrà il merito della novità; poiché non seguirò l’esempio che mi è venuto dai precedenti oratori. Non riguarderò quindi gli articoli singolarmente, fermandomi alla proprietà delle parole, ed al valore lessicale delle espressioni. Riguarderò le disposizioni nel loro complesso, come un tutto organico, per sorprenderne quello spirito, che informa ed illumina tutto il resto del progetto; per illustrare quelle norme, che rappresentano i caposaldi di questa Costituzione; poiché soltanto da esse trarrò gli argomenti principali delle mie conclusioni.

La prima norma è informata ad un senso di umanità e di giustizia straordinario, un senso di umanità e di giustizia, che troviamo concretizzato nelle disposizioni di quei tali articoli, che apparentemente sembrano essere più adatti per codici particolari, come han sostenuto alcuni oratori, che si sono fermati soltanto alla parola, trascurando lo spirito della norma.

Un senso di umanità e di giustizia per cui si abolisce per sempre la pena di morte, si umanizza la pena ed il trattamento dei detenuti e si rivendica intero il diritto dei figli naturali.

Molte fiate già piansero i figli per le colpe dei padri.

Ma vi è di più.

Questo senso di giustizia arriva fino al punto di condannare la guerra. In proposito ho ascoltato il compagno onorevole Treves che, poco fa, notomizzava sottilizzando l’articolo 4, così preciso nella forma e nella sostanza.

L’articolo in parola deve essere riguardato in se stesso, nei rapporti delle altre Costituzioni ed in quello internazionale. Esso dichiara «la guerra al regno della guerra»; perché non solo rinunzia alla guerra di conquista, ma, nello stesso tempo, auspica qualche cosa di meglio: un’organizzazione internazionale, che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli. Su tali parole io richiamo tutta l’attenzione dell’Assemblea e specialmente quella di coloro, i quali si sono fermati soltanto alle prime frasi dell’articolo trascurando quelle, che esprimono il vero ed intimo concetto di coloro, che hanno compilato l’articolo. La giustizia tra tutti i popoli uccide per sempre la guerra; perché quando, nel nuovo ciclo storico internazionale, la classe operaia diventerà la protagonista della storia, l’arco celeste della pace si profilerà sugli orizzonti di quei tali «confini scellerati» di cui cantava nell’Inno dei lavoratori un Uomo, il cui spirito è sempre presente in questa aula.

Come si vede è un’esigenza dell’umanità intera, che si è consacrata in questo articolo, della umanità insanguinata, e anelante alla pace fra le genti. Un secondo principio si è affermato in questi sette articoli: quello della sovranità popolare. Dobbiamo intenderci sulla parola sovranità e sulla parola popolo. Si tratta di due parole, che si sorprendono sulle labbra di tutti, come si sorprende sulle labbra di tutti la parola coscienza, mentre tanta gente volta spesso le spalle alla medesima. La parola sovranità in se stessa e nei rapporti dell’odierna vita reale racchiude un concetto di potenza. Il popolo oggi è il solo sovrano rispettato e temuto.

Ed a buon diritto, perché da solo si è conquistato il potere. Il popolo ha tolto agli usurpatori, cioè alla monarchia dei Sabaudi e a Palazzo Venezia, dove aveva asilo la tirannia, la sovranità e l’ha fatta sua. Sovranità significa potere. Onde si dice bene quando si scrive, come si è scritto: il potere emana dal popolo, cioè «appartiene al popolo». Questo potere, nella nostra Costituzione, reclama due requisiti: un limite nelle forme della Costituzione e della legge; ed una sostanza concreta. Infatti il popolo lo esercita partecipando effettivamente all’organizzazione economica, sociale e politica del suo Paese.

Per noi «popolo» non vuol dire agglomerato indistinto e indifferenziato di gente povera o di gente da nulla: Popolo significa classe, qualificata dal lavoro, dal lavoro che solleva tutto il popolo e lo fa diventare l’artefice insonne del proprio destino.

La vecchia classe dirigente italiana storicamente è decaduta insieme con il fascismo, perché essa creò il fascismo, lo portò al Governo e ve lo mantenne per 20 anni fino alla disfatta. Onde oggi non ha più il diritto di rimanere al suo posto; ma il dovere indiscutibile di lasciare libero il passo alle nuove energie del lavoro, che si avanzano impavide per assumere la direzione dello Stato.

Se volessi ricordare e parafrasare un noto e storico motto di un Abate francese, direi che il quarto stato è niente. Ma sarà tutto domani con la partecipazione effettiva alla organizzazione politica, sociale ed economica dello Stato.

Sottolineo la parola: «effettiva». Il terzo principio, affermato in queste disposizioni generali, è quello dell’eguaglianza. Eguaglianza non dal punto di vista formale, legista, per cui nelle aule giudiziarie si legge il tabellino con la sigla: la legge è uguale per tutti; ma nel senso di una eguaglianza sostanziale, reale di tutti i cittadini. I quali sono Uguali di fronte alla legge, non solo; ma di fronte all’ordine economico e sociale, che annulla ogni privilegio di nascita e di ricchezza.

In altri termini, un’eguaglianza ed una libertà, che non possono essere turbate dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

Onde la bellezza di quell’imperativo, per cui la repubblica assume l’obbligo di intervenire per eliminare tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale, che limitano la libertà, e l’eguaglianza fra i cittadini o impediscono lo sviluppo della personalità umana.

Il quarto principio ha importanza superiore agli altri tre. Esso ha due termini: il diritto al lavoro, ed il dovere del lavoro. Non si è compreso e non si comprende l’importanza di questa enunciazione. Si è parlato del lavoro, gli sono stati resi tutti gli omaggi e lanciati tutti i fiori, ma si sono ad arte dimenticati i lavoratori.

L’onorevole Condorelli, nel suo dotto discorso dell’altro ieri, ha affermato che il lavoro è la forza d’Italia, che esso è la base dell’economia italiana, che egli vive di lavoro, che il patrimonio della sua famiglia è frutto di lavoro. Ma ha taciuto di chi stenta la vita alla ricerca di lavoro e di chi ozia nell’opulenza della vita.           

Quando lor signori si oppongono alla nostra definizione è perché prevale quella sensibilità di rango, che li tiene lontani da coloro che hanno le mani callose, le vesti a brandelli, e le carni con le stimmate degli agguati e delle insidie padronali. Si vede nel lavoratore: la classe. Ebbene si erra quando alcuni si ostinano nella nomenclatura di «cittadino» e dei relativi dritti di esso. La Rivoluzione francese affermò i diritti del cittadino. La Rivoluzione russa ha affermato i diritti del produttore. La Costituzione italiana riconosce i diritti del lavoratore. Prima lavoratore e poi cittadino. È lo spirito di Giano de la Bella, che ritorna.

Il pio ed austero Giano de la Bella,

che i baron trasse a pettinare il lino.

Questo principio nuovo, che considera il lavoro umano non più come merce,che si scambia e che subisce le oscillazioni della richiesta e dell’offerta, ma come il più alto dei valori nella scala sociale ed il solo nella società odierna.

Da queste premesse, onorevoli colleghi, discendono tre conseguenze: la prima inficia il nome di disposizioni generali. Non si può intitolare questo capitolo «Disposizioni generali». La parola «disposizione» sa troppo di Codice, e la Costituzione non è un Codice.

Tutti i tecnici giuridici si mettano l’anima in pace. Questa Costituzione è la legge delle leggi, è la legge fondamentale, e basilare, che supera tutte le leggi. È una norma, cioè un comandamento. In quanto nella norma è compreso il principio e la disposizione, il diritto e la morale, il presente e l’avvenire. Credo perciò che questo capitolo debba essere intitolato «Norme generali», e la Repubblica definita: «Repubblica di lavoratori». Io non capisco perché tutti gli oppositori, che pur così eloquentemente hanno esaltato il lavoro, si sono poi tanto preoccupati di questa specificazione. Sospetto che si spaventino del significato, politico del nome. Orbene, se essi davvero sentono nel profondo dell’animo la bellezza umana del lavoro, non dovrebbero spaventarsi nemmeno del suo significato politico.

Anzi, questa Italia, la cui economia si basa sul lavoro, questa grande proletaria, che non ha avuto e non ha altra forza se non quella delle braccia dei suoi figli e dell’intelletto dei suoi geni, che da Melchiorre Gioia ad Alessandro Volta crearono la civiltà nel mondo, quando finalmente può scegliersi liberamente una Costituzione ed un regime di popolo non può battezzarlo che con il nome che le viene dal passato, che le impone l’avvenire: quello di chi la onora e l’ha sempre onorata: il lavoratore.

Ma dalle mie premesse discende una incongruenza, ed un contrasto: la presenza nella Costituzione dell’articolo 7.

Ho il dovere di fare una dichiarazione: io non sono un intollerante. Non sono venuto al socialismo né attraverso la criminologia di Ferri, né attraverso «L’Asino» di Podrecca. Sono venuto al socialismo per un impulso di bene ratificato da una cultura marxista, che con lo studio e le sofferenze è diventata una fede. Io credo perciò che la mia opinione è quella di un uomo sereno, al di sopra di qualsiasi prevenzione, di un uomo che ricerca soltanto la verità, guardando i fatti e le cose dal punto di vista obiettivo.

L’articolo 7 riporta sulla ribalta della vita politica italiana la vecchia questione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa. Io vorrei che ognuno di noi si facesse un esame di coscienza, tranquillamente, senza passione di parte e senza desiderio di prevalenza o di imposizione. E vorrei che questo esame lo estendesse al Paese, al popolo, alle proprie masse. Diciamocelo senza sottintesi e senza lenocinî: è una questione superata. Stato e Chiesa; Stato laico, Stato confessionale, non hanno più risonanza. Sono differenziazioni dei nostri nonni, nei tempi del Parlamento Subalpino. Sono questioni superate per la semplice ragione che ognuno di noi sente di rimanere fermo e risoluto nella propria posizione, senza rischio, senza pericolo e senza interferenze con le posizioni avversarie. Da più tempo ci rispettiamo reciprocamente su tali posizioni ed il Paese ha preso atto di siffatto rispetto ed è passato all’ordine del giorno.

E l’ordine del giorno delle nostre masse ci fa sapere, che sono ben altre le questioni, che tengono acceso e vigile l’animo dei lavoratori.

Il roveto non è più ardente. È spento, onorevole Marchesi.

Che volete che il popolo si interessi dei Patti lateranensi, che non conosce e che dovrebbe tenere soltanto in gran dispitto, perché firmati da Mussolini!! Io li ho letti soltanto quando si discusse la questione dinanzi alla prima Sottocommissione. Pensate sul serio che nel momento in cui tante doglianze e tante necessità rendono difficile la vita, possa il popolo affamato e disoccupato interessarsi dei Patti lateranensi? E allora, per quale ragione nella nostra Costituzione, così attesa ed invocata, dovremmo riferirci a simili Patti, dai quali, nel momento della stipula, tutto il popolo rimase assente per volere del tiranno, che da essi ripetette un nuovo anelito di vita?

PRESIDENTE. Onorevole Mancini, permetta che le rammenti che il tempo è passato.

MANCINI. Sto per finire, onorevole Presidente. Mi permetta però di osservare che essendo stato il solo fra trentadue colleghi che ha accettato l’invito di parlare, avrei diritto a qualche benevolenza, almeno di tempo.

TONELLO. Gli altri hanno parlato un’ora; vada avanti!

PRESIDENTE. Se lei permette, onorevole Tonello, le discussioni le dirigo io.

MANCINI. Sono dunque riferimenti che servono soltanto ad imprimere alla Costituzione il crisma di un partito. Comunque io non saprei, né potrei spiegarmi come possa conciliarsi il principio dell’eguaglianza del cittadino e della sovranità popolare con il contenuto politico etico, giuridico dei Patti lateranensi. Io non sottilizzo fra ordine e ordinamento, dico soltanto che Stato e Chiesa sono due ordinamenti giuridici sovrani ed indipendenti nella loro sfera giurisdizionale e territoriale. Libera Chiesa nello Stato sovrano. Prima di finire, mi preme però notare: che nella Costituzione lo Stato italiano non aveva bisogno di affermare la sua sovranità e la sua indipendenza. Lo Stato italiano è espressione diretta del potere sovrano del popolo. È lo stato di fatto che diventa stato di diritto. Onde la sua sovranità e la sua indipendenza sono attributi sacri ed inviolabili. Sono presupposti, che non debbono essere formulati, perché senza di essi non si comprende la stessa Costituzione. Sono cose così evidenti, verità così semplici, che balzano agli occhi di ognuno. Ma il richiamo è avvenuto per ben altra ragione. Per rilevare la sovranità e l’indipendenza della Chiesa e metterla sullo stesso piano della sovranità ed indipendenza dello Stato. Orbene, lo Stato può riconoscere l’indipendenza della Chiesa; ma non può riconoscere da sua sovranità quando si muove nella stessa giurisdizione territoriale. La Chiesa fuori del nostro territorio è un ordinamento sovrano come sono sovrani tutti gli Stati esteri ed essa è uno Stato estero; perché possiede il suo territorio, pur se ristretto e simbolico, ed i suoi ambasciatori, cioè i suoi «Nunzi».

L’onorevole Condorelli ammoniva pur lui che la questione era superata. Ma errava quando soggiungeva che dal punto di vista sostanziale lo Stato è separato dalla Chiesa, mentre dal punto di vista formale lo Stato concorda con la Chiesa. Lo Stato è sovrano e indipendente nella sua giurisdizione territoriale e non può concordare con nessuno; perché in politica la forma plasma la sostanza. Tirando le somme: io ho ascoltato con viva attenzione gli oppositori della nostra tesi e posso riassumere le loro posizioni in due punti: quieta non movere, cioè non turbare la pace religiosa conquistata dal popolo italiano. Secondo, raggiungere l’unità del popolo italiano per seguire l’onorevole Giordani. L’onorevole Tupini, nel suo bel discorso, ha parlato di quieta non movere. Io noto che in questa Assemblea l’onorevole Tupini mi è parso diverso da come si mostrò quale Presidente della prima Sottocommissione.

TUPINI. Sono stato sempre coerente; e di una coerenza politica.

MANCINI. Io sono amico e non da oggi dell’onorevole Tupini; ma il mio amico quale Presidente della prima Sottocommissione diede, prova di saggezza, di tolleranza, di obiettività. È stato sempre quello che ha saputo avvicinare le opposte tendenze e trovare la parola più suggestiva per vincere le resistenze.

Qui, allorché egli ha parlato, ha mutato voce, atteggiamento, volto. Mi è sembrato un uomo, che voleva imporre il crisma pontificio alla Costituzione. Sarei assai lieto se mi fossi sbagliato.

Siamo noi dunque che abbiamo turbato questa atmosfera tranquilla? Non l’avete increspata voi? Sei stato tu, amico Tupini, che sei andato oltre. Hai predicato bene, ma hai razzolato male, perché hai sommosso le acque immote di questa tolleranza reciproca.

Noi resistiamo al vostro atteggiamento. Intanto esiste l’anticlericalismo in quanto esiste il clericalismo. Ma non voglio pronunciare queste parole. Esse debbono essere cancellate per sempre. Io dico invece che in tanto esiste l’antitesi rappresentata da noi, in quanto esiste la tesi sostenuta ed imposta da voi. È la reazione alla vostra tesi, che provoca le nostre resistenze. Dirò di più, noi siamo di una rassegnazione e di una tolleranza esagerate che vi dovrebbero essere di sprone e di esempio per uscir fuor dal pelago alla riva.

In ogni modo vorrei farvi osservare che, se voi vinceste con un piccolo scatto di voti, la vostra vittoria sarebbe peggio di una sconfitta; specie dal punto di vista internazionale. Voi mi comprendete.

Si parla poi di lacerazione religiosa in Italia, Ma io non ho vista mai turbata la pace religiosa, neppure nei tempi in cui fiorivano le associazioni del libero pensiero. Neanche allora ci fu una vera e propria lacerazione religiosa.

C’era qualche increspatura sulle acque trasparenti e niente più. Il popolo italiano ha saputo dare al suo sentimento religioso la saggezza luminosa della sua tradizione e della sua coscienza democratica. La pace religiosa potrebbe turbarsi con queste vostre intolleranze e questo lunghe discussioni. Fortunatamente il popolo non vi presta orecchio; perché ha una volontà orientata verso altre mete. Mentre la esasperazione intellettualistica danno Bisanzio, non Roma.

Allarmava l’onorevole Giordani l’altro ieri: l’unità del popolo italiano corre pericolo. Ma l’unità del popolo italiano è rappresentata forse da questi ignorati Patti lateranensi? Rispondo subito con lo stesso argomento dell’onorevole Giordani. Egli si rivolse all’Assemblea dicendo: Voi vi sbagliate quando credete che la Chiesa siano i cardinali, i vescovi, i preti: niente di tutti questi. La Chiesa è la coscienza del credente, è l’io del credente. Ne pigliamo atto e gli osserviamo: tutto ciò è vero nel campo della spiritualità, che nessuno vi tocca, perché vi abbiamo dato prove indubbie di rispettarlo. Ma se dal campo spirituale, si passa al campo dell’azione cattolica la Chiesa si trasforma in strumento di politica e la religione diventa tirannia spirituale più pericolosa di quella politica. La democrazia è contro tutte le dittature: dalla spirituale e religiosa alla politica.

Permettetemi, onorevoli oppositori, che io vi dica che non v’è cuore senza fede, non vi è intelletto senza un’alta esigenza spirituale.

Voi avete il vostro martirologio; noi abbiamo il nostro. Voi avete una fede, onorevole Tupini, che ha l’ardire di squarciare i misteri augusti dell’al di là; noi abbiamo una fede che ci dà la forza di vincere le ingiustizie e le miserie dell’al di qua.

Ma le nostre fedi non sono in antitesi, si completano, si integrano. Vanno oltre, si superano in una sola fede, una fede grande come il nostro dolore, una fede splendente come la nostra tradizione: la fede nel riscatto dell’Italia repubblicana. (Applausi a sinistra – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Labriola. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Rivolgo la preghiera di parlare domani.

PRESIDENTE. La seduta è cominciata alle 16 e non sono che le 19.30. Si deve tener presente che vi sono 399 iscrizioni a parlare.

I problemi, non si risolvono sulla base di richieste generiche. Bisogna rendersi conto della situazione. Rinviare a domani significa che la discussione di questo particolare titolo non potrà finire nella settimana, e gli onorevoli colleghi sanno che vi sono altri dieci titoli.

Io non vorrei imporre all’onorevole Labriola di parlare, ma penso, poiché lo conosciamo bene, che egli abbia sempre pronti una quantità di argomenti, e che, con la sua vasta dottrina, se parlerà questa sera, non mancherà certamente al suo compito.

LABRIOLA. Non pensavo che dovessi prender la parola oggi. Ero persuaso che il turno mi sarebbe toccato giovedì.

Ma, a parte la mia impreparazione nel momento attuale, vi è anche la stanchezza dell’Assemblea, che ha tenuto oggi due sedute. È vero che la seduta pomeridiana è cominciata alle 16; tuttavia abbiamo avuto una prima seduta alle 10; e quindi prego il Presidente di voler tener conto di questa situazione, e di non respingere la preghiera che gli rivolgo nella maniera più insistente, perché decida di rinviare a domani il seguito della discussione.

PRESIDENTE. Questa sera rinvieremo la discussione, ma colgo l’occasione per dichiarare, per il senso di responsabilità che avverto e per rispondere al mandato di fiducia datomi dall’Assemblea nel giorno che mi ha eletto Presidente, che d’ora innanzi non potrò accedere a nessuna di tali richieste, poiché altrimenti non saremo in grado di finire i nostri lavori nel termine prescritto. Ho fatto presente ai responsabili dei vari Gruppi la situazione nella quale ci troviamo. Essi si sono impegnati ad un’opera di convinzione ed il primo risultato è stato che da ieri si sono avute altre 67 iscrizioni. È evidente che, giunti ad un certo punto, dovrò pensare io per conto di tutti i colleghi, ciascuno dei quali non può mettere il suo pensiero in connessione con quello degli altri. È questa la ragione per la quale appaio talvolta un poco severo.

Onorevole Labriola, lei mi dà l’occasione di dire queste cose, ma non è la causa responsabile. Desidero aggiungere, onorevoli colleghi, specialmente a coloro che hanno sollevato questa questione, che quattro ore di seduta, anche dopo averne fatte due o tre nel mattino, non superano i limiti della resistenza nostra. Io penso, non dico agli operai, ma agli impiegati che entrano in ufficio e che fanno certamente, con il loro orario continuato, cinque o sei ore consecutive. E non mi pare che il paragone sia disdicevole alla nostra dignità, perché evidentemente noi compiamo funzioni più importanti, ma che forse impegnano in maniera meno insistente la nostra attenzione.

Comunque ho colto l’occasione e ho detto ciò in una forma stringata perché pensò che in generale devono essere stringate tutte le cose che diciamo. Scusino gli onorevoli colleghi, se sono sembrato molto crudo e non troppo elaborato. (Approvazioni).

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle ore 16.

La seduta termina alle 19.35.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 17 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 17 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Interrogazioni (Svolgimento):

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                       

Caccuri                                                                                                            

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Castelli avolio                                                                                               

Bernini, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione                                  

Giacchero                                                                                                        

Presidente                                                                                       Angelucci      

Assennato, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero                       

Natoli                                                                                                              

Presentazione di disegni di legge:

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Presidente                                                                                                        

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1943, n. 383, e successive modificazioni (Seguito della discussione):

Carboni, Relatore                                                                                              

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Presidente                                                                                                        

Persico                                                                                                             

Fuschini                                                                                                            

Dozza                                                                                                               

Caroleo                                                                                                           

Castelli Avolio                                                                                               

Quintieri Adolfo                                                                                             

Uberti                                                                                                               

Presentazione di disegni di legge:

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella degli onorevoli Caccuri, Monterisi, Gabrieli, Recca, al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere, perché – con riferimento al decreto legislativo 23 novembre 1946, n. 403 – vuole disconoscere, agli effetti della revisione dei prezzi dei contratti di appalto dei lavori in corso, gli aumenti del costo della mano d’opera verificatisi, in conseguenza delle convenzioni sindacali; per i contratti stipulati durante il periodo delle discussioni e delle trattative delle convenzioni stesse, adducendo che debba presumersi che le imprese appaltatrici, per essere già informate della eventualità dei nuovi oneri, ne abbiano tenuto conto nel formulare le loro offerte in sede di gara. Gli interroganti chiedono pertanto se non sia oltremodo opportuno ed urgente che sia rimossa, ogni eccezione al riguardo e sia ristabilita la fiducia e la tranquillità fra le imprese appaltatrici, dando a queste la possibilità di proseguire i lavori intrapresi con la regolarità e l’intensità tanto necessarie in questo momento».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Il Ministero dei lavori pubblici è perfettamente conscio della eccezionale importanza del problema della revisione dei prezzi di contratti relativi a lavori eseguiti o in corso, e della necessità che sia ristabilita la fiducia e la tranquillità fra le imprese appaltatrici, per modo che queste possano attendere all’esecuzione dei lavori intrapresi con serenità e con la certezza che siano tutelati i loro giusti interessi.

Peraltro, le disposizioni del decreto legislativo 23 novembre 1946, n. 463, hanno dato luogo a gravissimi dubbi di interpretazione e per di più l’Amministrazione non può non preoccuparsi delle gravi conseguenze di ordine finanziario che l’accettare indiscriminatamente l’una o l’altra interpretazione può portare all’erario.

Di conseguenza, il Ministro ha ritenuto di sottoporre la questione al Consiglio di Stato, dal quale si attende ora il parere su quella che deve essere l’esatta interpretazione delle disposizioni stesse.

Frattanto, per venire incontro alle richieste delle imprese, si è disposta la corresponsione ad esse di acconti fino al 50 per cento su quello che si prevede sarà l’ammontare definitivo della revisione.

Inoltre, si stanno studiando, di concerto con gli altri Ministeri interessati, con gli stessi rappresentanti delle imprese, della Confederazione generale del lavoro e dell’Associazione bancaria italiana, i mezzi più opportuni per accelerare e snellire la procedura della revisione e per rendere facilmente scontabili dalle banche i crediti delle imprese nei confronti dell’Amministrazione dello Stato.

PRESIDENTE. L’onorevole Caccuri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CACCURI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario, ma non sono per nulla sodisfatto delle sue dichiarazioni. I dubbi, in vero, espressi dal Ministero dei lavori pubblici, sono del tutto infondati e l’interpretazione che si vuol dare alle disposizioni relative alla revisione dei prezzi dei contratti di appalto sembra in contrasto con l’equità e con la legge.

In sostanza, per quanto ci è dato di conoscere attraverso le note inviate ai Provveditorati, il Ministero dei lavori pubblici assume che nella revisione dei prezzi dei contratti di appalto non si debba tener conto degli aumenti del costo della mano d’opera, verificatisi in conseguenza delle convenzioni sindacali, quando i contratti siano stati stipulati nel periodo che intercorre fra l’inizio delle discussioni e il raggiungimento degli accordi salariali. E non si deve tener conto, assume il Ministero, poiché quando il contratto di appalto si è concluso durante le trattative delle convenzioni sindacali, le imprese appaltatrici avrebbero tenuto presente, nel formulare le loro offerte in sede di gara, l’eventualità dei gravami derivanti dagli accordi salariali in corso.

Quanto sia arbitrario però (mi permetta l’onorevole Sottosegretario l’espressione) tale assunto non vi è chi non veda; in verità, anzitutto non potevano le imprese aver tenuto conto degli aumenti in corso di concordamento, perché non potevano prevedere e comunque non potevano sapere se e quali sarebbero stati gli aumenti salariali di cui ancora si discuteva nel momento nel quale si stipulavano i contratti di appalto. È ovvio, onorevole Sottosegretario, che nessuna impresa è in grado, prima della pubblicazione dei concordati salariali, di valutare la reale entità degli aumenti e di prevedere la loro regolamentazione. Ma anche se l’impresa avesse potuto prevedere gli aumenti futuri, non avrebbe potuto, in ogni modo, non prescindere dal calcolo di essi al momento della gara, poiché le imprese concorrenti agli appalti dovevano pur ritenere che, ove i concordati sindacali in corso di trattativa, fossero stati definiti e stipulati, gli oneri conseguenti sarebbero stati sempre riconosciuti, in sede di revisione dei prezzi, a norma del decreto del Capo provvisorio dello Stato del 23 novembre 1946, n. 463, il quale dispone che siano computate tutte le variazioni di prezzi verificatesi successivamente all’aggiudicazione, senza punto distinguere tra aggiudicazione intervenuta dopo o durante il corso delle trattative salariali.

Le conseguenze che all’industria edilizia derivano dall’interpretazione data dal. Ministero dei lavori pubblici sono gravissime. Si tratta di centinaia di milioni, anzi di diecine di miliardi che verrebbero sottratti alle imprese, alcune delle quali, specie le cooperative, in seguito alla mancata revisione, versano in condizioni quasi fallimentari. Il Ministero dei lavori pubblici fa conoscere di avere interpellato il Consiglio di Stato, ma penso che non era proprio il caso di scomodare il Consiglio di Stato per l’interpretazione di una disposizione che appare chiara all’evidenza. (Interruzione dell’onorevole Uberti).

E ritengo che non è affatto opportuno frapporre ulteriori indugi per sostenere una tesi che può anche apparire addirittura vessatoria, o, comunque, giuridicamente grossolana e che non avrebbe dovuto, in ogni caso, trovare ingresso e tanto meno dei sostenitori.

Intanto, il ritardo, onorevole Sottosegretario, pregiudica assai gravemente gli interessi non solo delle imprese che, esaurite ormai le risorse e i fidi bancari, sono costrette a sospendere in tutto o in parte i lavori, ma pregiudica soprattutto l’interesse di masse di lavoratori che, quando proprio non sono licenziate, non riescono da settimane a riscuotere i salari.

Né gli acconti di cui fa cenno l’onorevole Sottosegretario possono rendere paghe le ditte, perché fra l’altro pare che tali acconti si riferiscano ai contratti di appalto incontroversi e non a quelli in discussione, cioè ai contratti stipulati durante il periodo delle trattative salariali.

PRESIDENTE. Onorevole Caccuri, la prego di concludere.

CACCURI. Concludo, onorevole Presidente. Non posso dichiararmi sodisfatto quindi della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato e insisto anzi vivamente perché il Ministero faccia subito fronte agli impegni contrattuali, mettendo da parte ogni interpretazione curialesca delle disposizioni che regolano le revisioni in oggetto, e ponendo così fine ad una incresciosa situazione che aggrava la crisi in cui purtroppo si dibatte l’industria edile e che mette a repentaglio l’esistenza stessa delle aziende, preoccupate, fra l’altro, di conservare la possibilità di lavoro agli operai.

E mi preme far presente all’onorevole Sottosegretario che dalle diverse provincie meridionali pervengono giornalmente telegrammi ai deputati di tutti i partiti – se fossero presenti potrebbero farne fede gli onorevoli Pastore e Miccolis – telegrammi che segnalano tutta una situazione veramente grave, insostenibile, da cui potrebbero derivare, se non si provvede con urgenza, pericolosi disordini.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Castelli Avolio, al Ministro delle finanze e del tesoro, «per conoscere se ritenga opportuno emanare apposita disposizione legislativa che stabilisca la riammissione in termine dei contribuenti già ammessi al godimento della temporanea esenzione dell’imposta di ricchezza mobile per gli opifici tecnicamente organizzati, per il periodo in cui non hanno potuto godere di tal beneficio per la distruzione totale o parziale o per danneggiamento dei detti opifici causato dagli eventi bellici».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI. Sottosegretario di Stato per il tesoro. La questione sollevata dall’onorevole interrogante ha formato oggetto di studio da parte degli Uffici dei Ministero delle finanze e del tesoro.

Non è da nascondere che la questione stessa riveste notevole importanza ai fini della ricostruzione delle attrezzature industriali del Paese, ma che, al tempo stesso, l’accoglimento di esse si traduce in nuovi sacrifici per l’Erario.

Pur tuttavia, è da considerare che la temporanea esenzione da imposta di ricchezza mobile dei redditi derivanti da opifici tecnicamente organizzati presuppone l’effettiva produzione del reddito, giacché l’esenzione a favore di un reddito che non può essere prodotto non ha ragione di sussistere.

Appare perciò conforme a criteri di giustizia adottarsi il principio che quando, per causa di danneggiamento dipendente dagli eventi bellici, l’opificio tecnicamente organizzato è rimasto inattivo, il periodo di forzata inattività non debba essere computato nella durata della temporanea esenzione.

All’uopo il Ministero si riserva di inserire, in un provvedimento di prossima emanazione, una norma del seguente tenore:

«Il tempo durante il quale gli opifici tecnicamente organizzati, già ammessi a godere, a norma di leggi speciali, dell’esenzione, temporanea da imposta di ricchezza mobile, sono rimasti inattivi per effetto di danneggiamento di guerra, non è computato nella determinazione del periodo di esenzione».

PRESIDENTE. L’onorevole Castelli Avolio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CASTELLI AVOLIO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato delle dichiarazioni fatte e della promessa di tradurre in un testo legislativo la disposizione che ho invocata con la mia interrogazione.

Prendo atto di questo impegno e mi dichiaro sodisfatto.

Sarò naturalmente, ancora più sodisfatto, anzi completamente sodisfatto, quando sarà emanata la disposizione in parola.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Scotti Alessandro, Giacchèro, Scalfaro, ai Ministri della pubblica istruzione e dei lavori pubblici, «per sapere se non intendano svolgere una ben coordinata azione ai fini di porre i comuni in condizione di rimettere in efficienza gli edifici scolastici, delle zone rurali che sono il più delle volte inadeguati alle esigenze scolastiche e quasi sempre privi di impianti igienico-sanitari che possono e devono essere parte integrante dei mezzi educativi».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

BERNINI, Sottosegretario di stato per la pubblica istruzione. I provvedimenti relativi alle costruzioni ed al restauro di edifici scolastici, ivi compresi quelli per le scuole rurali, sono di pertinenza del Ministero dei lavori pubblici, il quale può promuovere il finanziamento, sia mediante la concessione di mutui di favore con  quote di interessi a carico dello Stato, sia mediante la concessione di sussidi.

Tale attività del Ministero dei lavori pubblici è estesa anche agli impianti igienico-sanitari, dei quali l’onorevole interrogante giustamente ed opportunamente rileva l’importanza capitale nell’ambito scolastico. Se, come sembrerebbe, l’onorevole interrogante, con le parole «rimettere in efficienza» intende fare riferimento ai locali degli istituti che sono stati danneggiati dalla guerra, l’intervento statale può risolversi in ricostruzioni dirette a totale carico dello Stato, che fa però sempre capo al bilancio del Ministero dei lavori pubblici.

Il Ministero della pubblica istruzione ha sempre seguito con costante interessamento, pur nelle presenti difficoltà finanziarie del bilancio dello Stato, il settore di attività dell’edilizia scolastica che, in atto, è comprensibilmente indirizzato in modo speciale alla riparazione, nei limiti del possibile, e alla ricostruzione degli edifici danneggiati dalla guerra.

Ad ogni modo, si dà precisa assicurazione che, per quanto riguarda in modo speciale gli edifici scolastici delle scuole rurali e gli impianti igienico-sanitari di tutte le scuole, sono state impartite istruzioni agli uffici del Ministero, affinché tali questioni siano esaminate con particolare interessamento, in relazione al punto di vista, che il Ministero condivide, dell’onorevole interrogante.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere per la parte che lo concerne.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Aggiungerò poche parole a quanto ha comunicato il Sottosegretario per la pubblica istruzione per ciò che concerne la competenza del Ministero dei lavori pubblici. Dal testo dell’interrogazione non si rileva se essa si riferisca alla rimessa in efficienza degli edifici danneggiati dalla guerra o di quelli bisognosi di restauro per vetustà.

La riparazione degli edifici danneggiati dalla guerra avviene per opera di questo Ministero per mezzo dei Provveditorati alle opere pubbliche, ai quali i comuni, se del caso, possono segnalare l’urgenza delle riparazioni.

Per le riparazioni di altro genere, i comuni possono avvalersi dei beneficî dell’articolo 6 del regio decreto 17 marzo 1930, il quale dispone che ai comuni e agli altri enti morali che si occupano dell’istruzione elementare possono essere concessi, per costruzione, adattamento e restauro di edifici scolastici, in sedi rurali, non più che due aule, con annessa abitazione per l’insegnante.

Il sussidio è concesso nella misura della metà della spesa, mentre per l’altra metà i comuni e gli enti possono ottenere mutui di favore.

Per gli edifici con un numero superiore di aule, i comuni e gli altri enti possono ottenere o il sussidio nella misura sopraindicata, con un massimo di lire 200.000, o il mutuo di favore per l’intera spesa.

Il Ministero dei lavori pubblici sta esaminando la possibilità di elevare la misura massima del detto contributo, in relazione all’aumentato costo dei materiali e della mano d’opera.

Per quanto si riferisce agli impianti igienici, le norme per la compilazione dei progetti di edifici scolastici, approvate con regio decreto 27 maggio 1940, n. 875, stabiliscono che negli edifici rurali da 1 a 6 aule devono prevedersi, oltre alle aule, i locali per i servizi igienici e per un impianto di docce.

L’osservanza di tali norme è stata sempre controllata dal Ministero nel concedere i beneficî sopraindicati.

Per il finanziamento e l’esecuzione dei lavori, sono infine applicabili le disposizioni dei decreti legislativi 10 agosto 1945, n. 517, e 12 ottobre 1945, n. 690, e successivi, che consentono l’anticipo della intera spesa, con l’obbligo da parte dei comuni di rimborsare allo Stato, in trenta rate annuali, senza interesse, il 50 per cento della spesa predetta.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Scotti Alessandro, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto l’onorevole Giacchero, secondo firmatario.

GIACCHERO. Ringrazio gli onorevoli Sottosegretari per le risposte e, in un certo senso, potrai anche dichiararmi sodisfatto, se non altro perché devo riconoscere che il Governo si rende conto dell’importanza del problema. Non vi è dubbio che quando abbiamo segnalato questo problema, né i miei colleghi né io eravamo così ottimisti da sperare che in sede di risposta il Governo potesse dirci di averlo risolto completamente, anche se non eravamo così pessimisti da pensare che la risposta sarebbe venuta cinque mesi dopo la domanda.

Ma qui non si tratta tanto di essere o di non essere sodisfatti: si tratta di impostare seriamente la risoluzione di un problema che, se vogliamo che quelle belle frasi che noi nelle sedute pomeridiane stiliamo, in sede di Costituzione, sulla evoluzione delle classi proletarie, non rimangano soltanto delle frasi, ha un’importanza enorme. Se vogliamo veramente che la classe contadina, la quale rappresenta la maggior parte, o se preferite, la classe più numerosa del popolo italiano, percorra la dura, durissima salita, del progresso umano e del vivere civile, dobbiamo cominciare a farle compiere il primo passo, che è precisamente quello che può e deve compiersi nella scuola. Il tempo che qui mi è concesso, evidentemente, non mi permette di addurre altre ragioni, altri argomenti, quali si potrebbero addurre numerosissimi alla nostra tesi, sia da un punto di vista generale, sia da quello un po’ più particolare di noi deputati piemontesi firmatari dell’interrogazione, che ci riferivamo, specialmente, alla provincia di Asti ed al Piemonte. Noi vorremmo soltanto che il Governo desse ai figli del popolo, che vivono nei casolari sparsi in tutte le campagne, il modo di giungere agevolmente ad una scuola dove potessero trovare non un ambiente freddo, disadorno, a volte, direi, quasi ostile, oltre che antigienico; ma trovassero invece un ambiente in cui, con un minimo di attrezzatura, essi non imparassero soltanto le prime nozioni dell’alfabeto o quelle dell’aritmetica, ma potessero fissare la prima, e perciò incancellabile, impronta di norma civile.

In sostanza vorremmo che il Governo dedicasse la massima attenzione a questo problema, e non si occupasse, non si ricordasse soltanto dei contadini, quando si tratta di andare a requisire qualche quintale di grano o di far arrestare qualche coltivatore, perché se ne è trattenuto qualche chilogrammo in più del consentito. Vorremmo che se ne ricordasse anche e, direi, soprattutto, quando si tratta di dare ai giovani, ai figli dei contadini, quell’alimento, altrettanto importante del grano che essi danno a noi, quell’alimento che essi possono avere soltanto dalle scuole, sia pure rurali, ma che devono essere sempre degne del nome di scuola.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione, dell’onorevole Pajetta Giuliano, al Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, «a) sulla possibilità della concessione di un quantitativo fisso mensile di francobolli di franchigia militare per i militari di leva ed i sottufficiali delle Forze armate, tenuto conto del livello estremamente basso della decade e del soldo; b) sulla possibilità di una assegnazione fissa mensile di una certa quantità di carta da lettere, buste e cartoline postali semplici a detti militari».

Poiché l’onorevole Pajetta Giuliano non è presente, si intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Angelucci e Dominedò, ai Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, «per sapere quali siano le ragioni per le quali è stata sospesa, presso gli uffici del Genio civile del Lazio e presso il Provveditorato delle opere pubbliche, ogni attività tendente a predisporre i lavori pubblici già in programma ed il relativo finanziamento; e per conoscere quali siano i provvedimenti urgenti che i due Ministri ritengono di dover prendere per superare la suddetta situazione, che determina disoccupazione e grave malumore tra le Amministrazioni comunali e le popolazioni, specialmente per il raffronto che esse fanno con i dispendiosi lavori di movimento di terra, che si eseguono nella città di Roma con una spesa di centinaia: di milioni, al mese».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. La deficienza di fondi ha reso impossibile il finanziamento di numerosi lavori già programmati. In conseguenza, da parte di alcuni uffici si è ritenuto opportuno non provvedere alla compilazione di nuovi progetti nella considerazione che, se fosse passato un lungo periodo tra la compilazione stessa e il finanziamento di essi, sarebbe stato necessario un aggiornamento e quindi un duplice lavoro: in alcuni casi, purtroppo, l’insufficienza dei fondi ha reso necessario sospendere anche i lavori in corso.

Peraltro, essendo superata la fase critica in seguito alle recenti assegnazioni di fondi da parte del Tesoro, è stata recentemente diramata una circolare a tutti i Provveditorati alle opere pubbliche, disponendosi che venga senz’altro ripresa sia l’esecuzione dei lavori già approvati, sia l’attività di progettazione degli uffici del Genio civile e che le perizie vengano approvate e finanziate in relazione alle disponibilità dei fondi che sono stati o che saranno in questi giorni assegnati a ciascun Provveditorato ed a ciascuna provincia, tenendo conto, agli effetti della precedenza, dello stato di urgenza dei lavori medesimi.

PRESIDENTE. Ha facoltà di rispondere, per la parte che lo concerne, l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. La mia risposta sarà breve. Devo fare presente, per quanto concerne il Ministero del tesoro, che con provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri del 17 febbraio scorso, è stata disposta l’assegnazione, a favore del Ministero dei lavori pubblici, della somma di 35 miliardi di lire, per l’esecuzione di opere pubbliche straordinarie.

Lo stesso Ministero dei lavori pubblici, nella propria competenza, provvederà alla distribuzione di detta somma fra i vari Provveditorati alle opere pubbliche, che la ripartiranno a favore delle amministrazioni comunali, in relazione ai progetti di opere pubbliche già predisposti ed approvati.

PRESIDENTE. L’onorevole Angelucci ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ANGELUCCI. Ringrazio gli onorevoli Sottosegretari di Stato delle assicurazioni che hanno dato per quanto riguarda l’avvenire. È certo che queste assicurazioni porteranno fra le popolazioni del Lazio quel senso di tranquillità che hanno perduto nel vedere sospesi non solo i lavori in corso, ma anche quelle predisposizioni di carattere tecnico che precedono l’attuazione dei lavori pubblici programmati. Avrei desiderato però una maggiore precisazione su queste circostanze, e sul fatto che sono stati sospesi anche quei lavori pubblici per i quali era già stato predisposto il finanziamento e quelli che già avevano avuto inizio. Io penso e ritengo che se il finanziamento era stato predisposto realmente e sostanzialmente, i fondi dovevano esistere o presso il Provveditorato o presso il Ministero dei lavori pubblici. È questa, mi pare, la lacuna che lasciano le risposte degli onorevoli Sottosegretari. D’altra parte, quello che mi lascia insoddisfatto, e che lascia insoddisfatto non solo me, ma le popolazioni del Lazio e le amministrazioni comunali, è che a Roma si fanno dei lavori pubblici che certamente sono meno importanti di quelli che vengono richiesti al Governo da parte delle amministrazioni comunali periferiche. Queste chiedono lavori di carattere urgente e di importanza fondamentale. Noi dobbiamo lamentare quella che è una delle più gravi incongruenze che il fascismo ci ha lasciato, cioè che a pochi chilometri da Roma vi siano ancora comuni che mancano completamente di fognature. Domandiamo scuole che, come diceva l’oratore che mi ha preceduto, sono le basi fondamentali della ricostruzione del popolo italiano.

Domandiamo case popolari. Pensate che persino nel Cassinate sono state sospese le ricostruzioni di case popolari, mentre a Roma vediamo esecuzioni di lavori di movimento di terra, che non hanno quella importanza. Anche oggi le famiglie del Lazio abitano in tuguri e grotte.

È questa parte veramente umana che manca di risposta; il Governo non ha risposto sufficientemente alla prima parte della mia interrogazione.

Ripetendo i ringraziamenti agli onorevoli Sottosegretari per quello che riguarda le assicurazioni da essi date per il futuro, non posso dichiararmi sodisfatto per quanto riguarda la prima parte della mia interrogazione e sono sicuro di poter affermare che la mia insoddisfazione è anche l’eco della insoddisfazione delle amministrazioni comunali e della popolazione del Lazio.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Leone Giovanni, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno, dell’agricoltura e foreste e dei lavori pubblici «per conoscere se non reputino opportuno promuovere un provvedimento legislativo che abrogando il Regio decreto 11 marzo 1923, n. 691 (Gazzetta Ufficiale n. 85 dell’11 aprile 1923) richiami in vigore l’ultimo comma dell’articolo 60 (dal predetto decreto abrogato) della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità. Il comma dell’articolo 60 – di cui si chiede il ripristino – stabiliva che, in caso di retrocessione per l’ipotesi che il fondo «non ricevette in tutto o in parte la preveduta destinazione». il prezzo da pagare da parte del proprietario espropriato non poteva eccedere «l’ammontare dell’indennità ricevuta dal proprietario per l’espropriazione del suo fondo»; e rispondeva ad un’indiscutibile criterio di giustizia, diretto a ripristinare, senza danno, il proprietario nel suo diritto, quando fosse cessato il motivo superiore dell’utilità pubblica, che legittimava l’espropriazione e ad impedire, in conseguenza, l’ingiustificato arricchimento da parte dell’ente espropriante per l‘eventuale aumentato valore del fondo. L’abrogazione di quel comma fu ispirata dal criterio statolatrico della legislazione fascista, forse non scevro di sotterranei riflessi particolari; e non è compatibile con il rinnovato spirito di difesa dei diritti dell’individuo. Il ripristino dell’ultimo comma dell’articolo 60, oltre che al segnalato motivo di guarentigia del diritto del cittadino, risponde ad una più rispettabile ed urgente esigenza: quella di consentire, mediante il facilitato diritto di retrocessione, il ritorno di molti fondi ai proprietari, che in regime di coltivazione diretta o di affitto riconquisterebbero alla coltivazione ed alla produzione appezzamenti, talora vasti, che dall’ente espropriante o sono abbandonati o non sono utilizzati, a scopo di produzione agraria».

Non essendo presente l’onorevole Leone Giovanni, s’intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Natoli, al Ministro del commercio con l’estero, «per conoscere esattamente i criteri che hanno informato l’accordo concluso col Governo norvegese per la costruzione di navi nei Cantieri Ansaldo. E per sapere se è vero che il Governo ha accettato in pagamento una quantità di stoccafisso per l’86 per cento ceduto ad un gruppo di commercianti. Tale stoccafisso sarebbe ceduto al pubblico ad un prezzo elevatissimo. Questo gravoso sopraprezzo su un alimento di consumo popolare contribuisce all’aumento del costo della vita e rappresenta un premio che i consumatori dovrebbero pagare ai Cantieri Ansaldo, rinnovandosi così un protezionismo dannoso che il regime repubblicano deve invece eliminare».

Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero.

ASSENNATO, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero. Chiedo scusa all’onorevole interrogante per aver rinviato l’interrogazione più volte. Nell’aprile e giugno 1946, la Società Ansaldo stipulò con alcuni armatori norvegesi due contratti per la fornitura di due motonavi da carico da tonnellate 9.000 per il prezzo in sterline di 520.000 e 497.000, pagabile per il 35 per cento in valuta estera e per il 65 per cento mediante stoccafisso, tonnellate 2.321 per la prima e tonnellate 2.210 per la seconda.

Il Governo italiano consentì alla Ditta Ansaldo le libere disponibilità della valuta estera, con il solo vincolo che almeno il 50 per cento fosse speso in importazione di materiale atto alle ricostruzioni.

Per realizzare le perdite di stoccafisso, calcolate a corone 2,18 pari a Lit. 98,10, la Società Ansaldo pattuì la cessione al più forte gruppo d’importatori.

Il Ministero del commercio con l’estero, informato dell’operazione, la sottopose al Comitato italiano della ricostruzione, segnalando che il gruppo degli importatori non rappresentava la totalità della categoria.

Il C.I.R. ritenne di approvare gli accordi fra il Cantiere e i gruppi importatori, disponendo che il 14 per cento del contingente fosse lasciato a disposizione degli altri importatori alle stesse condizioni del rimanente 86 per cento.

Circa il prezzo, essendo necessaria una maggiorazione per mettere il cantiere in condizioni di fornire le motonavi, si assegnarono ai Cantieri tonnellate 9.000 di baccalà sulle 10.000 previste dall’accordo italo-norvegese, e ciò allo scopo di imputare su una più bassa massa di merce la somma globale da corrispondere al Cantiere, e rendere così meno onerosa la maggiorazione dello stoccafisso.

In compendio il prezzo di lire 205 risultò così composto:

costo dello stoccafisso cifporto di imbarco                                            L. 98,10

spese di sbarco, magazzinaggio, guardianaggio,

imposta generale sull’entrata

»                                                                29.90

premio fisso a favore dei cantieri »               22 –

  1. 150 –

A tale prezzo sono state ancora aggiunte:

utile ai gruppi finanziatori »                         22 –

quote di partecipazione agli utili a favore dei cantieri »                               33 –

Totale       L. 205 –

In sostanza i cantieri ottennero lire 55: lire 22 a titolo di premio fisso per recupero della perdita iniziale, e lire 33 per partecipazione agli utili, per garanzia di un eventuale maggior costo della costruzione, per aumenti salariali, ecc.

Questa l’operazione che è venuta ad incidere sul consumatore italiano, ma nella misura dal C.I.R. ritenuta idonea a colmare il dislivello tra i prezzi interni e i prezzi esteri.

Le speculazioni successive esulano dalla competenza del Ministero del commercio con l’estero.

Il Commissariato dell’alimentazione da prima bloccò il 35 per cento e poi l’intera partita, ritenendo la sua decisione come logica conseguenza di una manovra a carattere nettamente speculativa, esercitata da tutti coloro i quali hanno operato sul baccalà d’importazione, lasciato a disposizione degli importatori, speculazione che portò il prezzo, secondo la nota del Commissariato dell’alimentazione, da lire 400 a lire 500 al chilogrammo, in alcune località.

Attualmente la pratica si trova a questo punto: i cantieri Ansaldo, che oltre alle lire 22 di premio fisso per recupero della perdita iniziale, ottennero una quota utile di lire 33 per garanzia di eventuali aumenti di costo per aumenti salariali, ecc., ora lamentano una perdita di lire 63.000.000 per i prezzi fissati, e dì lire 130.000.000 per aumenti del costo di mano d’opera e materiale: in tutto lire 193.000.000, a rifarsi dei quali hanno richiesto l’aumento dello stoccafisso a lire 236, del baccalà salinato a lire 214,65, del baccalà secco a lire 285,65.

Il 25 febbraio, in una riunione presso l’Alto Commissariato dell’alimentazione, i rappresentanti degli importatori non hanno accettato la riduzione ritenuta giusta dalla Commissione per la voce «spesa» da lire 29,90 a lire 23,50 e per la voce «utile» da lire 22 a lire 15,20, e, data l’opposizione degli importatori, la questione sarà sottoposta al Comitato italiano per i prezzi.

La Commissione ha anche ritenuto di rimettere al C.I.R. la decisione sulla richiesta di maggior costo delle navi, richiesta che si fonda sul seguente conteggio presentato dai cantieri:

il costo delle navi senza utile                   L. 1.213.000.000

quota in valuta estera a cambio ufficiale »     320.500.000

da ricavarsi »                                              892.500.000

Questo è il conto sul quale si fonda la richiesta originaria di vendita della merce per la somma di lire 892.500.000, da maggiorarsi ora nella misura sovraproposta dai cantieri.

In detto conto si nota che tutta la valuta lasciata disponibile è stata imputata dai cantieri al solo valore del cambio ufficiale di lire 320.500.000.

La pratica sarà ora trasmessa al C.I.R. per nuovo e definitivo esame.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NATOLI. Ringrazio il Sottosegretario al commercio estero, ma vedo che anche lui non è sodisfatto di questo affare, e naturalmente, non posso esserlo io, interrogante. Tutti i punti indicati nella mia interrogazione sono stati confermati.

Risulta che lo stoccafisso arrivato in Italia al prezzo di lire 98 viene ceduto al consumatore oggi a 400, 500 lire al chilo, e che l’Ansaldo ha ottenuto quella valuta estera che agli altri viene negata.

Inoltre mi pare, da una comunicazione fatta dal Ministero del commercio estero ad un giornale cittadino, che questo stoccafisso si trovi giacente sulle banchine di Genova e cominci a mandare un cattivo odore, non solo per la lunga attesa, ma anche perché sembra che il contratto sia stato concluso in maniera contraria agli interessi del consumatore e dello Stato.

Risulta che ai cantieri è stato concesso un premio su ogni chilogrammo di stoccafisso e che è stato concesso un monopolio per l’86 per cento della quantità ai grossi commercianti, escludendo i piccoli. Ora, questi grossi commercianti si rifiuterebbero di accettare una riduzione dei loro guadagni, in modo che, secondo le dichiarazioni fatte dal Sottosegretario al commercio estero, tutti avrebbero perduto, anche l’Ansaldo che ha guadagnato. Ed allora, mi pare che sia un affare abbastanza oscuro.

L’onorevole Sottosegretario ha detto che il suo dicastero è estraneo agli sviluppi speculativi, e son proprio questi che ci interessano. Sarebbe opportuno che chiarimenti, esatti del C.I.R., se questi è responsabile, venissero forniti all’Assemblea Costituente ed anche ai poveri consumatori, i quali pagano carissimo un prodotto che potrebbero avere a buon mercato. Ora, mi pare che sia una politica alimentare discutibile quella di far aumentare anche i prezzi che potrebbero essere bassi. Pertanto, non posso dichiararmi sodisfatto.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Presentazioni di disegni di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Mi onoro presentare all’Assemblea Costituente i seguenti disegni di legge:

Norme per il collocamento a riposo, a domanda o d’ufficio, dei dipendenti degli Enti pubblici locali e dei segretari comunali;

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro dell’interno della presentazione di questi disegni di legge. Saranno inviati alle Commissioni competenti.

Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1943, n. 383, e successive modificazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1943, n. 383, e successive modificazioni.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Carboni, Relatore. Ne ha facoltà.

CARBONI, Relatore. A nome della Commissione, intendo anticipare brevi dichiarazioni su quanto avrò occasione di dire in sede di trattazione degli emendamenti, per sollecitare e semplificare la discussione.

L’oggetto del disegno di legge in esame è limitato. Non si tratta di una riforma totale della legge comunale e provinciale, ma di una riforma limitata; potrei dire che si tratta della riforma dei controlli.

La legge ha un carattere transitorio. Si tratta di una legge, la quale avrà breve durata, fino al momento in cui il nuovo Parlamento delibererà una riforma completa della legge comunale e provinciale, in seguito all’imminente riforma costituzionale. Ed allora, è necessario mantenere la discussione e gli emendamenti nei limiti dell’oggetto e del carattere del disegno di legge.

Qui noi abbiamo inteso dei discorsi molto interessanti e si sono presentati numerosissimi emendamenti, dei quali, alcuni attengono rigorosamente al tema ed all’oggetto del disegno di legge, e in massima parte o in buona parte saranno accettati dalla Commissione; altri hanno una relazione indiretta con l’oggetto del disegno di legge, e la Commissione farà tutti gli sforzi di buona volontà per accettarli, sempre che siano conformi a quello che è lo scopo del disegno di legge. Altri invece, e sono molti, sono completamente fuori del tracciato del disegno di legge, e, per quanto alcuni di essi esprimano concetti ai quali si uniforma l’idea della Commissione e che, in una prossima riforma generale, potranno essere accettati entrando a far parte della legge che prenderà il posto della legge comunale e provinciale attuale, allo stato delle cose non possono essere accettati dalla Commissione. Non possono essere accettati, perché altrimenti si sovvertirebbero il carattere e l’oggetto del disegno di legge, perché si perverrebbe ad una riforma totale, che non può essere improvvisata in una discussione, come quella che noi facciamo.

Alcuni di questi emendamenti comporterebbero persino la necessità della riforma di leggi complementari e di altre che non hanno nulla a che vedere con la legge comunale e provinciale.

La Commissione mi ha dato incarico di fare questa anticipata dichiarazione, per invitare gli onorevoli colleghi a mantenere la discussione sul tema che ci occupa. Altrimenti la Commissione dovrebbe proporre che il disegno di legge fosse rimandato al Governo per prepararne un altro più approfondito e più completo; il che credo sarebbe dannoso e contrario allo scopo che ci proponiamo tutti noi – o la quasi totalità di noi – cioè di apprestare, attraverso questo disegno di legge, un primo passo più decisivo verso quella libertà e quella democrazia degli enti locali, che è un’aspirazione pressoché unanime. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlate l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Sono pienamente d’accordo con l’onorevole Relatore. Se vogliamo veramente fare qualche cosa per i comuni, bisogna che manteniamo la discussione nei termini del disegno di legge altrimenti non ci sarebbe altra soluzione che rinviare tutto ad un esame più completo e presentare un nuovo disegno di legge. Ritengo che non sia nell’interesse delle amministrazioni comunali il rinvio di questo disegno di legge, il quale, per quanto modesto, risolve alcuni problemi interessanti per tutte le amministrazioni comunali.

Pregherei quindi i colleghi di volersi attenere al disegno di legge presentato e agli emendamenti soltanto degli articoli che sono inseriti nella legge, con eliminazione di tutti gli articoli aggiuntivi, che non potrebbero essere accettati dal Governo, salvo il riesame di tutta la materia è la presentazione di un nuovo disegno di legge.

PRESIDENTE. Se vogliamo aderire alle parole dell’onorevole Ministro dell’interno e del Relatore, dobbiamo concordare il procedimento che si deve seguire. Noi dobbiamo fare una discussione generale che si svolgerà intorno alla sostanza degli emendamenti. Mi sembra quindi necessario che i colleghi provvedano a ritirare gli articoli aggiuntivi presentati, non attinenti al preciso contenuto del disegno di legge.

PERSICO. Fatta eccezione per quelli accettati dalla Commissione.

PRESIDENTE. Naturalmente quelli accettati dalla Commissione restano; gli altri dovrebbero essere ritirati.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Vorrei fare un’osservazione in merito a quanto è stato detto dal Relatore e dall’onorevole Ministro.

Noi possiamo pienamente convenire con quanto essi hanno detto, ma ritengo che dal punto di vista della discussione di questo disegno di legge debba essere esaurita prima di tutto la discussione generale, magari con quelle riduzioni che potranno essere più opportune. Le osservazioni dell’onorevole Relatore e dell’onorevole Ministro riguardano la discussione degli articoli. Quando sarà chiusa la discussione generale, potremo prendere una decisione in merito agli emendamenti e agli articoli aggiuntivi ed essere probabilmente d’accordo, sia con l’onorevole Relatore, che con l’onorevole Ministro. Ma intanto, signor Presidente, mi pare sia necessario chiudere la discussione generale, tenendo presenti gli avvertimenti che sono stati dati dall’onorevole Relatore e dall’onorevole Ministro.

PRESIDENTE. Quanto hanno detto l’onorevole Ministro e il Relatore, onorevole Fuschini, comporterebbe questa conclusione: che nella discussione generale non si vada al di là del tema posto dal disegno di legge. Quindi discussione generale che deve riguardare esclusivamente la materia dei controlli, come ha accennato benissimo il Relatore; e allora è necessario che tutti tengano presente questa linea nella discussione. Al momento opportuno decideremo intorno alla sorte degli emendamenti.

L’onorevole Dozza ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

DOZZA. Mi sembra molto difficile mantenere la discussione strettamente entro i limiti indicati testé dall’onorevole Presidente. È questa la prima occasione che noi abbiamo di discutere il grave problema della legge comunale e provinciale, e mi pare che sarebbe opportuno, in sede di discussione generale, non limitare gli argomenti in esame, se pure gli oratori che interverranno dovranno limitare nel tempo il loro intervento. È molto meglio, infatti, che la limitazione avvenga nel tempo e non nel merito, perché mi sembra opportuno che i vari settori dell’Assemblea manifestino le loro opinioni rispetto a questo problema che è tanta parte della vita amministrativa della Nazione.

Quindi non vorrei che questa limitazione di esame fosse introdotta, sebbene mi renda conto della opportunità che in sede di discussione degli articoli si pervenga, invece, a quella limitazione che è stata indicata dall’onorevole Presidente.

PRESIDENTE. È evidente che l’onorevole Dozza dice qualcosa che ha importanza notevole. Si possono fare accenni ai temi generali, ma il disegno di legge impone che la discussione avvenga intorno alle disposizioni che ne costituiscono il contenuto.

È opportuno, in altri termini, che si tenga conto della necessità di mantenere la discussione in limiti tali da esaurire il compito nostro nel tempo prestabilito.

Riprendiamo dunque la discussione nei termini concordati.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Caroleo, al quale ritengo superfluo fare ulteriori raccomandazioni quanto alla brevità.

CAROLEO. Ho preso atto delle raccomandazioni, onorevole Presidente. E mi sia consentito di premettere brevemente, senza proposito di divagazioni, che io sono per le più ampie autonomie regionali.

Lo sono soprattutto, perché provengo da quel Mezzogiorno, che ha fatto per circa 80 anni il più disastroso e doloroso esperimento del centralismo burocratico.

Ho sentito dire che si rischierebbe di vedere un regresso della democrazia italiana, di vedere una cristallizzazione dei nuovi istituti nelle nostre povere provincie del Mezzogiorno. Penso che queste affermazioni possano giustificarsi soltanto in coloro che non conoscono il Mezzogiorno. Siamo miseri, siamo senza risorse, siamo afflitti dall’analfabetismo e dalla malaria, ma non per colpa dei cittadini del Mezzogiorno, ma per colpa soltanto dei tanti Governi di Roma.

Se anche non si vuol credere a quel fenomeno di simmetria dell’evoluzione politica, a cui, con la sua grande autorità, accennava pochi giorni addietro in questa Assemblea l’onorevole Orlando, bisogna venire in Calabria, in Lucania, dappertutto nel nostro Mezzogiorno, per sincerarsi che in sostanza noi non siamo indietro a nessuno per quello che è sete di libertà e capacità di goderne. E potrebbero di questo darmi atto anche molti colleghi conterranei dei partiti di sinistra, i quali sanno che le nostre popolazioni sono mature per tutti gli esperimenti democratici.

Una voce a sinistra. Magari!

CAROLEO. Senza magari, onorevole collega: questa è la realtà!

Si è parlato di pericoli per l’unità: ho sentito dire in questa Assemblea nientemeno che la campagna elettorale si è dovuta svolgere sul tema dell’unità nazionale. Ma quando si è messa in discussione l’unità dell’Italia? Ma chi ha osato di metterla mai in discussione? Quale partito politico, repubblicano o monarchico, ha avvertito questa necessità? Se i monarchici facevano il più grande titolo di onore di questa unità! Del resto, quello che è il sentimento dell’unità nazionale lo dimostrano i profughi di Pola.

PRESIDENTE. Sì, siamo d’accordo: ma venga al merito.

CAROLEO. Vi è un problema finanziario. Le spese saranno maggiori; ma i conti occorre farli alla maniera dell’onorevole Orlando, e bisogna anche persuadersi, quando si parla di spese, che versiamo sempre in quel campo di giustizia sociale, che deve naturalmente costare; così quando si tratta di giustizia sociale per raggruppamenti collettivi, per raggruppamenti comunali, come quando si tratta di giustizia sociale per singoli individui. Voi sapete che, da parecchio tempo in qua, ogni padrone intende che il dipendente deve costare di più. In sostanza – e ho finito sulla digressione e ne chiedo perdono – più che di problema economico o di problema unitario, qui si tratta di un problema essenzialmente politico, perché affiorano in questa stessa Assemblea quei medesimi motivi di ordine… totalitario che già si esprimevano nei lavori pseudo-parlamentari del 1932, quando si chiedevano dal Governo di Mussolini i pieni poteri per le modifiche alla legge comunale e provinciale.

Leggo poche considerazioni ricavate dalle relazioni del tempo: «Sia la lettura che lo spirito delle nuove disposizioni, espressione di una nuova coscienza dello Stato, non sembrano conciliarsi con le norme del vecchio testo, che in tutto il suo sistema risente di una forma di rappresentanza elettorale, già basilare nell’ordinamento degli enti locali, ma che è antitetica con quella in atto vigente. Il coordinamento delle nuove con le vecchie disposizioni rappresenta una necessità indifferibile, non solo di ordine giuridico, ma anche di ordine politico, poiché l’unità del diritto e la certezza di esso costituiscono fondamento di ogni retto ordinamento». E ancora: «Fu risolutamente respinta la tendenza a trasformare l’autarchia in autogoverno, tendenza che si era largamente affermata nel periodo anteriore all’avvento del fascismo. Comune e provincia conservano il loro carattere di ente autarchico anche oggi, dopo che furono soppressi gli organi elettivi, ma si è tolta la possibilità d’una loro contrapposizione allo Stato».

Passo al disegno di legge e mi dichiaro d’accordo con gli oratori che mi hanno preceduto nel riconoscere che questo è un primo passo, e non un piccolo passo, verso l’autonomia; un passo che va anche oltre i limiti della legge del 1915, in quanto quello che era un sindacato di legittimità preventivo viene tradotto in un controllo di legittimità successivo.

Però, noi che siamo già tacciati di imprudenza quando parliamo di autonomie, non vogliamo mostrarci incauti nelle riforme, e ci pare che sia opportuno fare un rilievo; cioè che i controlli, in genere, hanno una duplice funzione: una di vigilanza, di esame sullo svolgimento dell’attività dell’ente, attività che è bene si svolga in anticipo liberamente; un’altra, di controllo: quella della garanzia che l’atto amministrativo risponda esattamente alla convenienza, all’interesse dell’ente amministrato.

Ora, relativamente al primo aspetto del controllo, la possibilità di riforma deve essere la più larga desiderabile.

Però, per quello che si riferisce al secondo aspetto, si impongono delle cautele.

La relazione del Governo si intrattiene sul primo punto di questo problema, sulla prima funzione del controllo, mentre del secondo profilo si occupa la nostra Commissione, laddove dice: «D’altro canto, la collegialità degli organi deliberanti, il controllo delle minoranze, il sindacato della pubblica opinione liberamente manifestantesi, attenuano grandemente, se non eliminano, il pericolo di deliberazioni volutamente o manifestamente inopportune o dannose».

Ha fatto bene la nostra Commissione ad avvertire questa preoccupazione, che bisogna cercare di tradurre e tenere presente nelle riforme che vanno ad attuarsi. In che modo? Per quel che riguarda in generale gli atti della pubblica amministrazione, si può essere tranquilli e contare in pieno sul funzionamento dei diversi controlli di legittimità successivi, da quello considerato nell’articolo 6 del testo unico sul potere del Governo di annullare in qualunque tempo gli atti illegittimi, a quelli che sono considerati dagli articoli 3 e 11 del disegno di legge, all’articolo 252, cui fa riferimento la relazione della nostra Commissione.

Ed io vorrei aggiungere anche quel controllo interno che deriva dalla vigile accortezza dei segretari, ai quali l’articolo 253 del testo unico ricorda che, in caso essi non abbiano ricevuto l’autorizzazione scritta del sindaco, possono incorrere in responsabilità per gli atti eventualmente dannosi per la pubblica amministrazione.

Anche su questo io credo che si possa fare grande assegnamento, perché i segretari comunali (a cui bisognerà riconoscere i diritti che reclamano, compatibilmente con le esigenze della nuova sistemazione autarchica e di autogoverno degli enti) sono effettivamente i primi custodi della cosa pubblica, ed hanno dato parecchio della loro opera appassionata ed onesta all’amministrazione dei nostri enti.

Ma non bastano i controlli che vi ho elencati, per la esigenza di garantire che l’atto corrisponda al bene, al vantaggio della collettività.

Certo che, in regime democratico, la pubblica opinione, liberamente manifestantesi esercita un grande peso, ma occorre anche in questo andare cauti.

L’amministratore non deve, onorevoli colleghi, essere esposto alle insinuazioni, al facile sospetto, alla facile accusa.

In un regime giuridicamente costituito, in un ordinamento statale che si rispetti, il cittadino, anche se non è amministratore, deve trovare garanzie per la sua probità ed onestà, non soltanto, come sentivo da qualche settore affermare, nell’intimo della propria coscienza, ma in quegli istituti che tutelano questa onestà e probità, questa reputazione del cittadino.

E da noi gli istituti rispondono al pubblico ministero, e rispondevano anche, nella legge del 1915, a quella azione popolare di controllo, cosiddetto improprio, cui si riferiva giorni addietro altro oratore discutendo questo disegno di legge. Quando c’è il sospetto di una responsabilità penale di un cittadino qualsiasi o di un qualsiasi amministratore, bisogna sentire il coraggio di fare denuncia al pubblico ministero, che secondo il nostro ordinamento ha il potere di promuovere l’azione penale e ordinare qualunque istruttoria. Bisogna avere il coraggio, se si tratta di responsabilità civile dell’amministratore, di tradurre questo amministratore dinanzi al magistrato ordinario, con tutte le garanzie della legge. All’infuori di questo, l’insinuazione, l’ingiuria, la calunnia devono essere contenute, devono essere impedite.

E le provvidenze legali che si invocano non sono dirette da prevenzioni contro gli amministratori; al contrario, sono determinate e ispirate dal proposito di circondare questi amministratori, che spesso sacrificano i loro interessi privati per il bene pubblico, di tutte le cautele. Ora, come possiamo noi fare questo, quando parliamo di legge comunale e provinciale? Come possiamo circondare questi amministratori di un certo credito nella pubblica opinione? Bisogna che agiscano dei rimedi; e questi rimedi, nella materia contrattuale – che è quella che squisitamente può importare responsabilità particolari per chi amministra la cosa altrui, vanno concentrate principalmente nel sistema delle forme preordinate alla formazione dei contratti, e poi a quegli elementi successivi – controllo di legittimità e controllo anche di opportunità – che già nella legge del 1934, all’articolo 296, ancora risultano inseriti. Noi abbiamo un triplice ordine di forme per i contratti degli enti pubblici: asta pubblica, licitazione privata, trattativa privata. Io di quest’ultima forma vorrei addirittura chiedere la completa eliminazione. Gli enti dovrebbero essere governati nelle contrattazioni dalle stesse disposizioni da cui sono disciplinati i contratti dello Stato.

L’asta pubblica indubbiamente può presentare degli inconvenienti. Però tutti possono essere chiamati a concorrervi, e tra i tanti, la maggioranza – lasciamo da parte le prevenzioni – è sempre in Italia degli onesti. Nella licitazione privata, le cose un po’ si complicano, perché il concorso dei partecipanti alla gara è limitato, ristretto ad una determinata categoria di persone; e l’iniziativa per la scelta proviene da chi amministra l’ente. Comunque, passi pure per la licitazione privata; ma la trattativa privata (scelta di un unico contraente da parte dell’amministratore) bisogna avere il coraggio di eliminarla. Ed io parlo con una certa esperienza, perché qualche mese addietro è bastata la minaccia, una semplice minaccia dell’esperimento di un’azione popolare per un ente di beneficenza, a far guadagnare milioni di lire, nella mia città, a un ospedale: perché, di fronte alla segnalazione, c’è stata un’opportuna e tempestiva ingerenza del prefetto.

Dunque, eliminiamo la trattativa privata, e se anche la si vuole mantenere, non ci allontaniamo assolutamente da quel sindacato di opportunità, che nell’articolo 296 della legge attuale è presentato, e che il Governo (almeno secondo il disegno di legge presentato) non sembra abbia intenzione di modificare.

C’è stata una specie di malinteso a questo riguardo, io credo, fra il Governo e la nostra Commissione, perché il Governo ha voluto modificare soltanto il primo comma dell’articolo 296, nel senso di equiparare ai contratti per asta pubblica quelli per licitazione privata, al fine soltanto di impedire che fosse necessario per questi ultimi il visto prefettizio, nel caso di eccesso dei limiti di valore fissati dalla legge. Si è inteso, invece (benché ciò non appaia dalla relazione del Governo), di abolire quel sindacato di opportunità che è indicato nell’articolo 296 della legge? Nella relazione della nostra Commissione si legge: «Mentre l’articolo 296 del testo unico dà facoltà al prefetto di negare l’esecutività di tali contratti, quantunque riconosciuti regolari, per gravi motivi d’interesse dell’ente o d’interesse pubblico, il presente disegno stabilisce che egli deve soltanto accertarsi se siano state osservate le forme prescritte». Ma quale sorte è realmente assegnata al penultimo comma dell’articolo 296 del testo unico, da cui, per gravi motivi d’interesse pubblico, è data facoltà al prefetto di negare l’esecutorietà dei contratti, quantunque riconosciuti regolari?

Ora, mi pare che, risoluta in chiari termini la questione e mantenendosi questo controllo di opportunità per i contratti stipulati a trattativa privata (si noti bene, per quei contratti a trattativa privata che abbiano superato i limiti di valore indicati negli articoli 87 e 140 del testo unico), la riforma possa senz’altro tranquillizzare, specialmente se accompagnata, come ha chiesto anche l’onorevole Persico nel suo emendamento, dal ripristino di quella azione popolare che il legislatore nel 1934 si affrettò a sopprimere, ritenendola non necessaria di fronte ai nuovi coordinamenti allora attuati.

E, poiché siamo in tema di suggerimenti; mi si permetta da ultimo di segnalare l’opportunità di rafforzare in certo qual modo quell’istituto del referendum popolare che era già nella legge del 1903, per la municipalizzazione e per l’assunzione in genere dei pubblici servizi; e che nel 1925 fu grandemente attenuato e quasi eliminato, perché ne fu condizionata l’adozione al preventivo reclamo di un ventesimo degli elettori contro i deliberati in materia.

Questo referendum popolare, specialmente nel momento attuale, potrebbe servire a colmare diverse gravi lacune e ad attuare agevolmente molte opere, che indarno ci aspetteremmo ancora dagli organi centrali. I comuni, i sindaci, debbono pensare che qualche volta basta un po’ d’iniziativa soltanto da parte loro per dare, ad esempio, la luce a una piccola frazione che vive 300-400 metri lontano dalla città, dotata da decenni dell’energia elettrica. Basterebbe che il sindaco, attraverso un referendum popolare, prendesse l’iniziativa di chiamare anche i cittadini del capoluogo ad una contribuzione, sia pure limitata, ma straordinaria, per vedere risplendere finalmente questo bene della vita nella piccola frazione che ha sempre dato tutto quello che ha potuto alla intera collettività del comune, pur subendone un iniquo trattamento.

Mi auguro che la presente legge sia seguita da altri provvedimenti legislativi, i quali portino veramente a quell’autogoverno che è nell’attesa di tutto il Mezzogiorno. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Castelli Avolio. Ne ha facoltà.

CASTELLI AVOLIO. Sarò breve e perciò, anche per questo, vi prego onorevoli colleghi di concedermi un poco della vostra benevola attenzione.

Alcuni oratori che mi hanno preceduto prendendo le mosse dal progetto di legge che è sottoposto al nostro esame, hanno fatto qualche accenno alla questione generale dell’autonomia e dell’indipendenza del comune; questione importantissima, questione, direi, di palpitante attualità, ora che noi stiamo facendo la grande costruzione del nuovo Stato, dello Stato democratico, dello Stato quale noi vogliamo effettivamente democratico, nelle sue istituzioni e nelle sue leggi.

Il progetto di Costituzione riafferma all’articolo 121 il principio generale dell’autonomia del comune; ma non basta che l’articolo 121 del progetto stabilisca il precetto, la norma generale, che «il comune è autonomo nell’ambito dei principî fissati dalle leggi generali della Repubblica». Bisogna porre queste leggi, che garantiscano l’autonomia e l’indipendenza al comune di fronte alle autorità governative locali e di fronte all’autorità governativa centrale. Ed il progetto sottoposto al nostro esame apporta un utile contributo alla risoluzione della questione, per lo meno attraverso la riforma dei controlli.

Noi, onorevoli colleghi, ci dobbiamo preoccupare ed occupare delle libere istituzioni comunali, perché, come la famiglia forma il nucleo fondamentale della società, così il comune forma il nucleo fondamentale dello Stato, sta a base dell’organizzazione amministrativa del Paese. Quando il regime fascista ha creduto di potere influire sulla società, ha posto accanto alla famiglia tante istituzioni che volevano accompagnare i nostri figliuoli dalla nascita fino all’uscita dalle università. Così nell’organizzazione dello Stato fascista, in quella che fu detta la «trasformazione dello Stato» – che poi non è avvenuta e non poteva avvenire – lo Stato ha cercato di influire sul comune, ne ha compresso la libertà e l’indipendenza ed ha finito con l’aggiogarlo al carro governativo.

Noi, onorevoli colleghi, stiamo costruendo una grande piramide, al vertice della quale è la massima istituzione dello Stato democratico, il Presidente della Repubblica, di quella Repubblica che il popolo italiano liberamente si è data il 2 giugno, di quella Repubblica che, per me, uomo di fede, la Provvidenza ha voluto che il popolo si desse affinché esso, il popolo, scontati gli errori del passato, potesse risorgere a nuova vita ed essere esso, ed esso solo, l’artefice dei suoi nuovi destini. Alla base di questa piramide sono gli enti minori, alle fondamenta i comuni; epperò se noi vorremo fondare la nostra costruzione su solide fondamenta, dobbiamo preoccuparci della sorte dei comuni.

Come dicevo, onorevoli colleghi, il principio dell’autonomia del comune è riconosciuto nell’articolo 121 del progetto di Costituzione. Per me, il concetto di autonomia, riferito al comune, non è del tutto esatto. Noi ci vogliamo piuttosto riferire al concetto di libertà comunale, di indipendenza del comune dalle autorità governative locali e dall’autorità centrale dello Stato. Difatti per autonomia s’intende la facoltà che hanno alcuni enti di organizzarsi giuridicamente, di avere, di creare un proprio diritto, diritto che non solo è, come tale, riconosciuto dallo Stato, ma viene assunto da esso a far parte del suo ordinamento giuridico e dichiarato obbligatorio, come obbligatorie sono le proprie leggi ed i propri regolamenti. Quando noi parliamo di «autonomia» della regione, noi riconosciamo alle regioni questa facoltà di governarsi autonomamente nell’ambito delle leggi e di porre anche proprie norme giuridiche, di porre delle leggi di carattere anche formale nell’ambito e nelle materie stabilite dalla loro legge costitutiva. Nel comune noi riconosciamo bensì il potere regolamentare, ma la sua autonomia è da intendersi in senso diverso, è da intendersi nel senso dell’autarchia. É questo il concetto proprio che si addice al comune, la facoltà cioè di potersi governare da sé nell’orbita, nell’ambito della legge e con norme che regolino i rapporti degli abitanti del comune nella cerchia dell’amministrazione locale.

In altri termini io sostengo che il concetto che più propriamente si addica ai comuni sia quello dell’«indipendenza» dalle autorità governative locali e centrali. In questo senso va intesa la cosiddetta «autonomia», anche ai fini delle conseguenze sui controlli sui comuni e sulle provincie. Rispetto ai comuni e alle provincie, e cioè agli enti autarchici territoriali, non vediamo il rapporto di subordinazione fra lo Stato e questi enti; ed allora, se manca questo rapporto di subordinazione, ci sarà un rapporto gerarchico «improprio», non già un rapporto gerarchico «proprio», fra l’ente maggiore, Stato, e gli enti minori autarchici.

Un altro concetto, al quale devo fare qualche accenno, è quello della configurazione giuridica che noi stiamo per dare allo Stato con la nuova Costituzione, perché quale è la natura giuridica, la configurazione giuridica e politica della Costituzione dello Stato, tale è la natura giuridica e la configurazione politica e giuridica degli enti minori dello Stato, specie degli enti autarchici territoriali.

Si è parlato, anche in quest’aula, di «Stato di diritto». Io non ritengo che lo Stato che andiamo formando sia soltanto uno «Stato di diritto», e cioè lo Stato che forma il diritto e che vive nell’orbita del diritto da esso formato, con l’osservanza delle norme giuridiche da esso poste. Ritengo che dobbiamo superare questa concezione, che è poi della scuola giuspubblicistica tedesca, del «Rechtstaat»; noi dobbiamo rifarci ad altri concetti, cioè a quei concetti svolti ed attuati dalla scuola giuridica italiana e latina, del moderno Stato libero democratico, in cui si presuppone bensì l’ordinamento giuridico dello Stato, ma si riconoscono altresì altri diritti che possono essere anteriori allo Stato stesso. Come noi, infatti, riconosciamo nel campo privatistico dei diritti individuali, inalienabili ed imprescrittibili, della persona umana, così dobbiamo riconoscere, anche nel campo pubblicistico, i diritti fondamentali di personalità degli enti pubblici minori, specialmente degli enti autarchici territoriali, diritti che lo Stato non potrà mai negare, diritti di cui si parlerà nell’ordinamento giuridico dello Stato, ma che lo Stato riconoscerà soltanto, con un suo atto di mera ricognizione.

Voi vedete, onorevoli colleghi, quali conseguenze è possibile trarre da questa concezione nella configurazione, nella determinazione delle libertà e dell’indipendenza dei comuni, e, quindi, anche in relazione al tema dei controlli, che forma oggetto della nostra discussione.

Per me, l’indipendenza e l’autonomia dei comuni – si tratta di una endiadi, ma in fondo è un concetto, unico, anzi un concetto unitario – per me, dicevo, l’indipendenza e l’autonomia dei Comuni sono basate su due grandi pilastri. L’uno è costituito da un ben congegnato sistema di controlli, ben congegnato sistema nel senso che si deve sempre salvaguardare l’indipendenza del Comune da illegittime, illecite interferenze governative. Duplice ne è il contenuto: il controllo di legittimità ed il controllo di merito; duplice la forma. Nel controllo di legittimità si tratta di accertare la rispondenza dell’atto alle norme di legge, cioè giudicare che l’atto sia conforme a legge, esente da quelli che sono i vizi tipici dell’atto amministrativo; ossia, l’incompetenza, l’eccesso di potere, la violazione di legge. L’organo che deve avere questo controllo è un organo essenzialmente tecnico-giuridico: il prefetto, organo estraneo all’amministrazione comunale. L’altro controllo è il così detto sindacato di merito, controllo che ha per mira di accertare se la deliberazione del comune è conveniente ed è diretta a raggiungere quelle finalità intrinseche che il comune si vuol prefiggere; quindi, è un controllo di carattere sostanziale che ha riguardo alla natura intima ed alla sostanza dell’atto. Ed allora questo controllo deve essere compiuto da un organo che appartenga all’amministrazione locale, e quindi è devoluto alla Giunta provinciale amministrativa. Su questo punto non potrei, perciò, essere d’accordo con quanto diceva nella seduta del 7 corrente l’onorevole Priolo, quando osservava che per sgravare le prefetture dal peso dell’esame del controllo di legittimità degli atti e delle deliberazioni comunali, riteneva opportuno che questo controllo di legittimità fosse esercitato dalla Giunta provinciale amministrativa. Si tratta, nel caso della Giunta, di cosa ben diversa. Si tratta di istituti inconfondibili; il controllo deve essere mantenuto distinto e deve esser fatto da istituti e da organi diversi. E poi, onorevoli colleghi, da che cosa bisogna sgravare le Prefetture? Le Prefetture non vanno sgravate dal controllo di legittimità degli atti e delle deliberazioni dei comuni e di tutti gli enti locali; non di questo si tratta: bisognerebbe sgravare le Prefetture da quelle incombenze politiche che le Prefetture non dovrebbero avere in uno Stato veramente ed effettivamente democratico. Quindi nelle grandi Prefetture bisognerebbe abolire la prima Divisione, la Divisione politica, perché i rapporti politici debbono essere trattati dal prefetto personalmente, o attraverso il suo Gabinetto, e la politica la deve fare il Governo col controllo del Parlamento e non il prefetto.

L’altro pilastro, onorevoli colleghi, è costituito da un ben congegnato sistema di finanza comunale, perché noi potremo parlare, e parlare a lungo di indipendenza e di libertà dei comuni, ma i comuni non saranno mai effettivamente liberi e indipendenti quando dovranno dipendere per ripianare i loro bilanci, dall’amministrazione centrale dello Stato. Epperò bisogna abbandonare il sistema delle «integrazioni» comunali dei bilanci, sistema che è stato accentuato dal fascismo per comprimere sempre di più la libertà dei comuni. Dobbiamo fare in modo che il comune sia effettivamente libero e indipendente, abbia una finanza propria, sia assicurato, in altri termini, al comune l’«autosufficienza», perché si è veramente liberi e indipendenti quando non si dipende da altri. Ora il Governo si è posto il problema dell’indipendenza finanziaria dei comuni. Non dico cosa nuova quando ricordo che un progetto di legge per la riforma della finanza locale è stato sottoposto alla nostra Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge. Gli studi fatti negli ultimi giorni hanno accertato che per ripianare il deficit dei comuni occorrono dai 38 ai 40 miliardi; e allora si è pensato, da una parte, ad aumentare le entrate comunali attraverso l’aumento dei dazi di consumo e specialmente il dazio consumo sul vino e l’aumento delle altre tasse comunali; dall’altra, si è pensato di sgravare i comuni da quell’onere gravissimo che è costituito dalle spese di spedalità. La prima parte del progetto, quella relativa all’adeguamento al diminuito valore della lira dei dazi consumo e delle tasse comunali, è stata rinviata al Governo dalla Seconda Sottocommissione per l’ulteriore corso, ma non si è creduto di poter provvedere sulla questione delle spedalità, ordinarie e manicomiali, perché giudicata non ancora matura, nel senso che la riforma del sistema delle spedalità dovrà essere esaminata in concordanza con la riforma generale della legge sulle istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza e della legge sanitaria.

Per me, per assicurare questa indipendenza finanziaria del comune, che deve andare di pari passo con la sua indipendenza giuridica e politica, e da cui consegue anche la risoluzione della questione dei controlli, non ci sarebbe altra via che la rinunzia da parte dello Stato alle imposte reali fondiarie, cioè alle due imposte sui terreni e sui fabbricati, che, relativamente alle spese di accertamento e di riscossione, danno un gettito allo Stato piuttosto modesto, mentre vi sono molte sovrimposte – la prima, la seconda, la terza – a favore dei comuni e delle provincie, e il passaggio di queste due imposte ai comuni. Soltanto allora, raggiunta la loro indipendenza economica e finanziaria, i comuni saranno veramente autonomi, nel senso da me spiegato, cioè liberi e indipendenti dal potere governativo.

Ritornando al nostro tema dei controlli, rilevo come l’inasprimento di essi abbia segnato l’altro termine di quel progressivo aggiogamento dei comuni al carro governativo al quale già ho accennato.

La relazione ministeriale, che accompagna il nostro disegno di legge, opportunamente ricorda come, con la emanazione della legge sui podestà del 4 febbraio 1926, n. 237, furono inquadrati gli enti locali sotto l’autorità dello Stato, e si intese aumentare gradualmente l’ingerenza dei prefetti, dando ad essi anche un generale sindacato di merito. Si incominciavano così a confondere i due istituti, il controllo di legittimità ed il sindacato di merito, l’uno devoluto ai prefetti, quale organo giuridico, l’altro alle Giunte provinciali amministrative, organi propri degli enti locali, nell’ambito dell’amministrazione locale, per esame della convenienza, della opportunità, della bontà del provvedimento amministrativo.

Ma devo notare che, già prima della emanazione della legge sui podestà, una prassi amministrativa, voluta in seno al Ministero dell’interno, cominciava a confondere questi due istituti, che giuridicamente sono inconfondibili. E difatti si voleva risalire ad un concetto di controllo complessivo, di controllo che guardasse non soltanto alla legittimità dell’atto, cioè alla conformità dell’atto alle disposizioni di legge, ma anche alla sua sostanza, alla sua convenienza, alla rispondenza dell’atto ai fini che si volevano perseguire. Confondendo così i due istituti, si è venuti alla formulazione dell’attuale articolo 97 della legge comunale e provinciale, di cui è stata proposta la riforma col disegno di legge in esame.

Secondo l’articolo 97, il prefetto munisce di visto di esecutività le deliberazioni che non siano soggette alla Giunta provinciale amministrativa, sempre che le riconosca regolari. In caso contrario può pronunciare l’annullamento per motivi di legittimità o ricusarne l’approvazione per motivi di merito. Si sono così confusi, conglobati, i due istituti, che andavano distinti.

Si è voluto, in altri termini, onorevoli colleghi, con la legge sui podestà e con le successive riforme dell’istituto dei controlli, accentuare le facoltà dei prefetti in base ad un vieto concetto di «autoritarismo» degli organi locali dell’Amministrazione governativa.

E vale la pena ch’io ricordi in proposito come dopo l’emanazione della legge sui podestà, del 4 febbraio 1926, n. 237, il cosiddetto «capo del Governo» emanasse una circolare ai prefetti, il 5 gennaio 1927, in cui, cercandosi di rafforzare l’autorità del «capo», si parlava dell’autorità dei prefetti come di una autorità riflessa del «capo», affermandosi che unica è l’autorità, ed era quella del cosiddetto «capo», e che «l’autorità non può essere condotta a mezzadria».

Si può seguire l’elaborazione del testo attuale, ma accennerò soltanto a qualche punto di essa.

La Commissione ministeriale – ed è lodevole l’intento – non ha voluto ritornare al sistema della legge comunale e provinciale del 1915. Vi è un superamento, ed è un superamento notevole, encomiabile, da parte della Commissione, del sistema stabilito nel testo unico della legge comunale e provinciale del 1915, giacché opportunamente si è distinto tra controllo preventivo e controllo successivo.

Io ritengo peraltro che la esecutività dell’atto o della deliberazione comunale derivi e debba derivare piuttosto dal concetto fondamentale di esecutorietà dell’atto amministrativo: più che questione di controllo preventivo o successivo, trattasi di applicazione del concetto dell’esecutività piena dell’atto amministrativo, intesa come uno dei requisiti fondamentali dell’atto e della deliberazione amministrativa.

Non posso però completamente consentire nella formulazione che è stata data, in materia di controllo, agli articoli 3, 11 e 19 del disegno di legge proposto al nostro esame.

Non è possibile che le deliberazioni comunali, che le deliberazioni della Giunta municipale, come le deliberazioni delle amministrazioni provinciali, possano senz’altro eseguirsi solo che vengano pubblicate all’albo pretorio del comune o della provincia. Non basta l’atto della pubblicazione, cioè l’affissione, per potere immediatamente porre in esecuzione queste deliberazioni, le quali non sono che dei provvedimenti amministrativi generali, sono le cosiddette ordinanze, sono i regolamenti. Quando si tratta infatti dell’atto speciale amministrativo, se ne dà diretta comunicazione all’interessato; quando si tratta, invece, delle deliberazioni di cui ci occupiamo, occorre una formale pubblicazione. Ed ho proposto all’uopo un emendamento perché si stabilisca che l’esecutività di queste deliberazioni, sia pure quale requisito proprio dell’atto amministrativo che è stato emanato, sia legata ad un termine, non fosse altro che per la loro conoscenza. Anche noi, onorevoli colleghi, nel progetto di Costituzione, abbiamo posto un termine per la conoscenza della legge; si tratta appunto di quella vacatio che, da quindici giorni, è stata portata a venti nel progetto di Costituzione. È necessario dunque che queste deliberazioni comunali e provinciali, le quali costituiscono atti generali amministrativi, siano portati a conoscenza con la pubblicazione e che ci sia appunto una vacatio per la loro piena conoscenza, nell’interesse pubblico.

Ho però proposto, con un secondo emendamento, che quando le deliberazioni, siano urgenti e si debba subito procedere alla loro esecuzione, occorre che sia detto nelle deliberazioni stesse, che debbono essere votate con una maggioranza qualificata, la quale potrà essere costituita dai due terzi dei membri del Consiglio comunale o della Deputazione provinciale, o anche della sola metà, ove si ritenga opportuno.

Ma quale sarà la sorte della deliberazione comunale o di quella dell’amministrazione provinciale che non sia stata pubblicata e comunicata al prefetto? Se si tratti di un provvedimento favorevole ad un interessato o ad una categoria di interessati, è pur necessario che questa deliberazione si traduca in un atto eseguibile; ma, ove si tratti di un provvedimento che contrasti ad una categoria di interessati, che cioè ad essi nuoccia, ebbene, costoro non possono rimanere sotto la spada di Damocle di una deliberazione adottata, la quale poi potrà essere affissa in un momento qualsiasi, quando gli interessati, per condizioni particolari di cose, non potranno forse prenderne cognizione.

Ho allora proposto, con un terzo emendamento, che, se le deliberazioni non vengano affisse all’albo pretorio e comunicate ai prefetti per l’esercizio del controllo di legittimità, esse debbono intendersi decadute.

Onorevoli colleghi, l’indipendenza e l’autonomia dei comuni non sarebbero assicurate ove sussistesse ancora, nel testo unico della legge comunale e provinciale, la disposizione dell’articolo 19, secondo cui il prefetto adotta, in caso di necessità o di urgenza, i provvedimenti che ritenga necessari nell’interesse pubblico. È una disposizione questa, onorevoli colleghi, che può dare ed ha dato luogo ai più gravi arbitri, come quando il prefetto è intervenuto in una contestazione insorta fra privati e per privati interessi e, in base appunto al citato articolo 19, ha tolto efficacia alle sentenze del magistrato provviste di clausola di provvisoria esecuzione; come quando il prefetto – ed è capitato in quest’ultimo periodo – ha proceduto, sempre in base all’articolo 19, a requisizioni di locali, intendendoli espropriare, senza adottare le forme e senza richiamarsi alla legge generale sulle espropriazioni, legge che gli dava, attraverso l’articolo 71, la possibilità di procedere anche all’occupazione di urgenza e poi di osservare le altre forme stabilite dalla legge stessa.

Ora, io non voglio ripetere quanto è, stato detto a proposito dell’articolo 19 dal collega onorevole Zotta. Ritengo che, per rendere i comuni effettivamente autonomi, nel senso spiegato della loro libertà e della loro indipendenza, bisogna eliminare l’articolo 19 e sostituirlo con le disposizioni del testo unico del 1915.

Ho parlato, onorevoli colleghi, dei controlli; ma i controlli rappresentano l’elemento repressivo: in una nuova legge bisognerà occuparsi anche del lato positivo, assicurare fin dalla formazione senza ledere la libertà e l’indipendenza dei comuni, la legittimità dei loro atti e delle loro deliberazioni. Soprattutto bisogna fare in modo che le amministrazioni comunali non abbiano nemmeno la lontana idea che, attraverso l’amministrazione, si possano compiere atti illegittimi. Ed allora entra in giuoco qualche cosa che sta al di là della legge: entra in giuoco la probità e la sagacia degli amministratori e l’opera dei partiti. I partiti – e specialmente i partiti di massa – si debbono preoccupare di mandare al comune dei buoni amministratori, degli amministratori che abbiano il senso della legalità, cioè del rispetto della legge; e che, avendo dato prova di sapere bene amministrare le cose proprie, diano affidamento, diano la sicurezza di potere bene amministrare le cose del comune.

Un altro organo che può concorrere alla legittimità, alla legalità delle deliberazioni comunali è il segretario comunale; non nel senso, come è stato ritenuto da qualcuno, che il controllo di legittimità possa essere da lui esercitato in conformità. No, il segretario comunale può concorrere alla formazione della deliberazione della legge, nell’orbita e col rispetto di essa, ma il controllo deve essere devoluto ad un organo esterno. Ma quando noi avremo migliorate le condizioni economiche, le condizioni morali, e conseguentemente culturali, dei segretari comunali, allora avremo fatto un grande progresso anche in materia di legittimità degli atti e delle deliberazioni comunali.

Una voce a sinistra. Devono essere nominati dai comuni.

CASTELLI AVOLIO. Per i segretari comunali il fascismo ha fatto ben poco…

PRESIDENTE. Non apriamo un altro capitolo, onorevole Castelli Avolio.

CASTELLI AVOLIO. Un accenno ed ho finito, signor Presidente.

Come voi ricorderete, onorevoli colleghi, il fascismo promise ai segretari comunali grandi miglioramenti, anche attraverso la formazione dell’albo nazionale. L’articolo 73 della legge comunale e provinciale stabiliva la norma che il segretario comunale ha la qualifica di funzionario dello Stato ed è equiparato a tutti gli effetti agli impiegati dello Stato. Si sono domandati, i segretari comunali, in qual modo fossero equiparati ai funzionari dello Stato: è stato tutto fumo, è stata una solenne turlupinatura, come le altre turlupinature compiute dal regime fascista.

Ho promesso di essere breve e manterrò la promessa. Concludo.

Onorevoli colleghi, le voci che si sono levate da questa Assemblea dimostrano quanto sia urgente provvedere ad un nuovo testo organico della legge comunale, che regoli la materia secondo lo spirito della nuova Costituzione e secondo le nobili tradizioni popolari del glorioso comune italiano, di quel comune che, fin dagli anni lontani del Medioevo, insorse compatto per rivendicare, contro ogni oppressione, straniera o baronale, la sua libertà e la sua indipendenza.

A questa opera legislativa che sarà compiuta, fra i suoi primi lavori, dalla nuova Camera, noi democratici cristiani apporteremo tutto il nostro volonteroso contributo, che ci proviene dalla fede nel nostro programma, che ha sempre posto in primo piano la libertà e l’autonomia del comune, e dalla nobile tradizione delle amministrazioni comunali rette da nostri amici. Valga per tutte il ricordo dell’amministrazione comunale di Caltagirone, retta da Don Luigi Sturzo dal 1905 al 1920. Don Luigi Sturzo, che cominciò la sua carriera politica appunto dal campo municipalistico, dimostrò quanto potesse una buona amministrazione comunale, veramente democratica, a favore del popolo. Egli costruì nuove strade, aprì scuole ed anche un istituto tecnico, portò nella sua città l’energia elettrica, e fece un primo riuscito tentativo di frazionamento della grande proprietà latifondistica. La sua amministrazione venne portata a modello anche all’estero e fu imitata, con sano spirito di emulazione, anche da avversari. Per la libertà e l’indipendenza dei comuni lottarono e vinsero democratici cristiani e socialisti di larghe vedute. Così si spiega come, quando fu fondata la gloriosa Associazione dei comuni italiani, soppressa in seguito dal fascismo, alla Presidenza di essa si trovasse, accanto all’onorevole Caldara, socialista, allora sindaco di Milano, Don Luigi Sturzo e con lui il nostro onorevole Giuseppe Micheli.

Onorevoli colleghi, queste nobili tradizioni del libero comune italiano bisogna riprendere e difendere, per l’attuazione di ogni benefica iniziativa a favore del popolo. Il disegno di legge sottoposto al nostro esame segna un notevole passo verso la libertà e l’indipendenza del comune, epperò noi deputati democratici cristiani daremo ad essa l’appoggio del nostro voto. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Quintieri Adolfo. Ne ha facoltà.

QUINTIERI ADOLFO. Onorevoli colleghi, il disegno di legge presentato dal Ministro dell’interno per apportare le necessarie modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato col regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, ha avuto innegabilmente una buona accoglienza, poiché abbiamo inteso oratori di tutte le tendenze fare contro di esso delle critiche che, da un punto di vista puramente teorico, non possono non ritenersi in parte esatte e fondate.

Ed anzi il primo oratore, l’onorevole Lami Starnuti, tenendo presenti solo le manchevolezze del disegno, e non le ragioni di evidente opportunità contingente che lo giustificano appieno, aveva addirittura proposto una sospensiva che, come è ben naturale, avrebbe rinviato sine die la soluzione di problemi la cui urgenza è invece intuitiva.

Un più approfondito esame della cosa, lo ha indotto a ritirare la proposta sospensiva. Ed ha agito benissimo.

Io penso anzi che se l’onorevole collega avesse preso visione dei lavori compiuti dalla risorta Associazione dei comuni italiani, non avrebbe nemmeno prospettata l’ipotesi di una sospensiva che urta contro le affannose invocazioni di tutte le ricostituite amministrazioni comunali e contro il concetto stesso di decentramento amministrativo, quale deve essere inteso in regime democratico.

I precedenti storici che hanno portato alla presentazione del disegno di legge chiariscono i termini della questione.

È noto che, al costituirsi del Regno di Italia, vigevano nella Penisola le varie leggi sulle amministrazioni comunali e provinciali, già proprie degli antichi Stati.

Queste rimasero in vigore fino all’unificazione amministrativa del Regno, che fu attuata principalmente con la legge 20 marzo 1865, n. 2248, il cui primo allegato conteneva la nuova legge comunale e provinciale. Tale legge, che era modellata specialmente su quella piemontese del 23 ottobre 1859, fu in seguito ripetutamente modificata con le leggi 10 febbraio 1889, n. 5921; 4 maggio 1898, n. 564; 21 maggio 1908, n. 269 e 4 febbraio 1915, n. 148.

Non possiamo fare a meno di riconoscere che, fin dal 1865, il legislatore cercò di non troncare del tutto la gloriosa tradizione dei comuni italiani, sicché, fin da allora, riguardo a questi enti, si poté parlare di amministrazione autarchica.

La legge del 1915, che ha tenuto più lungamente il campo, riconosceva ai comuni una quasi piena autonomia, in quanto il visto demandato al prefetto dagli articoli 211 e 212, costituiva un controllo di pura legittimità, e non di merito, limitandosi la competenza del prefetto ad una indagine puramente estrinseca e formale, diretta ad accertare la legalità dell’emessa delibera.

Evidentemente questo sistema non poteva riuscire accetto alla dittatura che, tendendo ad accentrare nel Governo tutti i poteri, mirava a ridurre i comuni alla condizione di enti periferici dello Stato.

E venne la legge 4 febbraio 1926, n. 237, con cui si sostituivano ai consigli comunali, liberamente eletti, i podestà ed al controllo di legittimità sulle delibere comunali, quello di merito, attribuito sempre ai prefetti, dapprima limitatamente ai comuni con popolazione inferiore ai 100.000 abitanti, con esclusione di alcune delibere, e poi esteso a tutti i comuni ed a tutte le delibere, salva qualche eccezione per i comuni aventi una popolazione superiore ai 100.000 abitanti.

Tale estensione veniva sancita dal testo unico 3 marzo 1934, n. 383. Con questa legge veniva sostanzialmente a cadere l’autonomia dei comuni che, da enti gloriosamente autarchici, per tanti secoli, diventavano praticamente enti periferici dello Stato accentratore.

Caduta, il 25 luglio 1943, la dittatura, non fu possibile procedere subito alla ricostituzione delle amministrazioni comunali elettive, per evidenti ragioni, dato lo stato di guerra in cui ci trovavamo, e si ricorse al ripiego di nominare dei sindaci scelti dai Comitati di liberazione, coadiuvati da una apposita consulta. Lo stesso ripiego fu adottato per le amministrazioni provinciali.

Si giunge finalmente al decreto legislativo luogotenenziale del 7 gennaio 1946, n. 1, che riconsacra la ricostituzione delle amministrazioni comunali su base elettiva ed, oramai, tutti i comuni italiani hanno le loro legittime rappresentanze, liberamente elette dal popolo, nel corso dell’anno 1946.

Già, fin dai primi del 1946 e propriamente nel gennaio dello scorso anno, si riunirono a Roma i sindaci dei grandi comuni dell’Italia settentrionale e, presa in esame la situazione delle singole amministrazioni, concordemente stabilirono di chiedere al Governo un provvedimento che conferisse ai comuni, in attesa della piena autonomia, una certa elasticità di movimento e di azione, tanto più indispensabile per far fronte, dopo la guerra, ai più urgenti bisogni dei comuni.

Successivamente, nel settembre del 1946, aveva luogo in Roma, nel Campidoglio, sotto la presidenza del sindaco della capitale, un convegno dei sindaci delle città capoluoghi di provincia, cui seguì il convegno di tutti i sindaci aderenti all’Associazione nazionale dei comuni italiani.

Come è noto, l’Associazione nacque nel 1902 per iniziativa del sindaco di Milano, onorevole Mussi, e del sindaco di Parma, senatore Mariotti, e ne fu anima, fin dal suo sorgere, Don Luigi Sturzo, allora giovane e battagliero sindaco di Caltagirone.

Essa visse di vita florida e fattiva fino al 1924, epoca in cui la dittatura, che non poteva tollerare la sua voce libera ed indipendente, ne proclamò la fine.

Come sindaco di Cosenza, partecipai a questo primo convegno plenario e ricordo bene che, presa visione del progetto elaborato dai sindaci dell’Alta Italia, che si limitava ad invocare l’autonomia amministrativa e tributaria, rivolsi delle critiche ai compilatori, rilevando che, in un periodo di formazione di una nuova coscienza, per cui si invocava, autorevolmente, da diverse parti, piena autonomia per i comuni, il progetto, redatto in termini così ristretti, faceva pensare addirittura all’oraziano parturiunt montes, nascetur ridiculus mus.

Fu facile però ai sindaci rispondere che, per il momento, sondati gli umori del Governo, non era stato possibile ottenere di più e che, se l’assemblea avesse voluto raggiungere di colpo la piena autonomia, avrebbe finito col rimandare alle calende greche la soluzione di un problema quanto mai attuale ed urgente.

Mi convinsi anche io del fondamento della obiezione ed allora si sintetizzò la decisione dell’assemblea in un ordine del giorno concordato, che porta la firma dell’onorevole Fedeli, sindaco di Verona, e la mia, e suona in questi termini:

«L’assemblea dei sindaci dei comuni capoluoghi di provincia, esaminato il progetto di legge circa le autonomie comunali, approvato dall’Assemblea dei sindaci dei capoluoghi di regione, nel Congresso del 4-5 gennaio 1946 e udita la relazione della Presidenza;

rilevato con rammarico che ancora non sia stato preso alcun provvedimento in merito;

reclama che il Governo, in attesa delle decisioni della Costituente sulle autonomie locali, approvi ed attui il progetto stesso, ed, in pari tempo,

chiede che lo Stato, provvisoriamente e con la massima urgenza, a pratico completamento di quanto proposto nell’articolo 7 del progetto, per liberare i comuni da una situazione amministrativa e finanziaria resasi grave ed insostenibile, attribuisca ai comuni una aliquota delle entrate derivanti da tributi statali, come ad esempio, imposta di ricchezza mobile, imposta generale sulla entrata e tassa sugli spettacoli pubblici;

e che in oltre lo Stato ed altri enti assumano l’onere di tutte le spese che riflettano servizi che li riguardano direttamente e che attualmente sono a carico dei comuni».

Con un successivo ordine del giorno si impegnavano i sindaci, deputati alla Costituente, a sostenere efficacemente, in tale sede ed ovunque, l’attuazione delle nuove leggi che dovranno finalmente sollevare i comuni dalla loro gravissima situazione attuale.

Ricordo che, al termine dei lavori, tutti i sindaci ci recammo dal Presidente del Consiglio e, nella sua assenza, fummo ricevuti dall’onorevole Nenni che ci fu largo di promesse e… di sorrisi.

Sono passati però altri sei mesi di penoso silenzio, durante i quali la situazione dei comuni si è sempre più aggravata, e finalmente il disegno di legge viene alla cognizione dell’Assemblea. Ma, neanche a farlo apposta, proprio da un Deputato appartenente ad uno dei tre partiti di massa, che amministrano la stragrande maggioranza dei comuni italiani, parte una proposta di sospensiva, che colta dallo spirito vigile dell’onorevole Condorelli e dei suoi amici, ha minacciato, fortunatamente per un solo momento, di fare assumere ai sindaci d’Italia la figura di quel tale dannato che, spinto il masso al vertice, lo vede, per immutabile fatalità, rotolare alla base.

Che il disegno di legge non sia l’ideale non è chi non veda, ma non è questa una buona ragione per mantenere fermo lo status quo, il quale è addirittura insostenibile, per evidenti ragioni di logica giuridica. Se, infatti, finanche la legge del 1865 riconosceva ai comuni una certa autonomia, che fu sancita, quasi piena e completa, dal testo unico del 1915 ed ha consentito, in periodo di libertà, una vita comunale fiorente, senza gravi inconvenienti, non si comprende perché mai ripristinate le amministrazioni elettive, si siano dovute finora sottoporre le loro deliberazioni al visto prefettizio di merito, che costituisce un intralcio notevolissimo allo svolgimento della vita dei comuni ed una gratuita immeritata offesa alle amministrazioni espresse dalla libera volontà popolare.

Del resto non si dimentichi che, come la natura non facit saltus, egualmente indietro non si torna nella conquista delle libertà e delle autonomie e pertanto l’esperimento positivo di tanti anni di prova, dopo la pubblicazione del testo unico del 1915, dimostra che si può, con tutta sicurezza, abolire il controllo prefettizio di merito, di marca dittatoriale, e limitare, come stabilisce il disegno, il controllo alla sola legalità, che deve essere rispettata da quanti vivono nello Stato democratico, siano enti pubblici o privati cittadini.

Ed io giungerei fino all’abolizione del controllo di merito, ancora demandato alle Giunte provinciali amministrative, per un duplice ordine di ragioni. Perché contesto anzitutto che, attualmente, le Giunte abbiano quella assoluta indipendenza, dal potere centrale, necessaria per una serena valutazione delle delibere comunali; e poi non riconosco davvero a persone, chiamate a delibare faticosamente molteplici delibere dei vari comuni della provincia, una competenza in merito, superiore a quella di uomini che vivono diuturnamente a contatto con la vita dei comuni di cui conoscono tutti i bisogni e che, a controllo della loro attività, hanno l’opera, che si deve necessariamente pensare vigile ed anzi ipercritica, di una minoranza, anche essa liberamente eletta dal popolo.

E, del resto, il controllo di legittimità può bastare ad impedire abusi che contrastino con le leggi vigenti, anche per il sindacato della Giunta provinciale amministrativa che riguarda materia di maggior rilievo e di maggiore impegno per la finanza comunale.

E qui è tutto il contenuto del disegno di legge che ci interessa. Il resto è dettaglio che riguarda un adeguamento parziale, di alcune operazioni, al diminuito potere di acquisto della moneta, mantenuto però in limiti strettamente prudenziali.

Sono poi di accordo con l’onorevole Priolo sulla opportunità di eliminare del tutto l’ingerenza dei Consigli di Prefettura, sia pure nella ridotta misura stabilita dall’articolo 2 del disegno, poiché la pratica ha dimostrato e dimostra come sia faticosa ed inutile tale voluta garanzia.

Gli ultimi articoli riguardano le commissioni di disciplina per gli impiegati e salariati comunali ed a me pare che il proposto emendamento, affidando ad un magistrato dell’ordine giudiziario la presidenza delle commissioni stesse, abbia dato migliore garanzia ai dipendenti comunali che così non avranno a temere persecuzioni o rappresaglie di qualsiasi genere.

Per noi, che consideriamo la personalità umana come sacra e vogliamo tutelata la indipendenza dei dipendenti di qualsiasi ente da possibili sopraffazioni, ogni garanzia, che tenda a tale scopo è sempre commendevole.

E poiché dall’onorevole Priolo e da altri onorevoli colleghi ho inteso accennare alla situazione economica dei comuni, che giustamente preoccupa tutti, debbo aggiungere che il Governo, non solo ha preso in considerazione la prima parte dell’ordine del giorno dell’Associazione dei comuni, che riguarda l’autonomia amministrativa, ma ha preso a cuore anche la seconda e si sta già apprestando, presso il Ministero delle finanze, un progetto di riforma del testo unico sulla finanza locale, che, vogliamo sperare, valga a ridonare ai comuni d’Italia quella autonomia economica, senza la quale non può esistere una vera autonomia amministrativa.

L’onorevole Zotta, con la competenza che gli è propria, ha accennato al ben noto articolo 19 della legge comunale e provinciale del 1934, ed ha messo giustamente in rilievo le conseguenze cui si può giungere per la eccessiva larghezza che la legge fascista ebbe a concedere ai prefetti. Ha anche citato un caso specifico di un prefetto improvvisatosi addirittura legislatore. Purtroppo il caso non è singolo ed anche io ho dovuto constatare e deplorare interventi prefettizi che ledono profondamente i diritti fondamentali del cittadino.

L’articolo 19, a mio parere, dovrebbe essere sostanzialmente modificato, per ciò che riguarda i poteri attribuiti dal comma quinto ai prefetti. Intanto mi pare sia compito del Ministro dell’interno di emanare una disposizione la quale chiarisca il contenuto della norma ed impedisca quindi, quelle eccessive larghezze che finiscono con costituire dei veri e propri arbitri, sempre intollerabili e specialmente in regime democratico.

Propongo il quesito all’alto senso di giustizia dell’onorevole Scelba e lo prego di un suo pronto, efficace intervento.

Infine da qualche oratore si è accennato alla delicata ed ardua questione che riguarda lo stato giuridico dei segretari comunali, ed al conflitto, che può parere difficilmente conciliabile, fra le richieste di questa benemerita classe, che mira ad una stabilità di carriera, e le giuste esigenze delle Amministrazioni comunali che vogliono essere libere nella scelta dei loro principali collaboratori.

In tal punto è bene dire una parola chiara.

La relazione al disegno di legge, mettendo giustamente a carico della dittatura tutte le norme restrittive o addirittura distruttive dell’autonomia dei comuni, elenca anche, in questa attività accentratrice, la legge 13 dicembre 1928, n. 2944, che provvide alla statizzazione dei segretari comunali e provinciali. Che il fascismo abbia voluto servirsi della legge come un altro instrumentum imperii è probabile, ma storicamente è dimostrato che la legge attuò finalmente delle innovazioni invocate da lungo tempo, e certo prima dell’avvento del fascismo, dai segretari dei comuni e delle provincie. I quali, e lo dico ad onore di questa benemerita classe, non furono affatto i docili strumenti che la dittatura forse pensava di avere al suo comando.

Presentatasi oggi, più viva ed attuale che mai, la questione, in seguito alla ricostituzione delle libere amministrazioni comunali, il recente congresso nazionale dei segretari comunali ha chiesto la costituzione di una commissione paritetica per la elaborazione dei principî ai quali dovrà ispirarsi la riforma del vigente stato giuridico dei segretari comunali e provinciali.

Accogliendo tale voto, l’Associazione dei comuni ha scelto a propri rappresentanti gli onorevoli Dozza, sindaco di Bologna; Fedeli, sindaco di Verona, e chi vi parla, mentre il congresso dei segretari delegava il dottore Beviglia, il professor Giacobelli ed il Dottor Rinaldi.

La Commissione, sotto la guida sapiente del professor Michele La Torre, la cui competenza è universalmente nota, ha iniziato, alla fine di gennaio, i suoi lavori e li sta proseguendo col più vivo interessamento. Essa ha ritenuto che ai comuni debbono essere riconosciute quelle autonome potestà di determinazione, che sono logico corollario del regime democratico; ma che, d’altra parte, deve giungersi ad una conclusione tale che non menomi lo stato di diritto oramai acquisito ai segretari e consenta loro un ordinato progresso di carriera ed ogni garanzia di imparzialità nelle nomine, nelle promozioni e nei trasferimenti.

Speriamo di potere esaurire al più presto il nostro arduo lavoro e di potere presentare al Governo un progetto definitivo che valga a conciliare questo contrasto che a parecchi poteva sembrare addirittura insanabile.

Dopo questi chiarimenti, penso che l’onorevole Lami Starnuti vorrà ritirare l’emendamento proposto su tale punto, per dar modo al legislatore di tenere presenti gli studi delle associazioni interessate e legiferare quindi con piena maturità.

Concludendo, onorevoli colleghi, noi sindaci, aderenti all’Associazione dei comuni, consideriamo e voteremo il progetto non come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza necessario però per la vita istessa delle amministrazioni degli enti locali. E non occorre che io metta in rilievo l’importanza somma che hanno più specialmente i comuni nella vita dello Stato.

Il comune è l’organismo fondamentale della compagine statale, che accompagna ed assiste il cittadino durante tutta la sua vita, dalla nascita alla morte. Ove i comuni fioriscono e prosperano, lo Stato prospera a sua volta, mentre una vita grama di questi enti si riflette immancabilmente su tutta la compagine statale.

Se si vuole davvero che il regime democratico si confermi sempre più e meglio, è necessario che sentimenti di vera democrazia animino le amministrazioni che reggono i comuni, in modo che il popolo abbia la prova, con i fatti, che il regime democratico è il migliore per l’onestà, la capacità e l’assenza di ogni spirito fazioso che debbono guidare gli amministratori della cosa pubblica.

Se questi imperativi sapremo inculcare in chi guida e dirige i nostri comuni, avremo fatto opera politicamente e socialmente tanto utile ed avremo spianato la via ad una salda rinascita materiale e morale della nostra Patria. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Dozza. Ne ha facoltà.

DOZZA. La relazione ministeriale al disegno di legge sulle modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale approvato con Regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni, così si esprime:

«Essendosi, col decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, provveduto alla ricostituzione, su base elettiva, delle Amministrazioni comunali, si ravvisa di urgente necessità, in corrispondenza ai riaffermati principî di autarchia e di decentramento, apportare una semplificazione nel vigente sistema dei controlli, in modo da rendere meno grave, in conformità anche dei voti di recente formulati dai sindaci delle città capoluoghi di regione dell’Italia settentrionale, l’ostacolo che essi frappongono allo svolgimento della vita amministrativa degli enti locali».

In altri punti della stessa relazione si parla di nomina governativa degli organi locali «testé abolita».

Si tratta dunque di tre elementi: l’urgente necessità d’una nuova legislazione sui Comuni; i voti recentemente formulati dai sindaci; la nomina governativa degli organi locali testé abolita.

In realtà, noi ci troviamo oggi a 14 mesi dalla data, in cui fu approvato il decreto legislativo luogotenenziale per la ricostituzione, su basi elettive, delle Amministrazioni comunali; i voti formulati dai sindaci sono del 28 agosto 1945; i successivi sono del gennaio e del settembre 1946; l’abolizione della nomina governativa risale per fortuna ad una data più lontana.

Volevo perciò rilevare il ritardo col quale noi giungiamo a questa discussione, ritenendo che potrebbe far pensare ad un eccessivo ottimismo il Presidente della nostra Commissione, allorché egli dice che le modificazioni in esame saranno destinate a breve vita.

Evidentemente, all’indomani della nuova Costituzione, molto lavoro legislativo attenderà la nuova Camera, ed è, perciò, da presumere che la nuova legge comunale e provinciale subirà un notevole ritardo.

Per questo, sarebbe opportuno apportare oggi modificazioni più profonde, per incidere più fortemente il nuovo carattere democratico dei procedimenti che dovremo seguire nella vita delle amministrazioni locali.

Secondo la relazione citata, la legge del 1934 era diretta a conseguire che le amministrazioni locali conformassero la loro attività alle direttive politiche ed amministrative del Governo, a rafforzare l’ingerenza del Governo nella gestione delle amministrazioni autarchiche locali. Dice la stessa relazione: «Essa si traduce in sostanza in una grave limitazione della capacità di agire e, quindi, della libera manifestazione della volontà degli enti stessi, non più compatibile con la ricostituzione delle amministrazioni autarchiche locali su basi elettive».

Ora, per molte delle nostre amministrazioni, questa grave situazione di incompatibilità fra la legge del 7 gennaio 1946 e la legge comunale e provinciale che ha ancora oggi vigore è durata già più di un anno.

Credo che non sia ingiustificato esprimere qualche preoccupazione sulla lentezza che si segue nei lavori legislativi su questioni di tanta importanza e tanto più su questioni come questa, sulla quale si raggiunge l’accordo della grande maggioranza dell’Assemblea. Vi è stata una sola voce discorde, quella dell’onorevole Condorelli, il quale ha detto che la discussione di questo progetto potrebbe essere rinviata, perché pensa che sia necessario non diminuire i controlli di merito del Governo, visto che la classe degli amministratori del Paese è molto indebolita, ed è spesso composta di uomini inesperti.

Certo, tutti noi siamo stati chiamati a farci un’esperienza che non abbiamo potuto compiere precedentemente, non per colpa nostra. Ma si può rilevare che coloro che tendono per questi motivi a negare la libertà dovuta ai Comuni, manifestano di non avere nessuna fiducia nella libertà, nella democrazia, nel controllo democratico, e di averne invece una maggiore per il permanere del vecchio sistema fascista centralizzato.

La Commissione dell’Assemblea aveva già risposto a queste osservazioni quando osservava che lungi dal favorire il funzionamento delle amministrazioni comunali e provinciali, questa ingerenza centrale può paralizzare l’azione degli enti locali e renderla schiava dell’autorità governativa.

D’altro canto, la collegialità degli organi, il controllo delle minoranze, il sindacato della pubblica opinione liberamente manifestantesi, attenuano grandemente, se non eliminano, il pericolo di deliberazioni volutamente e manifestamente inopportune e dannose.

Per quanto riguarda l’attività delle amministrazioni locali e dei sindaci, voglio qui ricordare che, nella regione che rappresento, la loro attività è stata decisiva in un’azione d’importanza così grande, come quella del reperimento del grano e del conferimento di esso ai granai del popolo. Senza l’attività dei sindaci certamente non vi sarebbe stato, nella nostra regione, come in altre – la Toscana, le Marche, ecc. – un conferimento che ha raggiunto spesso il 100 per cento.

Allorché si giudica dell’attività delle amministrazioni municipali, si deve tener conto di questi elementi, di fatto, e ciò potrebbe spiegare la ragione per cui l’onorevole Condorelli è di diverso parere, poiché egli forse non può dire altrettanto di amministrazioni e di sindaci di altre località.

Vorrei ricordare qui la funzione, non soltanto dell’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia, ma anche quella delle sue sezioni provinciali che, secondo la nostra esperienza, sono state utilissime, sia per l’applicazione delle direttive dell’autorità centrale, sia per lo scambio di quelle esperienze che facilitano l’attività delle amministrazioni municipali. E vorrei che da parte del Governo non si frapponessero più difficoltà alla costituzione, al funzionamento e al finanziamento di queste sezioni provinciali dell’Associazione nazionale dei Comuni per dei motivi che, messi a confronto con l’attività e l’utilità di tale Associazione, non sono che piccoli motivi formali, i quali non hanno alcuna ragione di essere.

Quando noi chiediamo l’autonomia amministrativa municipale, non vogliamo evidentemente confondere questa autonomia con quella autonomia legislativa regionale di cui si parla del progetto di Costituzione. Questo dico perché mi pare che in materia di attività comunale e provinciale, oggi, quando si vuole ritardare una realizzazione, la si rinvia alla nuova organizzazione regionale; e poi si aggiunge che, non essendo essa ancora costituita, è opportuno attendere che ciò avvenga e continuare per intanto come prima.

Già è stata ripetutamente sottolineata la modestia del progetto che ci è stato presentato ed io quindi non vi insisterò per brevità. I sindaci, unanimi, avevano chiesto l’abolizione pura e semplice del giudizio di merito, come condizione per l’esecutività delle deliberazioni. Essi i domandavano che il controllo – è evidente che gli enti locali non potranno esimersi da ogni forma di controllo – fosse limitato alla legittimità e che questo controllo di legittimità fosse deferito alle Giunte provinciali amministrative; domandavano inoltre che tali deliberazioni delle Giunte provinciali sulla legittimità dovessero essere prese in un termine prefissato. Senza di ciò, infatti, continuerebbe a verificarsi nel futuro quanto purtroppo si verifica oggi largamente, che cioè certe deliberazioni attendono i visti e le approvazioni per mesi e mesi.

Mi pare anche giusta e giustificata la richiesta fatta da varie parti che la formazione della Giunta provinciale amministrativa sia più rispondente alla legge del 1915 che prevedeva una maggioranza elettiva. Ancora non ci sono state le elezioni provinciali, ma è necessario che noi troviamo un accorgimento perché sia nuovamente stabilita questa maggioranza elettiva, onde non restare ancora più indietro di dove non si fosse giunti con la legge del 1915.

Dopo quanto ho detto, non sorprenderà se noi domanderemo che l’articolo 2 del disegno di legge sia soppresso. È l’articolo che si riferisce al controllo dei Consigli di prefettura per quanto riguarda l’esecuzione di lavori: «Sono comunicati ai Consigli di prefettura i progetti di contratto quando superino il milione per i Comuni superiori ai centomila abitanti, ecc.».

Questo articolo dovrebbe essere soppresso; però noi abbiamo presentato, in via subordinata, un emendamento secondo il quale i limiti massimi sarebbero elevati da un milione a cinque milioni per i Comuni con popolazione superiore ai cinquecentomila abitanti e da un milione a due milioni per i comuni con popolazione superiore ai centomila abitanti.

E il Consiglio di prefettura dovrebbe dare il suo parere soltanto sulla regolarità del progetto, e non sulla convenienza amministrativa del progetto stesso.

Noi abbiamo proposto altri emendamenti di dettaglio nello stesso senso, perché vi è la necessità di adeguare tutte le cifre che sono indicate nel progetto di legge alla svalutazione della moneta. Le proposte che sono fatte, sono oggi inferiori al rapporto della svalutazione, e se restassero quali sono ci troveremmo nella situazione che le amministrazioni municipali dovrebbero sottoporre al controllo della Giunta provinciale amministrativa un numero maggiore di deliberazioni di quante non avrebbero dovuto sottoporre già, secondo la legge del 1934. Anche questi emendamenti noi li presentiamo in via subordinata poiché appoggeremo l’emendamento Lami Starnuti all’articolo 3, secondo il quale ogni controllo di merito deve essere abolito.

In relazione con questa richiesta, noi diciamo che è necessario dare ai Comuni più largamente la possibilità di procedere all’attività di ricostruzione. Non è un tema questo che si riferisce strettamente, direttamente al progetto in discussione; però gli amministratori dei Comuni sentono tutti l’esigenza di questa necessità.

Così, noi avremmo voluto che le disposizioni di legge per quanto riguarda gli enti di consumo avessero ricevuto un’applicazione conseguente a quella che era l’intenzione del Governo. Ciò fino a questo momento non è ancora avvenuto; e noi ne sentiamo tutte le conseguenze nelle attività locali.

Per quanto riguarda la questione dei segretari comunali – questione molto dibattuta – è esatto quello che ha detto l’onorevole Quintieri, che mi ha preceduto. Vi è una Commissione composta di sindaci e segretari comunali, che senza dubbio giungerà a delle proposte che saranno presentate al Governo. È quindi opportuno – a mio parere – attendere che questa Commissione, nominata dal Congresso dei sindaci e dal Congresso dei segretari comunali, abbia terminato i suoi lavori. Penso però che sarebbe opportuna l’affermazione della necessità che i segretari comunali ritornino ad essere completamente del dipendente dei Comuni, anche se i Comuni hanno il dovere di riconoscere la loro posizione giuridica e la loro dignità professionale, nonché la funzione importante che essi compiono nei Comuni.

È proprio per quest’ultimo motivo che non sarei dell’opinione di ritornare puramente e semplicemente alla legge del 1915 per quanto riguarda i segretari comunali, così come è stato proposto in un emendamento, perché so che i segretari comunali domandano maggiori riconoscimenti e credo che questi riconoscimenti siano loro dovuti.

Così, un trattamento ugualmente dignitoso, mi pare che dovrebbe essere fatto a tutti i dipendenti comunali, e che la loro parificazione coi dipendenti statali dovrebbe essere rapidamente raggiunta.

È stata sollevata in quest’aula dall’onorevole Persico la questione dell’indennità ai sindaci. È un grave problema questo; è un problema, che può persino toccare e rendere inoperante il responso del suffragio universale. Ecco perché la cosa è di così grande importanza. Oggi l’attività municipale è estremamente gravosa, e gli uomini che si dedicano a questo compito sono costretti a dedicare tutto il loro tempo a questa attività. Per conseguenza in molti Comuni, i lavoratori, uomini modesti per il loro censo, non sarebbero in condizioni di poter continuare il sacrifizio pesante che essi già compiono da tanto tempo. Ed è evidente che un’Assemblea democratica, che un regime democratico, non possono consentire a che il suffragio universale venga per questa via annullato. Coloro che sono stati chiamati ad esercitare queste funzioni dalla fiducia del popolo debbono essere messi dignitosamente nelle condizioni di poterle esercitare.

Vi sono poi delle attività collaterali dei Comuni – e anche queste non si riferiscono direttamente al disegno di legge che discutiamo – che sono molto importanti per il loro intervento nella vita delle popolazioni. Mi voglio riferire, per esempio, alla questione di potere o meno fondare delle farmacie municipali. Vi era una legge del 1913 che consentiva ai Comuni di istituire delle farmacie. Questa legge è stata abolita più tardi dal fascismo. Molte richieste sono venute perché la legge fascista in questa materia fosse abolita, ma non siamo ancora giunti a questo benché a me pareva che bastasse un decreto-legge di poche parole per dire che la legge del 1934 è abolita ed è sostituita dalla legge del 1913, per quanto si riferisce all’argomento della nostra discussione.

Molti comuni hanno rivolto delle richieste al Governo e qui io ho una lettera del Capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio in data 1° gennaio 1946, nella quale si dice: «Continuano a pervenire all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica voti da parte di pubbliche amministrazioni, perché sia ripristinata la facoltà dell’esercizio farmaceutico, in vista dei riflessi che possono derivarne a vantaggio del pubblico.

«La richiesta non ha mancato di suscitare reazione da parte della categoria dei farmacisti. La questione è tuttavia all’attento esame di quell’Alto Commissariato, che si riserva di promuovere i provvedimenti relativi».

Io ritengo possibile che le misure chieste dagli amministratori di milioni di cittadini, siano prese in esame dal Governo ed eventualmente sottoposte all’esame di questa Assemblea, con una maggiore rapidità di quanto non sia avvenuto per il progetto di legge che stiamo discutendo.

Ma, al di là di tutto questo la questione capitale per la vita dei Comuni è quella del finanziamento del bilancio dei Comuni stessi e delle provincie ed altri enti locali, come per esempio, in modo particolare per quanto riguarda gli ospedali, che si trovano in una grave condizione di necessità.

Finché la vita di questi enti dipenderà dalla integrazione statale del bilancio, l’autonomia amministrativa non potrà essere una questione risolta. Come è stato rilevato, facile è la tentazione d’influire sulla vita locale grazie al controllo dei bilanci deficitari e all’integrazione di essi; quanto meno è facile il sospetto che ciò possa avvenire, e noi dovremmo eliminare qualsiasi possibilità che simili sospetti possono sorgere.

Nessuna protesta di buona fede e di obiettività ha valore in un campo nel quale si tratta assai più della condizione delle cose che non della volontà degli uomini.

D’altra parte non si può continuare ad indebitare i comuni oltre un certo limite con mutui accesi non per opere di pubblica utilità, ma per colmare disavanzi, spese ordinarie o spese che di straordinario hanno soltanto il nome; così come non si può rinunciare ad alcune spese che sono in relazione ad altissime funzioni municipali, come per esempio, quelle riguardanti l’assistenza scolastica e di altra natura, provvidenze per l’infanzia diseredata.

Il problema è di assicurare ai comuni i mezzi finanziari per una vita autonoma, tale che li sottragga all’umiliante condizione antidemocratica in cui si erano venuti a trovare durante il periodo fascista, allorché erano sottoposti agli eccessi del potere centrale. Una opportuna modificazione si rende anche necessaria nel campo dell’ordinamento tributario e delle competenze finanziarie riguardanti rispettivamente i comuni, le provincie e lo Stato.

Vi è a questo proposito un progetto del quale si è già parlato e che fu presentato a suo tempo dall’onorevole Scoccimarro, allorché era Ministro delle finanze.

Io volevo domandare che questo progetto venisse rapidamente in discussione. Sono stato informato e taluno degli oratori precedenti ne ha fatto cenno, che questo progetto è stato in parte approvato ed avrà corso probabilmente senza essere sottoposto all’Assemblea.

Ora, se ho ben capito, la parte del progetto che è stata approvata, si riferisce quasi esclusivamente ad un aumento delle imposte di consumo. Non è una cosa difficile. È un provvedimento che si può attuare con grande facilità, anche senza una decisione di carattere centrale. Ma questo non può essere sufficiente; ci vuole qualche cosa di più. Ci vogliono dei provvedimenti di carattere più generale, perché il provvedimento che è annunziato non può che alleviare leggermente la situazione dei comuni, non può dare quella indipendenza di carattere finanziario che è stata da varie parti invocata.

E io penso che sia assolutamente indispensabile ed urgente risolvere questa questione, senza di che l’autonomia ed indipendenza delle amministrazioni locali non esisterà.

È con questo spirito e sulla base delle osservazioni che abbiamo fatte, contando che le modificazioni richieste siano introdotte nel testo, che il gruppo che io rappresento si propone di votare a favore del disegno di legge che è stato proposto, perché esso ritiene che, per quanto poco, certamente rappresenti sempre una sensibile modificazione nei confronti della legge del 1934. Ma noi vorremmo che questa discussione valesse a far sì che un altro progetto più completo, più profondo e che toccasse soprattutto l’aspetto finanziario del problema, fosse messo in cantiere immediatamente e fosse sottoposto all’Assemblea il più rapidamente possibile, perché questa ritengo sia un’esigenza assoluta della vita dei Comuni e della organizzazione democratica della società italiana. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Uberti. Ne ha facoltà.

UBERTI. Domando la chiusura della discussione generale.

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione generale. Domando se sia appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle ore 10.

Presentazione di disegni di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro di grazia e giustizia. Ne ha facoltà.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Ho l’onore di presentare all’Assemblea Costituente il seguente disegno di legge:

Modificazioni del Codice penale per la difesa delle istituzioni repubblicane.

Ho anche l’onore di presentare, per conto dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, i seguenti disegni di legge:

Disposizioni relative al soggiorno nel territorio dello Stato e ai beni degli ex regnanti di Casa Savoia.

Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro di grazia e giustizia della presentazione di questi disegni di legge. Saranno inviati alle Commissioni competenti.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza, con richiesta di svolgimento di urgenza, le seguenti interrogazioni:

«Al Presidente del Consiglio ed al Ministro della difesa, per sapere se sia vera la notizia pubblicata da alcuni giornali della sostituzione e dell’esonero del generale Zingales, istruttore del processo relativo al tesoro di Dongo, e dei motivi che l’avrebbero determinata; e per conoscere, inoltre, se il Governo intenda interferire, o meno, sul normale svolgimento delle istruzioni giudiziarie, anche se connesse a processi di ricettazione di profitti di regime.

«Bellavista».

«Al Presidente del Consiglio (Alto Commissariato per l’alimentazione) e ai Ministri dell’interno e dei trasporti, per sapere se sono a conoscenza delle frequenti recenti agitazioni in parecchi paesi della provincia di Reggio Calabria per la mancanza di pane verificatasi e che tuttavia si lamenta in molti comuni della provincia suddetta (Palizzi, Varapodi, Ardore, Caulonia, Bova, ecc.) ed in un comune (Gioia Tauro) per la mancata assegnazione di carri ferroviari destinati alla esportazione degli agrumi, che è una delle poche ed importanti industrie che danno lavoro in quelle zone; e come intendono provvedere – con impegno che sia mantenuto – ai legittimi reclami di quelle popolazioni calabresi.

«Sardiello».

«Al Ministro dell’interno, sulla situazione alimentare della provincia di Cosenza, che ha determinato gli incidenti di Bonifati e Diamante e potrebbe provocarne altri più gravi.

«Mancini».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo risponderà a queste interrogazioni nella seduta antimeridiana di sabato.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa per conoscere se nelle circostanze attuali, in cui si lamenta una grave deficienza di preparazione professionale nei giovani, non ritenga opportuno, allo scopo di contribuire alla ricostituzione della vita economica del Paese, istituire nelle caserme delle scuole professionali, dove soldati, avieri e marinai possano ricevere, o completare se già ne avessero una, un’adeguata istruzione nel mestiere o arte, che secondo le proprie attitudini, ciascuno di essi probabilmente eserciterà nella vita civile, a servizio militare completato.

«Per tali corsi si potrebbero utilizzare i numerosi tecnici e capi operai dipendenti dal Ministero della difesa, che finora non trovano alcuna conveniente occupazione.

«Nobile, Togliatti, Musolino, Pastore Raffaele, Silipo, Maltagliati, Di Vittorio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere perché non sia stata ancora disposta la erogazione degli stanziamenti effettuati in base alla legge 2 aprile 1940, n. 392, mediante la quale fu concesso al comune di Udine uri concorso di lire 18.900.000 per opere di riattivazione dell’acquedotto, di sistemazione della relativa rete di distribuzione in città e altre opere igieniche e di risanamento, per l’esecuzione delle quali l’amministrazione comunale ha impegnato il suo bilancio e vincolate le sue disponibilità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cosattini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per sapere se, allo scopo di favorire la attuazione dei piani predisposti dai Comuni per la ricostruzione delle zone danneggiate dalla guerra, non ritengano necessario estendere alla espropriazione o all’acquisto delle aree o dei fabbricati, che all’effetto si rendessero comunque indispensabili, la disposizione dell’articolo 2 del decreto legislativo 26 marzo 1946, n. 221, che consente la registrazione e la trascrizione, con la sola tassa fissa, degli atti relativi all’esproprio dei soli edifici danneggiati o distrutti (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cosattini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritenga necessario disporre, con ogni urgenza, la riorganizzazione dell’Ente di previdenza per gli avvocati e procuratori legali – in vista di una radicale riforma di esso – intesa, perlomeno, a snellirne i servizi, a ridurre le notevoli spese di gestione, e soprattutto a consentire la ripartizione dei vari proventi nei conti individuali intestati ai singoli avvocati.

«Risulterà all’onorevole Ministro che il Commissario straordinario dell’Ente in parola, visto l’esito assolutamente negativo delle sue reiterate relazioni, proposte e proteste s’è, infine, dovuto indurre a dimettersi. Penosa è l’impressione che questo stato di cose suscita nella classe forense: impellente è la necessità che vi si ponga rimedio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici:

  1. a) sulla evidente sproporzione tra i fondi assegnati finora alla Calabria e alla Basilicata e quelli assegnati alle altre regioni d’Italia;
  2. b) sulle ragioni che in Calabria hanno determinato l’arresto quasi totale di tutte le opere pubbliche, anche di quelle per le quali si è ottenuto il finanziamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cassiani».

 

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario per l’alimentazione, sulle cause che determinano l’enorme ritardo della distribuzione dei generi alimentari nelle tre Provincie calabresi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cassiani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se a vantaggio dei giovani, forniti della licenza tecnica commerciale e che hanno compiuto il 17° anno di età, non sia opportuno ripristinare la concessione dell’abbreviazione di un anno, abrogata con disposizione n. 2277 del 28 febbraio 1946, che ha per oggetto le norme sugli esami negli Istituti e scuole tecniche per le sessioni dell’anno scolastico 1945-46. Mantenendo in vigore la citata disposizione, si arrecherebbe un grave danno a detti giovani, i quali non solo perderebbero un anno, ma sarebbero costretti ad interrompere gli studi per adempiere il servizio di leva. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Moro».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

lxiv.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Pieri                                                                                                                  

Relazione della Commissione per il caso Finocchiaro Aprile-Parri:

Presidente                                                                                                        

Crispo                                                                                                               

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Targetti                                                                                                           

Giordani                                                                                                           

Risposta dell’Assemblea Nazionale francese al messaggio dell’Assemblea Costituente italiana:

Presidente                                                                                                        

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Ravagnan                                                                                                        

Condorelli                                                                                                      

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana precedente.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che il sindaco di Avola ha fatto pervenire i ringraziamenti per le condoglianze che, interpretando il pensiero dell’Assemblea, ho inviato per la morte dell’onorevole Antonino d’Agata.

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Pieri. Ne ha facoltà.

PIERI. Prendo la parola nella mia doppia veste di segretario di un’importante sezione italiana del movimento federalista europeo e di deputato socialista: noi socialisti siamo federalisti per definizione, perché internazionalisti. Intendo, dunque, parlare per esprimere il mio, il nostro compiacimento nel vedere codificata nell’articolo 4° della Costituzione quell’aspirazione propria della democrazia, e che è viva e profonda nella classe lavoratrice: l’aspirazione alla creazione dei vincoli federali fra gli Stati europei.

Il movimento federalista è di origine italiana. Anche a prescindere che esso deriva dalle dottrine di Mazzini e di Cattaneo, resta di fitto che la prima organizzazione federalista è stata creata nell’isola di Ventotene da un gruppo di confinati politici, nel giugno 1941. Questi lanciarono un manifesto-programma, fondarono un giornale clandestino: L’Unità europea, e scrissero opuscoli sui vari problemi del movimento federalista.

Quasi tutti coloro che facevano parte di questo gruppo sono morti nella lotta per la liberazione, ed essi appartenevano ai vari partiti di sinistra: Ginsburg, del Partito di azione, morì in carcere a Roma, a Regina Coeli; Jervis, del Partito di azione, fu impiccato a Villarpellice; Colorni, socialista, fu trucidato a Roma dagli sgherri della banda Koch; Barbera, socialista, fu fucilato a Torino.

Nel breve periodo di libertà che seguì la caduta del regime di Mussolini il movimento federalista tenne il suo primo congresso a Milano il 27-28 agosto 1943.

Nel frattempo l’idea federalista aveva fatto strada ed era penetrata anche in altre Nazioni. Nel maggio del 1945 si riunì a Parigi il comitato per il movimento federalista, che decise la fondazione di una rivista: L’Europe fédéraliste e pubblicò i Cahier du fédéralisme européen.

In Italia, dopo la fine della guerra, il movimento federalista tenne un congresso a Milano nel settembre 1945, ed un altro congresso a Firenze nel gennaio 1946, e decise la pubblicazione di un periodico quindicinale: L’Unità europea, che si stampa a Torino.

Ora, noi federalisti ci teniamo a distinguere il nostro federalismo, che è un federalismo realista, da un federalismo utopistico, le cui idee ed origini risalgono a quei pensatori che hanno predicato la pace e la fraternità dei popoli partendo da presupposti filosofici, a cominciare da Seneca e discendendo ad Erasmo da Rotterdam e giù giù fino a Spinoza, Voltaire, Tolstoi ecc. Un federalismo utopista ispirò anche i vari tentativi destinati a fallire in partenza, come la Società per la pace fondata da Nicola I all’Aja, la Società delle Nazioni, la Paneuropa di Coudenhove-Kalergi, il recentissimo movimento unionista promosso da Churchill, al quale noi opponiamo una ostilità pregiudiziale per il fatto di rappresentare un federalismo in funzione antirussa, diretto cioè a scopi non di pace, ma di guerra.

Noi ci teniamo a definirci federalisti realisti, perché la nostra dottrina si basa non su principî astratti ed eterni, ma sopra interessi concreti ed attuali.

E ciò, perché il nostro movimento si basa sulla necessità, sulla urgenza di ricostruire questa vecchia e rissosa Europa, in modo che da essa non partano più le scintille di un incendio che, questa volta, potrebbero divorare tutto l’edificio della civiltà.

Ora, noi dobbiamo domandarci: perché l’Europa è un continente stremato economicamente ed irrequieto politicamente? Lo è, sia perché numerose guerre hanno dilapidato completamente le ricchezze del continente, e lo è anche perché le barriere nazionali bloccano la produzione e i mercati.

Quindi necessità di abolire, se non le frontiere politiche, almeno in primo tempo le frontiere economiche; e noi vediamo che questa abolizione avrebbe una importanza grandissima, anzitutto perché permetterebbe una riorganizzazione razionale della economia e darebbe un grande incremento alla produzione, per il fatto che ogni Paese dovrebbe produrre le merci per le quali ha l’attrezzatura e le materie prime, quelle, cioè, per le quali, si trova nelle condizioni più favorevoli; e ciò si applicherebbe anche all’agricoltura, nel senso che ogni Paese dovrebbe coltivare i prodotti della terra per i quali è più adatto. Poi avrebbe la conseguenza di aprire ai singoli paesi non il piccolo mercato nazionale, ma l’intiero mercato europeo.

Ora è chiaro che ciò non può avvenire, se non si arriva all’abolizione delle barriere doganali. E questo è il lato economico del problema.

C’è poi un lato politico: noi riteniamo necessario che le singole nazioni rinuncino ad una parte della loro sovranità, delegando ad un consiglio federale i problemi che riguardano la politica estera e l’esercito; le nazioni dovrebbero avere esclusivamente delle forze di polizia.

La Francia, con l’intuito politico che le è caratteristico, nel preludio alla sua Costituzione ha inserito un periodo che dice: «La Francia, a condizioni di reciprocità, è pronta a rinunciare ad una parte della sovranità, quando ciò si renda necessario per l’organizzazione e per la difesa della pace».

Ora, io penserei che il nostro articolo 4 ci potrebbe mettere in condizioni di entrare in intese con la Francia, in modo da costituire un primo nucleo federalista, al quale si aggiungerebbe quasi certamente la Svizzera e poi, probabilmente, le altre nazioni europee. Noi non riteniamo che il movimento federalista possa, almeno in principio, estendersi in tutta l’Europa; pensiamo che con tutta probabilità si formerà un nucleo centro-occidentale federalista, perché da una parte l’Inghilterra e dall’altra la Russia con la catena degli Stati satelliti, probabilmente resteranno fuori dall’organizzazione.

Ma, in fondo, Inghilterra e Russia sono paesi che possiamo considerare marginali per l’Europa, che hanno il loro centro di gravità fuori dell’Europa: l’Inghilterra lo ha sull’Oceano, la Russia in Asia. Ma è anche possibile che in seguito al trattato di alleanza concluso recentemente a Dunkerque tra la Francia e l’Inghilterra, questa possa essere attirata nell’orbita dell’organizzazione federalista europea. È anche probabile che la Russia si avvicini sempre più al resto dell’Europa e possa in seguito inserirsi nell’organizzazione federale dell’Europa.

Ma quand’anche ciò non accadesse, noi potremmo realizzare un blocco federalista centro-occidentale europeo, sinceramente democratico e pacifista, omogeneo politicamente e vitale economicamente, che potrebbe esercitare un’utile funzione di pacificazione, e rappresentare come un cuneo interposto fra i due blocchi russo e angloamericano. E, nella deprecabile ipotesi di un conflitto fra i due blocchi, la presenza di questo cuneo potrebbe stornare dall’Europa la tempesta che si scaricherebbe lontano da noi, nell’altro emisfero.

Ora, qualcuno potrà domandarsi: non può l’Italia cercare di trovare la tutela del suo pacifico sviluppo nell’Organizzazione delle Nazioni Unite? Noi riteniamo che ciò non sia possibile, per almeno tre ragioni.

Anzitutto l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha una struttura che ricorda molto da vicino quella della Santa Alleanza. In fondo, sono cinque popoli che si sono assunti la tutela di tutti gli altri popoli del mondo, e l’Organizzazione appare destinata a fallire come la prima Santa Alleanza.

Poi, l’organizzazione delle Nazioni Unite si è messa sul terreno della politica delle zone d’influenza, di equilibrio politico, di blocchi; politica che ha sempre condotto alla guerra e che non ha risolto nessuno dei problemi fondamentali, ma tende a dividere il mondo in due blocchi antagonisti, e davanti a problemi scottanti, né è uscita con espedienti (quando il Consiglio di sicurezza discusse il problema dei rapporti fra l’Iran e la Russia fu tolta la questione dall’ordine del giorno; così il Consiglio rinunziò a formulare una decisione sulla questione della presenza delle truppe inglesi in Grecia); politica che ha prodotto l’atmosfera di sospetto e di equivoco che si addensa minacciosa sugli attuali colloqui di Mosca.

Infine, noi crediamo che l’O.N.U. sia in grado di evitare la guerra fra le nazioni minori, ma che non sia in grado di evitarla fra le nazioni maggiori, e che molto meglio servirebbe la causa della pace il movimento federalista europeo, in quanto verrebbe ad unificare quell’Europa che è stata finora il focolaio di origine delle recenti guerre.

Bisogna anche pensare che la tendenza federalista sia implicita nel dinamismo della evoluzione politica moderna; infatti, vediamo che forma federale hanno raggiunto gli stati più progrediti politicamente: la Svizzera, con la sua Confederazione, l’Inghilterra col suo Commonwealth; così gli Stati Uniti e la Russia.

Ora, onorevoli colleghi, questa nostra propaganda per la idea federalista trova adesioni non solo in questi banchi, ma anche in altri settori ed anche presso personalità politiche di primo ordine. Mi limiterò a citare il Conte Sforza, gli onorevoli Parri, Einaudi, Calamandrei.

Questo ci dà affidamento, non solo che l’articolo 4° sarà approvato, ma che l’idea federalista in esso affermata non resterà lettera morta, non resterà come una platonica affermazione di principio, ma rappresenterà la forza viva ed operante della politica estera della nuova Italia.

Terminerò il mio dire con un augurio: questa nostra Italia, povera e fieramente bistrattata dal destino, è stato sempre il paese più ricco di vita spirituale. Essa ha dato in ogni tempo al mondo le idee nuove. L’ultima è quella del federalismo. Qualora, come ne abbiamo fede, l’idea federalista, possa realizzarsi, l’Italia si riscatterà dalla involontaria colpa di aver dato al mondo il fascismo. (Applausi).

Relazione della Commissione per il caso Finocchiaro Aprile-Parri.

PRECIDENTE. Comunico all’Assemblea che la Commissione, nominata su richiesta dell’onorevole Parri, perché ricercasse il fondamento delle accuse che all’onorevole Parri erano state rivolte in pubblica Assemblea dall’onorevole Finocchiaro Aprile, ha concluso i lavori ed ha assolto al proprio compito nel termine assegnatole, ed ha chiesto di dare la sua relazione all’Assemblea.

Ha pertanto facoltà di parlare l’onorevole Crispo, relatore della Commissione.

CRISPO, Relatore della Commissione. Onorevoli colleghi, la Commissione incaricata di indagare e riferire sul caso occorso all’onorevole Parri, accusato in questa Assemblea dall’onorevole Finocchiaro Aprile di avere attinto i fondi per la propria elezione a Deputato alla Banca commerciale, ha adempiuto il proprio compito agevolmente e rapidamente. Agevolmente e rapidamente, perché ha ritenuto di poterlo, dico meglio, di doverlo contenere nei limiti delle rispettive dichiarazioni delle parti. Difatti, mentre l’onorevole Finocchiaro-Aprile, interrogato dalla Commissione, dichiarava di non avere alcuna prova da produrre a sostegno dell’addebito mosso all’onorevole Parri, riconoscendo peraltro di aver raccolto soltanto voci, meglio si potrebbe dire dicerìe, pubblicate dai giornali Buonsenso e Uomo Qualunque, a sua volta l’onorevole Parri, non pago di queste dichiarazioni ed esprimendo con visibile indignazione, dirò anche di più, con visibile disprezzo, il proprio rammarico per quello che gli era occorso, esigeva una più ampia, più precisa, più categorica ritrattazione delle accuse a lui mosse, dichiarandosi peraltro a disposizione della Commissione per offrirle la documentazione precisa ed esauriente dell’infondatezza dell’addebito rivoltogli.

Preciso che l’onorevole Parri non soltanto determinò l’ammontare delle spese occorse per la propria elezione ed in generale per la campagna elettorale del gruppo politico a cui egli apparteneva, ma dichiarò, essendo in grado – egli disse – di poter individuare singolarmente i nomi degli amici, dei fautori, dei sostenitori della propria lista, che soltanto a queste fonti erano state attinte le spese occorse per la propria elezione a deputato. Deplorò, peraltro, e sottolineò che potesse tutt’ora imperversare nel nostro Paese un costume giornalistico tale da render lecito di farsi eco di voci incontrollate, e che purtroppo potesse ancora esservi un costume parlamentare che al primo rassomigliasse. (Approvazioni).

Sicché la Commissione, ritenne superflua ogni altra indagine di fronte a queste risultanze che potevano dirsi pacifiche, contenute nei limiti delle dichiarazioni delle parti; ed emise il suo giudizio, dichiarando insussistente l’addebito, così come da questa breve relazione che leggo all’Assemblea:

«La Commissione, sull’affermazione fatta, nella seduta del 26 febbraio 1947, dall’onorevole Finocchiaro Aprile, di avere l’onorevole Parri ricevuto fondi cospicui dalla Banca commerciale per fare fronte alle spese della propria elezione a deputato, rileva:

  1. a) che l’onorevole Parri, interrogato il 12 marzo 1947, smentiva recisamente l’accusa, precisando l’ammontare delle spese occorse, e che i fondi erano stati raccolti col concorso dei candidati della lista, dei fautori e sostenitori di essa. Escludendo, pertanto, categoricamente qualunque intervento, diretto o indiretto, sia della Banca commerciale, sia di qualunque altro Istituto finanziario, l’onorevole Parri soggiungeva di essere in grado di presentare la lista delle spese suddette, e di indicare individualmente tutti coloro che concorsero a sostenerle;
  2. b) che contestate tali dichiarazioni all’onorevole Finocchiaro Aprile, egli dichiarava di essersi fatto eco, nell’Assemblea, di voci riferite dai giornali Buonsenso e Uomo qualunque, per non essere state smentite; e che, pertanto, prendendo lealmente atto della smentita dell’onorevole Parri, non aveva «ragione di mantenere quanto aveva detto, e riconosceva la verità delle dichiarazioni dell’onorevole Parri che è notoriamente e personalmente un galantuomo».

«Ciò premesso, la Commissione ritiene adempiuto il proprio compito, per la evidente superfluità di qualunque altra indagine. Epperò dichiara insussistere l’addebito mosso all’onorevole Parri, non senza rilevare che se, in regime democratico, la libera censura è non solo un diritto, ma anche un dovere, il buon costume parlamentare e giornalistico esige il più rigoroso e vigile senso di responsabilità nell’esercizio di quel diritto o nell’adempimento di quel dovere. (Vivissimi, prolungati, generali applausi all’indirizzo dell’onorevole Parri).

PRESIDENTE Ringraziando la Commissione per la sollecitudine severa e serena, e per la diligenza particolare con la quale ha adempiuto al compito delicato ed importante che l’Assemblea, per tramite mio, la aveva affidato, prendo atto, a nome dell’Assemblea stessa, delle conclusioni a cui la Commissione è giunta e delle quali l’onorevole Crispo ci ha dato comunicazione, conclusioni che restano registrate nei verbali dell’Assemblea Costituente.

Si riprende la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Targetti. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Onorevoli colleghi, i primi 7 articoli del progetto di Costituzione che stiamo discutendo non sono i più adatti per permettere una discussione che mantenga rigorosamente il carattere di discussione generale, perché, come i colleghi sanno, non sono collegati da uno stretto nesso, non costituiscono un tutto omogeneo.

Si può anzi dire che ciascuno di questi articoli ha una vita autonoma, una vita a sé. La discussione generale di questo gruppo di articoli viene quindi a confondersi con la manifestazione del concetto che dei vari articoli si è fatta chi vi interviene e deve servire alla manifestazione del suo pensiero relativamente a modifiche proposte e non ancora illustrate o ad emendamenti che si possono considerare già svolti in questa discussione generale. Questo per evitare ripetizioni in quest’occasione più dannose di sempre.

L’Assemblea sa che nel discutere questo progetto noi siamo combattuti da due esigente opposte, senza che si possa scegliere quale sacrificare e quale sodisfare: la necessità di far presto e la necessità di discutere con la massima ampiezza tutti i problemi relativi al compito per il quale siamo stati mandati qui dalla volontà popolare. Dare all’Italia repubblicana la sua Carta costituzionale è il compito storico di quest’Assemblea.

Qualche osservazione sull’articolo primo, e, prima ancora, qualche dubbio su la proprietà, sull’esattezza della qualifica di «disposizioni generali», data a questi primi articoli. Il nostro collega onorevole Oro Nobili propone che venga sostituita con la parola: Stato. Ma, con tutto il desiderio che avrei di dargli ragione, non mi sembra giustificata, ragionata, neppure questa denominazione. E ciò per ragioni intuitive. Nello Statuto della Repubblica romana queste disposizioni ebbero il titolo di «Principî fondamentali». Forse sarebbe più consona alla natura dell’argomento questa dizione.

«L’Italia è una Repubblica democratica», così dice l’articolo 1 del Progetto. È stato presentato da noi e dai comunisti un emendamento aggiuntivo inteso a specificare la natura di questa Repubblica: «Repubblica democratica di lavoratori».

Ricordo all’Assemblea che questa stessa proposta fu strenuamente sostenuta nella Commissione elaboratrice di questa prima parte della Costituzione, dai nostri colleghi onorevoli Basso, Togliatti e Mancini e ci corse poco che non raggiungesse la maggioranza. Io non facevo parte di quella Sottocommissione, ma, se ricordo bene, la formula «Repubblica democratica dei lavoratori» non passò, perché raccolse 7 voti contro 8. Non voglio dire quali rappresentanti della democrazia cristiana furono favorevoli a questa formula, perché non si sa mai quale servizio si rende a mettere troppo in rilievo il particolare atteggiamento di qualche appartenente a partito diverso dal nostro. Specialmente poi in questo momento in cui, a quanto ho letto stamani nel suo organo, anche la Democrazia cristiana si preoccupa non poco del formarsi di tendenze, se è vero che la Direzione del Partito è intervenuta a proibirne l’organizzazione.

Quindi io non faccio il nome di quei colleghi – ma lo dovrei fare a tutto loro onore – della Democrazia cristiana che si trovarono d’accordo con i rappresentanti del Partito socialista e comunista in questa specificazione di «Repubblica dei lavoratori».

Ma io non intendo svolgere ora il nostro emendamento. Richiamo più che altro l’attenzione dell’Assemblea sopra la portata, il significato politico e le conseguenze degli emendamenti, in senso contrario, presentati da altri colleghi, i quali vorrebbero che, non solo non si aggiungesse la specificazione «di lavoratori», ma che, nel secondo comma dell’articolo, non si dicesse neppure «la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Alcuni propongono di. attribuire al lavoro un concorso nell’organizzazione della vita della Repubblica. Altro che concorso!

Altri vorrebbero affermare che il fondamento della Repubblica non sta nel lavoro, ma nella libertà e nel lavoro, mentre, poi, mettono da parte i lavoratori per sostituirli con i cittadini nell’indicare l’organizzazione del Paese.

Altro collega, di altro settore, propone di sopprimere senz’altro la parola «lavoro» con tutti i suoi derivati.

Per concludere su questo punto, per noi oggi non si tratta di un’affermazione di principî, quanto di una constatazione storica. Il nostro Paese se risorgerà, come vogliamo che risorga, come, nonostante tutto, sta risorgendo, se troverà, e la deve trovare, certezza di vita e di prosperità, sarà un Paese di lavoratori.

La fatica della ricostruzione sarà gigantesca. Diranno i credenti che richiederà un aiuto divino. Certo ci vorranno sforzi e fatiche, che il lavoro potrà compiere soltanto se avrà la certezza di non servire interessi egoistici, ma di giovare a tutti, alla collettività. Devono i lavoratori avere questa certezza e la sensazione che la Repubblica è cosa e casa loro.

Un accenno all’ultima parte dell’articolo 1°: «La sovranità emana dal popolo».

Alcuni colleghi non sono entusiasti in questo caso del verbo «emana». C’è chi propone «promana»; altri «risiede». È questione di forma.

Credo, piuttosto, dover richiamare l’attenzione sull’espressione «ed è esercitata, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Io non esiterei a togliere questa specificazione. Probabilmente essa è dovuta al ricordo dello strapotere della volontà statale sotto il nefasto regime fascista, e la soppressione di questa aggiunta potrebbe dare il sospetto, non di fascismo, venendo da parte nostra, ma di totalitarismo, di dittatura. Spettri, questi, che si evocano tanto di frequente! Quindi mi astengo dal proporne l’abolizione.

Ma, secondo me, occorre, se non altro dire: «La sovranità promana – o deriva – dal popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Altrimenti non si sa con precisione da chi questa sovranità viene esercitata, mentre dovrebbe risultar chiaro che viene esercitata dal popolo o direttamente o attraverso i suoi delegati, i suoi rappresentanti o, insomma, attraverso quegli organi e con quelle modalità e con quei mezzi che le leggi e la Costituzione dovranno determinare.

Un’altra osservazione, anche questa di carattere generale, vorrei fare sopra la prima parte dell’articolo 6.

I colleghi sanno che a questo Progetto, fra i tanti appunti che gli sono stati mossi, vi è stato quello, ripetuto con maggiore insistenza di ogni altro, di essere troppo ricco di affermazioni finalistiche. Ebbene, forse qui abbiamo un’affermazione finalistica, che, se non è dannosa, è certo superflua. Basterebbe dichiarare – e la norma risulterebbe più eloquente nella sua concisione – che la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui e alle formazioni sociali, senza parlare di principî inviolabili e sacri. Si potrebbe forse trovare qualche altro aggettivo. Ma sopprimere senz’altro l’affermazione non sarebbe che bene.

Vi è poi l’articolo 7 che dice: «i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di opinioni religiose e politiche sono eguali davanti alla legge».

Siamo tutti d’accordo nella sostanza e la sostanza è che la legge è uguale per tutti, e che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge. Anche qui evidentemente, in questa specificazione, si sente la condanna del regime nefasto che si caratterizzò nella sua attività criminosa, anche più barbaramente che in qualsiasi altro modo, con la persecuzione razziale; e si è voluto stabilire un principio di eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di razza.

Ma questa parola «razza», suona tanto male. Mi pare sia stato l’onorevole Lucifero a proporre in seno alla prima Sottocommissione di sostituirla con la parola «stirpe». «Razza» fa pensare più che agli uomini, agli animali. Ma esaminando la questione dal punto di vista linguistico, storico, scientifico è difficile sostituirlo e anche «stirpe», non credo che potrebbe essere un termine proprio. Comunque ho voluto richiamare l’attenzione dei colleghi anche su questo punto della disposizione. Certo, che se non si cede a certi tristi ricordi ed al bisogno di condannare, ogni volta che se ne presenta l’occasione, inumane, odiose distinzioni che nel passato portarono a tante iniquità, basterebbe dire che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, salvo poi colpire la eventuale propaganda antirazziale, annoverandola tra le attività criminose, e dando così vita ad una forma di reato che dovrebbe trovar nel Codice penale una severa sanzione.

Egregi colleghi, io dovrei ora avvicinarmi a quello che mi sembra l’onorevole Marchesi abbia chiamato un roveto ardente; il roveto ardente dell’articolo 5.

Mi ci avvicino cercando di non bruciarmi.

Vorrei dire di più, cercando di non scaldarmi neppure a tanta fiamma.

Onorevoli colleghi, il problema è divenuto di una importanza capitale. Ha già dato luogo qui ad elevatissime discussioni in tutti i settori. Bisogna riconoscerlo. Non dobbiamo diminuire noi stessi e disconoscere il valore di quest’Assemblea. Io posso affermarlo, perché sto per dirvi delle cose così semplici su questo tema che nessuno può pensare che io mi voglia includere fra gli oratori ai quali in questo momento mi riferisco. Dobbiamo riconoscere che la discussione di questo importantissimo problema ha raggiunto delle altezze che farebbero onore all’Assemblea di qualsiasi altra Nazione. (Approvazioni).

Io invece, egregi colleghi, mi permetto di fare alcune osservazioni, mettendomi dal punto di vista di un cittadino, non dico qualunque, perché questo aggettivo è ormai un po’ compromesso, ma dirò dal punto di vista di un cittadino qualsiasi che abbia potuto seguire con attenzione questa discussione ed abbia anche ieri ascoltato il discorso dell’onorevole Jacini, veramente eletto nella sostanza, come nella forma.

L’onorevole Jacini ci portò alla conclusione dei Patti Lateranensi con una chiarezza di esposizione, che dimostrò la sua grande padronanza della materia. Ma egli tirò l’acqua, se non al suo mulino, certamente a quello della democrazia cristiana, giacché i fatti si prestano spesso ad essere ricostruiti come meglio si vuole. Vedete, e si tratta di episodi del nostro tempo, io ancora non sono riuscito a sapere chi ha ragione fra l’onorevole Nitti e l’onorevole Orlando, a proposito della priorità dell’iniziativa della Conciliazione.

NITTI. Glielo spiegherò.

TARGETTI. Ed io gliene sarò proprio grato. Dall’onorevole Orlando abbiamo sentito dire con ricchezza di particolari, che è stato lui a Parigi a condurre le cose in buon punto. Ma quando l’onorevole Orlando disse questo, l’onorevole Nitti incominciò a scuotere la testa. Il contrasto è evidente. Questo per dire quanto sia difficile essere precisi. L’onorevole Jacini alla sua volta ha detto molte cose utili, più utili però alla sua tesi che inconfutabili, anche in linea di fatto. Comunque, tutti abbiamo ammirato la sua competenza, la nobiltà del suo pensiero, ed io l’ho tanto più apprezzato, il mio vecchio amico, quando ha detto che le religioni diverse dalla religione cattolica debbono, appunto perché sono religioni di minoranza, essere ancor più difese e protette.

Ma, o che io in quel momento mi sia distratto, o sia colpa della cattiva acustica di questa sala, o sia stata dimenticanza dell’onorevole Jacini, fatto è che io non ho saputo da lui perché i Patti Lateranensi debbano figurare nella Carta costituzionale. Non ho saputo quello che più mi premeva di sapere.

JACINI. Vuol dire allora che io mi sono spiegato molto male.

TARGETTI. O sarò io che non avrò capito: giacché non voglio ammettere che l’onorevole Jacini si sia spiegato male. Questa, comunque, è la questione che dovrebbe essere chiarita e che, per ora, è rimasta oscura almeno per me.

Che questi Patti esistano è una realtà. Se la democrazia cristiana si accontentasse, pertanto, della constatazione della sussistenza attuale di questi Patti, credo non troverebbe nella sua pretesa alcun ostacolo. Sarebbe la constatazione di un fatto storico. Ma qui si tratta di ben altro. Parlo – ripeto – col linguaggio di chi non abbia troppa confidenza né con la storia né col diritto, e mi domando: perché questa insistenza della democrazia cristiana ad includere nella Carta costituzionale il richiamo dei Patti Lateranensi? Quando si tiene presente che l’autore, il creatore di questa formula è stato l’onorevole Tupini, si capisce che la ragione ci deve essere, anche se non si vede da parte di un osservatore superficiale ed ingenuo; la ragione ci deve essere e deve avere un grande significato.

Lasciamo da parte – lo ripeto – le questioni storiche, le questioni giuridiche, le questioni tecniche. L’onorevole Orlando – e qualcuno si è azzardato a dire che questa è stata una malizia cui il grande parlamentare è ricorso – si trincerò dietro il tecnicismo e, disse che questa non era materia giuridica, materia di Costituzione. No! queste sono eccezioni che dobbiamo superare. Poco ci interessano: è la sostanza che ci interessa. Noi ci chiediamo: a che cosa mira questa disposizione? Essa dice: «I loro rapporti – cioè fra lo Stato e la Chiesa cattolica – sono regolati dai Patti Lateranensi». Se ci fosse l’avverbio «attualmente» si sarebbe tutti d’accordo, perché – ripeto – questa è una realtà storica. Ma poi si aggiunge: «Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata non richiede procedimento di revisione costituzionale». Qui è ammirevole la forma, perché chi si avvicini per la prima volta a questa parte dell’articolo ha quasi l’impressione che sia una disposizione più a favore dello Stato, che della Santa Sede. Dicendo: «qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede», ecc. ecc. sembra si tratti di una concessione, di una facilitazione a modificare i Patti.

TUPINI. Comunque, questa seconda parte non è mia; la prima sì.

TARGETTI. Ma meritava di esserlo anche la seconda, perché è piena di significato e di conseguenze; è un capolavoro. (Approvazioni a sinistra).

Ma io domando ai colleghi che cosa significhi questo? Significa che i Patti Lateranensi sono e rimangono quello che sono, che se si trova un accordo fra lo Stato e la Santa Sede allora – bella forza! – si possono modificare come si vuole. Siamo d’accordo. Questa è l’ipotesi della volontà bilaterale. Ma se questo accordo non si trova? Eh, caro mio collega Dossetti, se si trattasse soltanto di aprire le braccia come ella fa, poco male. Ma per arrivare a qualsiasi modificazione, a qualsiasi ritocco, qualsiasi correzione, pensi, pensi l’Assemblea a quale cammino si dovrebbe fare. Eppure di ritocchi, di correzioni, in senso opposto sia pure, anche l’on. Jacini ieri ammise che ce ne fosse bisogno.

L’onorevole Jacini non è d’accordo che se la nomina dei Vescovi, degli Arcivescovi, non è più sottoposta all’«exequatur», debba essere, in fondo in fondo, di gradimento dello Stato. Non è d’avviso che gli ecclesiastici siano esclusi dalla vita politica. Una esclusione, onorevole Jacini, più di forma che di sostanza. Un sacerdote non si può iscrivere alla democrazia cristiana; ma, che da questo si desuma che nessun sacerdote vive la vita della democrazia cristiana e non agisce nell’orbita del Partito democratico cristiano il passo è un po’ lungo, tanto lungo che è un po’ difficile farlo. Comunque, qualsiasi modificazione, in conseguenza di quest’articolo 5 attraverso una legge di revisione costituzionale. L’Assemblea mi insegna che la revisione costituzionale non si può fare che attraverso una legge approvata da tutti e due i rami del Parlamento, in due letture e fra l’una e l’altra lettura deve correre un intervallo non minore di tre mesi ed in seconda lettura la legge deve riportare la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera. Ma, quando si sia arrivati in fondo a questo lungo cammino, basta che un quinto dei componenti della prima e della seconda Camera lo richieda, e questa legge di revisione della Costituzione dovrà essere sottoposta a referendum popolare. Questo che cosa significa? Questa difficoltà di revisione di qualsiasi parte, di qualsiasi articolo della Costituzione, quali conseguenze porta, o, meglio, che cosa impone? Che nella Costituzione non si collochino principî, norme che valgano soltanto per oggi e neppure soltanto per domani o domani l’altro.

Ciò che oggi noi nella Costituzione affermiamo o neghiamo, deve valere, come comando o come divieto, od almeno come direttiva anche per un lontano domani. Si deve, quanto meno, presumere che valga. Ed allora, colleghi della democrazia cristiana, voi che non siete la maggioranza in questa Assemblea, come potete pretendere di inserire nella Costituzione una norma che impedisca qualsiasi modificazione dei Patti lateranensi? Mi dispiace che la lancetta dell’orologio mi ricordi il dovere che io ho di concludere per non trasgredire una regola che abbiamo fissata, tutti d’accordo, allo scopo di non prolungare eccessivamente queste nostre discussioni.

È certo che va fatta una distinzione fondamentale fra il Trattato ed il Concordato. Fra la portata dell’uno e quella dell’altro. Ma l’onorevole Togliatti ha ragione quando dice, a proposito del Trattato, che l’articolo 1° fa rivivere l’articolo 1° dello Statuto Albertino. Ha ragione di dolersi di ciò anche se non è perfettamente esatto dire che sia senza altro travasato nella Costituzione attraverso l’articolo 5, l’articolo 1° dello Statuto. C’è una differenza. È vero che con quell’articolo 1° si attribuisce allo Stato italiano una specie di religione di Stato; ma, mentre nello Statuto Albertino si dice delle altre religioni che sono tollerate, ciò non è ripetuto nell’articolo 1° del Trattato.

TOGLIATTI. Può essere anche peggiore.

TARGETTI. Comunque sia, e dovendo affrettarmi alla conclusione, io sono costretto a limitarmi a ricordare all’Assemblea che nel Concordato esistono norme le quali contrastano in pieno con principî solennemente affermati dal nostro Progetto di Costituzione, norme che qui sono già state ricordate. Questo contrasto è così innegabile e forte che, a quanto ricordo, lo stesso onorevole Dossetti (non so se gli si fa del bene o del male a ricordarlo come esempio di una grande comprensione in alcuni campi), non sia stato dei più contrari a riconoscere nella prima Sottocommissione che qualche ritocco sia necessario. Certamente l’onorevole Merlin deve averlo convenuto, se non altro, relativamente a quell’articolo 5, al quale non ha certo dato buona fama il doloroso episodio Bonaiuti. Noi non possiamo oggi parlare della questione della scuola, cioè dell’azione che spetta allo Stato, alla Repubblica, in questo campo. Ma, egregi colleghi democristiani, mettetevi una mano sulla coscienza e diteci se, al nostro posto, voi potreste mai accedere ad una proposta di legge che tramandi ai posteri questo principio stabilito nell’articolo 36:

«L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana», e si aggiunge: «secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Eppoi si aggiungono le norme regolatrici di questo insegnamento, per le quali l’autorità ecclesiastica entra in pieno nella scuola dello Stato. Tutto ed a parte la quistione della giurisdizione matrimoniale, che non può certamente considerarsi sepolta. Egregi colleghi, noi non diciamo cose non vere quando diciamo che e lontana da noi l’idea di creare motivi, pretesti per una discordia religiosa. _

Io, del resto, sono dell’opinione che questa famosa pace religiosa, che si dice conquistata nel 1929, non sia mai stata neppure antecedentemente turbata. Intendo turbamento della pace religiosa un impedimento od almeno una limitazione dell’esercizio del culto, intendo episodi di contrasti religiosi. Ma questo non si è verificato neppure a questione romana aperta, neppure prima che la Santa Sede riconoscesse Roma capitale d’Italia.

Comunque, voi sapete che è un atteggiamento ufficiale del Partito socialista, confermato recentemente qui dall’onorevole Nenni come anche del Partito comunista questo: di non fare niente che possa turbare questa pace religiosa.

MONTERISI. Allora, perché ve ne preoccupate tanto?

TARGETTI. Questa volta mi azzardo a dire che è il collega interruttore che non ha compreso o non vuol comprendere. Noi diciamo chiaramente che non possiamo accettare di essere vincolati ad eternare includendoli nella Costituzione, questi determinati rapporti fra la Chiesa e lo Stato. Rivedremo questi rapporti al momento opportuno; ci metteremo tutti la migliore buona volontà per raggiungere un’intesa sulle modificazioni, gli aggiornamenti da apportarvi. Non mercanteggiando, ma comprendendoci a vicenda. Ma intanto nessuno può pretendere che noi, col nostro modo di pensare, di sentire, di considerare la vita e il mondo, non voglio dire con la nostra filosofia, per non adoperare parole troppo grosse, si sottoscriva, come se corrispondesse alle nostre convinzioni, ciò che non pensiamo, ciò che va contro le nostre convinzioni.

Noi che abbiamo un grande rispetto per la vostra fede ci limitiamo a chiedere eguale rispetto per quella che, se non è una fede religiosa è una convinzione, un’idea di cui siamo gelosi quanto lo siete voi delle vostre credenze.

L’onorevole Marchesi vi diceva: «Concedeteci, ammettete che anche senza una fede religiosa si può vivere onestamente».

Una voce a destra. Vi sia concesso!

TARGETTI. Io aggiungo che non solo si può vivere onestamente senza nessuna fede religiosa; ma si può essere anche capaci dei più grandi sacrifici, dei più puri eroismi, come tanti dei nostri fratelli hanno dimostrato, lottando, cadendo per il socialismo, per la libertà.

Una voce a destra. Concesso anche questo!

TARGETTI. Questo va riconosciuto, onorevole interruttore, e non concesso. E non ci sembra di pretendere troppo, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, se vi chiediamo di riconoscere parità di diritto alla difesa ed al rispetto delle proprie idee anche a quanti, come noi, non riescono a vedere nella volta celeste, che stelle, stelle e stelle. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giordani. Ne ha facoltà.

GIORDANI. Onorevoli colleghi. L’onorevole Targetti ha detto benissimo che il dibattito sui rapporti fra Chiesa e Stato, in questa Assemblea, è stato veramente degno dell’alto argomento, e si può dire che l’altezza del tema ha tratto quasi tutti gli oratori al livello di essa. L’Assemblea ha scritto una degna pagina su questo punto.

In fondo, noi ancora una volta siamo portati ad esaminare un problema che ha appassionato la coscienza dell’umanità da 20 secoli.

Prima questo problema non esisteva; prima, come è stato detto da uno studioso – Fustel de Coulanges – lo Stato era clericale: era Stato e Chiesa nello stesso tempo. Infatti Giulio Cesare era dittatore politico e Pontefice massimo.

E ancora l’anno scorso, il Mikado impersonava la suprema autorità politica e religiosa del Giappone.

È nata col Cristianesimo la distinzione fra la sfera di Cesare e quella di Dio. La distinzione porta conseguenze drammatiche ed ha prodotto una delle forze dinamiche più poderose della storia umana. Di fatti, questa distinzione della sfera di Cesare da quella di Dio, significa che la sfera di Cesare non è più totalitaria, non comprende più tutta la vita dell’uomo, ma soltanto una parte di essa.

Nasce così la libertà morale. In questo senso, volevo dire, lo Stato laico, lo Stato cioè distinto dalla Chiesa, è una conquista cristiana. E badate che non è soltanto accorgimento polemico o apologetico. Lo dicevano due anni fa i vescovi francesi che se per laicismo si comprende questo, un tale laicismo lo accettiamo anche noi cattolici.

Ieri l’onorevole Rossi Paolo, citava un articolo sul Popolo, che diceva appunto questo; ma io lo trovo affermato anche su un documento che potrei chiamare ufficiale, un quaderno intitolato La Chiesa, edito dall’Istituto cattolico di attività sociale, l’I.C.A.S., dove è detto: «Molti tuttavia sono tornati a richiedere lo Stato laico e nello stesso tempo assumono di volere assicurare il rispetto alla concordia. In questa concezione, lo Stato laico sarebbe quasi sinonimo che non subisce l’influenza della Chiesa, e se i suoi sostenitori fossero in buona fede, anche i cattolici potrebbero sostenere tale nuova coniazione di concetti».

Io ritengo che i sostenitori siano in buona fede e quindi possiamo sostenere tale nuova coniazione di concetti.

La definizione del problema fra Chiesa e Stato è veramente ardua. Questi rapporti si possono risolvere o nell’accordo o naturalmente nel disaccordo. L’accordo favorisce quella pace spirituale, quella pace interiore che ha formato la grandezza dell’Italia.

Nei tempi più felici l’Italia aveva il popolo che godeva della pace religiosa e politica, cioè che non conosceva il contrasto fra le due attività.

Il disaccordo invece danneggia tanto la Chiesa quanto lo Stato, perché se le due società sono indipendenti, come è detto giustamente nell’articolo 5 del progetto, però i loro rapporti vanno regolati tenendo presente che cosa significhi Chiesa e che cosa significhi Stato. Qui veramente vorrei introdurre una concezione democratica che manda un po’ per aria le concezioni giurisdizionalistiche che ancora sopravvivono e che tuttora impediscono di vedere nella sua vera realtà il problema, perché si pensa che la Chiesa sia qualche cosa al di fuori di noi. Si vede soltanto la Curia, il Vaticano, i vescovi. Certo, anche questi sono la Chiesa: anzi sono le basi della Chiesa; ma nessun edificio consiste solo nelle basi. La Chiesa, come diceva al suo popolo di africani Sant’Agostino di Ippona, la Chiesa siamo noi. Ciascuno di noi è cittadino ed è credente; in quanto cittadino, potremmo dire, è Stato; in quanto credente, è Chiesa; sicché siamo la stessa persona su cui si esercitano le due attività. Ed allora il problema si risolve, se si risolve dentro la coscienza di ciascuno di noi. Non vale fare delle leggi esterne e degli istituti esterni, se poi si lasciano il dissidio e l’incertezza nel nostro spirito. Quindi la risoluzione va ricercata nel popolo cristiano, il quale è, secondo San Paolo, la Chiesa. La Chiesa non è altro che il popolo sovrano, o, come allora egli lo chiamò, «il popolo regale». Ed allora si vede che la difficoltà dell’accordo e del disaccordo sta appunto nella possibilità di trovare questa conciliazione dentro la coscienza dei cittadini.

Il disaccordo porta a varie soluzioni.

La prima è quella per cui lo Stato ignora la religione del cittadino. Che lo Stato ignori la religione del cittadino significa che io cittadino ignoro me credente. È un assurdo e lo diceva bene Mazzini in quella prefazione al suo libretto Dei doveri che scrisse per i lavoratori, ed in cui spiegava come sia impossibile separare in questo senso l’attività politica e l’attività sociale dalla concezione filosofica e ideologica del popolo.

«Quando andate da un affittacamere» diceva Chesterton «non domandategli il prezzo della camera, ma domandate la sua concezione dell’universo. Da quella dipende il prezzo della camera». Noi siamo cittadini e credenti nello stesso tempo e non possiamo separarci da noi stessi. Ciascuno di noi non può essere vivisezionato in due parti: una parte naturalmente reagisce sull’altra, una parte non può ignorare l’altra. Io, quando esco di casa, non posso lasciare all’attaccapanni la mia coscienza di cristiano.

La seconda soluzione è, potremmo dire, la soluzione stupida, cioè la persecuzione. Tante volte lo Stato ha tentato di liberarsi da questo problema perseguitando la Chiesa! Ma perseguitare la Chiesa significa perseguitare i propri cittadini battezzati, cioè significa in sostanza svenare il proprio organismo sociale. È un atto di emorragia che si pratica al proprio organismo sociale, e difatti ogni persecuzione si risolve non soltanto in danno della Chiesa, ma anche e soprattutto dello Stato, e si arriva sempre al punto che questo Stato deve fare macchina indietro.

La terza soluzione, e questa è la più scaltra, consiste nel crearsi una Chiesa ancella, una Chiesa fatta a libito e servizio dello Stato. Questo è stato tentato in Oriente.

C’è quel bellissimo libro dello scrittore russo Soloviev, stampato a Parigi, perché la censura di Mosca non ne permise la stampa a Mosca, La Russie et l’Eglise universelle, che spiega come tutte le eresie in Oriente nascessero nella Corte imperiale, dove i sovrani si mettevano a teologizzare, come facevano i nostri sovrani giurisdizionalisti, non per il gusto della religione, ma per il desiderio di rendersi indipendenti dalla morale religiosa; perché quella morale che era di non rubare, non uccidere, risultava incomoda moltissimo ai tiranni.

Ed allora, in Oriente, tutte le eresie – alle volte contemporaneamente due eresie contradittorie nello stesso tempo – furono manipolate nella Corte imperiale, cioè al centro della politica. E questo avvenne finché non si riuscì a separarsi da Roma. Separatosi l’Oriente da Roma, non ci fu più bisogno di manipolare eresie. Qualcosa di simile successe per i prìncipi germanici nel secolo XVI.

L’Italia non fece questo, perché non poteva separarsi dalla matrice, non voleva separarsi da Roma; l’Italia, anzi, fu la nazione più fedele all’idea cattolica, quindi all’idea della distinzione tra Chiesa e Stato.

In Italia, il problema dei rapporti è estremamente facile e, nello stesso tempo, estremamente difficile. È estremamente facile, onorevole Targetti, perché la grande maggioranza del popolo italiano è cattolica. Guardate i censimenti, anche anteriori al fascismo, e voi trovate il 97 per cento circa di cattolici. In democrazia, la maggioranza significa qualcosa; cioè il popolo cattolico, che ha la maggioranza, vuole una sua pace religiosa, ha bisogno di una sua pace religiosa. Non concederla, non realizzarla, significa fare il danno di questa grande maggioranza.

Ma, il problema è per noi anche estremamente difficile e delicato, perché ci troviamo nelle condizioni di albergare una capitale politica che è anche la capitale del mondo cattolico, che è la capitale considerata tale da 300, 400 milioni di esseri; quella città, la quale, come ricordava ieri l’onorevole Rossi, era considerata da quel pellegrino che veniva a farsi macinare a Roma, come frumento, dalle tigri nel secolo II, come la città che ha la presidenza dell’amore. E l’amore è anti-limite, l’amore è quello che ci obbliga a superare di continuo anche i particolarismi di razza, i particolarismi di casta ed i particolarismi di nazione. Quindi, vedete quale problema grave devono risolvere il popolo italiano ed il Governo italiano.

Ma non basta. Questa capitale del mondo cattolico contiene uno staterello, il più piccolo Stato del mondo, che ospita la più grande autorità spirituale del mondo. Quindi, ci si pone sempre questo problema: conciliare il particolarismo, gli interessi nazionali, con gli interessi supernazionali religiosi, mantenere d’accordo queste due funzioni che spesse volte vanno in disaccordo.

Il capo di questo Stato piccolissimo, che è albergato dentro Roma, è un sovrano: è il Papa, che è un sovrano indipendente, ma non straniero, come qualcuno pensa; e non è straniero, non soltanto perché da 400 anni i Papi sono sempre italiani, e magari romani, ma non è straniero per il fatto che questo sovrano è vescovo di Roma, è il primate d’Italia. Quindi, è cosa nostra, appartiene alla nostra comunità, virtualmente è il nostro Capo. Arduo problema, quindi, che è stato assegnato al popolo italiano, e i medioevali avrebbero detto per una ragione provvidenziale, grandissima, perché il popolo italiano più di qualunque altro possiede il senso della universalità.

Lo diceva una rivista francese L’Esprit, all’epoca dell’elezione dell’ultimo Papa. Ai francesi diceva: Non vi sorprendete se i Papi sono italiani; lo sono perché il Papa è il Vescovo di Roma, ma lo sono soprattutto perché nessun popolo come l’italiano è capace di accogliere e di difendere il sentimento dell’universalità. In questo senso il popolo nostro è erede dell’antica Roma che, pure nella razionalità pagana, già realizzò quel magistero cosmopolita che fu proprio degli stoici.

Bisogna riconoscere che il mondo cattolico attorno a noi, col quale noi siamo intimamente legati, perché questo mondo cattolico guarda di continuo a Roma, ha capito e apprezza questa funzione, questa sensibilità del popolo italiano. Io credo che nessuno vorrebbe che la Santa Sede fosse al di fuori dell’Italia, perché ritiene che nessun popolo come il popolo italiano ne sappia fare la più accorta, la più prudente, la più intelligente difesa esterna.

Per tutti questi motivi, quando nel 1870 si produsse la frattura fra lo Stato e la Chiesa, si creò un disagio nello spirito degli italiani e nello spirito dei cattolici di tutto il mondo, disagio che la legge delle guarentigie cercò di risolvere. Badate che la legge delle guarentigie, come ha detto ieri l’onorevole Jacini, è stata una grande legge, la quale tra l’altro permise ai Conclavi di tenersi in tutta libertà. Ma era un atto unilaterale e quindi non poteva sussistere, e quindi sopravvisse il disagio e sopravvisse la speculazione su quel disagio, speculazione all’interno, ma speculazione soprattutto all’esterno.

Ieri c’è stato raccontato come anche nel Gabinetto della Maestà apostolica di Francesco Giuseppe fosse preparato un disegno di legge con un progetto di Stato in miniatura per la città del Vaticano. Ma ricordate che un disegno simile voi lo potevate trovare anche nei cassetti di Presidenti di Repubbliche laiche, perché quando si trattava di mettere gli occhi nelle cose nostre e di inserire possibilmente un’azione nociva nelle case italiane, tutti quanti si pareggiavano. Questo era un problema grave, ma il grave e l’importante, onorevole Rossi, non è che ci fosse della gente che pensasse di intervenire in Italia per risolvere la questione romana, l’importante è che il Papa non volle mai questo intervento, non volle mai saperne di questi progetti e li respinse tutti, perché la Santa Sede voleva la risoluzione del problema dalla coscienza libera del popolo italiano e tanto aspettò fino a che questo non avvenne e fu il popolo italiano che risolse la questione romana. (Applausi al centro Interruzione dell’onorevole Tonello).

E qui ha ragione l’onorevole Marchesi, il quale ha detto che la risoluzione della questione romana si poté avere perché finalmente le classi popolari espulsero quella egemonia che aveva conquistato quella borghesia volterriana e anticlericale, la quale aveva arricchito i propri patrimoni domestici con la spoliazione delle chiese e dei monasteri ed arricchiva la propria posizione politica mediante la coltivazione del dissidio interno della nazione, e viveva anzi del dissidio della nazione. (Applausi al centro).

C’è stato bene spiegato come si addivenisse alla conclusione della Conciliazione: il tentativo di Nitti e il tentativo di Orlando; e veramente la Conciliazione era matura negli spiriti quando venne Mussolini, che colse il frutto maturato dall’albero, maturato nella coscienza del popolo italiano. Mussolini lo fece per aggiungere al proprio prestigio e al proprio regime un’aureola la quale sapeva, dalle dichiarazioni di Cavour e di Crispi, quanto sarebbe stato grande; e difatti gli giovò enormemente presso le Nazioni estere. Senonché, incostante com’era, si affrettò a sciupare colle sue mani questo prestigio; e difatti si può dire che il conflitto ideale, il conflitto di principio tra fascismo e cattolicesimo, tra totalitarismo e cattolicesimo, cominciò all’indomani della Conciliazione. Già c’era prima, ma l’urto, che portò quasi alla rottura nel 1931, fu all’indomani della Conciliazione.

Questa Conciliazione comporta, come sapete bene, un Trattato ed un Concordato.

Il Trattato si riferisce al territorio; un territorio così piccolo, che potremmo definirlo un territorio simbolico, come il corpo di San Francesco; così piccolo, che – l’abbiamo visto nei cinque anni di guerra – costituisce un vero blocco attorno all’azione del Papato; tanto che per cinque anni il Papa non ha potuto comunicare coi vescovi e coi popoli cattolici, quasi non ha potuto ricevere nessuno dei rappresentanti dei popoli che erano in conflitto con l’Italia; così piccolo, che non c’è neppure un campo di atterraggio per aeroplani stranieri.

Non solo; ma, per riguardo all’Italia, in quei cinque anni, il Papato, la Santa Sede non partecipò a nessun genere di convegni internazionali, neppure culturali, per non parere di compromettere la posizione dell’Italia. Aspettò.

Senonché il Papa – lo sapete – non fa questione di territorio. La sua difesa non sta nell’estensione del territorio o nelle mura del Vaticano e neanche in quel cannone di stagno, che serve solo a tenere una gabbia con un canarino; sta in quel baluardo costituito dalla simpatia, dall’onestà, dalla coscienza del popolo italiano. Il baluardo del Papato, della Città del Vaticano è la coscienza del popolo italiano. Ma questa coscienza il Papa vuole salvata, custodita, ed ecco il Concordato, che fa parte integrante ed è completamento necessario del Trattato; appunto perché raggiunge questa difesa della sua indipendenza e della sua sovranità, che territorialmente non è raggiunta.

Ora, il problema che si pone è questo: questo Trattato e questo Concordato devono essere inseriti nella Costituzione?

O meglio ancora: avendoli la Sottocommissione e la Commissione dei Settantacinque inseriti già nel progetto di Costituzione, dobbiamo oggi noi toglierli?

La risoluzione di questo problema ci lascia molto tranquilli, perché su tutti i settori dell’Assemblea è stata affermata la volontà di pace religiosa. Questa volontà, a mio parere, è uno degli elementi di fortezza maggiore della nuova Repubblica italiana; se la sapremo mantenere, nascerà dalla pace religiosa ogni forma di solidarietà, di cooperazione, anche nel campo politico, anche nel campo sociale.

Da lì partono per noi tutte le energie che muovono la ricostruzione.

Ora, noi desideriamo che questa pace in nessun modo si turbi; e perché non si turbi, riteniamo che sia meglio non toccare niente o – come diceva l’onorevole Tupini – quieta non movere.

Questa costruzione, che il genio politico degli italiani ha preparata, è così delicata, ci è costata tante lagrime e tanta fatica, che oggi il toccarla, il comprometterla significa veramente sciupare un capolavoro e non si capisce a beneficio di chi, se non dei re di… Prussia.           

Perché noi vogliamo inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione? Perché vogliamo affermare la loro enorme ed unica importanza di Patti internazionali. Non si tratta del solito Trattato fra due potenze, fra due sovrani. Quando si fa un Trattato col Presidente di una Repubblica d’America, al popolo interessa ben poco sapere come si chiami il Capo di questa Repubblica e che vita faccia. Ne ignora forse anche il nome e non se ne cura; è cosa estranea alla sua coscienza. Ma qui il Trattato è stato concluso con un Capo che è il Capo spirituale della nostra religione, che è il fondamento della nostra Chiesa, e nel quale s’impernia tutta l’autorità e il prestigio della nostra fede. È dunque qualcosa di unico. Non si tratta qui di interessi economici pattuiti fra due Stati, ma dei più alti interessi spirituali che hanno trovato la loro sistemazione; sistemazione che non riguarda soltanto noi in Italia, ma i cattolici di tutto il mondo.

Ecco perché noi vogliamo che questi Patti siano consacrati in un documento che ne affermi la solennità, l’unicità e la stabilità. Perché se noi oggi, amici miei, cominciassimo con l’estrometterli dal progetto di Costituzione, noi li indeboliremmo, e questo è il primo risultato che se ne avrebbe.

Guardiamo le cose sotto l’aspetto dell’interesse politico: se noi oggi ripudiassimo il progetto che ci è stato offerto dalla Commissione, si verrebbe a dire che questi Patti si sono, per la strada, indeboliti, e che la loro stabilità oscilla. Il popolo non si potrebbe sottrarre a questa impressione, che già a 15 o 16 anni di distanza si pensi a modificarli, quasi che tutta quella stabilità sia per tramontare.

Quindi, alla stregua di questa esigenza fondamentale, tutti i dubbi che sono stati sollevati, tutte le perplessità a cui accennava adesso l’onorevole Targetti e il tecnicismo a cui accennava l’onorevole Orlando, hanno una importanza subordinata.

Noi vogliamo contemplarli sotto l’aspetto dell’interesse politico. Per il popolo italiano oggi conviene quieta non movere, conviene lasciare che il Trattato e il Concordato siano là dove li ha messi la Commissione. E badate, anche la legge delle guarentigie, per gli stessi motivi, fu dal Consiglio di Stato in Italia, il 2 marzo 1878, «qualificata come legge fondamentale dello Stato». E si trattava di una legge unilaterale, di una cosa molto al disotto dei Patti lateranensi.

Noi, nell’interesse del popolo, per una ragione soprattutto democratica, chiediamo la consacrazione nella Costituzione di questi documenti. Questo è l’importante.

Per il resto si sono fatte critiche ad alcuni articoli. Ma sappiamo che c’è la valvola della revisione o di «qualsiasi modificazione bilateralmente accettata». E noi conosciamo dall’esperienza quanto generosa ed indulgente sia la Chiesa nell’accedere ad istanze ragionevoli.

Non parliamo di menomazione di libertà per nessuna minoranza, perché io ho fatto un raffronto nel mio giornale, da cui risulta che non c’è paese d’Europa in cui regni una libertà religiosa così ampia come in Italia. Vi raccontavo come neppure in Isvizzera, neppure nei paesi scandinavi si faccia ai cattolici il trattamento che qui si fa alle altre religioni. Qui c’è piena libertà per tutti; quindi cerchiamo di tener presenti le conseguenze rovinose che verrebbero oggi dal ripudio di questa inserzione. E, badate, io sono sicuro – e lo sappiamo ormai dalla storia – che la Santa Sede non dà nessun peso alle rimostranze dei cattolici esteri; ma noi sappiamo che queste sono noiose e nocive, perché la politica è fatta anche delle simpatie dei popoli: se infatti vi sono negli altri Paesi dei nuclei che dubitano della nostra serietà nel trattare il problema delicatissimo dei rapporti tra Chiesa e Stato e nel proteggere il Papato nell’esercizio delle sue funzioni, questo rappresenta un danno anche alla nostra politica che noi dobbiamo eliminare.

Veramente la Conciliazione ci ha procurato simpatie dappertutto; il che, in politica, significa anche aiuti economici. Teniamone conto. Questa è la politica: fare l’interesse del popolo, facendo anche qualche sacrificio ideologico.

Per tutte queste ragioni, sarebbe bene che questa Assemblea dichiarasse solennemente di nuovo di voler consacrare questa Conciliazione, conferendole il crisma democratico e repubblicano. La Conciliazione porta la firma di Mussolini, porta la firma della monarchia decaduta; ebbene, noi, inserendola nella Costituzione, la facciamo democratica e repubblicana.

Una voce a sinistra. Meno male!

GIORDANI. Questa democraticità cui alludo nasce proprio dalle scaturigini della nostra fede. Oggi c’è anche nei settori protestanti un risveglio di quello che si chiama Sensus ecclesiae: il senso della Chiesa, come popolo che agisce nel campo dello spirito. Orbene, questo avviene in Italia; e il popolo agisce nella concordia e nell’unità, con enormi frutti e beneficî nella politica stessa.

I Patti lateranensi consacrarono e saldarono l’unità politica in Italia. L’onorevole Togliatti tiene molto a questa unità del popolo italiano: ebbene, su quale base noi possiamo fondarla meglio, che sulla base religiosa? Specialmente in questo momento, che stiamo attraversando, di enorme crisi, noi abbiamo bisogno di ciò per creare gli istituti della nuova repubblica, per creare e per operare quelle riforme sociali che saranno possibili soltanto in uno stato di euforica concordia. Questo si farà, se noi considereremo definitivamente chiusa questa partita con i Patti lateranensi del 1929, conferendo ad essi quella consacrazione che la coscienza cattolica detta.

L’altro ieri, l’onorevole Marchesi ha detto così belle cose sulla concordia, che veramente commuovono. E allora io mi domando: perché dobbiamo sciupare questa concordia? Perché dobbiamo sciuparla in un punto così delicato? Qui non si parla più della Democrazia cristiana, ma di un interesse che sta a cuore ai cattolici di tutta l’Italia.

Si direbbe veramente che questo riavvicinarsi al tema religioso abbia irradiato su di noi un senso di fraternità dal quale molto c’è da sperare. Io credo che un riconoscimento simile conferirà all’Italia un nuovo prestigio dentro e nuovo prestigio fuori. Tra l’altro io credo che aiuterà a conquistare alla Repubblica italiana anche vari gruppi di monarchici, per esempio quei monarchici, i quali fino al 1929 erano contro i Savoia, proprio per causa della questione romana, e dopo si convertirono ai Savoia per la risoluzione della questione romana.

Con queste ragioni, Roma, sotto un duplice aspetto, per l’impulso di una doppia corrente, avrà le forze per concorrere, nell’ordine delle idee più che in quello delle potenze economico-politiche, alla creazione di un’Europa pacifica, dove, muovendo guerra alla guerra, superando i nazionalismi, si realizzi il primo atto della fondazione di quella che è stata vaticinata come la nuova cristianità giuridica dell’avvenire. E questo attraverso la trasformazione, di cui parla il Profeta, delle armi omicide in utensili di fecondo lavoro. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Risposta dell’Assemblea Nazionale Francese al messaggio dell’Assemblea Costituente Italiana.

PRESIDENTE, Onorevoli colleghi, per mandato dell’Assemblea, che aveva espresso la sua volontà, alla chiusura della discussione sulle comunicazioni del Governo, votando ad unanimità due ordini del giorno, presentati l’uno dall’onorevole Gronchi e l’altro dall’onorevole Nenni, a suo tempo ho inviato alle Assemblee rappresentative delle Nazioni Unite un appello, e in particolare uno speciale all’Assemblea Nazionale francese. In questo appello, a tenore della volontà dell’Assemblea Costituente italiana, io avevo particolarmente sottolineato le maggiori e più gravi ingiustizie contenute nel Trattato di pace a danno del nostro Paese; avevo affermato le aspirazioni che muovono tutto il nostro popolo, indipendentemente dalle opinioni e correnti politiche alle quali di volta in volta esso aderisce, ed avevo particolarmente sottolineato le necessità della nostra Nazione, affinché essa potesse riprendere il suo cammino e dare non soltanto tutte le forze necessarie alla propria ricostruzione, ma anche alla ricostruzione del mondo intero.

Mi è pervenuta la risposta del Presidente dell’Assemblea Nazionale francese, Herriot, della quale do lettura:

«Ho ricevuto il messaggio indirizzato dall’Assemblea Costituente italiana all’Assemblea Nazionale francese.

«Questo messaggio contiene diverse considerazioni nei riguardi dei Trattati di pace. In conformità dei nostri usi parlamentari, l’ho trasmesso al Presidente della Commissione per gli affari esteri dell’Assemblea Nazionale.

«Ma, d’altra parte, il messaggio esprime la speranza che il popolo francese vorrà riprendere col popolo italiano rapporti di collaborazione e di amicizia.

«Davanti all’Assemblea Nazionale, che mi ha approvato con applausi unanimi, io ho dichiarato che avrei dato ai membri dell’Assemblea Costituente italiana, ed a Voi personalmente, l’assicurazione che noi condividiamo tale speranza. Desideriamo agire in modo da evitare, per l’avvenire, tutto ciò che potrebbe nuocere al consolidamento di una intesa franco-italiana sincera e durevole, ferma contro ogni tirannide, nella libertà e con la libertà».

I popoli, dunque, egregi colleghi, hanno la possibilità di parlarsi e di intendersi, se non ancora nel campo più vasto di tutti i problemi nazionali ed internazionali, quanto meno su quegli elementi che rappresentano un inizio fecondo di una ripresa della loro collaborazione internazionale.

E le rappresentanze elettive – e ciò sottolinea l’enorme valore della funzione della democrazia – possono farsi interpreti dei reciproci sentimenti. È un primo dialogo che ha cominciato ad intrecciarsi al di sopra di certe frontiere, se non ancora di tutte le frontiere. Credo che la nostra Assemblea Costituente sia lieta di avere presa la prima iniziativa a questo proposito. Credo che saremo più lieti se questa iniziativa ci darà i frutti che noi ci attendiamo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Ravagnan. Ne ha facoltà.

RAVAGNAN. Onorevoli colleghi, mi propongo di svolgere davanti a voi succintamente la materia che è contenuta negli articoli 6 e 7 del progetto della nostra Costituzione. È una materia che è in connessione diretta, a mio modo di vedere, con l’articolo 1.

Qual è il contenuto fondamentale degli articoli 6 e 7? Mi sembra che essi contengano tre elementi essenziali:

1°) Essi riconoscono e riaffermano quelli che si conviene di chiamare i diritti di libertà, già sanciti nelle varie Costituzioni dell’800, aggiungendo a questi il riconoscimento di quelli che conveniamo di chiamare i diritti economici e sociali;

2°) Questi diritti di libertà e diritti economici e sociali non sono soltanto riconosciuti al singolo, ma anche alle formazioni sociali nelle quali gli individui sviluppano e perfezionano la loro personalità;

3°) Non solo è dato questo riconoscimento, ma è data la garanzia dell’effettivo godimento di questi diritti, cioè la garanzia della rimozione degli ostacoli che si frappongono al libero godimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali.

Un primo problema si pone a questo punto, ed è stato sollevato da parecchi oratori che mi hanno preceduto, ossia: è necessario che nella Costituzione, accanto ai tradizionali diritti di libertà, si riconoscano ai cittadini anche i diritti economici e sociali? Alcuni colleghi hanno proposto che i diritti di libertà vengano, come è logico, riconosciuti, ma che i diritti economici e sociali vengano confinati e relegati in un preambolo.

Io affermo che non è possibile, allo stato attuale dello sviluppo storico della società, di tornare indietro e negare la evoluzione che la società moderna ha compiuto dal 1789 ad oggi; è nella coscienza universale, nella coscienza di tutti, il riconoscimento di questa situazione di fatto: che, per poter affermare la democrazia, per poter far sì che i diritti politici e le libertà politiche siano effettive, nella loro realtà, e non solo nella forma, è necessario che a tutti i cittadini siano riconosciuti i diritti economici e sociali che la nostra Costituzione elenca nel prosieguo degli articoli.

Già ai princìpî del secolo scorso i più avveduti, i più profondi pensatori, mentre riconoscevano che il nuovo Stato moderno, con l’affermazione, dell’uguaglianza politica di tutti i cittadini e con la libertà riconosciuta a tutti i cittadini, aveva fatto compiere alla società un grandissimo passo in avanti e che questa era la premessa del grandissimo sviluppo delle forze produttive, riconoscevano che, esistendo delle disuguaglianze sociali, la libertà, in fondo, non sarebbe stata che libertà delle classi possidenti di sviluppare liberamente la concorrenza fra di esse. Il movimento della concorrenza ha creato il monopolio e le classi lavoratrici hanno continuato ad aspirare alla loro libertà politica, lottando per la rimozione degli ostacoli economici che impedivano il raggiungimento da parte loro – nella effettività, nella realtà – dell’uguaglianza e della libertà politica.

Le lotte sociali che hanno percorso tutto il secolo passato, e che si ripercuotono ai nostri giorni, in fondo non costituivano e non avevano par scopo se non la conquista effettiva dell’uguaglianza e della libertà politica. Se noi guardiamo che cosa fu, in fin dei conti, che significato, che carattere ebbe l’avvento ai potere del fascismo, noi possiamo constatare oggi la cecità degli uomini politici e delle classi dirigenti, che diedero torto ai lavoratori nel loro sforzo, nella loro lotta per raggiungere una effettiva libertà ed uguaglianza politica, e praticamente diedero ragione, fecero trionfare e vincere coloro che, diventati monopolisti della produzione, integrarono il loro monopolio economico col loro monopolio politico ed instaurarono la dittatura fascista, liquidando cioè anche la libertà politica.

E se noi osserviamo ciò che avviene al giorno d’oggi, possiamo constatare che in molte plaghe d’Italia i lavoratori sono sottoposti ad ammonizione per il semplice fatto che essi aderiscono a partiti o ad organizzazioni che non sono di gradimento dei proprietari; cioè, essi sono impediti di realizzare la pienezza della loro partecipazione alla vita pubblica.

I monopoli e le industrie che hanno un carattere pubblico e generale, la cui estensione è diffusa su tutto il territorio nazionale e che sono in mani private, sono praticamente nelle condizioni di dettare leggi a tutti i cittadini; vi è quindi una disuguaglianza di fatto che si attua ed esiste fra la generalità dei cittadini e dei piccoli gruppi dominanti.

È chiaro che noi non possiamo dire di poter instaurare l’uguaglianza, la perfetta uguaglianza, nel campo delle libertà politiche, finché queste disuguaglianze di fatto non saranno scomparse o non saranno per lo meno attenuate.

Quindi, se vogliamo che la nostra Costituzione abbia un carattere effettivamente moderno, aderente alla realtà attuale, se vogliamo che la democrazia non sia soltanto una democrazia formale, ma che sia effettiva, dobbiamo integrare il riconoscimento dei diritti di libertà con i diritti economici e sociali. Ne viene, come corollario, che non si tratta soltanto del riconoscimento, ma che è necessaria anche la garanzia epperciò gli articoli 6 e 7 giustamente affermano che è garantito l’esercizio dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali, prendendo lo Stato impegno di rimuovere gli ostacoli di carattere economico e sociale che si frappongono all’esercizio e al godimento di questi diritti.

Ora, coloro i quali sostengono che questa affermazione, che questo riconoscimento non hanno che un semplice carattere programmatico, errano, a mio modo divedere, perché questa garanzia rappresenta, effettivamente, una norma costituzionale, ossia un impegno che il legislatore costituzionale affida al legislatore ordinario, quello di emanare leggi e disposizioni le quali attuino questa garanzia e la rendano effettiva.

Ora, se noi siamo convinti, e, come io credo, se la grandissima maggioranza di questa Assemblea è convinta della necessità, della opportunità che solennemente la Carta costituzionale riconosca i diritti di libertà ed i diritti economici e sociali a tutti i cittadini, è logico che noi, definendo il carattere della Repubblica, dobbiamo definirlo francamente, correttamente una Repubblica democratica di lavoratori. Se ci limitassimo a definire semplicemente la Repubblica come una Repubblica democratica, metteremmo in ombra i diritti economici e sociali, cioè affermeremmo che la Repubblica non è altro che una Repubblica di democrazia formale, quale era lo Stato anteriore al fascismo.

Se vogliamo invece che i lavoratori siano ammessi nello Stato, che il lavoro abbia il primato nella Repubblica italiana, come deve essere in uno Stato moderno, è logico che in testa alla nostra Costituzione, noi francamente adottiamo la definizione di Repubblica democratica di lavoratori.

Le obiezioni mosse da taluni, cioè che questa definizione avrebbe un carattere restrittivo, ossia consacrerebbe una specie di privilegio di una parte dei cittadini soltanto, sono obiezioni che non reggono, poiché l’articolo 7, al primo comma, stabilisce l’eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione né di sesso, né di razza, né di nazionalità, né di condizioni economiche, né di opinioni politiche e religiose. Ecco quindi che questa definizione di Repubblica democratica di lavoratori non contiene né di più, né di meno di ciò che deve contenere e corrisponde al senso ed ai concetti fondamentali che ispirano gli articoli 6 e 7.

Vi è un problema secondario che, secondo me, deve essere anche risolto, quello di vedere se la formulazione degli articoli 6 e 7 corrisponda effettivamente ai concetti che la Commissione ha creduto di introdurre, e che, secondo noi, sono giusti, ai concetti cioè della dichiarazione del riconoscimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali e della loro garanzia.

E qui è da rilevare, come già è stato rilevato dall’onorevole Togliatti nel suo precedente discorso, che fra il testo della prima Sottocommissione ed il testo del progetto che ci è presentato è occorso un processo di levigazione, vi è stato una specie di laminatoio, io penso, che ha operato sopra questo testo, nel senso che il rilievo è stato perduto o è stato attenuato. Io domanderei agli onorevoli colleghi di confrontare il testo degli articoli 6 e 7 come è stato redatto dalla prima Sottocommissione con il testo del progetto. Questo afferma che la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui e alle formazioni sociali; il testo della prima Sottocommissione dice: «riconosce e garantisce i diritti dell’uomo sia come singolo, sia nelle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona».

Mi pare che sia più corretto il testo della prima Sottocommissione.

Nell’articolo 7 – testo del progetto – è detto: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana»; mentre il testo della prima Sottocommissione è il seguente: «È compito della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana ed il suo completo sviluppo».

Io penso che sia più corretto, nel senso e nella forma, il testo della prima Sottocommissione che non il testo del progetto che ci è presentato, ed a questo proposito noi ci riserviamo di presentare le opportune proposte di emendamento in sede di discussione degli articoli.

Onorevoli colleghi, io sono convinto – e credo che il maggior numero di noi sia convinto – che questi articoli contenuti nelle disposizioni preliminari costituiscano l’essenza e la caratteristica fondamentale della nostra Costituzione. Essi, se, come noi speriamo, saranno approvati, daranno effettivamente alla nostra Costituzione il carattere di una Costituzione moderna, di una Costituzione corrispondente all’attuale stadio di svolgimento della società.

Credo che la nostra Costituzione, inspirata a questi principî, avrà non soltanto un altissimo valore di carattere interno, nel senso cioè che mentre nel passato, sotto la vecchia Costituzione, i lavoratori, le masse lavoratrici erano fuori dello Stato, con questa Costituzione i lavoratori, ai quali sono riconosciuti i diritti economici e sociali, la grande massa cioè dei cittadini italiani, non si sentiranno estranei allo Stato, ma saranno nello Stato e si realizzerà così una unità essenziale fra la grande massa dei cittadini e lo Stato, cioè la Repubblica. Penso che la nuova Costituzione, se sarà inspirata, come noi fermamente crediamo, a questi principî, avrà un altissimo valore di carattere interno, nel senso che aiuterà lo sviluppo pacifico della nostra rinascita e del nostro rinnovamento, ed avrà altresì un altissimo valore di carattere internazionale.

La politica internazionale è fatta dai popoli, in ultima analisi. E sarà di grandissima importanza e di grandissimo interesse per noi italiani che i popoli di tutto il mondo riconoscano in questo documento il volto nuovo dell’Italia, la prova che l’Italia si avvia ad essere e vuole essere un paese libero, democratico, orientato e indirizzato verso il progresso sociale, fondato sulla preminenza del lavoro. Penso che questo documento costituzionale riuscirà a disperdere le incomprensioni che ancora sussistono nei nostri riguardi nel mondo, a correggere le ingiustizie che sono state commesse contro di noi.

Io credo che sia necessario, per il nostro rinnovamento, l’approvare ed il sancire questi concetti fondamentali, che sono contenuti nelle disposizioni preliminari del nostro progetto, i quali hanno valore non soltanto per realizzare l’unità e lo sviluppo pacifico del popolo italiano, ma altresì per realizzare la nostra rivalutazione internazionale. (Applausi).

(La seduta, sospesa alle 18,10, è ripresa alle 18,30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, mai come in questo momento sento il valore del vocativo col quale apriamo i nostri discorsi. Perché se noi collaboriamo sempre, anche nei momenti di più rigida tensione, anche quando esplichiamo da una parte l’attività dell’opposizione e dall’altra quella della maggioranza, in questo momento collaboriamo pienamente, perché di massima i principî che debbono informare la nostra Costituzione sono stati fissati in quello che si è chiamato il compromesso dei partiti, ma che è poi il presupposto di ogni legge, giacché ogni legge è la risultante di un rapporto di forze e di tendenze che in essa si compongono e questa legge è, come tutte le altre, una risultante. A noi in questa fase tocca prevalentemente un problema tecnico, che è quello di scolpire nelle formule legislative i principî «risultati» e poi quello, forse più importante, di creare un apparato costituzionale che valga a rendere attuosi e fecondi questi principî, talché la Costituzione, che noi dobbiamo creare su quei principî, si possa attuare e per il più lungo tempo possibile.

Noi trovandoci di fronte alle disposizioni di carattere generale abbiamo uno solo di questi problemi: formulare esattamente i principî. Poi, esaminando gli altri titoli e principalmente la seconda parte, dovremo risolvere l’altro: creare l’apparato tecnico che attui efficacemente questi principî.

Sui principî formulati si è di massima d’accordo, però la formulazione ha bisogno di essere riveduta.

Si è voluto creare uno Stato democratico, uno Stato di diritto e libero, uno Stato sociale e si sono formulati, in queste sette prime disposizioni, i principî corrispondenti.

Il principio informatore dello Stato democratico è consegnato principalmente all’articolo primo, il quale si apre con questa dichiarazione: «L’Italia è una Repubblica democratica».

La formulazione mi sembra inesatta: è prima di tutto generica. Non si è usata questa formula nelle altre Costituzioni. In queste si dice: lo Stato si regge a monarchia rappresentativa, o a Repubblica democratica e non che è quella o questa. Evidentemente l’esigenza dell’esattezza nella redazione di un testo legislativo è la prima. E qui non si tratta soltanto di esattezza linguistica, si tratta di esattezza tipicamente tecnica. Quell’«è» esprime un concetto di qualificazione.

L’Italia è qualificata come Repubblica democratica.

Già la qualificazione non è esatta, perché non definisce l’Italia.

L’Italia è una nazione, è una civiltà, è una storia.

Invece: «L’Italia si regge a Repubblica democratica» ha un significato anche profondamente politico, perché vi è scolpito il concetto di attività, di autogoverno, che è proprio dello Stato libero e democratico. Si pone che è l’Italia che regge se stessa.

A me sembra che la formulazione del progetto sia inesatta e che, da tutti i punti di vista, sia consigliabile sostituirla con l’altra, che io ho proposto: «L’Italia si regge a Repubblica democratica».

L’onorevole Crispo, nel suo intervento, ha proposto di aggiungere «parlamentare». Non credo che sia necessario, perché nella stessa Costituzione si dice di volere fare una repubblica parlamentare; infatti, nella parte seconda, che segue immediatamente, si dice di volere creare questo apparato parlamentare.

Sarà, dunque, questione di vedere se veramente un apparato di repubblica parlamentare si è formato nella seconda parte della Costituzione e, se non si è formato, di formarlo. Se fossero esatte le istanze mosse dall’onorevole Orlando nel suo magistrale intervento, dovremmo dire che una Repubblica parlamentare non è stata evidentemente avvisata dal progetto di Costituzione.

Allora, nulla varrebbe la definizione iniziale, se mancasse la sostanza là dove si crea l’apparato costituzionale.

Vi è poi la seconda parte di quest’articolo:

«La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Cosa vuol dire che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro?

Si è detto qui: una Repubblica senza lavoro non può sussistere; argomento indiscutibile.

Vi dico subito che io sento profondamente, non soltanto la nobiltà, ma la santità del lavoro, perché il più alto orgoglio della mia vita è di essere professore universitario, cioè un lavoratore che conosce l’aspra sudata e non remunerata fatica.

E l’altro orgoglio della mia vita è di non aver nulla, che non sia frutto del mio lavoro e del lavoro di mio padre.

Poi, io sento profondamente la santità del lavoro, perché sono cristiano e so che laborare est orare. Sento la nobiltà del lavoro perché sono italiano e so che il lavoro è l’unica ricchezza del nostro Paese, come ha dimostrato la tragedia in cui viviamo, nella quale, fra tanto disastro, si è verificato questo prodigio: che noi siamo ancora in qualche modo in piedi e che con la nostra lira si compra ancora qualche cosa. Questo è avvenuto perché la nostra economia è imperniata sul lavoro, che è una ricchezza che non si è potuta distruggere e non ci si è potuta espropriare. Si è verificato per la nostra famiglia nazionale quello che si verifica nelle famiglie di lavoratori che perdono il loro patrimonio: rimangono in una situazione presso a poco uguale, perché se manca il cespite patrimoniale, rimane il lavoro di cui vivono. Le famiglie, invece, che vivono di patrimonio, perduto questo, cadono anch’esse.

Per tutte queste ragioni io sento altamente la nobiltà e la santità del lavoro. Non sono dunque preconcetti che mi spingono a queste osservazioni.

Che cosa vuol dire, dicevo, che il lavoro è il fondamento della Repubblica? Si osservava: una Repubblica senza lavoro non può esistere. Indubbiamente. Ma ciò non vale ad identificare la Repubblica, perché non solo la Repubblica ma nessuna associazione umana si regge senza lavoro, soprattutto la società economica, la famiglia, il comune, la società internazionale di tutti gli uomini. Nessuna di queste forme si reggerebbe senza il lavoro.

Dunque il lavoro non identifica l’essenza della Repubblica in modo da poterne essere il fondamento. Ma poi, soprattutto, è da osservare che non si può dire che il lavoro sia da solo il fondamento della repubblica.

Abbiamo prima imparato e poi insegnato nelle università che gli elementi fondamentali, costitutivi dello Stato, e perciò anche della repubblica, sono tre: il popolo, il territorio, l’organizzazione giuridica. Qualcheduno aggiunge anche l’organizzazione dell’economia e del lavoro, e allora diventano quattro questi elementi fondamentali dello Stato.

Ma è chiaro che la parola «fondamento» non è stata usata in questo senso, direi, fisico, di base su cui consiste la Repubblica, ma in un senso deontologico, cioè nel senso di titolo che dà diritto a partecipare alla Repubblica. In questo senso il lavoro è stato chiamato fondamento della Repubblica: è il fondamento ideale, etico, giuridico. E allora se è così – ed è certo che è così, perché è chiarito dall’articolo 31 dello stesso progetto, là dove è affermato il dovere dei cittadini di partecipare all’organizzazione del Paese con una funzione che concorra allo sviluppo della società e si aggiunge che chi si sottrae a questo dovere è privato dei diritti politici – non c’è dubbio, o amici, che qui, non so se claris verbis o surrettiziamente, come diciamo noi giuristi, si è tentato di far rientrare dalla finestra quel che è uscito per la porta. Si voleva dire che la Repubblica italiana è la repubblica degli operai, dei contadini e degli intellettuali: si sono trovate opposizioni e si è escogitata quest’altra formula che vale perfettamente lo stesso. Ora se è stata questa la vostra intenzione, noi non possiamo essere d’accordo, e se non è stata questa la vostra intenzione, l’espressione che avete usato va modificata.

Il nostro dissenso è dunque necessario e irriducibile, perché siffatta repubblica non sarebbe una repubblica se, come dicevamo giorni addietro riecheggiando il dialogo ciceroniano De repubblica, la repubblica è la res populi, la res dunque di tutti i cittadini, nessuno escluso. E Cicerone ci insegnava che, quando la Repubblica diventa di parte, quando la Repubblica diventa disponibilità di una parte, o è amministrata nell’interesse di una parte, cessa di essere res publica, e diviene res privata, sia questa parte un monarca, o sia un’Assemblea, o sia anche una larga collettività, che non comprenda però tutta quanta la collettività politica.

Diventa comunque uno Stato di parte; ed è mirabile come il filosofo nostro tragga dallo stesso nome la legge deontologica dell’essenza della repubblica. Voi, lasciando invariata la formula del progetto, non avreste creato una repubblica e tanto meno una repubblica democratica.

La Repubblica democratica è invece fondata sulla sovranità popolare. Io vi propongo questa formula: «La Repubblica italiana ha per fondamento la sovranità popolare». Io so che questa è un’espressione scientificamente discutibile, perché la scienza del diritto pubblico insegna che l’attributo della sovranità non appartiene ad una parte dello Stato o ad un elemento dello Stato, sia pure al popolo che può essere l’elemento principale. La sovranità è attributo dello Stato nella sua pienezza ed è soprattutto l’attributo dell’ordinamento giuridico, talché si potrebbe e si dovrebbe dire che sovrana in uno Stato è la legge.

Però l’espressione «sovranità popolare» ha un significato ormai acquisito alla storia. La sovranità popolare è un sistema di vita statale nel quale la volontà dello Stato vien formata dal popolo. Noi dunque, con questa espressione che, attraverso l’uso tradizionale, ha acquistato un significato ben fisso e stabile, affermiamo veramente ed integralmente la democraticità dello Stato.

Per altro, quando noi diciamo la partecipazione effettiva non dei lavoratori, ma dei cittadini, anzi io direi di «tutti i cittadini», all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, in fondo noi veniamo a riaffermare che si è cittadini attivi dello Stato in quanto si partecipa con la propria attività, o economica, o sociale, o morale, o politica, alla vita della collettività.

Solo a questo titolo si è cittadini dello Stato. No, no: togliete quell’espressione che creerebbe dei cittadini optimo iure e dei cittadini minoris iuris. E poi è un’espressione pericolosa che potrebbe sopprimere la libertà, nella quale io penso anche voi crediate. (Proteste a sinistra).

PERTINI. Quell’«anche» è esagerato: ci siamo battuti venti anni per la libertà; Anche! Quale generosità!

CONDORELLI. Io penso che non ci sia aderenza nella vostra dottrina alla libertà, ma che ci sia aderenza nel vostro sentimento.

Ora, se conservassimo questa espressione, potremmo cadere in errori gravissimi. Perché voi dite: «Ma noi con questa espressione vogliamo raggiungere soltanto questo effetto: che i lavoratori siano immessi nella cittadella dello Stato, ma non che ne siano esclusi gli altri».

Ma guardate come può essere interpretata questa parola «lavoratori». Io vi porto l’esempio di un economista non dell’avvenire, ma di oggi, uno dei più celebrati economisti di oggi – Pareto – che distingue le classi sociali in rapporto alle occupazioni, e fa una distinzione quadruplice: parla di occupazioni dirette a produrre beni economici o servizi; poi di occupazioni che producono indirettamente dei beni economici – e sarebbero appunto le occupazioni ausiliarie; probabilmente gli avvocati, nella migliore delle accezioni, potrebbero appartenere a questa categoria subliminale di lavoratori – poi c’è una terza categoria: gli oziosi; e infine una quarta, che sarebbe costituita da coloro che attraverso un’attività legale o illegale si impadroniscono dei beni altrui. Le prime due classi sono probabilmente di lavoratori; dico probabilmente, perché per la seconda si potrebbe discutere; ma gli oziosi non sono certamente dei lavoratori; e nessuno si sentirebbe di mettere fra i lavoratori coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.

Ora, lo sapete da chi è costituita la terza classe, quella degli oziosi? Da coloro che vivono di rendita e amministrano il loro patrimonio. Questi sono degli oziosi, in quanto traggono dal loro patrimonio qualche cosa di più, o molto di più, di quella che potrebbe essere la remunerazione della loro attività di amministratori. Quel di più che traggono li fa diventare degli oziosi, cioè dei non lavoratori. Nella quarta categoria, naturalmente, ci entrerebbero tutti i proprietari, perché, secondo la vostra dottrina, la proprietà è un mezzo attraverso il quale si espropria il lavoro degli altri.

Voi vedete, anche interpretando le cose alla luce del pensiero di un grande economista moderno, a che cosa si potrebbe arrivare. Ma poi, guardiamo anche soltanto alla prima categoria. Oggi sareste tutti pronti a dirmi che persone che rendono certi generi di servizi, che tutti consideriamo poco leciti e poco decenti, certamente non sono dei lavoratori. Come i sacerdoti, i religiosi, che pregano o che esercitano un ministero di assistenza spirituale, sono dei lavoratori, perché esercitano una funzione che concorre allo sviluppo della società. Ma lasciate che cambino queste posizioni mentali, che divenga comune un certo modo di pensare, che è affiorato in questa Assemblea, in questo dibattito, e allora vedrete che i sacerdoti, i religiosi, gli spirituali saranno messi subito al livello degli indovini, dei fattucchieri, degli stregoni, e perciò relegati senz’altro nella quarta categoria, di coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.

Voci a sinistra. No! No!

CONDORELLI. Ma certamente sarebbe così! Noi consideriamo in questo modo gli stregoni delle tribù primitive, in quanto sappiamo che sono superstiziose le loro pratiche. Ma solo che prevalga l’opinione che anche la religione di Cristo è una superstizione (e non sarebbe la prima volta nella storia che si sono relegati senz’altro i religiosi, i sacerdoti, nella quarta categoria nella quale sono posti i parassiti, e non sarebbe la prima volta che si sentono chiamare parassiti i sacerdoti, i frati, i discepoli di San Francesco), e che le etere esercitano una funzione sociale, voi vedrete le etere entrare trionfanti nella prima categoria e le monache uscirne per passare nella quarta!

Ma, per niente hanno scritto gli studiosi! Per niente si insegna nelle Università! Ma non per il prevalere di formule trite, che se ebbero un significato in un certo momento storico, lo hanno totalmente perduto ora!…

Affermiamo che la nostra Repubblica è fondata sulla sovranità popolare e noi veramente avremo formulato ed affermato un principio democratico!

E nella ultima parte di questo articolo non si dica che la sovranità emana dal popolo o è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e della legge.

Si dica che il potere spetta al popolo ed è esercitato nelle forme e nei limiti, ecc., perché la sovranità popolare non è che una formula. Si può usare questa formula e non dare un briciolo di potere al popolo. Bisogna che il potere sia dato al popolo, che è la concretezza della società.

Una voce a sinistra. Il potere è un aspetto della sovranità.

CONDORELLI. Non è un aspetto della sovranità; il potere è il potere, e la sovranità è un attributo che si dà allo Stato e quindi anche ai poteri dello Stato.

Badate, da questo punto di vista credo di passarvi avanti.

Noi abbiamo premesso che il problema di cui ora ci interessiamo è un problema essenzialmente tecnico. Se avete voluto, come anche noi vogliamo, affermare il principio dello Stato democratico, voi dovete dire che esso è fondato sulla sovranità popolare e che il potere, e cioè la concretezza della sovranità, spetta al popolo.

Si è voluto, dicevo, creare lo Stato libero e formularne i principî. Lo Stato libero è Stato di diritto. Ciò è stato affermato acconciamente nell’ultima parte dell’articolo 1, dove si dice che la sovranità – io direi il potere – è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. E lo Stato di diritto è pienamente lo Stato di diritto quando esso è limitato non solo dal diritto interno, ma anche dal diritto esterno, cioè dal diritto internazionale. Avrete pertanto completa la figura dello Stato di diritto con l’articolo 3 delle disposizioni generali nel quale si dice che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Nella formulazione, vi è qualche cosa di superfluo che può intorbidare: quella aggiunta, cioè: «generalmente riconosciuto».

Io credo di intuire la genesi di questa aggiunta.

È una tesi scientifica che è stata autorevolmente sostenuta, ma è meglio non introdurre questa questione dottrinale nella legge. Il diritto internazionale sappiamo che cosa è. Il diritto internazionale risulta da tre fonti: i trattati internazionali – trattati-accordo o trattati normativi – le consuetudini ed una fonte, non da tutti ammessa, che è il diritto tacito fondamentale.

Evidentemente questa espressione «generalmente riconosciuto» non si può riferire ai trattati, si riferisce alle consuetudini. Forse, si pensa che una consuetudine non è tale se non è generalmente riconosciuta. In fondo, ci si ricollega alla teoria del riconoscimento come fondamento obbligatorio della consuetudine. È una opinione che non solo io, ma la generalità non condivide, perché il riconoscere una consuetudine non dat esse alla consuetudine, non è un atto di volontà creativo della consuetudine, è soltanto la constatazione dell’esistenza della consuetudine, è solo un atto di intelligenza. La consuetudine esiste da per sé, a prescindere dal riconoscimento.

Io penso che bisognerebbe toglierla, questa aggiunta, perché potrebbe essere interpretata come volontà di attenuare la subiezione del nostro ordinamento giuridico al diritto internazionale, che invece perfeziona la figura dello Stato di diritto, che volontariamente si limita, col diritto interno all’interno, col diritto internazionale nei rapporti esterni, nei rapporti con gli altri Stati.

Voi avete voluto creare e noi vogliamo creare lo Stato sociale, imprimere un carattere fortemente sociale allo Stato italiano. La rivoluzione francese era sorta con l’accordo teorico o con la spinta, non sappiamo, dell’individualismo razionalista che metteva l’individuo al centro di tutti i valori, talché lo Stato assumeva una giustificazione in quanto mezzo per l’individuo, come garanzia della sua libertà. Il diritto, nella formulazione di Kant, era considerato come la condizione della coesistenza dell’arbitrio di ciascuno con l’arbitrio di tutti. Si svolge tutto un travaglio spirituale dal secolo XIX a questo secolo, che pone in evidenza il carattere sociale e storico dell’uomo: l’individuo non è che una astrazione. La realtà sostanziale che deve essere il centro di tutto quanto il sistema etico, giuridico, economico, non è questo scarnito individuo che è una astrazione, ma l’uomo, che è contemporaneamente, come diceva poco fa il collega Giordani, famiglia, classe economica, Nazione, Stato, Chiesa. È l’uomo sociale. Questo voi avete voluto affermare. Da ciò un nuovo concetto di libertà che, per altro, era acquisito alla scienza, alla filosofia, al nostro stesso diritto positivo. La libertà, intesa non più in senso soltanto negativo, ma anche e più in senso positivo, cioè come possibilità data all’uomo di attuare sé stesso, di svolgere la sua personalità. E questo mi pare che voi abbiate voluto affermarlo nell’articolo 6.

Ma l’affermazione è difettosa, gravemente difettosa. Io so qual è l’alchimia delle deliberazioni collettive. Ad un certo punto, di fronte a tante tendenze, si trova un compromesso ed una formula che non soddisfa nessuno, ma che è il mezzo per uscire da una discussione che si prolunga. Ma, questa volta, la formula sortita non può meritare l’approvazione di nessuno dei giuristi che hanno dato prestigio alla Commissione dei Settantacinque.

L’articolo 6 dice che «per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e dignità della persona e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale».

Garantisce i diritti essenziali? Perché solo quelli? E gli altri diritti non li garantisce? Garantisce tutti quanti i diritti soggettivi, ma non transige su quelli essenziali: in sostanza il vostro pensiero doveva essere questo. Viceversa avete fatto una formulazione palesemente difettosa perché pare che la Repubblica garantisca soltanto i diritti essenziali e che gli altri li sacrifica, non li considera.

La Repubblica, che è un ordinamento giuridico, non può garantire altro che tutti i diritti che essa dà, cioè tanto i diritti essenziali, quanto quelli accidentali e secondari. Ma poi dove è stata trovata questa distinzione fra diritti essenziali e diritti non essenziali? Forse in qualche trattato di diritto naturale di un secolo e mezzo fa? Ma nella terminologia moderna, che io sappia, non c’è. Che cosa sono questi diritti essenziali? I diritti innati? Ma oggi nessuno, né nella filosofia, né nelle scienze del diritto crede nelle idee innate né tanto meno nei diritti innati. Tutti i diritti in senso tecnico si hanno dallo Stato, si hanno dall’ordinamento. Ci sono diritti che hanno un fondamento naturale, ma non sono diritti innati. Si voleva dire i diritti naturali? Ci siamo ingolfati nelle nebbie del giusnaturalismo che, non so se a ragione o a torto, se per il bene o per il male dell’umanità, non è più di attualità. L’espressione non è certo felice ed io sono certo che i giuristi me ne daranno atto.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, tenga conto che la mezz’ora stabilita per ciascun oratore è passata già da cinque minuti.

CONDORELLI. E poi c’è che la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, cioè di tutti i doveri umani. Ma così il diritto soffoca. Come lo richiede la Repubblica, l’adempimento di questi doveri? come il maestro può richiederlo al suo discepolo, il padre al figlio, il precettore allo scolaro?

Vi accorgete che questa è una posizione attraverso la quale lo Stato può diventare un convento, una caserma o, peggio, un carcere! Si può creare un regolamento di disciplina che regoli in tutti i modi, fino agli ultimi dettagli, tutte quante le azioni, a incominciare dall’ora della levata, passando a quella dei pasti, a quella di andare a letto. Stiamo attenti! Sono anch’io convinto che sono disposizioni che non avrebbero nessuna efficacia pratica; ma voi sarete i primi a riconoscere che noi italiani, che ci vantiamo soprattutto di una grande tradizione giuridica, proprio a Roma, non possiamo fabbricare un documento nel quale ci siano di queste espressioni.

Dell’articolo 6, secondo me, non c’è altro da fare che sopprimerlo e passare l’affermazione di questi principî di solidarietà sociale fra gli nomini nel preambolo. Non c’è altro da fare. Mi sono sforzato a pensare come quest’articolo potesse essere conservato, ma devo dichiarare che mi sono trovato assolutamente impotente a trovarlo. Non è possibile.

C’è poi nell’articolo 7 un’espressione che ha richiamata l’attenzione anche del nostro collega dottor Capua. L’espressione è la seguente: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». Stiamo attenti alla espressione «rimuovere gli ostacoli». Badate, che si parla di ostacoli economici e sociali, cioè di ostacoli umani, di ostacoli che vengono dagli uomini. Come rimuove lo Stato questi ostacoli? Noi già avvisiamo nella stessa Costituzione delle leggi che tendono a favorire la conquista di questa eguaglianza di fatto. Non basta infatti enunciare una eguaglianza di diritto – è vero, Mancini? – perché l’eguaglianza ci sia. L’eguaglianza deve essere di fatto. Naturalmente, come tendenza. L’eguaglianza di fatto non si può raggiungere. Dunque, lo Stato prometta di aiutare l’uomo nella conquista di questa eguaglianza di fatto. Gli dia l’eguaglianza di diritto e poi gli permetta di integrare la sua attività per conquistare l’uguaglianza di fatto, ma non gli può promettere di rimuovere gli ostacoli economici e sociali. Gli può promettere di aiutarlo a superare questi ostacoli, ma non di rimuovere gli ostacoli.

Io sento il richiamo del signor Presidente. Perciò rinuncio ad illustrare altri punti che mi riprometto di illustrare in sede di discussione degli emendamenti, e vado a quello che è stato chiamato il punto incandescente, il campo infuocato dell’articolo 5, che io chiamerei, veramente, il campo fertile di equivoci: equivoci che sono giuridici e che sono politici e che ora, in gran parte, sono stati chiariti dal discorso veramente illuminante dell’onorevole Jacini e dall’altro discorso, che gli è buon secondo, che oggi abbiamo avuto il piacere di sentire in quest’aula dalla bocca del collega Giordani. Equivoco giuridico perché il problema, dal punto di vista giuridico, non è stato, secondo me, posto esattamente; equivoco politico perché io sento che in questa lunga discussione riaffiorano i motivi che si sono scontrati in Italia nell’evo cristiano nelle dispute tra papocesaristi e cesaropapisti, tra curialisti e regalisti, tra guelfi e ghibellini. E poi ritornano i fermenti del nostro Risorgimento, che si dovette fare fatalmente contro la Chiesa, talché residuarono, specialmente negli uomini della vecchia generazione, che oggi volge al tramonto, sentimenti di ostilità verso la Chiesa che aveva costituito un intralcio, forse plurisecolare, alla realizzazione della nostra unità nazionale. Il certo si è che la nostra Nazione, pur essendo una delle Nazioni più chiaramente determinate geograficamente, linguisticamente, religiosamente, storicamente, è l’ultima che sia pervenuta all’unità politica. Probabilmente era la presenza di questo grande potere spirituale che ne sosteneva uno temporale ed ostacolava il processo di unificazione che il potere temporale avrebbe travolto. Da ciò una eredità, forse inconscia, di avversione verso la Chiesa, avversione superstite, che si rivela in considerazioni giuridiche e in considerazioni politiche, che vorrebbero essere spassionate, ma che sono certamente condizionate da questi vaghi fermenti non ancora eliminati.

Ma io non rifarò la questione storica che è stata fatta egregiamente ieri; cercherò soltanto di porre il problema nei suoi termini strettamente giuridici.

Nel primo comma di questo articolo si afferma una verità di carattere giuridico-storico: che Chiesa e Stato sono sovrani e indipendenti nei loro rispettivi ordini. Non è una novità della nostra Costituzione. La Chiesa, cioè la Santa Sede, che poi rappresenta la Chiesa, è stata sempre un soggetto di diritto internazionale. Sarebbe grave errore pensare che soggetti di diritto internazionale siano soltanto gli Stati. Soggetti di diritto internazionale sono tutti gli ordinamenti giuridici sovrani. Abbiamo soggetti di diritto internazionale come la Chiesa, o meglio la Santa Sede, come, per esempio, il sovrano Ordine di Malta, che è anch’esso un soggetto di diritto internazionale. Chiesa e Stato sono dunque ambedue entità di diritto internazionale, dunque sovrani ognuno nel suo campo. Qui la sovranità vuol dire, come ho avuto occasione di accennare poco fa, originarietà della potestà. Ossia – per quanto riflette la Chiesa – potestà che non proviene dallo Stato od aliunde, ma potestà originaria propria, connaturata, onde il diritto canonico non è diritto perché lo riconosce lo Stato, ma è diritto perché emana da un potere sovrano, che è la Chiesa. Nel primo comma dell’articolo 5, dunque, non si è affermato niente ché non fosse già consacrato dalla scienza e dalla storia al cospetto delle quali la Chiesa è apparsa sempre come un ordinamento sovrano.

Posto questo principio, la conseguenza: è ovvia: i rapporti tra Stato e Chiesa non si possono regolare che paritariamente, cioè per atto consensuale: si regolano per concordato. Esistono delle materie che i canonisti chiamano res mere spirituales, e queste sono di competenza esclusiva della Chiesa; vi sono delle materie che la scienza dei canonisti chiama mere corporales, e queste sono di competenza dello Stato. Vi sono delle interferenze, vi sono le cosiddette res mixtae, cioè delle res spirituales che hanno ripercussioni e propaggini nel mondo temporale e di quelle corporali o temporali che hanno ripercussioni nel mondo spirituale.

È ovvio che queste materie miste vadano regolate con concordati fra le due potestà.

Ed allora, se la Chiesa è un ordinamento sovrano, come lo Stato, se i rapporti tra questi due enti nelle cose miste si devono regolare con concordati, era ben logico che nella formulazione della norma costituzionale si uscisse dall’astratto e si venisse al concreto, dicendo: i rapporti sono regolati dai Patti lateranensi.

È una constatazione di fatto.

Qui sono nate delle discussioni, che hanno particolarmente appassionato questa Assemblea.

Ed io raggruppo gli argomenti, per ragioni di rapidità e di chiarezza, in due ordini: vi sono questioni di carattere formale e questioni di carattere sostanziale.

Coloro che fanno questione di carattere formale affermano di non avere niente da dire contro quegli accordi, di essere lieti di questa situazione di accordo tra lo Stato e la Chiesa, che non vogliono modificare, ma di ritenere antigiuridico ed anticostituzionale che questi accordi siano recepiti nella Costituzione.

Coloro – e purtroppo sono molti – che sono contrari a questi accordi, dicono che, quanto meno, essi dovrebbero essere riveduti, perché consacrano dei principî contrastanti con quelli dello Stato democratico. Ci sarebbe, insomma, incompatibilità su diversi punti, tra gli accordi e l’ordinamento della Repubblica democratica.

Ora, io non accetto nessuno di questi due ordini di idee, perché, francamente, mi sembrano infondati.

Qual è la difficoltà a che questi accordi siano recepiti dalla nostra Costituzione?

Si dice che sarebbe una limitazione della nostra sovranità.

Si è scritto all’articolo 3 (ed era superfluo, perché si sa che lo Stato moderno è soggetto al diritto internazionale) che noi volontariamente ci sottoponiamo al diritto internazionale.

Ora, gli accordi vaticani constano d’un Trattato, stipulato con la Santa Sede, nel quale si crea lo Stato del Vaticano, e del Concordato, con cui si regolano i rapporti tra Chiesa e Stato, queste res mixtae.

Sono: l’uno, un trattato internazionale; l’altro, un contratto di diritto pubblico interno, stipulato fra due enti sovrani.

Lo Stato volontariamente si è autolimitato. Qual è l’offesa alla nostra sovranità? Non la vedo; a meno che non si pensi, non da un punto di vista giuridico, ma da un punto di vista storico-geografico, alla perdita dei 44 ettari di territorio nazionale. Non è questo.

È un errore che questa cosiddetta recezione degli accordi sia una limitazione della nostra sovranità.

Qualcuno, onorevole Presidente, ha financo detto che è un assurdo giuridico, perché noi creiamo ex novo l’Italia e non possiamo, perciò, recepire relitti del passato.

Guardate come va a risorgere il mito del contratto sociale: noi costituenti rinnoviamo i nostri favolosi progenitori che si incontrano alla foresta e fanno il contratto sociale!…

Guardiamo le cose come sono. Noi, grazie a Dio, non stiamo creando lo Stato italiano. Non ha bisogno di essere creato; esso è una realtà storica che ha basi ben più solide di questa Costituzione, che speriamo soltanto lo rafforzi. Dire che noi creiamo lo Stato e che dobbiamo ignorare ogni presupposto giuridico, è un’eresia.

Qualche altro ha detto che la difficoltà consiste in questo: che noi veniamo a limitare il nostro potere di denunziare gli accordi.

Noi, in rapporto al Trattato col quale si crea la Città del Vaticano, non abbiano nessuna facoltà di denunzia. Uno Stato, una volta creato attraverso un trattato, si può debellare, ma non si può distruggere revocando o denunciando un trattato. Nessuna maggioranza né di metà più uno né qualificata, né la totalità della nostra Assemblea può distruggere il trattato. Ripeto, noi possiamo aggredire la Città del Vaticano, distruggere lo Stato del Vaticano, ma non possiamo denunziare il Trattato: nell’ordine del diritto questa facoltà non c’è.

Però, si dice, noi abbiamo la facoltà di denunziare il Concordato e siccome esso viene incluso nella Costituzione noi non lo potremmo denunziare come prima. La Costituzione in cui è recepito ci obbliga a considerarlo come una legge costituzionale, e per modificarlo unilateralmente, cioè denunciarlo, dobbiamo raggiungere quelle determinate maggioranze necessarie per il processo di revisione.

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Condorelli, a questo punto dovrei chiedere ai colleghi se, nonostante che ella parli da 55 minuti, ritengano che ella debba proseguire.

Voci. Sì, sì; ascoltiamo tutti con molto interesse.

PRESIDENTE. Fo soltanto rilevare che uno strappo alle norme regolamentari impedirà poi di potersi opporre a che lo stesso strappo non valga per altri colleghi. Comunque, onorevole Condorelli, continui, ma tenga conto che c’è un’intesa accettata dal rappresentante del suo Gruppo.

CONDORELLI. Dunque, questo Trattato non potremmo denunziarlo che raggiungendo quella tale maggioranza.

Anche sulla denunciabilità del Concordato ci sono molti dissensi, molto gravi, perché la formula della Chiesa è: «simul cadent simul stabunt». Perciò, siccome non può cadere il Trattato, non può cadere nemmeno il Concordato. Questa è la tesi della Chiesa, condivisa anche da giuristi laici, i quali peraltro trovano argomenti nell’articolo 44 del Concordato nel quale è prevista l’interpretazione d’accordo in caso di dissenso. Il conflitto che potesse nascere tra Chiesa e Stato non si dovrebbe mai risolvere con una denunzia, ma in nuove trattative, in una interpretazione fatta concordemente.

Checché sia di questa tesi si ha, comunque, se la necessità di adottare le forme della revisione, per modificare unilateralmente le norme concordate, apparisse troppo gravosa, che non c’è niente di irrevocabile, nulla di fatale, nessun ostacolo dinanzi al quale si debba fermare la intelligenza dei giuristi di questa Assemblea. Non c’è che daffare un ritocco agli articoli 76 e 83 della Costituzione, là dove è prevista l’autorizzazione alla ratifica dei trattati da parte del Parlamento e la ratifica da parte del Presidente della Repubblica. Perché dunque parlare solo di ratifica dei trattati internazionali di natura politica o di arbitrato? Si parli anche dei Concordati: è una lacuna che si è lasciata e che può essere colmata, giacché lo Stato fa anche dei Concordati che debbono essere logicamente anche essi sottoposti alla ratifica del Presidente della Repubblica previa autorizzazione del Parlamento. Si parli anche della denunzia, che deve essere opportunamente autorizzata, e il grande problema è risolto.

Io non so che cosa residui di questo problema, di fronte ad una Costituzione che è ancora in fieri e nella quale possiamo mettere quello che vogliamo. E badate che non mettiamo niente di arbitrario, ma qualche cosa di ragionevolissimo. Prevediamo il processo di formazione e di disfacimento anche dei Concordati e i Concordati si creeranno e si disfaranno come si creano e come si disfanno i trattati.

Non rimane che l’avversione di merito al Concordato e questa non so se sia molto o poco diffusa; ma è certo che c’è ed affiora nelle discussioni.

TI nostro compagno – consentitemi che usurpi per un momento questa vostra espressione – onorevole Crispo ha esposto degli argomenti secondo i quali, a suo giudizio, il nuovo diritto pubblico italiano, quale risulta dal progetto di Costituzione, è incompatibile con il Concordato. Egli ha espresso autorevolmente, con un discorso che non esito a definire notevole, un suo punto di vista che non è il mio e che non è neanche quello, penso, della maggioranza del gruppo liberale e che non è niente affatto il pensiero del liberalismo italiano. Il liberalismo italiano infatti, nella sua genuina scaturigine, non ha mai avuto di questi preconcetti, al punto che – come è noto – Cavour, per risolvere la questione romana, nel 1861, pochi giorni prima della morte, era disposto ad avere Roma con il re d’Italia quale vicario del papa. In ciò non trovava niente di straordinario il progenitore del partito liberale italiano.

Ora, esaminiamo in merito le eccezioni di carattere giuridico che si trovano nel Concordato.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli: è interessantissimo il suo discorso, ma ricordi l’invito che le faccio per la terza volta.

CONDORELLI. Lo Stato che risulta dal Trattato è uno Stato confessionale, perché l’articolo primo dello Statuto diceva che la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato e l’articolo primo del Trattato si rimette all’articolo primo dello Statuto, trascrivendone anzi la formula. E come ciò si mette d’accordo con la norma che tutti i cittadini sono uguali, senza distinzione di opinioni religiose, che lo Stato è uno Stato libero e democratico?

Ora, non da solo, ma appoggiandomi a quella che si può dire la costante opinione dei giuristi italiani, nego che lo Statuto albertino, quali che fossero le intenzioni di colui che lo emanò, abbia creato uno Stato confessionale. Malgrado quella dichiarazione, lo Stato piemontese prima e lo Stato italiano poi non furono mai degli Stati confessionali. Era una dichiarazione che aveva soltanto questo significato: ove lo Stato avesse avuto bisogno di accompagnare dei suoi atti con riti propiziatori o di ringraziamento, avrebbe dovuto ricorrere al rito cattolico e ai sacerdoti cattolici. Non ebbe mai altro significato, e non ne ha acquistato nuovo, quando è stato trascritto nel Trattato. Il significato è rimasto identico.

E poi, d’altro canto, ormai negli Stati moderni può esistere più questo confessionalismo? Non può esistere, perché lo Stato moderno si è spersonalizzato; sia monarchia, sia Repubblica, è una istituzione, un istituto che non si confonde col sovrano, con colui che detiene il potere: un istituto – è ovvio – non si può né battezzare, né confessare, né comunicare, ecc.; non ha la possibilità di essere cattolico. Le dichiarazioni di confessionalismo hanno soltanto questa importanza, che dicevo poco fa, formale.

Badate che non vengo meno a quel rispetto che debbo alla Chiesa. È un’esigenza di concetti. Questo è il significato moderno di confessionalismo, tanto è vero che ormai quelle vecchie distinzioni tra unione, separazione, confessionalismo, ecc. sono state relegate fra i ricordi scolastici, non hanno più nessun significato fuorché storico. Noi abbiamo oggi dei casi di separazione sostanziale e di unione meramente formale; separazione sostanziale, perché lo Stato è un’entità laica; formale, perché si dà forma giuridica, attraverso il Concordato, a certi rapporti intercorrenti fra Stato e Chiesa. Lo Stato italiano è veramente questo: è uno Stato sostanzialmente separato dalla Chiesa, formalmente coordinato per regolare le materie comuni.

E giacché più di una volta il nostro onorevole Presidente mi ha richiamato alla fatalità del termine, io devo rinunciare…

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, ormai non si può più dare la parola ad un altro oratore; quindi può continuare. Lei è riuscito brillantemente ad assorbire il tempo di tre oratori: è un esempio di dottrina, ma forse non di disciplina.

CONDORELLI. Questo è un argomento che tocca così profondamente un lato tanto geloso della nostra coscienza, che avrei sentito di mancare ad un preciso dovere, se non avessi detto chiaramente il mio pensiero, e ne avrei conservato il cruccio per tutta la vita. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, poteva limitare a questo argomento di così profondo interesse il suo intervento e rinunciare a tutta la prima parte, che era anche interessante, ma forse non un problema di coscienza. (Approvazioni).

CONDORELLI. Dunque, quali sono questi conflitti tra il nuovo diritto pubblico e il Concordato? Quello del confessionalismo non ha significato. Non è confessionale il nostro Stato. Se lo fosse, lo sarebbe nel senso che ho detto, meramente formale. Non vi ha certo conflitto in quel famoso, articolo 5, che è stato richiamato da tutti, e nel quale in sostanza non si dicono che delle cose ovvie, che credo sarebbero state, almeno in parte, sancite dallo Stato, anche fuori del Concordato. Quando un sacerdote o un ecclesiastico ricopre un ufficio italiano deve essere autorizzato dai suoi superiori ecclesiastici e se questo diritto e questa autorizzazione è revocata, lui deve lasciare l’impiego. È una limitazione della libertà umana? Ma da quando in qua le limitazioni volontarie sono limitazioni della libertà? Ma anche i contratti sono allora limitazione della libertà. Io, divenendo sacerdote, accetto le limitazioni che mi vengono dalla disciplina dell’organizzazione della quale volontariamente vengo a far parte e so benissimo qual è la mia sorte. È un po’ come la indissolubilità del matrimonio: è una limitazione di libertà? Io, allorché mi sposo, so benissimo quali sono gli effetti dell’atto a cui vado incontro. È così quando si prende l’ordine sacro. Si dice che un sacerdote apostata o irretito da censura non può esercitare uffici particolarmente esposti al pubblico, per esempio non può fare il professore. Ma è una invenzione del Concordato che il 97 per cento degli italiani sono cattolici e che lo Stato, tenendo delle scuole, le deve mantenere accettabili e frequentabili dalla maggioranza dei cittadini? Ma chi di noi – non parlo del mio caro amico Tonello – manderebbe un figlio in una scuola in cui insegna uno scomunicato?

TONELLO. Io non lo manderei da un prete!

CONDORELLI. Ma la scuola deve essere accettabile dalla maggioranza, dalla quasi totalità degli italiani. Non si possono creare dei servizi pubblici dei quali si possa servire solo qualcuno in via sporadica.

Si parla poi delle particolari sanzioni per chi vilipende la Chiesa, per chi bestemmia la divinità o i santi, o per chi offenda il Papa, ecc. Ma vi pare che sia lo stesso bestemmiare Allah o Budda, o Gesù o la Madonna? Ma è evidente che per la maggioranza degli italiani bestemmiare Allah o Budda potrà essere soltanto uno scherzo. La bestemmia a Bacco la fanno tutti. Non è che una celia! Un altro significato ha la bestemmia alla Divinità, ai santi che sono venerati da tutti gli italiani. Non devono esprimere le leggi la coscienza pubblica del Paese?

L’insegnamento religioso: altro equivoco! L’insegnamento religioso è libero in Italia. Il padre che la pensa come l’amico Tonello fa sapere ai professori che non vuole che il suo figliolo sia contaminato da sì prava dottrina e lo fa dispensare dall’insegnamento religioso. Nessuno lo costringe a mandarvelo. Ce ne sarà uno su 10 mila, ma la libertà di quest’uno è anche rispettata. E così nessuno vuole che si insegni ad alcuno la religione contro la sua volontà. Ma, signori, dove sono queste incompatibilità col nuovo diritto pubblico che noi andiamo a creare in Italia? Non ne esiste nessuna. A meno che non si insista su quella dei titoli nobiliari, che la Chiesa ammette e lo Stato no.

Ora, signori, io chiudo con un dilemma: c’è contrasto tra il diritto pubblico nuovo e il Concordato? Non c’è contrasto, si può rispondere, e non c’è, allora, nessuna ragione valida per escludere dalla Costituzione il richiamo dei Patti Lateranensi. C’è contrasto? Soltanto questa potrebbe essere la ragione della esclusione. Ma allora, se c’è contrasto, effettivo o anche soltanto supponibile, non vi accorgete che, legiferando così voi venite a denunziare il Concordato, cioè a distruggere quella pace religiosa che tutti quanti dite di volere conservare?

Badate che legiferare contro il Concordato equivale a denunziarlo nella maniera più solenne, perché un Concordato non è esso stesso fonte di diritto, fonte di obblighi per i cittadini. È fonte di obblighi soltanto per lo Stato che deve legiferare conformemente al Concordato. Finché il Concordato non è trasfuso in una legge non ha nessun effetto nel diritto pubblico interno; lo acquista quando è trasfuso nella legge.

Ora, se noi invece di trasfondere nella legge il Concordato, legiferiamo contro il Concordato…

Una voce a sinistra. Ma non contro!

CONDORELLI. …contro il Concordato, noi lo denunziamo. È così e non ammetto che in campo di diritto si possa sostenere il contrario, perché non è possibile. Proprio se si potesse sostenere qualche incompatibilità tra il Concordato ed i principî della nuova Costituzione, il richiamo dei Patti lateranensi diverrebbe ancora più indispensabile onde escludere, il significato di denuncia implicita!…

MANCINI. In questo modo si mutano i termini della discussione!

CONDORELLI. Ed allora badate a quello che fate! Si sono create tante ragioni di dissenso tra gli italiani e non c’è bisogno di crearne un’altra per una questione dottrinale che interessa, se interessa, uno sparuto numero di liberi pensatori male informati.

TONELLO. Non è sparuto il numero!

CONDORELLI. È sparuto!

TONELLO. I Patti del Laterano li ha fatti Mussolini!

CONDORELLI. E per questo si crea una questione che separerebbe ancor di più gli Italiani e che accrescerebbe, assommandosi agli altri scontenti, il distacco, già grave agli inizi, tra il popolo della nascente Repubblica italiana e la nuova Costituzione? (Applausi al centro e a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a lunedì alle 16.

Avverto che, con la settimana prossima, ho intenzione di essere molto severo nella direzione della discussione. Ringrazio l’onorevole Condorelli per le cose che ci ha detto, ma il suo discorso non deve costituire un precedente. Prego i colleghi di tenerlo presente.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per le sedute di lunedì 17 marzo 1947.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Martino Gaetano                                                                                            

Canepa                                                                                                              

Rodi                                                                                                                  

Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Seguito e fine della discussione):

Foa                                                                                                                    

Pesenti                                                                                                              

Marinaro                                                                                                         

La Malfa, Relatore                                                                                           

Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro                                                       

Presidente                                                                                                        

Perassi                                                                                                              

Bonomi Ivanone, Presidente della Commissione                                                

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Richiesta di svolgimento di interpellanza:

Gortani                                                                                                            

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Lucifero, Dossetti, Colonnetti, Fiore, D’Amico Diego, Spataro.

(Sotto concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella dell’onorevole Volpe, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i motivi dell’esclusione degli insegnanti orfani di caduti nella prima guerra mondiale dal beneficio di preferenza nelle supplenze di cui usufruiscono gli insegnanti orfani dell’ultima guerra; e per chiedere provvedimenti di riparazione a questo stato di stridente ingiustizia».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Martino Gaetano, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se risponde a verità che l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica abbia disposto, con sua circolare ai Prefetti ed agli Uffici sanitari provinciali, che venga sospesa la rigida applicazione delle norme del Codice penale e del testo unico delle leggi sanitarie, le quali vietano l’esercizio abusivo della professione di medico odontoiatra. E per conoscere, nel caso affermativo, quali ragioni abbiano ispirato tale provvedimento

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di parlare.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Rispondo per l’Alto Commissario all’igiene.

L’esercizio abusivo di una professione sanitaria è perseguibile a norma del Codice penale e può dar luogo, in sede amministrativa, a provvedimenti di polizia in base all’articolo 101 del testo unico delle leggi sanitarie, che conferisce ai Prefetti la facoltà di disporre la chiusura del locale ed il sequestro del materiale destinato all’esercizio abusivo di dette professioni. Con circolare 23 dicembre 1946, allo scopo di reprimere il dilagante abusivismo nell’esercizio dell’odontoiatria, questo Alto Commissariato ritenne opportuno richiamare i Prefetti alla piena e rigorosa applicazione delle norme vigenti in materia. Tale rigore, dopo molti anni di tolleranza, ha dato luogo a risentimenti, agitazioni collettive e minacce gravi contro i denunzianti, nonché ad un autorevole intervento da parte della Confederazione generale italiana del lavoro presso l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica.

Allo scopo di ovviare all’acuirsi di tale situazione ed in considerazione che tutto l’annoso e complesso problema è al riesame dell’Alto Commissariato stesso, si è ritenuto necessario segnalare ai Prefetti l’opportunità di applicare le istruzioni con tatto e moderazione, onde evitare spiacevoli incidenti. In tale senso è stata diramata una circolare, alla quale naturalmente non può in nessun caso attribuirsi carattere sospensivo delle disposizioni in materia di repressione dell’esercizio abusivo delle professioni sanitarie.

Pertanto, continuano ad avere vigore le disposizioni sulla disciplina giuridica delle professioni sanitarie, alle quali, com’è ovvio, non potevano apportarsi limitazioni o sospensioni con le raccomandazioni contenute nella predetta circolare.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MARTINO GAETANO. Mentre ringrazio l’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per la cortese risposta alla mia interrogazione gli do atto ben volentieri delle buone intenzioni che, a quanto pare, hanno ispirato l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità. Di queste peraltro io non ho mai dubitato e se questa interrogazione ho presentato, non è certo per muovere garbato appunto alle intenzioni, bensì, piuttosto, al provvedimento che è stato adottato. Gli occhi del nostro intelletto sono muniti di lenti colorate e il mio colore non è analogo a quello dell’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica. Dove questi vede una questione sindacale, io vedo invece un problema di morale e di pubblico interesse.

Evidentemente la visione sindacale del problema legittimerebbe e l’intervento della Confederazione generale del lavoro e il provvedimento conseguente dell’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità. Ma, né quell’intervento, né questo provvedimento possono giustificarsi, se si pensa – come io penso – che lo scopo dell’articolo 348 del Codice penale e dell’articolo 101 del testo unico delle leggi sanitarie non è già quello della difesa degli interessi di una categoria di professionisti, ma è quello della difesa della sanità dei cittadini, della difesa della società. Ma dirò di più: il vero problema è quello di ordine generale, se, cioè, possa essere consentito in un ben ordinato sistema politico ad un Ministro o ad un Alto Commissario di tentare di sospendere con una sua circolare gli effetti di leggi repressive di un reato o anche solo di tentare di attenuarne o limitarne l’applicazione.

Questo è, a parer mio, il vero problema, problema che supera evidentemente il significato del fatto specifico da me denunziato.

Devo dichiarare se sono soddisfatto? Ebbene, evidentemente no.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Canepa, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, «per sapere, in seguito alla risposta scritta all’interrogazione sul tema «Alberghi e Turismo», tenuto conto della scarsa efficienza dei due decreti legislativi 29 maggio 1946, quali siano in Italia le reali condizioni del turismo e che cosa si faccia per imprimere a questa industria lo sviluppo necessario all’economia nazionale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA. Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Data la grave situazione in cui versa l’economia nazionale, i due decreti legislativi n. 452 e n. 453 del 29 maggio u.s. hanno un’importanza che non si deve sottovalutare e costituiscono un primo passo verso la ricostruzione alberghiera. Coi contributi di cui al decreto n. 452, infatti, si dà ai privati la possibilità di effettuare lavori di costruzione e di ricostruzione di alberghi, stabilimenti e rifugi di carattere turistico, per l’importo di oltre tre miliardi e mezzo. Istanze di contributi a fondo perduto o rateali sono cominciate a pervenire ai competenti uffici del Governo; ed il loro numero crescerà man mano che sarà possibile agli interessati corredare le domande stesse dei richiesti documenti.

Altra concessione non trascurabile prevista dal citato decreto, è l’esenzione dalla normale imposta fabbricati e dalle relative sovrimposte comunali e provinciali, per un periodo di venticinque anni, a favore di tutti gli esercizi ricettivi costruiti, ampliati o ricostruiti entro cinque anni. Si fa riserva di chiedere al Tesoro una maggiorazione degli stanziamenti, al fine di aumentare la consistenza del patrimonio ricettivo, ed è allo studio una modifica alle norme procedurali del decreto legislativo luogotenenziale n. 452 tendente a facilitare le concessioni dei contributi.

Il movimento turistico è stato finora limitato, a causa degli avvenimenti bellici e delle devastazioni che ne sono derivate all’economia generale del Paese. Per l’anno in corso si delinea, peraltro, una ripresa del flusso turistico, ad incoraggiare la quale serviranno: la riattivazione delle ferrovie e delle altre linee di comunicazione; la propaganda svolta a nostro favore – d’intesa con l’E.N.I.T. – da riviste straniere; l’opera di agenti all’estero, i quali hanno il compito di richiamare l’attenzione dei turisti stranieri sui valori turistici dell’Italia; l’appoggio che viene dato alle manifestazioni d’arte e di cultura, ecc.

Così, in attesa di maggiori possibilità, l’attività turistica – il cui sviluppo è connesso con la ricostruzione nazionale – può segnare al suo attivo le prime premesse per un ritorno graduale, ma costante, al livello dell’anteguerra.

Sono stati portati a termine gli studi per la riorganizzazione degli uffici centrali del Turismo. I due schemi di legge, uno relativo alle attribuzioni dell’organo di Governo, l’altro, riguardante un Ufficio centrale tecnico, principalmente di propaganda in Italia e all’Estero, e di coordinamento fra i vari enti ed associazioni di categoria che interessano il turismo, sono già stati trasmessi dalla Presidenza ai ministeri competenti per il parere e le osservazioni del caso e saranno in una delle prossime riunioni presentati al Consiglio dei Ministri per l’approvazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Canepa ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CANEPA. Prendo atto con soddisfazione della risposta dell’onorevole Sottosegretario alla Presidenza, in quanto annunzia l’imminente decreto costitutivo del Commissariato del turismo. È la risposta che mi aspettavo dopo che il Presidente del Consiglio ha accettato l’ordine del giorno che ho svolto nella tornata del 24 febbraio u.s. E la sua risposta sarà gradita anche da quanti hanno partecipato al congresso di Palermo, che ha avuto luogo in questi giorni e che ha ripetuto appunto questa istanza.

Non posso peraltro non insistere per quanto riguarda la questione delle riparazioni degli alberghi lesionati dalla guerra. Non è che io sottovaluti i decreti del 24 maggio 1946, con cui, invece di accogliere la mia proposta di devolvere il compito ai Comuni, si è stanziato una lieve somma per la riparazione degli alberghi lesionati dalla guerra. Non è, dicevo, che io sottovaluti questa disposizione, e specialmente la buona intenzione che essa dimostra, ma purtroppo questo decreto non ha prodotto un risultato apprezzabile, perché il contributo era del tutto inadeguato. Infatti i danni mobiliari e immobiliari prodotti dalla guerra agli alberghi si calcolano in 12 miliardi, cifra che forse è inferiore ancora al vero.

Ora mi pare che lo Stato dovrebbe partecipare con almeno il 3 per cento non il 2 e mezzo in riduzione della quota annua comprensiva dell’interesse e dell’ammortamento presso la Banca del Lavoro, sezione credito alberghiero.

Ammesso che lo Stato intervenga soltanto fino alla concorrenza del 50 per cento, cioè per 6 miliardi, ne risulta 6 moltiplicato 3, un minimo stanziamento venticinquennale di 180 milioni, mettiamo 200 in cifra tonda.

Con questo stanziamento il problema sarebbe risolto e in breve ripristinato l’assetto alberghiero.

Non mi obiettate le condizioni dell’erario. Dico che nessuna spesa potrebbe essere più di questa utile all’erario, in quanto salverebbe la lira, e senza la salvazione della lira non si va avanti. È proprio così. Perché i forestieri non domandano di meglio che di tornare in questa Italia ad essi tanto gradita. Leggete l’ultimo numero del Joumal de Genève che è in sala di lettura dei giornali esteri. C’è un bellissimo articolo su Taormina e dice che già 100 svizzeri sono tornati a stare a Taormina, e che altre centinaia sono pronti a seguirli, purché trovino alloggio negli alberghi. Questo per quanto riguarda la Sicilia, ma altrettanto posso dire – perché mi consta personalmente – per quanto riguarda la Riviera Ligure.

Devo, oltre a questo, insistere perché il soggiorno degli stranieri non sia limitato. Qualcosa si è fatto. Sono stati dati ordini alle questure perché facciano un discrimine fra forestieri desiderabili e forestieri indesiderabili. Qualche cosa si è fatto, ma non ancora abbastanza. È insensato per sterili preoccupazioni poliziesche disseccare una fonte di vantaggi morali e monetari. Prego, pertanto, il rappresentante del Governo di volere, per mezzo del Ministero dell’interno, dare ordini espliciti. Bisogna abolire i «visti». Bene ha fatto il Ministro degli esteri a ordinare ai consoli di non voler sottoporre a interminabili formalità burocratiche il rilascio dei passaporti. Auguro che il Governo prenda tali provvedimenti, per cui il grande Congresso nazionale del turismo che si terrà in maggio a Genova, abbia a dargli un voto di plauso.

Concludo dicendo che ho letto in questi giorni che l’Inghilterra ha proposto all’Italia l’abolizione dei passaporti tra l’Italia e la Gran Bretagna. Io spero che il Ministro degli esteri accoglierà questa proposta e confido che tale accordo tra la Gran Bretagna e l’Italia segnerà davvero l’inizio di un’era nuova, di un’era in cui siano eliminali gli ostacoli che oggi impediscono alla gente di muoversi e la tengono inchiodata al suolo. È appunto questo avvenire in cui l’umanità possa almeno camminare, almeno svolgere la propria attività, è questo avvenire che sarà inaugurato da tale soppressione dei passaporti tra l’Italia e l’Inghilterra. (Applausi).

CAPPA. Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Assicuro l’onorevole Canepa che le sue osservazioni sono in gran parte condivise dal Governo e che terremo nel maggior conto i rilievi ulteriori che egli ha fatto nel corso della sua replica.

PRESIDENTE Segue l’interrogazione dell’onorevole Rodi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere le ragioni per le quali è stata ripristinata l’efficacia del decreto-legge 14 gennaio 1944, n. 13, riguardante la disciplina della stampa, considerato che: 1°) il provvedimento è stato preso dal Consiglio dei Ministri subito dopo l’aggiornamento dell’Assemblea Costituente, che doveva essere consultata in proposito; 2°) l’articolo 4 del decreto in questione, imponendo l’obbligo agli editori dei giornali di richiedere ogni tre mesi una nuova autorizzazione, pone praticamente la stampa alla discrezione delle autorità competenti e di eventuali interferenze di natura politica; 3°) l’articolo 7 dello stesso decreto dispone che le norme ivi contenute vanno applicate per tutta la durata della guerra, il cui stato è ora ufficialmente cessato; 4°) il provvedimento in parola non trova giustificazioni plausibili nell’eccessivo esercizio della libertà di stampa, perché ogni licenza può e dev’essere punita con le leggi ordinarie».

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Data l’importanza della legislazione sulla stampa, che deve trovare il suo fondamento nei diritti di libertà sanciti nella Costituzione, il Governo non ha ritenuto di poterla emanare di sua iniziativa, ed ha nominato una Commissione di studio per la redazione di un progetto, da sottoporre all’Assemblea Costituente.

La Commissione ha ultimato i suoi lavori, nei quali ha tenuto largamente conto dei principî che sono stati accolti dalla prima Sottocommissione della Costituente in questa materia.

A tali principî fondamentali si ispira la disciplina della stampa contenuta nel progetto definitivo ieri stesso rassegnato al Consiglio dei Ministri che, giusta l’impegno assunto dal Presidente del Consiglio nelle sue recenti dichiarazioni, sarà prossimamente presentato all’Assemblea Costituente.

Nel frattempo è stato necessario prorogare, ancora per breve termine, le disposizioni provvisorie del decreto Badoglio del 1944, la cui efficacia era limitata alla durata dello stato di guerra.

È da rilevare che il decreto non prevede particolari sanzioni per i reati di stampa, i quali continuano ad essere puniti secondo le disposizioni penali vigenti.

Inoltre l’articolo 4, che impone agli editori l’obbligo di chiedere una nuova autorizzazione ogni tre mesi, non è stato mai praticamente applicato, mentre per quanto riguarda la concessione delle autorizzazioni il Governo può assicurare che l’azione dei competenti organi amministrativi è stata sempre ispirata a criteri assolutamente obbiettivi ed al rispetto della maggiore libertà, evitando qualsiasi interferenza di natura politica.

PRESIDENTE. L’onorevole Rodi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

RODI. Sono spiacente di non potermi dichiarare soddisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario alla Presidenza, perché il problema della libertà di stampa è diventato, specialmente oggi, alquanto scottante.

La mia interrogazione fu presentata nello scorso agosto, vale a dire sette mesi fa. Ma ora sono intervenuti fatti nuovi, per cui è necessario che di questa libertà di stampa si parli. Fra questi fatti nuovi io non voglio citare, per esempio, una circolare che prescrive la censura sui copioni teatrali, perché anche questa circolare potrebbe essere di carattere provvisorio; ma penso che una censura oggi sulla libertà del pensiero riesce dannosa non soltanto perché ricorda tempi ormai tramontati, ma anche perché è chiaro – psicologicamente chiaro – che ogni divieto induce ad usare astuzie per raggiungere quell’intento nel campo artistico che non si può raggiungere con vie legali.

Inoltre, qualche giorno fa, in questa Assemblea è stata discussa un’interpellanza da parte dell’onorevole Grilli, il quale ha fatto una distinzione fra stampa onesta e stampa disonesta. Che la stampa disonesta debba essere punita è chiaro, ma l’onorevole Grilli – poiché lamentava che nei processi che riguardano i reati di stampa la magistratura è generalmente lenta e generosa – invocava che le punizioni dei colpevoli della stampa disonesta fossero attuate in un modo singolare, cioè impedendo che vi sia una stampa disonesta. Ora non è possibile impedire che una determinata stampa diventi in un certo determinato momento una stampa disonesta. Quindi noi pensiamo che, essendo soltanto la magistratura competente in questo campo, nella peggiore delle ipotesi il Governo provvederà a che la magistratura sia meno lenta e meno generosa e provveda a colpire chi attraverso la stampa ha dimostrato di essere disonesto.

E lo strano è questo: che alle proposte dell’onorevole Grilli si associava il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale, annunziando che la legge sulla stampa sarebbe stata rigorosa, pregava l’Assemblea di renderla ancora più rigorosa. Ora, io comprendo benissimo i sentimenti dai quali è stato mosso il Presidente del Consiglio dei Ministri, perché tutti quanti sentiamo la necessità di una stampa onesta; specialmente nella stampa noi desidereremmo che tutti attuassero un criterio di superiore moralità: ma è chiaro che per ovviare a questo inconveniente le leggi speciali sono controproducenti. La legge speciale induce sempre a cercare una via sotterranea, perché alla disonestà si giunga in maniera diversa. Del resto, la preoccupazione dell’onorevole Grilli e dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri si riferiva alla calunnia e alla diffamazione. È ben doloroso per un amministratore, per un Ministro, essere accusato di qualche cosa che egli non ha commesso; ma noi pensiamo che la legge speciale, anche in questo caso, è negativa, poiché contro le calunnie si combatte con l’onestà della vita pubblica e privata. Sono convinto che nessuno insiste sulla calunnia quando si tratta di esponenti onesti. Anzi, credo che l’unica arma per salvaguardarsi dalla calunnia e dalla diffamazione attraverso la stampa sia proprio quella della onestà della vita pubblica e privata, e quando la calunnia e la diffamazione dovessero estendersi, provvederà a questo la magistratura ordinaria.

Ad ogni modo, poiché in questi giorni è stato dato un allarme per quanto riguarda la libertà di stampa, prego il Governo di tener presente che, specialmente in questo periodo, che chiamiamo democratico, sia lasciata la massima libertà alla stampa, e che tutti i reati di stampa siano legalmente puniti con la massima severità. Ma l’importante è che si conservi sempre e soprattutto la libertà del pensiero umano.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Debbo replicare a mia volta perché non sono soddisfatto della replica dell’onorevole interrogante. Negare che attualmente esista una delle, maggiori libertà di stampa nel nostro Paese è negare la realtà. Noi abbiamo a Roma ventitré giornali politici quotidiani e nessuno di questi (almeno da otto o nove mesi, cioè da quando io sono alla Vicepresidenza del Consiglio) ha avuto, nonché il minimo disturbo, la minima osservazione. Può l’interrogante eccepirmi che, anche di recente, una qualsiasi richiesta di autorizzazione di amici dell’interrogante non abbia avuto liberamente corso e soddisfazione?

Ad ogni modo, c’è un disegno di legge sulla stampa all’esame del Consiglio dei Ministri che sarà prossimamente presentato all’Assemblea Costituente. Vedranno i colleghi delle varie parti dell’Assemblea se questo disegno di legge poteva essere ispirato a criteri di più perfetta libertà di stampa. La censura teatrale, contro cui ha parlato l’onorevole interrogante, procede con una tale prudenza, con una tale moderazione, che la Presidenza del Consiglio riceve osservazioni da destra e da sinistra perché non agisce abbastanza severamente.

Il Governo cerca di contemperare le esigenze degli uni e degli altri, le esigenze cioè della libertà di pensiero e le esigenze della opinione pubblica in materia di rispetto del buon costume e dei nuovi ordinamenti repubblicani.

Ritengo, insomma, che gli organi competenti hanno dimostrato in questo senso un criterio di moderazione che deve essere apprezzato anche dai colleghi dell’estrema destra.

L’onorevole interrogante ha polemizzato con l’onorevole Grilli. Non spetta a me rispondere su questo, ma faccio presente che nessuna legge speciale avrà ragione di prevalere di fronte alla legge sulla stampa, nel senso che questa disciplinerà questa speciale materia; e sarà una legge ispirata ai principî della libertà di propaganda del pensiero, perché sopprime il bisogno di autorizzazione, perché lascia largo limite alla polemica politica e si riferisce, per quello che è repressione dei reati, al Codice penale.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato allo svolgimento delle interrogazioni.

Seguito della discussione del disegno di legge: Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Partecipazione dell’Italia agli accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

È iscritto a parlare l’onorevole Foa. Ne ha facoltà.

FOA. Voterò, con gli amici del mio Gruppo, a favore del disegno di legge. E poiché sono anche persuaso che l’approvazione da parte di questa Assemblea non mancherà, avrei voluto rinunciare a far sentire la mia parola in questo dibattito, tanto più che sono rimasto io stesso leggermente impressionato dall’atmosfera di premura, di urgenza che, a mio giudizio, si è voluta creare attorno alla discussione di questo disegno di legge.

Ritengo, tuttavia, di non poter rinunciare alla parola e sento come un dovere di coscienza di richiamarvi ancora una volta alla responsabilità di questa Assemblea nell’atto in cui essa darà l’adesione al disegno di legge proposto dal Governo, alla responsabilità di questa Assemblea circa le conseguenze che sono implicite nell’accettazione del disegno di legge.

Il Governo aveva, a mio giudizio, la facoltà costituzionale di decidere da solo l’adesione a Bretton Woods. In quanto esso ha rimesso all’Assemblea Costituente la decisione, io non penso che il Governo abbia voluto assicurarsi una adesione plebiscitaria, più o meno arricchita da dichiarazioni di voto: credo che il Governo abbia voluto giustamente trasferire all’Assemblea Costituente la responsabilità di un atto che impegna tutta la politica futura.

Avvertiva il Governo questa responsabilità? Può darsi; però a mio giudizio esso non ne ha dato dimostrazione. La preparazione degli accordi si è svolta in un modo quasi clandestino. Delle eccellenti inchieste che il Ministero del Tesoro e il Ministero della Costituente avevano fatto sulle questioni monetarie e sui problemi del risanamento monetario non hanno avuta alcuna diffusione nel Paese. E soprattutto, a mio giudizio, è grave che il Governo, nell’atto di presentare all’Assemblea Costituente un provvedimento che implica un preciso impegno non solo di fronte all’estero, ma anche di fronte al popolo italiano, un preciso impegno di politica monetaria, di politica finanziaria, di politica economica generale, non abbia sentito il bisogno di dire una sola parola. Io comprendo che questo non è forse il momento e la sede di un ampio dibattito sulla situazione finanziaria ed economica; tuttavia il Governo aveva, a mio giudizio, il dovere di far comprendere all’Assemblea che esso avvertiva la responsabilità del fatto per il quale si chiede la nostra approvazione. Noi abbiamo sentito, invece, semplicemente accennare ai possibili e più lo meno grandi vantaggi immediati che possono derivarci dalla nostra adesione al Fondo ed alla Banca internazionale di Bretton Woods.

Ritengo, soprattutto, che in seno a questa Assemblea si debba dissipare una impressione che può essere stata data nel Paese da parte di quelle pochissime sporadiche manifestazioni di stampa, nel quasi generale disinteresse dell’opinione pubblica per questo problema. In un giornale economico del mattino dell’altro giorno ho visto enunciato questo pensiero: che non bisogna prendere sul serio l’impegno di stabilizzazione; che, in fondo, oggi si tratta di richiedere vantaggi e benefici immediati attraverso la nostra adesione al Fondo e alla Banca; ma che, in fondo, l’Assemblea Costituente dovrebbe onestamente far comprendere che questi impegni di stabilizzazione nel mondo attuale non contano più nulla.

Ora io credo che se può essere logico che a qualcuno venga in mente o interessi di svalutare gli impegni di stabilizzazione e di richiamarsi al fallimento di tutte le conferenze e di tutti i tentativi di organizzazione economica internazionale dopo l’altra guerra, credo che l’Assemblea Costituente italiana non possa accettare questo punto di vista, il quale sarebbe puramente e semplicemente una truffa. Se noi sottoscriviamo all’impegno di stabilizzazione, siamo responsabili della sua esecuzione e dobbiamo richiedere al Governo di eseguirlo con la massima serietà.

Questo è lo spirito che dovrebbe presiedere da parte dell’Assemblea Costituente nella sua approvazione agli Accordi di Bretton Woods.

Dirò subito che noi dobbiamo dare atto al Governo delle condizioni specifiche dell’accordo. Quando il Governo è andato a Bretton Woods e ha chiesto di entrare, l’alternativa era semplice: o prendere, o lasciare. Così pure non possiamo far carico al Governo di alcuni degli aspetti particolari, pur molto importanti, che sono insufficienti, a nostro giudizio, per garantirci l’esiguità della quota, la mancanza, per il momento, di nostri elementi nell’amministrazione esecutiva dell’Istituto internazionale, ecc. Sotto questo punto di vista è chiaro che il Governo non ha potuto finora fare di più di quello che ha fatto. Sarà bene, tuttavia, che l’Assemblea Costituente faccia sentire il suo stimolo, faccia sentire la sua insistenza presso i nostri uomini di Governo perché essi, quanto più rapidamente possibile, riescano a migliorare queste nostre condizioni.

Noi dobbiamo anche dare atto al Governo, in modo essenziale, di una circostanza, cioè che esso ha deliberatamente deciso di anteporre un’esperienza di stabilizzazione monetaria ad una stabilizzazione finanziaria ed economica del Paese. A nostro giudizio, questa anticipazione di una esperienza di stabilizzazione monetaria rispetto al risanamento del bilancio, che è lungi da venire, e al risanamento dell’economia e della produzione italiana, che è lungi da venire, questa anticipazione è giusta e valida ad una sola condizione, che la stabilizzazione monetaria, cioè, appaia e sia veramente uno degli elementi strettamente connessi ad un proposito costruttivo coordinato di risanamento finanziano ed economico. Perché se la stabilizzazione monetaria è nella mente dei nostri uomini di Governo ed in generale di tutti i responsabili della politica economica italiana come un provvedimento isolato, essa è destinata al fallimento.

Ha il Governo coscienza di questo? Io credo che se il Governo ne ha coscienza, ce lo deve dire nella sede più appropriata. Ma allora deve ricordarsi che questo impegno di stabilizzazione è emanato da una legge dello Stato italiano e vale perciò anche rispetto ai cittadini dello Stato italiano. E noi sappiamo che cosa comporta l’impegno di stabilizzazione, quali rischi, quali sacrifici, quali deliberate volontà. Io credo veramente che, sotto questo punto di vista, sia stato detto troppo poco da parte del Governo. Un accenno, un buon accenno, un misurato accenno di questa responsabilità noi l’abbiamo trovato soltanto nella eccellente relazione dei colleghi La Malfa e Lombardo, relatori per le Commissioni riunite. Io credo che questo accenno dovrebbe e potrebbe essere utilmente sviluppato, perché bisogna che l’Assemblea Costituente, nell’atto di decidere, mostri al Paese di conoscere le conseguenze della sua decisione e dell’impegno che assume.

In secondo luogo, dobbiamo dare atto al Governo di una circostanza fondamentale. Con questa adesione noi dichiariamo di rinunciare alla manovra monetaria nazionale e dichiariamo di volerci inserire nel quadro della cooperazione economica internazionale. Sotto questo punto di vista, però, io credo che non sia il caso oggi di fare né della retorica, né di abbandonarsi a del lirismo sul problema della cooperazione internazionale, soprattutto a due giorni di distanza dal messaggio di Truman; cioè a due giorni di distanza da un atto che ha messo in rilievo come questa cooperazione può anche avere un senso diverso da quello che noi ci auguriamo.

Tuttavia sta il fatto preciso che con il nostro provvedimento noi, Assemblea Costituente italiana, rinunciamo alla manovra monetaria nazionale. E questo, a nostro giudizio, è una cosa importante. Noi abbiamo fatto una dura, tragica esperienza di quella che è la manovra monetaria sul terreno nazionale.

Abbiamo ascoltato ed ascoltiamo con deferenza i richiami storici, l’apologia commossa che si fa del regime aureo, del paradiso perduto del secolo fra il 1814 e il 1914, e quando ci rendiamo conto lucidamente della situazione catastrofica che è susseguita colla prima guerra mondiale e dopo la prima guerra mondiale, dobbiamo aver lucida in mente questa circostanza e cioè che il sistema monetario che si è susseguito al sistema aureo era strettamente connesso ad un sistema economico che era figlio legittimo del sistema economico precedente. Non è stata la malizia degli uomini, non la volontà soggettiva di questo o quell’uomo politico, e di questo o di quel partito, che hanno determinato il passaggio dal sistema aureo al sistema delle monete manovrate in regime autarchico o semi-autarchico; è la logica situazione, è la logica conseguenza di quel regime di cui abbiamo ieri, con commozione e con deferenza, ascoltata la rievocazione da parte dell’onorevole Einaudi.

Però, questo sistema della moneta manovrata sul terreno nazionale, noi sappiamo che è un sistema fallito, è un sistema che tutte le nostre forze devono tendere a superare, e sappiamo che era connesso a precisi interessi che potevano a volte essere interessi indiscriminati di una politica imperiale e militare, che erano spesso gli interessi di quelle classi che lo sviluppo normale dell’economia aveva posto in una delicata situazione di decadenza. La manovra sul terreno nazionale salvava i profitti di quelle categorie, e, indubbiamente, non si sviluppava, a vantaggio degli interessi generali.

Anche per questa ragione specifica, cioè che lo strumento monetario di manovra nazionale aveva ed ha dimostrato di essere uno strumento di carattere privilegiato ed oligarchico, noi crediamo che debba essere risolutamente abbandonato. Ma quale è il sistema al quale noi andiamo incontro? Credo che in questa Assemblea Costituente non si debba fare della dottrina, fare della teoria sul sistema monetario, ma si debba valutare chiaramente quale può essere la conseguenza pratica alla quale il Governo italiano potrà andare incontro col fatto della sua adesione agli accordi di Bretton Woods.

Vorrei aggiungere ora una circostanza di carattere tecnico. L’onorevole Dugoni, molto opportunamente, ieri, ha posto una domanda relativa al modo come sarà pagata la quota al Fondo e alla Banca. Io credo che vi è un’altra domanda da fare: come sarà determinato il criterio di parità? È evidente che questo non è un problema che possa essere discusso in un’Assemblea politica. Questo problema spetta al Governo. Tuttavia, siccome grossissimi interessi sono coinvolti in questa questione, siccome è un problema che non può essere risolto unicamente con determinati dati statistici, attraverso la valutazione degli indici di inflazione interna o attraverso un’analisi comparativa dei costi attuali interni ed esteri, ma è un problema che coinvolge la previsione del ritmo degli incassi e delle spese di tesoreria, la previsione delle finalità dello strumento fiscale, la previsione della nostra politica commerciale, ed anche la previsione che abbiamo sentito ieri in quest’aula e sul cui contenuto io credo che qualche riserva debba essere fatta, dei possibili sconvolgimenti monetari esteri, che possono avvenire in un prossimo domani, e che avranno influenze decisive anche rispetto alla determinazione della nostra parità monetaria, questo significa che anche la questione della parità, che si può rinviare di qualche settimana o di qualche mese, ma che fatalmente dovrà venire all’ordine del giorno della politica del Governo, è una questione che implica delle previsioni, che non può essere, perciò, meccanicamente risolta, ma richiede una prospettiva chiara di azione su quello che si intende fare per il risanamento finanziario ed economico. Questo mi pare un punto decisivo, sul quale l’attenzione dell’Assemblea Costituente e l’attenzione del Governo dovrebbe essere energicamente richiamata.

Si è citata, a vantaggio del nostro Paese, una circostanza che può agevolare in un certo senso la nostra esecuzione degli Accordi, in risposta ai dubbi di coloro che suggeriscono di non porci nella difficile situazione che oggi andiamo ad assumere, perché tra qualche mese saremo costretti ad uscirne e saremo posti nella condizione di uno Stato che non mantiene fede ai suoi impegni; si è citata una garanzia di carattere statutario; e cioè la possibilità della svalutazione successiva del 10 per cento e del 20 per cento.

Ora io credo che è una questione di ordini di grandezza, e credo di non dover dire di più. La nostra esperienza monetaria, la nostra esperienza economica sa che i problemi di svalutazione che si pongono a noi hanno un ordine di grandezza, che non è quello previsto dagli statuti di Bretton Woods, ed hanno anche un ordine di grandezza che è diverso da quello possibilmente previsto per le tempeste monetarie che possono avvenire nei paesi anglosassoni.

Per questo credo che noi non possiamo dormire i nostri sonni tranquilli. Questo provvedimento ha un’importanza capitale che impegna tutte le nostre energie e, a questo proposito, vorrei dire che in questa sede non dobbiamo discutere la situazione del bilancio, né la situazione del tesoro. Però credo che si possa fare all’onorevole Ministro – sulle cui spalle grava veramente questa pesantissima responsabilità, di cui tutti ci rendiamo conto – un invito, rivolgergli un consiglio che è questo: noi crediamo che sarebbe veramente opportuno che la futura politica finanziaria e in generale la politica economica trovi modo di appoggiarsi più di quanto non abbia fatto fino ad oggi sui consensi, sulla collaborazione pratica delle forze politiche, delle associazioni economiche, della stampa, dell’opinione pubblica in generale; esca da quella clandestinità nella quale continua a trovarsi.

Si parla oggi, a ragione, del problema tragico delle spese pubbliche. Credo che nessun Ministro del tesoro, neanche Quintino Sella, o un uomo della durezza di Quintino Sella, se oggi sedesse al banco occupato dall’onorevole Campilli, potrebbe trovare l’energia di resistere a pressioni che tutti sentiamo profondamente giustificate dalle condizioni di vita del nostro Paese, quando noi sappiamo inoltre che troppo spesso, purtroppo, in altre amministrazioni, gli stessi Ministri, anziché resistere di persona a queste richieste, scaricano tutto sulle povere spalle del Ministro del tesoro; e rinviando la responsabilità alla sua persona, in un certo senso, accrescono la pressione. Ora io credo che questa questione delle spese pubbliche trovi una sua ragione profonda e giustificata e che il Ministro del tesoro con le sole sue forze e con la forza dei suoi funzionari non potrà resistere. Questo mi pare evidente. Noi potremo fare tutti gli ordini del giorno che vogliamo, tutte le pressioni che vogliamo, ma il compito è superiore alle sue forze. Quello che invece deve rendersi possibile al più presto, camminando passo passo, è un’altra cosa: i sacrifici che tutti dobbiamo affrontare, tutti i ceti sentiranno di doverli affrontare e li affronteranno se si hanno le garanzie di dove si va. Perché nelle attuali circostanze nessuno si sente in grado di poter rispondere di no a richieste che siano materialmente e moralmente giustificate, quando non si può dire: «guardate che questo sacrificio porterà un certo frutto comune domani» se lo spettacolo che ci sta di fronte si traduce invece, in realtà, in benefici per le categorie privilegiate.

Questo è il primo punto sul quale richiamo l’attenzione: se il Governo continua nell’attuale via, in questa situazione veramente di disordine, senza fare delle proposte, senza fissare una pianificazione, senza fare un appello e dare una motivazione profonda agli interessi del Paese, il Governo non può riuscire, qualunque sia la sua buona volontà. E questo argomento, mi permetto di ricordarvi, è strettamente congiunto agli impegni che ci assumiamo di fronte all’Italia e di fronte all’estero. Questo mi pare che sia veramente importante da ricordare.

Un secondo punto è questo: la gente non crede più alle promesse del Governo, non crede più ai programmi del Governo. Mi permetto di citare, a questo riguardo, un indice significativo: l’indice dell’andamento delle quotazioni del prestito redimibile. La caduta iniziale del redimibile 3.50 per cento era evidentemente dovuta, a mio giudizio, alla mancata esecuzione del cambio della moneta. L’ascesa successiva, che impegna grossissime partite di acquisti, rivela una circostanza interessante e cioè i capitali di fuga che all’atto dell’emissione non hanno sottoscritto, o hanno sottoscritto dopo per mettersi al coperto dall’imposta patrimoniale. Questo dimostra che la parola dei Governo non è più creduta, sia quando il Governo promette, sia quando il Governo minaccia. Bisogna quindi che il Governo si metta in condizioni di farsi credere.

Vi è un’altra circostanza interessante ed è la fenomenologia, la manifestazione di scivolamento della nostra valuta. Vi è oggi un fenomeno diverso da quello che avveniva prima: mentre prima vedevamo salire rapidamente il dollaro libero e successivamente i titoli industriali, assistiamo ora invece al fenomeno inverso: ciò significa che, nonostante tutti i divieti, tutti i limiti che sono stati stabiliti, nel campo industriale, la gente di affari non crede più a questi impegni; sa benissimo che il Governo può scrivere sul suo programma questo o quel provvedimento, ma non crede alla sua esecuzione. Sotto questo punto di vista, per la serietà dell’impegno, che dobbiamo assumere, nei rispetti fiscali ed economici, in generale, credo che l’adesione da parte dell’Assemblea Costituente ai Patti di Bretton Woods deve significare una svolta, un mutare strada.

Dobbiamo avere coscienza che, se approviamo gli accordi di Bretton Woods, con l’idea di continuare così come abbiamo fatto finora, noi sottoscriviamo un documento con la convinzione di non potere mantenere gli impegni.

Allo stato attuale, devo personalmente dichiarare che, se sapessi con precisione che il Governo e l’Assemblea Costituente non trovano una occasione per mutare decisamente strada, non darei la mia adesione, dovrei scindere la mia responsabilità da quella dell’Assemblea.

Credo che occorra chiarire un altro punto, senza fare della dottrina monetaria, ma prendendo sul serio queste cose.

Cosa significa il sistema di Bretton Woods, come funzionerà nei nostri confronti questo impegno di carattere internazionale, questo nuovo sistema monetario?

Credo veramente che oggi non è più il caso di porre l’alternativa: moneta manovrata o sistema aureo.

Il paradiso perduto del sistema aureo è veramente perduto. Ricordo le conferenze internazionali susseguitesi dopo la prima grande guerra, da quella di Bruxelles del 1920 a quella di Londra del 1933, attraverso quelle di Ginevra, di Stresa e dell’Aja, quelle Conferenze che si illudevano di poter riaffermare i principî del sistema aureo in confronto del protezionismo e dell’autarchia, che stava prendendo piede. Quella alternativa non esiste più.

Oggi per noi esiste un’altra alternativa: o moneta manovrata nazionale, o moneta regolata su scala supernazionale.

È chiaro anche che, nonostante le analogie che il sistema di Bretton Woods presenta rispetto al sistema aureo (che sono notevoli) i riaggiustamenti che conseguono a squilibri temporanei della bilancia dei pagamenti e la tecnica di questi riaggiustamenti prevista nello statuto del Fondo non possono basarsi su forze spontanee.

Intanto, in primo luogo, credo che le remore stabilite dallo statuto del Fondo (impegno di riscatto per la valuta eccedente, provvigioni crescenti per l’eccesso di valuta detenuto) non siano elementi sufficienti, quando lo Stato è dissestato, per poterlo fermare sulla china in cui si trova.

Credo che, anche nella ipotesi di normale funzionamento del Fondo, non possiamo più contare sulle forze spontanee di aggiustamento, per il fatto che gli elementi di rigidità, economici e sociali, nell’interno delle economie nazionali, non sono più il frutto d’un uomo o d’un partito; sono dati che si possono modificare soltanto in sede politica.

Questo per me è convincimento preciso: sono convinto che il giorno in cui vedessimo veramente funzionare il Fondo e dovessimo, per un caso di squilibrio d’una situazione debitoria nostra, riaggiustare il sistema dei prezzi nel nostro interno, per recuperare la posizione di equilibrio, non potremo affidarci alle forze spontanee e che i vecchi strumenti classici della manovra bancaria siano ormai organi insufficienti.

Quindi, anche per il normale funzionamento del Fondo, che dobbiamo auspicare, sotto questo aspetto penso che la previsione del Governo dovrebbe disporsi ad una politica di intervento, cioè disporsi veramente, nel caso in cui sorgesse la necessità, a modificare con interventi pubblici gli elementi di rigidità, che, altrimenti, farebbero saltare il sistema; se non ci si dispone, con visuale unitaria, a colmare le lacune che possono derivare da situazioni momentanee di squilibrio, ci troveremo in condizione di essere posti fuori del Fondo o di esservi ancora ammessi in una situazione incerta, in una situazione cioè già fallimentare.

Se ciò dovesse avvenire, preferirei che non dessimo la nostra adesione oggi, ma fra un anno. Credo che anche sotto l’aspetto del funzionamento normale del Fondo il Governo debba disporsi a pensare non ad una politica di automatismo, di spontaneità, ma di diretto intervento. Questa è la realtà che mi suggerisce la lettura degli accordi di Bretton Woods e delle polemiche che li hanno accompagnati nei vari paesi.

Voglio concludere con una osservazione di carattere più strettamente politico. Si dice oggi spesso che questo è il primo atto che ci pone sul piede di parità in sede internazionale, e cioè noi andiamo per la prima volta a testa alta in sede internazionale, ed assumiamo impegni di natura reciproca con gli altri Stati. Si aggiunge che ciò significa veramente che noi facciamo un primo passo verso la cooperazione internazionale. Ora io ripeto qui: non lasciamoci sedurre dalla bellezza delle parole. L’onorevole Corbino, con realismo e crudezza, ci ha dato una rappresentazione vivacissima della lotta feroce che i grandi capitalisti mondiali stanno conducendo l’uno contro l’altro, della lotta del dollaro contro la sterlina, ed egli ha fatto benissimo a richiamare su ciò la nostra attenzione. Noi dobbiamo comprendere questo richiamo alla realtà. Noi dobbiamo cioè comprendere che l’abbandono da parte nostra di una politica monetaria autonoma non significa per nulla la nostra adesione ad un sistema o di forze spontanee o di una economia regolata con criteri di giustizia. Criteri di giustizia in questa materia non esistono ancora nella realtà delle cose.

L’onorevole Corbino ci ha spiegato benissimo, e noi gliene siamo grati, la posizione di forza che all’economia ed alla politica degli Stati Uniti è fatta nel Fondo internazionale. Sotto questo riguardo dunque dobbiamo valutare il problema, soprattutto dopo il messaggio di Truman, dopo la manifestazione politica dell’altro giorno che è passata sopra le nostre teste come una ventata di tempesta, che purtroppo potrebbe anche abbattersi su di noi.

Dobbiamo tener gli occhi bene aperti. Non possiamo continuare una politica monetaria nazionale, e noi siamo quindi nettamente contrari a qualunque forma di nazionalismo economico.

Bisogna però che ci rendiamo conto che l’organizzazione economica internazionale di cui entriamo a far parte sarà ancora per lungo tempo dominata da forti gruppi particolari, ed è questo un pericolo per il nostro Paese. Perché è chiaro che se noi ci presentiamo a questa cooperazione economica internazionale nella situazione di anarchia economica feudale in cui ci troviamo, noi saremo fatalmente ridotti al rango coloniale. Ci presenteremmo, infatti, lasciando intatte le forze politiche ed economiche screditate, sempre state bisognose di protezione e fallite sul terreno politico ed economico, forze che rialzano la testa. E allora fatalmente, nei confronti dei nostri feudi economici, si svilupperebbe una politica analoga a quella che è stata la politica imperiale inglese nei riguardi dell’India, dove i principotti feudali erano sostenuti per assicurare il dominio sul Paese.

Un’altra alternativa è che l’Italia si dia un determinato ordine basato su prospettive pianificate. Allora io ritengo che i pericoli di essere asserviti si ridurrebbero notevolmente. Io credo che a queste condizioni, alle condizioni cioè che noi diciamo apertamente quale è l’ordine economico interno che ci vogliamo dare, tutti gli aiuti saranno i benvenuti e tutte le collaborazioni internazionali saranno proficue.

Quello che chiedo al Governo è moltissimo: so molto bene che qualunque uomo sieda oggi al Governo può fare invece pochissime cose. Nessuno, neppure noi che siamo all’opposizione, pretendiamo che il Governo possa fare miracoli; ma noi non chiediamo se non una modestissima cosa: che, invece di stare fermi e di fare passi indietro, si faccia qualche passo avanti. A questa sola condizione, noi crediamo che il Governo possa assumere un impegno internazionale di questa portata. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pesenti. Ne ha facoltà.

PESENTI. Onorevoli colleghi, il disegno di legge che viene presentato alla nostra discussione propone di accedere agli accordi firmati a Bretton Woods il 22 luglio 1944 per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale di ricostruzione e di sviluppo. Esso pone di fronte al problema di accettare o meno, cioè, un accordo internazionale costituito senza la nostra partecipazione. Onorevoli colleghi, riconosciamolo subito; l’alternativa è puramente teorica, perché, data la nostra posizione internazionale, politica ed economica, è da escludere qualsiasi convenienza a rifiutare l’invito ad accedere agli Accordi in parola. Non è su questo punto, quindi, che può vertere la discussione dell’Assemblea, che ha infatti dimostrato di raggiungere a questo proposito l’unanimità. Ma è invece necessario che l’Assemblea dimostri al Paese di avere piena e precisa coscienza del carattere e dell’importanza degli accordi di Bretton Woods, nel loro aspetto di strumento internazionale e della posizione che verrà ad avere il nostro Paese in seno ai nuovi organismi economici internazionali. Ha assolto l’Assemblea a questi compiti?

Dal punto di vista del gruppo che io rappresento, credo di no.

L’onorevole Corbino ha illustrato egregiamente e con precisione, come in una lezione universitaria, il funzionamento del sistema aureo, l’instabilità monetaria succeduta dopo la prima guerra mondiale e il meccanismo istituito a Bretton Woods, esaltando la cooperazione internazionale che si intende raggiungere;

È stata una descrizione esauriente, che mi libera, tra l’altro, dal dovere di ripeterla, ma che a mio parere non ha reso il vero spirito, l’origine intima e il prevedibile sviluppo degli accordi che oggi discutiamo.

E l’onorevole Einaudi, ricordando i tempi della sua gioventù, ha magnificato con immagini brillanti il mitico oro, l’età aurea, lamentandosi che il mondo poi abbia tralignato, cambiato strada e vedendo negli accordi di Bretton Woods un grande passo per avvicinarci alla vecchia via, alla normalità.

Onorevole Einaudi: posso apprezzare la sua commozione, ma è inutile prendersela col mondo perché ha cambiato strada: quello che è necessario è comprendere perché il mondo ha cambiato strada, e, se può o non può ritrovare la vecchia via. Questo è il punto su cui credo necessario dire la mia opinione.

La moneta manovrata ha avuto la scomunica del professor Einaudi come una eresia, un’aberrazione del mondo moderno.

Ma è la moneta manovrata proprio una eresia o un elemento fondamentale costitutivo del mondo capitalistico, giunto nella sua fase di decadenza definitiva? È questa la domanda che io pongo, e se la risposta è affermativa, quale significato hanno gli accordi di Bretton Woods?

Dopo la prima guerra mondiale noi abbiamo visto, infatti, venire chiaramente alla ribalta questo nuovo fenomeno che, per semplificazione, possiamo chiamare «moneta manovrata». In questo termine noi vogliamo indicare tutti quei fenomeni monetari, deliberatamente voluti, che si sono verificati nelle stabilizzazioni monetarie del primo dopo guerra, ma più ancora quelli che abbiamo visto verificarsi durante e subito dopo la grande crisi del 1931-1933, anche se nella dottrina economica il termine di moneta manovrata abbia un significato più ristretto.

Cioè, dopo un lungo periodo di stabilità monetaria durato quasi un secolo – il secolo d’oro dell’età capitalistica – noi abbiamo avuto un fenomeno nuovo, la rottura di questa stabilità: inflazioni, deflazioni, svalutazioni, monete manovrate.

Gli economisti hanno osservato, è vero, che la tanto decantata stabilità del secolo scorso, basata sulla moneta aurea, era una stabilità apparente ed hanno rilevato i mutamenti di tendenza dei prezzi in rapporto al valore dell’oro. Questo fatto, anzi, è stato particolarmente studiato ed è stata un’arma teorica in favore di coloro che hanno sostenuto l’opportunità di abbandonare la base aurea per poter compiere una politica di espansione attraverso la manovra monetaria.

Comunque, la base aurea rappresentò effettivamente una condizione di stabilità economica, sia perché i mutamenti del livello generale dei prezzi avvenivano con una certa lentezza, sia perché, dato lo sviluppo delle relazioni economiche tra i vari Stati capitalistici, data la base aurea mondiale (per paesi già sviluppati capitalisticamente), essi si riflettevano subito in tutti i paesi capitalistici che si facevano la concorrenza reciproca. Il «trend» come dicono gli anglosassoni, era unico per i prezzi mondiali ed anche nella struttura economica interna questo mutamento si rifletteva lentamente, a lunga scadenza, tra le varie categorie sociali che intervenivano nella produzione, senza provocare subitanei eccessivi spostamenti di redditi o senza esercitare una influenza particolare, cioè come causa particolare, sulla dinamica del saggio del profitto.

La guerra 1914-1918 distrugge il sistema aureo e introduce una fase di instabilità monetaria.

Mi si può dire: nella storia ciò non rappresenta una novità: ogni grande rivolgimento storico ed economico ha portato a periodi di instabilità dei prezzi: vi sono state nella storia tante svalutazioni, altri annullamenti quasi totali delle monete.

Sembra, perciò, a prima vista, non corretto considerare sotto una luce tanto diversa i fenomeni monetari che si sono verificati in seguito alla prima guerra mondiale e giusto considerarli invece come fa il professor Einaudi «aberrazioni dalla retta via»; ma, se noi esaminiamo dialetticamente i problemi e non ci fermiamo alla superficie dei fenomeni, per cui tutti sembrano uguali, ne scopriamo la diversità.

La diversità è profonda: la politica di moneta manovrata che si è iniziata dopo il 1914, apre un nuovo periodo della storia economica del sistema capitalistico, capitolo che non prevede ritorni.

Vi sono nelle instabilità monetarie del dopo guerra dei caratteri nuovi, particolari, che si legano alla specifica struttura della società capitalistica, ormai dominata dal monopolio e dal capitale finanziario; per cui un fenomeno economico che inizialmente sembra imporsi come necessità, per leggi economiche superiori e che si sono imposte in altri momenti storici, diventa uno strumento cosciente nelle mani della classe dominante, uno strumento di sfruttamento, di cui la classe dominante fa uso «regolare».

Questo ci dice la pratica e la dottrina degli ultimi anni.

La guerra mondiale del 1914-1918, causata dai contrasti dei paesi capitalistici in lotta per la conquista dei mercati, intesa, assieme alle altre misure, ad arrestare la caduta del saggio del profitto, comporta delle spese che causano un deficit finanziario. Tale deficit non può essere colmato se non con prestiti ed emissioni di carta-moneta-imposta indifferenziata, di semplicissima esazione e che grava sui lavoratori a reddito fisso, sui piccoli risparmiatori.

Questo è un fatto inevitabile, date le spese e le distruzioni della guerra, benché la diversa misura con cui si ricorre a questo strumento sia un fatto cosciente; prova ne sono le violente discussioni sulla misura da dare ai prestiti, alle imposte e infine alla carta-moneta.

Ma ad un certo momento la cosa cambia di aspetto: ciò che era inevitabile diventa cosciente; strumento di lotta di classe all’interno, strumento di lotta nei contrasti di interessi con i capitalisti paesi stranieri. E noi possiamo seguire questa seconda fase in tutta la politica di stabilizzazione monetaria nel 1924-1928, e con maggiore chiarezza negli esperimenti monetari succedutisi durante e dopo la crisi 1931-34.

Chi ha studiato le vicende della politica monetaria dei vari paesi capitalistici dopo la guerra 1914-1918, non può non essere conscio della importanza che ha rappresentato l’arma monetaria nelle mani di gruppi di interessi per spogliare ceti sociali e provocare comunque trasferimenti di ricchezze e, nella concorrenza internazionale, come arma di penetrazione. Il dumping monetario si sviluppa allora.

L’arma monetaria diventa prevalente rispetto alle altre meno efficaci e politicamente più pericolose, tenuto conto dell’accresciuto senso di classe della massa lavoratrice e della vigilanza dell’avversario straniero.

Il ritorno alla parità aurea del 1925, che rappresenta la vittoria dei money interests della potentissima City, come direbbe il Marx, di fronte agli industriali interests, risente ancora della vecchia mentalità del capitalismo regolare, per così dire, che non è ancora ben conscio dell’importanza dell’arma monetaria, benché essa sia già stata usata nel continente e studiosi come il Keynes l’abbiano illustrata (Monetary Reform, 1923).

Ma quando la situazione del capitalismo industriale inglese si rende difficile, quando la forza organizzativa della massa operaia inglese mostra con lo sciopero del 1926 che non è possibile decurtare direttamente i salari, come può avvenire, per esempio, in Italia, quando l’industria carboniera tedesca e polacca, l’industria siderurgica e tessile degli altri paesi riduce le esportazioni e i profitti del capitalismo inglese e minaccia i mercati, allora, deliberatamente, il capitalismo britannico ricorre alla svalutazione della sterlina, alla moneta manovrata, alla creazione dell’area della sterlina in cui tutti i paesi economicamente tributari subiscono l’azione del centro economico capitalistico dominante. Il rapporto Mac Millan del 1931, preceduto del resto da articoli del Keynes, del Gregory e d’altri, è significativo.

Gli effetti dimostrano chiaramente gli scopi che si volevano raggiungere. All’interno: aumento di profitti, passaggio di ricchezze da categorie sociali ad altre, diminuzione relativa dei salari; all’estero: caduta dei costi inglesi in confronto di competitori stranieri, miglioramento delle esportazioni.

Negli Stati Uniti, quando nel 1933 vi è la svalutazione, questa avviene con un preciso scopo, che viene illustrato anche nella teoria della «reflazione» (Fisher The Theory of the Debt Deflaction). Ridurre il peso dei debiti, aumentare i prezzi, cioè i profitti, creare un trasferimento di ricchezza – cioè di frutto di lavoro – da categorie sociali ad altre.

In Germania, dopo la politica inflazionistica (che si chiuse nel 1924 e che fu fatta deliberatamente dal Paese vinto per riversare i pesi della guerra sulle masse lavoratrici e della piccola borghesia, e per sottrarsi agli impegni internazionali), abbiamo, nel tempo della crisi del 1929-1934, una diversa politica monetaria. Essa corrisponde alla diversa situazione di paese debitore – che si avvantaggia del non pagamento dei debiti (moratoria e trasformatoria) e di Paese in cui la punta reazionaria del capitalismo può, prendendo il potere con il nazismo, raggiungere gli scopi ottenuti altrove mediante le svalutazioni formali, con metodi diretti, controllando i prezzi nei vari settori, agendo all’interno attraverso la politica autarchica, i piani capitalistici, mentre nei riguardi dei competitori stranieri può ricorrere all’aggressione diretta o indiretta, di cui sono esempio i contratti di clearings jugulatori verso paesi agrari fascisti dell’Europa sud-orientale.

Ad una politica simile tenta di avvicinarsi l’Italia, che però, per la minore forza economica, non può compierla conseguentemente, come fa la Germania, e nel 1936 mescola i due sistemi: la svalutazione, l’attacco diretto ai salari e la conquista diretta dei mercati.

La Francia, che possiede una composizione sociale più equilibrata, e mercati relativamente sufficienti per la sua industria, segue una via diversa nella prima stabilizzazione. Questa viene attuata sotto la guida di quell’intelligente reazionario che era il Poincaré, tenendo conto degli interessi dei produttori industriali ad un livello che sconta il «coefficiente di inflazione», cioè il normale aumento dei prezzi durante il processo produttivo in una fase inflazionistica. Ciò provoca una forte svalutazione dei debiti, ma nello stesso tempo stabilizza una situazione di fatto che altrimenti, peggiorando, sarebbe andata a danno ulteriore dei risparmiatori.

Quando con la grande crisi e l’acutizzarsi della competizione internazionale la situazione interna e internazionale muta, le forze del mur d’argent tentano la prima via: l’attacco diretto inteso a mutare i rapporti tra le categorie economiche attraverso la politica di deflazione del Gabinetto Doumergue e di Laval. Di fronte alla resistenza delle classi popolari, si apre deliberatamente la seconda fase: la svalutazione sistematica, il trasferimento di redditi e l’aggressione indiretta contro le classi popolari attraverso la politica monetaria.

Risparmio per brevità l’analisi per gli altri paesi e giungo alla conclusione: dove il capitalismo finanziario è più accentrato e, soppresse le libertà popolari, ha gettato la maschera, la moneta manovrata rimane sempre come arma, ma si attua con forme particolari, con diversi aspetti: il controllo dei prezzi, la costituzione di diverse monete nei riguardi dell’estero (marco, lira-turistica, per il cotone, per il grano, ecc., rapporti diversi nei vari clearing). In questi paesi, del resto, è più facile controllare anche direttamente il mondo economico e il mercato in particolare con altri sistemi. Si possono assicurare profitti ai monopolisti anche direttamente in danno della media e piccola industria e dei lavoratori (limitazione degli impianti industriali – piani capitalistici – soppressione delle libertà sindacali – decurtazioni di salari). Nei paesi dove ciò non è completamente possibile, perché esistono altre condizioni generali rispetto all’interno del paese ed all’estero, si ricorre più chiaramente a quella che viene in certi casi chiamata col suo vero nome di «moneta manovrata»: manovrata, cioè, per raggiungere i seguenti scopi: impedire od attenuare la caduta del saggio di profitto, rialzando i prezzi di vendita e riducendo i costi; esercitare il dumping monetario, legare mercati diversi (area della sterlina).

Un fatto è certo: dopo la prima guerra mondiale non si vuol ritornare al sistema prebellico: il gold bullion standard non esiste più. Anche il gold standard e il gold exchange standard, fase intermedia, scompare di fatto quasi ovunque con la crisi del 1931; la moneta manovrata timidamente o apertamente in forme diverse, si instaura dovunque, apertamente difesa dalle teorie «reflazioniste», dalla prosperità attraverso mezzi monetari del Fisher, del Keynes, dell’Hagek.

Che significato hanno allora, dopo questa seconda guerra mondiale, gli accordi di Bretton Woods? È forse un ripudio definitivo della moneta manovrata e il ritorno al sistema aureo? Come costruzione tecnica può essere una via intermedia, ma come fatto politico-economico è la pace dopo la guerra, è la tregua consentita, è la Società delle Nazioni del 1919 (più che O.N.U.) nel campo economico con diritto di recesso, con regole vaghe, piene di tollerate eccezioni, cioè la disciplina, l’introduzione delle regole del gioco, nella lotta monetaria.

Vi è, è vero, la parità delle monete con l’oro, seguendo nel complesso la proposta nord americana (il progetto White prevedeva la Unitas di 10 dollari di fronte al Bancor di Keynes) con la possibilità di svalutare tutte le monete di fronte all’oro, quando i due maggiori Stati capitalistici, Stati Uniti e Inghilterra, che hanno più del 10 per cento dei voti, lo credono opportuno, e ciò per evitare che una caduta dei prezzi possa essere dovuta a deficienza di oro, ma sono ammesse svalutazioni, sia pure controllate di singole monete, sono ammesse sospensioni temporanee di parità monetarie, controlli per regolare le esportazioni dei capitali (fenomeno caratteristico dell’imperialismo e via maestra attraverso la quale si è introdotta la moneta manovrata); sono ammessi in certi casi limitazioni valutarie per i normali pagamenti correnti.

E poi… poi se ne parla fra qualche anno, perché su richiesta dell’Inghilterra che si trova nelle note difficili condizioni, per cinque anni, cioè fino al 1950 è possibile e qualche volta anzi consigliato, mantenere le restrizioni dei cambi. Così, tra le pieghe dei vari articoli, si insinua la moneta manovrata.

Del resto è opportuno che sia così, che gli accordi di Bretton Woods tengano conto della realtà odierna, delle necessità del sistema capitalistico di produzione giunto a questo stadio, tenga conto della esperienza tra le due guerre.

Riuscirà questa tregua economica stabilita dagli accordi di Bretton Woods a mantenere una certa stabilità nei rapporti monetari internazionali, a regolare la lotta monetaria o gli interessi particolaristici dei singoli Stati si imporranno a tutte le norme? A questa domanda risponderà l’avvenire. È opportuno porla per metterci in guardia dall’illusione che si vada decisamente e sicuramente verso un’era di spontanea cooperazione internazionale e di sistema aureo, che non ammetta ritorni al recente passato.

In modo particolare il futuro del sistema internazionale creato a Bretton Woods dipende dai rapporti tra i due maggiori Stati capitalistici, Stati Uniti e Inghilterra. Essi hanno una posizione preminente nel Fondo. Gli Stati Uniti da soli hanno il 31 per cento dei voti. L’Inghilterra da sola il 15,1 per cento, e il 25 per cento se si computano i voti assegnati agli altri Paesi dell’impero Britannico, esclusa l’Australia e la Nuova Zelanda, che non hanno ancora ratificato gli accordi. Ora i contrasti di interessi tra i due Paesi sono notevoli ed è per questo che gli accordi di Bretton Woods derivano da un compromesso tra il piano Keynes ed il piano White. È per questo anche che su richiesta dell’Inghilterra, per i primi cinque anni è possibile mantenere le limitazioni agli scambi e al commercio monetario che si ritengono necessari per raggiungere un assestamento definitivo.

Infine è da tener conto del gruppo di quei paesi che sono già fuori degli accordi; gruppo che può arricchirsi nel futuro per eventuali recessioni. Oggi questo gruppo non è omogeneo. V’è l’Unione Sovietica, paese importante e socialista, la Svizzera, paese a moneta forte, la Spagna a moneta debole. Domani questo gruppo può essere diverso e più omogeneo.

Onorevoli colleghi, quanto abbiamo detto se serve a dare una coscienza realistica della importanza e del significato dagli accordi di Bretton Woods, riguarda scarsamente il punto fondamentale che noi oggi siamo chiamati ad esaminare: gli eventuali vantaggi o svantaggi, cioè, che la nostra adesione procura al nostro Paese. Occorre di esaminare la convenienza della nostra partecipazione agli Accordi, anche non avendo praticamente possibilità di scelta.

Gli svantaggi sono determinati dagli obblighi che ci sono imposti. Gli onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, e quanto io stesso ho detto nella parte generale, hanno constatato che l’unico obbligo consiste nel versamento della nostra quota, la quale espressa in oro è per il Fondo di 45 mila dollari e per la Banca di 36 milioni. All’atto del deposito dello strumento dobbiamo pagare 1’1 per cento della nostra quota, cioè 1,8 milioni di dollari. Per quanto riguarda gli altri problemi, possiamo mantenere la regolamentazione dei cambi, dato che siamo Paese già occupato dal nemico; non è necessario che fissiamo subito una parità della nostra moneta e in particolare una parità con carattere abbastanza definitivo.

A questo riguardo, alcuni onorevoli colleghi hanno colto l’occasione per accennare alla politica monetaria e finanziaria del Governo e al problema di una eventuale stabilizzazione. Io credo che non sia questo il momento opportuno di discuterne, per quanto siano state molto giuste in proposito le osservazioni che ha fatto or ora l’onorevole Foa sugli obblighi che assumiamo di preparare la stabilizzazione. Certo il Governo non potrà compiere un atto così importante senza il parere di quest’Assemblea e in quell’occasione sarà da esaminare a fondo l’importante problema. A mio parere, comunque, non esistono oggi le condizioni per una seria stabilizzazione.

Obblighi, quindi, veri e propri immediati non ci sono, tranne quelli derivanti dalla partecipazione ad accordi che limitano la sovranità di tutti i partecipanti. Certo la nostra posizione in seno al sistema non corrisponde alla nostra importanza economica.

Per quanto Stati Uniti e Inghilterra da soli abbiano il dominio dei due Istituti, sicché anche un sindacato degli altri partecipanti non prevarrebbe, la posizione relativa dei membri ha sempre importanza, in particolare se si tiene conto anche dei Paesi fuori dell’accordo. All’epoca della formazione degli accordi fra le due tesi, quella sostenuta dal Keynes perché corrispondente agli interessi inglesi (che, per determinare il peso dei Paesi nella nuova organizzazione internazionale, intendeva basarsi sul volume degli scambi internazionali) e quella americana (White) che si basava principalmente sul volume delle riserve del reddito nazionale e delle fluttuazioni del commercio estero, è prevalsa nel complesso la tesi americana. La nostra quota di 180 è comunque inferiore al nostro peso economico (se pur inferiore alle nostre riserve!) e dovrebbe essere di almeno 300.

Quali sono i vantaggi che ci procura la nostra partecipazione?

Evidentemente il progressivo inserimento della nostra economia nell’economia mondiale è già un vantaggio, benché non sia misurabile e ciò ci imponga un serio esame di tutta la nostra organizzazione economica e possa anche porci di fronte a dure conseguenze.

Più concreti sono invece i vantaggi che gli accordi stabiliscono per gli aderenti. Il Fondo agisce come un serbatoio di divise per far fronte a temporanei sbilanci monetari.

È possibile acquistare divise pregiate (come dollari) contro moneta nazionale per una somma pari alla quota da versare: cioè, nel nostro caso, 45 milioni di dollari. Ciò in un anno e per 4 anni di seguito fino a raggiungere il 200 per cento della quota riservata al nostro Paese, cioè 180 milioni.

Se si confronta questa cifra col deficit della nostra bilancia di pagamento che si aggira, secondo i calcoli più recenti, fra i 6 e 700 milioni di dollari all’anno, si comprende l’esiguità del vantaggio.

La Banca internazionale può fare 1600 milioni di dollari di prestito diretti ed 8 miliardi di garanzie. Ma non c’è solo l’Italia a chiedere. Purtroppo ora il nostro Paese non è quello che offre le maggiori garanzie di buon investimento.

Onorevoli colleghi, l’impostazione realistica, salvo le divergenze di interpretazione che è stata data a questa discussione nei vari settori di questa Assemblea, è di buon auspicio.

Il popolo italiano, affronta la sua strada per la ricostruzione ed il progresso economico e sociale senza false illusioni, esaminando e prendendo coscienza della realtà.

Con queste premesse anche noi, gruppo comunista, riteniamo opportuno per il nostro Paese aderire agli accordi di Bretton Woods. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Marinaro. Ne ha facoltà.

MARINARO. Dopo quanto è stato detto dagli onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, mi limiterò a fare alcune brevi considerazioni, che, se non si trattasse di una legge tecnica, costituirebbero una semplice dichiarazione di voto.

Il disegno di legge in esame adombra due preoccupazioni: la prima concerne l’esiguità della quota assegnata all’Italia – 180 milioni di dollari – tanto più esigua se si pensi che uno dei mezzi principali per riequilibrare la nostra economia, cioè per adeguare quello di cui disponiamo con quello di cui abbiamo bisogno, è lo sviluppo del commercio con l’estero.

L’Italia è un superbo cantiere di lavoro, in potenza, avente una forza che gli altri Paesi ci possono invidiare. In realtà, uno dei problemi più urgenti che si impongono in Paesi come l’Inghilterra, la Svizzera e la Francia, è la scarsità di mano d’opera che, invece, in Italia abbonda. E se la nostra mano d’opera, con l’afflusso di capitali stranieri, potesse essere adibita a produrre non solo i beni indispensabili all’interno, ma anche molti beni e servizi indispensabili ad altri Paesi, il problema economico e sociale italiano potrebbe rapidamente avviarsi ad una felice soluzione.

Perciò l’approvazione al disegno di legge non può esser data se non coll’augurio che la quota di partecipazione dell’Italia venga sollecitamente riveduta, con maggiore aderenza alla realtà, della nostra situazione e dei suoi immediati sviluppi.

La seconda preoccupazione è stata ieri indicata dall’onorevole Dugoni, che ha voluto sottolineare le difficoltà di una dichiarazione di parità monetaria per quanto concerne la nostra lira.

Sono d’accordo con i relatori, onorevoli La Malfa e Lombardo, circa la necessità per l’Italia di mantenere talune restrizioni nei pagamenti e nei trasferimenti relativi ad operazioni internazionali e circa l’opportunità di tornare al più presto ad un regime di libertà dei cambi, con la consapevolezza delle nostre direttive politiche e soprattutto con i magnifici sforzi del nostro popolo, dedito al lavoro.

Tuttavia, fin da ora dovrebbe essere chiaro il proposito che al momento della dichiarazione di parità, non si cada nell’errore così funesto, verificatosi nel passato, di attribuire alla lira un contenuto aureo non rispondente a quello che tutte le condizioni del mercato sembrano determinare. Dovrà, invece, ricercarsi un contenuto aureo che permetta facile sbocco a tutte le nostre esportazioni.

Solo in questo modo, anche se i risparmiatori possano apparire sacrificati, si può mettere decisamente in moto il meccanismo riequilibratore dell’economia del Paese, vale a dire, nel nostro caso, l’intensificata corrente di scambi con l’estero. Diversamente, anche nella generosa illusione di salvare una parte del reddito e del risparmio, si finirebbe con il nuocere ad essi, bloccando le esportazioni.

Poiché una cosa è certa, e mi sembra non sia stata fin qui accennata dagli onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, questa: che gli accordi di Bretton Woods costituiscono uno degli aspetti del problema del riequilibramento delle economie dei Paesi devastati dalla guerra, l’aspetto cioè monetario. Ma l’efficienza degli accordi stessi sarà tanto maggiore, quanto più altri organismi internazionali riusciranno a consentire il libero giuoco delle importazioni e delle esportazioni, il vero e solo meccanismo capace di riequilibrare le economie dei paesi, il vero e solo meccanismo che può permettere ai vari paesi una durevole stabilità monetaria.

Da un punto di vista tecnico gli accordi di Bretton Woods rappresentano soltanto uno sforzo di amplificazione del sistema dei fondi di stabilizzazione; ma sono anch’essi, come questi fondi, destinati a svolgere azione limitativa se non vengono integrati da altri accordi internazionali, che provvedano a consentire una maggiore intensità di traffici fra paesi ricchi e paesi poveri.

Oserei dire che la portata degli accordi in discussione, almeno per il momento, è più morale e politica, in quanto tende a stringere tutti gli Stati in un poderoso intento di collaborazione internazionale.

In questo intento l’Italia non può essere seconda ad alcun paese, purché abbia ben chiare davanti a sé le vie da battere per una reinserzione della propria economia nella vita internazionale, non solo sotto l’aspetto monetario, ma altresì sotto l’aspetto sostanziale di mettere i risultati fecondi del proprio lavoro a servizio anche degli altri paesi, con le proprie esportazioni. Con questo intento e con questa speranza noi daremo la nostra approvazione al disegno di legge in esame. (Applausi).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale, riservando la parola al Relatore e al Governo.

Ha facoltà di parlare l’onorevole La Malfa, Relatore.

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, desidero ringraziare, a nome delle Commissioni dei Trattati e delle Finanze e Tesoro, tutti gli onorevoli colleghi, che hanno parlato prima di me, per le dotte argomentazioni, con le quali hanno accompagnato la loro adesione agli accordi di Bretton Woods.

Devo dire che è stato di particolare interesse per me il dibattito di principio, che, dalla seduta di ieri a quella di oggi, ha avuto luogo nell’Assemblea.

Ieri, attraverso il discorso dell’onorevole Corbino e soprattutto attraverso la commossa rievocazione dell’età dell’oro dell’insigne collega e maestro, onorevole Einaudi, abbiamo sentito l’esaltazione del liberismo. Con i discorsi degli onorevoli Treves e Dugoni, col discorso odierno, notevole, del collega ed amico Foa, col discorso infine dell’onorevole Pesenti, noi abbiamo visto svilupparsi, nei vari gradi di pensiero, le posizioni opposte, fino, dico, al discorso dell’onorevole Pesenti, che ha significato una manifestazione della più pura ortodossia marxista sul terreno monetario.

Non vorrei entrare molto nei presupposti ideologici di questo dibattito, e mi tengo piuttosto alla esposizione obiettiva che, nonostante le sue simpatie liberiste, ha fatto il collega Corbino. Il quale, secondo me, col suo brillante discorso, ha dato all’Assemblea una precisa, sebbene rapida idea, del cosiddetto dramma monetario (sotto la vita monetaria c’è la vita economica e sociale del mondo) che turba l’umanità dall’età dell’oro dell’onorevole e amico Einaudi all’età molto disgraziata di questo dopo guerra.

Dal discorso dell’onorevole Corbino abbiamo visto anzitutto prendere rilievo la cosiddetta età dell’oro, l’epoca della maggiore delicatezza e sensibilità dello strumento monetario, dello strumento economico.

Abbiamo visto, attraverso la sua arte oratoria notevole, delinearsi il mercato prima del 1914, quale esso era nei suoi valori, di benessere, di ricchezza, di pace per l’umanità.

L’onorevole Einaudi, che ha esaltato da par suo quest’epoca, ha detto che gli uomini hanno voluto guardare dentro questo sistema di orologeria, come i fanciulli che si dilettano a guardar dentro il congegno, e l’hanno sfasciato. No, mi permetta l’onorevole collega, questo strumento non è stato sfasciato da uomini che si sono dilettati a guardarvi dentro, da bambini desiderosi di avventure, ma da due grandi catastrofi mondiali, che, esse stesse, appartengono alla storia del mondo, alla seria e drammatica storia del mondo.

L’onorevole Corbino ha poi trattato della seconda fase, che va dal primo al secondo dopoguerra, e ci ha parlato della svalutazione della sterlina (di quella sterlina che ha tentato di riprendere la posizione di moneta del mondo che aveva prima della guerra), della svalutazione del dollaro e della serie di gravi problemi monetari connessi.

Su questo secondo tratto io non avrei nulla da aggiungere. Chi, come me, ha vissuto come studioso questo tormento dei cambi multipli dei vari tipi di marco, dei vari tipi di lira, della lira turistica, della lira cotone, della lira lana e così via, si è trovato di fronte ad un congegno spaventoso e diabolico, dal quale ha sempre sperato di poter uscire un giorno o l’altro.

La sola cosa che vorrei. osservare all’onorevole Corbino su questo argomento è che egli ha attribuito al riguardo una responsabilità troppo forte alla Francia.

CORBINO. È stata la prima a cominciare.

LA MALFA, Relatore. La Francia ha molte e gravi responsabilità nel mondo, ma non questa. Se non ricordo male, i sistemi di clearing, di cambi multipli, ecc., sono nati prima nei paesi danubiani e balcanici e sudamericani, e poi altrove. Ma questo non ha importanza, e può interessare solo i tecnici.

Veniamo piuttosto alla terza fase. Attraverso il discorso dell’onorevole Corbino abbiamo rivissuto, sia pure fugacemente, prima l’età dell’oro, poi il ritorno all’età della pietra, e infine, dopo la seconda catastrofe mondiale, questo tentativo di uscire dalle difficoltà, di riprendere una strada, che è Bretton Woods.

Dicevo, non voglio entrare nella disputa ideologica tra liberismo e marxismo, ma questa terza fase che si apre con Bretton Woods che valore ha? Questo è, in fondo, il problema che sta dinanzi a noi.

Bretton Woods, come risultato di molti studi, come risultato di molte proposte, di molti piani, del contributo di molti uomini d’ingegno, rappresenta un punto di partenza. Che valore ha questo punto di partenza? Certamente non dobbiamo dimenticare che, a scopo ultimo, a punto finale di questi accordi, c’è l’ambizione di restituire all’umanità la libertà – la libertà di commercio, la libertà di movimento, la libertà di trasferimento di capitali e di uomini – e, con queste libertà, che sono il fondamento stesso della stabilità e dell’ordine monetari del mondo, restaurare tale stabilità e tale ordine.

Questo è Bretton Woods; Bretton Woods è questa mèta, è la mèta di una libertà per il mondo, della libertà economica che ne coinvolge molte altre: quella cioè che i lavoratori vadano dove c’è il lavoro, quella che i capitali vadano dove c’è la possibilità di investimento produttivo, quella che tutto si muova come si muoveva nell’età dell’oro.

Ma se questa è la mèta ultima, a mio giudizio Bretton Woods rappresenta un’altra cosa. Che cosa rappresenta? Ecco il punto in cui ci possiamo avvicinare e insieme distaccarci dagli onorevoli Einaudi e Corbino. Che cosa rappresenta, dunque? Questo: che l’esperienza ha detto ai popoli, ai Paesi, ai governanti, che bisogna sapere dove si va. Non è vero che la spontaneità possa regolare ancora le faccende di questo mondo, perché, se questa spontaneità è venuta meno per un fatto della storia e non già perché gli uomini vi abbiano voluto guardar dentro, ciò vuol dire che anche questa spontaneità rappresenta un’epoca finita, un’esperienza superata.

Mi ricordo che, nel discorso da me pronunciato, in occasione della cosiddetta crisi Cordino – torniamo sempre a queste posizioni – io dicevo: badate che la disputa che noi facciamo tra libertà e intervento è, a mio giudizio, una disputa astratta. Il fatto nuovo è questo per i governanti: il dovere di conoscere le vie attraverso le quali, e in regime di libertà economica e in regime di intervento, si realizzino determinati fini per la società.

Bretton Woods vuol dire, dunque, che noi dobbiamo conoscere innanzi tutto come i popoli si muovono per ricostruire la loro economia, quali sono le condizioni reali in cui essi vivono, che cosa bisogna fare per orientarli ad uscire dalla miseria e dalle ristrettezze economiche di questo dopoguerra.

Solo attraverso questa conoscenza noi possiamo avviare l’umanità ad un sistema di vita che io chiamerei razionale. Siamo al di qua della discussione sulla libertà o sull’intervento in materia di economia; siamo al punto che oggi qualsiasi governo, qualsiasi Stato, qualsiasi popolo e qualsiasi collettività devono conoscere la sostanza dei problemi e il significalo che i problemi stessi hanno per la vita collettiva. Senza questa conoscenza, i popoli vanno verso la libertà o verso i monopoli e gli interventi nel buio, e vanno quindi verso il disastro.

Vorrei proprio fissare questo punto; e lo fisserei anche fino a dire all’onorevole Einaudi che non si tratta nel sistema di Bretton Woods di limitare le sovranità. No! Quando questo congegno, che è il Fondo monetario e la Banca internazionale si occupano dei problemi dei Paesi aderenti, si occuperanno anche dei problemi dei Paesi non aderenti, state sicuri. E se si autolimitano come Paesi, si autolimitano nel senso che ciascuno di questi Paesi che partecipa al Fondo e alla Banca deve tener conto delle condizioni in cui stanno tutti gli altri Paesi, e tutti gli altri Paesi devono tener conto delle condizioni in cui sta quel determinato Paese.

Perciò, quando i nostri rappresentanti saranno nel fondo o nella Banca, avranno la responsabilità di presentare a queste due grandi istituzioni la situazione del nostro Paese, e presentarla su un piano di reale conoscenza e di serietà; ma avranno altresì il diritto di giudicare la situazione degli altri Paesi in condizioni di perfetta parità. Se vogliamo chiamare questa una limitazione di sovranità – forse non si tratta ancora di sovranità – chiamiamola pure; ma non si tratta che di una collaborazione in cui ciascuno mette la conoscenza e la responsabilità delle cose che più direttamente conosce, ed ha diritto di vedere anche chiaramente nelle faccende altrui. E in questo senso do ragione all’amico Foa quando parla di rinunzia alla manovra monetaria nazionale. Non nel senso che non esistano problemi di manovra monetaria per ogni Paese, ma nel senso che questa non sarà mai una manovra che ciascun Paese farà in maniera anarchica e, direi, trascurando gli interessi di tutti gli altri Paesi, ma una manovra che sarà sempre inquadrata in quello che è un organismo di responsabilità internazionale.

Non entro nel giudizio di chi comanda o comanderà in questi grandi organismi. Debbo esprimere personalmente il mio rincrescimento – e credo che tutta l’Assemblea debba esprimere il suo disappunto – che in questo consesso non ci sia un grande Stato a cui la civiltà del mondo deve molto: l’Unione Sovietica.

Nella relazione noi, quasi a toglierci da una specie di cruccioò, abbiamo trovato, se volete, un sollievo, osservando che, a Bretton Woods, ci sono Paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, che in definitiva sono in una situazione, se volete, di maggiore responsabilità nei riguardi dell’Unione sovietica. Il che vuol dire che, almeno da un punto di vista politico, noi non facciamo nulla che alteri la nostra posizione politica e il dovere di essere obiettivi.

Tuttavia non possiamo nasconderci il fatto che nei consensi di Bretton Woods dominano le grandi potenze finanziarie. Ma anche in questa Assemblea, noi, che facciamo parte delle piccole potenze, sentiamo la presenza delle grandi potenze. Questa è la vita del mondo, ed in definitiva devo dare atto che il sistema delle grandi potenze, dà in questa Assemblea a noi sufficiente libertà di movimento per difendere la nostra posizione. Così, entrando a Bretton Woods, credo che anche lì potremo trovare una situazione di piena dignità e di piena indipendenza per noi. E d’altra parte, se dovessi esprimere un augurio, è appunto che i conflitti di cui si è parlato in questa Assemblea (e l’onorevole Corbino ne ha parlato brillantemente) i conflitti fra le due maggiori potenze finanziarie del mondo siano risolti nel seno delle due grandi istituzioni internazionali.

Non è nulla di male per noi se i problemi esistono. Esiste, per esempio, il problema del grande indebitamento in valute dell’Inghilterra e così pure il problema del rapporto fra sterlina e dollaro, esiste a tal punto che questo problema (mi permetta il Ministro del tesoro se faccio una indiscrezione a questo riguardo) pesa un po’ troppo sul nostro stremato Paese. Siamo al punto che questa povera Italia, che ha tante cose edi cui occuparsi, è costretta ad occuparsi anche del rapporto fra dollari e sterline. È bene che questo problema sia affrontato, se sarà affrontato, a Bretton Woods, poiché ciò rappresenta una garanzia per noi. E, magari, il Fondo monetario ci desse una indicazione, in un problema che è delicato per la nostra politica e si presenta superiore alle nostre forze. Avremo tutto da guadagnarci.

D’altra parte in uno dei progetti, in quello Keynes, mi pare, c’era una disposizione che riguardava la liquidazione dell’indebitamento di guerra, che è spaventoso ed enorme; nel progetto Keynes, cioè, si cercava, attraverso una ratizzazione, facendo assorbire l’indebitamento del Fondo monetario, di non fare pesare sulle sorti monetarie del mondo una questione, la cui liquidazione sarà uno dei più gravi grattacapi della vita monetaria internazionale di questo dopoguerra.

Quindi, anche su questo punto, non vi debbono essere preoccupazioni. Assisteremo al grande conflitto tra i colossi in quella sede, ed è bene, del resto, che i grandi conflitti si affrontino in una conferenza a quattro o a cinque. Peggio sarebbe se invece di tenere conferenze, si preparassero le armi.

Passando ad altro aspetto della questione, quei colleghi che hanno osservato che i mezzi del Fondo monetario e della Banca internazionale sono relativamente modesti, hanno ragione. Effettivamente, i mezzi di cui il Fondo e la Banca si possono servire per questa grande opera non sono molto vistosi, molto ingenti, sono piuttosto limitati. Tuttavia io credo che dobbiamo avere più fiducia in un punto di partenza limitato e tecnicamente ben definito, che non in una imponente creazione, esistente solo in astratto. Si tratterà di vedere se, nel corso del funzionamento, si troverà modo di adeguare i mezzi all’ordine dei problemi e delle necessità che si pongono.         

Adesione dell’Italia. Qui è sorto un problema fondamentale, e cioè: il momento scelto per l’adesione è un momento felice, o no? Questo naturalmente si riduce, in concreto, a stabilire se noi siamo in grado di fissare una parità. Siccome l’adesione al Fondo ci pone questo problema specifico, siamo oggi nelle condizioni economiche e finanziarie, monetarie, di rapporti di prezzi e costi, tali che possiamo fissare la nostra parità, oppure no?

Vorrei premettere ai colleghi che dei Paesi che aderiscono al Fondo – e sono 39 (43 tenendo conto dell’Italia e dei nuovissimi) – alla data del 18 dicembre 1946, in cui fu fatta la prima tabella delle parità, avevano denunziato la parità solo 32 Paesi. Cioè 7 Paesi, pur aderendo al Fondo, si sono riservati, in base alle norme del Fondo stesso, la facoltà di fissare la parità un po’ più tardi. Questo vuol dire che anche noi potremo prendere, su questo grave problema, il tempo necessario.

Ma il problema vero della parità quale è? È quello cui si riferiva particolarmente l’amico Foa: nel momento in cui sceglieremo la parità, dobbiamo avere una precisa idea della nostra reale situazione economica e finanziaria e stabilire se la situazione economica e finanziaria sostenga la parità scelta.

Occorre naturalmente risolvere alcune questioni pregiudiziali, prima che la parità sia fissata la questione del bilancio dello Stato, quella dei cambi e delle valute. Noi abbiamo un sistema di cambi multipli; dobbiamo stabilire se mantenere questo sistema o passare al sistema del cambio unico.

Le Commissioni dei Trattati e delle Finanza e Tesoro hanno discusso ampiamente questi aspetti, in presenza e con la partecipazione dello stesso Ministro del tesoro. Esse hanno concluso tuttavia che la fissazione della parità, e quindi la determinazione di una nostra politica prima della fissazione della parità stessa, non potesse essere una pregiudiziale all’adesione agli accordi di Bretton Woods. Le Commissioni hanno ritenuto che questo fosse un problema di politica economica interna, che dovesse essere discusso in opportuna sede, e, d’accordo col Ministro, hanno nominato un Comitato che su questo punto prenderà precisi accordi col Governo.

L’Assemblea Costituente può essere pertanto sicura che il Governo non assumerà impegni su questo terreno se non dopo avere consultato il Comitato, e quindi le Commissioni delle quali il Comitato è emanazione.

La scarsità del tempo e l’urgenza della votazione non mi consentono di dilungarmi più oltre. Tuttavia, è necessario che io dica che, a partire dal momento in cui aderiamo a Bretton Woods, la nostra politica economica e finanziaria deve avere una direzione e uno scopo. Muovo un appunto al Governo di non avere determinato da tempo questa direzione e di non avere costretto la situazione economica e finanziaria italiana entro i necessari binari. Ma anche di questo avremo occasione di discutere.

Mi pare, con quel poco che ho detto, di aver chiarito molti dei dubbi che potevano essere negli onorevoli colleghi. Da un punto di vista ancora più strettamente tecnico, vorrei dire all’amico Dugoni che non vedo nessun pericolo nel fatto che la Banca d’Italia si dovrà impegnare a versare un forte ammontare di moneta nazionale al Fondo. Anzitutto si tratta di un’apertura di conto e poi la stessa Banca d’Italia potrà fare questa apertura nella forma più conveniente. Potrà accreditare, ad esempio, buoni infruttiferi.

Concludo, onorevoli colleghi, dicendo che senza farsi nessuna illusione, la ricostruzione economica e finanziaria del nostro Paese dipende in grandissima misura dal nostro lavoro e dal nostro senso di responsabilità; tuttavia l’Italia darà prova di grande maturità politica e di grande senso di responsabilità aderendo pienamente agli accordi di Bretton Woods. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze e del tesoro.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. La relazione delle Commissioni e la partecipazione alla discussione di colleghi insigni per prestigio e competenza esonerano il Governo dall’aggiungere altre dichiarazioni a quanto è già stato esposto nella relazione che illustra il disegno di legge e più ancora a quanto è stato messo in luce nell’ampio dibattito che su è svolto in questa Assemblea.

Con l’adesione agli accordi di Bretton Woods l’Italia assume l’obbligo di adeguare la sua politica economico-finanziaria alla linea direttiva degli istituti che da quegli accordi sono contemplati. E poiché l’adesione ha avuto come premessa un atto di formale ammissione, occorre sottolineare – pur senza sopravalutarlo – il significato di questo atto che è il primo riconoscimento – come ha osservato l’onorevole Corbino – del contributo che l’Italia può portare – su un piano di assoluta parità – alla riorganizzazione economica mondiale.

L’epoca del mito aureo – ha detto l’onorevole Einaudi – si è chiusa con la guerra del 1914. L’esperienza successiva poggiata sulle monete manovrate, sulle cinture doganali, sulle esasperazioni autarchiche, ha sconvolto l’economia mondiale, approfondendo tra Paese e Paese i fossati che dovevano invece essere colmati.

La guerra ha posto in tragica evidenza come sia vano per ogni Paese alzare delle cinture di sicurezza per difendere il proprio benessere o la propria prosperità in mezzo ad un mondo immiserito ed agitato.

L’interdipendenza delle economie è una realtà che si impone, così come la collaborazione fra i popoli è una esigenza insopprimibile.

Bretton Woods ha creato due istituti che questa collaborazione vogliono rendere operativa.

Si è parlato di una inadeguatezza dei mezzi di cui il Fondo monetario e la Banca della Ricostruzione dispongono in rapporto ai fini che vogliono raggiungere. È esatto. Ma è stato anche osservato che il poco è meglio del niente e che ogni sforzo va compiuto perché questo tentativo di una cooperazione sul piano monetario ed economico si affermi e riesca.

Illusioni non ce ne facciamo, né intendiamo diffonderne né, tanto meno, vediamo negli istituti di Bretton Woods delle provvidenze che ci sollevano dai nostri compiti e dalle nostre responsabilità.

La prima delle nostre responsabilità sarà quella di denunciare una quota di cambio e di fare ogni sforzo per mantenerla. È ovvio però che la denuncia di una quota di cambio non è un atto formale e che la sua stabilità non è legata alla forza di un decreto-legge.

Dobbiamo essere persuasi che nessuna parità monetaria potrà essere mantenuta senza una politica economica che indirizzi produttivamente le nostre risorse, senza un bilancio assestato, senza una produzione che regga, per costi economici, alla concorrenza internazionale, senza una bilancia dei pagamenti che tenda all’equilibrio, e senza quelle condizioni ambientali che consentano ad altri Paesi di offrirci quel concorso che è anche nel loro interesse non lesinare, ma che è nostro obbligo meritare.

E questo è un impegno che vale per il Governo come per il Paese.

La collaborazione internazionale – che noi auguriamo vasta, senza esclusioni e senza contrapposizioni di aree monetarie, di blocchi o zone di influenza – è essenziale per la ripresa economica e per la pace del mondo. Ma premessa di questa collaborazione è l’intesa, la solidarietà, nell’ambito nazionale, di tutte le classi e di tutte le categorie.

Ciascuno deve dare il concorso del proprio sforzo e del proprio sacrificio. Prossimi provvedimenti daranno la misura dello sforzo e del sacrificio che, specie le classi più abbienti, sono chiamate a compiere perché l’Italia possa negli Istituti e nei Consessi internazionali parlare con l’autorevolezza di chi sa di aver compiuto, fino al limite delle sue possibilità, tutto intero il proprio dovere. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Si passa alla discussione degli articoli.

Do lettura dei primi due articoli per i quali, oltre che per il titolo, sono stati proposti emendamenti:

Art. 1.

Il Governo della Repubblica italiana è autorizzato ad accettare integralmente i termini e le condizioni stabilite dai Consigli dei Governatori del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo per l’ammissione dell’Italia nei due predetti Istituti. (Allegati 1 e 2).

Art. 2.

Gli accordi sulla costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca per la ricostruzione e lo sviluppo, firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944 dai rappresentanti delle Nazioni Unite, sono accettati ed il Governo della Repubblica italiana è autorizzato a firmare la copia originale degli Accordi, tenuta negli archivi del Governo degli Stati Uniti d’America. (Allegati 3 e 4).

L’onorevole Perassi unitamente agli onorevoli Camangi, Cianca, Azzi, Della Seta, Conti, Einaudi, Foa, Cevolotto, Carboni, Lami Starnuti, Treves, ha presentato i seguenti emendamenti:

All’attuale titolo del disegno di legge sostituire il seguente:

«Partecipazione dell’Italia agli Accordi sulla costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo».

Sostituire l’articolo 1 con il seguente:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato ad accettare di divenire membro del Fondo monetano internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo alle modalità e condizioni stabilite nelle annesse deliberazioni del Consiglio dei Governatori dei due predetti Istituti. (Allegati 1 e 2).

Sostituire l’articolo 2 con il seguente:

«Gli Accordi sulla costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo sono approvati». (Allegati 3 e 4).

L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgerli.

PERASSI. Onorevoli colleghi, la discussione generale è stata così ampia che ha messo in luce tutti gli aspetti tecnici, economici e storici degli accordi che ci sono stati presentati. Mi limito soltanto a dire che il gruppo parlamentare repubblicano aderisce alle conclusioni a cui è arrivata l’Assemblea attraverso le dichiarazioni dei suoi diversi oratori. L’adesione ai due accordi costituisce una notevole riaffermazione dell’Italia nel campo della cooperazione internazionale.

Chiusa la discussione generale, si passa ora all’esame del disegno di legge, cioè dell’atto interno che si rende necessario ai fini dell’adesione dell’Italia ai due accordi internazionali. Ora, la formulazione del disegno di legge, mi sembra che esiga qualche ritocco, che è concretato negli emendamenti, che ho presentato con altri colleghi.

Un primo emendamento riguarda il titolo del disegno di legge, ed è motivato dal rilievo che l’espressione «accordi firmati, a Bretton Woods il 24 luglio 1944» non è esatta. I cosiddetti accordi di Bretton Woods sono stati bensì elaborati nel corso di una Conferenza temutasi in quella città americana, ma gli atti formali concernenti la costituzione del Fondo monetario e della Banca internazionale risultano fatti a Washington, come si legge nei testi allegati al disegno di legge.

Gli altri emendamenti sono intesi a dare una formulazione tecnicamente più appropriata agli articoli 1 e 2 del disegno di legge, avuto riguardo ai fini di questo atto legislativo, che ha il duplice scopo, quello di autorizzare il Governo a procedere agli atti necessari per perfezionare l’adesione ai due accordi internazionali e quello di adattare il diritto interno italiano alle esigenze derivanti dagli obblighi internazionali risultanti dai due accordi.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo se accetta gli emendamenti.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Il Governo li accetta, come pure accetta il testo proposto dalla Commissione per gli articoli 3 e 4.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

BONOMI IVANOE, Presidente della Commissione per i trattati internazionali. La Commissione accetta gli emendamenti.

PRESIDENTE. Pongo ai voti gli emendamenti accettati dal Governo e dalla Commissione.

(Sono approvati così modificati, il titolo del disegno di legge e gli articoli 1 e 2).

Pongo ai voti l’articolo 3 nel testo proposto dalla Commissione, accettato dal Governo:

«Il Ministro per le finanze e il tesoro, di concerto con il Ministro per il commercio con l’estero, è incaricato della esecuzione della presente legge e dei rapporti da mantenere con le Amministrazioni del Fondo e della Banca e può delegare alla Banca d’Italia i compiti inerenti all’intervento dell’Italia nell’Amministrazione dei due predetti Istituti».

(È approvato).

Pongo ai voti l’articolo 4, nel testo proposto dalla Commissione, accettato dal Governo.

«Il Ministro per le finanze e il tesoro è altresì autorizzato ad adottare i provvedimenti di carattere finanziario richiesti dalla applicazione degli Accordi, e ad apportare le variazioni di bilancio all’uopo necessarie».

(È approvato).

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la votazione segreta sul disegno di legge ora approvato.

(Segue la votazione).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Alberti – Aldisio – Amadei – Ambrosini – Andreotti – Angelucci – Arata – Arcaini – Assennato – Avanzini – Ayroldi.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bargagna – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bocconi – Bolognesi – Bonino – Bonomi Ivanoe – Bordon – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Camangi – Candela – Canevari – Caporali – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Carbonari – Carboni – Caroleo – Carratelli – Cartia – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cingolani Mario – Clerici – Codacci Pisanelli – Codignola – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Corsini – Costa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Gloria – Dominedò – Dozza – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fanfani – Fantoni – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Fioritto – Firrao – Foa – Fornara – Froggio – Fuschini.

Galioto – Gasparotto – Gatta – Ghidini – Giacchero – Giacometti – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.

Iotti Leonilde.

Jacini,

Labriola – Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Li Causi – Lizier – Longhena – Lozza – Lussu.

Maffi – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Mannironi – Manzini – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Matteotti Matteo – Mazza – Meda Luigi – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Molinelli – Montemartini – Monticelli – Montini – Morini – Moro – Mortati – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Natoli Lamantea – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Oro – Noce Teresa – Numeroso.

Orlando Vittorio Emanuele.

Pallastrelli – Paris – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perlingieri – Pertini Sandro – Piemonte – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preti – Priolo – Puoti.

Quintieri Adolfo.

Ravagnan – Reale Vito – Ricci Giuseppe. – Rodi – Rodinò Mario – Romita – Roselli – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggiero Carlo – Ruini – Russo Perez.

Saccenti – Salvatore – Sampietro – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Schiratti – Scoca – Secchia – Segala – Segni – Selvaggi – Siles – Silipo – Simonini – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Tega – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tonello – Tosato – Tosi – Treves – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valiani – Vallone – Valmarana – Vanoni – Venditti – Vernocchi – Veroni – Vicentini – Vigna.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta, e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico il risultato della votazione segreta:

Presenti e votanti  289

Maggioranza        145

Voti favorevoli     286

Voti contrari            3

(L’Assemblea approva).

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate alla Presidenza, con richiesta d’urgenza, le seguenti interrogazioni:

«Ai Ministri dell’agricoltura e delle foreste e all’Alto Commissario per l’alimentazione, per sapere che cosa intendano fare per mantenere la promessa di sbloccare l’olio d’oliva in quelle provincie che hanno versato il contingente prefissato e concordato.

«L’interrogante, mentre si rende conto delle difficoltà tecniche e di controllo conseguenti ad uno sblocco parziale per zone, ritiene che gravi conseguenze di ulteriore sfiducia si determinerebbero tra gli agricoltori che sono colpevoli di aver fatto il proprio dovere e di aver creduto nella parola del Governo e nella solidarietà di altri agricoltori (che è mancata).

«Non è giusto che paghino coloro che dovrebbero essere premiati; è giusto invece che si trovi il modo di colpire quelli che mancano.

«Sullo».

«Ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e delle finanze e tesoro:

1°) sulla urgenza dei provvedimenti legislativi da emanare relativamente alla cooperazione;

2°) sui provvedimenti da adottarsi, nel frattempo, perché sia sospesa ogni decisione sulla imposta generale sull’entrata relativa alla distribuzione dei generi di largo consumo popolare fatta dalle cooperative di consumo senza scopi speculativi ed al fine di operare un’azione calmieratrice nell’interesse generale.

«Canevari, Di Gloria, Zanardi».

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo si riserva di fissare in una prossima seduta quando intende rispondere.

Richiesta di svolgimento di interpellanza.

GORTANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GORTANI. Domando al Governo quando intende fissare lo svolgimento di una interpellanza da me presentata, unitamente al collega Mannironi e altri, il 20 febbraio scorso, circa maggiori assegnazioni al Ministero dell’agricoltura delle somme stanziate per i coltivatori disoccupati.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo si riserva di fissare in una delle prossime sedute la data di svolgimento di questa interpellanza.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici, del lavoro e previdenza sociale, del commercio con l’estero e degli affari esteri, per sapere se la situazione della produzione delle materie prime, ai fini della ricostruzione, consente in Italia il pieno impiego della mano d’opera e dei relativi mezzi meccanici esistenti, e se, in caso negativo, non sia opportuno, per il periodo prevedibile di carenza, agevolare l’espatrio di complessi di lavoro verso mercati esteri, quando si tratti di iniziative che offrano sicure garanzie morali, tecniche e finanziarie nel confronto dei paesi di destinazione e nei confronti delle superiori esigenze della Nazione.

«Di Fausto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per controllare efficacemente la produzione nazionale dei fertilizzanti azotati, che con essenziale danno degli agricoltori e dell’agricoltura, sono in massima parte destinati ad alimentare una delle più losche attività della borsa nera.

«Pastore Raffaele, Allegato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quali sono state le ragioni che lo hanno indotto a fissare il prezzo pieno dell’olio, per la campagna 1946-47, escludendo i fittavoli dal beneficio del sussidio di coltivazione per gli affitti pagati in natura, come fu praticato nella decorsa campagna olearia 1945-46, con decreto ministeriale del 19 ottobre 1945.

«Se non ritiene opportuno e giusto ripristinare a favore dei fittavoli detto sussidio di coltivazione, a compenso delle maggiori spese di coltivazione, anche in vista di agitazioni in atto.

«Pastore Raffaele».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quando intenda promuovere il ripristino nelle sue funzioni del presidente della Corte di appello di Brescia, rimosso con improvvida determinazione, tanto che i Ministri Togliatti e Gullo ebbero ripetutamente a proporre il ripristino suddetto, mentre s’indugia a disporlo, col danno e il disdoro evidente di un magistrato unanimemente apprezzato e stimato negli ambienti giudiziari e forensi.

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, perché, in considerazione dell’intollerabile grave ritardo con cui vengono definite le istanze di pensione e segnatamente di quelle di guerra, non ritenga di urgente necessità provvedere ad una agile riorganizzazione dei competenti uffici di istruzione e di liquidazione, per metterli in grado di rispondere adeguatamente alle legittime esigenze dei richiedenti, verso i quali è assolutamente doverosa la sollecitudine del Governo.

«Bubbio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della difesa, per sapere se è vero che si vorrebbe disporre il trasferimento di tutto il 10° C.A.R. da Avellino, ove trovasi attualmente a Caserta.

«Sembra che il motivo del trasferimento del Centro ad altra sede, molto probabilmente Caserta, debba ricercarsi nel fatto che si presume la zona avellinese non rispondente in pieno alle esigenze addestrative, e che i poligoni di tiro sono lontani dalla città.

«Con opportuna intesa e collaborazione tra le autorità provinciali e militari, si può trovare la zona adatta per la bisogna, e creare così qualche altro poligono di tiro rispondente alle necessità del 10° C.A.R. (esempio, frazione Valla) migliorando inoltre quello di Rivarato, di Cupa Macchia, ecc.

«Il trasferimento del C.A.R. comporterebbe nuove gravi spese per l’Erario dello Stato, perché in quasi tutte le caserme, per quanto accaduto dal settembre 1943, per eventi bellici, per rapine e saccheggi subìti, c’è tutto o quasi, da rifare. L’esempio è dato dalla Caserma generale Berardi, sede del 10° C.A.R., la quale costò nel 1939 circa 18 milioni, mentre per renderla efficiente, dall’inizio del 1946 ad oggi, per la sistemazione degli impianti igienici, idrici, elettrici, pitture, infissi, vetri, ecc., si sono spesi circa 36 milioni.

«Con la costituzione del 10° C.A.R. in Avellino, gran parte del personale – ufficiali e sottufficiali. – si sono fatti raggiungere, dopo una serie lunga e penosa di peripezie, dalla propria famiglia, e quasi la totalità di esse hanno trovato alloggio nella città; per quelli che non ancora hanno abitazione, fra breve, sarà offerta loro una degna sistemazione nella palazzina I.N.C.I.S., per cui sono stati stanziati circa 8 milioni per la messa in efficienza (attualmente i lavori sono in corso). Lo stabile potrà ospitare all’incirca 15 famiglie. Con l’allontanamento del C.A.R. da Avellino, gli ufficiali e sottufficiali, i cui stipendi sono già tanto irrisori, verrebbero a trovarsi in serie difficoltà morali ed economiche, e non tanto facilmente superabili, anche perché nella nuova sede dove essi andrebbero, prima di trovare una nuova sistemazione, dovrebbero vivere chissà quanto tempo lontano dai propri cari. Gli ufficiali e i sottufficiali ammogliati, in forza al 10° C.A.R., sono rispettivamente n. 65 e n. 130.

«Da aggiungere che i predetti, nella quasi totalità, hanno ottenuto il trasferimento al C.A.R. di Avellino per «particolari disagiate condizioni di famiglia».

«Nel C.A.R. di Avellino hanno trovato lavoro molti impiegati ed operai civili tra reduci, invalidi e combattenti; alcuni di questi vivono con numerose famiglie a carico.

«È notorio che la città di Avellino vive con il ricavato che ottiene esercitando il piccolo commercio, perché priva di fabbriche, industrie, ecc.; con l’allontanamento del 10° C.A.R., che complessivamente raggiunge una forza di 3500 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, le risorse economiche di essa verrebbero ad aggravarsi maggiormente.

«Pertanto, e per le considerazioni che l’onorevole Ministro saprà maggiormente trarre dai brevi cenni esposti, per il prestigio della città e della Provincia, si chiede che il 10° C.A.R. non venga allontanato da Avellino. Così, come la città di Salerno ha ottenuto dal Ministero della difesa – Esercito – la revoca del trasferimento del deposito 1° reggimento fanteria – assorbito come deposito 10° C.A.R. – da quella città ad Avellino. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Preziosi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga doveroso provvedere, per ragioni di giustizia, ad estendere la disposizione di legge, in base alla quale i professori ebrei universitari, allontanati dal servizio per ragioni razziali, hanno ottenuto il riconoscimento di tutti i loro diritti a decorrere dal giorno in cui essi vennero allontanati dal servizio, ai professori ebrei di scuole medie, ai quali l’articolo 13 del decreto-legge 19 ottobre 1944, n. 301, ammette soltanto di percepire gli stipendi arretrati a decorrere dal 1° gennaio 1944 (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Baldassari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei trasporti e delle finanze e tesoro, per sapere se non ritengano doveroso ed urgente andare incontro alla umana richiesta della laboriosa popolazione di Chioggia, città con oltre 50 mila abitanti, che vive quasi esclusivamente dell’industria della pesca e dei trasporti marittimi, la quale troppo spesso conosce momenti angosciosi per assistere impotente all’improvviso scatenarsi degli elementi, ed a piangere sovente i suoi figli travolti dal mare insieme col naviglio; mentre la tanto invocata Stazione di salvataggio, o – almeno – una motobarca di salvataggio (della quale fu autorizzata la costruzione dal Ministero delle comunicazioni nel 1939, ma la di cui esecuzione fu differita per mancanza di fondi) consentirebbero di salvare tante preziose vite umane e a ridonare tranquillità a tutta una operosa popolazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non ritenga opportuno emanare un provvedimento che assicuri comunque ai pensionati il mantenimento del livello di pensione in godimento, allo scopo di evitare che in conseguenza di revisione, di aggiornamento, o per altre cause dovute a materiali errori di calcolo, accada ai pensionati di vedersi diminuire l’assegno mensile già così inadeguato ai bisogni più elementari della vita; come devesi deplorare sia accaduto per i pensionati dell’assicurazione volontaria della vecchiaia, le cui pensioni, in molti casi, sono state ridotte, col gennaio 1947, da 300 a 200 lire mensili, provocando sconforto e demoralizzazione facili ad intendersi, solo se si pensi che l’assegno mensile, già prima della riduzione, era insufficiente anche per vivere un solo giorno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se – in relazione a quanto è stato pubblicato da un quotidiano della Capitale, il 13 marzo 1947 – risponda a verità che, nell’Ente approvvigionamenti carboni, si è verificata una profonda crisi, con gravi conseguenze sugli acquisti di carbone destinato al nostro consumo, e, in caso affermativo, per conoscere quali siano le vere ragioni che l’hanno provocata, e quali provvedimenti e rimedi s’intenda disporre perché un settore di tanta importanza per la nostra ricostruzione economica, non sia ulteriormente turbato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arata».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti preventivi e decisamente repressivi intenda adottare il Governo contro la clandestina esportazione dei nostri cereali, esportazione che nell’anno corrente ha avuto così impreviste e tremende ripercussioni sulle necessità alimentari del popolo italiano, e che minaccia una notevole ripresa dopo il prossimo raccolto, se hanno fondamento le notizie correnti circa la presenza nel Paese di agenti stranieri e particolarmente jugoslavi, i quali cercano di concludere con i nostri produttori contratti di cessione di cereali per l’esportazione clandestina. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per intensificare e migliorare la produzione del grano, fonte prima ed imprescindibile per la ricostruzione del Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario dell’alimentazione, per sapere se risponde a verità quanto è stato affermato dal Collegio degli amministratori e dei giudici della Sepral in un comunicato comparso su II Corriere dell’lrpinia, di sabato scorso e cioè che:

la Sepral di Avellino ha gestito, da grossista, merci soggette a razionamento, dal periodo dell’occupazione alleata (e per ordine degli alleati) sino almeno al 1946, e ciò in contrasto alle funzioni normalmente assegnate alle Sepral, almeno sotto l’amministrazione italiana;

durante questa lunga pluriennale gestione ha accumulato utili di parecchi milioni, il che dimostra che nell’esercizio della sua gestione la Sepral ha seguito criteri speculatori di azienda commerciale e non criteri solidaristici di azienda cooperativistica e che pertanto ha accumulato utili sui consumatori;

ha distribuito questi utili (di parecchi milioni) tra gli impiegati, gli amministratori e i sindaci in parte, e in parte li ha accantonati a disposizione della Sepral (fondo che, a quel che si dice, dovrebbe servire per la cooperativa edilizia degli impiegati della Sepral).

«Se tutto ciò risponde a verità, l’interrogante chiede che cosa si intende fare:

per ripristinare la buona amministrazione nella Sepral di Avellino;

per incamerare il fondo tuttora disponibile, mettendolo a disposizione, eventualmente, di opere assistenziali non limitate agli impiegati della Sepral, che finora è stata adoperata come una qualsiasi società privata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della difesa, per sapere cosa ci sia di vero in quanto pubblica Il Corriere Tridentino del 6 corrente, riportando la notizia dal quotidiano La Rinascita, circa l’esistenza nel Cazachistan (Russia asiatica) di ben 16.000 prigionieri di guerra italiani, colà internati dalla Russia ed adibiti a lavori agricoli.

«Per sapere inoltre:

1°) per quali ragioni, se la notizia è vera, non sia possibile addivenire ad accordi con la Russia che consentano il rimpatrio di tali nostri prigionieri;

2°) se la notizia è falsa, se non sia il caso di prendere provvedimenti contro chi, con riprovevole leggerezza, specula sul dolore di tante mamme, sorelle e spose e, pur di pubblicare notizie sensazionali, non bada allo strazio che recano in tanti cuori le smentite che sistematicamente seguono a tali notizie;

3°) se sia il caso di chiedere ai giornali la preventiva autorizzazione del Governo alla pubblicazione di qualsiasi notizia del genere. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Pat, Ferrarese».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 14 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 14 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Russo Perez                                                                                                     

Bruni                                                                                                                

Marchesi                                                                                                          

Rossi Paolo                                                                                                      

Jacini                                                                                                                

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È inscritto a parlare l’onorevole Rodinò. Essendo assente, si intende che vi abbia rinunziato.

È inscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, non ho preso la parola durante la discussione preliminare, perché era giusto che il nostro gruppo lasciasse il. compito di esprimere il nostro pensiero sull’intero progetto di Costituzione a quei colleghi che hanno partecipato ai lavori preparatori; ed anche perché i setti articoli delle disposizioni generali contengono il piano programmatico di tutta la Costituzione: natura dello Stato, rapporti tra lo Stato colla creatura, dico di proposito «creatura»; col mondo esterno, colle altre nazioni (art. 3-4); col mondo dello spirito, la Chiesa (art. 5); col mondo del lavoro (art. 6-7). Aveva ragione l’onorevole Ruini quando parlava di architettonicità della Costituzione. C’è, infatti, dell’architettura, per lo meno in questa parte del progetto. Proprio così, non sarà quella di Michelangelo, sarà quella del Palladio; ma è sempre spirito cinquecentesco e mediterraneo.

Potrò così ugualmente esprimere il mio pensiero sull’intera Costituzione, sia pure brevemente, senza che l’ottimo presidente onorevole Terracini, del quale ogni giorno di più ammiriamo la preparazione e, sovrattutto, il garbo, sia costretto a richiamarmi all’ordine.

Ed ecco il mio pensiero:

L’esame degli articoli 1, 6, 7, seconda parte, pur prescindendo dalle considerazioni fatte dall’onorevole Orlando sulla seconda parte del progetto, ci convincerebbe (il significato di questo condizionale lo spiegherò più tardi) che questo progetto di Costituzione potrebbe (altro condizionale) costituire una pedana di lancio verso il totalitarismo.

Dall’articolo 1 si desume che l’Italia vuol essere una repubblica di lavoratori. Il progetto non dice così, ma è questa la dizione proposta dall’onorevole Togliatti, e l’attenuazione della formula è stata dallo stesso Togliatti subìta, ma non abbandonata, come egli stesso ci ha detto.

Repubblica di lavoratori, come ce ne sono già tante nel mondo; e sappiamo da quale parte orientarci per scoprirne qualcuna.

Ricordo, per esempio, che un giorno il capo del Partito comunista, durante una riunione della Commissione dei trattati, disse che il regime jugoslavo è uno dei più civili e democratici del mondo.

Vi fu qualcuno che propose, invece del termine «lavoratori», il termine «cittadini»; e badate che, quando si passò alla votazione della proposta, essa ottenne la parità dei voti.

Adesso alcuni colleghi ripropongono «cittadini». Ebbene, colleghi, io respingo questo termine e accetto quello di «lavoratori», perché qui si vuole incidere nelle tavole del nuovo patto il segno di un orientamento nuovo: la rivendicazione dell’alta dignità del lavoro umano, rivendicazione che dev’essere il fondamento essenziale della Repubblica democratica italiana, conferendosi ai lavoratori il diritto di partecipazione effettiva, come dice il progetto, alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Sarebbe assurdo e antistorico, oltre che immorale, voler negare, e sarebbe puerile nascondere sotto un termine denicotinizzato questa ascesa delle masse lavoratrici, che vorrei dire magnifica, soprattutto se potessi comprendervi i ceti medi…

Una voce a sinistra. Sono lavoratori anche quelli.

RUSSO PEREZ. Senza dubbio, ma è difficile classificarli proletari.

Una voce a sinistra. Lo sono il più delle volte, anche se non si accorgono di esserlo.

RUSSO PEREZ …e se potessi escludere, dalla testa dei suoi battaglioni, alcuni pericolosi attivisti.

Vi sono molti oggi che ostentano uno sviscerato amore per la classe operaia, e mi sembrano simili a quel tale che, vedendo scendere la piena, si pose sull’argine in costume da bagno, dichiarando che i bagni di fiume fanno bene alla salute.

Ma non di noi può dirsi questo, che tutta la vita abbiamo riempito di questo anelito verso una migliore giustizia sociale e che alle masse lavoratrici abbiamo sempre detto e diciamo ancor oggi «avanti», per tante ragioni, ma soprattutto perché esse sono noi stessi.          

Però la società non è composta soltanto di lavoratori. I pensionati, gli invalidi non sono lavoratori, eppure non si può negare ad essi la partecipazione alla vita del Paese.

Disse l’onorevole Ruini, nei lavori preparatori, che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale l’apporto di tutti i lavoratori, il lavoro di tutti, non solo manuale, ma in ogni sua forma di espressione umana. L’onorevole Togliatti un giorno aggiunse che egli non aveva difficoltà, per sgombrare il terreno da ogni equivoco, che si dicesse «lavoratori del braccio e della mente». Io spero che vorrà confermarlo in questa più acustica sede e, soprattutto, nelle più stabili tavole di questo nuovo statuto che vogliamo dare al nostro Paese.

Per le considerazioni che ho fatte, ho proposto qualche emendamento agli articoli in esame. Innanzi tutto, l’Italia è una – aggiungerei «una» – Repubblica democratica. Come nella Costituzione francese: grammaticalmente e letterariamente suona meglio.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Sì; è un errore di stampa della vecchia edizione.

RUSSO PEREZ. Poi: La Repubblica italiana ha per fondamento – aggiungerei l’aggettivo «essenziale» – il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – accetto la frase dell’onorevole Togliatti – del braccio e della mente… Il resto dell’articolo potrebbe rimanere immutato, salvo la formula che la sovranità non emana, ma risiede nel popolo ed è esercitata nelle forme di legge.

Nell’articolo 6, mi sembra mal detto «principî di umanità fra gli uomini», perché, se sono principî di umanità, non possono certo attuarsi fra le scimmie: è una ripetizione. Mi pare che basti dire «principî di umanità».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Gli uomini si erano dimenticati di essere umani.

RUSSO PEREZ. Questo è verissimo: è un’amara constatazione; ma non toglie valore al mio rilievo.

Questo articolo si ispira alla Costituzione russa e a quella francese. Come sostanza, mi sembra impeccabile, perché concede abbastanza alla nostra ideologia, la cristiana, contemplando prima i diritti della persona come individuo isolato e poi quelli della persona in funzione sociale. Si metta, ora, l’articolo 6 in relazione con l’articolo 7: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». Che cosa significa ciò? Ce lo dice l’onorevole Togliatti – lavori preparatorî della prima Sottocommissione, pagina 175 – il quale cita l’esempio della Costituzione sovietica, in cui si afferma che tutte le libertà devono essere esercitate nell’interesse dello sviluppo della società socialista. Ora, è certo – egli dice – che non si può introdurre una simile formulazione nello Stato italiano, dato che purtroppo, – il «purtroppo» è suo e non mio…

Una voce a sinistra. Lo sappiamo.

RUSSO PEREZ. …dato che purtroppo l’Italia non ha ancora un ordinamento socialista. Ma si potrebbe adottare una formula in cui si dicesse – è sempre lui che parla – che tutte le libertà debbono essere esercitate in modo che siano coerenti allo sviluppo della società democratica.

Sarebbe come dire: libertà di marcia, con l’obbligo di andare a destra, cioè… a sinistra, o libertà di respirare… ma col naso chiuso!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No.

RUSSO PEREZ. Si tratta di un concetto di libertà diverso, come diceva l’onorevole Dossetti, dal concetto finora adottato. E l’onorevole Cevolotto disse testualmente – come vede, onorevole Ruini, non sono il solo a fare rilievi di questo genere – che, se alla libertà del progetto si desse una sola direzione obbligatoria, non si avrebbe più una Costituzione democratica. In tal caso – aggiunse con finezza l’onorevole Cevolotto – sarebbero lesi i diritti di libertà… del Partito comunista, che non potrebbe esercitarli per arrivare alle finalità dello Stato comunista. Ma l’onorevole Togliatti rispose che il Partito comunista potrebbe esercitare egualmente i suoi diritti, perché lo Stato comunista è uno Stato democratico.

E siamo al nocciolo della questione: lo Stato comunista è uno Stato democratico! Ricorderete che ho usato un condizionale, anzi due condizionali in principio, dei quali vi ho promesso la spiegazione. Ecco: dissi che la Costituzione ci farebbe pensare ad un avviamento al comunismo. Ci farebbe pensare non significa ci fa pensare. Dobbiamo confessare il vero: il testo, la lettera di questo codice non sono allarmanti; sarebbero accettabili. Ma, adombrata dall’onorevole Orlando, accennata dall’onorevole Croce, manifestata da me, vi è in molti di noi la preoccupazione assillante che esso potrebbe venire interpretato ed attuato con uno spirito nettamente totalitario.

Ma, si dirà, non è lecito attribuire la malafede all’avversario. Esatto. Però troppi episodi smentiscono le parole, perché alle parole si possa credere: Viminale, Emilia, Dongo, per citarne alcuni. (Commenti Interruzioni a sinistra).

Non posso né debbo addentrarmi nell’argomento. Primo, perché mi allontanerei dal tema. Secondo, perché si tratta di fatti storici, di fatti rivoluzionari. Rivoluzionari, e, quindi, non vanno giudicati con la logica e con la morale di tutti i giorni. Se Giovanni Amendola avesse avuto una mentalità rivoluzionaria, tante sventure sarebbero state evitate al nostro Paese. Storici: ed è la storia che dovrà giudicare di fatti compiuti da uomini i quali in momenti supremi, hanno avuto nelle loro mani le trame della storia. Ma quando un uomo, un cittadino, prende, dinanzi a certi episodi rivoluzionari e agli aspetti più discutibili di codesti episodi, un atteggiamento di sfida nei confronti del Paese… (Interruzioni a sinistra).

LI CAUSI. L’accenno a Dongo si riferisce all’uccisione di Mussolini?

RUSSO PEREZ. Vuol fare una sfida al Paese anche lei? Io parlo con un senso di misura e con un senso di equilibrio che lei, onorevole Li Causi, dovrebbe invidiarmi.

LI CAUSI. Ma la chiarezza? Io domando la chiarezza! L’accenno a Dongo si riferisce all’uccisione di Mussolini?

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi, s’è già sentito bene quello che lei ha detto.

RUSSO PEREZ. Io dico che quando si parla di questi fatti nel modo come ne fu parlato, anzi scritto, dal giornale L’Unità, alcuni giorni fa, con quell’atteggiamento di sfida che oggi si mutua con poca fatica e con poco rischio l’onorevole Li Causi, e il Paese non reagisce o reagisce debolmente, vuol dire che il Paese è diventato sordo e grigio…. (Interruzioni a sinistra).

LI CAUSI. È la frase di Mussolini! Lei è sordo e grigio.

RUSSO PEREZ. …è sotto il peso di una coazione morale che equivale e supera la violenza fisica! Aggiungo che spesso anche i grandi attori commettono degli errori, come quando il capo del Partito comunista ha fatto, come poco fa ricordai, l’imprudente parallelo tra comunismo e democrazia.

Che importa dunque che egli venga a dirci che non ha conquistato i Comuni con le latte di petrolio o col manganello, come se tutte le violenze fossero fisiche ed a base di carburanti liquidi! Si pensi anche alle recenti proposte di legge jugulatorie della libertà, se pure non si tratti di una malvagia invenzione ai danni dell’onorevole De Gasperi!

Ecco perché, onorevole Togliatti, siamo scusabili se non vi prestiamo soverchia fede, quando, dall’alto del vostro sesto cerchio, con l’impeccabile vestito bleu, col tono cattedratico e mellifluo di un professore di teologia, affermate di essere il più fiero paladino della libertà. Ma, onorevole Togliatti, il sesto cerchio è proprio quello degli eresiarchi nell’inferno di Dante. (Rumori Commenti).

Ora, poiché viviamo in questo clima, e dobbiamo preoccuparci della sorte e della libertà degli uomini che vivono in questo clima e lo Statuto deve interpretare i bisogni e le aspirazioni di questa gente, e poiché gli articoli criticati da me (come del resto gli articoli 31, 36, 37, 40, 41, 43) possono essere interpretati ed attuati in modo da non garantire ai cittadini il bene fondamentale della libertà, io propongo di sopprimere la seconda parte dell’articolo 7; vale a dire dovrebbero rimanere in piedi l’articolo 6, e la prima parte dell’articolo 7.

Del resto, quanto è detto nella seconda parte è anche espresso dall’articolo 6. Si dovrebbe sopprimere la parte che dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Se voi rileggete l’articolo 6, vedrete che c’è quanto basta affinché il legislatore, che poi interpreterà ed attuerà lo Statuto, possa farlo tutelando tutti i diritti del lavoro ed insieme quelli del singolo.

Ho finito per quanto riguarda gli articoli 1, 6 e 7. Passiamo all’articolo 4. Di questo articolo 4 vi ha già parlato l’onorevole Bencivenga. Debbo premettere, affinché l’amico Li Causi si risparmi l’incauta fatica di interrompermi ancora, che io ho già dichiarato che sono fieramente contrario a tutte le guerre, e che nel 1937 avevo preparato una conferenza, in cui sostenevo che una guerra tra nazioni di eguale o simile livello di civiltà, deve essere per forza un cattivo affare sia per l’aggressore come per l’aggredito. Non potei fare questa conferenza perché gli amici con i quali mi consigliai, mi dissero che, se l’avessi fatta, probabilmente sarei andato a finire al confino. (Commenti).

LI CAUSI. Essere eroico non è un obbligo.

RUSSO PEREZ. Il confino non è un monopolio della Repubblica; esisteva al tempo del fascismo.

Una voce a sinistra. Prendiamo atto della buona intenzione.

RUSSO PEREZ. Il fatto che io chiedo, insieme all’onorevole Bencivenga (egli è un generale ed io sono un borghese), la soppressione di questo articolo, non deve far pensare che io sia favorevole all’idea di una guerra di conquista, o anche di riconquista.

Però l’articolo è strano e non so da dove sia nato. Ho cercato nei lavori preparatorî, ma non sono riuscito a trovare la fonte; forse qualcuno ha pensato che c’era un articolo simile nella Costituzione francese ed ha creduto opportuno copiarlo.

Una voce a sinistra. C’è il Trattato di pace!

RUSSO PEREZ. «L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista». L’Italia, dunque, rinuncerebbe alla guerra, ma soltanto come strumento di conquista e di offesa alla libertà di altri popoli. Quindi bisognerebbe fare questo esame, che è molto difficile: guerre giuste e guerre ingiuste. Ci sono stati dei giuristi, a corto di occupazioni più serie, i quali hanno scritto perfino dei trattati, come il signor De la Prière e il signor Regout (Le droit de juste guerre), nei quali sono elencati i principî in base ai quali si dovrebbe subito riconoscere se una guerra è giusta o ingiusta.

Ma, nella pratica, la cosa non è così semplice. Per esempio, il collega Bencivenga ha ricordato il caso della Francia, nella cui Costituzione è scritto da tempo immemorabile che «La Francia rinuncia alle guerre di conquista». Però, sottilizzando, i giuristi e gli uomini d’arme francesi sono venuti alla conclusione che una guerra per la riconquista della Ruhr non sarebbe stata una guerra di conquista. E, se vogliamo allontanarci dalla storia ed avvicinarci ai tempi presenti, guardate un po’: la guerra della Russia alla Finlandia è una guerra di difesa o una guerra di aggressione? E non è forse vero che, nel patto Ribbentrop-Mólotov, si ritrova per lo meno una duplice e coeva volontà di aggressione?

E, se non vi piace parlare dell’est, parliamo dell’ovest. Pensate che l’America sostiene di essere stata una nazione aggredita; ma io vi prego di tornare indietro col pensiero e di ricordare quei carichi di armi che gli Stati Uniti di America mandavano, scortati dai loro aerei e dai loro caccia, alla belligerante Inghilterra. Io domanderei al signor Regout se la guerra che nacque da quegli invii di armi, che una nazione neutrale faceva ad una nazione belligerante, sia da considerarsi una giusta o un’ingiusta guerra, una guerra di aggressione o una guerra di difesa.

LI CAUSI. La guerra fascista e la guerra di liberazione: quale è giusta e quale ingiusta?

Una voce a destra. È una fissazione! (Commenti).

RUSSO PEREZ. Dica un poco, onorevole Li Causi: quando parla di guerra fascista, non potrebbe rivolgersi al suo portiere, se lo ha? Perché si rivolge a noi? Scelga migliori occasioni per parlare; lei non è felice nelle interruzioni; le lasci fare all’onorevole Togliatti. Ella si accende a freddo e dice corbellerie!

Scusi, onorevole Presidente: dovevo ribattere l’interruzione, per quanto fatta male a proposito.

In fondo, volevo dire questo: che per quanto teoricamente possa apparire facile discernere le guerre giuste dalle guerre ingiuste, praticamente tutte le guerre vinte sono giuste e tutte le guerre perdute sono ingiuste. Quindi, rinunciamo a questo articolo, tanto più che è ridicolo che noi, nazione disarmata, con un esercito ridotto soltanto ai limiti di una forza di polizia, senza navi da guerra, senza fortezze, senza bomba atomica, facciamo affermazioni del genere. Lasciamole fare alle nazioni satolle; noi possiamo farne a meno. Anche perché, onorevoli colleghi di questa Assemblea, in quell’ignobile «ordine» di pace, se voi lo rileggete articolo per articolo, troverete dieci volte la frase «l’Italia rinunzia», che non corrisponde a nessun atto di volontà del popolo italiano. «L’Italia rinunzia» dieci volte; «l’Italia riconosce» quattordici volte! Allora il Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi ha creduto di firmare sotto l’imperio della coazione; accettare, allora, quella parola, «rinunzia», è stata una necessità; adesso sarebbe una viltà.

Quindi, io credo che questo articolo debba venir soppresso, o, se questa Assemblea sarà del parere che l’articolo va mantenuto, lo sostituirei con il seguente: «L’Italia condanna il ricorso alle armi nelle controversie tra le Nazioni e consente»… (il resto può andare nel testo attuale, e precisamente: consente, a condizione di reciprocità è di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli).

E veniamo brevemente all’articolo 5: pochi minuti ancora ed avrò finito.

Vi devo confessare che, quando ho letto per la prima volta nel progetto di Costituzione questo articolo: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale», si trovarono un poco in conflitto la mia coscienza di giurista e di legislatore, per quanto modesto, e la mia coscienza di cattolico; perché mi domandavo come mai lo statuto della Repubblica italiana potesse contenere il riferimento ad un trattato di carattere internazionale.

Ma ho studiato meglio la questione ed ho attinto luce dai maggiori e adesso il dubbio è scomparso dall’animo mio. Certo, coloro che sono più esperti di me in materia di diritto costituzionale potranno escogitare una forma che faccia riuscire più accettabile ai colleghi dell’altra sponda questo riferimento della nostra Costituzione ai Patti Lateranensi, ma se anche l’articolo dovesse rimanere così, io lo accetterei senz’altro.

PAJETTA GIANCARLO. Allora ha chiesto consiglio al confessore, non ai giuristi!

RUSSO PEREZ. Se il confessore fosse stato più intelligente e, soprattutto, spiritualmente più elevato di voi, il che è facile, avrei fatto bene a chiedere consiglio a lui! (Approvazioni a destra).

L’onorevole Ruini ha detto testualmente: L’affermazione dell’articolo 5 non significa inserire nello statuto i Patti Lateranensi, ma dare ad essi una speciale posizione costituzionale. Mi sembra che abbia detto così e di aver trascritto esattamente il suo pensiero. Non so se sia pienamente accettabile questa proposizione, ma credo, anzi so, che alcuni membri autorevoli di questa Assemblea stanno elaborando delle proposte di emendamento all’articolo 5. Io credo che nella sostanza siamo tutti d’accordo, perché anche l’onorevole Togliatti, nei lavori preparatori, ha detto autorevolmente che il suo Partito non ha nulla in contrario a che anche la firma della Repubblica italiana sia apposta in calce al Concordato ed ai Patti Lateranensi.

Quindi, in fondo, si tratta di una questione di forma: se debba o non debba nel nostro statuto farsi un riferimento esplicito ai Patti Lateranensi. Ed allora io voglio ragionare non come un giurista, ma come un uomo della strada…

Uria voce dall’estrema sinistra. Come un uomo qualunque.

RUSSO PEREZ. Come un uomo qualunque, e me ne onoro. E dico questo: il Concordato ed i Patti Lateranensi da un canto riguardano i rapporti fra uno Stato sovrano e un altro Stato sovrano. E anche in ciò i patti hanno dei caratteri peculiari, perché questo altro Stato sovrano è circondato da tutte le parti dallo Stato italiano, abitato da italiani, in terra italiana. Ma la considerazione da fare, di molto maggior valore, è un’altra. I Patti Lateranensi non stabiliscono soltanto i rapporti fra uno Stato sovrano e un altro Stato sovrano, ma i rapporti fra uno Stato sovrano e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che è cosa ben diversa.

Questo Istituto, rispettabile per tutti, per noi di origine divina, si irradia e vive in tutte le contrade d’Italia per mezzo delle sue Chiese, i rintocchi delle cui campane si fanno sentire anche nel latifondo siciliano, nei più remoti villaggi. E poi c’è una folla, una miriade di ambasciatori, consoli, addetti di ambasciata, vescovi, parroci, sacerdoti che portano la parola della Chiesa in tutte le contrade d’Italia. E con questi rappresentanti di quest’altra Potenza spirituale la grande maggioranza dei cittadini italiani ha giornalmente dei rapporti intimi, dei rapporti spirituali, sia pure come quelli a cui alludeva poco fa il collega dell’opposizione, per cui da questi ambasciatori del mondo dello spirito, e, per noi, del mondo della Verità, ci vengono giornalmente dei consigli, degli ammonimenti, che noi qualche volta consideriamo, e sono, delle direttive di vita e di azione.

Orbene, di questo fatto assolutamente peculiare, ineguagliabile, che rappresenta tanta parte della vita della nazione, è possibile che lo Stato, nella sua Carta fondamentale, non debba tener conto, chiarendo in che modo devono essere regolati i suoi rapporti con questo ente spirituale e sovrano che siede e vive nel suo stesso territorio?

Questo è il mio pensiero. Cosicché io concludo col dire che, per mezzo di questo articolo del progetto di Costituzione, noi, Stato, con indifferenza, la Chiesa, con dolore, consentiamo agli amici dell’altra sponda di professare liberamente la religione che vogliono, e anche di non professarne alcuna; ma consentano essi senza rammarico a noi cattolici che, nell’orbita dello Stato sovrano, attraverso il riferimento costituzionale all’inviolabilità dei Patti Lateranensi, possiamo vedere riaffermato il nostro filiale ossequio alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana. (Applausi a destra e al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Il capitolo delle disposizioni generali enuncia dei principî, consacra dei valori, fissa delle direttive, quasi tutte da dirsi fondamentali per la vita del nostro popolo.

L’eguaglianza dei diritti, di cui all’articolo 7; gli obblighi che la Repubblica s’impegna di assumere verso ogni cittadino, di cui all’articolo 6; il respiro che è chiamata ad avere sul più vasto campo internazionale la difesa degli stessi valori umani, di cui agli articoli 3 e 4, costituiscono un insieme di direttive profondamente vitali per la civiltà di ogni Nazione.

Come è stato da altri rilevato, rappresenta una caratteristica della nostra Carta il secondo comma dell’articolo 1, dove si proclama che «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La corrente dei cristiano-sociali, che io rappresento in questa Assemblea, sa apprezzare appieno questo comma, avendo sempre proclamato il principio della sovranità del lavoro nei rapporti sociali, e avendo esplicitamente espressa, sin dal loro programma del 1941, l’esigenza che l’esercizio dei diritti politici fosse legato al possesso di un «titolo di lavoro».

Senonché essi hanno sempre tenuto a precisare come al «lavoro» non intendessero attribuire un valore esclusivamente economico e di semplice soddisfacimento di bisogni materiali, ma soprattutto il valore di mezzo della propria elevazione morale ed intellettuale e di strumento di concreto servigio verso i proprî simili.

Solo se inteso in tal modo, quale concreto legame sociale, che in sé attua il primato dello spirituale ed è distintivo dell’amore fraterno e della solidarietà tra gli uomini, il lavoro può essere assunto all’onore di costituire il fondamento di una Repubblica. Non altrimenti. Il fondamento, il mezzo, e certamente non il fine, come ho detto, del viver civile.

Se è vero che all’uomo non è concesso – in via ordinaria – di poter dare una dimostrazione reale del suo attaccamento al mondo dei valori spirituali al di fuori del proprio lavoro, è anche vero che deve essere il mondo di quei valori a finalizzare l’opera umana.

Ho sentito affermare da alcuni che questo capitolo delle Disposizioni generali può sostituire sufficientemente bene quel preambolo che manca nel nostro progetto di Costituzione. Dissento dal loro parere, appunto perché non vedo in esso elencati tutti quei valori di libertà, di giustizia, di solidarietà, che normalmente non fanno difetto nei preamboli delle Costituzioni di altri popoli.

È in ogni modo da lamentare che la nostra Costituzione manchi di questo preambolo, e, di conseguenza, anche di un preciso riferimento alle condizioni storiche che l’hanno vista nascere, sì da apparire un documento pressoché estemporaneo.

Come, per esempio, non ricordare che questa Costituzione è la prima che si dà il popolo italiano; e che, con tale documento – per la prima volta nella sua storia – il popolo è stato in grado di affermare pienamente la sua sovranità?

Come non ricordare che questa Costituzione è scritta col sangue e col dolore degli italiani, dopo l’avventura totalitaria e le terribili vicende della guerra, dopo tanti anni di regime monarchico, dopo molti decenni di lotte sociali?

Io penso che alcuni degli articoli che ora fanno parte del capitolo in questione potranno convenientemente essere inclusi nel preambolo, che potrà, inoltre, accogliere altri principî e disposizioni che ora si trovano disseminati nei diversi Titoli.

In questa Assemblea ho udito esprimere il timore che le disposizioni, che di solito compaiono nei preamboli, possano rivestire un carattere meno impegnativo di quelle contenute altrove. Crederei di far torto ai costituzionalisti di professione se condividessi tale parere. I costituenti francesi, ad ogni modo, non la pensarono così. Direi che la pensarono in modo totalmente diverso.

Gli articoli che ordinariamente compaiono nei preamboli hanno certamente un carattere più generale; senza dubbio appartengono ad una categoria più universale di quella alla quale gli altri appartengono; ma dovrebbe essere anche noto come essi costituiscano i cardini basilari di tutta la Costituzione, sui quali tutta la Costituzione si regge; la fonte stessa della sua ispirazione; e, in altre parole, la sua anima, il suo indirizzo fondamentale, il binario sul quale tutti gli altri articoli dovranno camminare.

Per tutte queste considerazioni, sono da giudicarsi le disposizioni le più impegnative, non le meno impegnative; le più chiare, non le più oscure.

Il preambolo non si è fatto non perché non ci abbia pensato alcuno a farlo, o perché non si è ritenuto conveniente farlo, ma perché si è avuto paura di assumere quegli impegni solenni e precisi che la redazione di esso importava. Ciò che sino ad ora ha impedito questa redazione è stata la incapacità nei Settantacinque di interpretare l’anima unitaria, e cioè, quel minimo denominatore comune spirituale che, al di sopra di tutte le particolari ideologie, pur esiste nel popolo italiano ed al quale giovedì scorso bellamente accennò l’onorevole Moro.

Il non averlo saputo mettere convenientemente in luce, questo comune denominatore, il non essersi impegnati più esplicitamente su di esso, non solo rappresenta un grave difetto formale del progetto – (il che sarebbe il meno) – ma un grave difetto di sostanza che non depone favorevolmente per l’avvenire della nostra democrazia. Infatti, sulla democrazia esistono ancora in Italia delle gravi riserve.

Non posso essere d’accordo con coloro che si sono accomodati troppo facilmente al carattere eccessivamente empirico e frammentario che presenta il progetto, e non ritengono valga la pena compiere un ulteriore sforzo per correggerlo.

Come mi pare abbia notato l’onorevole Togliatti nel suo ultimo discorso, sarebbe profondamente errato confondere lo spirito ed il metodo della democrazia con il carattere empirico del compromesso.

Come pare sia opinione diffusa in Italia, lo spirito dell’autentico metodo democratico non deve essere individuato in un accostamento tutto esteriore di una corrente spirituale o sociale con l’altra. Se così fosse, la democrazia dovrebbe raffigurarsi ad un mosaico di ideologie, o peggio, ad un sistema di monadi, ciascuna chiusa in se stessa, senza che una possa comunicare con l’altra.

La democrazia non è questo. La democrazia crea una situazione spirituale per tutti. È un regime di comunione tra gli uomini, che posseggono convinzioni diverse circa l’ultimo destino dell’uomo, ma che nella Città temporale vogliono compiere un’opera comune, che non pregiudichi questo destino, che, anzi, lo favorisca. Esiste un «credo civico pratico», come lo chiama uno scrittore cattolico francese, che ci deve unire tutti, non perché siamo «cattolici» o «marxisti», ma perché siamo «uomini». Pretendere di far adottare dallo Stato nella sua totalità l’ideologia cattolica o marxista, significherebbe introdurre nella vita politica degli elementi di turbamento, che la politica, di sua natura, non può sopportare.

Esistono delle verità e dei valori che tutti gli uomini non possono non riconoscere e che lo Stato, organo del bene comune, deve perciò riconoscere. Di fronte a questi valori lo Stato non può essere agnostico; una Costituzione non può chiudersi nell’agnosticismo.

I francesi, e con essi i popoli più evoluti, hanno definito «laico» lo Stato che così si regola, per contrapporlo allo stato «confessionale» che, esorbitando dalla sua missione, volesse farsi il carabiniere e il paladino di un determinato sistema filosofico e teologico.

È questa divenuta ormai una conquista della scienza politica e del mondo moderno. Ogni ulteriore esitazione di fronte ad essa declasserebbe la civiltà italiana. E così, quasi senza volerlo, sono arrivato alle soglie dell’articolo 5, e le varco ed entro nella «zona infiammata» (come se ben ricordo, l’ha chiamata l’onorevole Orlando) dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano, sperando di non bruciare.

Onorevoli colleghi, le garanzie, atte ad assicurare la libertà di coscienza, di culto e di religione, non potranno essere stimate giammai eccessive da coloro che, come voi, sanno apprezzare il valore della spontaneità dello spirito nella ricerca della verità e l’importanza che assume il rispetto dei diritti naturali dell’uomo in ogni conquista spirituale, politica ed economico-sociale. Voi non ignorate neppure, onorevoli colleghi, come il diritto di usufruire di tali garanzie, appartenga all’uomo in se stesso, indipendentemente dal particolare credo religioso o filosofico da lui professato, e indipendentemente che egli ne possegga uno, o meno.

Noi tutti, in questa Assemblea, nessuno escluso, ci dobbiamo, innanzi tutto, preoccupare del bene politico spirituale del nostro popolo, come del primo e più importante capitolo del bene politico generale.

Ma qual è il bene politico spirituale di tutto il nostro popolo?

Né in Italia, né altrove esiste più unità confessionale.

Esiste una pluralità di famiglie religiose e filosofiche. Non è più possibile, dato che fosse consigliabile, unificare politicamente gli italiani all’ombra di un determinato credo religioso.

È invece possibile unificarli sulla base del rispetto delle regole della morale naturale e dei diritti naturali dell’uomo, sulla base, come ho detto, di un credo civico pratico, morale e politico, su precise disposizioni costituzionali e legislative che prescindono da qualsiasi giustificazione teologica e filosofica. Ripeto: qui evidentemente non si tratta di un semplice compromesso imposto dalle attuali condizioni della società.

Si tratta, piuttosto, di identificare un principio e di tracciare una linea di condotta politica da valere in tutti i tempi ed in tutte le situazioni, che sono tenute a rispettare tanto le maggioranze quanto le minoranze religiose.

Non si tratta di un compromesso; si tratta di un metodo consigliato dalla natura stessa del vivere politico e dalla stessa natura dell’atto per cui ogni uomo si accosta alla verità. È bene che l’unità politica non si tenti di cementare dall’alto di un sistema di verità rivelate, e cioè con un movimento discendente, ma sibbene con un movimento ascendente, che parta dalla chiarezza delle verità naturali come il processo più educativo e più formativo dello spirito umano.

L’unità politica non può avere per base che la chiarezza di queste verità naturali, che costituiscono come l’ideologia di tutti, l’ideologia comune a tutta la Nazione; l’ideologia per eccellenza, del vivere democratico.

Ma questo patrimonio comune non deve essere più misconosciuto dagli italiani, e dev’essere positivamente e rigorosamente difeso dalla legge.

Anche sotto tale aspetto si vedrà se la democrazia italiana sarà in grado di funzionare. Non è possibile conservare e garantire dalla disgregazione le società umane senza prestare ossequio a questo minimo di patrimonio comune che – se veramente rispettato – ci mette nella condizione di dare alla vita sociale un abbrivo che, per rispondere a ragione, con ciò stesso può dirsi di positivo e vitale orientamento religioso.

Il nostro progetto di Costituzione rivela un cospicuo orientamento vitalmente religioso in molti articoli, e nella misura che questi articoli costituiscono una difesa della libertà e della dignità della persona e nella misura che assicurano la solidarietà e la giustizia sociale.

Per questo il nostro progetto di Costituzione, nonostante le sue contraddizioni, lacune ed incertezze, denuncia un orientamento religioso molto più deciso dello Statuto albertino, nonostante, il primo articolo di questo Statuto. Perché, come voi ben sapete, onorevoli colleghi, c’è una religiosità, e, vorrei dire, un cristianesimo apocrifo, che è quello dei Governi clericali, paternalistici, assoluti, che lasciano sussistere tranquillamente le più grosse ingiustizie sociali; e c’è una religiosità ed un cristianesimo autentico, che è quello dello sforzo costante ed eroico verso la libera ricerca della verità e della giustizia.

È pertanto su questa base spirituale, che può chiamarsi bensì laica, ma non laicista, che potrà trovare la sua piena applicazione il principio dell’unità e del pluralismo spirituale in campo politico, che solo è in condizione di garantire il pieno rispetto della libertà di coscienza, di culto e di religione ad ogni cittadino.

Evidentemente non si può parlare di queste libertà dove esiste, una «religione di Stato» e dove esiste «l’ateismo di Stato». Qui, evidentemente, non si tratta di affermarsi sul principio della «tolleranza religiosa» e della «tolleranza filosofica» che per me equivarrebbe a professare l’indifferentismo religioso e filosofico; qui si tratta dell’adozione – in via di principio – del metodo della «tolleranza civica».

Quando mi appello a questa tolleranza, mi appello al «rispetto del segreto delle anime, che è il segreto di Dio».

Aggiungerò – per calmare delle coscienze – che essa è una virtù cristiana per eccellenza.

La tolleranza «riposa sul più profondo fondamento della vita cristiana, sulla credenza inconcussa alla eguaglianza dell’uomo, ai diritti inalienabili di ciascuno allo sviluppo della sua vita, alla libertà di parole e di azione, al libero perseguimento della sua felicità». Un manifesto del 1942 dei più grandi scrittori cattolici europei rifugiati negli Stati Uniti d’America, affermava, tra l’altro, che «è lo stesso cristianesimo che pone le basi della tolleranza civile in materia religiosa».

Senza compiere un tentativo di sovvertire l’ordine politico, che anch’esso è una parte dell’ordine divino, non ci è lecito, dirò usando una terminologia teologica, comportarci come cattolici quando ci troviamo sul terreno politico; siamo, invece, tenuti a comportarci sempre da cattolici, distinguendo, in tal modo, senza separarlo, l’ordine politico dall’ordine religioso.

Quando ci troviamo sul terreno politico, l’unico modo di salvare l’essenza del cristianesimo, e cioè la carità e lo spirito di fratellanza, non è quello di instaurare una legislazione d’eccezione e di privilegio nei riguardi della propria Chiesa; è invece quello d’instaurare un regime fondato su basi di eguaglianza.

L’onorevole Togliatti, nel suo discorso di risposta alle dichiarazioni del Governo, accennando al problema delle relazioni tra Chiesa e Stato in polemica con la Democrazia cristiana, se ben ricordo, pare insinuasse come la qualifica di «cristiano» costituisse un impedimento alla tolleranza civica. Non so se un tale rimprovero potesse riguardare questo o quel cristiano o alcuni degli onorevoli colleghi democristiani; ma è certo che non riguarda la natura e l’essenza del cristianesimo. La maggioranza cattolica del nostro Paese accetterà questa disciplina civica, se fosse illuminata, sapendo di ubbidire allo spirito stesso del Vangelo, e conscia di contribuire efficacemente all’unità nazionale, all’amicizia politica di tutti gli italiani, sempre necessaria, ma nelle attuali circostanze. necessarissima, essendo in corso l’ardua opera della ricostruzione. Naturalmente la società italiana, in quanto composta in maggioranza di cattolici, conserverà la sua fisionomia spirituale, ma non in virtù di una giurisdizione confessionale dello Stato, ma in virtù del numero e dello spirito della maggioranza dei suoi membri e delle forme democratiche che permettono e garantiscono pienamente l’espressione pubblica dei sentimenti religiosi.

Gli articoli del progetto di Costituzione, che furono specificamente elaborali con questo spirito, sono l’articolo 7 che dice: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge», e l’articolo 14 che suona così: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume» ed infine l’articolo 15, che dice: «Il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione, non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, per la sua capacità giuridica, per ogni sua forma di attività».

Sono dell’opinione che sono questi articoli a fissare la linea fondamentale della politica religiosa dello Stato italiano, e perciò non posso giustificare le ragioni che hanno indotto i Settantacinque a posporli all’articolo 5, che invece si riferisce ad un determinato problema di questa politica.

La prima cosa che si nota gettando lo sguardo sull’articolo 5, è la presenza di un’esplicita menzione della Chiesa cattolica. Pur facendo mie le critiche di metodo rivolte a questo articolo dall’onorevole Calamandrei, non è tale menzione che in se stessa mi scandalizza, perché bisogna ricordare che una menzione nella nostra Carta pur meritava la Chiesa cattolica, che è la Chiesa della quasi totalità del popolo italiano.

E neanche voglio discutere la tesi, che non manca di giustificazioni, di coloro che stimano pleonastico tutto l’articolo 5, rispetto agli articoli 7 e 14.

Nel suo primo comma l’articolo 5 dice: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Tale sentenza, che è di Leone XIII, se non erro, a parte l’osservazione che sulla sua presenza nel testo costituzionale ne fece l’onorevole Calamandrei e che io non posso non condividere, noto che, ad ogni modo, rispecchia fedelmente lo spirito della costituzione dello Stato che si vuol costruire decentrato, senza pretese monopolistiche né in campo nazionale né in campo internazionale, rispettoso delle autonomie degli altri gruppi sociali, e che dà alla sua sovranità un significato ed un valore analogico, come si conviene ad uno Stato realmente democratico.

Colpiscono, al contrario, la sostanza della politica religiosa del nostro Stato le critiche mosse al secondo comma dell’articolo 5, cioè quella sostanza che si trova precisata negli articoli 7 e 14.

Nel 1929 le relazioni tra la Chiesa cattolica ed il nostro Stato furono precisate nei Patti lateranensi, con un Trattato e un Concordato. A proposito del Trattato, c’è da osservare che non ci troviamo di fronte ad un trattato concluso con una qualsiasi potenza straniera, avente carattere di pura natura politica. Il Trattato del 1929, da cui sorse lo Stato della Città del Vaticano, ha riflessi anche religiosi e fortemente incide sulla pace religiosa del Paese, anche se solo riguardato nei suoi effetti territoriali.

Come è noto, il Trattato, anche sotto tali aspetti, chiudeva un lungo periodo di lotta tra la Santa Sede e lo Stato italiano, che pochissimi oggi in Italia avrebbero il cattivo gusto di riaprire. Senonché il Trattato non riguarda esclusivamente questioni territoriali e non contiene soltanto clausole finanziarie. Nei Patti, evidentemente, non sono contenute soltanto delle cose definitivamente sorpassate per forza di eventi, come l’articolo 8 del Trattato che punisce le offese e le ingiurie fatte al Sommo Pontefice, come quelle fatte al re; come l’articolo 21, che equipara i cardinali ai principi del sangue, e come l’articolo 26 con il quale il Pontefice riconosce la dinastia di Casa Savoia; tutto ciò naturalmente non ci commuove più perché è stato cancellato dai Patti. Ma è un fatto che devono essere cancellate anche quelle parole. Il trattato si apre, come sapete, con la seguente dichiarazione: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Tale affermazione consacra chiaramente il carattere confessionale dello Stato italiano, in evidentissima contradizione con gli articoli 7 e 14 del progetto di Costituzione.

Il Concordato, poi, deve essere giudicato come un tipico documento del passato regime. Esso presenta due aspetti fondamentalmente contrastanti con lo spirito e la lettera del progetto di Costituzione. Innanzi tutto rappresenta un parto della mentalità giusnaturalista, propria dei governi clericali, paternalistici ed assoluti, che tende a restringere la libertà della Chiesa e aggiogarla al carro della «ragion di Stato».

Questa mentalità ha sortito l’articolo 2 del Concordato, che dice: «Tanto la Santa Sede quanto i Vescovi possono pubblicare liberamente ed anche affiggere nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al culto o ad uffici del loro ministero, le istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bollettini diocesani ed altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli…», ecc.

Ecco a che cosa si riduceva la libertà di stampa per la Chiesa cattolica!

L’ingerenza poi dello Stato nella nomina dei vescovi e dei parroci, è consacrata negli articoli 19, 20, 21.

Tale aspetto del Concordato contrasta con la natura dei limiti che lo Stato democratico si riconosce e con le autonomie che esso intende garantire agli altri gruppi sociali e si mette in antitesi con lo stesso primo comma dell’articolo 5 che riconosce tali autonomie con una certa prosopopea fuor di luogo in una Costituzione. La Chiesa cattolica, come del resto le altre Chiese, dev’essere lasciata pienamente libera nella sua amministrazione interna e nella nomina dei suoi vescovi e parroci.

In secondo luogo, il Concordato del 1929 – se la logica non è una semplice opinione e se le parole devono essere intese nel significato che tutti loro attribuiscono – ribadisce il carattere confessionale dello Stato italiano ed anch’esso si mette in conflitto aperto ed evidente con gli articoli 7 e 14 del progetto di Costituzione, che affermano il principio della indiscriminabilità politica e sociale, in base ad un criterio religioso, e l’eguaglianza dei diritti.

Questo principio mi pare offeso dall’articolo 5 del Concordato che suona così:

«Nessun ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello Stato italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo senza il nulla osta dell’ordinario diocesano.

«La revoca del nulla osta priva l’ecclesiastico della capacità di continuare ad esercitare l’impiego o l’ufficio assunto.

«In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».

E dell’articolo 36, che dice: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica…», ecc.

Di fronte a tale testo, il più modesto dei ragionatori arguisce, mi pare, come segue.

Se «cattolico» deve essere l’indirizzo della scuola statale, come potranno insegnarvi i maestri che non condividono questo indirizzo e dove quei genitori, che parimenti non lo condividono, potranno mandare a scuola i loro figliuoli?

Se tale deve essere l’indirizzo della scuola statale, viene praticamente distrutta la distinzione tra scuola confessionale e non confessionale, e distrutta, con essa, la libertà di insegnamento che la nostra Costituzione sancisce.

L’onorevole La Pira, per giustificare, per inquadrare, come disse lui, l’inclusione dei Patti lateranensi nella Carta costituzionale, si è appoggiato alla teoria del cosiddetto pluralismo sociale e giuridico, tanto caro agli scrittori e ai politici cattolici di Francia.

A questo pluralismo s’appellò anche, nel suo discorso, l’onorevole Tupini. Ma, onorevoli La Pira e Tupini, siete stati degli incauti; la dottrina del pluralismo sociale e giuridico, alla quale anche i cristiani sociali si ispirano, costituisce un’aperta condanna della posizione da voi abbracciata nei riguardi delle relazioni tra Chiesa cattolica e Stato italico.

La teoria in questione ammette sì, come si esprime un autore che l’onorevole Tupini citò, statuti giuridici diversi per le diverse chiese e famiglie spirituali conformi alla natura di ciascuna, ma sopra una base civica eguale per tutti.

Non discuto le vostre rette intenzioni; ma mi dovreste dimostrare come qualmente l’articolo 1 dello Statuto albertino, che ritroviamo nel Trattato, e l’articolo 5 e 36 del Concordato rappresentino un esempio di parità civica da prendere a modello.

I cattolici francesi dell’M.R.P., che sono seguaci della dottrina del pluralismo sociale e giuridico, la pensano proprio come i cattolici del Partito cristiano sociale, ed hanno conseguentemente definito laico lo Stato che essi vogliono costruire.

Qui, onorevoli colleghi, è in contrasto non certo una diversa concezione dell’uomo o una diversa concezione religiosa, ma una diversa concezione della politica.

Si tratta di cercare raccordo sopra una direttiva politica, non proprio sopra una idea specificamente religiosa, il che esorbiterebbe dal nostro campo, da quello di questa Assemblea, dalla natura stessa di un testo costituzionale.

Si tratta di decidere se lo Stato debba sì o no definirsi in base a un determinato credo religioso, se il nostro Stato dovrà essere sì o no confessionale, se cioè dovrà, sì o no, in definitiva, invadere il campo della Chiesa o la Chiesa invadere il suo campo o come si sia confondersi, sì o no, con la Chiesa.

Quando lo Stato dichiara la sua religione, con ciò stesso si qualifica non in forza di una sua determinata natura, ma in base alla natura della Chiesa; e in tal caso quale valore attribuire, onorevoli colleghi, alle parole del primo comma: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»? Come, mettere questo primo comma dell’articolo 5 d’accordo col secondo comma, che si riallaccia al primo articolo dello Statuto albertino?

Rimanendo tali contradizioni e non potendosi, d’altra parte, sopprimere la diversità di natura dello Stato e della Chiesa per volontà umana o in seguito a solonica sentenza, come la storia ci insegna, i rapporti tra l’uno e l’altro di fatto si determinerebbero come una lotta di ingerenze, egualmente esiziale per la Chiesa e per lo Stato.

Ciò che questa Repubblica non può volere che avvenga, perch’essa vuol garantire ogni libertà e non offenderne nessuna e difendere ogni suo diritto, senza offendere l’altrui.

Non è che mi faccia dunque paura la firma di Mussolini apposta ai Patti lateranensi, se la firma di Mussolini non vi avesse lasciato niente dello spirito e dei procedimenti del fascismo.

Ma purtroppo non è così.

Questi documenti, così come furono stilati, poterono essere uno strumento di pacificazione, e forse lo furono veramente tra la Chiesa e lo Stato fascista o, meglio, un semplice modus vivendi tra i due poteri; ma nego che possano continuare ad essere, in tutte le loro assunzioni, uno strumento di pacificazione tra la Chiesa e lo Stato democratico e repubblicano, che, per sua natura, non può volere un semplice modus vivendi, un accordo basato sul do ut des, ripugnando alla sua stessa natura ogni sorta di compromesso, di accomodamento, di empirica negoziazione in fatto di libertà e di garanzie.

Onorevoli colleghi, bisogna decidersi! O fare lo Stato confessionale, con tutte le sue logiche conseguenze, come esplicitamente lo vogliono i Patti lateranensi, e, in tal caso, bisognerebbe modificare sensibilmente gli articoli 7 e 14, o fare lo Stato aconfessionale, come lo vogliono gli articoli 7 e 14, ed allora bisogna sopprimere o modificare il secondo comma dell’articolo 5.

Onorevoli colleghi, non si può tenere il piede in due staffe; o prendere o lasciare! Qui non è soltanto questione di logica, ma di elementare onestà. Ed è alla vostra onestà, ch’io, in definitiva, mi appello, sicuro di non essere deluso.

La legislazione italiana sui rapporti tra Stato e Chiesa non può continuare a dibattersi – come da un secolo a questa parte s’è dibattuta – in una continua contradizione, in un continuo compromesso tra vecchio e nuovo, che turba la pace della Nazione.

Poiché né i principî della logica, né quelli dell’onestà possono giustificare l’inclusione sic et sempliciter di quel Patto nel testo costituzionale, questa inclusione acquista il valore di un mero atto di forza, suggerito, se si vuole, dalla diffidenza verso questo regime democratico; insomma, nella migliore delle versioni, non può apportare che un eccesso di garanzia, inintelligente e dannoso alla Chiesa e allo Stato, perché è con la preoccupazione di salvaguardare i diritti dell’una e dell’altro, ch’io parlo.

È pertanto doloroso constatare come un Paese, cattolico a così grande maggioranza, mostri così poca fede nei procedimenti democratici, da ritenerli insufficienti a garantire alla Chiesa cattolica la libertà della sua spirituale missione.

Questo gesto di sfiducia verso la democrazia si converte in un gesto di sfiducia verso i cattolici italiani che non si stimano capaci di garantire la loro Chiesa, in regime di libere istituzioni.

Si comprende, perciò, la mia ribellione come democratico e come cattolico. Che se poi coloro che hanno voluto tale inclusione, in aperta contradizione con l’articolo 14, che pur hanno avallato con la loro firma, hanno realmente inteso di fare dello Stato italiano uno Stato confessionale, più sinceramente mi sarei atteso da loro che il primo comma dell’articolo 5 riproducesse il primo articolo del Trattato, che a sua volta riproduce il primo articolo dello Statuto albertino, che, com’è noto, consacra, apertis verbis, il carattere confessionale dello Stato italiano.

Questo articolo, come tutti sanno, si trova celato nel secondo comma dell’articolo 5 del progetto di Costituzione.

Ma io mi domando come mai, in considerazione della sua decisiva importanza in materia, esso non sia stato piuttosto chiamato ad occupare il 1° comma dell’articolo 5, eliminando, così, quella bruttura giuridica, rilevata dall’onorevole Calamandrei, che presenta l’attuale dizione del primo comma.

Perché, per non dire altro, questa assoluta mancanza di chiarezza?

Perché complicare i termini di un problema di così grande importanza?

Questo problema non tocca forse ciò che gli italiani, cattolici e non cattolici, hanno più caro della vita?

Perché una così scarsa sensibilità dei problemi spirituali?

Perché s’è voluto scherzare proprio con questo problema?

Quali i motivi che hanno potuto spingere a compiere un gesto così profondamente antigiuridico, impolitico ed ingiusto?

Si è data, con ciò, l’impressione, tutt’altro che simpatica, di aver voluto far passare dalla finestra ciò che forse non sarebbe passato dalla porta; o, ciò che sarebbe molto più grave, non si aveva il coraggio di far passare dalla porta.

La Chiesa cattolica, onorevoli colleghi democristiani, e mi rivolgo specialmente a voi, ma non soltanto a voi, non può passare dalla finestra! Deve passare dalla porta. E non dalla porta del confessionalismo, divenuta ormai porta di servizio, ma dalla porta, ch’è padronale per tutti, della democrazia.

Non con questi mezzucci, che suonano sfiducia verso la democrazia, si difendono, nel migliore e più efficace dei modi, le vere libertà della Chiesa; ma rafforzando lo spirito stesso della democrazia e le istituzioni democratiche.

La difesa della libertà della Chiesa, se posta in termini di democrazia, troverebbe l’appoggio di tutto il popolo senza distinzione di credo; mentre, se posta al di fuori di questi termini, getta l’amarezza anche nel cuore di molti cattolici, ai quali se il comma passerà tale e quale in questa Assemblea, com’è passato nella Commissione dei 75, non resterebbe davvero che augurarsi una cosa: che sia la Santa Sede stessa (come del resto saggiamente ha fatto in analoghe occasioni) a prendere l’iniziativa della necessaria ed improrogabile revisione, per non mettere il Governo italiano in gravi difficoltà.

Ma è nostro preciso dovere, di cui siamo debitori verso la gerarchia cattolica, verso i cattolici e verso tutto il popolo italiano, di non attendere questa iniziativa, ora che la possiamo prendere noi costituenti, mentre siamo nell’esercizio del nostro mandato.

La permanenza dei Patti lateranensi nella Costituzione, rilevò già l’onorevole Basso, provocherà purtroppo un appello all’O.N.U., appello le cui ripercussioni, morali e politiche, potranno non essere simpatiche per il nostro Paese.

Tale permanenza farà entrare in funzione quell’odiosissimo articolo 15 della seconda parte del nostro Trattato di pace, che suona così:

«L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone rientranti nella sua giurisdizione, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione, il godimento dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentale, ivi compresa la libertà di espressione del pensiero, la libertà di stampa e di pubblicazione, la libertà del culto, la libertà di opinione e di riunione».

Ciò costituirebbe il peggiore dei mali che ci potrebbe capitare; peggiore della perdita della flotta, peggiore della perdita di Trieste e delle Colonie.

Già l’onorevole De Gasperi nel ricevere, durante il suo viaggio negli Stati Uniti d’America, una Commissione del «Consiglio federale della Chiesa di Cristo», poté saggiare gli umori di quelle potenti comunità che esplicitamente lo interrogarono attorno all’introduzione del Concordato nella Costituzione. Stando a ciò che riferì in data 21 gennaio l’«Associated Press», l’onorevole De Gasperi rispose all’interpellante reverendo Anthony che «non credeva che i termini del Concordato sarebbero stati inclusi nella Costituzione».

Dunque i «termini» no, ma il Concordato sì; tutto il Concordato, il Concordato di peso sì, come è avvenuto di fatto. Ma chi ci raccapezza niente?

Queste parole di «colore oscuro» dell’onorevole De Gasperi dimostrano, per lo meno, il suo imbarazzo di fronte a così precisa richiesta del reverendo Anthony, ed anch’esse vengono a giustificare pienamente le mie richieste e la conseguente mia proposta di emendamento.

La battaglia, per la difesa della missione spirituale della Chiesa, bisogna portarla – o amici democristiani – decisamente sul terreno della più schietta democrazia.

Bisogna abbandonare i vecchi metodi di difesa, buoni, forse, e giusti per altri tempi, ma che nel nostro tempo si sono mostrati dappertutto inefficaci, e rischiano di offendere la giustizia.

Soltanto sopra una base, chiaramente espressa, che non ammetta politiche discriminazioni, neanche formali, tra maggioranza cattolica e minoranze acattoliche, la religione della maggioranza potrà ricevere le migliori e più concrete garanzie di libertà.

Che cosa temete, o amici democristiani, dall’adozione sincera e totale di questo metodo? Che in regime democratico non ci sia posto per una conveniente manifestazione pubblica della vostra, di tanti altri che risiedono in tutti i settori di questa Assemblea, e della mia religione?

Voi non potete temere questo; e se lo temete, a maggior ragione dovreste temere dell’efficacia di alcune forme giuridiche, irritanti e contradittorie, che avete avuto il grande, ma non altrettanto encomiabile, coraggio (perdonatemi il rilievo) di proporre e di difendere a spada tratta, e che non assicurano affatto la pace religiosa, come per avventura potreste credere, nel nostro Paese, che ha tanto bisogno di unità e di amicizia politica per risorgere.

Se mai, lasciate pure che altri settori dell’Assemblea continuino a tenere questa linea di condotta; e che non voi, che parlate a nome della democrazia e del cristianesimo, ma altri, compiano certi tentativi, che offendono lo spirito dell’una e dell’altro.

Infatti la vocazione del «cattolico» non è certamente quella di coltivare una mentalità da «parrocchiano»; di sua natura essa si dirige verso l’universale, e di tutto ciò che è genuinamente universale, come sono i diritti naturali dell’uomo e la libertà; e di questi valori si nutre e potenzia.

Le libertà democratiche, il costume e il metodo democratico, appartengono di diritto anche all’anima del cristianesimo.

Sul terreno politico, chi realizza il rispetto dell’uomo e l’umana fratellanza predicati dal Vangelo è lo spirito ed il metodo democratico. Non potete ferire la democrazia senza ferire l’anima cristiana!

L’includere di peso, senza alcuna discriminazione e riserva, i Patti Lateranensi nel testo costituzionale, rappresenta un tentativo di inserire un corpo estraneo nel corpo della nostra democrazia; costituisce un tentativo di ferire a morte la nostra «giovinetta Repubblica».

Del resto, l’amico onorevole La Pira ha ammesso anche lui che in questi Patti ci possa essere qualche punto che non va, e che sarà revisionato. Benone! Frattanto noi siamo chiamati a prendere posizione, conformemente alle sue ammissioni, per quanto ci concerne…

L’onorevole La Pira, egli lo ha detto espressamente, non vuole lo stato confessionale. Benone! Ma i Patti dichiarano lo stato confessionale. Frattanto noi abbiamo il dovere – dato che si voglia insistere nel mantenere la menzione dei Patti nella Carta costituzionale – di dichiarare che non vogliamo lo Stato confessionale. E ciò per andare d’accordo con la nostra coscienza e con l’oratore ufficiale della Democrazia cristiana; il che ci fa sempre piacere.

Dopo avere espresso, con la massima sincerità, il mio pensiero circa l’inclusione dei Patti lateranensi nel Testo costituzionale, d’altra parte mi rendo conto delle difficoltà contingenti che, in seno a questa Assemblea e fuori di essa incontrerebbe una proposta che mirasse ad abolirne interamente la menzione.

Una proposta di tal genere, onorevoli colleghi delle sinistre, potrebbe far sorgere il sospetto che si abbia l’intenzione di sbarazzarsi non di alcuni, ma di tutti gli articoli dei Patti, e non soltanto in sede di Carta costituzionale.

Noi non possiamo far sorgere tale sospetto. Tale sospetto se è fondamentalmente ingiustificato, bisogna, però, convenire che è in qualche modo alimentato da notevoli correnti anticlericali e niente affatto democratiche esistenti nel Paese.

C’è anche chi ritiene che gli articoli 7 e 14 siano sufficientemente chiari ed impegnativi per garantire la libertà religiosa sia della maggioranza cattolica che delle minoranze cattoliche.

Con l’inclusione, poi, nella Costituzione, degli articoli contro il divorzio e per la libertà d’insegnamento ed altri, i cattolici si sarebbero potuti ritenere sufficientemente garantiti.

Ma io non voglio qui discutere questa rispettabile opinione, e desidero invece osservare che mentre l’inclusione dei Patti, se fatta di peso e senza discriminazione, può suscitare un dissidio fondamentale tra i due poteri, che non conviene a nessuno minimizzare, una menzione la ritengo però politicamente opportuna, oggi come oggi, in una qualsiasi parte del testo, in considerazione dell’attuale schieramento delle forze. Basta che ne sia deliberatamente determinata la portata.

Si tratta, se si vuole, di una menzione ad abundantiam, che forse potrebbe offendere la sensibilità giuridica di alcuni ed anche la mia, ma è una menzione di cui i politici possono capire la grande opportunità, in quanto calma eventuali apprensioni (del resto non del tutto ingiustificate, come ho detto) e facilita la futura buona comprensione e la reciproca fiducia tra le parti, che è tanto necessaria per governare il Paese.

Ma se la menzione non potrà essere evitata per le esposte considerazioni, ritengo che, comunque, debba venir neutralizzata di quella parte di preoccupazioni, che essa desta a numerosi colleghi, con una esplicita dichiarazione che metta in rilievo come il secondo comma dell’articolo 5 non può, in ogni modo, entrare in conflitto, con il carattere aconfessionale dello Stato e con quanto è sanzionato negli articoli 7 e 14. Il secondo comma, emendato in tal senso, suonerebbe così:

«I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi, in quanto non entrino in conflitto con il carattere aconfessionale dello Stato e con il principio della uguaglianza dei diritti di cui agli articoli 7, 14 e 15 della presente Costituzione».

Con il mio emendamento la revisione dei Patti lateranensi – e soltanto la revisione – è dichiarata aperta costituzionalmente.

Il futuro legislatore ed uomo di Stato non si troverà più in imbarazzo se applicare l’articolo 5 o gli articoli 7 e 14.

Lo Stato italiano con ciò prende una posizione di massima e precisa una sua linea direttiva da valere nella revisione dei Patti, che dovrà essere negoziata tra le parti, esplicitamente indicando questa linea nei principî contenuti negli articoli 7 e 14 che sanciscono il carattere aconfessionale dello Stato italiano e la parità dei diritti di tutti i cittadini, indipendentemente dal credo religioso da ciascuno professato.

Questa mi pare essere la sola via della sincerità, dell’onore, della saggezza politica.

Gli onorevoli colleghi democristiani non possono negare ragionevolmente il loro appoggio al mio emendamento senza farci sorgere il sospetto che la loro votazione a favore degli articoli 7 e 14 non sia stata sincera; senza farci sorgere il sospetto che si voglia giocare con l’articolo 5 per eludere, almeno in parte, ciò che si dice negli articoli 7, 14 e 15. (Commenti al centro).

Ma io ritengo che essi non abbiamo mai avuto intenzione di giocare; ritengo, piuttosto, che essi non si siano accorti della flagrante contradizione esistente fra questi articoli, o che abbiano bisogno di un incoraggiamento per superare una posizione in cui li han posti, senza loro colpa, certe contingenze storiche e ambientali di cui loro sono le prime vittime, e che io non credo opportuno, qui, di enumerare.

Non so se vorrete accettare da me tale incoraggiamento, onorevoli colleghi democristiani; io rappresento, in questa Assemblea, una vox clamans in deserto, senza efficace forza politica. (Commenti). Ma io mi rivolgo a voi ugualmente perché conosco i miracoli che sa compiere il sentimento della fraternità cristiana, che non può giammai separarci, e che ci fa abbracciare tutti gli uomini, indipendentemente dalla famiglia religiosa e politica alla quale appartengono. Perciò vi prego di accettare se non la formula, almeno lo spirito, del mio emendamento, che mira ad allontanare ogni ombra di dubbio sulle vostre intenzioni, che certamente rifuggono dal voler mortificare una sola anima, che è pellegrina in questa nostra Repubblica.

Al gruppo liberale, che in sede di Commissione dei Settantacinque ha affiancato la democrazia cristiana, rivolgo lo stesso appello.

I liberali, che hanno una così magnifica tradizione di amore alla libertà, sono in grado di apprezzare in tutto il suo valore la portata del mio emendamento.

E ai compagni delle sinistre, con i quali Condivido la tormentosa ansia per la giustizia sociale, che hanno votato, sdegnati, contro il secondo comma dell’articolo 5, con il mio emendamento ho la coscienza di offrire l’occasione di dimostrare sensibilmente come non sia nelle loro intenzioni di turbare la pace religiosa in Italia. Il mio emendamento, se chiede loro un sacrificio di forma, salva però, esplicitamente, la sostanza che deve essere da tutti salvata, dalla destra, dal centro, dalle sinistre.

A nessuna delle parti conviene stravincere.

Intendiamoci bene! Nessuno più di me è convinto che il mio emendamento rappresenti una vera bruttura dal punto di vista giuridico.

Io l’ho presentato nella supposizione che si voglia mantenere in piedi l’impalcatura dell’articolo 5, mentre dichiaro che sarei pronto a ritirarlo qualora si giudicasse preferibile includere la menzione dei Patti, per esempio, tra le «disposizioni finali e transitorie», in attesa della loro revisione, o qualora, in altra parte qualsiasi del testo, la loro menzione fosse comunque fatta con quelle cautele che sono nello spirito del mio emendamento.

Onorevoli colleghi, dobbiamo vincere questa battaglia della sincerità e dell’onore! Essa è forse la più dura e, certo per me, la più dolorosa a combattere. Ma è certo la più significativa, perché puntualizza la vera essenza dell’umanesimo cristiano di cui sono seguace, e più di ogni altra scopre quello che deve essere il genuino volto della democrazia e della Repubblica.

Nel chiudere il mio discorso mi assale il dubbio di aver troppo drammatizzato il problema. In tal caso io dovrei chiedervi perdono. Voi mi risponderete che anche su questo benedetto articolo 5 non esistono due trincee l’una contro l’altra armata, e che tutto andrà a posto, perché gli animi sono tutti volonterosi, e tutti pronti ad accordarsi.

In tal caso, cancellate pure, dalla vostra memoria, le mie parole sciocche e vane, per tema che esse vi abbiano potuto offendere e possano intralciare la vostra opera di pacificazione della giustizia. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Marchesi. Ne ha facoltà.

MARCHESI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, entro senza preamboli nella zona ardente, come ha detto l’oratore che mi ha preceduto, dell’articolo 5, col proposito di trattenervi il meno possibile in questo inferno. Sul secondo comma dell’articolo 5 ha già lucidamente l’onorevole Togliatti espresso il pensiero del nostro gruppo. A me non resta che aggiungere alcune rapide osservazioni con l’animo di chi questo articolo ha visto nascere, senza avere alcuna responsabilità nella sua genitura. Tale comma, da alcuni autorevoli membri di questa Assemblea, è stato considerato e si considera come una indebita e incauta intrusione; io continuerò a credere che sia dovuto, piuttosto, a mancanza di buona intesa e di fiducia. Ma a tale mancanza di fiducia confido si possa riparare in quest’Assemblea, dove le nostre dichiarazioni hanno più di solennità decisiva e di pubblicità. E spero, come ho sempre sperato, che la democrazia cristiana (questo grande partito politico, che, fra i suoi compiti principali, ha certamente quello di preparare migliori condizioni di convivenza e di coesistenza fra lo Stato e la Chiesa) ci venga incontro nel trovare tale accordo; accordo auspicato dall’onorevole Orlando, dall’onorevole Togliatti, dal presidente nella nostra Commissione dei 75; accordo che noi abbiamo invano, senza fortuna, tentato di raggiungere in quella prima Sottocommissione, dove pure qualche volta ha regnato una così amichevole e sorridente discordia.

I colleghi della prima Sottocommissione sanno che nessuno di noi ha mai pensato, ha mai sognato di chiedere la denunzia dei Patti lateranensi.

Nostro proposito era ed è che la Costituzione, che stiamo per dare alla Repubblica italiana, non sia impegnata fin da principio da norme, le quali continueranno a vivere fino a che le circostanze e la saggezza delle parti insieme lo permetteranno.

Ma i colleghi democristiani hanno voluto che questi Patti entrassero nel tessuto organico e vitale della Costituzione della prima Repubblica italiana.

Onorevoli colleghi, la Chiesa con varietà di aspetti ha sempre proceduto con la civiltà del mondo della quale è stata largamente partecipe; ed ha badato a che l’orologio della storia non suonasse nei suoi riguardi ore troppo avanzate; e, quando questo è avvenuto, ha saputo attendere e ricavare dalla forza e dall’autorità sua secolare la possibilità di riconoscimenti e di conciliazioni.

Nel febbraio del 1929 una conciliazione concludeva uno dei periodi più inquieti della vita politica italiana.

La legge delle guarentigie era servita a consolidare uno Stato attuale: l’Italia unificata con Roma capitale; ed a mostrare al mondo cattolico la indipendenza spirituale della Chiesa.

Quella legge non aveva in sé germi di longevità, perché non aveva capacità di sviluppi. Il dissidio non poteva essere sanato che mediante una legge di conciliazione, la quale nell’interno componesse la pace religiosa, e d’altra parte potesse eliminare ogni possibilità di umiliante intervento di potenze straniere nelle cose italiane.

Nel campo politico quella delle guarentigie fu una provvida legge nazionale, nel campo ideologico fu una legge della borghesia colta, la quale aveva da custodire un passato di due secoli.

Intanto nuove forze si profilavano verso l’avvenire, in quell’800 che fu certamente uno dei più grandi e forse il più grande secolo della storia umana, perché tutti contenne in sé i germi del futuro.

Le classi lavoratrici si avanzavano verso la loro emancipazione, e la borghesia, compresa la borghesia colta, e vorrei dire anche quella massonica, cominciarono a guardare con altro animo verso la Chiesa di Roma.

Già nell’anno 1887 in tutti gli ambienti politici romani si parlava di una legge di conciliazione. I Ministri di allora, Crispi Ministro dell’interno e Zanardelli Ministro Guardasigilli, a Giovanni Bovio che li interrogava, rispondevano riaffermando la nota formula: sovranità dello Stato e libertà della Chiesa. Una formula che cominciava già ad invecchiare dinanzi alle esigenze crescenti di rapporti diretti ed immediati fra lo Stato e la Chiesa.

Noi sapevamo di già, e l’onorevole Orlando ce l’ha ricordato, che la storia del Concordato non comincia a Roma nel 1926 per concludersi nel 1929, protagonista Mussolini, ma era cominciata a Parigi nel 1919, protagonista Vittorio Emanuele Orlando.

NITTI. Era cominciata nel 1917.

MARCHESI. Ringrazio l’onorevole Nitti della rettifica. Nel 1917 dunque, dicevo, ebbe a protagonista l’onorevole Orlando.

Voci. Nel 1917 c’era anche Nitti.

PRESIDENTE. Onorevole Marchesi, non si soffermi alle interruzioni. La sostanza della sua argomentazione rimane inalterata anche se vi è una differenza di due anni.

MARCHESI. Ad ogni modo se l’onorevole Orlando o l’onorevole Nitti non poterono precedere Mussolini, questo fu dovuto alle inquiete acque della politica italiana che impedirono – a quanto si afferma – una serena soluzione della questione romana. E così si dovettero aspettare dieci o dodici anni perché si potesse giungere a quella soluzione.

Di fronte alla Chiesa stava il Governo fascista, l’unico Governo con il quale la Santa Sede potesse trattare; e i Patti furono sottoscritti e la pace religiosa fu conclusa. Il fascismo non tardò ad annunciare ai quattro venti il trionfo della propria saggezza.

E in questa medesima aula, nel maggio del 1929, il capo del Governo, con quel suo fraseggiare fra l’altezzoso e il minaccioso, che finiva spesso con una volgarità, affermava: «Lo stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità. È cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il cattolicesimo lo integra, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola».

Nel giorno del Corpus Domini, il Pontefice, nel messaggio inviato al cardinale segretario di Stato, precisava argutissimamente:

«Stato cattolico, si dice e si ripete, ma stato fascista. Ne prendiamo atto, senza speciali difficoltà, anzi volentieri, giacché ciò vuole indubbiamente dire che lo stato fascista, tanto nell’ordine delle idee e delle dottrine, quanto nell’ordine della pratica azione, nulla vuole ammettere che non si accordi con la dottrina e con la pratica cattolica, senza di che stato cattolico non sarebbe né potrebbe essere».

Di fronte al fascismo violatore di ogni coscienza e di ogni libertà, la Chiesa cattolica affermava la propria supremazia morale e sopra i delirî di una scomposta tirannia, poneva la stabilità e l’altezza del suo insegnamento religioso.

Ma, onorevoli colleghi, io mi domando: oggi è la stessa cosa? Interpretando il primo articolo del Trattato, quel primo famoso articolo del Trattato, per il quale la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato, voi, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, giungereste alle medesime conclusioni di allora, del 1929? Oggi, in cui l’onorevole La Pira, ferventissima anima cattolica, nel quattordicesimo articolo della sua relazione, propone che ogni cittadino abbia la libertà di esprimere con ogni mezzo le proprie opinioni e i propri pensieri, oggi noi siamo certamente in una diversa situazione.

E voi, se non avete diaboliche riserve mentali – e il diavolo non può venire a patti con voi in nessun modo – vi trovate con noi sulla medesima linea della libertà.

Già la modificabilità dei Patti lateranensi era affermata nell’articolo 44 del Concordato, il quale diceva: «Se in avvenire sorgesse qualche difficoltà sulla interpretazione del presente Concordato, la Santa Sede e l’Italia procederanno di comune intelligenza ad una amichevole soluzione». Si parla di interpretazione, ma noi sappiamo, e la Chiesa sa, e voi sapete, che interpretare significa spesso creare, e l’interprete è spesso un ricreatore. D’altra parte la parola del Pontefice su questo punto conferma la nostra opinione: «Qualche particolare divergenza o dissenso – scriveva il Pontefice al Cardinal Gasparri – in tanta varietà di cose quante contiene il Concordato, altrettanto è inevitabile che rimediabile e componibile». Componibile, dice il testo pontificio. E a qualche elemento di nuova composizione, se non ricordo male, mi pare che assentissero nella prima Sottocommissione – sebbene con lievissimo battere di ciglio – parecchi colleghi della democrazia cristiana; per esempio, riguardo a quel famigerato articolo 5 del Concordato, col quale lo Stato, riconoscendo la incapacità giuridica degli ex-religiosi cattolici, viene ad urtare coll’articolo 7 della nostra Costituzione che contiene una così nobile affermazione di eguaglianza giuridica per tutti i cittadini. E ricordo l’osservazione di uno dei nostri egregi e stimati colleghi di Commissione, il quale diceva: «Se un qualche articolo del Concordato non dovesse corrispondere più ad una vasta parte dell’opinione pubblica, ebbene, il Governo italiano faccia presente alla Santa Sede l’opportunità di una soppressione o di una modificazione. La Santa Sede, non rifiuterà certamente di trattare coi rappresentanti del Governo italiano». Già: ma voi con la inserzione dello articolo 5, date alla Santa Sede il diritto di non trattare, il diritto di chiudere le porte in faccia ai rappresentanti del Governo italiano; e di chiuderle in nome e in onore della Costituzione della prima Repubblica.

Nella seduta dell’11 dicembre l’onorevole Dossetti – non dispiaccia al collega se faccio il suo nome – conveniva che al riconoscimento costituzionale dei Patti in vigore si possa opporre una serie di obiezioni tecniche, quali, ad esempio l’opportunità di alcune affermazioni; opportunità affermata esplicitamente dall’onorevole Moro con uno spirito di larga democrazia.

Egli diceva: «essere intenzione della democrazia cristiana portare il suo contributo perché siano operati nel Concordato quei ritocchi che valgano a rendere i termini della pace religiosa perfettamente aderenti allo spirito liberale e democratico della nostra Costituzione». Ed allora, perché incuneare quei Patti nella nostra Costituzione, se già riconoscete che quel cuneo va levigato?

L’onorevole La Pira, il quale si è fatto mistico anche della realtà concreta, osservava in quel discorso che abbiamo ascoltato con vivo interesse, che i Patti lateranensi esistono, sono una realtà concreta, e bisogna pertanto riconoscerli. Ma, onorevoli colleghi, non tutto quello che esiste si può e si deve riconoscere. La Costituzione deve contenere quelle norme che hanno validità oggi e più ne avranno domani; non quelle che sono già bisognose di cancellatura e di correzione, come voi stessi avete riconosciuto.

Un’altra ragione adduceva l’onorevole Dossetti per sostenere la necessità d’inserire quei Patti, questa: «Quando, sotto il velame di esplicite dichiarazioni di rispetto ci si rifiuta a questo riconoscimento in nome di pretese difficoltà tecniche, i democristiani hanno ragione di sospettare che tale atteggiamento nasconda qualche cosa di più che una semplice ragione di essere, e che ci sia una ragione politica, e che non si voglia dare quella garanzia che i democristiani considerano fondamentale e che chiedono venga affermata nella Costituzione».

Dunque, come dicevo prima: mancanza di fiducia, dunque sospetto che il risorto e rinnovato Parlamento italiano possa riportare, ora, quelle condizioni di inquietudini e di agitazioni politiche che impedirono allora, prima del fascismo, la soluzione della questione romana. Ma, pensare in questo modo, onorevoli colleghi, significa impugnare la validità ed il fondamento popolare e nazionale dei Patti lateranensi; significa non riconoscere che la situazione è mutata oggi; ed è culminata in quello che, con un arguto motteggio, l’onorevole Orlando chiamava il triunvirato; un triunvirato che non è quello di Crasso, Pompeo e Cesare, dei tre capi di esercito e finanzieri che mettevano insieme le proprie forze personali di contro all’autorità del Senato di Roma; che non è un triunvirato De Gasperi, Togliatti e Nenni; ma un Comitato di tre Partiti, il quale si è costituito per effetto di una lotta combattuta insieme, con le armi alla mano, contro l’oppressore; e per effetto di un solenne ed imponente responso popolare.

Ma, che cosa vogliamo noi comunisti? La revoca dei Patti Lateranensi? Sarebbe una stoltezza ed una colpa. Vogliamo la loro modificazione? Nemmeno. A modificarli penseranno, quando sarà opportuno (e credo che l’ora non debba tardare) le due parti interessate.

Noi vogliamo che questi Patti Lateranensi non entrino nell’ossatura e non divengano parte organica del nuovo Stato; vogliamo che essi abbiano vigore come gli altri trattati, con quel senso di speciale osservanza che devono avere per noi italiani.

Questa discussione non l’abbiamo voluta noi. Voi l’avete voluta: nessuno di voi poteva immaginare che sarebbe rimasto avvolto nel silenzio il tentativo di inserire quei Patti nella Costituzione repubblicana d’Italia.

Con quei Patti, certamente una nuova storia è incominciata nei rapporti fra la Chiesa e lo Stato italiano. Noi vogliamo che quella storia non si arresti; noi vogliamo che quei Patti siano mantenuti, anzi, siano resi più validi in un’aria più limpida di libertà e di sincerità. Di sincerità, colleghi democristiani. Credeteci: sarà meglio per tutti. Da questi banchi nessuna offesa potrà venire alle anime religiose ed ai principî della solidarietà umana, nessuna offesa.

Io comprendo un liberalismo anticomunista; non comprendo un cristianesimo anticomunista. Capisco il liberale, il quale afferma che la libertà economica è fattore essenziale, indispensabile di progresso sociale ed individuale; non comprendo il cristiano ed il cattolico, il quale affermi che senza la professione di quella determinata religione positiva, non si possa vivere onestamente, e generosamente.

Una voce a destra: Nessuno lo nega! (Commenti al centro).

MARCHESI. Voi dite: nessuno lo nega. Ma è certo un problema grave questo per voi: «come si possa vivere cristianamente, senza professare il Cristo». Mistero angoscioso; ma quel mistero accettatelo, come lo accettava il sommo dottore della Chiesa.

Fra questi nostri banchi voi trovate i cristiani professanti; gli altri, quanti viviamo nel buio, ma viviamo onestamente, siamo i cristiani partecipanti.

Adopero parole tomistiche.

Non ponete, onorevoli colleghi, barriere fra il comunismo ed il cristianesimo. Mi rivolgo a voi che avete dottrina e coscienza. Non ponete barriere fra il comunismo ed il cristianesimo.

Da molti pulpiti si sente dire: essi, i comunisti, sono i nemici della civiltà. Un giorno, non so quanto lontano, da quei medesimi pulpiti si dirà: essi avevano ragione! (Applausi a sinistra Commenti a destra).

Ricordate, onorevoli colleghi, le magnanime parole che un francese, il marchese Melchior de Vogué scriveva allora nel 1889, allorché un pellegrinaggio francese di quattromila operai venne al cospetto di Leone XIII. «Mi pareva, egli scriveva, che fossero entrati allora per la prima volta in San Pietro i rappresentanti del nuovo potere sociale, i nuovi pretendenti all’impero, i soggetti del potere, entrati, come una volta gli antichi imperatori Carlo Magno, Oddone e Barbarossa, per ricevere dal Pontefice la consacrazione e la investitura».

E la riceveranno, onorevoli colleghi democristiani, la riceveranno mercé l’opera dei vostri migliori, la consacrazione e la investitura, i lavoratori dell’Italia e del mondo. Soggetti del potere, i lavoratori. Appunto: e ha ragione l’onorevole Togliatti quando propone di scrivere nel primo articolo della Costituzione quelle due semplici e grandi parole, che non sono parole comuniste, che potrebbero e dovrebbero essere parole piene di profondo sentimento cattolico: Repubblica di lavoratori. Sì, Repubblica democratica di lavoratori; sarà questo il nuovo grande titolo di nobiltà che noi potremo dare al popolo italiano. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.25, è ripresa alle 18.45).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rossi Paolo. Ne ha facoltà.

ROSSI PAOLO. Onorevoli colleghi, nelle disposizioni generali del Progetto manca stranamente una dichiarazione che è scritta invece a capo di quasi tutte le Costituzioni: l’affermazione dell’unità e della indivisibilità della Repubblica; e ciò mentre si introduce l’autonomia regionale e si pone per la prima volta in termini concreti ed attuali un problema sostanzialmente nuovo.

So bene che, confinata in un lontano inciso dell’articolo 106, la frase «Repubblica una e indivisibile» esiste nel progetto, ma noi dobbiamo dichiarare subito che quella modesta forma incidentale non ci basta e non ci assicura. Appunto perché l’ordinamento regionale, sul quale avremo naturalmente anche la nostra parola da dire, non possa mai nel futuro intendersi in senso indipendentista, federalista o quasi federalista, riteniamo che l’affermazione dell’unità e indivisibilità della Repubblica debba trovar posto nelle disposizioni generali e precisamente nell’articolo 1. Laddove si dice: «L’Italia è Repubblica democratica», sarà bene proclamare solennemente, di fronte al serpeggiare e talora all’esplodere di disintegratrici forze anti unitarie, che l’Italia è Repubblica democratica una e indivisibile, indivisibile nella solidarietà della sua economia, che sarà tanto più florida, nei suoi fini politici, che saranno tanto più facilmente raggiunti, nella sua indipendenza, che sarà tanto più sicura, quanto più e meglio il Paese, amministrativamente decentrato e snello, si manterrà nazionalmente unitario e compatto.

Per rispondere subito ad un’affermazione fresca dell’onorevole Marchesi, mi sembra quasi superfluo di dichiarare che il nostro gruppo accetterà la formula: «Repubblica democratica dei lavoratori». E come potrebbe essere diversamente, se siamo fieri di intitolarci appunto «Partito Socialista dei Lavoratori Italiani»? Questa formula, prima di essere un’affermazione politica, è il riconoscimento di una imponente, di una immanente, di una massiccia verità storica. L’Italia è un Paese di lavoratori, dove tutto si è fatto e si farà con il lavoro. Nulla con preziose materie prime vendute dall’estero, nulla con fortunate guerre di conquista, nulla attraverso mantenute posizioni egemoniche. Tutto per mezzo del lavoro, e soltanto col lavoro, dal pane che abbiamo sempre misuratamente mangiato, alla gloria senza confini della nostra civiltà artistica. Con la formula «Repubblica di lavoratori» si vogliono riaffermare, insieme, il carattere pacifico della Repubblica, l’illimitata fiducia nelle risorse del lavoro, l’obbligo di ogni cittadino di prestare l’opera sua per la causa comune.

Ma, sia ben chiaro, per rispondere alle preoccupazioni manifestate da alcuni oratori, dall’onorevole Crispo ieri, dall’onorevole Russo Perez poco fa, che i concetti «lavoro» e «lavoratori» sono intesi da noi nel senso più ampio, nel senso più umano. Non è la Repubblica degli operai e dei contadini quella che concepiamo, né quella degli operai e dei contadini più i tecnici e i professionisti; ma una Repubblica nella quale abbiano cittadinanza anche le attività non meramente economiche, una Repubblica, colleghi democratici cristiani e colleghi liberali, in qui ci sia posto per tutti i cittadini partecipanti utilmente alla vita nazionale.

Talune critiche, e non del tutto infondate, sono state mosse agli articoli 6 e 7 per la imprecisione del loro contenuto, soprattutto per gli impegni che viene ad assumere la Repubblica senza che le siano dati, contemporaneamente, dalla Carta costituzionale, i mezzi per assolverli degnamente. Noi non siamo così ingenui da non comprendere la serietà dell’argomento, ma pensiamo che gli articoli debbono rimanere sostanzialmente come sono e dove sono e ci opporremo a che siano trasferiti in eventuali preamboli. Vogliamo che il legislatore li abbia fissi davanti agli occhi, quali scopi e condizioni della sua attività.

E sono adesso alla zona infiammata della Costituzione. Ma, colleghi della democrazia cristiana, è privilegio di coloro che si sentono, almeno su un punto, puri di cuore, incedere immuni per ignes. E affronto, senza timore, la strada di questo fuoco.

Risuonava qui l’altra sera la parola meditata di Benedetto Croce che interruppe – non per caso, ma per costruire un ponte fra il passato e l’avvenire – il suo diuturno lavoro di filosofo e di storico; risuonava la parola di Benedetto Croce, rappresentante di quel pensiero liberale che dal 1870 al 1915 diede all’Italia una struttura unitaria ed un volto civile. Egli ci esortava, con la sobria sua critica all’articolo 5 del progetto, a non insistere in quel confessionalismo apertamente professato nello Statuto del 1848, scomparso di fatto e di diritto nel 1870 con la breccia di Porta Pia e con la legge delle Guarentigie, e tornato a galla, sotto il segno del più scettico e cinico opportunismo, ad opera della dittatura fascista. Confessionalismo che si radica tuttavia nel nostro Progetto, come ci hanno dimostrato ampiamente, da opposti punti di vista, il liberale onorevole Crispo e il neo-gallicano e forse giansenista…

BRUNI. Cattolico.

ROSSI PAOLO. …anche i giansenisti sono cattolici, onorevole Bruni. E come ci ha dimostrato, meglio di tutti, nella sua infuocata orazione, con argomenti a contrariis, l’onorevole Riccio democristiano.

Il Partito socialista dei lavoratori, che si vanta di riaffermare, onorare, e difendere quanto c’è di vivo e di eterno nello spirito liberale, ritiene invece che indispensabile presupposto della nostra Costituzione debba essere l’intrinseca laicità. Niente di più lontano da noi dell’anticlericalismo vecchio e rinascente. Se si fa accusa a qualche partito di sinistra di sostenere taluni giornali a grande tiratura che io non leggo, non per timore della scomunica del Santo Uffizio, ma perché francamente mi dispiacciono e mi offendono, spero che sia ben chiaro che il nostro gruppo politico non ha con essi radici comuni. L’anticlericalismo del vecchio Partito socialista era rappresentato da quelle correnti borghesi e massoniche… (Interruzioni).

TONELLO. Era rappresentato dal popolo lavoratore. (Commenti).

ROSSI PAOLO. Ci saranno stati anche degli operai anticlericali e certamente il nostro amico e compagno Tonello è un operaio nel senso più nobile della parola; ma lasciami dire, amico e compagno Tonello, lasciami dire questo: che il vero, il grossolano, l’incorreggibile anticlericale della brutta maniera nel nostro vecchio partito, l’uomo incapace per trivialità dell’animo a intendere comunque l’esigenza religiosa, l’esigenza dello spirito, fu proprio il promotore, il sottoscrittore dei Patti Lateranensi, Benito Mussolini. (Commenti Interruzioni).

TONELLO. Non importa.

ROSSI PAOLO. Nella coscienza dell’amico Tonello i sentimenti anticlericali sono ancora vivi; non lo sono più nella mia. Non essere, amico Tonello, clericale verso di me pretendendo che io la pensi esattamente come te e non costringermi ad essere confessionale nell’anticlericalismo. (Commenti Interruzioni).

TONELLO. Tuo padre era anticlericale e anche socialista. (Commenti).

ROSSI PAOLO. Vi sono nel nostro gruppo degli amici e dei compagni illustri che, senza frequentare i sacramenti, hanno fatto con spirito religioso il pellegrinaggio di Port Royal e tutti, se mi permette l’amico Tonello, rispettiamo quanto ha di saggio e di buono la morale cattolica…

TONELLO. Cristiana, sì, cattolica no.

ROSSI PAOLO. …che ha nutrito di sé la tradizione, e la dottrina cristiana, che ha alimentato di sé la nostra storia ed il nostro carattere.

Né si può certo parlare in altro senso di avversione o di contrasto specifico col clero italiano.

Taluno si è doluto – e non del tutto a torto – anche in quest’Aula, che parroci e curati abbiano turbato la coscienza dei fedeli, giovandosi di mezzi religiosi per fini politici, confondendo così il divino coll’umano, il cielo colla democrazia cristiana e l’inferno col partito comunista.

In realtà, salvo le eccezioni di quello spirito che chiamerò, per intenderci, cremonese, la condotta del clero italiano durante le persecuzioni antiebraiche, la lotta partigiana e l’occupazione tedesca, è stata tale, da fare superare, in parte, l’antico vallo e sostituirlo con un legame di solidarietà e di simpatia; solidarietà e simpatia, che noi, sensibili ai valori di questa natura, riaffermiamo di buon grado.

E qui vi domando il permesso di una digressione personale: vorrei esprimere il mio rispetto di laico verso la religione cattolica e la mia gratitudine per l’indicibile conforto tratto nel ventennio. fascista non già dall’opera politica della Curia romana o del cardinale Gasparri, ma dagli scritti immortali dei Padri e dei Dottori della Chiesa, esaltatori della libertà…

TONELLO. Specialmente quando si tratta di strappare i voti (Commenti).

ROSSI PAOLO …da Ignazio Antiocheno, esposto volontariamente nella lotta contro il fascismo di allora, che si chiamava cesarismo, ai denti delle fiere, per essere, come frumento del Signore, macinato e fatto farina più pura, a Tommaso d’Aquino, ricordato testé dal dotto collega onorevole Marchesi, teorizzatore del diritto all’insurrezione (Interruzione dell’onorevole Tonello).

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, la prego di non interrompere!

ROSSI PAOLO. La revisione completa, sostanziale dell’articolo 5, se non, come avremmo desiderato, l’introduzione di un’affermazione laica nell’articolo 1 della Costituzione, non corrisponde ad un’istanza anticlericale.

La revisione, ad onta della difesa d’ufficio del nostro illustre e caro Presidente onorevole Ruini, del quale dirò che mi pare inesatto e sgarbato averlo chiamato il Licurgo del confusionismo italiano, ma che mi pare lecito chiamare il S. Giuseppe di questa Costituzione, perché, per molti articoli, la sua paternità è puramente putativa, così come d’ufficio mi sono parse le sue difese, la revisione, ad onta di quella autorevole difesa d’ufficio, è necessaria.

È necessaria sotto un profilo completamente diverso, ed anzi in un certo senso opposto, ai motivi del vecchio clericalismo. È necessaria la revisione proprio per mantenere quella pace religiosa a cui tutti aspiriamo, e che sarebbe per l’appunto compromessa dal passaggio sic et simpliciter dal Concordato fascista nella nostra Carta costituzionale. È necessaria per impedire la rinascita di quel sentimento inutile e pericoloso che si chiama anti-clericalismo.

Ho assistito ad un interessante dibattito poco fa tra l’onorevole Marchesi e l’onorevole Nitti. L’onorevole Marchesi attribuiva il primo atto di nascita del Concordato e dei Patti Lateranensi ad Orlando, Parigi 1919. L’onorevole Nitti insorgeva dicendo: no, Nitti, Roma 1917. Mi sia lecito introdurmi nel contrasto per dire: non Orlando Parigi 1919, non Roma Nitti 1917, ma Vienna 1914-15, Francesco Giuseppe e la Cancelleria austriaca!

Si esaltano i Patti Lateranensi come una magnifica conquista dello Stato italiano. Ebbene diciamo qui quello che durante la dittatura fascista era pericoloso dire pubblicamente: fra gli scopi di guerra degli imperi centrali vi era appunto la ricostituzione di un piccolo stato teocratico temporale in Roma.

E Francesco Ruffini, esaminando i Trattati Lateranensi e paragonandoli articolo per articolo, virgola per virgola, col progetto austro-germanico, trovò che il Concordato del 1929 non è diverso da quello che sarebbe stato imposto all’Italia sconfitta, per sua umiliazione, dai due Kaiser.

Sarà certo deplorevole per voi, colleghi democristiani, ma sembra anche a me deplorevole il pullulare di libelli antireligiosi per tutta la penisola. Se con debole maggioranza, né potrebbe essere altrimenti, l’Assemblea votasse quegli articoli che danno tono confessionale al documento e che sono, in buona sostanza, i medesimi che lasciarono morire lontano dalla sua cattedra Ernesto Buonaiuti e avrebbero messo in un tremendo imbarazzo il vostro stesso antesignano don Romolo Murri, allora l’Assemblea creerebbe in Italia un decennio di lotta religiosa, inutile, demoralizzante, capace da sola di stremare il Paese (Applausi a sinistra), che ha bisogno invece di conservare intatte ed unite le proprie forze, per ascendere l’erta travagliata della sua rinascita.

Ve lo ha accennato con grande autorità l’onorevole Nitti; vero è che l’onorevole Nitti passa per un profeta di sciagure. Ma ve lo ha fatto capire anche, con la voce dell’antica saggezza, Vittorio Emanuele Orlando, al quale non si potrebbe certo rimproverare di essere un pessimista che veda tutto nero.

Intendiamoci: noi non vogliamo, come il vecchio cattolico Odilon Barrot ricordato nella discussione dall’amico onorevole Lussu, che la legge sia atea. Noi prendiamo atto volentieri che gli italiani sono naturaliter christiani e, con il Guizot e il Lamartine, intendiamo che la legge segua e interpreti questa natura cristiana del popolo italiano, introducendo nelle leggi umane quanto più si può del senso originariamente cristiano della giustizia. E volutamente io dico «cristiano» della giustizia, perché noi non siamo dei socialisti cosiddetti scientifici, per cui il valore umano giustizia possa fare a meno del valore trascendente carità.

Ma non possiamo nemmeno lontanamente pensare che, mentre tutto il mondo attende con ansia nata dal tormento il trapasso da una concezione liberistica a una concezione solidaristica dello Stato, il nuovo Stato italiano segni, per una parte di tanto rilievo, il regresso dallo Stato liberale al vecchio Stato teocratico. Non con diverso nome, infatti, si dovrebbe chiamare lo Stato che l’onorevole La Pira – mi dispiace che non ci sia questo collega che non si può avvicinare senza subire il fascino della sua nobile personalità di studioso e di asceta – ci ha fatto intravedere, nel suo importante e, direi, grave discorso politico.

Non sono fra coloro che hanno trovato fuori di luogo il gesto ineffabile del divino olocausto con cui l’amico onorevole La Pira ha chiuso ispiratamente le sue nobili parole. Tutt’altro. Quel gesto solenne, nato spontaneamente da un fervente cristiano, vi assicuro che mi ha toccato. Ma esso ha costituito per me un’illuminazione politica: quello Stato che l’onorevole La Pira ed i suoi amici propugnano è uno Stato sicuramente confessionale, uno Stato sotto il segno della Croce.

Io accetto con deferenza quel segno, ma bisogna anche preoccuparsi delle minoranze non cattoliche in Italia.

In questo, o amici, è vero quello che Kant ha detto: la dignità e la libertà di un uomo sono la dignità e la libertà di tutti gli uomini. Debbo, perciò, insistere ancora un momento nel richiamare all’Assemblea alcuni principî fondamentali.

Essi sono ancora quelli fatti valere in un secolo di polemiche da tutti gli uomini politici e pensatori illuminati del nostro Paese: Non giova allo Stato l’etichetta confessionale, né giova alla Chiesa la protezione del braccio secolare.

Ci fu un momento, nella storia contemporanea della Chiesa cattolica italiana, in cui essa apparve – e fu veramente – grande. È a quel momento che si deve il rifiorire del senso religioso, a quel momento che si deve l’elezione dei 207 Deputati democratici cristiani, a quel momento di contrapposizione, di lotta, di libertà. Non certo ad altro momento in cui un gruppo di Vescovi concordatari si recò per le vie di Roma ad offrire la croce pastorale per la guerra di Abissinia!

Stato laico non vuol dire menomamente Stato ateo, e nemmeno, nel nostro modo di pensare, Stato areligioso. «Essere laico, scriveva il Lavisse – e noi concordiamo – non significa limitare il pensiero umano all’orizzonte visibile, né interdire all’uomo l’idea della perpetua ricerca di Dio; significa rivendicare per la vita presente tutto lo sforzo degli uomini». Per noi laicità significa soltanto posizione dei valori religiosi nella loro sede naturale, senza la pericolosa e corruttrice contaminazione con i poteri dello Stato. Lasciatemi esprimere, parafrasando il detto lapidario di un grande e sincero cattolico, il Montlosier, il nostro esatto pensiero: noi non siamo atei e vogliamo professare pubblicamente la nostra fede in Dio; non siamo anarchici e vogliamo da onesti cittadini obbedire alle leggi dello Stato. Ciò che non vogliamo è una legge che ci obblighi a credere in Dio con la minaccia dei carabinieri (o con la perdita della nostra cattedra, se siamo sacerdoti) e un Dio che ci obblighi ad obbedire alle leggi con la minaccia dell’inferno. Noi contiamo, nella nostra proposta per la revisione dell’articolo 5, sulla completa e naturale solidarietà di tutta la sinistra e di quei liberali che non vogliono rinnegare la loro eredità.

Ho sentito – domando perdono se riferisco un discorso di corridoio – sussurrare di un compromesso fra democristiani e comunisti. Ma quando, l’altra sera, io vedevo l’onorevole Togliatti, con gli occhi acuti dietro le lenti, l’accento vagamente piemontese, mi pareva in questa luce di acquario, in questa penombra, di vedergli spuntare la barba a collare del Conte di Cavour; e penso che egli voterà – anche per non tradire i manifesti che lo pongono tra Cavour e Mazzini – appunto come egli sa, nel suo vivo senso della storia, che voterebbero oggi Mazzini e Cavour. Ma noi nutriamo qui l’audace speranza di persuadere anche i democratici cristiani. Crediamo – e dobbiamo crederlo – sia sincera l’affermazione, certo autorizzata, di Igino Giordani nel Popolo dell’11 marzo: «Sabato l’onorevole Nitti, parlando alla Costituente, lesse il primo articolo della Costituzione francese, e calcò, con ovvia intenzione, sull’aggettivo «laïque» (laica), scoprendo una particolare preoccupazione, ribadita ieri dall’onorevole Nenni. A noi essa pare più che eccessiva, poco fondata, perché la Repubblica italiana è laica quant’altra mai…

«Se laico designa distinzione dei due poteri, nella sovranità di ciascuno entro la propria sfera, il regime italiano è laico in una maniera degna della sapienza giuridica degli italiani».

Orbene, se la Repubblica vuole essere laica, secondo la vostra stessa intenzione, aiutateci a togliere dal Progetto le affermazioni e le norme che ne fanno chiaramente una Costituzione confessionale.

L’onorevole Tupini ha invocato il nome e l’autorità di un uomo politico francese – di secondo piano, a dire la verità – di Duvergier de Hauranne; ma se l’onorevole Tupini accoglie il pensiero di quell’uomo politico cattolico, deve accettarlo per intero. Ebbene, nella discussione del 1816 alla Camera francese, il de Hauranne sostenne ciò che noi oggi vogliamo: la libertà e l’indipendenza dello Stato da ogni ombra di soggezione religiosa.

Si è rinunciato, da un forte gruppo di Deputati, a chiedere la inclusione, nell’articolo 1° della Costituzione, di quella dichiarazione di laicità che con voto unanime dei cattolici francesi è stata premessa alla Carta costituzionale della quarta Repubblica.

È vero che la Francia cattolica ha tutta una grande tradizione ultramontanista e gallicana, mentre l’Italia è posta sotto la vasta ombra di San Pietro. Ebbene, anche con il vostro concorso, onorevoli colleghi democristiani, e nel supremo interesse dei più veri ed alti valori religiosi, facciamo in modo che quella vasta ombra protegga e conforti il cuore dei cattolici italiani, ma lasci indipendente e al sole, nella pienezza della sua vitale, sovrana, libertà e dignità, lo Stato italiano. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Jacini. Né ha facoltà.

JACINI. Onorevoli colleghi, l’ardente questione implicita nell’articolo 5 del nostro progetto di Costituzione, ha trovato alimento in una discussione vivace, sotto i più diversi aspetti: giuridico, politico, tattico, sentimentale; e, se me lo consente l’amico e compagno d’esilio onorevole Marchesi, anche sotto l’aspetto della più sacra ed edificante eloquenza quaresimale.

Io mi propongo di portare una pietruzza a questo edificio che deve poi essere, in fondo, l’edificio della pace religiosa d’Italia, da un punto di vista quasi esclusivamente storico; poiché i venti anni che il regime fascista, espellendomi da quest’aula, mi ha concesso di dedicare agli studi, li ho consacrati posso dire esclusivamente a questo problema dei rapporti fra Chiesa e Stato nel nostro Risorgimento; pur sono in grado di recare un modestissimo contributo al riguardo, né credo poter essere sospettato di intolleranza clericale o di reazionarismo, se penso che il mio nome riecheggia una tradizione cattolico-liberale congiunta ad una delle più liberali soluzioni proposte alla questione romana, e se penso che i miei, dirò così, debutti negli studi religiosi furono fatti in quel cenacolo dal Rinnovamento milanese, che non passava certamente per una torre dell’ortodossia ecclesiastica di quei tempi.

E non ritengo neppure che i nostri fratelli separati, delle altre confessioni religiose, vorranno vedere nella mia parola alcuno spunto di intolleranza, se ricorderanno aver io dedicato una parte dei miei studi proprio alla biografia di un loro fratello, il riformatore toscano dell’800, Piero Guicciardini; con un lavoro che ha avuto questa singolare fortuna, di essere elogiato contemporaneamente dall’Osservatore Romano e dalla Rivista valdese. Il che dimostra, se non altro, lo spirito di oggettività al quale ho cercato di attenermi.

Questi precedenti miei, se da una parte mi permettono di credere che le mie parole saranno ascoltate con benevolenza, dall’altra mi fanno però temere di non essere il più sicuro interprete della decisa e disciplinata corrente del mio Gruppo; onde, a buoni conti, dichiaro di parlare a titolo personale, per qualsiasi dato che io potessi citare od argomento che potessi svolgere.

Mi sembra che non siasi incisa sufficientemente la distinzione fra i quattro aspetti della questione religiosa, dei rapporti fra Chiesa e Stato, quali risultano dal nostro articolo 5, e quali sono regolati dagli stessi Patti Lateranensi.

Si è parlato qui da alcuni – per esempio dall’onorevole Crispo, il quale ha alluso alla legislazione matrimoniale riferendosi ai tribunali dello Stato del Vaticano – come se tali rapporti fra Chiesa e Stato in Italia fossero regolati dal Trattato del Laterano. Il che non è: il Trattato del Laterano è un Trattato diplomatico che si informa direttamente al diritto internazionale e si riferisce alle relazioni fra lo Stato italiano e la Santa Sede. Vi è poi il Concordato, che riguarda i rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, rapporti di carattere pubblico esterno, ma non di carattere internazionale.

In terzo luogo deve considerarsi la posizione dei culti acattolici, che sono regolati da una legge interna dello Stato italiano. E vi sono infine i bisogni, i desideri, le aspirazioni, le tendenze, i diritti dei cittadini italiani, in quanto cattolici; i quali costituiscono materia di legislazione interna, in cui la Santa Sede non interviene, se non come spettatrice benevola, non certo come parte in causa.

Quando noi domandiamo la difesa della famiglia o del vincolo matrimoniale o la libertà della scuola, non lo facciamo in omaggio ad alcuna potenza straniera, e neppure ad alcuna potenza italiana, lo facciamo in omaggio alla nostra coscienza di liberi cittadini italiani.

Mi sembra che questi quattro aspetti debbano essere tenuti molto distinti e che occorra esaminarli particolarmente, anche sotto il punto di vista storico.

Anzitutto il Trattato: Il Trattato Lateranense dell’11 febbraio 1929 elimina il famoso dissidio, iniziatosi molto prima del 20 settembre 1870; sancisce definitivamente l’unità d’Italia, pone fine alla questione Romana.

L’Italia, nel suo millenario processo di unificazione, si era sempre trovata davanti a questo ostacolo, di uno Stato, situato al centro della penisola e diverso da tutti gli altri, perché appannaggio temporale di una potenza spirituale, base nazionale di un potere internazionale, il quale potere, a sua volta, aveva per altri aspetti, influenza su tutto il resto della penisola.

Questo fatto (è inutile che lo stiamo a discutere) la polemica anticlericale laicista ce lo ha dipinto sempre come una tremenda disgrazia per il nostro Paese.

Noi cattolici pensiamo invece che fosse un grande privilegio ed onore quello di avere, in casa nostra, la sede del più alto potere del mondo. Noi abbiamo sempre pensato che, dopo l’impero romano, l’Italia è stata grande appunto grazie alla irradiazione di questo potere. Ma, comunque lo si volesse discutere e giudicare, il fatto esisteva e rappresentava un ostacolo alla compiuta unità territoriale del Paese; è questa una circostanza innegabile che era giuocoforza prendere in considerazione e cercare di risolvere.

Il Trattato Lateranense ha risolto il problema con un atto bilaterale, mentre tutti siamo d’accordo – la storia l’ha dimostrato – che non poteva esserlo con un atto unilaterale, per quanto sapientemente redatto, come la legge delle guarentigie.

Lo ha risolto con un atto bilaterale, in un momento storico particolare. Questo atto reca una firma odiosa, ma esso non è, nella sua soluzione pratica, diverso da quello che sarebbe stato se fosse stato trattato in un altro clima.

Evidentemente, nella formulazione dell’atto stesso si può sostenere che un tale divario esista. È certo che se l’onorevole Orlando avesse avuto la ventura di concludere un accordo con la Santa Sede, non avrebbe creato un vero e proprio Stato della Città del Vaticano. Lo avrebbe chiamato diversamente, perché non era nelle nostre tradizioni liberali ammettere in seno allo Stato italiano neppure un pollice di territorio che non appartenesse alla sovranità dell’Italia.

Ma, in linea di fatto, questo Stato Vaticano che tutti i giuristi sono concordi nel qualificare sui generis è molto minore, come perimetro, di quella parte di territorio italiano che il Governo liberale di Giovanni Lanza, invadendo lo Stato pontificio, aveva lasciato a disposizione della Santa Sede; esso non comprende infatti neppure quella città leonina che il Cardinale Antonelli pregò personalmente il generale Cadorna di occupare, pochi giorni dopo la breccia di Porta Pia.

Quindi, come risultato pratico, il Trattato del Laterano effettivamente conclude, e felicemente chiude, il lungo travaglio della nostra unità e della nostra indipendenza, e lascia a noi tutto il vantaggio e tutto il vanto di albergare nel nostro seno la più alta potenza spirituale del mondo senza sottoporci ad alcuno degli inconvenienti che nei passati secoli si potevano temere come derivanti da un tale circostanza.

Sotto questo punto di vista, pertanto, ritengo che nessun Governo futuro della Repubblica Italiana vorrà porre in dubbio, né scuotere alla base questo patto, che garantisce all’Italia una posizione di prestigio in Europa e nel mondo senza rappresentare per l’unità della Patria il più lieve e più lontano pericolo.

Quelle difficoltà che sono state affacciate da alcuni come incongruenze derivanti dalla incorporazione di questo trattato in seno alla costituzione Repubblicana mi sembrano, me lo permette l’onorevole Crispo, di scarsa importanza, perché se è vero, ad esempio, che non vi sarà più un potere regio tenuto a registrare le onorificenze araldiche concesse dalla Santa Sede, ciò vuol dire che la Santa Sede si troverà semplicemente, rispetto al Governo italiano, nelle Condizioni di tutti gli altri Stati, i quali conferiscono titoli nobiliari che per valere in Italia devono essere sottoposti all’omologazione del nostro Governo. È questione sulla quale ci si può intendere e di così scarso rilievo, che mi duole che alcuno vi si sia soffermato.

Quanto al riconoscimento ufficiale della Repubblica italiana da parte della Santa Sede, ho proprio sott’occhio un numero degli Acta apostolicae sedis del 28 gennaio 1947; esso riporta il decreto 26 novembre 1946 della Sacra Congregazione dei Riti che sostituisce a tutti gli effetti la preghiera pro-repubblica alla preghiera pro-rege prescritta dal Concordato; il che significa il più ampio e completo riconoscimento del nuovo stato di cose da parte della Suprema autorità ecclesiastica.

E veniamo al Concordato. Il Concordato costituisce un fatto ben altrimenti complesso: esso fa nascere una questione che ho sentito or ora riaffacciare dall’onorevole Rossi e riecheggiare nelle parole di molti altri colleghi; la questione cioè, se un regime di accordi concordatari sia preferibile alla separazione amichevole tra Chiesa e Stato, alla neutralità, assoluta dello Stato, alla religione considerata come cosa privata: Privatsache, secondo la formula giuridica tedesca.

Orbene a me sembra il caso di considerare una siffatta questione con uno spirito di estremo realismo. Io posso arrivare a concedere – e appunto per questo ho fatto appello alla mia responsabilità personale perché non voglio impegnare che me stesso – posso arrivare a concedere, in linea teorica e dottrinale, la superiorità d’una amichevole e rispettosa separazione dei poteri, di una libertà di coscienza non garantita né vincolata da alcun accordo fra Chiesa e Stato; di una Chiesa inquadrata semplicemente nel diritto comune; posso ritenere che ciò rappresenti qualche cosa di desiderabile, anche perché offrirebbe alla Chiesa stessa enormi possibilità di sviluppo. Ricordo a questo proposito di avere conosciuto ai tempi della mia gioventù uno dei nostri più illustri giurisdizionalisti, il senatore Carlo Piola Daverio; ottimo cattolico, ma giurisdizionalista feroce, egli temeva una cosa sola: che la Chiesa in Italia venisse trattata come cosa privata; perché, diceva, da quel momento, la Chiesa sarà onnipotente e ci schiaccerà tutti.

Si può anche pensare così; ma la questione, in Italia e nel mondo occidentale, non si pone in questi termini.

Non vi è mai stata, non vi è, e presumibilmente non vi sarà mai, la possibilità di separazione assoluta tra i due poteri, in un Paese dell’occidente europeo e in Italia in modo speciale. Non vi è mai stata e non vi sarà mai, perché l’europeo non è divisibile. La Chiesa si può combattere, la Chiesa si può perseguitare; con la Chiesa si può patteggiare; ma la Chiesa non si può ignorare; è questo un dato di fatto che diciannove secoli di storia confermano. Bisogna, cari amici, spogliarsi dagli schemi della storia ufficiale, quale ci è stata propinata dai nostri buoni maestri anticlericali di un tempo. Questi, sulla scorta di quella mente acutissima ma unilaterale che fu Giuseppe Ferrari, ci rappresentavano tutta la Storia d’Italia come un progressivo affermarsi del laicismo contro il potere ecclesiastico, come un progressivo liberarsi dello Stato italiano, della vita civile italiana, dal dominio e dall’oppressione della Chiesa: essi arrivavano persino a vedere una vittoria dello spirito laico in quella che era una mostruosa deviazione dell’autorità ecclesiastica; nella Legazia Apostolica di Sicilia, nel Tribunale ecclesiastico della monarchia, nel Re legato a latere perpetuo del Papa, il cui ritratto era posto, come ancora l’ho visto io, in cornu Evangelii sulla cattedra episcopale nella Cappella palatina di Palermo.

L’enorme sopruso diventava nel loro ingenuo racconto una affermazione di laicismo e di libertà di pensiero.

Non avete bisogno di credere a me. Faccio appello alla memoria cara e venerata d’un uomo che era una grande autorità in questo campo: alla memoria di Francesco Ruffini – che molti di voi avranno certamente conosciuto – grande maestro di scuola liberale, il quale ha scritto un mirabile libro sulla libertà religiosa – storia della idea – che si conclude proprio dimostrando come la libertà di coscienza, il laicismo, lo Stato neutro non siano mai esistiti in Italia, anzi in Europa; e come la coscienza religiosa individuale non abbia trionfato se non in momenti, fuggevolissimi, di provvisorio equilibrio tra i due poteri.

La storia, dopo l’affermazione superbamente privatistica del primissimo Cristianesimo, all’epoca dei martiri, si riduce tutta qui: il potere civile, il potere delle Corone, con argomentazioni teologiche, servendosi di proprii teologi, cerca di strappare alla Curia il maggior numero possibile di prerogative ecclesiastiche; la Curia a sua volta resiste a tale pretesa, e quando si impersona in Papi geniali ed ardimentosi arriva all’affermazione d’un superpotere civile della Santa Sede, al tentativo di attribuire a questa una assoluta supremazia anche in materia civile.

Ma in tutto questo, che ha a che fare il pensiero laico, la libertà di coscienza, la liberazione del pensiero umano dalle pastoie del clericalismo?

Teologi da una parte, teologi dall’altra (sono ecclesiastici, per la maggior parte, gli eroi del così detto libero pensiero, da Giordano Bruno a Paolo Sarpi); Corone da una parte, Tiara dall’altra, contesa che va dalle lotte medioevali delle investiture alle lotte giurisdizionalistiche della Rinascenza, alle controversie della Riforma.

Liberazione del pensiero laico, nel periodo della Riforma? Ma, amici miei, la Riforma è Lutero che invoca il braccio secolare per soffocare nel sangue la rivolta dei contadini; è Calvino che istituisce a Ginevra una delle più perfette teocrazie che la storia ricordi; è Enrico VITI, che non si accontenta di tagliare la testa a Tommaso Moro, ma perseguita con squisite torture tutti gli aderenti alle confessioni evangeliche difformi dalla sua. E giù giù si arriva fino allo Stato-Patria dei principi assoluti del XVII secolo, a quella dei Sommi illuministi, ai Tannucci, ai Pombal.

Molti di voi avranno letto le interessantissime memorie d’uno di quegli avventurieri del XVIII secolo, che sono passati un po’ per tutte le strade, le memorie del conte Gorani, di recente pubblicate dal nostro collega ed amico senatore Casati. Quest’uomo, spregiudicatissimo, si trovava in Portogallo all’epoca della persecuzione antigesuitica del marchese di Pombal, persecuzione non sanguinaria, ma a modo suo veramente feroce; e attraverso le pagine dei suoi ricordi ne sentiamo tutto l’orrore. Questa persecuzione si è estesa da un capo all’altro d’Europa e ha indotto alcuni degli spiriti più illuminati del secolo, da Caterina di Russia a Federico il Grande, a dare asilo nei propri Stati ai gesuiti, che erano in quel momento i soli rappresentanti di una libera coscienza religiosa.

Tutto questo dimostra che di laicità, di libertà di pensiero, di separazione amichevole dei poteri non si può certamente parlare prima della Rivoluzione francese. Ci troviamo allora di fronte alla prima grande affermazione dei diritti di coscienza dell’uomo, e quasi contemporaneamente al celebre emendamento della Costituzione di Washington.

Ma la libertà di coscienza e di culto, proclamata alla Rivoluzione francese, è stata uno sprazzo di luce senza domani, luce soffocata dapprima nel sangue della persecuzione, poi dall’oppressione del cesarismo napoleonico malamente camuffata da Concordato. Invece la Costituzione nord-americana è un fatto più notevole, perché ha dato luogo alla mirabile libertà religiosa tuttora vigente negli Stati Uniti. Ma andiamo a vedere come è nato quell’emendamento. Allora negli Stati Uniti i cattolici non esistevano o quasi: i pochi erano oppressi, perseguitati. Si trattava di difendere le confessioni congregazionaliste, le confessioni della sinistra protestante contro i ritorni offensivi di quelle Chiese stabilite, che avevano spinto i primi Puritani a varcare l’Oceano. È in vista di questa difesa che venne redatto il famoso emendamento della Costituzione di Washington, il quale garantisce una libertà religiosa, che peraltro è ben lungi dall’essere completa. Non penso infatti che per ora e molti anni ancora un cattolico possa ad esempio aspirare a diventare Presidente della Repubblica stellata. E in altri paesi d’Europa, dove lo stesso spirito vige in paesi civilissimi come la Svezia, la Danimarca, oggi ancora, un cattolico non può diventare membro del Governo. In Danimarca non può nemmeno diventare giudice. Ho visitato la Svezia, paese di estrema libertà, e vi so dire che il culto cattolico oggi, non per intolleranza della popolazione, ma certo in omaggio alle tradizioni, vi viene ancora celebrato in forma quasi clandestina, perché effettivamente là vige ancora la vecchia tradizione, la quale è bensì liberale nei confronti delle varie confessioni evangeliche, ma non lo è affatto nei confronti della religione cattolica.

L’avversione al cattolicesimo è tuttora molto effettiva in alcuni paesi d’Europa, né certo vorremmo vederla trapiantata nel nostro paese.

Ciò premesso arriviamo – e mi ci fermo pochissimo – al Risorgimento nostro, da cui lo Statuto Albertino e la presente Costituzione traggono la loro origine.

Nel Risorgimento, tre sono gli atteggiamenti di fronte al problema dei rapporti fra Chiesa e Stato. Il primo, fuggevolissimo, è l’atteggiamento giobertiano, neoguelfo, che sogna un’Italia confederata sotto l’egida del Pontificato romano. Voi sapete quale rapida meteora sia stato il pensiero federale giobertiano in Italia. Il secondo, il pensiero mazziniano, che logicamente elimina il conflitto fra Chiesa e Stato, in quanto sogna una demoteocrazia che riassorbe i due poteri in una sintesi superiore. Non ho bisogno di fare appello a chi mi può essere maestro in fatto di cultura mazziniana per affermare che Mazzini non ha mai accettato la separazione tra la Chiesa e lo Stato: egli non intendeva la Chiesa nel senso tradizionale della Chiesa Cattolica, ma la concepiva strettamente connessa al potere civile nello Stato repubblicano.

Terza mediatrice fra le due, la concezione cavouriana che si riassume nella formula: «libera Chiesa in libero Stato», formula che, come sapete, non è di Cavour e neppure del Montalambert, ma è di Agostino Cochin, che però era molto amico del Montalambert, concezione desunta dunque dal cattolicesimo liberale, ma che Cavour sentì in modo tutto particolare.

Questa formula non si è mai realizzata in Italia, perché troppo viva e troppo forte era fra noi la tradizione giurisdizionalistica e perché gli uomini non possono tagliare la loro anima in due e lasciar fuori dalla propria sensibilità un problema che tutto li assorbe.

Ci furono, nel nostro Risorgimento, due soli fuggevolissimi momenti in cui sembrò che la formula cavouriana potesse integralmente realizzarsi. Il primo di questi momenti si presentò nell’ultimo anno di vita del grande ministro, all’epoca della missione Passaglia; il secondo sei anni più tardi, nei pochi mesi di governo di Bettino Ricasoli, allorché venne compilata quella legge sulla libertà della Chiesa che non ottenne neppure l’onore della discussione parlamentare. In quei due soli momenti, si tentò la separazione amichevole dei poteri e la sottomissione della Chiesa al diritto comune. L’uno e l’altro furono tentativi infelici che urtarono, più che con il malvolere degli uomini, con la irriducibilità delle cose.

La stessa legge delle Guarentigie, a parte il carattere unilaterale che la rendeva impropria a risolvere la questione romana, resta pur sempre un monumento di sapienza giuridica, eppure anch’essa pecca – come ho dimostrato in un mio lavoro – per la imperfetta conciliazione delle tradizioni liberali cavouriane con le tradizioni giusnaturalistiche, particolarmente della scuola giuridica napoletana; i due filoni si possono seguire attraverso tutto lo svolgimento della discussione parlamentare.

Così nacque il dissidio, che tanto ha tormentato le coscienze, ma che ha permesso ai cattolici italiani di formarsi sulla parziale astensione della vita pubblica, una salda coscienza politica. Questo dissidio, già praticamente scontato prima della guerra del 1914, svalutato nel corso di essa dal patriottico contegno dell’episcopato e del clero e dalle note dichiarazioni del cardinale Gasparri, giunse nell’ora voluta dalla Provvidenza, alla sua soluzione normale; la quale ebbe la disgrazia di essere opera di un uomo, che cercando in essa il soddisfacimento della propria sfrenata ambizione e un’arma di dominazione sui cattolici italiani, la svalutò subito nell’atto stesso in cui la sanciva; forse, però, di fronte alla storia, egli ebbe questo merito: che, non essendo legato alle tradizioni risorgimentali, alle antiche formule delle quali vi ho parlato, poté concludere con un tratto di penna ciò che ad altri sarebbe costato una lunga e faticosa elaborazione. Ciò debbo lealmente ammettere, come lo ammetterà la storia futura.

Sta però di fatto che questo Concordato in regime fascista non è stato mai integralmente praticato, se non nelle sue parti deteriori, e che, se esso reca clausole che possono dispiacere ad una coscienza democratica, contiene anche parecchie tracce di vecchio giurisdizionalismo, che possono spiacere ad una coscienza liberamente cattolica. Talché se un giorno mai si penserà, d’accordo fra i due poteri, di modificarlo, non saranno certo in numero maggiore le rivendicazioni dello Stato di quelle che non saranno le rivendicazioni della Chiesa. Il Concordato stabilisce ad esempio un giuramento per i vescovi, il quale, o non significa nulla o significa ciò che significava nei vecchi concordati: l’asservimento della Chiesa al potere regio. Il Concordato abolisce formalmente il placet e l’exequatur, ma introduce quella tale clausola dell’intesa preventiva, con questo bel risultato: che lo Stato non ha più nemmeno bisogno di assumersi la responsabilità di negare una libertà ecclesiastica, perché può ottenere egualmente il suo scopo, attraverso intese segrete con l’altro potere, senza portare la questione davanti alla opinione pubblica. E via dicendo; molte sono le clausole che potrebbero essere opportunamente rivedute, in senso favorevole alla Chiesa. Non parliamo delle clausole patrimoniali, del divieto ai sacerdoti di occuparsi di politica. (Commenti a sinistra). Voi vi lagnate che già se ne occupino; ma vi sono paesi d’Europa, dove i sacerdoti possono legittimamente adire alle più alte cariche dello Stato, entrare nella Camera, prendere parte al governo, perché sono cittadini come tutti gli altri. E io non vedo perché il Concordato glielo debba vietare.

Una voce a sinistra: Ragione di più, allora!

JACINI. Quindi dico, non è con uno spirito di intolleranza e di clericalismo che noi chiediamo la conservazione dei Patti del Laterano; la chiediamo da un punto di vista storico, perché riteniamo che solo in questo modo si possa garantire la pace religiosa. Solo in questo modo, perché – come credo di avervi dimostrato – non abbiamo esempi finora che si sia potuto altrimenti stabilire la pace religiosa. Non mi direte che questa – con tutto il rispetto per quei settori della Camera (Accenna a sinistra) – specie per quanto riguarda la religione cattolica, viga oggi in Russia! In Russia, Pietro il Grande abolì il Patriarcato per assicurarsi attraverso il Santo Sinodo un più docile strumento ai suoi voleri; Stalin ha abolito il Santo Sinodo ed ha restaurato il Patriarcato, per creare uno strumento ancora più docile ai suoi voleri. (Commenti a sinistra).

Credo però di avervi soverchiamente affaticati a questo riguardo e non vorrei prolungare il mio ragionamento.

Tutto quello che vi ho detto non significa affatto che ogni singola disposizione del Concordato venga, nemmeno per trasparenza, come diceva l’onorevole Calamandrei, incorporata e fatta propria dalla Costituzione.

Dal testo dell’articolo 5 emerge che noi facciamo riferimento ai Patti Lateranensi, soprattutto come ad una fonte della norma giuridica sancita dalla Costituzione. Se le norme in parola facessero singolarmente parte integrante della Costituzione, non basterebbe un accordo bilaterale per modificarle, né tanto meno si potrebbe dire che possono eventualmente modificarsi senza richiedere un procedimento di revisione costituzionale; rimane quindi aperta la porta ad una revisione per via di semplici accordi bilateralmente concordati, mentre il principio di una separazione amichevole, onesta, rispettosa, come è nel desiderio di tutti, è proprio sancita dal primo comma dell’articolo 5, laddove si dice che «Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Chiedeva l’onorevole Della Seta: Ma come «indipendenti e sovrani»? Si tratta di un ordine interno o di un ordine esterno? Io rispondo: di entrambi. Ogni potere è indipendente e sovrano nella propria sfera, nel proprio foro interno; ma è altresì sovrano e quindi indipendente dall’altro potere, sempre che si mantenga nell’ambito della rispettiva competenza. Ritengo che quel tanto di separazione, che è possibile conseguire allo stato storico degli atti, non lo si possa conseguire se non attraverso il patto che viene sottoposto al nostro esame.

Passo ad un altro argomento: quello delle confessioni religiose acattoliche. Come ho detto, io sono, non solo personalmente amico di molti evangelici ed israeliti, ma anche sollecito, come studioso della libertà, degli interessi degli altri culti. Dirò di più: la circostanza che essi raggruppano una infima minoranza della popolazione italiana rappresenta ai miei occhi una ragione di più per rispettarne la libertà (Approvazioni) ed aggiungo che se ciò può dirsi delle confessioni evangeliche, a tanta maggior ragione vale per quegli israeliti, vittime sanguinanti di una persecuzione senza nome, che ha infierito in tanta parte d’Europa contro di loro (Approvazioni). Perciò il nostro spirito non può essere che informato a sensi di amichevole comprensione verso i loro desideri. Io ho letto con grande attenzione i vari reclami che mi sono stati sottoposti, da parte dei rappresentanti sia delle confessioni evangeliche e sia della religione ebraica. C’è un punto nel quale do loro torto, ed è quando essi ci chiedono di rinunciare ai Patti Lateranensi. Che cosa interessano a loro i Patti Lateranensi? Essi riguardano esclusivamente i rapporti fra i cattolici e lo Stato italiano. Gli acattolici hanno titolo e diritto di chiedere la più completa parità di trattamento e la più completa libertà attraverso la legge. Riconosco che, non già le disposizioni della legge 24 giugno 1929, ma il titolo di essa, in cui si parla di «culti ammessi» rappresenti una offesa alla libertà dei culti medesimi. Non ammessi, né tollerati: devono essere culti legittimamente svolgentisi nell’ambito della libertà nello Stato democratico italiano. E allora, potranno essi chiedere la revisione di quelle parti di detta legge che non sembrino loro conformi alla libertà: dall’esame dei singoli punti vedo che non sono molti quelli che danno luogo a reclami a questo riguardo. C’è di più; l’articolo del quale parliamo prevede che queste modifiche debbano essere fatte d’accordo con le rispettive rappresentanze; il che significa che, se non proprio dei concordati, saranno dei modus vivendi stipulati singolarmente con le rappresentanze delle singole confessioni. E, quanto alla limitazione, che non abbiano ad urtare contro la moralità e il buon costume, credo che sarebbe fare offesa ai vari culti ritenere che essi possano ribellarsi contro una disposizione di tal genere; ritengo dunque che l’assetto dei rapporti tra lo Stato italiano e i culti dissidenti dal cattolico, nonché la perfetta libertà degli aderenti a questi culti siano completamente nelle loro mani e che essi possono farli valere legalmente, nel che troveranno in noi l’appoggio e l’aiuto più completo. (Approvazioni al centro).

Rimarrebbe ora a trattare – ma non temete, non lo farò – l’ultima parte del mio discorso, cioè quella che si riferisce alla legislazione interna e a quanto noi chiediamo a soddisfazione dei nostri particolari bisogni di cittadini italiani cattolici.

Tali argomenti sono contemplati dai vari articoli: uguaglianza perfetta dei cittadini, articolo 7; libertà di riunione, articolo 12; libertà di associazione, articoli 13 e 15; difesa della famiglia, articoli 23 e 24; posizione dei figli legittimi e illegittimi, libertà della scuola, libertà di lavoro, ecc.; tutte cose che i miei colleghi tratteranno molto meglio di me e sulle quali non mi soffermo.

Mi basti dire che queste libertà non le chiediamo come mandatari di alcuna potenza, neppure della suprema autorità ecclesiastica; le chiediamo semplicemente come soddisfacimento di nostri legittimi diritti, in qualità di cittadini italiani, allo Stato italiano cui apparteniamo.

Onorevoli colleghi, io ho finito; ed è contrario alla mia indole terminare i discorsi con formule reboanti. L’illustre Maestro, anche se temibile avversario, Benedette Croce, ha terminato il suo rievocando i versi del Veni Creator; egli ha così invocato lo Spirito Santo sui nostri lavori, come i potenziali rivoluzionari francesi dell’’89 lo invocarono attraverso la Messa dello Spirito Santo che precedette l’apertura degli Stati Generali. Il nostro amico La Pira, con un gesto di grande e semplice spontaneità, che l’Assemblea ha nobilmente rispettato, ha chiuso il suo dire col segno della Croce. Io non sono né un grande alfiere del pensiero scientifico, né un grande alfiere della fede religiosa: la fiammella della mia fede è così tenue, che temerei di spegnerla se l’agitassi come una fiaccola. Mi accontento quindi di terminare con un pensiero terra terra. Vi sarà forse qualcuno fra noi che proporrà di porre tutto l’atto costituzionale sotto la invocazione di Dio, così come l’hanno posto molti altri Paesi che si costituivano a libertà.

Io non so se l’Assemblea accetterà tale proposta, ma dico che una pattuizione, fatta in buona fede tra uomini di buona fede, si pone sempre da sé sotto la protezione di Dio; e questa io invoco sui lavori della nostra Costituzione. (Vivissimi applausi al centro e a destra Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16.

Prima però di comunicare l’ordine del giorno, devo rendere edotti i colleghi di alcune intese che stamane sono state prese in una riunione dei rappresentanti dei Gruppi, posti da me dinanzi ad alcune cifre che, d’altra parte, sono state anche pubblicate sui giornali e che tutti conosciamo.

Si tratta di questo: fino a stamane, gli iscritti. Ora, è questa un’ottima dimostrazione ammontavano a 309. (Commenti).

Non so perché la cifra susciti sorpresa. È evidente che quasi tutti i presenti si sono iscritti. Ora, è questa un’ottima dimostrazione dell’interesse e del desiderio di collaborare tutti alla formazione dello Stato costituzionale, ma evidentemente ciò crea gravi difficoltà, quanto meno per la prospettiva e lo sviluppo dei nostri lavori.

Allo scopo di permettere a tutti gli iscritti di dare il loro contributo ai nostri lavori e di conservare i lavori stessi entro i limiti del tempo di cui disponiamo, si è rimasti, in linea di massima, d’accordo nella decisione formale che gli oratori abbiano da domani mezz’ora a loro disposizione.

Non ho fatto la comunicazione all’inizio di questa seduta perché i colleghi che hanno parlato quest’oggi, all’oscuro di questa intesa, avranno fatto calcolo d’una possibilità di parola più ampia, e sarebbe stato scortese e dannoso venire a spezzare il piano di pensiero che si erano costituiti.

A cominciare da domani credo che saremo d’accordo di attenerci a questa disposizione. Se essa sarà attuata con severità, occorreranno circa 35 sedute perché parlino tutti gli iscritti; e poiché la domenica non si tiene seduta, almeno per ora, e vi sono anche periodi di riposo per la Pasqua, per la sola discussione dei titoli occorreranno circa 2 mesi.

Io sarei ben lieto se, a cominciare da domani, i colleghi che parleranno resteranno nell’ambito della mezz’ora. Ciò significa che potranno parlare otto oratori al giorno, e questo ci aiuterà a giungere alla fine dell’elenco degli iscritti entro il termine fissato.

Prego di tener conto di questa decisione e sono sicuro che ciascun deputato cercherà di attenervisi. (Approvazioni).

La seduta termina alle 20.15.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

  1. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.