Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 17 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 17 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Interrogazioni (Svolgimento):

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                       

Caccuri                                                                                                            

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Castelli avolio                                                                                               

Bernini, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione                                  

Giacchero                                                                                                        

Presidente                                                                                       Angelucci      

Assennato, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero                       

Natoli                                                                                                              

Presentazione di disegni di legge:

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Presidente                                                                                                        

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1943, n. 383, e successive modificazioni (Seguito della discussione):

Carboni, Relatore                                                                                              

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Presidente                                                                                                        

Persico                                                                                                             

Fuschini                                                                                                            

Dozza                                                                                                               

Caroleo                                                                                                           

Castelli Avolio                                                                                               

Quintieri Adolfo                                                                                             

Uberti                                                                                                               

Presentazione di disegni di legge:

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Scelba, Ministro dell’interno                                                                              

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella degli onorevoli Caccuri, Monterisi, Gabrieli, Recca, al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere, perché – con riferimento al decreto legislativo 23 novembre 1946, n. 403 – vuole disconoscere, agli effetti della revisione dei prezzi dei contratti di appalto dei lavori in corso, gli aumenti del costo della mano d’opera verificatisi, in conseguenza delle convenzioni sindacali; per i contratti stipulati durante il periodo delle discussioni e delle trattative delle convenzioni stesse, adducendo che debba presumersi che le imprese appaltatrici, per essere già informate della eventualità dei nuovi oneri, ne abbiano tenuto conto nel formulare le loro offerte in sede di gara. Gli interroganti chiedono pertanto se non sia oltremodo opportuno ed urgente che sia rimossa, ogni eccezione al riguardo e sia ristabilita la fiducia e la tranquillità fra le imprese appaltatrici, dando a queste la possibilità di proseguire i lavori intrapresi con la regolarità e l’intensità tanto necessarie in questo momento».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Il Ministero dei lavori pubblici è perfettamente conscio della eccezionale importanza del problema della revisione dei prezzi di contratti relativi a lavori eseguiti o in corso, e della necessità che sia ristabilita la fiducia e la tranquillità fra le imprese appaltatrici, per modo che queste possano attendere all’esecuzione dei lavori intrapresi con serenità e con la certezza che siano tutelati i loro giusti interessi.

Peraltro, le disposizioni del decreto legislativo 23 novembre 1946, n. 463, hanno dato luogo a gravissimi dubbi di interpretazione e per di più l’Amministrazione non può non preoccuparsi delle gravi conseguenze di ordine finanziario che l’accettare indiscriminatamente l’una o l’altra interpretazione può portare all’erario.

Di conseguenza, il Ministro ha ritenuto di sottoporre la questione al Consiglio di Stato, dal quale si attende ora il parere su quella che deve essere l’esatta interpretazione delle disposizioni stesse.

Frattanto, per venire incontro alle richieste delle imprese, si è disposta la corresponsione ad esse di acconti fino al 50 per cento su quello che si prevede sarà l’ammontare definitivo della revisione.

Inoltre, si stanno studiando, di concerto con gli altri Ministeri interessati, con gli stessi rappresentanti delle imprese, della Confederazione generale del lavoro e dell’Associazione bancaria italiana, i mezzi più opportuni per accelerare e snellire la procedura della revisione e per rendere facilmente scontabili dalle banche i crediti delle imprese nei confronti dell’Amministrazione dello Stato.

PRESIDENTE. L’onorevole Caccuri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CACCURI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario, ma non sono per nulla sodisfatto delle sue dichiarazioni. I dubbi, in vero, espressi dal Ministero dei lavori pubblici, sono del tutto infondati e l’interpretazione che si vuol dare alle disposizioni relative alla revisione dei prezzi dei contratti di appalto sembra in contrasto con l’equità e con la legge.

In sostanza, per quanto ci è dato di conoscere attraverso le note inviate ai Provveditorati, il Ministero dei lavori pubblici assume che nella revisione dei prezzi dei contratti di appalto non si debba tener conto degli aumenti del costo della mano d’opera, verificatisi in conseguenza delle convenzioni sindacali, quando i contratti siano stati stipulati nel periodo che intercorre fra l’inizio delle discussioni e il raggiungimento degli accordi salariali. E non si deve tener conto, assume il Ministero, poiché quando il contratto di appalto si è concluso durante le trattative delle convenzioni sindacali, le imprese appaltatrici avrebbero tenuto presente, nel formulare le loro offerte in sede di gara, l’eventualità dei gravami derivanti dagli accordi salariali in corso.

Quanto sia arbitrario però (mi permetta l’onorevole Sottosegretario l’espressione) tale assunto non vi è chi non veda; in verità, anzitutto non potevano le imprese aver tenuto conto degli aumenti in corso di concordamento, perché non potevano prevedere e comunque non potevano sapere se e quali sarebbero stati gli aumenti salariali di cui ancora si discuteva nel momento nel quale si stipulavano i contratti di appalto. È ovvio, onorevole Sottosegretario, che nessuna impresa è in grado, prima della pubblicazione dei concordati salariali, di valutare la reale entità degli aumenti e di prevedere la loro regolamentazione. Ma anche se l’impresa avesse potuto prevedere gli aumenti futuri, non avrebbe potuto, in ogni modo, non prescindere dal calcolo di essi al momento della gara, poiché le imprese concorrenti agli appalti dovevano pur ritenere che, ove i concordati sindacali in corso di trattativa, fossero stati definiti e stipulati, gli oneri conseguenti sarebbero stati sempre riconosciuti, in sede di revisione dei prezzi, a norma del decreto del Capo provvisorio dello Stato del 23 novembre 1946, n. 463, il quale dispone che siano computate tutte le variazioni di prezzi verificatesi successivamente all’aggiudicazione, senza punto distinguere tra aggiudicazione intervenuta dopo o durante il corso delle trattative salariali.

Le conseguenze che all’industria edilizia derivano dall’interpretazione data dal. Ministero dei lavori pubblici sono gravissime. Si tratta di centinaia di milioni, anzi di diecine di miliardi che verrebbero sottratti alle imprese, alcune delle quali, specie le cooperative, in seguito alla mancata revisione, versano in condizioni quasi fallimentari. Il Ministero dei lavori pubblici fa conoscere di avere interpellato il Consiglio di Stato, ma penso che non era proprio il caso di scomodare il Consiglio di Stato per l’interpretazione di una disposizione che appare chiara all’evidenza. (Interruzione dell’onorevole Uberti).

E ritengo che non è affatto opportuno frapporre ulteriori indugi per sostenere una tesi che può anche apparire addirittura vessatoria, o, comunque, giuridicamente grossolana e che non avrebbe dovuto, in ogni caso, trovare ingresso e tanto meno dei sostenitori.

Intanto, il ritardo, onorevole Sottosegretario, pregiudica assai gravemente gli interessi non solo delle imprese che, esaurite ormai le risorse e i fidi bancari, sono costrette a sospendere in tutto o in parte i lavori, ma pregiudica soprattutto l’interesse di masse di lavoratori che, quando proprio non sono licenziate, non riescono da settimane a riscuotere i salari.

Né gli acconti di cui fa cenno l’onorevole Sottosegretario possono rendere paghe le ditte, perché fra l’altro pare che tali acconti si riferiscano ai contratti di appalto incontroversi e non a quelli in discussione, cioè ai contratti stipulati durante il periodo delle trattative salariali.

PRESIDENTE. Onorevole Caccuri, la prego di concludere.

CACCURI. Concludo, onorevole Presidente. Non posso dichiararmi sodisfatto quindi della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato e insisto anzi vivamente perché il Ministero faccia subito fronte agli impegni contrattuali, mettendo da parte ogni interpretazione curialesca delle disposizioni che regolano le revisioni in oggetto, e ponendo così fine ad una incresciosa situazione che aggrava la crisi in cui purtroppo si dibatte l’industria edile e che mette a repentaglio l’esistenza stessa delle aziende, preoccupate, fra l’altro, di conservare la possibilità di lavoro agli operai.

E mi preme far presente all’onorevole Sottosegretario che dalle diverse provincie meridionali pervengono giornalmente telegrammi ai deputati di tutti i partiti – se fossero presenti potrebbero farne fede gli onorevoli Pastore e Miccolis – telegrammi che segnalano tutta una situazione veramente grave, insostenibile, da cui potrebbero derivare, se non si provvede con urgenza, pericolosi disordini.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Castelli Avolio, al Ministro delle finanze e del tesoro, «per conoscere se ritenga opportuno emanare apposita disposizione legislativa che stabilisca la riammissione in termine dei contribuenti già ammessi al godimento della temporanea esenzione dell’imposta di ricchezza mobile per gli opifici tecnicamente organizzati, per il periodo in cui non hanno potuto godere di tal beneficio per la distruzione totale o parziale o per danneggiamento dei detti opifici causato dagli eventi bellici».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI. Sottosegretario di Stato per il tesoro. La questione sollevata dall’onorevole interrogante ha formato oggetto di studio da parte degli Uffici dei Ministero delle finanze e del tesoro.

Non è da nascondere che la questione stessa riveste notevole importanza ai fini della ricostruzione delle attrezzature industriali del Paese, ma che, al tempo stesso, l’accoglimento di esse si traduce in nuovi sacrifici per l’Erario.

Pur tuttavia, è da considerare che la temporanea esenzione da imposta di ricchezza mobile dei redditi derivanti da opifici tecnicamente organizzati presuppone l’effettiva produzione del reddito, giacché l’esenzione a favore di un reddito che non può essere prodotto non ha ragione di sussistere.

Appare perciò conforme a criteri di giustizia adottarsi il principio che quando, per causa di danneggiamento dipendente dagli eventi bellici, l’opificio tecnicamente organizzato è rimasto inattivo, il periodo di forzata inattività non debba essere computato nella durata della temporanea esenzione.

All’uopo il Ministero si riserva di inserire, in un provvedimento di prossima emanazione, una norma del seguente tenore:

«Il tempo durante il quale gli opifici tecnicamente organizzati, già ammessi a godere, a norma di leggi speciali, dell’esenzione, temporanea da imposta di ricchezza mobile, sono rimasti inattivi per effetto di danneggiamento di guerra, non è computato nella determinazione del periodo di esenzione».

PRESIDENTE. L’onorevole Castelli Avolio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CASTELLI AVOLIO. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato delle dichiarazioni fatte e della promessa di tradurre in un testo legislativo la disposizione che ho invocata con la mia interrogazione.

Prendo atto di questo impegno e mi dichiaro sodisfatto.

Sarò naturalmente, ancora più sodisfatto, anzi completamente sodisfatto, quando sarà emanata la disposizione in parola.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Scotti Alessandro, Giacchèro, Scalfaro, ai Ministri della pubblica istruzione e dei lavori pubblici, «per sapere se non intendano svolgere una ben coordinata azione ai fini di porre i comuni in condizione di rimettere in efficienza gli edifici scolastici, delle zone rurali che sono il più delle volte inadeguati alle esigenze scolastiche e quasi sempre privi di impianti igienico-sanitari che possono e devono essere parte integrante dei mezzi educativi».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

BERNINI, Sottosegretario di stato per la pubblica istruzione. I provvedimenti relativi alle costruzioni ed al restauro di edifici scolastici, ivi compresi quelli per le scuole rurali, sono di pertinenza del Ministero dei lavori pubblici, il quale può promuovere il finanziamento, sia mediante la concessione di mutui di favore con  quote di interessi a carico dello Stato, sia mediante la concessione di sussidi.

Tale attività del Ministero dei lavori pubblici è estesa anche agli impianti igienico-sanitari, dei quali l’onorevole interrogante giustamente ed opportunamente rileva l’importanza capitale nell’ambito scolastico. Se, come sembrerebbe, l’onorevole interrogante, con le parole «rimettere in efficienza» intende fare riferimento ai locali degli istituti che sono stati danneggiati dalla guerra, l’intervento statale può risolversi in ricostruzioni dirette a totale carico dello Stato, che fa però sempre capo al bilancio del Ministero dei lavori pubblici.

Il Ministero della pubblica istruzione ha sempre seguito con costante interessamento, pur nelle presenti difficoltà finanziarie del bilancio dello Stato, il settore di attività dell’edilizia scolastica che, in atto, è comprensibilmente indirizzato in modo speciale alla riparazione, nei limiti del possibile, e alla ricostruzione degli edifici danneggiati dalla guerra.

Ad ogni modo, si dà precisa assicurazione che, per quanto riguarda in modo speciale gli edifici scolastici delle scuole rurali e gli impianti igienico-sanitari di tutte le scuole, sono state impartite istruzioni agli uffici del Ministero, affinché tali questioni siano esaminate con particolare interessamento, in relazione al punto di vista, che il Ministero condivide, dell’onorevole interrogante.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere per la parte che lo concerne.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Aggiungerò poche parole a quanto ha comunicato il Sottosegretario per la pubblica istruzione per ciò che concerne la competenza del Ministero dei lavori pubblici. Dal testo dell’interrogazione non si rileva se essa si riferisca alla rimessa in efficienza degli edifici danneggiati dalla guerra o di quelli bisognosi di restauro per vetustà.

La riparazione degli edifici danneggiati dalla guerra avviene per opera di questo Ministero per mezzo dei Provveditorati alle opere pubbliche, ai quali i comuni, se del caso, possono segnalare l’urgenza delle riparazioni.

Per le riparazioni di altro genere, i comuni possono avvalersi dei beneficî dell’articolo 6 del regio decreto 17 marzo 1930, il quale dispone che ai comuni e agli altri enti morali che si occupano dell’istruzione elementare possono essere concessi, per costruzione, adattamento e restauro di edifici scolastici, in sedi rurali, non più che due aule, con annessa abitazione per l’insegnante.

Il sussidio è concesso nella misura della metà della spesa, mentre per l’altra metà i comuni e gli enti possono ottenere mutui di favore.

Per gli edifici con un numero superiore di aule, i comuni e gli altri enti possono ottenere o il sussidio nella misura sopraindicata, con un massimo di lire 200.000, o il mutuo di favore per l’intera spesa.

Il Ministero dei lavori pubblici sta esaminando la possibilità di elevare la misura massima del detto contributo, in relazione all’aumentato costo dei materiali e della mano d’opera.

Per quanto si riferisce agli impianti igienici, le norme per la compilazione dei progetti di edifici scolastici, approvate con regio decreto 27 maggio 1940, n. 875, stabiliscono che negli edifici rurali da 1 a 6 aule devono prevedersi, oltre alle aule, i locali per i servizi igienici e per un impianto di docce.

L’osservanza di tali norme è stata sempre controllata dal Ministero nel concedere i beneficî sopraindicati.

Per il finanziamento e l’esecuzione dei lavori, sono infine applicabili le disposizioni dei decreti legislativi 10 agosto 1945, n. 517, e 12 ottobre 1945, n. 690, e successivi, che consentono l’anticipo della intera spesa, con l’obbligo da parte dei comuni di rimborsare allo Stato, in trenta rate annuali, senza interesse, il 50 per cento della spesa predetta.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Scotti Alessandro, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto l’onorevole Giacchero, secondo firmatario.

GIACCHERO. Ringrazio gli onorevoli Sottosegretari per le risposte e, in un certo senso, potrai anche dichiararmi sodisfatto, se non altro perché devo riconoscere che il Governo si rende conto dell’importanza del problema. Non vi è dubbio che quando abbiamo segnalato questo problema, né i miei colleghi né io eravamo così ottimisti da sperare che in sede di risposta il Governo potesse dirci di averlo risolto completamente, anche se non eravamo così pessimisti da pensare che la risposta sarebbe venuta cinque mesi dopo la domanda.

Ma qui non si tratta tanto di essere o di non essere sodisfatti: si tratta di impostare seriamente la risoluzione di un problema che, se vogliamo che quelle belle frasi che noi nelle sedute pomeridiane stiliamo, in sede di Costituzione, sulla evoluzione delle classi proletarie, non rimangano soltanto delle frasi, ha un’importanza enorme. Se vogliamo veramente che la classe contadina, la quale rappresenta la maggior parte, o se preferite, la classe più numerosa del popolo italiano, percorra la dura, durissima salita, del progresso umano e del vivere civile, dobbiamo cominciare a farle compiere il primo passo, che è precisamente quello che può e deve compiersi nella scuola. Il tempo che qui mi è concesso, evidentemente, non mi permette di addurre altre ragioni, altri argomenti, quali si potrebbero addurre numerosissimi alla nostra tesi, sia da un punto di vista generale, sia da quello un po’ più particolare di noi deputati piemontesi firmatari dell’interrogazione, che ci riferivamo, specialmente, alla provincia di Asti ed al Piemonte. Noi vorremmo soltanto che il Governo desse ai figli del popolo, che vivono nei casolari sparsi in tutte le campagne, il modo di giungere agevolmente ad una scuola dove potessero trovare non un ambiente freddo, disadorno, a volte, direi, quasi ostile, oltre che antigienico; ma trovassero invece un ambiente in cui, con un minimo di attrezzatura, essi non imparassero soltanto le prime nozioni dell’alfabeto o quelle dell’aritmetica, ma potessero fissare la prima, e perciò incancellabile, impronta di norma civile.

In sostanza vorremmo che il Governo dedicasse la massima attenzione a questo problema, e non si occupasse, non si ricordasse soltanto dei contadini, quando si tratta di andare a requisire qualche quintale di grano o di far arrestare qualche coltivatore, perché se ne è trattenuto qualche chilogrammo in più del consentito. Vorremmo che se ne ricordasse anche e, direi, soprattutto, quando si tratta di dare ai giovani, ai figli dei contadini, quell’alimento, altrettanto importante del grano che essi danno a noi, quell’alimento che essi possono avere soltanto dalle scuole, sia pure rurali, ma che devono essere sempre degne del nome di scuola.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione, dell’onorevole Pajetta Giuliano, al Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, «a) sulla possibilità della concessione di un quantitativo fisso mensile di francobolli di franchigia militare per i militari di leva ed i sottufficiali delle Forze armate, tenuto conto del livello estremamente basso della decade e del soldo; b) sulla possibilità di una assegnazione fissa mensile di una certa quantità di carta da lettere, buste e cartoline postali semplici a detti militari».

Poiché l’onorevole Pajetta Giuliano non è presente, si intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Angelucci e Dominedò, ai Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, «per sapere quali siano le ragioni per le quali è stata sospesa, presso gli uffici del Genio civile del Lazio e presso il Provveditorato delle opere pubbliche, ogni attività tendente a predisporre i lavori pubblici già in programma ed il relativo finanziamento; e per conoscere quali siano i provvedimenti urgenti che i due Ministri ritengono di dover prendere per superare la suddetta situazione, che determina disoccupazione e grave malumore tra le Amministrazioni comunali e le popolazioni, specialmente per il raffronto che esse fanno con i dispendiosi lavori di movimento di terra, che si eseguono nella città di Roma con una spesa di centinaia: di milioni, al mese».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. La deficienza di fondi ha reso impossibile il finanziamento di numerosi lavori già programmati. In conseguenza, da parte di alcuni uffici si è ritenuto opportuno non provvedere alla compilazione di nuovi progetti nella considerazione che, se fosse passato un lungo periodo tra la compilazione stessa e il finanziamento di essi, sarebbe stato necessario un aggiornamento e quindi un duplice lavoro: in alcuni casi, purtroppo, l’insufficienza dei fondi ha reso necessario sospendere anche i lavori in corso.

Peraltro, essendo superata la fase critica in seguito alle recenti assegnazioni di fondi da parte del Tesoro, è stata recentemente diramata una circolare a tutti i Provveditorati alle opere pubbliche, disponendosi che venga senz’altro ripresa sia l’esecuzione dei lavori già approvati, sia l’attività di progettazione degli uffici del Genio civile e che le perizie vengano approvate e finanziate in relazione alle disponibilità dei fondi che sono stati o che saranno in questi giorni assegnati a ciascun Provveditorato ed a ciascuna provincia, tenendo conto, agli effetti della precedenza, dello stato di urgenza dei lavori medesimi.

PRESIDENTE. Ha facoltà di rispondere, per la parte che lo concerne, l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. La mia risposta sarà breve. Devo fare presente, per quanto concerne il Ministero del tesoro, che con provvedimento approvato dal Consiglio dei Ministri del 17 febbraio scorso, è stata disposta l’assegnazione, a favore del Ministero dei lavori pubblici, della somma di 35 miliardi di lire, per l’esecuzione di opere pubbliche straordinarie.

Lo stesso Ministero dei lavori pubblici, nella propria competenza, provvederà alla distribuzione di detta somma fra i vari Provveditorati alle opere pubbliche, che la ripartiranno a favore delle amministrazioni comunali, in relazione ai progetti di opere pubbliche già predisposti ed approvati.

PRESIDENTE. L’onorevole Angelucci ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ANGELUCCI. Ringrazio gli onorevoli Sottosegretari di Stato delle assicurazioni che hanno dato per quanto riguarda l’avvenire. È certo che queste assicurazioni porteranno fra le popolazioni del Lazio quel senso di tranquillità che hanno perduto nel vedere sospesi non solo i lavori in corso, ma anche quelle predisposizioni di carattere tecnico che precedono l’attuazione dei lavori pubblici programmati. Avrei desiderato però una maggiore precisazione su queste circostanze, e sul fatto che sono stati sospesi anche quei lavori pubblici per i quali era già stato predisposto il finanziamento e quelli che già avevano avuto inizio. Io penso e ritengo che se il finanziamento era stato predisposto realmente e sostanzialmente, i fondi dovevano esistere o presso il Provveditorato o presso il Ministero dei lavori pubblici. È questa, mi pare, la lacuna che lasciano le risposte degli onorevoli Sottosegretari. D’altra parte, quello che mi lascia insoddisfatto, e che lascia insoddisfatto non solo me, ma le popolazioni del Lazio e le amministrazioni comunali, è che a Roma si fanno dei lavori pubblici che certamente sono meno importanti di quelli che vengono richiesti al Governo da parte delle amministrazioni comunali periferiche. Queste chiedono lavori di carattere urgente e di importanza fondamentale. Noi dobbiamo lamentare quella che è una delle più gravi incongruenze che il fascismo ci ha lasciato, cioè che a pochi chilometri da Roma vi siano ancora comuni che mancano completamente di fognature. Domandiamo scuole che, come diceva l’oratore che mi ha preceduto, sono le basi fondamentali della ricostruzione del popolo italiano.

Domandiamo case popolari. Pensate che persino nel Cassinate sono state sospese le ricostruzioni di case popolari, mentre a Roma vediamo esecuzioni di lavori di movimento di terra, che non hanno quella importanza. Anche oggi le famiglie del Lazio abitano in tuguri e grotte.

È questa parte veramente umana che manca di risposta; il Governo non ha risposto sufficientemente alla prima parte della mia interrogazione.

Ripetendo i ringraziamenti agli onorevoli Sottosegretari per quello che riguarda le assicurazioni da essi date per il futuro, non posso dichiararmi sodisfatto per quanto riguarda la prima parte della mia interrogazione e sono sicuro di poter affermare che la mia insoddisfazione è anche l’eco della insoddisfazione delle amministrazioni comunali e della popolazione del Lazio.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Leone Giovanni, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno, dell’agricoltura e foreste e dei lavori pubblici «per conoscere se non reputino opportuno promuovere un provvedimento legislativo che abrogando il Regio decreto 11 marzo 1923, n. 691 (Gazzetta Ufficiale n. 85 dell’11 aprile 1923) richiami in vigore l’ultimo comma dell’articolo 60 (dal predetto decreto abrogato) della legge 25 giugno 1865, n. 2359, sulle espropriazioni per causa di pubblica utilità. Il comma dell’articolo 60 – di cui si chiede il ripristino – stabiliva che, in caso di retrocessione per l’ipotesi che il fondo «non ricevette in tutto o in parte la preveduta destinazione». il prezzo da pagare da parte del proprietario espropriato non poteva eccedere «l’ammontare dell’indennità ricevuta dal proprietario per l’espropriazione del suo fondo»; e rispondeva ad un’indiscutibile criterio di giustizia, diretto a ripristinare, senza danno, il proprietario nel suo diritto, quando fosse cessato il motivo superiore dell’utilità pubblica, che legittimava l’espropriazione e ad impedire, in conseguenza, l’ingiustificato arricchimento da parte dell’ente espropriante per l‘eventuale aumentato valore del fondo. L’abrogazione di quel comma fu ispirata dal criterio statolatrico della legislazione fascista, forse non scevro di sotterranei riflessi particolari; e non è compatibile con il rinnovato spirito di difesa dei diritti dell’individuo. Il ripristino dell’ultimo comma dell’articolo 60, oltre che al segnalato motivo di guarentigia del diritto del cittadino, risponde ad una più rispettabile ed urgente esigenza: quella di consentire, mediante il facilitato diritto di retrocessione, il ritorno di molti fondi ai proprietari, che in regime di coltivazione diretta o di affitto riconquisterebbero alla coltivazione ed alla produzione appezzamenti, talora vasti, che dall’ente espropriante o sono abbandonati o non sono utilizzati, a scopo di produzione agraria».

Non essendo presente l’onorevole Leone Giovanni, s’intende che vi abbia rinunciato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Natoli, al Ministro del commercio con l’estero, «per conoscere esattamente i criteri che hanno informato l’accordo concluso col Governo norvegese per la costruzione di navi nei Cantieri Ansaldo. E per sapere se è vero che il Governo ha accettato in pagamento una quantità di stoccafisso per l’86 per cento ceduto ad un gruppo di commercianti. Tale stoccafisso sarebbe ceduto al pubblico ad un prezzo elevatissimo. Questo gravoso sopraprezzo su un alimento di consumo popolare contribuisce all’aumento del costo della vita e rappresenta un premio che i consumatori dovrebbero pagare ai Cantieri Ansaldo, rinnovandosi così un protezionismo dannoso che il regime repubblicano deve invece eliminare».

Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero.

ASSENNATO, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero. Chiedo scusa all’onorevole interrogante per aver rinviato l’interrogazione più volte. Nell’aprile e giugno 1946, la Società Ansaldo stipulò con alcuni armatori norvegesi due contratti per la fornitura di due motonavi da carico da tonnellate 9.000 per il prezzo in sterline di 520.000 e 497.000, pagabile per il 35 per cento in valuta estera e per il 65 per cento mediante stoccafisso, tonnellate 2.321 per la prima e tonnellate 2.210 per la seconda.

Il Governo italiano consentì alla Ditta Ansaldo le libere disponibilità della valuta estera, con il solo vincolo che almeno il 50 per cento fosse speso in importazione di materiale atto alle ricostruzioni.

Per realizzare le perdite di stoccafisso, calcolate a corone 2,18 pari a Lit. 98,10, la Società Ansaldo pattuì la cessione al più forte gruppo d’importatori.

Il Ministero del commercio con l’estero, informato dell’operazione, la sottopose al Comitato italiano della ricostruzione, segnalando che il gruppo degli importatori non rappresentava la totalità della categoria.

Il C.I.R. ritenne di approvare gli accordi fra il Cantiere e i gruppi importatori, disponendo che il 14 per cento del contingente fosse lasciato a disposizione degli altri importatori alle stesse condizioni del rimanente 86 per cento.

Circa il prezzo, essendo necessaria una maggiorazione per mettere il cantiere in condizioni di fornire le motonavi, si assegnarono ai Cantieri tonnellate 9.000 di baccalà sulle 10.000 previste dall’accordo italo-norvegese, e ciò allo scopo di imputare su una più bassa massa di merce la somma globale da corrispondere al Cantiere, e rendere così meno onerosa la maggiorazione dello stoccafisso.

In compendio il prezzo di lire 205 risultò così composto:

costo dello stoccafisso cifporto di imbarco                                            L. 98,10

spese di sbarco, magazzinaggio, guardianaggio,

imposta generale sull’entrata

»                                                                29.90

premio fisso a favore dei cantieri »               22 –

  1. 150 –

A tale prezzo sono state ancora aggiunte:

utile ai gruppi finanziatori »                         22 –

quote di partecipazione agli utili a favore dei cantieri »                               33 –

Totale       L. 205 –

In sostanza i cantieri ottennero lire 55: lire 22 a titolo di premio fisso per recupero della perdita iniziale, e lire 33 per partecipazione agli utili, per garanzia di un eventuale maggior costo della costruzione, per aumenti salariali, ecc.

Questa l’operazione che è venuta ad incidere sul consumatore italiano, ma nella misura dal C.I.R. ritenuta idonea a colmare il dislivello tra i prezzi interni e i prezzi esteri.

Le speculazioni successive esulano dalla competenza del Ministero del commercio con l’estero.

Il Commissariato dell’alimentazione da prima bloccò il 35 per cento e poi l’intera partita, ritenendo la sua decisione come logica conseguenza di una manovra a carattere nettamente speculativa, esercitata da tutti coloro i quali hanno operato sul baccalà d’importazione, lasciato a disposizione degli importatori, speculazione che portò il prezzo, secondo la nota del Commissariato dell’alimentazione, da lire 400 a lire 500 al chilogrammo, in alcune località.

Attualmente la pratica si trova a questo punto: i cantieri Ansaldo, che oltre alle lire 22 di premio fisso per recupero della perdita iniziale, ottennero una quota utile di lire 33 per garanzia di eventuali aumenti di costo per aumenti salariali, ecc., ora lamentano una perdita di lire 63.000.000 per i prezzi fissati, e dì lire 130.000.000 per aumenti del costo di mano d’opera e materiale: in tutto lire 193.000.000, a rifarsi dei quali hanno richiesto l’aumento dello stoccafisso a lire 236, del baccalà salinato a lire 214,65, del baccalà secco a lire 285,65.

Il 25 febbraio, in una riunione presso l’Alto Commissariato dell’alimentazione, i rappresentanti degli importatori non hanno accettato la riduzione ritenuta giusta dalla Commissione per la voce «spesa» da lire 29,90 a lire 23,50 e per la voce «utile» da lire 22 a lire 15,20, e, data l’opposizione degli importatori, la questione sarà sottoposta al Comitato italiano per i prezzi.

La Commissione ha anche ritenuto di rimettere al C.I.R. la decisione sulla richiesta di maggior costo delle navi, richiesta che si fonda sul seguente conteggio presentato dai cantieri:

il costo delle navi senza utile                   L. 1.213.000.000

quota in valuta estera a cambio ufficiale »     320.500.000

da ricavarsi »                                              892.500.000

Questo è il conto sul quale si fonda la richiesta originaria di vendita della merce per la somma di lire 892.500.000, da maggiorarsi ora nella misura sovraproposta dai cantieri.

In detto conto si nota che tutta la valuta lasciata disponibile è stata imputata dai cantieri al solo valore del cambio ufficiale di lire 320.500.000.

La pratica sarà ora trasmessa al C.I.R. per nuovo e definitivo esame.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NATOLI. Ringrazio il Sottosegretario al commercio estero, ma vedo che anche lui non è sodisfatto di questo affare, e naturalmente, non posso esserlo io, interrogante. Tutti i punti indicati nella mia interrogazione sono stati confermati.

Risulta che lo stoccafisso arrivato in Italia al prezzo di lire 98 viene ceduto al consumatore oggi a 400, 500 lire al chilo, e che l’Ansaldo ha ottenuto quella valuta estera che agli altri viene negata.

Inoltre mi pare, da una comunicazione fatta dal Ministero del commercio estero ad un giornale cittadino, che questo stoccafisso si trovi giacente sulle banchine di Genova e cominci a mandare un cattivo odore, non solo per la lunga attesa, ma anche perché sembra che il contratto sia stato concluso in maniera contraria agli interessi del consumatore e dello Stato.

Risulta che ai cantieri è stato concesso un premio su ogni chilogrammo di stoccafisso e che è stato concesso un monopolio per l’86 per cento della quantità ai grossi commercianti, escludendo i piccoli. Ora, questi grossi commercianti si rifiuterebbero di accettare una riduzione dei loro guadagni, in modo che, secondo le dichiarazioni fatte dal Sottosegretario al commercio estero, tutti avrebbero perduto, anche l’Ansaldo che ha guadagnato. Ed allora, mi pare che sia un affare abbastanza oscuro.

L’onorevole Sottosegretario ha detto che il suo dicastero è estraneo agli sviluppi speculativi, e son proprio questi che ci interessano. Sarebbe opportuno che chiarimenti, esatti del C.I.R., se questi è responsabile, venissero forniti all’Assemblea Costituente ed anche ai poveri consumatori, i quali pagano carissimo un prodotto che potrebbero avere a buon mercato. Ora, mi pare che sia una politica alimentare discutibile quella di far aumentare anche i prezzi che potrebbero essere bassi. Pertanto, non posso dichiararmi sodisfatto.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

Presentazioni di disegni di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Mi onoro presentare all’Assemblea Costituente i seguenti disegni di legge:

Norme per il collocamento a riposo, a domanda o d’ufficio, dei dipendenti degli Enti pubblici locali e dei segretari comunali;

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro dell’interno della presentazione di questi disegni di legge. Saranno inviati alle Commissioni competenti.

Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1943, n. 383, e successive modificazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1943, n. 383, e successive modificazioni.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Carboni, Relatore. Ne ha facoltà.

CARBONI, Relatore. A nome della Commissione, intendo anticipare brevi dichiarazioni su quanto avrò occasione di dire in sede di trattazione degli emendamenti, per sollecitare e semplificare la discussione.

L’oggetto del disegno di legge in esame è limitato. Non si tratta di una riforma totale della legge comunale e provinciale, ma di una riforma limitata; potrei dire che si tratta della riforma dei controlli.

La legge ha un carattere transitorio. Si tratta di una legge, la quale avrà breve durata, fino al momento in cui il nuovo Parlamento delibererà una riforma completa della legge comunale e provinciale, in seguito all’imminente riforma costituzionale. Ed allora, è necessario mantenere la discussione e gli emendamenti nei limiti dell’oggetto e del carattere del disegno di legge.

Qui noi abbiamo inteso dei discorsi molto interessanti e si sono presentati numerosissimi emendamenti, dei quali, alcuni attengono rigorosamente al tema ed all’oggetto del disegno di legge, e in massima parte o in buona parte saranno accettati dalla Commissione; altri hanno una relazione indiretta con l’oggetto del disegno di legge, e la Commissione farà tutti gli sforzi di buona volontà per accettarli, sempre che siano conformi a quello che è lo scopo del disegno di legge. Altri invece, e sono molti, sono completamente fuori del tracciato del disegno di legge, e, per quanto alcuni di essi esprimano concetti ai quali si uniforma l’idea della Commissione e che, in una prossima riforma generale, potranno essere accettati entrando a far parte della legge che prenderà il posto della legge comunale e provinciale attuale, allo stato delle cose non possono essere accettati dalla Commissione. Non possono essere accettati, perché altrimenti si sovvertirebbero il carattere e l’oggetto del disegno di legge, perché si perverrebbe ad una riforma totale, che non può essere improvvisata in una discussione, come quella che noi facciamo.

Alcuni di questi emendamenti comporterebbero persino la necessità della riforma di leggi complementari e di altre che non hanno nulla a che vedere con la legge comunale e provinciale.

La Commissione mi ha dato incarico di fare questa anticipata dichiarazione, per invitare gli onorevoli colleghi a mantenere la discussione sul tema che ci occupa. Altrimenti la Commissione dovrebbe proporre che il disegno di legge fosse rimandato al Governo per prepararne un altro più approfondito e più completo; il che credo sarebbe dannoso e contrario allo scopo che ci proponiamo tutti noi – o la quasi totalità di noi – cioè di apprestare, attraverso questo disegno di legge, un primo passo più decisivo verso quella libertà e quella democrazia degli enti locali, che è un’aspirazione pressoché unanime. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlate l’onorevole Ministro dell’interno. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Sono pienamente d’accordo con l’onorevole Relatore. Se vogliamo veramente fare qualche cosa per i comuni, bisogna che manteniamo la discussione nei termini del disegno di legge altrimenti non ci sarebbe altra soluzione che rinviare tutto ad un esame più completo e presentare un nuovo disegno di legge. Ritengo che non sia nell’interesse delle amministrazioni comunali il rinvio di questo disegno di legge, il quale, per quanto modesto, risolve alcuni problemi interessanti per tutte le amministrazioni comunali.

Pregherei quindi i colleghi di volersi attenere al disegno di legge presentato e agli emendamenti soltanto degli articoli che sono inseriti nella legge, con eliminazione di tutti gli articoli aggiuntivi, che non potrebbero essere accettati dal Governo, salvo il riesame di tutta la materia è la presentazione di un nuovo disegno di legge.

PRESIDENTE. Se vogliamo aderire alle parole dell’onorevole Ministro dell’interno e del Relatore, dobbiamo concordare il procedimento che si deve seguire. Noi dobbiamo fare una discussione generale che si svolgerà intorno alla sostanza degli emendamenti. Mi sembra quindi necessario che i colleghi provvedano a ritirare gli articoli aggiuntivi presentati, non attinenti al preciso contenuto del disegno di legge.

PERSICO. Fatta eccezione per quelli accettati dalla Commissione.

PRESIDENTE. Naturalmente quelli accettati dalla Commissione restano; gli altri dovrebbero essere ritirati.

FUSCHINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FUSCHINI. Vorrei fare un’osservazione in merito a quanto è stato detto dal Relatore e dall’onorevole Ministro.

Noi possiamo pienamente convenire con quanto essi hanno detto, ma ritengo che dal punto di vista della discussione di questo disegno di legge debba essere esaurita prima di tutto la discussione generale, magari con quelle riduzioni che potranno essere più opportune. Le osservazioni dell’onorevole Relatore e dell’onorevole Ministro riguardano la discussione degli articoli. Quando sarà chiusa la discussione generale, potremo prendere una decisione in merito agli emendamenti e agli articoli aggiuntivi ed essere probabilmente d’accordo, sia con l’onorevole Relatore, che con l’onorevole Ministro. Ma intanto, signor Presidente, mi pare sia necessario chiudere la discussione generale, tenendo presenti gli avvertimenti che sono stati dati dall’onorevole Relatore e dall’onorevole Ministro.

PRESIDENTE. Quanto hanno detto l’onorevole Ministro e il Relatore, onorevole Fuschini, comporterebbe questa conclusione: che nella discussione generale non si vada al di là del tema posto dal disegno di legge. Quindi discussione generale che deve riguardare esclusivamente la materia dei controlli, come ha accennato benissimo il Relatore; e allora è necessario che tutti tengano presente questa linea nella discussione. Al momento opportuno decideremo intorno alla sorte degli emendamenti.

L’onorevole Dozza ha chiesto di parlare. Ne ha facoltà.

DOZZA. Mi sembra molto difficile mantenere la discussione strettamente entro i limiti indicati testé dall’onorevole Presidente. È questa la prima occasione che noi abbiamo di discutere il grave problema della legge comunale e provinciale, e mi pare che sarebbe opportuno, in sede di discussione generale, non limitare gli argomenti in esame, se pure gli oratori che interverranno dovranno limitare nel tempo il loro intervento. È molto meglio, infatti, che la limitazione avvenga nel tempo e non nel merito, perché mi sembra opportuno che i vari settori dell’Assemblea manifestino le loro opinioni rispetto a questo problema che è tanta parte della vita amministrativa della Nazione.

Quindi non vorrei che questa limitazione di esame fosse introdotta, sebbene mi renda conto della opportunità che in sede di discussione degli articoli si pervenga, invece, a quella limitazione che è stata indicata dall’onorevole Presidente.

PRESIDENTE. È evidente che l’onorevole Dozza dice qualcosa che ha importanza notevole. Si possono fare accenni ai temi generali, ma il disegno di legge impone che la discussione avvenga intorno alle disposizioni che ne costituiscono il contenuto.

È opportuno, in altri termini, che si tenga conto della necessità di mantenere la discussione in limiti tali da esaurire il compito nostro nel tempo prestabilito.

Riprendiamo dunque la discussione nei termini concordati.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Caroleo, al quale ritengo superfluo fare ulteriori raccomandazioni quanto alla brevità.

CAROLEO. Ho preso atto delle raccomandazioni, onorevole Presidente. E mi sia consentito di premettere brevemente, senza proposito di divagazioni, che io sono per le più ampie autonomie regionali.

Lo sono soprattutto, perché provengo da quel Mezzogiorno, che ha fatto per circa 80 anni il più disastroso e doloroso esperimento del centralismo burocratico.

Ho sentito dire che si rischierebbe di vedere un regresso della democrazia italiana, di vedere una cristallizzazione dei nuovi istituti nelle nostre povere provincie del Mezzogiorno. Penso che queste affermazioni possano giustificarsi soltanto in coloro che non conoscono il Mezzogiorno. Siamo miseri, siamo senza risorse, siamo afflitti dall’analfabetismo e dalla malaria, ma non per colpa dei cittadini del Mezzogiorno, ma per colpa soltanto dei tanti Governi di Roma.

Se anche non si vuol credere a quel fenomeno di simmetria dell’evoluzione politica, a cui, con la sua grande autorità, accennava pochi giorni addietro in questa Assemblea l’onorevole Orlando, bisogna venire in Calabria, in Lucania, dappertutto nel nostro Mezzogiorno, per sincerarsi che in sostanza noi non siamo indietro a nessuno per quello che è sete di libertà e capacità di goderne. E potrebbero di questo darmi atto anche molti colleghi conterranei dei partiti di sinistra, i quali sanno che le nostre popolazioni sono mature per tutti gli esperimenti democratici.

Una voce a sinistra. Magari!

CAROLEO. Senza magari, onorevole collega: questa è la realtà!

Si è parlato di pericoli per l’unità: ho sentito dire in questa Assemblea nientemeno che la campagna elettorale si è dovuta svolgere sul tema dell’unità nazionale. Ma quando si è messa in discussione l’unità dell’Italia? Ma chi ha osato di metterla mai in discussione? Quale partito politico, repubblicano o monarchico, ha avvertito questa necessità? Se i monarchici facevano il più grande titolo di onore di questa unità! Del resto, quello che è il sentimento dell’unità nazionale lo dimostrano i profughi di Pola.

PRESIDENTE. Sì, siamo d’accordo: ma venga al merito.

CAROLEO. Vi è un problema finanziario. Le spese saranno maggiori; ma i conti occorre farli alla maniera dell’onorevole Orlando, e bisogna anche persuadersi, quando si parla di spese, che versiamo sempre in quel campo di giustizia sociale, che deve naturalmente costare; così quando si tratta di giustizia sociale per raggruppamenti collettivi, per raggruppamenti comunali, come quando si tratta di giustizia sociale per singoli individui. Voi sapete che, da parecchio tempo in qua, ogni padrone intende che il dipendente deve costare di più. In sostanza – e ho finito sulla digressione e ne chiedo perdono – più che di problema economico o di problema unitario, qui si tratta di un problema essenzialmente politico, perché affiorano in questa stessa Assemblea quei medesimi motivi di ordine… totalitario che già si esprimevano nei lavori pseudo-parlamentari del 1932, quando si chiedevano dal Governo di Mussolini i pieni poteri per le modifiche alla legge comunale e provinciale.

Leggo poche considerazioni ricavate dalle relazioni del tempo: «Sia la lettura che lo spirito delle nuove disposizioni, espressione di una nuova coscienza dello Stato, non sembrano conciliarsi con le norme del vecchio testo, che in tutto il suo sistema risente di una forma di rappresentanza elettorale, già basilare nell’ordinamento degli enti locali, ma che è antitetica con quella in atto vigente. Il coordinamento delle nuove con le vecchie disposizioni rappresenta una necessità indifferibile, non solo di ordine giuridico, ma anche di ordine politico, poiché l’unità del diritto e la certezza di esso costituiscono fondamento di ogni retto ordinamento». E ancora: «Fu risolutamente respinta la tendenza a trasformare l’autarchia in autogoverno, tendenza che si era largamente affermata nel periodo anteriore all’avvento del fascismo. Comune e provincia conservano il loro carattere di ente autarchico anche oggi, dopo che furono soppressi gli organi elettivi, ma si è tolta la possibilità d’una loro contrapposizione allo Stato».

Passo al disegno di legge e mi dichiaro d’accordo con gli oratori che mi hanno preceduto nel riconoscere che questo è un primo passo, e non un piccolo passo, verso l’autonomia; un passo che va anche oltre i limiti della legge del 1915, in quanto quello che era un sindacato di legittimità preventivo viene tradotto in un controllo di legittimità successivo.

Però, noi che siamo già tacciati di imprudenza quando parliamo di autonomie, non vogliamo mostrarci incauti nelle riforme, e ci pare che sia opportuno fare un rilievo; cioè che i controlli, in genere, hanno una duplice funzione: una di vigilanza, di esame sullo svolgimento dell’attività dell’ente, attività che è bene si svolga in anticipo liberamente; un’altra, di controllo: quella della garanzia che l’atto amministrativo risponda esattamente alla convenienza, all’interesse dell’ente amministrato.

Ora, relativamente al primo aspetto del controllo, la possibilità di riforma deve essere la più larga desiderabile.

Però, per quello che si riferisce al secondo aspetto, si impongono delle cautele.

La relazione del Governo si intrattiene sul primo punto di questo problema, sulla prima funzione del controllo, mentre del secondo profilo si occupa la nostra Commissione, laddove dice: «D’altro canto, la collegialità degli organi deliberanti, il controllo delle minoranze, il sindacato della pubblica opinione liberamente manifestantesi, attenuano grandemente, se non eliminano, il pericolo di deliberazioni volutamente o manifestamente inopportune o dannose».

Ha fatto bene la nostra Commissione ad avvertire questa preoccupazione, che bisogna cercare di tradurre e tenere presente nelle riforme che vanno ad attuarsi. In che modo? Per quel che riguarda in generale gli atti della pubblica amministrazione, si può essere tranquilli e contare in pieno sul funzionamento dei diversi controlli di legittimità successivi, da quello considerato nell’articolo 6 del testo unico sul potere del Governo di annullare in qualunque tempo gli atti illegittimi, a quelli che sono considerati dagli articoli 3 e 11 del disegno di legge, all’articolo 252, cui fa riferimento la relazione della nostra Commissione.

Ed io vorrei aggiungere anche quel controllo interno che deriva dalla vigile accortezza dei segretari, ai quali l’articolo 253 del testo unico ricorda che, in caso essi non abbiano ricevuto l’autorizzazione scritta del sindaco, possono incorrere in responsabilità per gli atti eventualmente dannosi per la pubblica amministrazione.

Anche su questo io credo che si possa fare grande assegnamento, perché i segretari comunali (a cui bisognerà riconoscere i diritti che reclamano, compatibilmente con le esigenze della nuova sistemazione autarchica e di autogoverno degli enti) sono effettivamente i primi custodi della cosa pubblica, ed hanno dato parecchio della loro opera appassionata ed onesta all’amministrazione dei nostri enti.

Ma non bastano i controlli che vi ho elencati, per la esigenza di garantire che l’atto corrisponda al bene, al vantaggio della collettività.

Certo che, in regime democratico, la pubblica opinione, liberamente manifestantesi esercita un grande peso, ma occorre anche in questo andare cauti.

L’amministratore non deve, onorevoli colleghi, essere esposto alle insinuazioni, al facile sospetto, alla facile accusa.

In un regime giuridicamente costituito, in un ordinamento statale che si rispetti, il cittadino, anche se non è amministratore, deve trovare garanzie per la sua probità ed onestà, non soltanto, come sentivo da qualche settore affermare, nell’intimo della propria coscienza, ma in quegli istituti che tutelano questa onestà e probità, questa reputazione del cittadino.

E da noi gli istituti rispondono al pubblico ministero, e rispondevano anche, nella legge del 1915, a quella azione popolare di controllo, cosiddetto improprio, cui si riferiva giorni addietro altro oratore discutendo questo disegno di legge. Quando c’è il sospetto di una responsabilità penale di un cittadino qualsiasi o di un qualsiasi amministratore, bisogna sentire il coraggio di fare denuncia al pubblico ministero, che secondo il nostro ordinamento ha il potere di promuovere l’azione penale e ordinare qualunque istruttoria. Bisogna avere il coraggio, se si tratta di responsabilità civile dell’amministratore, di tradurre questo amministratore dinanzi al magistrato ordinario, con tutte le garanzie della legge. All’infuori di questo, l’insinuazione, l’ingiuria, la calunnia devono essere contenute, devono essere impedite.

E le provvidenze legali che si invocano non sono dirette da prevenzioni contro gli amministratori; al contrario, sono determinate e ispirate dal proposito di circondare questi amministratori, che spesso sacrificano i loro interessi privati per il bene pubblico, di tutte le cautele. Ora, come possiamo noi fare questo, quando parliamo di legge comunale e provinciale? Come possiamo circondare questi amministratori di un certo credito nella pubblica opinione? Bisogna che agiscano dei rimedi; e questi rimedi, nella materia contrattuale – che è quella che squisitamente può importare responsabilità particolari per chi amministra la cosa altrui, vanno concentrate principalmente nel sistema delle forme preordinate alla formazione dei contratti, e poi a quegli elementi successivi – controllo di legittimità e controllo anche di opportunità – che già nella legge del 1934, all’articolo 296, ancora risultano inseriti. Noi abbiamo un triplice ordine di forme per i contratti degli enti pubblici: asta pubblica, licitazione privata, trattativa privata. Io di quest’ultima forma vorrei addirittura chiedere la completa eliminazione. Gli enti dovrebbero essere governati nelle contrattazioni dalle stesse disposizioni da cui sono disciplinati i contratti dello Stato.

L’asta pubblica indubbiamente può presentare degli inconvenienti. Però tutti possono essere chiamati a concorrervi, e tra i tanti, la maggioranza – lasciamo da parte le prevenzioni – è sempre in Italia degli onesti. Nella licitazione privata, le cose un po’ si complicano, perché il concorso dei partecipanti alla gara è limitato, ristretto ad una determinata categoria di persone; e l’iniziativa per la scelta proviene da chi amministra l’ente. Comunque, passi pure per la licitazione privata; ma la trattativa privata (scelta di un unico contraente da parte dell’amministratore) bisogna avere il coraggio di eliminarla. Ed io parlo con una certa esperienza, perché qualche mese addietro è bastata la minaccia, una semplice minaccia dell’esperimento di un’azione popolare per un ente di beneficenza, a far guadagnare milioni di lire, nella mia città, a un ospedale: perché, di fronte alla segnalazione, c’è stata un’opportuna e tempestiva ingerenza del prefetto.

Dunque, eliminiamo la trattativa privata, e se anche la si vuole mantenere, non ci allontaniamo assolutamente da quel sindacato di opportunità, che nell’articolo 296 della legge attuale è presentato, e che il Governo (almeno secondo il disegno di legge presentato) non sembra abbia intenzione di modificare.

C’è stata una specie di malinteso a questo riguardo, io credo, fra il Governo e la nostra Commissione, perché il Governo ha voluto modificare soltanto il primo comma dell’articolo 296, nel senso di equiparare ai contratti per asta pubblica quelli per licitazione privata, al fine soltanto di impedire che fosse necessario per questi ultimi il visto prefettizio, nel caso di eccesso dei limiti di valore fissati dalla legge. Si è inteso, invece (benché ciò non appaia dalla relazione del Governo), di abolire quel sindacato di opportunità che è indicato nell’articolo 296 della legge? Nella relazione della nostra Commissione si legge: «Mentre l’articolo 296 del testo unico dà facoltà al prefetto di negare l’esecutività di tali contratti, quantunque riconosciuti regolari, per gravi motivi d’interesse dell’ente o d’interesse pubblico, il presente disegno stabilisce che egli deve soltanto accertarsi se siano state osservate le forme prescritte». Ma quale sorte è realmente assegnata al penultimo comma dell’articolo 296 del testo unico, da cui, per gravi motivi d’interesse pubblico, è data facoltà al prefetto di negare l’esecutorietà dei contratti, quantunque riconosciuti regolari?

Ora, mi pare che, risoluta in chiari termini la questione e mantenendosi questo controllo di opportunità per i contratti stipulati a trattativa privata (si noti bene, per quei contratti a trattativa privata che abbiano superato i limiti di valore indicati negli articoli 87 e 140 del testo unico), la riforma possa senz’altro tranquillizzare, specialmente se accompagnata, come ha chiesto anche l’onorevole Persico nel suo emendamento, dal ripristino di quella azione popolare che il legislatore nel 1934 si affrettò a sopprimere, ritenendola non necessaria di fronte ai nuovi coordinamenti allora attuati.

E, poiché siamo in tema di suggerimenti; mi si permetta da ultimo di segnalare l’opportunità di rafforzare in certo qual modo quell’istituto del referendum popolare che era già nella legge del 1903, per la municipalizzazione e per l’assunzione in genere dei pubblici servizi; e che nel 1925 fu grandemente attenuato e quasi eliminato, perché ne fu condizionata l’adozione al preventivo reclamo di un ventesimo degli elettori contro i deliberati in materia.

Questo referendum popolare, specialmente nel momento attuale, potrebbe servire a colmare diverse gravi lacune e ad attuare agevolmente molte opere, che indarno ci aspetteremmo ancora dagli organi centrali. I comuni, i sindaci, debbono pensare che qualche volta basta un po’ d’iniziativa soltanto da parte loro per dare, ad esempio, la luce a una piccola frazione che vive 300-400 metri lontano dalla città, dotata da decenni dell’energia elettrica. Basterebbe che il sindaco, attraverso un referendum popolare, prendesse l’iniziativa di chiamare anche i cittadini del capoluogo ad una contribuzione, sia pure limitata, ma straordinaria, per vedere risplendere finalmente questo bene della vita nella piccola frazione che ha sempre dato tutto quello che ha potuto alla intera collettività del comune, pur subendone un iniquo trattamento.

Mi auguro che la presente legge sia seguita da altri provvedimenti legislativi, i quali portino veramente a quell’autogoverno che è nell’attesa di tutto il Mezzogiorno. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Castelli Avolio. Ne ha facoltà.

CASTELLI AVOLIO. Sarò breve e perciò, anche per questo, vi prego onorevoli colleghi di concedermi un poco della vostra benevola attenzione.

Alcuni oratori che mi hanno preceduto prendendo le mosse dal progetto di legge che è sottoposto al nostro esame, hanno fatto qualche accenno alla questione generale dell’autonomia e dell’indipendenza del comune; questione importantissima, questione, direi, di palpitante attualità, ora che noi stiamo facendo la grande costruzione del nuovo Stato, dello Stato democratico, dello Stato quale noi vogliamo effettivamente democratico, nelle sue istituzioni e nelle sue leggi.

Il progetto di Costituzione riafferma all’articolo 121 il principio generale dell’autonomia del comune; ma non basta che l’articolo 121 del progetto stabilisca il precetto, la norma generale, che «il comune è autonomo nell’ambito dei principî fissati dalle leggi generali della Repubblica». Bisogna porre queste leggi, che garantiscano l’autonomia e l’indipendenza al comune di fronte alle autorità governative locali e di fronte all’autorità governativa centrale. Ed il progetto sottoposto al nostro esame apporta un utile contributo alla risoluzione della questione, per lo meno attraverso la riforma dei controlli.

Noi, onorevoli colleghi, ci dobbiamo preoccupare ed occupare delle libere istituzioni comunali, perché, come la famiglia forma il nucleo fondamentale della società, così il comune forma il nucleo fondamentale dello Stato, sta a base dell’organizzazione amministrativa del Paese. Quando il regime fascista ha creduto di potere influire sulla società, ha posto accanto alla famiglia tante istituzioni che volevano accompagnare i nostri figliuoli dalla nascita fino all’uscita dalle università. Così nell’organizzazione dello Stato fascista, in quella che fu detta la «trasformazione dello Stato» – che poi non è avvenuta e non poteva avvenire – lo Stato ha cercato di influire sul comune, ne ha compresso la libertà e l’indipendenza ed ha finito con l’aggiogarlo al carro governativo.

Noi, onorevoli colleghi, stiamo costruendo una grande piramide, al vertice della quale è la massima istituzione dello Stato democratico, il Presidente della Repubblica, di quella Repubblica che il popolo italiano liberamente si è data il 2 giugno, di quella Repubblica che, per me, uomo di fede, la Provvidenza ha voluto che il popolo si desse affinché esso, il popolo, scontati gli errori del passato, potesse risorgere a nuova vita ed essere esso, ed esso solo, l’artefice dei suoi nuovi destini. Alla base di questa piramide sono gli enti minori, alle fondamenta i comuni; epperò se noi vorremo fondare la nostra costruzione su solide fondamenta, dobbiamo preoccuparci della sorte dei comuni.

Come dicevo, onorevoli colleghi, il principio dell’autonomia del comune è riconosciuto nell’articolo 121 del progetto di Costituzione. Per me, il concetto di autonomia, riferito al comune, non è del tutto esatto. Noi ci vogliamo piuttosto riferire al concetto di libertà comunale, di indipendenza del comune dalle autorità governative locali e dall’autorità centrale dello Stato. Difatti per autonomia s’intende la facoltà che hanno alcuni enti di organizzarsi giuridicamente, di avere, di creare un proprio diritto, diritto che non solo è, come tale, riconosciuto dallo Stato, ma viene assunto da esso a far parte del suo ordinamento giuridico e dichiarato obbligatorio, come obbligatorie sono le proprie leggi ed i propri regolamenti. Quando noi parliamo di «autonomia» della regione, noi riconosciamo alle regioni questa facoltà di governarsi autonomamente nell’ambito delle leggi e di porre anche proprie norme giuridiche, di porre delle leggi di carattere anche formale nell’ambito e nelle materie stabilite dalla loro legge costitutiva. Nel comune noi riconosciamo bensì il potere regolamentare, ma la sua autonomia è da intendersi in senso diverso, è da intendersi nel senso dell’autarchia. É questo il concetto proprio che si addice al comune, la facoltà cioè di potersi governare da sé nell’orbita, nell’ambito della legge e con norme che regolino i rapporti degli abitanti del comune nella cerchia dell’amministrazione locale.

In altri termini io sostengo che il concetto che più propriamente si addica ai comuni sia quello dell’«indipendenza» dalle autorità governative locali e centrali. In questo senso va intesa la cosiddetta «autonomia», anche ai fini delle conseguenze sui controlli sui comuni e sulle provincie. Rispetto ai comuni e alle provincie, e cioè agli enti autarchici territoriali, non vediamo il rapporto di subordinazione fra lo Stato e questi enti; ed allora, se manca questo rapporto di subordinazione, ci sarà un rapporto gerarchico «improprio», non già un rapporto gerarchico «proprio», fra l’ente maggiore, Stato, e gli enti minori autarchici.

Un altro concetto, al quale devo fare qualche accenno, è quello della configurazione giuridica che noi stiamo per dare allo Stato con la nuova Costituzione, perché quale è la natura giuridica, la configurazione giuridica e politica della Costituzione dello Stato, tale è la natura giuridica e la configurazione politica e giuridica degli enti minori dello Stato, specie degli enti autarchici territoriali.

Si è parlato, anche in quest’aula, di «Stato di diritto». Io non ritengo che lo Stato che andiamo formando sia soltanto uno «Stato di diritto», e cioè lo Stato che forma il diritto e che vive nell’orbita del diritto da esso formato, con l’osservanza delle norme giuridiche da esso poste. Ritengo che dobbiamo superare questa concezione, che è poi della scuola giuspubblicistica tedesca, del «Rechtstaat»; noi dobbiamo rifarci ad altri concetti, cioè a quei concetti svolti ed attuati dalla scuola giuridica italiana e latina, del moderno Stato libero democratico, in cui si presuppone bensì l’ordinamento giuridico dello Stato, ma si riconoscono altresì altri diritti che possono essere anteriori allo Stato stesso. Come noi, infatti, riconosciamo nel campo privatistico dei diritti individuali, inalienabili ed imprescrittibili, della persona umana, così dobbiamo riconoscere, anche nel campo pubblicistico, i diritti fondamentali di personalità degli enti pubblici minori, specialmente degli enti autarchici territoriali, diritti che lo Stato non potrà mai negare, diritti di cui si parlerà nell’ordinamento giuridico dello Stato, ma che lo Stato riconoscerà soltanto, con un suo atto di mera ricognizione.

Voi vedete, onorevoli colleghi, quali conseguenze è possibile trarre da questa concezione nella configurazione, nella determinazione delle libertà e dell’indipendenza dei comuni, e, quindi, anche in relazione al tema dei controlli, che forma oggetto della nostra discussione.

Per me, l’indipendenza e l’autonomia dei comuni – si tratta di una endiadi, ma in fondo è un concetto, unico, anzi un concetto unitario – per me, dicevo, l’indipendenza e l’autonomia dei Comuni sono basate su due grandi pilastri. L’uno è costituito da un ben congegnato sistema di controlli, ben congegnato sistema nel senso che si deve sempre salvaguardare l’indipendenza del Comune da illegittime, illecite interferenze governative. Duplice ne è il contenuto: il controllo di legittimità ed il controllo di merito; duplice la forma. Nel controllo di legittimità si tratta di accertare la rispondenza dell’atto alle norme di legge, cioè giudicare che l’atto sia conforme a legge, esente da quelli che sono i vizi tipici dell’atto amministrativo; ossia, l’incompetenza, l’eccesso di potere, la violazione di legge. L’organo che deve avere questo controllo è un organo essenzialmente tecnico-giuridico: il prefetto, organo estraneo all’amministrazione comunale. L’altro controllo è il così detto sindacato di merito, controllo che ha per mira di accertare se la deliberazione del comune è conveniente ed è diretta a raggiungere quelle finalità intrinseche che il comune si vuol prefiggere; quindi, è un controllo di carattere sostanziale che ha riguardo alla natura intima ed alla sostanza dell’atto. Ed allora questo controllo deve essere compiuto da un organo che appartenga all’amministrazione locale, e quindi è devoluto alla Giunta provinciale amministrativa. Su questo punto non potrei, perciò, essere d’accordo con quanto diceva nella seduta del 7 corrente l’onorevole Priolo, quando osservava che per sgravare le prefetture dal peso dell’esame del controllo di legittimità degli atti e delle deliberazioni comunali, riteneva opportuno che questo controllo di legittimità fosse esercitato dalla Giunta provinciale amministrativa. Si tratta, nel caso della Giunta, di cosa ben diversa. Si tratta di istituti inconfondibili; il controllo deve essere mantenuto distinto e deve esser fatto da istituti e da organi diversi. E poi, onorevoli colleghi, da che cosa bisogna sgravare le Prefetture? Le Prefetture non vanno sgravate dal controllo di legittimità degli atti e delle deliberazioni dei comuni e di tutti gli enti locali; non di questo si tratta: bisognerebbe sgravare le Prefetture da quelle incombenze politiche che le Prefetture non dovrebbero avere in uno Stato veramente ed effettivamente democratico. Quindi nelle grandi Prefetture bisognerebbe abolire la prima Divisione, la Divisione politica, perché i rapporti politici debbono essere trattati dal prefetto personalmente, o attraverso il suo Gabinetto, e la politica la deve fare il Governo col controllo del Parlamento e non il prefetto.

L’altro pilastro, onorevoli colleghi, è costituito da un ben congegnato sistema di finanza comunale, perché noi potremo parlare, e parlare a lungo di indipendenza e di libertà dei comuni, ma i comuni non saranno mai effettivamente liberi e indipendenti quando dovranno dipendere per ripianare i loro bilanci, dall’amministrazione centrale dello Stato. Epperò bisogna abbandonare il sistema delle «integrazioni» comunali dei bilanci, sistema che è stato accentuato dal fascismo per comprimere sempre di più la libertà dei comuni. Dobbiamo fare in modo che il comune sia effettivamente libero e indipendente, abbia una finanza propria, sia assicurato, in altri termini, al comune l’«autosufficienza», perché si è veramente liberi e indipendenti quando non si dipende da altri. Ora il Governo si è posto il problema dell’indipendenza finanziaria dei comuni. Non dico cosa nuova quando ricordo che un progetto di legge per la riforma della finanza locale è stato sottoposto alla nostra Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge. Gli studi fatti negli ultimi giorni hanno accertato che per ripianare il deficit dei comuni occorrono dai 38 ai 40 miliardi; e allora si è pensato, da una parte, ad aumentare le entrate comunali attraverso l’aumento dei dazi di consumo e specialmente il dazio consumo sul vino e l’aumento delle altre tasse comunali; dall’altra, si è pensato di sgravare i comuni da quell’onere gravissimo che è costituito dalle spese di spedalità. La prima parte del progetto, quella relativa all’adeguamento al diminuito valore della lira dei dazi consumo e delle tasse comunali, è stata rinviata al Governo dalla Seconda Sottocommissione per l’ulteriore corso, ma non si è creduto di poter provvedere sulla questione delle spedalità, ordinarie e manicomiali, perché giudicata non ancora matura, nel senso che la riforma del sistema delle spedalità dovrà essere esaminata in concordanza con la riforma generale della legge sulle istituzioni pubbliche di assistenza e di beneficenza e della legge sanitaria.

Per me, per assicurare questa indipendenza finanziaria del comune, che deve andare di pari passo con la sua indipendenza giuridica e politica, e da cui consegue anche la risoluzione della questione dei controlli, non ci sarebbe altra via che la rinunzia da parte dello Stato alle imposte reali fondiarie, cioè alle due imposte sui terreni e sui fabbricati, che, relativamente alle spese di accertamento e di riscossione, danno un gettito allo Stato piuttosto modesto, mentre vi sono molte sovrimposte – la prima, la seconda, la terza – a favore dei comuni e delle provincie, e il passaggio di queste due imposte ai comuni. Soltanto allora, raggiunta la loro indipendenza economica e finanziaria, i comuni saranno veramente autonomi, nel senso da me spiegato, cioè liberi e indipendenti dal potere governativo.

Ritornando al nostro tema dei controlli, rilevo come l’inasprimento di essi abbia segnato l’altro termine di quel progressivo aggiogamento dei comuni al carro governativo al quale già ho accennato.

La relazione ministeriale, che accompagna il nostro disegno di legge, opportunamente ricorda come, con la emanazione della legge sui podestà del 4 febbraio 1926, n. 237, furono inquadrati gli enti locali sotto l’autorità dello Stato, e si intese aumentare gradualmente l’ingerenza dei prefetti, dando ad essi anche un generale sindacato di merito. Si incominciavano così a confondere i due istituti, il controllo di legittimità ed il sindacato di merito, l’uno devoluto ai prefetti, quale organo giuridico, l’altro alle Giunte provinciali amministrative, organi propri degli enti locali, nell’ambito dell’amministrazione locale, per esame della convenienza, della opportunità, della bontà del provvedimento amministrativo.

Ma devo notare che, già prima della emanazione della legge sui podestà, una prassi amministrativa, voluta in seno al Ministero dell’interno, cominciava a confondere questi due istituti, che giuridicamente sono inconfondibili. E difatti si voleva risalire ad un concetto di controllo complessivo, di controllo che guardasse non soltanto alla legittimità dell’atto, cioè alla conformità dell’atto alle disposizioni di legge, ma anche alla sua sostanza, alla sua convenienza, alla rispondenza dell’atto ai fini che si volevano perseguire. Confondendo così i due istituti, si è venuti alla formulazione dell’attuale articolo 97 della legge comunale e provinciale, di cui è stata proposta la riforma col disegno di legge in esame.

Secondo l’articolo 97, il prefetto munisce di visto di esecutività le deliberazioni che non siano soggette alla Giunta provinciale amministrativa, sempre che le riconosca regolari. In caso contrario può pronunciare l’annullamento per motivi di legittimità o ricusarne l’approvazione per motivi di merito. Si sono così confusi, conglobati, i due istituti, che andavano distinti.

Si è voluto, in altri termini, onorevoli colleghi, con la legge sui podestà e con le successive riforme dell’istituto dei controlli, accentuare le facoltà dei prefetti in base ad un vieto concetto di «autoritarismo» degli organi locali dell’Amministrazione governativa.

E vale la pena ch’io ricordi in proposito come dopo l’emanazione della legge sui podestà, del 4 febbraio 1926, n. 237, il cosiddetto «capo del Governo» emanasse una circolare ai prefetti, il 5 gennaio 1927, in cui, cercandosi di rafforzare l’autorità del «capo», si parlava dell’autorità dei prefetti come di una autorità riflessa del «capo», affermandosi che unica è l’autorità, ed era quella del cosiddetto «capo», e che «l’autorità non può essere condotta a mezzadria».

Si può seguire l’elaborazione del testo attuale, ma accennerò soltanto a qualche punto di essa.

La Commissione ministeriale – ed è lodevole l’intento – non ha voluto ritornare al sistema della legge comunale e provinciale del 1915. Vi è un superamento, ed è un superamento notevole, encomiabile, da parte della Commissione, del sistema stabilito nel testo unico della legge comunale e provinciale del 1915, giacché opportunamente si è distinto tra controllo preventivo e controllo successivo.

Io ritengo peraltro che la esecutività dell’atto o della deliberazione comunale derivi e debba derivare piuttosto dal concetto fondamentale di esecutorietà dell’atto amministrativo: più che questione di controllo preventivo o successivo, trattasi di applicazione del concetto dell’esecutività piena dell’atto amministrativo, intesa come uno dei requisiti fondamentali dell’atto e della deliberazione amministrativa.

Non posso però completamente consentire nella formulazione che è stata data, in materia di controllo, agli articoli 3, 11 e 19 del disegno di legge proposto al nostro esame.

Non è possibile che le deliberazioni comunali, che le deliberazioni della Giunta municipale, come le deliberazioni delle amministrazioni provinciali, possano senz’altro eseguirsi solo che vengano pubblicate all’albo pretorio del comune o della provincia. Non basta l’atto della pubblicazione, cioè l’affissione, per potere immediatamente porre in esecuzione queste deliberazioni, le quali non sono che dei provvedimenti amministrativi generali, sono le cosiddette ordinanze, sono i regolamenti. Quando si tratta infatti dell’atto speciale amministrativo, se ne dà diretta comunicazione all’interessato; quando si tratta, invece, delle deliberazioni di cui ci occupiamo, occorre una formale pubblicazione. Ed ho proposto all’uopo un emendamento perché si stabilisca che l’esecutività di queste deliberazioni, sia pure quale requisito proprio dell’atto amministrativo che è stato emanato, sia legata ad un termine, non fosse altro che per la loro conoscenza. Anche noi, onorevoli colleghi, nel progetto di Costituzione, abbiamo posto un termine per la conoscenza della legge; si tratta appunto di quella vacatio che, da quindici giorni, è stata portata a venti nel progetto di Costituzione. È necessario dunque che queste deliberazioni comunali e provinciali, le quali costituiscono atti generali amministrativi, siano portati a conoscenza con la pubblicazione e che ci sia appunto una vacatio per la loro piena conoscenza, nell’interesse pubblico.

Ho però proposto, con un secondo emendamento, che quando le deliberazioni, siano urgenti e si debba subito procedere alla loro esecuzione, occorre che sia detto nelle deliberazioni stesse, che debbono essere votate con una maggioranza qualificata, la quale potrà essere costituita dai due terzi dei membri del Consiglio comunale o della Deputazione provinciale, o anche della sola metà, ove si ritenga opportuno.

Ma quale sarà la sorte della deliberazione comunale o di quella dell’amministrazione provinciale che non sia stata pubblicata e comunicata al prefetto? Se si tratti di un provvedimento favorevole ad un interessato o ad una categoria di interessati, è pur necessario che questa deliberazione si traduca in un atto eseguibile; ma, ove si tratti di un provvedimento che contrasti ad una categoria di interessati, che cioè ad essi nuoccia, ebbene, costoro non possono rimanere sotto la spada di Damocle di una deliberazione adottata, la quale poi potrà essere affissa in un momento qualsiasi, quando gli interessati, per condizioni particolari di cose, non potranno forse prenderne cognizione.

Ho allora proposto, con un terzo emendamento, che, se le deliberazioni non vengano affisse all’albo pretorio e comunicate ai prefetti per l’esercizio del controllo di legittimità, esse debbono intendersi decadute.

Onorevoli colleghi, l’indipendenza e l’autonomia dei comuni non sarebbero assicurate ove sussistesse ancora, nel testo unico della legge comunale e provinciale, la disposizione dell’articolo 19, secondo cui il prefetto adotta, in caso di necessità o di urgenza, i provvedimenti che ritenga necessari nell’interesse pubblico. È una disposizione questa, onorevoli colleghi, che può dare ed ha dato luogo ai più gravi arbitri, come quando il prefetto è intervenuto in una contestazione insorta fra privati e per privati interessi e, in base appunto al citato articolo 19, ha tolto efficacia alle sentenze del magistrato provviste di clausola di provvisoria esecuzione; come quando il prefetto – ed è capitato in quest’ultimo periodo – ha proceduto, sempre in base all’articolo 19, a requisizioni di locali, intendendoli espropriare, senza adottare le forme e senza richiamarsi alla legge generale sulle espropriazioni, legge che gli dava, attraverso l’articolo 71, la possibilità di procedere anche all’occupazione di urgenza e poi di osservare le altre forme stabilite dalla legge stessa.

Ora, io non voglio ripetere quanto è, stato detto a proposito dell’articolo 19 dal collega onorevole Zotta. Ritengo che, per rendere i comuni effettivamente autonomi, nel senso spiegato della loro libertà e della loro indipendenza, bisogna eliminare l’articolo 19 e sostituirlo con le disposizioni del testo unico del 1915.

Ho parlato, onorevoli colleghi, dei controlli; ma i controlli rappresentano l’elemento repressivo: in una nuova legge bisognerà occuparsi anche del lato positivo, assicurare fin dalla formazione senza ledere la libertà e l’indipendenza dei comuni, la legittimità dei loro atti e delle loro deliberazioni. Soprattutto bisogna fare in modo che le amministrazioni comunali non abbiano nemmeno la lontana idea che, attraverso l’amministrazione, si possano compiere atti illegittimi. Ed allora entra in giuoco qualche cosa che sta al di là della legge: entra in giuoco la probità e la sagacia degli amministratori e l’opera dei partiti. I partiti – e specialmente i partiti di massa – si debbono preoccupare di mandare al comune dei buoni amministratori, degli amministratori che abbiano il senso della legalità, cioè del rispetto della legge; e che, avendo dato prova di sapere bene amministrare le cose proprie, diano affidamento, diano la sicurezza di potere bene amministrare le cose del comune.

Un altro organo che può concorrere alla legittimità, alla legalità delle deliberazioni comunali è il segretario comunale; non nel senso, come è stato ritenuto da qualcuno, che il controllo di legittimità possa essere da lui esercitato in conformità. No, il segretario comunale può concorrere alla formazione della deliberazione della legge, nell’orbita e col rispetto di essa, ma il controllo deve essere devoluto ad un organo esterno. Ma quando noi avremo migliorate le condizioni economiche, le condizioni morali, e conseguentemente culturali, dei segretari comunali, allora avremo fatto un grande progresso anche in materia di legittimità degli atti e delle deliberazioni comunali.

Una voce a sinistra. Devono essere nominati dai comuni.

CASTELLI AVOLIO. Per i segretari comunali il fascismo ha fatto ben poco…

PRESIDENTE. Non apriamo un altro capitolo, onorevole Castelli Avolio.

CASTELLI AVOLIO. Un accenno ed ho finito, signor Presidente.

Come voi ricorderete, onorevoli colleghi, il fascismo promise ai segretari comunali grandi miglioramenti, anche attraverso la formazione dell’albo nazionale. L’articolo 73 della legge comunale e provinciale stabiliva la norma che il segretario comunale ha la qualifica di funzionario dello Stato ed è equiparato a tutti gli effetti agli impiegati dello Stato. Si sono domandati, i segretari comunali, in qual modo fossero equiparati ai funzionari dello Stato: è stato tutto fumo, è stata una solenne turlupinatura, come le altre turlupinature compiute dal regime fascista.

Ho promesso di essere breve e manterrò la promessa. Concludo.

Onorevoli colleghi, le voci che si sono levate da questa Assemblea dimostrano quanto sia urgente provvedere ad un nuovo testo organico della legge comunale, che regoli la materia secondo lo spirito della nuova Costituzione e secondo le nobili tradizioni popolari del glorioso comune italiano, di quel comune che, fin dagli anni lontani del Medioevo, insorse compatto per rivendicare, contro ogni oppressione, straniera o baronale, la sua libertà e la sua indipendenza.

A questa opera legislativa che sarà compiuta, fra i suoi primi lavori, dalla nuova Camera, noi democratici cristiani apporteremo tutto il nostro volonteroso contributo, che ci proviene dalla fede nel nostro programma, che ha sempre posto in primo piano la libertà e l’autonomia del comune, e dalla nobile tradizione delle amministrazioni comunali rette da nostri amici. Valga per tutte il ricordo dell’amministrazione comunale di Caltagirone, retta da Don Luigi Sturzo dal 1905 al 1920. Don Luigi Sturzo, che cominciò la sua carriera politica appunto dal campo municipalistico, dimostrò quanto potesse una buona amministrazione comunale, veramente democratica, a favore del popolo. Egli costruì nuove strade, aprì scuole ed anche un istituto tecnico, portò nella sua città l’energia elettrica, e fece un primo riuscito tentativo di frazionamento della grande proprietà latifondistica. La sua amministrazione venne portata a modello anche all’estero e fu imitata, con sano spirito di emulazione, anche da avversari. Per la libertà e l’indipendenza dei comuni lottarono e vinsero democratici cristiani e socialisti di larghe vedute. Così si spiega come, quando fu fondata la gloriosa Associazione dei comuni italiani, soppressa in seguito dal fascismo, alla Presidenza di essa si trovasse, accanto all’onorevole Caldara, socialista, allora sindaco di Milano, Don Luigi Sturzo e con lui il nostro onorevole Giuseppe Micheli.

Onorevoli colleghi, queste nobili tradizioni del libero comune italiano bisogna riprendere e difendere, per l’attuazione di ogni benefica iniziativa a favore del popolo. Il disegno di legge sottoposto al nostro esame segna un notevole passo verso la libertà e l’indipendenza del comune, epperò noi deputati democratici cristiani daremo ad essa l’appoggio del nostro voto. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Quintieri Adolfo. Ne ha facoltà.

QUINTIERI ADOLFO. Onorevoli colleghi, il disegno di legge presentato dal Ministro dell’interno per apportare le necessarie modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato col regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, ha avuto innegabilmente una buona accoglienza, poiché abbiamo inteso oratori di tutte le tendenze fare contro di esso delle critiche che, da un punto di vista puramente teorico, non possono non ritenersi in parte esatte e fondate.

Ed anzi il primo oratore, l’onorevole Lami Starnuti, tenendo presenti solo le manchevolezze del disegno, e non le ragioni di evidente opportunità contingente che lo giustificano appieno, aveva addirittura proposto una sospensiva che, come è ben naturale, avrebbe rinviato sine die la soluzione di problemi la cui urgenza è invece intuitiva.

Un più approfondito esame della cosa, lo ha indotto a ritirare la proposta sospensiva. Ed ha agito benissimo.

Io penso anzi che se l’onorevole collega avesse preso visione dei lavori compiuti dalla risorta Associazione dei comuni italiani, non avrebbe nemmeno prospettata l’ipotesi di una sospensiva che urta contro le affannose invocazioni di tutte le ricostituite amministrazioni comunali e contro il concetto stesso di decentramento amministrativo, quale deve essere inteso in regime democratico.

I precedenti storici che hanno portato alla presentazione del disegno di legge chiariscono i termini della questione.

È noto che, al costituirsi del Regno di Italia, vigevano nella Penisola le varie leggi sulle amministrazioni comunali e provinciali, già proprie degli antichi Stati.

Queste rimasero in vigore fino all’unificazione amministrativa del Regno, che fu attuata principalmente con la legge 20 marzo 1865, n. 2248, il cui primo allegato conteneva la nuova legge comunale e provinciale. Tale legge, che era modellata specialmente su quella piemontese del 23 ottobre 1859, fu in seguito ripetutamente modificata con le leggi 10 febbraio 1889, n. 5921; 4 maggio 1898, n. 564; 21 maggio 1908, n. 269 e 4 febbraio 1915, n. 148.

Non possiamo fare a meno di riconoscere che, fin dal 1865, il legislatore cercò di non troncare del tutto la gloriosa tradizione dei comuni italiani, sicché, fin da allora, riguardo a questi enti, si poté parlare di amministrazione autarchica.

La legge del 1915, che ha tenuto più lungamente il campo, riconosceva ai comuni una quasi piena autonomia, in quanto il visto demandato al prefetto dagli articoli 211 e 212, costituiva un controllo di pura legittimità, e non di merito, limitandosi la competenza del prefetto ad una indagine puramente estrinseca e formale, diretta ad accertare la legalità dell’emessa delibera.

Evidentemente questo sistema non poteva riuscire accetto alla dittatura che, tendendo ad accentrare nel Governo tutti i poteri, mirava a ridurre i comuni alla condizione di enti periferici dello Stato.

E venne la legge 4 febbraio 1926, n. 237, con cui si sostituivano ai consigli comunali, liberamente eletti, i podestà ed al controllo di legittimità sulle delibere comunali, quello di merito, attribuito sempre ai prefetti, dapprima limitatamente ai comuni con popolazione inferiore ai 100.000 abitanti, con esclusione di alcune delibere, e poi esteso a tutti i comuni ed a tutte le delibere, salva qualche eccezione per i comuni aventi una popolazione superiore ai 100.000 abitanti.

Tale estensione veniva sancita dal testo unico 3 marzo 1934, n. 383. Con questa legge veniva sostanzialmente a cadere l’autonomia dei comuni che, da enti gloriosamente autarchici, per tanti secoli, diventavano praticamente enti periferici dello Stato accentratore.

Caduta, il 25 luglio 1943, la dittatura, non fu possibile procedere subito alla ricostituzione delle amministrazioni comunali elettive, per evidenti ragioni, dato lo stato di guerra in cui ci trovavamo, e si ricorse al ripiego di nominare dei sindaci scelti dai Comitati di liberazione, coadiuvati da una apposita consulta. Lo stesso ripiego fu adottato per le amministrazioni provinciali.

Si giunge finalmente al decreto legislativo luogotenenziale del 7 gennaio 1946, n. 1, che riconsacra la ricostituzione delle amministrazioni comunali su base elettiva ed, oramai, tutti i comuni italiani hanno le loro legittime rappresentanze, liberamente elette dal popolo, nel corso dell’anno 1946.

Già, fin dai primi del 1946 e propriamente nel gennaio dello scorso anno, si riunirono a Roma i sindaci dei grandi comuni dell’Italia settentrionale e, presa in esame la situazione delle singole amministrazioni, concordemente stabilirono di chiedere al Governo un provvedimento che conferisse ai comuni, in attesa della piena autonomia, una certa elasticità di movimento e di azione, tanto più indispensabile per far fronte, dopo la guerra, ai più urgenti bisogni dei comuni.

Successivamente, nel settembre del 1946, aveva luogo in Roma, nel Campidoglio, sotto la presidenza del sindaco della capitale, un convegno dei sindaci delle città capoluoghi di provincia, cui seguì il convegno di tutti i sindaci aderenti all’Associazione nazionale dei comuni italiani.

Come è noto, l’Associazione nacque nel 1902 per iniziativa del sindaco di Milano, onorevole Mussi, e del sindaco di Parma, senatore Mariotti, e ne fu anima, fin dal suo sorgere, Don Luigi Sturzo, allora giovane e battagliero sindaco di Caltagirone.

Essa visse di vita florida e fattiva fino al 1924, epoca in cui la dittatura, che non poteva tollerare la sua voce libera ed indipendente, ne proclamò la fine.

Come sindaco di Cosenza, partecipai a questo primo convegno plenario e ricordo bene che, presa visione del progetto elaborato dai sindaci dell’Alta Italia, che si limitava ad invocare l’autonomia amministrativa e tributaria, rivolsi delle critiche ai compilatori, rilevando che, in un periodo di formazione di una nuova coscienza, per cui si invocava, autorevolmente, da diverse parti, piena autonomia per i comuni, il progetto, redatto in termini così ristretti, faceva pensare addirittura all’oraziano parturiunt montes, nascetur ridiculus mus.

Fu facile però ai sindaci rispondere che, per il momento, sondati gli umori del Governo, non era stato possibile ottenere di più e che, se l’assemblea avesse voluto raggiungere di colpo la piena autonomia, avrebbe finito col rimandare alle calende greche la soluzione di un problema quanto mai attuale ed urgente.

Mi convinsi anche io del fondamento della obiezione ed allora si sintetizzò la decisione dell’assemblea in un ordine del giorno concordato, che porta la firma dell’onorevole Fedeli, sindaco di Verona, e la mia, e suona in questi termini:

«L’assemblea dei sindaci dei comuni capoluoghi di provincia, esaminato il progetto di legge circa le autonomie comunali, approvato dall’Assemblea dei sindaci dei capoluoghi di regione, nel Congresso del 4-5 gennaio 1946 e udita la relazione della Presidenza;

rilevato con rammarico che ancora non sia stato preso alcun provvedimento in merito;

reclama che il Governo, in attesa delle decisioni della Costituente sulle autonomie locali, approvi ed attui il progetto stesso, ed, in pari tempo,

chiede che lo Stato, provvisoriamente e con la massima urgenza, a pratico completamento di quanto proposto nell’articolo 7 del progetto, per liberare i comuni da una situazione amministrativa e finanziaria resasi grave ed insostenibile, attribuisca ai comuni una aliquota delle entrate derivanti da tributi statali, come ad esempio, imposta di ricchezza mobile, imposta generale sulla entrata e tassa sugli spettacoli pubblici;

e che in oltre lo Stato ed altri enti assumano l’onere di tutte le spese che riflettano servizi che li riguardano direttamente e che attualmente sono a carico dei comuni».

Con un successivo ordine del giorno si impegnavano i sindaci, deputati alla Costituente, a sostenere efficacemente, in tale sede ed ovunque, l’attuazione delle nuove leggi che dovranno finalmente sollevare i comuni dalla loro gravissima situazione attuale.

Ricordo che, al termine dei lavori, tutti i sindaci ci recammo dal Presidente del Consiglio e, nella sua assenza, fummo ricevuti dall’onorevole Nenni che ci fu largo di promesse e… di sorrisi.

Sono passati però altri sei mesi di penoso silenzio, durante i quali la situazione dei comuni si è sempre più aggravata, e finalmente il disegno di legge viene alla cognizione dell’Assemblea. Ma, neanche a farlo apposta, proprio da un Deputato appartenente ad uno dei tre partiti di massa, che amministrano la stragrande maggioranza dei comuni italiani, parte una proposta di sospensiva, che colta dallo spirito vigile dell’onorevole Condorelli e dei suoi amici, ha minacciato, fortunatamente per un solo momento, di fare assumere ai sindaci d’Italia la figura di quel tale dannato che, spinto il masso al vertice, lo vede, per immutabile fatalità, rotolare alla base.

Che il disegno di legge non sia l’ideale non è chi non veda, ma non è questa una buona ragione per mantenere fermo lo status quo, il quale è addirittura insostenibile, per evidenti ragioni di logica giuridica. Se, infatti, finanche la legge del 1865 riconosceva ai comuni una certa autonomia, che fu sancita, quasi piena e completa, dal testo unico del 1915 ed ha consentito, in periodo di libertà, una vita comunale fiorente, senza gravi inconvenienti, non si comprende perché mai ripristinate le amministrazioni elettive, si siano dovute finora sottoporre le loro deliberazioni al visto prefettizio di merito, che costituisce un intralcio notevolissimo allo svolgimento della vita dei comuni ed una gratuita immeritata offesa alle amministrazioni espresse dalla libera volontà popolare.

Del resto non si dimentichi che, come la natura non facit saltus, egualmente indietro non si torna nella conquista delle libertà e delle autonomie e pertanto l’esperimento positivo di tanti anni di prova, dopo la pubblicazione del testo unico del 1915, dimostra che si può, con tutta sicurezza, abolire il controllo prefettizio di merito, di marca dittatoriale, e limitare, come stabilisce il disegno, il controllo alla sola legalità, che deve essere rispettata da quanti vivono nello Stato democratico, siano enti pubblici o privati cittadini.

Ed io giungerei fino all’abolizione del controllo di merito, ancora demandato alle Giunte provinciali amministrative, per un duplice ordine di ragioni. Perché contesto anzitutto che, attualmente, le Giunte abbiano quella assoluta indipendenza, dal potere centrale, necessaria per una serena valutazione delle delibere comunali; e poi non riconosco davvero a persone, chiamate a delibare faticosamente molteplici delibere dei vari comuni della provincia, una competenza in merito, superiore a quella di uomini che vivono diuturnamente a contatto con la vita dei comuni di cui conoscono tutti i bisogni e che, a controllo della loro attività, hanno l’opera, che si deve necessariamente pensare vigile ed anzi ipercritica, di una minoranza, anche essa liberamente eletta dal popolo.

E, del resto, il controllo di legittimità può bastare ad impedire abusi che contrastino con le leggi vigenti, anche per il sindacato della Giunta provinciale amministrativa che riguarda materia di maggior rilievo e di maggiore impegno per la finanza comunale.

E qui è tutto il contenuto del disegno di legge che ci interessa. Il resto è dettaglio che riguarda un adeguamento parziale, di alcune operazioni, al diminuito potere di acquisto della moneta, mantenuto però in limiti strettamente prudenziali.

Sono poi di accordo con l’onorevole Priolo sulla opportunità di eliminare del tutto l’ingerenza dei Consigli di Prefettura, sia pure nella ridotta misura stabilita dall’articolo 2 del disegno, poiché la pratica ha dimostrato e dimostra come sia faticosa ed inutile tale voluta garanzia.

Gli ultimi articoli riguardano le commissioni di disciplina per gli impiegati e salariati comunali ed a me pare che il proposto emendamento, affidando ad un magistrato dell’ordine giudiziario la presidenza delle commissioni stesse, abbia dato migliore garanzia ai dipendenti comunali che così non avranno a temere persecuzioni o rappresaglie di qualsiasi genere.

Per noi, che consideriamo la personalità umana come sacra e vogliamo tutelata la indipendenza dei dipendenti di qualsiasi ente da possibili sopraffazioni, ogni garanzia, che tenda a tale scopo è sempre commendevole.

E poiché dall’onorevole Priolo e da altri onorevoli colleghi ho inteso accennare alla situazione economica dei comuni, che giustamente preoccupa tutti, debbo aggiungere che il Governo, non solo ha preso in considerazione la prima parte dell’ordine del giorno dell’Associazione dei comuni, che riguarda l’autonomia amministrativa, ma ha preso a cuore anche la seconda e si sta già apprestando, presso il Ministero delle finanze, un progetto di riforma del testo unico sulla finanza locale, che, vogliamo sperare, valga a ridonare ai comuni d’Italia quella autonomia economica, senza la quale non può esistere una vera autonomia amministrativa.

L’onorevole Zotta, con la competenza che gli è propria, ha accennato al ben noto articolo 19 della legge comunale e provinciale del 1934, ed ha messo giustamente in rilievo le conseguenze cui si può giungere per la eccessiva larghezza che la legge fascista ebbe a concedere ai prefetti. Ha anche citato un caso specifico di un prefetto improvvisatosi addirittura legislatore. Purtroppo il caso non è singolo ed anche io ho dovuto constatare e deplorare interventi prefettizi che ledono profondamente i diritti fondamentali del cittadino.

L’articolo 19, a mio parere, dovrebbe essere sostanzialmente modificato, per ciò che riguarda i poteri attribuiti dal comma quinto ai prefetti. Intanto mi pare sia compito del Ministro dell’interno di emanare una disposizione la quale chiarisca il contenuto della norma ed impedisca quindi, quelle eccessive larghezze che finiscono con costituire dei veri e propri arbitri, sempre intollerabili e specialmente in regime democratico.

Propongo il quesito all’alto senso di giustizia dell’onorevole Scelba e lo prego di un suo pronto, efficace intervento.

Infine da qualche oratore si è accennato alla delicata ed ardua questione che riguarda lo stato giuridico dei segretari comunali, ed al conflitto, che può parere difficilmente conciliabile, fra le richieste di questa benemerita classe, che mira ad una stabilità di carriera, e le giuste esigenze delle Amministrazioni comunali che vogliono essere libere nella scelta dei loro principali collaboratori.

In tal punto è bene dire una parola chiara.

La relazione al disegno di legge, mettendo giustamente a carico della dittatura tutte le norme restrittive o addirittura distruttive dell’autonomia dei comuni, elenca anche, in questa attività accentratrice, la legge 13 dicembre 1928, n. 2944, che provvide alla statizzazione dei segretari comunali e provinciali. Che il fascismo abbia voluto servirsi della legge come un altro instrumentum imperii è probabile, ma storicamente è dimostrato che la legge attuò finalmente delle innovazioni invocate da lungo tempo, e certo prima dell’avvento del fascismo, dai segretari dei comuni e delle provincie. I quali, e lo dico ad onore di questa benemerita classe, non furono affatto i docili strumenti che la dittatura forse pensava di avere al suo comando.

Presentatasi oggi, più viva ed attuale che mai, la questione, in seguito alla ricostituzione delle libere amministrazioni comunali, il recente congresso nazionale dei segretari comunali ha chiesto la costituzione di una commissione paritetica per la elaborazione dei principî ai quali dovrà ispirarsi la riforma del vigente stato giuridico dei segretari comunali e provinciali.

Accogliendo tale voto, l’Associazione dei comuni ha scelto a propri rappresentanti gli onorevoli Dozza, sindaco di Bologna; Fedeli, sindaco di Verona, e chi vi parla, mentre il congresso dei segretari delegava il dottore Beviglia, il professor Giacobelli ed il Dottor Rinaldi.

La Commissione, sotto la guida sapiente del professor Michele La Torre, la cui competenza è universalmente nota, ha iniziato, alla fine di gennaio, i suoi lavori e li sta proseguendo col più vivo interessamento. Essa ha ritenuto che ai comuni debbono essere riconosciute quelle autonome potestà di determinazione, che sono logico corollario del regime democratico; ma che, d’altra parte, deve giungersi ad una conclusione tale che non menomi lo stato di diritto oramai acquisito ai segretari e consenta loro un ordinato progresso di carriera ed ogni garanzia di imparzialità nelle nomine, nelle promozioni e nei trasferimenti.

Speriamo di potere esaurire al più presto il nostro arduo lavoro e di potere presentare al Governo un progetto definitivo che valga a conciliare questo contrasto che a parecchi poteva sembrare addirittura insanabile.

Dopo questi chiarimenti, penso che l’onorevole Lami Starnuti vorrà ritirare l’emendamento proposto su tale punto, per dar modo al legislatore di tenere presenti gli studi delle associazioni interessate e legiferare quindi con piena maturità.

Concludendo, onorevoli colleghi, noi sindaci, aderenti all’Associazione dei comuni, consideriamo e voteremo il progetto non come un punto di arrivo, ma come un punto di partenza necessario però per la vita istessa delle amministrazioni degli enti locali. E non occorre che io metta in rilievo l’importanza somma che hanno più specialmente i comuni nella vita dello Stato.

Il comune è l’organismo fondamentale della compagine statale, che accompagna ed assiste il cittadino durante tutta la sua vita, dalla nascita alla morte. Ove i comuni fioriscono e prosperano, lo Stato prospera a sua volta, mentre una vita grama di questi enti si riflette immancabilmente su tutta la compagine statale.

Se si vuole davvero che il regime democratico si confermi sempre più e meglio, è necessario che sentimenti di vera democrazia animino le amministrazioni che reggono i comuni, in modo che il popolo abbia la prova, con i fatti, che il regime democratico è il migliore per l’onestà, la capacità e l’assenza di ogni spirito fazioso che debbono guidare gli amministratori della cosa pubblica.

Se questi imperativi sapremo inculcare in chi guida e dirige i nostri comuni, avremo fatto opera politicamente e socialmente tanto utile ed avremo spianato la via ad una salda rinascita materiale e morale della nostra Patria. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Dozza. Ne ha facoltà.

DOZZA. La relazione ministeriale al disegno di legge sulle modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale approvato con Regio decreto 3 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni, così si esprime:

«Essendosi, col decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, provveduto alla ricostituzione, su base elettiva, delle Amministrazioni comunali, si ravvisa di urgente necessità, in corrispondenza ai riaffermati principî di autarchia e di decentramento, apportare una semplificazione nel vigente sistema dei controlli, in modo da rendere meno grave, in conformità anche dei voti di recente formulati dai sindaci delle città capoluoghi di regione dell’Italia settentrionale, l’ostacolo che essi frappongono allo svolgimento della vita amministrativa degli enti locali».

In altri punti della stessa relazione si parla di nomina governativa degli organi locali «testé abolita».

Si tratta dunque di tre elementi: l’urgente necessità d’una nuova legislazione sui Comuni; i voti recentemente formulati dai sindaci; la nomina governativa degli organi locali testé abolita.

In realtà, noi ci troviamo oggi a 14 mesi dalla data, in cui fu approvato il decreto legislativo luogotenenziale per la ricostituzione, su basi elettive, delle Amministrazioni comunali; i voti formulati dai sindaci sono del 28 agosto 1945; i successivi sono del gennaio e del settembre 1946; l’abolizione della nomina governativa risale per fortuna ad una data più lontana.

Volevo perciò rilevare il ritardo col quale noi giungiamo a questa discussione, ritenendo che potrebbe far pensare ad un eccessivo ottimismo il Presidente della nostra Commissione, allorché egli dice che le modificazioni in esame saranno destinate a breve vita.

Evidentemente, all’indomani della nuova Costituzione, molto lavoro legislativo attenderà la nuova Camera, ed è, perciò, da presumere che la nuova legge comunale e provinciale subirà un notevole ritardo.

Per questo, sarebbe opportuno apportare oggi modificazioni più profonde, per incidere più fortemente il nuovo carattere democratico dei procedimenti che dovremo seguire nella vita delle amministrazioni locali.

Secondo la relazione citata, la legge del 1934 era diretta a conseguire che le amministrazioni locali conformassero la loro attività alle direttive politiche ed amministrative del Governo, a rafforzare l’ingerenza del Governo nella gestione delle amministrazioni autarchiche locali. Dice la stessa relazione: «Essa si traduce in sostanza in una grave limitazione della capacità di agire e, quindi, della libera manifestazione della volontà degli enti stessi, non più compatibile con la ricostituzione delle amministrazioni autarchiche locali su basi elettive».

Ora, per molte delle nostre amministrazioni, questa grave situazione di incompatibilità fra la legge del 7 gennaio 1946 e la legge comunale e provinciale che ha ancora oggi vigore è durata già più di un anno.

Credo che non sia ingiustificato esprimere qualche preoccupazione sulla lentezza che si segue nei lavori legislativi su questioni di tanta importanza e tanto più su questioni come questa, sulla quale si raggiunge l’accordo della grande maggioranza dell’Assemblea. Vi è stata una sola voce discorde, quella dell’onorevole Condorelli, il quale ha detto che la discussione di questo progetto potrebbe essere rinviata, perché pensa che sia necessario non diminuire i controlli di merito del Governo, visto che la classe degli amministratori del Paese è molto indebolita, ed è spesso composta di uomini inesperti.

Certo, tutti noi siamo stati chiamati a farci un’esperienza che non abbiamo potuto compiere precedentemente, non per colpa nostra. Ma si può rilevare che coloro che tendono per questi motivi a negare la libertà dovuta ai Comuni, manifestano di non avere nessuna fiducia nella libertà, nella democrazia, nel controllo democratico, e di averne invece una maggiore per il permanere del vecchio sistema fascista centralizzato.

La Commissione dell’Assemblea aveva già risposto a queste osservazioni quando osservava che lungi dal favorire il funzionamento delle amministrazioni comunali e provinciali, questa ingerenza centrale può paralizzare l’azione degli enti locali e renderla schiava dell’autorità governativa.

D’altro canto, la collegialità degli organi, il controllo delle minoranze, il sindacato della pubblica opinione liberamente manifestantesi, attenuano grandemente, se non eliminano, il pericolo di deliberazioni volutamente e manifestamente inopportune e dannose.

Per quanto riguarda l’attività delle amministrazioni locali e dei sindaci, voglio qui ricordare che, nella regione che rappresento, la loro attività è stata decisiva in un’azione d’importanza così grande, come quella del reperimento del grano e del conferimento di esso ai granai del popolo. Senza l’attività dei sindaci certamente non vi sarebbe stato, nella nostra regione, come in altre – la Toscana, le Marche, ecc. – un conferimento che ha raggiunto spesso il 100 per cento.

Allorché si giudica dell’attività delle amministrazioni municipali, si deve tener conto di questi elementi, di fatto, e ciò potrebbe spiegare la ragione per cui l’onorevole Condorelli è di diverso parere, poiché egli forse non può dire altrettanto di amministrazioni e di sindaci di altre località.

Vorrei ricordare qui la funzione, non soltanto dell’Associazione nazionale dei Comuni d’Italia, ma anche quella delle sue sezioni provinciali che, secondo la nostra esperienza, sono state utilissime, sia per l’applicazione delle direttive dell’autorità centrale, sia per lo scambio di quelle esperienze che facilitano l’attività delle amministrazioni municipali. E vorrei che da parte del Governo non si frapponessero più difficoltà alla costituzione, al funzionamento e al finanziamento di queste sezioni provinciali dell’Associazione nazionale dei Comuni per dei motivi che, messi a confronto con l’attività e l’utilità di tale Associazione, non sono che piccoli motivi formali, i quali non hanno alcuna ragione di essere.

Quando noi chiediamo l’autonomia amministrativa municipale, non vogliamo evidentemente confondere questa autonomia con quella autonomia legislativa regionale di cui si parla del progetto di Costituzione. Questo dico perché mi pare che in materia di attività comunale e provinciale, oggi, quando si vuole ritardare una realizzazione, la si rinvia alla nuova organizzazione regionale; e poi si aggiunge che, non essendo essa ancora costituita, è opportuno attendere che ciò avvenga e continuare per intanto come prima.

Già è stata ripetutamente sottolineata la modestia del progetto che ci è stato presentato ed io quindi non vi insisterò per brevità. I sindaci, unanimi, avevano chiesto l’abolizione pura e semplice del giudizio di merito, come condizione per l’esecutività delle deliberazioni. Essi i domandavano che il controllo – è evidente che gli enti locali non potranno esimersi da ogni forma di controllo – fosse limitato alla legittimità e che questo controllo di legittimità fosse deferito alle Giunte provinciali amministrative; domandavano inoltre che tali deliberazioni delle Giunte provinciali sulla legittimità dovessero essere prese in un termine prefissato. Senza di ciò, infatti, continuerebbe a verificarsi nel futuro quanto purtroppo si verifica oggi largamente, che cioè certe deliberazioni attendono i visti e le approvazioni per mesi e mesi.

Mi pare anche giusta e giustificata la richiesta fatta da varie parti che la formazione della Giunta provinciale amministrativa sia più rispondente alla legge del 1915 che prevedeva una maggioranza elettiva. Ancora non ci sono state le elezioni provinciali, ma è necessario che noi troviamo un accorgimento perché sia nuovamente stabilita questa maggioranza elettiva, onde non restare ancora più indietro di dove non si fosse giunti con la legge del 1915.

Dopo quanto ho detto, non sorprenderà se noi domanderemo che l’articolo 2 del disegno di legge sia soppresso. È l’articolo che si riferisce al controllo dei Consigli di prefettura per quanto riguarda l’esecuzione di lavori: «Sono comunicati ai Consigli di prefettura i progetti di contratto quando superino il milione per i Comuni superiori ai centomila abitanti, ecc.».

Questo articolo dovrebbe essere soppresso; però noi abbiamo presentato, in via subordinata, un emendamento secondo il quale i limiti massimi sarebbero elevati da un milione a cinque milioni per i Comuni con popolazione superiore ai cinquecentomila abitanti e da un milione a due milioni per i comuni con popolazione superiore ai centomila abitanti.

E il Consiglio di prefettura dovrebbe dare il suo parere soltanto sulla regolarità del progetto, e non sulla convenienza amministrativa del progetto stesso.

Noi abbiamo proposto altri emendamenti di dettaglio nello stesso senso, perché vi è la necessità di adeguare tutte le cifre che sono indicate nel progetto di legge alla svalutazione della moneta. Le proposte che sono fatte, sono oggi inferiori al rapporto della svalutazione, e se restassero quali sono ci troveremmo nella situazione che le amministrazioni municipali dovrebbero sottoporre al controllo della Giunta provinciale amministrativa un numero maggiore di deliberazioni di quante non avrebbero dovuto sottoporre già, secondo la legge del 1934. Anche questi emendamenti noi li presentiamo in via subordinata poiché appoggeremo l’emendamento Lami Starnuti all’articolo 3, secondo il quale ogni controllo di merito deve essere abolito.

In relazione con questa richiesta, noi diciamo che è necessario dare ai Comuni più largamente la possibilità di procedere all’attività di ricostruzione. Non è un tema questo che si riferisce strettamente, direttamente al progetto in discussione; però gli amministratori dei Comuni sentono tutti l’esigenza di questa necessità.

Così, noi avremmo voluto che le disposizioni di legge per quanto riguarda gli enti di consumo avessero ricevuto un’applicazione conseguente a quella che era l’intenzione del Governo. Ciò fino a questo momento non è ancora avvenuto; e noi ne sentiamo tutte le conseguenze nelle attività locali.

Per quanto riguarda la questione dei segretari comunali – questione molto dibattuta – è esatto quello che ha detto l’onorevole Quintieri, che mi ha preceduto. Vi è una Commissione composta di sindaci e segretari comunali, che senza dubbio giungerà a delle proposte che saranno presentate al Governo. È quindi opportuno – a mio parere – attendere che questa Commissione, nominata dal Congresso dei sindaci e dal Congresso dei segretari comunali, abbia terminato i suoi lavori. Penso però che sarebbe opportuna l’affermazione della necessità che i segretari comunali ritornino ad essere completamente del dipendente dei Comuni, anche se i Comuni hanno il dovere di riconoscere la loro posizione giuridica e la loro dignità professionale, nonché la funzione importante che essi compiono nei Comuni.

È proprio per quest’ultimo motivo che non sarei dell’opinione di ritornare puramente e semplicemente alla legge del 1915 per quanto riguarda i segretari comunali, così come è stato proposto in un emendamento, perché so che i segretari comunali domandano maggiori riconoscimenti e credo che questi riconoscimenti siano loro dovuti.

Così, un trattamento ugualmente dignitoso, mi pare che dovrebbe essere fatto a tutti i dipendenti comunali, e che la loro parificazione coi dipendenti statali dovrebbe essere rapidamente raggiunta.

È stata sollevata in quest’aula dall’onorevole Persico la questione dell’indennità ai sindaci. È un grave problema questo; è un problema, che può persino toccare e rendere inoperante il responso del suffragio universale. Ecco perché la cosa è di così grande importanza. Oggi l’attività municipale è estremamente gravosa, e gli uomini che si dedicano a questo compito sono costretti a dedicare tutto il loro tempo a questa attività. Per conseguenza in molti Comuni, i lavoratori, uomini modesti per il loro censo, non sarebbero in condizioni di poter continuare il sacrifizio pesante che essi già compiono da tanto tempo. Ed è evidente che un’Assemblea democratica, che un regime democratico, non possono consentire a che il suffragio universale venga per questa via annullato. Coloro che sono stati chiamati ad esercitare queste funzioni dalla fiducia del popolo debbono essere messi dignitosamente nelle condizioni di poterle esercitare.

Vi sono poi delle attività collaterali dei Comuni – e anche queste non si riferiscono direttamente al disegno di legge che discutiamo – che sono molto importanti per il loro intervento nella vita delle popolazioni. Mi voglio riferire, per esempio, alla questione di potere o meno fondare delle farmacie municipali. Vi era una legge del 1913 che consentiva ai Comuni di istituire delle farmacie. Questa legge è stata abolita più tardi dal fascismo. Molte richieste sono venute perché la legge fascista in questa materia fosse abolita, ma non siamo ancora giunti a questo benché a me pareva che bastasse un decreto-legge di poche parole per dire che la legge del 1934 è abolita ed è sostituita dalla legge del 1913, per quanto si riferisce all’argomento della nostra discussione.

Molti comuni hanno rivolto delle richieste al Governo e qui io ho una lettera del Capo di Gabinetto alla Presidenza del Consiglio in data 1° gennaio 1946, nella quale si dice: «Continuano a pervenire all’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica voti da parte di pubbliche amministrazioni, perché sia ripristinata la facoltà dell’esercizio farmaceutico, in vista dei riflessi che possono derivarne a vantaggio del pubblico.

«La richiesta non ha mancato di suscitare reazione da parte della categoria dei farmacisti. La questione è tuttavia all’attento esame di quell’Alto Commissariato, che si riserva di promuovere i provvedimenti relativi».

Io ritengo possibile che le misure chieste dagli amministratori di milioni di cittadini, siano prese in esame dal Governo ed eventualmente sottoposte all’esame di questa Assemblea, con una maggiore rapidità di quanto non sia avvenuto per il progetto di legge che stiamo discutendo.

Ma, al di là di tutto questo la questione capitale per la vita dei Comuni è quella del finanziamento del bilancio dei Comuni stessi e delle provincie ed altri enti locali, come per esempio, in modo particolare per quanto riguarda gli ospedali, che si trovano in una grave condizione di necessità.

Finché la vita di questi enti dipenderà dalla integrazione statale del bilancio, l’autonomia amministrativa non potrà essere una questione risolta. Come è stato rilevato, facile è la tentazione d’influire sulla vita locale grazie al controllo dei bilanci deficitari e all’integrazione di essi; quanto meno è facile il sospetto che ciò possa avvenire, e noi dovremmo eliminare qualsiasi possibilità che simili sospetti possono sorgere.

Nessuna protesta di buona fede e di obiettività ha valore in un campo nel quale si tratta assai più della condizione delle cose che non della volontà degli uomini.

D’altra parte non si può continuare ad indebitare i comuni oltre un certo limite con mutui accesi non per opere di pubblica utilità, ma per colmare disavanzi, spese ordinarie o spese che di straordinario hanno soltanto il nome; così come non si può rinunciare ad alcune spese che sono in relazione ad altissime funzioni municipali, come per esempio, quelle riguardanti l’assistenza scolastica e di altra natura, provvidenze per l’infanzia diseredata.

Il problema è di assicurare ai comuni i mezzi finanziari per una vita autonoma, tale che li sottragga all’umiliante condizione antidemocratica in cui si erano venuti a trovare durante il periodo fascista, allorché erano sottoposti agli eccessi del potere centrale. Una opportuna modificazione si rende anche necessaria nel campo dell’ordinamento tributario e delle competenze finanziarie riguardanti rispettivamente i comuni, le provincie e lo Stato.

Vi è a questo proposito un progetto del quale si è già parlato e che fu presentato a suo tempo dall’onorevole Scoccimarro, allorché era Ministro delle finanze.

Io volevo domandare che questo progetto venisse rapidamente in discussione. Sono stato informato e taluno degli oratori precedenti ne ha fatto cenno, che questo progetto è stato in parte approvato ed avrà corso probabilmente senza essere sottoposto all’Assemblea.

Ora, se ho ben capito, la parte del progetto che è stata approvata, si riferisce quasi esclusivamente ad un aumento delle imposte di consumo. Non è una cosa difficile. È un provvedimento che si può attuare con grande facilità, anche senza una decisione di carattere centrale. Ma questo non può essere sufficiente; ci vuole qualche cosa di più. Ci vogliono dei provvedimenti di carattere più generale, perché il provvedimento che è annunziato non può che alleviare leggermente la situazione dei comuni, non può dare quella indipendenza di carattere finanziario che è stata da varie parti invocata.

E io penso che sia assolutamente indispensabile ed urgente risolvere questa questione, senza di che l’autonomia ed indipendenza delle amministrazioni locali non esisterà.

È con questo spirito e sulla base delle osservazioni che abbiamo fatte, contando che le modificazioni richieste siano introdotte nel testo, che il gruppo che io rappresento si propone di votare a favore del disegno di legge che è stato proposto, perché esso ritiene che, per quanto poco, certamente rappresenti sempre una sensibile modificazione nei confronti della legge del 1934. Ma noi vorremmo che questa discussione valesse a far sì che un altro progetto più completo, più profondo e che toccasse soprattutto l’aspetto finanziario del problema, fosse messo in cantiere immediatamente e fosse sottoposto all’Assemblea il più rapidamente possibile, perché questa ritengo sia un’esigenza assoluta della vita dei Comuni e della organizzazione democratica della società italiana. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Uberti. Ne ha facoltà.

UBERTI. Domando la chiusura della discussione generale.

PRESIDENTE. È stata chiesta la chiusura della discussione generale. Domando se sia appoggiata.

(È appoggiata).

Essendo appoggiata, la pongo ai voti.

(È approvata).

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle ore 10.

Presentazione di disegni di legge.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro di grazia e giustizia. Ne ha facoltà.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Ho l’onore di presentare all’Assemblea Costituente il seguente disegno di legge:

Modificazioni del Codice penale per la difesa delle istituzioni repubblicane.

Ho anche l’onore di presentare, per conto dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri, i seguenti disegni di legge:

Disposizioni relative al soggiorno nel territorio dello Stato e ai beni degli ex regnanti di Casa Savoia.

Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico.

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro di grazia e giustizia della presentazione di questi disegni di legge. Saranno inviati alle Commissioni competenti.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza, con richiesta di svolgimento di urgenza, le seguenti interrogazioni:

«Al Presidente del Consiglio ed al Ministro della difesa, per sapere se sia vera la notizia pubblicata da alcuni giornali della sostituzione e dell’esonero del generale Zingales, istruttore del processo relativo al tesoro di Dongo, e dei motivi che l’avrebbero determinata; e per conoscere, inoltre, se il Governo intenda interferire, o meno, sul normale svolgimento delle istruzioni giudiziarie, anche se connesse a processi di ricettazione di profitti di regime.

«Bellavista».

«Al Presidente del Consiglio (Alto Commissariato per l’alimentazione) e ai Ministri dell’interno e dei trasporti, per sapere se sono a conoscenza delle frequenti recenti agitazioni in parecchi paesi della provincia di Reggio Calabria per la mancanza di pane verificatasi e che tuttavia si lamenta in molti comuni della provincia suddetta (Palizzi, Varapodi, Ardore, Caulonia, Bova, ecc.) ed in un comune (Gioia Tauro) per la mancata assegnazione di carri ferroviari destinati alla esportazione degli agrumi, che è una delle poche ed importanti industrie che danno lavoro in quelle zone; e come intendono provvedere – con impegno che sia mantenuto – ai legittimi reclami di quelle popolazioni calabresi.

«Sardiello».

«Al Ministro dell’interno, sulla situazione alimentare della provincia di Cosenza, che ha determinato gli incidenti di Bonifati e Diamante e potrebbe provocarne altri più gravi.

«Mancini».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Governo risponderà a queste interrogazioni nella seduta antimeridiana di sabato.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro della difesa per conoscere se nelle circostanze attuali, in cui si lamenta una grave deficienza di preparazione professionale nei giovani, non ritenga opportuno, allo scopo di contribuire alla ricostituzione della vita economica del Paese, istituire nelle caserme delle scuole professionali, dove soldati, avieri e marinai possano ricevere, o completare se già ne avessero una, un’adeguata istruzione nel mestiere o arte, che secondo le proprie attitudini, ciascuno di essi probabilmente eserciterà nella vita civile, a servizio militare completato.

«Per tali corsi si potrebbero utilizzare i numerosi tecnici e capi operai dipendenti dal Ministero della difesa, che finora non trovano alcuna conveniente occupazione.

«Nobile, Togliatti, Musolino, Pastore Raffaele, Silipo, Maltagliati, Di Vittorio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere perché non sia stata ancora disposta la erogazione degli stanziamenti effettuati in base alla legge 2 aprile 1940, n. 392, mediante la quale fu concesso al comune di Udine uri concorso di lire 18.900.000 per opere di riattivazione dell’acquedotto, di sistemazione della relativa rete di distribuzione in città e altre opere igieniche e di risanamento, per l’esecuzione delle quali l’amministrazione comunale ha impegnato il suo bilancio e vincolate le sue disponibilità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cosattini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici e delle finanze e tesoro, per sapere se, allo scopo di favorire la attuazione dei piani predisposti dai Comuni per la ricostruzione delle zone danneggiate dalla guerra, non ritengano necessario estendere alla espropriazione o all’acquisto delle aree o dei fabbricati, che all’effetto si rendessero comunque indispensabili, la disposizione dell’articolo 2 del decreto legislativo 26 marzo 1946, n. 221, che consente la registrazione e la trascrizione, con la sola tassa fissa, degli atti relativi all’esproprio dei soli edifici danneggiati o distrutti (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cosattini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritenga necessario disporre, con ogni urgenza, la riorganizzazione dell’Ente di previdenza per gli avvocati e procuratori legali – in vista di una radicale riforma di esso – intesa, perlomeno, a snellirne i servizi, a ridurre le notevoli spese di gestione, e soprattutto a consentire la ripartizione dei vari proventi nei conti individuali intestati ai singoli avvocati.

«Risulterà all’onorevole Ministro che il Commissario straordinario dell’Ente in parola, visto l’esito assolutamente negativo delle sue reiterate relazioni, proposte e proteste s’è, infine, dovuto indurre a dimettersi. Penosa è l’impressione che questo stato di cose suscita nella classe forense: impellente è la necessità che vi si ponga rimedio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arata».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici:

  1. a) sulla evidente sproporzione tra i fondi assegnati finora alla Calabria e alla Basilicata e quelli assegnati alle altre regioni d’Italia;
  2. b) sulle ragioni che in Calabria hanno determinato l’arresto quasi totale di tutte le opere pubbliche, anche di quelle per le quali si è ottenuto il finanziamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cassiani».

 

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario per l’alimentazione, sulle cause che determinano l’enorme ritardo della distribuzione dei generi alimentari nelle tre Provincie calabresi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cassiani».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se a vantaggio dei giovani, forniti della licenza tecnica commerciale e che hanno compiuto il 17° anno di età, non sia opportuno ripristinare la concessione dell’abbreviazione di un anno, abrogata con disposizione n. 2277 del 28 febbraio 1946, che ha per oggetto le norme sugli esami negli Istituti e scuole tecniche per le sessioni dell’anno scolastico 1945-46. Mantenendo in vigore la citata disposizione, si arrecherebbe un grave danno a detti giovani, i quali non solo perderebbero un anno, ma sarebbero costretti ad interrompere gli studi per adempiere il servizio di leva. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Moro».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.50.