Come nasce la Costituzione

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GIOVEDÌ 20 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXIX.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 20 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Capua                                                                                                               

Pallastrelli                                                                                                    

 

Congedo:

Presidente                                                                                                        

 

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Ruggiero                                                                                                          

Amendola                                                                                                        

Calamandrei                                                                                                   

Pajetta Giancarlo                                                                                          

Rodinò Mario                                                                                                  

Bassano                                                                                                            

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare, sul processo verbale, l’onorevole Capua. Ne ha facoltà.

CAPUA. Desidero chiarire solamente, con due parole, una mia frase con la quale la collega onorevole Mattei, ha voluto polemizzare, forse perché non è stata interpretata nel suo esatto significato.

Dissi scherzosamente, nel mio discorso tenuto alcuni giorni fa, parlando delle urne, e ripetendo un vecchio motto popolare, che si potevano considerare infide, perché di genere femminile.

Ciò ha solamente il valore di una battuta, d’una di quelle scherzose battute che si interpolano in un discorso fra un concetto e l’altro, per renderlo meno barboso, perché, spesso, in questa sede, i discorsi che dobbiamo tenere sono barbosi.

Ora devo dichiarare che ogni parola che da ogni settore, giustamente, si leva in onore delle donne italiane, non può trovare che profonda eco nel nostro settore, perché noi, come tutti gli altri partiti, onoriamo e stimiamo altamente tutte le donne italiane, tutte indistintamente e quindi anche l’avversaria onorevole Mattei.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare sul processo verbale l’onorevole Pallastrelli. Ne ha facoltà.

PALLASTRELLI. Ho chiesto di parlare sul processo verbale, e mi duole che non sia presente l’onorevole Nitti, per rettificare, garbatamente, quanto egli disse l’altro giorno a proposito dei Deputati che nell’altra guerra hanno combattuto al fronte. L’onorevole Nitti ha ricordato, e giustamente, l’onorevole Ruini, ma non ha detto che i Deputati che nell’altra guerra furono al fronte e soprattutto coloro, come il sottoscritto, che non furono mai teneri per le radiose giornate di maggio, dalle quali originò il fascismo, hanno fatto tutti il loro dovere. Anzi egli ha, me lo consenta l’onorevole Nitti, con frase poco riguardosa affermato che spesso i Deputati al fronte furono di ingombro. Desidero ricordare all’onorevole Nitti e all’Assemblea i nomi di diversi Deputati che fecero il loro dovere di soldato. Anzitutto, l’onorevole Brandolin che cadde al fronte; ricordo poi l’onorevole Soleri che fu ferito, l’onorevole Gasparotto, l’onorevole Cavallari…

Una voce. Bissolati.

PALLASTRELLI. …Bissolati che, per quanto anziano, si prodigò nei combattimenti e fu ferito gravemente. Mi sovvengono i nomi del nostro collega Micheli, di Gortani, Pirolini, Bonomi, Labriola, Comandini, Arcà. Vorrei citare tutti, ma mi sarebbe difficile a tanti anni di distanza. In tutti i partiti vi furono combattenti valorosi. Credo che l’onorevole Nitti, che in quel giorno ha citato soltanto Ruini, sarà d’accordo con me che questa mia rettifica occorreva, perché negli atti parlamentari sia registrato il valore e l’opera che i Deputati combattenti hanno dato nell’altra guerra per la vittoria delle armi italiane. (Applausi).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Treves.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana. È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

RUGGIERO. La discussione sulle disposizioni generali del progetto ha avuto il merito incontestabile di rifuggire da qualsiasi considerazione astratta, in quanto che gli oratori hanno portato il loro esame su punti precisi e determinati. Anche io seguirò lo stesso criterio nel limite delle mie modeste possibilità. Tratterò una sola questione la quale però mi sembra che rivesta carattere di straordinaria importanza, ed è questa: è necessario consacrare nella Carta costituzionale il principio inderogabile della libertà di tutte le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Su questo punto non ha parlato ancora nessuno e ritengo che invece sia necessario far convergere l’attenzione dell’Assemblea su questo elemento, perché ad un certo punto riveste un carattere di grande elevatezza, ove si pensi che è in ballo il principio fondamentalmente umano della libertà.

La questione, onorevoli colleghi, è stata trattata nel progetto di Costituzione in varî articoli: l’articolo 5, l’articolo 7, l’articolo 14. Ma appunto perché è stata trattata in tanti articoli e non ha avuto una norma precisa, il principio che io modestamente vorrei venisse affermato nella Carta costituzionale appare confuso, ambiguo, incerto e pieno di ambagi.

Sono costretto, a malincuore, ma per una ragione di insopprimibile franchezza, a dichiarare che la ragione di questa confusione, di questa ambiguità, di questa incertezza e anche di questa reticenza, è stata determinata e voluta dagli onorevoli rappresentanti della Democrazia cristiana in seno alla Commissione. (Interruzioni Proteste al centro).

Andiamo piano, perché se cominciamo con le interruzioni adesso, alla fine l’Assemblea diventerà un inferno! (Commenti).

La questione, onorevoli colleghi, fu posta in sede di Commissione e fu proprio l’onorevole Cevolotto il quale volle che venisse inserita nel progetto di Costituzione una norma che tutelasse allo stesso modo la confessione cattolica e le altre confessioni.

L’onorevole Dossetti rispose in questa maniera (come vedete io documento le affermazioni): «Come cattolici – egli disse – noi ci riserviamo un giudizio di valore in ordine alla religione» – e fin qui niente di straordinario – «come riconoscimento costituzionale non abbiamo alcuna riserva in ordine al pluralismo delle varie religioni. Ritengo quindi che tutti i fautori della libertà di coscienza e di culto dovrebbero sentirsi tranquillizzati da questa dichiarazione».

Senonché, questa rimase solo una dichiarazione, di carattere tutto metafisico e astratto, perché non riuscì poi a trovare applicazione concreta e pratica nel progetto di Costituzione. (Interruzioni).

Una voce. Non è vero.

RUGGIERO. Tanto è vero che quando l’onorevole Cevolotto, il quale si era mosso con generoso ardore per affermare il principio della libertà religiosa, fece osservare alla Sottocommissione che nel Codice italiano esisteva, ed esiste purtroppo un articolo, il 404, e chiese che venisse introdotto nel progetto di Costituzione un principio o una norma che valesse a modificarne il contenuto normativo, i rappresentanti democratici riluttarono. Questo articolo 404, onorevoli colleghi, stabilisce che per tutti gli atti di vilipendio contro la religione vi è una determinata sanzione. Però, mentre stabilisce una sanzione per gli atti di vilipendio compiuti contro la confessione cattolica, ne stabilisce una minore nei confronti degli atti di vilipendio contro le altre confessioni religiose. Naturalmente bisogna insorgere contro questa condizione di disparità, di disuguaglianza troppo palese, quando si pensi che è consacrata in un Codice. All’osservazione dell’onorevole Cevolotto, rispose l’onorevole Moro in questa maniera: «Si dichiara contrario, perché ritiene che la tutela penale accordata dal Codice sia opportunamente graduata. È chiaro – dice l’onorevole Moro – che una tutela penale ci deve essere e che, in quanto alla sostanza, debba essere eguale per tutti; ma non posso concordare che questa tutela abbia eguale, concreta applicazione (nella sostanza quindi sì, nella pratica no!) perché la tutela penale – è sempre l’onorevole Moro che parla – deve essere graduata alla proporzione del danno arrecato. Se, quindi, si tratta di una confessione professata dalla maggioranza degli italiani, il danno evidentemente è maggiore».

Questa è la dichiarazione, la quale dà luogo ad una confusione che non può essere negata e che, comunque, afferma che il principio dell’eguaglianza delle confessioni viene, rispetto alla legge, nettamente negato.

Voi credete che possa accogliersi il principio enunciato dall’onorevole Moro? Secondo me, onorevoli colleghi, no. Perché? Perché il Codice penale e la Carta costituzionale non possono essere considerati alla stessa stregua, in quanto che il Codice penale regola una materia specifica, mentre la Carta costituzionale è invece un atto originario, il quale rinnuova profondamente tutta una civiltà giuridica e politica. Non possiamo quindi usare gli stessi concetti quando portiamo il nostro esame sul Codice e quando lo portiamo invece sulla Carta costituzionale.

L’onorevole Moro ha ragione quando afferma che maggiore è l’offesa e maggiore il danno, quando il vilipendio venga fatto nei confronti della religione cattolica, perché è professata dalla stragrande maggioranza degli italiani. Badate però che noi, se seguissimo questo suo principio, commetteremmo l’errore di portare sul piano, diciamo, legale, nemmeno giuridico, un principio costituzionale.

Non possiamo infatti prendere nella Costituzione, come indice di valutazione, il danno; dobbiamo prendere invece l’altro principio, che è un principio superiore, umano, cristiano: il principio dell’uguaglianza di tutti di fronte alla legge.

Non possiamo noi ricorrere, come può fare il Codice quando vi è costretto, perché non sempre lo fa, a questo carattere quantitativo che è il danno: ma dobbiamo richiamarci invece al concetto superiore della libertà. Se no, la Carta costituzionale diventa un sistema metrico decimale. E, badate, non può essere fatta (come spesso è accaduto in quest’Aula, nelle discussioni e sui giornali) la questione che le altre confessioni rappresentano una minoranza. È questo un argomento che, secondo la mia molto modesta opinione, si ritorce contro di voi, colleghi della Democrazia cristiana. La democrazia deve infatti tener conto delle minoranze. Io penso, anzi, che la maturità di una democrazia debba valutarsi proprio dal grado di libertà concesso alle minoranze.

Nessuno ha messo in dubbio – e spero non venga messo in dubbio – che l’Assemblea Costituente è quella che deve maggiormente tutelare questo principio. Quindi, non può essere accettata la teoria dell’onorevole Moro. E non potrebbe essere accettata neppure una considerazione che in quella Sottocommissione ebbe a fare in un suo intervento l’onorevole Merlin Umberto.

Io questa considerazione non so definirla; non so se sia assurda, se sia ingenua, se sia spontanea. L’onorevole Merlin, quando intervenne in questa specie di contesa che aveva per oggetto la libertà, tra l’onorevole Cevolotto e l’onorevole Moro, disse «che la proposta di eguaglianza di trattamento di tutte le confessioni costituirebbe un’ingiuria al Capo della religione professata dalla maggioranza degli italiani». Io non debbo fare delle osservazioni a questa opinione, perché potrei molto facilmente peccare di irriverenza verso il Capo della religione cattolica; ma non mi sembra sia questo un argomento che possa esser fatto valere in questa sede, o, domani, in altra sede.

Dunque questi, onorevoli colleghi, sono i presupposti, i precedenti di carattere giuridico che hanno portato poi alla creazione di quel piccolo mostro, che pure ci sta tanto travagliando e affannando, che si chiama articolo 5. Stabiliti questi presupposti, cioè stabilita questa profonda discordanza, questo contrasto, questo dissidio, che non si può negare tra quelli i quali intendevano giungere necessariamente all’affermazione del principio di uguaglianza dinanzi alla legge, e l’altra corrente, non poteva naturalmente nascere che l’articolo 5, con tutte le sue incertezze e ambiguità.

Bisogna un po’ vederlo questo articolo nel progetto di Costituzione! Nell’ultima parte esso dice: «Le altre confessioni religiose hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I rapporti con lo Stato sono regolati per legge, sulla base di intese, ove siano richieste, con le rispettive rappresentanze».

Quando si legge questo articolo, non si può fare a meno di una considerazione, che è questa: la questione delle confessioni religiose è stata trattata in tante Costituzioni; tutte le Costituzioni si sono espresse a questo proposito con una frase lineare, semplice, diritta: «Tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge». Quindi si prova un certo senso di diffidenza quando ci si trova di fronte ad una norma espressa in una forma così confusa, ambigua e incerta. Se da parte vostra, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, si ritiene che nel presente progetto le confessioni siano state messe sullo stesso piano, io non so però che cosa accadrebbe se, per esempio, qualcuno si levasse in quest’Aula e dicesse: «I rapporti tra Stato e Chiesa regoliamoli in questa maniera: scriviamo che la Chiesa ha diritto di organizzarsi secondo i propri statuti». Il settore democristiano si leverebbe tutto in una protesta di fiamma. Ma da ciò si desume che non vi è una parità di tutela nei confronti delle due religioni e delle due confessioni rispetto alla legge.

Voi pretendete, a vostra garanzia e tutela, il richiamo e l’inserimento dei Patti Lateranensi nella Carta costituzionale.

Badate, quando si dice «hanno diritto di organizzarsi» si prende in considerazione non la confessione intesa come ente concreto, come istituto religioso, ma il diritto di organizzarsi, cioè viene espressa solo l’autorizzazione alla possibilità di attuare questo diritto, che è futuro. Non è presa in considerazione l’entità giuridica, ma è presa in considerazione l’organizzazione eventuale; cioè si prende in considerazione il fatto attuale, dinamico dell’organizzazione, e non l’entità materiale della confessione intesa come istituto.

Noi diciamo: queste confessioni religiose, diverse dalla cattolica, esistono, hanno una storia, hanno una tradizione; sono un fatto. Ed allora, perché non debbono essere regolate per la tutela dei loro diritti in questa sede, dove viene regolato il rapporto fra Chiesa e Stato? Quindi, vedete che l’ambiguità è palese ed evidente. Perché prendere in considerazione l’organizzazione e non l’ente, perché l’attività e non il fatto? C’è una obiezione che si può fare ed è quella che esiste: l’articolo 14 del progetto, il quale consacra il principio della libertà religiosa nei confronti delle altre confessioni, così come nei confronti della confessione cattolica.

Dice l’articolo 14: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda, ecc.». Quella frase «forma individuale o associata» starebbe ad indicare, secondo una certa interpretazione, che qui possono anche le altre confessioni esercitare liberamente il loro culto, perché nell’articolo 14 è detto che tutti possono esercitare la propria fede anche in forma associata.

Senonché, questa fu una specie di piccola transazione a cui si dovette addivenire da parte del Presidente onorevole Tupini nei confronti delle richieste reiterate e infaticabili dell’onorevole Cevolotto. Intervenne però nella discussione anche l’onorevole Togliatti per fare un’osservazione, secondo me, molto esatta. Egli disse che questa è una norma che può garantire il diritto di esercitare da parte di chiunque quella che è la libertà religiosa e di culto; però, diceva l’onorevole Togliatti, che non vedeva la ragione per cui si dovesse parlare di «tutti» e non di organizzazioni precise. È una piccola sfumatura, se vogliamo, aggiungeva l’onorevole Togliatti. Per me, onorevoli colleghi, è una cosa importante. E ne dico la ragione.

Voi vedete che, mentre si chiede il riconoscimento e la tutela dei diritti di compagini e di istituti, che sono le confessioni religiose concrete, si risponde all’istanza con l’espressione «tutti». Qui la norma diventa astratta nella sua latitudine, e può non avere un destinatario preciso. Quindi c’è un’ambiguità.

E siccome noi abbiamo dimostrato un amore veramente spartano per la brevità della Costituzione, diciamo: «Per quale motivo non vogliamo ricordarci di questo amore spartano ed inserire nella Costituzione – ove si parla delle confessioni religiose – una formula molto breve, ma che ha il merito di essere molto chiara, cioè: tutte le confessioni religiose sono uguali di fronte alla legge?».

Si potrebbe così, onorevoli colleghi, forse, conciliare anche l’articolo 14 con l’articolo 5. Comunque, io non presento emendamenti; a me preme solamente di far presente la necessità di una norma nitida, netta, precisa, categorica, la quale esprima in maniera inconfutabile che esiste un diritto, da parte di tutte le confessioni religiose, ad esercitare il diritto della propria fede.

Se a questo non si addiviene, bisogna pensare che veramente, anche in questo caso, la Costituzione è un po’ il frutto di un compromesso. Questo è stato detto; ma, secondo me, onorevoli colleghi, mi pare che sia detto male, perché la Costituzione non è frutto di un compromesso, se mai di una transazione. Compromesso è l’alienazione di prestigio e di decoro da parte di due partiti per conseguire un fine ed un interesse utilitaristico, mentre la transazione – specialmente nell’accezione politica inglese – è un atto di nobiltà, perché è abdicazione volontaria, cosciente, libera, spontanea di una parte dei postulati ideologici o degli interessi di un partito o dell’altro, per conseguire poi, in una sfera superiore di concordia, l’obiettivo del bene del Paese. Quindi, quando si voglia definire il progetto della Carta costituzionale, forse bisogna parlare più di transazione che di compromesso. Però, io penso che ci sono dei punti in cui non è consentito a nessuno di addivenire a compromessi o a transazioni che sieno: non è consentito a nessuno, per esempio, di addivenire a transazioni – intese in qualsiasi accezione e in qualsiasi forma – su quello che è il principio fondamentale della libertà. Quindi, nessun compromesso su questo punto e mi pare che dovremmo essere tutti d’accordo.

Dovremmo essere tutti d’accordo nello stabilire questo: che la Chiesa indipendente e sovrana nel suo ordine interno, non deve interferire su quella che è la coscienza dei singoli; così come non deve interferire né comprimere quella che è la necessaria libertà concessa alle altre confessioni, di esercitare il loro culto.

Invece, egregi colleghi, questo purtroppo non si verifica. Infatti, dobbiamo constatare (è questa una constatazione obiettiva) che la Chiesa frequentemente, assiduamente, forse quotidianamente, è portata alla compressione del sentimento della libertà. (Rumori Interruzioni al centro). E molte volte – come posso dimostrarvi – è portata a comprimere il sentimento della libertà nei confronti dei lavoratori. Badate che io non voglio assumere il termine «lavoratore» nella sua accezione politica e marxistica, voglio assumerlo in senso più universale di lavoratori intesi come creature umane.

E allora noi, nei confronti di costoro, vediamo che la Chiesa non cessa mai di esercitare un’influenza la quale è contro la libertà. (Commenti).

Adesso mi spiego con un esempio pratico: posso mostrarvi un bollettino della parrocchia di Gianzirri (Rumori). Come vedete, si tratta di un organo che ha il prisma ufficiale della Chiesa. (Commenti). A un certo punto il povero parroco, su cui non voglio riversare alcuna responsabilità, sapete che cosa dice? Che «per disposizioni dei superiori… (Rumori).

PRESIDENTE. Lascino parlare.

RUGGIERO. Intanto è necessario inquadrare quello che dirò servendomi della presentazione di questo bollettino. Comincia con un articolo di carattere polemico «Socialismo e lavoratori» e dice, per esempio, «che è doloroso e vergognoso nello stesso tempo vedere nel nostro Paese i lavoratori che si fanno negatori della libertà dell’uomo e della fede cattolica quando s’iscrivono ai partiti socialisti». Dobbiamo notare che v’è un articolo il quale vieta ai preti di fare la propaganda politica, ma non è di ciò che voglio parlare: c’è una cosa più grave. Continua sempre il parroco col dire: «90.000 nostri fratelli prigionieri non sono più tornati dall’inferno sovietico. Nenni e Togliatti non sanno darne notizie».

Noi non sappiamo perché le notizie non dovrebbe darle anche l’onorevole De Gasperi. (Approvazioni a sinistra). Ma la questione è un’altra (Rumori). State a sentire. Continua il bollettino: «Relativamente a coloro che sono tesserati nel socialismo, ci dispiace dover applicare le disposizioni dei superiori, cioè: 1°) coloro che sono alla direzione del socialismo sono privati dei sacramenti anche a Pasqua; coloro che hanno aderito alle cooperative, ecc., come i loro capi, sono privati dell’uso dei Sacramenti».

Volete sapere che cosa significa questo? Prima di tutto, se è consentita un’osservazione di carattere morale, significa che a un certo punto la Chiesa fa servire il Sacramento da galoppino elettorale… (Rumori Interruzioni al centro). In secondo luogo vien soffocata la libertà di coscienza. Se, per esempio, un socialista o un comunista si rivolge a taluno che stia per entrare in Chiesa e gli dice: se entri in Chiesa sarai percosso, sapete che cosa succede? Deve rispondere del reato di violenza privata, che è un reato grave. E così, quando è minacciata la mancata propinazione del Sacramento (Commenti)…

(Permettetemi di non usare il termine tecnico che si riferisce a questo atto).

…quando è negato il Sacramento vien fatta una minaccia la quale esercita una grande influenza sull’anima del lavoratore; però non si risponde di violenza privata. E sapete perché? Perché la Chiesa è indipendente e sovrana ed ha la facoltà di concedere o non concedere il Sacramento, mentre il comunista o il socialista non hanno la facoltà di usare o non usare i loro pugni, perché i loro pugni sono in ogni caso puniti dalla legge. Ma di fronte al principio umano e sovrano dell’etica, della libertà, i due atti si equivalgono. (Approvazioni a sinistra Commenti al centro).

Tenete presente che dovrebbe essere interesse di tutti consacrare nella Carta costituzionale, sempre e in ogni caso, il principio della libertà. Badate che noi siamo stati chiamati proprio per assolvere a questa altissima funzione; ed oggi, per la prima volta, il popolo italiano fa una solenne affermazione che si risolve in un’affermazione di libertà. È questo un atto il quale deve essere all’altezza del suo carattere.

Considerate che noi possiamo fare una Costituzione di sinistra o una Costituzione di destra, perché naturalmente ogni Costituzione non è che il portato delle condizioni sia pure temporanee del Paese, in cui la Costituzione viene fatta; ma questo non vuol dir niente, perché, l’aver fatto una Costituzione di sinistra o di destra, non inficia la natura sostanziale della Carta costituzionale, e se noi non riusciamo a sancire il principio della libertà, il nostro scopo sarà completamente frustrato.

Devo fare un’altra considerazione che può avere grande importanza: quando avremo compiuto questo atto che si chiama Costituzione, anche gli stranieri vorranno esprimere su di esso il loro giudizio, e costoro non porranno mente a quelle che saranno state le innovazioni nella organizzazione e struttura dello Stato. Non ci penseranno nemmeno! Si fermeranno a considerare se gli italiani, nel redigere la Costituzione, vi hanno affermato i principî universali della civiltà. Da questo esame può dipendere quella che sarà l’opinione che gli stranieri si faranno di noi. Ed ho la convinzione che molti di essi – ciò non vuole ammettere un vincolo di dipendenza verso gli stranieri, ma può essere una considerazione di qualche valore – si fermeranno a vedere se anche in Italia, come in tutti i Paesi del mondo, sia stata data alla religione, che può essere la loro religione, perché molti popoli non sono cattolici, la necessaria garanzia di libertà.

Noi esprimiamo il massimo rispetto verso la Chiesa cattolica ed anzi possiamo affermare, senza tema di smentita, che da parte nostra non è stato fatto mai nessun atto di vilipendio nei suoi confronti.

Però è necessario che la Chiesa abbia, nei confronti di quelli che sono i valori morali eterni, lo stesso rispetto.

Siamo disposti a concedere che la Chiesa cattolica abbia una posizione di preminenza rispetto alle altre religioni, perché in effetti rappresenta la stragrande maggioranza degli italiani e potremo arrivare anche a stabilire, per esempio, per la Chiesa cattolica la condizione del primus inter pares, che è una condizione giuridica e morale ineccepibile.

Può esistere una condizione di privilegio e di preminenza rispetto alle altre confessioni religiose, ma di fronte alla libertà che è sempre un principio eterno, tutte le confessioni devono essere uguali.

Noi riconosciamo che la religione ha un grande valore; non possiamo non riconoscere che nel campo morale essa funziona come limite e ha un valore ed una efficacia alle volte superiori alla stessa legge. Io personalmente non posso non riconoscere che la religione è un gran bene, quando penso che nei tuguri della mia terra, dove le famiglie vivono affastellate in una promiscuità veramente bestiale e dove le carni innocenti spesso sono artigliate dalla fame, il lumicino acceso innanzi alle immagini sacre è l’unico raggio, di speranza e di consolazione. Sappiamo tutti che la religione è stata un grande conforto in questo periodo di devastazioni e di sovvertimenti prodotti dalla guerra. Non possiamo negare, onorevoli colleghi della Democrazia cristiana, che tutte le nostre donne, le madri, le spose, le figlie, le sorelle, che hanno salutato lungamente dai davanzali e dalle soglie delle case qualcuno che è partito e che non torna più, trovano la rassegnazione nella pace della religione. Tutte queste cose le sappiamo (Commenti); però sappiamo anche che esiste un altro bene che è al di sopra delle nostre miserie e dei nostri crucci, un altro bene che sta al di sopra di tutte le direzioni di tutti i partiti, di tutti i campanili di tutte le Chiese del mondo, un altro bene che sta al di sopra di tutte le più alte montagne della terra e che si chiama libertà. E questa va rispettata. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Amendola. Ne ha facoltà.

AMENDOLA. Onorevoli colleghi, credo che, al punto in cui siamo giunti in questo nostro dibattito sulle disposizioni generali del progetto di Costituzione, la brevità sia d’obbligo, non solo per rispettare il tempo consentitoci dal nostro Presidente, ma anche perché, dopo che da una parte e dall’altra molteplici argomenti sono stati portati a sostegno delle varie tesi, conviene ormai cercare di trarre dalla discussione le conclusioni che si impongono.

Io non starò quindi a riprendere gli argomenti sostenuti con molta autorità dai colleghi che mi hanno preceduto, dall’onorevole Marchesi, dall’onorevole Ravagnan, dall’onorevole Targetti, dall’onorevole Basso, dall’onorevole Mancini e da altri a favore dell’emendamento proposto dall’onorevole Togliatti nella prima Commissione al primo capoverso del primo articolo e per il quale questo dovrebbe essere così formulato: «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». Mi limiterò invece ad esaminare più modestamente le obiezioni e le critiche che a questo emendamento sono state opposte dagli oratori di alcune parti di questa Assemblea.

Le obiezioni, le critiche, e anche le esitazioni e le preoccupazioni che sono state avanzate, si possono dividere in due gruppi: quelle mosse da oratori di parte liberale e qualunquista, e che sono obiezioni di merito, che contestano non solo il nostro emendamento, ma anche il terzo capoverso del primo articolo; e quelle espresse da altri colleghi di parte democristiana, che approvano il terzo capoverso, ed hanno anche presentato un emendamento per cui la Repubblica democratica dovrebbe essere «fondata sul lavoro», ma che esitano ad accettare l’emendamento da noi proposto nella forma chiara e semplice di «Repubblica democratica di lavoratori».

Dirò che le obiezioni più sostanziali, di merito che ci sono state opposte dagli oratori di parte liberale e qualunquista non mi hanno sorpreso. Non si può andare d’accordo con tutti. In certi casi, si deve anzi non andare d’accordo, quando si parte da presupposti così lontani e diversi.

Questa opposizione ci fornisce anzi la controprova della giustezza della nostra tesi, ci prova, ancora una volta, la necessità da noi avvertita che fin dal primo articolo sia espresso, in modo chiaro, semplice e popolare, e nello stesso tempo solenne e lapidario, il carattere della nuova Costituzione, il carattere che la precisa politicamente e storicamente, il carattere popolare e antifascista che essa deve avere, dopo la tragica esperienza vissuta dall’Italia nell’ultimo ventennio.

Gli argomenti opposti dai colleghi liberali e qualunquisti, in sede di Commissione ed anche qui, sono tolti dal bagaglio dottrinario del vecchio liberalismo, per il quale ogni limitazione delle libertà economiche dei singoli appare anche come una limitazione delle libertà politiche, e per il quale ogni concreta specificazione storica e sociale del concetto di democrazia appare non come un arricchimento della democrazia, ma come una sua limitazione.

Com’è melanconico ricordare oggi, di fronte a queste posizioni, i propositi espressi da molti amici liberali negli anni della cospirazione, quando essi riorganizzarono nuovamente il loro partito e quando, nelle lunghe discussioni che hanno intessuto la nostra vita di cospiratori, si affannavano a precisare che il loro non era un ritorno al vecchio liberalismo, ma l’affermazione di un nuovo liberalismo che si alimentava di nuove concezioni sociali; che il liberalismo non voleva dire necessariamente liberismo, libertà politica non voleva dire libertà per i monopoli, ed il liberalismo poteva essere accompagnato da una politica di solidarietà sociale.

Non so se gli amici di allora, che in questo modo difendevano la linea di un nuovo liberalismo, se ne siano andati o siano ancora rimasti in quello che si chiama ancora il partito liberale.

Certo è che di queste affermazioni e di queste ansie sincere, che ho conosciute allora in molti amici liberali, oggi non appaiono più tracce in questo ritorno alle concezioni dottrinarie del vecchio liberalismo.

Non voglio riprendere in questa sede una discussione che altri, con molta autorità, hanno già svolta, né riprendere una polemica che per venti anni, quando il fascismo ci toglieva la possibilità di agire apertamente, ci ha sufficientemente occupati. La polemica interna dell’antifascismo in venti anni è stata, infatti, sempre in questa contrapposizione fra comunismo e liberalismo, tra socialismo e liberalismo; e ci sembrava, in quel dibattito, essere arrivati a conclusioni, che avrebbero potuto permetterci, pur nella differenza di posizioni ideologiche, di lavorare insieme alla ricostruzione democratica del nostro Paese.

Ma queste discussioni sono oggi cosa vecchia, perché oggi, in fondo, dietro a questa ripresa dottrinaria degli argomenti del vecchio liberalismo c’è la sostanza politica della nuova situazione italiana e della funzione che in essa si è accinto ad assolvere il partito liberale. Vi è, infatti, in questa opposizione al nostro emendamento, in questa opposizione anche al terzo capoverso del primo articolo ed all’affermazione che la base della Repubblica è il lavoro, non tanto l’eco di preoccupazioni dottrinarie, quanto l’eco di preoccupazioni ben più concrete, le preoccupazioni di quei ceti che vedono come da questa formulazione apposta all’inizio della Costituzione dovrebbero derivare per essi delle conseguenze pratiche che li colpirebbero nei loro reali interessi privilegiati.

Vi è in questa posizione non tanto l’eco delle vecchie posizioni dottrinarie, quanto l’eco delle preoccupazioni dei grandi proprietari agrari che temono le riforme agrarie, dei grandi monopolisti che temono la riforma industriale, le nazionalizzazioni ed i consigli di gestione; l’eco delle preoccupazioni dei grandi affaristi e degli speculatori che temono che una Costituzione che si inizia con le parole chiare e precise di «Repubblica democratica di lavoratori» sia una Costituzione che apre la via a quel rinnovamento sociale ed economico che essi non vogliono, perché colpirebbe i loro interessi privilegiati, le basi delle loro posizioni egemoniche da essi occupate nella vita del Paese.

Questa è la sostanza politica che sta alla base del dibattito sull’articolo 1, ed essa si collega con quanto sta avvenendo nel Paese. Cresce nel Paese, e si fa ogni giorno più chiara e consapevole nelle grandi masse popolari, la preoccupazione di una possibile rinascita del fascismo.

I lavoratori sono sorpresi, inquieti, sdegnati di fronte all’impudenza e al cinismo col quale i responsabili della catastrofe hanno osato tornare sulla ribalta della vita italiana e, giorno per giorno, col denaro accumulato durante il ventennio, cercano di riconquistare nuove posizioni e di corrompere, di sabotare, di impedire che la ripresa democratica del Paese abbia libero corso.

Una grande collera sale dal cuore del popolo. Questa collera è una cosa di cui bisogna tener conto, o signori. Non scherzate col fuoco! (Interruzione dell’onorevole Capua). Il popolo ci domanda che la Costituzione italiana sia una Costituzione che possa impedire ogni ritorno di fascismo, sia una Costituzione che dia all’italiano garanzie di piena e sicura libertà. (Interruzione dell’onorevole Capua).

PRESIDENTE. Onorevole Capua, non interrompa.

AMENDOLA. La sola garanzia valida che può essere data al popolo italiano, giustamente indignato e preoccupato, la sola garanzia seria di libertà e di democrazia può essere fornita da quelle misure che impediranno che nella vita del Paese i gruppi privilegiati che ieri hanno dominato possano continuare a dominare; e queste misure concrete – riforma agraria, riforma industriale, piano economico, consigli di gestione – trovano il loro presupposto nella formula che noi domandiamo sia proclamata all’inizio della Costituzione, quale orientamento del nostro lavoro, come guida ed orientamento per la nuova via che il popolo italiano dovrà seguire, per la nuova via che sarà aperta dalla Costituzione che stiamo elaborando.

Oltre questo gruppo di opposizioni e di critiche, altre obiezioni ci sono mosse dai colleghi della Democrazia cristiana. Molti di questi hanno sentito con noi che ormai, di fronte all’esperienza vissuta nell’ultimo ventennio, i diritti della persona umana non possono essere garantiti soltanto sul piano politico, ma vanno garantiti anche sul piano economico e sociale. Essi quindi comprendono la necessità che il nuovo ordinamento democratico sia basato sul lavoro e riconosca i nuovi diritti del lavoro.

Tuttavia, pur partendo da queste premesse, essi esitano ad arrivare alle stesse conclusioni. E in sede di Commissione si sono pronunziati contro l’emendamento da noi proposto. Non mi sembra fondato il timore che è stato espresso, che la specificazione «di lavoratori» possa conferire un carattere classista alla Costituzione.

Infatti, l’articolo 29 del progetto definisce l’obbligo del lavoro in modo da abbracciare tutti coloro che compiono un lavoro socialmente necessario, manuale o intellettuale che sia. L’obbligo del lavoro è dunque «l’obbligo di svolgere un’attività o una funzione idonee allo sviluppo materiale e spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta».

Né da questa affermazione deriva l’obbligo, per lo Stato democratico, di separare, di distinguere completamente i lavoratori dai non lavoratori. Questo obbligo ci sarebbe stato, se fosse stata accolta una proposta avanzata in sede di Commissione dai democristiani, per cui i non lavoratori avrebbero dovuto venire esclusi dal diritto di voto. Io non mi nascondo le difficoltà pratiche che, nelle attuali condizioni economiche e sociali dell’Italia, deriverebbero da una norma simile, anche dando alla parola «lavoratori» il significato più generale che noi le abbiamo conferito. Ma i colleghi democristiani non hanno insistito su questa loro proposta.

La scelta quindi non la fa lo Stato, ma il singolo cittadino il quale, nella sua coscienza, sente se è un lavoratore o se un parassita, se è uno che dà il suo contributo allo sviluppo sociale del suo Paese, o se vive invece da parassita sui frutti del lavoro compiuto da altri. In realtà, dalla dichiarazione possono sentirsi colpiti solo coloro che sono, direi, consapevoli di questo loro stato di parassiti, coloro che passano sapendo di non lasciare tracce della loro oziosa esistenza, quelli che per ciò stesso si escludono dalla vita della Nazione. Perché, che cosa è la vita della Nazione se non la storia di coloro che lavorano e fanno col loro lavoro, col loro ingegno, che l’Italia sia il Paese che è, col suo volto cesellato da innumeri generazioni, il Paese che noi abitiamo, con le terre lavorate e le città e i monumenti e le fabbriche, tutto frutto del lavoro e dell’ingegno italiano?

Perché dunque, amici della Democrazia cristiana, questa esitazione? Perché questa perplessità di arrivare alle conseguenze logiche, dalle premesse da cui siete pure partiti? Io vedo in questa esitazione, in questa incertezza, un altro episodio, un altro esempio, di quello che io chiamerei lo stile democristiano, il carattere della vostra azione politica, il carattere dell’azione politica di un grande partito sul quale pesano tante gravi responsabilità e dal quale dipende invece tanta parte dell’incertezza e delle difficoltà stesse in cui si travaglia la nuova democrazia italiana.

Un grande partito che afferma alla base del suo programma le aspirazioni dei lavoratori ad un profondo rinnovamento sociale, ma che, quando si tratta di passare ai fatti che queste premesse comandano, allora esita, si arresta, fa un passo avanti e poi due in dietro. (Commenti al centro).

Ve ne ho dato la prova: ed è in questo primo articolo. Perché non venite con noi alle conclusioni che derivano delle premesse da cui dite di partire? Voi create così quello stato di incertezza e di malessere in cui si dibatte attualmente la democrazia italiana nel nostro Paese, e togliete al nostro Paese quella prospettiva, quella certezza, quell’entusiasmo, di cui esso avrebbe bisogno in questo periodo di difficile ricostruzione democratica, perché non si possono vincere le grandi battaglie politiche ed economiche che ci attendono, se tutta la democrazia italiana non è pervasa da una grande sicurezza, da una grande fede, da un grande entusiasmo nel suo avvenire. Voi quest’entusiasmo lo spegnete con la vostra esitazione, con la vostra perplessità, e causate in questo modo quell’arresto, quella paralisi, che noi dobbiamo superare, se vogliamo che la democrazia italiana possa vivere e prosperare. (Interruzioni Commenti al centro).

CINGOLANI. Non siamo in comizio!

AMENDOLA. Non abbiate paura, colleghi, e se credete veramente che il lavoro è il fondamento della Repubblica, non nascondete, vergognosamente, pudicamente, questa affermazione nelle pieghe di un capoverso che pochi leggeranno (Commenti al centro); ma proclamatelo solennemente, direi orgogliosamente, nella prima riga della Costituzione, in una dichiarazione che tutti gli italiani conosceranno e che dia a tutti i lavoratori la certezza o la fede nell’avvenire democratico del nostro Paese. (Interruzioni al centro).

E io credo che una nostra affermazione concorde – che è possibile – su questo primo articolo, avrebbe un grande significato e illuminerebbe i nostri lavori; permetterebbe di affrontare insieme le difficoltà che incontreremo nei prossimi articoli. Affrontiamo e superiamo insieme questa superabile difficoltà che ci troviamo davanti al primo articolo, e potremo fare della buona strada anche negli altri articoli.

Questa discussione sul primo articolo non è accademica; esprime politicamente il significato dei nostri lavori e segna l’indirizzo generale che noi vogliamo dare alla nostra Carta costituzionale. C’è stato in Italia, in questi ultimi anni, un grande rivolgimento politico e sociale, si è iniziato un grande processo rivoluzionario. Il nostro compito è di creare una Costituzione che permetta a questo processo rivoluzionario di svolgersi sul terreno della legalità democratica, per operare nel rispetto della legalità le necessarie modifiche della nostra struttura sociale.

Nello sviluppo di questo processo rivoluzionario abbiamo già vissuto due momenti essenziali, che non dobbiamo dimenticare: il momento della rivolta popolare contro il vecchio ordine di cose, e il momento in cui una nuova classe dirigente, uscita dal popolo, è apparsa nel fuoco di questa lotta popolare. Oggi viviamo faticosamente un altro momento, un momento in cui dobbiamo, nelle particolari ed originali difficoltà della nostra situazione, creare il nuovo e più giusto ordinamento da sostituire al vecchio che è caduto. Il primo momento – non dimentichiamolo – è quello della rivolta popolare. Sembra storia lontana, remota; ed è storia recente. Tra un mese, il 25 aprile, avremo compiuto due anni dalla data di quella insurrezione che ha concluso vittoriosamente il movimento nazionale che si era iniziato a Napoli, insurrezione nazionale alla quale hanno partecipato milioni di italiani, che vi hanno dato il loro contributo – contributo di opere, di eroismo, di sangue – e nella quale centinaia di migliaia di italiani hanno preso le armi. Mai nella storia italiana un movimento popolare ha abbracciato masse di italiani così ingenti ed ha richiesto ad uomini del nostro Paese così grandi sacrifici. E questo movimento, questa rivolta, questa lotta non erano solamente per cacciare dal nostro Paese lo straniero, il fascista; ma erano anche per dare all’Italia un nuovo ordinamento politico e sociale. Non lo dimentichiamo! Chi c’è stato si interroghi, ricordi quello che esso pensava, che cosa pensava che dovesse essere l’Italia che doveva uscire da questo tormento, che cosa speravano i compagni di lotta, quelli che non ci sono più. Chi non c’è stato compulsi i giornali clandestini dell’epoca, studi i documenti dell’epoca, i primi atti del Comitato di liberazione, gli atti del C.L.N.A.I., gli atti di quel nuovo potere popolare che nasceva nel corso della lotta, e che esprimeva in ogni sua affermazione questa volontà di rinnovamento politico, economico e sociale.

Oggi, questa aspirazione consacrata dal sangue di tanti caduti, che hanno voluto che dal fascismo, dalle rovine del fascismo e della guerra, nascesse un’Italia nuova più grande e più giusta, non deve essere dimenticata. Sarebbe una dimenticanza fatale! In quello stesso tormento rivoluzionario si è verificato un fatto nuovo: l’apparizione nella vita politica italiana di una nuova classe dirigente, uscita dal popolo, preparatasi nel lungo ventennio e che ha dimostrato in quegli anni e in quelle difficoltà le sue autentiche capacità, la sua tempra morale, la sua intelligenza politica. Oggi è di moda irridere la nuova classe dirigente antifascista. La cosa non ci sorprende. Ogni volta che un Paese vive un rivolgimento sociale, la vecchia classe dirigente sorride alla nuova classe dirigente che avanza, a queste nuove forze che avanzano, ma di fronte alle quali essa deve finire col cedere il passo. E così si tenta di irridere oggi alla nuova classe dirigente, maturatasi in carcere e nella lotta insurrezionale, una classe dirigente che non ha avuto la possibilità di un apprendistato democratico e che si è dovuta formare da sola, in condizioni di grandi difficoltà, ma che ha dimostrato di essere dotata di quelle qualità che sono necessarie perché una classe dirigente possa guidare un Paese. Questa classe dirigente ha dimostrato di avere una dedizione assoluta alla causa del popolo, ed un legame vivo ed operante col popolo, che gli permette di esprimere i bisogni del popolo e di difenderli in ogni occasione.

Quello che ha fatto, quando ha potuto agire liberamente questa classe dirigente e le pagine che ha scritto durante la lotta degli anni difficili, sono tra le migliori pagine della vita eroica del nostro Paese. Sono le pagine che hanno saputo scrivere i partigiani, e quelle scritte dai Comitati di liberazione, nella loro azione di governo e di amministrazione, pagine che onorano la nuova classe dirigente e che è bene siano ricordate qui. Molti di quegli uomini di primissimo ordine, molti di coloro che parteciparono al movimento del Comitato di liberazione, non si trovano in questa Assemblea perché le loro stesse qualità, il loro disinteresse e la loro modestia, hanno spesso impedito loro, a liberazione avvenuta, di conservare nei diversi partiti le posizioni tenute nell’ora del combattimento. Ma io credo che noi sentiamo in questa Assemblea la mancanza della loro concretezza, della loro aderenza ai bisogni del popolo. Molti di questi uomini, che hanno dimostrato in quel momento e in quelle difficoltà la loro capacità, le dimostrano ancora oggi, anche al di fuori di qui, nei municipi, nei sindacati, nelle cooperative, nelle associazioni popolari, in quel movimento democratico popolare che è il fatto nuovo che colora l’attuale situazione politica.

Perché sta avvenendo nel nostro popolo qualche cosa di nuovo: è il processo rivoluzionario che continua, ed è un fenomeno che forse sfugge a qualche osservatore superficiale: oggi le masse popolari hanno cominciato a partecipare alla vita politica del Paese ed alla soluzione dei problemi nazionali. Si sta compiendo così quella che è stata la più grande aspirazione dei democratici sinceri, che hanno combattuto in altri momenti della vita italiana ed arriva a compimento il grande moto unitario iniziatosi col Risorgimento. Anche nel nostro Mezzogiorno, tormentato e dolorante, i lavoratori, scuotendo finalmente le catene della loro oppressione, sono usciti finalmente alla luce della lotta politica cosciente e consapevole, sono usciti dall’isolamento, si sono uniti e organizzati, e lottano per strappare la terra ai proprietari latifondisti e per crearsi possibilità di vita più umane.

Non chiudete gli occhi, o signori, su questo fenomeno, su questo movimento, su questa entrata delle masse popolari nella vita politica della nazione. Questo è un fatto ormai permanente della nostra vita nazionale, il fatto rivoluzionario che è la base incrollabile della nuova democrazia che abbiamo costruito e che stiamo rafforzando. Uomini, donne, giovani, lavoratori si uniscono nelle loro organizzazioni sindacali, professionali, culturali, discutono i loro problemi, partecipano giorno per giorno alla soluzione dei loro problemi particolari e dei più generali problemi nazionali e danno finalmente allo Stato democratico italiano quel consenso, quel legame col popolo, che è mancato nel 1922 e la cui mancanza fu, appunto, una delle cause della nostra catastrofe.

Diamo a questo popolo di lavoratori fiducia nello Stato democratico, facciamo sì che lo Stato – che ad essi è apparso sempre come un nemico – appaia loro come uno Stato nel quale essi potranno democraticamente far trionfare le loro aspirazioni.

Questo è il mezzo per rafforzare veramente con la fiducia del popolo il nuovo Stato e per evitare gravi crisi sociali al nostro Paese.

Sul frontone dell’edificio che stiamo costruendo scriviamo la parola «Repubblica democratica di lavoratori», dimostrando così subito al popolo che la casa che stiamo costruendo è veramente la sua casa. I lavoratori italiani lavoreranno uniti per farla più forte e più sicura e per difenderla contro ogni minaccia, e saranno il presidio della nostra indipendenza e della nostra libertà. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Calamandrei. Ne ha facoltà.

CALAMANDREI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, quello che sto per dire sarà poco più di una dichiarazione di voto anticipata sull’articolo 5, fatta non solo a nome mio, ma a nome del gruppo al quale appartengo.

Noi siamo fermamente e recisamente contrari all’articolo 5 com’è attualmente formulato, e per questo voteremo contro. Parrebbe superfluo mettere in evidenza questa che sembra una conseguenza di logica elementare; ma noi lo dichiariamo per distinguerci da quei colleghi autorevolissimi, i quali sono contrari all’articolo 5 e per questo voteranno a favore. (Si ride).

L’amico e collega La Pira, che mi dispiace non veder presente perché la sua presenza dà un senso di serenità e di possibilità di intesa alle nostre discussioni, l’amico La Pira, in quel discorso che tutti stemmo ad ascoltare con quel rispetto attento che merita la parola degli uomini che credono in quello che dicono, si lamentò che questa discussione che si svolge qui sui Patti lateranensi fosse quasi una irriverenza verso la Chiesa, e disse: «Date il voto favorevole a questo articolo 5 per una ragione di delicatezza verso la Chiesa, che ha tante benemerenze».

Ora io vorrei dire all’amico La Pira che riconosciamo anche noi che può essere non gradito alla Chiesa che qui si svolga questa discussione sui Patti lateranensi. L’onorevole Togliatti, nel suo ultimo discorso, lesse un testo latino, dal quale apprendemmo che la Sede apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei Governi i quali non sono costretti a riportare l’approvazione di un corpo rappresentativo. Questa discussione pubblica può essere incresciosa per la Chiesa; ma non siamo stati noi che l’abbiamo provocata (Interruzioni). Chi può aver mancato di delicatezza verso la Chiesa provocando questa discussione che non era né necessaria né utile, non siamo stati noi, amici democristiani; ma dal momento che questa discussione si deve fare, noi abbiamo il dovere di dire in proposito, con tutto il rispetto ma con tutta l’energia, il nostro pensiero.

Noi siamo contrari all’articolo 5, così come è formulato, perché lo consideriamo un errore; un errore per chi lo ha proposto, un errore per chi lo approverà: errore di carattere giuridico ed errore di carattere storicopolitico.

Errore di carattere giuridico, prima di tutto: direi anzi cumulo di errori di carattere giuridico.

Per il primo comma, che dice «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», questo è stato detto a sazietà; l’hanno detto gli onorevoli Orlando, Croce, Nitti, Labriola, che questo non è, né per la sua forma né per la sua sostanza, un articolo che possa trovar posto in una Carta costituzionale. È un articolo di un trattato internazionale; è un articolo in cui due enti, che si affermano tutti e due sovrani, si mettono d’accordo per riconoscere reciprocamente la loro sovranità. Ma la Costituzione, quella che noi stiamo discutendo, è l’atto di una sola sovranità: del popolo italiano, della Repubblica italiana. Qui parla soltanto il popolo italiano, la Repubblica. La Chiesa qui, in questa sede, in questo momento, non ha aperitio oris. Non c’è nessuno che la rappresenti; né credo che pensino di rappresentarla in questa sede gli amici democristiani, i quali sono stati mandati qui per rappresentare il popolo e non per rappresentare la Chiesa.

TUPINI. Il popolo cattolico!

CALAMANDREI. E se pretendessero di poter parlare anche in nome della Chiesa, pretenderebbero in questo momento di compiere quello che giuridicamente è un assurdo ed un monstrum, cioè un… contratto con se stessi. Lo Stato è sovrano e non c’è bisogno che la Chiesa ne riconosca la sovranità. È vero – lo ha detto l’amico La Pira e lo sentiremo ripetere io credo anche dal collega ed amico Dossetti – che ormai è comunemente ammessa la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici. L’antica teoria, secondo la quale il diritto deriverebbe soltanto dallo Stato, è stata superata. Per merito di Benedetto Croce nel campo filosofico e poi, nel campo giuridico, per merito soprattutto di un’opera fondamentale di diritto costituzionale, L’ordinamento giuridico di Santi Romano, oggi è diventata comune la teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici, la quale insegna che il fenomeno giuridico, il sorgere originario del diritto non si verifica soltanto nello Stato, ma si verifica in tutte le istituzioni che naturalmente si formano nella società, in tutte le comunità, tra le quali, augusta e altissima, è la Chiesa. Ma questa teoria della pluralità degli ordinamenti giuridici non ha niente a che vedere con questo articolo 5; perché, quando, come qui, ci si trova nel cuore di un ordinamento giuridico, cioè nell’interno di questa Assemblea Costituente, dalla quale deve scaturire la legge fondamentale dell’ordinamento giuridico di cui noi siamo i costruttori, allora noi dobbiamo darci cura soltanto di questo ordinamento giuridico, di cui siamo al centro, e soltanto in nome di esso possiamo creare le nostre leggi.

Che cosa pensereste voi di un articolo inserito nella nostra Costituzione, il quale dicesse così: «L’Italia e la Francia sono ciascuna, nel proprio ordine, indipendenti e sovrane»? (Ilarità Vivi commenti al centro).

Io mi dolgo che non sia presente il collega La Pira, perché vi insegnerebbe, colleghi democristiani, la moderazione e la sopportazione. (Commenti).

State ad ascoltare, e poi confutatemi, e non alzate le braccia con aria di meraviglia, perché quello che dico sono nozioni elementari che tutti i giuristi seri non possono non accettare.

PRESIDENTE. Lei ha ragione, ma non ponga degli interrogativi, perché altrimenti gli onorevoli colleghi risponderanno. Comunque, anche se ne ponesse ancora, prego i colleghi di non rispondere.

CALAMANDREI. Allora, io domando non agli amici democristiani, ma domando a me stesso che cosa potrei dire di un articolo così formulato; e da me stesso mi darò la risposta.

Questa argomentazione io la sottoposi già alla Commissione dei Settantacinque; ed allora chi si alzò a confutarmi fu l’onorevole Togliatti, il quale non mi interruppe, come fanno oggi gli amici democristiani, ma chiese la parola e cortesemente al suo turno mi obiettò: –  Un articolo di questa natura sarebbe inutile, sarebbe assurdo, perché questi due ordinamenti, l’Italia e la Francia, sono entrambi ordinamenti dello stesso ordine, e sarebbe superfluo e vano questa specie di scambio di cortesie, che consisterebbe nel riconoscere reciprocamente una sovranità inerente a diversità di ben distinti territori nazionali.

Ma – continuava l’onorevole Togliatti – quando si tratta di Stato e Chiesa, si tratta di due ordinamenti che vivono in due diversi ordini, ed appunto perché sono due ordinamenti su piani diversi questo riconoscimento reciproco di sovranità diventa necessario.

Questa argomentazione dell’onorevole Togliatti non mi persuade. Perché questo riconoscimento è qui necessario? Se veramente questi due ordinamenti vivessero su piani diversi, non mi pare che da ciò deriverebbe la conseguenza voluta da Togliatti. In che potrebbe consistere la diversità di piano di questi due ordinamenti? Si potrebbe pensare che lo Stato regoli l’ordine temporale, la Chiesa regoli l’ordine spirituale; ma se così fosse, se veramente questi due ordinamenti fossero interamente su piani distinti, in diverse dimensioni per così dire, questi due ordinamenti non si incontrerebbero mai; non ci sarebbe mai fra essi ragione di conflitto e di collisione; e non vi sarebbe bisogno dunque di reciproco riconoscimento.

In realtà, la ragione per la quale invece sorge l’opportunità di regolare le relazioni tra questi due ordinamenti è che vi è un terreno sul quale questi due ordinamenti sono tutti e due della stessa natura, tutti e due dello stesso ordine: di natura temporale, cioè, di natura politica. Ed è proprio questo terreno di carattere politico, in cui si verifica l’incontro e in cui nasce il problema.

Ho qui l’ultimo numero di Civiltà Cattolica, nel quale si legge un dotto articolo del padre Lener: Sovranità della Chiesa e sovranità dello Stato nella dottrina generale del diritto.

Il Lener osserva che per risolvere il problema «non sembra sufficiente il qualificare semplicemente spirituale la sovranità della Chiesa e temporale e politica quella dello Stato. Questa opposizione in via assoluta non è punto esatta; dimostrata invece la giuridicità dell’ordinamento canonico, la sovranità della Chiesa non può non essere riconosciuta anch’essa temporale e perciò stesso, in qualche guisa, politica».

Dunque è questo urto tra due ordinamenti, ambedue politici, che bisogna cercare di regolare; ed è un vaniloquio il formulare norme come quelle del primo comma dell’articolo 5, in cui questi due ordinamenti riconoscono reciprocamente la propria sovranità, perché quando si arriverà su un terreno pratico in cui nascerà il conflitto ed in cui si troveranno nei due ordinamenti norme divergenti e contrastanti, allora si tratterà di stabilire se devono prevalere gli ordinamenti dello Stato, la cui sovranità è stata riconosciuta dalla Chiesa, o se devono prevalere gli ordinamenti della Chiesa, la cui sovranità è stata riconosciuta dallo Stato !

Parliamoci chiari; questa norma del primo comma è assolutamente superflua (Interruzioni al Centro Commenti); è messa lì per far credere di aver risolto un problema che in realtà rimane insoluto, con una frase che sembra piena di significati arcani, ma che in realtà non significa nulla.

Ma più grave, onorevoli colleghi, è il secondo comma, quello che dice: «I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi».

Dicono gli amici democristiani (vorrei che capiste che quando vi chiamo amici non lo dico per complimento), che questa formula ha il valore di una constatazione storica. I Patti lateranensi ci sono stati; è una realtà storica che non può essere ignorata dalla nostra Costituzione.

Io potrei anche non essere contrario a che dei Patti lateranensi nella Costituzione si facesse un cenno al solo fine di ricordare un evento storico del passato. Per questo io avevo proposto che nella Costituzione vi fosse un preambolo, nel quale potrebbe essere utile e significativo tener conto, in maniera sommaria, di quelli che sono stati gli eventi fondamentali da cui è nata, attraverso il travaglio secolare, la Repubblica italiana; e tra questi eventi, potrebbe essere degnamente ricordata la soluzione territoriale della questione romana, ottenuta attraverso i Patti lateranensi. Ma quando questi Patti lateranensi me li volete inserire in un articolo della Costituzione, allora questo accenno storico diventa una norma giuridica, diventa un principio di diritto costituzionale; e in tal caso le conseguenze di questa trasformazione di una verità storica in una norma di diritto costituzionale sono assai gravi.

La prima conseguenza è questa: che prima di tutto si viene a stabilire che, d’ora in avanti, dal momento che i Patti lateranensi diventeranno parte, richiamati per rinvio, della Costituzione, e dal momento che essi non si potranno modificare se non d’accordo con l’altro contraente, noi avremo così introdotto nella nostra Costituzione una serie di norme che non saranno modificabili altro che col consenso di un’altra Potenza. Ma questa, onorevoli colleghi, è una ben grave menomazione! Io mi domando perfino se nel mandato che noi abbiamo avuto dal popolo – noi e voi, amici democristiani – ci sia, tra i poteri che ci sono stati delegati, quello di consentire rinunce e menomazioni alla sovranità italiana; di quella sovranità che è nostro dovere affermare, difendere e tener alta ed intatta nella nostra Costituzione.

Ma vi è una seconda conseguenza, anche più grave: che, in questo modo, attraverso il richiamo dei Patti lateranensi, si introducono di soppiatto nella Costituzione, mediante rinvio, quelle tali norme occulte, leggibili solo per trasparenza, che saranno in urto con altrettanti articoli palesi della nostra Costituzione, i quali in realtà ne rimarranno screditati e menomati.

È inutile ricordarli. Il principio della uguaglianza dei cittadini di fronte alla legge, della libertà di coscienza, della libertà di insegnamento, il principio della attribuzione esclusiva allo Stato della funzione giurisdizionale, tutti questi principî costituzionali sono menomati e smentiti da norme contenute nei Patti lateranensi, le quali vengono tacitamente ricevute nel nostro ordinamento col secondo comma dell’articolo 5.

E se si volesse badare anche alle piccolezze, si troverebbero altri conflitti assai curiosi: così, ad esempio, mentre la nostra Costituzione ha abolito i titoli nobiliari, l’articolo 42 del Concordato dice invece che «L’Italia ammetterà il riconoscimento, mediante decreto reale, dei titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici anche dopo il 1870 e di quelli che saranno conferiti in avvenire». L’antitesi non potrebbe essere più categorica!

Ma, ripeto, non mi intingerò a rinnovare l’analisi già fatta ad esuberanza nelle precedenti discussioni. Mi limito a richiamare l’attenzione vostra, amici democristiani, su quella norma dei Patti lateranensi, che tutte le riassume: dico l’articolo 1 del Trattato:

«L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, per il quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato».

È proprio sulla portata di questo articolo che io mi rivolgo agli amici democristiani, e specialmente a quelli di loro che sono giuristi.

Voi sentiste che l’onorevole Togliatti nel suo discorso diede un voto di biasimo ai giuristi; disse che nei lavori preparatori della Costituzione i giuristi non hanno lavorato bene.

Io non so se questo rimprovero sia giusto. Quando sento il politico che se la piglia coi giuristi, mi fa la stessa impressione di un uomo di affari, che, quando non gli tornassero i conti, se la pigliasse coi matematici, i quali hanno inventato che due e due fanno quattro. (Si ride).

In ogni modo, tra gli amici democristiani di giuristi ce n’è una quantità, e tra essi eminenti costituzionalisti: gli onorevoli Ambrosini, Caristia, Mortati, Tosato, Codacci Pisanelli; e poi, penalisti: Bettiol, Leone Giovanni, Moro; e poi un valoroso ecclesiasticista, l’onorevole Dossetti; e poi La Pira, e forse altri: e non parliamo degli avvocati, dei quali basta ricordare il valorosissimo amico Cappi.

Ora a questi giuristi esperti che sono uomini di coscienza, che hanno comune con me, non le idee politiche, ma il culto di questo alfabeto giuridico, di questa logica pulita e precisa, che è patrimonio comune di tutti i giuristi, io domando: ma non vi avvedete delle incongruenze, delle contradizioni, delle assurdità giuridiche, che si annidano in questo articolo 5?

E vi chiedo: dobbiamo o no fare una Costituzione democratica, che abbia alla sua base i diritti di libertà? Tra questi c’è il diritto di uguaglianza di tutti i cittadini, la libertà di religione, la libertà di coscienza. Non vi accorgete che tutto questo è in contrasto con l’articolo 1 del Trattato, che consacra la religione di Stato e quindi lo Stato confessionale?

Io mi rivolgo con spirito di lealtà alla vostra coscienza e al vostro senso giuridico.

Potrò sbagliare, ma io sono uno di quegli uomini che anche in politica si fidano; forse perché non so liberarmi da quell’assioma dei giuristi il quale insegna che la buona fede è sempre presunta. Io mi rifiuto di credere a quell’insegnamento che mi è stato dato la prima volta che sono entrato in quest’aula, cioè che in politica invece è sempre presunta la malafede, e che quando una persona in quest’aula dice una cosa, si ha il dovere di credere che egli pensi assolutamente il contrario. (Ilarità).

Qui si sentono strani ragionamenti. Si parla dei comunisti. I comunisti affermano che sono veramente democratici, affermano che essi ammettono la pluralità dei partiti: ammettono e ammetteranno, anche se domani diventeranno maggioranza, i diritti dell’opposizione. Ma si sente dire: «Quando saranno maggioranza faranno il contrario di quel che dicono e si serviranno della democrazia per fare lo Stato totalitario». Ebbene, io invece credo alla democrazia dei comunisti: credo alla loro buona fede.

E così, viceversa, quando i democristiani dicono: «Noi vogliamo fare una costituzione basata sui diritti di libertà; «libertas» è il nostro motto; vogliamo garantire le libertà fondamentali dei cittadini, fra le quali la libertà di coscienza», io credo alla libertà dei democristiani. Ma allora si sente insinuare: «Lo dicono, ma il giorno in cui saranno maggioranza non lo faranno; spinti dal loro dogmatismo reprimeranno le minoranze che per loro saranno eretici dannati alla perdizione». (Proteste al centro).

Non vi allarmate; dico, in sostanza, cose favorevoli a voi (Si ride); perché io a queste insinuazioni non ci credo; credo che anche voi siate in buona fede. Mi rifiuto di ragionare qui come ragionavano quei due polacchi abituati a dire le bugie. Uno stava per partire, l’altro lo vede e gli domanda: «Dove vai?» «Vado a Varsavia». Ed il primo: «Bugiardo e traditore! tu mi dici che vai a Varsavia perché io creda che vai a Leopoli, e non mi accorga che vai davvero a Varsavia». (Si ride).

Ma io non voglio ragionare come questi polacchi sospettosi. E voglio parlare agli amici democristiani con assoluta franchezza. Una prima proposizione che mi sembra sicura è questa: che i Patti lateranensi realizzano uno Stato confessionale. Su questo credo non ci sia dubbio.

Una voce al centro: Il dubbio c’è!

CALAMANDREI. L’ha detto quel grande maestro di diritto ecclesiastico che fu Mario Falco, il cui cuore nobilissimo fu spezzato dalla infamia razziale; e l’ha detto un altro grande ecclesiasticista cattolico, lo Jemolo. Ma basta prendere un libro di consultazione quotidiana, come il Nuovo Digesto Italiano che è nello scaffale di tutti gli avvocati, e andare a leggere lì la voce «Confessionismo», redatta da un consigliere di Cassazione, il Piacentini. Anche lì lo Stato italiano, dopo i Patti lateranensi, è qualificato come Stato confessionale.

Se questo è esatto, ne deriva una seconda proposizione: che lo Stato confessionale è inconciliabile colla tutela della libertà di coscienza; perché, nel dare riconoscimento giuridico ad una religione di Stato, e col far passare così questa religione dal piano spirituale al piano temporale, inevitabilmente pone coloro che professano la religione dello Stato in condizione di favore e di privilegio giuridico, e in condizioni di inferiorità e di menomazione giuridica gli appartenenti alle altre religioni retrocesse al grado di religioni tollerate.

Ma quale parola più autorevole per dimostrarvi l’inconciliabilità fra Stato confessionale e libertà di coscienza, della stessa parola papale?

Il 30 maggio 1929, per rispondere a corti discorsi che erano stati fatti in quest’aula a commento dei Patti lateranensi, il Pontefice Pio XI scrisse una lettera al Cardinale Segretario di Stato in cui, protestando contro quelle affermazioni, scriveva fra l’altro: «Anche meno ammissibile sembra che si sia voluto assicurare incolume ed intatta l’assoluta libertà di coscienza. Tanto varrebbe dire allora che la creatura non è soggetta al Creatore, tanto varrebbe legittimare ogni formazione, o piuttosto deformazione, delle coscienze anche più criminose e socialmente disastrose. Se si vuol dire che la coscienza sfugge ai poteri dello Stato, se si intende riconoscere, come si riconosce, che, in fatto di coscienza, competente è la Chiesa ed essa sola, in forza del mandato divino, viene con ciò stesso riconosciuto che, in uno Stato cattolico, libertà di coscienza e di discussione debbono intendersi e praticarsi secondo la dottrina e la legge cattolica».

È dunque proprio con l’augusta parola del Pontefice che viene consacrata la inconciliabilità fra Stato confessionale e libertà di coscienza, di cui finora vi ho parlato.

Ma, del resto, voi stessi lo riconoscete; perché, se io ben ricordo, l’amico La Pira, che mi dispiace non sia ora presente, perché mi avrebbe corretto se lo avessi citato in maniera inesatta, disse a un certo punto nel suo discorso: «Noi non vogliamo lo Stato confessionale; noi vogliamo lo Stato religioso». Ma lo Stato religioso non è un concetto giuridico; è quello Stato in cui la religione rimane di fuori dal campo giuridico; è quello Stato in cui vi è una religione prevalente di fatto, magari largamente prevalente, perché, di fatto, la maggior parte dei cittadini la seguono; ma in cui la prevalenza di fatto non è imposta o garantita colla legge.

Quando invece tale prevalenza di fatto diventa prevalenza di diritto, allora lo Stato religioso si trasforma in Stato confessionale.

E se è così, io domando agli amici democristiani: – Che cosa volete voi? Scegliete lo Stato democratico coi diritti di libertà, o scegliete lo Stato confessionale senza questi diritti? Se voi volete lo Stato democratico coi diritti di libertà, tra cui la libertà di coscienza inconciliabile con lo Stato confessionale, allora bisogna cancellare dal progetto di Costituzione l’articolo 5, così come è stato redatto. Se invece voi volete includervi, come vi avete incluso, il richiamo agli Accordi lateranensi, allora voi fate lo Stato confessionale: e dovete per forza rinunciare alla libertà di coscienza.

Ma allora è più sincero, più semplice, più esplicito, che voi trascriviate testualmente in questo articolo 5 della Costituzione l’articolo 1 del Trattato Lateranense: «La religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato»; e che la votazione si faccia, con maggior sincerità, su questo testo.

Signor Presidente, mi accorgo di aver raggiunto i trenta minuti consentitimi dal regolamento; se me lo permette, avrei da concludere brevemente.

Vi è ancora nell’atteggiamento dei democristiani un errore di carattere storicopolitico. Si dice: la menzione dei Patti lateranensi ricorda un evento storico, un evento storico che ha ricondotto in Italia la pace religiosa; questi accordi quindi vanno inseriti per celebrare, attraverso la loro menzione, questo grande evento che è stato il raggiungimento della pace religiosa.

È certo che i Patti lateranensi hanno risolto quella che si chiamava la «questione romana», la questione territoriale. Ma io sono assai in dubbio se proprio ai Patti lateranensi si debba riconoscere il merito di avere assicurata la pace religiosa.

Tutti sapete, lo dico col massimo rispetto, che i Patti lateranensi del 1929 furono stipulati dalla Santa Sede con lo Stato fascista (perché nel 1929 in Italia, per chi non lo ricordasse, c’era il fascismo). Io non ripeterò, come udii in quell’epoca da una povera vecchietta che aveva sentito parlare di questi accordi firmati dal Governo fascista: «Ohimè!, ohimè! La fine del mondo! La Chiesa si è messa d’accordo col diavolo». Non dirò questo; no: ogni contraente nelle relazioni internazionali, fa i suoi interessi; la Chiesa in quel momento ha potuto raggiungere, trattando col fascismo, i suoi scopi: ha fatto bene a cogliere il momento per sodisfarli. Io non rimprovero – anche se avessi l’autorità, che non ho, per farlo – chi contrasse questi accordi, che certo rafforzavano il fascismo in Italia, come mi parrebbe ingenuo rimproverare quei Governi stranieri che durante il fascismo hanno trattato col Governo fascista e hanno contribuito, con atti rilevanti, a tenere in piedi quel regime; e quando poi il regime è crollato, si è visto un eminente uomo di Stato fare appositamente un viaggio in Italia per recuperare le sue lettere, come ci si fanno restituire le lettere d’amore dopo la rottura del fidanzamento. (Applausi all’estrema sinistra).

Di questo non si può fare una colpa alla Santa Sede; ma dico che non bisogna dimenticare, per la storia, che questo Trattato del 1929 ha dovuto pur riconoscere l’ordinamento fascista come era in quel momento.

Nei Patti lateranensi non troviamo soltanto articoli, come l’articolo 26 del Trattato, il quale, dice: «La Santa Sede riconosce il regno d’Italia sotto la dinastia di casa Savoia» (che è evidentemente una disposizione superata dagli eventi); ma in certi altri articoli ci imbattiamo perfino in un esplicito riconoscimento di alcune tra le istituzioni più malfamate e nefaste del regime fascista.

Nell’articolo 37 del Concordato, si legge, ad esempio: «I dirigenti delle associazioni statali per l’educazione fisica, per l’istruzione premilitare, degli avanguardisti e dei balilla…» – Guarda chi si rivede! (Commenti).

Faccio un’osservazione che vorrei che voi teneste presente: lo Stato con cui ha trattato la Chiesa nel 1929 era uno Stato fascista, cioè uno Stato autoritario…

GUERRIERI FILIPPO. Scusi, lei non ha preso parte alla Commissione per il Codice di procedura civile? Ha concorso anche lei alle leggi fasciste.

CALAMANDREI. …e lo Stato autoritario è una forma diversa dallo Stato democratico. E quindi un trattato fatto con uno Stato autoritario, è un trattato il quale tiene presenti certe strutture, certe possibilità che non esistono più – o ne esistono di diverse – in uno Stato liberale o in uno Stato democratico. (Interruzioni Commenti). Ora, in uno Stato autoritario – come i colleghi sanno – i diritti di libertà non contano più. Lo Stato autoritario non si cura di difendere i diritti di libertà; ci ha rinunciato, li ha mandati in soffitta. Quindi è naturale che la Chiesa, trattando con uno Stato autoritario, il quale non si interessava di difendere i diritti di libertà, che non appartenevano più a quella concezione costituzionale sulla quale questo tipo di Stato era costruito, cercasse, di fronte a questo atteggiamento remissivo dell’altro contraente, di affermare in maniera assai penetrante la confessionalità dello Stato, colla quale la Chiesa ha potuto limitare, secondo i suoi fini la libertà di coscienza, dal momento che lo Stato, naturale custode di essa, aveva rinunciato a difenderla. Ma questo non si può più fare con lo Stato democratico, perché questo ha una struttura diversa, perché lo Stato democratico considera come suo compito essenziale la difesa di quei diritti di libertà di cui lo Stato autoritario non prendeva più cura. Bisogna quindi tener conto di questa diversità di struttura e di atteggiamento, di questa diversità di situazioni storiche; e non si può credere di poter mantenere domani, senza le opportune concordate modificazioni, questi accordi che sono nati in un clima in cui le esigenze democratiche non erano sentite e potevano quindi non essere rispettate. Ma poi, onorevoli colleghi, credete veramente che la pace religiosa provenga proprio dai Patti lateranensi e da questa menzione di essi che si vorrebbe inserire nella Costituzione? In realtà in Italia la pace religiosa c’è; ma c’è, perché è nello spirito, nei cuori; perché è diffusa nella coscienza del popolo.

Quando il 2 giugno furono fatte, con quell’esempio di civiltà e di ordine che conoscete, le elezioni politiche, a Firenze, nelle sezioni elettorali della periferia, quelle più rosse, in cui prevalsero con il 70 e 1’80 per cento i partiti di sinistra, nelle file di elettori che stavano ad aspettare per ore in ordine, senza proteste e senza impazienza (e i colleghi democristiani della Toscana ne possono testimoniare) soltanto una categoria di elettrici aveva la precedenza: le monache. E chi si curava di accompagnarle perché potessero votare prima degli altri, erano gli incaricati dal partito comunista. Questo episodio dimostra che la libertà religiosa, che la pace religiosa in Italia c’è. (Commenti). Si sono avuti, si sono visti episodi di tolleranza, che trenta, quaranta anni fa non sarebbero stati possibili, anche qui, in quest’aula. Ho udito io stesso, da questo banco, mentre si discuteva una interrogazione a proposito di un giornale che aveva mancato di rispetto al Pontefice e che per questo era stato sequestrato, risuonar da quei banchi (Accenna al centro) il grido di «Viva il Papa!» a cui tutto quel settore fece eco; e gli altri settori stettero in silenzio, senza protestare. (Commenti al centro Applausi a sinistra). Se voi pensate a quello che sarebbe successo trenta o quaranta anni fa, se lo stesso grido fosse stato lanciato in quest’aula, dovete riconoscere che c’è stato da allora un profondo mutamento nella coscienza politica del popolo italiano.

E così si è sentito pochi giorni fa l’onorevole La Pira terminare un suo discorso coll’invocazione a Dio ed alla Vergine Santissima, accompagnata dal segno della Croce. Nessuno ha protestato o ha riso: e questo è avvenuto perché in Italia la pace religiosa c’è già, e c’è senza bisogno dei Patti lateranensi. (Vivissimi applausi a sinistra Commenti al centro).

PRESIDENTE (Accennando al centro). Se si dicono cose sgradite protestano; se si dicono cose gradite protestano: sappiano ascoltare! Onorevole Calamandrei, la prego di concludere.

CALAMANDREI. Io ho superato di un quarto d’ora il mio tempo; se gli onorevoli deputati credono, smetto subito. (Commenti).

E allora mi domando: perché in Italia c’è la pace religiosa? Perché a un certo momento, negli anni della maggiore oppressione, ci siamo accorti che l’unico giornale nel quale si poteva ancora trovar qualche accento di libertà, della nostra libertà, della libertà comune a tutti gli uomini liberi, era L’Osservatore Romano; perché abbiamo esperimentato che chi comprava L’Osservatore Romano era esposto ad essere bastonato; perché una voce libera si trovava negli Acta diurna dell’amico Gonella; perché, quando sono cominciate le persecuzioni razziali, la Chiesa si è schierata contro i persecutori (Approvazioni) e in difesa degli oppressi; perché, quando i tedeschi ricercavano i nostri figliuoli per torturarli e fucilarli, essi, qualunque fosse il loro partito, hanno trovato rifugio – ve lo attesta un babbo – nelle canoniche e nei conventi; perché si sono trovati preti disposti ad offrirsi come ostaggio per salvare la popolazione di un Comune e riscattare col loro sacrificio la vita di tutti; perché si son visti religiosi che sono andati in montagna a combattere accanto ai partigiani di tutti i partiti, per rivendicare la libertà e la dignità di tutti gli uomini. Da questo, e non dai Patti lateranensi, è nata la pace religiosa. (Generali prolungati applausi).

Questa fratellanza degli umili, dei sofferenti e degli oppressi di fronte agli oppressori, di fronte al «fascista abietto» e al «tedesco lurco», ha ridato la pace religiosa all’Italia. Questa pace è nei cuori; non distruggetela, non mettetela in pericolo, amici democristiani, con piccole astuzie da legulei. (Commenti al centro Interruzione dell’onorevole Cingolani).

Io non so se voi conoscete (se non la conoscete vi consiglio di leggerla) la storia di fra Michele minorita, un fraticello appartenente all’ordine dei «Fraticelli della povera vita» che fu bruciato alla fine del ’300, perché sosteneva che il Vangelo non riconosce la proprietà privata; e che secondo la parola di Cristo, i beni terreni appartengono a tutti. Questa, in un certo periodo, fu considerata una eresia; e quei fraticelli – ai quali non posso pensare che non vada la simpatia di un uomo come La Pira che ha tanti punti di contatto con essi, lui che dà ai poveri la più gran parte del suo stipendio assai modesto di professore universitario – quei fraticelli furono perseguitati come eretici e condannati al rogo dal pontefice Giovanni XXII. Il supplizio di questo fra Michele avvenne a Firenze, sul finire del Trecento: e quando dal palazzo del Bargello fu condotto, tra due ali di popolo, nel luogo ov’era stato preparato il rogo, la gente a vederlo passare gli diceva: «Ritrattati, abiura, fra Michele, perché vuoi morire? Basta una parola che tu dica e sarai salvo».

Ed egli, secondo quel che riferisce la cronaca trecentesca, a chi gli domandava: «Perché vuoi morire?» rispose: «Questa è una verità che ho albergata in me, della quale non si può dare testimonio se non morto».

La morte per la propria idea, la morte per la propria fede; l’esser pronti a farsi uccidere per testimoniare una verità… Anche nel periodo della lotta clandestina si sono avuti a migliaia questi esempi: e proprio quando si è visto che ci sono ancora fraticelli e religiosi disposti a dare la vita per una fede di fratellanza umana, proprio allora è tornata la pace religiosa in Italia!

Ma perché io cito episodi lontani?

Io posso ricordare un altro esempio, che forse conosce anche la nostra collega Mattei, perché si tratta di uno studente di Firenze: il Coletti, un ragazzo di 18 anni, che un giorno tornò nascostamente dall’Appennino, dove era partigiano, a salutare la sua mamma a Firenze. Denunciato da una spia, fu arrestato, condannato a morte con altri quattro compagni da un tribunale speciale e fucilato al Campo di Marte. La mattina all’alba, quando il carrozzone della prigione andò a prenderli, gli altri quattro erano affranti, ed egli, che era credente, li consolava. A un certo punto parve che l’itinerario seguito dal carrozzone non fosse quello più breve per arrivare al Campo di Marte, ed allora uno dei compagni domandò: «Ma che strada ci fanno fare?» E lui rispose sorridendo: «Non te ne occupare: tutte le strade portano in Paradiso».

Colleghi democristiani, se veramente voi volete una democrazia in cui abbiano eguale dignità morale e politica tutti gli uomini che lavorano e soffrono, se volete portare la vostra fede al servizio di questa lotta di redenzione e di rinnovazione che ci sta dinanzi, non immiserite questo dibattito con l’introdurre di soppiatto nella Costituzione disposizioni che stabiliscano nello Stato distinzioni fra ortodossi ed eretici, fra reprobi ed eletti: per tutti gli uomini di buona volontà, di tutte le religioni, ricordatevi che tutte le strade portano in Paradiso! (Vivissimi prolungati applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pajetta Giancarlo. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIANCARLO. Onorevoli colleghe, onorevoli colleghi, mentre ascoltavo, al termine della discussione preliminare, l’amico Ruini difendere l’operato dei Settantacinque, prima ancora che con le armi della dialettica che gli sono ben note e con il sussidio della dottrina, con tanto impeto giovanile e con tanta fierezza di padre sodisfatto della sua creatura, mi sono chiesto se questa più larga e più aperta discussione pubblica fosse destinata a rendere più acuti i contrasti, o se potesse invece rendere possibile un accordo maggiore di quello ottenuto nella Commissione. Mi sono chiesto insomma se essa avesse un significato politico, se potesse darci un risultato pratico, o se non si trattasse invece di una sorta di rito nella liturgia parlamentare, prima di procedere alla votazione degli articoli.

Ma in quella difesa, che è apparsa a tratti esaltazione, più che questo o quel risultato raggiunto, più che questo o quel pregio di architettonica costituzionale, è apparso in rilievo l’elemento fondamentale dell’opera dei nostri colleghi della Commissione: quella discorde concordia che li ha animati quando hanno lavorato insieme.

Ebbene, quasi al termine di questa più larga discussione, al termine dei dibattiti di questi giorni, quando già sono stati affrontati alcuni dei temi più scottanti, io credo che si possa affermare che quella concordia discorde è ancora fra noi e che essa ci può permettere di procedere insieme.

Si è detto che si sarebbe potuto, che si sarebbe dovuto evitare una discussione incresciosa, qui nell’Assemblea, a proposito dell’articolo 5, a proposito della formulazione costituzionale dei rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica. Ed oggi lo ha ripetuto ancora il collega Calamandrei. Io non condivido questa opinione: è stato bene che qui si sia discusso, ed apertamente discusso, di questo problema, ed è stato bene, perché la discussione si è svolta fin qui senza che nulla di increscioso la turbasse. C’è chi ha contestato e chi ha difeso, chi ha esitato e chi ha affermato con vigore, chi ha chiesto aiuto alla storia e magari alla teologia, c’è chi ha fatto questione di politica e di diritto, e qualcuno persino di galateo internazionale, e fino a Bisanzio ci ha portato con i suoi ricordi l’onorevole Nitti.

Ma, da ognuno che ha parlato con lealtà, è venuta una voce sola, la voce che ha detto che su una cosa l’Assemblea vuole essere concorde, che su una cosa è concorde il Paese: nel desiderio di pace, nel proposito che la pace religiosa aiuti l’Italia davvero a trovare il clima della sua resurrezione.

Alla luce di questo proposito è stato fino adesso considerato il problema. È in questo spirito che, al termine del dibattito, noi comunisti vogliamo ancora riaffermare e chiarire la nostra posizione. Vogliamo trovare la via perché la conciliazione non resti un nome vano.

Forse non mai, come dopo un duro periodo della loro storia, come dopo anni tristi ed oscuri, i popoli sentono il bisogno che il loro presente sia interpretato con immediatezza e gli uomini politici vogliono interpretare questo presente, con i suoi bisogni, le sue esigenze, e realizzarlo nelle sue possibilità. Ma nello stesso tempo, dopo che per tanti anni è sembrato che al popolo, non solo fosse rapita la libertà, non solo fosse negato il pane, ma anche che si volesse sottrarre qualche cosa ancora più caro, il senso dell’orgoglio nazionale, dopo che si è voluta contraffare la tradizione e la storia, si sente la necessità di riallacciarsi a questa storia in quello che ha di più vivo. Si sente, nel momento che si vuole spingere in alto l’albero nuovo di una storia nuova, il bisogno di ficcare a fondo le radici, perché esse si abbeverino di tutto quello che è vivo nelle linfe vitali della storia del nostro Paese.

Forse, onorevoli colleghi, che possiamo dimenticare oggi questa nostra storia, questa nostra tradizione, che possiamo pensare che essa non è più presente oggi, fra noi che vogliamo dare questa Costituzione nuova al nostro Paese?

Qualcuno, mi pare, ha detto qui che è invecchiata quella che è stata una delle grandi formule politiche del nostro Risorgimento, la formula «libera Chiesa in libero Stato». Io non credo che questa formula, che è antica e non è vecchia ancora, sia superata; non credo che il concetto, il pensiero che fu negli uomini che nei momenti decisivi della storia del nostro Paese l’hanno formulata, siano morti. Qui parleremo tra qualche giorno di regioni, di una diversa organizzazione amministrativa e anche politica del nostro Stato; da qualche banco già si è parlato persino di federalismo. Ma forse per questo noi diremo che la formula antica dell’unità della Patria sia morta? O non diremo piuttosto che cerchiamo che quella formula antica viva e si concretizzi ancora nel nostro presente e ci adoperiamo per dare una vita vera che non può essere semplicemente quella che ha avuto finora?

Allo stesso modo la formula «libera Chiesa in libero Stato» non è né invecchiata, né tanto meno morta.

Allora, quando essa fu per la prima volta espressa vi era tra lo Stato italiano e la Chiesa una grande guerra. Era come un intrico, come una selva che non si sapeva come si potesse aprire perché questo Stato nuovo passasse e pareva che l’elemento fondamentale fosse quello della separazione. Si doveva adoperare magari l’ascia e la spada in quella selva perché questo nuovo Stato trovasse la sua strada. Ma anche allora, dopo quella guerra e fuori da quell’intrico, il significato effettivo della separazione per quei nostri uomini politici non era certo quello dell’ignoranza reciproca. Non si voleva che i due organismi, le due società non si conoscessero e continuassero a procedere senza conoscersi. Anche allora l’elemento fondamentale era quello del rispetto e della libertà; rispetto apertamente proclamato dello Stato per la vita della Chiesa, nella sua organizzazione e nelle sue ideologie; rispetto richiesto dallo Stato nuovo, dallo Stato democratico alla Chiesa e agli uomini della Chiesa. E affermazione soprattutto della libertà per tutti i cittadini e della libertà di coscienza per i cattolici.

Ecco perché noi pensiamo che quella formula possa ancora ispirarci, che essa fosse e sia qualche cosa più di una formula. Fu Cavour che scrisse allora: «Forse potrò io segnare dal Campidoglio un’altra pace di religione, un trattato che avrà per l’avvenire delle società umane delle conseguenze ben altrimenti grandi della Pace di Westfalia?». E nella stessa relazione alla legge delle guarentigie il Lanza ci teneva a proclamare esplicitamente che la separazione della Chiesa dallo Stato non postulava e non poteva postulare la mutua ignoranza dei due organismi.

È per questo che noi pensiamo che possa e debba essere inserita nella Carta costituzionale del nuovo Stato italiano la volontà dello Stato italiano di concordare, in materia religiosa, la sua politica con la Chiesa cattolica.

Non consideriamo superflua questa dichiarazione e non comprendiamo gli scrupoli di certi colleghi.

Mi pare che l’onorevole Labriola abbia osservato l’altro giorno che la Chiesa cattolica è più giovane di tremila anni della piramide di Cheope, ma non sarà questo ad indurci a proporre un emendamento per inserire la piramide di Cheope nella Costituzione italiana, o a presentarne un altro per escluderne la Chiesa cattolica.

Un Concordato può e deve essere un elemento di pacificazione; esso rappresenta l’espressione giuridica di una pacificazione, dopo un urto, dopo un contrasto. Rappresenta, o può rappresentare, un Concordato, la conclusione alla quale, dopo i contrasti e gli urti, sono arrivati lo Stato e la Chiesa.

Questo fu appunto il significato di uno dei Concordati più famosi, quello di Napoleone.

Allora la leggenda fece dire dal «grognard»: «Quanti di noi sono morti, perché queste cose non tornassero!».

Ma il «grognard» della leggenda aveva torto. Quelli che non erano più non erano morti invano perché non tornassero quelle cose, che erano tornate nel Concordato, ma erano morti, e non invano, perché non tornassero quelle cose che non sono tornate più, né in quel Concordato, né in Concordati successivi. Noi pensiamo dunque che elemento fondamentale – ed in questo possiamo trovarci tutti d’accordo – sia oggi la volontà d’una politica concordata.

Questo è l’essenziale: il Concordato. Non il dettaglio, non il particolare; non questo o quel Concordato, non questo o quell’articolo, quasi lo si volesse far vivere d’una specie di vita eterna, inserendolo nella Costituzione.

Il collega La Pira ci ha fatto un discorso ricco di dottrina, di argomenti di diritto e di fede; ma il suo pluralismo non credo che abbia potuto convincere nessuno a questo proposito. Non sono valsi gli argomenti di dottrina e, direi, neppure quelli di fede, se è vero che il collega Bruni, il quale rappresenta i cristiani sociali, ha dichiarato che proprio per quella dottrina e per quella teoria non poteva accettare le conclusioni, che volevano inseriti nell’articolo 5 i Patti lateranensi.

Mi richiamo al collega Bruni, almeno per quel che riguarda gli argomenti di fede (non lo penso un eretico). Egli ha voluto dirsi qui una voce nel deserto; ma non è stato, ché l’abbiamo ascoltato ed applaudito, e io penso piuttosto a lui qui, solo fra i banchi delle sinistre, come a un Daniele in una fossa di leoni, in verità molto pacifici.

L’onorevole La Pira ci ha parlato delle molteplicità delle «società» ed ha voluto fare un paragone, che forse avreste trovato irriverente in qualcuno di noi. Ci ha parlato del villaggio con la chiesa, il municipio e la Camera del lavoro. Ci ha chiesto che fosse tenuto conto di ognuna di queste forme di organizzazione e di vita.

Ma dobbiamo pure ricordare che se noi abbiamo parlato e parliamo nella nostra Costituzione di libertà sindacale e di sindacato, non abbiamo fatto mai accenno a qualche sindacato particolare, non abbiamo fatto neppure una parola che si riferisca alla Confederazione generale italiana del lavoro. E parliamo di diritto internazionale; ci appelliamo ai principî universalmente riconosciuti, ma nessuno ha voluto, nessuno chiede che noi inseriamo in questa Costituzione questo o quel trattato, questa o quella forma di organizzazione internazionale. Nessuno ha chiesto che si inserisca il Trattato di pace, che pure abbiamo dovuto votare qualche giorno fa.

Noi non parliamo di Confederazione del lavoro, non parliamo di trattati internazionali.

Noi sentiamo, quando facciamo questa Costituzione, che vogliamo mettervi l’essenziale, quello che è la realtà storica, non quello che è contingente, quello che è soltanto un accadimento politico.

Qualcuno obietta: «È diverso». E noi riconosciamo che una diversità c’è.

E per quel che riguarda la Chiesa, ognuno accetta che ci sia qualcosa di più. Noi non parliamo delle chiese, o delle comunità religiose soltanto, ma parliamo esplicitamente della Chiesa cattolica. Perché della Chiesa cattolica in Italia nessuno potrebbe negare quello che rappresenta oggi e che ha rappresentato nei secoli per il Paese. La realtà storica è la Chiesa, non un fatto, un accordo che rimane pur sempre un fatto politico contingente.

La nostra volontà è di fare che sia la pace piena tra questa Chiesa e il nostro Stato. Non si tratta già di eternare quel trattato piuttosto che un altro; non già quel trattato con quelle particolari sue forme.

Perché, amici, quello che ci pare essenziale, è che ognuno di noi faccia uno sforzo per dare davvero la pace religiosa al nostro Paese.

Ma che cosa è questa pace religiosa? E l’abbiamo di già? Sono state discordi le voci a questo proposito.

Alcuni colleghi ci hanno detto: la pace c’è, non turbiamola. Ma qualche altro ha detto: non c’è, sono troppo spesso turbate le coscienze.

Ebbene, la realtà è forse più complessa. Non c’è più guerra e non c’è pace ancora, siamo in una situazione difficile, in un equilibrio instabile; per quanto quello che è certo, e che non deve essere sottovalutato, sia l’aspirazione a stabilire questa pace, sia il desiderio che c’è da ogni parte di fare che questo equilibrio divenga stabile davvero, perché si possa lavorare e costruire.

Noi vogliamo aiutare la pacificazione religiosa: noi vogliamo che questa aspirazione diventi realtà, e vorremmo che tutti ci aiutassero. L’amico La Pira, il dottore Serafico del centro (Si ride), ha detto: «Questa Costituzione è come un vestito, fate che si adatti al corpo della Nazione».

Ebbene, noi gli diciamo, pensando che possa farsi interprete autorevole di questa nostra richiesta: fate tutti che questo vestito non sia per nessun aspetto, sotto nessuna forma, una camicia di forza per nessun italiano, fate che sia davvero un vestito nuovo, per un popolo nuovo che vuol vivere una vita nuova.

L’argomento essenziale, fra quanti sono stati cercati a favore dell’articolo 5, è stato quello della delicatezza, delle garanzie, delle intenzioni. Ebbene, io vorrei ricordare a questo proposito il Rinnovamento; già allora Gioberti diceva: «Non bisogna misurare le relazioni future del Pontificato con gli Stati liberi da quelle che ebbe nel passato coi domini assoluti, dentro e fuori d’Italia, e la nuova politica, fondata sulla libertà religiosa, dall’antica, che aveva una base diversa».

Quali possono essere oggi le garanzie? Le garanzie non stanno sulla carta se non c’è un contenuto; per questo dovremmo volere tutti che la lettera e lo spirito corrispondano. Noi vorremmo, per la lealtà che ci anima, che non ci fosse contrasto.

Se pensassimo che i concordati non sono altro che pezzi di carta, certo non ci batteremmo né per questo né per altri articoli. Ma noi pensiamo che i concordati duraturi o le costituzioni vive sono quelli che vivono veramente nella coscienza popolare.

Ricordate altre esperienze, pensate per esempio a quella hitleriana. Quella era gente che non aveva bisogno di battersi per un articolo, per un’espressione. Hitler salì al potere ai primi del 1933 e il 20 luglio del 1933, con una fretta tutta sua, con la fretta di un regime che non poteva aspettare, perché aveva un appuntamento con l’abisso, già ci fu il Concordato che porta le firme del Cardinale Pacelli e di Franz Von Papen. Era una necessità per gli hitleriani: bisognava liquidare il partito del Centro, bisognava dimostrare che si poteva fare a meno di questo partito che rappresentava i cattolici tedeschi. E un ufficioso allora autorevole commentatore italiano, diceva che operava sui nazisti il «fascino dei Patti lateranensi».

Era il 20 luglio 1933 e già sei mesi dopo il Ministro bavarese Esser – e i nazisti avevano accettato anche il precedente concordato bavarese del 1924 – attaccò il Cardinale Faulhober e il giorno dopo faceva preparare un attentato contro l’altissimo prelato. Quella era gente che non si batteva certo per un articolo di Costituzione o di Trattato!

Una garanzia di più erano sempre disposti a darla, perché non davano quella della propria lealtà.

Si è parlato di garanzie, ma, a questo punto, potremmo dire: E le garanzie nei confronti degli altri, le garanzie nei confronti dello Stato, nei confronti dei laici, nei confronti degli acattolici?

Abbiamo inserito, mi pare, nella legge elettorale una clausola che vieta agli ecclesiastici di fare determinati atti che porterebbero la Chiesa ad interferire nella vita politica; ma nessuno di noi ha chiesto che queste norme siano precisate nella Costituzione. Voi, onorevoli colleghi, parlate di delicatezza: forse vi sentite offesi da qualche manifestazione anticlericale; ma, che direste se noi vi chiedessimo delle garanzie contro certa intolleranza formalistica che si è manifestata anche qui? Mi pare che un collega della Democrazia cristiana abbia chiesto che i mussulmani non abbiano diritto di essere sepolti in Roma. Badate che il collega Di Fausto non si riferiva a quei Saraceni che venivano nei secoli lontani a fare le loro scorrerie fin sotto le mura dell’urbe, intendeva parlare dei soldati di colore di una Nazione alleata, morti perché anche Roma fosse liberata dal giogo nazista.

Noi non pensiamo certo a chiedere garanzie costituzionali contro le aberrazioni del collega Di Fausto, il quale vorrebbe farci tornare più in dietro del 1861, quando i Ministri italiani dovettero battersi per far sì che un valdese trovasse degna sepoltura in un cimitero. Qui nessuno ha voluto fare riferimento alla tradizione regalistica, alle dottrine giurisdizionaliste.

Eppure è una tradizione italiana, fu quella una scuola italiana che ebbe un’alta funzione in un determinato momento della vita del nostro Paese, dando un contributo alla sua vita politica. Nessuno si è rifatto alla pur nobilissima tradizione di Pietro Giannone.

L’Italia liberale e democratica ha potuto abbandonare queste tradizioni, ma lo ha fatto chiedendo che fosse abbandonata la tradizione che le stava di fronte: quella teocratica. L’ha fatto perché l’Italia liberale e democratica ha sentito che c’era forza sufficiente nello Stato, senza bisogno di controlli e di ingerenze nel campo dello spirituale.

Ha sentito l’Italia democratica che si trattava di un problema di equilibrio, che si trattava soprattutto di un problema di libertà. Ed è per questo che oggi noi poniamo questo problema come un problema di democrazia e di libertà e non chiediamo che siano inserite delle formule le quali diano una maggior garanzia di quella che voi potete darci con la vostra vita e la vostra organizzazione, che sono determinate anche dal fatto che voi coabitate, in questa Italia, con noi e con gli altri partiti.

Ed è questa la garanzia che noi stessi possiamo dare a voi: la garanzia di tutta la vita del nostro Paese e del suo libero svolgimento democratico.

Abbiamo sentito in quest’aula i colleghi della Democrazia cristiana fare ripetute dichiarazioni sulla perfettibilità del Concordato. Nessuno di noi potrebbe oggi credere che il Concordato debba rimanere, nei suoi particolari, così come è stato pensato e redatto; in quei termini cioè per cui lo Stato fascista ha tolto il diritto d’insegnamento nelle Università italiane a Bertrando Spaventa, volevo dire al professore Ernesto Bonaiuti. Ma pensate un momento anche al maestro napoletano, pensate se Bertrando Spaventa, il vecchio filosofo, fosse vivo ancor oggi, se fosse arrivato non soltanto fino al 1929, ma sino ad oggi, al 1947! Non furono i fascisti a cacciarlo; lo cacciarono i Borboni, ed egli aveva dovuto abbandonare Napoli dove era sceso dal suo Abruzzo, ed aveva trovato la luce della filosofia. Era andato allora peregrinando in Italia ed aveva trovato modo di insegnare in Piemonte; poi quasi seguendo gli eserciti liberatori, aveva trovato un’altra cattedra mi pare in Emilia, e finalmente era ritornato ad insegnare nella sua Napoli, liberata dai garibaldini, e questa luce nuova di cultura europea, aveva potuto splendere nella città non più borbonica. Ora se Bertrando Spaventa avesse vissuto sino ad oggi, forse sarebbe tra di noi, gli elettori non gli avrebbero negato il loro voto. Ma ecco che si troverebbe l’onorevole Patrissi ad ingiuriarlo, dandogli del fuoruscito, e l’onorevole La Pira gli direbbe che è fascista, perché hegeliano; e infine – quello che sarebbe più grave – l’onorevole Gonella gli direbbe: «Professore, per Bertrando Spaventa non c’è posto in un’università italiana» (Applausi a sinistra). Forse soltanto l’onorevole Croce, fattogli un esame, lo accoglierebbe con le sue grandi braccia, a dimostrare le virtù cristiane della filosofia.

Amici democristiani, noi non possiamo farvi l’offesa di credere che voi vogliate cacciare Bertrando Spaventa dalle nostre università, che vogliate cacciare quello che può esserci – e non può essere soltanto fra di voi – di vita, di pensiero, di anima, di carattere e per questo non possiamo condividere l’opinione di quanti chiedono di votare questo articolo come sta.

Ricordiamo quello che fu lo Statuto albertino. Oggi tutti ne parliamo male, non lo vogliamo più, ne vogliamo uno nuovo. E nessuno ci chiede di inserire quel primo articolo al posto d’onore, salvo forse un accenno della Civiltà Cattolica, ma qui la Civiltà Cattolica viene citata soltanto dagli uomini di sinistra. Nel 1848, quando lo Statuto albertino fu regalato ai torinesi, ai sudditi del Regno di Sardegna, fu come un grido di giubilo. E infatti le Costituzioni per chi sono date? Per gli oppressi; le garanzie valgono soprattutto per le minoranze. Allora fu un grido di gioia per le nostre Valli Valdesi. Ecco che scendevano dal chiuso delle loro valli, «barbet», e venivano a Torino, a render grazie, ad aprire un tempio. E la prima prece fu certamente una preghiera per i Savoia che li avevano liberati, dopo averli perseguitati tanto. E le comunità israelitiche di Torino, di Casale, di Alessandria ringraziavano. L’emancipazione degli israeliti veniva realizzata ed era stato un sogno legato a tutto lo svolgimento progressivo del nostro Paese e della rivoluzione democratica europea. Erano le minoranze che sentivano che veniva una vita nuova. Quelle che venivano dette le «religioni tollerate», sentivano che l’evento per loro voleva dire vita e libertà.

Ma oggi siamo nel 1947; è passato quasi un secolo da quel giorno di marzo; volete un giudizio su questa nostra Costituzione, su questi nostri articoli? Ci viene da quelle minoranze, che non dicono certo preci in favore dei Settantacinque che non si apprestano ad aprire il tempio ed a cantare le lodi a chi vuole che sia votato quell’articolo. Queste minoranze non si sentono garantite, protestano, hanno mandato a tutti noi la richiesta che sia riveduta quella formulazione, pur senza nessuno spirito anticattolico, senza nessuna avversione alla Santa Sede. È che quello che poteva essere buono nel 1848 non è più buono oggi; e noi siamo in diritto di chiedere all’italiano – non sempre grammaticale – di Ruini più di quello che non chiedessero allora al francese di Des Ambrois i valdesi, gli israeliti, e quegli italiani che esaltarono come un gran giorno il giorno della Costituzione albertina.

Voi avete detto che non volete lo Stato confessionale; e noi diciamo ancora una volta che non vogliamo uno Stato ideologico. Possiamo dunque intenderci, e non con formule di deteriore compromesso, ma ricercando una intesa vera. L’onorevole Ruini ha detto l’altro giorno, che i patti non sono inseriti; poi ha aggiunto «ma» tante cose dice l’onorevole Ruini quando dice «ma» …

RUINI. Ho detto «ma»!

PAJETTA GIANCARLO. Noi non vorremmo che si cominciasse come per lo Statuto albertino: vi ricordate quanti articoli dei quali non si sapeva mai se c’erano o se non c’erano? Finché un bel giorno abbiamo saputo una cosa soltanto: che quello Statuto non c’era più per nessuno.

Era uno Statuto elastico, dice qualcuno; era qualche cosa in cui non si credeva, aggiungo io. Nessuno voleva realizzarlo, né quelli che lo avevano regalato, né quelli che lo avevano accettato, e per i quali non poteva essere che un punto di partenza. Noi vogliamo oggi che sia solenne, che sia chiara, bronzea, questa Costituzione, questa legge, fondamento della Repubblica nuova. La legge che crediamo di avere conquistata col sacrificio e che vorremmo, giorno per giorno, rigo per rigo, parola per parola, sentire nostra ed essere pronti e difendere col nostro sacrificio. Ecco perché chiediamo che questa legge sia tutta nostra, tutta chiara, e non vogliamo sentir dire dal Presidente di coloro che l’hanno chiamata alla vita dichiararci che c’è, ma che potrebbe anche non esserci. Io attendo con ansia il collega Dossetti portarci nuovi argomenti, perché credo che egli sappia che qui siamo in un’Assemblea di Deputati, eletti per giudicare secondo il diritto e secondo il criterio politico e spero che voglia ricordare quello che qualcun altro ha forse dimenticato.

Siamo nella Costituente italiana, e non sulla via di Damasco: non possiamo qui votare contro la nostra coscienza o considerare l’assurdo come una suprema prova di fede. Questo è un foro politico: qui siamo chiamati a sapere per che cosa votiamo ed a votare secondo quello che sappiamo.

Ecco perché noi dobbiamo ringraziare l’onorevole Nitti per l’apporto di argomenti che ha dato alla nostra tesi. Non so se i democristiani lo ringrazieranno per quel voto che porta loro dopo quanto ha prima sostenuto. Qualche cosa vorrei rispondere all’onorevole Nitti. Egli ha voluto, tra l’altro, determinare su che cosa dovremmo contrastare fra democratici cristiani e comunisti. Egli è maestro di politica e di dottrina, ma sulla politica del nostro partito, sulla strategia, sulla tattica, sul punto nel quale noi faremo l’alleanza o la romperemo, su questo il nostro partito non può cercar maestri fuori dalle sue file, anche se ascolta ogni voce. E vorrei soprattutto aggiungere che non accettiamo la conclusione di quel discorso: che non si debba qui votare contro il Papa. Qui non si voterà contro il Papa o per il Papa. Qui non voteranno contro questa potenza, contro questa alta autorità, coloro che contrastano quella determinata formulazione ed io spero che qui non voteranno per il Papa neppure quelli che la sostengono. Qui dobbiamo votare tutti solo per l’Italia, per la Costituzione democratica della Repubblica italiana.

Noi abbiamo solennemente dichiarato, sia qui come nell’Assise più autorevole del nostro partito, al nostro 5° Congresso nazionale, che noi non intendiamo chiedere il ripudio dei Patti.

Non vogliamo la denuncia unilaterale del Trattato del Laterano. Lasciate voi libera la via al loro perfezionarsi, lasciate libera la via a quello che voi stessi ritenete giusto.

Riflettiamo non soltanto ai dettagli curiosi, come l’inserimento dell’opera nazionale balilla nella nostra Costituzione, riflettiamo soprattutto a quello che ci può ferire più profondamente: alla firma di quei Patti. Ricordiamo allora, in quel già lontano 1929, l’onorevole Croce in Senato ad elevare la sua voce di coraggiosa protesta. Ricordatelo voi liberali; ed erano intorno a Croce, con la loro trepidazione e con il loro consenso, i migliori del nostro popolo, quelli che furono gli antifascisti di sempre, perché seppero intendere e resistere dopo aver inteso.

Consideriamo la coincidenza, che non è strana, di tanti dubbi, di tante voci autorevoli che vengono da settori diversi; le parole che ci ha detto l’altro giorno Croce ritornando fra noi, che ha detto Vittorio Emanuele Orlando e che ha detto Nitti. Noi non siamo pessimisti; non abbiamo nessun motivo di fare intendere da questi banchi voci di Cassandra, perché, giorno per giorno, abbiamo avuto fede nel nostro popolo e nel nostro Paese e, giorno per giorno, non abbiamo atteso profetando sventura, ma abbiamo contribuito a fare che questa storia di oggi divenisse realtà. Noi non siamo pessimisti: crediamo che il nostro Paese risorgerà libero, e gli uomini ricostruiranno; crediamo che questo possa ancora una volta avvenire nella concordia, nella collaborazione di coloro che rappresentano le masse fondamentali del nostro popolo.

Onorevoli colleghi, è unanime il desiderio di pacificazione: facciamo dunque che sia unanime la formula che deve consacrarlo. Lo sarà, se voi crederete alla comune volontà di pace, a quella pace, per la quale abbiamo dato la fatica e la vita, a quella pace fra gli uomini di buona volontà, alla quale pensando diciamo: Così sia. E vogliamo dire nella nostra fede, nella nostra certezza: Così sia! (Vivi applausi a sinistra).

(La seduta, sospesa alle 17.50, è ripresa alle 18,10).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rodinò Mario. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Onorevoli colleghi. La prima delle disposizioni che abbiamo in esame risente della preoccupazione di affermare decisamente e sin dall’inizio la democraticità del nuovo Stato italiano. «L’Italia è una Repubblica democratica», si proclama al primo comma. «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva dei lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese», si dichiara nel secondo capoverso. «La sovranità emana dal popolo», aggiunge l’ultimo periodo.

Si, certo, è innegabile che è sulla democrazia che si vuole fondare la nuova Repubblica italiana, ma a noi interessa di stabilire qui, sin dal primissimo rigo di questo primissimo articolo, su quale genere di democrazia avremo il diritto di contare, e la definizione di Repubblica democratica non mi sembra sufficiente ad assegnare e garantire al nuovo Stato italiano quel preciso carattere di democrazia parlamentare che è nel ricordo e nell’attesa del popolo italiano.

La tradizione della democrazia parlamentare italiana trova le sue radici e i suoi titoli di nobiltà nell’entusiasmo e nella probità degli uomini che fecero l’Italia, e l’apice della sua affermazione nel periodo precedente la guerra del 1914; quando la chiarezza e l’onestà delle istituzioni parlamentari italiane permisero che a lungo la nostra moneta, indice della sanità nazionale e della fiducia internazionale, battesse in tutte le Borse e su tutti i mercati del mondo il prezzo ed il valore dell’oro. Il fascismo, irridendo alla meritata sensibilità politica dei nostri avi e rovesciando la libertà e l’indipendenza degli istituti parlamentari, apre la via della rovina alla Patria. Orbene, noi crediamo che per ricostruire questa Patria occorra riattivare l’antica onestà politica e riportare gli istituti parlamentari più che mai aperti ed accessibili ad ogni lavoratore e ad ogni cittadino volenteroso e capace, allo splendore e alla trasparenza di un tempo.

Invero: la migliore tutela degli interessi del popolo scaturisce, naturale e insostituibile, dalla legittima concorrenza esistente fra una maggioranza interessata a bene amministrare per conservarsi il favore popolare, ed una minoranza interessata a rilevare ogni suo errore ed inadempienza allo scopo di carpirle detto favore e sostituirsi ad essa.

L’istituto parlamentare, rispondendo alla doppia funzione di tutelare l’affermazione ed il Governo della maggioranza e l’azione dei diritti delle minoranze, è la sola forma che renda possibile lo svolgimento regolare, nell’interesse del popolo, di questo perenne antagonismo, di questo leale conflitto, di questo giuoco di prestazioni e di controlli.

Perciò, se Repubblica deve significare «Governo di popolo», e quindi, «Governo creato e costituito nell’interesse del popolo», noi abbiamo ragione e diritto di esigere che si specifichi chiaramente e fin dal principio della legge costituzionale che è la democrazia parlamentare, quella che darà forma e vita alla Repubblica italiana. Non è la protezione della maggioranza quella che preoccupa: una maggioranza, se veramente omogenea e concorde (e se non lo è, non è maggioranza), sa tutelarsi da sé.

È la protezione delle minoranze quella che interessa ed è di questo che noi dobbiamo principalmente preoccuparci, affrontando chiaramente e tempestivamente il problema e ricordando la tattica dei comunisti, che guardano alla democrazia come ad un mezzo di conquista e non come ad un fine da conquistare.

Noi, qualunquisti, non possiamo dimenticare che nel discorso pubblicato nell’Unità del 12 gennaio, l’onorevole Togliatti ha dichiarato che democrazia per i comunisti più che tranquillo ed autorevole Governo parlamentare, significa: attività delle masse, delle classi popolari e del popolo ad opera di elementi di avanguardia organizzati dal partito di avanguardia della classe operaia!

Con questo genere di democrazia, attivissima ed organizzata, si giunge precipitosamente a trasferire le decisioni, delle libere e serene discussioni del Parlamento, alla corale proclamazione dei sì e dei no, delle adunate obbligatorie e oceaniche.

La differenza fra noi ed i comunisti, nei riguardi dell’istituto democratico, è nel fatto che noi vogliamo basarli, consolidarli e garantirli, questi istituti, per poterli pensare eterni e sicuri, mentre, ad essi, basta crearli ed utilizzarli per quel tanto che serve ai loro fini e non più.

Oggi, come minoranza, anche essi hanno tutto l’interesse di appoggiare ed approvare la nostra democrazia, che alla loro minoranza apre e garantisce tutte le porte, tutto il rispetto e tutte le libertà, e rende possibile la partecipazione al potere ed ogni legittima forma di propaganda e di consolidamento.

Domani, ligi alle teorie marxiste e al loro credo politico, con ragionamenti democraticamente progressivi o progressivamente democratici, potrebbero denunciare la inutilità della permanenza dell’istituto parlamentare, divenuto non producente per essi, e sopprimere, di conseguenza, ogni forma legale di opposizione e di controllo.

L’onorevole Togliatti, nel suo ultimo discorso ci ha preannunciato l’avvento al potere di una nuova classe dirigente.

Non abbiamo nulla in contrario, perché sappiamo che queste sostituzioni sono nelle regole del giuoco democratico, ma crediamo di avere il diritto di sorvegliare ed esigere che l’avvento e la successiva permanenza al potere di questa nuova classe si svolga col pieno e costante rispetto delle formule della democrazia parlamentare e sotto la tutela dell’articolo 50, che riconosce al cittadino il diritto e il dovere di insorgere contro coloro che limitano la sua libertà e i diritti garantitegli dalla Costituzione.

«Il problema della Costituzione è questo: bisogna che quanto è accaduto una volta non possa ripetersi più; il Paese non deve essere più in balìa dei gruppi che dominano, perché detengono i mezzi di produzione, ha dichiarato l’onorevole Togliatti, «ecco perché», ha aggiunto: «si deve formulare una Costituzione antifascista». Anche qui d’accordo; siamo qui per aiutarlo, ma vogliamo ricordargli che il miglior modo di fare una Costituzione antifascista è quello di fare una Costituzione veramente democratica, anche se questa è, anche e inevitabilmente, una Costituzione anticomunista. Costituzione democratica e antifascista significa necessariamente libertà di pensiero, di parola, di stampa, libertà di riunione e di associazione; rispetto assoluto e indiscusso dei diritti delle minoranze che devono sempre conservare il diritto legale di opporsi alla maggioranza e di fare tutto quanto è legalmente possibile per divenire, a loro volta, maggioranza e prendere il potere. Se su questo siete d’accordo, se potete garantirci che alle riforme per il benessere sociale, che prospettate ai lavoratori, intendete giungere attraverso le tranquille vie della democrazia e della giustizia piena ed eguale per tutti, realizzate da uomini competenti ed onesti, noi siamo qui, decisi a non procurarvi il benché minimo intralcio, disposti a collaborare e anche a scomparire, perché, come già è stato autorevolmente dichiarato da questo settore, nessuno più di noi ha a cuore la sorte futura e i legittimi miglioramenti dei lavoratori italiani, nessuno più di noi mira a risolvere la questione sociale raggiungendo una più equa distribuzione dei beni concessi da Dio, nessuno più di noi, al di sopra dei propri interessi e della propria persona, pone l’interesse e l’amore per la Patria e per il popolo. Ma, per queste stesse ragioni, nessuno più di noi combatterà strenuamente ogni qualvolta ci sembrerà che, con la violenza e con l’astuzia, voi cercherete di silurare ogni inizio di ripresa, di fiducia e di calma e indebolire l’integrità e l’efficienza delle forme e delle manifestazioni democratiche che sono e rimangono, per noi e per tutti, la sola e naturale difesa della nostra riconquistata dignità di uomini liberi.

È stato dichiarato che la sconfitta è un disastro dovuto alla politica di una determinata classe dirigente che, per egoismo, avrebbe portato il Paese verso la tragedia e il fallimento, di una classe dirigente che non ha saputo vedere e provvedere, anche quando vedere e provvedere doveva. Ora a me sembra che questa classe dirigente che ha fallito, non può essere identificata, come l’onorevole Togliatti fa, con la borghesia, la quale fu sempre considerata da Mussolini come una classe diversa e avversa alla classe dirigente fascista.

La verità è che si pensa e si tenta di sostituire la classe dirigente borghese, che ha fatto l’Italia e che, nella ultima guerra, nonostante la follia del capo e dei gerarchi e la carenza di mezzi e risorse, ha saputo per tre anni resistere ai più potenti imperi del mondo, dichiarandola espressione egoistica del capitalismo privato, e ci si preoccupa di sostituirla, in un momento così difficile, con una classe nuova, senza precedenti e senza esperienza, che non è rappresentata da lavoratori, ma da altri borghesi decisi a sfruttare, nel nome dei lavoratori, un capitalismo mostruoso, cento volte più egoista e cento volte più incontrollabile del capitalismo privato: il capitalismo di Stato!

Nella relazione che accompagna il progetto di Costituzione, il Presidente della Commissione dichiara che molti avrebbero desiderato di definire, subito e all’inizio del progetto, l’Italia «Repubblica di lavoratori», e che a tanto si è rinunziato soltanto per non creare parallelismi con altre Costituzioni che hanno forme di economia diverse da quella italiana. A me non sembra che ci sia una gran differenza tra il definire l’Italia, a similitudine della Repubblica sovietica, «Repubblica di lavoratori» come si sarebbe voluto fare, o definirla: «Repubblica che ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese», come si è fatto nel primo articolo delle disposizioni generali. Questa definizione premessa a quella della sovranità popolare, quasi si tratti di affermazione che presista e superi i poteri di questa stessa sovranità (che, pure, è la base naturale di ogni democrazia), a me sembra ispirata da equivoche formalità demagogiche ed in evidente contradizione con la precedente affermazione di democraticità della Repubblica, la quale importa e comporta la completa eguaglianza di tutti i cittadini nel diritto di partecipare alla direzione della cosa pubblica.

È di suprema utilità ed interesse specificare esattamente ed individuare, fin dal principio, la portata e la finalità delle affermazioni di questo progetto di Costituzione, ad evitare l’impostazione ufficiale di piani inclinati, che ignoriamo (o, meglio, non ignoriamo) a che cosa potrebbero condurci.

È noto che i testi marxisti e i partiti e le masse marxiste danno alla parola «lavoro» e «lavoratori» un significato molto più stretto e limitato di quello comune del vocabolario. La dizione, dunque, può prestarsi a doppie ed ambigue interpretazioni che, in una legge costituzionale, vanno evitate senza altro.

Gli italiani sono, per definizione tradizionale: «lavoratori»; tutta la loro storia è frutto delle loro braccia e del loro ingegno; tutta la loro terra ed infinite altre terre sono intrise del sudore della loro fronte; tutto il progresso della umanità, in ogni campo e in ogni settore, è legato al lavoro italiano.

Se per «lavoro», come è stato già detto qui dentro, deve intendersi e non può non intendersi, al disopra di ogni accezione di lavoro manuale, ogni azione ed ogni attività intese a procurare col braccio e con la mente un guadagno o una soddisfazione all’individuo ed un contributo materiale, intellettuale e morale alla vita comune, io mi domando: chi è che non lavora in Italia? Tutti lavorano in Italia, o, meglio, tutti aspirano a lavorare, e, forse, il lavoro più degno è quello di coloro che si affaticano a creare ed ampliare ogni attività di lavoro per gli altri, e il più commovente è quello di tanti che lavorano disperatamente a cercare un lavoro, che per tutti non c’è.

Se dunque il lavoro, inteso nel senso ampio e lato di questa nobile parola, è già base e fondamento, e anzi la sola base e la sola speranza della vita italiana; e se la percentuale di quelli che vogliono non lavorare in Italia e che possono permettersi il lusso di avere questa volontà, ammesso che ve ne siano, è talmente irrisoria e trascurabile da non poter formare oggetto di particolari provvedimenti e individuazioni in tema di legge costituzionale, perché dare proprio all’inizio della nostra Costituzione la sensazione di un possibile conflitto e in ogni caso di una differenziazione fra popolo e lavoratori, quando, come già è stato detto, il popolo italiano è un popolo di lavoratori?

A conti fatti, se porre alla base della Costituzione la santità e la indispensabilità del lavoro, unica speranza e unica sostanza di vita per la Repubblica, è doverosamente sacro, la proclamazione di una non identificata classe di lavoratori, privilegiata nei confronti del laborioso popolo italiano, non ha e non può avere che uno scopo demagogico ed elettorale, quello di giocare sull’equivoco e di permettere a qualcuno di dire, basandosi sulla assonanza di nomi fatti – repubblica di lavoratori, partito di lavoratori, camera dei lavoratori: – «Ecco abbiamo già riservato i posti; di qui e solamente di qui si passa in base alla nuova Costituzione; solamente di qui si entra per partecipare alla organizzazione e alla vita del Paese !». (Commenti).

Dopo avere, e giustamente, affermato che il lavoro è il fondamento della Repubblica, più serio e più onesto sarebbe stato di preoccuparsi del problema di procurare il lavoro ai lavoratori italiani, anziché di quello, tanto più facile, di assicurare loro la partecipazione politica, che non potrebbe mai loro mancare in una repubblica ordinata democraticamente e secondo i principî della sovranità popolare.

A me sembra che, dopo aver proclamato la necessità del lavoro, unica e vera fonte della rinascita della Patria, troppo nel progetto in esame e con troppa sorprendente facilità si parla di assegnazioni di lavoro, di possibilità di lavoro, di beneficî derivanti da una sempre più diffusa attività di lavoro, dimenticando che l’impiego di tutte le braccia e di tutti gli intelletti disponibili rimane per tutti i paesi in genere, e per il nostro in ispecie, il problema dei problemi.

Dopo le fandonie del fascismo, i cittadini hanno sete di sincerità ed è obbligo della democrazia, e quindi obbligo nostro, di rispondere a questa precipua e legittima esigenza.

Le manovre equivoche continuano. Durante le ultime elezioni fu affermata e diffusa una falsità: la Costituente vi darà pane e lavoro. Nelle prossime si darà vita ad una altra: la Costituzione ha assicurato a tutti il lavoro.

Non è giusto; consci della nostra responsabilità nei confronti del popolo, e assolutamente indifferenti alle sorti dei prossimi ludi elettorali, noi desideriamo che la Costituzione non rappresenti un inganno per nessuno e che i cittadini sappiano che tutti i provvedimenti derivanti dal lavoro italiano, privo di materie prime, sono e rimangono intimamente connessi e legati alla realizzazione di una sempre più vasta collaborazione economica internazionale. Come nell’articolo 4 di queste disposizioni generali è sancito e praticamente dichiarato che l’Italia, più che sulla forza delle sue armi, che non ha e che non può avere, conta, per i problemi della difesa e delle aggressioni, sull’esistenza di un’organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia ai popoli, così, anche per quanto riguarda i problemi del lavoro, occorrerebbe dichiarare in questa Costituzione, che il popolo italiano, per sodisfare le sue sempre crescenti necessità di lavoro, conta sul progressivo incremento di una collaborazione internazionale che renda possibile, nel nome di una superiore giustizia, lo scambio di materie prime con prodotti finiti.

Nessuno Stato, per quanto ricco e attrezzato, può infatti illudersi di vivere rinchiuso in se stesso, separato dalla comunità internazionale. Le follie dell’autarchia ci fanno oggi sorridere.

Mettere il lavoro quale fondamento della nuova Repubblica, va bene; ma le fondamenta, per rispondere alle funzioni di sostegno, debbono a loro volta essere ben poggiate e basate e non è possibile non domandarsi su che cosa poggeremo noi questo «lavoro fondamento» che figura garantito a tutti i cittadini e sul quale ci affrettiamo ad imporre tutto l’edificio della nuova Repubblica. Il problema del lavoro, considerato soltanto come problema di carattere interno e nazionale, è del tutto irreale e insolubile, e malamente è stato posto a perno principale dell’organizzazione costituzionale.

L’onorevole Nenni dichiarò giorni or sono che bisognava esaminare, e che avrebbe esaminato, il progetto di Costituzione, ponendosi da un punto di vista che chiamò: lo spiritò del 2 giugno.

È perfettamente giusto. Ma quello che non riesco a comprendere è come, e per quale errore di prospettiva, egli riesca, dal suo punto di vista, a vedere, breve e vicina come una scorciatoia, la strada dei suoi sogni, quella che dal Governo conduce al potere, al suo potere, naturalmente.

E poiché egli vi ha fatto richiamo, voglio anch’io guardare un po’, dal mio punto di vista, allo spirito del 2 giugno.

PRESIDENTE. Onorevole Rodinò, non dimentichi che l’onorevole Nenni ha detto queste cose in tema di discussione generale: lei invece parla ora in sede del 1° titolo e deve mantenersi all’argomento relativo al primo titolo.

RODINÒ MARIO. Certo l’obiettivo immediato cui occorreva mirare in quella epoca era quello di dar vita ad una Costituzione che, senza subire il riflesso e l’influenza di alcuna ideologia e di alcun interesse di parte, riuscisse ad individuare, con equilibrio, i limiti e le forme entro cui avrebbe poi dovuto evolversi la vita politica, economica e sociale del Paese; ma, per ottenere a tanto, la compilazione di questa suprema nostra legge regolatrice avrebbe dovuto affidarsi soltanto ad uomini capaci di guardare al compito come ad un problema tecnico, al pari di cultori di sport incaricati di predisporre le misure del campo e le regole del giuoco in cui altri dovranno impegnarsi.

Invece, al 2 giugno, per arrivare all’individuazione e alla scelta degli uomini destinati a compilare la Costituzione che avrebbe dovuto porsi al disopra delle passioni politiche ci si è affidati, addirittura, alle passioni politiche stesse!

È quindi naturale che il progetto risenta di questo fondamentale errore di procedura ed è inevitabile che esso rispecchi, allo stato, e che continuerà inevitabilmente a rispecchiare dopo le discussioni e le decisioni dell’Assemblea, non una cooperazione disinteressata ed omogenea, ma le tendenze politiche e le passioni, contrastanti ed opposte, che albergavano al 2 giugno nell’animo degli elettori italiani. A me non meraviglia, dunque, che il progetto sia il riflesso di una situazione politica, e, quindi, inevitabilmente, di un equilibrio e di un compromesso, ma meraviglia che questo equilibrio e questo compromesso non siano quelli che, in base allo spirito del 2 giugno, richiamato dall’onorevole Nenni, gli elettori avevano ragione e diritto di attendersi.

Il popolo il 2 giugno, nonostante venti anni di schiavitù…

PRESIDENTE. Permetta, onorevole Rodinò, veramente mi pare che lei stia sviando. Guai se ricominciamo a parlare in forma generale dello spirito che informa la Costituzione.

RODINÒ MARIO. Ma bisogna parlare dello spirito, oltre che dei fatti.

PRESIDENTE. Se lei parla dello spirito del 1° titolo sì; ma lei, mi pare, sta parlando dello spirito della Costituzione.

RODINÒ MARIO. Rientrerò subito in argomento. Il popolo al 2 giugno, nonostante venti anni di schiavitù e di disabitudine al voto, ha, di fronte alle elezioni per la Costituente, bandite in funzione dei simboli dei partiti politici, sentito e compreso subito, e con squisita sensibilità politica, che cosa gli chiedeva la scheda. Ha capito e sentito che, più che le leggi e le norme atte a stabilire l’orientamento politico del Paese, era l’orientamento stesso che si andava a decidere con quelle elezioni e, pertanto, ha sentito che la questione più scottante, il dilemma più urgente da risolvere era uno e uno solo: «L’Italia deve o non deve andare verso il comunismo?» Ed è su questo punto che il popolo il 2 giugno si è nella sua grandissima maggioranza pronunziato, votando, sostanzialmente ed unicamente: «pro» o «contro» il comunismo. (Commenti a sinistra). La divisione risulta chiara e nettissima: i «pro» sono tutti i voti assegnati alla lista ufficiale comunista, i «contro», invece, sono andati divisi fra tutti gli altri partiti, compreso quello socialista, perché molti hanno votato socialista ritenendo, allora, che una soluzione socialista di carattere intermedio avrebbe ostacolato l’avvento di un comunismo integrale, meglio che non una maggiore affermazione dei democristiani, dichiaratisi durante le elezioni nettamente anticomunisti, o dei qualunquisti, ancora più chiaramente e impegnativamente pronunziatisi in funzione anticomunista.

Io, personalmente, ho votato per la monarchia, per intimo sentimento di simpatia, ma ritengo che alcuni dei milioni di voti che si sono raccolti sul segno monarchico, più che a personale attaccamento per la forma monarchica e per la casa Savoia, sono da attribuirsi alla diffusa convinzione che la presenza del re avrebbe costituito un decisivo baluardo fra la nazione e il comunismo. Il popolo italiano non si è confuso il 2 giugno e, sentendo tutta la portata politica del voto cui era chiamato, ha, nonostante gli equivoci della propaganda, chiaramente e democraticamente dimostrato di desiderare in grandissima maggioranza una Costituzione ispirata a principî cattolici e di carattere liberistico; certamente, non comunista. È una Costituzione di questo genere che noi abbiamo il dovere di dargli.

Il popolo ha sentito il 2 giugno che, oggi, non vi sono che due isole idee politiche e, cioè, quella liberale e quella totalitaria nettamente diverse e contrastanti. La ipotesi di poter continuare, in seguito a un compromesso tra l’onorevole De Gasperi e l’onorevole Togliatti, ad essere governati da una soluzione intermedia che concili aspirazioni e precetti dell’una tendenza con norme e principî dell’altra è assolutamente puerile e inattiva, e tutta la politica italiana di questi ultimi tre anni lo dimostra…

Non siamo noi soltanto, è tutto l’orbe terracqueo che si trova oggi a dover rispondere a questo interrogativo formidabile, a questa questione, basilare ed improrogabile per tutte le politiche di tutti i paesi che non sono i tre grandi. Gli ultimi avvenimenti internazionali aggravano la posizione. In ogni animo di uomo e nella intera umanità vive una stessa attesa, una eguale incertezza.

Tra la economia liberale che basa la sua esistenza sulla attività di quei gruppi di privati cittadini – che preoccupano così gravemente le sinistre – e la economia totalitaria, che si basa su di un capitalismo unico di Stato – che, per tante varie e fondate ragioni, preoccupa così vivamente noi – occorrerà pure orientarsi e decidersi.

Posto di fronte alla propria responsabilità, il popolo, al 2 giugno, ha votato, ed un chiaro indiscutibile schieramento si è formato in Italia, individuando rapporti di valore e di forze fino allora non misurati. Un equivalente schieramento avrebbe dovuto ripetersi in questa Assemblea per dar vita a una Costituzione di equivalente carattere; ma il compromesso governativo, giustificato inizialmente dalla necessità di provvisoriamente e transattivamente governare in attesa della nuova Costituzione e delle nuove elezioni, attacca ed inficia anche gli orientamenti relativi alle norme costituzionali e minaccia di porre a base della vita nazionale, e per molti decenni, il frutto di un ulteriore e ben più grave compromesso politico.

Non è questo che la democrazia ha diritto di attendersi da coloro che da tutti i balconi e su tutte le piazze hanno fatto appello al suo nome. Essa, la vera democrazia, autentica e unica, esige che i rappresentanti del popolo mantengano fede alle assicurazioni e alle promesse in base alle quali sono stati eletti e continuino ad affrontare e combattere in sede parlamentare gli avversari individuati e denunziati nei comizi; essa vuole che i partiti, ad elezioni avvenute, sostengano e difendano a tutti i costi la pienezza e la integrità delle loro idee basilari e del loro credo politico, senza scendere a patteggiamenti e transazioni con gli avversari che più fieramente hanno combattuto ed in odio e dispregio dei quali hanno ricevuto il mandato elettorale.

Io credo che la massima parte degli elettori ha dato, il 2 giugno, il voto al partito prescelto per renderlo più forte e più idoneo a sostenere e difendere a viso aperto i suoi ideali ed il suo programma e non per permettergli di stringere accordi con i suoi più naturali avversari.

Gli articoli di queste disposizioni generali, gli ultimi, dei titoli seguenti, tutto l’insieme del progetto sono evidente frutto di transazioni. Essi non risultano animati da un unico spirito, da una stessa volontà. Non si sente in essi la guida di un pensiero decisamente orientato che leghi e colleghi idea ad idea e criterio a criterio. Ogni articolo non è l’espressione decisa di un concetto integro e organico e tradisce il lavoro di lima e la dosatura artificiale delle transazioni, sofisticazioni e modifiche cui è stato sottoposto durante la ricerca del punto di accordo.

Ora, a causa della importanza di ognuna di queste singole disposizioni, in nome di quel rispetto della personalità umana a cui fa richiamo l’articolo 6, io mi auguro che ogni partito senta la doverosa opportunità di abbandonare di fronte alla Costituzione le catene di impegni che vanno da una Segreteria all’altra, le votazioni patteggiate e scontate in anticipo, i do ut des, le soluzioni transattive e intermedie, per permettere ad ogni eletto dal popolo di prendere liberamente, di fronte a ogni principio, ad ogni articolo della legge costituzionale, la posizione dettatagli dalla sua personale convinzione e coscienza. Aggiungo che mi sembra logica e democratica la proposta di aggiungere fra le primissime disposizioni generali (a meno che non si ritenga più opportuno di porla fra le finali), una dichiarazione che subordini la definitiva approvazione della Costituzione, che questa Assemblea voterà, al risultato di un referendum popolare.

Nell’articolo 72 del progetto è prevista l’approvazione di leggi normali in base a referendum popolare. Nell’articolo 130 è previsto che, su richiesta di un solo quinto dei membri di una delle Camere, dovrà essere sottoposta a referendum popolare ogni legge di revisione costituzionale. L’articolo 1, nella prima parte dell’ultimo periodo, stabilisce: che la sovranità emana dal popolo, ma, nella seconda, immediatamente seguente, elude subito questa sovranità, assegnandole i limiti di una legge generale, sulla quale il popolo non ha avuto e non avrà, se si rifiuta la mia proposta, possibilità di direttamente e chiaramente esprimersi. Questi brevi rilievi mi sembra siano sufficienti a dare fondamento alla proposta stessa, che non è solo di chiara ispirazione democratica, ma è anche, dal punto pratico, di facile attuazione, dato che il referendum popolare potrebbe, con grande semplicità, e limitatissimo aggravio di spesa, rimanere abbinato alle operazioni di voto delle prossime elezioni politiche. Altro punto da rilevare è quello che la Costituzione, intorno a cui stiamo lavorando, è la prima Costituzione emanata da un Paese che (uscendo da un regime totalitario ed uscendone nelle condizioni in cui ci troviamo) si trova in grado di utilizzare una propria esperienza in materia.

Mi sembra, quindi, opportunissimo stabilire e ricordare chiaramente all’inizio di questa Costituzione, in un preambolo o in una disposizione generale (allo scopo di dare una impostazione base ed una finalità inequivocabile a tutto il testo del progetto) che la nostra esperienza – un’esperienza che ci è costata lacrime e sangue, la morte dei figli e la distruzione del Paese – ci insegna che è lo Stato accentratore e totalitario il principale nemico di quella autonomia e dignità della persona umana, che l’articolo 6 intende proteggere e custodire; è lo Stato accentratore e totalitario che va individuato e combattuto in tutte quelle manovre e quei metodi che gli italiani di oggi conoscono e riconoscono, ma, che quelli di domani potrebbero ignorare.

Ed è proprio in base alla nostra passata esperienza ed ai nostri ricordi totalitari che mi dichiaro nettamente ostile alla dizione dell’articolo 7 delle disposizioni generali, là dove esso assegna alla Repubblica il compito quanto mai imprecisato, elastico ed equivoco di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’uguaglianza degli individui, ecc.».

Questa equivoca dizione con la scusa di tendere ad una sempre maggiore uguaglianza sociale e di favorire lo sviluppo della persona umana, autorizza di fatto lo Stato a compiti ed azioni di così vasta e complessa portata, che potrebbero essere realizzati soltanto da uno Stato non meno autoritario e non meno totalitario di quello che è alla base di tutte le nostre sventure.

Ora, quello che noi desideriamo dalla Costituzione, e che la Costituzione è necessario che ci dia, è un complesso di norme generiche che garantiscano a tutti i cittadini di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale a cui essi appartengano la sicurezza dei diritti e l’esercizio della libertà.

E questa garanzia ci occorre principalissimamente contro lo Stato. La sicurezza e la difesa della personalità e indipendenza del cittadino affidate alla discrezione dello Stato non ci ispirano alcuna fiducia, perché crediamo che il nuovo Stato italiano, o qualunque altro, non agiranno mai nei confronti dei cittadini con modi e spirito sostanzialmente diversi da quelli con cui agirono, agiscono ed agiranno tutti gli Stati che, autorizzati ad esorbitare dalle semplici funzioni amministrative, hanno, con tutto il loro complesso di uffici e di personale, un solo principalissimo obiettivo, che supera di gran lunga qualsiasi preoccupazione di salvaguardare l’autonomia e la dignità dei cittadini: quello di comandare il Paese e i cittadini nel modo più sicuro e più spiccio, e di continuare a comandarli anche quando non ci sono più le iniziali approvazioni e consensi.

In dipendenza di tutte queste gravi e concrete preoccupazioni, l’amico onorevole Coppa ed io abbiamo presentato il seguente emendamento all’articolo 1°:

«Lo Stato italiano ha ordinamento repubblicano, democratico, parlamentare, antitotalitario.

«Suo fondamento è l’unità nazionale; sua meta la giustizia sociale; sua norma la libertà nella solidarietà umana».

Onorevoli colleghi, è inoppugnabile che in regime di vera democrazia tutto va disposto in riconoscimento e conformità del sentimento e dell’interesse della maggioranza del popolo.

Ora, se vi è un principio veramente popolare in Italia, se esiste in Italia un sentimento realmente comune e realmente diffuso nelle categorie e nelle masse, questo sentimento è quello della fede cattolica.

Questa indiscutibile verità dovrebbe, a mio parere, essere affermata all’inizio dell’articolo 5, perché è il riconoscimento di questo stato di fatto che dà sostanza, ragione e giustifica a tutto l’articolo.

Pertanto, anche qui, d’accordo con il collega e amico Coppa, ho presentato il seguente emendamento:

«Far precedere alla dizione dell’articolo 5 come riportata nel testo del progetto la seguente dichiarazione: «La religione cattolica è la religione professata dalla enorme maggioranza del popolo italiano».

Un emendamento del genere dovrebbe essere accettato, se si pensa che, in luogo della semplice affermazione storica proposta, lo Statuto Albertino, compilato in periodo di intense correnti ed attività anticlericali, e quando ancora le masse cattoliche non partecipavano ufficialmente alla vita pubblica italiana, riconosceva tale verità con una asserzione molto più esplicita e molto più impegnativa.

Un emendamento del genere dovrebbe venire approvato come espressione della gratitudine che non può legare il popolo italiano al Sommo Pontefice ed alla Chiesa cattolica, che tanti ulteriori dolori e lutti hanno risparmiato, all’Italia in genere ed a Roma in ispecie, tutti, nell’ora del pericolo, accomunando e tutti sorreggendo senza distinzione di fede e di parte, nobili interpreti di quel comando divino che in ogni umano ci addita un fratello.

Un emendamento del genere dovrebbe senz’altro essere approvato, in omaggio a quello spirito del 2 giugno a cui dianzi ho fatto richiamo, in quanto che uomini e partiti vorranno ricordare di aver tutti, nella propaganda elettorale, ostentato e garantito al popolo: ossequio e riconoscimento per fa sua Chiesa e per la sua fede. Oggi è giunta l’ora di provare la sincerità delle loro promesse.

Dalla dichiarazione, oggetto dell’emendamento proposto, dovrebbe, a mio parere, anche scaturire una migliore impostazione dell’articolo 14, per il quale l’affermata e legittima libertà di culto e di propaganda, riconosciuta ad ogni fede religiosa, dovrebbe trovare un limite non solo, come già stabilito, nelle esigenze dell’ordine pubblico e del buon costume, ma anche nella opportunità di evitare manifestazioni offensive per la religione cattolica e, di conseguenza, per la enorme maggioranza dei cittadini.

Sulla opportunità e convenienza di mantenere integri e vivi i patti in corso tra il Vaticano e l’Italia tutti, o per lo meno la gran maggioranza, si sono, qui dentro, pronunziati favorevolmente, e la questione controversa rimane solo se debba o meno la continuità dei Patti in corso essere garantita dalla Costituzione.

Si obietta dagli oppositori che nulla può esserci di comune tra la Costituzione di uno Stato e un trattato intercedente tra Stato e Stato. Si aggiunge ancora: che la sovranità dello Stato italiano rimarrebbe diminuita dalla impossibilità in cui verrebbe a trovarsi di poter denunciare il trattato senza prima provvedere a modificare la propria Costituzione e che ciò è tanto più rilevante in quanto ché la Santa Sede nulla aggiunge, in contraccambio della nuova garanzia italiana, agli impegni già assunti colla firma apposta al trattato. Si considera, in ultimo, vano ed antigiuridico, nei confronti del trattato, un impegno di carattere unilaterale.

Io sono un tecnico e non ho, naturalmente, la preparazione giuridica necessaria e neppure ho qui testi e volumi per discutere argomenti del genere; ma, così, a lume di candela, da uomo qualunque, ritengo che la inclusione dei patti italo-vaticani nella Costituzione italiana non deve e non vuole avere nessun riflesso nei riguardi dell’altro contraente e che, neppure, vuole avere lo scopo di influire sulla portata del Trattato, già vivo ed operante da tempo, indipendentemente dall’interessamento di questa Assemblea. L’inclusione dei Patti nella Costituzione, che dobbiamo deliberare, significa solo e unicamente che il nuovo Stato italiano, appunto perché il Trattato è sanamente vivo ed utilmente operante, deve, di fronte al popolo, che desidera dare al Trattato la massima stabilità e garantirlo da ogni improvvisa iniziativa di sconsiderati, impegnarsi a mai denunziarlo di propria iniziativa; rimanendo ogni eventuale decisione del genere subordinata alle procedure ed approvazioni richieste per le variazioni delle norme costituzionali.

Questo accordo interno, intercedente tra i componenti di quella collettività che rappresenta una delle parti contraenti, non ha e non può avere alcuna ripercussione giuridica nei confronti dei terzi. È il rappresentante legale di una famiglia che assume, nei riguardi dei componenti della famiglia stessa, impegno ufficiale di non denunciare, senza prima consultarli, la continuità di un contratto, che la famiglia, parte contraente, considera utile e gradito per i suoi interessi ed i suoi sentimenti.

Perché, con l’affermazione che è antigiuridico e non producente nei confronti dei terzi, rifiutarsi di ratificare un accordo intento a garantire uno dei maggiori beni dell’uomo: la tranquillità familiare? Un accordo che può portare e che porterà un essenziale contributo a quella pace e quella tranquillità di cui la grande famiglia italiana ha tanto bisogno?!

Pace fondata sulla concordanza per ogni coscienza e per ogni cuore dei doveri di cattolico con quelli di italiano.

Pace religiosa e cattolica da utilizzare per trasfondere nei rapporti cittadini quello spirito di fratellanza e di comprensione in cui, solo, è la soluzione e la chiave degli umani problemi.

Voglia Iddio che questa nostra nuova Repubblica senta la effettiva, imprescindibile necessità di adoperarsi per il raggiungimento di questa comprensione e di questa concordia.

Voglia Iddio che la nuova Repubblica senta che non è continuando con leggi ingiuste e partigiane a dividere gli italiani in fascisti e antifascisti, repubblicani e monarchici, settentrionali e terroni, che si ricostruisce la Patria! Voglia Iddio che la nuova Repubblica senta, come è necessario, come è indispensabile, che essa si avvicini, comprensiva e materna, al cuore di tutti i suoi figli e tutti li rinserri in un unico abbraccio, guidata da una sola finalità, nobile e grande: quella di cementare la fusione e di preparare, nella concordia e nella pace, il nuovo avvenire del popolo italiano. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bassano. Ne ha facoltà.

BASSANO. Onorevoli colleghi, a me capita oggi un duplice infortunio: di parlare a conclusione di una discussione alla quale hanno partecipato gli uomini più eminenti di questa Assemblea, e di essere stato quasi immediatamente preceduto, in una questione di ordine giuridico, da un giurista insigne quale l’onorevole Calamandrei, il quale oggi non è stato inferiore alla sua fama. Mi consenta, onorevole Presidente, non solo di attenermi al tema specifico che devo svolgere, ma di far anche alcune considerazioni di ordine generale.

PRESIDENTE. L’importante è che non oltrepassi la mezz’ora concessa con le sole considerazioni generali.

BASSANO. Io le prometto che parlerò forse anche meno di mezz’ora.

PRESIDENTE. La segnalerò allora per imitazione all’onorevole Rodinò. (Si ride).

BASSANO. Onorevoli colleghi, questa discussione, come è stato constatato da molti oratori che mi hanno preceduto, è stata, fin dalle sue prime battute, caratterizzata dalle critiche che quasi tutti i componenti della Commissione dei Settantacinque hanno rivolto al progetto di Costituzione alla cui redazione avevano partecipato. Prova, o meglio, conferma evidente di quello spirito di compromesso che aveva preso il sopravvento e che ognuno è venuto qui a denunziare nella parte in cui il compromesso non gli è stato favorevole. A questo forse – e senza forse – ha contribuito il modo stesso di formazione della Commissione, che sarebbe stato bene non costituire con criterio rigidamente politico e proporzionalistico, bensì chiamando a farne parte, insieme ai rappresentanti dei partiti e dei gruppi politici, gli uomini più eminenti per preparazione tecnica, per autorità, e, diciamolo pure, per obiettività. Non si sarebbe così verificato l’inconveniente, che è stato da alcuni lamentato, di non aver chiamato a far parte della Commissione uomini politici dell’autorità dell’onorevole Orlando, dell’onorevole Nitti, dell’onorevole Bonomi, il primo dei quali poi, per unanime riconoscimento, è il più eminente dei nostri costituzionalisti, e non ne sarebbe venuto fuori, come opportunamente ha rilevato l’onorevole Calamandrei, un progetto di Costituzione tripartitico come il Governo.

Se ad un compromesso, o ad una serie di compromessi politici fosse stato veramente necessario addivenire, ebbene questo compito doveva essere riservato all’Assemblea, non alla Commissione, la quale avrebbe dovuto esclusivamente preoccuparsi di sottoporci un progetto di Costituzione il più possibile obiettivo dal punto di vista politico ed il più perfetto possibile dal punto di vista tecnico.

Le posizioni, pertanto, si rovesciano e compito dell’Assemblea diventa ora quello di sventare i tanti compromessi e dare alla nuova Costituzione quel carattere di norma regolamentare della vita politica del Paese nel presente ed in un prossimo avvenire, che però lasci aperto l’adito a quelle nuove norme che l’evoluzione dei tempi potrà consigliare al legislatore di domani. Nel progetto di Costituzione che è sottoposto al nostro esame balza invece evidente il contrasto tra alcune norme di non immediata attuazione e di semplice orientamento per il futuro e altre norme invece con le quali a questo futuro si vorrebbe sbarrare il passo con formule che si propongono di incapsulare e rendere definitivo il presente.

Esempio tipico, vorrei dire prodotto tipico di questo insieme di errori, è l’articolo 5 del progetto di Costituzione, che vorrebbe regolare i rapporti tra lo Stato e la Chiesa cattolica e riesce, invece, ad assommare in pochi periodi tutta una serie di errori e di assurdi, giuridici e politici.

Il desiderio di rendere definitivo il presente, ed una eccessiva quanto infondata preoccupazione di pericoli per il domani, hanno fatto perdere alla Commissione l’esatta visione del problema, sotto il profilo giuridico, e non le hanno fatto tenere in giusta considerazione quelli che sono e sono sempre stati al riguardo i reali sentimenti del popolo italiano. I quali del resto, se dovessero per avventura mutare, non sarebbe certo possibile ostacolare od arginare con una norma costituzionale, che potrà valere solo fino a quando la volontà del popolo vorrà che duri.

Si è parlato molto, onorevoli colleghi, forse troppo, durante questa discussione, di pace religiosa. Se ne è parlato, dico, troppo, in quanto parlare di pace presuppone una guerra che l’ha preceduta, mentre questa guerra religiosa in Italia non v’è mai stata; nessuno l’ha mai voluta e, soggiungo, nessuno avrebbe potuto volerla, dati i sentimenti in grande prevalenza cattolici del popolo italiano.

Se un dissenso, o contrasto che dir si voglia, vi è stato tra lo Stato e la Chiesa cattolica, questo contrasto è stato di natura esclusivamente politica, non di natura religiosa; la cosiddetta questione romana altro non è stato che una questione politica, determinata, per giunta, da uno stato di necessità, cioè dalla impossibilità, per l’Italia, di unificarsi senza Roma. È quindi ad un contrasto politico, non ad una guerra religiosa che han posto fine i cosiddetti Patti lateranensi. I quali, anzi, stanno a rappresentare, più che altro, la sanzione di uno stato giuridico e di fatto, che lo Stato italiano aveva inteso mettere in essere sin dal 1871, con quel monumento di sapienza giuridica e politica che fu la legge delle guarentigie.

Come al riguardo ha acutamente osservato in un suo notevole scritto l’onorevole Vittorio Emanuele Orlando, «il regime creato dagli Accordi del febbraio del 1929 non solo non si pone, come volgarmente si crede, in forma di negazione e di antitesi verso il regime instaurato dopo il 20 settembre 1870, e di cui l’espressione più alta e più caratteristica è la cosiddetta legge delle guarentigie, ma di questo regime è la continuazione. Continuazione, beninteso, attraverso un ulteriore stato di sviluppo, ma pur sempre come una derivazione logica e naturale dello stato precedente»…

Gli accordi del 1929 – ha detto sempre l’onorevole Orlando – stanno alla legge del 1871 come una accettazione sta ad una proposta. Poco monta – ha soggiunto l’insigne giurista – che questa accettazione sia seguita dopo circa un sessantennio e, come era da prevedersi, a condizioni più favorevoli per l’altro contraente.

Ora, se di tutto questo, onorevoli colleghi, avessero tenuto conto gli eminenti colleghi che hanno fatto parte della Commissione, essi avrebbero riconosciuto l’infondatezza di certe preoccupazioni che hanno condotto alla formulazione di un articolo che rappresenta una vera offesa alle nostre tradizioni giuridiche ed un autentico assurdo dal punto di vista politico.

Perché, infatti, dire, come dice la prima parte dell’articolo 5, «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»?

A parte quello che con tanta acutezza ci ha detto, non oggi, ma nel suo precedente discorso, l’onorevole Calamandrei, e che salta agli occhi non solo di un giurista insigne quale egli è, ma di un qualsiasi modestissimo cultore di studi giuridici, cioè che la Costituzione essendo non un dialogo, bensì un monologo, lo Stato vi parla in prima persona e quindi non si comprende come vi possa inserire il riconoscimento della propria sovranità da parte della Chiesa cattolica, la quale poi, si noti, non è parte nella Costituzione, e quindi lo Stato italiano non è autorizzato a parlare in suo nome; a parte ciò, che è di tutta evidenza, quale ragione, se anche la Chiesa cattolica fosse – mentre non è – parte nella Costituzione, avrebbe lo Stato italiano per far riconoscere dalla Chiesa la propria sovranità, quando questa sovranità rappresenta il presupposto stesso dell’opera costituzionale che noi stiamo svolgendo in questa Assemblea?

Quale bisogno, a sua volta, avrebbe la Chiesa cattolica di far riconoscere dallo Stato italiano la propria sovranità spirituale, quando questo riconoscimento, nel campo determinato dalla sua natura e dalle sue finalità, le viene dal diritto internazionale? Ed è proprio in questi precisi termini che il riconoscimento della sovranità spirituale della Chiesa cattolica è espresso nell’articolo 2 del Trattato del Laterano: «L’Italia riconosce la sovranità della Santa Sede nel campo internazionale, come attributo inerente alla sua natura, in conformità alla sua tradizione ed alle esigenze della sua missione nel mondo».

E allora, onorevoli colleghi, dobbiamo forse dire che i giuristi che assistettero Mussolini nella redazione dei Patti lateranensi seppero far meglio della nostra Commissione costituzionale?

Pur trattandosi allora di un Trattato, quindi di un accordo bilaterale e non di un monologo, l’Italia non sentì il bisogno di chiedere alla Chiesa cattolica il riconoscimento della propria sovranità, così come la Chiesa cattolica non sentì il bisogno di richiedere allo Stato italiano il riconoscimento della propria sovranità nel campo internazionale in termini diversi da quelli fissati dal diritto internazionale.

Del resto, onorevoli colleghi, se questo riconoscimento della sovranità spirituale della Santa Sede si riscontra in modo esplicito nell’articolo 2 del Trattato del Laterano, esso lo si riscontrava già, in modo implicito, ma non meno chiaro, per la Santa Sede come per il suo Capo, nella legge delle guarentigie. L’articolo 1 di quella legge, che considera la persona del Sommo Pontefice alla stessa stregua in cui l’articolo 4 dello Statuto albertino considerava la persona del Re. «La persona del Re è sacra ed inviolabile», diceva l’articolo 4 dello Statuto albertino; «La persona del Sommo Pontefice è sacra e inviolabile», dice l’articolo 1 della legge delle guarentigie; l’articolo 3; gli articoli 6, 7, 8 e 9, che stanno a dimostrare come lo Stato italiano mettesse un limite alla propria sovranità di fronte a quella spirituale della Santa Sede; l’articolo 11, che riconosceva agli inviati dei Governi esteri presso Sua Santità ed a quelli di Sua Santità presso i Governi esteri le prerogative ed immunità che spettano agli agenti diplomatici secondo il diritto internazionale; l’articolo 12, che riconosce al Sommo Pontefice il diritto di corrispondere liberamente con l’Episcopato e con tutto il mondo cattolico, senza veruna ingerenza del Governo italiano, e fissa le norme perché questo diritto possa liberamente esplicarsi; sono queste tutte disposizioni che stanno a dimostrare come lo Stato italiano non abbia mai voluto, non diciamo disconoscere, ma neppure mettere in dubbio la sovranità spirituale della Santa Sede, e come sin da allora abbia considerato chiuso ogni suo contrasto con Essa nel campo politico. Parlare quindi di pace religiosa, quando non vi è mai stata una guerra religiosa, e quando allo stesso contrasto politico il popolo italiano volle immediatamente metter fine, costituisce un vero non senso.

Si abbandoni, quindi, la terminologia, errata sotto il profilo politico non meno che sotto quello giuridico, «lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani», e se si vuole, nella nuova Costituzione, inserire l’esplicito riconoscimento della sovranità spirituale della Chiesa Cattolica, lo si inserisca nella forma stessa in cui già tale sovranità l’Italia ebbe a riconoscere nel trattato del Laterano, cioè nei termini stessi fissati dal diritto internazionale.

Questo, onorevoli colleghi, per quel che riguarda il primo comma dell’articolo 5.

Circa il secondo comma, circa, cioè, i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica, nessuno qui dentro – lo hanno detto uomini di tutti i partiti – pensa di voler mettere nel nulla i Patti lateranensi, per quanto si sia generalmente riconosciuto che essi, in molte parti, contrastano con le norme contenute nel progetto di Costituzione; per esempio – come ha già osservato l’onorevole Calamandrei – con le norme concernenti la libertà di insegnamento e con quelle per cui il cittadino non può essere distolto dai suoi giudici naturali.

Da questo, però, a stabilire in modo inderogabile che i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati dai Patti lateranensi, ci corre. A parte, infatti, che si verrebbe così a sanzionare senz’altro quella rilevata contradizione, ed a parte che a questo impegno di immutabilità da parte dello Stato italiano non corrisponderebbe e non potrebbe corrispondere, per la rilevata natura della Costituzione, un eguale impegno da parte della Chiesa cattolica; a parte ciò, sarebbe veramente strano che un Trattato – qualunque esso sia – divenisse parte integrante della Costituzione.

L’onorevole Ruini, che è troppo fine giurista per non comprendere l’importanza della obiezione, ha tentato nella sua relazione di giustificarlo con la opportunità che i Patti lateranensi entrino a far parte dell’ordinamento giuridico italiano. Ma, onorevole Ruini, quei Patti fanno già parte del nostro diritto pubblico interno, per essersi loro data esecuzione con una legge, la legge 27 maggio 1929, n. 810. Non vi è quindi bisogno di richiamarsi ad essi, a tale scopo, nella Costituzione, e nessuna ragione vi è, meno quella di mettere, inconsciamente, lo Stato italiano in una vera e propria condizione di inferiorità di fronte alla Chiesa cattolica, per dire che i rapporti fra Chiesa e Stato sono regolati dai Patti lateranensi. Condizione di inferiorità che – come ha già rilevato l’onorevole Calamandrei – viene ribadita ed aggravata dalla seconda parte del comma, là dove dice che qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale. Il che è tanto più grave quando si consideri che la necessità, o quanto meno la opportunità di modificare almeno alcune clausole del Concordato, è stata lealmente riconosciuta anche da eminenti colleghi della democrazia cristiana.

L’onorevole Jacini, ad esempio (l’ho rilevato dal resoconto sommario del suo lucido quanto elevato discorso), ha detto appunto che il Concordato contiene delle norme e delle clausole che possono essere senz’altro rivedute, come quelle che impongono il giuramento ai vescovi e quelle che regolano il matrimonio religioso. Non sembra allora strano che si voglia dare carattere di immutabilità ai Patti lateranensi nel momento stesso in cui da tutti si riconosce che, almeno parzialmente, dovrebbero essere modificati?

Tutto questo peraltro non significa che non si possa, nella Costituzione, affermare il principio che i rapporti tra lo Stato e la Chiesa continueranno ad essere regolati da patti che siano da considerare parte integrante del nostro diritto pubblico interno. Basterà all’uopo dire (ed in questo potremmo essere tutti d’accordo) che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica continueranno ad essere regolati da patti «concordatari». Si verrà, così, a riaffermare la volontà dello Stato italiano di continuare nello stesso regolamento di rapporti con la Santa Sede, senza però creare una condizione di disparità, la quale, in prosieguo di tempo, potrebbe nuocere piuttosto che giovare alla normalità di tali rapporti.

Non credo di dovere aggiungere altro. Prendendo la parola su questo scottante argomento, io mi sono proposto unicamente di dimostrare come, mettendosi da un punto di vista obiettivo ed ispirandosi a considerazioni di carattere strettamente giuridico, si possa giungere ad una formula che non sia di compromesso deteriore, ma che, conciliando tutte le tendenze ed unendoci tutti, esprima il sentimento unanime del popolo italiano e valga a dimostrare come si possa, al tempo stesso, essere buoni cattolici e buoni italiani. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue, nell’ordine di iscrizione degli oratori, l’onorevole Einaudi; ma, data la sua assenza, ritengo che abbia rinunciato alla parola, poiché egli era presente in Aula fino a pochi momenti fa.

Dovranno ancora parlare un relatore di maggioranza, l’onorevole Dossetti, ed un relatore di minoranza, l’onorevole Cevolotto.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 15.

La seduta termina alle 19.35.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.