Come nasce la Costituzione

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LUNEDÌ 13 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

17.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 13 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Suprema Corte costituzionale (Discussione)

Presidente – Bozzi – Uberti – Cappi – Ambrosini – Di Giovanni – Mannironi – Bulloni – Ravagnan – Farini – Laconi.

La seduta comincia alle 16.

Discussione sulla Suprema Corte costituzionale.

PRESIDENTE mette in discussione il tema della Suprema Corte costituzionale.

Fa rilevare in proposito che, secondo il progetto Calamandrei, a tale organo potrebbe essere deferito il giudizio sulla incostituzionalità di leggi e di decreti, mentre secondo altre proposte gli sarebbe solamente riconosciuta la facoltà di esame di singoli atti e provvedimenti e non il sindacato su leggi e decreti. Altri, infine, vorrebbero attribuirgli anche la risoluzione di conflitti tra Stato e Regioni.

È necessario, quindi, a suo avviso, arrivare innanzi tutto a un’intesa sugli scopi e sulle funzioni di questo nuovo organo.

BOZZI, senza esprimere per ora la sua personale opinione, indica i punti sui quali ritiene che dovrebbe svolgersi la discussione sulla Corte costituzionale:

1°) Decidere innanzi tutto se il nuovo organo debba o no essere costituito. Si sostiene, infatti, da taluno che le sue particolari funzioni di controllo potrebbero essere affidate alla Magistratura; oppure, che le eventuali incostituzionalità di provvedimenti legislativi potrebbero essere segnalate al Parlamento per la revoca.

2°) Stabilire quali debbano esserne le funzioni e quale l’efficacia delle decisioni; se, cioè, queste debbano limitarsi alla disapplicazione della norma al caso concreto o si estendano all’annullamento della norma stessa «erga omnes»; e se si debba delineare un procedimento in via incidentale unitamente a quello in via principale.

3°) Fissarne i rapporti con le Camere. Il Parlamento è l’autore della legge, e sarebbe, quindi, soggetto al controllo della Corte; onde si può domandare se è veramente necessario stabilire la soggezione incondizionata del Parlamento alla Corte o se, prima della pronuncia di annullamento di una legge, il Parlamento debba essere sentito.

4°) Decidere quali debbano essere gli attori nel procedimento davanti alla Corte: se possa essere qualsiasi cittadino (una specie di azione popolare), ovvero se debba essere un organo od ente legittimato ad agire.

5°) Stabilirne infine la composizione: se, cioè, debba essere organo politico od organo esclusivamente tecnico, oppure misto.

UBERTI ritiene che la competenza della Suprema Corte debba essere molto limitata, affinché non ne sia snaturata l’essenza. Se il suo compito sarà, infatti, quello di giudicare della costituzionalità (garanzia per il cittadino che tutti gli organi dello Stato agiscano in armonia con la Carta costituzionale), è necessario limitarne la sfera d’azione. L’efficacia del suo intervento dovrebbe realizzarsi, quindi, più che attraverso la molteplicità delle decisioni, attraverso la remora che deriva dalla possibilità di ricorso al suo intervento, in quanto è evidente che la preoccupazione che una legge possa essere annullata per incostituzionalità, tratterrà i competenti organi dall’emanare disposizioni che non siano in armonia con la Costituzione.

Non ritiene ammissibile che spetti a Parlamento giudicare della incostituzionalità di una legge, in quanto con ciò esso verrebbe a controllare se stesso. Con una Costituzione rigida, come quella che si sta preparando, si dovrà necessariamente creare un organo superiore che decida sui casi di incostituzionalità; ma tale organo dovrà avere carattere giurisdizionale, più che politico. Non gli sembra tuttavia opportuno farne una sezione della Corte di cassazione – cioè un elemento del potere giudiziario ordinario – ma pensa che si debba creare un organo più alto, che abbia tale prestigio per cui tutti gli altri organi, i partiti politici ed i cittadini si sentano subordinati alle sue deliberazioni. La Suprema Corte dovrà, quindi, ispirare la massima fiducia ed essere composta di funzionari di altissimo valore, posti in posizione di assoluta indipendenza e muniti di tutte le necessarie garanzie.

PRESIDENTE pensa che la composizione della Suprema Corte potrebbe essere la seguente: un Presidente e un Vice Presidente nominati dall’Assemblea Nazionale, e due membri effettivi e due supplenti nominati rispettivamente dalla Camera, dal Senato, dalla Corte di cassazione, dal Consiglio di Stato. La Corte dovrebbe durare in carica dieci anni ed avere a sua disposizione le Forze armate dello Stato, per l’eventualità, sia pure deprecabile, che i supremi organi dello Stato venissero meno ai loro doveri.

BOZZI ritiene che la questione della istituzione della Suprema Corte costituzionale sia legata al principio se la Costituzione debba essere rigida o no. È evidente, infatti, che la necessità della sua esistenza si manifesta con un sistema di Costituzione rigida, in quanto ivi l’ordinamento giuridico presenta una gerarchia di norme, al vertice delle quali starebbero le leggi costituzionali. Esamina, quindi, il sindacato che dovrebbe esercitare la Suprema Corte, mettendo in evidenza come il controllo costituzionale abbia due aspetti: uno estrinseco, che è sempre esistito, consistente nel considerare la formazione della legge solo da un punto di vista formale (approvazione da parte delle Camere, sanzione e promulgazione), ed uno intrinseco, che può investire un problema di merito, cioè politico. In altri termini, la Suprema Corte potrebbe esaminare se una legge sia o meno rispondente ai principî generali che nella nuova Carta costituzionale figureranno in misura notevole nella parte generale o nel cosidetto preambolo.

Osserva inoltre che questo problema ha immediata ripercussione sulla composizione dell’organo, in quanto questo, se fosse esclusivamente tecnico-giuridico, difficilmente potrebbe avere la necessaria sensibilità politica.

CAPPI ritiene necessaria l’istituzione della Corte Suprema costituzionale per le considerazioni svolte dall’onorevole Bozzi, ossia per la necessità di una valutazione politica delle leggi che valga a temperare la rigidità della Costituzione. La Suprema Corte, portando il suo esame sull’aderenza delle leggi alle norme generali della Costituzione, assumerà, in un certo senso, la funzione della giurisprudenza, la quale adegua, attraverso l’interpretazione, la norma legislativa all’evoluzione della coscienza sociale del Paese in un determinato momento. Dovrà, quindi, trattarsi di un organo politico, oltre che tecnico.

Conclude, dichiarando che lo schema proposto dall’onorevole Calamandrei gli sembra degno di considerazione.

AMBROSINI rileva che, se si vuole che siano sindacate le leggi emanate dal Parlamento, è necessario che il giudice sia investito di tutti i poteri di controllo, onde il suo giudizio si estenda alla corrispondenza della legge ai principî generali fissati dalla Costituzione. L’essenza della Costituzione rigida sta appunto nel principio fondamentale che il legislatore ordinario non possa dipartirsi dalle norme e dai principî in essa fissati. Ciò corrisponde ad un’esigenza logica, che dà naturalmente all’organo che deve decidere in proposito un grande potere. Negli Stati Uniti, dove vige questo sistema, il potere del supremo organo giudiziario, della Corte Suprema, è tale che diversi scrittori qualificano il regime politico ivi vigente, non tanto come regime presidenziale, quanto come regime del Governo dei giudici. Difatti, in caso di contestazione della costituzionalità delle leggi o degli atti del potere esecutivo, l’ultima parola spetta sempre alla Suprema Corte. Ad essa devono sottomettersi tutti gli organi costituzionali dello Stato, tanto dei singoli Stati quanto della Confederazione.

Riferendosi all’idea espressa dal Presidente che anche le Forze armate vengano messe a disposizione della Suprema Corte, riesamina la natura ed il modo di esercizio dei poteri di una simile Corte, ed osserva che in questo campo non si sono purtroppo avuti confortanti risultati in Europa nel passato dopo-guerra. Ricorda gli esempi della Spagna, della Cecoslovacchia e specie della Germania di Weimar. Tali istituti hanno bisogno, per funzionare, di poggiare ed essere sostenuti dalla vigile e decisa aderenza della coscienza popolare; più che sulle Forze armate, il deliberato della Suprema Corte deve basarsi sulla volontà di tutto il popolo, altrimenti si entra nel giuoco delle forze politiche instabili, e si rischia di instaurare un organo condannato a non funzionare o ad essere in balìa dei partiti, e quindi, a dissolversi. Il problema va riguardato non solo dal punto di vista teorico, ma soprattutto in relazione alla situazione politica esistente ed alla psicologia del paese. L’esempio degli Stati Uniti è il più illustre: la Corte Suprema della Costituzione del 1777 è l’organo che ha funzionato ininterrottamente dalla sua fondazione e che è stato sempre circondato da un indiscusso prestigio. Richiamandone la storia, mette in rilievo come tale istituto venne svolgendosi attraverso la prassi, e specialmente per l’impronta datagli dal suo grande Presidente, Marshall, che fu a capo della Corte Suprema per 30 anni e che riuscì ad affermare il principio del supremo sindacato della Corte di fronte a tutta la vita degli Stati Uniti.

Mostra la difficoltà di creare in Europa, ed anche in Italia, un organo consimile; ma rileva d’altra parte che è necessario ricorrere a tale sistema, se si adotta il principio della Costituzione rigida. Presa questa decisione, bisogna fare in modo che il congegno funzioni nel modo migliore con la creazione di una Corte dotata della massima indipendenza.

Invita, quindi, i colleghi ad esaminare a fondo l’argomento nella sua interezza, prima di arrivare ad una decisione che in realtà è molto grave, perché si tratta dell’instaurazione di un organo che è chiamato, per assolvere la sua funzione, a sindacare il potere legislativo ordinario.

DI GIOVANNI è d’opinione che si debba costituire la Corte costituzionale, naturalmente circondandola di tutte le garanzie e del più assoluto prestigio, anche in considerazione del sorgere dell’ente Regione e della conseguente necessità di risolvere i conflitti che potrebbero nascere tra Regione e Stato e fra le Regioni stesse.

AMBROSINI ricorda che, sugli eventuali conflitti tra Stato e Regione, in sede di seconda Sottocommissione sono stati studiati i mezzi per eliminarne o ridurne al minimo le cause, e si è pensato ad un sistema per il quale tali conflitti dovrebbero essere decisi dal Parlamento. Ritiene, quindi, che prima di affrontare l’argomento si debba decidere se sia il caso di mutare il sistema proposto.

UBERTI ricorda che, tuttavia, per il lato formale, è ammesso il ricorso alla Corte Suprema.

AMBROSINI risponde che la innovazione vera e propria si riferisce alla sostanza della disposizione legislativa, dato che il conflitto formale di pura competenza può essere sempre rilevato dal Magistrato ordinario. Vige oggi, infatti, il principio che qualsiasi Magistrato può decidere della costituzionalità o meno della legge e, ove non si devolvesse tale potere ad un organo speciale, esso potrebbe essere conservato alla Magistratura. La ragione di prevedere una norma specifica sorge nel caso di conflitto sul merito o di contrasti di interesse tra Stato e Regione, e soprattutto nel caso di leggi regionali che, pur rientrando nei limiti della competenza stabiliti dalla Costituzione, interferiscano nel merito sull’interesse di altre Regioni o della Nazione. Su tale questione sarebbe necessario fare una valutazione di merito, la quale, secondo la maggioranza dei componenti la seconda Sottocommissione, dovrebbe essere affidata al Parlamento.

MANNIRONI è convinto non solo della utilità, ma della necessità della istituzione di una Suprema Corte costituzionale, anche in considerazione del fatto che, come non può esservi legge senza sanzione o senza organo che la faccia rispettare, così la Costituzione non potrebbe essere validamente instaurata, se non vi fosse anche l’organo che la difendesse e la tutelasse da possibili insidie e dalle violazioni in cui potrebbe incappare il legislatore ordinario.

Rileva che la seconda Sottocommissione è partita, nel prendere le sue decisioni, dal presupposto che l’Alta Corte costituzionale debba essere istituita, in quanto è stata prevista, non solo la possibilità di conflitti tra Stato e Regione, ma anche la possibilità che una legge regionale violi la Costituzione o che una legge nazionale la violi a danno della Regione. Da ciò si è giunti a riconoscere la necessità di un organo superiore che possa ristabilire l’ordine costituzionale violato.

Ritiene, quindi, che si debba innanzi tutto stabilire se tale organo debba essere tecnico, politico o misto. A suo avviso, esso dovrebbe essere tecnico-politico con funzione altamente giurisdizionale, nel senso che dovrebbe avere il potere di emanare giudizi e sentenze che gli altri organi dello Stato sarebbero obbligati a rispettare. Quando la Costituzione si rivelasse, a un dato momento, inadeguata alle mutate esigenze di tempi nuovi, si potrà ricorrere alla revisione della Costituzione. Ma, finché questa sussiste, e non è modificata nei modi previsti, occorre assicurarne e garantirne il rispetto, per le stesse ragioni per cui la Costituzione è stata voluta ed attuata.

BULLONI è contrario all’istituzione di una Suprema Corte costituzionale, e rileva che se l’orientamento della Commissione tende ad una Costituzione di tipo rigido, non modificabile se non con una procedura straordinaria, il procedimento per la formazione delle leggi è però circondato da tali garanzie, che appare un’aberrazione il pensare che il Parlamento possa violare i principî costituzionali.

Pensa, quindi, che la Corte costituzionale, se anche fosse istituita, non avrebbe mai ragione di esser chiamata a decidere, e che, d’altronde, sarebbe assurdo che un organo a carattere tecnico o tecnico-politico, ma non emanante dal popolo, controllasse leggi formulate dagli organi che sono espressione della volontà popolare. La Corte, al massimo, potrebbe essere creata per giudicare della costituzionalità delle leggi regionali e per dirimere gli eventuali conflitti fra le Regioni e lo Stato.

RAVAGNAN ritiene che, prima di decidere se il progettato organo debba essere o no istituito e quali eventualmente debbano esserne le funzioni e la competenza, sia necessario tener presente la realtà politica del Paese e considerare il contenuto da dare alla democrazia italiana. Se si pensa, infatti, che nella Costituzione dovranno essere contemplate, ad esempio, varie forme di proprietà (privata, statale, ecc.), è da prevedere che la maggioranza dei voti andrà, alle elezioni, a quei partiti che comprenderanno nel loro programma profonde riforme della struttura economica del Paese; e di conseguenza si avrà un Parlamento configurato in modo che le leggi da esso approvate incideranno sulla proprietà privata e forse, in determinati settori, la modificheranno. In tali condizioni, se un qualsiasi cittadino, appartenente alla opposizione, potesse mettere in moto il meccanismo della Corte costituzionale, come viene proposto, tutta quest’attività legislativa riformatrice sarebbe paralizzata, in quanto un organo porrebbe sotto tutela tutti gli altri, pur senza trarre il suo potere dalla volontà della maggioranza. A suo avviso, è, quindi, inaccettabile una Corte Costituzionale del tipo che si propone, ma è necessario piuttosto creare un organismo veramente pratico, in grado di seriamente funzionare, senza correre il rischio di provocare conflitti irresolubili in forma legale nel Paese.

AMBROSINI chiarisce che, a suo avviso, la ragion d’essere di una Corte costituzionale consisterebbe soltanto nella possibilità di dar vita ad un organismo simile a quello esistente negli Stati Uniti, il quale, ai tempi della presidenza Roosevelt, invalidò la politica del «New Deal» e i codici del lavoro adottati dal Congresso, senza con ciò determinare alcuna reazione popolare. Ove non si concedessero tali attribuzioni sovrane alla Corte, essa non avrebbe ragione di esistere, in quanto il suo fine sta nel sindacare le leggi del legislatore ordinario per stabilire se rispondano o meno ai principî costituzionali.

BOZZI ritiene che occorra anzitutto discutere sul principio se la Costituzione debba essere a carattere rigido o flessibile. Fa notare tuttavia che, creando una Costituzione a carattere rigido, si porrebbero dei limiti alla futura legislazione.

UBERTI, riferendosi alla situazione in cui attualmente ci si trova, osserva che, se si fosse trattato di legiferare in via normale e puramente ordinaria, non sarebbe stato necessario creare un’Assemblea costituente. Un normale Parlamento, che avesse tutt’al più sostituito il Senato di nomina regia con una seconda Camera, sarebbe stato sufficiente. Si voleva invece una nuova Costituzione, e nel progetto che si sta elaborando si sono fissati dei principî giuridici fondamentali valevoli nel settore economico-sociale. Taluno aveva proposto di inserirli nel preambolo; ma a ciò altri si opposero, sostenendo che non si dovevano legare le mani al futuro legislatore, il quale avrà invece la possibilità di sviluppare e potenziare quei principî secondo la volontà popolare espressa dai costituenti. Se in un domani, anche lontano, la situazione politica italiana sarà così mutata da rendersi necessario un cambiamento della Carta costituzionale, il popolo sarà nuovamente chiamato, attraverso una nuova Costituente, a modificarla.

All’osservazione dell’onorevole Bulloni sull’impossibilità di istituire un organo superiore alle due Camere, che verrebbe ad essere, quindi, superiore alla volontà popolare, risponde che il carattere della Costituzione è quello di un patto fondamentale che determina i limiti dei poteri del futuro legislatore; quindi, la volontà popolare non è limitata dalla creazione dell’Alta Corte costituzionale, in quanto è stata posta a fondamento della Costituzione e potrà pur sempre modificarla con le forme e nei modi previsti. La Suprema Corte costituzionale non dovrà essere, quindi, una espressione della volontà popolare, ma semplicemente un organo di garanzia del rispetto di quella volontà.

FARINI ritiene che la Corte costituzionale debba essere l’espressione della volontà e degli interessi delle classi popolari e, pertanto, se i suoi componenti fossero nominati dall’alto, essi sarebbero avulsi dall’anima popolare. Non pensa che ci si debba richiamare a Costituzioni straniere, come quella americana, le quali, se hanno rappresentato un passo avanti nello sviluppo della democrazia, sono ancora indietro rispetto al tipo di democrazia che si vuole oggi realizzare, cioè quella popolare. Pensa, quindi, che debba senz’altro essere respinta l’idea di realizzare un organo superiore che controlli la legalità della legge: compito che, se mai, potrebbe essere riservato al Parlamento.

CAPPI chiede che cosa accadrebbe domani, se sorgesse un Parlamento fascista.

FARINI ritiene impossibile l’ipotesi.

LACONI, dopo aver espresso il suo compiacimento per la discussione svoltasi in modo libero, senza che i singoli partiti abbiano presa netta posizione sulla questione, dichiara di essere rimasto colpito dall’osservazione che nella Costituzione che si sta elaborando figurano norme a carattere indicativo, cioè di orientamento per il futuro legislatore. Sorge di qui il problema di stabilire a chi spetti il compito di controllare l’esatta applicazione di questi principî.

A suo avviso, sarebbe assurdo delegare il controllo della costituzionalità delle leggi, che saranno domani elaborate dal legislatore ordinario, ad un consesso privo di investitura popolare, quale si vorrebbe fosse la Corte costituzionale. Pensa, tuttavia, che occorra creare delle garanzie: e dovrebbe essere compito delle Camere di emanare quest’organo di garanzia. Altra cosa è un organismo come la Corte costituzionale esistente negli Stati Uniti, investito di un prestigio che si fonda sul consenso popolare e sulla tradizione americana. Se domani la democrazia italiana fosse rovesciata da moti di piazza, nessun intervento salvatore potrebbe esservi da parte di una Corte costituzionale.

La seduta termina alle 17.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Cappi, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Erano assenti: Calamandrei, Castiglia, Leone Giovanni, Porzio.

 

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 13 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

14.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 13 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione).

Presidente – Nobile – Einaudi – Zuccarini – La Rocca, Relatore – Perassi – Lami starnuti – Piccioni – Fabbri – Tosato, Relatore – Mortati – Fuschini.

La seduta comincia alle 17.50.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 14, proposto dal Comitato di redazione:

«Il Presidente della Repubblica può convocare le Camere e, sentito il parere dei loro Presidenti, può scioglierle».

Osserva che si tratta in sostanza dello scioglimento anticipato delle Camere, e comunica che sull’argomento l’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento aggiuntivo:

«Se nel corso di un medesimo periodo di dieci mesi abbiano avuto luogo due crisi ministeriali in seguito a voto di sfiducia dell’Assemblea Nazionale o di una delle due Camere, queste potranno essere sciolte con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei Ministri.

«In nessun altro caso le Camere potranno venire sciolte prima del termine normale della legislatura».

NOBILE fa presente che il sistema da lui proposto è adottato nella Costituzione francese e presenta innegabili vantaggi, perché mira ad eliminare le possibilità di atti arbitrari da parte del potere esecutivo nell’esercizio del diritto di sciogliere il Parlamento, ed insieme a porre una remora alle crisi ministeriali. Quando il Parlamento ha già rovesciato una prima volta il Governo, sarà più cauto prima di rovesciarlo una seconda volta. D’altra parte, se la Camera è convinta della ragionevolezza del suo atteggiamento, provocherà il proprio scioglimento e le nuove elezioni risolveranno il conflitto.

PRESIDENTE spiega che lo scopo della proposta dell’onorevole Nobile è di creare una remora più di interesse che di valore politico alla provocazione di crisi ministeriali, poiché in genere tutti i corpi costituiti hanno una certa repulsione a determinare il proprio scioglimento.

EINAUDI osserva che si può verificare il caso che le Camere non votino una mozione di sfiducia per non essere sciolte, ma facciano in modo di lasciar cadere i disegni di legge che il Governo presenta.

NOBILE ricorda che il Governo può sempre porre su un disegno di legge la questione di fiducia.

PRESIDENTE si richiama all’articolo già approvato che regola i rapporti tra Governo e Parlamento in materia di votazione, e fa presente che il Governo in qualsiasi momento può chiedere che sia posta la questione di fiducia. L’ipotesi fatta dall’onorevole Einaudi trova la sua soluzione in una mozione di fiducia presentata dal Governo. È difficile che, di fronte ad una mozione di fiducia motivata, una Camera che abbia assunto una posizione ostile nei confronti del Governo, voti favorevolmente.

EINAUDI osserva che non è da escludere che una Camera, la quale dimostri la sua opposizione al Governo, rifiutando sistematicamente i disegni di legge da lui presentati, voti poi la fiducia al Governo stesso motivando la sua opposizione ai progetti governativi con motivi di carattere tecnico e non politico.

NOBILE ricorda che, ove il Governo ponga la questione di fiducia e la Camera determini di conseguenza la crisi ministeriale, si rientra nel caso contemplato nella sua proposta.

EINAUDI osserva che funzione principale del Presidente della Repubblica deve essere quella di interpretare le correnti politiche esistenti nel Paese che non hanno trovato, per una qualunque ragione, il modo di manifestarsi nel Parlamento. Può darsi che Parlamento e Governo procedano d’accordo, ma nel Paese si sia determinata una situazione e si sia diffuso uno stato di malcontento per cui il Parlamento non risponda più alla volontà popolare. In questi casi il Capo dello Stato non avrebbe alcuna possibilità di intervento riguardo alle proposte che sono state presentate. Il Capo dello Stato non può e non deve intervenire né sul potere legislativo né sul potere esecutivo, ma deve poter sempre richiedere che il Paese sia chiamato a manifestare il proprio punto di vista. Non è opportuno togliere al Capo dello Stato questa facoltà. Del resto una ipotesi del genere non potrà verificarsi che rarissimamente.

PRESIDENTE osserva che spesso in Italia il Capo dello Stato si è servito della sua facoltà di sciogliere la Camera. Sono rare le legislature che hanno concluso la loro vita nei termini stabiliti.

ZUCCARINI rileva che, se è giustificata la preoccupazione di mantenere una certa stabilità di Governo, non si deve tuttavia per questa preoccupazione creare un sistema per cui il Governo diventi praticamente arbitro del Parlamento. La minaccia di nuove elezioni esercita una vera pressione sui componenti delle Camere. È opportuno che il Governo eserciti questa pressione? La regola dovrebbe essere che le Camere non possano essere sciolte, salvo casi espressamente contemplati, ed egli è del parere che tra questi casi non vi debba essere quello della frequenza di crisi ministeriali.

Osserva che nell’attuale periodo politico, quanto mai instabile, le crisi governative si presentano con una rapidità molto maggiore di quella contemplata nella proposta dell’onorevole Nobile. Se questa proposta fosse accettata, si cadrebbe nell’esagerazione opposta: e se si arrivasse ad ottenere che nel nuovo sistema parlamentare le crisi avvenissero due volte in 18 mesi, la situazione sarebbe già molto migliorata.

PERASSI non ritiene che si possa parlare di arbitrio da parte del Presidente della Repubblica, poiché si presuppone che egli eserciti i suoi poteri non con criteri personali, ma in considerazione del pubblico interesse. Fa presente che nel testo proposto dal Comitato vi è già una limitazione alla facoltà di sciogliere il Parlamento, poiché vi si dice che il Presidente della Repubblica deve sentire il parere dei Presidenti delle Camere, e in più è sempre sottinteso il concorso del Governo, perché non può il decreto del Presidente della Repubblica essere emanato, se non in conseguenza di una deliberazione del Consiglio dei Ministri.

Rileva inoltre che nella formula proposta dall’onorevole Nobile non è tenuta presente l’ipotesi di una Camera invecchiata dopo quattro anni di legislatura, che non risponda più alla situazione del Paese, ma nella quale non sussistano le condizioni previste dalla proposta Nobile per il suo scioglimento. Cosicché si renderebbe impossibile uno scioglimento che potrebbe essere richiesto dal Paese e desiderato dalla Camera stessa.

Ritiene pertanto che, se mai, un limite potrebbe essere messo in senso opposto, formulandolo nel modo seguente:

«Le Camere non possono essere sciolte, se non dopo due anni dalle elezioni».

ZUCCARINI insiste sulla necessità di porre dei limiti alla facoltà del Presidente della Repubblica di sciogliere il Parlamento, perché si può dare anche il caso di un Presidente della Repubblica che pensi di valersi di nuove elezioni per rafforzare la propria posizione personale. Ricorda in proposito l’episodio di Napoleone III, quand’era Presidente della Repubblica, ed osserva che dare al Presidente della Repubblica una indiscriminata facoltà di sciogliere la Camera potrebbe equivalere a mettere nelle sue mani un’arma per un colpo di Stato.

EINAUDI fa presente che, secondo il progetto di Costituzione che si sta apprestando, il Presidente della Repubblica non può sciogliere le Camere che su proposta del Presidente del Consiglio.

ZUCCARINI obietta che, entro certi limiti, si dovrebbe ammettere l’iniziativa del Presidente della Repubblica, mentre è inammissibile che l’iniziativa debba partire dal Capo del Governo. Il potere esecutivo deve sempre sentirsi come espressione della rappresentanza popolare e non come padrone del Parlamento.

LA ROCCA, Relatore, osserva che la questione in esame merita uno studio approfondito. Mentre da qualcuno si può pensare che il Presidente della Repubblica, nel sistema che si sta costruendo, non abbia alcun potere, in realtà egli ha nelle mani un’arma che, secondo la lettera dell’articolo 14, può essere da lui adoperata a sua discrezione, poiché il fatto di udire i Presidenti delle Camere è una pura formalità, non essendo il loro parere vincolante secondo il testo proposto.

EINAUDI rileva che vi è anche il vincolo del parere conforme del Presidente del Consiglio.

LA ROCCA, Relatore, replica che praticamente il Presidente della Repubblica può convocare le Camere e, sentito il parere del loro Presidente, può scioglierle. L’onorevole Perassi ha espresso sull’argomento una sua opinione personale, che non ha valore d’interpretazione ufficiale.

PERASSI ricorda che tra gli articoli approvati ve n’è uno il quale stabilisce che ogni atto del Presidente della Repubblica deve essere controfirmato dal Primo Ministro.

LA ROCCA, Relatore, ritiene che non si possa ammettere che il Presidente della Repubblica abbia facoltà di sciogliere le Camere anche contro il parere dei loro Presidenti, e che sia quindi necessario stabilire che tale parere è vincolante.

Lo scioglimento del Parlamento può essere richiesto quando in un dato momento della vita politica si ritenga che vi sia una frattura tra Parlamento e Paese, o quando sia sorto uno stato di conflitto tra potere esecutivo e potere legislativo. Ma il ricorso a questa estrema misura dovrebbe essere meglio adeguato alla reale situazione italiana, adottando la norma sancita dalla Costituzione francese che dà alle Camere il diritto di autosciogliersi.

Ritiene che questo sia il terreno più adatto sul quale avviarsi per trovare una soluzione del problema. La prassi politica inglese, tanto spesso invocata, non si addice all’Italia per le diverse condizioni storiche in cui essa si è formata, e per la diversità del costume politico dei due Paesi. Il Paese che dal punto di vista parlamentare più rassomiglia all’Italia e sul quale ci si è più spesso praticamente modellati, è la Francia e nessun Paese è stato più della Francia travagliato da quelle crisi di Governo che tutti sono ansiosi di evitare. Il problema è proprio quello di dare stabilità al Governo e di impedire che assalti alla diligenza governativa possano essere sferrati da parte di una minoranza faziosa. Se un Paese come la Francia, dopo aver discusso per circa tre anni intorno a questo problema, ha finito per riconoscere che in fondo questo è il correttivo migliore, è certo che avrà preso la sua deliberazione con spirito di saggezza e di previdenza.

La facoltà delle Camere di autosciogliersi e lo scioglimento automatico, qualora si verifichino determinate situazioni, risolverebbero tutte le ipotesi, esclusa quella di un conflitto tra Parlamento e Paese e metterebbero il Parlamento di fronte alle proprie responsabilità. Riservando, invece, al Presidente della Repubblica la facoltà dello scioglimento dopo che si siano verificate due crisi governative in un tempo che potrà essere determinato, si dà al Presidente della Repubblica un’arma che egli non potrà maneggiare a suo arbitrio.

Ritiene pertanto che si debba, accogliendo in parte la formula proposta dall’onorevole Nobile ed ispirandosi un po’ alla norma sancita della Costituzione francese, formulare un articolo il quale dica che, ove si determinino in un determinato periodo di tempo due crisi ministeriali, il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere.

LAMI STARNUTI dichiara che, pur essendo stato in sede di Comitato di redazione, uno degli avversari più tenaci della concessione della facoltà di scioglimento delle Camere al Presidente della Repubblica, deve ora riconoscere che questa facoltà non può essere del tutto negata, essendovi dei casi in cui lo scioglimento del Parlamento si impone. Ma come formulare questa norma in modo preciso e non pericoloso? La formula dell’onorevole Nobile riguarda soltanto uno dei casi in cui appare legittimo lo scioglimento della Camera, cioè quello del Parlamento che non funziona ma non l’altro, che è quello del capovolgimento della situazione politica del Paese. E anche nel primo caso la formula proposta dall’onorevole Nobile può costituire un pericolo. Se, infatti, essa fosse votata così come è, senza per lo meno il temperamento proposto dall’onorevole Perassi, che lo scioglimento possa avvenire soltanto dopo un certo tempo dalla data delle elezioni generali, potrebbe accadere che il Presidente della Repubblica si servisse arbitrariamente della facoltà concessagli, affidando la formazione del nuovo Governo a un uomo appartenente a uno dei partiti che rappresentasse la minoranza del Parlamento, ripetendo la manovra dopo che questo Governo fosse rovesciato, e provocando così artificialmente due crisi subito dopo le elezioni generali. Perciò il temperamento dei due anni proposto dall’onorevole Perassi si rende necessario.

Per quanto poi riguarda l’altro caso, di un mutamento radicale della situazione politica, la formula proposta dall’onorevole Nobile, ripete, non dice nulla.

Ricorda che, in sede di Comitato di redazione, egli propose la formula «su parere conforme dei Presidenti delle due Camere», a cui l’onorevole Perassi oppose che essa equivaleva all’altra, «sentito il parere», adottata dal Comitato. Perciò egli lasciò cadere la sua proposta; ma, se questa interpretazione potesse essere messa in dubbio, aumenterebbe la sua perplessità sulla formula del Comitato.

Concludendo, si dichiara insoddisfatto così della formula del Comitato come di quella dell’onorevole Nobile, e si augura che dalla discussione possa uscire una formula migliore.

NOBILE ritiene infondata la preoccupazione espressa dall’onorevole Einaudi e confermata dall’onorevole Lami Starnuti, che possa avvenire un capovolgimento della situazione politica del Paese e che il Presidente della Repubblica, in contrasto col Governo, senta il bisogno di sciogliere le Camere. Del resto, il caso non è previsto neppure dalla formula del Comitato di redazione.

Circa il caso prospettato dall’onorevole Lami Starnuti, che il Presidente della Repubblica possa provocare artificiosamente due crisi governative a breve distanza dalle elezioni generali, fa osservare che è stata votata una disposizione per cui il Governo è nominato dal Presidente della Repubblica, ma deve avere la convalida dell’Assemblea Nazionale. Un voto contrario al Governo in questo caso non equivale a una crisi ministeriale, perché il Governo è rovesciato sul nascere. D’altra parte, se un Governo ha ricevuto l’approvazione delle due Camere, non è prevedibile che esse lo rovescino a distanza di poco tempo.

LAMI STARNUTI replica di aver ragione di ritenere che anche il voto di sfiducia dato dall’Assemblea Nazionale al Governo che si presenta valga come una crisi.

PRESIDENTE osserva che, se esiste questo dubbio, si può eventualmente aggiungere, nella proposta dell’onorevole Nobile, una precisazione, nel senso che il voto di sfiducia dato dall’Assemblea Nazionale in occasione della presentazione di un nuovo Governo non vale agli effetti della disposizione contenuta nella proposta stessa.

PICCIONI dichiara di accontentarsi della formula proposta dal Comitato, perché non si può fare a meno dell’anticipato scioglimento delle Camere, e il potere di scioglierle non può essere attribuito ad altri che al Capo dello Stato. Osserva che il Presidente della Repubblica, in un ordinamento democratico come quello che si sta costruendo, non può essere considerato come un elemento pericoloso altro che in via eccezionale. Ed anche per eliminare questo pericolo è stata introdotta tutta una serie di garanzie.

Premesso ciò, ritiene che la soluzione più logica e meno pericolosa sia quella di lasciare al Presidente della Repubblica la possibilità di procedere allo scioglimento delle Camere, sentiti i pareri dei loro Presidenti, i quali si deve presumere rappresentino la reale consistenza delle due Camere rispetto alla volontà del Paese. Il voler stabilire formule predeterminate, come quella dell’onorevole Nobile e di altri, vuol dire cristallizzare certe situazioni senza lasciare ad esse quella elasticità che è pure indispensabile.

Non vede per quale ragione si debba stabilire che le Camere non possano essere sciolte prima di 18 mesi o di due anni dalle elezioni generali. Può darsi che dalle elezioni venga fuori una delle due Camere che non possa funzionare per la sua stessa composizione; non si può costringerla a rimanere in vita contro l’interesse stesso della Nazione. Non vede neppure perché si debba opporre una barriera di tempo al ricorso ad un nuovo appello al Paese, la cui necessità può determinarsi anche dopo tre mesi dalle elezioni. La proposta dell’onorevole Nobile costituisce un espediente meccanico, fittizio, che non aderisce alle necessità dello svolgimento della situazione politica e alle supreme necessità della situazione costituzionale del Paese.

Pertanto è d’avviso che si debba riconoscere al Presidente della Repubblica la facoltà di sciogliere le Camere, ponendo soltanto come condizione l’obbligo di sentire il parere dei loro Presidenti. Non sa se si possa eventualmente sentire qualche altro parere, anche perché non si conoscono ancora le funzioni che potrà avere la Suprema Corte Costituzionale, la quale in fondo non è un organo di emanazione diretta dalla volontà popolare. Naturalmente ci dovrà essere sempre l’iniziativa del Governo. Essendovi dunque l’iniziativa del Governo e i pareri dei Presidenti delle due Camere, è un caso eccezionalissimo che da parte del Capo dello Stato si approfitti del potere di scioglimento in maniera arbitraria. D’altra parte, se il Presidente della Repubblica si orientasse verso un colpo di Stato di tipo violento, qualunque espediente costituzionale non riuscirebbe ad impedire il sorgere di una nuova situazione politica affermatasi in modo anticostituzionale. Ritiene perciò che debba essere accolta la formula proposta dal Comitato di redazione.

LA ROCCA, Relatore, domanda di che natura deve essere il parere dei Presidenti delle due Camere.

PICCIONI risponde di ritenere giusta l’interpretazione che ne ha dato l’onorevole Perassi: la frase «sentito il parere dei Presidenti delle due Camere» vuol dire che, se i pareri di costoro sono disformi dalla volontà del Presidente della Repubblica, questo, di fronte a una situazione di crisi per cui il Governo non riesce più a funzionare, potrà cercare di far funzionare le Camere fino al possibile, oppure potrà scioglierle. Ci deve essere una responsabilità del Presidente della Repubblica, il quale in uno Stato, sia pure a tipo parlamentare, non può essere raffigurato come un elemento decorativo che sta al vertice senza un effettivo potere, neanche nel momento più critico della vita costituzionale del proprio Paese.

D’altra parte, considerare la possibilità dell’autoscioglimento delle Camere è una vera chimera che può riservare dei pericoli più gravi di quelli che un uomo responsabile, come deve essere il Presidente della Repubblica, possa determinare nello svolgimento di una crisi.

ZUCCARINI presenta il seguente emendamento:

«Il Presidente della Repubblica può convocare le Camere e, quando queste abbiano manifestato una loro evidente incapacità ad un regolare funzionamento col ripetersi troppo frequente di crisi ministeriali, può scioglierle dietro parere favorevole dei loro Presidenti. Il provvedimento non può essere preso avanti che siano trascorsi due anni di vita parlamentare».

Illustra quindi la sua proposta, dichiarando di avere aggiunto che il provvedimento di scioglimento non può essere preso avanti che siano trascorsi due anni di vita parlamentare perché, se è vero che la incapacità di funzionamento delle Camere può manifestarsi anche il giorno dopo le elezioni, è anche vero che la ripetizione delle elezioni a distanza di pochi mesi produrrebbe forse un maggiore disordine, essendo impossibile che da un giorno all’altro le opinioni del Paese siano capovolte. Le elezioni che si rinnovano con eccessiva frequenza, invece di un sanamento della crisi, producono un aggravamento della situazione, e occorre preoccuparsi che, almeno nel periodo iniziale di una vita statale, come è quello verso cui va il nostro Paese, vi sia un certo periodo di stabilità e di tranquillità.

Ritiene che la formula da lui proposta risponda alle esigenze manifestate dalla Commissione, senza arrivare ad una regolamentazione che presenterebbe poi i pericoli a cui è stato accennato, e primo fra tutti quello della pressione esercitata dal potere esecutivo sulla Camera, con la minaccia dello scioglimento. Di questa influenza del potere esecutivo sui Deputati i vecchi Governi si sono serviti spesso e non è il caso che ciò debba ripetersi.

FABBRI ricorda, a proposito di quanto ha affermato l’onorevole La Rocca sulla lunga elaborazione della dottrina francese riguardo allo scioglimento delle Camere, che la soluzione attuale della Costituzione francese, che è poi quella richiamata dall’onorevole Nobile, è una soluzione recentissima di un problema che è sorto per la prima volta nella storia parlamentare francese in seguito alla soppressione delle due Camere. Infatti, fino a quando il sistema francese era rimasto bicamerale, il Presidente della Repubblica non aveva in alcun caso la facoltà di sciogliere le due Camere, ma l’aveva limitatamente alla Camera dei Deputati, mentre il Senato non si scioglieva mai e doveva dare l’autorizzazione al Presidente della Repubblica per lo scioglimento della Camera dei Deputati. L’indice della frattura tra composizione della Camera e spirito del Paese era dato periodicamente dal rinnovamento parziale del Senato, rinnovamento che avveniva con un intervallo molto più breve che non quello della Camera dei Deputati. Ricorda anche di aver rievocato questo sistema quando sostenne che in Italia si sarebbe dovuto fare un Senato rinnovabile ogni due anni per un terzo dei membri.

Dal punto di vista strettamente giuridico, rileva che il dire «uditi i Presidenti delle due Camere» non significa che questo parere debba essere vincolante; che, se dovesse esserlo, bisognerebbe specificarlo. Fa presente inoltre, a proposito dell’affermazione che il decreto di scioglimento deve recare la firma del Primo Ministro, che dal punto di vista giuridico non è detto che questa firma debba essere quella del Primo Ministro in carica, e che perciò essa potrebbe essere invece di un altro Primo Ministro sostituito dal Presidente della Repubblica al Primo Ministro uscente.

EINAUDI dichiara di essere favorevole alla formula del Comitato di redazione e di aderire alle osservazioni dell’onorevole Piccioni, in quanto è impossibile prevedere i casi che si possono presentare durante la lunga vita di una Costituzione. Ricorda in proposito un episodio della nostra storia: quello che culminò nel famoso proclama di Moncalieri, e si domanda che cosa sarebbe avvenuto, se il re non avesse avuto allora la possibilità di sciogliere più volte le Camere. Si dichiara anche favorevole a mantenere la formula «sentito il parere», perché non si può prevedere se i pareri dei due Presidenti delle Camere saranno conformi oppure in contrasto.

TOSATO, Relatore, non ritiene che la materia dello scioglimento sia disciplinabile, perché non si possono prevedere tutti i casi in cui lo scioglimento stesso si renda necessario. Tra questi non ne è stato prospettato uno molto importante: quello cioè che a breve distanza dalla convocazione delle Camere, all’inizio della legislatura, sorga una questione di carattere fondamentale intorno a cui il Paese non abbia avuto occasione di pronunciarsi durante la campagna elettorale. Se sorge una questione nuova, di particolare gravità, dopo le elezioni, è necessario che il popolo abbia modo di intervenire. Donde l’inopportunità di stabilire dei limiti di tempo per un nuovo appello al Paese.

LAMI STARNUTI osserva che in questo caso il popolo potrebbe manifestare la sua opinione per mezzo di un referendum.

TOSATO, Relatore, replica che il referendum è adatto soltanto per questioni determinate e concrete, sulle quali il popolo possa pronunciarsi con un o con un no, mentre possono sorgere, come sorgono spesso, gravi questioni attinenti all’orientamento generale, sulle quali il popolo non può esprimere una decisione precisa. D’altra parte, egli non è favorevole all’emendamento proposto dall’onorevole Nobile, perché le Camere, sapendo di poter essere sciolte dopo una seconda crisi, non la provocherebbero mai, lasciando permanere una situazione confusa. Con l’emendamento Nobile praticamente si vieta lo scioglimento delle Camere, e perciò si riduce il Governo in una situazione di assoluta dipendenza verso le Camere stesse, andando verso quella forma di Governo che precisamente non si vuole.

NOBILE osserva che, facendo la sua proposta, riteneva di rispondere alle preoccupazioni tante volte manifestate dall’onorevole Tosato circa la stabilità dei Governi.

TOSATO, Relatore, replica che la stabilità è relativa alla situazione della Camera.

NOBILE obietta che, se si tratta di conflitto tra Governo e Camera, il Governo provvederà a modo suo, finché non sarà messo in crisi da un voto di sfiducia. Non vede quindi come si possa creare una situazione confusa, e si meraviglia che siano proprio coloro che si erano preoccupati della stabilità del Governo a rigettare la sua proposta.

PICCIONI osserva che non bisogna confondere la stabilità del Governo con la forzata permanenza del Governo, né bisogna confondere la stabilità del Governo con quella forzata della Camera. Quando il Governo non corrisponde più alla situazione parlamentare, è inutile volerlo conservare forzatamente. Non è più questione di stabilità del Governo, ma di impossibilità di funzionamento da parte sua e i casi di impossibilità di funzionamento del Governo, per la situazione particolare in cui sono le Camere, non trovano altra via di uscita che l’appello al Paese, il quale risolverà la crisi.

MORTATI rileva che l’onorevole Tosato ha messo bene in rilievo i punti essenziali della questione. Vi sono due modi di scioglimento che rispondono a due situazioni politiche: uno si potrebbe chiamare lo scioglimento di tipo inglese, ed è quello fatto da un Governo di maggioranza il quale scioglie le Camere non per un conflitto tra Governo e Parlamento, ma semplicemente perché si sono presentate situazioni nuove. L’altro è uno scioglimento di tipo costituzionale parlamentare, praticato dove non sono rappresentanze omogenee e che deriva dall’impossibilità per il Governo di governare. Ora, in un regime democratico non si possono escludere queste ipotesi e limitare il diritto di scioglimento al caso di crisi governativa, come vorrebbe l’onorevole Nobile.

Non ritiene che si possa richiamare il caso del proclama di Moncalieri, perché allora il re era ritenuto l’arbitro della situazione, mentre le Costituzioni moderne, come quella di Weimar, hanno stabilito che non si possa sciogliere due volte la Camera per lo stesso motivo. Oggi il principio generale è quello che lo scioglimento tende a rendere il popolo arbitro di una determinata situazione.

Si tratta di intendersi sulle modalità dello scioglimento, che non è un atto personale del Presidente della Repubblica, perché deve recare la controfirma del Primo Ministro. Per questa non v’è da meravigliarsi se è la firma di un Ministro rimasto in minoranza della Camera, perché il fatto che vi siano due crisi significa che il Governo non ha potuto trovare una solida base parlamentare, ed è perciò un Governo in minoranza il quale scioglie la Camera.

Ritiene che, invece, la questione da porre sia se un Governo possa sciogliere la Camera prima di essersi presentato al Parlamento ed aver avuto un voto di sfiducia. Esprime a questo proposito il parere che la revoca del Governo debba essere preceduta da un voto di sfiducia motivato, in modo che questo voto serva di piattaforma elettorale; che elezioni, cioè, si facciano sulla questione sulla quale è caduto il Governo.

PRESIDENTE rileva che il caso di fatti nuovi avvenuti dopo le elezioni non si è mai presentato nei primi tempi della vita di un Parlamento, perché i fatti nuovi nascono da situazioni che si sono maturate a lungo e non si presentano mai improvvisamente. Il solo fatto nuovo che si può presentare improvvisamente è quello della guerra, ma questo è stato già previsto.

D’altra parte, in linea generale si sa che quelli che provocano lo scioglimento dell’Assemblea non sono conflitti tra Parlamento e opinione pubblica, ma conflitti tra Governo e Assemblea parlamentare. Non ritiene che un Governo possa essere considerato più sensibile alle esigenze del Paese di quel che non lo sia il Parlamento. Anzi, i Governi sono in genere più sordi, e più volte si è verificato il caso di Governi che hanno sciolto Assemblee parlamentari appellandosi al Paese e ne hanno avuto come risposta l’elezione di una Camera press’a poco eguale a quella sciolta. Trattandosi quasi sempre di una lotta del Governo contro il Parlamento, non vede perché si dovrebbero prendere le parti del Governo in questa lotta.

All’onorevole Tosato, il quale ha detto che con la formula dell’onorevole Nobile si avrebbe un Governo subordinato alla volontà del Parlamento, risponde che è proprio questo genere di Governo che si vuole, perché se un Governo deve godere la fiducia del Parlamento e cadere per la sua sfiducia è evidente che deve essere subordinato al Parlamento stesso. Concorda con l’onorevole Piccioni che, per avere la stabilità del Governo, non bisogna ricorrere a provvedimenti che rivoluzionino il sistema. Perciò per la facoltà di scioglimento delle Camere da parte del Governo è stato elaborato un sistema molto cauto, secondo le norme fissate nella proposta dell’onorevole Nobile, analoghe in parte a quelle proposte dall’onorevole Zuccarini. In certi casi bisogna porre determinati vincoli, se si ritiene che questi vincoli sono necessari.

FUSCHINI fa presente che le crisi possono essere indipendenti dalla situazione del Paese.

PRESIDENTE riconosce che si assiste oggi a un episodio il quale fa pensare all’ipotesi prospettata dall’onorevole Fuschini, ma osserva che le crisi dei grandi partiti, che oggi costituiscono i Parlamenti, non sminuzzano il Parlamento, ma lo lasciano, nelle linee generali, sulle stesse basi. Per queste ragioni ritiene opportuno vincolare in qualche maniera il potere rilasciato al Presidente della Repubblica, che è un potere assolutamente decisivo e risolutivo. Pertanto si dichiara favorevole alle proposte presentate dall’onorevole Nobile e dall’onorevole Zuccarini, che possono essere facilmente fuse insieme: ma, qualora queste proposte non dovessero essere accolte, accederebbe alla proposta dell’onorevole Perassi.

Dovrà anzitutto prendersi una decisione sulla proposta dell’onorevole Nobile così formulata:

«Se nel corso del periodo di dieci mesi abbiano avuto luogo due crisi ministeriali in seguito a voto di sfiducia dell’Assemblea Nazionale, o di una delle due Camere, queste potranno essere sciolte con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio dei Ministri.

«In nessun altro caso le Camere potranno essere sciolte prima del termine normale della legislatura».

LAMI STARNUTI osserva che l’onorevole Nobile aveva accettato il termine di tempo proposto dall’onorevole Perassi.

PRESIDENTE fa presente che l’articolo formulato dall’onorevole Nobile è completato dalla seguente aggiunta:

«Il voto di sfiducia dato dall’Assemblea Nazionale in occasione della presentazione di un nuovo Governo non vale agli effetti delle disposizioni contenute nel presente articolo».

MORTATI domanda se si è previsto il caso che, per l’opposizione dell’Assemblea Nazionale, non si riesca a formare il Governo.

PRESIDENTE risponde che in questo caso la ragione della carenza del Governo è da ricercarsi nella ostinazione del Presidente della Repubblica a presentare alle Camere Primi Ministri che non ne riscuotano la fiducia.

Rileva che l’onorevole Nobile ha tenuto presente questa obiezione e ha creduto di superarla inserendo, appunto, l’aggiunta che ha letto. Se essa non fosse approvata, è chiaro che il Presidente della Repubblica avrebbe la possibilità di sciogliere in pochissimi giorni il Parlamento.

MORTATI si domanda da che cosa dipenda questa paura di ricorrere al popolo. Ricorda che la prima Costituzione francese, forse per il timore che il Governo potesse influire sulle elezioni sciogliendo la Camera, stabiliva che il Governo fosse ritenuto dimissionario e che se ne formasse un altro presieduto dal Presidente dell’Assemblea coadiuvato dai Presidenti delle Commissioni parlamentari, destinato a rimanere in carica per il periodo delle elezioni. L’unico timore potrebbe essere che il Governo, sciogliendo le Camere, facesse delle elezioni addomesticate. Ma in uno Stato che ha 28 milioni di elettori e con partiti organizzati, è molto difficile che si possano fare delle elezioni addomesticate. Cadendo questa obiezione, la paura di richiamarsi al popolo non ha ragione di essere.

PRESIDENTE osserva che il ricorso al popolo può divenire in certe situazioni un modo di stancare il popolo e questo è appunto il modo con cui presentemente gli antidemocratici cercano di staccarlo dagli istituti democratici. Inoltre, è da tener presente che, quando si sarà votato l’articolo sul referendum, si sarà aperta la porta per il ricorso al popolo in caso di necessità, senza che gli istituti democratici possano subirne nocumento.

FUSCHINI rileva che anche il Presidente della Repubblica è un istituto democratico. Il problema è di trovare l’equilibrio tra i vari istituti.

ZUCCARINI fa osservare che il Paese è ben lungi dall’aver organizzato la vera democrazia. In queste condizioni il Governo può avere sempre una certa influenza sulle elezioni, poiché egli ha in mano i poteri straordinari. Anche in regime democratico un Governo può rendersi padrone della volontà del Paese.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta dell’onorevole Nobile.

PICCIONI dichiara che voterà contro per le ragioni già addotte.

(Non è approvata).

PRESIDENTE mette ai voti la seguente proposta presentata dall’onorevole Zuccarini:

«Il Presidente della Repubblica può convocare le Camere e, quando queste abbiano manifestato una loro evidente incapacità ad un regolare funzionamento con un ripetersi troppo frequente di crisi ministeriali, può scioglierle dietro parere dei loro Presidenti. Il provvedimento non può essere preso avanti che siano trascorsi due anni di vita parlamentare».

(Non è approvata).

Fa presente che, prima di mettere in votazione il testo del Comitato, deve mettere in votazione una proposta di emendamento presentata dall’onorevole Nobile per il caso che fossero state respinte la sua prima e quella dell’onorevole Zuccarini. L’emendamento è così formulato:

«Il Presidente della Repubblica può sciogliere le due Camere allorquando, su parere conforme di ambedue i Presidenti di queste, ritiene che il Parlamento non risponda più alla situazione politica del Paese.

«Lo scioglimento non potrà aver luogo nei primi dieci mesi della legislatura».

La mette ai voti.

(Non è approvata).

Mette ora in votazione il testo proposto dal Comitato di redazione:

«Il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere, sentito il parere dei loro Presidenti».

Fa presente che la parte dell’articolo 14 relativa alla convocazione è stata omessa perché inutile, essendosi già stabilito, là dove si parla della convocazione delle Camere, che la convocazione avviene a data fissa, oppure su iniziativa del Presidente della Repubblica o dei Presidenti delle Camere, oppure di una certa aliquota dei membri delle Camere stesse.

LAMI STARNUTI domanda se l’opinione del Comitato di redazione è che «sentito il parere» debba essere interpretato come «su parere conforme».

TOSATO, Relatore, risponde che, se il Presidente sciogliesse le Camere in disaccordo con uno o con ambedue i Presidenti delle Camere stesse, non commetterebbe una incostituzionalità.

(È approvato).

LAMI STARNUTI propone un’aggiunta alla formula dell’articolo 14 che è stata testé approvata, nel senso che lo scioglimento non può essere pronunciato nel primo anno della legislatura. Questa aggiunta gli è stata suggerita dal ricordo storico a cui ha accennato l’onorevole Einaudi: in un momento della storia parlamentare italiana il Capo dello Stato ha proceduto allo scioglimento delle Camere per ben quattro volte, in quanto l’opinione del Paese era diversa da quella delle Camere. Può essere stato benefico lo scioglimento ripetuto quattro volte in breve tempo della Camera, ma non è detto che in un’altra occasione non potrebbe essere dannoso.

TOSATO, Relatore, ritiene che oggi questa ipotesi non sia più pensabile.

LAMI STARNUTI non insiste nel suo emendamento aggiuntivo.

PRESIDENTE comunica che l’onorevole Perassi ha presentato la seguente proposta aggiuntiva:

«Le Camere non possono essere sciolte nei primi due anni della loro elezione, salvo che nei dodici mesi precedenti abbiano avuto luogo due crisi ministeriali».

Comunica altresì che egli presenta una proposta aggiuntiva del seguente tenore:

«Il Presidente della Repubblica non può, nel corso del suo mandato, valersi del suo potere di scioglimento più di due volte».

Le due proposte rispondono alla preoccupazione che la facoltà concessa al Presidente della Repubblica di sciogliere le Camere abbia nella Costituzione qualche disposizione limitativa; come può errare l’Assemblea parlamentare, può anche errare il Presidente della Repubblica.

TOSATO, Relatore, ricorda che si è già stabilito che il Presidente della Repubblica non è rieleggibile. Questo fatto rappresenta una remora fortissima, e quindi non vi sono possibilità che il Presidente eserciti dei poteri personali.

PRESIDENTE risponde che il Presidente della Repubblica in linea generale può anche appartenere ad un partito, e quindi può essere soggetto alle influenze e alle pressioni di questo partito.

Mette ai voti la proposta dell’onorevole Perassi.

(Non è approvata).

Mette quindi ai voti la formula da lui proposta.

(Non è approvata).

Comunica che l’articolo 14 rimane nella formula che è stata approvata, cioè:

«Il Presidente della Repubblica può sciogliere le Camere, sentito il parere dei loro Presidenti».

NOBILE dichiara che si riserva di presentare un emendamento aggiuntivo a proposito dello scioglimento delle due Camere, cioè in relazione al decreto di scioglimento. Secondo questa sua proposta, con tale decreto si devono anche sciogliere i Consigli comunali e le Assemblee regionali.

FUSCHINI fa rilevare all’onorevole Nobile che non è stato ancora stabilito in via definitiva il criterio di nomina delle Assemblee regionali.

PERASSI conferma che il problema della nomina delle Assemblee regionali è rimasto aperto.

PRESIDENTE comunica all’onorevole Nobile che potrà presentare e illustrare il suo emendamento nella prossima seduta.

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Zuccarini.

Assenti: Bordon, Cannizzo, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lussu, Vanoni.

 

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 13 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 13 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Fuschini – Nobile – Mortati – Fabbri – Lussu – Rossi Paolo – Tosato, Relatore – Perassi – La Rocca, Relatore.

La seduta comincia alle 11.10.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE riapre la discussione sull’articolo 22, non ancora esaurito, ricordando che per quanto concerne il procedimento per la mozione di sfiducia, vi sono due tesi contrapposte: per l’una il voto di sfiducia può essere dato soltanto dall’Assemblea Nazionale, con determinate modalità ed in seguito a richiesta di un quorum dei membri dell’Assemblea stessa; per l’altra il voto di sfiducia può essere emesso anche dalle singole Camere, e porta come conseguenza le dimissioni del Governo, salvo appello all’Assemblea Nazionale.

In quest’ultimo senso è una proposta dell’onorevole Nobile, che personalmente ha sottoscritto, così concepita:

«In seguito ad un voto di sfiducia approvato, su mozione motivata da una delle due Camere a maggioranza assoluta, il Governo è obbligato a dimettersi, salvo appello all’Assemblea Nazionale, che in tal caso deve subito essere convocata.

«La mozione di sfiducia deve essere presentata da almeno un terzo dei componenti la Camera chiamata a discuterla e non può essere discussa prima di tre giorni dalla data di presentazione».

Dell’altro ordine di idee erano invece alcune proposte che vennero respinte in seguito a votazione, salvo una dell’onorevole Tosato, che si avvicinava di più alla formula dell’onorevole Nobile, e la cui votazione ha dato risultati incerti.

FUSCHINI ricorda che la sua formula era più completa di quella dell’onorevole Nobile, in quanto prevedeva anche l’ipotesi che il voto di sfiducia derivasse da una discussione provocata dal Governo. Infatti, nella vita parlamentare, più frequente del caso di presentazione di una mozione di sfiducia, è quello della sfiducia manifestata a seguito di una discussione su un disegno di legge (anche in sede di esame degli articoli), ovvero su dichiarazioni o comunicazioni del Governo. Insiste quindi sull’opportunità di prevedere tutte le ipotesi o di non prevederne nessuna.

NOBILE replica che non v’è bisogno di disciplinare anche il caso di una discussione provocata dal Governo, perché è implicito che questo ha sempre la facoltà di porre davanti ad una delle due Camere la questione di fiducia e di provocare su di essa un voto. Ciò che interessa, invece, stabilire è che il Governo in seguito ad un voto di sfiducia è obbligato a dimettersi, a meno di riproporre la questione dinanzi all’Assemblea Nazionale.

MORTATI, per mozione d’ordine, propone, dal momento che dovrà ancora riunirsi la Sottocommissione nel suo complesso per esaminare alcune questioni lasciate in sospeso (come ad esempio, il referendum popolare), di rinviare anche l’esame dei rapporti di fiducia tra Governo e Parlamento in quella sede. Trattasi, infatti, di tutti problemi fondamentali, strettamente connessi tra loro e che implicano dei presupposti che si completano a vicenda, per cui una decisione presa in questo momento potrebbe poi trovarsi in contrasto con le risoluzioni che la Sottocommissione adottasse.

PRESIDENTE non nega che vi sia un certo nesso tra le varie questioni, ma ritiene opportuno risolvere intanto il problema in esame, sia perché le decisioni odierne potranno, se necessario, essere corrette e coordinate, sia per non accumulare troppo materiale da sottoporre alla Sottocommissione, la quale potrà tenere solo un numero limitatissimo di sedute.

MORTATI non insiste.

FABBRI, circa la critica dell’onorevole Fuschini alla proposta Nobile-Terracini, rileva che la dizione originale della proposta stessa non conteneva l’inciso «approvato su mozione motivata». Venivano così ad essere considerate due ipotesi, in cui, a suo avviso, si esaurisce la fattispecie: quella di una esplicita mozione di sfiducia presentata da un certo quorum di parlamentari e quella di una manifestazione di sfiducia provocata dal Governo. Suggerisce pertanto di tornare a quella dizione – anche perché pensa che non si possa aderire all’idea dell’onorevole Fuschini di non prevedere alcuna ipotesi – della quale però trova eccessivo il criterio di richiedere per la presentazione di una mozione di sfiducia la firma di un terzo dei componenti la Camera chiamata a discuterla.

Critica quindi lo schema proposto dall’onorevole Fuschini, osservando che, in quanto implica il ricorso in ogni caso all’Assemblea Nazionale, altera il principio della indipendenza di una Camera dall’altra.

LUSSU, dopo aver ricordato la sua contrarietà al sistema in discussione e la sua preferenza per l’idea che il voto di sfiducia rientri nella competenza esclusiva dell’Assemblea Nazionale, consiglia, dal momento che non ha prevalso il punto di vista di cui si è fatto sostenitore, di passare senz’altro alla votazione sulla proposta Nobile-Terracini, che, a suo avviso, non lascia lacune. L’ipotesi, accennata dall’onorevole Fuschini, di una palese manifestazione di sfiducia, senza il rispetto di determinate modalità, non costituisce un voto di sfiducia vero e proprio.

Propone altresì, aderendo all’opinione dell’onorevole Fabbri, di ridurre il numero delle adesioni necessarie per la presentazione di una mozione di sfiducia ad un quarto dei componenti la Camera chiamata a discuterla.

ROSSI PAOLO, nel dichiararsi sostanzialmente favorevole alla formula Nobile-Terracini, propone alcune lievi modificazioni in omaggio alle opinioni espresse, nel corso della discussione, particolarmente dagli onorevoli Fabbri e Fuschini. In conseguenza il testo dovrebbe risultare del seguente tenore:

«In seguito ad un voto di sfiducia di una delle due Camere, il Governo deve dimettersi, salvo appello all’Assemblea Nazionale che, in tal caso, sarà subito convocata.

«Una mozione di sfiducia non può essere posta in discussione se non è firmata da un quarto dei componenti la Camera chiamata a discuterla e non può essere votata prima di tre giorni dalla data di presentazione».

In tal modo non si prevede alcun caso in particolare e, mentre non viene esclusa l’ipotesi che la questione di fiducia sia stata posta dal Governo stesso, si abbandona quella garanzia della «maggioranza assoluta», che d’altronde è superflua, in quanto si ha già un correttivo adeguato nel capoverso (presentazione da parte di un quorum dei componenti la Camera e votazione non prima di tre giorni dalla data di presentazione). Viene altresì ridotto ad un quarto – come proponeva l’onorevole Lussu – il numero dei deputati che debbono sottoscrivere la mozione.

MORTATI si dichiara nettamente contrario alla proposta Nobile-Terracini e agli emendamenti dell’onorevole Rossi, che, a suo avviso, peggiorano ancora la situazione. Fa presente che originariamente la Sezione è partita dal concetto di dare all’Assemblea Nazionale funzioni specifiche e le si sono conferiti alcuni diritti (dichiarazione di guerra, amnistia, fiducia al Governo, ecc.), che ne facevano veramente un organo nuovo con l’altissima posizione politica di arbitro dei supremi interessi dello Stato. Ora si vorrebbe ignorare l’esistenza di questo nuovo Corpo che, pur avendo il compito di vincolare le Camere e di limitarne i poteri, non le spoglia della loro funzione politica. Nulla vieta che si possa rivedere una decisione già presa, ma, una volta che la si mantiene ferma, sarebbe una incongruenza venir meno alle sue necessarie conseguenze ed alla logica del sistema. Invece, nello schema proposto, indubbiamente la situazione viene completamente modificata: l’Assemblea Nazionale diviene un organo d’appello, ma di un appello che giunge quando la questione è pregiudicata. Nel caso poi che una Camera costringa il Governo a dimettersi, l’altra si vede esclusa da ogni intervento nella decisione e, nel conflitto, non è parte in causa che in appello. Non può, ad esempio, chiedere la convocazione dell’Assemblea Nazionale, la quale soltanto dal Governo può essere chiesta.

ROSSI PAOLO obietta che non si può costringere a rimanere in carica un Governo che non voglia rimanervi. Né trova esatto che l’appello arrivi a fatto compiuto: si avrà il fatto compiuto solo se il Governo non si appellerà, e questo lo farà quando sia convinto di trovare un appoggio nell’altra Camera.

MORTATI, riprendendo l’esposizione del suo punto di vista, sostiene che il giudizio definitivo sulla questione di fiducia deve sempre competere all’Assemblea Nazionale, come logica conseguenza del sistema approvato. Aggiunge che quello che l’onorevole Rossi chiama il «correttivo del capoverso» in realtà non ha alcuna efficacia. La disposizione che la mozione non possa essere votata prima di tre giorni dalla presentazione poteva essere utile in una situazione politica come quella antecedente al fascismo, quando esisteva un solo partito organizzato e poteva temersi un voto di sorpresa; ma questo stato di cose ormai è superato con la presenza di grandi raggruppamenti che determinano la vita politica del Paese e, anziché il voto di sorpresa, è da temere la decisione di un partito della coalizione di Governo che provochi la crisi al momento e nelle condizioni che sembrino più propizie alla soddisfazione dei suoi interessi particolari.

L’unico correttivo – seppure di modesta portata – contenuto nel capoverso, ai fini di garantire la stabilità del Governo, era rappresentato dalla maggioranza assoluta richiesta per l’approvazione della mozione di sfiducia, e di questo l’onorevole Rossi propone la soppressione.

TOSATO, Relatore, non condivide l’opinione dell’onorevole Mortati circa la maggioranza assoluta, che preferisce non richiedere per non rendere impossibile a verificarsi l’ipotesi dell’appello all’Assemblea Nazionale. E invece d’accordo con lui nel disapprovare la formula Nobile-Terracini. Nota in proposito che questa vorrebbe rappresentare una via di conciliazione tra le due opposte tendenze: quella in favore della competenza esclusiva dell’Assemblea Nazionale a pronunciarsi sulle questioni di fiducia, e quella per una analoga potestà delle due Camere. Ma il congegno è tale che l’appello difficilmente avrebbe luogo ed il parere di una delle Camere sarebbe decisivo. Si può infatti essere sicuri che il Governo, di fronte al voto di sfiducia di una Camera, si dimetterà.

Allo stato attuale delle cose crede che, per ragioni di coerenza, occorra decidersi per l’uno o l’altro dei due sistemi, accettandone tutte le conseguenze.

Personalmente si mantiene fedele al suo punto di vista ed accetterebbe soltanto, in via subordinata, di accordare alle Camere la facoltà di presentare mozioni di sfiducia, lasciando però al Governo il compito di decidere se queste investano o meno questioni di importanza così preminente da consigliare la convocazione dell’Assemblea Nazionale. Ritiene che questa sia l’unica possibilità di conciliazione tra le due tesi.

Concludendo, tiene a ricordare che la Sezione è impegnata a studiare un sistema parlamentare con dispositivi che possano impedire il ripetersi delle crisi ad ogni piè sospinto e che la situazione politica odierna è ben diversa da quella del passato, essendo caratterizzata dalla presenza di forti partiti organizzati.

MORTATI riconosce l’esattezza dell’osservazione con cui ha esordito l’onorevole Tosato e, ritornando sulle sue precedenti dichiarazioni, conviene che il richiedere la maggioranza assoluta nella votazione della mozione valga a rendere ancor più remota la possibilità dell’appello all’Assemblea Nazionale. Tuttavia, poiché, accogliendosi l’emendamento proposto, l’appello all’Assemblea Nazionale non sarà praticamente utilizzato, è opportuno lasciare almeno l’ostacolo costituito dalla maggioranza qualificata per le deliberazioni di sfiducia delle singole Camere.

PERASSI, dopo aver ricordato che più volte ha parlato di coerenza, ribadisce l’opinione degli onorevoli Tosato e Mortati che la formula proposta non sia in armonia con le decisioni precedenti. Del pari è stata un’incongruenza da parte della Sezione il respingere la proposta che l’Assemblea Nazionale potesse essere convocata per pronunciarsi sulla fiducia al Governo, e su richiesta di un certo numero di deputati o del Governo stesso.

Suggerisce quindi, allo scopo di trovare una formula conciliativa, di modificare il testo dell’onorevole Rossi nel senso di non parlare più di un obbligo del Governo a dimettersi e di dire invece che, in seguito ad un voto di sfiducia di una Camera, il Governo, se non intende dimettersi, deve convocare l’Assemblea Nazionale.

LA ROCCA, Relatore, conferma la sua opinione che la tesi sostenuta dai suoi contraddittori dà un colpo mortale al sistema bicamerale, in quanto comporta la creazione di un organo – il quale tra l’altro avrebbe anche una composizione eterogenea – che si sovrappone alle Camere e ne riduce l’attività al solo compito di elaborazione legislativa. Le Camere, considerate isolatamente, perdono così ogni rilevanza politica come strumento di espressione della volontà popolare.

Insiste quindi per l’approvazione della formula Nobile-Terracini, la quale, se non altro, salvaguarda l’autorità e il prestigio delle Camere. Non ha tuttavia alcuna difficoltà ad aderire all’emendamento proposto dall’onorevole Perassi.

Quanto all’osservazione che oggi le crisi possono essere provocate solo dai grandi partiti, fa presente che i partiti non sono che la parte più organizzata di una classe sociale e rappresentano una vasta corrente di opinioni. Se, quindi, in un particolare momento assumono un determinato atteggiamento, lo fanno in quanto sentono che questo è corrispondente alle aspirazioni di una parte del Paese.

PRESIDENTE osserva che l’esigenza di dare una certa stabilità al Governo non deve costituire la nota dominante nella discussione, e soprattutto non deve essere invocata ogni momento per frapporre ostacoli artificiali allo sviluppo politico del Paese. D’altronde, crede che questa esigenza possa considerarsi soddisfatta dalle norme in esame, le quali escludono la possibilità di voti di sorpresa, richiedono una mozione motivata che raccolga l’adesione di un certo numero di deputati e concedono al Governo anche la possibilità di appellarsi.

All’onorevole Mortati, che ha parlato di euritmia del sistema, fa rilevare che talvolta le necessità politiche possono consigliare di contravvenire al logico sviluppo di un sistema.

Nota quindi che l’atteggiamento di coloro che sostengono la tesi contraria alla sua, può spiegarsi soltanto in un modo: essi evidentemente hanno maggiore fiducia nell’Assemblea Nazionale, perché pensano che in questa sede la seconda Camera possa rappresentare un correttivo politico della prima. Senonché questa aspettativa è errata, perché non tiene conto del fatto che, se la seconda Camera avrebbe potuto corrispondere a tale scopo ove fosse stata eletta col sistema approvato in un primo momento, non lo può con la fisionomia che ha assunto in seguito alle ultime decisioni che ne fanno un organo simile alla prima Camera. La decisione dell’Assemblea Nazionale pertanto non si discosterebbe da quella della prima Camera perché, se un partito manovrerà il suo gruppo parlamentare in una Camera allo scopo di rovesciare il Governo, non mancherà di dare la stessa parola d’ordine al suo gruppo nell’altra Camera. È convinto quindi che non possa rappresentare una maggiore garanzia di stabilità il sistema che sostengono i suoi contraddittori.

Concludendo, insiste nella formula che ha proposto insieme all’onorevole Nobile, accettando le modifiche suggerite dall’onorevole Perassi e dall’onorevole Rossi, salvo quella relativa alla soppressione della maggioranza assoluta, che invece ritiene opportuno conservare.

TOSATO, Relatore, assicura che, nel consigliare il ricorso all’Assemblea Nazionale sia per la formazione del Governo che per le crisi, non ha pensato nemmeno lontanamente alla possibilità di un correttivo rappresentato dalla seconda Camera: ha invece pensato che quest’organo è la risultante di due grandi corpi rappresentativi dello Stato e che, quando si tratta di giudicare le direttive generali della politica del Governo, è opportuno che questi due grandi corpi esercitino la loro funzione unitamente, anche allo scopo di evitare ogni possibilità di dissidio.

Una delle cose che fa peggiore impressione al Paese è la frequenza con cui le crisi si verificano. E il popolo spesso non riesce a rendersi conto dei motivi che le hanno determinate, in quanto non si tratta di crisi esterne provocate da un voto di sfiducia, ma di crisi interne generate da mancanza di accordo nella coalizione governativa. La discussione dell’Assemblea Nazionale serve appunto a illuminare l’opinione pubblica, come serve a guidare il Capo dello Stato nella scelta della persona che dovrà formare il Governo.

Per quanto concerne il sistema bicamerale, osserva che i suoi vantaggi appaiono evidenti nella elaborazione della legge; ma se vi è un limite logico al suo funzionamento è proprio rappresentato da ciò che attiene alle questioni di fiducia. In questo caso non vi è un testo legislativo, da perfezionare, non vi è quindi da pensare a correttivi.

Peraltro, mentre non può dirsi che il ricorso all’Assemblea Nazionale costituisca una menomazione del principio della parità delle funzioni, in realtà, dato il minor numero dei componenti alla seconda Camera, praticamente le crisi politiche saranno determinate dalla prevalente volontà della prima Camera.

NOBILE rileva che, se nelle due Camere il numero dei componenti è diverso, rimane però inalterato il rapporto di forze tra i vari partiti.

Quanto all’osservazione del Presidente che la fisionomia politica delle due Camere sarà identica, fa presente che personalmente ha sostenuto più volte la stessa tesi; ma, ripensandoci bene, deve riconoscere che non è esatta. Può parlarsi di un’eguale fisionomia solo in un periodo di stabilità politica del Paese, dal che oggi si è ben lontani. In realtà avverrà che la seconda Camera, dato il modo in cui è eletta, rispecchierà la situazione politica di un momento precedente a quello della sua elezione, la quale situazione nel frattempo potrebbe essere mutata notevolmente. In questo senso effettivamente potrebbe divenire un correttivo della prima Camera, e ciò non sarebbe giusto, dato che non rappresenta, come quella, l’opinione popolare del momento. Raccomanda perciò di riesaminare le decisioni già prese, per eliminare un tale inconveniente che dimostra tutta la illogicità del sistema approvato.

FABBRI rileva che l’argomento su cui si è più volte insistito, di una logica nel sistema, non può troppo invocarsi, dato che il criterio di rimettere la decisione sulle questioni di fiducia all’Assemblea Nazionale contrasta col principio della bicameralità e con quello della parità, che sarebbero rispettati solo concedendo a ciascuna Camera il potere di rovesciare il Governo. Ché se invece le due Camere debbono votare insieme, cessano dall’essere pari, per la diversa composizione numerica, e la maggioranza dell’una può essere surrogata dalla minoranza dell’altra.

Tiene quindi a far rilevare che, da parte dei sostenitori del sistema bicamerale, si è commesso un grave errore quando si è accettato che si modificasse la fisionomia della seconda Camera sopprimendo le due caratteristiche fondamentali del rinnovamento parziale e della diversa durata in carica. Si è così dato un colpo veramente mortale al sistema bicamerale.

MORTATI avverte che il suo gruppo, nell’insistere affinché la fiducia sia votata dall’Assemblea Nazionale, non si preoccupa eccessivamente di un’esigenza di euritmia formale, perché sa benissimo che in una Costituzione spesso le disarmonie e le illogicità sono elementi necessari per non venir meno ad esigenze politiche.

All’osservazione dell’onorevole Fabbri, secondo il quale la seconda Camera potrebbe essere un correttivo della prima, solo se eletta come si era deciso in un primo momento, replica che non si può pretendere che la prima Camera sia corretta politicamente da una seconda Camera che abbia un carattere meno rappresentativo. Anzi, a suo avviso, la seconda Camera, per meglio rispondere alla sua funzione, dovrebbe essere anch’essa eletta a suffragio diretto, ma seguendo determinati criteri – che ha già avuto occasione di illustrare – in modo da avvicinare di più i partiti alla situazione concreta del Paese e da giocare, non come correttivo, ma come integrativo della prima Camera.

PRESIDENTE dà notizia della seguente nuova formula dell’onorevole Tosato:

«Se in seguito ad una manifestazione di sfiducia di una delle due Camere il Governo non si dimette, su richiesta del Governo o di due quinti dei membri di una delle due Camere, sarà convocata l’Assemblea Nazionale, che si pronuncerà a maggioranza assoluta su una mozione motivata».

Pone quindi ai voti la formula dell’onorevole Rossi, che è precedente in ordine di presentazione, nel seguente testo modificato:

«In seguito ad un voto di sfiducia di una delle due Camere il Governo, se non intende dimettersi, deve convocare l’Assemblea Nazionale che si pronuncerà su una mozione motivata.

«Una mozione di sfiducia non può essere presentata in una Camera, se non è motivata e firmata da un quarto dei suoi componenti, né posta in discussione prima di tre giorni dalla data di presentazione».

(È approvata).

La seduta termina alle 12.55.

Erano presenti: Cannizzo, De Michele, Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Rossi Paolo, Terracini, Tosato.

Assenti: Bordon, Codacci Pisanelli, Einaudi, Finocchiaro Aprile, Grieco, Piccioni, Vanoni, Zuccarini.

 

SABATO 11 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE
(SECONDA SEZIONE)

16.

RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI SABATO 11 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Presidente – Mannironi – Bozzi – Uberti – Ambrosini – Targetti – Farini – Laconi – Di Giovanni.

La seduta comincia alle 9.35.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE riapre la discussione sull’articolo relativo alla revisione delle giurisdizioni speciali, proposto dall’onorevole Leone Giovanni e così formulato:

«Le giurisdizioni speciali che, entro cinque anni dalla data della presente Costituzione, non saranno conservate con legge votata a norma dell’articolo 6, resteranno soppresse.

«Entro il medesimo termine si provvederà con legge alla soppressione dei Tribunali militari e delle altre giurisdizioni speciali penali esistenti.

«Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione, si procederà con legge alla soppressione del Tribunale supremo Militare ed al conseguente trasferimento delle competenze del medesimo alla Corte Suprema di Cassazione».

Fa presente che praticamente da oggi decorreranno almeno dodici mesi; prima che le competenze del Tribunale supremo Militare siano trasferite alla Cassazione. Riterrebbe però opportuno mettere un termine per la cessazione del passaggio dei ricorsi al Tribunale supremo.

MANNIRONI ritiene che la materia dell’articolo in discussione dovrebbe essere oggetto di disposizioni transitorie.

PRESIDENTE è d’accordo.

BOZZI comprenderebbe nell’articolo anche un accenno al contenzioso tributario, in relazione al quale è sentita da tutti la necessità di una radicale revisione.

MANNIRONI propone di ridurre a tre anni il termine previsto per la revisione delle giurisdizioni speciali.

UBERTI fa presente che il Parlamento, fin dall’indomani dell’emanazione della Costituzione, sarà occupato da compiti veramente notevoli, per cui può darsi che entro tre anni non arrivi a rivedere tutte le giurisdizioni speciali.

BOZZI lascerebbe il termine di cinque anni. Ad ogni modo, la questione non gli sembra che sia giustamente impostata. A suo avviso, il procedimento di revisione può condurre per ciascuna giurisdizione speciale a tre conseguenze diverse: mantenimento, soppressione o trasformazione in sezione specializzata del giudice ordinario. Per prevedere anche quest’ultima ipotesi, modificherebbe il primo comma dell’onorevole Leone nella seguente maniera:

«Le giurisdizioni speciali che entro il termine di cinque anni non saranno conservate a norma dell’articolo 6, potranno essere trasformate nelle sezioni specializzate dei giudici ordinari previste dall’articolo …»

AMBROSINI è contrario a tale dizione, in quanto per alcune giurisdizioni viene a cessare lo scopo per cui furono create a quindi non vi sarà alcun bisogno né di conservarle, né di trasformarle in sezioni specializzate.

TARGETTI preferirebbe la primitiva dizione:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, si procederà alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti».

Nella parola «revisione» si comprendono infatti tutte e tre le ipotesi a cui ha fatto cenno l’onorevole Bozzi.

MANNIRONI propone che si inserisca un capoverso in cui si dica che i giudizi eventualmente pendenti allo scadere del tempo fissato si intendono devoluti alla competenza della giurisdizione ordinaria.

PRESIDENTE lascerebbe l’articolo nella sua primitiva formula.

FARINI pensa che, in ultima analisi, questi organismi si manterranno in vita fino all’ultimo giorno del quinto anno. Sarebbe perciò favorevole a stabilire, come remora, un limite massimo di tre anni.

LACONI, per quanto riguarda la revisione delle altre giurisdizioni, non ha alcuna obiezione al termine di cinque anni, ma per i Tribunali militari stabilirebbe un massimo di tre anni.

DI GIOVANNI propone la seguente formula:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i Tribunali penali militari».

PRESIDENTE è d’accordo. Alla dizione proposta dall’onorevole Di Giovanni aggiungerebbe l’ultimo comma della proposta Leone.

Mette ai voti l’articolo così formulato:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i Tribunali militari.

«Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvederà con legge alla soppressione del Tribunale supremo Militare e alla devoluzione della competenza del medesimo alla Cassazione».

(È approvato).

BOZZI osserva che in sua assenza è stato approvato un articolo in cui si è prevista la possibilità anche per le donne di partecipare ai concorsi per la Magistratura. Tiene a dichiarare che, se fosse stato presente, avrebbe votato contro quella disposizione.

AMBROSINI richiama l’attenzione sulla necessità che alla successiva riunione sia discussa la proposta di inserire nella Costituzione una disposizione sulle funzioni e garanzie per l’Avvocatura dello Stato.

PRESIDENTE propone di coordinare il testo di tutti gli articoli approvati dalla Sezione.

Al termine del lavoro di coordinamento, gli articoli risultano così formulati:

«Art. 1. – Il potere giudiziario appartiene alla sovranità dello Stato. Le sentenze sono pronunciate in nome del popolo».

(Variante proposta: in nome della Repubblica).

«Art. 2. – Il potere giudiziario in materia civile e penale è esercitato dai giudici ordinari, istituiti e regolati dalla legge sull’ordinamento giudiziario.

«Le norme sull’ordinamento giudiziario debbono essere deliberate con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere.

«Al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti spetta l’esercizio della funzione giurisdizionale nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge.

«Non possono essere istituiti organi speciali di giurisdizione, se non per legge votata a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere. In nessun caso possono essere istituiti giudici speciali in materia penale.

«I Tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra.

«Presso gli organi giudiziari ordinari possono essere istituite, per determinate materie, apposite sezioni con la partecipazione di magistrati e di cittadini esperti, nominati a norma della legge sull’ordinamento giudiziario».

«Art. 3. – I magistrati nell’esercizio delle loro funzioni dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza.

«I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete».

«Art. 4. – I magistrati, sia giudicanti che del Pubblico Ministero, sono inamovibili dopo il tirocinio fissato dalla legge sull’ordinamento giudiziario. Essi non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, retrocessi, trasferiti ad altra sede, od anche semplicemente destinati ad altre funzioni, se non con il loro consenso, ovvero per deliberazione del Consiglio superiore della Magistratura per i motivi e con le garanzie di difesa stabiliti dalla legge sull’ordinamento giudiziario.

«Il Pubblico Ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati».

(Variante proposta: Sopprimere l’ultimo comma).

«Art. 5. – La Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente: le assunzioni, le promozioni, le assegnazioni di sede, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari ed in genere il governo della Magistratura sono demandati, a norma della legge sull’ordinamento giudiziario, al Consiglio superiore della Magistratura.

«Il Consiglio è presieduto dal Presidente della Repubblica. Il Ministro della giustizia ne è il vice-presidente. È composto del Primo Presidente della Corte di cassazione e di membri eletti per metà da tutti i magistrati tra gli appartenenti alle loro diverse categorie stabilite dalla legge, e per metà dall’Assemblea Nazionale.

«I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi».

«Art. 6. – La nomina dei magistrati è fatta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta dei Consiglio superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da un periodo di tirocinio. Possono essere nominate anche le donne.

«La composizione delle sezioni e la nomina dei componenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti saranno regolate dalla legge.

«Il Consiglio superiore della Magistratura potrà, con le modalità fissate dalla legge sull’ordinamento giudiziario, disporre la nomina di magistrati onorari per tutte quelle funzioni giudiziarie che la legge attribuisce alla competenza dei giudici singoli.

«Lo stesso Consiglio superiore potrà, in considerazione di meriti insigni, proporre in via eccezionale la nomina senza concorso al grado di Consigliere di cassazione di avvocati esercenti da almeno 15 anni o di professori ordinari di materie giuridiche nelle Università.

(Variante proposta: Sopprimere gli ultimi due commi).

«Art. 7. – L’azione penale è pubblica e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere o ritardare in alcun caso l’esercizio».

«Art. 8. – I dibattimenti si svolgono oralmente; le udienze sono pubbliche, salvo che la legge, per ragioni di ordine pubblico o di moralità, non disponga altrimenti.

«La difesa, in ogni stadio e grado del procedimento nelle forme stabilite dalla legge, è un diritto inviolabile».

«Art. 9. – Tutti i provvedimenti giurisdizionali devono essere motivati».

(Variante proposta: Sopprimere l’articolo).

«Art. 10. – Contro le sentenze o le decisioni pronunciate in ultimo grado dagli organi giudiziari ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso alla Cassazione, secondo legge».

«Art. 11. – La sentenza, non più soggetta ad impugnazione di qualsiasi specie, è immutabile e non può essere annullata o modificata neppure per atto del potere legislativo o esecutivo, salvo casi di legge penale abrogativa (o più favorevole?), di amnistia, di indulto e di grazia.

«L’esecuzione della sentenza irrevocabile non può essere sospesa, se non nei casi espressamente previsti dalla legge».

«Art. 12. – L’Autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria».

Norma di attuazione.

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i Tribunali militari.

«Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvederà con legge alla soppressione del Tribunale supremo Militare e alla devoluzione della competenza del medesimo alla Cassazione».

La seduta termina alle 11.50.

Erano presenti: Ambrosini, Bozzi, Cappi, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Mannironi, Ravagnan, Targetti e Uberti.

Assenti: Bocconi, Bulloni, Calamandrei, Castiglia, Leone Giovanni e Porzio.

SABATO 11 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

12.

RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI SABATO 11 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Articoli sul potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Tosato, Relatore – Mortati – La Rocca, Relatore – Fabbri – Nobile – Lussu – Zuccarini – Perassi – Cannizzo – Einaudi.

La seduta comincia alle 18.10.

Seguito della discussione degli articoli sul potere esecutivo.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 23:

«Il giudizio sulla responsabilità penale del Primo Ministro e dei Ministri per gli atti relativi all’esercizio delle loro funzioni, spetta alla Corte costituzionale su accusa di una delle Camere».

TOSATO, Relatore, propone che, invece di dire: «per gli atti relativi all’esercizio delle loro funzioni», si dica: «per gli atti compiuti nell’esercizio delle loro funzioni», perché, se l’atto è compiuto da altri, non vi è responsabilità penale.

PRESIDENTE pone ai voti l’articolo così emendato.

(È approvato).

Fa notare che la denominazione di «Corte costituzionale», contenuta in questo articolo, potrà essere in seguito mutata, in relazione alla terminologia che sarà stabilita per questo nuovo istituto.

Osserva che con ciò ha termine l’articolazione sul potere esecutivo.

MORTATI rileva che ancora altri argomenti rimangono da trattare, come quello dei corpi ausiliari, delle norme organizzative di carattere costituzionale, dello stato d’assedio, ecc. A proposito dello stato d’assedio osserva che potrebbe essere presa in esame la relazione che sull’argomento è stata presentata dall’onorevole La Rocca.

LA ROCCA, Relatore, ricorda come il Comitato incaricato dell’articolazione di tale istituto sia stato concorde nel ritenere che non se ne dovesse parlare nella Costituzione, seguendo l’esempio di tutte le altre Costituzioni, ad eccezione di quella di Weimar.

Personalmente però, dal momento che il silenzio non distrugge la pratica di questo potere di eccezionale gravità, che arriva a mettere in giuoco tutti i diritti e le libertà dei cittadini, e dal momento che esso non può essere eliminato, poiché da tutti i pubblicisti e trattatisti è riconosciuto un «diritto di necessità», ritiene che sia opportuno regolarlo nella Costituzione, ponendo dei limiti e delle cautele alla sua attuazione.

Afferma che l’ideale sarebbe che tale provvedimento potesse essere emanato dalle due Camere o meglio ancora dalla prima; ma non vede come ciò sia possibile in speciali situazioni politiche, le quali richiedano un intervento energico ed urgente. Perciò, poiché sembrava che dovesse essere istituito un Consiglio della Repubblica, egli aveva proposto che il Capo dello Stato potesse proclamare lo stato d’assedio, sentito il parere di tale Consiglio, e motivando la necessità del provvedimento. Dal momento però che il Consiglio della Repubblica non è stato più istituito, sempre allo scopo di impedire che il Capo dello Stato sia solo a prendere una decisione di così gravi conseguenze, propone che egli, per proclamare lo stato d’assedio, debba sentire il parere dei Presidenti delle due Camere, fermo restando l’obbligo della motivazione circa la necessità del provvedimento.

TOSATO, Relatore, osserva che la motivazione della necessità non dà alcuna garanzia.

LA ROCCA, Relatore, risponde che certamente la garanzia maggiore risiede nell’obbligo di sentire il parere di uomini politici responsabili, i quali siano in grado di valutare se la situazione comporti la necessità o meno dell’adozione di una misura così eccezionale per la salvaguardia delle istituzioni democratiche.

NOBILE presenta la seguente proposta:

«Il Presidente della Repubblica, su proposta del Primo Ministro, può decretare in casi eccezionali lo stato d’assedio. Il decreto relativo, anche dopo la sua applicazione, dovrà essere presentato alle due Camere per la ratifica».

FABBRI, poiché non vede in tale proposta alcun principio atto a delimitare la portata del provvedimento, né per l’estensione di territorio, né riguardo al periodo di durata, né in ordine alle garanzie costituzionali che vengono sospese, non ritiene che si possa senz’altro ammettere l’ipotesi che il Governo possa ricorrere a tale eccezionale misura, rilasciandogli una cambiale in bianco da scontare quando e come vuole: ciò è assolutamente contrario al punto di vista democratico liberale.

Pone perciò l’alternativa, o di elaborare una regolamentazione molto precisa che tenga conto dei criteri su espressi, o di non parlarne affatto nella Costituzione, lasciando al Governo tutta la responsabilità del provvedimento e permettendo così a coloro che ne siano vittime di avere almeno la soddisfazione di dolersi per aver subito una illegalità.

TOSATO, Relatore, non è favorevole ad introdurre nella Costituzione una disposizione che preveda esplicitamente il potere di proclamare lo stato d’assedio, neppure limitandola e cautelandola con quelle garanzie di cui ha parlato l’onorevole Fabbri o con altre maggiori, perché la dichiarazione di stato d’assedio fa parte di quelle disposizioni di necessità che non sono regolabili. A guisa di quanto fu stabilito per la decretazione d’urgenza, ritiene opportuno non trattare questo argomento nella Costituzione, anche perché ciò dimostrerebbe che vi è la preoccupazione di prevedere certe eventualità e di organizzare certe situazioni di poteri più o meno dittatoriali, che sono in contradizione con la logica stessa della Costituzione.

Ritiene che in caso di urgente necessità si possa procedere nei riguardi dello stato d’assedio con la stessa logica con la quale si deve procedere in merito ai decreti di urgenza: il Governo che vi ricorre avrà contro di sé la legge e si assumerà tutte le responsabilità con le relative conseguenze.

NOBILE non è rimasto convinto dalle argomentazioni dell’onorevole Tosato, le quali implicitamente affermano che la proclamazione dello Stato d’assedio è fatta contro la Costituzione. Se di esso è riconosciuta la necessità ed in pratica si è avverata, ritiene che se ne debba parlare nella Costituzione, circondando però questo fatto di quelle garanzie che l’onorevole La Rocca concreta nel parere di alcune alte cariche dello Stato, ed egli nella ratifica da parte del Parlamento subito dopo la proclamazione. Ritiene che le due proposte non si escludano, ma si possano convenientemente integrare.

LUSSU si pronuncia nettamente contro lo stato d’assedio e dichiara che, se pure nella nostra Costituzione, a guisa di tante altre, non se ne parlasse, il silenzio dovrebbe avere il preciso significato che lo stato d’assedio non può essere mai applicato. È contrario a mettere il potere in mano alle autorità militari: preferirebbe che una situazione di emergenza fosse affrontata dal Governo con le forze dell’esercito e della polizia, anziché arrivare alla sospensione delle libertà costituzionali ed al passaggio del potere alle autorità militari. Ritiene che lo stato d’assedio non dovrebbe essere mai applicato, perché è convinto che l’autorità politica ha in sé la piena capacità di far fronte a qualunque situazione anche grave; preferisce che la responsabilità resti totalmente in mano al potere politico e crede che le giuste preoccupazioni dell’onorevole La Rocca possano trovare soddisfazione in una soluzione politica anziché militare. Anche in tempo di guerra la massima e sovrana responsabilità è del potere politico – che egli vorrebbe intervenisse anche nella suprema direzione della condotta delle operazioni militari; altrettanto dovrebbe avvenire in occasione di situazioni interne anche gravi. È contrario a che lo stato d’assedio sia contemplato nella Carta costituzionale.

PRESIDENTE ritiene che, purtroppo, in un periodo di assestamento come quello che sta attraversando l’Italia, vi saranno situazioni difficili da fronteggiare, le quali richiederanno forse misure di carattere eccezionale. Non crede che dello stato d’assedio si possa tacere nella Carta costituzionale: il Governo lo proclamerà ed il Parlamento, o condividerà la responsabilità del Governo approvandolo, o porrà il Governo in stato d’accusa per aver fatto ricorso ad una misura anticostituzionale. Qualora perciò non si ritenesse di abolire del tutto tale istituto – ed il divieto dovrebbe essere molto esplicito, perché è freno molto maggiore il proibire che il tacere; ed egli lo voterà – proporrebbe di adottare la formulazione seguente che tiene conto delle proposte presentate dagli onorevoli La Rocca e Nobile:

«Il Presidente della Repubblica, su proposta del Primo Ministro e consultati i Presidenti delle due Camere, può, in caso eccezionale, decretare lo stato d’assedio. Il decreto relativo dovrà essere presentato per la ratifica alle Camere immediatamente convocate».

ZUCCARINI non crede si possa parlare di stato d’assedio nella Costituzione, la quale sancisce un insieme di libertà che non ammettono eccezioni; il parlarne, anche per negarlo, potrebbe significare che se ne ammette la possibilità. Il Governo che vi vuole ricorrere sappia che dovrà rispondere di un atto illegale, come quello della violazione delle libertà, per il quale può anche essere posto in stato d’accusa davanti all’Assemblea. Altrimenti ritiene che occorrerebbe circondare l’istituto dello stato d’assedio di tali garanzie e richiedere una speciale regolamentazione, la quale forse riuscirebbe incompleta per la difficoltà di prevedere tutti i casi.

NOBILE accetta le modificazioni introdotte dal Presidente nella sua proposta. Osserva che con il nuovo ordinamento regionale, e con le speciali autonomie accordate o da accordarsi a determinate Regioni, sarà sempre più facile il caso che il Governo debba intervenire con la forza per reprimere dei moti. Non vorrebbe che si togliesse di mano al Governo una tale arma, perché ne sarebbe diminuita la sua autorità.

PRESIDENTE ricorda che nel progetto approvato dalla Sottocommissione si prevede il caso di scioglimento delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali; ma si tratta di un’azione legale, circondata di forme legali.

ZUCCARINI osserva che l’ipotesi avanzata dall’onorevole Nobile è prevista nel progetto per le autonomie regionali, e che il giorno in cui una Regione violasse la Costituzione si porrebbe con ciò stesso fuori della Costituzione.

LA ROCCA, Relatore, comprende le preoccupazioni di coloro che non vorrebbero si parlasse di stato d’assedio nella Carta costituzionale: e difatti l’unica Costituzione che ne parla – quella di Weimar – con l’applicazione di questo articolo ha spianata la via alla dittatura. Ma osserva che il silenzio non esclude la possibilità che il potere esecutivo, in determinati casi ed a suo arbitrio, vi ricorra: è chiaro che non si possono prevedere tutte le ipotesi (ed entrare in una casistica sarebbe anche pericoloso), ma ritiene che un minimo di cautele dovrebbe essere stabilito; onde la sua proposta di non lasciare ad un uomo solo la valutazione della necessità di ricorrervi. Che il silenzio della Costituzione ponga il Governo di fronte alle sue responsabilità non ha, a suo giudizio, gran peso, perché è sempre il Paese che paga, e ad altissimo prezzo, le conseguenze dall’atto. È quindi di opinione o di vietarlo espressamente, o di circondarlo delle maggiori cautele. La pratica ha dimostrato che in Italia, dal 1870 in poi, il Governo vi ha fatto ricorso.

ZUCCARINI vorrebbe si citasse un solo caso in cui lo stato d’assedio sia servito per difendere le libertà dei cittadini.

LA ROCCA, Relatore, osserva che nell’unico caso in cui avrebbe potuto servire a questo, non fu adoperato; ma si augura che gli esponenti del potere di domani, il quale poggia su basi democratiche, ne faranno uso a sostegno della libertà e degli interessi della maggioranza del popolo italiano.

PRESIDENTE, poiché teme che anche in futuro, se si ricorrerà allo stato d’assedio, non sarà per la difesa della democrazia, ma proprio per imporre il volere di una minoranza alla maggioranza del popolo italiano, ribadisce la sua opinione di proibirlo espressamente nella Costituzione, o di stabilire per la sua proclamazione la corresponsabilità di almeno quattro persone (Presidente della Repubblica, Presidente del Consiglio, Presidenti delle due Camere), che a vicenda si richiameranno ad un maggior senso di responsabilità.

MORTATI ritiene che possano verificarsi stati di necessità, all’infuori delle ipotesi regolate, che rendano vane tutte le cautele ed i limiti che si vogliano introdurre. D’altra parte ricorda che, quando si discusse del decreto-legge, fu stabilito di non parlarne nella convinzione che ciò portasse alla esclusione del diritto di ricorrervi; ma fa presente la diversa misura del danno che può derivare al Paese dal divieto di un decreto-legge e dal divieto dello stato d’assedio. Di qui la duplice preoccupazione, o che si possa ricorrere troppo facilmente alla dichiarazione di stato d’assedio, perché nella prassi italiana esso rientra nei poteri ordinari del Governo, o che possa verificarsi un danno più grave, se si mettesse il Governo nell’impossibilità di procedere con mezzi eccezionali in casi eccezionali. Ciò l’induce a considerare la opportunità di disciplinare questo istituto, anche con efficacia limitata, sia per quanto riguarda la forma (richiesta del parere dei Presidenti delle due Camere) sia nei riguardi del contenuto (stabilendo quali garanzie costituzionali restino sospese in questo periodo).

FABBRI, in linea subordinata, potrebbe accedere alle limitazioni proposte, ma in linea principale si dichiara favorevole alla proibizione dello stato d’assedio e propone la seguente formula da introdurre nella Costituzione:

«È vietata la dichiarazione dello stato d’assedio ed è altresì vietata ogni altra misura di sospensione totale o parziale delle garanzie regolate dalla presente Costituzione».

MORTATI è contrario a questa proposta, le cui conseguenze sarebbero gravissime, togliendo essa ogni possibilità di ricorrere allo stato d’assedio anche ove se ne presentasse un’assoluta necessità. È del parere che, o nella Costituzione non se ne debba dir nulla, affidandosi allo svolgimento futuro della prassi, o che si debba autorizzarlo in quei limiti e con quelle garanzie che, pur avendo un valore relativo, costituiranno sempre una remora ad un eventuale abuso.

PERASSI osserva che dalla discussione sono risultate due formule e due soluzioni nettamente opposte del problema: o prevedere espressamente la proibizione dello stato d’assedio, o disciplinare questo istituto nella Costituzione. Ritiene praticamente inammissibile la formula del divieto, perché o esso resterebbe lettera morta, o le sue conseguenze sarebbero anche più gravi dell’applicazione! Crede perciò più conveniente che dello stato d’assedio si parli nella Costituzione per disciplinarlo.

Dopo aver rilevato che anche nella Costituzione cecoslovacca se ne parla in senso generico, osserva che nella Costituzione di Weimar, già da altri ricordata, sono posti dei limiti che si concretano da un lato nel determinare quali sono i diritti costituzionali che in ogni caso potrebbero essere sospesi durante lo stato d’assedio, dall’altro nelle condizioni che devono verificarsi per potere emettere il decreto che lo proclama.

Ritiene sarebbe più essenziale precisare gli articoli della Costituzione ai quali si possa temporaneamente derogare; e per quanto riguarda le altre condizioni, escludendo che tale misura possa esser presa da una sola persona, si potrebbe richiedere il parere del Presidente del Consiglio, o una deliberazione del Consiglio dei Ministri, o il parere dei Presidenti delle due Camere od anche prevedere che l’atto proclamante lo stato d’assedio debba essere sottoposto al parere del Parlamento.

EINAUDI desidererebbe sapere quali sono i poteri che il Governo non può usare senza la dichiarazione dello stato d’assedio.

PERASSI risponde, riferendosi alla Costituzione germanica, che le libertà il cui esercizio può essere sospeso temporaneamente sono: l’inviolabilità del domicilio, l’inviolabilità del segreto epistolare, la libertà di stampa, la libertà d’opinione, la libertà d’associazione, ecc.; e che si tratta insomma di tutti i diritti personali.

PRESIDENTE pone per prima in votazione la proposta più drastica: che nella Costituzione non si parli dello stato d’assedio.

(Non è approvata).

Mette ai voti la prima parte della proposta dell’onorevole Fabbri, secondo la quale dalla Costituzione «è vietata la dichiarazione dello stato d’assedio».

MORTATI voterà contro, perché, non potendosi di fatto impedire una eventuale dichiarazione dello stato d’assedio, la proibizione avrà il solo effetto di screditare la Costituzione.

TOSATO, Relatore, si associa alla dichiarazione di voto dell’onorevole Mortati.

NOBILE voterà contro, perché ritiene necessaria tale misura eccezionale in caso di movimenti indipendentistici o separatisti in qualche Regione.

CANNIZZO voterà a favore, anche per le considerazioni fatte dall’onorevole Nobile, poiché, in taluni casi, lo stato d’assedio potrebbe essere invocato a pretesto per sopprimere le garanzie accordate alle Regioni; ma soprattutto perché esso è l’arma più pericolosa per soffocare le libertà dei cittadini.

LUSSU voterà a favore proprio in seguito a quanto ha detto l’onorevole Nobile, perché crede che per sedare movimenti separatisti siano sufficienti ordinari ma energici provvedimenti da parte degli organi del potere esecutivo.

PRESIDENTE voterà a favore; ed in linea subordinata voterà la proposta che si parli nella Costituzione dello stato d’assedio per disciplinarlo.

(È approvata).

FABBRI avverte che, a suo parere, ciò che si è approvato significa principalmente che è vietato il passaggio all’autorità militare dei poteri spettanti all’esecutivo; ma poiché si deve impedire che la sospensione totale o parziale delle garanzie costituzionali possa essere dichiarata arbitrariamente dal potere esecutivo anche all’infuori dello stato d’assedio, ha chiarito questo concetto nella seconda parte della sua proposta.

MORTATI ritiene che la votazione avvenuta sia inficiata da un equivoco, perché il passaggio dei poteri dall’autorità civile all’autorità militare non costituisce l’essenza dello stato d’assedio, ma solo uno dei modi con cui lo stato d’assedio viene realizzato, e la sua esclusione potrebbe costituire uno dei limiti da prendere in considerazione. Sarebbe stato più logico stabilire ciò che si voleva proibire, perché lo stato d’assedio implica dei poteri straordinari (che non sono stati toccati né delimitati quando si è deciso di proibirlo) di ben più vasta portata.

PRESIDENTE osserva che dalla risposta data all’onorevole Einaudi circa le libertà che venivano lese da questa eccezionale misura, è rimasto chiarito per tutti di che cosa si trattasse quando si parlava di stato di assedio.

NOBILE chiede che sia votato il seguente emendamento aggiuntivo alla formula approvata: «Salvo in caso di movimenti indipendentisti o separatisti».

FABBRI voterà contro, perché tale motivazione si presterebbe inevitabilmente ad essere deformata dall’autorità che adotta il provvedimento.

PRESIDENTE pone ai voti questo emendamento aggiuntivo dell’onorevole Nobile.

(Non è approvato).

MORTATI propone il seguente emendamento aggiuntivo: «Salvo in caso di movimenti insurrezionali diretti a stabilire la dittatura».

PRESIDENTE pone ai voti questo emendamento aggiuntivo dell’onorevole Mortati.

(Non è approvato).

Pone quindi in votazione la seconda parte della formula proposta dall’onorevole Fabbri: «ed è altresì vietata ogni altra misura di sospensione totale o parziale delle garanzie regolate dalla presente Costituzione».

(È approvata).

Avverte che si deciderà in seguito sulla collocazione di questo articolo, il quale resta così formulato:

«È vietata la dichiarazione dello stato d’assedio ed è altresì vietata ogni altra misura di sospensione totale o parziale delle garanzie regolate dalla presente Costituzione».

Ricorda che l’esame dell’articolo 14 fu rinviato ed apre su di questo la discussione:

«Il Presidente della Repubblica può convocare le Camere, e, sentito il parere dei loro Presidenti, può scioglierle».

MORTATI rileva che questo articolo si può intendere in due sensi; perché può riferirsi sia ai casi contemplati da altri articoli (scioglimento delle due Camere in caso di conflitto tra loro o in caso di voto di sfiducia), sia ad un potere limitato di scioglimento. Vorrebbe che ciò fosse chiarito.

TOSATO, Relatore, osserva che appunto l’articolo 38 del testo del Comitato di redazione prevede lo scioglimento in caso di dissenso tra le due Camere, poiché il secondo comma è così formulato:

«Quando una Camera non si pronuncia entro il termine stabilito sopra un disegno di legge approvato dall’altra, o quando lo rigetta o modifica, il Presidente della Repubblica può chiedere che la Camera stessa si pronunci o riesamini il disegno. Se non si pronuncia o se con la nuova deliberazione conferma la precedente, il Presidente della Repubblica ha facoltà di indire un referendum popolare sul disegno non approvato o di sciogliere le due Camere».

FABBRI dichiara la sua perplessità nel dover parlare di un argomento così grave, tanto più che vede che si dà come approvato dalla Sottocommissione il testo formulato dal Comitato di redazione letto dall’onorevole Tosato, nel quale è prospettata l’ipotesi dello scioglimento delle Camere in caso di conflitto tra di esse.

Si spiega ad ogni modo una tale misura in una Costituzione a regime monarchico-parlamentare, in quanto il monarca, pur concorrendo alla formazione delle leggi, è qualcosa di diverso dal Parlamento, e quando trova disarmonia tra l’espressione del Paese e quella delle Camere ricorre allo scioglimento; non se la spiega invece in un regime repubblicano parlamentare, in cui il Capo dello Stato ed il Governo sono una diretta emanazione delle due Camere elettive, non solo, ma in cui il Senato, avendo una durata eguale alla prima Camera, dovrebbe logicamente essere egualmente sciolto, permettendo così al Governo, almeno per un certo tempo, di rendersi arbitro della situazione senza il controllo di nessuna delle Camere.

Ricorda la Costituzione repubblicana francese in vigore fino a poco tempo fa, nella quale lo scioglimento da parte del Capo dello Stato era previsto limitatamente alla Camera dei Deputati, su parere del Senato che non poteva essere sciolto.

PERASSI osserva che, pur non essendo sciolto, il Senato non poteva funzionare.

FABBRI riconosce giusta l’osservazione dell’onorevole Perassi, ma chiarisce il suo pensiero rilevando che nei periodi precedenti le elezioni il Senato, pur non potendo funzionare, esercitava un controllo e, per l’autorità dei suoi membri, una grande influenza sul Governo.

Si dichiara quindi contrario alla proposta contenuta nell’articolo, perché i Presidenti delle due Camere non impersonano affatto il Parlamento e non possono dare pareri in suo nome; come è contrario a che un semplice rigetto di un disegno di legge possa condurre allo scioglimento delle due Camere.

NOBILE ritiene che ci si debba preoccupare della stabilità del Governo, ma anche di quella del Parlamento, perché i frequenti mutamenti non giovano al Paese. Vorrebbe perciò che si indicasse in quali casi il Parlamento potrà essere sciolto, limitando la generica facoltà di scioglimento da parte del Presidente della Repubblica.

EINAUDI ricorda la pessima prova data dall’intervento del Senato nello scioglimento della Camera in Francia, secondo la Costituzione in vigore fino a poco tempo fa, poiché la difformità di pareri tra il Presidente della Repubblica ed il Senato circa lo scioglimento della Prima Camera è stata una delle cause di decadenza del parlamentarismo francese. Escluderebbe perciò in ogni caso la facoltà del Senato di impedire lo scioglimento del Parlamento.

Rileva poi che là dove, come in America, il Capo dello Stato impersona il potere esecutivo e le Camere quello legislativo, si può giungere ad un conflitto tra Presidente e Congresso, conflitto che è causa di impotenza politica.

Nel nostro caso, pensa si debba pur ammettere che un Primo Ministro, designato dal Presidente della Repubblica ed accettato in un primo tempo dalle Camere, si venga a trovare in tempo successivo in contrasto col Parlamento; e ritiene che l’unico rimedio consista appunto nelle nuove elezioni, le quali saranno indicative della volontà popolare nei riguardi del conflitto che è sorto.

NOBILE ricorda che nella Costituzione francese è contemplato un sistema per dirimere i conflitti tra Governo e Parlamento, perché con l’articolo 51 si riconosce implicitamente che la decisione dello scioglimento spetta alla Camera: questo infatti stabilisce che se, nel corso di un periodo di 18 mesi, sopravvengano due crisi ministeriali, il Consiglio dei Ministri, dietro parere dell’Assemblea, potrà decidere lo scioglimento dell’Assemblea stessa.

TOSATO, EINAUDI e MORTATI osservano che una simile disposizione è grave e pericolosa.

PRESIDENTE fa presente che dal verbale della seduta pomeridiana del 21 dicembre 1946 risulta che l’intero testo dell’articolo 38 sul potere legislativo, al quale si riferiva la norma letta poc’anzi dall’onorevole Tosato, è stato soppresso. Ritiene che il problema potrà eventualmente essere riproposto e riesaminato in altra sede, ma che comunque ora si debba prendere atto di questa situazione di fatto.

La seduta termina alle 20.15.

Erano presenti: Cannizzo, Einaudi, Fabbri, Fuschini, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Terracini, Tosato, Zuccarini.

Assenti: Bordon, Codacci Pisanelli, De Michele, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, Piccioni, Rossi Paolo, Vanoni.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

15.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Leone Giovanni, Relatore – Calamandrei, Relatore – Targetti – Cappi – Ambrosini – Mannironi – Presidente – Bozzi – Laconi – Uberti – Di Giovanni – Farini.

La seduta comincia alle 16.15.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

LEONE GIOVANNI, Relatore, d’accordo con l’onorevole Calamandrei, propone di inserire dopo il secondo comma dell’articolo 4, già approvato dalla Sezione, la seguente disposizione:

«I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi».

Spiega che lo spirito di tale proposta è che non si parli, ad esempio, di un giudice con grado X, bensì di un magistrato con funzioni di pretore, di consigliere di Corte d’appello, ecc., che si stabilisca cioè soltanto la gerarchia delle funzioni. Rileva che una disposizione del genere può anche costituire la base per la risoluzione del problema economico, da tempo richiesta dai magistrati, com’è spiegato anche nella sua relazione scritta.

CALAMANDREI, Relatore, premesso che la questione dei gradi gerarchici è duplice, osserva che ora non si discute dei gradi gerarchici stabiliti dall’ordinamento fascista, bensì dell’abolizione dei gradi nella Magistratura; si tratta cioè di stabilire che la funzione di magistrato è eguale, tanto che si tratti di un pretore, quanto che si tratti del Presidente della Corte di cassazione, e che vi è diversità di ufficio e di stipendio in rapporto all’anzianità.

TARGETTI osserva che tale principio, per il quale un pretore anziano può avere lo stesso stipendio di un consigliere di Cassazione, merita di essere esaminato attentamente.

LEONE GIOVANNI, Relatore, ribadisce il concetto esposto, che sia opportuno inserire nella Costituzione il principio che nell’ambito del potere giudiziario l’attuale gerarchia amministrativa non ha alcun fondamento – dal momento che il grado superiore non ha alcun potere su quello inferiore – ma esiste soltanto una diversità di funzioni.

Rileva che da tale principio possono derivare applicazioni pratiche diverse. Infatti l’onorevole Calamandrei ne trae argomento per sostenere che lo stipendio non deve essere più in relazione al grado gerarchico, ma prevalentemente in funzione di altri elementi, come l’anzianità, le condizioni familiari, ecc.; mentre l’oratore trae dal principio – oltre quella segnalata dall’onorevole Calamandrei – la conseguenza che, non essendovi più una equiparazione dei gradi dei magistrati a quelli degli altri funzionari statali, sarà possibile allo Stato stabilire per i magistrati retribuzioni più adeguate all’elevatezza della loro funzione, senza essere obbligato a fare il medesimo trattamento economico alle categorie di funzionari statali aventi lo stesso grado.

CAPPI dichiara di ritenere implicito il principio esposto dall’onorevole Leone, le cui conseguenze possono essere rinviate alla legge sull’ordinamento giudiziario.

AMBROSINI e MANNIRONI si associano alle considerazioni fatte dall’onorevole Cappi.

PRESIDENTE pone ai voti l’inserzione, dopo il secondo comma dell’articolo 4, della norma:

«I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi».

(È approvata).

Apre ora la discussione sul seguente articolo, riguardante le funzioni e il modo di formazione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, della cui redazione era stato dato incarico all’onorevole Bozzi:

«Al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti (e agli organi regionali previsti dall’articolo …) spetta l’esercizio della funzione giurisdizionale nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge.

«I Presidenti e i Consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, e il Procuratore generale di questa, sono nominati dal Presidente della Repubblica fra appartenenti a categorie determinate dalla legge, su designazione delle Presidenze dei due rami del Parlamento, sentite, rispettivamente, l’adunanza generale del Consiglio di Stato e le Sezioni riunite della Corte dei conti».

BOZZI, circa il primo comma dell’articolo da lui formulato, osserva di aver considerato tra parentesi – per non pregiudicare la questione – gli organi regionali di controllo, che, secondo un articolo già approvato in sede di coordinamento, saranno stabiliti dalla legge.

Spiega poi di aver ritenuto più opportuno stabilire, nel secondo comma, che la nomina abbia luogo «su designazione delle Presidenze dei due rami del Parlamento», anziché su designazione delle Assemblee plenarie, che ritiene poco indicate a fare una nomina di questo genere; osserva che, in pratica, nel regolamento interno di queste si delegherà tale compito ad una Commissione o alla Presidenza.

Esprime infine il desiderio che la votazione abbia luogo congiuntamente sui due commi, in quanto è il secondo che dà l’impronta all’intero articolo.

LACONI, appunto perché la questione può essere disciplinata dal regolamento interno delle Camere, prega l’onorevole Bozzi di limitare la sua proposta alla «designazione da parte dei due rami del Parlamento».

BOZZI accetta l’invito dell’onorevole Laconi.

CALAMANDREI, Relatore, considerando dal punto di vista della omogeneità i vari articoli della Costituzione, rileva una disparità fra il trattamento fatto alla Magistratura ordinaria e quello che ora si vuol fare al Consiglio di Stato e alla Corte di conti; infatti, mentre per la Magistratura ordinaria si è stabilito di rimandare il modo di nomina dei capi degli uffici direttivi e dei capi supremi alla legge sull’ordinamento giudiziario, per il Consiglio di Stato e per la Corte dei conti si riterrebbe opportuno inserire le analoghe disposizioni nella Costituzione.

BOZZI osserva che la sua proposta mira a rendere anche questi organi veramente democratici, in quanto sottrae la nomina dei Presidenti e dei Consiglieri al potere esecutivo, per trasferirla al popolo attraverso i suoi rappresentanti.

MANNIRONI concorda con l’onorevole Calamandrei nel ritenere che si debba seguire il medesimo criterio adottato per i capi della Magistratura, la cui nomina è stata rimessa alla legge sull’ordinamento giudiziario.

BOZZI rileva che vi è una sostanziale differenza tra la Magistratura ordinaria e il Consiglio di Stato, perché, mentre i magistrati ordinari seguono la loro carriera e sono promossi per concorso, alla carica di consigliere di Stato – oltre che per concorso dai gradi inferiori – si può pervenire anche per chiamata diretta. Aggiunge che, a suo avviso, la forza del Consiglio di Stato sta appunto nella confluenza dei due sistemi, che rende possibile tanto l’afflusso di tecnici, di giuristi, di specializzati, quanto l’ingresso di coloro che al senso giuridico accompagnano l’esperienza amministrativa.

LEONE GIOVANNI, Relatore, per quanto la disposizione proposta dall’onorevole Bozzi possa costituire una disarmonia nel sistema costituzionale, dichiara di preferirla, perché ritiene opportuno che i capi del Consiglio di Stato – che è un organo giurisdizionale con la esclusiva funzione di controllo del potere esecutivo – non siano nominati dal Consiglio dei Ministri, il quale è appunto l’organo la cui attività deve essere controllata.

Rileva come tale ragione politica – che giustifica l’inserzione di questa norma nella Costituzione – non sia sentita nella stessa misura per capi della Magistratura ordinaria, la cui nomina ben può essere disciplinata dalla legge sull’ordinamento giudiziario, in quanto, mentre questi ultimi sono, per tradizione, scelti fra i magistrati, i consiglieri di Stato sono reclutati anche fuori della loro amministrazione, e quindi non è escluso che la scelta cada su elementi vincolati al potere esecutivo.

Limiterebbe però la portata della disposizione ai soli Presidenti, riservando la nomina dei consiglieri di Stato, i quali, malgrado la loro alta funzione, possono essere personalità non sempre molto note, alla legge che disciplinerà le funzioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti.

LACONI ritiene la funzione del Consiglio di Stato così alta e importante, così diversa da quella della Magistratura ordinaria, da rendere inconcepibile la sottrazione della scelta dei suoi più alti funzionari alla competenza del Parlamento, dell’organo cioè investito dal popolo.

UBERTI manifesta il timore che, modificando il sistema di formazione del Consiglio di Stato, che ha dato indubbie prove della sua funzionalità non solo prima, ma anche durante il fascismo, si vengano a mutare le sue caratteristiche essenziali. Teme infatti che la nomina da parte del Parlamento dei consiglieri di Stato – i quali devono offrire determinate garanzie di competenza e di cultura – porti necessariamente quest’organo ad assumere un carattere di politicità che ridonderebbe necessariamente a suo svantaggio.

Ritiene invece opportuna la nomina da parte del Parlamento per i Presidenti, la cui carica può rivestire un carattere politico.

CALAMANDREI, Relatore, concorda con l’onorevole Uberti nel ritenere che si debba conservare al Consiglio di Stato quel carattere di tecnicità, che dà la possibilità ai Governi di vario orientamento politico, i quali si susseguono, di trovare in esso dei fidati collaboratori, ed evitare che, attraverso la nomina da parte dell’organo legislativo, i consiglieri di Stato siano l’espressione della politica prevalente in un certo periodo. A tale proposito fa presente la situazione poco simpatica in cui si verrebbe a trovare una nuova Camera di fronte ad un Consiglio di Stato, espressione di una politica ad essa contraria, per il fatto di essere stato eletto nella sua maggioranza durante la legislatura precedente, quando altri erano i partiti dominanti. Osserva che sarebbe possibile evitare questo inconveniente solo con l’adozione del sistema seguito negli Stati Uniti, dove all’insediamento del nuovo Presidente segue la sostituzione di tutte le personalità più in vista con altre di gradimento del nuovo Capo dello Stato.

BOZZI ritiene che le osservazioni degli onorevoli Uberti e Calamandrei – che anche egli non ha mancato di considerare – siano più apparenti che sostanziali. Anche demandando la nomina al Consiglio dei Ministri, non mancheranno preoccupazioni di carattere politico in quanto anche i Ministri, che rappresentano correnti politiche, non mancheranno di proporre uomini del partito ai quali essi stessi appartengono.

Del resto, a parte le garanzie costituite sia dal principio che i magistrati non possono appartenere a partiti politici, sia dall’altro che devono essere scelti fra categorie determinate dalla legge, praticamente l’originaria designazione degli eleggibili verrà fatta alle Camere dagli organi competenti, i quali non mancheranno di tener conto delle doti tecniche e giuridiche dei candidati.

AMBROSINI richiama il sistema degli Stati Uniti, dove i giudici della Corte Suprema sono nominati dal Presidente come Capo dell’esecutivo; nomina che deve essere ratificata dal Senato.

È del parere che – stabilito il presupposto che le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato amministrano la giustizia e devono quindi essere composte di tecnici del diritto – affidarne la nomina o la semplice designazione dei componenti al Parlamento significhi in certo senso snaturare il carattere stesso dell’organo. Crede che, se mai, un’eccezione potrebbe farsi per il Presidente del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, a condizione però che, come accennava l’onorevole Bozzi, non sia il Parlamento a prendere l’iniziativa, che, in tal caso, non potrebbe essere che politica.

Conclude facendo la proposta, se non si ritenesse opportuno rimandare ogni decisione in proposito alle leggi particolari – così come egli suggerisce – ma si preferisse affrontare ora il problema, di imprendere in esame l’argomento relativo alla nomina dei Capi della Magistratura ordinaria.

LACONI rileva anzitutto che, non accettando la proposta di dare alle Camere il potere di designare gli alti funzionari del Consiglio di Stato, si sottrarrà al Parlamento una parte probabilmente fondamentale del suo sindacato sul Governo, proprio quando – con l’attuazione in Italia di grandi riforme sociali ed economiche – la sfera di discrezionalità del Governo e l’intervento di esso nella vita e nei rapporti privati andranno sempre più aumentando. D’altra parte rileva che, se è vero che il controllo per accertare se l’operato del Governo rientri nell’ambito normale della legge è essenzialmente tecnico, è altrettanto vero che il controllo sul settore attribuito alla sfera di discrezionalità del Governo è necessariamente politico e non può essere eseguito da un organo tecnico, sottratto alla designazione popolare.

Appunto per questo, si dichiara favorevole ad una soluzione di compromesso, alla creazione cioè di un organo che contemperi le esigenze tecniche con quelle politiche.

Conclude affermando che la designazione dei magistrati del Consiglio di Stato da parte del Parlamento dà affidamento che essa corrisponderà alla volontà del Paese e che quest’organo avrà un’autorità ben maggiore di quella che avrebbe se fosse soltanto di carattere tecnico e nominato dal Governo.

DI GIOVANNI è del parere che la Sezione non debba seguire l’onorevole Laconi nelle sue considerazioni, ma si debba limitare a decidere sulla conservazione o meno delle funzioni giurisdizionali delle Sezioni del Consiglio di Stato. Dichiara di essere favorevole alla conservazione di queste funzioni nelle materie assegnate alla competenza delle Sezioni giurisdizionali stesse.

Quanto poi alla valutazione dei criteri di nomina del Presidente e dei Consiglieri, pensa che si possa puramente e semplicemente far rinvio alla legge. Propone al riguardo la seguente formula:

«La composizione delle Sezioni e la nomina dei componenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti saranno regolate dalla legge».

CALAMANDREI, Relatore, rileva che le argomentazioni dell’onorevole Laconi avrebbero dovuto condurlo all’affermazione che anche i magistrati ordinari – ai quali spetta di applicare il diritto – devono essere nominati dal Parlamento, e cioè dal popolo da cui deriva la sovranità. Non vede quindi perché per i magistrati ordinari non si richieda questo sistema di nomina, mentre lo si esige per i consiglieri di Stato, i quali sono anch’essi magistrati e, come tali, nominati a vita e inamovibili, e reclamano la medesima indipendenza e le stesse garanzie accordate ai magistrati ordinari.

Riallacciandosi ad un concetto già esposto, rileva che appunto affinché la democrazia – che è un continuo succedersi di maggioranze che diventano minoranze e di minoranze che diventano maggioranze – continui a sussistere, è necessario che il controllo sulla legalità degli atti amministrativi sia affidato ad un corpo di persone scelte non perché appartenenti ad un partito, ma perché in possesso di una determinata preparazione professionale.

LACONI replica all’onorevole Calamandrei di non essere favorevole alla nomina dei consiglieri di Stato a vita, in quanto ciò espone al pericolo che, in un determinato momento, ve ne possano essere alcuni che non rispecchino più il punto di vista dominante nel Paese.

TARGETTI propone la seguente formula:

«I consiglieri di Stato e della Corte dei conti sono nominati in seguito a concorso, secondo legge.

«I Presidenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, e il Procuratore generale di questa, saranno nominati dal Parlamento su una terna formata dall’adunanza generale del Consiglio di Stato e dalle Sezioni riunite della Corte dei conti».

AMBROSINI all’onorevole Laconi, il quale ammetterebbe la conservazione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti a condizione che i consiglieri fossero nominati dal Parlamento, osserva che, nel caso in cui, non approvandosi il mantenimento di tali Sezioni giurisdizionali, le loro attuali competenze fossero devolute alla Magistratura ordinaria, tutte le considerazioni da lui fatte dovrebbero essere ripetute nei riguardi della Magistratura ordinaria; il che non è ammissibile.

Rileva altresì che, procedendo con gli stessi criteri dei magistrati ordinari nell’interpretazione della legge, anche i Consiglieri delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti sono magistrati, e come tali debbono essere considerati dei tecnici ed esser posti in una posizione che non sia subordinata o influenzata da correnti politiche, cosa questa che si verificherebbe se la loro nomina avesse luogo in seno all’organo politico.

È perciò favorevole alla proposta fatta dall’onorevole Targetti, la quale stabilisce che i consiglieri delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti siano nominati in seguito a pubblico concorso.

MANNIRONI, concordando con quanto hanno osservato gli onorevoli Calamandrei ed Ambrosini, dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Targetti, con la riserva di risollevare la questione in sede opportuna, al fine di richiedere che il medesimo criterio sia adottato anche per la Magistratura ordinaria.

PRESIDENTE riassume la discussione e ricorda le proposte formulate dagli onorevoli Bozzi, Di Giovanni e Targetti.

Pone ai voti la prima parte della proposta fatta dall’onorevole Bozzi:

«Al Consiglio di Stato e alla Corte dei conti spetta l’esercizio della funzione giurisdizionale nelle materie e nei limiti stabiliti dalla legge».

(È approvata).

BOZZI, per quanto riguarda la seconda parte, dichiara che, se non sarà accolta la sua proposta, voterà in linea subordinata quella dell’onorevole Di Giovanni, che rinvia la soluzione del problema alla legge.

TARGETTI dichiara di ritirare la sua proposta.

PRESIDENTE mette anzitutto ai voti la seconda parte della proposta Bozzi:

«I Presidenti e i consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, e il Procuratore generale di questa, sono nominati dal Presidente della Repubblica fra appartenenti a categorie determinate dalla legge, su designazione dei due rami del Parlamento, sentite, rispettivamente, l’adunanza generale del Consiglio di Stato e le Sezioni riunite della Corte dei conti».

(Non è approvata).

Mette quindi in votazione la proposta fatta dall’onorevole Di Giovanni:

«La composizione delle Sezioni e la nomina dei componenti del Consiglio di Stato e della Corte dei conti saranno regolate dalla legge».

(È approvata).

AMBROSINI dà notizia di aver ricevuta una memoria: «L’Avvocatura dello Stato nell’ordinamento costituzionale», con la quale si fa presente l’opportunità che quest’organo ausiliario della giustizia, il quale ha sempre funzionato benissimo, sia messo in condizione di assolvere al suo compito sulla base della legalità, senza essere sottoposto a pressioni nell’esplicazione del suo giudizio tecnico. È del parere che, coerentemente con le deliberazioni prese per garantire l’assoluta indipendenza degli organi giurisdizionali, sia opportuno inserire nella Costituzione una semplice proposizione con la quale si stabilisca il principio che anche l’Avvocatura dello Stato è circondata dalle medesime garanzie che spettano ai Magistrati.

BOZZI crede che un principio del genere sia già affermato in una legge esistente.

AMBROSINI concorda con l’onorevole Bozzi, ma prospetta l’opportunità di inserire tale dichiarazione nella Costituzione.

BOZZI condivide il punto di vista dell’onorevole Ambrosini e non sarebbe alieno dall’introdurre nella Costituzione una norma con la quale si affermasse pure che il patrocinio degli interessi dello Stato e delle Regioni è affidato all’Avvocatura dello Stato.

TARGETTI ritiene che una norma concernente l’Avvocatura dello Stato non possa trovar posto nella parte che riguarda il potere giudiziario.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Targetti. Pensa che tale disposizione potrà essere collocata in altra sede; ad ogni modo, invita fin d’ora gli onorevoli Ambrosini e Bozzi a predisporne la formulazione.

(Così rimane stabilito).

Apre ora la discussione sull’articolo 26 del progetto Calamandrei:

«Natura costituzionale delle leggi giudiziarie. – Le leggi che regolano l’ordinamento degli uffici giudiziari e lo stato giuridico dei magistrati e degli altri addetti all’ordine giudiziario non possono essere modificate che nelle forme e con le garanzie stabilite per modificare la presente Costituzione»;

e sul corrispondente articolo 13 del progetto Leone:

«La legge di ordinamento giudiziario è norma costituzionale».

TARGETTI ritiene eccessivo stabilire che, per modificare anche un solo punto delle leggi giudiziarie, si esiga la procedura stabilita per la modifica della Costituzione.

AMBROSINI è anch’egli del parere che sia inutile e dannoso introdurre nella Costituzione una dichiarazione generica, per la quale tutti i problemi che si riferiscono all’ordinamento giudiziario assumerebbero il carattere costituzionale e richiederebbero quindi, per la loro eventuale modificazione, la messa in moto di questa procedura speciale.

UBERTI rileva che altro è Costituzione, altro è legge di carattere costituzionale, per modificare la quale non è necessario che sia messo in moto tutto il meccanismo richiesto per la modifica della Costituzione, ma è sufficiente l’approvazione da parte di una maggioranza qualificata.

FARINI aderisce alle considerazioni dell’onorevole Ambrosini.

BOZZI non è d’accordo. Dal momento che si è entrati nell’ordine di idee di delineare un triplice ordine di norme – leggi ordinarie, norme sottoposte a procedimento di revisione costituzionale, leggi da approvarsi a maggioranza qualificata (per le quali, data la loro importanza, si richiede un maggior apporto di volontà) – si potrebbe seguire la via intermedia, stabilendo che le norme sull’ordinamento giudiziario devono essere deliberate con legge approvata a maggioranza assoluta dei componenti delle Camere.

AMBROSINI ricorda di aver già manifestato il suo parere contrario a questo terzo tipo di legge. Ritiene poi che, nel caso in esame, non si debba accedere alla proposta intermedia che è stata presentata, essendo, a suo avviso, sufficiente la legislazione ordinaria, ad eccezione dei casi di modifica dei principî generali che potranno essere regolati con legge costituzionale. Prospetta quindi l’opportunità di sopprimere l’articolo.

BOZZI rileva che, oltre ai principî riguardanti il potere giudiziario e i giudici, fissati nella Costituzione, i quali possono essere modificati col meccanismo e con la procedura stabilita per tutte le norme costituzionali, vi è una legge sull’ordinamento giudiziario, la quale è complementare della Costituzione. Si domanda se tale legge debba considerarsi alla stregua della legge ordinaria, o di una legge costituzionale – come propone l’onorevole Calamandrei – o – come egli sostiene – di una legge speciale, per la cui modifica è necessaria una maggioranza qualificata.

Propone, insieme all’onorevole Uberti, la seguente formulazione da sostituire all’articolo 26 del progetto Calamandrei:

«Le norme sull’ordinamento giudiziario debbono essere deliberate con legge approvata con maggioranza assoluta dai componenti delle due Camere».

AMBROSINI insiste sull’opportunità di non complicare eccessivamente la legislazione.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Bozzi-Uberti.

(È approvato).

Apre ora la discussione sull’articolo 14 del progetto Calamandrei:

«Soggezione della pubblica amministrazione alla giurisdizione ordinaria». – Il cittadino potrà ricorrere all’autorità giudiziaria ordinaria non soltanto per chiedere la reintegrazione del proprio diritto soggettivo violato da un atto della pubblica Amministrazione, ma anche per chiedere l’annullamento o la modificazione, per i motivi di legittimità o di merito stabiliti dalla legge, dell’atto amministrativo lesivo del suo interesse.

«L’autorità giudiziaria potrà, secondo i casi, annullare, revocare o modificare l’atto amministrativo impugnato, a meno che la pubblica Amministrazione non dimostri in giudizio l’esistenza di una ragione di carattere politico, che faccia apparire al giudice preferibile alla reintegrazione specifica del diritto la condanna della stessa Amministrazione al risarcimento dei danni».

BOZZI è del parere che quest’articolo non debba esser preso in considerazione, perché non concerne materia costituzionale.

TARGETTI concorda con l’onorevole Bozzi.

MANNIRONI osserva che in tal caso l’articolo in esame è da considerare non approvato.

BOZZI risponde che, non essendo stata respinta nel merito, la disposizione potrà essere ripresa in esame in sede di legge ordinaria.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Bozzi.

(Così rimane stabilito).

Mette in discussione l’articolo 25 del progetto Calamandrei:

«Polizia giudiziaria. – La polizia giudiziaria, che ha per compito la prevenzione, l’accertamento e la repressione dei reati, è posta alla dipendenza esclusiva e diretta dell’autorità giudiziaria»;

e il corrispondente articolo 10 del progetto Leone:

«La polizia è sotto la direzione del pubblico ministero».

TARGETTI si dichiara contrario alla disposizione, che ritiene collegata a quella sul Pubblico Ministero. Osserva in proposito che, se si ammette che il Pubblico Ministero rappresenta il potere esecutivo, la polizia dovrà essere necessariamente alle sue dipendenze; ma, se si scioglie il vincolo che lega il Pubblico Ministero al potere esecutivo e si dà al magistrato la facoltà di disporre della polizia, si finirà per togliere la disponibilità di essa a chi non può esserne privato.

MANNIRONI fa presente il desiderio manifestato dai magistrati, che cioè una sezione speciale della polizia sia posta alle dirette dipendenze della Magistratura ai fini inquirenti.

PRESIDENTE ricorda l’illustrazione che della norma ha fatto l’onorevole Leone; ma rileva che anche una disposizione di tale importanza può essere stabilita in una legge ordinaria.

BOZZI dissente dall’opinione del Presidente, perché ritiene che tale problema, profondamente sentito, difficilmente potrà esser risolto con una legge ordinaria. Di qui la necessità che la Costituzione – oltre a creare l’indipendenza del Pubblico Ministero e del giudice istruttore penale – stabilisca che la polizia giudiziaria, e questa soltanto, sia posta alle loro dipendenze, al fine di dare a questi magistrati la possibilità di compiere con la necessaria sollecitudine le opportune indagini. Aggiunge che in tal modo i poteri coercitivi del Pubblico Ministero e del giudice istruttore avranno lo strumento necessario affinché questa coercizione si attui con rapidità.

MANNIRONI prospetta la necessità di inserire il principio nella Costituzione, al fine di costringere il legislatore ordinario a provvedere in proposito.

TARGETTI rileva che il concetto stabilito nella formula dell’onorevole Leone era in relazione con l’altra che aveva posto il Pubblico Ministero alle dipendenze del Ministro della giustizia.

BOZZI non lo crede, tanto vero che anche l’onorevole Calamandrei, che configurava diversamente il Pubblico Ministero, ha fissato nel suo progetto un’analoga disposizione.

TARGETTI ad ogni modo ritiene che sia più opportuno parlare genericamente di «Autorità giudiziaria».

LACONI osserva che la locuzione: «alla dipendenza» può dar l’impressione che la polizia dipenda, sotto ogni aspetto, dalla Autorità giudiziaria.

BOZZI concorda con l’onorevole Laconi; ritiene quindi preferibile la dizione proposta dall’onorevole Leone: «sotto la direzione».

Propone, d’accordo con gli onorevoli Mannironi e Uberti, la seguente formula:

«La polizia giudiziaria è sotto la direzione dell’Autorità giudiziaria».

UBERTI fa presente l’opportunità – anche al fine di non moltiplicare i comandi – che la polizia sia alle dipendenze del questore; ma riconosce la necessità di stabilire che la polizia giudiziaria, quando riceve un ordine dal giudice istruttore, deve eseguirlo; poiché, se non si ammette che la polizia possa ricevere ordini dall’Autorità giudiziaria, questa sarà privata di ogni possibilità di agire.

CAPPI ritiene che la divergenza possa esser composta con una diversa formulazione della disposizione, dando cioè al magistrato la possibilità pratica di ordinare determinate indagini al commissario di pubblica sicurezza.

TARGETTI insiste nel ritenere la disposizione collegata a quelle riguardanti il Pubblico Ministero.

CAPPI propone la seguente formula:

«L’Autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria».

BOZZI ritira la sua proposta e si associa a quella dell’onorevole Cappi.

PRESIDENTE pone ai voti la formula proposta dall’onorevole Cappi.

(È approvata).

Comunica che, a proposito dell’articolo 11 («Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procederà alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti»), l’onorevole Leone ha presentato una proposta di rettifica del seguente tenore:

«Le giurisdizioni speciali che entro cinque anni dalla data della presente Costituzione non saranno conservate con legge votata a norma dell’articolo 6, resteranno soppresse.

«Entro il medesimo termine si provvederà con legge alla soppressione dei Tribunali militari e delle altre giurisdizioni speciali penali esistenti.

«Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvederà con legge alla soppressione del Tribunale supremo militare e al conseguente trasferimento della competenza del medesimo alla Corte suprema di cassazione».

LACONI ritiene eccessivo il termine di cinque anni dopo l’emanazione della Costituzione previsto per l’abolizione dei Tribunali militari.

CAPPI osserva che i Tribunali militari dovranno restare in carica solo per i giudizi in corso.

PRESIDENTE non crede che si possa affermare esplicitamente un tale concetto, perché si correrebbe il rischio di veder protrarre nel tempo e quasi indefinitamente le cause pendenti. Ritiene invece che si debba stabilire che non possono essere più iniziati procedimenti penali dinanzi ai Tribunali militari a decorrere da una determinala data e che i Tribunali stessi sono soppressi a decorrere da quell’altra data che dovrà essere stabilita.

CAPPI adotterebbe la formula:

«I Tribunali militari restano in attività solo per l’esaurimento delle cause in corso e in ogni caso…».

BOZZI osserva che, prima di sopprimere i Tribunali militari definitivamente, è necessario che siano istituite le sezioni specializzate presso i Tribunali ordinari.

MANNIRONI propone che tale materia sia riservata alle norme transitorie.

AMBROSINI concorda, ed aggiunge che bisogna trovare una formula più adeguata.

PRESIDENTE invita l’onorevole Bozzi a presentare una nuova formulazione dell’articolo in parola.

La seduta termina alle 18.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bozzi, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Assenti: Bocconi, Bulloni, Porzio.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE
(SECONDA SEZIONE)

14.

RESOCONTO SOMMARIO

DELTA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Presidente – Farini – Calamandrei, Relatore – Castiglia, Relatore – liberti – Leone Giovanni, Relatore – Ambrosini – Mannironi – Cappi – Lagoni – Targetti – Di Giovanni – Ravagnan.

La seduta comincia alle 9.25.

Seguito delia discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 8 del progetto dell’onorevole Calamandrei:

«Pubblicità e legalità dell’azione penale. – L’azione penale è pubblica, e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne sospendere e ritardare l’esercizio per ragioni di convenienza».

FARINI chiede che venga innanzi tutto definita la figura del Pubblico Ministero e chiarito se debba dipendere dal Ministro della giustizia o dal Consiglio Superiore della Magistratura. È sua opinione che debba dipendere dal Ministro della giustizia.

CALAMANDREI, Relatore, considera il Pubblico Ministero come un magistrato, che deve agire secondo il principio della legalità. Se sono in suo possesso elementi che possano condurre all’accertamento di un reato, deve procedere senza astenersene per qualsiasi ragione.

Pertanto il Pubblico Ministero non è funzionario amministrativo, ma, come ha già detto, un magistrato, e deve godere dei requisiti dell’indipendenza e della inamovibilità, vecchia aspirazione dei magistrali a garanzia di libertà e di legalità.

CASTIGLIA, Relatore, richiama l’attenzione sull’articolo 9 dell’onorevole Leone, che si ispira ai criteri espressi dall’onorevole Calamandrei:

«Il Pubblico Ministero veglia all’osservanza delle leggi; promuove l’azione penale e, nei casi previsti dalla legge, l’azione civile, e provvede all’esecuzione delle sentenze penali. In tutti i casi in cui ha il diritto di promuovere l’azione o di partecipare al processo può impugnare i provvedimenti del giudice».

UBERTI pensa che il supporre che un Pubblico Ministero possa non esercitare una azione penale per ragioni di opportunità e di convenienza sia in contrasto con i principi della democrazia. Non trova giustificato il timore manifestato dall’onorevole Calamandrei che ciò sarebbe possibile qualora il Pubblico Ministero fosse alle dipendenze del potere esecutivo; un delitto; deve essere sempre perseguito prescindendo da qualsiasi ragione di convenienza.

LEONE GIOVANNI, Relatore, afferma che la sua tesi, che cioè la funzione del Pubblico Ministero rientri nell’ambito del potere esecutivo e l’affermazione del principio fissato nell’articolo 8 del progetto dell’onorevole Calamandrei sono perfettamente conciliabili; invita quindi i colleghi ad approvare il principio della obbligatorietà dell’azione penale.

Coerentemente alla concezione del Pubblico Ministero quale organo del potere esecutivo, egli ha proposto che gli vengano sottratte tutte quelle funzioni che sono tipicamente giurisdizionali. Non nasconde di essere profondamente turbato dalle difficoltà che sorgerebbero dall’accettazione della sua proposta. Facendo del Pubblico Ministero un organo spiccatamente dipendente dal potere esecutivo, occorrerà predisporre nella Carta costituzionale gli strumenti atti ad impedire il paventato pericolo, che il principio della legalità possa essere violato.

Lo strumento attuale per impedire tale pericolo sta nella struttura del Pubblico Ministero come organo misto, nel senso che è roganizzato e disciplinato come un magistrato. Esso, anzi, col decreto Togliatti, ha già realizzato la garanzia della inamovibilità. Lo strumento più idoneo per garantire la legalità dell’azione penale è l’avere sganciato il Pubblico Ministero, dal punto di vista gerarchico, dal potere esecutivo; ma se si volesse agganciarlo al potere esecutivo, vi sarebbero due strade da lui già indicate: Cuna è quella di vedere se la Costituzione in altre sue parti offra al cittadino possibilità concrete e precise per impedire l’arbitrio del funzionario; la seconda, largamente innovativa della tradizione, è quella di rendere possibile, in caso di negligenza del Pubblico Ministero, al giudice di iniziare ex officio il processo penale. Seguendo questa seconda via, si darebbe al Pubblico Ministero un carattere del tutto nuovo, ma che sarebbe, a suo avviso, il più idoneo strumento per garantire quell’osservanza del principio della pubblicità e della legalità di cui all’articolo 8 dell’onorevole Calamandrei.

Concludendo, propone di votare anzitutto l’articolo 8 Calamandrei e subito dopo occuparsi del problema del Pubblico Ministero.

FARINI concorda con l’onorevole Leone circa il riconoscimento della, dipendenza del pubblico ministero dal Ministro della giustizia, e chiede che siano designati esattamente i limiti della sua attività e stabiliti con precisione i mezzi che gli rendano impossibile violare il principio della legalità.

AMBROSINI, richiamandosi a quanto ha detto in una delle passate sedute, preferirebbe che nella Costituzione non si facesse alcuna affermazione sulla dipendenza del Pubblico Ministero, e si riservasse la definizione della sua figura alla legge sull’ordinamento giudiziario.

Dell’articolo 8, proposto dall’onorevole Calamandrei, approva la prima parte: «La azione penale è pubblica e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della leggo»: perché, stabilito come principio fondamentale quello della legalità, ritiene superflua l’affermazione contenuta nella seconda parte, che parrebbe quasi diminuire la struttura del sistema.

Quando, nella seduta precedente, fu discusso se nella Costituzione potessero inserirsi delle proclamazioni di principi generali, difese l’articolo proposto dall’onorevole Calamandrei, nel quale si affermava un principio di indole generale, cioè l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario; ma diverso è il caso per l’ultima parte dell’articolo 8.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara di essere d’accordo.

PRESIDENTE fa rilevare che, escludendo dalla formulazione dell’articolo 8 l’ultima parte, è opportuno far risultare dal verbale che il principio è accettato dalla Commissione e che deve considerarsi tenuto presente nelle formulazioni successive.

AMBROSINI sarebbe anche disposto a votare la seconda parte, riservandone la eliminazione al Comitato di redazione. In tal modo resterebbe ben chiaro che questo è il pensiero lassativo della Sottocommissione.

MANNIRONI ritiene che la seconda parte dell’articolo potrebbe essere conservata, in quanto non turba l’euritmia del progetto e non nuoce alla chiarezza.

CASTIGLIA, Relatore, approva l’articolo come è stato proposto. Aggiunge che non condivide il pensiero dell’onorevole Ambrosini che non si debba parlare, nella Costituzione, della dipendenza del Pubblico Ministero.

AMBROSINI propone il seguente emendamento:

«L’azione, penale è pubblica e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza poterne por qualsiasi ragione sospendere o ritardare l’esercizio».

LEONE GIOVANNI, Relatore, preferirebbe dire: «Senza potere in nessun caso sospenderne o ritardarne l’esercizio».

MANNIRONI chiede se, dicendo che la azione penale è pubblica, si intenda escludere la possibilità della querela.

CALAMANDREI, Relatore, risponde che la querela è un atto privato che rimuove un ostacolo, senza il quale l’azione pubblica non può essere esercitata; una volta presentata la querela, anche se si tratta di querela di parte, l’azione è pubblica.

PRESIDENTE mette ai voti l’articolo 8 così modificato:

«L’azione penale è pubblica, e il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza potere in nessun caso sospenderne o ritardarne l’esercizio».

(È approvato).

Invita quindi l’onorevole Leone a chiarire il suo pensiero sulla figura del Pubblico Ministero, in relazione agli articoli 10 e il del suo progetto.

LEONE GIOVANNI, Relatore, precisa che il sistema da lui proposto risulta dal coordinamento dell’articolo 5-bis o degli articoli 10 e 11.

Chiarisco che egli non ha detto esplicitamente che il Pubblico Ministero dipende dal Ministro della giustizia, ma questo si ricava dall’insieme del sistema. Infatti, l’inamovibilità è riservata al giudice e non si estende al Pubblico Ministero: sono consolidati i rapporti di dipendenza della polizia giudiziaria dal Pubblico Ministero; gli è sottratta la funzione di istruire, in via sommaria, il processo.

In tal modo il Pubblico Ministero assume nettamente la figura di un organo del potere esecutivo.

CALAMANDREI, Relatore, vorrebbe che del Pubblico Ministero si parlasse, secondo il suggerimento dell’onorevole Laconi, con senso realistico, non lasciandosi illudere dalle formule. Si chiede che cosa significhi la dipendenza del Pubblico Ministero dal Ministro della giustizia, quando si è stabilito il principio che il Pubblico Ministero, nella sua funzione preminente di accusa nel processo penale, è tenuto ad osservare il principio di legalità.

Se il Ministro della giustizia ha un potere gerarchico sul Pubblico Ministero, ha anche il potere di ordinargli come deve procedere ed il Pubblico Ministero si deve uniformare all’ordine ricevuto. Or questo può essere ordine di non procedere, mentre egli, per legge, è tenuto a procedere. E allora gli si presenta

il dilemma: o non procede perché il Ministro così gli ordina, e viola la legge; o si attiene al principio di legalità, non uniformandosi all’ordine del Ministro, e allora infrange il rapporto gerarchico di dipendenza dal Ministro.

Quindi, non si può volere affermar da una parte il principio di legalità c dall’altra considerare il Pubblico Ministero dipendente dal Ministro: o Luna o l’altra cosa è proposta inutilmente.

Vorrebbe quindi che l’onorevole Leone spiegasse chiaramente che cosa intenda quando parla di dipendenza del Pubblico Ministero dal Ministro. Se il Pubblico Ministero vuol procedere, perché così glielo impone la legge, mentre il Ministro vorrebbe che non procedesse, potrà il Ministro revocarlo, rimuoverlo, considerando come una insubordinazione quello che è l’adempimento di un preciso dovere legale?

CAPPI trova che il dilemma proposto dall’onorevole Calamandrei è suggestivo: o legalità o dipendenza gerarchica; ma è possibile trovare una terza via d’uscita. Se al Ministro della giustizia si assegnasse il potere non di ordinare al Pubblico Ministero, bensì di vigilare, di consigliare, di far presente l’opportunità di procedere o di non procedere, senza che questo implicasse un comando, anche l’inconveniente rilevato dall’onorevole Calamandrei non si verificherebbe.

AMBROSINI riafferma il suo punto di vista, che non è necessario, e forse nemmeno opportuno, che questa materia sia affrontata dalla Costituzione; ma, se si dovesse decidere in merito, sarebbe per la soluzione di non far dipendere il Pubblico Ministero, in qualsiasi forma, dal Ministro della giustizia.

Poiché si è di fronte alla necessità di una soluzione netta, non ritiene che si possano prendere in considerazione, e nemmeno prospettare, le tre ipotesi. II principio della legalità deve essere alla base di tutto l’ordinamento, onde occorre escludere la dipendenza dal Ministro e porre esplicitamente il Pubblico Ministero sullo stesso piano di garanzie e di cautele che competono agli altri magistrati.

MANNIRONI concorda con quanto ha detto l’onorevole Ambrosini.

PRESIDENTE, dato il pensiero, che già si conosce, dell’onorevole Targetti e quello dell’onorevole Ambrosini a cui si è associato l’onorevole Mannironi, ritiene opportuno votare sulla questione pregiudiziale, se sia opportuno o meno di parlare del Pubblico Ministero nella Costituzione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, desidera rispondere all’interrogativo postogli dall’onorevole Calamandrei. Non avrebbe alcuna difficoltà a ritenere che sia perfino inutile esaminare il problema nella torma drastica da lui stesso proposta, per stabilire in questa sede da chi dipenda il Pubblico Ministero, ma osserva che nemmeno in questa sede è possibile sottrarsi all’esame di alcuni aspetti di questo istituto. Innanzitutto occorre parlare chiaramente dell’inamovibilità, anche perché è una recente conquista del Pubblico Ministero in base al decreto Togliatti. Bisogna quindi stabilire se l’inamovibilità rosta o vien limitata soltanto per i giudici.

Un altro punto che si può stabilire nella Costituzione, e su cui è da ritenere che tutti siano d’accordo, è quello di ricondurre decisamente la polizia giudiziaria alle dipendenze del Pubblico Ministero. Questa dipendenza già esiste, ma non funziona; quindi è opportuno ricordarla nella Costituzione in modo che il futuro legislatore se ne valga per stabilire delle norme più attuabili ed energiche che evitino il ripetersi di inconvenienti segnalali da varie parti. Purtroppo si è stati sempre in pieno regime di arbitrio assoluto. Anche dove la polizia ha il dovere di sottoporre alcuni provvedimenti alla preventiva deliberazione del Procuratore della Repubblica, l’inconveniente spesso si verifica e non esistono sanzioni adeguate.

Occorre dunque porre direttamente alle dipendenze del Pubblico Ministero la polizia giudiziaria, affinché fin dal primo momento sia soddisfatta, da una parte l’esigenza della legalità e della onestà dell’indagine giudiziaria, e dall’altra, l’esigenza della tecnicità dell’indagine stessa. È frequentissimo il caso di procedimenti basati su una falsariga errata per i quali la polizia arriva a conclusioni tali da paralizzare o da compromettere il giusto svolgimento delle indagini e dell’acquisizione delle prove, sicché, per mancanza dell’immediato intervento del Pubblico Ministero, si hanno i segni evidenti del disfacimento del processo.

Dichiara quindi, per quanto riguarda la pregiudiziale, di essere d’accordo sull’opportunità di lasciare la materia alla elaborazione del futuro legislatore; però, a proposito deh problema della inamovibilità c della dipendenza della polizia giudiziaria, ritiene che non sia possibile sottrarsi dal prendere posizione.

A proposito poi del dilemma posto dall’onorevole Calamandrei, e che egli aveva già enuncialo, riconosce che stabilire nello stesso momento la dipendenza del Pubblico Ministero dal potere esecutivo e la pubblicità dell’azione penale, significa rendere possibile un contrasto in concreto; ma è del parere che il Pubblico Ministero, pur essendo organo del potere esecutivo, possa, e debba assumere un atteggiamento di obiettività e di serenità. Tutta l’amministrazione in questo momento tende a porsi nel quadro della giustizia, per cui lo stesso Consiglio di Stato, che è un organo del potere esecutivo, è contemporaneamente organo di giustizia, che spesso si pone contro lo stesso Governo; ed analoga considerazione può farsi nei riguardi della Corte dei conti.

Tuttavia non si nasconde il pericolo che il Ministro della giustizia imponga al Pubblico Ministero un corto atteggiamento e, se il Ministro non prenderà provvedimeli li immediati contro il funzionario recalcitrante, potrà sempre danneggiarlo in un successivo momento. Per questa eventualità, c considerando che il Pubblico Ministero potrebbe subire sia pure indirettamente l’influenza del Ministro, non iniziando l’azione penale, occorrerà trovare un correttivo, stabilendo che il giudice può procedere ex officio.

MANNIRONI affama che, nel silenzio della Costituzione, dovrebbe rimanere implicito il concetto che il Pubblico Ministero è un magistrato dell’ordine giudiziario e gode di tutte le prerogative dei giudici ordinari.

LEONE GIOVANNI, Relatore, risponde che tale concetto è implicito, quando si afferma che il Pubblico Ministero è inamovibile e che il Consiglio Superiore della Magistratura governa l’ordine giudiziario.

UBERTI, dato che la Costituzione deve avere un significato politico e deve reagire contro tutte le illegalità, ritiene che il Pubblico Ministero debba essere indipendente dal potere esecutivo, rimanendo organo esclusivo del potere giudiziario, appunto per ribadire l’esigenza di legalità già affermata nell’articolo 8.

A proposito dei rapporti tra Pubblico Ministero e polizia giudiziaria e della dipendenza di quest’ultima dal primo, osserva che tale stato di cose presenta tanti inconvenienti che non possono essere tollerati in uno stato di diritto; ritiene quindi fondato il dilemma posto dall’onorevole Calamandrei e si dichiara favorevole alla piena autonomia del Pubblico Ministero da affermarsi nella Costituzione.

CASTIGLIA, Relatore, è del parere che la materia debba essere regolata dalla Costituzione, e non rinviala alla legge sull’ordinamento giudiziario, sia per quanto riguarda il Pubblico Ministero, che nei riflessi degli organi del potere giudiziario.

Richiama a questo punto l’articolo 3 del progetto Patricolo:

«Sono organi del potere giudiziario:

  1. a) la Magistratura sia inquirente che giudicante;
  2. b) la Polizia giudiziaria;
  3. c) l’Amministrazione degli Istituti di prevenzione e di pena».

Questo, in via pregiudiziale, gli sembra da decidere; salvo poi a deliberare se il Pubblico Ministero debba essere posto alle dipendenze del potere esecutivo o rimanere nell’ambito del potere giudiziario.

AMBROSINI rileva che, una volta stabilito che il Pubblico Ministero è un magistrato, ne consegue che gli spettano tutte le garanzie proprie dei magistrati; salvo che, con altra disposizione, si deroghi espressamente al principio generale.

Non vede quindi la necessità di tornare sull’argomento nel testo costituzionale, come pure non ritiene opportuno che nella Costituzione si specifichino le funzioni del Pubblico Ministero, sia riguardo alla istruzione sommaria, sia riguardo alla direzione della polizia giudiziaria. È questa una materia che va disciplinata in una legge organica fondamentale, non nella Costituzione.

Quanto alle garanzie di sostanza, rammenta che, nel Comitato di revisione, il problema è stato affrontato e risolto in due articoli diversi. Nel terzo comma dell’articolo 2 si stabilisce come e quando la polizia può prendere misure provvisorie di sicurezza che, se non convalidate dall’Autorità giudiziaria, restano prive di ogni effetto. Per quanto poi riguarda la responsabilità dei funzionari e degli agenti, il Comitato ha approvato la disposizione dell’articolo il, che costituisce una innovazione fondamentale e una delle migliori affermazioni della nuova Costituzione: i funzionari e i dipendenti dello Stato e degli enti pubblici sono direttamente responsabili degli atti compiuti in violazione dei diritti dei cittadini.

CASTIGLIA, Relatore, per queste ragioni ritiene che si debba parlare del Pubblico Ministero nella Costituzione. Dichiara poi che il suo gruppo è contrario a che il Pubblico Ministero sia considerato quale organo del potere esecutivo.

AMBROSINI propone di dire espressamente che è un magistrato e che quindi gode delle garanzie di cui godono gli altri magistrati.

LAGONI crede sia un errore voler considerare il Pubblico Ministero come un organo del potere esecutivo, secondo sostiene l’onorevole Leone, o un magistrato ordinario, secondo un’altra tendenza; si tratta invece di un organo che ha un doppio carattere. È organo del potere esecutivo, in quanto promotore dell’azione penale, e conferisce alla pubblica accusa tutti i crismi della legalità; né possono esservi preoccupazioni. sulla legalità della sua azione, in quanto si tratta di un magistrato, Che gode in pieno delle garanzie della Magistratura e, in primo luogo, della inamovibilità.

Occorre quindi studiare come conciliare i due caratteri; mantenere la figura del magistrato, con le garanzie relative, e porlo sotto l’alta, direzione del Ministro, dandogli la figura di rappresentante del potere esecutivo.

In merito alla pregiudiziale, il suo parere è che se ne possa tacere, se si vuol considerarlo o come magistrato o come rappresentante del potere esecutivo, ma che se ne debba parlare se gli si riconosce un duplice aspetto.

AMBROSINI ritiene pericolosa una definizione, non solo per l’istituto del Pubblico Ministero, ma anche per altri istituti di diritto pubblico che presentano problemi complessi. È del parere che sia preferibile lasciare che la situazione venga definita dalla dottrina, limitandosi a definire solo le funzioni del Pubblico Ministero.

CASTIGLIA, Relatore, insiste perché venga preso in considerazione l’articolo 3 del progetto Patricolo.

MANNIRONI propone che la Commissione affermi il principio che il Pubblico Ministero è un organo del potere giudiziario e ne inserisca la menzione con un inciso, nell’articolo 8 già approvato.

CALAMANDREI, Relatore, per la tesi dell’appartenenza del Pubblico Ministero alla Magistratura e quindi alla sua equiparazione ai magistrati giudicanti, ritiene sufficiente l’articolo 4 votato nella seduta precedente, il quale parla dei magistrati delle varie categorie e non dei giudici; e ancor più l’articolo 23, il quale stabilisce che l’inamovibilità è concessa anche al Pubblico Ministero.

LEONE GIOVANNI, Relatore, osserva che se prevalesse la sua tesi, l’inamovibilità sarebbe approvata soltanto per il giudice e non per il Pubblico Ministero.

AMBROSINI prega l’onorevole Leone di non insistere sulla proposta di considerare il Pubblico Ministero come organo del potere esecutivo.

Conviene che quella del pubblico ministero è una figura complessa e ritiene sufficiente per ora ribadire il concetto che il pubblico ministero è un magistrato.

LEONE GIOVANNI, Relatore, insiste nella sua proposta, che rappresenta uno degli elementi principali del suo sistema.

CAPPI, pur essendo del parere che nella Costituzione non se ne debba parlare, poiché la maggioranza sembra di parere opposto, propone il seguente articolo:

«Il Pubblico Ministero fruisce di tutte le garanzie dei magistrati.

«Il Ministro della giustizia ha la vigilanza sull’ufficio del Pubblico Ministero e può eccitarne l’azione».

PRESIDENTE osserva come l’onorevole Leone abbia esposto tutte le preoccupazioni del penalista, ma, per suo conto, non ritiene opportuno mettere troppi particolari nella Costituzione: nella Costituzione devono essere fissati solo dei principi generali.

LEONE GIOVANNI, Relatore, crede che dicendo che il pubblico Ministero fa parte della Magistratura, il problema sarebbe risolto.

PRESIDENTE risponde che sarebbe risolto solo in parte, perché un Codice di procedura penale potrà sempre dare delle norme per le quali il Pubblico Ministero sia agganciato in qualche modo al potere esecutivo. Ricorda che molli artifici sono stati adoperati per valersi del Pubblico Ministero secondo il capriccio dei Ministri.

Mette in votazione la pregiudiziale che nella Costituzione non si debba far menzione delle attribuzioni del Pubblico Ministero e dei suoi rapporti con il Ministro della giustizia.

(Non è approvata).

LEONE GIOVANNI, Relatore, presenta la seguente proposta:

«Il Pubblico Ministero dipendo dal Ministro della giustizia. La polizia è sotto la direzione del Pubblico Ministero».

Dichiara che a questa proposta collega anche quella successiva di togliere l’inamovibilità al Pubblico Ministero.

AMBROSINI fa rilevare la difficoltà di prendere delle decisioni sulla questione dell’attribuzione del Pubblico Ministero, che involge tutto il sistema della procedura penale. L’istruzione dei processi sommari può dar luogo ad inconvenienti; ma lo Stato ha adottato quel sistema proprio per esigenze di giustizia.

Prega l’onorevole Castiglia di non insistere sull’articolo 3 del progetto Patricolo, perché sarebbe costretto a votare contro proposizioni alle quali è favorevole, perché ritiene che nella Costituzione non si possa scendere a certi particolari.

CASTIGLIA, Relatore, non trova che la formulazione dell’articolo 3 del progetto Patricolo contenga un eccesso di particolari; e ciò a prescindere dalla questione di merito.

MANNIRONI dichiara che col suo voto sulla pregiudiziale ha inteso ammettere che nella Costituzione si debba fare qualche accenno alla figura del Pubblico Ministero; ma non ritiene necessario specificare in un articolo apposito tutte le attribuzioni di questo, perché si tratta di materia che deve essere demandata ai codici o alla legge sull’ordinamento giudiziario. Ritiene sufficiente affermare in una frase sintetica il principio che il Pubblico Ministero appartiene alla Magistratura ordinaria e non dipende dal potere esecutivo. A sancire questa affermazione potrebbe bastare anche un inciso in un altro articolo.

AMBROSINI fa rilevare che nell’articolo 23 del progetto Calamandrei si dice:

«I magistrati di qualunque grado, sia giudicanti che del pubblico ministero, sono inamovibili dal giorno della loro nomina».

Quindi vi è già la definizione del Pubblico Ministero come magistrato.

PRESIDENTE mette ai voti la prima parte della proposta dell’onorevole Leone:

«Il Pubblico Ministero dipende dal Ministro della giustizia».

(Non è approvata).

Mette ai voti l’articolo proposto dall’onorevole Cappi, così definitivamente redatto:

«Il Pubblico Ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati ed è sottoposto alla vigilanza del Ministro della giustizia».

AMBROSINI propone che si voti per divisione.

LAGONI, affinché non sorgano equivoci, propone che l’ordine del giorno sia votato nella sua completezza.

PRESIDENTE osserva che racchiude due concetti del tutto distinti.

AMBROSINI dichiara che darà voto favorevole solo alla prima parte.

PRESIDENTE mette ai voti la prima parte dell’ordine del giorno Cappi:

«Il Pubblico Ministero gode di tutte le garanzie dei magistrati».

(È approvata).

Mette ai voti la seconda parte: «è sottoposto alla vigilanza del Ministro della giustizia».

CASTIGLIA, Relatore, voterà contro, perché questa seconda parte è in contradizione con la prima.

PRESIDENTE, dichiara pure di votare contro, perché questa seconda parte si ricollega a quanto già è stato detto nell’articolo 8 e cioè che l’azione penale è pubblica e che il Pubblico Ministero ha l’obbligo di esercitarla in conformità della legge, senza potere, in nessun caso, sospenderne o ritardarne l’esercizio.

LEONE GIOVANI, Relatore, dichiara di astenersi dal voto.

(Con 4 voti favorevoli, 6 contrari e 1 astensione, non è approvata).

PRESIDENTE fa presente che si deve decidere in quale articolo va inserita la prima parte della proposta Cappi approvata.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone che sia inserita nell’articolo 4, dove si parla della Magistratura.

PRESIDENTE è d’accordo per l’inserzione nell’articolo 4.

AMBROSINI ritiene che per la logica e la sistematica, vada bene raffermatone che la Magistratura è un ordine autonomo; ma tale affermazione va fatta con una proposizione lapidaria, evitando che sia diminuita con delle specificazioni. Preferirebbe quindi integrare con questa norma l’articolo 23, dove si parla dei giudici e del Pubblico Ministero.

CASTIGLIA, Relatore, preferirebbe l’inserzione nell’articolo 4.

PRESIDENTE, riconoscendo l’opportunità di non aggiungere parole che diminuirebbero l’affermazione solenne del principio, prega l’onorevole Gas figlia di non insistere.

CASTIGLIA, Relatore, consente.

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 23:

«Inamovibilità. – I magistrati di qualunque grado, sia giudicanti che del Pubblico Ministero, sono inamovibili dal giorno della loro nomina. Essi non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, retrocessi, trasferiti ad altra sede od anche semplicemente destinati ad altre funzioni se non col loro consenso, ovvero per deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura o della competente Corte disciplinare per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dalle leggi».

CALAMANDREI, Relatore, chiarisce che quest’articolo rappresenta una innovazione rispetto all’articolo 69 dello Statuto, il quale concedeva l’inamovibilità ai giudici, solo dopo tre anni dalla loro nomina, mentre qui la si concede dal giorno della loro nomina.

Ponendo però in relazione questo articolo con l’articolo 20, in cui si dispone che la nomina sia fatta dal Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da un periodo di tirocinio, risulta che il periodo durante il quale i magistrati esercitano le loro funzioni, ma non hanno ancora l’inamovibilità, è quello del tirocinio, che può durare anche più di tre anni.

Qualora però la Commissione lasciasse cadere l’articolo 20, perché ritenuto superfluo, occorrerebbe stabilire in questa sede che alla nomina si procede dopo un determinato periodo di tirocinio.

CAPPI non crede che nella Costituzione si possa parlare del periodo di tirocinio dei magistrati. Aggiunge che ritiene superflua la seconda parte dell’articolo 23, perché già compresa nell’articolo votato nella precedente seduta, in cui si parla del trasferimento e delle promozioni come di materia di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone che si dica» «diventano inamovibili dopo il periodo di tirocinio».

CALAMANDREI, Relatore, spiega che attualmente i magistrati, una volta superato il concorso, vengono nominati, con decreto ministeriale, uditori. È questa già una nomina, perché gli uditori esercitano funzioni di magistrati. Successivamente, quando hanno espletato il loro tirocinio, vengono nominati giudici aggiunti e da questo momento debbono passare tre anni prima che godano della inamovibilità. Dicendo che godono dell’inamovibilità dal giorno della loro, nomina, senza specificare con quale provvedimento la nomina viene fatta, e senza dire che deve esservi un periodo in cui l’inamovibilità non è concessa, si varierebbe una norma dello Statuto precedente senza sostituirla con una nuova, egualmente completa. Ritiene che questa sia materia di Costituzione, c aggiunge che la norma è suggerita da ‘tutte le proposte fatte dai magistrati. «Inamovibilità» è una parola elastica, che si è andata riempiendo di significati che non aveva un tempo, e questa pienezza della formula deve essere riprodotta nella Costituzione, perché rappresenta un miglioramento in confronto dello Statuto precedente.

CAPPI insiste nel rilevare che la seconda parto è compresa nell’articolo già votato, dove è detto che la competenza in materia spetta al Consiglio Superiore della Magistratura.

CALAMANDREI, Relatore, risponde che, senza questa disposizione, sembrerebbe clic il Consiglio della Magistratura potesse agire arbitrariamente, mentre deve uniformarsi a quanto sarà stabilito dalla legge.

LEONE GIOVANNI, Relatore, non ha nulla da osservare quanto alla inamovibilità. La seconda casistica potrebbe rientrare in forma più sintetica nella formula usata nel suo articolo 5-bis: «salvo i casi espressa– mente previsti nella legge sull’ordinamento giudiziario».

PRESIDENTE rileva che l’onorevole Leone accetta la formulazione dell’articolo 23 fino alle parole «loro consenso»; aggiungerebbe poi «salvo i casi espressamente previsti nella legge sull’ordinamento giudiziario».

CASTIGLIA, Relatore, per la prima parte dell’articolo 23 propone la seguente dizione:

«I magistrati di qualunque grado, sia giudicanti che del Pubblico Ministero, diventano inamovibili immediatamente dopo il periodo di tirocinio fissato dalla legge».

Si intende qui alludere alla legge sull’ordinamento giudiziario.

AMBROSINI, al posto delle parole «inamovibili immediatamente dopo il periodo di tirocinio» metterebbe le altre «inamovibili dopo il tirocinio».

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone di aggiungere alla fine dell’articolo le parole «sull’ordinamento giudiziario».

CAPPI toglierebbe le Corti disciplinari lasciando solo il Consiglio Superiore.

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo 23 che, secondo le proposte fatte, risulta così modificato:

«I magistrati di qualunque grado, sia giudicanti che del Pubblico Ministero, diventano inamovibili dopo il tirocinio. Essi non possono essere dispensati o sospesi dal servizio, retrocessi, trasferiti ad altra sede o anche semplicemente destinati ad altre funzioni se non col loro consenso, ovvero per deliberazione del Consiglio Superiore della Magistratura per i motivi e con le garanzie di difesa stabilite dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

(È approvato).

LEONE GIOVANNI, Relatore, ritiene opportuno trattare ora l’argomento della nomina dei capi delle Corti giudiziarie, data l’importanza che esso riveste.

CALAMANDREI, Relatore, riconosce il particolare significato della questione sollevata dall’onorevole Leone e su di esso richiama l’attenzione.

È qui in giuoco l’indipendenza dei giudici, non come corpo di fronte agli altri poteri dello Stato, ma come individui nei riguardi delle possibili ingerenze da parte di qualsiasi superiore. Indubbiamente il modo come sono scelti i capi degli uffici direttivi delle Corti può influire sull’indipendenza del magistrato; sarebbe perciò auspicabile introdurre una profonda rinnovazione, richiesta dalla stessa Magistratura, e cioè il principio della eleggibilità. I presidenti delle Corti di appello dovrebbero essere eletti, o quanto meno designati, dai magistrati del distretto e questo principio, so accolto, dovrebbe essere sancito nella Costituzione.

Pone quindi il problema delle funzioni del Procuratore Generale Commissario della giustizia, e si domanda a chi affidare l’azione disciplinare contro i magistrati, dato che l’articolo 19 del suo progetto, che considerava la figura del Commissario della giustizia, non è stato approvato. Pensa che tale competenza possa essere attribuita al Ministro della giustizia, il quale avrebbe solo il potere di iniziare l’azione disciplinare denunziando i magistrati –alle Corti disciplinari o al Consiglio Superiore della Magistratura.

CASTIGLIA, Relatore, obietta che il Ministro della giustizia, facendo parte del Consiglio Superiore della Magistratura, non può essere il promotore dell’azione disciplinare. A suo avviso una tale azione potrebbe essere svolta dal Procuratore Generale della Cassazione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, è contrario al principio elettivo dei capi delle Corti, perché, se da una parte salvaguarda l’indipendenza della Magistratura, d’altro canto darebbe luogo a molti inconvenienti nell’ambito stesso della Magistratura. Sarebbe dell’avviso di far nominare i capi delle Corti periferiche dal Consiglio Superiore della Magistratura, demandando la nomina dei capi della Corte Suprema (Primo Presidente e Procuratore generale) al Capo dello Stato, su designazione o del Consiglio dei Ministri, o del potere legislativo (Assemblea Nazionale), su una terna di nomi compresi in determinate categorie, previste dalla legge sull’ordinamento giudiziario, per evitare il pericolo di nomine dall’esterno.

Per quanto riguarda il problema di un possibile intervento del Ministro della giustizia come organo di attivazione dei provvedimenti disciplinari, osserva che la materia è delicatissima. Non può il Ministro della giustizia esercitare tale azione, data la sua veste di Vicepresidente del Consiglio Superiore, in quanto sarebbe giudice e parte contemporaneamente; né d’altro canto si può affidare l’incarico al Pubblico Ministero, dopo che si è stabilito che questi è un organo del potere giudiziario. Si affaccia quindi la necessità di trovare un organo al di fuori del potere giudiziario, anche per evitare il pericolo che ad un’certo momento il Pubblico Ministero, per un senso di solidarietà verso tutto il corpo della Magistratura, non ritenga di dover procedere contro un suo collega.

A suo avviso, togliendo al Ministro la Vicepresidenza del Consiglio Superiore, gli si potrebbe affidare questa alta funzione di vigilanza e di promozione di tutte le misure atte a far funzionare la Magistratura.

Ma se non si trova un altro organo, si dia agli altri poteri dello Stato la possibilità di chiedere l’inizio di un procedimento penale a carico dei magistrati.

LACONI ritiene che l’onorevole Leone abbia segnalato solo un aspetto dell’incongruenza, la quale si manifesta non soltanto per il Ministro, ma per tutti gli organi dello Stato. Anche sull’operato dei singoli membri del Consiglio Superiore potrebbe manifestarsi la necessità di un’azione disciplinare, e la miglior garanzia sarebbe il distacco della Suprema Corte disciplinare dal Consiglio Superiore: mantenendo gli organi distinti, si renderebbe possibile un controllo vicendevole.

AMBROSINI ritiene doveroso insistere sulla questione pregiudiziale da lui già sollevata. La materia in discussione è di importanza indubbiamente fondamentale, ma non deve essere trattata nella Costituzione, bensì demandala alla sede più specifica, alla legge cioè sull’ordinamento giudiziario.

MANNIRONI crede che occorrerebbe far cenno nella Costituzione della eleggibilità dei capi e rimandare il resto alla legge sull’ordinamento giudiziario.

AMBROSINI spiega che la sua pregiudiziale vale per tutti i problemi venuti in discussione. Ripete che tutta questa materia, che è d’importanza fondamentale e che interferisce sulla struttura e sul funzionamento dell’ordine giudiziario, dovrebbe essere rimandata alla legge sull’ordinamento giudiziario.

Ha notato spesso una diffidenza pregiudiziale verso il legislatore ordinario, come se esso potesse commettere continuamente degli arbitri; ma questa diffidenza gli sembra del tutto ingiustificata.

PRESIDENTE avverte che si passerà alla votazione sulla questione pregiudiziale sollevala dall’onorevole Ambrosini, che non si debba cioè discutere della eleggibilità dei capi della Magistratura Superiore, né del procedimento disciplinare, ma che il tutto debba essere deferito alla legge sull’ordinamento giudiziario.

MANNIRONI propone che la pregiudiziale sia votata per divisione.

PRESIDENTE mette ai voti la prima parte della pregiudiziale, che non si debba cioè parlare della eleggibilità dei capi della Magistratura Superiore.

CALAMANDREI, Relatore, dichiara di votare contro, perché ritiene che la questione della eleggibilità sia un problema di grande importanza.

(È approvata).

PRESIDENTE mette ai voti la seconda parte, cioè che non si debba parlare del procedimento disciplinare.

(È approvata).

TARGETTI dichiara che, se fosse stato presente, avrebbe votato contro l’articolo 23, perché avrebbe dovuto fare delle riserve sulla posizione e figura del Pubblico Ministero.

DI GIOVANNI esprime lo stesso avviso.

PRESIDENTE mette in discussione l’articolo 20 del progetto Calamandrei:

«Nomina dei magistrati. – La nomina dei magistrati è fatta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da un periodo di tirocinio. I requisiti per essere ammessi al concorso sono determinati dalla legge sull’ordinamento giudiziario; possono esservi ammesse anche le donne.

«Qualora per certi uffici della Magistratura sia necessaria una preparazione approfondita su determinate materie, possono essere banditi concorsi per l’ammissione a questi uffici tra candidati forniti di speciali titoli scientifici o professionali, o provenienti da altri uffici pubblici.

«L’apertura dei concorsi, la nomina delle Commissioni giudicatrici, la proclamazione dei vincitori, e tutti i provvedimenti relativi all’ammissione di essi al tirocinio ed alle ulteriori prove che essi devono superare secondo la legge per essere nominati giudici, sono del pari di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura.

«Lo stesso Consiglio Superiore potrà, in considerazione di meriti insigni, proporre in via eccezionale la nomina senza concorso al grado di consiglieri di Cassazione di avvocati esercenti almeno da venti anni o di professori ordinari di materie giuridiche nelle università.

«I magistrati sono nominati a vita, salvi i limiti di età stabiliti dalla legge.

«Nei casi stabiliti dalla legge, privati cittadini potranno essere chiamati ad assumere temporaneamente attività giudiziarie, per integrare, come assessori esperti, la funzione dei magistrati.

«Il Consiglio Superiore della Magistratura potrà, con le modalità fissate dalla legge sull’ordinamento giudiziario, disporre la nomina di magistrati onorari per tutte quelle funzioni giudiziarie che la legge attribuisce alla competenza dei giudici singoli».

DI GIOVANNI ritiene che il primo comma tratti materia di pertinenza della legge sull’ordinamento giudiziario.

PRESIDENTE fa rilevare che nell’articolo si contengono tre proposte di notevole importanza: l’ammissione delle donne nella Magistratura; l’ammissione di giuristi che, abbiano meriti insigni e la nomina di magistrati onorari.

AMBROSINI ritiene che l’unico punto che potrebbe discutersi; e che è bene considerare nella Costituzione, sia quello della ammissione delle donne nella, carriera giudiziaria. Per tutto il resto risorgerebbe la sua pregiudiziale, di rinviare alla legge sull’ordinamento giudiziario.

LEONE GIOVANNI, Relatore, non è d’accordo con l’onorevole Ambrosini. Non solo il problema dell’ammissione delle donne, ma anche quello relativo al modo con cui si entra nella Magistratura dovrebbe essere risolto in questa sede. Su questo punto si è molto discusso da parte delle associazioni di magistrati e da parte di uomini politici. Uno dei problemi fondamentali posti da alcune tendenze politiche è appunto quella della elettività dei giudici, ed anche su questo occorre che la Costituzione stabilisca le direttive.

PRESIDENTE legge, a questo proposito, l’articolo 2 proposto dall’onorevole Leone: «L’ammissione alle funzioni giudiziarie si consegue mediante concorso»,

LEONE GIOVANNI, Relatore, è contrario al sistema seguito in altre Costituzioni, che hanno dedicato pochi articoli al potere giudiziario. Nel Paese vi è grande aspettativa: esso vuol sapere se le donne possono essere ammesse o no nella Magistratura, vuol sapere come si eleggono i capi delle Corti, e questa è materia tipicamente costituzionale.

Il potere giudiziario deve essere, per il suo prestigio e per la sua funzione, riguardato con la massima larghezza nella Costituzione. Del resto, i problemi concernenti la Regione e gli altri poteri dello Stato sono stati trattati dettagliatamente e altrettanto pensa che si debba fare per le questioni in discussione.

AMBROSINI riconosce che i due punti che possono sollevare discussioni e contrasti, nonché aspettative, sono quello della ammissione delle donne e quello dell’eventuale elettività dei Capi dell’ordine giudiziario.

Su questo secondo punto la Commissione ha già espresso il suo volo, ma, in considerazione delle osservazioni che sono state riproposte e anche per l’assenza di parecchi colleghi durante la discussione, sarebbe favorevole a che la questione fosse ripresa in esame.

TARGETTI osserva che, o si rispetta il principio dell’intangibilità delle decisioni prese o, se si ammette che si possa tornare sopra questa questione, a maggior ragione si dovrebbe ritornare sopra quella del Pubblico Ministero.

DI GIOVANNI è del parere che non si possa trattare dei concorsi per l’ammissione nella Magistratura, senza ritornare sulla deliberazione già presa, perché avere esaminato e deciso su questo punto e taciuto sull’altro potrebbe prestarsi ad interpretazioni erronee.

TARGETTI è dell’opinione di limitare la discussione alla questione della ammissione delle donne nella Magistratura.

AMBROSINI propone che l’argomento della elettività o meno dei Capi dell’ordine giudiziario, sul quale aveva proposto la pregiudiziale, venga ripreso in esame insieme a quello dell’ammissione delle donne nell’ordinamento giudiziario.

CALAMANDREI, Relatore, è favorevole che le donne possano essere ammesse negli uffici giurisdizionali, perché esse hanno dato ottima prova in tanti altri uffici in cui occorrono doti di raziocinio, di equilibrio e di spirito logico pari a quelle che occorrono nella giurisdizione.

Si è obiettato che le facoltà psicologiche della donna sono soggette a periodiche variazioni che potrebbero portare ad una discontinuità dei giudizi; ma egli ritiene che in certi giudizi, come quelli di separazione coniugale, l’intervento della donna sia utilissimo per raggiungere un maggior equilibrio di giudizio. È quindi favorevole all’ammissione delle donne con qualche limitazione, per certe materie della giurisdizione penale.

Le chiamerebbe, però, a far parte della giuria nei giudizi di Assise c del Tribunale per i minorenni e in tutte le questioni di giurisdizione volontaria e in quelle familiari.

AMBROSINI è d’accordo con l’onorevole Calamandrei e lo invita di precisare i suoi concetti in una formula concreta.

CAPPI crede che le donne dovrebbero poter essere inserite e utilizzate in determinati giudizi, senza che avessero la possibilità di accedere alla carriera giudiziaria e diventare magistrali.

DI GIOVANNI pensa che le donne, anche per le condizioni della vita pubblica e sociale odierna, abbiano raggiunto un tale grado di maturità che precludere loro l’ingresso nella carriera giudiziaria significherebbe far loro un torto. Esse ormai partecipano a tutti gli uffici, fanno parte dell’Assemblea Costituente e non possono essere escluse dagli uffici giudiziari. Trova quindi opportuno affermare il principio, salvo poi a stabilire le modalità di dettaglio della partecipazione delle donne alla carriera giudiziaria nella legge sull’ordinamento giudiziario.

PRESIDENTE richiama l’attenzione dei colleghi sull’articolo 3 del progetto Leone, nel quale si stabilisce che per i concorsi o, comunque, per le ammissioni in genere, non si richiedono che capacità tecniche e morali, allo scopo di escludere qualsiasi incapacità razziale o di altro genere.

CALAMANDREI, Relatore, propone di ridurre l’articolo 20 a soli tre commi: uno sulla nomina, che di regola avviene per concorso; l’altro sulla ammissione delle donne; il terzo sull’ammissibilità di giuristi insigni.

UBERTI non è favorevole all’ammissione delle donne, La donna deve conquistare gradualmente la sua posizione. Si è accennato a porre dei limiti, ma non gli sembra ammissibile, nell’attuale carenza di magistrati, che la donna possa, ricoprire qualsiasi carica nell’ordine giudiziario. Anche in un giudizio di carattere matrimoniale avrebbe dei dubbi sulla completezza della, sua decisione.

TARGETTI dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Calamandrei e vorrebbe che non ci fosse nessuna limitazione di funzioni. Non è cosa semplice portare ragioni contro l’ammissione della donna nella Magistratura e nella discussione che è stata fatta non gli sembra che sia stato portato alcun argomento persuasivo.

Il fatto che nessuna ragione fisiologica, nessuna presunta incapacità abbia impedito alla donna di essere nominata membro della Costituente e, in altri Paesi, di far parte del Governo o della Diplomazia, dimostra che non si può seriamente sostenere la sua incapacità a. far parte della Magistratura.

Piuttosto pensa che qualche preoccupazione possa nutrirsi circa la. serenità del suo giudizio nei giudizi su delitti passionali ed anche in quelli di separazione ai quali l’onorevole Calamandrei vorrebbe di preferenza farla partecipare; perché in moltissimi casi, senza una ragione logica, si son viste le donne infatuarsi a favore dell’uomo contro una donna. Ma la perfezione del giudice non si trova sempre nemmeno nell’uomo giudice.

Se v’è in molti, una qualche diffidenza, una certa contrarietà a vedere la donna con la toga, ritiene che ciò dipenda più che altro da pregiudizi, da misoneismo superstite.

La stessa contrarietà si era manifestata all’inizio del movimento per l’emancipazione della donna, per la richiesta del voto; ma poiché questo pregiudizio è stato vinto e nessuno ormai mette in discussione la parità assoluta dei diritti della donna è dell’uomo, non si può oggi affermare che la donna non deve essere ammessa nella Magistratura. Se si vedono donne coprire degnamente cattedre universitarie, anche in facoltà di medicina e matematica, si chiede come si possa sostenere che essa ha un incapacità costituzionale a diventare giudice o consigliere di Cassazione.

Ripete quindi di essere favorevole alla proposta Calamandrei senza alcuna indicazione di specifiche né generiche limitazioni.

CAPPI fa considerare che nella coscienza pubblica oggi non v’è la convinzione che le donne possano essere ammesse all’esercizio delle funzioni di giudice. Si è detto che le donne oggi sono eleggibili ed elettrici, ed è questa una conseguenza delle sofferenze, delle dure prove che esse hanno sopportato durante la guerra; ma cosa ben diversa è la funzione giudiziaria.

La ragione della diffidenza diffusa nella maggioranza di fronte ad una donna giudicante sta nella prevalenza che nelle donne ha il sentimento sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve prevalere il raziocinio sul sentimento. Perciò si dichiara contrario all’ammissione delle donne nella Magistratura.

MANNIRONI dichiara che, per ragioni di principio, è del parere che i diritti delle donne debbano essere in tutto pari a quelli dell’uomo: però fa qualche riserva. A suo avviso; nella sua costituzione psichica la donna non ha le attitudini per far bene il magistrato, come dimostra l’esperienza pratica in un campo affine, cioè nella professione dell’avvocato. Tutti avranno notato quale scarsa tendenza e adattabilità abbia la donna per questa professione perché le manca, proprio per costituzione, quel potere di sintesi e di equilibrio assoluto che è necessario per sottrarsi agli stati emotivi.

Pensa che si possa consentire alle donne di partecipare a limitate e determinate forme di giudizio nelle sezioni specializzate, ma ritiene non si possa generalizzare fino al punto da consentire loro il libero accesso alla Magistratura. Né potrebbe essere un limite sufficiente l’esame di concorso, anche se severo, perché le donne studiano e possono prepararsi al pari dell’uomo. Ma la garanzia necessaria non è offerta soltanto dalla semplice conoscenza delle materie giuridiche che formano oggetto dell’esame. Il buon giudice non è quello che soltanto conosca bene il diritto; gli occorrono altri requisii che potrebbero chiamarsi naturali (temperamento, forza d’animo, fermezza di carattere, capaci là di sintesi, ecc.) e la cui deficienza non si colma col semplice studio. Rileva infine che neppure le stesse donne rivendicano per sé il diritto ad essere ammesse nella Magistratura. Il problema quindi non è attuale.

CALAMANDREI, Relatore, fa osservare che v’è il periodo di tirocinio.

MANNIRONI non crede che in quel periodo di tre anni si possa valutare a pieno la capacità di una donna.

Concludendo, propone il seguente emendamento:

«Alle sezioni speciali della Magistratura ordinaria possono essere chiamate a partecipare anche le donne nei casi stabiliti dalla legge».

FARINI dichiara di concordare con l’onorevole Targetti, e si meraviglia della resistenza, specialmente da parte degli appartenenti alla democrazia cristiana, alla ammissione delle donne nella Magistratura.

Se si vuol dare al Paese una Costituzione veramente democratica, occorre fornire alla Magistratura la base più larga possibile e non si deve impedire a più della metà della popolazione italiana di partecipare a questa funzione.

La donna ha già acquisito dei diritti in tutti i campi e ha dimostrato durante la guerra e nel dopo guerra capacità politiche e morali tali da poter assumere qualsiasi funzione nello Stato. Nessun dubbio che possa essere anche ottimo magistrato.

CALAMANDREI, Relatore, chiede che sia messa in votazione la sua proposta senza limitazioni. Le limitazioni potrebbero essere stabilite in seguito dalla legge sull’ordinamento giudiziario. Propone quindi la seguente formulazione:

«La nomina dei magistrati è fatta con decreto del Presidente della Repubblica, su proposta del Consiglio Superiore della Magistratura, in base a concorso seguito da un periodo di tirocinio. I requisiti per essere ammessi al concorso sono determinati dalla legge sull’ordinamento giudiziario: possono esservi ammesse anche le donne».

LACONI preferirebbe una formula che sancisse il principio del libero accesso delle donne alla Magistratura. È vero che le donne possono, per temperamento o per tradizione, essere meno tagliate degli uomini a ricoprire l’ufficio di giudice, ma questo influirà sulla libera scelta individuale, come influisce per gli uomini. Invece, come affermazione di diritto, tutti i cittadini, e quindi anche le donne, devono avere la possibilità di accedere a qualsiasi carriera.

CAPPI domanda se il principio deve valere anche per l’esercito.

LACONI risponde affermativamente e ricorda che le donne hanno fatto parte in guerra di formazioni partigiane.

AMBROSINI propone l’aggiunta: «nei casi stabiliti dalla legge».

LACONI teme che con tale aggiunta sia possibile introdurre una disposizione illogica per cui alla donna sarebbe consentito l’accesso a determinati gradi della Magistratura e non ad altri.

Si può sostenere, con l’onorevole Mannironi, che le donne non possano accedere alla Magistratura; ma, ammesso che possano accedervi, sarebbe assurdo limitare questo accesso a determinati gradi.

TARGETTI spiega che, in vista della ipotesi che, dopo l’affermazione del principio generale, il potere legislativo limiti il diritto delle donne, l’onorevole Laconi vorrebbe fosse trovata una formula per la quale la limitazione sarebbe possibile solo con la riforma della Costituzione.

CALAMANDREI, Relatore, propone la formula: «possono esservi ammesse, con parità di diritti, anche le donne».

PRESIDENTE rammenta che nella parte generale della Costituzione è già riconosciuta la parità dei diritti.

UBERTI, anche per rispondere ad una osservazione dell’onorevole Farini, si richiama alla necessità di attenersi alla realtà delle cose.

Evidentemente fra i due sessi esistono differenze che si esprimono in varie forme o non è possibile improvvisare una capacità, un’attitudine. È dunque bene cominciare gradualmente attraverso particolari limitazioni, per regolarsi in fu turo secondo l’esperienza acquisita.

AMBROSINI ritiene che l’accettazione della sua aggiunta faciliterebbe l’ammissione del principio e sarebbe reso così un grande servizio alla causa femminile. Ma, senza quella aggiunta, teme che il principio possa non essere ammesso.

CALAMANDREI, Relatore, propone il seguente emendamento:

«Possono esservi ammesse anche le donne, nei limiti e per le materie stabilite dall’ordinamento giudiziario».

TARGETTI chiede che si voti prima la norma generale; quella che afferma il diritto senza limitazioni.

PRESIDENTE mette ai voti il principio generale, cioè: «Possono, esservi ammesse anche le donne».

(È approvato).

CAPPI, anche a nome dei colleghi Mannironi, Uberti, Castiglia, Leone e Ambrosini, dichiara, e chiede che sia inserito a verbale, che sarebbero stati disposti a votare favorevolmente, se si fosse aggiunta la seconda parte dell’emendamento: «nei limiti e per le materie stabilite dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

PRESIDENTE pone in votazione il primo comma dell’articolo 20 senza l’aggiunta proposta dall’onorevole Calamandrei, essendo stato approvato il principio generale.

(È approvato).

Mette in discussione il seguente comma:

«Lo stesso Consiglio Superiore potrà, in considerazione di meriti insigni, proporre in via eccezionale la nomina senza concorso al grado di consiglieri di Cassazione di avvocati esercenti da almeno 20 anni e di professori ordinari di materie giuridiche nelle Università».

MANNIRONI ritiene troppo elevato il limite di 20 anni.

RAVAGNAN non porrebbe alcuna limitazione; è sufficiente il riconoscimento dei meriti insigni.

CALAMANDREI, Relatore, ricorda che, per un articolo della legge Casati, possono essere nominati professori, senza concorso, persone di chiara fama. Questa disposizione ha reso possibile, specialmente nel periodo fascista, non pochi abusi.

AMBROSINI prospetta i pericoli di una formulazione troppo ampia e ritiene che occorra fermarsi al testo del relatore, magari riducendo il limite di 20 anni a 15.

PRESIDENTE, non facendosi altre osservazioni, pone ai voti il secondo comma con la riduzione del limite da 20 a 15 anni.

(È approvato).

Avverte che si dovrebbe mettere in discussione l’articolo riguardante i giudici popolari.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone la sospensiva, in quanto alla riapertura della Assemblea Costituente si dovrà discutere la legge sulle Corti d’assise. È chiaro quindi che l’orientamento che scaturirà da tale discussione dovrà poi informare anche il testo costituzionale per questo particolare argomento.

(Così rimane stabilito).

La seduta termina alle 12.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Assenti: Bozzi, Bulloni, Porzio.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Il potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Fabbri – Tosato, Relatore – Einaudi – Perassi – La Rocca, Relatore – Lussu – Mortati – Fuschini – Nobile – Codacci Pisanelli – Cannizzo – Vanoni.

La seduta comincia alle 16.30.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE riapre la discussione sull’articolo 20 riguardante la figura del Primo Ministro, avvertendo che sono state proposte tre formule sostitutive della formulazione contenuta nel progetto del Comitato, rispettivamente dagli onorevoli Perassi, Tosato e Mortati. La formula dell’onorevole Perassi dice che il Primo Ministro e i ministri sono collegialmente responsabili della politica generale del Governo e ciascuno di essi degli atti di sua competenza; quella dell’onorevole Tosato dice che il Primo Ministro ha la responsabilità dell’attuazione della politica generale del Governo; quella infine dell’onorevole Mortati dice che il Primo Ministro ha la direzione della politica generale del Governo e ne assume la responsabilità.

Fa rilevare che, di queste tre formule, quella dell’onorevole Perassi risponde di più al concetto di una responsabilità collegiale per la politica del Governo, mentre quelle degli onorevoli Tosato e Mortati conservano essenzialmente il concetto della responsabilità del Presidente del Consiglio dei Ministri, nell’attuazione e nella direzione della politica del Governo.

Osserva personalmente che, di fatto, ciò che conta è l’attuazione di una determinata politica generale, la cui responsabilità risale al Primo Ministro. Nelle formule degli onorevoli Mortati e Tosato la responsabilità dei singoli ministri viene diminuita e si riduce all’ambito del loro Ministero, rendendo pressoché inutile il Consiglio dei Ministri, che egli invece concepisce come un organo di collaborazione nel quale tutti i ministri danno il loro contributo a determinati lati e aspetti della politica generale del Governo.

Ricorda che, durante la discussione dell’articolo 19, è stato detto che il Primo Ministro e i ministri si presentano come un tutto organico. Non è infatti pensabile che i ministri non diano il proprio contributo alla elaborazione del programma del Governo, ma si limitino ad accettare o respingere quello presentato loro dal Primo Ministro. Si dichiara, pertanto, favorevole alla formula dell’onorevole Perassi, secondo la quale il Primo Ministro e i ministri sono responsabili della politica generale del Governo e ciascuno di essi degli atti di sua competenza.

Ricorda, infine, che l’onorevole Fabbri aveva presentato un emendamento nel quale si diceva che il Primo Ministro, a seguito della adesione dei ministri al Governo da lui presieduto, precisa e deduce le direttive generali del Governo stesso del quale sono responsabili tutti i ministri.

FABBRI chiarisce di non avere insistito nel suo emendamento, perché esso richiama gli stessi concetti contenuti nella proposta dell’onorevole Perassi.

TOSATO, Relatore, dichiara che la formula da lui presentata non intende affatto venir meno ai principî tradizionali del Governo parlamentare, ma vuole soltanto assicurare quella unitarietà della compagine governativa, la quale costituisce un’esigenza particolarmente sentita in questo momento storico.

Fa presente che nell’articolo 19, già approvato, è detto chiaramente che il Governo è costituito dal Primo Ministro e dai ministri che ne fanno parte. Quindi, resta fermo il principio per cui i ministri, insieme col Primo Ministro, partecipano alle deliberazioni della politica generale del Governo; ma, poiché questa politica generale deve essere attuata, è necessario che qualcuno abbia la particolare possibilità di farla attuare unitariamente da tutti i ministri. Ora, i redattori del progetto del Comitato, non avendo riscontrato nella legislazione attuale un potere del Primo Ministro di stimolare, coordinare e mantenere l’unità nell’attuazione del programma governativo, si sono preoccupati di mettere in rilievo la figura del Primo Ministro, adottando la parola «responsabilità» che è nell’uso tecnico costituzionale.

Ripete che questa responsabilità del Primo Ministro, la quale riguarda l’attuazione e non la deliberazione della politica del Governo, non mette affatto in secondo piano la figura degli altri ministri, che unitamente al Primo Ministro partecipano alle deliberazioni delle linee direttive della politica generale governativa.

Conclude dichiarando di ritenere che il Governo non rappresenti soltanto una raccolta di persone che ad un certo momento si incontrano e poi vanno ciascuno per la sua strada, ma rappresenti un collegio che deve agire unitariamente per sviluppare una politica unitaria, secondo gli impegni assunti di fronte all’Assemblea che ha approvato la sua politica.

EINAUDI domanda all’onorevole Perassi se, votando la sua formula, rimangano ferme le altre osservazioni contenute nell’articolo 20.

PERASSI chiarisce che la formulazione dell’articolo 20, proposto dal Comitato, stabilendo la responsabilità del Primo Ministro nei riguardi della politica generale del Governo, e dicendo nell’ultimo comma che anche i ministri sono responsabili degli alti o omissioni relativi ai compiti dei loro Ministeri, dà l’impressione che per quanto riguarda la politica generale sia responsabile soltanto il Primo Ministro, e che i ministri siano responsabili soltanto dell’attività da loro svolta nell’ambito del loro Ministero. Perciò, egli ha proposto la formula la quale afferma che la responsabilità del Primo Ministro e dei ministri è collegiale, formula che dovrebbe essere collocata nell’articolo 19, non escludendo che nel successivo articolo 20 si definisca la figura del Primo Ministro e si conferiscano a lui speciali poteri.

Dichiara, anzi, di poter accettare la formula contenuta nel primo comma dell’articolo 20, ove sia modificata nel senso che il Primo Ministro assicura la realizzazione della politica generale del Governo, e mantiene l’unità di indirizzo politico, come è detto nell’articolo 20 per il resto. Invece l’ultimo comma dello stesso articolo 20, in cui si dice che i ministri sono responsabili degli atti o omissioni relativi ai compiti dei loro Ministeri, dovrebbe essere inserito nell’articolo 19, là dove si afferma la responsabilità collegiale del Primo Ministro e dei ministri.

LA ROCCA, Relatore, si richiama alle considerazioni svolte nelle precedenti sedute, che non ritiene di dover ripetere.

FABBRI dichiara di riferirsi anch’egli a quanto ha già esposto precedentemente.

TOSATO, Relatore, in relazione a quanto è stato detto dall’onorevole Perassi, chiarisce che la formulazione da lui proposta nella prima parte dell’articolo 20, ove fosse accettata la proposta dell’onorevole Perassi, diventerebbe superflua, perché sarebbe inutile parlare dei Primo Ministro. Nella sua formulazione ha credulo di non dover parlare dei ministri, in quanto di essi, come membri del Governo, si occupa già l’articolo 19.

PRESIDENTE ritiene che, proprio perché si desidera che il Governo non sia una semplice raccolta di persone, ma abbia una sua unitarietà, è tanto più necessario rendere responsabili tutti i ministri della politica generale del Governo.

Fa presente che, delle tre formule emendative proposte, quella dell’onorevole Perassi si allontana più delle altre dalla formula del Comitato di redazione, e pertanto deve esser posta in votazione prima delle altre. Ricorda che la formula dell’onorevole Perassi, la quale non esclude quella del successivo articolo 20, è del seguente tenore:

«Il Primo Ministro e i ministri sono collegialmente responsabili della politica generale del Governo e ciascuno di essi degli atti di sua competenza».

LUSSU osserva che tutti possono essere d’accordo sul principio che la responsabilità del primo Ministro e dei ministri è collegiale; ma che ad ogni modo, ad evitare qualche preoccupazione, sarebbe opportuno trovare una formula più chiara.

MORTATI concorda con l’onorevole Tosato sull’opportunità che non si dica nulla per quanto riguarda i ministri, ed è contrario alla formula proposta dall’onorevole Perassi, perché non risponde all’esigenza di un organo di coordinamento dell’azione dei vari Ministeri. Quest’organo non può essere quello collegiale rappresentato dal Consiglio dei Ministri, perché esso non ha la possibilità di sgomberare il terreno dalle disfunzioni, le disarmonie e le difficoltà sulla concreta realizzazione dell’indirizzo politico della cui esecuzione il Capo del Governo è responsabile.

PRESIDENTE fa osservare che all’articolo 20 si parla del coordinamento dell’attività dei ministri non da parte del Consiglio dei Ministri, ma da parte del Primo Ministro: quindi, il coordinatore resta sempre il Primo Ministro.

MORTATI insiste sulla necessità di dare al Primo Ministro dei poteri speciali, che gli altri ministri non hanno e che non possono esercitare.

Una differenziazione di posizione giuridica del Presidente del Consiglio dei Ministri rispetto agli altri nasce dalla differenza di compiti, differenza che è una necessità insopprimibile per assicurare la tempestività e l’armonia nell’azione del Governo.

Se si parla di una responsabilità collegiale, si presuppone che l’azione di coordinamento avvenga attraverso il Consiglio dei Ministri, il che si vuole escludere.

PRESIDENTE osserva che l’articolo 20 dice che il Primo Ministro coordina «individualmente e in Consiglio dei Ministri»; quindi non è solo il Consiglio dei Ministri l’organo coordinatore, ma anche il Presidente del Consiglio. Nel Consiglio dei Ministri ogni ministro, nell’esprimere il suo voto, assume una responsabilità; quindi, la responsabilità collegiale è rappresentata dal voto di ogni ministro.

LUSSU, per soddisfare alcune esigenze ed eliminare alcune preoccupazioni manifestatesi nel corso della discussione, propone che la prima parte dell’articolo 20 venga modificata nel senso di sancire la responsabilità collegiale.

Rileva che la proposta dell’onorevole Mortati sembra preoccuparsi del fatto che al Consiglio dei Ministri viene sottoposto un materiale così vasto per cui, nella brevità della riunione, ogni ministro non ha il tempo di dare il suo parere sul progetto che viene presentato da un altro, perché ogni ministro ha conoscenza specifica soltanto del progetto che egli presenta e sul quale si è preparato. Perciò la proposta dell’onorevole Mortati tende a fare in modo che ogni ministro risponda soltanto delle sue materie di ordinaria amministrazione, perché è solo il Presidente che ha la funzione di coordinare e che può conoscere tutti i vari problemi. Gli altri ministri sarebbero obbligati soltanto a conoscere quelle questioni che rivestono un carattere generale, per quanto riguarda l’indirizzo politico, oppure provvedimenti d’importanza rilevante. Ma la responsabilità degli altri ministri non può farsi dipendere dal fatto che il provvedimento rivesta oppure no una grande importanza, perché tutti i provvedimenti sono certamente importanti.

Pertanto egli ritiene che si debba trovare una soluzione diversa da quella proposta dall’onorevole Mortati.

MORTATI dichiara che nello spirito di questa disposizione è implicitamente una diminuzione della funzionalità del Consiglio dei Ministri. Se l’organo di coordinamento è il Primo Ministro ed esso può dar corso a provvedimenti per cui era richiesto l’intervento del Consiglio, ne segue che la materia da sottoporre al Consiglio dei Ministri potrebbe essere diminuita. Ciò porta naturalmente a domandare quali poteri hanno gli altri ministri di fronte alla funzione preminente del Primo Ministro. Evidentemente, come partecipi del Governo, essi hanno il potere di appellarsi al Presidente del Consiglio, e di lamentarsi se determinate misure sono state prese al di fuori di quella che essi ritengono sia l’esigenza dell’indirizzo approvato. In questo caso quale è la soluzione? Vi è una soluzione politica, per cui questi ministri si appellano ai loro partiti, il che sbocca in definitiva in un voto del Parlamento.

PRESIDENTE osserva che con ciò si verrebbero a stimolare le crisi.

MORTATI ammette che ciò possa avvenire, ma osserva che si stimola anche l’unità dell’indirizzo politico. Infatti, finché v’è un Governo, questo deve essere unitario. Quando vi è un dissenso, questo dissenso non può affidarsi semplicemente a deliberazioni affrettate del Consiglio dei Ministri, ma dev’essere valutato in tutta la sua portata da chi ha la responsabilità diretta di quell’indirizzo.

Non sa d’altronde se questo sistema varrà a diminuire o ad aumentare la possibilità di crisi, ma ritiene che renderà, comunque, più cauti i ministri nel valutare le discordanze di singole misure nel quadro dell’indirizzo politico del Governo, e soprattutto renderà più efficiente il Governo, poiché il Primo Ministro dovrà avere alle sue dipendenze lo strumento idoneo ad accertare ogni circostanza ed a prendere le misure necessarie a mantenere l’unità di indirizzo: strumento a cui provvede la disposizione dell’articolo 21. Con la disposizione proposta, un ministro non potrà dire che non conosceva la portata del decreto da lui approvato, ma in quanto collaboratore nella sua emanazione, sarà chiamato insieme al Primo Ministro, oltre il proponente, a rispondere in pieno del provvedimento emanato.

PRESIDENTE dichiara che la questione assume aspetti serissimi. Nel pensiero dell’onorevole Mortati il Primo Ministro sta diventando qualche cosa di assorbente, al quale nulla potrà sfuggire, e molti provvedimenti non passerebbero al vaglio del Consiglio dei Ministri.

TOSATO, Relatore, osserva che ciò avverrà, a meno che il Consiglio dei Ministri non faccia esplicita richiesta di esaminarli.

LUSSU fa presente che il Governo è tenuto a portare tutti i disegni di legge al Parlamento.

PRESIDENTE insiste sul fatto che molti provvedimenti potrebbero sfuggire alla conoscenza del Consiglio dei Ministri. Quanto alla possibilità di ricorso dei ministri non soddisfatti, cui ha accennato l’onorevole Mortati, ritiene che sia preferibile cercare la conciliazione di certi dissensi nel seno del Consiglio dei Ministri, dove la transazione è più facile, che non giungere a manifestazioni esterne dei dissensi stessi, certamente più pericolosi. Ritiene che la questione vada valutata da un punto di vista politico, o che a risolverla non bastino i meccanismi tecnici prospettati dall’onorevole Mortati, perché ciò significherebbe modificare tutto l’equilibrio del sistema parlamentare.

Per queste ragioni, resta convinto della necessità che la posizione del Presidente del Consiglio sia definita nello spirito della proposta dell’onorevole Perassi, che mette ai voti.

LUSSU dichiara che voterà per la formula del Comitato, se verrà posta in votazione, intendendo che la responsabilità sia collegiale.

(Con 8 voti favorevoli e 6 contrari, è approvata).

PRESIDENTE fa presente che la formula approvata verrà aggiunta alla fine dell’articolo 19.

Passa, quindi, all’articolo 20, e propone che nella prima proposizione si dica: «assicura», onde la formula sarebbe la seguente: «Il Primo Ministro assicura l’attuazione della politica generale del Governo, ecc.».

MORTATI fa presente che v’è anche la formula «è responsabile dell’attuazione».

PRESIDENTE risponde che essa sarà votata successivamente. Mette intanto ai voti la formula: «Il Primo Ministro assicura l’attuazione della politica generale del Governo».

(Con 9 voti favorevoli e 5 contrari è approvata).

Mette ai voti la proposta Mortati: «ed è responsabile dell’attuazione di questa».

(Con 6 voti favorevoli, 6 contrari, e 2 astensioni, non è approvata).

Pone in discussione il seguito dell’articolo 20: «e mantiene l’unità e l’indirizzo politico di tutti i Ministeri, coordina individualmente l’attività dei ministri e presiede il Consiglio dei Ministri».

MORTATI propone di sopprimere la dizione: «presiede il Consiglio dei Ministri», in quanto è evidente che il Presidente del Consiglio deve presiedere il Consiglio dei Ministri. In suo luogo propone che si dica: «vigila l’attività dei ministri e la coordina risolvendo conflitti che sorgono tra di essi».

PRESIDENTE osserva che, attribuendo al Primo Ministro la facoltà di risolvere conflitti che sorgano tra gli altri ministri, si eleva troppo la figura del Presidente del Consiglio. È ovvio che il Presidente potrà risolvere quei conflitti che si sviluppano su un piano tecnico e non è necessario fare questo accenno nella Costituzione.

MORTATI obietta che esiste un decreto del 1901, il quale stabilisce esplicitamente che la soluzione dei conflitti spetta al Consiglio dei Ministri. Ora, poiché si è voluto dare maggior rilievo alla figura del Primo Ministro, sarebbe opportuno accennare nella Costituzione che a lui spettano le soluzioni dei conflitti tra i ministri, essendo egli il realizzatore della politica generale.

EINAUDI ritiene che qualche cosa in proposito debba essere inserita nella Costituzione, perché uno degli inconvenienti più gravi nel funzionamento attuale dei Ministeri è che questi si considerano come tante potenze indipendenti l’una dall’altra. Allo stato attuale delle cose, non tanto sorgono conflitti tra i ministri, quanto tra gli uffici dei Ministeri, per cui necessita assolutamente un coordinamento. Ritiene, pertanto, che la formula Mortati debba essere presa in considerazione.

MORTATI precisa che esistono conflitti di natura politica e conflitti di natura amministrativa. L’onorevole Einaudi si è riferito ai conflitti di natura amministrativa. Ora è evidente che per questi conflitti l’organo di risoluzione è il Presidente del Consiglio. Invece, per i conflitti politici il Presidente del Consiglio rappresenta l’organo di soluzione in primo grado. Se questo conflitto persistesse, il suo sbocco naturale sarebbe nel Consiglio dei Ministri.

Pertanto si limiterebbe a dire: «i conflitti che sorgono», essendo evidente che un conflitto non sanato, e che per questo diventa politico, verrebbe portato per la sua soluzione al Consiglio dei Ministri. Ciò eliminerebbe in gran parte le divergenze di opinioni e i dubbi che sorgono comunemente circa la competenza.

Richiama l’attenzione sul punto della sua proposta riguardante la vigilanza, perché essa ha soprattutto lo scopo di evitare le omissioni. Infatti l’opera di coordinamento del Primo Ministro può avere riferimento all’attività svolta dai ministri, ma esistono delle colpe in non faciendo o in omittendo, che appunto devono essere considerate con l’accenno sull’opera di vigilanza svolta dal Primo Ministro.

PRESIDENTE mette ai voti la dizione: «mantiene l’unità e l’indirizzo politico di tutti i Ministeri».

(È approvato).

Mette in discussione la frase: «coordina individualmente l’attività dei ministri e presiede il Consiglio dei Ministri».

Ricorda che l’onorevole Mortati ha proposto il seguente emendamento sostitutivo: «a questo scopo vigila sull’attività dei ministri e la coordina individualmente e nel Consiglio dei Ministri».

LUSSU non ritiene necessario l’inserimento della proposta dell’onorevole Mortati, perché, quando un ministro vuol prendere un provvedimento, è obbligato a trasmettere alla Presidenza del Consiglio l’atto che deve essere sottoposto all’approvazione. Quindi, quella vigilanza di cui parla l’onorevole Mortati esiste già.

MORTATI fa presente che la sua proposta sulla vigilanza non si riferisce ai provvedimenti, ma alle omissioni nell’espletamento delle loro funzioni. Osserva che una delle ragioni dell’insufficienza delle funzioni politiche del Presidente del Consiglio è data dall’impossibilità da parte sua di intervenire preventivamente nell’operato dei ministri. In altri termini, il Presidente del Consiglio non deve attendere che il ministro gli sottoponga l’atto da approvare, ma deve svolgere un’azione stimolatrice. Attualmente il Presidente del Consiglio non ha questo potere, ed è un principio che è molto difficile fare entrare nella legge ordinaria; perciò è opportuno inserirlo nella Costituzione. Con la disposizione proposta si vuole ottenere che il Primo Ministro possa chiedere conto a un ministro dell’attività che ha svolto e di quella che non ha svolto. Ricorda che ogni ministro è responsabile degli atti del suo Ministero, a meno che non si tratti di atti di politica generale per i quali vi è una responsabilità collegiale. Perciò è necessarioe che innanzi tutto il ministro sia reso responsabile del suo operato di fronte al Primo Ministro, e ne renda a questo ragione.

LUSSU riconosce che nella situazione attuale il ministro non risponde a nessuno del suo operato.

PRESIDENTE fa osservare all’onorevole Lussu che la situazione odierna è del tutto artificiale, poiché oggi non esiste un Parlamento, che è l’organo naturale di vigilanza sull’operato dei ministri e di cui è, quindi, propria questa opera stimolatrice.

TOSATO, Relatore, osserva che una cosa è la vigilanza del Parlamento e altra cosa è la vigilanza del Primo Ministro.

PERASSI ritiene che la proposta dell’onorevole Mortati integri il concetto dell’articolo 20, perché il concetto del coordinamento è notevolmente importante, ma non è completo. La parola «vigila», per quanto aspra, dà un’idea esatta dell’attenzione che il Primo Ministro deve portare nel funzionamento del Consiglio dei Ministri, in modo che questo attui il programma convenuto. Ritiene che per questo motivo l’onorevole Mortati abbia inserito le parole «a questo scopo», parole che attenuano un po’ l’asprezza del termine «vigila».

PRESIDENTE osserva che il termine «vigila» è troppo aspro, e che se ne dovrebbe proporre un altro.

EINAUDI propone di sostituirlo con il termine «promuove».

TOSATO, Relatore, propone che si dica: «promuove e coordina».

LUSSU rileva che col nuovo termine «promuove e coordina» si vuole indicare che tale attività non è obbligatoria. Pertanto l’accetta.

MORTATI accetta le modificazioni proposto.

PRESIDENTE mette ai voti la frase: «a questo scopo ha facoltà di promuovere l’attività dei ministri e di coordinarla individualmente e in Consiglio dei Ministri».

(È approvata).

Ricorda l’ultima parte della proposta dell’onorevole Mortati: «risolvendo i conflitti che sorgono tra di essi».

MORTATI fa presente che l’inserimento di questa frase è necessario, in quanto si tratta di rettificare la legge del 1901 oggi in vigore, la quale rimanda al Consiglio dei Ministri la soluzione di questi conflitti.

PERASSI ritiene implicita la soluzione dei conflitti nell’opera di coordinamento attribuita al Primo Ministro, tanto più che l’onorevole Mortati ha dichiarato che, se l’opera conciliatrice del Primo Ministro non riesce, si deve adire al Consiglio dei Ministri.

MORTATI precisa che si andrà al Consiglio dei Ministri soltanto per i conflitti politici, ma non per quelli amministrativi.

TOSATO, Relatore, propone di specificare dicendo: «conflitti di competenza».

EINAUDI fa rilevare che il Consiglio dei Ministri non è competente a discutere le attribuzioni, perché queste sono stabilite per legge.

PRESIDENTE osserva che si tratta di interpretazioni.

EINAUDI obietta che l’interpretazione spetta al Presidente del Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE dichiara che non sarebbe contrario ad una formula che dicesse: «risolvendo i conflitti di competenza».

FABBRI si domanda per quale ragione, se il conflitto di competenza ha base legale, debba essere rimesso al Presidente del Consiglio, quando questa base legale può essere discussa e risolta in seno al Consiglio dei Ministri, il quale è l’organo normale per la risoluzione dei conflitti di competenza. Se è un conflitto di competenza, non si tratterà di apprezzamento di carattere politico: avrà sempre un substrato giuridico. Non si comprende perché l’interpretazione dovrebbe competere ad una persona sola e non all’organo collegiale. Ritiene vi sia una preoccupazione eccessiva di esaltare la figura del Primo Ministro.

Osserva che d’altra parte, se alla risoluzione adottata dal Presidente del Consiglio il ministro interessato non aderisca, si finirà naturalmente per discutere la questione in seno al Consiglio dei Ministri; né si dovrebbe chiudere la porta alla via normale di risoluzione dei conflitti di competenza. Egli è preoccupato per il fatto che si vuol consacrare nella Carta costituzionale la non competenza del Consiglio dei Ministri, che è invece l’organo naturale per la risoluzione dei conflitti di competenza.

PERASSI domanda quale valore giuridico possa avere la frase: «risolvere i conflitti di competenza» rispetto alla giustizia amministrativa. A suo parere non ha alcun valore giuridico.

TOSATO, Relatore, osserva che si tratta di conflitti di burocrazia.

PRESIDENTE fa rilevare che si tratta di conflitti di competenza che non hanno carattere giuridico, ma hanno carattere politico.

Mette ai voti la seguente formula proposta dall’onorevole Mortati: «risolvendo i conflitti di competenza che sorgano tra di essi».

(Con 11 voti favorevoli e 5 contrari è approvata).

EINAUDI, poiché si è alla fine degli articoli nei quali si parla del Primo Ministro, richiama l’attenzione della Sottocommissione sulla denominazione adottata. Ricorda che l’origine della denominazione «Primo Ministro» è inglese, ma si tratta di un accidente storico, poiché nell’ordinamento inglese vi è già la figura del Presidente del Consiglio, il quale è un personaggio secondario che presiede quello che un tempo fu il Consiglio privato della Corona, e che tuttora sussiste, pur avendo perduto il suo valore. Per questa ragione si è dovuto creare la denominazione del «Primo Ministro». Ma in Italia non vi sono ragioni particolari per adottare il termine di «Primo Ministro», ed egli ritiene più opportuno tornare alla classica denominazione di «Presidente del Consiglio».

MORTATI spiega che la ragione dell’introduzione del termine di «Primo Ministro» è in relazione al comma che sta per essere esaminato, e nel quale si stabilisce che il «Primo Ministro» può assumere un Ministero soltanto ad interim. Si innova con ciò la prassi costituzionale italiana, per la quale il Presidente del Consiglio era anche un ministro; si introduce il concetto che il Presidente del Consiglio dei Ministri non è un ministro o, meglio, non dovrebbe mai esserlo. Egli ha un compito specifico proprio, che gli dà il titolo particolare per la partecipazione al Consiglio dei Ministri.

PRESIDENTE obietta che l’argomentazione dell’onorevole Mortati si ritorce contro la sua tesi. Da quanto egli ha detto si può argomentare che, proprio perché non è un ministro, non potrà essere il Primo Ministro.

PERASSI ricorda che inizialmente si è detto che il Governo è composto dal Presidente e dai ministri.

TOSATO, Relatore, rileva che si è adottata la denominazione di «Primo Ministro» per sottolineare l’idea che egli ha il compito specifico di presiedere il Consiglio dei Ministri, ma che non esaurisce le sue funzioni in quanto Presidente di questo Collegio. Il Primo Ministro, come tale, ha funzioni particolari nel Collegio e fuori, tanto è vero che nell’articolo 20, quale è stato approvato, si dice che il Primo Ministro promuove l’attività dei ministri, coordinandola individualmente e collegialmente. Si può, quindi, ammettere l’aggiunta, al termine di «Primo Ministro», delle parole «Presidente del Consiglio», ma bisogna chiarire il fatto che questo «Primo Ministro» non è soltanto Presidente del Consiglio dei Ministri, e quindi occorre conservare per lo meno la denominazione adottata dal Comitato di redazione.

LUSSU ricorda che nel testo originario si diceva soltanto «Primo Ministro» e si aggiungeva poi che il «Primo Ministro» presiede il Consiglio dei Ministri. Ritiene che questa sia la formula migliore.

PRESIDENTE osserva che l’argomentazione dell’onorevole Tosato si può anche capovolgere. Il Presidente del Consiglio dei Ministri ha la funzione di presiedere il Consiglio dei Ministri e poi ha altre funzioni.

MORTATI osserva che con la qualifica «Presidente del Consiglio dei Ministri» non sono indicate le altre attribuzioni.

PRESIDENTE obietta che i nomi hanno poco valore e si possono usare indifferentemente, purché siano ben specificate le funzioni delle persone a cui questi nomi si danno. Non ci si deve fermare al significato letterale delle parole.

Osserva poi che l’argomentazione dell’onorevole Einaudi è fondata. In Italia tutti sanno che cosa è il Presidente del Consiglio, è che in lui si assommano le funzioni dirigenti del Governo con tutte quelle altre particolari attività che sono state indicate nella Carta costituzionale.

L’onorevole Einaudi ha proposto la questione all’attenzione dei Commissari, in quanto con l’articolo in discussione si esaurisce l’articolazione relativa a questo personaggio. Ritiene perciò di dover mettere in votazione le due alternative: conservare la dicitura del progetto: «Primo Ministro», o sostituirla con il termine: «Presidente del Consiglio dei Ministri».

PERASSI fa presente di aver proposto, in sede di comitato di redazione, di aggiungere al termine di «Primo Ministro» l’altro: «Presidente del Consiglio dei Ministri».

MORTATI osserva che la qualifica di «Presidente del Consiglio dei Ministri» può considerarsi implicita nel termine di Primo Ministro.

PRESIDENTE mette in votazione il concetto che si debba, negli articoli approvati, adottare il termine di «Primo Ministro».

(Con 7 voti favorevoli e 6 contrari, è approvata).

PERASSI propone che al termine approvato si aggiunga: «Presidente del Consiglio dei Ministri» nel primo comma dell’articolo 19, là dove si dice: «Il Governo della Repubblica è composto dal Primo Ministro e dai ministri».

PRESIDENTE mette in votazione la proposta dell’onorevole Perassi.

(È approvata).

Fa presente che deve a questo punto essere esaminata la proposta secondo la quale il Primo Ministro può assumere un Ministero soltanto ad interim. Osserva che, a suo avviso, per rispondere alla esigenza che si esprime con la proposta, bisognerebbe aggiungere il termine massimo di durata dello interim.

FUSCHINI osserva che, se questa norma fosse approvata, la figura del Primo Ministro verrebbe in pratica sensibilmente sminuita.

LUSSU propone che, per delineare ancora più decisamente la provvisorietà dell’incarico di un Ministero da parte del Primo Ministro, si dica «eccezionalmente e per un breve periodo di tempo».

TOSATO, Relatore, obietta che il termine interim esprime già che si tratta di una cosa eccezionale.

Osserva pure che un giudizio di valutazione politica permetterà di stabilire se e quanto questo interim dovrà durare. Fa rilevare che la ragione della disposizione è nel fatto che si ritiene che il Primo Ministro debba fare il Presidente del Consiglio e tenere il timone della nave governativa, cosa che gli riuscirebbe più difficile quando avesse anche la responsabilità di un Ministero.

NOBILE propone l’aggiunta seguente: «soltanto ad interim durante l’eventuale vacanza». Se, ad esempio, un ministro si dimette, è chiaro che il Primo Ministro può assumere la carica ad interim, mentre non deve assumere un Ministero ad interim al momento della formazione del Governo.

LUSSU fa osservare che il Primo Ministro ha già la presidenza del Consiglio, la quale ha presentemente l’estensione e l’importanza di un vero e proprio Ministero.

PRESIDENTE osserva che si deve anzitutto decidere la questione di principio, se cioè il Primo Ministro possa o non possa avere un portafoglio nel Governo, o se debba averlo soltanto ad interim in casi eccezionali.

EINAUDI crede che bisognerebbe, se mai, specificare le ragioni per cui si stabilisce che il Primo Ministro non possa avere l’incarico di un Ministero.

PRESIDENTE risponde che la norma è stata proposta con l’esplicito fine che il Presidente possa applicarsi maggiormente al suo compito essenziale.

EINAUDI obietta che in Italia una norma del genere potrebbe avere la conseguenza di sminuire il prestigio del Primo Ministro.

FUSCHINI ricorda che, secondo la tradizione politica italiana, il Presidente del Consiglio è anche Ministro degli interni.

MORTATI osserva che il rilievo dell’onorevole Fuschini si riferisce ad una situazione che tutto il complesso degli articoli finora approvati mira a modificare. Secondo l’opinione dell’onorevole Fuschini non si è efficacemente Presidenti del Consiglio se non si è a capo del Ministero dell’interno; ma ciò presuppone che il Primo Ministro sia un uomo disarmato, che possa contare solo in quanto abbia in mano un’amministrazione. Invece, con le norme approvate, si dà al Primo Ministro un complesso di poteri che valgano a farlo intervenire con efficacia nell’azione del Governo. Perciò crede che il rilievo dell’onorevole Fuschini non abbia fondamento.

FUSCHINI obietta che nulla si può dire mutato, poiché gli uomini sono sempre gli stessi e, quel che è più grave, la burocrazia è sempre la stessa.

CODACCI PISANELLI fa presente che non sarebbe prudente modificare da un momento all’altro una tradizione fortemente radicata. Propone, pertanto, una formula la quale dica che il Presidente del Consiglio non può avere più di un portafoglio. In questa maniera non si pregiudica niente e si lascia aperta la possibilità che si affermi l’uso che il Primo Ministro è senza portafoglio.

LUSSU osserva che una formula del genere sarebbe in contrasto con lo spirito che ha animato la Sottocommissione nel conferire al Primo Ministro un carattere preminente. Si è voluto creare il Primo Ministro, proprio perché egli deve essere qualche cosa di più del primus inter pares. Ora, se si fa sì che il Primo Ministro possa anche avere un dicastero, si viene a distruggere la figura stessa del Primo Ministro, il quale principalmente deve dirigere la politica generale del Governo, coordinando l’opera dei singoli ministri. Se al Primo Ministro si dà anche la possibilità di essere ministro di un dicastero, si ricade nella situazione odierna, nella quale il Presidente del Consiglio, assorbito normalmente dal peso di uno o di più dicasteri, non può mai fare il Primo Ministro.

Queste considerazioni giustificano veramente la richiesta che il Primo Ministro non possa avere che interinalmente ed eccezionalmente un dicastero, il che vuol dire – se si vuole aggiungere «per un breve periodo di tempo» – che si tratta di un incarico transitorio. Dicendo «eccezionalmente», si rafforza l’idea che un tale incarico è cosa del tutto provvisoria.

Sinora il Presidente del Consiglio ha sempre cercato di dirigere il Ministero dell’interno per valersi dei Prefetti e condurre l’amministrazione interna del Paese; causa, questa, di decadenza della democrazia in Italia. Con la riforma della struttura interna dello Stato e l’autonomia concessa alle Regioni, moltissime delle attribuzioni del Ministero dell’interno vengono a cadere.

PERASSI ricorda che in sede di Comitato di redazione ha aderito pienamente alla formula proposta, e dichiara di mantenere la sua adesione, ritenendo che la disposizione per la quale il Presidente del Consiglio solo ad interim ed eccezionalmente possa avere un Ministero, sia una disposizione che integra l’altra, approvata, che definisce la figura del Primo Ministro. Aggiunge che questa disposizione, a parte le considerazioni di ordine pratico a cui si appoggia, è fondata sul concetto che tutti i ministri vengono in questo modo a trovarsi nella stessa posizione di fronte al Primo Ministro, appunto perché questi non è titolare di alcun Ministero. Fa presente che, anche nella recente Costituzione francese, nella quale pur si pone nettamente la distinzione tra il Presidente del Consiglio dei Ministri ed i ministri, si rileva dal sistema delle norme che il Presidente del Consiglio è concepito come tale da non avere alcun Ministero.

PRESIDENTE osserva che l’onorevole Lussu ha toccato il punto fondamentale della questione. Se si potesse immaginare che, entrata in vigore la presente Costituzione, non vi saranno veramente più i Prefetti e vi saranno delle Regioni che eserciteranno le loro funzioni e non quelle dello Stato; se si potesse immaginare che i carabinieri non dipenderanno più dal Ministero dell’interno e che la polizia giudiziaria avrà esclusivamente una funzione giudiziaria, non dipendente più dal Guardasigilli ma dalla Magistratura, egli sarebbe favorevole a togliere al Presidente del Consiglio il diritto di diventare Ministro dell’interno, perché questo Ministero non avrebbe più altra importanza che quella amministrativa, così come è in alcuni Paesi, ad esempio in Svizzera. Ma egli dubita molto che in Italia questo abbia ad accadere, e se il Ministero dell’interno continuerà ad esercitare le funzioni che presentemente gli sono attribuite, il togliere al Primo Ministro la carica di Ministro dell’interno porterà al fatto che, mentre vi sarà un apparente Primo Ministro, il sostanziale Primo Ministro sarà il Ministro dell’interno. Se si vuole questo, si approvi pure la proposta; ma se questo non si vuole, si deve molto riflettere prima di togliere al Primo Ministro la possibilità di assumere il Ministero dell’interno.

PERASSI ricorda che in Francia si è dato spessissimo il caso che il Presidente del Consiglio non avesse il Ministero dell’interno.

EINAUDI obietta che in Italia vi sono stati pochi esempi di Presidenti del Consiglio che non fossero contemporaneamente Ministri dell’interno.

CANNIZZO si dichiara favorevole alla proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli, di permettere al Primo Ministro di assumere un solo dicastero. Lasciando da parte la questione dell’opportunità o meno che il Presidente del Consiglio abbia anche l’incarico di Ministero dell’interno, è da tener presente che vi possono essere momenti particolari, in cui è opportuno per la politica internazionale del Paese, allo scopo di darle maggiore prestigio, che il Ministero degli esteri sia nelle mani del Presidente del Consiglio. La stessa esigenza si potrebbe riscontrare per altri dicasteri. Non si può prevedere quali potranno essere gli svolgimenti della nostra politica e le nostre necessità nel futuro.

PRESIDENTE dichiara di essere personalmente favorevole alla proposta fatta dall’onorevole Codacci Pisanelli, tendente a limitare ad un dicastero la facoltà del Primo Ministro di assumere dei ministeri.

FABBRI esprime l’opinione che il Primo Ministro non possa assumere un secondo Ministero, se non ad interim.

CODACCI PISANELLI fa presente che, approvando la sua proposta, non si pregiudica alcuna tesi. Augurandosi che il Presidente del Consiglio ritenga inutile assumere un Ministero, osserva che questo fatto dovrà essere conseguenza della consuetudine che si verrà instaurando.

PRESIDENTE suggerisce che la proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli sia così formulata: «Il Primo Ministro ha facoltà di assumere in proprio solo un Ministero».

MORTATI chiede se attualmente vi sia una esplicita facoltà di assumere più di un Ministero.

PRESIDENTE risponde che, nella realtà dei fatti, è accaduto che il Presidente del Consiglio abbia assunto più Ministeri, anche se questa facoltà non è esplicitamente affermata.

MORTATI rileva che l’uso di fare assumere al Presidente del Consiglio più di un Ministero è venuto in Italia col fascismo, che ha introdotto questa possibilità con un’espressa disposizione della legge del 1925. Poiché la legge del 1925 è caduta, si dovrebbe supporre che la facoltà di assumere più Ministeri non esista più. Non vede, pertanto, la necessità di una norma che affermi il divieto che il Primo Ministro possa tenere l’incarico di più Ministeri.

TOSATO, Relatore, fa presente che le possibilità di decisione di fronte alle quali si trovano i Commissari sono due: o non dire nulla, o consacrare costituzionalmente il principio che il Primo Ministro può assumere anche un Ministero.

PRESIDENTE osserva che, non dicendo nulla nella Costituzione, questo silenzio può essere interpretato a seconda dell’opportunità del momento.

FABBRI rileva che, se ci si rivolge ad una determinata personalità politica per la composizione del Governo e questa personalità ritiene di avere una competenza specifica per risolvere determinati problemi politici importanti in un determinato settore, non si vede per quale ragione le si debba vietare di farlo. Non vi è ragione di essere così pessimisti circa le attitudini dei futuri uomini politici italiani. Ricorda come anche Cavour abbia avuto alle volte più di un Ministero.

CANNIZZO esprime il parere che si debba evitare in ogni caso che il Primo Ministro possa assumere più portafogli contemporaneamente. È necessario, quindi, modificare la proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli, in modo che sia chiaro che, ammettendo l’eccezione, non si modifica la regola. Da quella proposta si potrebbe essere invogliati a trarne la conseguenza che l’eccezione disposta per il Primo Ministro consenta di attribuire agli altri ministri più di un portafoglio contemporaneamente o ad interim.

VANONI rileva che la proposta dell’onorevole Codacci Pisanelli, secondo la quale il Primo Ministro non può assumere più di un portafoglio, non risolve nulla, perché si può sempre promulgare una legge che riunisca sotto un solo portafoglio Ministeri disparati. Se poi si vuole che il Primo Ministro sia effettivamente il fulcro di tutta l’azione amministrativa del Governo, una formula come quella proposta dall’onorevole Codacci Pisanelli può dare adito a tutte le sorprese.

PRESIDENTE fa presente che vi sono sull’argomento varie proposte: una del Comitato, per cui il Primo Ministro può assumere un portafoglio soltanto ad interim; una seconda, dell’onorevole Codacci Pisanelli, per cui il Primo Ministro non può assumere più di un Ministero; e una terza dell’onorevole Cannizzo, in base alla quale non soltanto il Primo Ministro, ma anche gli altri ministri non possono essere titolari di più di un dicastero.

VANONI propone che non si dica nulla nella Costituzione su questo argomento.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta soppressiva dell’onorevole Vanoni.

FABBRI dichiara che voterà a favore della proposta Vanoni, intendendo che, nello spirito del progetto, la soppressione lascia libero il Primo Ministro di assumere qualsiasi dicastero egli ritenga opportuno di assumere secondo le contingenze politiche.

LA ROCCA, Relatore, si associa alla dichiarazione di voto dell’onorevole Fabbri, nel senso che, nella pratica democratica italiana, si è sempre attuato il principio per cui il Presidente del Consiglio aveva la facoltà di attribuire a sé il Ministero che egli riteneva più rispondente alle necessità della vita politica del momento. Dichiara di ritenere inoltre che la Costituzione non si debba occupare di questi particolari dettagli.

(Con 7 voti favorevoli e 6 contrari è approvata).

PRESIDENTE pone in discussione l’articolo 21.

«La legge provvederà all’ordinamento della Presidenza del Consiglio. Il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri saranno pure stabiliti con legge del Parlamento».

Comunica un emendamento aggiuntivo dell’onorevole Cannizzo del seguente tenore:

«Il Primo Ministro ed i ministri non possono essere titolari di più di un Dicastero».

FABBRI propone di aggiungere alla fine dell’emendamento Cannizzo le parole: «se non ad interim».

CANNIZZO accetta l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Fabbri, ed aggiunge a sua volta una specificazione, nel senso che il ministro ad interim debba avere una durata limitata.

PRESIDENTE comunica che vi è anche un emendamento, proposto dall’onorevole Nobile, del seguente tenore:

«Il Primo Ministro non può in alcun caso assumere più di un Ministero. I ministri potranno assumere degli interim solo eccezionalmente e per breve durata. Non sono ammessi ministri senza portafoglio».

Mette ai voti il primo comma dell’articolo 21 nel testo del progetto:

«La legge provvederà all’ordinamento della Presidenza del Consiglio».

(È approvato).

Mette ai voti il secondo comma:

«Il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri saranno pure stabiliti con legge del Parlamento».

(È approvato).

Mette in discussione l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Cannizzo, con l’aggiunta proposta dall’onorevole Fabbri:

«Il Primo Ministro ed i ministri non possono essere titolari di più di un dicastero, se non interinalmente».

LUSSU osserva che una disposizione del genere appesantirebbe inutilmente la Costituzione, e che troverebbe la sua sede più opportuna in una legge ordinaria, tanto più che nello stesso articolo 21 è detto che il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri saranno pure stabiliti con legge.

EINAUDI è pure d’avviso che questa materia possa formare oggetto più di una legge che della Costituzione.

PRESIDENTE osserva che, essendosi approvato che queste materie devono essere regolate con legge, si potrebbe fare a meno di esaminarle. Domanda ai proponenti se insistano nel loro emendamento.

CANNIZZO dichiara di insistere nel suo emendamento aggiuntivo, ma di essere disposto a rinunciare alla seconda parte della proposta, limitandosi a dire:

«Il Primo Ministro non può assumere più di un dicastero».

Si dichiara anche disposto ad accettare l’aggiunta «se non ad interim», ma con l’intesa che non deve rientrare per altra via quello che si è già escluso. Infatti, se un interim durasse per un lungo periodo di tempo, finirebbe col frustrare la disposizione della Costituzione che vieta ai ministri di assommare nelle loro mani più di un dicastero. Si deve trattare perciò di un interim dovuto a particolari circostanze, quale la vacanza di un ministro e l’impossibilità di trovare qualcuno che possa assumere il suo Ministero, onde si renda necessaria l’assunzione dell’interim da parte del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Propone perciò che si dica che il Primo Ministro non può assumere interim, tranne che per un periodo determinato, che si potrebbe fissare in un minimo che non pregiudichi la disposizione che si vuole emanare.

EINAUDI ritiene che, anche nei riguardi di questa questione, si debba seguire la deliberazione già presa su proposta dell’onorevole Vanoni, ossia di non parlarne. Quando si è detto nella Costituzione che il numero dei Ministeri deve essere stabilito soltanto con legge del Parlamento, si è detto tutto quello che è possibile dire.

FABBRI fa osservare che la disposizione in esame vuole impedire che, in occasione delle crisi, si creino dei Ministeri soltanto per nominare dei ministri.

PRESIDENTE osserva che questo è già stato stabilito. Ora si discute della proposta dell’onorevole Cannizzo, a tenore della quale ogni ministro non può essere che titolare di un dicastero e in via eccezionale ad interim di un altro. Dichiara di concordare personalmente con l’onorevole Einaudi, pur confessando di avvertire l’esigenza espressa dalla proposta dell’onorevole Cannizzo. L’Italia è un Paese in cui un lungo periodo di dittatura è stato caratterizzato proprio dall’assommarsi nelle mani di una sola persona di numerosi dicasteri; ed è evidente che, quanto più si raccoglie in una sola persona il potere sopra numerose branche dell’amministrazione dello Stato, tanto più facilmente si creano delle situazioni in cui si rende possibile l’affermazione di una dittatura. Ritiene, quindi, che questa esigenza, che potrebbe anche non essere sentita in altri Paesi, sia invece sentita in Italia per la particolare situazione dalla quale esce il Paese.

Comunica il testo definitivo della proposta Cannizzo:

«Il Primo Ministro e i ministri non possono essere titolari di più di un dicastero, se non interinalmente e per la durata massima di sei mesi».

LUSSU osserva che con questa disposizione, mentre nella storia parlamentare italiana prefascista non si è mai dato il caso che un ministro assumesse permanentemente due dicasteri, si viene quasi ad incoraggiare la possibilità di prenderne un altro ad interim, ottenendo così lo scopo contrario.

NOBILE fa presente la necessità di distinguere il caso dei ministri da quello dei Primi Ministri. A suo parere il Primo Ministro non dovrebbe assumere in alcun caso un altro Ministero, neppure ad interim; i ministri invece ne possono assumere un altro ad interim. Ritiene perciò opportuno che la Commissione prenda una decisione in proposito, decisione che potrebbe restare agli atti in modo che si sappia quale è l’avviso della Commissione su questo argomento.

Chiede che venga posta in votazione la sua proposta, tendente al fine di vietare la nomina di ministri senza portafoglio.

PRESIDENTE osserva che si potrebbe votare un ordine del giorno.

EINAUDI ritiene che un ordine del giorno possa essere votato su questo argomento.

PRESIDENTE propone che nell’ordine del giorno vengano riunite le proposte degli onorevoli Cannizzo, Fabbri e Nobile, come espressione del pensiero della Commissione.

LA ROCCA, Relatore, si dichiara favorevole a votare l’ordine del giorno.

FABBRI esprime il dubbio che un ordine del giorno votato dalla Commissione raggiunga il fine voluto.

VANONI, circa la questione dei ministri senza portafoglio, non crede che sia possibile prendere una posizione negativa nei confronti di questo problema, come ha proposto l’onorevole Nobile. È noto infatti che nelle tradizioni costituzionali di tutti i Paesi esiste la figura del ministro senza portafoglio, e ciò non tanto per risolvere situazioni di equilibrio politico, che potrebbero essere risolte in modo diverso, ma perché spesso occorrono delle persone che si occupino di particolari problemi che appassionano l’opinione pubblica del Paese, e per i quali non è necessaria un’organizzazione permanente amministrativa.

Ricorda l’uso frequente che del ministro senza portafogli si fa in Inghilterra, e si domanda perché si debba, sia pure sotto forma di ordine del giorno, prendere una decisione che può avere una importanza politica per il Paese.

Chiede che, se si addiverrà ad una votazione, si voti per divisione, in modo che egli possa esprimere il suo dissenso limitatamente a questa parte.

PRESIDENTE ricorda che la prima questione è se queste due proposte debbano essere votate come espressione di un avviso della Commissione, oppure se debbano essere votate nella loro formulazione come parti integranti di un articolo della Carta costituzionale.

Mette ai voti la proposta che il divieto per il Primo Ministro e per ogni altro ministro di essere titolari di più di un dicastero, se non ad interim, debba essere inserito nella Carta costituzionale.

(Non è approvata).

Mette ai voti la proposta formulata dall’onorevole Nobile, che il divieto che vi siano ministri senza portafoglio debba essere formulato nella Carta costituzionale.

(Non è approvata).

Fa presente che, dato l’esito della votazione, si deve intendere che le due proposte saranno formulate come espressione dell’opinione della Commissione, e che come tali saranno inserite in verbale.

EINAUDI dichiara che, se può essere favorevole all’inserimento della prima proposta a verbale come raccomandazione, non può accettare la proposta della soppressione dei ministri senza portafoglio.

Ricorda che in Inghilterra vi sono ministri senza portafoglio che si occupano di compiti particolari.

PRESIDENTE mette ai voti la proposta degli onorevoli Cannizzo e Fabbri in una formula come raccomandazione del seguente tenore:

«La prima Sezione della seconda Sottocommissione esprime l’avviso che nella legge prevista dall’articolo 21 del progetto, relativo al Governo della Repubblica, debba essere contenuta una disposizione a tenore della quale il Primo Ministro e i ministri non possono essere titolari di più di un dicastero se non interinalmente e per la durata massima di sei mesi».

Avverte che una formula dello stesso tipo potrà essere usata successivamente per la proposta dell’onorevole Nobile.

NOBILE fa osservare che in questo modo, dato che si è ammesso che il Presidente possa avere un Ministero in proprio al momento della formazione del Governo, ne potrà sempre avere un altro assunto ad interim.

PRESIDENTE osserva all’onorevole Nobile che la questione è già stata dibattuta, e che gli onorevoli Cannizzo e Fabbri hanno tenuto presente questa possibilità e tuttavia hanno formulato la loro proposta.

NOBILE ritiene che, prima di votare l’ordine del giorno, debba essere messa in votazione la questione se la Commissione ritenga che il Primo Ministro possa avere, oltre che un dicastero, anche l’interim di altri.

FABBRI fa osservare all’onorevole Nobile che deve essere sempre lasciata la facoltà al Primo Ministro di avere l’interim di un Ministero. Se, per esempio, al momento della formazione del Governo, uno dei ministri incaricati di farne parte è all’estero, nulla può vietare che il Primo Ministro tenga lo interim di quel Ministero fino al ritorno del titolare.

NOBILE obietta che si è già detto che un Primo Ministro non possa avere due o tre Ministeri.

PRESIDENTE osserva che l’onorevole Nobile ha sempre la possibilità di esprimere la propria opinione votando contro l’ordine del giorno degli onorevoli Cannizzo e Fabbri. Se la maggioranza della Commissione è del parere dell’onorevole Nobile, respingerà questa formula e allora sarà messa in votazione la sua.

Mette ai voti l’ordine del giorno.

(È approvato).

Mette ai voti il seguente ordine del giorno proposto dall’onorevole Nobile:

«La prima Sezione della seconda Sottocommissione raccomanda che nella legge prevista nell’articolo 21 del progetto del Governo della Repubblica sia inserita una disposizione a tenore della quale non sono ammessi ministri senza portafoglio».

(Non è approvato).

La seduta termina alle 20.10.

Erano presenti: Cannizzo, Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca. Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Terracini, Tosato, Vanoni.

Assenti: Bordon, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, Piccioni, Rossi Paolo.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

10.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 10 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Mortati – Nobile – Perassi – Tosato, Relatore – Piccioni – La Rocca, Relatore – Lussu – Fabbri – Fuschini – Lami Starnuti.

La seduta comincia alle 11.15.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE ricorda che la discussione verte ancora sulla procedura da seguire nel caso di una mozione di sfiducia, sulla quale sono state presentate due proposte. La prima è dell’onorevole Perassi, per la quale l’Assemblea Nazionale è convocata dal suo Presidente, quando la mozione di sfiducia sia firmata da almeno un quarto dei membri dell’Assemblea: in tal caso la mozione di sfiducia dovrà essere discussa non prima di cinque giorni dalla presentazione. La seconda, dell’onorevole Fuschini, è così formulata: «Qualora una delle due Camere esprima con voto palese della sua maggioranza la sfiducia al Governo, questo deve convocare immediatamente l’Assemblea Nazionale per il riesame della decisione. Nel caso in cui l’Assemblea, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, confermi la sfiducia nel Governo, questo deve dare le dimissioni».

Si tratta, quindi, di due proposte diverse: per quella dell’onorevole Perassi, la mozione di sfiducia è presentata direttamente all’Assemblea Nazionale e da questa direttamente discussa e votata; per quella dell’onorevole Fuschini, invece, la mozione di sfiducia può essere in un primo tempo presentata, discussa e votata in seno a ciascuna delle due Camere e soltanto in un secondo tempo dev’essere portata innanzi all’Assemblea Nazionale.

MORTATI presenta la seguente proposta:

«Il Governo promuove la convocazione dell’Assemblea Nazionale, quando ritenga di sottoporre ad essa dichiarazioni di politica generale relative all’indirizzo approvato, o di richiederle una conferma della fiducia.

«La facoltà di ottenere, su richiesta motivata, la convocazione dell’Assemblea perché questa si pronunci sulla fiducia al Governo compete altresì ai due quinti dei membri di ciascuna delle Camere.

«Nel caso in cui l’Assemblea, a maggioranza assoluta dei suoi membri, dichiari, con mozione motivata, la sua sfiducia al Governo, questo dovrà dimettersi».

Osserva per altro che la facoltà di ottenere, su richiesta motivata, la convocazione dell’Assemblea Nazionale affinché questa si pronunci sulla fiducia al Governo potrebbe anche essere attribuita, se ciò sembrasse più opportuno, a un terzo dei membri di una Camera.

Ritiene poi che con l’approvazione, avutasi nella riunione antecedente, del principio secondo cui un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una determinata proposta non importa come conseguenza le dimissioni del Governo, la proposta dell’onorevole Fuschini non abbia più ragione d’essere. Difatti, ammesso il principio anzidetto, si deve riconoscere al Governo la facoltà discrezionale di richiedere o no la convocazione dell’Assemblea Nazionale per l’esame di una data questione su cui una delle due Camere si sia già pronunciata. D’altra parte, per impedire che il Governo possa agire contro la volontà del Parlamento, con la sua proposta si dà la possibilità a un dato numero di membri di ciascuna delle Camere di esigere la convocazione dell’Assemblea Nazionale, che potrà quindi, se lo riterrà necessario, votare la sfiducia al Governo e così provocare le dimissioni. Il sistema da lui proposto contempera le esigenze di stabilità del Governo con quelle della libera espressione della volontà popolare. Nella proposta dell’onorevole Fuschini la convocazione dell’Assemblea Nazionale da parte del Governo è resa obbligatoria: si tratta quindi di un criterio troppo rigido, automatico, che in alcuni casi può riuscire inopportuno. La sua proposta, invece, fa salva la facoltà discrezionale del Governo di valutare l’opportunità o meno della convocazione dell’Assemblea Nazionale e nello stesso tempo, qualora i membri dell’una o dell’altra Camera avvertissero l’intenzione da parte del Governo di sottrarsi al giudizio del Parlamento, essi in un dato numero potrebbero sempre richiedere la convocazione dell’Assemblea Nazionale, affinché questa potesse accordare ancora o negare la fiducia al Governo.

Inoltre, con la sua proposta si dà la possibilità al Governo di sottoporre all’Assemblea Nazionale tutte quelle questioni che possono incidere sull’indirizzo della politica generale già approvata dall’Assemblea Nazionale stessa. Anche in questo caso il Governo può sentire la necessità di informare l’Assemblea Nazionale o di avere da questa l’approvazione della linea di condotta che esso in dati momenti, di fronte a nuove situazioni, intenda seguire. Ogni questione, quindi, relativa alla politica generale del Governo tornerebbe ad essere dibattuta in seno all’Assemblea Nazionale che, secondo quanto già è stato deciso, è l’unica competente ad approvare i programmi politici di ogni nuovo Governo in carica.

PRESIDENTE desidera sapere se l’onorevole Mortati, con la sua proposta, intenda escludere la possibilità che il Governo faccia dichiarazioni di politica generale davanti a ciascuna delle due Camere.

MORTATI dichiara che con il sistema da lui proposto la convocazione dell’Assemblea Nazionale da parte del Governo per il dibattito di questioni riguardanti la politica generale resta sempre una facoltà, non un obbligo, del Governo stesso. Sarebbe corretto però, da un punto di vista costituzionale, che il Governo promuovesse la convocazione dell’Assemblea Nazionale per la discussione di problemi attinenti all’indirizzo politico governativo, visto che ogni Governo, subito dopo la sua formazione, deve avere sempre dall’Assemblea Nazionale l’approvazione del suo programma politico, secondo il criterio già adottato dalla Sottocommissione.

PRESIDENTE propende per la procedura proposta dall’onorevole Fuschini, per quanto sia più complicata, perché con essa si ha maggior riguardo per il prestigio e l’autorità della Camera elettiva.

NOBILE è favorevole alla proposta dell’onorevole Fuschini, perché trova strano che, mentre si è stabilito che un voto contrario del Parlamento non debba importare come conseguenza le dimissioni del Governo, si voglia poi dare ad una minoranza di membri dell’una o dell’altra Camera la possibilità di mettere in crisi il Governo e così di sabotarne, ogni qualvolta essa lo desideri, l’opera politica.

PRESIDENTE osserva che potrebbe essere adottata una formulazione in cui fosse contemperato il principio della proposta dell’onorevole Fuschini con quello della proposta dell’onorevole Mortati.

MORTATI non reputa opportuno che si debba precedere alla convocazione automatica dell’Assemblea Nazionale, qualora una delle due Camere abbia espresso un voto di sfiducia al Governo; e ciò perché in alcuni dati momenti la situazione politica potrebbe essere tale da non far ritenere necessario che debbano essere provocate le dimissioni del Governo. La sua proposta, quindi, contrasta con quella dell’onorevole Fuschini perché, mentre con questa si prescrive, nel caso di un voto di sfiducia di una delle due Camere al Governo, la convocazione automatica dell’Assemblea Nazionale, con la sua si stabilisce che tale convocazione è lasciata alla discrezionalità del Governo o di un dato numero di membri di ciascuna Camera. Rendere obbligatoria la convocazione dell’Assemblea Nazionale quando si possono avere le garanzie previste nella sua proposta, oltre tutto gli sembra inutile.

PERASSI non è favorevole alla proposta di una convocazione automatica dell’Assemblea Nazionale in seguito a un voto contrario dell’una o dell’altra Camera. Se, infatti, si tratti di un voto contrario che non rivesta particolare importanza politica, la convocazione automatica dell’Assemblea Nazionale appare veramente fuor di luogo. Se invece tale voto contrario dovesse assumere un notevole significato politico, il giudizio sull’opportunità di convocare l’Assemblea Nazionale, per un chiarimento della situazione, evidentemente non potrebbe essere lasciato che alla discrezionalità degli oppositori al Governo, com’egli ha proposto, e anche del Governo stesso, secondo quanto ha in seguito suggerito l’onorevole Mortati.

TOSATO, Relatore, è favorevole alla proposta dell’onorevole Mortati, perché ritiene che essa risponda ai criteri adottati dal Comitato nella redazione del progetto in esame.

PICCIONI ritiene che il fatto dell’approvazione, da parte dell’Assemblea Nazionale, del programma governativo subito dopo la formazione di ogni nuovo Governo non deve in un certo senso essere causa di una limitazione delle prerogative delle due Camere nei confronti della potestà del Governo stesso.

A suo avviso, quindi, ciascuna delle due Camere, a seguito di una discussione su comunicazioni politiche di carattere generale o anche a seguito di una discussione su un determinato disegno di legge che abbia notevole importanza relativamente all’indirizzo politico governativo, ha la piena facoltà di esprimere un voto che implichi, tacitamente o esplicitamente, sfiducia nel Governo. In tal caso al Governo non restano che due sole vie da seguire: o dimettersi, o appellarsi all’Assemblea Nazionale. La terza via, quella di attribuire a un dato numero di membri dell’una o dell’altra Camera la facoltà di richiedere la convocazione dell’Assemblea Nazionale, secondo il suo parere, non ha ragione d’essere, perché il Governo o si dimette, e in tal caso con il voto di sfiducia si è raggiunto l’effetto desiderato, o chiede la convocazione dell’Assemblea Nazionale stessa. Si dichiara quindi favorevole alla proposta dell’onorevole Fuschini.

PERASSI fa presente all’onorevole Piccioni che è sempre ammissibile una terza ipotesi, quella cioè della convocazione dell’Assemblea Nazionale per iniziativa di un certo numero dei propri membri. Difatti, una volta che si afferma che l’Assemblea Nazionale è competente ad accordare o negare la fiducia al Governo, logicamente si deve anche ammettere che la stessa Assemblea Nazionale possa, con l’iniziativa di un dato numero dei suoi componenti, promuovere il dibattito sulla questione di fiducia.

MORTATI crede che occorra tener presente il compito, demandato all’Assemblea Nazionale, di approvare, oppur no, il programma politico formulato da ogni Governo. Ciascun Governo, quindi, dopo la sua formazione, per cominciare a svolgere la sua azione politica deve avere la fiducia dell’Assemblea Nazionale, che sostanzialmente è un organo nuovo, quasi una terza Camera. Questo è il sistema approvato dalla Sottocommissione e a tale sistema bisogna rifarsi per la soluzione del problema in esame. La proposta dell’onorevole Fuschini non solo non tiene conto di tale premessa, ma è anche assai poco opportuna, perché potrebbe favorire tutte le manovre di una sola Camera che non assicurerebbero quella relativa stabilità di Governo di cui i più giustamente hanno mostrato di preoccuparsi nella formulazione del progetto della nuova Costituzione. Ciò considerato, la proposta dell’onorevole Fuschini, per poter essere accolta, dovrebbe essere modificata, nel senso che il voto di sfiducia di una delle due Camere dovrebbe essere palese ed espresso da una maggioranza qualificata.

TOSATO, Relatore, osserva che, secondo la logica del sistema adottato, per cui è l’Assemblea Nazionale che accorda o nega la fiducia ad ogni nuovo Governo, sarebbe senz’altro necessario presentare ogni mozione di sfiducia all’Assemblea Nazionale stessa. Si può osservare, però, da un punto di vista pratico, che possono aversi mozioni di sfiducia che non investano la politica generale del Governo, ma soltanto alcune determinate attività, taluni particolari orientamenti del Governo stesso, i quali, pur non incontrando il favore dell’una o dell’altra Camera, non sono di tale importanza da originare una volontà precisa di provocare una crisi governativa.

Ciò considerato, sarebbe meglio lasciare alla discrezionalità del Governo il giudizio sull’opportunità di convocare, oppure no, l’Assemblea Nazionale.

PRESIDENTE rileva che la proposta dell’onorevole Tosato presenta l’inconveniente di lasciare al Governo la discrezionalità di giudicare se una data mozione di sfiducia debba essere discussa dalla Camera che l’ha presentata o dall’Assemblea Nazionale. Per evitare tale inconveniente e per assicurare una relativa stabilità al Governo, e nello stesso tempo per non menomare le prerogative delle Camere, sarebbe opportuno stabilire che ogni mozione di sfiducia debba essere presentata ad una delle due Camere qualche tempo prima del giorno della sua discussione ed approvata da una maggioranza qualificata. Si potrebbe anche stabilire che, dopo l’approvazione della mozione di sfiducia, il Governo non sia senz’altro obbligato a dimettersi, perché esso può avere la possibilità di appellarsi all’Assemblea Nazionale. A tali criteri appunto risponde la seguente proposta dell’onorevole Nobile, a cui dichiara di associarsi:

«In seguito ad un voto di sfiducia approvato da una delle due Camere a maggioranza assoluta, il Governo è obbligato a dimettersi, a meno che creda di appellarsi all’Assemblea Nazionale, che in tal caso deve subito essere convocata.

«La mozione di sfiducia motivata deve essere presentata da almeno un terzo dei componenti della Camera chiamata a discuterla e non può essere discussa prima di tre giorni dalla data di presentazione».

TOSATO, Relatore, trova strano che, per l’approvazione del programma politico del Governo, ci si rivolga all’Assemblea Nazionale in prima istanza e che la stessa possa intervenire in seconda istanza nell’eventualità di una crisi governativa.

PICCIONI osserva che la fiducia da accordare a un Governo appena formato è un atto assai più importante di quello di provocare una crisi di un Governo già da tempo in carica; a ciò può bastare l’intervento di una delle due Camere.

LA ROCCA, Relatore, dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Nobile. Fa osservare poi all’onorevole Tosato che, con la proposta dell’onorevole Nobile, nel caso che il Governo non si dimettesse dopo un voto di sfiducia di una delle de Camere, sarebbe sempre l’Assemblea Nazionale ad accordare nuovamente o negare la fiducia al Governo stesso.

LUSSU è favorevole al testo dell’articolo 22 del progetto in esame che, a suo avviso, può assicurare una sufficiente stabilità ad ogni Governo in carica, cosa di cui egli s’è sempre preoccupato. Sarebbe stato poi favorevole alla proposta dell’onorevole Nobile, se essa avesse potuto riferirsi soltanto alla prima Camera. Non può infatti ammettere che anche la seconda Camera possa, con un voto di sfiducia, obbligare il Governo a dimettersi o costringerlo ad appellarsi all’Assemblea Nazionale. La condizione poi che il voto di sfiducia debba essere approvato a maggioranza assoluta riuscirebbe particolarmente vantaggiosa per la seconda Camera che, com’è noto, sarà composta di un numero di membri inferiore a quello della prima. Difatti soltanto 151 Senatori basterebbero ad approvare una mozione di sfiducia nel Governo con tutte le conseguenze previste nella proposta anzidetta, mentre per l’approvazione di una mozione di sfiducia da parte della prima Camera occorrerebbe un numero superiore di deputati. Ciò, a suo avviso, sarebbe un assurdo.

D’altra parte, il sistema previsto nell’articolo 22 del progetto garantisce una certa stabilità del Governo, perché la convocazione dell’Assemblea Nazionale per l’esame di questioni di fiducia non potrà avvenire se non per necessità veramente importanti, di alto interesse politico. La convocazione di tale organo rivestirà sempre una particolare solennità e non potrà quindi avvenire per questioni di fiducia su problemi di scarsa importanza.

TOSATO, Relatore, propone, subordinatamente al testo presentato dall’onorevole Mortati, la seguente formulazione:

«Le dimissioni sono obbligatorie solo in seguito ad una espressa e motivata mozione di sfiducia discussa e approvata, a maggioranza assoluta dai suoi membri, o da una delle due Camere, o, su richiesta del Governo, dall’Assemblea Nazionale».

FABBRI osserva che la proposta dell’onorevole Nobile dovrebbe essere votata per divisione. Dovrebbe innanzi tutto essere messa in votazione la seguente parte del primo comma della proposta anzidetta: «In seguito a un voto di sfiducia approvato da una delle due Camere a maggioranza assoluta, il Governo è obbligato a dimettersi». A tale formulazione egli darebbe senz’altro il suo voto favorevole che non potrebbe invece dare al resto della proposta formulata dall’onorevole Nobile, con la quale praticamente si distrugge il sistema bicamerale. Con questo sistema le Camere, infatti, non debbono essere soltanto organi legislativi, ma anche organi politici, e pertanto dovrebbero essere le Camere ad avere la piena facoltà di votare la fiducia o la sfiducia nel Governo. Con la proposta anzidetta, invece, si crea un solo organo politico, l’Assemblea Nazionale, diviso in due sezioni legislative. Già è stato approvato il principio secondo cui il programma politico di ogni nuovo Governo dovrà avere l’approvazione dell’Assemblea Nazionale; ora si cerca di attribuire a quest’unico organo politico ogni decisione in materia politica, sottraendo alla due Camere la suprema facoltà di stabilire se a un dato Governo in carica debba, oppur no, essere data la fiducia. A tale compito saranno chiamati indifferentemente gli eletti a suffragio universale tanto in via diretta quanto in via indiretta, ossia tanto i rappresentanti della prima Camera quanto quelli della seconda.

PERASSI fa osservare all’onorevole Fabbri che la competenza in materia d’inchiesta resterà sempre alle due Camere.

FABBRI rileva che la competenza in materia d’inchiesta è l’unica che resterà alle Camere al di fuori di quella strettamente tecnica nel campo legislativo. Ogni valutazione politica, da un punto di vista generale, dell’indirizzo seguito dal Governo resterà affidata all’Assemblea Nazionale, con la grave conseguenza che un-Governo potrà restare in carica, nonostante la volontà contraria chiaramente manifestata da una delle due Camere. Ciò è contrario al sistema parlamentare. Per introdurre alcune innovazioni di carattere democratico, si distrugge quel tanto di liberalismo parlamentare che, dopo la caduta del fascismo, poteva essere instaurato in Italia.

PRESIDENTE ricorda che nella passata riunione egli aveva proposto che un voto di sfiducia della prima Camera dovesse importare come conseguenza le dimissioni del Governo. Era una proposta che in parte rispondeva al pensiero ora espresso dall’onorevole Fabbri; ma fu respinta. Osserva in ogni modo che con la proposta dell’onorevole Nobile si intende salvaguardare le funzioni di sindacato politico delle Camere.

MORTATI rileva che, con l’approvazione avvenuta nella riunione antecedente del principio secondo cui un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una determinata proposta non importa come conseguenza le dimissioni del Governo, non si è inteso di escludere il potere di sindacato politico da parte delle due Camere. Con la parola «proposta», infatti, si può intendere anche una mozione di sfiducia che le stesse Camere possono sempre presentare, discutere e approvare.

PRESIDENTE osserva che, se con la parola «proposta» si deve intendere anche «mozione di sfiducia», ciò deve risultare assai chiaramente, perché l’approvazione di una mozione di sfiducia, a suo avviso, non può importare che le dimissioni del Governo, ciò che invece nella riunione passata si è inteso di escludere in caso di voto contrario al Governo da parte dell’una o dell’altra Camera.

In ogni modo, poiché per la soluzione del problema in esame sono state presentate proposte ben definite, crede si possa passare alla votazione.

Mette innanzi tutto in votazione la proposta dell’onorevole Nobile.

LUSSU dichiara di votare contro, perché, con l’eventuale accoglimento di questa proposta, sarebbero sufficienti 151 voti in seno alla seconda Camera per provocare una crisi governativa.

PICCIONI voterà a favore, osservando che, del resto, con il testo presentato dall’onorevole Perassi, basterebbero soltanto 187 firme di componenti l’Assemblea Nazionale, apposte ad una mozione di sfiducia, per richiedere la convocazione dell’Assemblea Nazionale stessa. Se tale numero sembrava sufficiente a promuovere un’eventuale crisi governativa da parte dell’Assemblea Nazionale, non si comprende perché un numero di voti di poco inferiore in seno alla seconda Camera debba sembrare troppo esiguo per l’approvazione di una mozione di sfiducia.

FUSCHINI si associa a quanto ha dichiarato l’onorevole Piccioni.

(Con 7 voti favorevoli, 7 contrari ed una astensione, non è approvata).

PRESIDENTE ritiene che la proposta dell’onorevole Perassi potrebbe essere armonizzata con quella dell’onorevole Mortati nel seguente testo:

«L’Assemblea Nazionale è convocata dal suo Presidente, quando una mozione di sfiducia sia firmata da almeno un quarto dei membri dell’Assemblea Nazionale, o quando il Governo intenda porre la questione di fiducia.

«La mozione di sfiducia sarà discussa non prima di cinque giorni dalla presentazione».

La mette in votazione.

(Non è approvata).

LAMI STARNUTI dichiara che si è astenuto dalla votazione della proposta dell’onorevole Nobile, perché ne era sfuggita alla sua attenzione la reale portata. Stante l’ora tarda e l’importanza del problema in esame, prospetta l’opportunità, anche in considerazione dell’assenza di alcuni deputati del suo gruppo, di procedere in un’altra riunione ad una nuova votazione delle proposte già votate.

PRESIDENTE aderisce alla richiesta dell’onorevole Lami Starnuti.

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Rossi Paolo, Terracini, Tosato e Zuccarini.

Assenti: Bordon, Cannizzo, Finocchiaro Aprile, Grieco e Vanoni.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Presidente – Calamandrei, Relatore – Bozzi – Di Giovanni – Ambrosini – Leone Giovanni, Relatore – Laconi – Uberti.

La seduta comincia alle 16.55.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE prega l’onorevole Calamandrei di riferire sulle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

CALAMANDREI, Relatore, aggiungerebbe all’articolo relativo alla revisione, entro 5 anni, degli organi speciali di giurisdizione, il seguente capoverso:

«Nello stesso termine si procederà a trasformare le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, la Giunta provinciale amministrativa, la Corte dei conti in funzione giurisdizionale e le Commissioni del contenzioso tributario in sezioni specializzate degli organi ordinari, includendo le norme ad esse relative nella legge sull’ordinamento giudiziario».

Dirà, il più brevemente possibile, le ragioni per cui è favorevole alla abolizione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

Richiama innanzi tutto l’attenzione dei colleghi sul fatto che la questione, oltre che dal punto di vista dell’ingerenza del potere esecutivo nelle funzioni giudiziarie, deve essere esaminata dal punto di vista dell’ingerenza che il potere giudiziario può esercitare nelle funzioni amministrative. Si tratta quindi anche di un problema di rapporti tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Il regolamento di questi rapporti – poiché nella Costituzione non può farsi senz’altro rinvio alla legge 31 marzo 1865, che abolì il contenzioso amministrativo – qualunque sia la soluzione che si voglia attuare, dovrà essere definito da un apposito articolo che riproduca le soluzioni adottate da quella legge.

Fatta questa premessa, afferma che se il Consiglio di Stato ha finora funzionato bene, anche nelle sue Sezioni giurisdizionali, ciò si è dovuto, a suo avviso, principalmente al fatto che questo istituto si è andato formando attraverso tempi e circostanze successive, per rispondere di volta in volta alle esigenze che si presentavano. Per questo motivo non è un organo disciplinato in maniera armonica, simmetrica e razionale, ma un organo venuto su come una vecchia casa che fosse stata a mano a mano riattata e ampliata per rispondere alle nuove necessità della famiglia.

Dovendosi rifare la Costituzione dello Stato, anche sotto questo punto di vista, crede che non sarebbe male ricostituire l’istituto in base a criteri più razionali e, considerando esaurite le ragioni storiche per cui erano state create le sue Sezioni giurisdizionali, trasferire alla Magistratura ordinaria le funzioni che quelle hanno finora adempiuto.

Facendo una cronistoria del Consiglio di Stato, ricorda che, abolito con la legge 31 marzo 1865 il foro privilegiato istituito a favore della pubblica Amministrazione, e stabilito il principio della giurisdizione unica, dopo qualche decennio si cominciò a sentire la necessità di avere, oltre la tutela giurisdizionale, anche una tutela di legalità nei confronti della pubblica Amministrazione, per impedire qualsiasi violazione di legge. Si cominciò, cioè, a vedere che, se da un lato vi sono leggi che mirano a garantire interessi individuali, per trasformarli in diritti soggettivi, vi sono, d’altro lato, leggi fatte nell’interesse della collettività e per il buon funzionamento della pubblica Amministrazione. Lasciando alla tutela giurisdizionale soltanto i casi in cui fosse in giuoco la lesione di un diritto civile o politico, rimaneva priva di tutela l’attività amministrativa nella quale poteva verificarsi da parte dell’Amministrazione la violazione di norme poste non nell’interesse individuale, ma nell’interesse collettivo. Così, per tutelare i cittadini da qualsiasi arbitrio dell’Amministrazione, si arrivò alla creazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, la quale ebbe il potere di annullare gli atti amministrativi che, indipendentemente dalla violazione di un diritto soggettivo, apparissero illegittimi. Tra i vari sistemi escogitati per stabilire la persona o l’ente che doveva mettere in moto il potere di annullamento del Consiglio di Stato, si pensò di usare, come organo promotore, l’interesse del cittadino che si trovasse personalmente leso non in un suo diritto, ma in un semplice interesse, il quale veniva in tal modo a trovare – come corrispettivo del servizio che rendeva all’interesse pubblico – una sua particolare tutela. Cosi sorse la IV Sezione del Consiglio di Stato, a cui si aggiunse nel 1907, con funzione in parte analoga, la V Sezione.

In un primo momento, la funzione di queste due Sezioni non fu generalmente considerata come giurisdizionale, ma fu ritenuta come un controllo amministrativo, sia pure avente certe forme di contraddittorio, appunto perché non si ammetteva che organi giudiziari potessero arrogarsi il potere di annullare atti amministrativi. La legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo aveva, infatti, fissato il principio che anche quando un atto amministrativo ledeva un vero e proprio diritto soggettivo, l’autorità giudiziaria ordinaria dovesse limitarsi a constatare la lesione, condannando eventualmente ai danni, ma non potesse annullare l’atto amministrativo. Quando, poi, con la legge del 1889, che creò la IV Sezione, si ammise la possibilità di annullamento degli atti amministrativi, si cercò di giustificarla con l’affermazione che quella Sezione non era un organo giudiziario, ma una espressione della stessa pubblica Amministrazione.

A poco a poco, tuttavia, si vide che le funzioni della IV e V Sezione non erano amministrative, ma giurisdizionali. Questa realtà, affermata prima dalla dottrina, fu consacrata poi dalla legge del 1907, che riconobbe ad esse la denominazione di «Sezioni giurisdizionali». Da allora, nessuno più dubita che queste due Sezioni siano veri e propri organi giudiziari, ammettendosi così implicitamente ciò che nel 1865 sembrava una enormità, ossia che un organo giudiziario, com’è il Consiglio di Stato in funzione giurisdizionale, possa annullare un atto amministrativo.

L’evoluzione delle Sezioni del Consiglio di Stato da organi para-amministrativi in veri e propri organi giurisdizionali, porta oggi come conseguenza, secondo quanto è richiesto dal Consiglio di Stato stesso, che ai magistrati che compongono la IV e la V Sezione si diano le stesse garanzie di nomina, di indipendenza e di inamovibilità e che saranno date ai magistrati ordinari. Ora, se si ritiene che non si possano avere delle garanzie assolute di indipendenza, se non attraverso il sistema di moderato autogoverno che si sta escogitando per la Magistratura ordinaria, non vede come si potrebbe dare al Consiglio di Stato quello stesso complesso di garanzie, se non trasformando le attuali sue Sezioni giurisdizionali in sezioni specializzate dell’ordinamento giudiziario ordinario.

All’adozione di questa soluzione ritiene si possa obiettare che le questioni attinenti alla legittimità degli atti amministrativi, di competenza delle Sezioni giurisdizionali, possono essere risolte in maniera idonea soltanto da magistrati che abbiano una preparazione specializzata, come sono appunto i consiglieri delle Sezioni giurisdizionali che, prima di arrivare a quel posto, hanno compiuto un lungo tirocinio attraverso l’esercizio delle funzioni consultive. Ma a questa obiezione, di cui riconosce il valore, risponde che, qualora si creassero delle sezioni specializzate degli organi giudiziari ordinari, nulla vieterebbe che in queste fossero immessi dei magistrati che avessero compiuto il loro tirocinio nel Consiglio di Stato. Per rendere possibile questo passaggio, nell’articolo 20-bis del suo progetto aveva inserito la seguente norma:

«Qualora per certi uffici della Magistratura sia necessaria una preparazione apposita su determinate materie, possono essere banditi concorsi per l’ammissione a questi uffici tra candidati forniti di speciali titoli scientifici o professionali, o provenienti da altri uffici pubblici».

Indipendentemente dalle ragioni storiche a cui ha accennato, si domanda se fra queste funzioni giurisdizionali e quelle dei giudici ordinari vi sia una demarcazione così netta da consigliare di continuare a mantener separati gli organi che le esercitano. A suo giudizio tra le due funzioni vi sono tali legami e tante sovrapposizioni di questioni che è difficilissimo capire esattamente dove finisca il compito della Magistratura ordinaria e dove cominci quello delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. La differenza tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, infatti, va diventando sempre più capillare e sottile. Una differenza sostanziale vi poteva essere, quando vi era una netta distinzione tra il diritto pubblico e il diritto privato; ma quando, come avviene attualmente in una quantità sempre maggiore di rapporti, gli istituti di diritto pubblico si vanno rivestendo di carattere privato, e in istituti che erano prima di puro interesse privato si va sempre più infiltrando l’interesse collettivo, riesce difficilissimo vedere fin dove arrivi il diritto soggettivo e dove invece cominci l’interesse occasionalmente protetto.

La difficoltà di arrivare a distinguere tra queste due competenze è stata talmente riconosciuta nella pratica, che ad un certo momento, con una legge del 1923, si è incominciato ad assegnare al Consiglio di Stato anche la tutela di alcuni diritti soggettivi che avrebbe dovuto rientrare nella competenza della autorità giudiziaria ordinaria. Ciò è avvenuto sopra tutto nel campo del pubblico impiego, dove è difficilissimo sapere quando l’impiegato abbia un diritto la cui tutela spetti ai giudici ordinari e quando trattisi di un interesse che invece debba essere portato dinanzi al Consiglio di Stato.

Un altro inconveniente può sorgere inoltre in relazione alla eventualità che una stessa questione, a seconda del modo con cui venga configurata, possa essere portata avanti all’Autorità giudiziaria ordinaria o alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, con la conseguenza di una eventuale disformità di decisioni. A suo parere, invece, tutti gli inconvenienti potrebbero essere eliminati il giorno in cui le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato diventassero sezioni specializzate degli organi giudiziari ordinari, con la competenza a risolvere tutte le controversie fra i cittadini e la pubblica Amministrazione.

Ribadisce, infine, il concetto che, in relazione alla sempre maggiore portata che assumono i riflessi pubblicistici in quasi tutte le questioni, tanto da divenire da eccezioni, come erano nel 1876 e 1889, quasi una vera e propria regola, le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato devono considerare come esaurito storicamente il loro compito.

Per la Corte dei conti non ritiene opportuno dilungarsi, in quanto la sua sorte dovrà essere analoga a quella del Consiglio di Stato.

BOZZI ritiene che il Consiglio di Stato non abbia compiuto la sua funzione storica e che abbia invece una sua precisa ragion d’essere.

Cominciando dall’ultimo argomento dell’onorevole Calamandrei, la difficoltà cioè di distinguere tra diritto e interesse, non può negare che questi due elementi spesso si presentassero in una situazione di tale intima connessione che effettivamente ne derivava una incertezza sul giudice che si doveva adire; ma ricorda che nel 1923, con una legge che rappresenta la conclusione legislativa di tutto un pensiero lungamente elaborato in tempi non fascisti, riconoscendosi che in realtà si erano determinati rapporti per i quali la interferenza era così intima che non conveniva fissare due giudici, si stabilì nei loro riguardi la competenza esclusiva del Consiglio di Stato. Si veniva a creare così una forma di attrazione giurisdizionale anomala, in quanto un giudice speciale attraeva per determinate materie la competenza del giudice ordinario.

A questo proposito desidera citare alcune cifre. Da una statistica dei ricorsi presentati e decisi dalle due Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato dal 1926 a tutto il 1945, risulta che su 27.608 ricorsi, vi sono state solo 428 dichiarazioni di incompetenza, numerose delle quali derivanti dalla molteplicità delle giurisdizioni speciali e non da eventuali dubbiezze circa l’interesse e il diritto. Questo sta a dimostrare che oggi i criteri distintivi fra diritto e interesse sono abbastanza chiari, specialmente dopo la legge del 1923 che rappresenta in questo campo un vero e proprio punto fermo.

Tiene poi a far rilevare all’onorevole Calamandrei che tutte le questioni ed incertezze non si eliminerebbero con la creazione delle Sezioni specializzate nella Magistratura ordinaria, perché in ogni caso i giudici specializzati dovranno sempre compiere una indagine per sapere se si trovano di fronte ad un interesse o di fronte ad un diritto.

La vera ragione della necessità della sopravvivenza del Consiglio di Stato sta, a suo avviso, nel fatto che le funzioni che esplicano le due Sezioni giurisdizionali sono diverse da quelle che esplica il giudice ordinario. Precisa anzi tutto che il Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario, che non ha avuto mai competenza in materia di interesse. Il giudice ordinario, infatti, giudica solo di diritti, anche pubblici, subiettivi, e di situazioni giuridiche nelle quali vi sia un conflitto fra due parti vincolate da precise norme di legge. In questa situazione però trovasi alle volte anche la pubblica Amministrazione, e quindi si spiega la necessità del giudice ordinario, che è il più idoneo a compiere i necessari accertamenti sul diritto e sul dovere delle parti. La giurisdizione del Consiglio di Stato è dominata invece dal criterio del pubblico interesse; non vi sono più un creditore e un debitore in senso lato; qui si tratta di valutare la discrezionalità della pubblica Amministrazione, che nello svolgimento della sua attività libera, ma tuttavia discrezionale (libertà, cioè, e non arbitrio), può ledere l’interesse di un cittadino. In questo campo il giudice deve espletare una indagine particolare, squisitissima, che è ben differente da quella che deve compiere normalmente il giudice ordinario.

Non ritiene poi assolutamente che la funzione del Consiglio di Statoci possa assimilare a quella della Magistratura ordinaria, dove in una sezione specializzata si avrebbe una forma di contaminazione del giudice togato il quale, abituato all’applicazione rigida della legge civile e commerciale, dovrebbe invece decidere in una materia nella quale domina la valutazione del pubblico interesse. Potrebbe comprendere le Sezioni specializzate per le altre giurisdizioni speciali – come ad esempio il Tribunale delle acque – nelle quali si pongono problemi di carattere tecnico, ma non ne vede l’utilità per il Consiglio di Stato, che opera in un campo diversissimo da tutte le altre giurisdizioni speciali.

D’altra parte, pone in evidenza che la giurisdizione del Consiglio di Stato, per la sua particolare natura, non è costituita – come ha detto anche l’onorevole Calamandrei – a tutela di diritti, ma a difesa dello Stato e dei cittadini anche contro lo Stato. Per mezzo di essa, il cittadino diventa uno strumento per l’attuazione di quella che con frase felicissima è stata detta «la giustizia nell’amministrazione». È quindi lo Stato stesso che sente la necessità di organizzare questa forma di controllo giurisdizionale per attuare nel suo seno la giustizia nell’amministrazione, che è un problema essenziale di ogni Stato veramente democratico. Crede di non esagerare, affermando che oggi uno dei difetti fondamentali della politica è il difetto del sentimento di legalità, che è limite e proporzione. Se l’Amministrazione erra nell’applicare una norma, il Consiglio di Stato, valendosi dell’interesse individuale leso, ripristina la situazione giuridica, reintegrando così, non solo la situazione individuale, ma sopra tutto l’ordine giuridico leso e la legalità nell’amministrazione. Questa è la funzione del Consiglio di Stato.

Nega perciò che esso abbia esaurito il suo ciclo storico ed anzi è convinto che la soppressione del Consiglio di Stato susciterebbe nella coscienza giuridica nazionale una pessima impressione. Si potrebbe infatti pensare che quella che è stata una conquista liberale-democratica di controllo della discrezionalità dell’Amministrazione, a garanzia degli interessi dei cittadini, venga oggi soppressa e portata nel gran mare della giurisdizione ordinaria, con la necessaria prevalenza dei giudici togati, portati per la loro conformazione mentale ad applicare rigidamente la legge anche in materia dove è necessario invece contemperarne l’applicazione con la valutazione del pubblico interesse, unendo cioè, alla rigidità del giudice, quella che chiamerebbe la «duttilità dell’amministratore».

D’altra parte, bisogna tener conto che il Consiglio di Stato esplica un duplice ordine di funzioni, cioè consultive e giurisdizionali. Secondo il suo punto di vista, che è quello di illustri giuristi, queste funzioni diverse rappresentano due manifestazioni di un’unica funzione, che non è suscettibile di divisione. In altri termini, quando il Consiglio di Stato, nella sua funzione consultiva, dà pareri al potere esecutivo, quando collabora col Governo dando l’apporto della sua esperienza tecnico-amministrativa, già concorre in questa sua prima fase preventiva a stabilire la giustizia nell’Amministrazione. La stessa funzione esplica con diversi poteri e con diversa efficacia in sede successiva, quando decide della legittimità degli atti amministrativi. Funzione unica, dunque, complessa ed inscindibile, per quanto conformabile alle esigenze democratiche. Sotto questo profilo ricorda che il Consiglio di Stato, in oltre cento anni di vita, ha dimostrato veramente uno spirito notevole di adattamento. Nato come Consiglio del Re nel 1831, come una forma limitativa del potere assoluto del sovrano, si è andato successivamente adattando ai tempi, dimostrando sempre un grande spirito di indipendenza, tanto da essere considerato come un modello al quale si ispiravano anche Stati stranieri. Il modo come esso ha funzionato potrebbe anche essere l’unico argomento a sua difesa. Infatti, come è stato da tutti riconosciuto e come è stato affermato dall’onorevole Ambrosini, se questo istituto ha sempre funzionato bene, se ha dato prova di indipendenza, se ha concorso a mantenere la legalità nella pubblica Amministrazione, non vi è alcuna necessità di portarvi un così profondo rinnovamento.

Anche a questo proposito può citare alcune cifre significative. Nel periodo fascista, su 16.090 ricorsi decisi in merito – quindi, esclusi quelli respinti per incompetenza, abbandonati, perenni, ecc. – ne sono stati accolti circa 10.000 e respinti 6.000. Questo significa che per diecimila volte il Consiglio di Stato ha annullato atti dell’Amministrazione, dando così una delle migliori dimostrazioni di indipendenza.

Se il tempo lo permettesse potrebbe ricordare qualcuna delle decisioni più importanti e più coraggiose del Consiglio di Stato, specie in materia di razza, di stampa e di insegnamento, prese anche nei periodi in cui il fascismo era più in auge.

A suo modo di vedere, il problema essenziale non è quello di trasferire le funzioni del Consiglio di Stato ad una sezione specializzata del giudice ordinario, ma quello di considerare il Consiglio di Stato come l’organo di controllo della pubblica Amministrazione. Lo Stato democratico ha bisogno di organi di controllo indipendenti, perché in tanto un controllo è efficace, in quanto l’organo che lo esercita è posto in una situazione di indipendenza rispetto all’organo controllato.

Come il Parlamento, pure accordando la sua fiducia al Governo, esercita un controllo su di esso nell’attuazione della direzione politica e nelle manifestazioni singole nelle quali tale direzione si attua, così, attraverso il Consiglio di Stato, questo stesso organo, quale rappresentante del popolo e quindi dell’interesse collettivo alla legalità dell’azione amministrativa, dovrebbe esercitare anche un controllo sull’attività amministrativa del Governo. I Consiglieri, i Presidenti di Sezioni ed il Presidente, anche se formalmente nominati dal Presidente della Repubblica, dovrebbero essere designati dalle Camere. In tal modo si darebbe veramente al Consiglio di Stato una struttura democratica e si andrebbe verso la creazione di uno Stato di diritto, che rappresenta un comune ideale.

Dichiara, infine, che non sarebbe alieno dal concedere anche al potere giudiziario il potere di annullamento di atti amministrativi; ma ripete che la questione fondamentale è mantenere il Consiglio di Stato nelle sue funzioni tradizionali, salvo limitarle ed inquadrarle democraticamente, facendo dell’istituto un organo di controllo dell’attività amministrativa del Governo.

DI GIOVANNI, dopo quanto è stato detto dall’onorevole Bozzi, ritiene che siano da mantenere le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, più che per ragioni di opportunità, per ragioni di necessità, che del resto, costituendo una eccezione, non gli sembra intacchino il concetto a cui fondamentalmente si ispira l’onorevole Calamandrei, quello cioè della unità della giurisdizione.

Non gli sembra parimenti che la Sezione si debba occupare della disciplina delle nomine, della indipendenza e della carriera dei membri del Consiglio di Stato, perché, per quanto si debba riconoscere la necessità di assicurare a quest’organo una maggiore indipendenza per sottrarlo all’influenza diretta del potere esecutivo, essa non può entrare in un campo che non è quello del potere giudiziario. La Sezione dovrebbe pertanto limitarsi all’esame della conservazione o meno delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, le cui funzioni incidono sugli organi giudiziari.

AMBROSINI non ritiene di dover trattare ampiamente la questione, sia perché è stata già largamente discussa, sia perché in una precedente seduta ha già svolti gli argomenti per cui era favorevole al mantenimento delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

A suo avviso, le ragioni che consigliano la soppressione di questa giurisdizione speciale sono ispirate, più che altro, ad un desiderio di euritmia generale, al proposito cioè di razionalizzare tutti gli istituti che riguardano l’amministrazione della giustizia. Non si nasconde che, dal punto di vista dei principî generali, forse potrebbe sembrare utile un sistema unico di amministrazione della giustizia; ma dal punto di vista del merito non vi è dubbio che all’adozione rigida di un tale sistema potrebbero muoversi fondate obiezioni, sopra tutto in relazione alla natura speciale della giurisdizione in discussione.

Osserva che le esigenze particolari che hanno portato all’instaurazione di talune giurisdizioni speciali sono riconosciute anche da coloro che propugnano rigidamente il principio della giurisdizione unica, come è riprovato dal fatto che essi sono disposti quasi a conservarle in concreto, trasformandole in sezioni specializzate della Magistratura ordinaria.

A prescindere dalle ragioni di merito, per le quali si può con fondatezza sostenere la necessità di mantenere le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, pensa che vi sia sempre una ragione di opportunità che consiglia di adottare questa soluzione, in quanto l’esperienza dimostra che esse hanno funzionato ottimamente nell’interesse dei singoli che hanno potuto rapidamente ottenere la definizione dei loro ricorsi.

Indubbiamente un organo chiamato ad esercitare una funzione giurisdizionale occorrerebbe fosse composto di persone fornite di garanzie simili a quelle di tutti gli altri magistrati. Crede che non possa tuttavia negarsi, secondo quanto è dimostrato dalle statistiche citate dall’onorevole Bozzi, che anche l’attuale modo di formazione del Consiglio di Stato ha garantito, anche in un periodo di gravi deviazioni, l’indipendenza dei Consiglieri di Stato assegnati alle Sezioni giurisdizionali.

Circa l’inconveniente a cui ha accennato l’onorevole Calamandrei, della possibilità che una stessa questione possa prospettarsi, a seconda dei diversi punti di vista, avanti all’Autorità giudiziaria ordinaria, o avanti alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, con la conseguenza di una eventuale disformità di decisioni, ritiene che vi si possa porre rimedio ammettendo che tutte le sentenze, anche se pronunciate da giurisdizioni speciali, possano essere impugnabili con ricorso avanti alla Suprema Corte di cassazione. In tal modo, non soltanto si eviterebbe l’inconveniente, ma si affermerebbe ancor più il principio dell’unità della giurisdizione, in quanto la Suprema Corte di cassazione costituirebbe l’organo unico e supremo per l’interpretazione del diritto. Conferma di essere favorevole alla conservazione della giurisdizione amministrativa affidata alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

LEONE GIOVANNI, Relatore, osserva che la principale ragione che militava per l’abolizione delle giurisdizioni speciali era quella di creare un’armonica costruzione dell’unità della giurisdizione, così come era stata proposta dall’onorevole Calamandrei. Tale costruzione, però, non è stata mantenuta, perché si è arrivati al compromesso dell’abolizione delle giurisdizioni speciali in materia penale e del mantenimento, in determinati casi e con certe cautele, delle altre giurisdizioni speciali. Sarebbe quindi dell’avviso di adottare nella Costituzione una formula molto semplice, in cui si dica che la giurisdizione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti rimangono in vita, così come sono attualmente congegnate, salvo poi a rivederne la struttura in un successivo periodo di tempo per adeguarle alle nuove condizioni della vita nazionale.

LACONI, premesso che le osservazioni dell’onorevole Bozzi lo hanno persuaso, ritiene opportuno fare alcune considerazioni di ordine politico, per meglio lumeggiare la questione.

Considera di particolare rilievo l’affermazione dell’onorevole Calamandrei che, più si procede nel campo delle riforme sociali ed economiche e sempre più numerosi sono i casi in cui l’interesse pubblico viene a riflettersi nei rapporti di natura privata. Non dubita, infatti, che il nuovo Stato democratico si troverà sempre maggiormente costretto, per la evoluzione stessa delle cose, ad intervenire nel campo dei rapporti privati, e quindi la pubblica Amministrazione avrà sempre maggiore necessità di ampliare la sfera della propria discrezionalità. Proprio per questo motivo non è d’avviso, però, che il sindacato sull’operato della pubblica Amministrazione possa essere attribuito alla Magistratura ordinaria, cioè ad un ordine che rappresenta il diritto non nel suo divenire, quale rispondenza schietta alla volontà popolare, ma nella sua forma codificata. Questo controllo dovrebbe essere, a suo parere, rimesso invece a quegli organi che rappresentano nel modo più genuino, direttamente o indirettamente, la volontà popolare. Personalmente perciò sarebbe favorevole ad affidare il controllo sull’amministrazione addirittura al Parlamento; ma, essendo una tale soluzione contraria alle tradizioni italiane, ritiene che difficilmente sarebbe accettata. Aderisce, pertanto, alla soluzione prospettata dall’onorevole Bozzi, per cui la nomina, sia dei Consiglieri che dei Presidenti di Sezione e del Presidente del Consiglio di Stato, venga rimessa al potere legislativo, naturalmente con le opportune cautele, in modo che la scelta sia fatta entro determinate categorie.

CALAMANDREI, Relatore, rileva che l’onorevole Laconi – del quale tuttavia ammira la precisione e l’acutezza delle osservazioni – forse non ha una pratica giudiziaria che gli permetta di rendersi conto di quella che è effettivamente una realtà storica, cioè che la giurisdizione ordinaria non è più, e forse non è mai stata, una giurisdizione ristretta che tenga conto soltanto dell’interesse individuale e che si limiti alla applicazione formale delle leggi cristallizzate, ma va diventando sempre più una giurisdizione di diritto pubblico e anche di interessi. Non è quindi affatto vero che la tutela dell’interesse pubblico sia esclusiva del Consiglio di Stato, in quanto ogni giorno di più i giudici ordinari si trovano di fronte a casi per i quali è loro necessario tener conto di quell’interesse. Così, quando afferma la funzione sociale cui deve adempiere la proprietà e tutte le volte che decide secondo equità, il giudice ordinario fa, nel suo campo, quello che il Consiglio di Stato fa quando giudica sulla discrezionalità.

Ad ogni modo, l’argomento fondamentale per il quale è favorevole alla abolizione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato è proprio costituito dal fatto che la giurisdizione ordinaria si è andata trasformando sempre più da giurisdizione di diritto in giurisdizione di interessi. Ritiene inoltre che si farebbe offesa ai giudici, considerando il loro cervello come anchilosato nell’applicare rigidamente e semplicemente le leggi.

Dà quindi lettura del seguente brano della relazione presentata dal Consiglio di Stato: «Ad assicurare la completa indipendenza del Consiglio di Stato, condizione inderogabile per l’efficace e sereno esercizio dell’alta funzione, pare necessario svincolare l’istituto da ogni rapporto di subordinazione o da ogni ingerenza del potere esecutivo, collocando questa Magistratura fuori dell’ordinamento gerarchico dello Stato». Da questo brano, a suo avviso, risulta che, mantenendo in vita puramente e semplicemente le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, come sono ora costituite, si conserverebbero degli organi che, per riconoscimento dello stesso Consiglio di Stato, non hanno attualmente quell’indipendenza che è stata ritenuta essere requisito essenziale del potere giudiziario.

BOZZI riafferma il concetto che la Magistratura amministrativa dovrebbe essere formata in modo diverso da quella ordinaria, data la diversità della competenza.

La questione della indipendenza potrebbe essere risolta, secondo la sua proposta, facendo derivare la composizione del Consiglio di Stato, non dal potere esecutivo, ma dal potere legislativo, che è l’organo che esercita istituzionalmente il controllo sul Governo.

Proporrebbe, pertanto, salvo modificazioni di forma, la seguente dizione:

«Al Consiglio di Stato, alla Corte amministrativa regionale, spetta l’esercizio delle funzioni giurisdizionali nelle materie e nei limiti stabiliti della legge.

«Il Presidente, i Presidenti di Sezione, i Consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, nonché il Procuratore generale di questa, sono nominati dal Presidente della Repubblica, su proposta dell’Assemblea nazionale, sentite rispettivamente l’Adunanza generale del Consiglio di Stato e le Sezioni riunite della Corte dei conti».

CALAMANDREI fa rilevare che il fatto di conservare nella forma attuale il Consiglio di Stato non risolve la questione dell’inserimento nella Costituzione dei principî contenuti nella legge del 1865.

PRESIDENTE propone di rinviare al giorno seguente il seguito della discussione e l’eventuale votazione delle proposte.

(Così rimane stabilito).

AMBROSINI desidera dire poche parole per la chiarezza delle posizioni. Tiene a mettere in evidenza che il criterio che deve essere seguito nell’interpretare la legge, non è diverso a seconda che si tratti di giudici ordinari o di giudici delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Gli è sembrato di capire che si voglia quasi rimproverare alla Magistratura ordinaria di non seguire a volte l’evoluzione della coscienza giuridica. Ora, i magistrati ordinari devono interpretare la legge, ma non possono sostituirsi al dettato della legge. E questo, che è il compito della Magistratura ordinaria, deve essere il compito di qualsiasi giudice. In caso contrario si snaturerebbe l’esercizio della funzione del giudice. Non può alcun criterio diverso d’interpretazione essere preso in considerazione, se non si vuole che ne venga scossa tutta la certezza dell’ordinamento giuridico, ponendo in forse anche gli stessi diritti dei cittadini. Il magistrato, perciò, sia ordinario che speciale, non può arrogarsi il diritto di apportare modifiche al dettato della legge, credendo di interpretare l’evoluzione della coscienza sociale, della quale l’unico che può rendersi interprete deve essere l’organo legislativo, in quanto è il diretto rappresentante della volontà popolare e quindi della coscienza giuridica nazionale. È solo questo organo che, con la sua sensibilità e col suo senso di responsabilità, avvertendo gli eventuali mutamenti che si siano verificati nella coscienza giuridica popolare, deve senz’altro modificare, abrogare o rinnovare ab imis la legge.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone di aggiungere all’articolo relativo alla revisione, entro 5 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, le seguenti parole:

«Entro il medesimo tempo si provvederà alla soppressione dei Tribunali militari. Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvederà per legge alla soppressione del Tribunale Supremo Militare ed al conseguente trasferimento del medesimo alla Corte Suprema di cassazione».

UBERTI crede eccessivo stabilire l’obbligo della revisione di tutti gli organi di giurisdizione speciale, anche nei casi in cui il Parlamento non lo ritenesse opportuno.

LEONE GIOVANNI, Relatore, ricorda che in un precedente articolo si è stabilito che «non possono essere istituiti organi di giurisdizione speciale, se non per legge votata a maggioranza assoluta dall’Assemblea. In nessun caso possono essere istituiti giudici speciali in materia penale». Con l’articolo in discussione si vuole intendere che entro cinque anni il legislatore ordinario deve rivedere le giurisdizioni speciali esistenti, per esaminare l’opportunità delle sopravvivenze che devono essere consacrate con leggi votate a maggioranza assoluta delle due Camere.

UBERTI proporrebbe allora la formula:

«Il Parlamento dovrà, entro cinque anni, dichiarare quali sono le giurisdizioni che devono permanere ed eventualmente riformarle».

LEONE GIOVANNI, Relatore, riterrebbe più adatta, salvo modificazioni di forma, la seguente dizione:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, cesseranno le giurisdizioni speciali esistenti, a meno che con la legge di cui all’articolo 6 non siano mantenute in vigore».

PRESIDENTE fa presente che la prima parte dell’articolo, essendo già stata oggetto di una votazione, non può essere modificata.

Propone di rinviare anche per questo articolo la discussione alla seduta successiva.

(Così rimane stabilito).

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone di aggiungere all’articolo, di cui prima ha dato lettura, il seguente comma:

«I Tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra».

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento aggiuntivo.

(È approvato).

La seduta termina alle 19.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bozzi, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan e Uberti.

Assenti: Bocconi, Bulloni, Porzio e Targetti.