Come nasce la Costituzione

MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 25 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto di proprietà (Discussione)

Taviani, Relatore – Assennato – Giua – Colitto – Dominedò – Corbi – Presidente – fanfani – lombardo – Canevari.

La seduta comincia alle 10.30.

Discussione sul diritto di proprietà.

TAVIANI, Relatore, osserva che quasi tutte le Costituzioni contemporanee dedicano più di un articolo all’istituto della proprietà; mentre nelle Costituzioni del secolo scorso tale istituto era soltanto accennato tra i diritti della persona umana. Le Costituzioni contemporanee che non parlano della proprietà sono quelle che non trattano affatto i problemi economici, ma si limitano alle questioni finanziarie, come quelle dell’Austria, della Turchia, della Lettonia, della Polonia. Altre Costituzioni trattano i problemi economici soltanto di sfuggita, e di conseguenza accennano brevemente al diritto di proprietà. Ha fatto questa premessa per chiarire che quella che può essere ritenuta un’eccessiva estensione dei tre articoli da lui proposti è dovuta al fatto che la Sottocommissione aveva deciso di trattare tutti i problemi economici, sia pure restando sul terreno dei principî. Non si può quindi fare a meno di trattare anche della proprietà, sempre sotto l’aspetto statico, perché trattandolo dal punto di vista del suo dinamismo si uscirebbe d’argomento per entrare nel tema trattato dall’onorevole Pesenti, riguardante, più che la proprietà in quanto istituto, l’iniziativa privata o l’impresa.

Gli articoli 1 e 2 del progetto di Costituzione, già approvati dalla prima Sottocommissione, affermano che la Costituzione italiana ha come scopo l’autonomia, la libertà e la dignità della persona umana nell’ambito della vita sociale organicamente intesa, ed è per questo che, nel trattare il diritto di proprietà, ha voluto attenersi allo stesso principio ed ha così formulato il primo comma dell’articolo primo:

«Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuta e garantita la proprietà privata frutto del lavoro e del risparmio».

Si parla di persona e non di individuo; si parla cioè di un diritto della persona organicamente concepita nella società. Sul terreno dell’individualismo si potrebbe anche arrivare alla eliminazione dell’istituto della proprietà privata, mentre invece ne rimane il valore naturale, in quanto tende all’affermazione e alla garanzia della libertà della persona umana. Ritiene che, innanzi tutto, occorra stabilire che la proprietà viene riconosciuta e garantita dalla Repubblica italiana, e particolarmente la proprietà frutto del lavoro e del risparmio. Naturalmente su questo ci sarebbe da obiettare che vi sono altre specie di formazione del diritto di proprietà privata. Il Codice parla anche di accessione e di eredità. Per l’eredità il Relatore ha formulato un articolo a parte, ma per quanto riguarda l’accessione fa presente che essa è argomento particolare del diritto civile, e non è il caso di includerla in una Carta costituzionale.

Affermato il diritto di proprietà e la garanzia di tale diritto, bisogna stabilire che cosa debbano sancire le norme della legge ed entro quali limiti il diritto di proprietà abbia una forma e un contenuto. Perché parlare di proprietà privata sic et simpliciter è troppo poco, in quanto la proprietà può essere sia quella assoluta del diritto romano, sia quella, limitata ai beni d’uso, della Costituzione russa. Il diritto positivo di proprietà è costituito dalla legge, dal codice, che stabiliscono le norme e inquadrano positivamente il diritto naturale di proprietà nei diversi momenti della contingenza storica; quindi il Relatore non si è limitato a fissare una garanzia e un riconoscimento del diritto di proprietà, ma ha voluto sancire che tale diritto ha i suoi limiti e la sua precisazione nella legge. Sorge qui il problema vastissimo della conciliazione dei diritti e degli interessi del singolo con quelli della società.

Se ci si limitasse al primo comma dell’articolo da lui proposto, evidentemente si potrebbe supporre di essere rimasti sulla base individualistica, che invece va superata affermando che la società ha il diritto di regolare i rapporti, allo scopo di garantire quelle che sono le funzioni del diritto di proprietà; e non soltanto la funzione personale, ma anche quella sociale, in quanto è evidente che la proprietà privata non ha il solo scopo della garanzia della libertà del singolo, ma anche quello di servire al bene della società. Altro scopo è la possibilità per tutti di accedere alla proprietà, perché, se si costituisce un diritto di proprietà che elimini tale possibilità, si toglierebbe ogni valore all’affermazione che il diritto di proprietà è garanzia della libertà umana. A tal fine ha formulato il secondo comma dell’articolo nel modo seguente:

«Allo scopo di garantire la funzione personale e la funzione sociale della proprietà privata e la possibilità per tutti di accedervi con il lavoro e con il risparmio, la legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto e il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento».

L’ultima parte del comma non deve essere intesa nel senso che si debba fissare come e in qual modo la proprietà debba essere goduta, perché allora non sarebbe più proprietà privata. in quanto la proprietà privata consiste nel disporre dei beni secondo la propria volontà ma nel senso che si possano fissare i limiti di queste modalità.

Non è una novità ricordare in una Costituzione la funzione sociale della proprietà, in quanto, a parte le Costituzioni più note, come quella di Weimar, basta pensare a quella della Columbia, dove la proprietà è affermata addirittura come una funzione sociale. Anche il progetto di Costituzione francese dello scorso anno diceva a proposito della proprietà: «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e col risparmio», e questa enunciazione si integrava con l’altra: «il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’attività sociale». Ritiene l’affermazione del progetto francese lacunosa, perché non basta prevedere dei limiti che impediscano il pregiudizio di determinati diritti altrui; la legge deve anche fissare dei limiti in vista della funzione sociale della proprietà e della possibilità per tutti di accedervi.

Qualcuno ha osservato che desidererebbe l’inserimento della parola «inviolabile», usata in quasi tutte le vecchie Costituzioni. Ma bisogna specificare che cosa si intenda per «inviolabile», perché, con tale parola, nelle vecchie Costituzioni si intendeva dire che la proprietà era un diritto assoluto che, una volta stabilito, non poteva più essere mutato dalla legge. Preso in questo senso, ritiene che non sia il caso di usare tale termine, in quanto, entro i limiti stabiliti dalla legge, tutti i diritti sono inviolabili. Gli pare che l’inviolabilità si potrebbe riferire con un concetto esposto in un articolo della Costituzione cecoslovacca, che dice: «Soltanto la legge può porre dei limiti alla proprietà privata»; esso afferma che i limiti non possono essere posti dal potere giudiziario o da quello esecutivo, ma soltanto dal legislativo. Ma questo concetto è già chiaro quando si dice: «la legge determinerà le norme che ne regolano l’acquisto ed il trasferimento, i limiti di estensione e le modalità di godimento». Vi potrebbe essere possibilità di violazione da parte dei poteri esecutivo e giudiziario, qualora non vi fosse questa affermazione, e qualora invece si usasse la dizione della Costituzione francese: «Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’utilità sociale», che lascia aperta una porta. all’intervento diretto del potere esecutivo e di quello giudiziario.

Passando a trattare uno dei problemi più gravi, cioè quello dei rapporti fra proprietà privata e proprietà collettiva, dichiara subito che per proprietà collettiva non intende la demaniale, bensì quella dello Stato, delle regioni e dei comuni o di qualsiasi altro ente di diritto pubblico. Intesa in questo senso, l’espressione di proprietà collettiva imposta il problema in maniera diversa da quella in cui è risolto dalle norme del codice civile. Rileva che tali rapporti non sono studiati esclusivamente nella sua relazione e negli articoli proposti, ma anche nella parte riguardante l’iniziativa privata, dato che della proprietà non si può vedere soltanto l’aspetto statico, ma anche quello dinamico.

Osserva che, rifacendosi al secondo capoverso proposto, la società può indirizzare la proprietà a rispondere alla sua funzione sociale e può determinare la possibilità per tutti di accedervi con il lavoro e con il risparmio. Ora possono non essere sufficienti le norme sul diritto di proprietà privata, e può essere necessario che lo Stato introduca altre norme costituzionali per passare alla proprietà collettiva, allorché l’armonia degli interessi non si realizzi in alcun modo, restandosi nel campo del privatismo. Quando evidenti esigenze lo impongano, è necessario passare alla collettivizzazione della proprietà. Ha creduto inoltre opportuno specificare che, soltanto al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato (qualche cosa di simile faceva il primo progetto di Costituzione francese), la legge può riservare alla proprietà collettiva le imprese ed i beni di determinati e delimitati settori dell’attività economica, per evitare così che essi, invece di essere una garanzia dell’affermazione della persona umana, si trasformino in mezzi di sfruttamento. Pertanto il terzo comma dovrebbe essere così formulato:

«Quando lo impongono le esigenze del bene comune, al fine di evitare situazioni di privilegio o di monopolio privato e di ottenere una più equa e conveniente prestazione dei servizi e distribuzione dei prodotti, la legge può riservare alla proprietà collettiva dello Stato, delle regioni, dei comuni o di altri enti di diritto pubblico le imprese e i beni di determinati e delimitati settori dell’attività economica. Sempre in conformità agli scopi indicati la legge può trasferire alla collettività la proprietà di imprese o beni determinati».

Dichiara che dove si parla «delle regioni, dei comuni e di altri enti di diritto pubblico», ha ritenuto necessaria la precisazione, perché sia ben chiaro che per proprietà collettiva non si intende soltanto quella dello Stato, e gli sembra necessario riferirsi a tale decentramento, per evitare il pericolo che la collettivizzazione si trasformi in una burocratizzazione, con tutti i pericoli che ne conseguono. Rileva inoltre che il problema del passaggio dalla proprietà privata alle proprietà collettiva comporta la questione della espropriazione. Quasi tutte le Costituzioni hanno un capoverso analogo a quello da lui proposto: «L’espropriazione si attua solo contro giusto indennizzo». Precisa che, nella sua intenzione, tale capoverso non è esclusivamente riferito al terzo comma dell’articolo ma a qualsiasi espropriazione. Non ha usato il termine «qualsiasi», perché lo riteneva superfluoe, dato che il capoverso è a sé stante; ma, qualora si volesse interpretarlo come collegato al terzo comma, sarebbe meglio trovare un’altra parola, in quanto non vi è espropriazione soltanto nel caso di collettivizzazione, ma anche per cessione ad altri o per motivi di utilità pubblica.

Esaurito l’argomento della proprietà visto nel suo complesso, rimane quello della trasmissione ereditaria, che è legata alla proprietà privata. A tal fine propone il seguente articolo:

«Il diritto di trasmissione ereditaria è garantito. Spetta alla legge stabilire le norme e i limiti sia della successione nell’ambito della famiglia, sia di quella testamentaria. Spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulle eredità».

Passando ad esaminare l’ultimo articolo da lui proposto nella relazione, osserva che esso potrebbe essere considerato superfluo; ma ha ritenuto di dover dire qualcosa sulle possibilità delle condizioni concrete cui si deve aspirare per rendere operanti le affermazioni del primo articolo. In uno Stato povero e in un territorio immensamente popolato come è quello italiano, sarebbe illusorio parlare di possibilità per tutti di accedere alla proprietà. L’articolo è così formulato:

«La Repubblica ha il diritto di controllare la ripartizione e l’utilizzazione del suolo, intervenendo al fine di svilupparne e potenziarne il rendimento nell’interesse di tutto il popolo; al fine di assicurare ad ogni famiglia una abitazione sana e indipendente; al fine di garantire ad ognuno che ne abbia la capacità e i mezzi la possibilità di accedere alla proprietà della terra che coltiva.

A questi scopi la Repubblica impedirà l’esistenza e la formazione di grandi proprietà fondiarie. Il limite massimo della proprietà fondiaria privata sarà fissato dalla legge».

Nella prima parte dell’articolo, parlando del controllo dello Stato, ha interferito in quello che è il tema dell’onorevole Fanfani; ma ricorda che mentre l’onorevole Fanfani tratta l’argomento da un punto di vista dinamico, egli lo tratta invece da quello statico. Rileva che i principî enunciati sono già stati praticamente adottati dal Governo italiano, come ad esempio la legge sulle terre incolte, che precorre queste norme costituzionali. La possibilità per il contadino di accedere alla proprietà della terra che coltiva è un principio ormai adottato da tutti i partiti di massa; è pertanto evidente che questa norma deve essere posta come principio generale, pur non essendovi la possibilità di arrivare subito a porla in atto. Tali scopi non saranno realizzabili se non si pongono dei limiti all’estensione della proprietà. Si tratta di una questione assai discussa; molti si domandano: è utile porre dei limiti nella estensione o meglio nel valore imponibile alla proprietà, o non è meglio provvedere con mezzi fiscali piuttosto che con limitazioni automatiche? L’osservazione è importante. Nel campo economico infatti realizzano molto di più le limitazioni poste con mezzi fiscali che non quelle automatiche. Non si tratta però soltanto di un problema di migliore distribuzione del reddito, ma di un problema di distribuzione della proprietà terriera. È possibile che si propenda e si sostenga che tutti possano essere piccoli proprietari, o almeno compartecipi della proprietà, se non si limita la grande proprietà terriera nella sua estensione? Certamente in altri territori, come ad esempio quello brasiliano, l’ultimo capoverso proposto non avrebbe ragion d’essere, data la grande estensione di territorio ancora vergine e aperto alla coltivazione. Ma, nel caso dell’Italia, ritiene che sia necessaria l’esigenza di una norma come quella proposta, in quanto paese povero, piccolo e sovrappopolato.

Osserva che a taluno potranno apparire un po’ ardite le ultime espressioni dell’articolo proposto; ma occorre tener presente che esse dànno all’economia italiana quell’aspetto di rinnovamento sociale che gli elettori hanno nella grande maggioranza mostrato di desiderare.

Intende rispondere in antecedenza ad alcune obiezioni che gli potranno essere fatte. Si potrebbe osservare, innanzi tutto, che gli articoli sono troppo prolissi: Dichiara subito che ha preferito abbondare piuttosto che essere lacunoso, pensando che sarà poi compito della Sottocommissione ridurre le sue formulazioni a norme più concise, pur lasciando inalterata la sostanza. Per incidenza, fa rilevare agli onorevoli colleghi che in un numero del Giornale d’Italia è stato falsato il concetto delle proposte da lui fatte sul diritto di proprietà. Tale giornale diceva infatti che la sua formulazione garantiva soltanto la proprietà in quanto frutto del lavoro, il che sarebbe esatto, se non vi fosse l’articolo successiva sulla eredità. Ci si trova quindi di fronte ad un tentativo di allarmare l’opinione pubblica.

Altra obiezione è quella che ci sono troppi accenni filosofici. Ciò dipende dalla necessità di inquadrare organicamente questi articoli nel complesso della Costituzione, senza farne delle norme staccate. L’articolo 34 della Costituzione francese dell’anno scorso, che riguardava lo stesso tema, sembrava una norma di codice civile. Ora, non gli sembra il caso di ridurre la Carta costituzionale a semplici norme di diritto civile, ma ritiene che sia necessario fare delle dichiarazioni di principio.

Altra obiezione sarebbe quella che alcuni argomenti sono stati tralasciati. Ribadisce che questi sono da rimandare all’esame di altri problemi.

Ultima osservazione potrebbe essere quella che taluni concetti sono troppo arditi. Bisogna tener presente che le affermazioni non sono fatte per demagogia, ma in quanto ritiene che vi sia la possibilità di una loro pratica realizzazione. Compito della Commissione è quello di preparare i principî umani e sociali necessari per adeguarsi alle esigenze del popolo italiano, che a tal fine ha nominato i suoi deputati alla Costituente.

ASSENNATO chiede per quale motivo il Relatore alcune volte usa la parola «Stato» e alcune altre «Repubblica».

TAVIANI, Relatore, risponde che dove è detto «dello Stato, delle regioni, dei comuni» è preferibile usare la parola Stato, perché con repubblica s’intende lo Stato nella sua complessa organicità.

ASSENNATO osserva che, mentre da tutti si vuole per il futuro la limitazione delle grandi proprietà, con l’ultimo capoverso dell’ultimo articolo si contribuisce a consolidare le grandi proprietà attuali.

TAVIANI, Relatore, non ha difficoltà a sostituire il presente al futuro e dire: «impedisca»; del resto anche altre Costituzioni usano il futuro, e il dire che il diritto di proprietà non potrà essere esercitato non significa che lo possa al presente. In questo caso la Costituzione rimanda alle leggi sulla riforma agraria.

ASSENNATO chiede chiarimenti sulla prima parte dell’articolo 1.

TAVIANI, Relatore, risponde che la proprietà privata si ammette solo in quanto sussiste lo scopo indicato.

GIUA ritiene troppo generico il primo articolo, dove si afferma che la proprietà privata deve essere frutto del lavoro e del risparmio. È difficile stabilire questa condizione e si corre il pericolo di fare una Costituzione che non fissi norme ben determinate.

Inoltre, nelle attuali condizioni della Repubblica italiana, è difficile stabilire che cosa si intenda per proprietà collettiva. Il concetto di proprietà collettiva è per i socialisti diverso da quello che si può fissare oggi nella Carta costituzionale; e se rimanesse questa denominazione, i socialisti dovrebbero trovare un altro termine per esprimere il loro concetto.

Propone, pertanto, di modificare la dizione nel modo seguente:

«La Repubblica garantisce la proprietà privata acquisita nell’ambito della legge (senza stabilire se è frutto di lavoro e di risparmio o altro) la quale determinerà le norme che ne regolino l’acquisto o il trasferimento, i limiti, la estensione e le modalità di godimento».

Verrebbe così tolta l’altra parte dell’articolo che richiama il concetto di proprietà collettiva e si evita anche il grave inconveniente che può derivare dalla espressione «giusto indennizzo». Pensa che si potrebbe stabilire un equo indennizzo, qualora si espropriasse una piccola proprietà; ma quando si consideri il problema delle grandi proprietà, del latifondo siciliano, quando si pensi che il proprietario non conosce nemmeno tutta la sua proprietà, che questa non è stata mai usata, non si trova giustificabile stabilire nella Carta costituzionale il concetto dell’indennizzo per espropriazione.

COLITTO ritiene che in una Costituzione, la quale è un documento fondamentalmente giuridico, non sia necessario indicare le finalità che lo Stato si propone nel riconoscere un diritto; basta affermare il diritto. Per le finalità, è sufficiente quanto è detto nella relazione.

Sul primo comma del primo articolo, che contiene le parole «frutto del lavoro e del risparmio», è d’accordo con l’onorevole Giua nel chiedere che tali parole siano eliminate.

Il secondo comma dello stesso articolo contiene varie enunciazioni: proprietà collettiva, bene comune, situazione di privilegio, monopolio privato, equità e convenienza di prestazione, equità e convenienza di distribuzione, che non sono facilmente definibili.

È d’avviso che l’articolo 2 possa essere fuso col primo e propone che la Sottocommissione approvi un articolo così redatto:

«È riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata. Il contenuto, i limiti, i modi di acquisto, di trasferimento, fra vivi ed a causa di morte, di perdita, sono stabiliti dalla legge.

«Per motivi di pubblica necessità e di utilità definiti con legge si potrà procedere ad espropriazione contro indennizzo».

Quanto all’ultimo articolo, è d’avviso che, nella sostanza, ciò che vi è scritto debba essere affermato in un documento fondamentale della nostra legislazione, quale è la Costituzione; ma pensa che tutto l’articolo possa essere sintetizzato in poche parole che, ritiene, bastino ad esprimere il concetto del relatore: «Lo Stato favorirà lo sviluppo della piccola proprietà».

DOMINEDÒ, al primo comma dell’articolo primo, consente nell’abolizione proposta dall’onorevole Giua, ma per questa ragione: che il riconoscimento del diritto alla proprietà, circoscritto all’ipotesi che questa sia frutto di lavoro e risparmio, eccezionale rispetto al sistema vigente, sposterebbe l’asse del sistema stesso. Non vedrebbe la norma realizzabile, in quanto una disposizione successiva prevede una proprietà di origine ereditaria. Manterrebbe largo lo scacchiere delle fonti della proprietà, accennando sì alle necessità sociali, ma non precludendo il novero delle fonti stesse. Preferirebbe una terminologia diversa, più vicina a quella usata nella Costituzione francese, dove si dice: «Ciascuno deve potervi accedere col lavoro e risparmio». Per rimanere aderente alla realtà, userebbe questa formula generica, allo scopo di introdurre l’affermazione di massima che dà il tono sociale alla norma, per cui nostra meta tendenziale è la proprietà fondata sul lavoro e il risparmio.

Quindi accede ai concetti espressi dall’onorevole Colitto e propone che l’articolo sia così formulato:

«Allo scopo di assicurare la libertà e l’affermazione della persona umana, viene riconosciuto e garantito il diritto di proprietà privata. Ciascuno vi potrà accedere con il lavoro e con il risparmio. Allo scopo di assicurare la funzione personale e sociale della proprietà privata e il diritto di accedervi, la legge determinerà le norme che regolano l’acquisto, il trasferimento, i limiti, le modalità di godimento».

CORBI ritiene opportuno, per avere una visione più organica del problema, riferirsi anche alla relazione Pesenti, dove sono trattati vari problemi accennati nella relazione Taviani. Ciò faciliterebbe il compito della Commissione.

TAVIANI, Relatore, dichiara di aver tenuto presenti la relazione Pesenti e quella Togliatti; quest’ultima però è molto rapida e lacunosa.

CORBI è d’accordo con l’onorevole Giua nel ritenere che nel primo articolo non si facciano affermazioni filosofiche, che possono anche essere omesse. Che la proprietà privata debba essere frutto del lavoro e del risparmio, è un concetto generico e difficile a definirsi. Intanto occorrerebbe stabilire il concetto di lavoro.

TAVIANI, Relatore, dichiara di accettare le modifiche proposte dall’onorevole Dominedò.

CORBI concorda in quanto è contenuto nel terzo articolo del relatore, perché, a suo avviso, non basta dire che la piccola e media proprietà sono tutelate dallo Stato; così non si risolve il problema della proprietà fondiaria in Italia. Nell’articolo proposto dal Relatore si sono considerate le varie facce del problema: occupazione di terre, necessità di potenziare il rendimento delle terre, di garantire l’abitazione a ciascuna famiglia, possibilità di accedere alla proprietà della terra che si coltiva; sono questi concetti che rispondono meglio alle esigenze della Costituzione che viene formulata nel clima attuale.

È necessario dire che si limiterà la proprietà terriera, date le caratteristiche del nostro Paese. Per tutte queste ragioni ritiene che l’articolo vada tenuto in grande considerazione, e non approva la proposta dell’onorevole Colitto, che vorrebbe limitare le enunciazioni.

GUIA fa una mozione d’ordine, chiedendo che si discuta articolo per articolo.

DOMINEDÒ si associa all’onorevole Giua.

GIUA osserva che con la limitazione della proprietà privata si può giungere anche a limitare lo sviluppo delle cooperative.

ASSENNATO si dichiara d’accordo per la soppressone della parte dell’articolo che riguardarla finalità. Quando si afferma che la proprietà privata deve avere per scopo e finalità la libertà e l’affermazione della persona, ci si riporta, come ha notato giustamente l’onorevole Dominedò, all’affermazione corrispondente della Costituzione francese. Tale richiamo è esatto, ma osserva che l’affermazione fatta in quell’epoca ha una funzione diversa, in quanto ogni affermazione di carattere statutario è assoluta, ma anche relativa al tempo.

DOMINEDÒ dichiara che l’onorevole Assennato non ha interpretato esattamente il suo concetto, in quanto egli si riferiva al precedente dello schema francese non per quanto riguarda l’affermazione di principio, ma solo rispetto al secondo punto del primo comma: «ciascuno deve poter accedere alla proprietà col lavoro». Il richiamo, che concerneva soltanto quest’ultima parte, ha determinato l’equivoco.

Ritiene che il primo comma sia importante, in quanto costituisce un corrispettivo del secondo: dalla sintesi nasce l’equilibrio.

PRESIDENTE dichiara di essere nemico delle enunciazioni di carattere generale e filosofico. Si può bene pensare che la libertà e l’affermazione della personalità non dipendano necessariamente dalla «proprietà privata». Si può essere liberi e non disporre di alcuna proprietà. Non dobbiamo vincolare il legislatore futuro a enunciazioni di principî che domani potrebbero essere sconfessati o superati. L’affermazione contenuta nella Costituzione che la «proprietà privata» è condizione di libertà, potrebbe impedire al legislatore futuro di sostituire alla proprietà privata, o di accompagnarvi, altre diverse forme di proprietà.

Se domani il legislatore volesse abolire la proprietà privata, dovrebbe necessariamente rinnegare il contenuto della prima parte dell’articolo proposto dall’onorevole Taviani. Concludendo, preferisce che la prima parte dell’articolo si limiti alla enunciazione proposta dall’onorevole Colitto: «Lo Stato garantisce il diritto di proprietà privata».

FANFANI è d’accordo che tutte le qualificazioni finiscono coll’invecchiare la Costituzione stessa. Ma si domanda se le affermazioni proposte dall’onorevole Taviani possano impedire un razionale sviluppo della legislazione in materia di proprietà privata. Se ci si limitasse al solo primo comma, sarebbe d’accordo con la tesi enunciata dal Presidente; ma ritiene che mettendolo in relazione col secondo sulla funzione sociale della proprietà e col terzo che considera anche la proprietà collettiva, quelle norme abbiano soltanto lo scopo di rivendicare alla proprietà privata la difesa della personalità umana, ma possano, se mai, acquistare sapore di invito a modificare la proprietà privata tutte le volte che questa non serva a garantire la libertà e il bene, non solo del singolo cittadino, ma di tutti quanti i cittadini. Da qui la necessità di un secondo articolo il quale, riferendosi alla funzione sociale della proprietà e alla necessità di fare accedere alla proprietà tutti i cittadini, limiti nell’estensione, nell’origine, nei modi di trasferimento, anche a tipo ereditario, la proprietà privata; e infine di un terzo articolo in cui si prende in esame la proprietà collettiva stabilendo i modi e i tempi in cui lo Stato dovrà sottrarre la proprietà all’iniziativa, o al dominio privato per passarla all’iniziativa o al dominio collettivo, per dare a tutti gli uomini il massimo di libertà e di benessere che, in quei determinati casi, la proprietà privata non garantisce.

Non vede alcun pericolo a che in ogni articolo, alla formula prettamente giuridica che afferma il diritto o la possibilità di limitarlo, si stabilisca e si faccia seguire anche un’idea direttrice, che faccia capire il perché di quella affermazione giuridica o costituzionale. Con questo non scende a studiare quale deve essere il tenore della giustificazione; si limita ad opporsi all’idea espressa dall’onorevole Colitto e dall’onorevole Presidente, perché ritiene che, come si è fatto finora a proposito dell’istituto della proprietà privata, qualche messa a fuoco dal punto di vista dottrinario sia necessaria, purché sia condivisa da tutta la Commissione, per illuminare il futuro sviluppo legislativo.

PRESIDENTE. L’onorevole Fanfani non disconosce che l’enunciazione della parte dell’articolo potrebbe limitare la libertà del legislatore futuro. Questo pericolo, però, verrebbe corretto dal capoverso che afferma la funzione sociale della proprietà e affida alla legge la determinazione della modalità e dei limiti della proprietà. Ma l’obiezione non gli pare esauriente. Il principio che la proprietà privata è necessaria perché assicura «la libertà e l’affermazione della personalità» non è incrinata dal fatto che le si riconosca una funzione sociale o si assegni un limite alla sua estensione. Quando la legge fosse chiamata a determinare il contenuto della proprietà, allora andrebbe bene la seconda parte. Se si dicesse: «Si garantisce il diritto di proprietà nei limiti che saranno fissati dalla legge», come ha fatto il progetto francese, oppure si dicesse. «La legge garantisce il diritto di proprietà stabilendone il consentito, i limiti, le modalità, ecc.», potrebbe accedere alla proposta Taviani.

TAVIANI, Relatore, chiede all’onorevole Presidente che cosa si debba intendere per contenuto della proprietà.

PRESIDENTE dichiara che la parola «contenuto» può essere ritenuta un termine impreciso. Ma con essa intende significare che la legge potrà liberamente determinare la forma che dovrà assumere la proprietà (privata, pubblica, socializzata, ecc.) secondale necessità e la volontà popolare del tempo nel quale sarà formata.

TAVIANI, Relatore, fa una precisazione. Si può discutere sulla opportunità dell’affermazione filosofica nel senso che a tale affermazione si può arrivare da diversi punti di partenza; ma come l’onorevole Presidente ha posto la questione non sarà mai possibile giungere ad un punto d’accordo; sulla richiesta di lasciare una porta aperta alla legge in modo che questa possa un giorno abolire qualsiasi forma di proprietà singola e personale, non può esservi un punto d’accordo tra le sue idee e quelle dell’onorevole Presidente. Si può concordare nel senso di dire che la possibilità di acquisto della proprietà privata potrà essere limitata in forma estrema come in Russia, o potrà avere un più largo raggio di azione; ma da lui non può essere ammessa la possibilità di abolire una qualsiasi proprietà privata. Sia ben chiaro che non dipende dalla legge il fatto dell’esistenza di una qualsiasi proprietà privata. Insiste su questo punto, perché comprende la posizione di altri partiti su questo importante problema: per esempio, del partito comunista. Questi pensano che fra un secolo possa non esserci più alcuna proprietà privata. Afferma però che a suo parere anche i comunisti devono comprendere la posizione dei democristiani, i quali ritengono che almeno un minimo di proprietà privata ci sarà sempre.

ASSENNATO dichiara di non voler fare dissertazioni di carattere filosofico, che forse allontanerebbero dal tema trattato, rendendo il lavoro della Sottocommissione difficile; desidera soltanto far notare che l’esistenza di una Costituzione e la dichiarazione di un diritto vanno valutati in rapporto all’epoca che si vive. Questa stessa dichiarazione si trova come aggiunta dei primi progetti della Costituzione francese. A quei tempi era un concetto innovativo rivendicare la proprietà privata ed era chiaro che quella situazione conteneva qualche cosa in più, in quanto c’era un riferimento non solo al lavoro, ma anche all’abilità.

Desidera porre un quesito di carattere etico ai colleghi democristiani: se credono che senza possedere proprietà non vi sia libertà. Quello che lo preoccupa è l’eccesso di proprietà da parte di alcuno a danno dei molti. Se si dà alla proprietà un carattere finalistico, nel senso che bisogna che la persona sia aiutata in vista della acquisizione della proprietà, chiede ai colleghi democristiani se quando dicono ciò, allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona, attribuiscono alla proprietà la capacità di irrobustire la libertà umana. In altri termini essi darebbero ai figli un’educazione rivolta alla acquisizione della proprietà. Sarebbe d’accordo nel dire: «Allo scopo di garantire la libertà e l’affermazione della persona viene riconosciuto e garantito il diritto della gratuità dell’istruzione». Da un punto di vista conservatore si potrebbe ritenere opportuno un controllo e fare il processo dell’origine della proprietà; ma le statuizioni filosofiche potrebbero allontanarci dal vivo del problema e potrebbero essere superate con l’andar del tempo. Il vero principio sul quale la Commissione è d’accordo è che la Costituzione che si sta elaborando non possa essere abolita prima della proprietà, e allora la cosa che deve preoccupare di più è la difesa della società dagli eccessi della proprietà privata. Propone di eliminare ogni affermazione che porti disaccordo nella Commissione. Fa notare che nell’articolo 2, dove si parla della successione, sia nell’ambito della famiglia sia di quella testamentaria, si aggiunge «spetta pure alla legge determinare la parte che lo Stato preleva sulle eredità». Questo riconoscimento allo Stato, sul quale tutti sono d’accordo, messo in questa forma, assume un carattere puramente fiscale. Invece, a suo parere, occorre vedere nell’intervento dello Stato nella successione testamentaria una funzione sociale; vorrebbe pregare quindi di introdurre questa affermazione, in modo che si stabiliscano i limiti della successione.

TAVIANI, Relatore, dichiara, rispondendo all’ultima richiesta dell’onorevole Assennato, che tale è la sua intenzione; il riferimento alle sole misure fiscali in materia testamentaria non dovrebbe essere compreso in una carta Costituzionale.

LOMBARDO desidererebbe che non si dicesse se la proprietà sia una forma di libertà o di schiavitù. Fa osservare che in una Costituzione, che in ultima analisi riguarda un delimitato periodo storico, e che in rapporto al progresso dell’umanità, quale si svolge attraverso i secoli, potrebbe essere considerato ancor più limitato nel tempo, occorre attenersi ad enunciazioni che si riferiscono ai tempi in cui si vive. Quello che dovrebbe preoccupare è il fatto di sancire più o meno se la proprietà sia riconosciuta e garantita, cioè se esiste il diritto di proprietà e se tale diritto possa essere in realtà garantito dalla legge. Se si ammette che la proprietà possa essere garantita e riconosciuta, ci si deve preoccupare che non se ne abusi. Da questi concetti si arriva a dedurre che la proprietà può essere eventualmente sottratta a chi ne abusi, oppure, indipendentemente dagli abusi, se si sono verificate determinate situazioni, questa proprietà può essere, per ragioni di carattere sociale, sottratta a chi la possiede. Per tale motivo ha formulato una proposta in maniera più concisa da sostituire al primo comma dell’onorevole Taviani:

«La proprietà è riconosciuta e garantita dalla legge nei limiti e nelle forme da essa stabiliti».

In altri termini la Costituzione stessa lascerebbe il campo aperto ad uno sviluppo ulteriore, quando successive variazioni permettessero di modificare i limiti e le forme della proprietà.

TAVIANI, Relatore, fa presente all’onorevole Lombardo che, con la sua proposta, si affianca ai concetti esposti dal Presidente e gli chiede se desideri che sia ben chiaro che la legge riconosce e garantisce il diritto della proprietà privata oppure se ammetta che tale diritto è garantito dalla Costituzione e la legge ne stabilisca le norme e i limiti.

LOMBARDO a suo parere, la Costituzione è una legge a carattere generale.

TAVIANI, Relatore, dichiara di essere disposto a discutere purché si dica che la proprietà privata è riconosciuta dalla Costituzione; poiché la legge non può abolire una qualsiasi proprietà privata. Se una legge facesse questo sarebbe anticostituzionale.

ASSENNATO riterrebbe opportuno fare una premessa all’articolo 1 proposto dall’onorevole Taviani, dicendo: «La proprietà può essere proprietà privata, proprietà demaniale, proprietà collettiva, ecc.»; perché nel titolo si parla del diritto di proprietà, mentre nell’articolo si tratta soltanto della proprietà privata.

TAVIANI, Relatore, dichiara che in un primo momento aveva fatto la distinzione e aveva detto proprietà privata e collettiva come proposto dall’onorevole Assennato; l’aveva poi tralasciata in quanto la parola «collettiva» non ha, come gli era stato fatto notare da alcuni colleghi, un significato giuridico.

DOMINEDÒ osserva non essere esatto neppure parlare di proprietà demaniale.

FANFANI dichiara di non conoscere epoca storica in cui non si siano avute le due forme di proprietà, la collettiva e la privata.

PRESIDENTE fa presente che non si dovrebbe sbarrare la strada a quelle che saranno le future esigenze della società. Egli non nega il diritto alla proprietà privata, ma è anche disposto a riconoscere un’altra forma diversa di proprietà.

TAVIANI, Relatore, fa presente che il problema è ormai impostato chiaramente. Tutti sono d’accordo che vi possa essere una proprietà privata; il disaccordo nasce quando si dichiara che potrà arrivare il giorno in cui non vi sarà alcuna proprietà privata e che questo giorno possa essere previsto dalla Costituzione. Ritiene che tali previsioni non si possano fare. Finora nella formulazione degli articoli approvati dalla Sottocommissione si è seguito il criterio di concretare. La formulazione proposta dall’onorevole Presidente può impressionare l’opinione pubblica, che, come è già accaduto in Francia, potrebbe, in caso di referendum, respingere la Carta costituzionale. L’onorevole Presidente ha detto di preoccuparsi di quelle che potrebbero essere le violente scosse sociali in un lontano domani; il Relatore si preoccupa ancor più di quelle che potrebbero anche essere le scossa attuali dell’opinione pubblica in un Paese come l’Italia, quando essa intravvedesse nella Costituzione la possibilità sia pure di un eventuale misconoscimento del diritto di proprietà. Perciò egli insiste che non sia ricondotto alla legge, ma venga affermato nella Costituzione il riconoscimento del diritto di proprietà privata.

LOMBARDO propone che all’articolo primo sia premessa un’affermazione con la quale si garantisce la proprietà. L’articolo, secondo la sua proposta, dovrebbe essere così formulato:

«La proprietà è riconosciuta e garantita dallo Stato nei limiti e nelle forme da esso stabiliti. Nessuno può esserne privato, se non per cause di utilità sociale, legalmente constatate, e con riserva di indennizzo.

«Il diritto di proprietà non può essere esercitato contrariamente all’utilità sociale o in modo da arrecare pregiudizio alla libertà e ai diritti altrui.

«Le imprese che esercitano attività di servizio pubblico e di interesse generale sono nazionalizzate o socializzate a norma di legge».

COLITTO si dice lieto nel constatare che da più parti si è d’accordo nel riconoscere che non è opportuno che nella Costituzione, documento fondamentalmente giuridico, si inseriscano enunciazioni di finalità di ordine filosofico. La proposta dell’onorevole Lombardo, in sostanza, coincide con i suoi concetti. Non è d’accordo che si debba aggiungere la frase proposta dall’onorevole Dominedò, cioè che alla proprietà ciascuno può accedere col risparmio e col lavoro. È una bella frase, ma manca di contenuto giuridico.

Aggiunge che non riesce a comprendere come si possa accedere alla proprietà col lavoro; ci si può accedere quando si utilizzi il risparmio.

DOMINEDÒ dichiara di avere escluso la eventualità di una riduzione delle norme ad una semplice enunciazione delle forme di proprietà, per la ragione che poi occorrerebbe disporre norme particolari per ogni singola figura di proprietà.

Inoltre l’onorevole Assennato vorrebbe che fossero depennate le motivazioni di principio dell’istituto della proprietà privata, ma le sue considerazioni non lo lasciano convinto, perché, se la formulazione di principî è mantenuta nei riguardi della funzione sociale, non si comprende perché dovrebbe essere esclusa per gli altri aspetti. Per tranquillizzare l’onorevole Assennato, rileva che quando si pone la premessa che la proprietà è una forma di tutela della personalità umana, non si esclude che vi siano altri mezzi di difesa. Inoltre la formulazione proposta, a chi ben guardi, costituisce una limitazione della proprietà. È vero che già la Costituzione francese del ’700 riconosceva il diritto di proprietà, ma allora la formulazione era quasi incondizionata. Oggi, ponendo in evidenza la premessa per cui si connette l’istituto alla personalità umana, l’istituto viene ad essere riferito non al singolo ma a tutte le persone, e con ciò se ne limitano gli eccessi. Difendendo la personalità come substrato del diritto, il riconoscimento della proprietà è fatto nell’interesse di tutti e di conseguenza gli eventuali abusi del godimento sono colpiti.

CANEVARI vorrebbe chiarire il concetto esposto dal Presidente. Quando si parla di proprietà, deve essere ben distinta la proprietà bene della persona dalla proprietà che serve al bene sociale, al bene della generalità. Non gli risulta che finora sia stata fatta questa differenziazione; la proprietà è stata considerata sotto un solo aspetto, non è stata considerata anche come mezzo di produzione e di lavoro. In questo caso può essere oggetto di disposizioni legislative che ne modifichino l’uso nei limiti e nei mezzi a beneficio di tutti.

Dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Lombardo.

ASSENNATO fa notare all’onorevole Dominedò che non vi è nulla di più evidente, nel negare l’affermazione della personalità umana, quanto la successione, di cui si parla nell’articolo successivo. La ricezione per successione è un atto negativo della propria personalità.

DOMINEDÒ dichiara che a suo avviso la successione è una continuazione della personalità umana.

ASSENNATO trova strano sancire l’acquisto della proprietà privata come meta finale della educazione. La democrazia cristiana ha la preoccupazione che attraverso la depennazione proposta si miri ad attenuare o eliminare la proprietà privata dalla Carta costituzionale; ma osserva che non si può consentire, in questa epoca, di dichiarare che alla proprietà si assegna lo scopo di stabilire la libertà e la formazione della persona, proprio in questa epoca, in cui anche le più reazionarie legislazioni vanno attenuando il significato della proprietà.

DOMINEDÒ spiega che qui si tratta di porre in evidenza il significato sociale che nasce dalla formulazione proposta.

FANFANI depreca che per la prima volta, nel corso di questa discussione, sia saltato fuori che si parla a nome dei democratici cristiani o dei comunisti. Prega i colleghi di dimenticare, non le loro opinioni personali, ma le etichette; preoccupazione comune deve essere di formare una Carta costituzionale che rispecchi i desideri pressoché universalmente diffusi tra gli italiani.

Per quanto riguarda la tesi in contrasto fra l’onorevole Dominedò e l’onorevole Assennato, li invita a rendersi conto che la situazione attuale non è quella del 1789, anzi è il contrapposto di quella. Oggi la preoccupazione è di compiere uno sforzo, dal punto di vista ideologico e legislativo, per scardinare la difesa della proprietà privata dal principio aristotelico e darle invece una nuova forma di giustificazione, considerarla quasi un modo di affermarsi della persona. Tutte le dottrine economiche aspirano alla formazione di una società in cui l’individuo goda il massimo possibile di libertà e ciascuno possa ottenere quello di cui ha bisogno.

Quando si dice che lo Stato riconosce e difende la proprietà privata quale modo di affermazione della personalità del cittadino, si viene a limitare la proprietà privata e si adotta una norma che inspirerà la legislazione di domani, affinché questa proprietà privata non sia lo schiacciamento della personalità altrui.

Riconosce giusto quanto ha detto l’onorevole Assennato, che non si può porre come obiettivo dell’educazione delle nostre creature l’acquisizione della proprietà; ma non può essere disconosciuto il fatto che l’individuo afferma le proprie qualità costruttive anche attraverso l’appropriazione di ciò che riesce a produrre, ma solo nei limiti che non impediscano la formazione della stessa proprietà privata presso gli altri.

Quando si dice che la proprietà è garanzia elementare della libertà della persona e del suo sviluppo, ci si riferisce a questa epoca storica, anche se si pensa che tutte le epoche si rassomiglieranno, salvo nella quantità di proprietà o di libertà acquisita. Che la proprietà privata sia garanzia elementare della libertà della persona, lo dimostra il fatto delle possibilità diverse che hanno avuto, anche recentemente, uomini che si trovavano in determinate condizioni economiche di fronte ad altri che non le possedevano. Ricorda a questo proposito come gli impiegati di Stato, che non avevano altre possibilità di vita, furono costretti a prendere, anche contro voglia, una tessera; ciò fa pensare che probabilmente se avessero avuto un minimo di proprietà personale si sarebbero sentiti incoraggiati a difendere la loro libertà.

E se questo può affermarsi oggi anche al di fuori della Costituzione, domanda quale pericolo esista se frasi simili vengono incluse nella Costituzione. Se si potesse dimostrare che tali frasi tendono a riportarci ai principî del 1789 sarebbe opportuno lasciarle cadere; ma se esse dovessero servire a limitare la proprietà privata e a sgombrare il terreno con la sua più accentuata limitazione a vantaggio della collettività, è opportuno che siano mantenute. Invita i presenti a chiarire il punto, perché se si dovesse correre il rischio di fare una Costituzione individualistica, le frasi andrebbero tolte.

CORBI constata che dall’ampia discussione svoltasi risulta la preoccupazione di ognuno di superare o ridurre le concezioni individualistiche.

Allo scopo di evitare equivoci ritiene opportuno non far alcuna di queste affermazioni che possono dividere la Commissione.

DOMINEDÒ ripete che il suo concetto è di dare significato sociale a tali affermazioni. Ciò sarebbe particolarmente utile, se questo contenuto sociale non dovesse essere poi sviluppato dalle successive disposizioni che la Costituzione conterrà, perché il problema non si conclude col primo comma del presente articolo.

Resta comunque stabilito, e in questo l’accordo è generale, che il diritto di proprietà è garantito, salvo quelle limitazioni che si riterranno opportune. Pensa in proposito che si possa accedere alla proposta dell’onorevole Lombardo la quale, se dovesse suscitare preoccupazioni, potrebbe essere ancora più schematizzata, dicendosi: «Il diritto di proprietà è riconosciuto e garantito dallo Stato. Nessuno può esserne privato, se non per causa di pubblica utilità legalmente constatata e previo indennizzo».

PRESIDENTE rinvia la discussione alla seduta di domani.

La riunione termina alle 12.40.

Erano presenti: Assennato, Canevari, Colitto, Corbi, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo Ivan Matteo, Marinaro, Merlin Angelina, Rapelli, Taviani.

Assenti giustificati: Molé, Noce Teresa.

Assenti: Paratore, Togni.

MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

10.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 24 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Comunicazione del Presidente

Presidente.

Sulla protezione della puerpera e del bambino

Merlin Angelina – Presidente.

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)

Presidente – Merlin Angelina – Giua, Relatore – Colitto – Paratore – Molè – Fanfani – Assennato.

La seduta comincia alle 15.15.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Di Vittorio e Pesenti non fanno più parte della terza Sottocommissione e che sono stati sostituiti dagli onorevoli Assennato e Corbi.

Sulla protezione della puerpera e del bambino.

MERLIN ANGELINA desidera fare una questione pregiudiziale, osservando che sul quotidiano L’Unità del 22 settembre è apparso un articolo nel quale è detto che la Terza Sottocommissione avrebbe votato un articolo che non impegna lo Stato nella protezione della puerpera e del bambino. Tiene a precisare che nell’articolo da lei proposto, in accordo con la onorevole Federici Maria, approvato a grande maggioranza dalla Sottocommissione, non si parlava di neonati e di puerpere, ma di madri e di fanciulli, in quanto con tali termini si intendeva sia la gestante, sia la donna che allatta, sia la donna che porta i suoi figli fino alla loro completa autonomia; la parola «fanciullo» è stata scelta in quanto nella lingua italiana non c’è un termine che indichi la creatura dal momento in cui nasce fino al momento in cui entra nella gioventù, come invece c’è nella latina, dove «puer» indica il bambino da quando nasce a quando veste la toga. Tiene a riconfermare quanto ha detto, perché resti ben chiaro che la Sottocommissione non ha affatto inteso, con l’approvazione dell’articolo, escludere le puerpere e i bambini, ma anzi ha inteso comprenderli nelle parole «madre» e «fanciullo».

PRESIDENTE prende atto delle dichiarazioni fatte dalla onorevole Merlin, condividendo pienamente il suo pensiero in merito a tale precisazione.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

PRESIDENTE apre la discussione sui due articoli proposti dall’onorevole Giua, riguardanti il diritto di migrazione.

GIUA, Relatore, avendo preso visione di un articolo approvato dalla prima Sottocommissione in materia di migrazione, che riproduce quasi letteralmente quelli da lui proposti, chiede quale sia il pensiero della Sottocommissione in proposito.

PRESIDENTE risponde che la questione sarà risolta in sede di coordinamento.

Dà quindi lettura degli articoli proposti dall’onorevole Giua:

«Ogni cittadino può circolare e fissare la propria residenza o domicilio in ogni parte del territorio nazionale, salvo i limiti imposti dalla legge per motivi di sanità e di ordine pubblico».

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’esterno del territorio nazionale (diritto di emigrazione) non può essere limitata dallo Stato, altro che per ciò che concerne la tutela del lavoro volontariamente collettivo. Il cittadino italiano che abbandona volontariamente il territorio nazionale per ragioni di lavoro non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Ritiene, d’accordo con altri colleghi, che gli articoli, con lievi modifiche di forma, potrebbero essere formulati nel modo seguente:

«Il cittadino può circolare e fissare la propria residenza, domicilio o dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge per motivi di sanità e di ordine pubblico.

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’estero (diritto di emigrazione) può essere limitata dallo Stato solo per la tutela del lavoro nell’interesse collettivo. Il cittadino che emigra non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Pone in discussione il primo articolo.

GIUA, Relatore, dichiara di consentire nella nuova formulazione, in quanto contiene gli stessi concetti degli articoli da lui proposti.

COLITTO propone di togliere le parole «può circolare», poiché il concetto esposto da esse è implicito là dove si parla «di fissare la propria dimora».

GIUA, Relatore, propone di mettere «può muoversi liberamente».

PRESIDENTE conviene che si può usare un’altra parola che esprima lo stesso concetto, ma fa presente che il termine «circolare» è usato anche in altre Costituzioni.

COLITTO insiste nella sua proposta, in quanto, a suo parere, è chiaro che, quando si può fissare liberamente la propria dimora, si può anche circolare.

PRESIDENTE osserva che, effettivamente, se nell’articolo si parlasse soltanto di domicilio e di residenza il termine «circolare» si renderebbe necessario, ma con l’aggiunta della parola «dimora» si rende chiaro il concetto della libertà di muoversi; tuttavia, eliminarlo completamente ridurrebbe il concetto che si vuole esprimere.

COLITTO propone di adottare il termine «muoversi», per una semplice questione di proprietà di linguaggio.

GIUA è del parere di lasciare l’espressione che si ritrova in tutte le Costituzioni; tanto più che, se si dovesse giungere alle autonomie regionali, potrebbero venire stabiliti dei divieti di trasferimento da regione a regione.

COLITTO propone la dizione «muoversi liberamente».

PARATORE concorda con l’onorevole Colitto nel trovare linguisticamente poco felice il termine «circolare», che pare riferirsi più a dei veicoli che a degli individui.

MERLIN ANGELINA propone l’adozione del termine «trasferirsi».

PARATORE, data la difficoltà di trovare un termine sostitutivo, propone di lasciare «circolare».

MOLÈ non trova opportuno far riferimento, nella Costituzione, a ragioni di ordine pubblico; è un concetto di grande discrezionalità lasciato all’arbitrio della polizia. Le ragioni sanitarie sono applicate in base a determinazioni del Governo, i motivi di ordine pubblico possono sempre essere sollevati dalla polizia.

COLITTO propone la formula «salvi i limiti imposti della legge».

MOLÈ, per quanto riguarda l’eccezione sollevata dall’onorevole Colitto sul termine «circolare», propone che questo venga sostituito con «trasferirsi».

PRESIDENTE propone di mettere accanto al termine «circolare» l’avverbio «liberamente».

Concordando nella necessità di togliere il termine «ordine pubblico», propone che l’articolo resti così formulato:

«Il cittadino può liberamente circolare e fissare la propria residenza, domicilio e dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge».

COLITTO propone di invertire l’ordine dei termini «residenza, domicilio e dimora» in «domicilio, residenza e dimora», uniformandosi alla dizione seguita dal Codice civile italiano. Propone di sopprimere l’aggettivo «proprio».

PRESIDENTE dichiara che, accogliendo la proposta dell’onorevole Colitto, l’articolo resta così formulato:

«Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

Apre la discussione sul secondo articolo proposto dall’onorevole Giua, articolo che, come ha già detto, è stato, d’accordo con alcuni colleghi, così modificato:

«La libertà di movimento del cittadino italiano all’estero (diritto di emigrazione) può essere limitata dallo Stato solo per la tutela del lavoro nell’interesse collettivo. Il cittadino che emigra non perde il diritto alla protezione dello Stato».

MOLÈ fa considerare che la libertà di movimento all’estero non dipende dallo Stato italiano; da questo, se mai, dipende la libertà di uscire.

COLITTO pensa che con questo articolo si voglia affermare che il cittadino che valica i confini conserva la protezione dello Stato.

GIUA, Relatore, osserva che se il cittadino vuole emigrare, lo Stato non glielo può impedire. Si potrebbe dire: «Il diritto di emigrazione è garantito dallo Stato».

PARATORE ritiene la dichiarazione troppo categorica, perché l’emigrazione non dipende sempre dallo Stato.

PRESIDENTE spiega che il diritto di emigrazione può essere limitato dallo Stato solo per ciò che concerne la tutela del lavoro o l’interesse collettivo.

PARATORE aggiunge che l’emigrante ha diritto a speciale protezione.

MERLIN ANGELINA fa il caso dell’operaio, che, con i suoi risparmi, si rechi, ad esempio, in Isvizzera e si ammali. Se deve essere ricoverato all’ospedale chi pagherà la retta se egli non ne avesse i mezzi?

MOLÈ risponde che nei trattati internazionali sono regolati anche i rapporti nei riguardi dell’assistenza. Se poi questo regolamento manca, sarà il Console italiano che dovrà provvedere.

GIUA, Relatore, aggiunge che se il cittadino è andato all’estero per ragioni di lavoro ha diritto ad una maggiore tutela.

MOLÈ ricorda che i rappresentanti italiani, sotto tutti i regimi, anche sotto quello totalitario, hanno sempre protetto il cittadino italiano all’estero. Quindi non trova necessario riaffermare qui questo diritto, che è considerato sotto il diritto internazionale.

FANFANI propone la seguente formula: «Il diritto di espatriare è garantito dallo Stato nei limiti consentiti dagli accordi internazionali e dalle leggi sulla tutela del lavoro. Il cittadino emigrato non perde il diritto alla protezione dello Stato».

PARATORE osserva che quando si dice «non perde il diritto alla tutela» si suppone la legge sull’emigrazione. Questo deve restar chiaro.

PRESIDENTE dichiara che l’articolo rimarrebbe così formulato:

«Il diritto di espatriare è garantito dallo Stato nei limiti consentiti dagli accordi internazionali e dalle leggi sulla tutela del lavoro. Il cittadino emigrato non perde il diritto alla protezione dello Stato».

Propone di riunire in uno solo i due articoli proposti dal relatore.

MOLÈ userebbe la parola «stabiliti» invece di «consentiti».

ASSENNATO direbbe «emigrato per ragioni di lavoro».

COLITTO rileva che questa precisazione può far pensare che il cittadino che espatria per altre ragioni perde la protezione.

FANFANI preferirebbe la parola «espatriato» ad «emigrato».

PARATORE osserva che c’è differenza fra l’emigrante e colui che va all’estero non per ragioni di lavoro. Bisogna chiarire a chi si fa riferimento.

COLITTO risponde che si fa riferimento al cittadino italiano che, per il fatto che va all’estero, ha diritto alla protezione.

PARATORE ritiene più proprio dire «espatriato» che «emigrato».

ASSENNATO non ritiene uguale la posizione del cittadino che espatria per lavoro a quella di chi espatria per altri motivi. Gli pare opportuno dichiarare che vi è un diritto particolare alla protezione a favore di chi espatria per ragioni di lavoro.

È ovvio che chi espatria conservi il diritto alla protezione dello Stato di origine; l’essenziale è sottolineare il diritto dell’emigrato che deve sentirsi sempre particolarmente protetto dalla Patria.

PARATORE, poiché la Commissione dovrà pure occuparsi dell’emigrazione, pensa che il problema vada trattato in quella occasione; qui occorre solo limitarsi a considerare che chi lascia l’Italia è tutelato come cittadino italiano; quindi è inutile parlare di emigranti.

COLITTO ricorda che la Commissione si deve occupare delle questioni economico-sociali, perciò anche della emigrazione. Si dovrebbe dire: «Il diritto di emigrare per ragioni di lavoro è consentito nei limiti delle leggi».

MERLIN ANGELINA osserva che si può espatriare anche per ragioni di studio, ed essere oggetto di soprusi.

GIUA, Relatore, risponde che a questo provvedono gli accordi internazionali.

PRESIDENTE ritiene che l’osservazione dell’onorevole Assennato, di ammettere una particolare protezione dello Stato per l’emigrante, non è superata dal fatto che si parli di emigrante.

Pone ai voti l’articolo così formulato: «Il diritto di emigrare è garantito dallo Stato nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

«Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato».

(È approvato).

Pone ai voti la proposta da lui formulata di riunire in uno solo i due articoli approvati.

(È approvata).

Dà lettura dell’articolo nel suo testo definitivo: «Il cittadino può circolare e fissare il domicilio, la residenza e la dimora in ogni parte del territorio dello Stato, salvo i limiti imposti dalla legge.

«Il diritto di emigrare è garantito dallo Stato nei limiti stabiliti dagli accordi internazionali e dalle leggi sul lavoro.

«Il cittadino emigrato ha diritto alla protezione dello Stato».

Lo pone ai voti.

(È approvato).

La sedata termina alle 16.

Erano presenti: Assennato, Colitto, Corbi, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Merlin Angelina, Molè, Paratore.

Assenti giustificati: Canevari, Dominedò, Lombardo Ivan Matteo, Marinaro, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni.

VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 20 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Seguito della discussione)

Giua, Relatore – Colitto – Togni – Presidente – Molè – Federici Maria – Rapelli – Marinaro.

La seduta comincia alle 10.40.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

GIUA, Relatore, dà lettura dell’articolo da lui proposto sull’educazione, così formulato: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

L’articolo rientrerebbe nel tema generale della famiglia, ma ha ritenuto necessario ammettere la possibilità dell’intervento dello Stato in questo settore, soltanto nel caso che la famiglia sia nell’impossibilità di provvedere all’educazione dei figli. È un concetto che si deve affermare nella nuova Costituzione per non dare allo Stato il potere di ingerirsi nell’educazione dei giovani, compito che, in linea di massima, deve restare di stretta competenza della famiglia. L’articolo è in contrasto con altre Carte costituzionali, e in particolare con l’articolo 120 di quella di Weimar, che ammette la possibilità da parte dello Stato di sorvegliare l’educazione che i genitori impartiscono ai loro figliuoli. Tale sorveglianza sarebbe in contrasto con l’indirizzo generale adottato dalla Commissione e con l’affermazione della piena libertà dell’individuo, che lo Stato deve rispettare. Tale rispetto deve trovare particolare applicazione nel campo della famiglia, che costituisce il nucleo base dell’organizzazione sociale.

Il secondo comma «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino» afferma che l’indirizzo non si deve discostare da quella che sarebbe l’educazione data dalla famiglia, nel caso che questa potesse provvedervi.

COLITTO chiede al relatore che cosa si debba intendere con il termine «civile».

GIUA, Relatore, chiarisce che con tale termine si evita la possibilità di intendere l’educazione come espressione di un indirizzo confessionale, di partito, settario, ecc.

COLITTO propone la soppressione del termine «civile».

PRESIDENTE non concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, trovando necessaria la specificazione.

COLITTO propone la formula «nell’impossibilità di educare i figli», invece che «nell’impossibilità di dare un’educazione civile».

GIUA, Relatore, concorda con la proposta dell’onorevole Colitto, poiché, lasciando invariato il secondo comma, resta chiaro l’indirizzo che si vuol dare all’educazione.

Quanto ai collegi di educazione, fa rilevare che gli istituti già esistenti in Italia si limitano all’istruzione media, mentre sarebbe necessaria l’istituzione di convitti anche per quella elementare, ed i figliuoli di genitori condannati a pene detentive e gli orfani potrebbero formare in questi istituti la loro educazione.

TOGNI ritiene che il termine «civile» implichi una limitazione del concetto della educazione. A suo parere è necessaria l’affermazione del principio che lo Stato deve garantire, provvedere o intervenire, nel campo dell’educazione, ma non necessariamente e direttamente, come sembra sia previsto nella formula dell’articolo proposta dall’onorevole Giua. È noto che esistono convitti tenuti da sacerdoti o da civili, che provvedono alla educazione dei giovani e che lo Stato dovrebbe sovvenzionare, senza tuttavia intervenire direttamente nell’educazione.

GIUA, Relatore, non può convenire con le affermazioni fatte dall’onorevole Togni. Pur non condividendo le tesi estremiste, che vorrebbero investire lo Stato interamente dell’importante compito dell’educazione, non può accedere all’idea di un assoluto agnosticismo in materia da parte dello Stato.

PRESIDENTE fa notare che, con la formulazione dell’articolo proposto dall’onorevole Giua, non vengono precluse le possibilità di educazione da parte di istituti privati. Se lo Stato è investito dell’obbligo di provvedere in certi casi all’educazione, non per questo restano escluse le istituzioni private.

COLITTO propone la seguente formulazione: «Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi».

GIUA, Relatore, trova eccessivamente generica la formulazione proposta dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE insiste per l’adozione della formula integrale proposta dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente al tema dell’educazione. Il termine «civile», a suo parere, significa che l’educazione deve essere ispirata a sensi di civismo e non è affatto in opposizione con il concetto della religione. Dichiara, che voterà pertanto la formula proposta dall’onorevole Giua, in quanto è l’unica che elimina qualunque sottinteso politico, confessionale o settario.

Anche il termine «istituzioni proprie» gli sembra ben apposto, perché è evidente che quando lo Stato deve intervenire non può farlo che direttamente e con mezzi propri. L’opera educativa compiuta da istituti privati può essere integrativa di quella dello Stato.

TOGNI ritiene che la migliore educazione sia quella integrata dall’insegnamento religioso, che non si limita ad una formula esteriore civile, ma mette radici nel sentimento religioso del fanciullo. Se potesse formulare un articolo in tale materia, direbbe che lo Stato deve appoggiarsi alle organizzazioni religiose; ma poiché tale concetto non può essere condiviso da altri, ritiene che non sia il caso di precisare né il concetto dell’intervento diretto dello Stato, né quello del predominio religioso. Che lo Stato provveda direttamente o indirettamente è una questione che sarà decisa caso per caso, a seconda della situazione particolare o speciale dei tempi; ma, poiché il termine «educazione civile» può far pensare che sia esclusa la parte educativa religiosa, ritiene che nell’articolo si dovrebbe parlare di educazione in generale. Sarà poi compito degli organi dello Stato vedere quale educazione convenga adottare tenendo conto della famiglia, della religione, della razza, ecc. Non vi è la necessità di stabilire fin da ora il principio che lo Stato debba provvedere direttamente all’educazione, soprattutto in quanto lo Stato è stato sempre il peggior educatore.

MOLÈ afferma che lo Stato può essere cattivo educatore, quando voglia imprimere una determinata ideologia politica nel campo dell’educazione, ma non può essere considerato tale, quando si adegui a principî di libertà.

TOGNI rileva che lo Stato è sempre l’espressione di un partito, e cercherà quindi di imprimere alla vita della Nazione un determinato indirizzo politico.

PRESIDENTE ritiene che dicendo «qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli» non si menomi la libertà della famiglia di educare i figli, anche inviandoli presso istituti privati, né si crei un monopolio dello Stato nel campo della educazione; si intende affermare l’obbligo dello Stato di provvedere all’educazione, quando la famiglia non possa assolvere a tale compito né con mezzi propri, né con l’aiuto di istituti privati. Richiama l’attenzione sul fatto che il problema generale dell’educazione è di competenza della prima Sottocommissione, mentre la terza deve studiare le garanzie economico-sociali, che hanno attinenza con tale problema.

TOGNI ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia la più precisa e la meglio rispondente per una Carta costituzionale, in quanto afferma il principio dell’obbligo dello Stato nel campo dell’educazione, togliendo la limitazione derivante dal termine «civile».

PRESIDENTE ritiene che l’intervento dello Stato non debba essere ispirato ad una educazione di colore politico, ma ad un senso di civismo, all’infuori di qualsiasi ideologia di partito. Insiste perciò per il mantenimento della parola «civile».

COLITTO chiede al Relatore di voler più chiaramente specificare il significato che ha voluto dare alla parola «civile».

GIUA, Relatore, dichiara che per «educazione civile» ha inteso educazione non confessionale o ispirata ad ideologie politiche, quale sarebbe, ad esempio, quella statolatria che afferma la preminenza dello Stato sui cittadini; ed ha voluto sottolineare l’obbligo del rispetto della libertà anche in questo settore. Riferendosi a quanto ha detto l’onorevole Togni, in merito all’educazione religiosa, dichiara di non essere contrario ad essa purché sia considerata dal punto di vista etico-cristiano; ma dal punto di vista della superfetazione della religione come insegnamento catechistico, non può ammetterla. Quindi, come è necessario che lo Stato moderno crei una pedagogia indirizzata a tutto il complesso della vita civile, cioè al rispetto della libertà e delle opinioni politiche, così pure si deve ammettere l’esistenza di una vita civile che sia al disopra delle situazioni politiche di destra o di sinistra. Lo Stato deve dare un’educazione fondamentale, ma lasciar libere le famiglie che vogliono educare religiosamente i loro figliuoli inviandoli ad istituti religiosi.

MOLÈ rileva che vi sono due casi di impossibilità della famiglia ad educare i figli: quando il genitore o i genitori siano condannati ad una pena detentiva, o quando vi sia l’estrema indigenza. In questi casi lo Stato deve direttamente intervenire. Però, se la famiglia è nell’impossibilità economica, ma ha ancora la sua entità morale, può chiedere che i bambini siano affidati ad un istituto religioso; nell’altro caso lo Stato provvederà ad un’educazione che risponda alle comuni esigenze di tutti gli uomini civili, siano essi ebrei o cattolici o protestanti. Ricorda che nella scuola italiana si insegna la religione, il che esclude il pericolo di un’educazione atea da parte dello Stato. Pertanto non condivide il parere dell’onorevole Togni che l’educazione da parte dello Stato costituisca un pericolo e ritiene che la formula proposta dall’onorevole Colitto non differisca molto da quella del Relatore.

TOGNI non crede che la formula proposta dall’onorevole Colitto sia equivalente a quella dell’onorevole Giua, in quanto il relatore afferma che è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie. Lo Stato, a suo parere, ha a suo carico l’onere finanziario dell’educazione, ma questa educazione dovrà essere data secondo i desideri della famiglia. Non si può obbligare lo Stato ad intervenire nell’educazione dei fanciulli, assumendo la figura di tutore, ma limitare il suo intervento a sussidi da erogare ad istituti privati.

MOLÈ ritiene che con l’adozione della proposta dell’onorevole Togni vi sarebbe il pericolo che lo Stato fosse costretto a sovvenzionare istituti aventi determinati colori politici.

Il problema educativo è troppo importante perché lo Stato se ne disinteressi; come si deve evitare l’estremismo dello Stato totalitario, si deve anche evitare quello dello Stato completamente agnostico. Lo Stato deve fornire il paradigma dell’educazione e, quando questa non sia possibile, provvedervi direttamente.

FEDERICI MARIA desidera che sia chiarito come si debba accertare l’impossibilità della famiglia a provvedere all’educazione dei figli.

PRESIDENTE risponde che la materia è oggetto di legislazione.

FEDERICI MARIA osserva che vi è il caso di una carenza della famiglia di ordine legale e il caso di una carenza di ordine economico. Per quanto riguarda la prima, lo Stato deve evidentemente intervenire; ma, per quanto riguarda la seconda, è difficile stabilire l’intervento dello Stato; si potrebbe verificare il caso di una folla di persone che chiedano l’intervento dello Stato e allora, praticamente, si avrebbe quell’educazione statale che deve essere evitata. Chiede poi se sarebbe possibile fare un’aggiunta all’articolo approvato il giorno avanti, riguardante l’istruzione dei ragazzi poveri.

PRESIDENTE dichiara che se si riconoscessero gli istituti privati come integrativi dell’intervento dello Stato, questo li deve sussidiare; ma se si ritiene che lo Stato possa fare a meno di questi istituti privati, dovrebbe provvedere con istituti propri indipendentemente da qualunque ideologia politica, religiosa ecc. Per questo motivo ritiene ben formulata la dizione dell’onorevole Giua: «è compito dello Stato di provvedere all’educazione con istituzioni proprie». Non ritiene che si tratti di un monopolio arrogato dallo Stato nel campo dell’educazione, ma che anzi la proposta ammetta resistenza di istituzione private.

RAPELLI ritiene che, facendosi l’ipotesi di una carenza economica della famiglia, lo Stato debba intervenire soltanto dal punto di vista dei mezzi materiali, essendo già stato affermato il principio che lo Stato riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento.

TOGNI, d’accordo con l’onorevole Molè, presenta la seguente modificazione dell’articolo: «Qualora la famiglia si trovi nella impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi». Aggiunge che lo Stato, creando una sene di istituzioni che accompagnino i bambini dai primi anni della vita fino all’età della ragione, dando loro un’educazione, si assume un compito di grande responsabilità. Ciò potrebbe ammettersi in uno Stato concepito astrattamente, ma in pratica lo Stato è l’espressione del partito dominante e pertanto può avvenire che mutando i partiti, mutino le direttive dell’educazione dei ragazzi. Insiste quindi affinché venga fissato il principio che lo Stato deve provvedere in senso generale all’educazione, senza ulteriori specificazioni, e che l’articolo resti così formulato:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi nel rispetto della libertà del cittadino».

MOLÈ non approva l’inclusione dei concetti di educazione e di libertà in un solo periodo.

PRESIDENTE rileva che, quando si parla di educazione in senso generale, l’attributo «civile» intende un’educazione ispirata a sensi di civismo. Pertanto insiste sull’adozione di tale attributo.

Dichiara di accettare integralmente la formula presentata dall’onorevole Giua, che ritiene la più rispondente alle garanzie che si richiedono in materia di educazione.

GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Togni, purché sia approvato il secondo comma da lui proposto, che dice: «Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

PRESIDENTE dichiara che, poiché l’onorevole Giua ritira la sua proposta per aderire alla formulazione dell’onorevole Togni, insieme cogli onorevoli Colitto e Molè, fa proprio l’articolo proposto nella relazione.

Pone quindi in votazione l’articolo così formulato:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di dare un’educazione civile ai figli, è compito dello Stato di provvedere a tale educazione con istituzioni proprie.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

(Non è approvato).

Dà lettura dell’articolo presentato dagli onorevoli Giua, Togni. Molè e Colitto, che dice:

«Qualora la famiglia si trovi nell’impossibilità di educare i figli, è compito dello Stato di provvedervi.

«Tale educazione si deve compiere nel rispetto della libertà del cittadino».

Lo pone in votazione, dichiarando di astenersi.

(È approvato).

GIUA, Relatore, legge gli articoli da lui proposti.

Art. …

Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi, senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità.

L’esercizio dell’insegnamento universitario è aperto a tutti i capaci indipendentemente da distinzioni di razza, religione, credo politico e nazionalità. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso.

Art. …

Il cittadino italiano in possesso del titolo necessario ha diritto di esercitare una professione nel territorio della Repubblica. Tale diritto è tutelato dallo Stato e disciplinato dalle leggi e dai regolamenti degli ordini professionali.

Lo stesso diritto compete ai cittadini di altri paesi che stabiliscano il trattamento di reciprocità.

Fa osservare che, data la carenza dell’insegnamento universitario, dipendente dal fatto che durante il periodo fascista la quasi totalità delle cattedre universitarie è stata coperta da giovani insegnanti venuti su in clima fascista, occorre provvedere urgentemente. Già in altra epoca il De Sanctis ed il Sella avevano aperto le nostre Università ad insegnanti stranieri; anche ora è necessario ricorrere a questa possibilità, se si vuol rinnovare lo spirito dell’insegnamento universitario.

È evidente che per le scienze giuridiche difficilmente verranno insegnanti stranieri, ma per le altre scienze di carattere internazionale, e specialmente per quelle sperimentali, è ovvia la necessità che all’insegnamento siano ammesse anche persone che non abbiano la nazionalità italiana.

COLITTO propone di sopprimere l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità».

MOLÈ espone alcuni dubbi: questa specificazione circa le modalità per i concorsi non crede sia materia di Costituzione, ma di legge. Da un punto di vista tecnico, non è la Costituzione che deve stabilire che gli uffici sono assegnati per concorso; però dichiara di non fare alcuna proposta in merito.

Quanto alla seconda affermazione: la parificazione assoluta dei sessi in tutti gli uffici, osserva che vi sono uffici in cui tale parificazione non è possibile, ad esempio in quelli che riguardano le funzioni giudiziarie e militari.

FEDERICI MARIA non trova ammissibili queste discriminazioni.

MOLÈ risponde che già nel diritto romano, e poi dai Santi Padri era stato riconosciuto che la donna, in determinati periodi della sua vita, non ha la piena capacità di lavoro.

PRESIDENTE direbbe «idoneità» invece di «capacità».

MOLÈ infine osserva che se non si può evitare, per ragioni contingenti, che si debba ricorrere alla partecipazione di stranieri ad un alto ufficio quale è quello dell’insegnamento superiore, non si dovrebbe stabilire come norma statutaria tale partecipazione. Potrebbe avvenire che in un futuro più o meno prossimo la direzione spirituale della Nazione italiana venisse affidata ad uomini che non sono italiani e che non hanno alcun attaccamento alla storia e alle esigenze della Nazione. Ciò sarebbe molto pericoloso, specialmente dal punto di vista politico.

TOGNI in luogo del secondo articolo del Relatore propone di premettere al primo un’affermazione di principio alla garanzia del libero esercizio professionale così concepita: «La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale, nel rispetto della legge».

Al primo comma proposto dal Relatore toglierebbe l’inciso «senza alcuna restrizione, tranne quella della capacità» e sostituirebbe «e in relazione alla propria idoneità».

Dove si parla dell’insegnamento universitario, anziché dire «è aperto» direbbe «può essere aperto».

Non ritiene poi necessario l’ultimo punto, ma non fa alcuna proposta in merito. Il testo dell’articolo così modificato sarebbe il seguente:

«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi. Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità. Per l’insegnamento universitario, ai concorsi possono essere ammessi anche cittadini stranieri. L’accesso agli impieghi privati è aperto a tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso».

GIUA, Relatore, dichiara di accettare la formulazione Togni.

COLITTO è d’accordo con l’onorevole Molè che la donna non abbia la capacità di svolgere le funzioni giudiziarie, ma fa rilevare che sostituire «idoneità» a «capacità» non chiarisce il concetto.

FEDERICI MARIA trova inammissibile l’affermazione dell’incapacità della donna a ricoprire funzioni giudiziarie; quanto poi ad impieghi di carattere militare fa notare che si vanno sviluppando i così detti servizi ausiliari, compiuti da donne, e che, anche nella polizia, è preveduto l’impiego delle donne.

MOLÈ consente che le donne possano ben corrispondere nei corpi ausiliari dell’esercito; ma si tratta di un caso che non permette generalizzazioni. Non intende affermare una inferiorità nella donna; però da studi specifici sulla funzione intellettuale in rapporto alle necessità fisiologiche dell’uomo e della donna risultano certe diversità, specialmente in determinati periodi della vita femminile.

FEDERICI MARIA ritiene che basterebbe sostituire a «capacità» «idoneità».

COLITTO, poiché nella Costituzione non si può fare della casistica, direbbe: «L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

PRESIDENTE propone di modificare la proposta Togni, riferendo l’idoneità al sesso e precisamente: «Tutti i cittadini italiani sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorso, senza restrizione di sesso, tranne quella della idoneità».

FEDERICI MARIA ricorda che anche nella discussione sul lavoro furono sollevate eccezioni per le donne.

TOGNI è del parere che non si debba scendere a dettagli sulle limitazioni. Queste verranno fatte all’atto del concorso in riferimento alle qualità fisiche che l’ufficio richiede. Se già si dice che sono ammessi senza limitazioni di sesso, tranne quella della idoneità, l’idoneità può riferirsi tanto alla persona che al sesso. Nella Costituzione non possono essere posti dei limiti all’accesso di un sesso agli impieghi.

COLITTO, poiché non è possibile scendere a dettagli, insiste nel proporre il seguente articolo:

«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

TOGNI obietta che la Costituzione non può rimandare alle leggi: deve dare delle direttive. Del resto in America ed in Inghilterra limitazioni del genere non vengono fatte; tutte le carriere, dalla militare alla professionale, sono aperte alle donne.

FEDERICI MARIA, poiché nessuna Costituzione fa restrizioni in materia, insiste perché non siano fatte nella nostra.

MOLÈ dichiara di accettare la formula proposta dall’onorevole Colitto.

PRESIDENTE chiarisce che l’articolo sarebbe così formulato:

«La Repubblica garantisce a tutti i cittadini il libero esercizio della propria attività professionale nel rispetto delle leggi».

Pone ai voti questo comma.

(È approvato).

Dà poi lettura delle due proposte, quella degli onorevoli Colitto e Molè, e l’altra dell’onorevole Togni, per il comma successivo.

La prima è così formulata:

«L’accesso ai pubblici impieghi è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi».

L’altra è la seguente:

«Tutti i cittadini italiani, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi ed in relazione alla propria idoneità».

MARINARO è favorevole alla prima formula, ma con la seguente modificazione alla seconda parte:

«Agli impieghi nelle amministrazioni statali, parastatali o comunque soggette alla vigilanza dello Stato, si accede mediante concorsi».

PRESIDENTE fa considerare che la distinzione tra uffici pubblici e non pubblici non è facile.

MARINARO, appunto per eliminare tale difficoltà, ritiene necessaria la distinzione proposta.

PRESIDENTE osserva che c’è grande incertezza nei criteri di distinzione fra enti pubblici ed enti privati.

MARINARO potrebbe modificare la proposta e dire: «Nelle amministrazioni statali o in enti di diritto pubblico» e ciò perché in certe amministrazioni che hanno funzioni prevalentemente di interesse pubblico non è mai stato introdotto il concorso.

COLITTO chiede che sia fatto risultare dal verbale che, parlando di impieghi pubblici, si intende far riferimento a quanto ha specificato l’onorevole Marinaro.

MARINARO fa considerare che la Cassazione ha ripetutamente affermato che quando si dice impiego pubblico ci si riferisce a impieghi nelle amministrazioni dello Stato.

PRESIDENTE rileva che ci sono impieghi pubblici presso enti privati e ci sono impieghi privati presso enti pubblici. Fa l’esempio del Consorzio agrario che è indubbiamente un ente privato, ma che esplica anche funzioni pubbliche, quale è quella dell’ammasso del grano. L’impiegato addetto all’ammasso del grano esercita un impiego pubblico presso un ente privato. Ritiene perciò sufficiente dire «impieghi pubblici».

MARINARO aggiunge che la Cassazione ha definito ente di diritto pubblico quello che assolve ad una funzione pubblica. Ci sono istituti che hanno attività mista, altri che hanno una figura giuridica sui generis, che esercitano una pubblica attività, che danno buone remunerazioni e assicurano una carriera vantaggiosa. Non vede perché non si dovrebbe richiedere che le assunzioni del personale si facciano per concorso.

PRESIDENTE legge la proposta degli onorevoli Colitto, Molè, Marinaro:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. Agli impieghi si accede mediante concorsi»;

 

e quella dell’onorevole Togni:

«Tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, sono ammessi agli impieghi pubblici in base a concorsi e in relazione alla propria idoneità».

COLITTO dichiara di essere disposto ad aggiungere nella sua formula l’inciso «senza distinzione di sesso». La formula risulterebbe così espressa:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, senza distinzione di sesso, salvo le limitazioni stabilite dalla legge. A tali impieghi si accede mediante concorsi».

FEDERICI MARIA insiste perché sia tolto l’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge».

COLITTO non lo ritiene opportuno. Ad esempio, un concorso per soli maschi indetto dall’Accademia militare per arruolamento di allievi ufficiali, risulterebbe anticostituzionale.

MARINARO afferma che queste limitazioni esistono in quasi tutte le Costituzioni.

FEDERICI MARIA ritiene che quell’inciso sia pericoloso, perché non si possono specificare i casi ai quali si intende riferito. Con la proposta dell’onorevole Togni, dove è prevista la idoneità, queste preoccupazioni non avrebbero ragione di essere.

MOLÈ osserva che la idoneità serve a stabilire un criterio individuale che riguarda tanto il maschio che la femmina.

PRESIDENTE pensa che mutando la collocazione dell’inciso «salvo le limitazioni stabilite dalla legge», potrebbe essere eliminato ogni disaccordo. Propone pertanto la seguente formula:

«L’accesso agli impieghi nelle pubbliche amministrazioni e negli enti di diritto pubblico è libero ai cittadini, salvo le limitazioni stabilite dalla legge, senza distinzione di sesso, razza, religione e fede politica.

A tali impieghi si accede mediante concorso».

Mette ai voti questa proposta.

(È approvata).

Dà poi lettura della nuova formulazione del punto successivo:

«Per l’insegnamento universitario i concorsi possono essere aperti anche a cittadini stranieri».

Pone ai voti questa proposta.

(È approvata).

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Colitto, Federici Maria, Giua, Molè, Rapelli, Togni.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Noce Teresa, Pesenti.

Assenti: Canevari, Dominedò, Fanfani, Lombardo Ivan Matteo, Merlin Angelina, Paratore, Taviani.

GIOVEDÌ 19 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

8.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 19 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (Seguito della discussione)

Presidente – Federici Maria, Correlatrice – Merlin Angelina, Relatrice – Giua – Fanfani – Taviani – Dominedò.

Garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino (Discussione)

Giua, Relatore – Marinaro – Taviani – Presidente – Dominedò – Molè – Merlin Angelina – Colitto.

La seduta comincia alle 9.35.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia.

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Marinaro e Federici Maria si sono accordati sulla presentazione di un’unica formulazione di articolo, tenendo conto della discussione avvenuta il giorno precedente. Apre pertanto la discussione su tale articolo così formulato: «Alla famiglia è assicurata la condizione necessaria alla sua difesa ed al suo progressivo sviluppo».

FEDERICI MARIA, Correlatrice, tenendo conto delle obiezioni che le sono state mosse dagli onorevoli colleghi sulla prima parte dell’articolo da lei proposto il giorno avanti, ha ridotto, d’accordo con l’onorevole Marinaro, la sua proposta all’affermazione che alla famiglia verranno assicurate le condizioni necessarie alla sua difesa ed al suo progressivo sviluppo. Conviene che anche questa affermazione potrebbe essere materia di altri articoli e propone che sia premessa all’articolo approvato il giorno avanti, che dice: «La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

MERLIN ANGELINA, Relatrice, è del parare che non si dovrebbe modificare un articolo già approvato, ed insiste perché in ogni caso sia fatto un articolo a parte. Propone la seguente formula, che ha il pregio di una maggiore semplicità: «Lo Stato protegge la famiglia».

FEDERICI MARIA, Correlatrice, ritiene inaccettabile, perché dubbia, la formula proposta.

GIUA ritiene che il termine «Stato» sia troppo generico e che la dizione «protegge» non sia chiara.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, spiega che si riferisce a quelle forme di protezione che si riterrà opportuno adottare da parte dello Stato in relazione ai tempi. Anche la dizione proposta dalla onorevole Federici: «progressivo sviluppo» non è sufficientemente chiara.

FANFANI propone di adottare la dizione: «a libero sviluppo», che sottolineerebbe, come nella Costituzione francese, la libertà della famiglia in tutte le sue attività. In altri termini lo Stato dovrebbe intervenire nel campo della famiglia per integrarne le attività.

GIUA propone di mettere in luogo di «Stato» la parola «Repubblica».

MERLIN ANGELINA, Relatrice, tenuto conto delle osservazioni fatte, modifica così la proposta Federici: «La Repubblica assicura alla famiglia le condizioni necessarie alla sua difesa economica e al suo sviluppo». Ha usato la dizione «difesa economica» in quanto ritiene necessario ben precisare il campo in cui si deve esplicare la protezione della famiglia da parte dello Stato.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, fa osservare che già negli altri articoli sono stati risolti i problemi riguardanti la tutela della famiglia nel campo della previdenza e della assistenza; quindi la sua formula, con un contenuto volutamente generico, meglio risponde alle esigenze che non la formulazione troppo impegnativa di «difesa economica», proposta dalla onorevole Merlin.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, ritiene necessaria una maggiore precisazione; potrebbe tuttavia modificare così la dizione: «condizioni economiche necessarie alla sua difesa ed al suo sviluppo».

TAVIANI fa rilevare che l’articolo in discussione va considerato come un richiamo su questo particolare problema, ma, con tutta probabilità, esso verrà a fondersi con altri articoli.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, propone che si dica: «condizioni economiche e sociali», in armonia al tema per il quale è Correlatrice.»

PRESIDENTE propone di dire «condizioni necessarie al suo sviluppo», già adottate nella Carta costituzionale francese.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, dichiara che non le sembra sufficiente, mancando il concetto di difesa che le sembra importante ed al quale non crede di rinunziare.

TAVIANI accetta l’aggettivo «economiche» accanto al sostantivo «condizioni», appunto perché è compito della Commissione occuparsi di garanzie economiche. L’articolo, in sede di coordinamento, richiamerà l’attenzione della Commissione a fondare la difesa della famiglia sulle condizioni economiche, oltre che giuridiche.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, propone la dizione: «condizioni economiche necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo».

TAVIANI per dichiarazione di voto, chiarisce che voterà l’articolo, perché gli riconosce anche un carattere giuridico, alla cui precisa enunciazione rinuncia soltanto in quanto la protezione strettamente giuridica è compito particolare della prima Sottocommissione.

FANFANI ritiene che, dato che la Sottocommissione non si è preoccupata di precisare e fissare l’aspetto giuridico e politico dei problemi da essa affrontati inerenti alla difesa dell’uomo e della donna, si debba anche qui seguire lo stesso criterio. D’altronde, l’articolo proposto sarà assorbito da altre norme in sede di coordinamento. Esso costituisce un suggerimento dato dalla Sottocommissione perché nella formulazione definitiva della Carta costituzionale si tenga presente che alla famiglia spettano garanzie di natura economica e sociale.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, è d’accordo con i colleghi Taviani e Fanfani. Nella sua relazione si è inspirata strettamente al tema delle garanzie economiche e sociali. In questo senso accetta la formulazione della onorevole Merlin, che parla di «condizioni economiche». Vorrebbe insistere sulla parola «sociali», che risponde al tema affidato allo studio della Sottocommissione. Sottintende, in ogni caso, che l’articolo come si prospetta non esaurisce le garanzie dovute alla famiglia.

Si riserva, in sede di coordinamento, di insistere perché si tenga presente che alla famiglia sono dovute garanzie economiche e giuridiche.

DOMINEDÒ accetta la terminologia «economiche», nell’intendimento che tale espressione non debba essere interpretata in senso restrittivo, bensì con riguardo, alle più complesse finalità economico-sociali, che qui possono entrare in giuoco, perché possono palesemente configurarsi ipotesi di trattamento familiare, aventi una funzione sociale che può eccedere il contenuto strettamente edonistico della terminologia economica.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, si associa alla dichiarazione dell’onorevole Dominedò.

PRESIDENTE mette in votazione la formula: «La Repubblica assicura alla famiglia condizioni economiche necessarie alla sua difesa e al suo sviluppo».

(È approvata).

Discussione sulle garanzie economico-sociali del diritto all’affermazione della personalità del cittadino.

GUIA, Relatore, fa notare che gli articoli proposti sono stati concretati in occasione della discussione preliminare, quindi appartengono un po’ a tutti i componenti della Commissione.

Il primo articolo, che tratta dell’istruzione, è così formulato: «L’istruzione è un bone sociale. È dovere dello Stato di organizzare l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti i capaci possano usufruire di essa. L’insegnamento elementare gratuito è obbligatorio per tutti. La frequenza delle scuole di gradi superiori è permessa ai soli capaci. All’istruzione dei ragazzi poveri, che per capacità possano frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali».

Aggiunge che dei sei articoli che fanno parte della relazione dell’onorevole Marchesi, il terzo corrisponde a questo, però contiene espressioni più vaghe nella prima parte; nella seconda parte impegna la Repubblica a mantenere questo insegnamento primario da impartirsi in otto anni, periodo che, secondo l’oratore, è troppo lungo, date le attuali condizioni, mentre domani potrebbe essere anche troppo breve.

Non è poi opportuno dire che le scuole professionali dovranno essere attuate nei cantieri e nelle officine; fin da oggi vi sono grandi fabbriche che hanno provveduto a scuole professionali spontaneamente, anche all’infuori dell’intervento dello Stato. Insiste quindi sulla preferenza da dare all’articolo da lui proposto nei confronti dell’articolo 3 proposto dall’onorevole Marchesi.

Si potrebbe trovare inutile l’affermazione che l’istruzione è un bene sociale; ma tutti sono d’accordo su questo punto di considerare la cultura un bene sociale. È questo un dato di fatto che era stato riconosciuto dallo Stato liberale. Indiscutibile è pure che l’insegnamento elementare debba essere dato gratuitamente dallo Stato; il Marchesi parla di insegnamento primario, ed effettivamente in questo articolo si potrebbe sostituire la parola primario ad elementare.

Insite particolarmente sulla quarta affermazione che la frequenza delle scuole di gradi superiori debba essere permessa ai soli capaci. È una affermazione di principio necessaria per giungere ad una limitazione del numero degli studenti, eliminando coloro che, pur possedendone i mezzi, non hanno la capacità intellettuale di frequentare questi corsi superiori.

In teoria gli esami dovrebbero essere sufficienti a questo scopo, ma, per varie ragioni, in generale ciò non si verifica. Le pressioni o anche le stesse istruzioni ministeriali portano talvolta a tale larghezza di giudizi da produrre quella inflazione di titoli, per la massima parte conseguiti anche senza merito. E basta avere un titolo, anche male acquisito, per occupare talvolta posti direttivi nella burocrazia dello Stato, della quale tutti lamentano il lato negativo.

L’affermazione di questo principio è anche necessaria nel nuovo clima per dare una direttiva a molti giovani che pensano che un titolo universitario sia necessario per crearsi una posizione.

La frequenza all’Università deve essere limitata ai capaci e se questi non hanno mezzi, deve provvedervi lo Stato. Questo principio non solo modificherà la psicologia dei giovani, ma anche quella degli insegnanti, ai quali viene così conferita una grave responsabilità: il dovere, cioè di giudicare i giovani per quello che è la loro vera capacità.

Che all’istruzione dei ragazzi poveri debba provvedere lo Stato crede che non occorra aggiungere spiegazioni.

Fa notare che il concetto che la frequenza alle scuole di grado superiore è permessa solo ai capaci non è fissato in nessuna delle Costituzioni che egli conosce; ma, per le dette ragioni gli sembra necessario; del resto anche nella discussione preliminare ci fu pieno accordo nel riconoscerne la validità.

MARINARO chiede come potrà avvenire l’accertamento della capacità.

Fa considerare che fino ad oggi chi ha conseguito il diploma delle scuole medie ha sempre avuto accesso all’Università, perché è quello il titolo richiesto. Qui con capacità si intende qualche cosa di diverso; lo stesso fascismo aveva tentato di stabilire qualche cosa di simile; per accedere alle Università occorreva che il titolo di studi medi fosse stato conseguito con una certa votazione: sette o otto decimi.

Indipendentemente dalla bontà, del concetto che ha lo scopo di impedire l’inflazione scolastica attuale, che non conferisce serietà agli studi superiori, occorre essere precisi. Fa anche considerare che oggi le Università funzionano assai male, a causa dell’esuberanza degli studenti e della deficienza di personale insegnante; gli esami non si svolgono più con la serietà di una volta; al posto dei professori titolari sono chiamati ad esaminare liberi docenti ed assistenti. Quando la popolazione scolastica supera i trentamila, come avviene a Roma, nei giorni di esame funzionano quattro o cinque commissioni per materia e gli esaminatori sono quasi sempre degli assistenti.

Inoltre ritiene necessario specificare in che cosa consista questa capacità, e stabilire anche in quale epoca occorra fare l’accertamento. Secondo lui, dovrebbe esser fatto abbastanza presto, perché non è umano sbarrare la via dell’Università a chi, magari con sacrificio della famiglia, ha compiuto tutti gli studi liceali.

Concludendo, chiede che si stabilisca il sistema di accertamento di questa idoneità e il momento in cui deve essere fatto.

TAVIANI propone che l’articolo sia messo in votazione per divisione.

PRESIDENTE consente a mettere ai voti l’articolo punto per punto. Pone ai voti il primo punto: «L’istruzione è un bene sociale».

(È approvato).

Dà lettura del secondo punto: «È dovere dello Stato di organizzare l’istruzione di qualsiasi grado, in modo che tutti i capaci possano usufruire di essa».

DOMINEDÒ pensa che l’espressione «capaci» non sia la più opportuna, trattandosi di un termine che giuridicamente assume una significazione tecnica. Converrebbe un’espressione che rivesta una maggiore duttilità e concretezza insieme: ad esempio si potrebbe dire «idonei».

PRESIDENTE osserva che si parla di istruzione di qualsiasi grado, ma poi nell’articolo si accenna solo a quella elementare e a quella superiore; dell’istruzione media non si fa cenno.

GIUA, Relatore, risponde che qui è stata usata l’espressione «qualsiasi grado», ma forse sarebbe meglio dire media e superiore.

MARINARO osserva che quando si parla di un’istruzione superiore si intende riferirsi all’Università.

PRESIDENTE dice che nella relazione Moro è detto «medio e universitario» e il requisito della capacità è richiesto anche per il liceo e l’istituto tecnico.

MOLÈ trova chiaro che il Relatore intende riferirsi alle scuole di grado superiore a quella elementare. Se poi si volesse tener conto delle denominazioni attuali, non si dovrebbe dire solo scuole medie, ma anche tecniche, professionali. Occorre però badare, modificando la terminologia, di non alterare anche il concetto.

PRESIDENTE aggiunge che alle volte accade che la capacità si riveli in alcuni più tardi che in altri.

TAVIANI, poiché vi è accordo sul secondo e terzo punto, chiede che siano messi ai voti per passare poi alla discussione del quarto, dove si tratterà di stabilire se si intende parlare della frequenza nelle scuole di grado superiore alle elementari o a quella di grado superiore che è l’Università.

PRESIDENTE pone ai voti il secondo punto con l’eliminazione della preposizione «di» e la sostituzione della parola «idonei» a «capaci».

«È dovere dello Stato organizzare l’istruzione di qual siasi grado, in modo che tutti gli idonei possano usufruire di essa».

(È approvato).

MOLÈ al terzo punto propone che si dica «L’insegnamento primario elementare è gratuito e obbligatorio per tutti».

(È approvato).

DOMINEDÒ sul quarto punto, si associa alla proposta dell’onorevole Molè che si precisino i limiti e si determini che cosa debba intendersi per gradi superiori. Secondo lui il problema andrebbe circoscritto nei confronti dell’insegnamento universitario.

GIUA, Relatore, aggiungerebbe anche il liceo classico.

DOMINEDÒ osserva che, indipendentemente da ciò, considerata la grande delicatezza della norma, ne andrebbe ben precisato il significato. Quando si dice «è permesso ai soli idonei» o si fa una affermazione generica che non dice nulla perché l’idoneità giuridicamente sta nel fatto di avere conseguito il titolo idoneo per l’ammissione agli studi superiori, ovvero s’intende dire qualcosa di nuovo per affrontare il problema dell’inflazione dei titoli universitari, e ciò va chiarito.

Usciti dal periodo bellico si tende già verso una ripresa degli studi: si tratta di stabilire se in sede di Costituzione convenga sancire qualche norma organica in vista di rinvigorire il tono dell’insegnamento superiore. Si dovranno forse contemplare, oltre al titolo di ammissione all’Università, ulteriori requisiti di idoneità? Nell’ordinamento vigente qualche precedente esiste: per l’ammissione alle facoltà di magistero si richiede un esame specifico oltre il diploma magistrale; qualche cosa di simile è stato proposto per le facoltà di economia. Converrà che queste od altre norme siano previste nei confronti di altre facoltà, in sede di riforma universitaria? Sembrerebbe allora opportuno che in sede di Costituzione questa esigenza sia prospettata, pur genericamente.

Si potrebbe dire: «L’istruzione superiore deve essere di regola, ecc.».

MERLIN ANGELINA ricorda che quando si discusse sulla relazione Giua, essa aveva già prospettato quanto ha detto oggi l’onorevole Dominedò, anzi aveva citato quanto fa l’Università cattolica per la scuola di magistero. Ritiene però che questo accertamento andrebbe fatto prima dell’ammissione al liceo. Molti che arrestano i loro studi alla licenza liceale trovano impedimenti ad occupare impieghi che invece sono facilmente ricoperti da coloro che hanno frequentato le scuole di avviamento, perché c’è il pregiudizio che i licenziati dal liceo siano incapaci nella vita pratica. Quindi sarebbe del parere che alla Università si dovesse accedere con la licenza liceale, e che a frequentare il liceo fossero ammessi i giovani che dimostrassero una vera capacità; quindi l’accertamento andrebbe fatto all’ingresso al liceo.

TAVIANI accetta il concetto esposto dal Relatore, ma non farebbe tante specificazioni. Se si vuole che gli idonei, anche se di classi povere, possano salire ai gradi superiori della cultura, è indispensabile eliminare gli agiati che vanno avanti solo per mezzo di raccomandazioni; ma non gli pare che questa sia materia di Costituzione, sarà materia di riforma scolastica.

MOLÈ propone di modificare la dizione. Il problema posto dall’onorevole Dominedò preoccupa quanti si interessano di questioni scolastiche. Ci sono degli incapaci che giungono ai gradi superiori, ma qui subentra la responsabilità dei professori, perché attraverso la loro valutazione dovrebbe aversi la soluzione. Questa inflazione di laureati provoca anche la mortificazione dei migliori.

Stabilire il modo di accertare l’idoneità è un problema difficile; normalmente dovrebbe bastare la valutazione dei professori che hanno la possibilità di seguire, durante il corso, i loro discepoli e di esserne i migliori giudici. Fondarsi su un solo esame può, come avviene nei concorsi, non essere sufficiente a giudicare della idoneità. Accetta il concetto del Relatore, ma lo vorrebbe rendere meno drastico. Si potrebbe dire: «L’insegnamento primario è gratuito e obbligatorio per tutti; le scuole di grado superiore sono accessibili a coloro che si dimostrino idonei».

Il modo come accertare l’idoneità dovrebbe formare oggetto di legge o di regolamento.

Chiede poi perché negare la possibilità di studiare a coloro che ne hanno voglia, quando non costituisca onere per lo Stato.

FEDERICI MARTA, Correlatrice, si associa.

GIUA, Relatore, insiste nella sua dizione e anche nel mantenimento di «capacità» in luogo di «idoneità», perché parlare di idoneità sminuirebbe il concetto.

Contentandosi di un’affermazione generica, come ha proposto l’onorevole Molè, non si influirebbe né sul legislatore, né sulla psicologia degli insegnanti.

È necessario lasciare nella Costituzione questa affermazione per fissare le direttive del legislatore, e insiste perché, se non si vuol fare una cosa astratta, occorre preoccuparsi della legislazione futura. L’affermazione è drastica, ma non si debbono avere le preoccupazioni dell’onorevole Marinaro, se si vuol giungere alla auspicata riforma scolastica delle Università e delle scuole di grado superiore, quali il Liceo. Ha usato l’espressione: «la frequenza» e non l’altra «l’accesso» perché l’insegnante deve avere la possibilità di escludere chi non si dimostra capace anche durante il periodo delle lezioni.

Ricorda che la scuola di ingegneria consta di due bienni, ed è stato merito del Colonnetti, direttore del Politecnico di Torino, di avere ottenuto una notevolissima riduzione del numero degli iscritti, avendo stabilito esami molto rigorosi per il passaggio dal primo al secondo biennio; così rigorosi che gli studenti preferivano recarsi a sostenere quell’esame a Milano, dove pure la scuola, sotto il Colombo, era retta molto rigidamente

MOLÈ osserva che si tratta, in definitiva, di materia regolamentare.

GIUA, Relatore, sostiene che il legislatore e gli stessi insegnanti debbono vedere affermato nella Costituzione il principio che la frequenza alle scuole superiori è permessa ai soli capaci. La norma ha funzione giuridica e psicologica, perché formativa del carattere degli insegnanti degli allievi. Una volta riconosciuto che il Liceo classico è aperto solo a chi ha una determinata formazione mentale, e l’Università deve essere frequentata solo dai capaci, non sarà impedita l’esplicazione di altre energie; ognuno potrà scegliere il più adatto per lui dei tanti tipi di scuola.

La laurea non è il titolo che permette sempre di raggiungere le maggiori retribuzioni; è il titolo che deve essere ambito da chi alla quantità preferisce la qualità della retribuzione. Un professore universitario non è sempre meglio retribuito di un capo officina.

MOLÈ ripete che la delicatezza della disposizione sta nello stabilire il modo di accertare la capacità. Egli direbbe: «Le scuole di grado superiore sono accessibili solo a coloro che ne risultino capaci».

PRESIDENTE chiede al Relatore se non riscontra disarmonia fra questi punti dell’articolo e l’articolo primo, dove è affermato che ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità e scelta. Espone anche un altro dubbio: ci può essere qualcuno che voglia accedere alle scuole di grado superiore solo per accrescere il suo patrimonio intellettuale. Poiché non siamo in regime socialista, ma in regime borghese, possiamo impedirgli di raggiungere questa aspirazione?

Quello che più preme è di evitare che accedano alle professioni libere persone che non ne sono capaci, con danno di quelli che sono capaci, e che si determini quella inflazione di professionisti che ha prodotto tanti guai. Sarebbe forse meglio raggiunto lo scopo accertando la capacità prima di iniziare l’esercizio della professione.

TAVIANI obietta che in questo modo si creerebbero degli spostati.

MARINARO precisa il suo pensiero. È pienamente d’accordo col Relatore sui principî generali, ma si preoccupa del modo e del momento più adatti per fare l’accertamento della capacità. Non è d’accordo con l’onorevole Molè, quando dice che questo può formare oggetto di legge o di regolamento. Domani un Ministro, o un direttore generale della pubblica istruzione, può emanare un regolamento in cui si dica: ai sensi dello Statuto l’accertamento della capacità deve essere fatto in questo modo. Sarebbe un’arma pericolosissima nelle mani della burocrazia e degli uomini politici. Quindi riafferma il concetto che le Università vanno aperte ai capaci e invita i colleghi a studiare una formula idonea ad accertare il modo e il momento della indagine.

DOMINEDÒ chiede che si abbandoni una formula priva di contenuto per conferirvi un significato concreto, sia pur generico.

MOLÈ propone che si dica: «sono accessibili a coloro che ne abbiano la capacità».

DOMINEDÒ direbbe piuttosto «attitudini».

GIUA, Relatore, propone che si dica: «Le scuole di grado superiore sono accessibili a coloro che ne abbiano attitudine».

PRESIDENTE terrebbe presente anche il concetto della frequenza, perché la capacità può rivelarsi anche tardivamente.

COLITTO propone la formula: «Le scuole di gradi superiori sono accessibili a coloro che dimostrino le necessarie attitudini».

PRESIDENTE pone ai voti questa formula.

(È approvata).

PRESIDENTE apre la discussione sull’ultimo punto dell’articolo proposto dallo onorevole Giua, così concepito: «All’istruzione dei ragazzi poveri, che per capacità possano frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali».

MOLÈ ritiene che sia meglio mettere al posto del termine: «capacità» la frase «che siano meritevoli».

DOMINEDÒ si associa alla proposta dell’onorevole Molè.

GIUA, Relatore, accetta l’emendamento proposto dall’onorevole Molè e pertanto dichiara che la formulazione dovrebbe essere: «All’istruzione dei poveri, che siano meritevoli di frequentare le scuole di gradi superiori, lo Stato provvede con aiuti materiali».

PRESIDENTE mette ai voti l’ultimo punto dell’articolo nella forma ora proposta dall’onorevole Giua.

(È approvato).

La sedata termina alle 11.15.

Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Colitto, Dominedò, Fanfani, Federici Maria, Giua, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Rapelli, Taviani.

Assenti giustificati: Togni, Di Vittorio, Pesenti.

Assenti: Canevari, Lombardo Ivan Matteo, Paratore.

MERCOLEDÌ 18 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

7.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 18 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (Seguito della discussione)

Presidente – Merlin Angelina, Relatrice – Molè – Giua – Noce Teresa, Correlatrice – Taviani – Fanfani – Togni – Marinaro – Paratore – Federici Maria, Correlatrice.

La seduta comincia alle 10.35.

Seguito della discussione sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia.

PRESIDENTE pone ai voti il seguente comma, presentato dall’onorevole Fanfani, da aggiungere all’articolo riguardante i diritti al lavoro: «Alla donna lavoratrice sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano ai lavoratori».

(È approvato).

Rileva che, pertanto, l’articolo riguardante i diritti al lavoro rimane così formulato: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionale alla quantità ed alla qualità del lavoro e adeguata alle necessità personali e familiari.

«Alla donna lavoratrice sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano ai lavoratori».

Ricorda che nella precedente seduta è rimasta sospesa la discussione su alcuni articoli riguardanti la famiglia. Un primo articolo, presentato dall’onorevole Colitto, è così formulato: «Lo Stato ha tra i suoi compiti la protezione della maternità, della filiazione legittima ed illegittima, e della famiglia».

Vi è poi un secondo articolo proposto dalla onorevole Federici, così concepito: «Alla famiglia verranno assicurati, con opportune provvidenze, in materia di retribuzione, in fatto di acquisto e conservazione del patrimonio familiare, di tutela della madre e dei figli, di direzione nell’istruzione ed educazione dei propri membri, di previdenza ed assistenza, di ordinamenti finanziari, una difesa ed uno sviluppo consoni al bene della famiglia stessa e dell’intera società».

Un terzo articolo è stato proposto dalla onorevole Noce, così formulato: «La Repubblica riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia. Lo Stato italiano garantisce perciò ad ogni donna, qualunque sia la sua posizione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche ed igienico-sanitarie, e a tutti i bambini legittimi od illegittimi un minimo di protezione e di cura da parte della società, a cominciare dal momento stesso in cui vengono a farne parte. Istituzioni scolastiche, assistenziali, previdenziali devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

Infine, l’onorevole Fanfani, riunendo le proposte delle onorevoli Noce e Federici con quelle fatte dalla onorevole Merlin nella sua relazione, ha proposto il seguente articolo: «La Repubblica Italiana riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare, le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali, scolastiche, create o integrate, ove occorra, dallo Stato, devoto tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

Tenendo conto di tali proposte, ha ritenuto opportuno dare alla prima parte dell’articolo una nuova formulazione la quale, oltre a riassumere i pregi di quelli presentati dalle tre Relatrici, ha quello della brevità. Ne dà lettura: «La Repubblica riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia; predispone le istituzioni ed i mezzi valevoli ad assicurare all’infanzia ed alle gestanti, indipendentemente dallo stato civile, le condizioni umane di igiene e di trattamento morale, economico e sanitario».

MERLIN ANGELINA, Relatrice, ritiene che il termine «umane» sia troppo vago.

PRESIDENTE risponde che tale termine presenta una certa elasticità di significato, comprendendo anche il concetto della solidarietà.

Chiarisce poi che la frase dell’articolo proposto dall’onorevole Fanfani: «le condizioni di lavoro devono consentire il pieno adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità» va riferita ai bisogni della lavoratrice, specialmente nel delicato periodo che precede e segue il parto.

Ritiene inoltre opportuna l’inversione dell’enunciazione, dicendosi «istituzioni previdenziali, assistenziali, scolastiche» per una maggiore aderenza a quelli che sono i successivi compiti di protezione da parte dello Stato.

L’inciso «integrate, ove occorra, dallo Stato» si riferisce a quelle previdenze di ordine privato che, ove vangano a mancare, debbono essere integrare dallo Stato. Nell’ultima parte preferirebbe usare il termine «fanciullo», piuttosto che «bambino», perché è giusto che l’assistenza non sia limitata soltanto al primo periodo dell’infanzia.

MOLE non concorda col Presidente sul termine «fanciullo», che fa supporre un eccessivo e prolungato intervento da parte dello Stato.

GIUA propone di coordinare la seconda parte dell’articolo presentato dal Presidente con le proposte dello onorevoli Relatrici.

NOCE TERESA, Correlatrice, rileva che la Sottocommissione è d’accordo sui concetti delle proposte; vi è solo divergenza sulla formula da adottare. Per esempio, il Presidente, nella sua proposta, ha usato il termine «gestanti» che si riferisce ad un periodo di tempo troppo limitato, contro l’intenzione stessa del proponente. Preferirebbe il termine «donna», più lato del termine «gestante».

TAVIANI propone l’adozione del termine «madre».

NOCE TERESA, Correlatrice, preferirebbe la dizione «condizioni di procreazione», in quanto il termine «madre» è attributo della donna, anche quando ha una prole già maggiorenne. Pur tuttavia ritiene migliore il termine «donna», col quale si viene a specificare che i mezzi di assistenza non devono essere limitali al solo periodo della gestazione.

Invece di «umane», desidererebbe una dizione più precisa, come, per esempio, «buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie».

PRESIDENTE risponde che la parola «umane» ha un significato più ampio: al concetto economico unisce anche quello morale.

MOLÈ rileva che non è necessario fare tante precisazioni. C’è il rischio di promettere quello che poi lo Stato non potrà dare.

NOCE TERESA, Correlatrice, insiste sulla formulazione «buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie», spiegando che l’aggettivo buone deve essere inteso in senso relativo e non assoluto, cioè in rapporto al periodo in cui si vive.

MOLÈ osserva che i francesi hanno così formulato i problemi della famiglia nella loro Costituzione: «La Nazione assicura alla famiglia le condizioni necessarie al suo sviluppo; garantisce all’infanzia, alla madre, ai vecchi lavoratori, l’assicurazione materiale, il riposo e lo svago, ecc.», incasellando in una brevissima enunciazione tutto quello che lo Stato può fare in una determinata epoca.

GIUA osserva che anche queste sono affermazioni astratte.

PRESIDENTE dichiara di essere convinto della necessità di non usare parole limitative, e appunto perciò ha usato il termine «umane», che gli sembra più comprensivo.

MOLÈ concorda con l’onorevole Presidente, perché «trattamento umano» è una frase che permette di fare tutto il bene possibile.

NOCE TERESA, Correlatrice, non è contraria all’adozione del termine «umane», purché si metta in luce il fattore economico, che ha oggi un’importanza non indifferente.

PRESIDENTE propone di dire «condizioni umane con trattamento economico ed igienico adeguato».

NOCE TERESA, Correlatrice, preferirebbe la formula: «condizioni umane con un trattamento economico». Ricorda all’onorevole Presidente che le condizioni odierne in materia di maternità e di infanzia sono tutt’altro che umane, appunto perché mancano le basi economiche. Per quanto riguarda l’ultima parte «istituzioni previdenziali, assistenziali, scolastiche, create o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo del fanciullo», toglierebbe l’inciso «create o integrate dallo Stato» che ritiene pleonastico.

PRESIDENTE ritiene opportuna l’aggiunta della parola «create», non ritenendo sufficiente dire integrate dallo Stato. Manterrebbe poi tutto l’inciso, perché vi possono essere previdenze assistenziali che, effettuate da privati, non provengono dallo Stato e non sarebbe ragionevole impedire all’iniziativa privata di venire in aiuto della donna e del neonato.

NOCE TERESA, Correlatrice, pensa che lo Stato deve creare quello che non c’è. Se nella Costituzione si riconosce che esiste già qualche cosa, si diminuisce la necessità dell’intervento statale. Del resto quello che già esiste a questo riguardo è così poco che, consacrarlo nella Costituzione, sarebbe un non senso.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, in merito alle relazioni delle onorevoli Federici e Noce, osserva che lo specificare troppo finirà per limitare in futuro lo sviluppo della previdenza, come pure non si deve promettere per il momento ciò che non si può mantenere. Perciò le sue proposte non erano vaghe, ma più concise, e lasciavano adito ad interpretazioni e manifestazioni assistenziali reali, tanto per il presente che per il futuro. Insiste pertanto perché venga accolto il suo articolo, o quello dell’onorevole Fanfani, che al suo si inspira.

PRESIDENTE ritiene che una Carta costituzionale non debba lasciare una libertà assoluta per la futura legislazione, ma dare direttive, non registrare solamente il passato; provvedere insomma anche per l’avvenire con indirizzo democratico.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, non trova necessario usare molte parole; ad esempio non si dovrebbe parlare di condizioni di igiene.

PRESIDENTE spiega che con le parole «di igiene» comprendesi anche la previdenza sanitaria.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, pensa che la parola «umane» sia più comprensiva: previdenze igieniche e sanitarie sono cose diverse. Volendo poi specificare, andrebbe considerata anche la parte assistenziale ed educativa.

FANFANI, riferendosi a quanto hanno detto le onorevoli Merlin, Noce e il Presidente, constata che la prima parte dell’articolo con le modificazioni proposte dal Presidente trova l’unanime consenso della Sottocommissione. Lo stesso dicasi dell’ultima parte che dice: «Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, create o integrate, ove occorre, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo». La discussione verte quindi sulla parte centrale dell’articolo. Al fine di trovare una soluzione, propone o di riprendere in esame l’articolo che era stato da lui presentato e che si inspirava alla precedente formulazione della onorevole Merlin, e che diceva: «In particolare, le condizioni di lavoro debbono consentire il completo adempimento della funzione e dei doveri della maternità»; oppure, per prendere in considerazione le particolari condizioni della maternità e cioè i periodi di gestazione e di allattamento, manipolare diversamente questa parte centrale, oppure includere un accenno alla madre dove si parla di istituzioni scolastiche, assistenziali, ecc. Aggiunge che anche qui vanno tenuti presenti, per ragioni di proporzioni e di armonia, i criteri finora seguiti, di fare cioè una enunciazione delle direttive di massima, senza scendere ai particolari. L’articolo va formulato con il minor numero di parole, ma bene appropriate, che non costringano a tutte le specificazioni richieste dalla signora Noce.

TOGNI, riferendosi all’articolo proposto dalla onorevole Merlin, non trova opportuno parlare di una previdenza da estendersi a qualsiasi madre e a qualsiasi bambino, sia legittimo che illegittimo; in quanto la norma potrebbe sembrare in sostanza un incoraggiamento alla formazione della famiglia illegittima;

FANFANI si associa al rilievo fatto dall’onorevole Togni.

PRESIDENTE dicendo «indipendentemente dallo stato civile» intende riferirsi tanto alla gestante che al bambino. E poiché ci si riferisce a neonati, ritiene che tutti debbano essere posti sullo stesso piano, qualunque sia il loro stato civile, e ciò a prescindere da quelle che possono essere le idee morali e religiose di ciascuno.

TOGNI rileva che sostanzialmente ci deve essere una parità di trattamento. Col termine generico di «gestanti e neonati» non si esclude nessuno, mentre con l’inciso si dà l’impressione di voler sottolineare una azione che dovrebbe essere eccezionale. Pertanto il figlio illegittimo deve essere tutelato per un sentimento di solidarietà umana, ma non si deve cercare di svalutare il rapporto legittimo, mettendolo ufficialmente e legalmente sullo stesso piano dell’illegittimo.

PRESIDENTE obietta che quando si emana una disposizione di legge, perché il significato ne sia preciso e presente alla coscienza di chi dovrà interpretarla, occorre riferirsi alla situazione di fatto nella quale è sorta. Sta di fatto che oggi, nei rapporti di diritto privato, il figlio illegittimo ha un trattamento diverso da quello del figlio legittimo.

TAVIANI ritiene che la semplice dizione «ogni bambino e ogni gestante» sia sufficiente.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che è giusto non formulare articoli che contengano eccessive specificazioni, ma bisogna anche tener presente la necessità, già esposta dall’onorevole Presidente, di dare precise direttive per la legislazione che dovrà conformarsi alla Carta costituzionale. Non è del parere della onorevole Merlin di dare una troppo ampia libertà al legislatore, in quanto la Carta costituzionale deve segnare un preciso indirizzo democratico e avere un’impronta di progresso.

Per quanto riguarda la preoccupazione manifestata dall’onorevole Togni, pur riconoscendola giusta, non la ritiene adeguata al caso in questione, in quanto con la dizione usata si è inteso proteggere tutte le gestanti, per il solo fatto di essere gestanti, qualunque sia la loro situazione sociale e giuridica; intendendo come situazione giuridica lo stato civile, e col termine «sociale» soprattutto la situazione economica. Per quanto riguarda i bambini, ritiene che la Sottocommissione sarà d’accordo che, legittimi o illegittimi, tutti hanno diritto ad un minimo di protezione e di cure. Vi sono disposizioni speciali per le madri nubili, ma spesso molte di queste madri, poco dopo aver data alla luce il figlio, lo abbandonano e lo Stato non se ne occupa. Con la nuova Costituzione va affermato che lo Stato deve intervenire anche in questo campo, dove attualmente le previdenze sono molto scarse, con un minimo di protezione. Si eviterà così che la prole abbandonata a se stessa vada ad alimentare il vizio e la delinquenza. Tale affermazione di principio non vuol dire, però, la parificazione in tutti i diritti della prole legittima a quella illegittima.

TOGNI insiste sui concetti già espressi. Il termine di «gestanti e bambini» è sufficiente per chiarire che la protezione va estesa a tutti, mentre l’inclusione dell’inciso può dare l’impressione che si voglia sottolineare una parità di trattamento nei due casi, che non è nell’intenzione della Sottocommissione e che svaluterebbe il principio della legittimità.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, per quanto riguarda l’osservazione fatta dall’onorevole Togni, fa rilevare che nella relazione da lei presentata è detto che «nessuna differenza è fatta qui, come, è ovvio, fra figli illegittimi e legittimi, anticipazione di quella giusta riforma che avrà la sua sede nel Codice civile, tendente all’equiparazione di diritti ad ogni effetto delle due categorie di esseri che uguali diritti hanno alla vita». Insiste pertanto per la dizione dell’articolo proposto d’accordo con l’onorevole Fanfani, così formulato: «La Repubblica Italiana riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento della funzione e dei doveri della maternità. Istituzioni scolastiche, assistenziali e previdenziali, create o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

GIUA propone che alla fine dell’articolo si dica: «ogni fanciullo legittimo o illegittimo».

NOCE TERESA, Correlatrice, rileva che nell’articolo proposto dalla onorevole Merlin mancano tutte le specificazioni incluse nella seconda parte dell’articolo dell’onorevole Ghidini, che erano considerate nell’articolo da lei formulato.

PRESIDENTE porrà in votazione i due articoli che riassumono le due tendenze in discussione, uno suo e della onorevole Noce e quello delle onorevoli Federici e Merlin.

Dà quindi lettura dell’articolo nella seguente forma proposta da lui e dalla onorevole Noce: «La Repubblica riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia; predispone le istituzioni e i mezzi valevoli ad assicurare ad ogni madre e ad ogni bambino, indipendentemente dal loro stato civile, condizioni umane di trattamento economico e sanitario. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, create o integrate dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

Legge quindi l’articolo presentato dalle onorevoli Merlin e Federici, così concepito:

«La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare, le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità. Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

MARINARO dichiara che voterà l’articolo proposto dalle onorevoli Merlin e Federici, in quanto quello degli onorevoli Ghidini e Noce prevede la predisposizione dei mezzi da parte dello Stato, concetto che non può essere approvato, perché troppo impegnativo per lo Stato stesso. Sugli altri concetti, ritiene che sostanzialmente le due proposte collimino; tuttavia l’articolo presentato dalle onorevoli Merlin e Federici ha il pregio di una maggiore snellezza e semplicità, pur non trascurando tutto quello che è previsto nella proposta Ghidini-Noce.

PRESIDENTE non può condividere la preoccupazione dell’onorevole Marinaro. L’affermare un diritto non esclude che non possa essere messo in atto per ragioni economiche; ciò non toglie che l’affermazione vada fatta per incitare lo Stato a predisporre i mezzi.

FANFANI parla per dichiarazione di voto. Osserva che nell’articolo formulato dalle onorevoli Merlin e Federici non manca l’impegno per lo Stato a predisporre i mezzi per la protezione della maternità, in quanto le istituzioni sono i mezzi adeguati a proteggere sufficientemente ogni madre ed è ovvio che tale protezione non si limiterà al periodo di gestazione, ma si estenderà ad un congruo periodo di tempo, e non soltanto alle minime necessità. Dichiara che darà voto contrario alla proposta Ghidini-Noce, pur riconoscendo che i concetti sono gli stessi.

PARATORE si associa a quanto ha detto l’onorevole Fanfani. Nella formulazione Merlin-Federici preferirebbe il termine «nazionale» a quello «sociale», in quanto il problema dell’assistenza interessa la Nazione. Non trova felice l’espressione «mezzi valevoli», contenuta nell’articolo Noce-Ghidini, che può limitare il campo all’intervento dello Stato in materia di assistenza della maternità.

Dichiara quindi che voterà l’ordine del giorno Federici-Merlin.

TAVIANI, preso atto che è stato tolto l’inciso riguardante i figli legittimi ed illegittimi, rileva che fra i due ordini del giorno non vi sono differenze sostanziali. Voterà per quello Federici-Merlin, in quanto lo ritiene più efficace e più snello nella formulazione.

PRESIDENTE pone ai voli l’articolo da lui proposto in accordo con la onorevole Noce.

(Non è approvato).

Pone ai voti l’articolo proposto dalle onorevoli Merlin e Federici.

(È approvato).

PRESIDENTE apre la discussione sulla proposta dell’articolo della onorevole Federici così formulato: «Alla famiglia verranno assicurate, con opportune provvidenze in materia di retribuzione, in fatto di acquisto e conservazione del patrimonio familiare, di tutela della madre e dei figli, di direzione nella istruzione dei propri membri, di previdenza ed assistenza, di ordinamenti finanziari, una difesa e uno sviluppo consoni al bene della famiglia stessa e dell’intera società».

FEDERICI MARIA, Correlatrice, ritiene che, dopo aver illustrato il concetto che la maternità e l’infanzia riguardano la famiglia, restano da considerare i casi in cui esse si trovano fuori dall’ordinamento giuridico e tradizionale della famiglia. Ha quindi pensato di trasferire questa materia, come anche quanto riguarda le condizioni di lavoro e le istituzioni assistenziali, previdenziali e scolastiche, in un articolo a parte. L’argomento sul quale doveva riferire è l’assistenza alla famiglia. L’articolo votato precedentemente si deve considerare come un coordinamento tra quanto è stato discusso in sede di assistenza e in tema di lavoro, pur non riguardando entrambi la famiglia come tale: la relazione da lei presentata riguarda invece la famiglia intesa come tale, pur tenendo presente anche il problema dell’infanzia e della maternità, per le previdenze che le spettano di diritto.

La famiglia è la base della società, secondo il nostro ordinamento sociale, ed è una istituzione naturale con diritti inalienabili (da alcuni anzi le si riconosce un’origine divina), per i quali occorrono delle garanzie. La famiglia ha dei fini naturali, individuali, sociali da raggiungere, che vanno tenuti presenti nel determinare le garanzie. Lo Stato deve assicurare una tutela ed uno sviluppo alla famiglia; e tutte le Costituzioni, ad eccezione di quella russa, dove, in nessun capitolo, si parla della famiglia, stabiliscono che lo Stato deve queste garanzie. Perfino la Costituzione francese del 1848 riconosce che la famiglia è la base della Repubblica e quindi lo Stato deve ad essa una speciale protezione.

MOLÈ chiede che cosa garantiva questa Costituzione alla famiglia.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, risponde che la riconosceva come base della Repubblica.

PRESIDENTE, sull’articolo proposto dalla onorevole Federici, osserva che diversi elementi in esso contenuti sono già stati trattati, o lo saranno, in altri temi. Infatti, del patrimonio familiare si parla nella relazione dell’onorevole Fanfani, dove si tratta della proprietà. Del tema della madre e dei figli si tratta in altri punti, ed in particolare nella relazione dell’onorevole Giua. Previdenza ed assistenza formano oggetto di temi speciali; quindi, a suo parere, l’articolo andrebbe ridotto al minimo. Trova perspicua la formulazione contenuta nel progetto francese, che dice: «La Nazione assicura all’individuo e alla famiglia le condizioni necessarie al loro sviluppo». Propone di limitare la disposizione ad un’enunciazione analoga. Si potrebbe quindi semplicemente dire che lo Stato ha l’obbligo di conseguire il migliore sviluppo della famiglia.

TAVIANI si associa a quanto ha detto il Presidente. Tutto quello che è esposto nell’articolo in esame corrisponde al suo pensiero; ma non ritiene però necessario che tali concetti appaiano nell’articolo proposto, in quanto, in materia di retribuzione è stato già votato l’articolo proposto dall’onorevole Fanfani che riguarda espressamente il salario familiare. Il problema dell’acquisto e della conservazione del patrimonio familiare dovrà essere esaminato insieme a quello della proprietà; e lo stesso si deve dire per quello che riguarda l’istruzione è l’educazione, a meno che l’onorevole Giua non rinunci a farne espressamente oggetto della sua relazione.

MOLÈ ritiene che debba essere l’onorevole Giua a trattare l’argomento.

FANFANI fa presente che nel trattare della questione della previdenza e dell’assistenza non si è fatto riferimento alla famiglia, mentre esiste una differenza fra l’assistenza concessa all’individuo e quella concessa alla famiglia.

TAVIANI, concordando con l’onorevole Fanfani, ritiene che una specificazione in materia, o negli articoli riguardanti l’assistenza,

o in quello in esame sia necessaria. L’ultima parte dell’articolo, riguardante lo sviluppo della famiglia, si ricollega a quanto era stato posto in rilievo nella relazione dell’onorevole Noce; non sa se questa voglia insistere su tali dettagli, ma vi sono elementi che vanno tenuti presenti nell’espressione che sancisce il dovere da parte dello Stato di fare qualche cosa di più per la famiglia. Così, per esempio, nella relazione presentata dall’onorevole Corsanego, all’articolo 5 si dice che lo Stato prenderà appropriale misure per facilitare ai meno abbienti la formazione di una famiglia. Chiede che ci sia, o in questo articolo od in una aggiunta, una definizione che consideri le esigenze della famiglia in fatto di assistenza, di previdenza e di sviluppo.

PRESIDENTE, dato che nell’articolo proposto si parla di un libero sviluppo della famiglia, ritiene necessario aggiungere un accenno alla libera costituzione della famiglia stessa, in quanto vi sono oggi delle leggi che hanno decretato degli impedimenti, quali, ad esempio, quelli di carattere razziale.

MOLÈ ritiene che, con la proposta dell’onorevole Presidente, si invada un campo che non interessa la Sottocommissione, in quanto razza e nazionalità sono già considerate nella dichiarazione dei diritti dell’uomo. Osserva piuttosto che nella relazione della onorevole Federici si parla della proprietà familiare ed in particolare della casa e dei poderi, senza specificare come deve essere intesa questa proprietà di famiglia. Poiché ritiene che l’argomento sia di difficile soluzione, è del parere di non farne cenno nella Carta costituzionale, in quanto basta l’affermazione della tutela e dello sviluppo della famiglia.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, dichiara di non aver nulla in contrario a sopprimere la parte cui ha accennato l’onorevole Molè.

MARINARO propone che l’articolo proposto dalla onorevole Federici sia così emendato: «Lo Stato assicura alla famiglia una difesa ed uno sviluppo consoni alle sue finalità ed al bene sociale della Nazione».

NOCE TERESA, Correlatrice, dichiara di aver rinunciato all’articolo da lei formulato sulla famiglia, per le obiezioni mossegli dai colleghi, ripromettendosi tuttavia di far entrare in un altro articolo i suoi concetti, tendenti ad abolire ogni ostacolo alla formazione della famiglia e a consentire che essa non venga divisa per ragioni di impiego. Aveva soprasseduto nella sua proposta, in quanto si era convinta che il problema riguardasse più strettamente la prima Sottocommissione, che si interessa dei diritti del cittadino; ma deve ora dichiarare che se la discussione viene riportata su tale punto, insisterà per l’accoglimento della sua proposta.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, si associa a quanto ha detto la onorevole Noce. Anch’essa aveva rinunciato a parlare dell’esistenza della famiglia, e, pertanto, propone che la onorevole Federici ritiri la sua proposta, in quanto la materia non è di competenza della terza Sottocommissione.

MOLÈ si associa a quanto ha dichiarato la onorevole Merlin, ritenendo che la considerazione della famiglia, come ente giuridico morale, sia di pertinenza della prima Sottocommissione. Il compito della terza Sottocommissione è solo quello di enunciare indirizzi di ordine generale nel campo economico-sociale, senza sconfinare in altri settori.

PRESIDENTE ritiene che, essendo la Sottocommissione in sostanza d’accordo, la questione verte sul fatto di trovare una formula che accontenti le diverse esigenze. È del parere che l’articolo debba essere lapidario, sommamente conciso, dato che quasi tutti i concetti sono contenuti in altri articoli.

TAVIANI potrebbe essere d’accordo con l’onorevole Molè di non trattare nessuno dei casi specifici, ma allora non si dovrebbero neppure conservare gli articoli sull’assistenza, dato che molte Costituzioni non ne parlano. Essendo entrati nell’ordine di idee di formare articoli brevi e concisi, che specifichino però alcuni problemi, ritiene che quando nella Costituzione si parla di assistenza dell’individuo sia necessario anche accennare a quella della famiglia, ad evitare, per esempio, che il Governo possa, se crede, compiere delle trasmigrazioni in massa di persone da una regione all’altra, senza tener conto delle necessità delle famiglie.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, fa notare che tutto il lavoro svolto dalla Sottocommissione sarà riveduto in sede di coordinamento ed allora sarà forse possibile raggruppare taluni articoli, mentre altri saranno tolti perché di materia già contenuta in quelli approvati dalle altre Sottocommissioni. Ritiene pertanto che compito della Sottocommissione sia quello di esaurire gli argomenti che è stata incaricata di studiare; fra questi vi è la garanzia economico-sociale per l’assistenza della famiglia. Dato che negli altri argomenti, finora esaminati, è sempre stato tenuto conto dell’individuo, è necessario che venga presa ora in esame la famiglia e che sia affermato che essa ha bisogno di garanzie, che non sempre sono le stesse dell’individuo. In considerazione di ciò si era preoccupata di mettere a fuoco, nell’articolo proposto, le garanzie di ordine economico-sociale che si debbono dare alla famiglia. Ma, dato che molti punti sono contenuti in altre relazioni, propone di ridurre l’articolo alla seguente affermazione: «Alla famiglia spetta una difesa ed uno sviluppo».

MOLÈ rileva che nella Costituzione francese le affermazioni contenute nel preambolo non sono ripetute nella parte riguardante le garanzie economico-sociali. Ritiene che l’articolo sia superfluo e da non approvare, poiché è implicito che la famiglia dovrà essere protetta e difesa dallo Stato, in quanto base dello Stato stesso.

PRESIDENTE dichiara che metterà ai voti la proposta dell’onorevole Molè di non approvare l’articolo e successivamente l’articolo della onorevole Federici e infine quello dell’onorevole Marinaro.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, fa presente che la Sottocommissione non raggiunge il numero legale.

PRESIDENTE, prendendo atto del rilievo della onorevole Federici, rinvia a domani giovedì 19 settembre il seguito della discussione.

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Colitto, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Lombardo, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Rapelli, Taviani, Togni.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Pesenti.

Assente: Dominedò.

VENERDÌ 13 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

6.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 13 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

 

INDICE

Garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (Discussione)

Merlin Angelina, Relatrice – Molè – Fanfani – Presidente – Federici Maria, Correlatrice – Noce Teresa, Correlatrice – Colitto.

La seduta comincia alle 15.25.

Discussione sulle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, dichiara di non aver nulla da aggiungere a quanto ha esposto nella sua relazione e che si riassume nei tre articoli proposti.

Il primo articolo afferma il principio che si devono dare garanzie economico-sociali all’individuo perché, se in un certo momento della sua vita volesse formarsi una famiglia, non si trovi ostacolato dalle sue condizioni economiche. Ha già in precedenza dichiarato che a questo primo articolo avrebbe rinunciato se tale principio fosse stato accolto in altra parte della Costituzione.

In questo primo articolo aveva anche affermato il diritto dell’individuo al minimo necessario per l’esistenza, e precisamente agli alimenti, agli indumenti, all’abitazione e all’assistenza sanitaria anche per la famiglia; ma l’affermazione di questi principî e di questi diritti per la famiglia non significa che coloro che non si sono voluti o non hanno potuto costituire una famiglia ne siano privati.

In ordine al secondo articolo, nel quale si parla dei diritti riconosciuti alla donna e si afferma il concetto dell’uguaglianza dei diritti della donna nei confronti dell’uomo, osserva che nessuna differenza deve essere fatta tra gli individui dell’uno e dell’altro sesso. Non sa se questo concetto sia affermato anche in altra parte della Costituzione; comunque ritiene che non sia male ribadirlo anche in questa sede, perché la donna ha un’importanza decisiva nella formazione della famiglia. Una donna, anche se non sia sposata, se ha dei figli potrà ugualmente costituire la propria famiglia.

La donna, sotto questo aspetto, è la creatura più importante, l’essere intorno al quale si forma il nucleo familiare.

MOLÈ osserva che partendo da tale concetto si finirà col tornare al matriarcato.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, riconosce che nella storia millenaria della civiltà umana si è passati attraverso il periodo del matriarcato; ma ciò non vuol dire che vi si debba ora ritornare. Se si dovesse tornare indietro dovremmo disperare di quella che è la perfettibilità umana. Non si può negare, allo stato odierno dei fatti, che ci sono famiglie costituite intorno alla donna, perciò è necessario stabilire quali ne siano i diritti.

Osserva poi che il riconoscimento della funzione sociale della maternità non interessa solo la donna, o l’uomo, o la famiglia, interessa tutta la società. Proteggere la madre significa proteggere la società alla sua radice, poiché intorno alla madre si costituisce la famiglia e, attraverso la madre, si garantisce l’avvenire della società. Di qui la necessità di istituzioni assistenziali e previdenziali, delle quali tratta l’articolo 3.

Osserva, in proposito, che non intende mettere tutte queste istituzioni a carico dello Stato; può anche darsi che attraverso altri enti si possa esercitare questa assistenza.

Affermato il principio della protezione della madre, saranno tutelati anche i figli, compresi gli illegittimi, i quali, per il solo fatto di essere nati, hanno diritto alla vita.

Ritiene che, senza arrivare ad una esplicita dichiarazione del genere nella Costituzione, si debba garantire la vita di tutti i bambini, siano essi legittimi che illegittimi.

Quanto alle norme giuridiche riguardanti gli illegittimi, provvederà il codice.

FANFANI osserva che nessuno intende porre in una condizione giuridica di inferiorità i figli di ignoti.

PRESIDENTE osserva che tale trattamento di inferiorità esiste nella legge vigente. Dal punto di vista giuridico, i figli illegittimi si distinguono in figli naturali, figli incestuosi e figli adulterini. La diversità di condizione giuridica si ripresenta anche nel diritto successorio.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, premette di aver presentato al Presidente il testo di un nuovo articolo che si differenzia in parte da quelli precedentemente formulati. Esso è così concepito:

«Alla famiglia verranno assicurati, con opportune provvidenze in materia di retribuzione, in fatto di accesso alla proprietà, specie della casa, di tutela della madre e dei figli, di istruzione e di educazione, di previdenza e di assistenza, di ordinamento finanziario, una difesa ed uno sviluppo consoni al bene della famiglia stessa e della intera società.

«Alla lavoratrice capo-famiglia sono assicurati i diritti riconosciuti al lavoratore capo-famiglia integrati dalle forme assistenziali predisposte per la tutela della maternità e dell’infanzia».

Aggiunge che se la Commissione lo riterrà opportuno, invece di fare due commi di un unico articolo, si potranno fare due articoli separati.

Per quanto riguarda le garanzie economico-sociali della famiglia ritiene che un articolo sia sufficiente, al massimo due, se si considera il fatto delicato che, oltre ad una famiglia costituita secondo la legge, possono formarsi dei nuclei familiari irregolari, che tuttavia hanno bisogno di garanzie di carattere sociale e giuridico; articolo o articoli nei quali siano considerate le provvidenze da dare in eguale misura agli uni e agli altri.

Ritiene che l’introduzione nel nostro Statuto di un articolo contenente le garanzie economico-sociali, che nelle altre Costituzioni non esiste, si possa giustificare tenendo presente che le nuove Costituzioni si distinguono e si differenziano dalle precedenti perché non considerano più solo l’individuo ed i suoi diritti, ma altri soggetti, tra i quali, la famiglia, alla quale le più recenti Costituzioni si preoccupano di dare garanzie economiche.

Ammessa la necessità di introdurre un articolo contenente garanzie economico-sociali, tale articolo viene necessariamente ad essere riassuntivo di tutte le garanzie già ricordate e che hanno per oggetto la tutela e lo sviluppo della famiglia, in quanto questa è la cellula viva e vitale, che a sua volta, produce altre cellule per costituire il tessuto sociale.

Una volta d’accordo sull’opportunità di fare un solo articolo riguardante le garanzie economico-sociali della famiglia, pensa che sia preferibile cominciare con il vero soggetto, che è appunto la famiglia; invece nelle formulazioni proposte dalle onorevoli Merlin e Noce il concetto di famiglia è scomparso, poiché si parla solo di lavoratrici, di figli, ecc.

Alia famiglia, soggetto dell’articolo, devono assicurarsi provvidenze in materia di retribuzioni – cioè i salari familiari – e di accesso alla proprietà, con particolare riferimento alla casa. L’unico modo per dare una garanzia economica alla famiglia è quello di darle una proprietà, sia pure piccola, in quanto, specie in questo momento, il grave disagio anche morale della nostra società è dovuto in gran parte alla deficienza di abitazioni.

Naturalmente la tutela della madre e dei figli deve essere tenuta presente anche quando la famiglia è irregolare, perché la maternità è una cosa così fondamentale e così delicata che ha bisogno di particolari cure, sia da parte della collettività, sia da parte dello Stato in forma integrativa. È necessario che l’ordinamento finanziario dello Stato permetta di andare incontro alle necessità delle famiglie numerose con sgravi fiscali, tenendo presente il concetto del reddito minimo indispensabile per assicurare la difesa e lo sviluppo della famiglia e, in definitiva, dell’intera società.

È logico che quanto più le famiglie saranno difese e protette da queste provvidenze, tanto più ne uscirà rafforzata la compagine sociale.

Effettivamente la madre è una lavoratrice quando si trova ad essere capo-famiglia, sia per ragioni di vedovanza che per altri motivi; in tal caso la donna ha bisogno di tutte le garanzie riconosciute al lavoratore capo-famiglia, e di tutte le garanzie predisposte per la tutela della maternità ed infanzia, che in questo caso devono assumere un carattere più efficiente che nei confronti della madre la quale vive nella sua famiglia regolare, con l’aiuto e l’appoggio del marito. Vi dovranno perciò essere speciali disposizioni di legge che garantiscano la figura della madre capo-famiglia.

NOCE TERESA, Correlatrice, dichiara che nella sua relazione ha cercato di attenersi innanzi tutto al tema proposto, cioè le garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia, considerando la famiglia in senso molto generale e completo.

È stato ammesso nelle premesse che la Costituzione democratica della Repubblica italiana non possa limitarsi all’affermazione dei diritti, ma deve anche indicare come si intenda garantire il godimento di tali diritti, e pensa che proprio questo sia il lavoro essenziale della Sottocommissione. Lo stesso titolo, che parla di «garanzie», vuol significare che non si devono affermare dei diritti in maniera astratta, ma occorre indicare anche come si dovranno mettere in pratica.

Gli articoli proposti sono tre. Il primo, che riguarda la famiglia dice: «lo Stato protegge la famiglia». Dopo tale affermazione di principio, l’articolo stabilisce in qual modo lo Stato debba dare la garanzia della protezione, ispirandosi alle odierne reali condizioni della famiglia stessa. Oggi in Italia la formazione della famiglia è spesso ostacolata a causa di difficoltà economiche e di impedimenti di ordine giuridico, come, ad esempio, nel caso delle disposizioni che ne subordinano la formazione a certe condizioni; così per gli agenti di polizia, per i carabinieri, per gli ufficiali dell’esercito. Questi impedimenti devono essere eliminati e lo Stato deve intervenire in casi di particolare bisogno.

MOLÈ osserva che allora lo Stato, per permettere di sposare, deve concedere dei prestiti.

NOCE TERESA, Correlatrice, ritiene che, quando ne è richiesto, lo Stato debba agevolare la formazione delle famiglie, principio questo che è messo in pratica in altri paesi, come in Francia, in cui sono concessi i prestiti matrimoniali.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, rileva che i prestiti erano stati adottati anche in Italia, sotto il governo fascista.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che i mezzi di protezione economica mediante prestiti rispondono ad una situazione di fatto e sono adottati in molti paesi, nei quali non è mai esistito il fascismo. Pensa che la protezione della famiglia per mezzo di prestiti sia uno dei sistemi col quale si può garantire la possibilità della formazione del nucleo familiare a due individui che vogliano sposarsi. Continuando nella formulazione dell’articolo, ha inserito due punti che non sono di carattere economico, ma che hanno il fine di rimuovere ogni ostacolo alla costituzione della famiglia. Infatti, ancor oggi, esistono ostacoli alla libera unione matrimoniale di due individui, come il caso del marito funzionario dello Stato che può essere traslocato da una sede all’altra e la moglie, anch’essa impiegata, soggetta alla stessa eventualità. Ritiene quindi necessario sancire il principio che di tali particolari situazioni si debba tenere conto.

A tal fine l’articolo dovrebbe essere così formulato:

«Lo Stato protegge la famiglia, facilitando la formazione anche con aiuti economici ed abolendo tutte le proibizioni e gli ostacoli riguardanti il matrimonio e la convivenza del nucleo famigliare».

Nel secondo articolo ha voluto tenere conto della situazione reale e di fatto esistente in Italia, ritenendo che la questione della maternità non possa essere separata dalla questione della famiglia e che debba essere affermato, in un articolo a sé della Carta costituzionale, in qual modo lo Stato deve intervenire per tutelare la maternità. Oggi la fraternità è considerata in generale, in Italia, come qualche cosa che riguarda l’individuo, mentre essa rappresenta anche una funzione naturale nobilissima della donna, in quanto provvede alla creazione delle nuove generazioni, le quali non possono non interessare la Nazione tutta, trattandosi dell’avvenire e dell’interesse della collettività. In conclusione, la maternità deve essere considerata come una funzione sociale che interessa tutta la collettività e non soltanto la madre o la famiglia, e lo Stato deve predisporne una tutela e una protezione efficace.

Pensa che tale concetto non possa essere considerato come nuovo, ma come naturale conseguenza della situazione di fatto esistente in Italia. Purtroppo è necessario riconoscere che, da questo punto di vista, l’Italia è molto arretrata rispetto ad altri paesi, e lo dimostrano le statistiche con le loro altissime percentuali di mortalità delle gestanti e di mortalità infantili.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, invita la onorevole Noce a dare le cifre di tali statistiche.

NOCE TERESA, Correlatrice, rileva come sia doloroso, per chi sia stato in Francia, vedere nelle statistiche comparative colà pubblicate la grande differenza che esiste tra la percentuale di mortalità delle gestanti in Italia e in Francia. Perciò si è preoccupata di stabilire nell’articolo 2 alcune garanzie a favore della maternità, cosicché tenendo conto delle obiezioni che sono state fatte nella precedente riunione, l’articolo rimarrebbe così formulato: «La Repubblica italiana riconosce che la maternità è una funzione sociale». Non avrebbe nulla in contrario ad aggiungere «oltre che una funzione naturale» in quanto resterebbe sempre chiaro che è un interesse della collettività nazionale la protezione della maternità.

L’articolo 2 continua: «Lo Stato italiano garantisce ad ogni donna, qualunque sia la sua situazione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie». Questo per assicurare alle operaie un adeguato periodo di riposo interamente pagato, prima e dopo il parto, istituendo un assegno di gravidanza ed un premio di allattamento e garantendo l’assistenza medica a tutte le gestanti, qualunque sia la loro condizione economica.

Formulato l’articolo 2 si passa al terzo punto, che tratta dell’infanzia. La onorevole Federici ritiene che tale questione non vada trattata in tema di garanzie per la famiglia; a suo parere invece il problema dell’infanzia è strettamente collegato con quello familiare.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, chiarisce di non aver mai detto quanto le attribuisce la onorevole Noce; infatti nella formulazione di uno dei suoi articoli è espressamente detto: «tutela della madre e dei figli».

NOCE TERESA, Correlatrice, si riferisce all’infanzia che, oltre ai figli, comprende anche gli orfani.

Se ci si riporta alla situazione di fatto esistente in Italia, bisogna convenire purtroppo che i bambini non trovano, all’atto della nascita, adeguate assistenze di carattere sanitario. È lo Stato che deve garantire un minimo di protezione e di cure dove non possono arrivare né la famiglia, né l’iniziativa individuale privata.

Con l’articolo tre, partendo sempre dalla situazione di fatto esistente in Italia, ha cercato di concretare la garanzia dello Stato nel modo seguente: «Lo Stato italiano garantisce a tutti i bambini, legittimi ed illegittimi, un minimo di protezione di cure da parte della società, ed a partire dal momento stesso in cui vengono a farne parte, mediante ambulatori e consultori per i lattanti, asili nido, asili scuola, colonie di vacanze, istruzione elementare con corsi di istruzione pre-professionale e professionale».

Ritiene che si dovrebbe insistere nel rendere obbligatoria la istituzione dell’ambulatorio e del consultorio, in modo che la madre debba far visitare il bambino, evitando così la possibilità della diffusione di malattie che purtroppo minano la salute dell’infanzia, riducendo la capacità lavorativa dei futuri lavoratori.

Per quanto riguarda gli asili, essi rappresentano una necessità, perché ci sono troppi bambini in giro per le strade. Lo Stato dovrebbe provvedere per le colonie di vacanze, che oggi sono troppo scarse di numero. La istruzione elementare in pratica è tutt’altro che obbligatoria; pertanto trova opportuno insistere anche su questo punto. I corsi di istruzione pre-professionale e professionale sono necessari, se si pone mente al dilagare della delinquenza minorile e della prostituzione delle minorenni in Italia. Dando la possibilità a questi adolescenti di fare qualche cosa oltre la scuola, si provvederà ad eliminare le cause di queste dolorose piaghe sociali. Concludendo, insiste su quanto ha detto e specialmente sulla concretezza nella formulazione degli articoli, concretezza che le sembra necessaria nella formulazione della nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana dei lavoratori.

MERLIN ANGELINA, Relatrice, desidera rispondere all’interruzione della collega Federici a proposito delle statistiche.

Sa benissimo che i numeri hanno un valore molto relativo e che bisogna piuttosto guardare la realtà; desidera perciò confermare non con le cifre, ma con la propria esperienza, quanto aveva detto la collega Noce, ricordando come siano gravi le condizioni delle gestanti dell’Ospedale Vecchio di Milano, così gravi da far vergogna anche di fronte ad altri paesi, che non sono al nostro livello di civiltà. È indubbio quindi che la maternità deve essere protetta fin da quando si manifesta veramente: si potrà discutere sulla opportunità di introdurre tutti i suggerimenti pratici, ma il principio deve essere ammesso e considerato nella nuova Costituzione.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, osserva che se si considera la presente situazione, il quadro catastrofico cui ha accennato la collega Noce è pienamente giustificato; se però si considerano le statistiche serie che sono state fatte in Italia prima della guerra, allora questo quadro così catastrofico può apparire esagerato, pur convenendo che in Italia ci sia da fare molto in questo campo e che quello che c’è funziona male.

Per quanto riguarda le garanzie economiche che la collega Noce vorrebbe dare alla famiglia che si deve costituire, osserva che nella sua relazione si parla appunto di queste garanzie economiche. A questo punto anzi nota che il titolo che si è dato alla relazione dovrebbe essere cambiato: infatti si deve parlare non solamente delle garanzie economiche e sociali che si debbono dare alla famiglia già costituita, ma anche di quelle che si devono dare alla famiglia che si viene a costituire.

MOLÈ dichiara di essere contrario al concetto che lo Stato debba dare degli aiuti per contrarre matrimonio; lo Stato deve dare agli individui il diritto alla vita, alla retribuzione, i mezzi per lavorare e non il denaro per potersi sposare.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, afferma che nella sua relazione, nella parte che tratta delle garanzie economiche e sociali, non ha introdotto nessuna disposizione che riguardi questi aiuti pre-matrimoniali.

Circa poi le garanzie da dare alla famiglia, riferendosi alle preferenze per i coniugati, ricorda che proprio nel periodo fascista ciò aveva dato luogo a grandi abusi, poiché il fatto di essere sposato era un titolo preferenziale, anche nei confronti di chi aveva titoli professionali superiori. Pertanto ritiene che richiedere maggiori garanzie da parte dello Stato per chi è coniugato non sia un principio ammissibile.

Che lo Stato debba proteggere la famiglia è una disposizione che appare in molte Costituzioni, ma è una formula assai equivoca, perché tale protezione dello Stato potrebbe far porgere tutti quei fenomeni che sono stati deprecati nel passato regime: l’opera balilla, per esempio, che toglieva i bambini alle famiglie.

La famiglia ha diritto a tali e tante garanzie da parte dello Stato, della collettività, da non aver bisogno di protezione. Se ci deve essere una protezione, questa deve venire dalla Provvidenza. Arriverebbe quasi a dire che se mai è la famiglia che protegge lo Stato, perché se la famiglia sarà sana, completa, bene assistila, si avrà quello Stato che si può considerare il più soddisfacente.

Si oppone quindi alla formula che lo Stato debba proteggere la famiglia, formula che in realtà non dice nulla, e che per quello che lascia sottintendere deve essere esclusa.

Sulla funzione sociale della maternità deve dichiarare che la formulazione proposta è veramente nuova; si domanda quale può essere la funzione sociale della maternità. Vi sarà se mai una funzione sociale della famiglia, ma non della maternità staccata dalla famiglia.

Venendo poi a parlare della protezione dell’infanzia, osserva che non può sorgere nessun dubbio circa l’interesse che suscita in tutti questo argomento. Le è sembrato tuttavia che sia la collega Merlin, che la collega Noce siano andate al di là dei limiti consentiti a questa discussione, in quanto è compito della Sottocommissione occuparsi delle garanzie economiche e sociali della famiglia, ma non trattare il problema dell’igiene, del lavoro, della maternità e della infanzia. Si tratta di cose che hanno trovato posto in altre relazioni e che saranno esaminate e sviluppate ampiamente quando queste verranno in discussione. Non è possibile che un articolo il quale, come sua impostazione, riassume tutti i problemi che riguardano la famiglia, debba scendere poi a tanti particolari.

Per ciò che concerne i figli, ritiene che si debba tener conto che in questo eccezionale periodo si è venuto moltiplicando il numero delle madri nubili con un carico di 2 o 3 figli, che formano vere e proprie famiglie. Bisogna dare a queste famiglie tutte le garanzie, in modo che i figli rimangano stretti vicino alla madre; a tale scopo aveva proposto un articolo a parte che riguardava un aspetto così delicato della questione, riconoscendo a queste madri la qualifica di capo-famiglia, in quanto esse hanno la responsabilità di mantenere i loro figlioli e dovranno avere tutti i diritti provenienti dalla loro qualifica di lavoratrici, oltre che da quella di madri.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che non si tratta di fare delle affermazioni di principio, ma occorre introdurre disposizioni concrete.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, ricorda che a proposito del lavoro, si è detto che una lavoratrice capo-famiglia che ha, per esempio, otto figli, godrà dello stesso assegno che è stabilito per l’uomo con otto figli.

Così per quanto riguarda la legislazione del lavoro dichiara di aver accolto i suggerimenti dei colleghi allargando il periodo del riposo prima del parto e dopo il parto, mantenendo il posto alla donna che deve avere un bambino e che al settimo mese di gravidanza deve lasciare l’impiego. Non solo ha proposto che il posto venga conservato, ma che l’assegno non sia decurtato, anzi corrisposto per intero.

NOCE TERESA, Correlatrice, osserva che la lavoratrice capo di famiglia è quella che mantiene la famiglia e per mantenere la famiglia fa un lavoro. Ma la donna lavoratrice non è soltanto l’operaia, bensì anche quella che, avendo una numerosa prole da allevare, non può lavorare; in tal caso viene a mancare la qualifica di capo-famiglia che le consentirebbe di godere di una determinata assistenza.

La donna operaia ha qualche diritto, ma la donna casalinga, la massaia rurale, la contadina non hanno alcun diritto all’assistenza.

FEDERICI MARIA, Correlatrice, osserva che per questa ultima categoria di donne esiste il salario familiare.

MOLÈ ricorda che la Costituzione non può entrare in una specificazione analitica dei singoli casi. Essa deve contenere soltanto i principî generali che devono essere formulati in modo molto semplice, quasi in forma di proposizione.

FANFANI afferma che dalla Costituzione si deve pretendere un impegno solenne a segnare una direttiva, una strada sulla quale ci si debba incamminare e non una regolamentazione minuta di provvidenze le quali, per il fatto di essere minute, rischierebbero, dopo qualche anno, di essere superate.

Sufficiente è stabilire il principio: penseranno poi il legislatore, i partiti, l’opinione pubblica ad intervenire successivamente, se la legislazione deve essere aderente alla realtà.

Dichiara di aver studiato attentamente le varie proposte fatte e di aver seguito le correzioni apportate in sede di esposizione dalle varie relatrici. Ritiene tuttavia che le preoccupazioni, che in tutte le relazioni affiorano, di far avere alla donna un salario adeguato agli oneri finanziari (oneri sia della famiglia legittima che di quella illegittima) possano considerarsi già soddisfatte, qualora in aggiunta all’articolo approvato nella riunione di ieri, in cui è detto che i lavoratori hanno diritto ad una retribuzione adeguata alle necessità personali e familiari ed in accoglimento della prima parte dell’articolo 2, formulato dalla onorevole Merlin, si faccia seguire la dizione: «Alla donna lavoratrice sono riconosciuti, nei rapporti di lavoro, gli stessi diritti che spettano al lavoratore».

Introducendo questo secondo comma, si avrà anche modo di fare un solenne riconoscimento dell’eguaglianza dei diritti su questo terreno, tra gli uomini e le donne, non per il fatto che abbiano sesso diverso, ma la stessa capacità.

Vi è in tutti la preoccupazione di impegnare solennemente nella Costituzione i futuri legislatori a concedere adeguate protezioni alla maternità ed all’infanzia. È necessario però stare attenti a non incorrere nell’errore di istituire una specie di allevamento di Stato. Per conciliare le varie opinioni, ritiene che, adottando una frase, seppure incompleta, proposta dalla onorevole Merlin con un altro concetto espresso nel secondo articolo proposto dalla onorevole Federici, unita al capoverso proposto dalla onorevole Noce, si potrebbe formulare il seguente articolo:

«La Repubblica Italiana riconosce che è interesse nazionale la protezione della maternità e dell’infanzia.

«In particolare, le condizioni di lavoro devono consentire il completo adempimento della funzione e dei doveri della maternità.

«Istituzioni scolastiche, assistenziali e previdenziali, integrate, ove occorra, dallo Stato, devono tutelare la vita e lo sviluppo di ogni bambino».

Alla coordinazione dei concetti si provvederà poi al termine della discussione. Oltre a ciò, resta da considerare se debbono esistere garanzie speciali in materia economica e sociale per l’integrazione delle insufficienze che il nucleo familiare presenta di fronte alla sua funzione: allevamento ed educazione della prole. È a questo punto che nasce la preoccupazione della onorevole Federici, che non è tuttavia in contrasto con quelle della onorevole Noce e della onorevole Merlin. Ma, a suo avviso, la Sottocommissione non si deve occupare di questo problema, in quanto la materia è di pertinenza della prima Sottocommissione. È invece necessario preoccuparsi del fatto che, esistendo la convivenza familiare, questa convivenza possa arrivare ad essere integrata – ove ce ne sia bisogno – in modo che se ne assicuri un’esistenza confacente con la dignità dell’uomo.

Circa il problema della funzione sociale della maternità, osserva che la onorevole Noce per «funzione sociale» intende dire che la madre, procreando, reca un beneficio alla collettività, in quanto assicura la continuità della specie. Non vi è dubbio che in tal senso tutti sono d’accordo, essendo questo un principio generalmente accolto.

NOCE TERESA, Relatrice, fa presente che tuttavia non è riconosciuta questa funzione.

FANFANI rileva che non è vero che non siano stati fatti tentativi di riconoscimento, e anzi si è giunti ad assurdi come quelli verificatisi in Germania, dove la scelta delle mogli dei funzionari della pubblica sicurezza, più adatte a procreare, era subordinata al benestare del Capo della polizia. Quando si dice che la Repubblica italiana, riconosce che è di interesse nazionale la protezione della maternità, è implicito il riconoscimento che la comunità italiana ha un interesse del tutto peculiare ad osservare, a seguire, a proteggere, quei cittadini che si trovano in particolari circostanze.

Concludendo, si augura di aver potuto convincere la onorevole Noce – perché, per ragioni di studio, condivide pienamente i suoi propositi – dichiarando che se c’è un’aspirazione in fondo alla sua anima, è quella che sorga dalla Costituzione italiana una comunità nella quale nessun ragazzo, nessun bambino, possa trovarsi nella circostanza di vedersi mancare la possibilità del vitto quotidiano.

COLITTO riconosce che le tre relazioni presentate contengono interessanti proposte di grande importanza: ma ha il timore che nella nuova Costituzione si vogliano inserire delle affermazioni che, per un complesso di ragioni, appaiono molto difficilmente traducibili in realtà. Se non esistesse in lui tale preoccupazione, sarebbe per l’approvazione integrale degli articoli proposti dalla onorevole Federici; ma ritiene di dover proporre alla Sottocommissione l’approvazione di un articolo più breve che, eliminando i dettagli non consoni alla natura di una Carta costituzionale, riassuma i principî fondamentali. L’articolo dovrebbe essere così formulato:

«Lo Stato ha tra i suoi compiti la protezione della maternità e dell’infanzia, legittima ed illegittima».

MOLÈ si dichiara d’accordo con le affermazioni dell’onorevole Fanfani, il quale ha proposto una enunciazione di concetti che potrebbe soddisfare un po’ tutti, salvo il criterio di rendere più che sia possibile generica la formulazione dei principî ai quali poi si ispirerà la legislazione. Per cercare di contemperare queste esigenze, ritiene che i concetti espressi nelle tre relazioni potranno servire di guida per il legislatore, mentre nella formulazione degli articoli ci si dovrà attenere solamente all’enunciazione dei principî. A tale proposito invita gli onorevoli Commissari a prendere visione del preambolo della Costituzione francese, il quale, in poche parole, fissa principî importantissimi nel campo costituzionale.

Ritiene che l’unità familiare debba essere mantenuta, e che la donna possa essere capo-famiglia soltanto nella condizione in cui l’unità familiare non consenta che il capo-famiglia sia il padre.

Si deve tenere presente che per una necessità etica la famiglia legittima deve avere sempre la preferenza sulla famiglia naturale. A tal fine deve essere mantenuta la protezione della famiglia legittima, nell’interesse del bambino che nella famiglia trova già una naturale protezione, che non trova invece in quella irregolare, dove il minore più facilmente può, se non vi è un senso morale che lo guidi nei suoi doveri, abbandonare la retta via. Quindi, da un punto di vista giuridico-morale, il bambino e la donna devono essere trattati con parità di condizione, sia che si trovino in una posizione regolare che irregolare, ma, questo non deve incidere sulla unità familiare della famiglia illegittima, che sempre deve avere la preferenza.

Per quanto ha riferimento alla formulazione, invita gli onorevoli Commissari a non intaccare questo principio, nell’interesse della donna stessa e della prole. Circa la questione della funzione sociale, trova superflua la definizione, perché qualunque fatto della comunità potrebbe essere inteso come questione sociale. Inoltre tale definizione potrebbe prestarsi ad interpretazioni di ordine politico vertenti sulla questione della maternità, così come già fu in periodo fascista in cui si concepì lo Stato come una volontà di potenza suprema, alla quale dovevano soggiacere i cittadini. Pertanto ritiene pericolosa la definizione, anche perché la maternità deve essere intesa come qualche cosa di più elevato della funzione sociale, ossia come funzione etica, dalla quale dipende la stessa vitalità dello Stato.

NOCE TERESA, Relatrice, dichiara di essere d’accordo con l’onorevole Fanfani, ma propone di aggiungere dopo le parole: «Lo Stato italiano garantisce ad ogni donna, qualunque sia la sua situazione sociale e giuridica, la possibilità di procreare in buone condizioni economiche, igieniche e sanitarie», le altre: «e garantisce a tutti i bambini un minimo di protezione e di cura da parte della società, a cominciare dal momento stesso in cui vengono a farne parte». Ritiene invece che la frase: «Le condizioni di lavoro non devono impedire il completo adempimento delle funzioni della maternità» dovrebbe essere inclusa nella parte riguardante la tutela del lavoro.

PRESIDENTE, data l’ora tarda, propone di rinviare il seguito della discussione ad altra seduta.

La seduta termina alle 12.35.

Erano presenti: Canevari, Colitto, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Rapelli.

Assenti giustificati: Di Vittorio, Dominedò, Lombardo Ivan Matteo, Pesenti, Taviani.

GIOVEDÌ 12 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

5.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 12 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Comunicazioni del Presidente

Presidente.

Diritto all’assistenza (Seguito della discussione)

Fanfani – Di Vittorio – Marinaro – Presidente – Colitto – Canevari.

La seduta comincia alle 10.15.

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE comunica che l’onorevole Simonini si è dimesso da membro della Commissione per la Costituzione. A sostituirlo nella terza Sottocommissione è stato chiamato l’onorevole Canevari, che già interveniva alle sedute in seguito ad autorizzazione.

Seguito della discussione sul diritto all’assistenza.

FANFANI ritiene che, dopo aver affermato il diritto al lavoro e prima di stabilire il diritto all’assistenza, sia razionale stabilire in un articolo il diritto dei lavoratori ad un compenso proporzionato alla quantità e alla qualità del lavoro prestato e che tenga conto delle sue necessità personali e familiari.

È questa una giusta aspirazione ormai diffusa nel mondo dei lavoratori ed alla quale, per iniziativa di illuminati imprenditori, e per disposizione di legge, od anche per dettato di Costituzioni, si è cercato di andare incontro. Dopo il riconoscimento del diritto, non sembra superfluo impegnare solennemente lo Stato a dettare norme sulla determinazione di retribuzioni vitali, cioè sufficienti alle necessità dei lavoratori; previdenziali, cioè atte all’accantonamento di premi assicurativi per provvedere ad ogni evento dannoso prevedibile; familiari, cioè atte a fronteggiare le necessità delle madri che attendono alle faccende di casa e dei figli immaturi per l’attività produttiva.

Propone perciò il seguente articolo:

«Ogni lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità dei lavoro prestato e, possibilmente, adeguata alle sue necessità personali e familiari.

«La Repubblica agevolerà il godimento di questo diritto con norme sulla determinazione, nei contratti di lavoro, delle retribuzioni vitali, previdenziali e familiari».

Ricorda che il testo da lui ieri proposto, in luogo della frase «possibilmente adeguata allo sue necessità personali e familiari», diceva «proporzionata alle necessità personali e familiari». Ha ritenuto di dover tener conto di un’osservazione dell’onorevole Marinaro, il quale è d’avviso che la richiesta di proporzionalità alle necessità personali e familiari, nell’attuale sistemazione economica del Paese, non sia forse tale da potersi soddisfare. Appunto per questo, nella prima parte dell’articolo, alla norma con la quale si riconosce il diritto (con una frase che si trova già nella Costituzione russa nel 1936) a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato, se ne fa seguire un’altra che cerca di prevedere i carichi eccezionali, personali e familiari.

L’aggiunta della parola «familiari» è stata apportata anche in considerazione delle preoccupazioni espresse dalla onorevole Noce nei giorni passati, e che risultano anche dalle relazioni delle onorevoli Merlin e Federici, nelle quali si domanda se lo Stato non debba andare incontro agli oneri che dovranno sopportare i genitori per il fatto di avere una famiglia, e alla convenienza di creare una situazione possibilmente non disagiata a quelle persone che attendono permanentemente a lavori di casa e che non percepiscono un salario a questo titolo. Di qui la necessità, che in sede assicurativa o in sede retributiva si provveda in qualche modo.

Ricorda, in proposito, che in altri Paesi è stato escogitato il sistema dell’aggiunta di famiglia ai lavoratori e ritiene che nella compilazione di una Costituzione non si possa non tener conto dei progressi ovunque raggiunti.

Ricorda infine che la onorevole Merlin ha osservato che la seconda parte dell’articolo avrebbe potuto essere omessa. Può essere d’accordo, a condizione però che in tutti gli articoli precedenti si faccia la stessa omissione. Infatti, negli articoli già approvati, dopo una dichiarazione dei diritti, si è incluso un solenne impegno per la Repubblica di provvedere, indicandone genericamente la maniera.

DI VITTORIO è d’accordo nel principio informatore dell’articolo e nell’opportunità di riferire la rimunerazione del lavoratore anche ai bisogni della famiglia. Ritiene tuttavia che, con la formulazione proposta, lo Stato invada un campo che è più specifico del sindacato. Desidererebbe che fosse ben chiarito che nell’azione di tutela diretta ad assicurare al lavoratore una remunerazione adeguata ai propri bisogni (che è funzione specifica del sindacato) lo Stato asseconda nei suoi compiti il sindacato.

Manifesta inoltre la sua perplessità circa l’opportunità di inserire nella Costituzione una norma secondo la quale la remunerazione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Questa norma può trovar luogo nella Costituzione sovietica, perché in Russia vige un sistema sociale differente dal nostro; non in Italia, perché col contratto collettivo di lavoro si determina il salario per categoria e per specializzazione, non per quantità o per qualità di lavoro individuale compiuto. In Russia, vigendo il sistema socialista, lavorando cioè tutti i lavoratori per la collettività, è stato introdotto il sistema dell’emulazione, che consiste nel valutare e remunerare individualmente ciascun lavoratore per stimolarlo a perfezionarsi professionalmente.

Non c’è officina che non abbia la scuola professionale per mezzo della quale tutti possono, almeno teoricamente, diventare specialisti.

FANFANI ritiene che le preoccupazioni manifestate dall’onorevole Di Vittorio non abbiano ragione d’essere. Infatti è proprio in vista dell’esistenza del sindacato, e delle funzioni che il sindacato deve esercitare nella stipulazione dei contratti di lavoro che, invece di affermare che la Repubblica determinerà i salari previdenziali, ha proposto di dire che la Repubblica agevolerà il godimento di questo diritto con norme sulla determinazione, nei contratti di lavoro, delle retribuzioni vitali, previdenziali e familiari.

DI VITTORIO propone che si aggiungano le parole: «secondando l’azione dei sindacati».

FANFANI dichiara di non aver nulla in contrario, pur ritenendo che l’argomento troverebbe sede più appropriata nella discussione sulla relazione dell’onorevole Di Vittorio, quando, determinandosi la funzione del sindacato, si potrà fare un richiamo al testo odierno e, in sede di coordinamento dei due testi, rendere esplicito tale concetto.

Quanto alla seconda obiezione, fa rilevare che, quando il contratto di lavoro determina un salario orario, cioè una retribuzione rispetto alla quantità, lo determina per categorie e tiene conto della qualità del lavoro compiuto. Vi sono contratti collettivi, o possono esservi domani, in cui si tenga conto anche di un certo premio ai lavoratori più solerti. Nel nostro sistema ciò esiste e può continuare ad esistere. Non vede quindi una contradizione; né ritiene inopportuna l’adozione della formula proposta, e a lui suggerita dal Presidente della Sottocommissione, che non è in contrasto col sistema dei contratti collettivi, entro i quali è consentito il perfezionamento per stimolare l’emulazione, incoraggiare e spronare i meno solerti.

Quanto all’osservazione che in Russia si è adottato il criterio dell’emulazione, economisti americani, recatisi in quella nazione, hanno constatato come in regimi profondamente diversi per ispirazione e per struttura si applichino formule molto simili, Appunto per stimolare questa emulazione.

Quando si tratterà del funzionamento sindacale saranno tenute presenti le considerazioni dell’onorevole Di Vittorio che, a suo parere, non infirmano la formula proposta.

MARINARO ritiene che non sia il caso di fare riferimento alle istituzioni sindacali, dopo le spiegazioni fornite dall’onorevole Fanfani. Determinare la retribuzione in base alla quantità e alla qualità del lavoro può presentare delle difficoltà e una formula più semplice e più generica si adatterebbe meglio allo scopo. Senza alterare affatto il concetto enunciato dall’onorevole Fanfani, propone la dizione: «Ogni lavoratore ha diritto a una retribuzione corrispondente alla sua prestazione».

FANFANI fa presente che questa dizione corrisponde alla formula originaria da lui proposta, alla quale non ha alcuna difficoltà di tornare.

PRESIDENTE spiega che il suo suggerimento è mosso dal concetto che sia opportuno, nella retribuzione, tener conto della quantità e della qualità del lavoro prestato, oltre che delle condizioni di famiglia.

Quando si tratterà di stipulare i contratti, questi elementi concorrenti alla equa fissazione del salario andranno tenuti presenti.

COLITTO riconosce l’opportunità di mantenere, nella prima parte dell’articolo, l’accenno alla quantità e alla qualità del lavoro prestato; ciò servirà di incitamento al lavoratore. Limiterebbe però la seconda parte alla sola prima frase: «La Repubblica agevolerà il godimento di questo diritto», e ciò per due ragioni: una di sostanza e una di forma; di sostanza, perché ritiene che le parole che seguono «con norme sulla determinazione, nei contratti di lavoro, delle retribuzioni vitali, previdenziali e familiari» impegnino lo Stato a dettare norme disciplinatrici del contenuto del contratto di lavoro, mentre la disciplina di tale contenuto va riservata al sindacato; di forma, perché gli sembra che non si possa parlare di retribuzione previdenziale, dato che quello che si dà a scopo previdenziale non può considerarsi come compenso di un lavoro compiuto.

DI VITTORIO, dopo le spiegazioni date dall’onorevole Fanfani nei riguardi della prima osservazione da lui fatta, dichiara di non insistere perché sia inclusa nell’articolo una frase, della quale si potrebbe tener conto poi nei lavori di coordinamento, da cui risulti che la Repubblica agevolerà il godimento di questo diritto «attraverso l’opera dei sindacati».

Insiste invece nell’altra sua osservazione, perché stima pericolosa la trasposizione meccanica di formule da altre Costituzioni nella nostra. Fa rilevare che la Costituzione russa ha stabilito il principio che, in regime socialista, ciascuno ha diritto al frutto del proprio lavoro. Di qui la necessità di determinare il lavoro di ogni individuo, perché possa goderne il frutto che ne deriva. In Italia, dove è ammesso il sistema del lavoro a cottimo, quello dei premi (e la stessa Confederazione del lavoro non è contraria ad adottare sistemi che possano indurre il lavoratore a migliorarsi ed a produrre di più), sancire nella Costituzione tale principio, significherebbe fare del sistema del lavoro a cottimo individuale il sistema italiano, ed a ciò si dichiara contrario.

Potrebbe accedere all’adozione di questo sistema solo come complemento del sistema del contratto collettivo, che fissa le remunerazioni per tutti i lavoratori della stessa categoria che svolgono le medesime mansioni. Il sistema del lavoro a cottimo vige anche in Italia, ma non per tutte le categorie; per alcune sarebbe pericoloso.

Concludendo, dichiara di essere d’accordo nel concetto della tutela dello Stato sull’opera dei sindacati, ma sopprimerebbe dall’articolo ogni concetto di remunerazione in base alla quantità e alla qualità del lavoro individuale prestato, e la determinerebbe invece in base alle specializzazioni e alle mansioni dei vari operai.

CANEVARI afferma che dire, come propone l’onorevole Fanfani, «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione adeguata alle sue necessità personali e familiari» può ingenerare il dubbio che si pensi ad una retribuzione personale differente da lavoratore a lavoratore della stessa categoria, e ciò in antitesi al contratto di lavoro che stabilisce una remunerazione eguale per tutti i lavoratori di una stessa categoria. Ritiene pertanto necessario chiarire meglio il concetto, dicendo: «adeguata, per necessità personali e familiari».

DI VITTORIO rileva che, perché la formula risulti ben chiara, basterebbe eliminare la parte riferentesi alla quantità ed alla qualità e dire: «retribuzione adeguata alle mansioni e alla specializzazione», insistendo così sul carattere collettivo della norma e non su quello individuale. L’articolo non avrebbe bisogno di ulteriori emendamenti.

FANFANI dichiara di non aver nessuna difficoltà ad ammettere che si faccia un accenno al sindacato, ma quanto all’osservazione fatta dall’onorevole Colitto, in relazione al salario previdenziale, nega che la retribuzione previdenziale non faccia parte del salario. Fu affermato fino da 216 anni fa, dal Cantillon, che il salario deve variare secondo la gravità dei rischi inerenti al lavoro, di qualsiasi genere essi siano. È una economia per l’intiera collettività pagare una quota fissa capace di provvedere alle necessità vitali del lavoratore e della sua famiglia, più una quota, se non pari all’intiera copertura del rischio, pari alla quota-premio ritenuta, nel complesso, sufficiente a coprire il rischio, prevedibile, che va accantonata sotto forma di assicurazione. Questa quota è ancora salario, è parte del salario; solo per ragioni di economia sociale viene prelevata, anziché consegnata al lavoratore e, unita a tutte le altre quote-premio, permette, il giorno in cui se ne manifesta il bisogno, di far fronte al rischio che si è verificato in danno del lavoratore.

Per quanto ha riferimento alla seconda parte dell’articolo, riguardante i contratti di lavoro, non ha difficoltà a modificarla, dato che era sua intenzione di tenere presente il concetto che il salario deve scaturire dal libero accordo delle parti in contrasto. E con ciò ha risposto alle obiezioni dell’onorevole Di Vittorio, il quale insiste perché nel testo dell’articolo si parli di sindacati.

Circa la proporzionalità e la qualità del lavoro, poiché l’onorevole Di Vittorio ha avuto l’impressione che si tratti di una trasposizione del sistema vigente nel diritto russo in quello italiano, obietta che se la ragione umana è giunta in Russia all’affermazione di un principio di corretta scienza economica sul problema del salario, questo non significa che tale principio non possa essere accolto nella Costituzione italiana. D’altronde la formulazione dell’articolo, da lui presentato, è stata suggerita dal Presidente della Sottocommissione, il quale, nel dargli tale suggerimento, non pensava certo alla legislazione russa in materia di lavoro, ma intendeva trovare una formula che tenesse conto del lato qualitativo e di quello quantitativo.

L’onorevole Di Vittorio, nel riferirsi alla qualità, precisa che questa assume diverse gradazioni rispetto alla professione; ma nel testo proposto non soltanto si è tenuto conto di questo aspetto, ma anche dell’altro più generale e più complesso della qualità professionale. Nei riguardi della «quantità» l’onorevole Di Vittorio osserva che adottando tale termine, poiché non esistono da noi certe condizioni che invece si realizzano in Russia, saremmo costretti ad estendere in Italia il sistema del cottimo in tutti i lavori. Le cose però non stanno così: con la parola «quantità» ci si riferisce non solo al salario, ma anche alla possibilità della retribuzione ad ore.

MARINARO osserva che se si parla di un sistema lavorativo ad ore, non si può parlare di un sistema a cottimo.

FANFANI ripete che, a suo avviso, nella parola «quantità» si adombrano sia l’uno che l’altro sistema. Tuttavia dichiara di non aver difficoltà a tornare al testo primitivo.

PRESIDENTE propone che sia sostituito il termine «vitali» che nella frase «retribuzioni vitali» non è molto chiaro.

FANFANI fa presente che il termine «vitali» è strettamente tecnico; in economia per salario vitale si intende quello necessario ad un tenore normale di vita.

PRESIDENTE, per risolvere la questione tanto discussa su «qualità e quantità», propone la dizione: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato».

DI VITTORIO è d’accordo, vorrebbe però che venissero indicate anche le mansioni.

FANFANI obietta che la qualità già indica le mansioni.

DI VITTORIO risponde che la qualità potrebbe essere interpretata in riferimento al lavoro individuale.

FANFANI fa presente che in sede di redazione della Carta costituzionale non è possibile scendere ad una eccessiva specificazione dei vari casi.

DI VITTORIO propone la soppressione dell’avverbio «possibilmente».

PRESIDENTE pone ai voti la prima parte dell’articolo, così formulata: «Il lavoratore ha diritto a una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro e adeguata alle necessità personali e familiari».

DI VITTORIO dichiara che voterà l’articolo, purché sia chiaro che con esso non si sancisce l’adozione per legge del sistema del lavoro a cottimo.

(La prima parte dell’articolo è approvata).

CANEVARI propone di abolire la seconda parte dell’articolo.

DI VITTORIO si dichiara d’accordo, perché trova superflua tale seconda parte.

MARINARO si associa alla proposta Canevari.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di soppressione della seconda parte dell’articolo.

(È approvata).

La seduta termina alle 11.15.

Erano presenti: Ghidini, Marinaro, Canevari, Colitto, Di Vittorio, Fanfani, Federici Maria, Giua, Merlin Angelina, Noce Teresa, Taviani, Canevari.

Assenti giustificati: Dominedò, Lombardo Ivan Matteo, Paratore, Pesenti, Rapelli, Togni.

MERCOLEDÌ 11 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

4.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 11 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

INDICE

Diritto all’assistenza (Discussione)

Presidente – Togni, Relatore – Molè – Noce Teresa – Giua – Merlin Angelina– Fanfani – Canevari –Taviani – Marinaro.

La sedata comincia alle 10.20.

Discussione sul diritto all’assistenza.

PRESIDENTE invita l’onorevole Togni a riferire sul tema dell’assistenza e della previdenza.

TOGNI, Relatore, espone la seguente sua relazione:

«Lo Stato manifesta la propria individualità specifica anzitutto nella Costituzione.

In essa imprime, con l’atto di nascita, le ragioni della sua vitalità, le grandi linee della sua struttura organizzativa, e, più ancora, lo spirito che lo anima, l’indirizzo propulsivo delle finalità sociali cui tende la collettività che lo immedesima.

La Costituzione, perciò, non si esaurisce, né si può esaurire, in espressioni tecnico-giuridiche fredde, le quali, pur complete, riuscirebbero circoscritte, ad esito in un certo senso limitativo, ma deve principalmente contemplare gli aspetti dinamico-politici per rispecchiare la volontà ascensionale di un Popolo, entro l’ambito che la Provvidenza gli ha affidato.

Come ogni individuo nella sua piccola sfera, così il Popolo nello spazio in cui vive, ha la sua missione da compiere per la elevazione della propria vita interiore, per agevolare la convivenza pacifica con gli altri popoli, per raggiungere, grado a grado, una solidarietà umana sempre più intensa, sempre più responsabile.

La nostra Costituzione deve ispirarsi a questi postulati, accentuandoli con particolare concretezza nel settore «assistenza e previdenza». A bella posta riunisco assistenza e previdenza come due aspetti di uno stesso fenomeno, univocamente intesi alla protezione del nostro popolo, per garantire ad esso la sicurezza di vita.

Dagli elaborati delle altre relazioni potrà scaturire un principio del diritto al lavoro e delinearsi la responsabilità dello Stato rispetto alla necessaria predisposizione delle condizioni nelle quali il diritto stesso riesca pienamente e completamente a svilupparsi, ma il postulato, anche avvertito come fonte primaria di un benessere cui si aspira, trova limitati i propri effetti dalle inevitabili circostanze che, temporaneamente o permanentemente, precludono la possibilità di lavoro ai singoli individui.

La preclusione della possibilità, non l’astensione volontaria, entra nella fenomenologia ricorrente, purtroppo a carattere normale, fra le vicende della convivenza collettiva e richiama il concetto della solidarietà, cui tutti i cittadini devono sentirsi legati per dare ciascuno il loro proporzionale contributo di sollievo.

Anche e principalmente sotto questo aspetto, amo ricordare la nobile iniziativa della nuova Costituzione francese approvata dall’Assemblea Costituente il 29 aprile 1946 (art. 27), per cui la Repubblica, proclamando l’eguaglianza, fa appello altresì alla solidarietà di tutti rispetto agli oneri che l’eguaglianza stessa pretende.

Se l’eguaglianza, infatti, comprende il diritto alla vita, come non alimentare tale sacrosanto diritto in maniera concreta, al di là delle nuove formule?

Scendendo al particolare, vediamo come l’iter del lavoratore abbia o possa avere periodi di sosta forzata, per malattia, infortunio, gravidanza della donna, carenza di lavoro e conseguente disoccupazione, ecc., e qui devono soccorrere efficacemente le norme assistenziali, vuoi per fornire i mezzi di riattamento della personalità fisica, vuoi per fornire i mezzi di sostentamento onde supplire al difetto della fonte normale di reddito.

Entra poi in considerazione l’incapacità lavorativa dovuta a cause fisiche e psichiche (infermità fisiche e mentali), costituzionali o sopravvenute, che, senza l’intervento della previdenza, porrebbe l’individuo al di fuori delle garanzie vitali; sicché necessaria si appalesa la manifestazione previdenziale, per esprimere la più squisita solidarietà.

Altro fenomeno inevitabile, la vecchiaia, deve pur essa appoggiarsi ad un sistema assicurativo che coroni una vita di lavoro, allontanando ogni pena altrimenti connessa con l’inabilità e con l’invalidità.

Garanzia di vita, garanzia di sostentamento, si è detto; ma le espressioni non devono indurre a concezioni ristrette, analoghe a quelle che potrebbero scaturire dal concetto di beneficenza o di carità.

La previdenza e l’assistenza, infatti, hanno e devono avere una più elevata e precisa fonte: il diritto, cioè, di tutti e di ciascuno verso l’Ente collettività e non la semplice facoltà discrezionale, più o meno patetica.

L’assistenza e la previdenza debbono avere anche un contenuto più largo: l’indispensabile per i bisogni quotidiani, che comprenda il conforto del minimo di agio e riesca apportatore di sereno amore alla vita e non costituisca, invece, fomite di odio alla vita.

Nel quadro panoramico, l’ordinamento assistenziale-previdenziale, infine, deve apparire come mezzo di perfezionamento morale e fisico della specie, affinché questa risponda ai compiti evolutivi che le sono propri.

Ritorno alla Costituzione francese per ricordare l’articolo 33:

«Ogni essere umano che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale, della situazione economica, si trovi nella impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza».

«La garanzia di questo diritto è assicurata dalla istituzione di organi pubblici di protezione sociale».

Tale formula enuclea in parte i concetti cui sopra ho fatto ricorso e, anche se non li completa, può, quindi, servire di paradigma nel nostro lavoro.

Altra enunciazione, cui faccio volentieri richiamo, è quella contenuta nell’articolo 120 della Costituzione dell’U.R.S.S. (5 dicembre 1936) e successive modifiche:

«I cittadini dell’U.R.S.S. hanno diritto all’assistenza materiale nella vecchiaia e parimenti in caso di malattia e di perdita della capacità lavorativa».

«Questo diritto viene assicurato mediante l’ampio sviluppo della assicurazione sociale a carico dello Stato a favore degli operai e degli impiegati, con l’assistenza medica gratuita e con cessione in uso ai lavoratori di un’ampia rete di stazioni di cura».

Lodevole il testo e completo, la sua essenza meriterebbe di essere trasfusa nella nostra Costituzione, quando pervasa, però, di un senso di humanitas che il clima latino ci suggerisce, vale a dire non trascurando il movente della direttiva: la tranquillità domestica familiare, la promozione del benessere generale e la elevazione anche dello spirito del popolo; sicché la nostra formulazione dia ingresso ad istituti e ad istituzioni che, nel campo previdenziale e assistenziale, contemplino, nonché le carenze materiali, quelle spirituali che dalle comuni vicissitudini possano derivare.

Per concretare e proporre il testo definitivo, sarebbe, forse, desiderabile la preconoscenza dell’elaborato, circa la struttura organizzativa dello Stato. Comunque, sottopongo all’esame una formula che, ubbidendo al canone della necessaria concisione, contiene in germe, a mio avviso, l’indirizzo basilare della nostra evoluzione legislativa, tenendo conto delle nostre tendenze attuali e delle nostre reali possibilità.

Art. …

Al cittadino italiano deve essere assicurata, con la protezione della vita e della libertà, la tranquillità domestica familiare e la elevazione spirituale.

Dal lavoro consegue il diritto all’assistenza materiale in caso di malattia, di infortunio, di perdita della capacità lavorativa, di disoccupazione involontaria.

Ogni essere che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale, della situazione economica, si trovi nella impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza.

Organi pubblici di protezione sociale garantiranno i menzionati diritti, attuando e promovendo ogni forma di assistenza, compresa quella medica gratuita, che deve tendere anche al riattamento fisico della persona minorata.

La formula prospettata deriva dagli insegnamenti di altre Costituzioni cui è opportuno accostarsi per una auspicabile unicità di sistema, ma contiene anche, in implicito, il richiamo ad una solidarietà sociale che risponde alla consapevole generosità dello spirito, prima e spontanea fonte del nostro diritto».

Afferma, in conclusione, che ogni cittadino, pel fatto stesso che esiste e vive, ha diritto di essere messo in condizioni di poter far fronte alle minime esigenze della vita; e queste possono venir soddisfatte attraverso ad una attività diretta, in quanto l’individuo ha la possibilità fisica od intellettuale e l’occasione sociale ed economica di lavorare (nel qual caso ha anche il dovere di farlo), ovvero attraverso l’obbligo che incombe alla collettività, quando il cittadino, indipendentemente dalla sua volontà, non sia in condizioni, o per una crisi sociale, o per causa fisica, intellettuale o psichica, di lavorare.

Dichiara di non aver voluto affrontare il problema molto dibattuto, se l’assistenza e la previdenza debbano essere a carico dello Stato o della produzione, ovvero a carico dell’uno e dell’altra, perché gli sembra che rivesta un carattere secondario che dovrà essere comunque precisato dalle leggi speciali; essenziale è l’affermazione che spetta alla collettività di corrispondere alle esigenze determinate dà particolari situazioni di carenza economica.

MOLÈ trova generica l’espressione «tranquillità domestica», che potrebbe riguardare perfino i rapporti tra marito moglie.

NOCE TERESA, pur essendo d’accordo sulle premesse del Relatore, ritiene opportuna una specificazione circa i concetti di assistenza e di previdenza. Il diritto nei riguardi della previdenza è di natura diversa da quello che si riferisce all’assistenza. Chi lavora e paga i contributi alla previdenza, ha un diritto a questa forma assicurativa; ma c’è poi una categoria di cittadini che non paga contributi, pur avendo diritto ad una assistenza, della quale devono essere precisati i limiti.

Con la formula proposta dal Relatore sorge il dubbio se il legislatore voglia far rientrare una numerosa serie di cittadini tra coloro che hanno diritto all’assistenza o meno. Si tratta di quelle persone che non fanno un lavoro salariato e in modo particolare delle madri di famiglia, delle cosiddette casalinghe, le quali, pur non facendo un lavoro salariato, sono utili alla collettività in quanto hanno cura dell’allevamento dei bambini.

Ritiene quindi che i due concetti vadano distinti e precisati, anche per una questione di dignità umana. Diversa è la condizione di chi lavora e ha sempre lavorato; questi, in caso di malattia, di invalidità, di vecchiaia, ha diritto all’assistenza o alla pensione per quello che ha fatto o per quello che ha pagato; non si tratta qui di una pura e semplice assistenza da parte della collettività.

MOLÈ obietta che il diritto si matura soltanto quando sono pagate le quote per un certo periodo di tempo.

NOCE TERESA insiste sulla opportunità di una specificazione nel senso indicato, che è consigliata sia da ragioni pratiche che da ragioni morali. La distinzione tra previdenza ed assistenza implica la precisazione che l’assistenza va data anche a tutte le persone che non godono della previdenza.

GIUA, pur non dissentendo dai criteri esposti nella relazione dell’onorevole Togni, trova che la formulazione dell’articolo non è sempre felice. Soprattutto non ritiene accettabile l’espressione «tranquillità domestica» che, come è stato già rilevato, è troppo generica.

In realtà si tratta di assicurare un minimo di tranquillità economica attraverso l’assistenza. Questo soltanto la legge può fare.

Propone pertanto che si parli di assistenza materiale degli individui e delle loro famiglie, ovvero che si sopprima quella parte dell’articolo che, per la sua eccessiva genericità, può far cadere in equivoci.

Invita il Relatore a tener conto di tutte le disposizioni riguardanti l’assistenza e la previdenza, alle quali va coordinata la norma in esame.

Insiste nelle sue proposte, perché non si possa muovere alla Commissione l’appunto di avere soltanto fatto delle affermazioni teoriche ed astratte.

MOLÈ è d’accordo sulla necessità di rendere più concreto l’articolo. Quanto alle osservazioni dell’onorevole Noce, ritiene che in questa sede non si debba parlare dell’assistenza ai bambini, che si ricollega piuttosto alla loro educazione e riguarda forme diverse dell’assistenza.

NOCE TERESA chiarisce che ha solo espresso il desiderio che si usi una dizione da cui appaia evidente che hanno diritto all’assistenza coloro che non hanno diritto alla previdenza. Si preoccupa della sorte delle casalinghe e delle vecchie madri di famiglia, che non hanno diritto a pensione, non avendo fatto un lavoro salariato.

MOLÈ osserva che si entrerebbe nel campo della beneficenza, mentre qui si tratta dei diritti che scaturiscono dal diritto al lavoro. L’infanzia va protetta, ma bisogna non ricadere nell’errore del fascismo di sospingere a prolificare con la promessa che lo Stato si preoccuperà dei figliuoli.

Tutto ciò che attiene all’educazione e all’istruzione dei bambini deve costituire argomento di una discussione a parte.

PRESIDENTE rileva che il dubbio sollevato dall’onorevole Noce è implicitamente risolto nel progetto di Costituzione francese, il quale all’articolo 33 dice che «ogni essere umano, che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale, della situazione economica, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza».

MERLIN ANGELINA è d’accordo con l’onorevole Togni sull’impostazione umana e sociale che ha dato alla sua relazione, ma è in disaccordo per quanto riguarda la formulazione dell’articolo. Ritiene che i concetti formulati nella proposta dell’onorevole Togni siano espressi in modo più preciso nel seguente articolo da lei proposto nella parte riguardante le garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia: «Lo Stato ha il compito di assicurare a tutti i cittadini il minimo necessario all’esistenza per ciò che concerne, ecc.; in particolare dovrà provvedere all’esistenza di chi sia disoccupato senza sua colpa o incapace al lavoro per età o per invalidità».

PRESIDENTE ritiene che questa disposizione si possa allacciare alla parte che si riferisce al diritto al lavoro; ora però va considerato in modo particolare il solo diritto all’assistenza e alla previdenza.

Riconosce che non c’è contrasto fra quello che ha detto l’onorevole Noce e quello che sostiene l’onorevole Togni; ma la discussione deve rimanere nell’ambito dei problemi dell’assistenza e della previdenza.

FANFANI è d’avviso che, sia nella relazione dell’onorevole Togni, che nei discorsi pronunziati da altri colleghi, vi sia stata la preoccupazione di trovare un ponte fra l’articolo già approvato sul diritto al lavoro e l’articolo proposto sul diritto all’assistenza; e ritiene che sarebbe necessario inserire fra i due articoli una norma che garantisca, oltre al diritto al lavoro, un minimo di retribuzione in relazione allo sforzo e alle necessità del lavoratore. Propone quindi i seguenti due articoli:

Art. 1.

Ogni lavoratore ha diritto ad un reddito proporzionato al suo sforzo ed alle sue necessità personali o familiari. La Repubblica predisporrà il godimento di questo diritto con norme sulle retribuzioni familiari e previdenziali.

Art. 2.

Ogni cittadino che a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale, della situazione economica, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati per vivere, garantiti dalle assicurazioni sociali e dalle istituzioni di assistenza.

CANEVARI escluderebbe la seconda parte dell’articolo secondo, perché solo in tempi successivi si stabiliranno le norme relative con leggi speciali, a seconda delle condizioni economiche del momento.

TAVIANI riconosce perfetta l’impostazione della relazione; quanto all’articolazione, ritiene opportuno sottolineare i due aspetti del problema: il primo, che il lavoratore va tutelato nei suoi diritti ad un reddito proporzionato, il secondo, che riguarda l’assistenza da dare a coloro che, non per propria colpa, non lavorano, come le madri di famiglia, i bambini, ecc.

Osserva che, trattandosi di due problemi tipicamente diversi, sarebbe necessario dividerli in due articoli.

Dichiara di essere favorevole alla proposta Fanfani, ma concorda con l’onorevole Canevari circa l’opportunità di non insistere sull’ultima parte del secondo articolo proposto e di lasciare soltanto l’accenno alla collettività. Sarebbe anche necessario trovare una frase con la quale si spiegasse che non è sempre lo Stato a soddisfare tali esigenze, ma che vi possono essere altri organismi che possono intervenire in questa garanzia.

È anche d’accordo con l’onorevole Giua sull’opportunità di togliere l’accenno alla tranquillità domestica; prende atto a questo proposito che l’onorevole Giua non riconosce allo Stato l’obbligo di dover intervenire in questo campo.

MARINARO aderisce alla formulazione proposta dal Relatore, tanto nella sostanza quanto nella forma, con l’abolizione, però, di quanto è superfluo ed inutile.

Crede, anzitutto, che il primo comma si possa tranquillamente eliminare. Invece trova molto ben precisato il concetto sostanziale della disposizione enunciata al secondo comma, che è esauriente e si collega con l’affermazione del diritto al lavoro da parte di ogni cittadino. Anche il terzo comma gli sembra ben precisato. Pregherebbe tuttavia l’onorevole Togni di non insistere sul quarto comma, che si riferisce ai mezzi di esecuzione. A questi provvederanno leggi speciali; la Costituzione non può che affermare dei principî.

PRESIDENTE fa presente che, oltre quelli considerati dall’onorevole Togni nella sua proposta, vi sono altri obblighi che incombono allo Stato sotto forma di assicurazione, di garanzia, di tutela e di controllo, ed altri doveri che incombono a protezione del lavoratore contro la possibilità di guai, di infortuni di ogni genere: c’è tutta una legislazione in proposito ed è compito dello Stato assicurare il rispetto di tali obblighi. Tutto ciò può trovar posto o in questa sede o, forse più opportunamente, dove si tratterà dell’azione sindacale.

Prospetta poi l’opportunità di inserire una norma che si riferisca ai danni derivati alle persone o ai beni dalle calamità pubbliche. Nel progetto francese di Costituzione è detto che i danni causati dalle calamità nazionali alle persone o ai beni sono sostenuti dalla Nazione. Gli risulta che su questo tema avrebbe riferito l’onorevole Lombardi, il quale avrebbe prospettato la soluzione nei seguenti termini: «I danni arrecati alle persone e ai loro beni per cause di calamità nazionali sono sostenuti dallo Stato; la legge ne stabilirà la forma e la misura». Crede che un articolo di questo genere debba essere aggiunto alla formulazione suggerita dal Relatore Togni, rientrando anch’esso nel campo dell’assistenza e della solidarietà nazionale.

TOGNI, Relatore, richiama l’attenzione su tre aspetti diversi del problema; la protezione del cittadino in quanto lavoratore o ex lavoratore e la sua tutela giuridica; la previdenza ed infine l’assistenza.

Sono tre aspetti complementari, ma nettamente diversi. Dichiara di non aver preso in considerazione la parte relativa alla tutela, perché parte di un’altra relazione. Intende riferirsi a quel complesso di disposizioni, che sono in continua evoluzione e trasformazione, per la protezione dell’operaio da un eccessivo sforzo fisico, dalle malattie professionali, da tutto ciò che può nuocere alla sua integrità fisica e che costituiscono la parte più nobile dello sforzo delle legislazioni moderne per adeguarsi alle esigenze umane dei lavoratori.

Si è limitato a prendere in considerazione l’assistenza e la previdenza, due aspetti che ritiene cioè molto vicini l’uno all’altro, la cui distinzione è stata sottolineata dall’onorevole Noce. La previdenza deriva dal lavoro effettuato; l’assistenza è una forma generica di intervento della collettività. La prima è volontaria (anche quando la legge la impone), perché vi è il concorso economico diretto del lavoratore; la seconda non è volontaria, ma dipende dalla iniziativa della collettività.

Rileva che la parola «assistenza», di cui al secondo comma, va intesa nel senso di previdenza; ma osserva che sarebbe stato improprio usare questa parola, perché si tratta di assistenza che deriva dal lavoro, dal fatto cioè, che quel determinato individuo ha svolto un’attività lavorativa che in un determinato momento non può più esplicare a causa di malattia, di infortunio, di perdita della capacità lavorativa o di disoccupazione involontaria.

Il terzo comma invece riguarda l’assistenza in genere, e in questo caso la parola «assistenza» significa mezzo per vivere ed è quella che la collettività compie nei confronti di quel notevole numero di persone che sono impossibilitate a vivere col reddito del proprio lavoro, perché non hanno la possibilità di lavorare in quanto costituzionalmente inadatte al lavoro.

È una materia destinata a svilupparsi ampiamente e a diffondersi col progredire della civiltà; perciò egli si è limitato ad affermare questo diritto generale che ritiene ben definito.

L’onorevole Noce ha parlato delle donne casalinghe; osserva che questa categoria è compresa in tutti e due i casi, perché, se si tratta di lavoratrici, beneficeranno dell’assistenza in caso di malattie, infortuni ecc., a norma del secondo comma; se invece sono buone madri di famiglia e non impiegate, rientrano in quanto è stabilito nel terzo comma. Non vede quindi la necessità di stabilire una voce particolare.

NOCE TERESA precisa di non desiderare una formulazione particolare, ma una formulazione dalla quale risulti chiaramente che la seconda parte non dipende dalla prima, così come sembrerebbe.

TOGNI, Relatore, risponde che i due concetti sono nettamente diversi e chiaramente risultano dalla formulazione.

L’onorevole Giua si è preoccupato dell’obbligo fatto allo Stato di assicurare al cittadino anche la tranquillità domestica, familiare. Naturalmente la dizione proposta si riferisce alla tranquillità economica della famiglia.

Il campo dell’assistenza e della previdenza ha una sua particolare influenza non meno nobile, anche nelle relazioni sociali. Infatti questa assistenza e questa previdenza si prefiggono di sottrarre le masse a quella miseria che può essere cattiva consigliera e spingerle a turbare la pubblica tranquillità; si prefiggono di assicurare il diritto ad una certa tranquillità in seno alla famiglia, onde permettere a tutti una elevazione personale e culturale.

È del parere che il primo comma dell’articolo non debba essere soppresso; se la Commissione lo ritenesse opportuno, si potrebbe eventualmente modificare.

Quanto alla proposta di abolire o di coordinare la formulazione con altri articoli di altre relazioni, è d’accordo nel senso di coordinare e non di abolire, poiché tutte le Costituzioni danno un rilievo particolare a questa nota di umanità e di socialità. Riconosce la necessità del coordinamento per evitare ripetizioni, ma intanto si potrebbe passare alla votazione, subordinando il particolare riferimento ai singoli articoli a quella che deve essere l’affermazione di principio e di ordine generale.

L’onorevole Merlin si è preoccupata della formulazione dell’articolo. Se si vuole affrontare il problema dell’assistenza insieme con quello della previdenza nel suo complesso, va tenuta presente la necessità pratica di precisare il meno possibile, in quanto si tratta di materia alla quale devono provvedere leggi speciali, accordi diretti e norme varie che possono essere concordate volta per volta.

Concludendo, per quanto riguarda il primo comma, sarebbe d’avviso di lasciarlo com’è, modificando tutt’al più le parole «la tranquillità o possibilità economica familiare per consentire un’elevazione spirituale», o qualche cosa di simile. Quanto alla proposta di soppressione dell’ultima parte dell’articolo, pur non opponendosi, fa considerare che vi è un’affermazione che deve essere presa in considerazione, se non in questa, in altra sede, in quanto esiste un obbligo da parte dello Stato di assicurare la residua capacità lavorativa a favore degli invalidi ed a favore di coloro i quali, pur non potendo al cento per cento svolgere un lavoro, hanno comunque una possibilità lavorativa.

MARINARO, ritenendo che tale materia riguardi di più la sanità pubblica, propone che si proceda alla votazione dell’articolo del Relatore con la soppressione, da lui già proposta, del primo e dell’ultimo comma.

PRESIDENTE ritiene conveniente accogliere la proposta dell’onorevole Marinaro di porre in votazione il secondo e il terzo comma, essendo con lui pienamente d’accordo nel ritenere superfluo anche il quarto comma, in quanto i due commi centrali mettono a fuoco i due problemi fondamentali dell’assistenza e della previdenza.

TOGNI, Relatore, accetta la proposta dell’onorevole Marinaro; propone però le seguenti modifiche: al primo comma dire «dal diritto al lavoro» invece che «dal lavoro» e «a mezzi adeguati per vivere» al posto delle parole «assistenza materiale».

MARINARO ritiene che al 2° comma la frase «situazione economica» possa ingenerare confusione, non potendosi trattare della situazione economica personale del lavoratore.

TAVIANI chiarisce che deve essere intesa come «congiuntura». Propone, anzi, di sostituire tale parola a «situazione economica».

Aggiunge che la votazione dei due commi lascia insoluto il problema della tutela del lavoro, problema che per altro è già contenuto nelle conclusioni formulate dall’onorevole Colitto ed approvate dalla Sottocommissione.

NOCE TERESA propone di aggiungere che il lavoratore ha diritto all’assicurazione dei mezzi materiali per vivere e per far rientrare in questa enunciazione il concetto della previdenza, suggerisce la formula: «conseguire il diritto all’assicurazione di mezzi adeguati all’assistenza».

TOGNI, Relatore, osserva che l’onorevole Noce è mossa giustamente dalla preoccupazione di assicurare l’assistenza alle donne casalinghe e dichiara di non aver nulla in contrario a modificare il suo enunciato; ma ritiene che in tal modo si perderebbe di vista il concetto della previdenza, perché la disoccupazione involontaria che consegue dal diritto al lavoro non rientra nel campo della previdenza, o almeno non vi rientra sempre. La disoccupazione può essere considerata dal punto di vista della previdenza, quando si tratta di una parentesi dell’attività lavorativa; può essere invece considerata dal punto di vista assistenziale, quando è conseguenza del diritto al lavoro e quindi della mancata capacità, da parte dello Stato, di procurare il lavoro stesso. Ritiene che debba darsi maggior rilievo al caso dell’assistenza, piuttosto che a quello della previdenza, e concorda che per la previdenza si dica: «con mezzi adeguati per vivere». Nel caso dell’assistenza lascerebbe invece la dizione «mezzi adeguati di assistenza».

NOCE TERESA vorrebbe che fosse fatta una differenza nel modo e non nei mezzi, perché non si tratta di assistenza sotto forma di carità pubblica, sia pure sociale, ma di qualche cosa che sorge da un diritto.

TAVIANI afferma che il bambino ha diritto a vivere né più né meno che il lavoratore. Pertanto il diritto è uguale per tutti.

FANFANI fa notare che, pur essendo lo Stato tenuto a combattere la disoccupazione, questa può assumere uno sviluppo imprevedibile e determinare una situazione generale, alla quale non è possibile rimediare.

PRESIDENTE chiarisce che il concetto di disoccupazione involontaria contempla tanto i casi dipendenti dal singolo come quelli dipendenti da una situazione generale. Pertanto non ritiene necessaria una specificazione.

TOGNI, Relatore, per togliere l’equivoco propone di dire che ogni cittadino, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale o per calamità generali, che possono essere di ordine economico (perché in definitiva nel caso della crisi economica si rientra nel primo comma), ha diritto all’assistenza.

MARINARO ritiene preferibile la parola «contingenza» in luogo di «calamità», in quanto è logico che in caso di calamità lo Stato intervenga. Direbbe «contingenze di carattere generale».

TOGNI, Relatore, pensa che l’espressione «ogni cittadino che si trova nell’impossibilità di lavorare» sia giusta nei confronti del caso precedente, ma incompleta. D’altra parte, col termine «adeguati mezzi» si intende che questi debbono essere sufficienti a quelle che sono le necessità fisiche.

MERLIN ANGELINA propone di seguire l’esempio della Carta costituzionale francese, che parla di «mezzi convenienti di assistenza», dicendo pertanto: «mediante opere di assistenza o di previdenza».

MARINARO propone la dizione: «a titolo di ottenere dallo Stato mezzi adeguati di assistenza».

TOGNI, Relatore, vorrebbe tenere distinti i concetti. Assicurare i mezzi adeguati per vivere significa, ad esempio, assicurare un’indennità pecuniaria speciale; quando invece si parla di mezzi adeguati di assistenza si intende che venga data al lavoratore un’assistenza adeguata, tenendo conto delle possibilità dello Stato o della collettività.

MARINARO propone di sostituire alla parola, «collettività» la parola «Stato».

FANFANI osserva che quando si parla di Stato ci si può riferire a quelle assicurazioni centralizzate le quali badano soltanto a costruire dei bei palazzi, ma che non fanno certo l’interesse dei lavoratori. Un sindacato od una fabbrica potrebbero realizzare nel loro interno una forma di assicurazione assai più efficiente dell’odierna assicurazione burocratizzata.

La previdenza, poi, si risolve in un intervento economico, generalmente saltuario. Infatti, salvo che per la vecchiaia, in cui è continuo fino alla morte, negli altri casi l’intervento per malattia, per infortunio, per perdita parziale della capacità lavorativa è temporaneo. Nel caso degli inabili, di coloro che non hanno mai potuto lavorare, l’assistenza si risolve in un complesso di azioni che vanno oltre il fatto economico.

Ci sono istituti di cura, ospedali, orfanotrofi, tutto un complesso che costituisce la grande attività assistenziale dello Stato. È un’attività di protezione fisica ed economica nei confronti dei cittadini minorati; e pertanto, quando si parla dei mezzi adeguati di assistenza, si ha già un concetto preciso e si completa l’idea di possibilità di vita, non solo materiale, ma anche intellettuale.

TOGNI, Relatore, rinuncia, benché a malincuore, al primo comma, ma si riserva di parlare in proposito in altra sede. Circa il secondo comma propone di modificarne la prima parte nel modo seguente: «Dal lavoro consegue il diritto a mezzi adeguati per vivere in caso di malattia, infortunio, ecc.».

Il terzo comma dovrebbe suonare così: «Ogni cittadino che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale, o per contingenze di carattere generale si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza».

Per quanto riguarda il quarto comma, pur dichiarando di aderire alla proposta fatta di sopprimerlo, si riserva di riprenderne la discussione in altra sede.

PRESIDENTE pone ai voti il secondo e il terzo comma dell’articolo proposto dal Relatore che viene così a costituire un articolo così formulato:

Art. …

«Dal lavoro consegue il diritto a mezzi adeguati per vivere in caso di malattia, di infortunio, di perdita della capacità lavorativa, di disoccupazione involontaria».

«Ogni cittadino che, a motivo dell’età, dello stato fisico o mentale, o per contingenze di carattere generale, si trovi nell’impossibilità di lavorare, ha diritto di ottenere dalla collettività mezzi adeguati di assistenza».

FANFANI propone il seguente articolo aggiuntivo:

«Ogni lavoratore ha diritto ad un reddito proporzionato alla quantità e alla qualità della prestazione e alle sue necessità personali e familiari.

«La Repubblica predisporrà il godimento di questo diritto con norme sulle retribuzioni vitali previdenziali e familiari».

Desidera sia messo a verbale che approva l’articolo proposto dal Relatore, soltanto se preceduto da una formula di questo genere.

TAVIANI si associa. Ritiene indispensabile un articolo del tenore di quello proposto dal collega Fanfani, salvo a mettersi d’accordo sulla forma.

MERLIN ANGELINA ritiene che non sia materia da inserire nella Costituzione quella che forma oggetto del capoverso dell’articolo proposto.

FANFANI dichiara di non avere difficoltà a rinunciarvi. Lo riteneva necessario per il fatto che finora si è seguito il criterio, più o meno discutibile, di fare un’enunciazione di principio ed un invito all’attuazione.

PRESIDENTE rinvia la discussione al giorno successivo.

La seduta termina alle 12.

Erano presenti: Fanfani, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Taviani, Togni.

È intervenuto autorizzato: Canevari.

Assenti giustificati: Colitto, Di Vittorio, Dominedò, Federici Maria, Lombardo Ivan Matteo, Paratore, Pesenti, Rapelli, Simonini.

MARTEDÌ 10 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

3.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 10 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

 

INDICE

Dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro (Seguito della discussione)

Presidente – Colitto, RelatoreCanevari – Togni – Taviani – Di Vittorio – Fanfani – Giua – Marinaro – Molè – Paratore – Merlin Angelina.

La seduta comincia alle 16.15.

Seguito della discussione sul dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro.

PRESIDENTE avverte che si riprende la discussione sul dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro.

COLITTO, Relatore, rileva che altro è il diritto che ogni cittadino ha di lavorare senza che gli si frappongano limitazioni o riducendosi queste all’indispensabile, altro è il diritto del cittadino al lavoro. Nel primo caso il lavoro è già trovato dai cittadini e solo si discute delle condizioni della sua esplicazione, mentre nel secondo il cittadino va alla ricerca di un lavoro che non trova e che, pur ammettendosi il suo diritto, dovrebbe trovare. Ora, poiché è assurdo parlare in una Costituzione, che è un documento soprattutto di carattere giuridico, del diritto del cittadino, senza che si possa insieme parlare di un corrispondente dovere dello Stato a garantirne la soddisfazione, pensa che le formule, proposte non siano da approvarsi, in entrambe proclamandosi il diritto al lavoro del cittadino senza che insieme si proclami il corrispondente dovere dello Stato di assicurarlo. Costituisce per lui una vera irrisione all’enorme massa dei disoccupati che non diminuisce, ma purtroppo aumenta, di inserire nella Carta costituzionale che lo Stato ha il dovere di trovare lavoro ai disoccupati quando è certo che, per tradurre tale dovere in pratica, sono necessari provvidenze e istituzioni estremamente complesse e soprattutto possibilità finanziarie che non l’Italia soltanto, ma la più parte degli Stati, è ben lungi dal possedere.

CANEVARI si dichiara, in linea di massima, d’accordo con la formula proposta ieri del Presidente, che preciserebbe nel seguente modo:

«Il lavoro è un dovere e un diritto da parte di ogni cittadino, conforme alla propria scelta e alla propria idoneità».

Aggiungerebbe poi:

«È compito dello Stato, con le sue leggi, facilitare di collocamento del lavoro, disciplinarne le forme, i limiti e le condizioni affinché esso sia realizzato nel modo più soddisfacente e più vantaggioso per il singolo e per la collettività».

TOGNI adotterebbe una formula più semplice e chiara.

TAVIANI non accetta la tesi sostenuta dall’onorevole Colitto e si domanda perché se questi si preoccupa di non dichiarare il diritto al lavoro, in quanto ne deriverebbe un dovere per lo Stato di dare a tutti il lavoro, non si preoccupa viceversa di dichiarare il dovere al lavoro, per il quale, ragionando allo stesso modo, lo Stato potrebbe obbligare tutti a lavorare.

Rileva che un’affermazione di principio vincola la Stato a una determinata politica, ma non a rispondere caso per caso, sicché è necessario trovare una formula la quale parli appunto di questo indirizzo che deve avere lo Stato nella sua politica economica. A questo proposito si dichiara favorevole alla formula prospettata ieri dall’onorevole Noce o ad altre simili che dicessero che «primo fine della politica economica dello Stato deve essere il pieno impiego», cioè non «garantire a tutti il diritto al lavoro», ma piuttosto «creare condizioni tali perché possa esplicarsi il diritto al lavoro».

DI VITTORIO concorda con le affermazioni dell’onorevole Taviani, aggiungendo tuttavia che sarebbe preferibile precisare maggiormente l’enunciazione del diritto al lavoro. Una Costituzione non è una legge che serve a soddisfare soltanto esigenze immediate, ma segna invece una tappa che si proietta nell’avvenire e indica una prospettiva politica e storica.

Bisogna, pertanto, affermare il diritto al lavoro: ciò significa che lo Stato deve seguire un indirizzo politico-sociale tale da assicurarne l’esercizio, quando le condizioni economico-sociali lo consentiranno.

Si limiterebbe, quindi, a fare la seguente affermazione pura e semplice: «Lo Stato riconosce il diritto al lavoro per tutti i cittadini italiani». Si potrebbe poi aggiungere: «La legislazione deve tendere a realizzare condizioni tali da poter assicurare concretamente questo diritto».

FANFANI in base ai rilievi fatti ieri sera e a quelli fatti nella riunione odierna, pensa di poter proporre una nuova formula così concepita: «Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di dedicare la sua opera manuale o intellettuale ad un’attività produttiva conforme alle sue attitudini e nei limiti delle sue possibilità. La Repubblica riconosce al cittadino il diritto ad una occupazione continua e proficua o almeno ad un’assistenza che la surroghi e con norme apposite ne predisporrà il godimento, incoraggiando e coordinando l’attività economica promossa dai privati, svolgendo una politica di pieno impiego, stipulando accordi internazionali per l’emigrazione e determinando le modalità dell’indennizzo ai disoccupati involontari».

DI VITTORIO dichiara di essere contrario a questa formula ritenendola eccessivamente lunga. Fa presente che la Commissione deve fissare i principî generali e non sostituirsi al legislatore.

TOGNI dopo aver constatato che si è di massima d’accordo che lo Stato deve riconoscere il linea di principio il diritto al lavoro, così come si è d’accordo nel riconoscere che per realizzare questo diritto lo Stato deve fare quanto è possibile, propone di aggiungere alla formula proposta dal Presidente: «Lo Stato, riconoscendo il diritto al lavoro da parte dei cittadini, interviene affinché l’ordinamento giuridico e le condizioni sociali ed economiche ne assicurino la possibile realizzazione».

GIUA adotterebbe la seguente enunciazione sintetica: «La Repubblica afferma il diritto al lavoro per ogni cittadino ed all’uopo ne assicura l’attuazione pratica».

MARINARO presenta il seguente ordine del giorno:

«La terza Sottocommissione, dopo l’ampia discussione svoltasi, ritiene che le disposizioni da includere nella Costituzione debbano conciliare le giuste esigenze delle classi lavoratrici con la situazione economica generale del Paese ed i compiti essenziali di uno Stato democratico.

«E pertanto, fondendo e precisando gli articoli formulati dai vari oratori, delibera di predisporre la seguente unica disposizione:

«Il lavoro è un diritto e nello stesso tempo un dovere di ogni cittadino, che li esercita in conformità della propria idoneità e della propria scelta.

«Lo Stato creerà, con tutti i mezzi a sua disposizione, le più vaste possibilità di lavoro e ne tutelerà i rapporti in modo da assicurare il maggior vantaggio ai singoli cittadini e alla collettività».

DI VITTORIO è contrario alla formula proposta che, nella sua genericità, non segnerebbe un progresso nel campo sociale.

Ribadisce il concetto che la Costituzione, prendendo la situazione attuale come punto di partenza, deve sforzarsi di indicare una prospettiva storica, e quindi deve tener aperta la via al progresso legislativo. Il valore dell’affermazione risiede nel fatto che lo Stato e la società nazionale italiana devono essere organizzati in modo tale da determinare concretamente le condizioni che assicurino il diritto al lavoro a tutti i cittadini.

In base a questo concetto cade la preoccupazione che lo Stato non possa, nel momento attuale, assicurare il lavoro a tutti i cittadini.

TOGNI è d’accordo con l’onorevole Di Vittorio che lo Stato debba proiettare la sua azione nel futuro; di fronte alle difficoltà pratiche che l’affermazione di un principio impegnativo determina, bisogna graduarne la realizzazione.

DI VITTORIO nota che la formulazione da lui proposta è moralmente impegnativa e demanda al potere legislativo il compito di realizzarne le condizioni.

TAVIANI vorrebbe tener distinti i due problemi. Circa l’enunciazione di carattere generale relativa al diritto, e al dovere del lavoro la Sottocommissione, tranne l’onorevole Colitto, è d’accordo. Si potrebbe, in proposito, adottare la formula proposta nella precedente riunione dal Presidente.

Quanto al secondo punto la dizione proposta dall’onorevole Fanfani è completa, ma forse troppo scientifica, mentre l’altra dell’onorevole Togni, con le parole: «ne assicurino la possibile realizzazione», viene, a suo parere, a limitare troppo il concetto del diritto al lavoro. Si potrebbe, in conclusione, dire: «Lo Stato provvede a porre le condizioni economiche e sociali per assicurare a tutti i cittadini il lavoro», aggiungendo, se del caso: «oppure, ove questo non sia possibile, una assistenza che lo surroghi».

FANFANI fa presente che nella formula da lui proposta ha riprodotto le esigenze manifestatesi nella discussione di ieri. È, peraltro, convinto che nelle Costituzioni non si fanno solo affermazioni di principî generici. Una Costituzione aderisce alla realtà in quanto scende a qualche individuazione di cose fattibili.

DI VITTORIO accetterebbe la formulazione dell’onorevole Fanfani in un progetto di legge, ma non nella Costituzione, per quanto ritenga anch’egli che la Costituzione non debba consistere in una serie di enunciazioni generiche.

TOGNI modificherebbe la sua proposta in questi termini: «Lo Stato, riconoscendo il diritto al lavoro da parte dei cittadini, provvede affinché l’ordinamento giuridico e le condizioni sociali ed economiche ne consentano la realizzazione».

Sarebbe contrario ad unire la questione previdenziale a quella del lavoro, trattandosi di affermazioni in campi diversi.

MOLÈ osserva che lo Stato non provvede, ma provvedono i governi. Richiama la Sottocommissione alle considerazioni svolte nella relazione Pesenti.

PARATORE rileva l’enorme importanza dell’argomento in discussione. Oggi lo Stato interviene in questo campo attraverso l’assistenza. Si tratta ora di trasformare l’intervento dello Stato da assistenziale in intervento attivo. Una volta messo avanti il principio di questo diritto, il problema consiste nel vedere se ci si debba limitare a questa affermazione o se si debba fare un passo più avanti.

Poiché ritiene che fare un passo più avanti sia pericoloso, propone la seguente formula:

«La Repubblica riconosce il diritto al lavoro di tutti i cittadini. La politica economica e finanziaria dello Stato tenderà a creare le condizioni che permettano d’assicurare tale diritto».

MERLIN ANGELINA propone la seguente dizione:

«Lo Stato riconosce il diritto ed il dovere dei cittadini al lavoro ed è tenuto a promuovere i piani economici che assicurino il minimo necessario alla vita e, se non è possibile, l’assistenza».

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Togni ha così modificato la formula proposta:

«Lo Stato riconosce il diritto al lavoro da parte dei cittadini ed interviene affinché l’ordinamento giuridico e le condizioni sociali ed economiche ne consentano la realizzazione».

TAVIANI assocerebbe il diritto al lavoro al dovere.

Propone, intanto, che si abbassi alla votazione delle proposte fatte.

CANEVARI è anch’egli d’avviso che si adotti una formula in cui si parli del dovere e del diritto al lavoro.

DI VITTORIO osserva che l’affermazione del lavoro quale dovere sociale ha un valore esclusivamente etico, mentre l’affermazione del diritto al lavoro rappresenta una conquista delle masse lavoratrici ed un progresso della legislazione. Se si vuole porre l’accento su questa ultima affermazione bisogna precisare che la Repubblica riconosce il diritto al lavoro a tutti i cittadini italiani. Se poi vi fossero degli scrupoli sulla applicabilità di tale norma, si potrà aggiungere che la legislazione tenderà a creare condizioni economiche e sociali tali che permettano di assicurare questo diritto.

A suo parere, bisognerebbe limitarsi alla prima affermazione.

MOLÈ si associa osservando che sarebbe scorretto, dal punto di vista giuridico, anticipare in un testo costituzionale la materia propria della legislazione e tanto meno di parlare di politica economica e finanziaria.

DI VITTORIO rileva tuttavia che molte Costituzioni moderne si soffermano su tali particolarità.

MOLÈ nota che si tratta evidentemente delle Costituzioni di quei paesi in cui già esiste un’economia statizzata.

COLITTO insiste perché si accetti la formulazione da lui già proposta e cioè: «Ogni cittadino ha il dovere di dedicare la sua opera, manuale o intellettuale, ad una attività produttiva da lui liberamente scelta conforme alle sue attitudini e nei limiti delle sue possibilità».

TAVIANI propone la seguente formula: «Ogni cittadino ha il diritto e il dovere di lavorare conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta».

PRESIDENTE ritiene che quest’ultima formulazione dell’onorevole Taviani possa raccogliere l’unanimità dei consensi.

Si potrebbe porre ai voti, salvo poi ad integrarla con una delle enunciazioni proposte.

COLITTO ritiene che si debba tener presente tutto l’articolo, per fissare una buona coordinazione fra le diverse parti.

PRESIDENTE osserva che vi è un nesso logico fra le varie parti dell’articolo: si vota cioè una prima affermazione sul riconoscimento del diritto e del dovere di lavorare; seguirà una seconda affermazione sul riconoscimento del diritto al lavoro; sarà in seguito posta ai voti una terza parte, sulla quale vi sono già quattro formulazioni, che saranno lette a suo tempo.

Pone ai voti la formula proposta dall’onorevole Taviani: «Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

(È approvata all’unanimità).

Pone ora ai voti la seconda parte dell’articolo:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro».

MARINARO ritiene superflua questa enunciazione.

TAVIANI non è dello stesso avviso, in quanto una cosa è il diritto di lavorare e altra cosa è il diritto al lavoro.

COLITTO dichiara di votare, nonostante quanto ha detto, favorevolmente, perché, in sostanza, il concetto espresso in modo generico nella parte messa in votazione (si afferma un diritto naturale), è precisato sotto forma di tendenza nella parte che si dovrà votare in una delle formulazioni che saranno lette.

MARINARO dichiara di votare favorevolmente, pur ritenendo tuttavia superflua una tale affermazione.

(La formula è approvata all’unanimità).

Per la terza parte sono stati presentati diversi testi di cui dà successivamente lettura.

Marinaro: «Lo Stato creerà, con tutti i mezzi a sua disposizione, le più vaste possibilità di lavoro e ne tutelerà i rapporti in modo da assicurare il maggior vantaggio ai singoli cittadini ed alla collettività».

Togni: « …e provvede affinché l’ordinamento giuridico e le condizioni sociali ed economiche ne consentano la realizzazione».

Paratore: «La politica economica e finanziaria dello Stato tenderà a creare le condizioni che permettano di assicurare tale di diritto».

Merlin: « …ed è tenuta a promuovere l’attuazione di piani economici e finanziari che ne consentano l’esercizio».

TAVIANI invita l’onorevole Paratore a sostituire all’espressione «politica economica e finanziaria» la parola «Stato».

PARATORE si tratta di un concetto del tutto differente.

FANFANI propone che alla formula già approvata: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro» siano, aggiunte le parole: «e predispone tutti i mezzi necessari al suo godimento».

GIUA chiede che sia posta in votazione la formula proposta dall’onorevole Fanfani, in quanto più semplice e ampia.

TAVIANI chiede che in luogo di dire: «tutti i mezzi necessari» si dica: «i mezzi necessari».

FANFANI accetta l’emendamento proposto dall’onorevole Taviani.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Fanfani di aggiungere alla formula già approvata: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro» le parole: «e predispone i mezzi necessari al suo godimento».

PARATORE dichiara di votare contro la formula Fanfani perché ritiene, in base a personale esperienza, che sia equivoca e soverchiamente impegnativa.

COLITTO dichiara di astenersi per le stesse ragioni dette dall’onorevole Paratore. Egli avrebbe preferito l’ordine del giorno Marinaro.

MOLÈ dichiara di astenersi perché desidera una formulazione generica, senza determinazioni, in maniera che sia lasciata la più ampia facoltà di emanare provvedimenti legislativi ai governi repubblicani legittimi che si succederanno.

Votano : Di Vittorio, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Noce Teresa, Rapelli, Taviani, Togni.

Vota no: Paratore.

Si astengono: Colitto, Molè.

(La formula è approvata).

PRESIDENTE. L’articolo approvato risulta così formulato:

«Ogni cittadino ha il dovere e il diritto di lavorare conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta.

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini italiani il diritto al lavoro e predispone i mezzi necessari al suo godimento».

La seduta termina alle 18.20.

Erano presenti: Colitto, Di Vittorio, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Rapelli, Taviani, Togni.

È intervenuto autorizzato: Canevari.

Assenti giustificati: Dominedò, Lombardo, Pesenti, Simonini.

LUNEDÌ 9 SETTEMBRE 1946

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

TERZA SOTTOCOMMISSIONE

2.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI LUNEDÌ 9 SETTEMBRE 1946

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE GHIDINI

 

INDICE

Sui lavori della Sottocommissione

Presidente – Taviani – Colitto, Relatore – Molè – Noce Teresa – Di Vittorio – Giua.

Dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro (Discussione)

Presidente – Colitto, Relatore – Molè – Taviani – Canevari – Di Vittorio – Togni – Noce Teresa – Fanfani – Giua.

La seduta comincia alle 17.30.

Sui lavori della Sottocommissione.

PRESIDENTE comunica che nel corso dell’ultima settimana, i relatori designati dalla Sottocommissione hanno tenuto varie riunioni allo scopo di coordinare le loro proposte e di accertare i punti di convergenza e di divergenza. Quasi tutte le relazioni sono state stampate. Allo stato attuale, il tema sul quale tutte le relazioni sono state già presentate è quello delle garanzie economico-sociali per l’assistenza della famiglia (relatrice Merlin Angelina, correlatrici Noce Teresa e Federici Maria).

Ricorda, peraltro, che alcuni dei temi che la Commissione per la Costituzione in seduta plenaria attribuì all’esame della terza Sottocommissione furono successivamente avocati a sé anche dalla prima Sottocommissione, la quale ritenne di non poter trattare i problemi delle libertà del cittadino prescindendo da quelle che sono le libertà economiche. Fra i temi assegnati dalla prima Sottocommissione ai propri relatori figurano, pertanto, il diritto di lavorare scegliendo il proprio lavoro, il dovere del lavoro, il diritto di organizzare i mezzi per controllare le condizioni del lavoro, il diritto di associarsi per la tutela degli interessi di categoria, il diritto di sciopero economico, il diritto all’equa remunerazione del lavoro, ad un orario umano, al riposo settimanale e annuale retribuito, il diritto al risparmio e alla proprietà privata, le condizioni per procedere a collettivizzazione: tutti temi che rientrano invece nella specifica competenza della terza Sottocommissione.

Ammette l’opportunità di contatti con la prima Sottocommissione e di eventuali accordi, ma non ritiene che l’interferenza nei temi assegnati alla terza Sottocommissione debba rappresentare un ostacolo ad una discussione anche indipendente, salvo il coordinamento definitivo in sede di seduta plenaria della Commissione.

TAVIANI si dichiara d’accordo e desidera che resti a verbale una protesta per questa invasione della prima Sottocommissione nella materia di studio attribuita alla terza. Ciò ha complicato l’ordine dei lavori. Nella ripartizione della materia i diritti economici e sociali furono espressamente esclusi dalla prima Sottocommissione.

COLITTO, Relatore, manifesta la sua sorpresa nel constatare che la materia del lavoro come diritto-dovere, per la quale fu nominato relatore dalla terza Sottocommissione, è stata trattata anche dall’onorevole Lucifero, della prima Sottocommissione, in una relazione nella quale, in taluni punti, si giunge a conclusioni diverse dalle sue. Di tale altra relazione, comunque, egli terrà conto nei suoi rilievi.

MOLÈ comprende bene che lo stesso lavoro compiuto da due diverse Sottocommissioni dia luogo a doppioni e a contrasti, ma pensa che tali inconvenienti derivino dal modo con cui si procedette alla suddivisione dei temi. Data la materia relativa ai diritti e ai doveri del cittadino assegnata alla prima Sottocommissione, questa ha ritenuto di non poter ignorare i diritti e i doveri nel campo economico e in quello sociale: diritti e doveri indubbiamente preminenti in uno Stato moderno, ove non pare possibile considerare il cittadino prescindendo dai rapporti economici, di lavoro, sociali con la collettività. Sarebbe stato, a suo parere, opportuno prestabilire un’intesa delle due Sottocommissioni su questi particolari temi.

Allo stato attuale converrebbe che i relatori delle due Sottocommissioni esaminassero insieme i temi svolti, in modo da evitare conflitti di competenza.

PRESIDENTE nota che sarebbe, a suo avviso, preferibile che la terza Sottocommissione arrivasse a delle conclusioni in tutti i temi svolti, salvo poi a prendere accordi con la prima Sottocommissione.

NOCE TERESA pensa che sul problema della famiglia potrebbero intanto riunirsi le tre relatrici della terza Sottocommissione con gli onorevoli Corsanego e Iotti Leonilde, relatori della prima.

DI VITTORIO di fronte all’inconveniente che alcuni problemi sono stati trattati dalla prima e dalla terza Sottocommissione, crede che la soluzione più pratica sia quella prospettata dall’onorevole Molè, cioè che si riuniscano i relatori delle due Sottocommissioni.

GIUA ritiene che, ad evitare perdite di tempo, sia opportuno portare il risultato dei lavori delle singole Sottocommissioni dinanzi alla Commissione plenaria per il necessario coordinamento.

TAVIANI è d’accordo col Presidente, nel senso che la terza Sottocommissione prosegua i suoi lavori e prenda le sue decisioni, indipendentemente da interferenze che possano sorgere con la prima Sottocommissione.

(La Sottocommissione concorda).

PRESIDENTE propone che l’ordine degli argomenti da esaminare sia quello stabilito a conclusione della prima seduta della Commissione.

(Così rimane stabilito).

Discussione sul dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro.

PRESIDENTE dà atto che, ai temi trattati, è da aggiungersi la cooperazione, che rientra negli aspetti economico-sociali del diritto di associazione e sul quale è relatore l’onorevole Canevari.

Invita l’onorevole Colitto a riferire sul dovere sociale del lavoro e diritto al lavoro.

COLITTO, Relatore, a conclusione degli argomenti svolti nella relazione scritta, propone che nella Costituzione siano inseriti tre articoli, dei quali l’uno consacrerebbe l’affermazione che deriva dalla vita economica sociale moderna: il dovere del lavoro, il secondo il suo pensiero in ordine al diritto al lavoro, mentre il terzo si occuperebbe delle garanzie, che lo Stato deve predisporre per la tutela del lavoro.

Il lavoro – come si afferma nella relazione – è un dovere anzitutto individuale, in quanto, considerato l’individuo nella propria autonomia di fronte alla natura e agli altri uomini, costituisce il solo vero mezzo per assicurare il benessere del singolo e la continuità della specie. È uno di quei fondamentali doveri, di cui è intessuta la nostra essenza spirituale e da cui è diretta la nostra vita quotidiana. Esso non vuole essere considerato come uno sforzo od una somma di sforzi isolati, frammentari, episodici, diretti alla soddisfazione di un bisogno immediato, ma come un’attività complessa, sempre rinnovantesi, in potenza ed in atto, tendente a realizzare il dominio della personalità umana su tutte le vicissitudini e in tutte le contingenze. Tale attività, quindi, non si estingue con l’agiatezza raggiunta, ma permane come una necessità dello spirito, una missione inseparabile dalla natura umana, una nobile passione, che non dà tregua e riposo, che piega ad ogni sacrifizio e ad ogni rinunzia.

Il lavoro è anche un dovere sociale, cioè un dovere verso la collettività, essendo il modo con cui l’individuo, nella solidarietà necessaria in tutti i produttori, partecipa o contribuisce alla vita sociale, lo strumento, mediante il quale può realizzarsi il bene comune ed il comune progresso. Il lavoro, in tutte le sue forme e manifestazioni, non è dal singolo, preoccupato del suo egoistico interesse, esplicato solo per sé o per la famiglia o per l’imprenditore, ma per tutta una determinata categoria di persone, perché la Nazione, per essere attiva e potente, ha bisogno che ciascuno lavori.

Nel primo articolo, quindi, egli propone che si dica: «Ogni cittadino ha il dovere di dedicare la sua opera, manuale o intellettuale, ad una attività produttiva, da lui liberamente scelta, conforme alle sue attitudini, nei limiti delle sue possibilità e sotto l’osservanza della legge».

Può sorgere, a proposito di questo articolo, la questione se il dovere del lavoro sia da ritenersi dovere morale od anche un dovere giuridico. È un dovere morale, per cui potrebbe anche di esso non parlarsi in una Costituzione, la quale è un documento essenzialmente giuridico. È opportuno, però, parlarne, perché tutte le Costituzioni, moderne e contemporanee parlano di questo dovere del lavoro, anche ritenendolo soltanto un dovere etico. Pensa che non si possa parlare di dovere giuridico del lavoro. Chi volesse andare più in là dovrebbe attribuire alla società il potere di costringere al lavoro (servizio obbligatorio del lavoro?) e questa è una proposizione che nessuno vorrebbe sostenere, perché significherebbe l’annullamento della libertà umana.

Il secondo articolo si occupa del diritto al lavoro. Al dovere del singolo di lavorare – si dice nella relazione – fa riscontro il dovere della società di garantire al singolo la reale possibilità di svolgere un’attività manuale o intellettuale, in conformità delle proprie attitudini ed in armonia col supremo interesse sociale. Ogni cittadino sano, il quale cerchi lavoro, deve poterlo trovare, per la estrinsecazione della sua personalità, per il suo miglioramento, per il suo maggiore benessere spirituale e materiale.

A fianco del lavoro-dovere si pone così un diritto al lavoro. Esso trova radice in un canone fondamentale di etica sociale, che ad ogni cittadino sia garantito un minimo di esistenza sufficiente e degna, un diritto ad essere liberato dal bisogno, un diritto a conseguire, secondo l’espressione del Leclercq, «dignità ed indipendenza». Assicurare ad ogni cittadino la libertà dal bisogno è una tappa, assicurargli il pieno sfruttamento della propria capacità di lavoro è la meta. Sotto tale aspetto, il diritto individuale al lavoro trova la sua equivalenza nell’interesse collettivo che le esigenze produttive siano soddisfatte dal più gran numero di consociati, sia per l’incremento della produzione, sia per evidenti ragioni di pace sociale.

Nella Costituzione, che è un documento giuridico, ma che deve tendere a fini di ordine pratico, si può, peraltro, inserire un canone il quale, esplicitamente, in modo tassativo dica: «Lo Stato riconosce al cittadino il diritto al lavoro»? Egli ritiene di no, perché potrà anche affermarsi che ogni cittadino ha diritto al lavoro; ma a che giova tale affermazione, che vuol dire impegno da parte dello Stato di effettuare un integrale impiego della mano d’opera, se lo Stato ciò non può poi effettuare? L’affermazione va, quindi, fatta non in modo tassativo, ma piuttosto in guisa da esprimere una tendenza.

Pertanto, propone che il secondo articolo sia così formulato:

«Lo Stato ha tra i suoi fini essenziali che all’attività produttiva concorra il maggior numero possibile di cittadini e si riserva di intervenire, stimolando ed eventualmente integrando l’offerta individuale di lavoro».

Nel terzo articolo si è occupato della garanzia che lo Stato deve dare al lavoro in genere ed ai rapporti di lavoro in ispecie. L’articolo è formulato così: «Lo Stato assume e garantisce la tutela dei rapporti di lavoro e con le sue leggi disciplina le forme, i limiti e le condizioni della prestazione di lavoro, affinché essa sia realizzata nel modo più soddisfacente e più vantaggioso per il singolo e per la collettività».

Nella relazione ha sottolineato che, in sede di coordinazione di questi articoli con quelli che saranno formulati dai colleghi, che si occuperanno del problema sindacale, forse non sarà inopportuno proclamare che più che dello Stato è delle categorie il diritto di regolare le forme, i limiti e le condizioni delle prestazioni di lavoro, in modo che la tutela dello Stato appaia, come deve essere, sussidiaria e integrativa dell’opera delle associazioni professionali e non primaria e soffocante, anche se esplicata a fin di bene.

MOLÈ quanto all’articolo 1°, condivide il concetto del relatore, ma adotterebbe la seguente formulazione più semplice: «Il lavoro manuale o intellettuale costituisce un dovere per ogni cittadino».

PRESIDENTE propone il seguente articolo in sostituzione dei primi due formulati dal relatore:

«Il lavoro, conforme alla propria scelta ed alla propria idoneità, è un diritto e un dovere di ogni cittadino capace».

COLITTO, Relatore, osserva che se il lavoro è conforme alla propria scelta, si può anche prescindere dall’idoneità.

TAVIANI manterrebbe i due criteri di scelta e di idoneità, che, a suo parere, non sono necessariamente in contrasto.

Dichiara di essere favorevole alla affermazione del diritto al lavoro e osserva che, come il relatore onorevole Colitto ammette il dovere di lavorare in senso etico, dovrebbe ammettere nello stesso senso il diritto al lavoro. In sostanza, il fine cui deve tendere lo Stato è quello del pieno impiego, cioè del lavoro per tutti. Si intende che con ciò non si riconosce da parte del cittadino un’azione per costringere lo Stato a dargli lavoro, qualora ne sia privo.

COLITTO, Relatore, non crede che si possa affermare in un documento di carattere giuridico un diritto al lavoro, dal momento che lo Stato non si trova in condizioni da garantirne l’esercizio. Una simile affermazione, di fronte a milioni di disoccupati, appare come una irrisione. Per questo motivo ha proposto la formula: lo Stato ha «tra i suoi fini essenziali» quello di dar lavoro al maggior numero possibile di cittadini.

CANEVARI rileva che l’argomento è di un’importanza enorme. La Sottocommissione è nel complesso d’accordo nel riconoscere il diritto al lavoro dei cittadino. Si prospetta da parte dell’onorevole Colitto una questione di possibilità. È però da osservare che lo Stato ha delle possibilità che fino ad oggi non ha ancora attuato, quali, ad esempio, lo sviluppo delle industrie, dell’agricoltura, l’adozione di turni di lavoro per occupare il maggior numero di cittadini. Approverebbe, pertanto, l’articolo proposto dal Presidente, passando poi al terzo articolo relativo alla tutela dei rapporti di lavoro.

COLITTO, Relatore, pur dichiarando di essere, in via di massima, d’accordo quanto al principio del diritto al lavoro, teme che la sua consacrazione nella Costituzione possa dar luogo a rilievi di carattere giuridico.

DI VITTORIO osserva che la Costituzione segna una tappa storica nella vita di un popolo, pur ispirandosi alla realtà, deve proiettarsi nell’avvenire come un progresso. Pensa che la Costituzione fallirebbe ad uno dei suoi compiti fondamentali, se non affermasse con molta chiarezza il diritto al lavoro dei cittadini. Ciò non vuol dire che domani, ad esempio, un disoccupato possa convenire in giudizio lo Stato. Affermare il diritto al lavoro deve significare un impegno che la società nazionale, rappresentata dallo Stato, assume di creare condizioni di vita sociale tali che il cittadino possa avere lavoro. Non bisogna, pertanto, considerare l’affermazione di questo diritto dal punto di vista delle possibilità pratiche di questo momento, ma come un orientamento generale che la Costituzione dà al Paese.

Del resto, il problema dei disoccupati esiste attualmente; eppure la Confederazione generale del lavoro non chiede allo Stato sussidi, ma chiede che si creino condizioni tali da dare lavoro ai disoccupali. Come dar lavoro? Ecco un esempio concreto: lo Stato non ha denari in cassa, quindi non può occupare questo gran numero di disoccupati. Ma siccome è un dovere della società nazionale di dare lavoro a tutti i suoi figli, lo Stato deve trarre dalle classi abbienti tutte le possibilità, perché i disoccupati siano posti in condizioni di lavorare con beneficio della vita e del progresso della stessa società nazionale.

È, in conclusione, del parere che sia affermato il principio del diritto al lavoro come impegno che la società nazionale assume di fare tutta quello che è possibile per assicurare il lavoro a ciascun cittadino.

TAVIANI ribadisce che è necessario sancire il diritto al lavoro come formula etica, perché non si può pensare che ci sia un dovere a cui corrisponde un diritto e viceversa. Si può essere d’accordo nel dire che questo diritto non ha un valore di impegno giuridico.

TOGNI concorda con l’opinione dell’onorevole Di Vittorio, la quale rappresenta una interpretazione intermedia, con un significato più rispondente alla realtà. Occorre preoccuparsi di non concretare formule che non si possano tradurre nella realtà.

È convinto che occorra affermare il principio etico del diritto al lavoro: diritto sociale nella sua espressione, economico nella sua realizzazione. Questa affermazione ha una importanza che dovrebbe riflettersi al di là delle nostre frontiere ed essere uno degli elementi determinanti della economia internazionale di domani.

Ammesso il principio che lo Stato debba fare quanto è possibile per assicurare il diritto al lavoro, occorre tuttavia formularlo in modo che non sorgano interpretazioni precipitose o esagerate, che facciano pensare ad un impegno giuridico preciso da parte dello Stato di garantire a tutti il lavoro.

NOCE TERESA, riallacciandosi a quanto ha detto l’onorevole Taviani, e cioè che, consacrato nella carta costituzionale il diritto al lavoro, il garantirlo deve essere uno dei fini essenziali del nuovo Stato della Repubblica italiana, propone di far seguire al testo proposto dal Presidente la seguente enunciazione: «Lo Stato ha tra i suoi fini essenziali la garanzia del diritto ai lavoro per tutti i cittadini». Con le parole «fini essenziali» deve intendersi un riferimento non ai fini concreti di oggi, ma a quelli dell’avvenire.

TAVIANI pensa che potrebbe parlarsi di «compiti essenziali».

PRESIDENTE preferisce la parola «fini», che indica uno scopo che si proietta nel futuro.

TAVIANI concorda sulla opportunità che non ci si debba limitare alla formulazione generica del primo articolo, ma che si debba precisare questa tendenza dello Stato verso la realizzazione concreta del principio affermato. Sotto questo punto di vista la formula proposta dall’onorevole Noce è abbastanza ampia. Se si ammette un ordine nella economia, si deve anche ammettere che questo ordine abbia come fine la garanzia del diritto al lavoro.

COLITTO, Relatore, come ha specificato nella sua relazione, ritiene opportuno consacrare nella Costituzione il diritto al lavoro, ma, a suo avviso, occorre guardarsi dall’adoperare una formula tassativa, la quale potrebbe avere, soprattutto in questo momento, ma anche nell’avvenire, il sapore di una dolorosa ironia.

Pensa, pertanto, che non debba, parlarsi di un diritto al lavoro garantito dallo Stato e nota come tutti i Commissari, che hanno parlato prima di lui, hanno finito con l’ammettere di avere un certo timore di usare queste parole. L’onorevole Di Vittorio, infatti, ha detto che la Costituzione si deve proiettare nell’avvenire, ma deve anche ispirarsi alla realtà ed ha parlato di «orientamento», parola il cui significato contrasta con quello di una affermazione tassativa. Lo stesso dicasi per l’onorevole Taviani, che ha parlato di una «tendenza», e dell’onorevole Togni, per il quale lo Stato deve fare «quanto è possibile».

Osserva che secondo le formulazioni proposte si inserisce nel primo articolo il diritto al lavoro per poi diminuirlo e svalutarlo nel secondo articolo. In queste condizioni è meglio evitare un’affermazione categorica.

Per queste ragioni insiste sulla formulazione da lui proposta. Affermare categoricamente il diritto al lavoro di ogni cittadino capace può dar luogo a disillusioni che possono essere penose e che bisognerebbe sforzarsi di evitare.

FANFANI ricorda che i temi assegnati ai relatori Colitto e Togni, seppure distinti, non consideravano che due aspetti di un unico diritto: del diritto alla vita, e quindi delle garanzie che lo Stato deve assumersi affinché di tale diritto ogni cittadino possa pienamente godere. È vero che questo diritto rientra fra quelli assegnati alla prima Sottocommissione; tuttavia, in attesa di coordinare i lavori con quella, ritiene opportuno fissare anzitutto in un articolo questo diritto primordiale, dal quale discendono i diritti al lavoro e all’assistenza.

Propone pertanto di suddividere in questo modo la materia: nel primo articolo affermare il diritto del cittadino alla vita: «La vita dell’uomo è sacra e la Repubblica preverrà o eviterà le guerre; punirà quanti attentino alla vita dei cittadini; predisporrà tutti i mezzi che consentono la sua piena manifestazione, determinando un orario massimo di lavoro, il riposo festivo, le ferie annuali, predisponendo e coordinando le opere di assistenza igienica e sanitaria per tutti».

In un secondo articolo bisognerebbe parlare del diritto-dovere al lavoro: «Ogni cittadino ha il dovere di lavorare, ma ha pure il diritto naturale a una continua occupazione, sia pure liberamente scelta, secondo la vocazione personale».

In un terzo articolo, infine, occorre prendere in considerazione il modo con cui lo Stato può garantire il diritto al lavoro e le circostanze di disoccupazione involontaria: «La Repubblica predispone il godimento dei diritto al lavoro mediante l’incoraggiamento generale e il coordinamento dell’attività economica promossa dai privati, la politica dell’impiego totale, l’attività dei pubblici uffici di collocamento, la stipulazione di accordi sull’emigrazione».

GIUA conviene che le preoccupazioni dell’onorevole Colitto sono del tutto giustificate sotto il profilo giuridico, ma pensa che la Costituzione debba essere un documento che trascende lo stretto diritto per assumere anche un significato politico, programmatico, sociologico. D’altra parte anche dal punto di vista giuridico può osservarsi che, almeno per determinate categorie di cittadini, lo Stato assicura i mezzi di esistenza, indipendentemente dal fatto del lavoro: tale è il caso dei sussidi di disoccupazione.

COLITTO, Relatore, fa notare che questo prova come lo Stato non può dare sempre il lavoro.

GIUA obietta che il sussidio di disoccupazione serve appunto a sostituire i proventi del lavoro, cui si ha diritto. D’altronde il diritto al lavoro è riconosciuto in tutte le moderne costituzioni e non affermarlo significherebbe un arretramento di posizioni.

COLITTO, Relatore, prega il Presidente di rinviare la discussione a domani. Tenendo conto di tutte le osservazioni che sono state fatte, formulerà un nuovo testo degli articoli in esame, che sottoporrà domani al parere della Sottocommissione.

PRESIDENTE accede alla richiesta del Relatore, raccomandandogli di tenere particolarmente presente la formulazione proposta dalla commissaria Noce, in cui si parla di «fine essenziale» e non di un dovere giuridico dello Stato di garantire il diritto al lavoro.

La seduta termina alle 19.45.

Erano presenti: Colitto, Di Vittorio, Fanfani, Federici Maria, Ghidini, Giua, Marinaro, Merlin Angelina, Molè, Noce Teresa, Paratore, Rapelli, Taviani, Togni.

È intervenuto autorizzato: Canevari.

Assenti giustificati: Dominedò, Lombardo, Pesenti, Simonini.