Come nasce la Costituzione

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LUNEDÌ 10 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXV.

SEDUTA DI LUNEDÌ 10 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Corbellini, Ministro dei trasporti

Mancini

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Nasi

Giannini

Labriola

Schiavetti

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Tumminelli

Sansone

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

De Martino

Rodinò Mario

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Crispo

Spallicci

Macrelli

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Sansone

Canevari

Pressinotti

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia allo 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pellizzari.

(È concesso).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella dell’onorevole Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere le cause del grave disastro sulla linea ferroviaria Camigliatello-Cosenza, gestita dalla Società Calabro-Lucana, nel quale hanno incontrato la morte cinque padri di famiglia, e si lamentano numerosi feriti. Si chiede se sia consentito, su queste linee a forte pendenza, il movimento di automotrici, logorate dal tempo e dall’uso, e per giunta sottoposte quotidianamente ad un sovraccarico di viaggiatori. I quali non lasciano nemmeno libero – con evidente e continuo pericolo – lo spazio riservato al conducente, di cui limitano vigilanza e possibilità di movimento, e di immediata e provvida manovra».

L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Il disastro di cui parla l’onorevole interrogante è avvenuto su una linea secondaria che ha una forte pendenza, dove le condizioni di esercizio sono particolarmente difficili: pendenze fino al 6 per cento, curve di raggio di 100 metri. Le norme di esercizio che regolano queste automotrici sono tecnicamente controllate dall’Ispettorato della motorizzazione e non v’è, quindi, nulla da eccepire al riguardo.

Il giorno del disastro era in servizio una vettura antiquata la quale però non era sovraccarica; vi erano anzi meno posti occupati di quelli che essa non consentisse, giacché consentiva 59 posti e ne aveva occupati soltanto 42. Evidentemente c’è stato in questa automotrice un conducente il quale, come è risultato dall’inchiesta, non è stato abbastanza pronto ed avveduto, come è richiesto da quel particolare tipo di motore, per ottenere il cambio della velocità in discesa.

Nelle discese infatti, tale tipo consente una velocità di marcia di 40 chilometri, mentre la velocità di fuga è di poco superiore. È accaduto invece che, in un momento di disattenzione, il conducente si sia fatto prendere la mano dal veicolo che ha aumentato la velocità; il capotreno non ha provveduto a frenare in tempo e il veicolo è sviato.

Sono difatti da lamentare, dolorosamente dei morti e dei feriti.

Circa le responsabilità, purtroppo queste fanno capo, come ho detto, al conducente, che non è stato molto pronto. I freni sono stati trovati in buon ordine. Devo qui chiarire che in questi veicoli particolari, con freni ad aria compressa, ad azione diretta e moderabile, il viaggiatore interviene come peso frenante; quindi, se anche il veicolo è sovraccarico, agli effetti della frenatura, il pericolo non esiste. I veicoli sono vecchi, ma sono stati revisionati da meno di un anno e quindi erano tutti in condizioni tecniche di sicurezza.

Agli effetti del miglioramento di questo servizio, posso dire che è previsto che la Società Calabro-Lucana, compatibilmente coi fondi patrimoniali disponibili e con le condizioni del bilancio di esercizio, potrà sostituire gradualmente le automotrici a due assi con quelle a carrello di tipo più moderno consentendo così una migliore velocità e un numero di posti circa doppio di quello offerto attualmente.

Comunque, posso assicurare che, dall’inchiesta in corso, non sono state riscontrate manchevolezze di carattere tecnico tali da poter preoccupare.

Ho disposto, 20 giorni or sono, di fare un supplemento d’inchiesta per chiarire alcuni dettagli costruttivi e di carattere secondario, che però non possono sostanzialmente modificare quello che ho detto.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MANCINI. Onorevoli colleghi, dirò poche ma sentite parole. Non posso e non debbo dichiararmi sodisfatto, per la semplicissima ragione che non condivido per nulla l’opinione del Ministro dei trasporti, il quale è venuto qui alla Camera a riferire l’opinione dell’ispettore mandato immediatamente a Cosenza dopo il disastro. Io non so se il suo mandatario, signor Ministro, si sia recato proprio sul luogo del disastro per notare come questa ferrovia scorra sull’orlo di un terribile precipizio; io non so se abbia esaminato attentamente quella tale automotrice che mi si dice abbia al suo attivo (o al suo passivo!) più di un milione di chilometri di percorso. Io non so se si sia premurato di assumere informazioni presso il Procuratore della Repubblica, che si è recato insieme ai tecnici sui luoghi. Certo si è che l’opinione riferita oggi all’Assemblea dal Ministro, corrisponde perfettamente all’opinione dei dirigenti della Società Calabro-Lucana. I quali avevano ed hanno interesse a rovesciare sulle povere spalle del conducente tutta la loro evidente responsabilità!

La verità è una sola: quella che è stata constatata immediatamente e che mi è stata riferita: cioè: che l’acceleratore si è trovato sganciato, che la marcia non si è trovata a posto, mentre, dato il dislivello, l’acceleratore doveva essere al minimo e la marcia doveva essere ingranata.

Di chi la colpa? La colpa – a mio parere e a parere di tutti coloro che sono a conoscenza di tutto quel che succede sulle rotaie ferroviarie nella mia provincia, e specialmente a Cosenza, il disastro fu dovuto in maggior parte al materiale logorato della Società Mediterranea. Questo materiale combatte una lotta accanita fra il tempo e la necessità dei servizi, poiché sono dodici anni che la Società Calabro-Lucana non rinnova nemmeno una carrozza. E c’è un’altra causa intrascurabile: l’eccedenza dei viaggiatori. Non l’eccedenza – signor Ministro – nei rapporti della velocità, perché nei rapporti della velocità tale eccedenza avrebbe dovuto servire da freno, ma soltanto nei rapporti della resistenza del materiale logorato.

Vuole una prova, signor Ministro, che ciò che affermo qui, dinanzi alla Camera, risponde perfettamente a verità? Ebbene, non erano passati nemmeno dieci giorni da tale disastro che un’altra automotrice ha subito un altro incidente: si è spezzato, a pochi chilometri dal punto dove è avvenuto il disastro, l’asse del carrello anteriore. E sapete chi c’era nell’automotrice? C’erano 64 ragazzi reduci dalla Colonia Silana. Fortunatamente tutto è finito con contusioni e con panico e non è successo nulla, altrimenti avremmo dovuto lamentare uno di quei disastri simili alla ecatombe sul mare di Livorno. Ma non basta: or fa venti giorni una automotrice alla discesa di Carpanzano ha sofferto la rottura dell’asse del carrello anteriore. Incidenti a ripetizione. Ora io domando a lei e a tutti i colleghi che mi ascoltano: è possibile, è giusto, ed oso dire… onesto che una città come Cosenza sia stretta nella morsa di due trappole ferroviarie? Una trappola è rappresentata dalla Cosenza-Paola, per deficienza di costruzione e un’altra trappola è costituita dalla ferrovia Calabro-Lucana per deficienza del materiale. Un anno e mezzo fa, 18 bare sfilarono per le vie della città ed ora altre cinque bare hanno commosso tutta la cittadinanza.

La mia protesta lascia il tempo che trova, come la sua risposta, Signor Ministro. Ma i disastri creano lutti, spargono lacrime, scavano solchi profondi di affanni, di miserie, di maledizioni. È necessario che una buona volta il Governo si rammenti della Calabria e se ne rammenti con urgenza, con serietà, con premura. Il problema ferroviario calabrese è un problema che richiede tutta la sua attenzione, signor Ministro. Abbiamo quelle due melanconiche linee che partono da Napoli, una lungo la riviera del Tirreno e l’altra lungo la riviera dello Jonio per congiungersi a Reggio Calabria, e che sono nelle stesse condizioni di arretratezza, in cui erano 40 anni fa. Abbiamo poi il «tronco della morte»: Cosenza-Paola. Esiste in proposito un progetto dovuto all’ingegnere Nicolosi, che suggerisce una opportuna modifica a quel tracciato pericoloso, dove tanti disastri sono avvenuti Non è più l’ora degli espedienti. Bisogna risolvere il problema con nuove costruzioni adeguate al traffico attuale. Inoltre la garanzia della vita dei viaggiatori è un dovere dello Stato: è un diritto del cittadino.

Signor Ministro provveda, non con le promesse, ma con i fatti.

PRESIDENTE. Segue un’altra interrogazione dell’onorevole Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere se non creda doveroso mettere in esercizio sull’elettrotreno Roma-Reggio Calabria lo stesso materiale ferroviario in uso sull’elettrotreno Roma-Milano, aggiungendovi, come in questo, qualche vettura di seconda classe. L’interrogante chiede ancora che venga concessa, sodisfacendo i voti delle popolazioni cosentine e catanzaresi, una vettura diretta sul diretto che parte da Roma alle ore 19.10».

L’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Il problema delle comunicazioni della Calabria non è abbandonato dal Governo, anzi da noi è particolarmente curato.

MANCINI. E come?

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Basterebbe dire che l’elettrificazione della linea del Tirreno è un dato di fatto, al quale abbiamo dedicato una delle nostre maggiori attività della ricostruzione. Basterebbe dire che la Cosenza-Paola ha già in servizio l’automotrice ad aderenza completa che ho studiato personalmente disegnandone i particolari costruttivi e sostituendo l’aderenza a dentiera con l’aderenza naturale; ciò che ha più che dimezzato il tempo di percorrenza.

È questo un modernissimo sistema di trazione in tale campo, studiato appunto per migliorare i servizi.

Potrei infine aggiungere che sulla Cosenzia-Paola oggi vi sono nove coppie di treni al giorno. Quando si vuole parlare di acceleramento dei servizi elettrici tra Napoli e Reggio Calabria, non si deve dimenticare quali sono le particolarità essenziali di quella linea. Orbene, gli elettrotreni, che furono progettati nel mio ufficio nel 1934-36, furono costruiti per linee assolutamente di pianura, capaci di consentire una altissima velocità (160 km ora). Essi attualmente fanno servizio sulla Milano-Roma, e sono stati spinti sino a Napoli, dove la pendenza massima è soltanto del 12 per mille. Non è possibile mandarli oltre Napoli se non limitatamente a Nocera inferiore. Quindi, l’elettrotreno del tipo attuale non è idoneo a fare servizio fino a Reggio Calabria; perché, come vi sono le locomotive da montagna e da pianura, così, vi sono anche gli elettrotreni atti alla montagna e alla pianura e la salita di Cava, che è del 22 per mille, non si può fare con i quegli elettrotreni. Ma simili difetti sono già stati superati dalle caratteristiche dei nuovi elettrotreni in costruzione, che potranno permettere di andare da Milano a Reggio Calabria ad una velocità assai superiore a quella attuale. Purtroppo questi elettrotreni, disegnati dopo la liberazione, si sono potuti ordinare soltanto pochi mesi fa, perché in questo campo non si possono fare delle improvvisazioni.

Con questo, assicuro che il servizio attuale delle elettromotrici, da Napoli a Reggio Calabria, che sostituiscono gli elettrotreni, e con le quali si possono superare quelle salite, può essere praticamente tollerabile. Indubbiamente è un servizio ancora incompleto, perché non va dimenticato che le Ferrovie dello Stato, si trovano attualmente appena a metà della loro ricostruzione. È facile fare delle critiche, ma quando le Ferrovie dello Stato, in poco meno di due anni, hanno fatto quel lavoro che hanno fatto, bisogna prendere atto della loro lodevole attività ricostruttiva. Essa si è sviluppata anche in un lavoro che non ancora avete visto, perché è nei progetti degli uffici studi e negli impianti costruttori dove si lavora a catena per la nuova produzione. Vedrete che faremo qualcosa di nuovo e di moderno, tecnicamente molto progredito, e lo faremo anche per la Calabria, perché anch’essa è degna di tutta la considerazione, come tutte le regioni Italiane. Non ho altro da dire.

PRESIDENTE. L’onorevole Mancini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MANCINI. Onorevoli colleghi, veramente il Ministro non ha risposto alla mia interrogazione. Questo è il punto importante e nello stesso tempo molto eloquente. Ma oltre a questo, non ha risposto nemmeno alle mie obiezioni precise e dettagliate nei riguardi della prima interrogazione. Infatti, egli ha testé detto: il Governo è intervenuto anche per la Calabria – quell’anche sfuggito inavvertitamente dalle labbra del Ministro dice tante cose…

Una voce a sinistra. È un poema!

MANCINI. E come è intervenuto? È intervenuto con quattro automotrici, disegnate dal Ministro. Comprendo che sono… speciali ed è stato sommo onore per noi averle. Ma esse non risolvono il problema e non ci salvano dal pericolo, di cui ho già parlato, perché quando una di queste quattro motrici, disegnate dal Ministro, per un qualsiasi guasto deve rimanere in officina, si sospende il servizio. Comunque, le quattro automotrici non sono sufficienti per il servizio Cosenza-Paola, dove sono necessari alcuni treni, sia per merci, che per i viaggiatori. Ora, se il pericolo è evitato per le quattro automotrici, non è evitato per i treni. Onde la risoluzione di questo problema dannoso e gravissimo dovrà essere trovata ben altrimenti.

La seconda mia interrogazione si riferisce all’elettrotreno che si arresta a Napoli… come se temesse di andare oltre. Anche in questo la differenza fra Nord e Sud. A tale proposito devo far osservare al Ministro che pur non essendo un tecnico, ho naturalmente, prima di presentare la mia interrogazione, chiesto a qualche tecnico, che potrebbe esser magari uno delle ferrovie, il quale se non è stato fortunato nella carriera come il Ministro è pure di gran valore, dilucidazioni sulla mia richiesta. Ebbene egli mi ha detto che l’ostacolo di cui ha parlato il Ministro può facilmente superarsi, in quanto con la seconda classe che dovrebbe essere istituita sul rapido Roma-Reggio Calabria si verrebbe ad attaccare all’elettrotreno un’automotrice. Ed allora l’automotrice, avendo un rapporto maggiore di quello che non abbia l’elettromotrice, ne compenserebbe la mancanza di rapporto, onde il problema potrebbe dirsi risoluto, e quindi, da Napoli in giù, potrebbe anche la Calabria usufruire dell’elettro-treno e i «terroni» viaggiare allo stesso modo dei cittadini nordici.

Ma, signor Ministro, la verità è ancora più ingrata. L’ho raccolta con rinnovata amarezza qualche ora fa sulle labbra del mio carissimo compagno onorevole Sansone.

Signor Ministro, mandi qualcuno alla stazione ferroviaria di Roma quando parte il diretto delle 16 e 20 per Reggio Calabria. Il suo osservatore le riferirà le condizioni miserevoli della carrozza diretta per Cosenza.

Una carrozza, come si dice, superclassata, cioè una carrozza di terza classe diventata di seconda. E non per tutti i giorni. A giorni alternati; perché presta ingrato servizio anche una carrozza di terza classe, mentre si paga il biglietto di seconda. Ora questa sgangherata carrozza lascia tutto a desiderare, dalla luce ai gabinetti.

Non è compatibile nemmeno con quel poco conforto che un viaggiatore, che paga fior di quattrini, ha il diritto di pretendere. Il mio amico e compagno Sansone è stato costretto a scappare dalla carrozza cosentina e rifugiarsi nella vettura Roma-Palermo.

Ed allora, signor Ministro, io non voglio ricordare quello che ho già detto qualche momento fa svolgendo la mia precedente interrogazione, ma un po’ di bilancio debbo farlo: Cosenza è attaccata ad un tronco pericoloso, dove aleggia la morte. Possiede soltanto quattro automotrici, che da un momento all’altro potrebbero far sospendere il servizio viaggiatori. L’elettotreno si arresta. Una sola vettura va e viene da Roma e questa vettura mortifica chi vi penetra…

Ho il diritto di protestare con tutti i mezzi? Che cosa si deve fare per smuovere il nullismo del Governo?

Un po’ di riguardo verso questo Mezzogiorno si vuole avere o no? Sembra un ritornello uggioso, la istanza che ogni tanto si eleva da questi banchi per rammentare, reclamare, invocare. Ma il Governo è sordo al grido di dolore che viene da laggiù. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo passare forse dalle parole a proteste più espressive? La pazienza ha un limite. Le nostre popolazioni hanno un grande torto, onorevole Ministro e signori del Governo, hanno il torto di aver subìto e di subire pazientemente questo stato di cose. Le nostre popolazioni hanno un torto soltanto, quello di non aver presentato come le altre regioni d’Italia il bilancio delle loro necessità. Anche la Calabria poteva presentare la partita del suo «avere», dopo aver dato tanto. Vecchia ed inutile storia. Io vi richiamo all’imparzialità regionale, signor Ministro e signori del Governo, e sia detto una volta per sempre! (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Nasi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se egli non stimi che possa tradursi in grave accusa contro il Governo l’affermazione del quotidiano Buonsenso di essere stato costretto a cessare la pubblicazione per aver perduto le abituali sovvenzioni di organismi e ceti plutocratici e questo non appena il Qualunquismo si schierò contro il Governo democristiano. Se non ritenga, altresì, che debba sollecitarsi la discussione alla Costituente della legge sulla stampa, che contempli anche la denunzia delle fonti di finanziamento dei giornali».

L’onorevole Sottosegretario di Stato ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Alla interrogazione dell’onorevole Nasi si potrebbe rispondere, specie per la prima parte, con poche parole, dicendo che il Governo è stato completamente estraneo alle vicende che hanno condotto alla sospensione del giornale Buonsenso, e che quindi ogni insinuazione o critica, o è gratuita o è calunniosa. Ma quando si tocca direttamente o indirettamente lo scottante tema della libertà di stampa, di cui il Governo, mi onoro di ripetere, è verso tutti gelosissimo custode, sembra indispensabile soffermarci analiticamente su quanto viene affermato nelle interrogazioni, perché nessuno possa in buona fede continuare a nutrire dubbi o apprensioni.

Leggendo senza preconcetti l’articolo del collega Basevi a cui si riferisce l’interrogazione dell’onorevole Nasi, si ha anzitutto chiara la sensazione dello stato, per doppio riguardo, emotivo in cui si trovava l’autore. Da un lato, a motivo delle non lievi polemiche interne del partito qualunquista in quel momento, che traspariscono dai secchi accenni ai disgregatori e ai «necroforici e allucinati marescialli». D’altro canto, chi conosce cosa sia un giornale, sa i legami che esistono fra i fattori che concorrono alla produzione e l’oggetto prodotto, e può bene immaginare il rammarico commosso di un direttore che sia al punto di dover, per forza maggiore, sospendere la pubblicazione. In simile condizione psicologica è facile dare, a chi si presume sia stata la causa o la concausa del decesso, anche l’epiteto di fascista, fascista bianco o di altro colore. Del resto, chi di noi non ha molte volte erogata o subita tale qualificazione con una reciprocità così palese, anche se di discutibile gusto?

Ma l’onorevole Nasi propone al Governo un quesito preciso, domandando cosa ne pensiamo della denuncia di procurato affamamento dell’organo qualunquista, a suo dire contenuta nell’ultimo numero del Buonsenso. Cosa può risultare al Governo delle fonti di un giornale? Conviene osservare forse che quanto ha detto l’onorevole Nasi, che, cioè, le sovvenzioni al Buonsenso da parte degli organismi e ceti plutocratici sono cessate in dipendenza dell’atteggiamento dell’Uomo Qualunque contro il Governo attuale, non corrisponde di per sé al testo dell’articolo di Basevi, che anche noi avevamo letto con l’attenzione che meritano problemi politici e di stampa del genere; così come tutti potevano leggere gli accenni alla stampa dell’Uomo Qualunque fatti in molte occasioni, scritti o verbali, da organi e persone responsabili di quel partito.

Secondo un metodo che non ha molti seguaci, l’Uomo Qualunque ha parlato spesso pubblicamente e con diffusione della propria situazione amministrativa; e basta prendere gli atti dei due Congressi Nazionali del Fronte e la collezione dei molti quotidiani e del settimanale per essere sufficientemente informati. Direi che si è di fronte ad una volontà di fare parziale anticipazione di quella pubblicità delle fonti finanziarie a cui si riferisce l’onorevole Nasi. Si può apprendere così da reiterate affermazioni che, al contrario di quanto normalmente avviene, per lungo periodo e dopo breve inizio a sottoscrizione popolare per la carta, è stato l’attivo del settimanale L’Uomo Qualunque a finanziare il relativo partito ed anche le edizioni, romana e milanese, del Buonsenso, il cui bilancio è rimasto, per altro, al pareggio fino al febbraio dell’anno in corso. Questo è detto nell’Uomo Qualunque dell’11 dicembre 1945 e del 12 febbraio 1947. Successivamente apprendiamo, sempre dallo stesso giornale, che «gli aumentati costi delle aziende giornalistiche hanno appesantito il bilancio editoriale, tanto da far gettare l’allarme e da fare mettere nelle previsioni la sospensione della pubblicazione». Sono parole testuali di parecchia stampa qualunquista, compreso il Buonsenso, romano e milanese, che, si diceva – e questo il 12 febbraio 1947, molto prima della polemica, cui ha accennato l’onorevole Nasi – saranno tra i primi ad essere sacrificati.

L’onorevole Nasi dice: «Se si fosse già stabilito legislativamente l’obbligo di denuncia delle fonti di reddito dei giornali, noi sapremmo nome e cognome di chi ha sanato per un periodo i passivi degli organi qualunquisti e potremmo essere illuminati a dovere sugli aspetti politici di tale operazione».

Tale osservazione è sostanzialmente ingenua e formalmente intempestiva: ingenua, perché l’organo di stampa di un partito segnerà al proprio attivo, nella voce contribuzioni del partito, esattamente tanto quanto basterà per il deficit; sicché il bilancio quadrerà perfettamente e non vi sarà revisore dei conti, il più severo che sia, a trovare da eccepire alcunché. Di più non può chiedersi, e ci si dovrà, se mai, limitare a conoscere, per sommi capi, la statistica delle contribuzioni dei singoli lettori al loro giornale o ad apprendere, in sede polemica, l’avvenuto dono di un gruzzoletto di dollari da un qualunque zio d’America in pro di gruppi, che non tralasciano occasione per accusare gli altri di avere stretti legami col mondo americano.

Vero è che l’Assemblea ha deciso, all’articolo 16 della Costituzione, che la legge può stabilire con norme di carattere generale che devono risultare noti i mezzi finanziari della stampa periodica; ma, se mai sarà applicabile seriamente un tale principio, esso dovrà trovare attuazione nel prossimo parlamento, dopo l’approvazione dell’intero testo costituzionale.

Non può del resto omettersi, tornando al fatto specifico, che, se il Basevi ha parlato di offerti e non chiesti aiuti, venuti a mancare al giornale, nell’ampia documentazione contenuta nell’ultimo numero dell’Uomo Qualunque si ha una precisa dichiarazione circa promesse di sovvenzioni fatte da alcuni industriali, «senza che alla promessa facesse mai seguito l’erogazione materiale. Ciò conferma, se mai, che le difficoltà finanziarie non sono nate oggi per il complesso editoriale qualunquista; ma sono interna corporis di partito. Evidentemente noi non possiamo entrarci e dobbiamo limitare e riconoscere che nessun elemento esiste, per cui possa imputarsi al Governo la crisi di questo o di altro giornale.

Aggiungo l’augurio che il disagio del Buonsenso possa essere presto superato ed il giornale riprenda la sue pubblicazioni poiché non è senza preoccupazione che si assiste al fenomeno della scomparsa di organi di stampa di partiti che hanno il diritto ed il dovere di interloquire quotidianamente sulle vicende e gli sviluppi della politica nazionale ed internazionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Nasi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NASI. Dovrei anzitutto dichiarare che non faccio parte di nessun gruppo di guastatori, fra i quali ha creduto di classificarmi l’organo dei repubblicani storici; guastatori i quali dovrebbero precedere l’irrompere delle masse socialiste e comuniste contro il Governo. (Commenti).

L’attenzione che ha destato la mia interrogazione, che forse è ingenua, può significare che ho messo il dito su una piaga e che l’opinione pubblica non è insensibile davanti a certi problemi di moralità. Il Sottosegretario ha risposto ampiamente, ma in fondo mi ha quasi detto: lei ha sbagliato indirizzo; il Governo che cosa c’entra? Mi ha anzi detto che io avrei posto male la questione. In fondo, onorevole Sottosegretario di Stato, la questione non l’ho posta io, ma l’ha posta nel momento di morire, con la speranza di rinascere, il direttore del Buonsenso. Che speranza di cosa ha egli detto e che cosa si può cavare da quel che egli ha detto?

Osservo che in altri tempi, anche in Italia, con la dichiarazione cruda che ha fatto il direttore del Buonsenso, le acque di Montecitorio si sarebbero smosse violentemente ed il Governo si sarebbe trovato nella necessità di pensare ai casi suoi. (Commenti).

Non mi fermerò molto su quel che ha detto il direttore del Buonsenso, ma non posso tralasciare di riassumere il suo pensiero, che in fondo è stato questo: io, Buonsenso, vivevo con le sovvenzioni che mi venivano da gruppi di industriali o di agrari, non so bene; quando questi gruppi hanno creduto di dover aderire alla politica del Governo e si sono intesi sicuri che questa politica non li colpisse, non ho più avuto sovvenzioni ed ho dovuto cessare le pubblicazioni. È una crudezza assoluta di parlare: fa male, male quasi come il racconto di una prostituta sulle sue giornaliere esercitazioni. (Commenti). Ma l’onorevole Giannini ha illustrato maggiormente la questione e ci ha fatto sapere di essere stato assillato da questi famelici, i quali sono parecchi – pare – in Italia, per essere difesi, quando la politica dell’onorevole Einaudi non si confaceva ai loro interessi. Però – soggiunge l’onorevole Giannini – e questo ha dell’incredibile – quando l’onorevole De Gasperi si è deciso a versare a questi ricattatori dei miliardi, questi stessi che mi avevano pregato e mi avevano sovvenzionato, mi hanno detto: «Alto là! Il Governo non si tocca!» Allora io mi sono visto costretto – io, direttore del giornale – a sospendere le pubblicazioni.

Devo dire all’onorevole Giannini, se me lo permette, che egli non ha reso un buon servizio al Paese quando ha difeso della gente dai pericoli della avocazione e dell’epurazione, quando ha difeso degli affaristi e degli appaltatori. Egli non poteva aspettarsi altro guiderdone oltre quello che ha avuto.

E mi permetto di dirgli, anche, che io non ammiro questo sistema giornalistico che si fonda sulla compra-vendita e sulla resa dei servizi. Io aspiro e penso ad un giornalismo indipendente.

Naturalmente, egli sa, perché gli sono amico, che non vengo neanche qui a domandare un giudizio contro di lui, come si è fatto contro un deputato alla Camera inglese.

Ma, veniamo a quello che sostanzialmente è stato detto dal giornale e dallo stesso Giannini.

Il Buonsenso e Giannini stesso hanno detto: «Il Governo interviene direttamente e indirettamente nella stampa; il che significa che il Governo fa presa sulla stampa per corromperla e così far sua l’opinione pubblica».

Questo, in sintesi, il discorso del Buonsenso e di Giannini.

GIANNINI. Troppa sintesi!

NASI. Oggi, si sospendono i fondi al Buonsenso. Ma questo fatto ha dei precedenti, che sono stati un po’ tralasciati dalla pubblica attenzione, anche perché naturalmente la stampa sussidiata non ne ha fatto quella propaganda che era necessaria.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Quali fatti?

NASI. Noi sappiamo, e deve saperlo anche l’onorevole Sottosegretario di Stato che è un valente giornalista, che il Giornale dell’Emilia, a Bologna, sussidiato dagli agrari, mentre marciava democraticamente e non era favorevole al Governo, un bel giorno dovette cambiare direzione ed ora sostiene naturalmente la Democrazia cristiana.

GIANNINI. Avrebbe dovuto morire il giornale!

NASI. Ma c’è un altro caso ancora più grave, perché avallato da due giornalisti intemerati quali sono Corrado Alvaro e Gaetano Natale. A Napoli, il Risorgimento dell’armatore ed ex fascista Lauro naviga in acque democratiche e si spinge a punte estreme di democrazia. L’armatore lascia fare. Un bel giorno arriva a Napoli il Ministro della marina mercantile, l’onorevole Cappa, ed allora l’armatore Lauro si fa fotografare insieme a Cappa: la rotta cambia ed il giornale viene messo sul binario democristiano. Ed io vorrei far notare all’onorevole Sottosegretario di Stato le parole che sono state stampate mentre si svolgeva l’avvenimento, che sono di una gravità eccezionale, e di cui avrebbe dovuto tener conto il Governo. «D’ora in poi – è stato stampato – il Risorgimento diventerà l’organo ufficioso della Democrazia cristiana, o meglio del Governo di De Gasperi. Per Lauro la contropartita consiste nell’appoggio da parte del Governo e del Ministro della marina mercantile per i suoi interessi di armatore». (Commenti al centro).

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma, dove è scritto questo?

NASI. Sull’Avanti. Come si vede il Governo non può dire che non c’entra. E c’entra anche il partito che è al Governo, perché oggi la Democrazia cristiana e il Governo sono un tutto inscindibile.

Io faccio soltanto notare che quelli che oggi pagano i giornali sono gli stessi che pagavano sotto il fascismo. (Applausi a sinistra). Sono gli stessi che ora tentano l’arrembaggio alle fonti dello Stato e a tutti i punti cruciali della Nazione, sono gli stessi che noi dobbiamo affrontare. È un cancro questo nella vita della Nazione, che bisogna assolutamente estirpare.

Dovrei ora passare alla seconda parte della mia interrogazione, e cioè dire perché è necessario che la legge sulla stampa sia discussa in questa Assemblea.

PRESIDENTE. C’è un’altra interrogazione dell’onorevole Schiavetti su questo punto.

NASI. Mi limiterò, perciò, a dire che, alla vigilia delle elezioni, non è possibile lasciare la legge vigente che è quella fascista, aggravata dal decreto Badoglio. Se dovesse essere conservata quella legge, noi delle sinistre in specie potremmo andare incontro a gravi incognite. (Commenti – Rumori). Si potrebbe, quindi, stralciare dal progetto che è davanti all’Assemblea quella parte che riguarda le fonti delle sovvenzioni: per lo meno il lettore saprebbe per conto di chi si scrive il giornale. È necessario che questo problema, che è politicamente e moralmente grave, sia affrontato. È necessario che il Governo non sia d’accordo con i gruppi che sussidiano la stampa, gruppi che vanno dai liberali ai fascisti; è necessario che in una Repubblica democratica la stampa sia strumento di educazione e non di corruzione. (Applausi all’estrema sinistra).

GIANNINI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che dovrete avere la cortesia d’accordarmi qualche minuto di più per lo svolgimento di questo fatto personale, che è anche un fatto di carattere generale.

Dovrei incominciare col rettificare alcune inesattezze nelle quali è caduto il collega Nasi; ma preferisco incominciare ringraziando il giovine e valente Sottosegretario alla Presidenza, il quale ha detto la cosa che più m’interessa come giornalista e come deputato. Il Sottosegretario ha detto: da questa esasperazione polemica, di cui non avevamo esempi nella storia politica passata – e in questo spero che non ci sia rimprovero, onorevole Andreotti, perché la storia si deve rinnovare; guai se andassimo ancora a cavalcioni degli elefanti, come ai tempi d’Annibale! – da questa esasperazione si deve dare atto che il Buonsenso, che la stampa qualunquista ha, in un certo senso, anticipato la pubblicità sulle fonti alle quali i giornali attingono i mezzi di vita.

La ringrazio, onorevole Sottosegretario, di questo riconoscimento, che interpreto come una lode: se sbaglio, lei mi correggerà. E l’interpreto come una lode, onorevoli colleghi, per questa ragione; perché in tutta la nostra azione politica, in tutta la nostra azione giornalistica – e quando dico «nostra» intendo dire quella dell’«Uomo Qualunque», di quei miei amici che erano, sono e saranno militi dell’«Uomo Qualunque» – noi siamo i protagonisti d’una tragedia che si potrebbe dire la tragedia della verità.

Noi abbiamo detto una verità politica al nostro inizio: vogliamo che l’«Uomo Qualunque» governi se stesso. Questa è una formula, onorevoli colleghi, ampia, che ha bisogno d’integrazione, di collaborazione da parte di tutti i tecnici, di tutti i pratici, di tutti gli scienziati. Sarà una formula vaga, elastica: ma è una formula.

Noi vediamo che l’uomo qualunque paga sempre le conseguenze di una politica che dirò tradizionale – non voglio adoperare l’espressione «professionale», con cui, forse, potrei offendere pochi o molti colleghi. – Allora ci siamo detti al nostro sorgere: poiché l’uomo qualunque non è più la massa amorfa e indisciplinata dell’antichità, poiché c’è un meccanismo, anche statuale, che permette a chicchessia d’entrare in possesso d’un minimo di cultura; poiché c’è una stampa, c’è una radio, ci sono altri mezzi di diffusione del pensiero, non riteniamo che la politica debba essere più il monopolio d’una piccola aliquota specializzata, ma libera a tutti. Di tanto abbiamo un esempio anche brillante, nel nostro amico e collega Corbellini, che fa il Ministro, e lo fa bene, e dimostra così che non c’è bisogno d’esser un parlamentare per esser un buon Ministro.

Sembra che quest’idea sia stata affascinante, perché molta gente è confluita a noi, molti elementi del cessato regime, molti monarchici, molti elementi d’estrema destra; e sono confluiti a noi anche elementi dell’estrema sinistra (Commenti a sinistra); sono confluiti molti elementi repubblicani. (Commenti).

Una voce al centro. È confluito anche Togliatti!

GIANNINI. C’è un democristiano che m’informa che è confluito anche l’onorevole Togliatti. Mi meraviglio che il nostro segretario generale onorevole Tieri non m’abbia comunicato quest’importante adesione. Ma andiamo avanti, che cos’è accaduto, caro Nasi?

È accaduto che il travaglio del crivello, che in tutti i vecchi partiti si svolge attraverso i decenni, nel nostro giovine partito è invece inizialmente e continuamente in funzione. C’è quindi chi ci può rimanere e chi non ci può rimanere; chi sente la forza e il coraggio di resistere a certe difficoltà e chi non sente tale forza e tale coraggio.

Non intendo parlare soltanto di parlamentari, ma anche di chi vive intorno ai partiti e che lei, caro amico Nasi, conosce meglio di me. Onorevoli colleghi! Io sono nato giornalista, perché faccio il giornalista dall’età di quindici anni e non credo di farlo male. È pertanto con la mia esperienza di giornalista che vi dico che in Italia non ci sono forse tre giornali veramente indipendenti, se per indipendenza s’intende quella finanziaria.

Vorrei che nessuno m’obbligasse a fare dei nomi, ma, quando dico tre, credo d’abbondare. (Interruzioni al centro). C’è qualche cosa che non va? (Si ride). Dicevo: c’è però un grande giornale, finanziariamente indipendente, ed è il mio, onorevoli colleghi: il mio giornale, l’Uomo Qualunque, il settimanale Uomo Qualunque, il quale ha un’enorme indipendenza finanziaria, che gli è data dalla sua diffusione, dal numero dei suoi abbonati, dall’alto costo della sua pubblicità.

È grazie a questo giornale settimanale veramente indipendente, onorevoli colleghi, che la nostra corrente politica è viva. Ed è viva perché? Perché intorno a tutti i partiti si cristallizzano o tentano di cristallizzarsi vari interessi. E tendono a cristallizzarsi, oltre che vari interessi, anche degli… Non so come potrei chiamarli… Degli «intellettualismi», che sono le pretese di coloro che sia dalle farmacie di villaggio, sia dalle sale dorate dei grandi Consigli d’amministrazione, pretenderebbero di dirigere il Governo, di manovrarlo, di dare la loro impronta alla vita politica della Nazione.

Che cosa accade allora? Accade che, siccome per stampare dei giornali occorre molto danaro, questo denaro si finisce col cercarlo in quei tali ambienti.

LABRIOLA. Il danaro deve darlo il pubblico e soltanto il pubblico se il giornale vuol essere onesto.

GIANNINI. Ma, onorevole Labriola, lei dice una cosa che non è esatta, perché lei dirige un giornale che è finanziato dall’armatore Lauro! (Commenti).

Ora, io non faccio che dire la verità; l’ho sempre detta, onorevoli colleghi, la verità. (Interruzione del deputato Labriola).

PRESIDENTE. Onorevole Labriola, verrà il suo turno: darò la parola anche a lei.

GIANNINI. L’ho sempre detta e me ne vanto. Ma debbo soggiungere che se non avessi il mio settimanale, e se questo mio settimanale non mi desse i mezzi larghissimi che mi dà, non avrei la possibilità e forse nemmeno il tempo di dirla la verità. La verità è un lusso. Ora, bisogna distinguere, onorevole Nasi, fra quei giornali che «accettano» un aiuto indispensabile, senza di che il giornale non si fa, e quelli invece che «si vendono» per ottenere questo aiuto.

LABRIOLA. Non è punto vero: il giornale vive con il pubblico.

PRESIDENTE. Lasci dire, onorevole Labriola: poi parlerà anche lei.

GIANNINI. Professore mio, per quanto io sia stato suo allievo, e l’abbia sempre rispettato, non v’è ragione per cui lei mi debba mancare di rispetto.

LABRIOLA. Ma io non le ho per niente mancato di rispetto.

GIANNINI. Ma se non mi lascia parlare! (Si ride).

PRESIDENTE. Non faccia dialoghi, onorevole Giannini.

GIANNINI. Scusi, signor Presidente.

Bisogna dunque distinguere questi giornali in due categorie: chi accetta aiuti incondizionatamente, e chi si vende per essere aiutato.

Ora, non so come all’onorevole Nasi sia sfuggita questa cristallina circostanza che, data la mia capacità giornalistica, dati i mezzi personali di cui posso disporre sacrificando, se voglio, ancora di più il settimanale Uomo Qualunque, dato il fatto che, bene o male, sono alla testa d’un partito, se avessi voluto continuare il Buonsenso mi sarebbe bastato accontentarmi, adattarmi, accettare certi determinati consigli per continuarlo. Mi meraviglio come sia sfuggito all’onorevole Nasi il fatto che, sopprimendo o sospendendo il giornale, il quale, amico Nasi, non è morto, ma è solo in villeggiatura. (Ilarità).

Una voce al centro. Novembrina!

GIANNINI. Novembrina, sì; si va già a sciare in questa stagione; il mio Buonsenso è andato dove gli pare. Sospendendo le pubblicazioni questo giornale ha compiuto un magnifico atto d’indipendenza e di purità, perché ha detto: «Io ho bisogno degli aiuti; o voi me li date a condizione che io continui a stampare ciò di cui sono persuaso; o, altrimenti, tenetevi i vostri aiuti: io non esco più».

Ed è precisamente questo che è accaduto, onorevole Nasi. Io non credo d’avere né il diritto né il dovere di fare la storia della mia amministrazione, in quanto la mia amministrazione consiste in una società anonima, anzi, in più società anonime, le quali depositano i bilanci nelle cancellerie dei tribunali come per legge, insieme al libro dei soci e a tutto quant’altro a questo Parlamento e a chiunque altro possa interessare d’investigare. Amico Nasi, lei non ha che a prendere un taxi – se non vuole, le offro la mia macchinetta – andare in Tribunale a scartabellare e indagare, e saprà tutto quanto vorrà. L’importante è questo: che quando lei fa il paragone fra questo giornalismo e una prostituta, io le devo dire: lei ha il diritto di fare questo paragone fra il giornalismo che si vende e la prostituta; e siamo d’accordo, perché si vendono tutt’e due; ma fra l’altro giornalismo, quello che accetta di suicidarsi pur di non legarsi, non può fare questo paragone. Lo può fare al massimo con la cassetta delle elemosine d’un qualsiasi convento, nella quale il principe, la duchessa, il povero, l’assassino, l’onesto, mettono il loro obolo; poi il priore lo raccoglie e lo impiega come gli suggerisce la sua coscienza.

Ora, è questo il nostro caso; ed è questo il nostro caso anche politico, perché lei non ignora che i partiti hanno anch’essi bisogno d’appoggi. Non impiantiamo una questione morale su questo, perché se no la piccola tragedia della verità, alla quale ho accennato, diventa una spaventevole tragedia, nella quale io non avrei nessuna paura di dire le battute più gravi. Anche i partiti hanno bisogno; senonché, che cosa accade? Accade che quei ceti, i quali s’agitano intorno ai Governi e sperano, o pensano, o credono di poterne diventare padroni, di poterli rendere prigionieri, s’illudono nello stesso modo di poter prender prigionieri i partiti. Ce ne sono alcuni che nobilmente muoiono: e ce n’è stato qualcuno in questa Camera, a cui io debbo tributare un elogio su questo: il Partito d’azione, che avrebbe potuto vendersi e ha preferito morire. Ce ne sono altri che subiscono terremoti, perché resistono a pressioni – intendiamoci – non soltanto finanziarie, ma anche ideologiche, perché i pericoli che minacciano i partiti e i giornali, caro collega Nasi e onorevoli colleghi d’ogni parte della Camera, non sono solamente pericoli finanziari, ma anche ideologici; i partiti, come i giornali, sono in pericolo sia quando debbono accettare alcuni milioni per comprare rulli di carta, sia quando debbono accettare idee che qualche ex sergente maggiore in cerca di migliore impiego pretenderebbe di dare a chi la politica la fa per convinzione e non per mestiere.

Certo è, amico Nasi, che Il Buonsenso è cessato per questa ragione: perché non ha inteso cambiare la sua linea politica. Per sbagliata che potesse essere, per erronea che fosse, aveva scelto quella linea e non l’ha voluta mutare.

Allora lei ha fatto una questione al Governo e ha detto: il Governo si ravvisa responsabile in questa situazione?

Ho aspettato con ansia che rispondesse il Sottosegretario, perché sarei stato veramente stupito di sentirgli dire: sì, il Governo si ravvisa responsabile.

Secondo me il Governo non può essere ritenuto responsabile di questa situazione, e innanzi tutto «non può» essere ritenuto responsabile, per ragioni d’intelligenza: perché sarebbe stato enormemente stupido un Governo, come quello che abbiamo, presieduto da De Gasperi (il quale, oltre a essere mio caro amico personale, è principalmente un uomo di grande ingegno; io posso dissentire da lui, ma non posso negargli l’intelligenza), si fosse esposto al pericolo d’una serie di guai per prendersi il gusto di far cessare la pubblicazione d’un solo giornale, quando in Italia ce ne sono altri cento che gli dicono di più e di peggio di quello che gli diceva il Buonsenso.

No, onorevole Nasi, la questione è un’altra: lei ha accennato a un armatore e ad altri; tutta gente che ha guadagnato facilmente molto danaro. Incomincio a convincermi che effettivamente è facile guadagnar molto danaro in certe circostanze. All’improvviso questa gente si scopre il bernoccolo della politica, e allora, solamente perché un giorno ha avuto l’onore d’offrire cento biglietti da mille a un giornale o a un partito (e dico «ha avuto l’onore», perché chiunque ha portato o porta danaro a me avrà sempre l’onore di portarmelo (Ilarità), e io gli farò, se crederò, il favore d’accettarlo; e ciò sempre in funzione di quel tal settimanale attivo che mi consente di mandar avanti un partito senza stampa quotidiana e di dir sempre quello che voglio. Accade – dicevo – che qualcuno di questi omuncoli che hanno fatto miliardi nel commercio del baccalà o in altre attività (certamente non ignobili, ma non implicanti eccessiva genialità da parte di chi le esplica), fa piani politici, costruisce Governi, pretende di dare direttive. Ora, c’è chi se le fa dare pedissequamente, quelle direttive, e allora continua a stampare il suo giornale quotidiano; ma c’è – per esempio – chi come me che non se le fa dare, e che, pur parlando con un arricchitissimo, gli dice: tu non capisci niente di politica, tu non sai far niente, politicamente, va a dare ad altri il tuo danaro, non tentare d’importi a me se non riesci a convincermi. E allora il mio giornale non si stampa e si ferma.

In Italia sta succedendo questo: le incrostazioni d’interessi e di spiritualità dei ceti che pretendono o credono d’avere, il monopolio dell’intelligenza stanno appesantendo il Ministero De Gasperi!

Le svelerò una verità, caro Nasi, un grande segreto: si erano messi contro di noi perché noi siamo stati gli autori del Ministero De Gasperi: ogni tanto quest’altra verità si ricorda e si dimentica. Il Ministero De Gasperi è stato preconizzato da noi. Fin dal 24 giugno 1946 noi avevamo chiesto questo Governo, e l’avevamo chiesto perché avevamo ravvisato l’impossibilità che funzionasse più il Tripartito. Noi soli abbiamo insistito, noi, che, finalmente, all’inizio di quest’estate, siamo riusciti a farlo fare.

Bene, io le svelerò questo segreto, caro Nasi. Noi siamo stati assillati dalle recriminazioni di tutta questa gente: ma che cosa avete fatto? Ma voi mettete tutta la politica italiana nel monopolio della Democrazia cristiana? Ma dove andremo a finire? Ma avremo una dittatura clericale anziché fascista o comunista! Voi avete commesso un errore! Tutto ciò portava la solita spiacevole conseguenza di rispostacce da parte mia e non soltanto mia, perché nel nostro partito siamo tutti pronti a dare rispostacce.

Improvvisamente è accaduto che il mio ottimo amico De Gasperi, per ragioni sue, di cui renderà conto al Parlamento quando ne sarà il caso, ha ritenuto d’intervenire in questa faccenda, in questa procurata povertà, in questa non so fino a quanto vera impossibilità di pagare i salari, pagando egli i salari e creando così una pratica bolscevizzazione dell’Italia in certi rami dell’industria. Strana bolscevizzazione, perché quella russa se non altro si accolla le perdite dell’industria, ma se ci sono utili se li piglia. Noi invece ci siamo presi soltanto le perdite. Abbiamo dato alcuni miliardi alla Caproni, alcuni miliardi ad altre aziende. Da questi fatti è nato un improvviso, un nobilissimo sentimento di fiducia verso la Democrazia cristiana. Quel Ministero che ci era stato rimproverato d’aver aiutato a formarsi è improvvisamente un Ministero tabù. Noi vedevamo questo Ministero da un punto di vista dal quale era nostro diritto vederlo, dopo aver contribuito a farlo, e pretendevamo di farne parte: e crediamo di non aver errato affacciando queste pretese. Vari amici nostri, fra gli improvvisi convertiti, allora ci hanno detto: no, no, no, voi dovete fare questo, voi dovete fare quest’altro; dovete fermare questa campagna; non dovete fare così. Eh, un momento, ho detto io; e che siamo i vostri lacché, i vostri servitori? Ma io vi caccio fuori quanti siete. È chiaro? E questa mia reazione da che cosa nasce, caro Nasi? Dall’inestimabile pregio della possibilità di dire la verità, dal fatto certo d’avere un giornale settimanale finanziariamente indipendente che mi mette al sicuro da ogni pericolo.

PRESIDENTE. Ricordi che sta parlando per fatto personale.

GIANNINI. Ho l’impressione di dire cose istruttive. Cercherò di stringere quanto più è possibile.

Una voce al centro. Per fatto personale, non c’è limite.

GIANNINI. Il limite io lo trovo nella mia deferenza verso di lei, signor Presidente, e spero di terminare entro cinque minuti. La nostra reazione dunque nasce dalla nostra possibilità di esser indipendenti giornalisticamente e dunque spiritualmente, di poter scrivere quello che a noi piace.

Ora, se ciò comporta la cessazione delle pubblicazioni d’un giornale passivo, se questo comporta perturbamenti nell’interno del partito, se questo comporta altri danni, altre battaglie, altre lotte, a noi non fa paura. Noi siamo qui per difendere la nostra idea, errata o non errata, dell’«Uomo Qualunque», della «Donna Qualunque». Noi intendiamo difendere questi ceti: noi non intendiamo avere pregiudiziali di nessuna sorte e di nessuna specie. Noi vogliamo semplicemente assicurare il benessere a questa categoria sociale che sentiamo di rappresentare, e che fino allo scioglimento di quest’Assemblea noi siamo in diritto di ritenere che legittimamente rappresentiamo.

Fra poco vi saranno le elezioni. Il colpevole massimo di tutto questo baccano è l’onorevole Scelba, perché se egli non avesse bandito le elezioni, qui si vivrebbe in una idilliaca tranquillità. Tutto quanto accade, accade in funzione delle elezioni. Tutto quanto accade, accade in funzione del dramma intimo di molti fra coloro che pensano, e giustamente, che qui non torneranno più, e s’agitano, e soffrono. E hanno anche ragione.

Ci saranno le elezioni. Onorevole Nasi, noi parteciperemo a queste elezioni col «Torchio dell’Uomo Qualunque», con la nostra idea pulita, con i nostri giornali quotidiani se potremo farli liberamente, senza i nostri giornali quotidiani se non potremo farli liberamente. Se noi otterremo il suffragio del popolo italiano ritorneremo qui a fare il nostro dovere; se noi non otterremo questo suffragio noi ritorneremo là da dove siamo venuti, e riprenderemo le nostre vecchie occupazioni.

Io credo – e i miei amici spero che credano con me, per quanto io non mi sia concertato con loro – che il popolo italiano non abbia bisogno d’esser vasellinato con miliardi di dubbia provenienza per scegliere i suoi rappresentanti. Penso che questi miliardi possano servire soltanto a facilitare la logistica delle elezioni, ma che la base della lotta politica debba essere soltanto la sincerità, la fede anche nell’errore. Onorevole Nasi, noi ci atterremo a questa linea di condotta.

Per tutto quant’altro riguarda le indagini che lei, e chiunque altro, di qualsiasi parte dell’Assemblea, di qualsiasi Gruppo, intende esperire nella contabilità giornalistica dei giornali ai quali presiedo, sono sempre a disposizione, in qualsiasi momento, senza alcun preavviso.

Signor Presidente, la prego dì scusarmi se ho abusato della sua cortesia. (Applausi a destra).

LABRIOLA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Io avrei potuto domandare la parola per fatto personale quando l’onorevole Nasi ha alluso al giornale Il Risorgimento, il quale fa parte dell’azienda editoriale a cui appartiene anche il giornale che io ho l’onore di dirigere.

La situazione del Risorgimento è un po’ diversa da quella che l’onorevole Nasi ha esposto. Ma io non intendo occuparmi di queste cose per la ragione elementarissima che io non faccio parte del giornale medesimo.

Esiste a Napoli un’azienda giornalistica, anzi, meglio, un’azienda editoriale che prende il nome di S.E.M. A questa azienda appartengono tre organi quotidiani: Il Roma, che io dirigo; Il Risorgimento, che evidentemente ha un’altra direzione, e Il Corriere di Napoli.

Il Risorgimento, quando era diretto dal signor Floriano del Secolo, era un giornale nettamente democratico e di spiccato colore antifascista.

Eliminata, per ragioni che non possono interessare l’Assemblea, la direzione di questo distinto pubblicista, venne assunto come direttore di esso il signor Corrado Alvaro.

Uno dei proprietari dell’azienda reputò che l’orientazione in senso comunistico conferita al giornale da questo pubblicista non fosse opportuna e credette perciò di separarsi da lui.

Il direttore attuale ha reputato invece, probabilmente per desiderio dello stesso proprietario, di orientare il giornale verso la Democrazia cristiana o, meglio ancora, di farne un organo di tendenza governativa. Ma è un errore il reputare, come alcuni signori di questa parte della Camera hanno pensato, che l’azienda dipenda dal signor armatore Lauro. Egli non è che uno dei due proprietari dell’azienda. (Commenti). L’altro proprietario, del quale suppongo nessuno oserebbe discutere, è il Banco di Napoli. (Commenti).

Il Banco di Napoli sventuratamente si trova nella condizione che la sua direzione è tuttavia provvisoria, vale a dire i suoi elementi direttivi furono nominati solo in via straordinaria, e attendono di essere sostituiti da persone le quali possano prendere con più sicura responsabilità la direzione della stessa azienda. Dell’orientamento dei giornali Il Risorgimento e Il Corriere di Napoli non tocca a me parlare.

Io dirigo il giornale Il Roma. Ho interrotto l’onorevole Giannini nel momento in cui diceva che i giornali hanno bisogno di sussidi, di appoggi, di aiuti. Io lo nego nella maniera più categorica. Un solo appoggio i giornali possono legittimamente desiderare e pretendere: quello del pubblico. Se i giornali sono onesti, se rappresentano una opinione pura e netta, sia quella della Democrazia cristiana, sia quella liberale o comunistica, il pubblico li seguirà, almeno nella misura in cui i mezzi materiali siano dati a questi giornali per essere pubblicati.

Si è parlato di pressioni che si potessero esercitare sui pubblicisti. Il Comandante Lauro non ha avuto con me che due sole conversazioni: la prima quando egli mi ha offerta la direzione del giornale e l’altra quando si è dovuto parlare dell’amministrazione di esso. Giammai mi si è rivolto l’invito ad orientare il giornale in un senso anziché in un altro.

Il Roma ha una grande tradizione. È il giornale della famiglia Lioy, uomini onesti, gente intemerata, degna di esser ricordata con pubblico rispetto. L’onorevole Giannini ne sa qualche cosa. Egli, napolitano, non può ignorare ciò che quei signori facessero per assicurare non solo alla cittadinanza napolitana, ma al Paese, un puro organo di opinione.

Io sono appunto del parere che quando un giornale rappresenta un’idea, e questa idea è onestamente professata, il pubblico seguirà questo giornale e nel proprio interesse deve seguirlo. A me giammai nessuno è venuto a chiedere che dessi un indirizzo diverso da quello che i miei precedenti, i miei sentimenti e il mio orientamento politico mi permettevano di avere. Sono contrario alla Democrazia cristiana: lo sono per tante ragioni che ho avuto l’occasione di svolgere proprio in questa Camera. Nessuno avrebbe mai pensato che io avrei potuto fare un giornale che non fosse stato avverso all’attuale Governo, perché nessuno poteva pensare che il suo umile collega, onorevole Giannini, avrebbe potuto avere opinioni difformi da quelle che i suoi sentimenti gl’imponevano di avere.

Ricordo ancora una volta che l’altro proprietario del giornale è il Banco di Napoli, non d’accordo, in questo momento, col signor armatore Lauro; non d’accordo per questioni che si riferiscono all’indirizzo politico degli altri giornali dell’azienda medesima; non d’accordo con esso, anche per ragioni amministrative.

Ma tutte queste questioni non potranno risolversi, se non quando il Governo si deciderà, dopo due anni, dopo infiniti ponzamenti, a dare al Banco di Napoli, che ne ha bisogno, una buona direzione, una onesta direzione come quella che adesso, in linea provvisoria certamente ha, ma che ha bisogno di essere stabile e definitiva.

La mia conclusione, onorevole Giannini, è molto semplice. Io faccio un giornale, che finanziariamente dipende dal pubblico e politicamente da me; se domani qualcuno dovesse chiedermi di difendere sul giornale una opinione, che non fosse la mia – né so chi potrebbe essere – so pertanto distintamente che cosa gli risponderei, e non ritornerebbe ad insistere.

Penso che avremmo una stampa d’indiscutibile onestà e concorreremmo largamente alla educazione del pubblico, quando i giornali si ispirassero tutti a questo concetto: il giornale è del pubblico, non degli industriali, non dei banchieri e neppure dei partiti, salvo che questi non rappresentino veramente correnti nazionali e collettive. In nessun caso si deve ammettere che il giornale rappresenti interessi privati. Ed esso fatalmente sarà cosa dei privati finché si accetteranno oblazioni ed interventi, i quali non sempre stanno in rapporto con l’orientamento politico del periodico.

Io so di fare un giornale a fondo socialista, democratico ad ogni modo, e questo sarà finché la cosa sarà nel mio controllo. Potrò domani trovare sul mio tavolo di lavoro, o ricevere un telegramma col quale si potrà significarmi il mio licenziamento; questa è cosa che posso prevedere, ma è indiscutibile che, fino a quanto sarò alla testa del giornale, questo non rappresenterà che la mia opinione e quella che ritengo opinione più conveniente al pubblico italiano.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. L’onorevole Labriola sostiene che un giornale è giornale, in quanto esso è sostenuto dal pubblico. Nello stesso tempo ci viene a dire che il giornale da lui diretto è espressione non solo dell’armatore Lauro ma del Banco di Napoli. Insomma, il suo giornale è del Banco di Napoli o è del pubblico?

Secondo: io ho spiegato chiaramente che non si intendeva attaccare né circoli politici, né giornalisti, né editori, ma colpire quei ceti, i quali, per aver guadagnato denaro nella vendita del baccalà o del formaggio, pretendono di diventare genî politici di prima grandezza.

Per quanto riguarda il gruppo in relazione con il giornale diretto dall’onorevole Labriola, si tratta di uno stranissimo gruppo, che ha tre giornali: con uno attacca il Governo, con l’altro lo difende, con il terzo segue una via di mezzo.

LABRIOLA. Il Governo lo attacco io e non il gruppo al quale apparterrei, questa è la verità! (Commenti).

GIANNINI. Io dico la verità; perché questo gruppo con un giornale è filodemocristiano, con l’altro è antidemocristiano: questo significa fare il trust dei giornali. Dirò che proprio il Risorgimento è stato sospettato non di essere filo-democristiano, come è sospettato oggi, ma filoqualunquista, e questo perché il nuovo direttore del Risorgimento è stato indicato da me, perché a me si rivolse l’armatore Lauro, per avere il mio parere in proposito, ed io gli consigliai Alberto Consiglio, che era il mio redattore. Per un certo periodo di tempo il Risorgimento è stato ritenuto un giornale filoqualunquista, adesso è diventato filodemocristiano. Quando lei, onorevole Labriola, sostiene che ci sono giornali i quali vivono solamente con ciò che vendono – con la pubblicità che vendono e con le copie che vendono – io le dico, onorevole Labriola che quando lei lo dimostrerà io ne prenderò atto. Per ora confermo che in Italia vi sono due o tre soli giornali che fanno questo. Ma un solo giornale politico indipendente: è il mio e non altri! (Commenti – Applausi a destra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Schiavetti, Valiani, Pertini e Cianca, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i motivi che avrebbero consigliato il Governo a rinviare alle future Assemblee legislative, contrariamente alla comune aspettativa, la discussione e l’approvazione del progetto di legge sulla stampa, destinato a regolare in modo stabile e certo un settore dell’attività politica e culturale del Paese, turbato da ripetuti indizi di sopraffazione politica e di disordine economico e morale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È facile rispondere all’onorevole Schiavetti che il disegno di legge contenente nuove disposizioni sulla stampa è stato presentato dal Governo all’Assemblea nella seduta del 29 marzo 1947 ed è stato dall’Assemblea deferito all’esame della Commissione per la Costituzione, che ha a sua volta nominato una Sottocommissione. Da quanto si sa, dei lavori di questa Sottocommissione, che fu da prima presieduta dall’onorevole Grassi ed attualmente lo è dall’onorevole Cevolotto, essa tenne la prima riunione il 29 aprile, ed un mese dopo la presentazione iniziò il vero e proprio esame del provvedimento. Il 26 maggio furono chiamati a partecipare ai lavori anche alcuni rappresentanti della Federazione della stampa, tre dei quali sono nostri colleghi ed uno no. La Commissione ha tenuto sette riunioni, di cui l’ultima, – secondo quanto mi consta – è del 30 ottobre. Sarebbero già state esaminate molte delle parti in cui è suddiviso questo disegno di legge.

Quando dovetti rispondere all’onorevole Valiani il giorno della interrogazione sul mutamento di testata del Corriere Lombardo in Corriere di Milano, io stesso accennai alla preoccupazione che, data l’imminenza della chiusura dei nostri lavori, non fosse possibile condurre a termine il lavoro preparatorio in sede di Sottocommissione, e, successivamente, qui in Aula, di tutto questo vero e proprio testo unico che coordina le disposizioni vigenti sulla stampa; e, poiché era assolutamente indispensabile dare un contenuto certo ad alcune disposizioni, dissi che sarebbe forse stato bene stralciare le disposizioni più urgenti, o almeno quelle in cui oggi vi è maggiore discussione, e portarle, in un disegno di legge molto più leggero, in Assemblea, in modo da poterlo discutere prima del 31 dicembre.

Questo non è stato accettato dalla Sottocommissione, ed io prendendo degli accordi con il Presidente della Sottocommissione stessa, vedrò di preparare, come già è stato predisposto dai nostri uffici, questo nuovo testo che non fa altro che ridurre di molto i temi, e quindi gli articoli del testo precedentemente presentato, in modo tale che lasciando alcune discussioni meno urgenti ed in parte più complicate, sia possibile – specialmente in quel delicatissimo settore della autorizzazione, che oggi è regolato da disposizioni non sempre interpretate alla stessa stregua nelle diverse provincie, tanto da far dichiarare necessaria l’urgenza di porre termine a questa discussione – addivenire senz’altro all’istituto della registrazione, così come è contemplato dal progetto presentato nel marzo.

Io presenterò alla Sottocommissione, prima ancora di presentarlo formalmente alla Camera come nuovo disegno di legge, questo progetto ridotto, e se la Sottocommissione, come spero, accetterà di discuterlo in queste proporzioni, sono certo che noi riusciremo a farlo approvare prima del 31 dicembre.

Comunque, il Governo non ha affatto ostacolato quello che era l’andamento dei lavori della Sottocommissione e della Commissione dei Settantacinque, e quindi nel caso l’interrogazione dell’onorevole Schiavetti andava forse diretta, prima ancora che al Governo, alla Presidenza dell’Assemblea, per sapere a che punto fossero i lavori della Commissione.

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SCHIAVETTI. Mi dispiace di dover dichiarare che non sono affatto sodisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

UBERTI. Si sapeva!

SCHIAVETTI. Onorevole Uberti, non si sapeva, perché se fossi sodisfatto direi che sono sodisfatto; ma non lo sono per una semplice ragione. Probabilmente l’onorevole Andreotti dimentica di aver usato un’espressione alquanto equivoca nella risposta che egli diede al collega Valiani a proposito di una sua interrogazione sulla testata del Corriere di Milano. Egli disse, in quella risposta, di ritenere difficile, e forse anche inopportuno, discutere in questo scorcio della Costituente l’intero disegno di legge presentato dal Governo all’Assemblea.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per coordinarlo a tutta la Costituzione.

SCHIAVETTI. Già, ma il criterio della opportunità, egregio Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, è qualcosa di diverso e più complesso di quello della possibilità. Evidentemente, qui si tratta di una questione di carattere politico, altrimenti non si doveva usare questa parola dell’opportunità.

Ora, appunto per quello che riguarda il criterio della opportunità, noi riteniamo che sia estremamente opportuno che si ponga ordine nel dominio relativo al regime della stampa in Italia. Noi viviamo fin dalla liberazione, in sostanza, sotto il regime della autorizzazione, e parzialmente anche sotto il regime del sequestro preventivo, regime dell’autorizzazione che non è nemmeno quello fascista soltanto, come ha ricordato il collega Nasi, ma che è quello impostoci dagli Alleati e che noi abbiamo tradotto nel Regio decreto-legge 14 gennaio 1944, n. 14. Ora, è assolutamente necessario che noi usciamo da questo regime di carattere provvisorio, e ciò anche per ragioni di dignità nazionale oltre che di opportunità politica. Dobbiamo fare tutto il possibile per risolvere rapidamente due serie di problemi. La prima serie è attinente alla difesa del diritto di libertà di stampa, diritto di libertà che può essere minacciato da arbitrii governativi, e purtroppo in questo campo vi sono dei precedenti poco rassicuranti. Infatti già per due volte il Governo, al cui centro politico era la Democrazia cristiana, ha fatto sequestrare, sotto il pretesto della violazione della decenza pubblica, due giornali, che sono stati poi assolti dall’autorità giudiziaria da questa accusa, il che ci induce al sospetto che l’accusa di questa violazione fosse soltanto un pretesto e che si volessero colpire dei giornali che difendevano delle idee e sostenevano dei punti di vista che erano diametralmente contrari e quelli sostenuti dalla Democrazia cristiana.

Ora, è verissimo che con l’onorevole Andreotti le cose sono alquanto cambiate e che il regime di carattere benevolmente parrocchiale che aveva imposto alla stampa l’onorevole Cappa, è diventato un regime più ragionevole; ma che la tutela della stampa debba dipendere dalla mentalità e dalla benevolenza di un membro del Governo, è un fatto pericoloso per la dignità del giornalismo e per la difesa della dignità della stampa.

C’è poi un’altra serie di problemi che devono essere risolti. I nostri colleghi hanno assistito, un quarto d’ora fa ad una impressionante sciorinatura di panni sporchi. Io domando all’Assemblea che cosa penserà il Paese domani di questo scambio di confidenze che si sono fatte gli onorevoli Giannini e Labriola. Vi sono dei problemi che vanno al di là della semplice tutela del diritto di stampa, vi sono problemi che riguardano il dovere, da parte dello Stato e dell’Assemblea, di tutelare l’opinione e la buona fede pubblica dalle iniziative perniciose delle oligarchie finanziarie che si valgono dei diritti consentiti dalla libertà della stampa per far subdolamente trionfare i loro interessi particolari su quelli generali del Paese.

Noi abbiamo il dovere di risolvere questa serie di problemi e di discuterli, di porli al Governo o all’Assemblea stessa, prima ancora che si facciano le elezioni. Questi problemi riguardano, ad esempio, il mercato della carta, il cui alto prezzo è diventato uno degli ostacoli più forti per le aziende giornalistiche anche le più oneste, che ancora ci sono in Italia; vi è poi il problema della disponibilità delle tipografie (già accennato in seno alla Commissione che ha studiato il progetto relativo al regime di stampa); vi sono infine le limitazioni da imporre a tutti coloro che vogliono pubblicare dei giornali, appunto perché il pubblico possa essere difeso dagli attacchi alla propria buona fede dal prevalere degli interessi particolari sopra gli interessi generali.

Non vi dirò ora come da questa parte della Camera si auspica la soluzione di questo problema importante, una soluzione che deve andare al di là della pura difesa del diritto di stampare; vi dirò però che abbiamo il dovere dinanzi al Paese di portare chiarezza nell’impostazione di questo gruppo di problemi, altrimenti noi daremo ragione, a due anni di distanza dalla liberazione, al fascismo, il quale, confondendo a bella posta i due piani sui quali può esser considerato il problema della libertà della stampa – il piano giuridico e il piano finanziario – sosteneva che la libertà di stampa è una menzogna e che la stampa deve essere controllata e regolata dall’autorità dello Stato. Noi non vogliamo dare ragione al fascismo neanche in questo e vogliamo perciò che sia introdotto ordine in questo gruppo di problemi.

Testé l’onorevole Giannini ha detto che la verità è un lusso. Onorevoli colleghi, questa è una bestemmia, di fronte al popolo italiano! La verità non deve essere un lusso; deve essere invece garantito a tutti gli italiani non solo il diritto di dire la verità, ma anche quello di sapere la verità! (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Mastrojanni e Tumminelli, al Ministro dell’interno, «per conoscere se sono stati identificati ed arrestati gli autori dell’assassinio premeditato, consumato per brutale malvagità nella persona del giovane Mario Petruccelli, appartenente al Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque di Sesto San Giovanni».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Le indagini subito attivamente iniziate e condotte per identificare ed arrestare gli autori dell’assassinio del giovane Mario Petruccelli – avvenuto a Sesto San Giovanni il 4 novembre ad opera di due individui che, presentatisi a casa sua poco prima della mezzanotte e chiesto di parlare con lui per dichiarati motivi politici, lo freddavano appena comparso, a colpi di rivoltella, dandosi quindi alla fuga – sono indubbiamente a buon punto; ma non ancora, purtroppo, concluse. L’onorevole interrogante mi consentirà perciò di mantenere al riguardo il necessario riserbo, tanto più che nel corso di queste indagini, condotte, ripeto, molto attivamente e in stretta collaborazione da tutti gli organi di polizia, alcuni episodi sembrano rivelare una vasta omertà in atto che sembrerebbe avvalorare piuttosto l’ipotesi del delitto politico. Questa ipotesi peraltro, è molto grave nella fattispecie essendo la vittima un infelice semiparalitico, disoccupato, scacciato di casa dalla moglie e da questa privato dell’unica figlia, nonché da tempo, finanche, esonerato dal modestissimo incarico di fiduciario per Sesto San Giovanni del Partito dell’Uomo qualunque, incarico che sembra lo aiutasse a poveramente vivere – perciò occorre necessariamente essere, in proposito, molto prudenti.

Qualunque, possa essere la causale, non dubiti l’onorevole interrogante del determinato proposito delle autorità di polizia di raggiungere ad ogni costo gli autori di un delitto tanto efferato.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TUMMINELLI. La ringrazio, onorevole Sottosegretario, delle assicurazioni che ha voluto dare a me e non soltanto a me, ma a tutto il mio Gruppo, ma il problema investe una cerchia più ampia di interessi, i quali sono innanzitutto quelli della libertà del cittadino. Tuttavia debbo fare delle riserve sulle assicurazioni fornitemi or ora dall’onorevole Sottosegretario, al quale mi permetterò di osservare che non si tratta di un fatto singolo, ma di una serie di episodi che si ripetono. Oggi, infatti, è stato colpito lo sventurato Petruccelli, ma, appena pochi giorni fa, un altro delitto si è verificato nelle stesse, identiche condizioni e con gli stessi mezzi e con lo stesso tipo di metodo, a Milano; così, alcuni mesi fa, un giornalista è stato assassinato di notte dinanzi alla porta di casa in modo analogo.

Ora noi ci domandiamo, onorevole Sottosegretario, signori del Governo: ci troviamo di fronte ad una nuova ondata di terrore? Ci troviamo forse di fronte ad un nuovo metodo di intimidazione, metodo che sarebbe, come è evidente, quanto mai pericoloso? Che cosa si può, onorevoli colleghi, di fronte a due individui con giacca di pelle che si possono presentare alla casa non già dei soli rappresentanti o militanti nel nostro Partito, ma di qualunque cittadino, di notte, e che uccidono senza alcuna ragione, soltanto perché hanno ricevuto il mandato di uccidere a qualunque costo? Che cosa si può, onorevoli colleghi, di fronte ad uomini che non hanno se non il deliberato proposito di soffocare nel sangue una voce, una idea, l’idea di un partito, l’idea della libertà?

Sorge allora opportuno domandarsi se, come diceva pocanzi l’onorevole collega Giannini, la libertà sia veramente un lusso; è opportuno domandarsi se la nostra personale incolumità sia legata alla capacità di essere più veloci o destri dell’individuo che ci minaccia o ci insidia.

È questo, signori del Governo, onorevole Sottosegretario, che categoricamente vi domando; è questo che io chiedo a tutti i membri di questa Assemblea. La situazione è grave e la questione non è se non quella di vedere se si vuole, se si deve riprendere ancora una lotta civile, una guerra civile e se con tali metodi si intenda di conseguire tale scopo.

Noi deprechiamo questa guerra civile; non la vogliamo: è per questo che la pubblica sicurezza ci deve dare la garanzia più assoluta, più inequivocabile, che le nostre vite, quelle dei nostri familiari, siano ad ogni costo tutelate e difese; è per questo che le autorità competenti ci debbono dare la più ampia assicurazione che le nostre idee possano essere liberamente propagandate, che chiunque possa liberamente manifestare il proprio credo politico. È evidente che, dicendo ciò, non intendo alludere soltanto al mio Partito, non affermare un diritto che non è soltanto nostro, ma patrocinare una causa che è di tutti, di ogni partito, di destra come di sinistra.

Dobbiamo impedire ad ogni costo che la violenza possa chiudere la bocca e far sì che la libertà possa costituire veramente un lusso di popoli più civili del nostro.

Onorevole Sottosegretario, occorre che a questa svolta della nostra vita politica, della nostra ricostruzione democratica e della libertà del nostro Paese, il Governo intervenga energicamente con il disarmo. Il Paese ha dato un grande esempio di disarmo morale. È precisamente su questo disarmo morale che si è potuto fare quello che si è fatto in questi ultimi due anni.

Orbene, il Governo ha tutti i mezzi, tutte le possibilità, il Ministero degli interni ha tutte le facoltà per poter imporre il disarmo materiale. Io faccio appello a tutti i settori di questa Assemblea, perché anche essi collaborino in questa opera, perché si possa veramente far sì che non ci sia più un uomo nel nostro Paese il quale possa possedere ed impugnare illegittimamente un’arma.

Onorevole Sottosegretario! Il provvedimento che giunge ad arrestare i colpevoli è cosa indispensabile e che, quindi, si può e si deve auspicare: ma noi soprattutto domandiamo che non accada più che vi sia un cittadino, anche un solo cittadino che possa essere illecitamente armato. Noi domandiamo al Governo che esso prevenga, per non dovere punire più tardi.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Sansone, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se è vero che è di imminente adozione un provvedimento tendente alla riorganizzazione dell’Istituto centrale di statistica ed alla conseguente immissione nei ruoli dell’Amministrazione centrale solo di una aliquota del personale dipendente; ed in caso affermativo per conoscere: a) in base a quali criteri si intendano ridurre i quadri del personale, e, quindi, l’efficienza di un servizio che allo stato attuale, come è stato pubblicamente e autorevolmente denunciato, si trova in condizioni estremamente arretrate e, pertanto, richiederebbe, invece, di essere ulteriormente sviluppato, perfezionato e coordinato con tutte le altre attività statistiche razionali; b) in base a quali considerazioni si intenda immettere nei ruoli dello Stato solo parte del personale e quale sorte è riservata al personale non immesso in ruolo alla scadenza dei singoli contratti; c) se, data la crescente importanza dei servizi statistici razionali, anche per i loro riflessi in campo internazionale, non ritiene opportuno di investire della materia l’Assemblea, o per essa la competente Commissione legislativa, in modo che un provvedimento di tanta gravità garantisca, oltre che la tutela dei diritti di tutti i dipendenti, anche il necessario potenziamento dei servizi statistici nel superiore interesse della Nazione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’origine della preoccupazione dell’onorevole Sansone sta in una notizia non vera, pubblicata dall’Avanti! che ha provocato non solo questa interrogazione, ma anche una certa agitazione interna, e comprensibilissima, dei dipendenti dell’Istituto centrale di statistica, che si sono visti agitare così uno spettro che non aveva altra consistenza che quella di una immaginaria, fantasiosa informazione raccolta appunto dal giornale molto vicino politicamente all’onorevole Sansone.

È vero che è di imminente adozione un provvedimento legislativo sull’ordinamento dei servizi statistici e dell’Istituto centrale di statistica; e questo conformemente ad una disposizione legislativa del 1945. Il provvedimento è stato elaborato in base alle proposte formulate fin dallo scorso anno da un’apposita Commissione di studio composta da professori e docenti universitari di discipline statistiche, economiche e finanziarie – tra i quali i professori Niceforo, Amoroso, Vinci, Livi, D’Addario, Galvani, Luzzatto-Fegiz, Albertario, Pesenti, ecc. – nonché da giuristi ed altri esperti designati dalla Presidenza del Consiglio, dal Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti, dalla Ragioneria generale dello Stato, da altre amministrazioni statali e da associazioni ed organizzazioni sindacali fra le quali la Confederazione generale italiana del lavoro.

Il provvedimento non solo non contempla riduzione di personale, ma, al contrario, ne prevede un rafforzamento, particolarmente nella categoria di concetto, per mettere l’Istituto nelle migliori condizioni per assolvere ai vasti e delicati compiti che gli sono demandati.

È quindi assolutamente falso che l’Istituto di statistica sia sul punto di dover congedare una parte del proprio personale. Come pure ho il dovere di dire in coscienza che è falso che l’Istituto sia in condizioni arretrate, perché, malgrado le generali difficoltà ed il fatto che la consistenza numerica del suo personale sia di oltre 200 unità inferiore a quella del 1939, esso non solo ha ripreso tutte le antiche rilevazioni ed elaborazioni statistiche, apportandovi notevoli miglioramenti tecnici, ma ha esteso il campo della sua attività a rilevazioni ed elaborazioni mai eseguite nel passato né dall’Istituto stesso, né da altre amministrazioni ed enti.

I risultati di questa attività sono documentati nei quattro Bollettini mensili regolarmente pubblicati: Bollettino mensile di statistica, Bollettino dei prezzi, Bollettino di statistica agraria e forestale, Statistica del commercio con l’estero; nelle altre numerose pubblicazioni edite dal 1945 ad oggi, tra le quali il ben noto Compendio statistico; il Sommario statistico delle Regioni d’Italia; il Compendio, in due volumi, delle statistiche elettorali italiane dal 1848 ai nostri tempi, e, recentissimi, i primi due volumi di una nuova serie di Annali di statistica, con importanti studi scientifici su argomenti di viva attualità.

Altre testimonianze dei risultati di tale attività emergono, inoltre, dal notevole impulso dato dall’Istituto ai lavori statistici che si svolgono presso le altre Amministrazioni ed enti e dall’attiva partecipazione dell’Istituto stesso, con propri funzionari, ai lavori dei vari Comitati interministeriali e delle Commissioni tecniche nominate dal Governo per l’esame di speciali problemi di interesse nazionale e internazionale; e ancora, dall’alto prestigio – di gran lunga superiore a quello goduto nel passato – conquistato nel campo internazionale e dimostrato, fra l’altro, dalle numerose lusinghiere testimonianze in questo senso ad esso date dalle massime organizzazioni internazionali quali l’Istituto internazionale di Statistica, l’O.N.U., la F.A.O., ecc., con le quali il nostro Istituto attivamente collabora nell’interesse del Paese.

Infine, le norme contenute nello schema di provvedimento prevedono l’immissione nei ruoli statali di tutto dì personale a contratto in servizio alla data di entrata in vigore del provvedimento; esse tutelano nel modo più sodisfacente gli interessi del personale, che, del resto, attraverso la propria rappresentanza sindacale, ha attivamente partecipato alla elaborazione delle norme stesse.

Infine l’onorevole Sansone richiede che le Commissioni della Camera non siano estranee all’elaborazione e all’approvazione di questo provvedimento. Senza dubbio, poiché trattasi di un provvedimento urgente, ma non di estrema urgenza (dato che se ne parla dal 1945), esso, approvato dal Governo, nella prossima settimana di sedute sarà senza dubbio mandato alla prima Commissione, che pare sia quella competente a discutere questo problema.

PRESIDENTE. L’onorevole Sansone ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SANSONE. La mia risposta sarà ampia. Io potrò dichiararmi sodisfatto quando tutto quel che ha detto l’onorevole Sottosegretario si verificherà, perché egli ha esposto un programma futuro dell’Istituto di statistica, ma non la situazione attuale. E mi spiego.

Per ciò che riguarda il personale, vi è un progetto che tende a mettere il personale stesso nei ruoli; però tra il personale vi è agitazione perché sembra che da parte del Ministero del tesoro sarà fatta la proposta di falcidiare il numero dei dipendenti e, quindi, ora, si potrà dire, o si afferma che tutto il personale sarà sistemato, ma quando saremo al testo definitivo della legge, allora certamente il personale sarà ridotto.

Io prego, quindi, vivamente l’onorevole Sottosegretario di voler studiare questo problema, di volere evitare cioè che il Tesoro imponga diminuzioni di personale, che sarebbero dannose non solo al personale stesso ma all’Istituto di statistica, il quale, contrariamente a quanto l’onorevole Sottosegretario ha detto, versa in questi momenti in una situazione di deficienza che deve preoccuparci seriamente.

Su questo punto sono in disaccordo con lei, onorevole Andreotti. Io non posso infliggere all’Assemblea la lettura di un rapporto molto lungo e dettagliato, ma se io domandassi a lei o domandassi all’Istituto di statistica quanti sono in questo momento gli abitanti in Italia, non lo si può sapere, e siamo al terzo anno dalla fine della guerra! Deve convenire, onorevole Sottosegretario, che sono manchevolezze gravi!

Ma vi è qualcosa di più. Come rilevo dal giornale Realtà, sono state sospese le statistiche del commercio con l’estero, perché nel 1946 furono compilate erroneamente, il che ha portato ad una valutazione errata della nostra bilancia commerciale ed ha fatto diminuire le nostre richieste di aiuti all’estero, in quanto si riteneva ad un certo momento che avessimo esportato più di quanto effettivamente fosse avvenuto. Sono deficienze gravissime! Non sappiamo ancora i dati statistici relativi alla natalità o alla mortalità, ed io ricordo un episodio: quando il Ministro Fanfani rispose alla mozione di Morandi e Di Vittorio, egli ci indicò delle statistiche, che certamente erano errate, il che significa che in Italia la statistica non funziona, (Interruzione del Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri), e non funziona perché i servizi sono suddivisi. Noi non abbiamo un servizio statistico unificato: ogni ufficio, ogni Ministero ha la sua statistica, e in America e altrove circolano statistiche ufficiose come se fossero ufficiali, il che determina tutto un orientamento della vita internazionale contrario agli interessi del nostro Paese.

Ora, la statistica è il fulcro della vita di un Paese civile. Sono i numeri che esprimono veramente la vita di un Paese, ma questi numeri devono essere accreditati presso i Paesi stranieri. L’Istituto di statistica italiano ha una tradizione luminosa, perché è sempre stato presieduto da statisti insigni, ma da due anni, come diceva lei, cioè dal 1945, vi è una gestione provvisoria affidata ad un amico del suo Partito, al professore Canaletti.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Appunto c’è questa interrogazione.

SANSONE. La sua è una intemperanza fuori posto. Mi sono permesso di dire che è un democristiano. Se questo è vietato, le dirò che pian piano la dittatura nera cresce! (Rumori al centro).

Dunque dicevo che la gestione provvisoria è affidata al professore Canaletti e da due anni non si passa dalla gestione straordinaria alla gestione ordinaria, ma quel che è peggio, è che non si provvede al Consiglio Superiore di statistica, che è veramente l’organo che può accreditare i nostri dati all’estero. Sono due anni, ripeto ancora, che siamo in una situazione provvisoria in un settore che è uno dei principali del Paese. Perciò chiediamo l’intervento dell’Assemblea Costituente la quale deve affrontare il problema stesso, risolvendo cioè la unificazione dei servizi statistici affinché subito venga costituito il Consiglio Superiore di statistica e che può dare veramente la tranquillità sulle cifre che si possono realizzare.

A conferma – se pur ve ne fosse ancora bisogno – delle deficienze voglio leggervi quanto riporta il giornale che vi ho citato: «È di qualche giorno fa il comunicato con cui l’Istituto centrale di statistica informa di avere temporaneamente sospesa la pubblicazione dei dati sul commercio estero italiano causa la necessità di provvedere alla revisione dei criteri di elaborazione e rilevazioni fin qui seguiti non rispondenti alle presenti condizioni degli scambi della valuta dei paesi stranieri. Ottimamente – commenta ironicamente il compilatore della nota. Meglio nessuna statistica anziché delle cattive statistiche e parlando in coscienza quelle anche ufficiali, fin qui fornite, non potrebbero senz’altro definirsi come buone».

Quindi, io pregherei l’onorevole Sottosegretario di voler controllare che non siano violati i diritti del personale nel senso che se si statizza l’Istituto bisogna che veramente tutto il personale sia immesso nei ruoli, ma principalmente necessita che cessi la gestione straordinaria, che si nomini il Consiglio Superiore di statistica e che principalmente tutta l’Assemblea prenda in discussione questo problema che è uno dei problemi centrali per la vita del Paese.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Vorrei solo aggiungere una parola a quello che ha detto l’onorevole Sansone, in quanto mi incombe l’obbligo di dire che se non è stato fatto in Italia il censimento, questo non dipende dall’Istituto di statistica, ma dipende da una mancata deliberazione del Governo, che ha ritenuto, o per mancanza di mezzi o per trasmigrazioni interne che ancora esistono in misura rilevante, di non poter disporre il censimento. D’altra parte, lo stesso Istituto di statistica, così come è organizzato nella fase costituente interna, non ha degli organi periferici propri e questo spiega perché possano esistere dati che provengono dalla base senza una certezza o senza una forte percentuale di certezza.

L’onorevole Sansone ha parlato delle statistiche di disoccupazione, e quanto egli ha detto è vero. Ma quelle statistiche non vengono fatte dall’Istituto su relazione diretta della base, sibbene sopra indicazioni dei vari organi.

SANSONE. Questo è l’errore. Sono tre anni che la guerra è finita ed urge la unificazione dei servizi statistici.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma c’è almeno un merito dell’attuale gestione: quello di avere restituito una certa pace interna all’Istituto che, come lei ricorderà certamente, è mancata per un certo tempo ed è mancata perché certe figure, che avevano una particolare responsabilità e non avevano meriti insigni per potere essere assolti da altre pecche, sono state finalmente in parte messe fuori e in parte messe in condizioni di vedere come oggi è la realtà e cioè che l’interesse dell’Istituto è semplicemente quello di ottenere una certa concordia, un clima di serenità in cui si possa veramente servire ai compiti dell’Istituto stesso.

Io credo che l’attuale Presidente, il quale è un democristiano, sia anche un competente. È un professore di statistica e ha dato prova di aver restituito all’Istituto quel certo clima, e quella certa fisionomia che dà tutte le garanzie. Spero che quando – e ritengo prestissimo – questa legge che riordina l’Istituto verrà varata, questo organismo sarà posto in condizioni di assoluta idoneità a risolvere quei problemi di urgenza che si riterrà necessario di esaminare per l’interesse dell’Istituto stesso.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole De Martino, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se il Governo intende mettere finalmente un termine alla vita dell’A.R.A.R., che occupa da anni impianti dell’industria privata con pregiudizio dell’economia nazionale e con aggravamento del problema della disoccupazione».

Data l’affinità di argomento, questa interrogazione può essere associata all’interrogazione degli onorevoli Rodinò Mario, Monticelli e Crispo, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dei trasporti, del tesoro e dell’industria e commercio, «per conoscere se non si ritiene necessario ed urgente disporre una inchiesta sulla gestione dell’A.R.A.R. L’opinione pubblica si preoccupa vivamente della regolarità e della onestà del funzionamento di questa organizzazione che, improvvisata dal Governo Parri in pochi giorni, da anni riceve e custodisce, tratta, transige ed aliena e vende nell’interesse del pubblico erario tutto un assortimento di beni, inventariati all’ingrosso, che hanno valore di centinaia di miliardi, e ciò senza che finora sia mai stato esercitato, da persone estranee all’abituale ingranaggio dell’ente, un effettivo controllo sulla regolarità e sulla bontà dell’operato dell’ente stesso, sulla misura delle sue spese e sulla rispondenza dei risultati raggiunti con quelli che un’amministrazione sana ed oculata avrebbe dovuto ottenere. Sta di fatto che da tempo circolano, con riferimento all’A.R.A.R., voci di inauditi arricchimenti da parte di funzionari e di speculatori e la stampa ha in questi giorni pubblicato con chiari e violenti commenti, il testo di un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. e una azienda privata, con il quale tale privata azienda risulta messa in grado di realizzare, senza impegno di denari e di rischio, utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi. Data l’importanza degli inconvenienti ed il groviglio degli interessi che è possibile vi si annidi intorno, si richiede che la Commissione per gli accertamenti necessari venga composta, per garantirle autorità ed indipendenza, con parlamentari in grado, per competenza tecnica ed amministrativa, di valutare la realtà della posizione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Mi riferisco dapprima all’interrogazione dell’onorevole De Martino.

All’Azienda rilievi alienazione residuati, creata con decreto legislativo luogotenenziale 29 ottobre 1945, n. 683, è stato affidato un importantissimo compito, e cioè di procedere alla presa in consegna ed alla alienazione del materiale residuato di guerra ceduto dagli Alleati al Governo italiano. È evidente pertanto, che non si rende possibile, come chiede l’onorevole interrogante, porre fin d’ora un termine alla vita dell’azienda, perché non è dato stabilire quando potrà essere smaltito il quantitativo ancora ingente di materiale che essa detiene, tanto più che sono tuttora in corso altre consegne, da parte degli Alleati, di residuati di guerra di rilevante entità. Non potrebbe riuscire utile, al fine di attuare l’auspicata restituzione all’industria privata degli immobili ed impianti attualmente occupati dai cennati materiali, sopprimere l’A.R.A.R., perché, ovviamente, finché i residuati di guerra da alienare esistono, occorrerà pure custodirli e venderli; e perciò, ove si addivenisse a detta soppressione, si dovrebbe provvedere ad affidare ad altro organismo statale o parastatale tale compito, senza alcun beneficio nei riguardi dello sgombero degli immobili di proprietari privati, ed anzi, con la quasi certezza di ritardarlo ulteriormente per gli inevitabili intralci che un siffatto cambiamento determinerebbe, almeno in un primo tempo, nel ritmo delle vendite. Non bisogna poi dimenticare che l’attività dell’A.R.A.R. involge cospicui interessi del Tesoro, al quale affluisce il ricavato delle vendite. Sono stati già introitati oltre quarantun miliardi di lire, onde anche sotto questo aspetto è d’uopo evitare iniziative che si risolverebbero in un danno per lo Stato.

In ordine alla questione specifica dei beni immobili, già adibiti dalle Forze armate alleate a depositi di materiali residuati di guerra, successivamente ceduti al Governo italiano, e per esso all’A.R.A.R., è da rammentare che la questione stessa ha formato oggetto del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 febbraio 1947, n. 120, il quale, all’articolo 1, stabilisce che gli immobili suddetti si considerano occupati dall’azienda al momento in cui essa abbia ricevuto in consegna i materiali ivi depositati. Tale provvedimento si è reso necessario allo scopo di assicurare nel miglior modo la conservazione del materiale, che per la sua rilevante entità, non poteva essere collocato altrove, data la difficoltà di trasportarlo e di trovare locali o terreni idonei per sistemarlo convenientemente. Qualsiasi spostamento avrebbe inoltre dato luogo agli inconvenienti di cui ho fatto cenno, per la inevitabile paralisi che ne sarebbe derivata nelle alienazioni.

Ciò non significa naturalmente che da parte dell’A.R.A.R. non si cerchi in tutti i modi di attenuare il disagio che deriva agli interessati dal prolungarsi dell’occupazione di terreni o immobili di loro proprietà. Una speciale disposizione è stata all’uopo inserita nel citato decreto n. 120 per quanto attiene agli immobili destinati ad uso di abitazioni o di scuole o destinati ad istituzioni di assistenza e beneficenza, per l’alloggio di ricoverati e per i relativi servizi, stabilendosi che per detti immobili l’A.R.A.R. deve provvedere alla restituzione entro un determinato periodo di tempo indicato nel decreto medesimo. Indipendentemente da questa specifica norma, il Tesoro non ha mancato e non mancherà di svolgere azione vigile e costante affinché, compatibilmente con le esigenze funzionali dell’A.R.A.R., non si verifichino ingiustificati ritardi nello sgombero dei locali da essa occupati; e in tal senso si è già avuto occasione di rivolgere premure all’azienda, di volta in volta che sono pervenute segnalazioni da parte degli interessati. È altresì da avvertire che, in seguito anche alle vivaci premure rivolte dal Ministero del tesoro, l’A.R.A.R. nulla tralascia per dare il massimo impulso alle vendite, ciò che contribuirà ad affrettare lo sgombero dei locali nei quali il materiale è ora depositato. Di più non è possibile fare. Nessun dubbio che occorre ridurre allo stretto indispensabile i danni che l’occupazione degli immobili di privati industriali ha potuto determinare all’economia del Paese; ma è altrettanto indiscutibile che occorre in pari tempo tenere in debito conto la necessità dell’A.R.A.R., cui è affidato un così importante e complesso compito e alla cui attività sono connessi, come già ho avvertito, cospicui interessi dello Stato.

Per quanto si riferisce alla interrogazione dell’onorevole Rodinò ed altri colleghi, osservo che, circa la questione della regolarità di funzionamento dell’A.R.A.R., deve premettersi che questa azienda è stata costituita nell’ottobre del 1945, per assolvere ad un compito di natura e di entità assolutamente eccezionale, quale è quello della presa in consegna, della custodia e della alienazione di ingenti quantitativi di materiale residuati di guerra, da cedersi dagli alleati al Governo italiano.

Trattavasi, nella specie, di ricevere, spesso in alcuni giorni, a volte in poche ore, quantitativi enormi di materiali, di natura assolutamente eterogenea, custoditi alla rinfusa in interi campi, senza dettagliati elenchi di consegna, e di provvedere successivamente alla loro custodia ed alienazione; compiti questi che sovrastavano al momento, come per vario tempo hanno sovrastato, ogni pratica possibilità organizzativa dell’azienda.

Che ciò possa aver dato luogo agli inconvenienti spesso lamentati è fuori di dubbio; ma occorre aggiungere subito che nulla è stato trascurato, sia da parte del Tesoro che dall’azienda medesima, per addivenire nel più breve tempo possibile ad una più idonea e migliore organizzazione, adottando anche più efficienti controlli, che, nonostante la delicatezza e la complessità dei compiti all’azienda stessa affidati, possono lasciare presumere di raggiungere risultati capaci di escludere irregolarità ed abusi.

Comunque, non sono mancate, e non mancano neppure attualmente, tutte quelle iniziative che consentano di addivenire ad un notevole miglioramento della situazione.

Una innovazione, che indubbiamente ha contribuito a creare nel campo dell’alienazione un’atmosfera più sana, è quella della adozione, in massima, del sistema della pubblica gara, che offre, in confronto alla trattativa privata, maggiori garanzie di imparzialità e di regolarità, e che pertanto appare preferibile, anche se ostacola alquanto la più rapida alienazione degli ingenti quantitativi di materiali giacenti nei magazzini e nei campi dell’A.R.A.R.; tanto più che tale svantaggio viene attenuato intensificando al massimo il lavoro di lottizzazione ed i servizi di propaganda.

In connessione con la questione delle vendite, si è curato di migliorare, nel limite del possibile, il servizio di stima del materiale; questione questa che, peraltro, ha sempre presentato e presenta tuttora notevoli difficoltà, giustificate dall’ingente numero dei lotti, che vengono posti in vendita per ogni decade e che ammontano in media a 4.000.

Una delle più gravi lacune verificatesi nell’espletamento dei servizi inerenti alla presa in consegna, alla custodia ed alla alienazione dei residuati di guerra, è quella della mancanza di un inventario del materiale pervenuto all’azienda, che avesse stabilito fin dall’inizio della gestione un punto fermo, per seguire i movimenti del materiale stesso. Si deve indubbiamente a questa deficienza la maggior parte degli inconvenienti che spesso si sono lamentati. Ciò, peraltro, va posto in relazione con la circostanza che ingentissimi quantitativi di materiali sono stati ceduti dagli alleati all’A.R.A.R., senza elenchi di consegna, onde il lavoro di ricognizione non si presentava invero agevole, data anche la necessità di non intralciare, con lo svolgimento di operazioni di ricognizione, classificazione ed elencazione, il regolare ritmo delle alienazioni.

Comunque, in seguito alle vive insistenze da parte del Tesoro e per effetto della collaborazione che ha sempre offerto l’azienda, è stata possibile la compilazione di un inventario indicativo, alle date del 31 dicembre 1946 e del 30 giugno 1947, del quantitativo dei materiali in possesso dell’A.R.A.R., razionalmente classificati. Tale consistenza non corrisponderà certamente alla situazione iniziale del materiale, che è da ritenere non potrà più ricostruirsi; potrà forse non fotografare nemmeno l’attuale situazione di fatto, ma data la mole di lavoro e le difficoltà che si sono frapposte alla sua realizzazione, costituirà senza dubbio un risultato notevolissimo. Ad ogni modo questi dati, faticosamente raccolti, potranno fornire sicura base per procedere, in prosieguo di tempo, ai necessari completamenti ed aggiornamenti che consentano di controllare più esaurientemente il movimento del materiale. Dopo un periodo di notevole incertezza è stato provveduto alla riorganizzazione dei servizi contabili dell’azienda, adottando il sistema unico, basato sul più largo decentramento, nel senso che ciascuna sede ha una contabilità autonoma collegata al centro attraverso il conto corrente istituito fra ogni sede e la Direzione generale.

Per quanto attiene alle spese di funzionamento dell’azienda, è in corso di compilazione il preventivo di spese, che consente di fissare annualmente il livello massimo delle spese stesse, salvo le eventuali variazioni che, nel corso della gestione, si potessero rendere necessarie.

Per ciò che concerne la questione dei controlli, va considerato che essa è attualmente effettuata, oltre che dal collegio dei sindaci, anche dalla Ragioneria generale dello Stato, a mezzo di funzionari distaccati presso l’azienda medesima, mentre alla periferia, limitatamente alle sedi più importanti, come Livorno, Milano, Bari, Venezia e Forlì, si provvede mediante personale di ragioneria delle Intendenze di finanza. Data la grandissima importanza della sede di Napoli, alla quale è affidata la gestione di oltre la metà dell’intero quantitativo dei materiali A.R.A.R., si è provveduto al distacco permanente di un ispettore superiore del Tesoro, col compito specifico di vigilare sulla gestione della sede stessa: compito principale affidato agli incaricati del controllo presso le sedi periferiche è quello di assistere alle operazioni preliminari e conclusive inerenti alle pubbliche gare, esprimendo il proprio parere, quando risulti necessario. Ma il controllo dei predetti funzionari può estendersi a tutta l’attività amministrativa e contabile delle rispettive sedi, campi e magazzini compresi. Il controllo, come sopra organizzato, ha dato pratici risultati e si svolge senza pregiudizievoli intralci per il funzionamento dell’azienda e per il concretamento delle operazioni di alienazione. Siffatta azione di controllo, alla quale concorre l’azienda medesima con il proprio corpo di ispettori, che è intendimento del Tesoro rafforzare e che dovrebbe anche essere incitamento ai dirigenti centrali e periferici dell’A.R.A.R. a perfezionare sempre più il loro lavoro e a porre maggior impegno per evitare rilievi ed osservazioni in dipendenza di atti non conformi all’interesse dell’azienda. Ma se non può sicuramente affermarsi che coi provvedimenti adottati sia stata raggiunta una organizzazione tale da impedire in ogni caso qualsiasi più lontana possibilità di irregolarità ed abusi, si deve però dire che molto è stato fatto per avviare l’azienda verso quella regolarità sostanziale e formale che è sempre stata preciso obiettivo del Tesoro, anche se tale regolarità – come già sopra avvertito – per la natura stessa dell’azienda e la sua condizione di funzionamento, esigerà continui perfezionamenti.

Per quanto concerne poi le notizie apparse sulla stampa circa un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. ed un’azienda privata, che in tal modo sarebbe stata posta in grado di realizzare utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi, gli onorevoli interroganti intendono riferirsi evidentemente, in particolare, alla vendita da parte dell’A.R.A.R. di 1800 motori Diesel G.M. Ed è pertanto opportuno, al fine di potere esprimere un sereno giudizio, considerare i tre principali aspetti dell’operazione: soggetto acquirente, modalità del contratto, prezzo di vendita. Ed occorre subito avvertire che se nel caso concreto l’azienda alienatrice è stata indotta a derogare alla normale procedura della vendita a mezzo della pubblica gara, vi sono stati seri motivi, che vanno ricercati nella particolare natura dell’ente acquirente. L’Unione aziende meccaniche meridionali, U.N.A.M., creata dalla Società per lo sviluppo delle industrie del Mezzogiorno, S.V.I.M.E.Z., col concorso della Navalmeccanica, dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco e delle Industrie meccaniche napoletane, aziende tutte controllate dall’I.R.I., non può infatti considerarsi alla stessa stregua di una qualsiasi organizzazione industriale o commerciale che svolga la propria attività per scopi esclusivamente speculativi, ma come un ente che fiancheggia e rafforza l’opera del Governo nella soluzione dell’importante problema di carattere nazionale attinente allo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno d’Italia.

Tale caratteristica dell’U.N.A.M. è confermata dal fatto che il maggior ente partecipante all’Unione stessa, e cioè l’Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, avente per iscopo statutario di promuovere lo studio per le condizioni economiche del Mezzogiorno e di definire concreti programmi di azione intesi allo sviluppo delle attività industriali meglio rispondenti alle esigenze di quelle zone d’Italia, non può esercitare attività industriali e commerciali rivolte a scopi meramente lucrativi.

Va inoltre tenuto presente che tutte le cariche sociali dell’Associazione sono gratuite e che l’eventuale attivo che risulterà al momento della liquidazione sarà devoluto ad istituzioni aventi per iscopo il progresso economico del Mezzogiorno. L’Associazione stessa è presieduta dall’onorevole Morandi, che, all’epoca del contratto in questione, rivestiva la carica di Ministro dell’industria e commercio e dedicava un particolare interessamento alla intensificazione di concreti programmi per l’incremento delle industrie meridionali.

Si è voluto da taluno osservare, a proposito del soggetto acquirente dei suddetti 1800 motori, che l’U.N.A.M. trae le sue origini dall’unione aziende meccaniche meridionali, U.N.A.M.M.E.R., costituitasi il 25 febbraio 1947 ed avente la comune caratteristica di una società privata con scopi commerciali ben precisi. Ma non si vede quale rilevanza possa avere tale indagine di carattere retrospettivo ai fini del giudizio che può esprimersi sull’operazione compiuta dall’A.R.A.R. Sta di fatto che il contratto è stato stipulato non con l’U.N.A.M.M.E.R., società privata, ma con l’U.N.A.M., e che questa, al momento in cui la vendita venne eseguita, aveva indubbiamente caratteristiche, che la differenziavano sostanzialmente da altre aziende aventi il solo e unico scopo della speculazione.

Chiarita, in tal modo, la figura dell’ente acquirente, vediamo quale sia l’essenza del contratto U.N.A.M.-A.R.A.R. Esso è diretto principalmente alla utilizzazione dei motori per la costruzione di gruppi elettrogeni, impieghi questi di particolare importanza, in quanto sono di grande aiuto per superare le eventuali crisi invernali di energia elettrica e stimolare, nel tempo stesso, l’approntamento di alternatori, dando lavoro e guadagno ad altre industrie.

Nei riguardi specifici dell’A.R.A.R., la opportunità di chiedere la vendita nei termini previsti dal contratto con l’U.N.A.M., va posta in relazione anche con le difficoltà che essa aveva precedentemente incontrate nell’alienazione separata di motori singoli o accoppiati. Si consideri che, su 158 motori messi in vendita a coppie, ne furono venduti soltanto 92. Non poteva perciò fondatamente sperarsi di riuscire ad esitare l’ingente massa di 2.300 motori di carri armati giacenti nei campi.

Va inoltre tenuto presente che, per direttiva di carattere generale, è fatto obbligo all’A.R.A.R. di vendere i materiali allo stato in cui si trovano, onde evitare che all’attività puramente commerciale dell’alienazione si unisca quella più rischiosa della trasformazione e manipolazione del materiale.

Poiché i motori di cui trattasi sono montati su carri armati, la vendita a piccoli lotti doveva importare o l’obbligo dell’A.R.A.R. di provvedere allo smontaggio, oppure l’autorizzazione ai singoli acquirenti di effettuare tale smontaggio con i propri mezzi, È facile comprendere quali pericoli avrebbe presentato quest’ultima soluzione nei riguardi della tutela dell’ingente patrimonio custodito nei campi e magazzini dell’azienda. La vendita effettuata all’U.N.A.M. presenta il grande vantaggio di agevolare l’esodo di una grande quantità di materiale, che è utilissimo per la economia di un ente che opera a mezzo di società controllate dallo Stato ed in base a direttive di una associazione non avente finalità speculative. La natura del contratto non è quella di una vera e propria vendita, ma di un deposito presso l’U.N.A.M. per successiva alienazione a terzi, ed i motori non venduti entro il termine contrattuale dovranno essere restituiti all’A.R.A.R. senza diritto per l’U.N.A.M. a rivalsa di sorta.

Per quanto riguarda il prezzo, nel determinarlo l’A.R.A.R. ha tenuto conto:

1°) delle offerte già acquisite in sede di pubblica gara di motori sciolti;

2°) del costo di smontaggio di ogni motore dal rispettivo carro armato;

3°) del prevedibile prezzo realizzabile in vendite a lotti.

È da precisare che nelle vendite di motori scelti la media delle offerte ricevute dall’A.R.A.R. fu di L. 337.000 per motore, spese di montaggio L. 10.000 per motore; ed il prezzo a cui gli organi peritali dovettero scendere, di fronte allo scarso successo delle gare, fu di 300.000. Furono venduti dieci motori del lotto 4364 di Livorno, avendo la Commissione aggiudicatrice constatato, in occasione di una pubblica gara, la scarsa richiesta del materiale in parola.

L’esperienza fatta sulla vendita in gare pubbliche dei motori scelti a ditte e persone private per piccoli quantitativi, al prezzo persino di L. 300.000 l’uno, legittimava la presunzione dell’azienda che fosse conveniente vendere quelli montati su carri armati ad un prezzo ormai vicino ai precedenti, ad un ente operante nell’ambito del pubblico interesse e per un grosso blocco.

Giova notare che il prezzo concreto di vendita non venne stabilito in modo costante, ma con riferimento a quello di listino dell’autocarro italiano dotato del motore più simile al Diesel G.M., che è di L. 275.000. Con tale agganciamento si è mirato a garantire l’A.R.A.R. dei rischi derivanti dalla svalutazione monetaria, in considerazione che il termine del contratto era previsto al 31 dicembre 1948.

La spesa di L. 10.000 per smontaggio di ogni singolo motore restava a carico dell’U.N.A.M. Da tutte le considerazioni esposte non si può prescindere, se si vuole valutare nella sua realtà questo contratto, che ha dato luogo a critiche non sempre serene e obiettive.

Comunque, è bene si sappia che non si è trattato di una operazione decisa e concretata in modo rapido: il concretamento della operazione fu, al contrario, preceduto da un accurato esame, da lunghe discussioni svoltesi nelle riunioni del Comitato esecutivo e del Consiglio di amministrazione dell’A.R.A.R. in data 28 gennaio, 17 febbraio, 11, 25 e 31 marzo corrente anno. E in quest’ultima riunione il contratto fu approvato, non senza avvertimento, da parte di qualche consigliere dotato di particolare competenza tecnica, sul dubbio esito che l’iniziativa avrebbe avuto per l’acquirente, attesa l’imponente massa dei motori da smontare, dei gruppi elettrogeni da collocare e tenuto conto degli oneri e delle alee connessi alle operazioni stesse.

A seguito di attacchi mossi da qualche giornale in merito alla convenzione della quale trattasi, la questione ha anche formato oggetto di ulteriore esame, avvalendosi del parere di competenti tecnici; è stata altresì disposta ed eseguita un’accurata indagine da parte di un ispettore generale del Ministero del tesoro. Ma da tutto questo complesso di accertamenti e di indagini si può trarre la conclusione che l’operazione debba ritenersi pienamente regolare, sia dal lato formale che da quello sostanziale.

E poiché gli onorevoli interroganti hanno accennato a manchevolezze di carattere generale nel funzionamento dell’A.R.A.R., ritengo opportuno fornire anche alcuni chiarimenti sulla particolare questione dei furti e incendi.

Furti. Fin dal primo momento dell’assunzione da parte alleata dei depositi residuati di guerra, l’A.R.A.R. s’è posto il gravissimo problema della custodia e conservazione del materiale ivi contenuto.

L’organizzazione creata per la prevenzione e la repressione delle attività criminose ai margini dell’azienda e precisamente dei furti, dei tentativi di sottrazione del materiale concertati con terzi, dell’irregolare uscita di materiali, ecc., ha avuto inizio nei primi mesi del 1946 e si è sviluppata su basi di sempre maggiore efficienza, raggiungendo risultati notevolissimi, che sono stati riconosciuti più volte dagli stessi alleati e da tutti i rappresentanti delle similari organizzazioni ed istituzioni estere, i quali abbiano visitato le sedi e i campi A.R.A.R.

L’organizzazione creata in stretta intesa con l’autorità di pubblica sicurezza e col Comando speciale del Corpo di custodia affidato al colonnello Biglino e ai suoi collaboratori designati dal Comando dell’arma dei carabinieri e dal Ministero della guerra, si fonda su queste principali caratteristiche:

  1. a) creazione di distaccamenti di carabinieri nei campi; con attività speciale di investigazione e controllo;
  2. b) istituzione presso tutte le principali sedi dell’A.R.A.R. di nuclei speciali di pubblica sicurezza all’ordine di un commissario distaccato appositamente, nuclei che fanno capo ad un ispettorato generale presso la Direzione generale di pubblica sicurezza in Roma, coadiuvati da vari funzionari ed agenti col compito specifico di indagine, denunzia, repressione di tutti i reati o tentativi di reati in ogni sede o servizio dell’azienda. Fanno capo a questi gruppi, oltre che gli speciali servizi della Direzione dell’A.R.A.R., anche numerosi informatori distribuiti fra guardie giurate, personale dei campi, ecc., con l’incarico di accertare e riferire immediatamente eventuali irregolarità o sospetti, dovunque manifestantisi;
  3. c) controllo sempre più intenso ed efficace delle attività e delle entrate ed uscite nei campi, compatibilmente con l’originario difetto e struttura di funzionamento conseguente al modo e all’entità delle consegne, mediante un corpo di ispettori centrali e periferici che è dotato di oltre 30 persone, quasi tutte esperte in materia amministrativa, tecnica, commerciale o di magazzino e che agisce in istretta collaborazione con le predette autorità di pubblica sicurezza e dei carabinieri. L’azione di tutti i predetti servizi, associata ad una sempre maggiore razionalizzazione dei sistemi ispettivi della A.R. A.R., ha condotto a risultati veramente notevoli, se si tengano presenti le formidabili difficoltà iniziali che nessuna azienda né organizzazione ha mai dovuto affrontare in Italia, nemmeno in misura più ridotta di quello che non abbia invece dovuto affrontare l’A.R.A.R.

Si può affermare che in nessuna azienda esista oggi un sistema di controlli così preciso come esiste nell’A.R.A.R. Molte sensazioni che si hanno, in genere, nel senso contrario, oltreché ad insufficiente conoscenza della realtà, sono dovute anche al fatto che molte indagini e conseguenti sanzioni vengono tenute segrete. Di molte infatti non si conoscono tuttora i risultati, anche perché spesso queste indagini debbono durare parecchie settimane ed anche mesi.

Per quello poi che riguarda gli incendi, ve ne sono stati due soltanto di qualche importanza ed entrambi sono avvenuti nel periodo immediatamente successivo alle consegne da parte degli alleati, quando cioè i campi erano in condizioni di assoluta confusione e quindi di impossibilità di organizzazione e di controlli veramente efficienti.

Un primo incendio si verificò a Livorno per effetto di materiali deteriorati ivi giacenti. Nessuna valutazione fu possibile in modo esatto dei danni arrecati, in quanto nessun riscontro era stato fatto dei quantitativi consegnatici. Comunque, dagli atti dell’inchiesta fatta – si tratta della primavera del 1946 – risulterebbe che i danni sono stati modesti.

Più grave invece è stato il secondo incendio, quello cioè che si è verificato nel campo di Torre Annunziata il 23 luglio del 1946. Tutte le inchieste condotte al riguardo di questo incendio, che ha distrutto soprattutto materiali tessili e simili, hanno escluso in modo assoluto il dolo. Da notarsi che si tratta di inchieste condotte dalla pubblica sicurezza, dal corpo dei pompieri, nonché dalla polizia alleata già in servizio presso l’A.R.A.R.

L’incendio è stato dovuto ad alcune scintille sprigionatesi dalle locomotive dello stazionamento ferroviario. I danni presunti, secondo la Direzione dell’A.R.A.R., avrebbero ammontato alla cifra di 280 milioni; ma tale cifra è stata considerata poi di molto superiore alla realtà dalla valutazione fatta più tardi dalle autorità di pubblica sicurezza, le quali hanno calcolato il danno nella cifra approssimativa di 50 milioni.

Un incendio di molta minore entità dei due precedenti si è verificato al campo di Poggioreale Macello, contenente soltanto maschere antigas in istato di deterioramento. Il danno è stato valutato dalle autorità di pubblica sicurezza nella cifra approssimativa di 10 milioni, mentre invece la direzione dell’A.R.A.R. aveva parlato di una cifra alquanto superiore. Tutte le indagini hanno comunque escluso il dolo ed hanno concordemente attribuito l’incendio ad autocombustione originata dall’eccessivo calore.

È a questo proposito da ricordare che, proprio nello stesso periodo, a pochissima distanza da quel campo, ha avuto luogo un formidabile incendio al deposito di traversine delle Ferrovie dello Stato, con un danno di parecchi milioni.

Posso dire, in conclusione, che gli incendi verificatisi sono stati pochissimi e i danni veramente lievi, ove si rifletta all’enorme quantità di depositi e soprattutto alla carenza di mezzi antincendio di cui si poteva disporre.

Dopo quanto esposto, il Ministero del tesoro dichiara di ritenere che le indagini di una Commissione di inchiesta non siano necessarie; esse anzi probabilmente paralizzerebbero l’attività dell’A.R.A.R., senza eliminare gli inconvenienti lamentati.

PRESIDENTE. L’onorevole De Martino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MARTINO. Le dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro non mi lasciano per nulla sodisfatto, anche perché pensavo che, a giudicare dall’interesse che l’argomento ha suscitato nel Paese e dalla precedenza e dalla coincidenza di altre interrogazioni sullo stesso argomento, si potesse senz’altro dedurre che il problema posto sul tappeto fosse di attualità, ossia la discussione di esso fosse più che matura.

Premetto che non è mia intenzione di pronunciare parole grosse, suscitatrici di scandali: deficienze, abusi, manchevolezze, episodi sintomatici e rivelatori potranno essere, se mai, oggetto di esame approfondito da parte non nostra, ma di altri organi.

Io qui desidero fissare con elementare chiarezza alcuni aspetti generali di questo problema, intorno al quale enormi interessi si agitano, anche se non tutti precisamente leciti.

Secondo me, l’attività dell’A.R.A.R. va distinta in tre fasi – e non in tre… evi, come minaccia di farli diventare anche la risposta dell’onorevole Sottosegretario – e che hanno conferma nella stessa sigla dell’Ente:

1°) Azienda rilievo, e cioè a dire, fase di ricognizione e di carico degli ingenti quantitativi di materiali vari che gli alleati avevano ammassati in Italia (specie nel Mezzogiorno), per alimentare la marcia dei loro eserciti. Fase, dunque, puramente statistica e contabile.

2°) Alienazione residuati. Siamo alla seconda parte della sigla, anche se le lettere sono identiche alla prima. Qui le cose si complicano. Una mastodontica burocrazia è sorta per la bisogna e i risultati delle vendite (alienazioni) si dimostrano, con le cifre, attivi e cospicui per lo Stato.

Ed, infatti, le prime vendite si sono succedute con intensità; e sugli innumeri campi A.R.A.R. si precipitarono, avidi, gli speculatori di ogni risma, in cerca di affari redditizi; e, trattandosi di una organizzazione di nuovo impianto, cui la improvvisazione aveva rifilato tutti i suoi difetti, non sono mancati gli scandali grossi e piccini, di cui, per un certo tempo, le cronache quotidiane hanno offerto saggi poco edificanti.

Si era peraltro in tempo di svalutazione crescente, e la minaccia del cambio della moneta si profilava a scadenza periodica a turbare i sonni di quanti in modo lecito o illecito avevano accumulato denaro. Perdurava la mancanza di materiale di ogni specie, e le industrie, ai primi incerti passi della loro ripresa, si erano date affannosamente ad acquistare residuati.

PRESIDENTE. Onorevole De Martino, mi pare che la sua risposta prenda proporzioni addirittura smisurate in confronto dei cinque minuti che le sono consentiti dal Regolamento. Io posso concederle qualche minuto di più, ma evidentemente non basta: lei, fra l’altro, legge e la lettura è vietata dal Regolamento. Cerchi dunque di essere sintetico, altrimenti gli altri interroganti non avranno modo di sentire la risposta alle loro interrogazioni.

DE MARTINO. Ma io mi valgo soltanto di alcuni appunti: e questo mi pare sia consentito.

Dicevo che il terzo periodo è quello che viviamo, ed è il più difficile e preoccupante, specialmente dopo le dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario. L’A.R.A.R. occupa, come ho detto nella mia interrogazione, gli impianti dell’industria privata, con pregiudizio dell’economia nazionale e con l’aggravamento del problema della disoccupazione.

Sono ormai quattro anni, signori del Governo, nell’Italia del Sud, e tre anni nell’Italia del Centro e del Nord, che l’A.R.A.R. persiste nel sistema di requisizione di stabilimenti industriali e di vaste zone di terreno sottratte all’agricoltura, su cui, ai limiti delle strade o nel cuore di fertili campagne, giacciono in estensione materiali che sono in attesa di essere eliminati e che fra l’altro costituiscono esca ai reati di furto, ed incentivo alla delinquenza minorile. Sicché i procedimenti penali s’infittiscono, con aggravio di lavoro per la Magistratura inquirente e giudicante, con aumento di spese nel bilancio della giustizia, con il diffondersi sempre più preoccupante dell’abitudine al furto, per cui mi meraviglio come intelligenti avvocati di parte non abbiano ancora invocato per i loro clienti il beneficio della… grave provocazione. (Commenti).

Ma veniamo al sodo, al consistente: l’utile ricavato dal bilancio dell’A.R.A.R. è espresso in rigide cifre contabili che potrebbero, al caso, appagare un’azienda privata, che non è tenuta a valutare gli eventuali danni che arreca alla collettività. E la mancata produzione degli stabilimenti industriali e dei terreni, occupati dai depositi della A.R.A.R., non è forse danno alla Nazione? Questo lei, onorevole Sottosegretario, non l’ha detto. E il prolungarsi di una situazione di precarietà nei confronti del personale assunto in via provvisoria, non costituisce una grave responsabilità per lo Stato e un impegno morale verso innumerevoli impiegati, funzionari ed operai che lavorano nell’Ente? E il pericolo di un sempre maggiore deterioramento, e quindi deprezzamento, dei materiali giacenti in attesa di vendita, non è forse una voce da segnare al passivo?

Pur compenetrandomi della situazione del personale dell’A.R.A.R. – per il rispetto che porto verso tutti coloro che lavorano – non credo che ciò possa costituire il motivo determinante per procrastinare all’infinito l’esistenza dell’A.R.A.R., che, a lungo andare, non avrebbe altro compito che quello di amministrare se stessa.

Ora io sostengo e propongo di normalizzare finalmente un assurdo stato di cose, di smobilitare questa pesante ed onerosa bardatura, certamente dannosa all’economia nazionale, restituendo nel più breve tempo alla loro destinazione produttiva gli impianti industriali ed i terreni sottratti alla loro funzione, e che attivandosi o ritornando a cultura, potranno accogliere nuove braccia operose, sottraendole alla mortificante tragedia della disoccupazione a cui sono costretti.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. E i materiali dove li mettiamo?

DE MARTINO. I materiali si liquidano, perché i materiali perdono valore man mano che passa il tempo! Essi arrugginiscono, e se oggi possono essere venduti, per esempio, per cento miliardi, domani dovranno essere venduti – anche per effetto della rivalutazione della lira – per cifre molto, ma molto inferiori ai cento miliardi!

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. E infatti liquidiamo.

DE MARTINO. Quando per liquidare i residuati che ci hanno lasciato i vincitori impieghiamo un tempo maggiore della stessa durata della guerra, che cosa succederà per l’avvenire dell’Italia?

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Io non so se l’onorevole interrogante si renda conto della quantità ingente di materiale!

PRESIDENTE. Onorevole De Martino, lei dice cose interessanti, ma per avere il diritto a parlare così a lungo, doveva fare una interpellanza e non una interrogazione.

DE MARTINO. Dopo la risposta dell’onorevole Sottosegretario, io mi riservo di fare una interpellanza, perché i nostri punti di vista sono completamente opposti. Io penso che il mio criterio sia costruttivo, mentre quello dell’onorevole Sottosegretario è un criterio da conservatore: e questo non significa fare gli interessi dell’economia nazionale!

PRESIDENTE. Nel dare ora facoltà all’onorevole Rodinò di dichiarare se sia sodisfatto, gli chiedo se non ritenga opportuno anch’egli presentare a sua volta una interpellanza sull’argomento di questa interessante interrogazione.

RODINÒ MARIO. Io conto di essere brevissimo, perché mi sembra, dopo la lunga risposta dell’onorevole Sottosegretario, di essere d’accordo con il collega De Martino, e credo che sia necessario trasformare questa nostra – direi – comune interrogazione in una interpellanza, che possa dare adito a più ampia discussione.

Solo vorrei rilevare, per giustificare la necessità dell’interpellanza, che l’onorevole Sottosegretario al tesoro ha chiarito con i suoi argomenti, che egli ritiene che tutto funzioni regolarmente nell’A.R.A.R., o almeno che funzioni per il meglio.

Invece la nostra interrogazione ha avuto lo scopo di portare a conoscenza dell’Assemblea che questa convinzione, che ha il Governo, non risponde alla convinzione che hanno moltissimi cittadini, e che questi cittadini desidererebbero a loro volta fare propria la convinzione che ha il Governo, confortata e convalidata da qualche Commissione d’inchiesta, che naturalmente non potrebbe essere formata dagli stessi funzionari che oggi gestiscono l’A.R.A.R.

Non mi dilungo, benché avrei molte citazioni e documentazioni da produrre; ma, appunto perché mi riservo di parlarne in sede di interpellanza, chiudo questo mio intervento dichiarando che non sono sodisfatto, tanto da pensare, appunto, alla necessità di una più vasta discussione in sede di interpellanza.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Crispo, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere le ragioni per le quali è stata chiusa, per improvvise disposizioni del Provveditorato agli studi di Napoli, la sezione distaccata del liceo-ginnasio governativo di Meta di Sorrento, dove affluivano circa 100 allievi. Il provvedimento di chiusura è giunto tanto più improvviso e pregiudizievole, in quanto erano state già effettuate le iscrizioni e si erano anche iniziate le lezioni, e ciò in seguito alle ripetute assicurazioni del Ministro al sindaco di Meta, autorizzato; alla stipula del regolare contratto di fitto dei locali».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere all’interrogazione.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. L’onorevole interrogante sa come sia pietosa la condizione di molte di queste sezioni staccate, che furono istituite sotto l’influenza dell’azione bellica e che naturalmente ora tendono a scomparire per dare luogo a scuole regolarmente costituite.

Il provveditore agli studi di Napoli ha ritenuto opportuno di non autorizzare quest’anno questa sezione staccata di Meta di Sorrento, semplicemente perché al provveditore risultavano iscritti soltanto 20 alunni.

L’onorevole Crispo dice che sono cento gli alunni che potrebbero frequentare questi corsi.

Io posso assicurare l’onorevole interrogante che, se effettivamente sono cento, cioè un numero ben diverso da quello che risulta al provveditore di Napoli, immediatamente provvederò perché la sezione staccata venga mantenuta.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CRISPO. Prendo atto dell’assicurazione che in questo momento l’onorevole Ministro si è compiaciuto di darmi, di revocare, cioè, il provvedimento di chiusura della sezione distaccata del liceo-ginnasio di Meta di Sorrento, ove risulterà che il numero degli iscritti sia quello da me indicato. Lo preciso di nuovo: novantacinque. Devo dire, però, che non sono sodisfatto della risposta, per verità assai monca, dell’onorevole Ministro, perché mi sembra che egli sia stato poco esattamente informato del modo in cui si è giunti improvvisamente alla soppressione della scuola distaccata di Meta di Sorrento.

È necessario premettere che, se è vero che la sezione distaccata sorse per esigenze belliche, la esperienza ha dimostrato che essa rispondeva alle reali esigenze di ben cinque Comuni: Sorrento, Meta, Piano, Vico Equense e Sant’Agnello di Sorrento. Difatti, nell’anno scolastico 1945, le iscrizioni furono sessantacinque; nell’anno scolastico successivo ottantacinque; in quest’anno novantacinque, come ho già ripetuto. Come si è giunti e perché si è giunti alla soppressione? Nel mese di giugno ultimo scorso il Comune chiedeva il mantenimento della sezione in Meta di Sorrento e l’onorevole Ministro rispondeva, chiedendo una regolare deliberazione. Questa fu inviata nell’agosto del 1947, e nel settembre 1947 l’onorevole Ministro autorizzava la riapertura della scuola per l’anno 1947-48. È un dato di fatto storico, adunque, che, in seguito ad una specifica autorizzazione del Ministero, il sindaco del Comune di Meta fu perfino indotto a stipulare il contratto di fitto dei locali per l’anno 1947-48. Furono poi sollecitati i pagamenti delle tasse di iscrizione; e la scuola fu aperta il 15 ottobre, quando, per l’assenza di qualche professore, l’inizio delle lezioni fu prorogato di qualche giorno. Intanto – incredibile a dirsi – il 30 ottobre, improvvisamente, la scuola veniva soppressa.

Nella zona vesuviana si afferma – io non raccolgo la notizia, ma ho il dovere di denunciare il fatto – che in concorrenza con la sezione distaccata, successivamente alla istituzione di essa avvenuta nel periodo di guerra, è stato aperto in Meta un liceo-ginnasio parificato, ad iniziativa delle suore del Monastero Sant’Anna e si ritiene (questa è l’opinione generale) che per avvantaggiare questo istituto religioso, sia stata soppressa la sezione distaccata. Se la notizia è vera, io non posso non protestare vivamente in attesa di un provvedimento che ripristini la sezione, arbitrariamente chiusa.

lo ho qui, onorevole Ministro, un esposto di ben ottantaquattro padri di famiglia. È la copia di quello inviato a lei. Questi padri di famiglia chiedono, e la richiesta mi sembra giusta, che, se la sezione è destinata ad essere soppressa, resti aperta per lo meno in questo anno, essendosi già fatte le iscrizioni, ed essendo state pagate le tasse. La richiesta, dicevo, mi sembra giusta, e sarebbe veramente enorme che gli alunni già iscritti alla sezione distaccata, dovessero, invece, essere obbligati a trasferire necessariamente la loro iscrizione all’istituto di Sant’Anna.

PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni che, trattando lo stesso argomento, possono essere svolte congiuntamente:

Spallicci, De Mercurio, Paolucci, Della Seta, Macrelli e Facchinetti, ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, «per conoscere se non credano opportuno diminuire l’onere delle tasse universitarie, che rendono difficile la possibilità di frequenza ai corsi agli studenti meno forniti di mezzi di fortuna»;

Priolo, ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, «per conoscere se, dato il grave onere che l’aumento delle tasse universitarie costituisce per gli studenti con modesti mezzi di fortuna, non ritengano opportuno procedere ad una conveniente ed equa riduzione».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Ringrazio vivamente l’onorevole Spallicci e gli altri, che hanno voluto attirare l’attenzione dell’Assemblea su questo gravissimo problema delle tasse universitarie e del finanziamento dei nostri Istituti superiori universitari. Non è possibile considerare questo problema se non si tiene presente il suo intimo legame con il più generale problema della finanza universitaria. Le odierne difficoltà finanziarie in cui si dibattono le Università sono dovute, come è noto, ad un complesso di cause di cui la prima, in ordine di tempo, è da ricercarsi nel falso concetto dell’autonomia amministrativa concessa a tale ente. Questa autonomia, come l’onorevole interrogante saprà, è puramente fittizia, perché è sempre mancata alle Università una vera ed adeguata autonomia finanziaria. Le Università hanno sempre vissuto, oltre che con il provento delle tasse scolastiche e con il contributo dei proventi locali, principalmente con l’aiuto dello Stato mediante contributi ordinari e straordinari e mercé il carico fatto al bilancio dello Stato degli stipendi, assegni e pensioni a favore dei professori universitari di ruolo e del personale amministrativo.

Occorre aggiungere un’altra causa di dissesto, e questa è data dai rilevantissimi danni di guerra. Infine bisogna tener presente il complesso dei miglioramenti economici per il personale insegnante e non insegnante.

Ora, di fronte a tale situazione, il Ministero si è seriamente preoccupato, sin dal momento in cui è stata liberata l’Italia insulare e centromeridionale, del problema del finanziamento delle Università. Dopo la liberazione di tutto il territorio fu provveduto con un fondo di 300 milioni stanziato con un decreto del 27 maggio 1946, a favore di tutte le Università e gli Istituti superiori. Questi 300 milioni erano stati preceduti da altri 50 milioni del bilancio anteriore. Con successivo decreto del settembre 1946 si provvide a quintuplicare per tutte le Università ed Istituti superiori i contributi dovuti dallo Stato per un ammontare di 150 milioni, ed inoltre fu stanziata una somma di 500 milioni e 280 mila lire per l’erogazione di contributi, ma in effetti per un acconto sulle spese anticipate per pagamento di stipendi e di personale.

Sono stati pure già stanziati, e in parte erogati, oltre 140 milioni circa per retribuzioni al personale insegnante e non insegnante. Il Ministero ha ancora provveduto a corrispondere successivamente 981 milioni, concessi per i miglioramenti economici corrisposti al personale delle Università ed agli Istituti superiori nei bilanci 1945-1946, 1946-1947. Un altro miliardo è stato stanziato per il corrente esercizio finanziario, sempre per retribuzione del personale e per contributi speciali ad Istituti bisognosi. Complessivamente, dalla liberazione ad oggi, lo Stato ha erogato a titolo straordinario, oltre le spese ordinarie, naturalmente, la somma di 3 miliardi e 397 milioni per le sole Università, oltre le spese fisse per gli stipendi dei professori, assegni, retribuzioni, ecc., al personale. Tutto ciò, è bene ripeterlo, è servito e servirà in massima parte per le spese del nostro corpo insegnante; ma il fabbisogno, come ben comprende l’onorevole interrogante, è di gran lunga superiore. Per quanto concerne i locali distrutti e danneggiati dalla guerra, è da rilevare che, mentre per le piccole riparazioni hanno provveduto o stanno provvedendo le Università con fondi propri, per quelle di maggior rilievo si è ottenuto che provvederà il Ministero dei lavori pubblici. In parte, i lavori sono già in corso di esecuzione. Anche la situazione del personale universitario non è numericamente adeguata alle necessità didattiche, tecniche, amministrative. Rimangono ancora in vigore i vecchi ruoli dell’anteguerra. Invero, le Università, per far fronte alle predette necessità, hanno proceduto per il passato all’assunzione di nuovo personale, i cui oneri finanziari gravino soltanto per una piccola parte sui bilanci universitari. Il Ministero si vide dunque costretto, per l’eccessivo aumento di questo personale che grava in parte sui bilanci universitari, ma in parte notevole sul bilancio dello Stato, si vide costretto, ripeto, nell’aprile 1946 a valutare, d’accordo col Ministero del tesoro, ogni nuova assunzione di personale sia a carico del bilancio statale sia a carico di quello universitario. È da aggiungere, anzi, che il Ministero del tesoro, nel concedere l’assenso per 981 milioni di cui si è detto, ha fra l’altro fatto presente la necessità di procedere, d’intesa con quel Ministero, ad una riduzione del personale non di ruolo assunto fin dal 1946. È inutile ribadire che le provvidenze di cui si è fatto cenno hanno lo scopo di provvedere alle attuali e più urgenti necessità dei nostri Atenei; ma, per poter mettere in condizioni la Università di adempiere compiutamente la loro alta funzione didattica e scientifica, occorrerebbe uno stanziamento annuo di almeno 10 miliardi, secondo i nostri calcoli. Ma tale somma non potrà essere posta a carico dell’attuale bilancio statale; e pertanto sarebbe necessario che, pur rimanendo le Università affidate a carico dello Stato, fosse ritoccata la finanza locale in maniera da assicurare al bilancio delle Università stesse una autonomia amministrativa vera, autonomia amministrativa che è il fondamento delle altre autonomie. Così stando le cose, appare evidente che nel momento attuale non si ritiene assolutamente possibile pensare ad una riduzione delle tasse universitarie. E vengo a questo argomento.

Il problema delle tasse si ricollega intimamente a quello delle entrate. Come si è detto sopra, le entrate delle Università – i mezzi, cioè, che dovrebbero consentire ai nostri Atenei di vivere degnamente e prosperare – sono rappresentati dal contributo dello Stato, dal contributo degli enti locali e dai proventi derivanti da lasciti e donazioni, nonché dal gettito delle tasse scolastiche.

Premesso che i proventi derivati da lasciti e donazioni rappresentano una modestissima parte di entrate e che i contributi degli enti locali sono rimasti pressoché fermi, nonostante i reiterati sforzi del Ministero, si può concludere che, in sostanza, le entrate universitarie sono costituite esclusivamente dal contributo dello Stato e dal gettito delle tasse universitarie.

Ora, per quanto concerne ili contributo statale e le singole molte sovvenzioni, che lo Stato ha elargito nei tempi più recenti, è stato già ampliamente trattato in questa stessa Assemblea in altre occasioni.

Per quanto concerne il problema delle tasse, si deve tener presente che l’azione del Ministero è stata sempre improntata al principio di far gravare il meno possibile sullo studente l’onere dell’insegnamento.

Infatti, tenuto conto della considerazione che gli studenti meritevoli e bisognosi sono, in base all’attuale legislazione, esonerati totalmente o parzialmente dal pagamento delle tasse scolastiche, a seconda naturalmente delle votazioni riportate negli esami, gli studenti possono dividersi in tre categorie nettamente differenziate: Categoria A, con esonero totale; categoria B, con l’esonero parziale; categoria C, con pagamento integrale dell’ammontare delle tasse, cui sono tenuti gli abbienti, anche se fra i meritevoli per profitto.

Le tasse universitarie, in relazione all’aumentato costo dei servizi, sono state, in primo tempo, cioè a decorrere dall’anno accademico 1945-46, appena raddoppiate: se prima lo studente versava in media lire 1040 annue, col raddoppio veniva a corrispondere la somma di lire 2080 annue.

Ora, era intendimento di questo Ministero di non apportare alcun nuovo aumento, tanto che nessun nuovo aumento venne adottato per l’anno accademico 1946-47; ma, di fronte mille necessità impellenti dei bilanci universitari, quasi tutti deficitari, di fronte all’aumentato costo dei servizi di carattere generale, alle pressanti richieste delle autorità accademiche, che avevano rappresentato la urgente necessità di adeguati incrementi delle entrate e delle stesse tasse, per concorde parere di tutti i rettori, nell’imminente pericolo della chiusura dei nostri Atenei, il Ministero non poté non provocare un secondo aumento delle tasse universitarie, a decorrere dall’anno accademico 1947-1948; aumento posto dal Ministero del tesoro come condizione essenziale per la concessione del fondo di 981 milioni, quale contributo dello Stato per i miglioramenti economici al personale. Ma, anche a seguito dei due aumenti, l’importo delle tasse e sovratasse scolastiche sembra a molte autorità accademiche ancora esiguo, giacché, fatti i debiti confronti, uno studente che corrispondeva, anteriormente alla guerra, lire 1040 di media annue, ne corrisponde ora lire 4.160; con un aumento, quindi, di sole quattro volte nei confronti dell’anteguerra. La tassa statale in cifra mensile si concreta nella somma di lire 350.

È bene considerare al riguardo – e richiamo l’attenzione dell’onorevole interrogante a questi dati – che il costo dello studente si aggira sulla media di lire 30.000 annue, in confronto di lire 4.100 da esso pagate.

Come ognuno vede, ammesso che lo Stato debba fare o faccia ulteriori sacrifici per il mantenimento delle nostre Università, non si può non osservare che anche gli studenti, che direttamente fruiscono del servizio, debbono anch’essi considerare, come considerano, la necessità di contribuire a quella parte di sacrifici che è oggi richiesta dall’esigenza di vita dei nostri Atenei. Ed in realtà si deve dire, ad onor del vero, che gli studenti hanno anch’essi ravvisata questa necessità in linea di massima, necessità di venire incontro agli impellenti bisogni mediante ulteriori e parziali integrazioni da parte loro, cioè oltre 4 mila lire annue d’integrazione, come contributo ai bilanci di ciascuna Università. Ciò è stato confermato dai delegati del Consiglio nazionale studentesco, che è l’organo rappresentativo di tutti gli studenti universitari, i quali hanno fatto parte di un’apposita Commissione nominata dal Ministero per l’esame del problema. I delegati, consci delle necessità universitarie, piuttosto che soffermarsi su una richiesta di diminuzione di tasse universitarie, hanno insistito invece sull’adozione di speciali provvedimenti a carattere assistenziale, provvedimenti e provvidenze che sono ora allo studio e che potendosi concretare sia con l’estensione del sistema delle borse di studio, sia con l’istituzione di mense e alloggi o particolari organi del genere, quali cooperative, studentesche, ecc., valgano ad alleggerire realmente l’onere sopportato dalle famiglie, soprattutto da quelle residenti in provincia.

Riassumendo, ed ho finito, si può precisare quanto segue: 1°) gli studenti universitari, secondo l’ultima statistica controllata, ammontano a 236 mila: in questo numero sono però compresi 46 mila studenti fuori corso, i quali non pagano le normali tasse, ma solo una tassa speciale di lire 200 annue; quindi gli studenti dei corsi normalmente paganti non sono che 189 mila;

2°) sulla base dei dati dell’ultimo anno accademico, si può affermare che l’onere che lo Stato ha affrontato in un anno per le Università è stato di circa 2.700.000.000, onere che, diviso per circa 190 mila studenti in corso di studi, è pari all’onere di circa 30 mila lire per ciascuno studente.

Passando dalle uscite alle entrate, rileviamo che le tasse statali, esclusi naturalmente i contributi posti di loro iniziativa dalle singole Amministrazioni universitarie – e ciò è nella loro competenza ed il Ministero può entrarvi relativamente – le tasse statali, dicevo, hanno dato un gettito complessivo, nello scorso anno, di 395 milioni, pari a circa 2 mila lire per studente, in confronto alle 30 mila lire che lo Stato spende per ciascuno studente. Pertanto il passivo di un’annata è stato di 2 miliardi e 300 milioni per questa Amministrazione.

Ora il raddoppio delle tasse, richiesto dal Tesoro, per il quale ha dato il consenso il Ministero della pubblica istruzione, permetterà di raggiungere 800 milioni; ma, dati i recenti, notevoli aumenti di spese per il personale, non è da prevedere, per questo bilancio, una diminuzione sensibile del passivo dello scorso anno. Ma si aggiunge: vi sono contributi vari, posti per iniziativa di singole Università. A questo proposito io debbo ricordare che il Consiglio superiore ha fatto recentemente presente al Ministero che le Università operano, nell’ambito della loro autonomia e della loro competenza amministrativa, per quanto riguarda tali contributi. Per rispettare questa competenza ho preso io stesso l’iniziativa di convocare mercoledì prossimo tutti i rettori delle Università, perché si possa compiere un ampio riesame di questi contributi. E questo, secondo me, per i seguenti fini:

1°) renderli meno gravosi possibile;

2°) perequarli fra Università e Università, perché questi contributi, come è noto, esistono nelle Università del Nord e non esistono nelle Università del Sud;

3°) informarli ad un criterio differenziale che permetta di esentare totalmente gli studenti bisognosi e di gravare notevolmente il contributo degli studenti che dispongano di mezzi.

Si chiede infine che cosa fa il Governo per aiutare gli studenti bisognosi a compiere i loro studi universitari. Rispondo che, oltre all’esenzione totale o parziale delle tasse per gli studenti meritevoli, il Governo ha nello scorso anno accademico concesso agli studenti universitari borse di studio per un ammontare complessivo di 300 milioni. Ciò significa che oltre i tre quarti del gettito totale delle tasse pagate da tutti gli studenti universitari è stato restituito agli studenti bisognosi sotto forma di borse di studio. Nelle casse dello Stato sono quindi entrati per le tasse, solo circa, 90 milioni, mentre sono usciti due miliardi e 700 milioni.

Questo è il bilancio delle nostre Università.

PRESIDENTE. L’onorevole Spallicci ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

SPALLICCI. Io sono grato all’onorevole Ministro dell’istruzione della risposta molto diligente che ho ascoltato con vivo interesse. Realmente, io avevo sperato che le conclusioni fossero state più sodisfacenti, ma prendo lo spunto da quella promessa e imminente riunione dei rettori delle Università, in cui saranno discussi i temi che il Ministro ha annunciato, e voglio augurarmi che quelle tassazioni complementari, che sono appunto nelle Università del Nord Italia così gravose per gli studenti, possano essere lievemente diminuite. Perché ha ragione l’onorevole Ministro di dire che le tasse sono soltanto raddoppiate, cioè che da duemila si arriva a quattromila; ma vi sono in più le complementari sino a raggiungere le ottomila, e vedo che al Politecnico di Milano i contributi di laboratorio assommano a 7 mila lire e che quindi lo studente viene a pagare qualcosa come 20 mila lire all’anno.

Nella facoltà di medicina, sempre a Milano, si pagano circa 22 mila lire. Ora, naturalmente, l’onorevole Ministro mi dirà che tutto questo rientra nell’autonomia amministrativa delle singole Università; ma ad ogni modo, anche tenendo conto delle borse di studio, v’è da prendere in considerazione questa richiesta, che mi sembra abbastanza ragionevole, degli studenti meno favoriti dalla fortuna. Essi chiedono non di ritornare alla tassazione molto bassa dell’anno scorso, che ritengono inadeguata al costo della vita, ma ad una diminuzione dell’aggravio attuale. Considerando dunque, come diceva l’onorevole Ministro, 189 mila il numero degli studenti – facciamo pure cifra tonda in 200 mila – abbiamo avuto nello scorso anno circa 350 milioni di lire di tasse. Oggi, se i miei calcoli non sono inesatti, il contributo si aggirerebbe sul miliardo. Gli studenti si trovano oggi, d’improvviso, ad essere gravati (parlo sempre dei meno abbienti) di un notevole contributo, perché alle 20 o 22 mila lire citate bisogna aggiungere le spese per le dispense, quelle dei libri, che rappresentano un aggravio notevole.

Mi si dirà, e mi si dice giustamente, che 200-246 mila, compresi anche quelli fuori corso, sono un numero eccessivo di studenti iscritti. Indubbiamente, noi abbiamo una duplice e strana piaga nel nostro Paese: l’analfabetismo e il dottoralismo.

Abbiamo una pletora notevolissima di studenti che si illudono che un cencio di laurea rappresenti la chiave per aprire le porte dell’avvenire. Purtroppo, molte volte si aprono soltanto le porte d’un misero impiego. Da noi non è ancora concepibile, che uno possa avere una laurea e possa non disdegnare anche il lavoro manuale come avviene in qualche altra nazione in cui una dottoressa in chimica può acconciarsi ai compiti di operaia in uno stabilimento. Da noi soltanto il matrimonio può far scordare la laurea ad una donna.

Severità negli studi e rigore negli esami, invochiamo. Perché da noi la percentuale dei rimandati negli Atenei deve essere solo del 2 per cento mentre in Francia è ad esempio del 50 e del 60 per cento?

Si pensi a ridurre il numero degli studenti che è andato moltiplicandosi in un modo allarmante, a seconda del merito e non a seconda delle possibilità economiche. Concorsi siano banditi anche per accedere alle Università.

La Repubblica nascente non dovrà affidare la selezione preferendo i meglio censiti ma i più idonei.

Dobbiamo riconquistare quel primato che avevamo un tempo, quando, guardando agli stranieri, si diceva che noi eravamo grandi e là non eran nati, e per ritornare ad avere quel prestigio morale rifacciamoci ad una maggiore severità negli esami.

Non mi dissimulo le grandi difficoltà finanziarie in cui si dibatte il Governo; conosco lo stato fallimentare delle amministrazioni universitarie, le condizioni pietosissime dei nostri laboratori; ma credo che non si debba pretendere di tutto sanare col contributo degli studenti. In definitiva costoro non chiedono già di ritornare alle tassazioni delle due mila lire dell’anno scorso, ma domandano un 20 per cento di diminuzione su quelle che oggi sono state portate (come a Milano) da due a 22 mila lire.

Voglio augurarmi che prevalga il concetto della unificazione delle tasse universitarie e che non si debba ancora lamentare tale e tanta sperequazione tra gli Atenei del nord e quelli del resto d’Italia.

Gli studenti più poveri e più studiosi possono fruire di esenzione, di borse di studio; ma non dimenticate che i 30 e lode della scuola non corrispondono sempre ai 30 e lode della vita.

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni, per accordi intercorsi con il Governo, sono rinviate:

Perlingieri, Moro, Bettiol, Salvatore, Bosco Lucarelli, Fuschini, Ermini, Rescigno, Recca, Uberti e Gabrieli, ai Ministri dell’industria e commercio, delle finanze e dei lavori pubblici, «per conoscere se ravvisino di prorogare per un decennio le disposizioni della legge 5 dicembre 1941, n. 1572, concedente agevolazioni agli impianti industriali dell’Italia centro-meridionale, iniziati entro il termine del 31 dicembre 1946, e ciò sia in considerazione del fatto che, a causa del periodo bellico, la detta legge non ha potuto avere pratica attuazione, sia in considerazione della necessaria evoluzione industriale dell’Italia centro-meridionale, resa più urgente dalle distruzioni belliche e costituente un aspetto primario del problema meridionale».

Perugi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere: 1°) quali aiuti ed alleggerimenti fiscali intenda disporre il Governo a favore degli agricoltori del comune di Gradoli (provincia di Viterbo), i cui raccolti sono stati quasi interamente distrutti dalla grandine nel nubifragio verificatosi in quella zona il 28 giugno ultimo scorso; 2°) se in considerazione dell’attività quasi esclusivamente vinicola di quei lavoratori e del fatto che i danni subiti avranno ripercussioni negative sui raccolti ancora per circa due anni, non ritenga dare agli aiuti oltre che un carattere urgente, anche uno continuativo per alleggerire il disastro che ascende a più di cento milioni di lire».

Segue l’interrogazione dell’onorevole Macrelli, al Presidente del Consiglio dei Ministri del tesoro e delle finanze, «per sapere se non credano opportuno dare le disposizioni e adottare i provvedimenti necessari – di immediata esecuzione – perché siano esaurite nel più breve termine le pratiche per le pensioni di guerra e degli infortunati civili».

Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. In merito alle interrogazioni dell’onorevole Macrelli, sulla liquidazione delle pensioni di guerra, il Ministero del tesoro, per mio tramite, ha dato una ampia risposta il 29 settembre ultimo scorso, come risulta dal numero 236 del resoconto sommario delle discussioni di questa Assemblea Costituente.

Prego, quindi, l’onorevole Macrelli di volere avere presente quanto fu risposto in quella occasione col sussidio di fatti e dati concreti e con elementi giustificativi della previsione che il Ministero formulava per una prossima e sodisfacente organizzazione del servizio delle pensioni di guerra.

Riassumendo quanto ebbi già occasione di dichiarare in quest’Aula, rispondo che i problemi di cui il Ministero si è occupato sono stati i seguenti:

1°) ampliamento dei locali a disposizione della Direzione generale delle pensioni di guerra: è stato provveduto col mettere a disposizione l’edificio di Via Sicilia con centottanta locali, nei quali si sono trasferiti molti servizi;

2°) aumento del personale: è stato portato a circa mille persone e si continua ad incrementarlo con l’assegnazione di altri impiegati;

3°) istruttoria delle pratiche: è in corso di approvazione da parte del Consiglio dei Ministri uno schema di decreto legislativo che autorizza le parti interessate a richiedere direttamente ai distretti militari e ai comuni i documenti giustificativi delle domande di pensione e fa obbligo agli enti suddetti di rilasciarli in un tempo ristretto;

4°) commissioni mediche di accertamento: sono state portate da diciotto a trentadue, disponendo il loro funzionamento in più turni e sottoponendole ad ispezioni, che già lo stesso direttore generale delle pensioni di guerra ha iniziato da alcuni mesi, per rendersi conto della loro efficienza e per provvedere alle loro manchevolezze.

È stata decretata, con decreto legislativo recente, l’assegnazione di medici civili dipendenti dallo Stato, circa un centinaio, in forza al Ministero dell’Africa italiana, alle commissioni mediche ospedaliere, per renderne più intensa l’attività;

5°) si è instaurato dal 23 settembre il servizio a cottimo per l’istruttoria delle pratiche di pensioni, servizio che sta dando cospicui risultati come si può rilevare dalle seguenti cifre, raggruppate in tre distinti periodi di quindici giorni; il primo dal luglio del corrente anno, quando non ancora si era iniziato il lavoro a cottimo; il secondo quando esso si era appena iniziato e che abbraccia, con la fine di settembre, i primi giorni di ottobre; il terzo relativo alla seconda metà di ottobre.

Nel primo periodo i progetti di liquidazione di pensione furono compilati in numero di 1075; nel secondo periodo di quindici giorni, quando appena si iniziò il lavoro a cottimo, ne furono compilati 1.219; negli ultimi quindici giorni 2.083. Come si vede qui si è raddoppiata addirittura la misura.

Istruttorie: nel primo periodo ne furono eseguite 6.543; nel secondo, a cottimo appena iniziato, 23.451; nel terzo periodo 26.903.

Revisione sia dei progetti che delle istruttorie da parte degli uffici della Direzione generale: nel primo periodo 4.046; nel secondo 12.982; nel terzo 29.479.

Anticipazioni, che si fanno in via provvisoria: nel primo periodo ne furono eseguite 382; nel secondo 763; nel terzo 1.238, rese possibili, naturalmente, per l’esplicazione più intensa di quelle pratiche burocratiche, che sono premessa indispensabile per addivenire al risultato finale dell’anticipazione.

Altra voce molto importante nei lavori della Direzione generale è quella dell’emanazione dei decreti concessivi.

Nel primo periodo, furono spediti 1.042 decreti concessivi di pensione; nel secondo, 1.800; nel terzo, 2.835. I certificati di iscrizione spediti nel primo periodo furono 241; nel secondo, 1.114; nel terzo, 1.407. Le pratiche definite dalla Commissione medica superiore, la quale naturalmente si pronunzia nei casi di particolare contestabilità su determinate specie, furono 450 nel primo periodo di quindici giorni, 945 nel secondo, 990 nel terzo. E, finalmente, le pratiche burocratiche, le quali vanno dalla lettura della corrispondenza, fino alla riassunzione dei fascicoli e alla spedizione di note dall’ufficio sono state: nel primo periodo, 76.062; nel secondo, 259.198, nel terzo, 325.456.

Al cottimo attendono ora circa 600 impiegati, ma è intendimento del Ministero del tesoro di elevare questo numero nel più breve tempo possibile;

6°) è in approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, lo schema di un decreto legislativo che renderà eseguibili, sia pure in via provvisoria, i progetti concessivi di pensione anche prima che abbia avuto luogo l’attuale prescritto riscontro del Comitato liquidatore, quando cioè v’è stato soltanto il visto da parte del Direttore generale.

Si prevede che in tal modo molte pratiche avranno immediata esecuzione, giacché vi sono molte migliaia di pratiche dinanzi al Comitato liquidatore le quali, secondo la legge vigente, debbono essere appunto esaminate ad una ad una dal Comitato stesso. Poiché, quindi, queste pratiche sono state già con molta cura esaminate dagli uffici della Direzione generale, io ho pensato di predisporre un decreto nel senso che ho detto ora, prevedendo il grande vantaggio che ne deriverà a tutti coloro che attendono la pensione.

Tutto ciò premesso, assicuro l’onorevole interrogante che la liquidazione delle pensioni di guerra, doveroso riconoscimento, da parte dello Stato, dei diritti acquisiti da quanti sacrificarono la propria integrità fisica alla Patria o videro i loro congiunti sacrificare la vita alla Patria, costituisce oggetto della più vigile e costante cura da parte degli organi che vi sono preposti e del Governo.

L’angoscia degli invalidi e dei loro congiunti è la nostra angoscia: per essa non risparmieremo alcuno dei provvedimenti che possano avvantaggiare questi sventurati.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MACRELLI. Conoscevo già la risposta dell’onorevole Sottosegretario per il tesoro, perché è pressoché uguale a quella che egli rese all’interrogazione dello scorso 29 settembre. Ed è appunto perché io già la conoscevo, che sono tornato alla carica, perché le dichiarazioni fatte in quella circostanza non erano riusciti a persuadermi.

L’Assemblea oggi ha udito molte cifre, veramente impressionanti: migliaia di provvedimenti, migliaia di istruttorie, ecc. Ma v’è una cifra che ha dimenticato di dire l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro, la cifra che si riferisce alle pensioni non ancora liquidate, che raggiungono il numero enorme di cinquecentomila!

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Non è esatto, questo.

UBERTI. Duecentomila.

MACRELLI. Cinquecentomila! Non temo smentite; per una sola ragione, amico Uberti, perché prima di venire qui sono andato a chiedere notizie, ad assumere informazioni.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. La cifra non è esatta, perché non corrisponde a quella che io ho avuto dalla Direzione generale.

MACRELLI. Mi consenta, onorevole Sottosegretario, e il rilievo che faccio in questo momento, accennando alla cifra, non vuole essere affatto accusa o rimprovero all’ufficio delle pensioni di guerra, che lavora in una maniera ammirevole, dal direttore generale all’ultimo funzionario. La colpa non è del personale, la colpa è del sistema. Pochi mezzi, purtroppo, sono a disposizione della Direzione generale.

Dice il Sottosegretario nella sua risposta odierna: noi abbiamo ampliato i locali della Direzione generale.

Sapete, onorevoli colleghi, in quanti uffici è divisa l’attività della Direzione generale delle pensioni? V’è l’ufficio in via della Stamperia, che voi conoscete bene; un altro in via Flaminia, Ponte Milvio; un terzo in via Sicilia, Teatro delle Arti, e un quarto al viale del Lavoro, Palazzo degli esami, dove si trova l’archivio insieme allo schedario.

Dislocazione esagerata, che porta una notevole perdita di tempo e una perdita di mezzi. Quindi, un provvedimento necessario da parte del Governo sarebbe quello di concentrare più uffici in una medesima località. Ne avete la possibilità. (Commenti). Vi sono tante caserme qui a Roma, inutilizzate e inutilizzabili (Commenti), che potrebbero essere adoperate magnificamente a questo scopo e ad altri scopi più utili.

Ha aggiunto l’onorevole Sottosegretario che si è provveduto all’aumento del personale. Vorrei ricordare, soprattutto agli anziani di questa Assemblea…

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, ricordi che il tempo a sua disposizione è quasi trascorso.

MACRELLI. Sta bene, onorevole Presidente; ma si tratta di un argomento importante, sul quale vorrei richiamare l’attenzione dell’Assemblea, tanto più che il Paese ascolta, perché vi sono delle necessità gravissime e urgenti.

Vorrei ricordare, dicevo, che fin dal 1918 fu istituito un apposito Ministero per l’assistenza ai militari e le pensioni di guerra – e primo titolare di quel Ministero fu Leonida Bissolati – trasformato poi in Sottosegretariato, e poi in Direzione generale, nel 1923. Orbene, sapete quanti erano gli impiegati, allora? E ci trovavamo all’indomani della grande guerra, della guerra del 1915-18, e quindi era limitato il numero delle richieste di pensione: erano 1.200.

Oggi, dopo la guerra tremenda e tragica, dopo le richieste dei sinistrati di guerra, non solo dei pensionati, abbiamo appena appena mille impiegati. Si è provveduto recentemente – è la verità – trasferendo diversi impiegati dal Ministero dell’Africa italiana alla Direzione generale delle pensioni. Non basta, onorevole Sottosegretario. E quando lei mi dice che si è provveduto per accelerare le istruttorie delle pratiche, io consento; e quando lei mi dice che si sono create nuove Commissioni mediche, io approvo; e quando dice che recentemente, proprio per disposizione della Direzione generale, si è provveduto al cosiddetto lavoro a cottimo, dico che si è fatta una cosa magnifica. So che l’onorevole Petrilli ha dato tutta la sua anima e la sua attività per questa Amministrazione, e io gliene faccio pubblica lode, come la faccio a tutti i funzionari della Direzione generale. Ma non basta.

Ha accennato, l’onorevole Sottosegretario, alle ultime cifre relative alle pensioni. Sapete in media quante sono le pratiche che si espletano in un mese? Circa quindicimila, e col lavoro a cottimo si arriva anche a diciassettemila.

Ma sapete quante pratiche arrivano ogni mese alla Direzione generale delle pensioni? Dalle quindici alle venti mila, il che significa che il poco personale, pratico, valoroso, che si sobbarca ad una fatica quotidiana gravosa, deve provvedere all’espletamento di queste pratiche, mentre restano inevase le altre cinquecentomila di cui ho parlato prima.

Si può rimediare? Sì, assumendo dell’altro personale: è una proposta concreta che faccio.

Io so che da quel banco era venuta una proposta che fu fermata da altri, per altre ragioni. Ma pensate, onorevoli signori del Governo e onorevoli colleghi, che con una spesa di settantacinque milioni, secondo i calcoli che sono stati fatti, assumendo un numero che varia da duecentocinquanta a trecento impiegati, in un anno si esaurirebbero tutte le pratiche di pensione inevase. E allora, spendiamoli questi settantacinque milioni! Se ne spendono tanti per tante altre ragioni, per cui voi non avrete motivo di invocare, come fate per questa, la bellezza, la santità del sacrificio. Orbene, per una cifra in fondo modesta che potrebbe ovviare a tanti inconvenienti, io penso e credo che il Governo vorrà provvedere. (Applausi).

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Desidero dire che un provvedimento per aumentare il numero degli impiegati addetti alla Direzione generale delle pensioni di guerra è stato già previsto, studiato e proposto, e dovrà essere attuato celermente, sollecitamente, sicché questo che è un voto dell’onorevole interrogante, forma già oggetto di un progetto che verrà senz’altro attuato. Sarà così notevolmente aumentato il numero delle persone addette ai lavori a cottimo, perché sono convinto che con quel lavoro risolveremo gran parte del problema, il quale, nel suo contenuto pratico, per quelle che sono le cifre comunicate a me, precisamente dal direttore generale delle pensioni di guerra, non porta alla cifra di cinquecento mila accennata dall’onorevole interrogante; perché i sono in istruttoria esattamente 387 mila domande. Vorrei quindi che non si diffondesse quella cifra di mezzo milione od oltre.

Per ciascuna di queste pratiche occorrono i fogli matricolari da parte del distretto militare, i documenti di stato civile da parte dei comuni, e il procurare tutti questi documenti importa una perdita di tempo, e soltanto la necessità di rinnovare le istanze presso ciascuno di questi uffici, e per ognuna delle 387 mila pratiche, significa che bisogna scrivere per una seconda volta 387 mila lettere. Di qui si comprende facilmente l’unità di misura con cui si deve procedere in questo lavoro, e quindi le grandi difficoltà che importa l’istruttoria. Noi abbiamo fatto premura anche presso il Ministero della guerra, perché sia inviata ai distretti militari una circolare vivacissima in ordine al dovere e all’obbligo morale e giuridico che hanno di corrispondere con la maggiore urgenza alle richieste degli Ispettorati generali per le pensioni di guerra. E così anche i comuni; ma spesso i documenti sono andati dispersi per vicende belliche.

Ad ogni modo, da parte nostra faremo tutto quanto è necessario, perché queste giuste esigenze di tante famiglie che attendono con ansia la liquidazione delle pensioni di guerra siano sodisfatte. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni sono rinviate su richiesta dei Ministri, assenti per ragioni di ufficio:

Monticelli, ai Ministri di grazia e giustizia e del lavoro e previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponde a verità quanto il giornale Il Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito al mancato versamento della somma di lire 342.300 da parte della cooperativa «La Rinascita», di Grosseto, che, incaricata dalla Sepral di provvedere alla distribuzione ai vari comuni della provincia di 163 quintali di riso sequestrato il 12 febbraio 1946 dalla squadra annonaria, ne versò il ricavato l’8 agosto 1947, cioè dopo oltre un anno e mezzo, quando già era stata presentata denunzia per appropriazione indebita alla Procura della Repubblica di Novara. Per conoscere altresì quali provvedimenti si intendono adottare, anche da parte del Ministro del lavoro, verso la suddetta cooperativa»;

Monticelli, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponda a verità quanto il giornale II Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito alla mancata distribuzione alle cooperative di consumo di 200 quintali di baccalà salinato, assegnato dall’Alto Commissariato per l’alimentazione alla Federazione provinciale delle cooperative di Grosseto, e da questa rivenduto, a prezzo notevolmente maggiorato, ad una ditta di Fucecchio. In caso affermativo, quali provvedimenti intende prendere il Ministro del lavoro verso la Federazione delle cooperative di Grosseto»;

Nobile, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere quale ingegnere sia stato designato, ed in base a quali criteri, per i lavori relativi ai beni immobiliari di proprietà dello Stato italiano in Varsavia».

Data l’ora tarda, le altre interrogazioni iscritte all’ordine del giorno saranno svolte nella prossima seduta dedicata alle interrogazioni.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se il Governo intende o meno di emanare le disposizioni legislative che consentano alle cooperative, alle mutue e agli enti similari il ricupero dei beni di cui furono spogliati dal fascismo.

«Canevari, Bocconi, Caporali, Ruggiero Carlo, Zanardi, Morini, Merighi, Tonello, Longhena, Treves, Filippini, Cairo, Piemonte».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere se credono dignitoso per il Governo e per l’Assemblea Costituente mancare agli impegni precisi, più volte assunti anche davanti all’Assemblea stessa, di presentare il progetto di legge, relativo alla rivendica dei beni mobili e immobili, di enti e di privati, sottratti o dovuti cedere, durante il periodo fascista, con la violenza morale e materiale, ai legittimi proprietari, e se intanto non ritengano opportuno dare disposizioni perché siano sospesi provvedimenti esecutori in corso.

«Macrelli, Zuccarini, Spallicci, Azzi, Sardiello, Chiostergi, Pacciardi, Magrini, Parri».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì prossimo.

PRESIDENTE. È anche pervenuta la seguente interrogazione urgente:

«Al Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se, come e quando intende risolvere la dolorosa situazione della Corte di appello delle Calabrie, nella quale mancano tre presidenti di sezione, tredici consiglieri; per cui il primo presidente è costretto a presiedere le udienze penali; le udienze civili sono rinviate sine die; e ben 150 processi penali giacciono nella cancelleria della sezione istruttoria in attesa di essere definiti.

«Mancini».

Chiedo al Governo quando intende rispondere anche a questa interrogazione.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ne darò comunicazione al Ministro competente, il quale farà sapere quando intende rispondere.

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Ho presentato giorni fa una interrogazione al Ministro dei lavori pubblici riguardante la Mostra d’oltremare di Napoli. Poiché la interrogazione investe un termine che scade il 18 di questo mese, volevo pregare se fosse possibile che l’interrogazione fosse posta all’ordine del giorno prima di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Comunicherò al Ministro competente questo suo desiderio.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Ho presentato al Ministro della pubblica istruzione una interrogazione sulle pensioni ai maestri elementari. Ho preso accordo a voce col Ministro di porre l’interrogazione all’ordine del giorno della prossima seduta, dedicata alle interrogazioni.

PRESIDENTE. Sta bene, interpellerò in tal senso il Ministro competente.

PRESSINOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRESSINOTTI. Ho presentato una interrogazione riguardante il blocco dei fitti; data l’importanza dell’argomento, che è sentito da tutto il Paese, pregherei che fosse posta all’ordine del giorno prima di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Prego il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di comunicare le intenzioni del Governo al riguardo.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Ministro Grassi risponderà lunedì prossimo, tanto non v’è motivo di urgenza poiché il termine scade il 31 dicembre. Il Ministro Grassi sta raccogliendo i dati in modo da essere in grado di dare una risposta esauriente. Se dovesse rispondere domani, potrebbe dire soltanto che sta facendo indagini.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare nei confronti dell’ufficiale comandante il servizio di polizia in Piazza Venezia la sera del 7 novembre, responsabile della brutale condotta degli agenti, i quali, senza nessuna ragione, si lanciavano contro i cittadini che, dopo la fine del comizio tenutosi alla Basilica di Massenzio, attraversavano pacificamente la piazza per fare ritorno alle loro case.

«Minio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere con quali criteri il Comitato interministeriale dei prezzi ha concesso che il latte alla stalla venga portato da 28 lire a 45 lire il litro e quali sono i fattori che giustificano tale aumento.

«Vischioni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri di grazia e giustizia e del tesoro, per conoscere quali provvedimenti hanno adottato od intendano adottare a tutela dei diritti e dei legittimi interessi di alcuni magistrati dei gradi IV e V i quali, essendo addetti ad uffici giudiziari dell’Alta Italia ed avendo raggiunto il limite di età nel periodo della guerra combattuta nell’Italia centrale dopo la liberazione di Roma, vennero indistintamente collocati a riposo per il suddetto motivo dell’età, senza che potessero valutarsi, nei loro riguardi, le condizioni richieste per il loro trattenimento in servizio a norma della legge speciale 28 gennaio 1943, n. 33, e vennero poi, dopo la liberazione dell’Alta Italia, richiamati in servizio come pensionati senza tenere nella giusta considerazione le circostanze: che, nel predetto periodo di guerra, gli stessi magistrati erano stati trattenuti in servizio dal Governo di fatto dell’Alta Italia a norma della stessa legge sopracitata e che, dopo la liberazione dell’Alta Italia il Governo militare alleato, avendo avuto comunicazione dei decreti di collocamento a riposo, aveva revocati tali decreti, trattenendo esso pure in servizio gli stessi magistrati, i quali, pertanto, avevano prestato continuo e ininterrotto servizio oltre il limite di età.

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa (Aeronautica), per sapere perché gli ufficiali di complemento in servizio dai 1929 e successivi sino al 1944, richiamati per deficienza dei quadri, furono inviati in congedo senza nessun riconoscimento.

«Questi ufficiali, oltre ad avere servito con fedeltà ed onore per parecchi lustri, sono quasi tutti ex combattenti della guerra 1915-18, nonché reduci dell’ultima guerra e membri attivi del fronte clandestino di resistenza durante l’occupazione nazi-fascista.

«Dato che quelli in servizio permanente effettivo, con anzianità di servizio talvolta inferiore, nella peggiore delle ipotesi, furono collocati nella forza assente in attesa di reimpiego con regolare stipendio ogni fine di mese e liberi di poter espletare mansioni rimunerative per proprio conto, si chiede per i suddetti ufficiali un atto di giustizia tendente a riconoscere giuridicamente il servizio da loro prestato sotto le armi, affinché a quelli che hanno raggiunto il ventesimo anno sa riconosciuto il diritto e trattamento di quiescenza: e a tutti gli altri, una indennità – una tantum – in ragione degli anni di servizio regolarmente prestati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bruni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuna l’estensione dei benefici della legge 14 maggio 1946, n. 384, anche agli ufficiali inferiori, ad evitare che un ufficiale inferiore che non possa, per gravi ragioni, accettare un trasferimento, si trovi costretto alle dimissioni senza alcun trattamento economico, a differenza degli impiegati avventizi e degli ufficiali epurati per aver prestato servizio nell’esercito repubblichino. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rossi Paolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere cosa egli intenda fare per accelerare la elaborazione definitiva dello statuto e del regolamento democratici dell’E.N.A.L., allo scopo di porre termine al più presto, anche in questo Ente, agli inconvenienti del regime commissariale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Grieco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se ritiene opportuno estendere i benefici di cui al decreto del 28 agosto 1942, n. 1097 – con cui si offre la possibilità alle maestre supplenti, vedove di guerra, con tre anni di servizio, di essere assunte nel ruolo effettivo – alle maestre il cui marito sia stato dichiarato disperso od irreperibile in azione di guerra, e già godenti di pensione privilegiata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Preti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se, m vista del maggiore ed importante lavoro ora affidato agli uffici distrettuali delle imposte dirette, non ritenga opportuno rivedere, per quelli dell’Alta Italia, gli stanziamenti fatti per sopperire alle spese di riscaldamento dei locali. Specie per i nuovi delicati compiti connessi con l’imposta patrimoniale straordinaria, si riterrà certo opportuno evitare (in definitiva nell’interesse stesso della Finanza) che i funzionari siano costretti a lavorare, a ricevere e discutere con i contribuenti in condizioni di disagio, come avviene quando il locale è male e poco riscaldato. La lena ed il rendimento del lavoro non sono certo indipendenti dalle condizioni materiali in cui il funzionario deve svolgere la propria attività.

«In particolare, e come esempio, si rammentano le condizioni dell’importante ufficio imposte dirette di Pavia, al quale, per l’intero esercizio 1947-48 e per tutte le spese di ufficio, riscaldamento compreso, sarebbe stata assegnata la somma complessiva di lire 73.900. Tale ufficio si compone di 17 stanze e deve provvedere ad alimentare 16 stufe per circa 150 giorni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferreri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere quali siano le ragioni del differente trattamento relativamente alla corresponsione della razione viveri in natura od in contanti tra i sottufficiali dell’Aeronautica militare non effettivamente impiegati, ma considerati in «attesa di destinazione» e quelli della Marina militare, pure considerati nella medesima posizione.

«Ciò perché consta che, onde equiparare i sottufficiali dell’Aeronautica a quelli della Marina militare (per i quali ultimi è stata già disposta la corresponsione viveri in natura od in contanti, a seconda se residenti in sede ove esistano magazzini viveri oppure in sedi ove tali magazzini non esistono), il Ministero della difesa (Aeronautica) aveva richiesto i fondi suppletivi al Ministero del tesoro, che, invece, ha stralciato la relativa voce obbiettando che a tale personale (cioè a quello dell’Aeronautica) non deve competere il trattamento di cui sopra.

«Ora, considerato il caso di una forte aliquota di sottufficiali dell’Aviazione militare, trovantisi nella identica posizione dei sottufficiali della Marina militare, si ritiene che le disposizioni intese a regolare il trattamento economico ed amministrativo per i dipendenti della Marina debbono essere identiche – come per il passato – a quelle per i dipendenti dell’Aviazione, perché se uno stato di disagio economico esiste per i primi, è vero che lo stesso stato di disagio esiste per i secondi.

«Si chiede pertanto che venga con urgenza esaminata la situazione dei sottufficiali dell’Aviazione militare nella posizione di «attesa di destinazione» e che venga quindi esteso a questi ultimi il trattamento che è dovuto ai loro colleghi della Marina militare. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rognoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere se non ritengano opportuno bandire subito i concorsi per primari, aiuti ed assistenti agli ospedali; ed ove seri impedimenti ostacolino questi bandi, se non ravvisino la necessità di concedere che le amministrazioni ospedaliere li bandiscano, secondo i loro regolamenti, limitatamente ad un biennio.

«Ciò toglierebbe il disordine ed il malcontento che regnano negli ospedali, dove sono vacanti migliaia di posti, coperti da incaricati, i quali attendono da anni l’apertura dei concorsi; ciò permetterebbe un’ottima selezione di elementi capaci, che assicurerebbero il pieno funzionamento di tali istituti.

«Poiché altra volta l’interrogante ha chiesto ed ha avuto promesse non mantenute, esprime il desiderio di una sollecita e precisa risposta scritta.

«Non nasconde che numerose federazioni ospedaliere sono decise a bandire tali concorsi, ove non giunga una parola del Governo, che dichiari la ferma intenzione di accelerare il ritorno della normalità anche in questo campo assai delicato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Longhena».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.5.

Ordine dei giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

SABATO 8 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXIV.

SEDUTA DI SABATO 8 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Musotto

Colitto

Cappi

Bellavista

Persico

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Morini

Varvaro

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Lussu.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Preti; ma poiché non è presente, s’intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Musotto. Ne ha facoltà.

MUSOTTO. Onorevoli colleghi, il vivo dibattito sull’ordinamento giudiziario, che vieppiù dovrebbe farsi importante, per il numero dei colleghi iscritti a parlare, è giustificato dalla urgente necessità di dare un ordinamento all’amministrazione della giustizia nel quadro della ricostruzione nazionale, ed importerà un complesso di norme che naturalmente incideranno sulla costituzione stessa dello Stato.

La Magistratura ha da tempo manifestato la sua istanza di divenire un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, estranea agli altri poteri dello Stato. Ed io di questo argomento vorrò anzitutto occuparmi, perché, onorevoli colleghi, parmi che esso abbia un carattere di priorità ed un fondamento essenziale tra i vari problemi che il progetto di Costituzione pone all’esame dei membri dell’Assemblea Costituente.

Io ebbi l’onore di appartenere all’ordine giudiziario; quindi potrò liberamente parlare. La mia parola non può certo avere accento di irriverenza verso questo ordine, che pure, bisogna riconoscerlo, negli anni andati dei pervertimenti e delle deviazioni, si sforzò di tenere alto il prestigio della propria funzione.

Ma, onorevoli colleghi, creare un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, in questo storico momento, in cui noi assistiamo al trapasso da un vecchio ad un nuovo regime (nuovo regime che attraverso stenti e difficoltà tenta di consolidarsi), credo sia estremamente pericoloso. Sia pure chiusa in una torre di avorio, secondo la espressione dell’onorevole Turco. E poi va ricordato, onorevoli colleghi, un episodio recente, ancora doloroso: non tutti i magistrati, hanno chiaramente manifestato una fede consapevole nel divenire sicuro della Repubblica italiana.

Sono problemi di una importanza capitale, sono problemi che devono innanzitutto essere posti dalla pubblica opinione, hanno bisogno di una chiarezza, di una maturità nella coscienza pubblica, prima che vengano all’esame dell’Assemblea Costituente.

La Magistratura può ricomporsi, può trovare nell’ordinamento giudiziario, che la Costituente le sta apprestando, i presupposti del divenire della sua ampia autonomia e della sua ampia indipendenza.

Già molti colleghi hanno espresso il proprio pensiero, né parmi che i pareri siano concordi. C’è ancora nell’Assemblea qualche preoccupazione, ci sono dei dubbi in rapporto a questo grave problema dell’autonomia integrale della Magistratura. Dobbiamo andare con grande cautela, onorevoli colleghi, prima di affermare questo principio, che non risponde alle esigenze del momento storico in cui lo valutiamo, in cui il problema ci è posto.

Io sono per la indipendenza della Magistratura. E chi può non essere per l’indipendenza della Magistratura? Credo che uno dei requisiti, o meglio una delle necessità alle quali dovrebbe venire subito incontro il Governo per dare una effettiva, una reale indipendenza alla Magistratura, sia proprio il fattore economico. Io non trovo nel progetto di Costituzione alcun articolo che si occupi espressamente di tale problema. Non è qui presente il Ministro della giustizia, ché gli avrei voluto dare un suggerimento: è inutile aspettarci che dalle esauste finanze del bilancio italiano venga alla Magistratura un aiuto adeguato alla importanza e alla particolarità della sua funzione. Sarebbe una illusione!

Ho sentito parlare da tempo, anche per la famigliarità che ho con i magistrati, della istituzione di una Cassa speciale dei magistrati. Ora, non è nuovo il fatto in Italia, e noi potremmo pervenire alla costituzione di questo fondo speciale, di questa Cassa speciale in favore della Magistratura, attraverso il sistema dell’applicazione delle marche. Se ne potrebbero studiare il modo e le norme, per agevolare il funzionamento di questo Ente. Onorevoli colleghi, si potrebbe così venire in aiuto, almeno in parte, ai bisogni della Magistratura. Certamente, l’applicazione di queste marche, data la misura trascurabile di esse, non verrebbe ad incidere troppo sul costo dei giudizi.

Per quanto riguarda l’indipendenza economica della Magistratura, diciamolo francamente: il magistrato in Italia è malamente retribuito, e noi abbiamo recenti episodi che hanno angustiato la vita famigliare di alcuni magistrati, per cui sentiamo tutto il dovere di venire incontro a questi funzionari, per attenuare il disagio, nel quale essi vivono e si dibattono.

Diceva uno scrittore di cose politiche: in Inghilterra, dove i magistrati sono largamente retribuiti, un giudice che non compisse il proprio dovere sarebbe l’ultimo degli uomini; in Italia perché il magistrato lo compia deve essere un eroe. Quindi urgente la necessità di venire incontro ai bisogni della Magistratura.

Noi siamo per la inamovibilità del magistrato, e fra i magistrati intendiamo per primi, tutti i funzionari del Pubblico Ministero, e vogliamo che questi siano affrancati dal potere esecutivo. L’istituto della inamovibilità del magistrato, lo ricordiamo, aveva avuto delle generiche affermazioni di garanzia nello Statuto albertino, ma lungo la strada questo istituto giuridico della inamovibilità si è completamente perduto, attraverso la lettera e lo spirito dei recentissimi ordinamenti giudiziari.

Noi siamo, dunque, per la inamovibilità del magistrato, la quale conferirà, specialmente al Pubblico Ministero, serenità nell’esercizio delle sue funzioni.

Dovrei interessarmi di un altro argomento, sul quale ho notato che c’è disparità di consenso nell’Assemblea Costituente. A me pare che il problema sia fondamentale. Mi riferisco al divieto, fatto dall’ultimo comma dell’articolo 94 del progetto di Costituzione, ai magistrati di iscriversi ai partiti politici.

Argomento molto importante, onorevoli colleghi, che va valutato davvero con molta ponderazione, e con molto senso di responsabilità. I magistrati non devono iscriversi ai partiti politici: ma intanto, ditemi, chi può negare ad un magistrato di manifestare la propria opinione politica, e di manifestarla anche pubblicamente? Chi può mai contestargli questo diritto? Il magistrato ha lo stesso diritto degli altri cittadini, ma non deve iscriversi. E perché non deve iscriversi? Perché egli iscrivendosi verrà, si dice, a perdere parte della sua indipendenza spirituale, tanto necessaria nell’esercizio della sua funzione.

Non è vero, onorevoli colleghi; noi dobbiamo tenere alla sincerità del costume politico: il magistrato che non si iscrive, al riparo da ogni eventuale controllo o richiamo da parte dei suoi superiori, si sentirà più libero nelle manifestazioni politiche; ne farà di più; appunto perché tutti sanno che egli non ha alcuna tessera di partito.

Ma poi, notate questo importante rilievo: il divieto di iscriversi ai partiti politici incide sull’elettorato passivo dei magistrati. Col sistema della proporzionale, un magistrato che non sia iscritto nei vari partiti politici, non ha praticamente diritto di porre la sua candidatura per le alte cariche politiche; non ha questo diritto. Ed allora, onorevoli colleghi, noi con questo divieto impediremo a molti magistrati, che oggi sono alla Camera, di ritornarvi

Ma, io penso, se volete sanzionare il principio, occorre essere conseguenti: applicarlo in tutta la sua estensione: ai magistrati in servizio attivo, ai vice pretori onorari, ai conciliatori – che costituiscono un numero importante in tutta l’Italia – perché anch’essi esercitano una funzione giurisdizionale. Ed ai funzionari della Corte dei conti, del Consiglio di Stato, a tutti coloro che hanno una funzione giurisdizionale. Starei per dire, anche a coloro i quali fanno parte degli attuali assessorati delle Corti d’assise, presso cui si dibattono processi importantissimi, gravissimi, che sfuggono anche all’esame del secondo grado di giurisdizione. Costoro non dovrebbero essere iscritti ai partiti politici, e così via dicendo, fino a quelli che fanno parte di magistrature speciali, tutti coloro, insomma, che esercitano una funzione giurisdizionale.

Il magistrato, quando è iscritto ad un partito politico trova il freno e il monito nella propria coscienza. Questa impedirà di far pesare la iscrizione nel giudizio, che a lui si chiede. Mi si è fatto rilevare, che il divieto sarebbe particolarmente necessario nei piccoli centri. Non è vero, onorevoli colleghi; ne abbiamo personale esperienza. Nei piccoli centri, il magistrato che fa parte di un partito politico si sforza, appunto perché è sotto il controllo vivo, giornaliero, costante della pubblica opinione, non solamente di essere giusto, ma anche di apparirlo.

Ed è per queste considerazioni che noi non siamo d’accordo sul divieto proposto dal progetto di Costituzione. In Italia – non dimentichiamolo – c’è il voto obbligatorio; il magistrato deve quindi necessariamente votare, deve necessariamente esprimere la propria opinione politica.

Sono queste le osservazioni, onorevoli colleghi, che io desideravo fare in questo mio breve discorso, appunto, come dissi in principio, perché era mio vivo desiderio di intrattenervi, in modo particolare, su questi argomenti che sono fondamentali. Alla soluzione che noi ed essi daremo, legheremo la nostra responsabilità.

Alla Magistratura vorrei rivolgere un’esortazione, che potrebbe anche essere un omaggio: attraverso l’ordinamento giudiziario, che la Costituzione le sta apprestando, sia essa, nel nuovo quadro delle riforme, costantemente il presidio vigile delle libere istituzioni della Repubblica Italiana. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. Onorevoli colleghi, io mi propongo, con questo mio intervento, di dare, in modo piuttosto organico, ragione dei vari emendamenti da me proposti a parecchi dei tredici articoli che, divisi in due sezioni, dedicata la prima – articoli dal 94 al 100 – all’ordinamento giudiziario e la seconda – articoli dal 101 al 105 – alla giurisdizione, costituiscono il Titolo IV della parte seconda della Costituzione, intestato «La Magistratura».

  1. – Io ho incominciato con il proporre che sia modificata l’intestazione del Titolo. Là dove è scritto «La Magistratura», io penso sia più opportuno scrivere «L’amministrazione della giustizia». È questa certo una intestazione più risonante, ma parmi anche più precisa, perché mal si addice, a mio avviso, l’intestazione «La Magistratura» ad un Titolo, una sezione del quale non si occupa della Magistratura, ma di norme processuali.
  2. – Ho proposto, poi, che solennemente si proclami nella Costituzione che «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Ritengo che tale dizione sia da preferirsi a quella «la funzione giurisdizionale è esercitata», adottata dal progetto. Forse tecnicamente questa è più precisa; ma, se si vuole davvero che la Costituzione sia appresa dal popolo, bisogna abbandonare l’eccessivo tecnicismo ed usare frasi, che pienamente, e soprattutto agevolmente, dal popolo siano intese, apprese, ricordate.

Non si parla, del resto, proprio di amministrazione della giustizia nell’articolo 96, allorché si proclama che il popolo ad essa partecipa mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise? Se queste parole sono usate nell’articolo 96, non mi rendo conto perché dovrebbero parole diverse essere usate in altri articoli del testo della Costituzione.

È appena il caso di aggiungere che le parole «espressione della sovranità della Repubblica», con le quali nella prima parte dell’articolo 94 del progetto si intende qualificare la «funzione giurisdizionale», sono da sopprimere, non fosse altro che per la ragione che anche la funzione legislativa è espressione della sovranità della Repubblica, e davvero non si comprende perché ciò si debba ricordare per l’una funzione e tacere per l’altra.

III. – Ma da chi la giustizia è amministrata? All’interrogativo io risponderei con un articolo così redatto: «La giustizia è amministrata da magistrati, secondo le norme stabilite dalla legge». Appunto questa dizione io propongo che sia adottata come primo comma dell’articolo 95 al posto della dizione del progetto: «La funzione giurisdizionale in materia civile e penale è attribuita ai magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

Si può, nell’articolo 95, a mio avviso, aggiungere che la «la legge determina anche i casi in cui la giustizia è amministrata con la partecipazione di cittadini esperti» e che «non possono istituirsi giudici speciali in materia penale». Ma altro non è necessario dire. Nel progetto si parla di partecipazione di cittadini esperti «secondo le norme sull’ordinamento giudiziario»; ma è agevole rilevare che norme regolatrici della partecipazione di esperti alla funzione giurisdizionale possono essere dettate, oltre che dalle leggi sull’ordinamento giudiziario, anche da altre leggi e dai Codici.

Di esperti, per esempio, si parla negli articoli 4-12 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile e nell’articolo 231 delle disposizioni transitorie per l’applicazione di tale Codice.

E a che giova aggiungere che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge» e che la legge essi «interpretano ed applicano secondo coscienza»? Tutti dipendiamo dalla legge. È sempre vivo ed attuale l’ammonimento di Cicerone: servi legum esse debemus, si liberi esse volumus. Ed è intuitivo che, quale che sia lo stato della pubblica opinione, quali che siano le influenze dei partiti, della stampa, dello Stato, il magistrato deve pensare a compiere il dovere che la legge, e solo la legge gli assegna, avendo come guida, che gli illumina la via, la serenità della propria coscienza.

Ma non da soli magistrati, od esperti, la giustizia, secondo il progetto, dovrebbe essere amministrata. L’articolo 96 dispone infatti che «nei processi di Corte d’Assise all’amministrazione della giustizia partecipa direttamente il popolo mediante l’istituto della giuria».

A tale istituto io personalmente sono nettamente contrario. Non ritengo idoneo, al fine di una retta amministrazione della giustizia, l’istituto della giuria perché – che volete? – una sentenza (e tale è il verdetto dei giurati) non motivata ed inappellabile non può non far tremare le vene e i polsi a qualsiasi cittadino onesto.

D’altra parte, a me appare molto strano che nell’articolo 101 della Costituzione si proclami che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati e che poi si consenta la ricostituzione della giuria, che emette verdetti, cioè provvedimenti giurisdizionali, non motivati.

La partecipazione, ad ogni modo, del popolo all’attività giurisdizionale nei giudizi di Assise, anche ove voglia accogliersi, esige delle garanzie, per cui non appare opportuno pregiudicare con una norma costituzionale la soluzione del problema. L’articolo 96 perciò dovrebbe essere soppresso, anche perché il contenuto dell’articolo costituisce materia di ordinamento giudiziario.

In ogni caso, è opportuno che siano eliminate le parole «mediante l’istituto della giuria», in modo che la costituzione della Corte d’Assise non sia necessariamente vincolata ad un sistema che, sopprimendo la garanzia della motivazione della sentenza, renda impossibile qualsiasi controllo.

  1. – Ciò premesso, esaminiamo il vero problema di natura costituzionale riguardante la Magistratura.

Alla Magistratura deve essere, da una Costituzione democratica e civile quale è la nostra, assicurata la più completa indipendenza. La Costituzione lo riconosce. Nell’articolo 97 si legge appunto che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente».

Ma come il principio viene poi tradotto in realtà?

È noto che una vera indipendenza si realizza solo ove due altri principî trovino attuazione: il principio dell’autogoverno – termine forse tecnicamente improprio, ma facilmente comprensibile – e il principio della unità di giurisdizione, in forza del quale il potere giudiziario deve accentrare nei suoi organi tutta l’attività giurisdizionale, civile, penale ed amministrativa.

Fulcro dell’indipendenza della Magistratura è l’autogoverno della Magistratura: essa costituisce un ordine autonomo, che provvede da sé e senza alcuna ingerenza del potere esecutivo, al proprio governo. Dire autogoverno significa dire autonomia organizzativa e funzionale: affinché essa non si riduca praticamente a mera apparenza, è indispensabile che i magistrati siano posti in condizione di non avere nulla da temere e neppure nulla da sperare dagli organi del potere legislativo e da quelli del potere governativo. Si impone, pertanto, la necessità non solo di sancire, nei riguardi dei magistrati, il divieto della applicazione anche temporanea a funzioni non giurisdizionali e del conferimento di onorificenze o di incarichi, ma altresì di riservare agli stessi organi del potere giudiziario tutti i provvedimenti amministrativi sullo stato giuridico degli appartenenti alla Magistratura, quali il reclutamento, le destinazioni, le promozioni, la scelta dei dirigenti e dei capi.

Bene è stato detto, bene è stato scritto che in materia di indipendenza non possono esistere soluzioni di compromesso, soluzioni transattive. Una indipendenza limitata o condizionata non è concepibile. Ora, se questo è esatto, l’articolo 97 del progetto di Costituzione, che disciplina il Consiglio Superiore della Magistratura (organo centrale dell’autogoverno), non può non essere modificato. Tale Consiglio non può, infatti, essere formato in parte di magistrati ed in parte di uomini politici. È questa, a mio avviso, una composizione ibrida, sommamente pericolosa, che, mentre costituirebbe un passo indietro sulla via del progresso costituzionale del Paese, ferirebbe mortalmente il principio dell’autonomia e della indipendenza della Magistratura, essendo evidente che, così componendosi il Consiglio Superiore della Magistratura, il governo di questa non sarebbe affatto sottratto al potere esecutivo, espressione delle forze politiche e portatore degli interessi politici del Paese.

Su ciò molto si deve l’Assemblea soffermare, essendo qui in giuoco la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.

Quanto al principio della unità di giurisdizione, mi permetto di rilevare che il progetto non lo realizza integralmente: non sancisce, infatti, espressamente l’abolizione dei giudici speciali civili e penali attualmente esistenti, ma ne prescrive la revisione entro i cinque anni (articolo 7 delle disposizioni transitorie), il che implicitamente ammette, almeno per quanto riguarda quelli civili, la possibilità di conferma da parte del potere legislativo con le modalità di cui all’articolo 95, quinto comma. Si riconosce che con le stesse modalità possono essere creati ad libitum nuovi giudici speciali civili. Anche in materia penale è permessa la costituzione presso gli organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate con la partecipazione di cittadini esperti, in numero non precisato. E ciò è da evitare, onorevoli colleghi, ove si voglia impedire che, quando che sia, si accampi da uno o più partiti dominanti la pretesa, ad esempio, di costituire tribunali penali misti e Corti d’assise speciali.

  1. – Passando ora brevemente ad occuparmi della materia disciplinata nella seconda sezione del Titolo, credo di non ingannarmi, se affermo che le norme fondamentali di carattere processuale, in essa contenute, riguardano: l’azione penale, le udienze, i provvedimenti giurisdizionali, la tutela dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica amministrazione.

Non ho nulla da dire circa quest’ultimo punto. Mi soffermerò, perciò, brevemente sugli altri.

Azione penale. – L’articolo 101 del progetto è così redatto: «L’azione penale è pubblica».

È stata in tal modo riprodotta ad litteram la prima parte dell’articolo 1 del Codice di rito penale. Si è voluto evidentemente riaffermare, anche nel testo costituzionale, il concetto che il compito funzionale dello Stato di provvedere alla realizzabilità della pretesa punitiva nascente da reato, in vista del quale è predisposto il processo penale, costituisce contemporaneamente un potere ed un dovere dello Stato medesimo. Poiché gli interessi tutelati dalle norme penali sono in ogni caso interessi eminentemente pubblici, la loro attuazione si impone allo Stato, non come una mera facoltà per il raggiungimento di uno scopo non essenziale, ma come un obbligo funzionale per il conseguimento di uno dei fini essenziali per cui lo Stato medesimo è costituito, cioè a dire l’assicurazione e reintegrazione dell’ordine giuridico violato. In conseguenza, la pretesa punitiva dello Stato derivante da reato deve farsi valere da un organo pubblico.

Ma, una volta proclamalo che l’azione penale è pubblica, non aggiungerei nell’articolo 101 il periodo, che in esso si legge: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare».

Anzitutto non è sempre il pubblico ministero che esercita l’azione penale, ché, per i reati di competenza del pretore, è questo, non il pubblico ministero, che la esercita.

L’articolo 74 del Codice di procedura penale stabilisce appunto che «il pubblico ministero, o il pretore, per i reati di sua competenza, inizia ed esercita l’azione penale».

Non si comprende, poi, perché si parla di obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale e non anche di iniziarla, usandosi così una dizione diversa da quella usata nel ricordato articolo 74 del codice penale.

So bene che una delle conseguenze del principio della ufficialità del procedimento penale è appunto questa, che il procedimento deve promuoversi di ufficio, cioè per iniziativa del pubblico ministero, senza bisogno di eccitamenti esterni, ma questa regola ha le sue eccezioni. In alcuni casi il Pubblico Ministero, che normalmente deve procedere di ufficio, non può promuovere l’azione penale se non in seguito a ricezione della querela. E, mentre, di regola, egli ha il potere e il dovere di proseguire incontrastatamente la azione diretta ad ottenere una decisione sul merito della imputazione, deve cedere, invece, alla volontà privata, quando il querelante, col consenso dell’imputato, faccia remissione o con lui si riconcilii. In altri casi il pubblico ministero non può iniziare l’azione penale, se il privato offeso non abbia presentata la sua istanza. Vi sono, infatti, reati, normalmente perseguibili di ufficio, che, quando sono stati commessi all’estero, non possono essere puniti in Italia senza la «istanza» della persona offesa (articoli 9, 130 Codice penale, e 6 Codice di procedura penale). Vi sono, infine, casi (articoli 8, 9, 10, 11, 127, 133 Codice penale), in cui la perseguibilità di un reato dipende dalla «richiesta» di procedimento del Ministro della Giustizia o di altra autorità, se così dispongono leggi speciali.

Senonché, quando vi sia la querela, la istanza e la richiesta, l’azione penale è sempre iniziata dal pubblico ministero o, per i reati di sua competenza, dal pretore.

Dire, quindi, che al pubblico ministero spetta di esercitare l’azione penale senza dire a chi spetta di iniziarla sembrami non giuridicamente preciso. È al pubblico ministero che è riservato non solo l’esercizio, ma anche il promovimento dell’azione penale. Occorre, quindi, dichiararlo, se si vogliono evitare errori od equivoci.

Anche impreciso è il concetto espresso con le frase: «il pubblico ministero non può mai sospendere o ritardare l’azione penale». Indubbiamente la regola è che il procedimento penale, una volta iniziato, non può essere revocato, sospeso o modificato o soppresso; ma anche tale regola della irretrattabilità del processo penale ha le sue eccezioni, quali il diritto di remissione, che appartiene al querelante, quando il querelato non si opponga, il diritto di oblazione volontaria, spettante in determinati casi all’imputato (art. 162 codice penale) e la podestà di amnistia, con la quale lo Stato rinuncia alla pretesa punitiva. È, quindi, non perfettamente esatto affermare che il pubblico ministero non può «mai» sospendere o ritardare (perché non anche far cessare?) l’azione penale.

È perciò che io ho proposto la soppressione dal primo comma dell’articolo 101 del periodo innanzi ricordato, riguardante l’esercizio dell’azione penale. Ove qualche cosa in merito si voglia dire, si potrà usare la formula indicata nell’emendamento da me proposto, che suona così: «Il pubblico ministero, o il pretore per i reati di sua competenza, la inizia, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o la istanza, di ufficio e la esercita con le forme stabilite dalla legge. L’esercizio dell’azione penale non può essere ritardato, sospeso o fatto cessare se non nei casi espressamente preveduti dalla legge».

Le udienze. – Delle udienze il testo costituzionale si occupa, come se non vi fossero che le udienze penali. Ma anche nel processo civile le udienze esistono. E, poiché nell’articolo 101 si dettano norme sulla giurisdizione, non mi rendo conto del perché si debba parlare di quella penale e non anche di quella civile. E, poiché le udienze civili non sempre sono pubbliche (tali non sono, ad esempio, quelle tenute dal giudice istruttore), perché così la legge dispone, indipendentemente da ragioni di ordine pubblico o di moralità, io penso che con la norma costituzionale basta proclamare che «le udienze sono pubbliche, salvo che la legge disponga diversamente», eliminandosi il resto della norma.

I provvedimenti giurisdizionali. – Dei provvedimenti giurisdizionali il progetto si occupa, sottolineando: a) la necessità che siano motivati; b) la ricorribilità alla Corte di Cassazione per qualsiasi violazione di legittimità contro le decisioni emanate in secondo grado o non appellabili; c) la irrevocabilità della decisione, una volta diventata res judicata.

Di tali provvedimenti si occupano l’ultimo comma dell’articolo 101 e gli articoli 102, 103 e 104 del progetto.

L’ultimo comma dell’articolo 101 proclama che «tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».

E l’articolo 102 sostanzialmente esprime il concetto che contro le sentenze o le decisioni pronunziate dagli organi giurisdizionali di secondo grado, o non soggette ad appello, è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione per qualsiasi violazione o falsa applicazione di norme giuridiche sostanziali o processuali.

L’articolo 102 è così redatto: «Contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge».

Io penso che debba essere un po’ emendato.

Non è il caso anzitutto di parlare di sentenze ed insieme di decisioni, bastando parlare di decisioni, tale parola abbracciando, nella sua ampiezza, anche le sentenze.

Ritengo, poi, che alle parole «secondo le norme di legge» si debbano sostituire le parole «per violazione di legge». L’articolo 102 potrebbe, quindi, essere così redatto: «Contro le decisioni di ogni giudice ordinario o speciale è concesso il ricorso alla Cassazione per violazione di legge». Indico subito le ragioni dell’emendamento.

Soprattutto in conseguenza dell’ordinamento di larghissima autonomia ed autarchia regionale, adottato dal progetto di Costituzione, l’ordinamento giuridico così decentrato esige, ove si voglia evitarne lo sfaldamento, un organo giurisdizionale centrale unico, di larga autorità e di larghi poteri. Senonché nel progetto si afferma che il ricorso è ammesso «secondo le norme di legge». Ora io penso che, demandandosi alla legge la fissazione dei limiti di ricorribilità, potrebbe la legge bene limitarli, specie nei confronti di alcune maggiori giurisdizioni amministrative, ai casi di incompetenza ed eccesso di potere, casi per cui il diritto al ricorso è sempre esistito, nell’ordinamento italiano, fin dalla legge 31 marzo 1877, n. 3761. Tale limitazione non sarebbe, invece, più possibile, ove costituzionalmente si sancisse il diritto al ricorso per violazione di legge, perché così si darebbe il diritto di ricorrere sia per inosservanza delle garanzie processuali concesse ai cittadini, sia per errata applicazione al caso singolo delle leggi di diritto sostanziale.

Anche l’articolo 104 del progetto sembrami che debba essere emendato.

Dispone detta norma che «le sentenze non più soggette a impugnazione di qualsiasi specie non possono essere annullate o modificate neppure per atto legislativo, salvo i casi di legge penale abrogativa o di amnistia, grazia o indulto».

A parte ora il rilievo, sul quale richiamo l’attenzione dell’Assemblea, che non mi sembra che si possa dire che l’amnistia impropria, la grazia e l’indulto annullino o modifichino una sentenza, è certo che l’articolo 104 non tiene conto dell’istituto della revocazione, che è disciplinato sia dal codice di rito civile che da quello di rito penale. Penso, pertanto, che dopo le parole «non possono» si debbano aggiungere le altre «salvo che la legge disponga diversamente».

Io concludo, affermando che una retta amministrazione della giustizia costituisce il punto di partenza per la completa restaurazione della libertà e della democrazia in Italia. Ma una retta amministrazione della giustizia non si realizzerà, se non si darà vita ad un ordinamento, che, mentre garantisca la scelta di magistrati meritevoli, sotto ogni rispetto, di esercitare funzioni tanto elevate ed ardue, elimini ad un tempo ogni possibilità di influenze esterne. La Costituzione detti con chiarezza cristallina norme, che assicurino la libertà e la imparzialità del magistrato. Assicurerà così insieme la difesa più salda delle pubbliche libertà e dello stesso ordinamento dello Stato. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cappi. Ne ha facoltà.

CAPPI. Onorevoli colleghi, intervento breve, breve sul serio; benché il tema sia, o dovrebbe essere, appassionante, in quanto tocca un problema che riguarda insieme questioni di alto valore filosofico e morale ed interessi e diritti concreti di tutti i cittadini.

Mi occuperò di un punto solo; e voi consentirete che io prenda le mosse da uno studio pubblicato sopra una rivista da uno scrittore, figlio di un alto magistrato della Suprema Corte ed egli stesso valoroso giurista; studio acuto e profondo. Da esso prenderò le mosse, sia per il suo pregio intrinseco, sia per riguardo, che ben merita, a quella rivista, La Civiltà Cattolica, la quale, fra l’indifferenza quasi generale del pubblico, si è sempre occupata con non superficiale interessamento, con vigile cura, con sincero spirito di collaborazione, dei nostri lavori di costituenti.

Il punto di cui mi occupo è l’articolo 97, il cosiddetto «autogoverno della Magistratura».

L’autore di cui ho fatto parola è fervido sostenitore dell’assoluto autogoverno della Magistratura; ed in questo io mi permetto di dissentire da lui. Ma il suo studio, che riguarda il più ampio tema dell’indipendenza giudiziaria, ha il merito di sostenere le sue tesi non con argomenti vaghi o superficiali, bensì con rigore scientifico; con una intelaiatura logica chiara e forte.

Egli premette due considerazioni di notevole importanza.

Cerca anzitutto di individuare il punto di convergenza ed il punto di distacco fra la funzione legislativa e la funzione giudiziaria; e si esprime incisivamente così:

«In uno stabilito regime democratico, il settore proprio in cui la politica si trasforma in diritto è quello della legislazione».

Esatto. È notorio che la legge, una volta promulgata, si stacca, per così dire, dalla sua matrice, dal potere legislativo, e vive di vita autonoma. E la interpretazione, l’attuazione della legge spettano o all’esecutivo o – in materia di diritti – al potere giudiziario.

A questa prima considerazione l’autore ne fa seguire altra, la quale risponde al dubbio, sollevato qui dentro, che l’indipendenza assoluta del potere giudiziario possa costituire un elemento di conservazione, un pericolo per le libertà democratiche. L’autore – ed è convincente – ci persuade del contrario; egli, anzi, dice che è una esigenza democratica l’evitare che i poteri dello Stato straripino dai loro ambito, che l’esecutivo ed il legislativo non stiano nei confini loro assegnati, e fa, quindi, queste osservazioni: «Garantire la conservazione e l’elettiva attuazione dell’ordinamento statuale è qualcosa che non ha a che vedere con il cosiddetto conservatorismo politico, con un indirizzo o partito politico che sia elettivamente retrivo c reazionario. Conservare la democrazia non può certamente essere attività antidemocratica». Anche qui egli – a mio avviso – ha ragione.

L’autore affronta poi il nodo del problema e sostiene che l’indipendenza della Magistratura deve avere un triplice carattere: deve essere una indipendenza costituzionale, una indipendenza istituzionale ed una indipendenza funzionale. Indubbiamente questa articolazione, questa tricotomia ha un serio fondamento scientifico.

L’autore afferma – e qui dissento da lui – che il nostro progetto di Costituzione, di cui egli fa una critica serrata, violerebbe, non garantirebbe queste tre indipendenze o questi tre aspetti dell’indipendenza del potere giudiziario. Dice che, «per assicurare l’indipendenza costituzionale occorre che la Costituzione qualifichi espressamente come sovrana la funzione giurisdizionale, sovrano il potere che la esercita, sovrano l’ordine o complesso degli organi cui la funzione stessa è istituzionalmente demandata.

Inoltre: «che effettivamente non vi sia nessun potere costituzionalmente superiore a quello giudiziario».

Orbene, pare a me che questa garanzia il nostro progetto di Costituzione dia. A mio avviso, è più che altro questione di nomi. Non si è parlato nella Costituzione espressamente di potere sovrano, ma si dice però che «la funzione giudiziaria è espressione della sovranità della Repubblica», si dice che «l’ordine giudiziario è un ordine autonomo ed indipendente». E ancora qualche cosa di più e di decisivo: vi è nella nostra Costituzione un potere che sia costituzionalmente superiore a quello giudiziario? Non vi è. Quindi mi sembra che l’indipendenza costituzionale del potere giudiziario sia nella nostra Costituzione garantita, anche se non si usa la parola «potere», come non si è parlato di potere legislativo e di potere esecutivo; ma di «Parlamento» e «Governo».

Quanto alla indipendenza istituzionale della Magistratura, l’autore ritiene che «l’istituzione e la competenza dei singoli organi giurisdizionali, la carriera dei magistrati e le forme del procedimento devono essere fissate per legge e sottratte, comunque, al potere esecutivo». È vero. Noi faremo perciò una legge sull’ordinamento giudiziario, ed avendo una sua legge – il potere giudiziario non è subordinato, non è alla mercé del potere esecutivo.

Secondo punto: «che nell’esercizio concreto delle sue funzioni il giudice non dipenda che dalla legge, interpretata secondo la sua coscienza». Noi abbiamo inserito testualmente questo principio nel progetto di Costituzione.

Terzo: «Che nell’ambito di tale ordine giudiziario vi sia differenza di funzioni e non di gradi gerarchici». Anche questo è detto espressamente nel progetto.

Cosicché, se noi badiamo alla sostanza più che alla forma, questi primi due aspetti della indipendenza sono garantiti.

Ma il punto cruciale – il vero e proprio punctum dolens et pruriens – è quello dell’indipendenza funzionale. L’autore sostiene che essa importa essenzialmente – e ci siamo – l’autogoverno della Magistratura, la libera disponibilità per la stessa di tutti i mezzi necessari all’esercizio della sua funzione.

Ora, francamente, sembra a me che qui l’autore sia caduto in un equivoco. Infatti, egli che era un ragionatore, ed un logico così sottile, qui sembra a me che, più che dimostrare, si limiti ad affermare, dando per indiscutibile che l’indipendenza funzionale importi l’autogoverno della Magistratura. A me questo rapporto di conseguenzialità non riesce chiaro. A mio avviso, qui si confondono due cose: la funzione giurisdizionale e l’ordine giudiziario. L’indipendenza della prima, cioè della funzione giurisdizionale, non postula, non implica di necessità anche l’indipendenza assoluta dell’ordine giudiziario. La funzione giudiziaria, il potere giurisdizionale, consiste forse – detto in parole povere – nella nomina, nei trasferimenti, nelle promozioni dei magistrati, che sono la materia di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura? No; l’essenza, il compito della funzione giudiziaria consiste nel dire il diritto, in una parola: nel pronunciare le sentenze.

Ora, nel nostro progetto di Costituzione vi è forse qualcosa che possa far dubitare che in questo compito essenziale, specifico, del potere giurisdizionale vi possano essere ingerenze di altri poteri, dell’esecutivo o del legislativo? Per niente affatto. Quindi, ritengo che qui l’autore sia incorso in confusione di concetti, e che, pertanto, anche nella formazione, quale noi abbiamo progettato, del Consiglio Superiore della Magistratura, sia rispettata l’indipendenza funzionale del potere giudiziario.

La realtà è un’altra. Non vi è, secondo me, una ragione scientifica, una ragione logica che imponga l’autogoverno assoluto della Magistratura a garanzia della indipendenza funzionale del potere giudiziario. Vi è qualcosa di diverso, vi è una preoccupazione, nobile ma eccessiva, del pericolo di ingerenze, di influenze che i membri elettivi del Consiglio Superiore possano esercitare sui giudici. Può darsi che questo pericolo vi sia. Però, varie osservazioni concorrono ad attenuare questa preoccupazione. Nel passato, in Italia, il Consiglio Superiore della Magistratura, con le funzioni e coi compiti che noi gli abbiamo assegnato, non esisteva. La sorte dei giudici dipendeva dal potere esecutivo, attraverso il Ministero della giustizia. Eppure, senza essere troppo ottimisti, non mi pare che la Magistratura italiana, a parte l’ultimo ventennio, sia stata in passato una Magistratura non indipendente, corrotta, serva del potere esecutivo. Vi saranno stati episodi singoli, ma non tali da legittimare un giudizio così pessimista.

Osservo ancora che, per quanto mi risulta, in nessun altro Paese, salvo la Francia nella sua recente Costituzione ma in una misura più attenuata della nostra, in nessun altro Paese vi è questo autogoverno della Magistratura. Inconvenienti si sono verificati nel ventennio fascista, ma allora non vi era un regime democratico, allora vi era una degenerazione, uno stato patologico del potere esecutivo.

Ora, senza avere l’ottimismo di Monsieur Candide, è sperabile, e dobbiamo tutti cercare, che in un regime libero, democratico, col controllo dell’Assemblea, col controllo dell’opinione pubblica, col controllo della stampa, ciascun potere – specialmente l’esecutivo – resti nel suo alveo. Pare a me che in questo punto la nostra Costituzione ha un po’ un carattere reattivo, come è destino di tutte le Costituzioni che sono fatte immediatamente dopo il rovesciamento di un ordine politico e giuridico. Si ha, cioè, guardando al recente passato, una diffidenza eccessiva verso l’esecutivo.

È poi vero che l’autogoverno della Magistratura, cioè il Consiglio Superiore composto di soli magistrati, garantisca meglio la indipendenza dei magistrati? Non ci sarà forse se non un cambiamento di forma? Le simpatie, le antipatie, i personalismi, le parzialità; e, di conseguenza, le adulazioni, le raccomandazioni, le chiesuole, i clans, non sussisteranno? È sintomatico che, nelle loro ultime manifestazioni, molti magistrati si siano dichiarati favorevoli alla composizione mista del Consiglio.

Io penso che il giudice sia meglio garantito da un Consiglio come noi lo abbiamo costituito, perché, attraverso i membri elettivi del Consiglio Superiore, si inserisce in esso il controllo del Parlamento, della stampa, dell’opinione pubblica; controllo che non si avrebbe, o si avrebbe meno largo, nel campo chiuso di un Consiglio costituito dì soli magistrati.

Vi è inoltre una considerazione più alta, per quanto io non intenda dilungarmi sul problema della divisione dei poteri. Ho la sensazione che da Montesquieu in poi qualche cosa sia mutato ed oggi prevalga il concetto della unità dello Stato, pur con molteplicità di organi e di funzioni.

Si potrebbe in questo campo teorico dire molto, ma io, ripeto, non ho specifica competenza in questa materia e mi limiterò a fare poche osservazioni pratiche. Noi, proprio in questi giorni, abbiamo deplorato certi contrasti, certi reciproci sospetti e diffidenze che si sono manifestati fra gli organi della Magistratura e gli organi politici.

Ora, questo fatto (che indubbiamente è grave ed increscioso) credete voi che non si aggraverà, se noi stacchiamo completamente il potere giudiziario dagli altri poteri? Il potere giudiziario sarà condotto ad irrigidirsi; gli urti saranno più facili; non ci saranno quei contatti che permettono una spiegazione ed una distensione; quindi, mi pare sia utile questo collegamento fra il giudiziario e il legislativo. E c’è anche una ragione più sostanziale: è stato detto qui da qualche collega che il giudice non ha bisogno di esser in contatto con la coscienza sociale e giuridica del Paese, in un dato momento storico, perché non ha che un compito tecnico, quello di applicare la legge. La legge è quella che è: il giudice non ha nessuno ambito in cui spaziare.

Questo non è vero. Se mi occupassi della Corte costituzionale, direi che le materie che saranno di sua competenza hanno carattere più politico che giuridico. Ma io mi occupo della Magistratura e osservo che necessariamente vi sono dei concetti che sono dalla legge lasciati alla discrezionalità del giudice. Vi cito il concetto di «buon costume», di «ordine pubblico», di «equità»; in materia penale, di «pudore» e altri concetti che sono necessariamente a contorni vaghi nei codici e per l’interpretazione e l’applicazione giusta dei quali è opportuno che il giudice sia in un certo contatto con quella che è la coscienza giuridica e morale del Paese, coscienza che, in regime democratico, si manifesta attraverso le Assemblee elettive. È vero che il Consiglio Superiore non ha compiti di ermeneutica; tuttavia, il contatto fra magistrati e laici può essere fecondo.

Pertanto, credo che per le ragioni che ho modestamente esposto, la nostra Costituzione non meriti il rimprovero di aver violato o di non avere con sufficiente energia tutelato l’indipendenza della Magistratura. Ripeto che lo studio al quale ho accennato, il quale pure ha tanto pregio e meriterebbe di essere preso in considerazione per vari emendamenti che suggerisce, poggia circa l’autogoverno, sulla confusione tra autonomia della funzione giurisdizionale e autonomia dell’ordine giudiziario.

Si confonde il potere giudiziario con gli organi, con le persone che devono esercitare questo potere.

Ora consentitemi, egregi colleghi, poiché credo di aver mantenuto fede alla promessa di brevità, che io concluda con qualche osservazione un po’ extra-vagante. Noi stiamo lavorando per dare alla funzione giudiziaria degli strumenti, anzi un arsenale di strumenti quanto più perfetti possibile. Ma io temo che noi faremo opera vana, se non cercheremo di lavorare anche in un’altra direzione. Opera molto più difficile, di lunga lena; quella di restaurare nel nostro Paese il senso della giustizia, l’impero della ragione sulla passione, del diritto sulla forza.

A cominciare dall’antico detto che justitia regnorum fundamentum, si può dire che la storia dell’umanità è tutta una invocazione, tutto un anelito verso la giustizia.

Vi furono, purtroppo, delusioni. Quid est veritas? domandava il Procuratore romano nel Pretorio di Gerusalemme. E forse anche noi dovremmo dire: justitia quid est?

Il Manzoni mette sulle labbra di Adelchi morente quelle sconsolate e disperate parole, che hanno tanta analogia con l’epoca nostra, con questa nostra epoca di corrucci, di sangue, di rappresaglie e di controrappresaglie.

Di Adelchi morente: «Una feroce forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto. La man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue, e ormai la terra altra messe non dà».

Eppure non dobbiamo disperare. È tormento e gloria insieme dello spirito umano questa inestinguibile speranza, questo anelito costante verso una sempre maggiore giustizia. È una cosa confortante, perché dimostra che, nonostante le tragiche delusioni, nel cuore dell’uomo è sempre viva quella divina cosa che empiva di fierezza e di ammirazione Emanuele Kant, come il cielo stellato: la coscienza morale. (Approvazioni). Oggi l’Italia è debitrice del mondo: è debitrice per tutto ciò che riguarda la nostra vita materiale; ma essa, come altre volte della storia, potrà diventare creditrice del mondo, se al mondo potremo dare il dono incomparabile del trionfo della giustizia e del bene sulle forze del male; su quelle forze che, in un suo studio recente, Benedetto Croce chiamava l’Anticristo che è in noi, quell’Anticristo che non ha un nome, non è un uomo, un popolo, un sistema economico o politico; ma il rigurgito delle forze oscure che vorrebbero far regredire l’umanità verso la ferina barbarie.

Noi italiani non vogliamo regredire; noi vogliamo, nella luce della giustizia, avanzare. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, anch’io mi riprometto di essere breve, brevissimo; e non è tanto questo omaggio alla concettosità verbale, quanto riconoscimento che ormai il campo, in due o tre giorni, è stato ampiamente mietuto, sì che non mi resta che da raspolare le poche spighe rimaste.

Vengo subito, perciò, ad illustrare gli emendamenti proposti a proposito del Titolo IV. Ne ho presentato uno che si riferisce alla prima parte dell’articolo 94, concernente, in particolare, la espressione: «La funzione giurisdizionale è esercitata nel nome del popolo». Io ho proposto la seguente variante: «…è esercitata in nome della Repubblica». A somiglianza infatti, di quanto si pratica nella vicina Francia, le sentenze dovrebbero darsi nel nome della Repubblica. Che cosa è la Repubblica se non il popolo italiano giuridicamente organizzato sotto l’aspetto istituzionale? Mi pare quindi che questa dizione si adegui meglio al nostro nuovo volto istituzionale.

Per quanto riguarda poi il terzo comma dell’articolo 94, io ho rilevato le osservazioni, che mi sembrano fondate, fatte ieri dal collega onorevole Ruggiero. A me pare tuttavia che il terzo comma debba comunque essere riformato quanto meno per il riferimento che fa alle associazioni segrete. Poiché infatti c’è già, nell’articolo 13, da noi approvato, tale proibizione, è evidente che le associazioni segrete sono già un illecito costituzionale, ed appare quanto meno superfluo interdirne l’appartenenza ai magistrati.

Per quanto poi riguarda l’articolo 95, io penso che la terminologia non tecnica dei passati legislatori, la cui difettosità la dottrina aveva già avvertito, abbia indotto alla repetitio d’un errore i compilatori del progetto. Ho pertanto proposto un emendamento al quinto comma dell’articolo 95. In tale comma infatti si dice: «Non possono essere istituiti giudici speciali se non per legge approvata nel modo sopra indicato. In nessun caso possono istituirsi giudici speciali in materia penale».

Io devo in proposito ricordare a me stesso la distinzione corrente e corretta che si fa in dottrina sul giudice (il diritto non si preoccupa di insegnare, jus est quod jussurn est, ma soltanto di comandare), il quale, nella legislazione abrogata, era chiamato speciale, quando era sì non solo speciale, ma soprattutto «straordinario», perché era un’eccezione stridente contro la normalità giuridica processuale. Era il caso del famigerato tribunale speciale per la difesa dello Stato. Ora, il giudice si distingue in ordinario e straordinario, in comune e speciale.

Lo spirito della legislazione, la intenzione dei compilatori del progetto ha voluto evidentemente bandire dalla Carta costituzionale il giudice penale «straordinario», come possibile bieco strumento d’una più bieca tirannide, ma non penso che si sia voluto mettere scientemente contro quella che è l’aspirazione della dottrina processuale: la specializzazione del giudice penale. E questa improprietà terminologica evidentemente deve essere corretta e si deve perciò dire rectius che «in nessun caso possono istituirsi giudici straordinari in materia penale», altrimenti la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe, per esempio, l’abolizione del tribunale dei minorenni, che è un giudice speciale e ordinario. (Commenti). Sì, è una sezione speciale della Magistratura ordinaria, non c’è dubbio!

Una voce al centro. Più elementi estranei.

BELLAVISTA. Ma, sempre, una sezione speciale del magistrato ordinario.

Per quanto riguarda i tribunali militari, io debbo aderire agli emendamenti proposti al riguardo e all’illustrazione teorica che ha svolto così egregiamente ieri il collega onorevole Bettiol. Il principio è il seguente: se è meta, scopo, ansia della dottrina processuale, raggiungere la specializzazione del giudice, non c’è dubbio che il giudice penale militare è per eccellenza un giudice specializzato, è quello che è posto, per la natura delle sue funzioni, per la sua appartenenza alla milizia, in quelle condizioni ideali per poter svolgere magnificamente e meglio di ogni altro quell’atto constante di intelligenza e di volontà che è il giudizio. Non dovrebbe limitarsi soltanto e straordinariamente al tempo di guerra, dunque, ma dovrebbe ammettersi la giurisdizione militare penale anche nel tempo di pace.

E veniamo alla vexata quaestio, alle Corti di assise. Non ho inteso nessuna voce favorevole alla giuria; e nemmeno l’onorevole Carboni ieri ha potuto negare la lunga serie di critiche che ad essa da tutti i banchi, e specialmente dagli avvocati, sono state rivolte. Io debbo ascrivere ad onore degli avvocati, che spessissimo hanno mietuto allori facili avanti ai giurati, questo leale e disinteressato verdetto di condanna nei confronti della giuria. Io ricordo un bravo giurista e bravissimo avvocato, il quale, con le giurie romagnole, nei famosi tempi dei conflitti fra socialisti e repubblicani in Romagna, arrivò a far contrabbandare l’istituto della «legittima difesa reciproca», nel quale invece di un offensore ingiusto, se ne trovavano inopinatamente due, con quanta tranquillità per i cultori del diritto, lascio a voi d’immaginare.

Non c’è dubbio che le ripetute ed ascoltate critiche vadano condivise. Io mi sforzerò di riportare queste critiche al loro fondamento dogmatico. E qual è? Ma se noi siamo favorevoli al principio della specializzazione del giudice, non possiamo non essere contrari alla giuria, perché il giurato è il giudice qualunque (senza nessun riferimento politico a quello di Giannini), e cioè il giudice più impreparato che esista, non soltanto per quella logica mancanza di conoscenza delle scienze ausiliarie della giustizia penale, di cui ha parlato così egregiamente ieri il collega Crispo, ma anche perché è il giudice tipicamente atecnico, nella materia penale e parapenale. Il principio della specializzazione del giudice importa un continuo travaglio, un lavoro di cesello che va perfezionato continuamente, e che non può fare colui che ha la sola licenza elementare, complicandosi poi questo semplicismo giudiziario con la immissione – che va criticata! – e con l’intervento dell’elemento femminile. Mi consentano le onorevoli colleghe. Ma chi è stato qualche volta in commissione di esame di Stato con delle egregie professoresse sa come sia tipicamente femminile il giudizio dato da loro: gli idola mentis baconiani formano generalmente una costellazione nell’animo delle esaminatrici! È addirittura un’esperienza dolorosa! Se può anche ammettersi per quel che riguarda l’istruzione pubblica, non deve assolutamente ammettersi questa possibilità dannosa per l’amministrazione della giustizia!

E veniamo all’articolo 97. Io ho ascoltato, con l’attenzione che meritava, quanto ha detto l’onorevole Cappi, e speravo che riuscisse a convincermi del contrario, quando ha citato l’articolo di Lener, che noi conoscevamo ed apprezziamo per quella simpatia e per quella stima che questo dotto padre gesuita merita. Ma – mi consenta e mi perdoni – non c’è riuscito. Anzi, la sottolineata distinzione fra quella che è la funzione, la fisiologia del potere giudiziario e l’organica di esso, ha confermato quel nesso di conseguenzialità per cui, se noi non ci preveniamo nell’organica del potere, esponiamo la fisiologia di esso a diventare patologica. Siamo tutti d’accordo che debba essere un potere autonomo, ma non basta fare questa dichiarazione di principio se, scendendo al particolare, in virtù, onorevole Cappi, di quell’«anticristo» che giustamente ha richiamato, non svolgiamo tutta un’opera di profilassi e di prevenzione perché il funzionamento, cioè il potere che agisce, il potere che si muove, la dinamica di esso non venga assicurata. E dove? Nella statica, in quelle che sono le sue precause, in quella che è la sua organica. Se noi consentiamo che nell’hortus conclusus (e deve rimanere tale) si intromettano persone che all’hortus non appartengono, noi apriremo uno spiraglio, sia pure un piccolissimo spiraglio, all’anticristo, il quale farà grande la breccia. Io ho inteso quanto Cappi ha detto sulla divisione dei poteri, e anche ieri l’onorevole Bettiol ha parlato di questo principio. Siccome essi sono persone superiori ad ogni sospetto, e fieramente devoti alla causa della libertà, io posso sollecitare un ricordo, absit iniuria verbis. lo mi ricordo di aver sentito o letto qualcosa sul famoso principio della meccanicità della divisione dei poteri da un uomo che non stimo, agli inizi dell’infausto ventennio. Io ricordo anche di avere letto le dispense del senatore Pietro Chimenti, che preparava l’aggressione giurispubblicistica contro Montesquieu e la santa divisione dei poteri e che cominciava a prendere le mosse da questo: che non deve intendersi la divisione dei poteri in senso meccanico, che il potere è uno, che ci vuole un’osmosi ed un’endosmosi tra gli aspetti di questo potere statuale. Poi l’«anticristo» ha fatto il resto, la critica di Montesquieu è sboccata nel totalitarismo, la libertà si spense.

Noi dobbiamo cercare di fare tutto il possibile per premunirci dal bis in idem. Non c’è altra via che cercare di separarli questi poteri; cercare di sottrarli, il legislativo e il giudiziario, alla influenza dell’esecutivo, perché, purtroppo, fra i tre, chi è quello che ha più ampia zona di peccato originale in sé? È l’esecutivo, ché il comandare è bello ed ha maniere facili, ha maniere straordinariamente insinuose per arrivare, con tutte le armi alla corruzione, a fomentare l’ambizione degli uomini e tutto quello che l’anticristo porta nella fragile materia umana.

CAPPI. I membri sono eletti dall’Assemblea legislativa.

BELLAVISTA. Giustissimo. Chi però vorrà sostenermi che non ci sia nessuna perniciosa influenza dell’esecutivo sul legislativo, specialmente con la partitocrazia? Questo, onorevole Cappi, non me lo può sostenere, perché è contrario alla realtà delle cose. Indubbiamente l’elezione verrebbe ad essere influenzata del potere esecutivo. Queste influenze, che diventano corruzioni, noi le dobbiamo evitare. Ecco perché sono contrario anche a quella partecipazione simbolica cui accennava, in linea transattiva, riconoscendo l’esattezza delle ragioni avverse, ieri l’onorevole Dominedò. Lasciamo l’hortus conclusus. Non mi si dica che così l’ordine giudiziario si estranea dalla vita. No. Io ricordo le parole di un grande maestro, il Massari: «Il magistrato è anzitutto psiche». Non è una macchina; non è un automa; torna a casa, vive la vita del popolo: ha innegabilmente delle tendenze conservatrici; ha indubbiamente una tendenza conservatrice.

Ma questo sapete cosa è? È una grande garanzia di ordine e di libertà.

Guai se dovessimo consentire o indulgere verso quelle deformazioni filosofiche che vogliono fare della interpretazione un atto creativo. No. Il magistrato è naturalmente l’interprete dell’ordine giuridico; l’ordine giuridico ha qualche cosa di statico in se stesso; aspetta le propulsioni che vengono da fuori per trasformarsi, per modificarsi. È questa l’attività politica del legislativo che va a correggere, a modificare, che costituisce il divenire del diritto positivo. Ma fino a che non è modificato, il diritto resta qual è. E il magistrato monta la guardia perché resti – dura lex sed lex – quello che è. In questo senso è conservatore, e che sia tale rappresenta una grandiosa garanzia. Voglio però, pur riconoscendo che la materia non è propriamente pertinente alla discussione, accennare a quello che per i molti colleghi che praticano la professione penale appare un inconveniente cui si debba assolutamente porre rimedio. Noi abbiamo la possibilità che magistrati dopo vent’anni di funzioni alla requirente diventino, ad un certo punto, organi della Magistratura giudicante. Costoro molto spesso portano nella nuova funzione la deformazione mentale dell’accusatore. Chi ha pratica del processo penale non può negare questa constatata ed amara verità: invece dell’abito dell’imparzialità, quando dalla Magistratura requirente si passa alla giudicante, si portano tutte le deformazioni dell’accusatore. Questo dovrebbe evitarsi, perché, se il rapporto processuale deve essere garanzia per quello che ne è il perno centrale, cioè il giudice, questi deve essere veramente in condizioni di poter funzionare senza prevenzioni e deformazioni né in favor dell’accusa né in favor della difesa.

Altro argomento che voglio affrontare (e poi vi sollevo subito del mio intervento) è questo. Io sottoscrivo l’ordine del giorno Villabruna per quanto riguarda le Cassazioni regionali, le vecchie Cassazioni regionali. Non si opponga, il collega Persico, dicendo che si è in contraddizione quando si è stati antiregionalisti, come Villabruna, e si vuole poi ritornare alle Cassazioni regionali, perché qui veramente non siamo nel tema delle autonomie regionali, ma siamo in un tema un po’ più pedestre, quello del decentramento dell’amministrazione della giustizia. Io non voglio essere scortese o fare allusioni non degne di quest’Aula, però posso ripetere l’accennato richiamo dell’onorevole Dominedò al conflitto fra giurisprudenza dei concetti e quella degli interessi, quando sento molti avvocati, che esercitano la professione a Roma, insorgere contro un ritorno a quella nobilissima antica tradizione, che diede un contributo al progresso della giurisprudenza italiana, niente affatto disprezzabile. Io mi posso rendere conto che molti magistrati che abbiano la casa a Roma vogliano rimanere qui.

PERSICO. Volete la Cassazione a domicilio!…

BELLAVISTA. Ha detto proprio una grandiosa verità. Disse Jehring che «non c’è peggiore ingiustizia della tardiva giustizia»; non fosse altro che per questo, quando si attende lungamente per avere resa giustizia, qui a Roma, che accentra tutto, dovrebbero ripristinarsi le Cassazioni regionali.

Io, anzi, vorrei perfezionare il raffronto: noi la si vuole a domicilio la giustizia: l’onorevole Persico la vuole addirittura alla sua dimora, e questo è ancora peggiore! (Ilarità).

Noi possiamo con sicura e tranquilla coscienza rispondere alle obiezioni che sono state fatte qui contro il decentramento delle Cassazioni. Si è parlato dell’unità della giurisprudenza, ma non è mica questo un argomento che si possa confortare coi testi. È di quegli argomenti verbali che inducono spesso il giudice inglese a dire: «Avvocato, mi faccia leggere questa sentenza», quando essa è soltanto annunciata e la carta non si accompagna all’affermazione.

Purtroppo, e forse senza purtroppo, non c’è stata questa unità giurisprudenziale o, quando c’è stata una unicità giurisprudenziale, c’è stata quella che i romani chiamavano l’ignava ratio, una pigrizia di adeguamento al precedente ed il precedente ha avuto forza di legge per il susseguente.

E se così non deve essere, perché il principio basilare è che valga l’autorità della ragione e non la ragiona dell’autorità, il caso va esaminato con conforto dei precedenti, al lume dei precedenti, ma esaminato ogni volta funditus, come se fosse un caso nuovo.

Vorrei citare gli strani contrasti fra la giurisprudenza del giorno 15 e la giurisprudenza del giorno 16. Solo che a volte cambi un consigliere, cambia la giurisprudenza. Del resto, giustamente, gli onorevoli Crispo e Villabruna hanno detto: «Ammesso e concesso che esista questa unicità della giurisprudenza, è poi cosa veramente utile, è veramente utile, pur cui si debba adesso affidare il progresso del diritto?». Non lo credo affatto.

Aspetto che lo dimostri l’onorevole Persico. Cosa c’è di contrario? C’è che si obbedisce a quello che potrebbe farci entrare nel principio della concentrazione processuale. Questo va inteso non soltanto nella fase del processo, che è costituita dal procedimento di primo o secondo grado, ma anche del processo nella sua interezza. Fino a quando il giudicato viene a cristallizzare la dichiarazione del giudice, perché sfuggire a questo principio di concentrazione che è così profondamente inteso dal processo? Perché, in sostanza, aspettare tanto tempo perché si cristallizzi il giudicato? Non fosse altro per questa ragione tecnica, spaziale e cronologica, bisogna ritornare alle nostre gloriose e vecchie Corti e alle nostre vecchie e gloriose tradizioni.

E conchiudo, onorevoli colleghi. Si è detto e si è ripetuto che i magistrati meritano la fiducia della Nazione. Hanno fatto bene anche sotto la dittatura. Di questo posso darne una personale testimonianza; anche sotto il famoso ventennio, come Vittorio Emanuele Orlando ha ricordato a Firenze l’altro giorno, la toga si mantenne nella grande maggioranza dei casi dignitosa e fiera, e fu forse l’unica superstite che nei tribunali, attraverso il diritto, che è ottima trincea, poté sparare le ultime cartucce contro la tirannia.

GASPAROTTO. Soprattutto gli avvocati.

BELLAVISTA. Anche i magistrati. Ricordo un fatto che ascrivo ad onore della quinta sezione del tribunale di Palermo, presso cui ebbi l’onore di difendere nel 1937. Fu tradotto, appellante dalla Pretura di Ustica, un confinato politico che era nipote del Negus, Isacco Menghestù. Fu denunciato a Roma perché aveva parlato contro il regime; era stato condannato al confino per cinque anni. Tra le prescrizioni accessorie della legge di pubblica sicurezza, articoli 186, 189, il direttore della colonia di confino aveva inserito quella di salutare romanamente. L’abissino si rifiutò. Fu denunciato per contravvenzioni agli obblighi del confino, secondo le norme della legge di pubblica sicurezza. Il pretore, per essersi costui rifiutato di salutare romanamente gli agenti di custodia, gli diede un anno di arresto. Si appellò al tribunale di Palermo. Bene, quel tribunale ebbe il coraggio di dire che il fatto costituiva illecito amministrativo e non penale; e lo mandò assolto.

Mi piace ora ricordare quei giudici, che anche sotto le minacce e le persecuzioni, riaffermarono quelle doti di indipendenza, che sono la caratteristica di tutti coloro che indossano la toga. Garantiamo i magistrati, e da loro una sola cosa dobbiamo augurarci: che possano mantener fede alla invocazione di Cicerone: avere soltanto una obbedienza, essere schiavi di una sola cosa, maestosa, augusta, che si foggia in questa Aula: la Legge. Servi legum esse debemus, ut liberi esse possimus. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, non credo che, arrivati a questo punto, si possano più fare discorsi di fondo sul problema della Magistratura. Già quindici oratori hanno detto tutto quello che era possibile: ed allora io penso di seguire il consiglio dato dall’illustre Presidente, cioè dire soltanto le cose necessarie per esprimere il mio pensiero su problemi sui quali ho a lungo meditato in più di quarantacinque anni di esercizio professionale.

Svolgerò quindi uno per uno i vari emendamenti da me presentati.

Comincio dal Titolo IV: La Magistratura.

A me pare profondamente errata questa dicitura, perché «Magistratura» non vuol dire altro che una congregazione di uomini, i quali si distinguono per alcune funzioni e, direi, anche per una loro veste esteriore: la toga e il tocco.

La Magistratura è composta di organi diversi, non di organi unitari, ha sfere di competenza diverse, attribuzioni diverse.

Quindi, noi dobbiamo arrivare ad un’altra formula più chiara e più precisa. Né si dica, come la relazione del Presidente Ruini, che per il potere legislativo abbiamo adoperato la parola «Parlamento» e per il potere esecutivo la parola «Governo»; perché Parlamento e Governo sono, sì, due organi complessi, ma sono organi unitari.

Invece di «Magistratura» potremmo adoperare due diverse espressioni assai più esatte: «Potere giudiziario», oppure «Ordine giudiziario».

L’espressione «Ordine giudiziario» ricorda troppo lo Statuto albertino e ricorda le ragioni per cui quello Statuto preferì parlare di «Ordine giudiziario». La giustizia si amministrava in nome del re; l’ordine giudiziario era l’esecutore della giustizia reale.

Meglio «Potere giudiziario». Già lo Statuto belga del 1831 intitolava «Du pouvoir judiciaire» il capitolo che corrisponde perfettamente alla materia del nostro titolo. Né ci disturba il ricordo della tripartizione dei poteri di Montesquieu, perché credo che i due secoli trascorsi abbiano rinverdito la portata di tale distinzione. Si sono fatte infinite critiche alla teoria del Montesquieu; ma gli scrittori moderni dimostrano che egli fondamentalmente aveva ragione e che di fatto i poteri dello Stato non vanno distribuiti diversamente.

Il potere giudiziario, secondo me, è forse anche più importante del legislativo e dell’esecutivo, perché assicura a tutti i cittadini la tutela delle loro libertà, la difesa dei loro diritti, la protezione dei loro interessi; è il potere classico, il potere fondamentale, il più antico e il più geloso.

Non soltanto io, ma anche l’onorevole Leone, nella sua relazione, insiste perché si dica «Potere giudiziario»; ed insiste perché, in questo modo, si introduce già nel Titolo il criterio dell’autonomia del potere giudiziario rispetto agli altri poteri statali, perché in questo modo si slega l’organizzazione del potere giudiziario da quella degli altri rami funzionali, in modo che questo potere non sia una forma di burocrazia qualificata, paragonabile alle varie forme burocratiche, ma sia qualche cosa che ha un’essenza sua propria, in quanto amministra quella suprema funzione che è la giustizia, per cui un uomo acquista la facoltà di giudicare e di condannare altri uomini: quasi divina facoltà!

Questa mia idea – che del resto vedo condivisa da alcuni colleghi, i quali hanno fatto identiche proposte, come l’onorevole Romano, l’onorevole Mastino ed altri – vedrete che sarà tanto più chiara in quanto io, in quello che dirò tra breve, cercherò di dimostrarvi, che un vero e proprio «potere giudiziario» è quello al quale bisognerà arrivare, quando vi parlerò dell’elettività dei magistrati minori e delle funzioni giudicanti da dare in misura molto maggiore alla giuria.

Passo subito all’articolo 94, che è veramente un ben congegnato articolo, per la forma drastica con cui è compilato, con una frase, che potrebbe essere iscritta lapidariamente sui palazzi di giustizia: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza». Vorrei proporre un’aggiunta al primo comma di questo articolo. Quando si afferma che «la giustizia è esercitata in nome del popolo», cioè che le sentenze sono intestate in nome del popolo – e si scelse questa forma come preferibile a quella «in nome della legge» – vorrei che si dicesse: «in nome del popolo italiano», perché mi pare giusto che si renda a tutti noto che «in nome del popolo italiano» – di questa comunità millenaria del popolo italiano, che risorge e risorgerà sempre indomita dalle più dure cadute, compresa l’ultima recentemente e ingiustamente subita – è data al giudice la facoltà di emanare le sue sentenze.

Mi pare inutile soffermarmi sul divieto di appartenenza alle associazioni segrete. C’è l’articolo 13, da noi già approvato, e, come l’onorevole Bellavista ha ricordato poco fa, ciò che è reato nei confronti degli altri cittadini, lo è egualmente nei confronti del magistrato, sia che si tratti di peculato, di concussione, o di altro. Se una attività è proibita per tutti, è proibita anche per il magistrato: ciò è lapalissiano.

Voglio invece dirvi qualcosa sulla negata iscrizione ai partiti politici. Si tratta di una mia vecchia idea, e molti colleghi sanno che, durante il periodo clandestino, mi dilettai a scrivere un libro sulla Magistratura, un piccolo libro molto sintetico, in cui sono accennate parecchie nuove idee che speravo i colleghi avrebbero poi sviluppato; ma la cosa non è avvenuta. In tale libro scrivevo: «I magistrati debbono considerare la loro missione come un vero e proprio sacerdozio e conseguentemente non potranno iscriversi ad alcun partito politico, in quanto deve essere evitato, come per la moglie di Cesare, anche il più remoto e lontano sospetto sulla indipendenza ed imparzialità di esercizio della loro funzione». Diceva testé l’onorevole Musotto che l’iscrizione ad un partito non fa sorgere nessun vincolo coattivo e che il giudice iscritto ad un partito rimane sempre libero nel dare le sue sentenze e nel pronunziare i suoi giudicati. D’accordo: nessuno di noi pensa che il giudice iscritto ad un partito si faccia influenzare dal partito al quale appartiene nell’esercizio delle sue altissime e delicate funzioni. Ma noi dobbiamo pensare anche alla impressione che può venir suscitata nel cittadino che chiede giustizia, il vedere che i tre giudici i quali devono decidere della sua causa hanno all’occhiello un certo distintivo di partito politico, mentre il giuspetente non lo ha, o peggio ne ha un altro diverso. Ed allora nasce il dubbio che questo fatto possa profondamente turbare l’andamento della giustizia. Si capisce, amico Musotto, che anche i magistrati appartengono idealmente ad un partito, che votano per un partito e che possono essere anche eletti deputati nelle liste di un partito, come indipendenti. Abbiamo qui un esempio: l’amico Nobile, eletto in una lista di partito senza appartenere a quel partito. Nulla di male: questo è possibile! Potranno anche i magistrati aspirare a diventar senatori attraverso il collegio uninominale, senza essere iscritti a determinati partiti.

La non iscrizione ad un partito non vincola il loro pensiero politico, ma lo vincolerebbe invece una manifestazione esterna, perché, come dicevo nel mio scritto, la Magistratura è come la moglie di Cesare, che non deve dare luogo a sospetti.

E passo all’articolo 95. L’articolo 95 è quello che stabilisce l’unicità della giurisdizione. Badate, senza unicità nella giurisdizione cessa la stessa indipendenza della Magistratura. Nel libricino da me ricordato io non ammetto nessuna giurisdizione all’infuori di quella del magistrato ordinario. Mi sono anche manifestato contrario al Consiglio di Stato, e credo che bene le sue funzioni giurisdizionali potrebbero essere attribuite a speciali tribunali amministrativi, sia regionali, sia centrale; ma sempre nell’ordine della Magistratura, sempre come una forma di Magistratura ordinaria, che sarebbe specializzata in tali determinate materie. Noi, però, abbiamo già approvato l’articolo 93, secondo il quale sia per il Consiglio di Stato, sia per la Corte dei Conti è stabilita una disciplina autonoma, e quindi non possiamo ritornare su questo argomento. Quando faremo le leggi speciali per stabilire le funzioni e l’organizzazione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, potremo in qualche modo coordinare le loro attribuzioni con quella della Magistratura ordinaria, soprattutto attraverso il ricorso alla Corte di Cassazione unica di Roma, che dovrà decidere anche le questioni riguardanti il diritto amministrativo. E questo sarà uno dei modi per unificare la giurisdizione.

Ma vi è un punto sul quale ho creduto opportuno di presentare un emendamento, ed è quello che riguarda i tribunali militari. L’onorevole Gasparotto ha presieduto, da par suo, una Commissione, della quale ho fatto parte anche io, come Villabruna ed altri colleghi di questa Assemblea, nella quale abbiamo esaminato a lungo il problema dell’ordinamento della giustizia militare, e lo abbiamo esaminato tenendo presenti e valutando le obiezioni dell’onorevole Palermo, l’unico oppositore che parlò in Commissione. Poi, abbiamo avuto una lettera dell’onorevole Calamandrei che si è associato genericamente all’onorevole Palermo, senza dirne le ragioni, certo per la sua alla esperienza di giurista. Ma l’opposizione dell’onorevole Palermo fu respinta dalla totalità della Commissione, e non perché non riconoscessimo molle cose giuste in quello che diceva, cioè che la Magistratura militare deve essere congegnata in modo da garantire tutte le libertà del cittadino che veste la divisa del soldato, che devono essere assicurate tutte le possibilità, perché la difesa sia garantita e perché la legge sia applicata severamente ma giustamente. Lo stesso onorevole Palermo che cosa propone? Propone che si formino delle giurisdizioni miste, dei collegi composti di giudici togati con due ufficiali. Voi immaginate che cosa sarebbe entrare nel Palazzo di Giustizia, uscire da una sezione penale ed entrare in un’altra dove vi sono due ufficiali in alta uniforme che siedono a fianco dei giudici ordinari! Diceva ieri il collega Villabruna, che con la sua togata eloquenza ricorda i bei tempi dell’antico parlamento subalpino, che cosa sarebbe un collegio giudiziario, in cui uomini e donne si riunissero in camera di consiglio per emanare una sentenza? Così sembra a me che si potrebbe pensare di questo strano collegio, composto di ufficiali e di uomini di toga! In tempo di pace dovrebbe esserci un tribunale militare, creato da una legge speciale, e non vedo perché la giustizia militare non potrebbe dipendere dal Ministero della giustizia, anziché da quello delle forze armate. La giustizia militare potrebbe essere benissimo un organo dipendente dal Ministero della giustizia, cioè una delle tante forme in cui si svolge la funzione giudiziaria. Basti pensare che abbiamo dei casi nei quali, in tempo di pace, si deve applicare il Codice penale militare di guerra. Abbiamo il caso di urgente e assoluta necessità (articolo 5 del Codice penale militare di guerra), abbiamo il caso dei corpi di spedizione all’estero (art. 9), quello di operazioni militari per motivi di ordine pubblico (art. 10), quello della mobilitazione generale e parziale (art. 11). Quindi ci vuole una giustizia militare anche in tempo di pace.

E se non esiste in tempo di pace, come si può creare a un tratto quando scoppia la guerra?

Né si dica che in tempo di guerra si possa formare in tre giorni un tribunale militare. In ogni modo senza la funzione non si può creare l’organo. È vero che i tribunali militari debbono servire sopra tutto in tempo di guerra; quindi manteniamo tali tribunali in tempo di pace soltanto per i reati commessi dai militari e come una speciale giurisdizione, che rientra nelle forme di tutte le altre funzioni giudiziarie.

Comunque, l’onorevole Gasparotto ha presentalo a questo riguardo un sagace emendamento, ed egli lo svolgerà a suo tempo con la competenza che gli deriva dall’esser stato due volte Ministro della guerra e Presidente della Commissione che ha esaminato a fondo la materia.

E vengo all’argomento cruciale di questo dibattito: io non ero purtroppo presente quando ieri sera ha parlato l’amico onorevole Carboni, ma non ho inteso nessuno, finora, difendere l’istituto della giuria. Questo tormentato istituto è stato assalito da ogni parte ed è curioso che sia stato criticato sopra tutto dai suoi figli più cari e prediletti.

Ho inteso parlare a questo riguardo anche il collega Alessandro Turco, del quale sono amico da tanti e tanti anni, e che ha formato la sua fama di studioso e di avvocato battendosi con eccezionale valore dinanzi a tutte le Corti di assise della sua Calabria.

Così, o amico Porzio, lei che è anche oggi un trionfatore dinanzi a tutte le giurie d’Italia, ed è colui che ha fatto sempre prevalere le ragioni della giustizia, non credo che abbia mai captato ai giurati con le lusinghe della sua eloquenza smagliante un verdetto ingiusto.

Ora, il giurato è il giudice popolare per eccellenza: attraverso la giuria la giustizia viene amministrata dal popolo, e non perché «in nome del popolo» si pronuncia la sentenza, come diceva ieri il collega Villabruna, perché questo non significherebbe proprio niente.

La giustizia viene dal popolo solo in quanto nei processi delle Corti di assise vi è la giuria, e la giuria non è, come si è detto, un istituto solamente inglese. E vero che non possiamo dimenticare le affermazioni di Lord Brougham, il quale diceva «che Parlamento e Gabinetto non esistono se non per far raccogliere dodici indipendenti giudici in una Corte d’assise», e dello storico Karcher, il quale scriveva «che il Foro e la Magistratura, assistiti dal giurì, costituiscono il fondamento più solido nel quale sono piantate le libertà della vecchia Inghilterra». Ma non è vero che in Italia la giuria non si sia acclimatata: è entrata nel 1848 nell’amministrazione della giustizia per i delitti di stampa e nel 1859 fu estesa a tutti ì reati più gravi. E quindi quasi un secolo che funziona, salvo la parentesi fascista, che travolse con la giuria tutti gli istituti giudiziari. Anche il nostro illustre collega Calamandrei ha affermato, nell’articolo 21 del suo progetto, le necessità della giuria. E tra i nostri antichi proceduristi ricordiamo il Casorati, il quale scriveva: «non appena ad un popolo è concesso di respirarr le prime arie di libertà, tosto compare nella sua legislazione l’istituto dei giurati: se questo è combattuto e distrutto per un istante, ritorna alla vita poco dopo più rigoglioso di prima».

Del resto, il problema in Italia è già risolto. Noi abbiamo una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 1946, il regio decreto-legge 31 maggio 1946, n. 546, firmato dall’onorevole Togliatti, col quale si ristabiliscono le Corti d’assise. E il collega Gullo, qui presente, ha presentato all’Assemblea tre disegni di legge, nn. 3, 4 e 5, coi quali si fissano le norme di procedura per i reati di competenza delle Corti d’assise e quelle per l’ordinamento delle Corti stesse, progetti che dovremo presto discutere.

Quindi, amico Turco, se mi dice che l’istituto della giuria è imperfetto, posso anche convenire con lei. Già, istituti perfetti non ne conosco nessuno. Forse soltanto da qui a centomila anni, in un regime di perfetta bontà, in cui ogni cittadino faccia il suo dovere per impulso del suo animo, senza bisogno di leggi e di magistrati, potremo avere istituti perfetti. Oggi abbiamo degli istituti imperfetti, ma non imperfettibili, amico Turco, anzi perfettibilissimi. Ho proposto un emendamento che farà un po’ sorridere i colleghi, perché lo troveranno avveniristico e troppo rivoluzionario.

Io propongo di sostituire le ultime parole dell’articolo 96 «nei processi di Corte di assise» con le altre «nei processi penali». Direte: che roba è questa? È una mia antica idea, che ho illustrato in quel piccolo libretto di cui vi ho fatto cenno. Eccetto la giustizia penale pretorile, che è quella delimitata dall’articolo 31 del Codice di procedura penale, più tutte le contravvenzioni, più i reati colposi, più quelli punibili a querela di parte, e che si potrebbe anche estendere ad un maggior numero di reati, ritengo che tutti gli altri processi penali dovrebbero essere giudicati da una giuria. E distinguo: quelli che oggi andrebbero alle Corti d’assise, secondo i concetti tradizionali, dovrebbero essere di competenza di una «grande giuria», mentre gli altri andrebbero davanti ad una «piccola giuria».

Una voce al centro. E l’appello?

PERSICO. Nella mia «Nuova Magistratura» c’è anche l’appello; vuol dire che il libro, per quanto breve, non è stato letto da nessuno. Piccola giuria: tre giurati, presidente e giudice relatore; grande giuria: cinque giurati, presidente e giudice relatore. Con questa specialità: che tutte le volte che, per dichiarazione delle parti o per la natura del processo, sorga una questione tecnica, almeno due dei giurati dovranno essere esperti della materia. Si tratterà di falsificazione di moneta, ci saranno due giurati funzionari della Zecca; saranno reati di falsa scrittura, vi saranno due periti calligrafici, ecc.

È complicato questo congegno? Tutti i congegni nuovi sono complicati; tutte le macchine, prima di cominciare a girare, hanno l’avvio faticoso, ma poi saranno lubrificate e si correggeranno i difetti.

Anche la Regione è ancora una cosa nuova; non sappiamo come funzionerà: chissà quante leggi dovremo fare per poterla attuare. E così sarà di queste «piccole e grandi giurie» da me ideate.

E badate, i giurati, secondo me, dovranno essere eletti e non estratti a sorte. Saranno eletti dai Consigli regionali che ne formeranno le liste, e dovranno avere un titolo di studio non inferiore alla maturità classica o tecnica, cioè dovranno essere arrivati alle soglie dell’università. Quindi saranno giudici competenti e responsabili, e non avranno soltanto la licenza elementare, come nel progetto proposto, e saranno in numero limitato. Sarà un alto onore per i cittadini italiani sedere come giudici, perché questo dovete pensare, o amici miei: noi vogliamo instaurare una nuova e moderna democrazia, ma quando c’è un dovere da compiere non la vogliamo più. Vogliamo tutti gli onori, tutti i vantaggi, ma, quando c’è un fastidio, non ne vogliamo sapere. Quando si estraevano i giurati, tutti trovavano mille scuse per essere scartati: «debbo partire», «debbo fare questo o quello», «non posso partecipare per impegni del mio ufficio», ecc. Questo significa, onorevoli colleghi, che non si è intesa l’importanza di alcune istituzioni democratiche. Molti vogliono la democrazia senza le forme democratiche! (Interruzioni).

E allora seguitiamo ad arare la terra con il pungiglione di Noè, o di Abramo. Non possiamo ripetere ad ogni novità: così faceva mio nonno. Oggi dobbiamo fare diversamente. Ecco perché non possiamo avere pochi magistrati. L’Inghilterra ha invece quindici o ventimila magistrati onorari, cioè dei giudici non professionali, che dànno la loro valida opera all’amministrazione della giustizia.

lo credo quindi che, mutato il sistema, cioè eletti i giurati, e non estratti a sorte, ridotto il loro numero, elevata la loro dignità e la loro funzione, noi potremo veramente creare un corpo di giudici popolari che non daranno più luogo a quei verdetti scandalosi, per cui, in altri tempi, si fece tanto chiasso. Ricordo però migliaia di processi nei quali la giuria fece il suo dovere; ricordo, per esempio, il processo Murri, in cui, nonostante tutte le pressioni da ogni parte esercitate, i giurati fecero giustizia coraggiosa ed esemplare.

L’istituto della giuria, onorevoli colleghi, non ha ancora fatta la sua completa esperienza: questo è il problema. Noi dobbiamo dare la possibilità a questo istituto di funzionare seriamente, nel clima della riconquistata libertà: esso sarà veramente la prova del fuoco della nuova democrazia.

E passo rapidamente all’articolo 97, che è quello che deve fissare l’indipendenza del potere giudiziario: è la vecchia questione delle guarentigie della Magistratura. Noi abbiamo avuto una legge, forse l’unica dopo quella fondamentale del 1865, che ha affrontata la questione: la legge Orlando 24 luglio 1908, n. 481. Orlando vide il problema e lo risolse col suo altissimo ingegno di giurista e di avvocato, e creò i Consigli disciplinari presso le Corti d’appello per i giudici e la Suprema Corte disciplinare per i magistrati superiori.

Tale Corte era composta di sei magistrati e di sei senatori; precorrendo cioè quella forma di collegio misto che la Commissione dei Settantacinque ha proposta. Ma poi abbiamo avuto recentemente il regio decreto-legge 31 maggio 1946 del Ministro Togliatti. Egli ha creato il Consiglio Superiore della Magistratura con soli magistrati: il primo presidente della Corte di cassazione, presidente il procuratore generale della Corte stessa, undici membri effettivi e sei supplenti eletti dai magistrati. Dunque, oggi noi, in fondo, dovremmo fare un passo indietro, in quanto abbiamo vigente la legge Togliatti, che costituisce il Consiglio Superiore della Magistratura nella forma che sarebbe desiderata dai magistrati, cioè il cosiddetto autogoverno – parola che non dice niente, perché, come osservava l’onorevole Bozzi l’altro giorno molto chiaramente, non è che si vuol governare in questo modo l’amministrazione della giustizia, ma si tratta dell’autogoverno del corpo giudiziario – che si può anche ammettere. Come arriverei ad ammettere anche l’elettività interna per le cariche della magistratura: cioè la nomina dei consiglieri di Cassazione da parte dei consiglieri di Corte d’appello, e dei consiglieri di Corte d’appello da parte dei giudici di tribunale.

Questo è un progetto che potremo discutere un giorno – forse non sarò presente – quando si dovrà deliberare sul nuovo ordinamento giudiziario e sui nuovi Codici di procedura civile e penale.

Dunque, il principio dell’autogoverno non solo è entrato nella nostra legge, ma in questo momento è in atto. Allora si tratta di vedere quale sistema si potrebbe scegliere perché questo autogoverno non diventi – come è stato detto da un autorevolissimo collega, con parola veramente plastica – un «mandarinato». Non vogliamo un corpo di mandarini; vogliamo un corpo che senta la influenza della vita; che si colleghi agli altri poteri dello Stato. Non vogliamo che il «potere giudiziario» si chiuda in una torre di avorio, ma sia confluente con gli altri poteri e ne sia anche controllato. I metodi non potrebbero essere che tre. Il metodo del «cancelliere di giustizia», che è stato adottato dalla sola Costituzione finlandese. Il cancelliere di giustizia, nominato dal Parlamento o dal Presidente della Repubblica, tra i magistrati, dovrebbe intervenire al Consiglio dei Ministri. Sarebbe una norma strana e lontana dalle nostre consuetudini e dalle nostre idee. Ma poi non credo che con questo sistema si arriverebbe ad alcun risultato pratico, in quanto il cancelliere di giustizia, l’altissimo magistrato che andrebbe a sedere nel Consiglio dei Ministri, in fondo farebbe su per giù quello che fa attualmente il guardasigilli. Allora, tanto vale affidare a lui questa funzione; ma, ripeto, così non si risolve il problema.

Quindi, bisogna ricorrere ad un organo estratto, o totalmente o parzialmente, dalla Magistratura, e allora si potrebbe ritornare a quello che ha istituito l’onorevole Orlando nella sua legge del 1908 o restare a quello della recentissima legge Togliatti. Ma sorge il problema se questo organo collegiale debba esser composto di soli magistrati, o se in esso convenga ammettere anche l’elemento cosiddetto laico.

Il progetto Calamandrei (art. 17) era perché fosse composto di soli magistrati. Anzi, nella seduta del 5 dicembre 1946 della seconda Sezione della seconda Sottocommissione per la Costituzione, l’onorevole Calamandrei, rispondendo ad una esplicita domanda dell’onorevole Targetti, ebbe a dire che, a suo avviso, il Consiglio superiore dovrebbe esser composto esclusivamente di magistrati. Poi, nella seduta del 4 marzo 1947 di quest’Assemblea, l’onorevole Calamandrei ha fatto macchina indietro, dicendo che il gesto compiuto da un altissimo magistrato gli aveva fatto cambiare completamente d’opinione.

Io ammiro l’ingegno di Calamandrei; l’altro giorno l’ho ascoltato con riverenza a Firenze, quando ha commemorato con parole veramente commoventi il martire avvocato Enrico Bocci, tormentato e trucidato dai nazifascisti; ma nella seduta del 4 marzo non l’ho riconosciuto. Un principio, o è buono, o è cattivo, che poi nella vita di un magistrato possa capitare un involontario infortunio (e non spetta a noi giudicarlo) non può costituire ragione sufficiente per cambiare un’opinione maturata, efficacemente espressa e fissata in una proposta di legge.

Ma, pur senza andare, come l’amico Calamandrei, sulla via di Damasco, ho voluto riflettere a lungo sulla questione, e mi sono convinto che un Consiglio superiore composto di soli magistrati potrebbe dar luogo a qualche inconveniente e distaccare troppo dagli altri organi dello Stato il corpo della Magistratura. Perciò ho presentato un emendamento così concepito: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica» – e a questa Presidenza io tengo, amico Villabruna, non per un pennacchio, non per un cornicione, non per paura di conflitti, ma perché intendo che il Presidente della Repubblica non sia rinchiuso in una teca di cristallo, sia pure tersissimo, ma debba intervenire autorevolmente nella vita dello Stato e non so quale migliore funzione egli potrebbe avere se non quella di presiedere il più alto organo del potere giudiziario, che dev’essere suprema difesa e sicura garanzia di tutti i cittadini, sicché il Presidente della Repubblica qui ci sta benissimo, come è stabilito, del resto, anche nella Costituzione francese – «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto dal primo presidente e dal procuratore generale della Corte di cassazione in qualità di vicepresidenti» (perché effettivamente funzionerà, per la complessità dei compiti, diviso in non meno di due sezioni), «da sei membri eletti da tutti i magistrati della Repubblica aventi almeno il grado di giudice, o parificato; da tre membri eletti dalla Camera dei deputati e da tre membri eletti dal Senato della Repubblica fuori dal proprio seno e dagli albi forensi, in modo che sia assicurata la rappresentanza della minoranza».

Ho abolito il termine Assemblea Nazionale, perché mi pare che l’Assemblea Nazionale sia ormai morta. Del resto è inutile convocare le due Camere insieme, quando ciascuna può procedere per suo conto alle elezioni dei membri del Consiglio superiore della Magistratura.

Quindi, con questa attenuazione, che non vulnera il principio dell’autogoverno della Magistratura e che in parte sodisfa superiori esigenze, si avrebbe il completo coordinamento del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato: con quello esecutivo mediante la Presidenza del Consiglio da parte del Capo dello Stato; con quello legislativo, attraverso l’elezione di una parte dei membri del Consiglio Superiore fatta dal Senato e dalla Camera. Una parte dei membri, dico, e non la maggioranza, perché la maggioranza deve restare ai magistrati, e questi, essendo in numero di otto, potranno avere quel giusto peso che devono avere per la giusta tutela della necessaria indipendenza del loro Ordine.

Spero quindi che questa formula possa essere accettata dall’Assemblea. E volgo rapidamente alla fine del mio già lungo discorso.

Articolo 98. Questo articolo ha per me una speciale importanza, ed io propongo qui un nuovo sistema: quello dei magistrati elettivi. Si tratta di un tentativo limitato ai gradi minori, alla giustizia veramente popolare. Del resto non è una novità. Un progetto del guardasigilli Ettore Sacchi già proponeva questa Magistratura elettiva, che è stata nel pensiero e nei voti degli antichi maestri di democrazia, e che è stata sostenuta dinanzi alla seconda Sottocommissione dall’onorevole Targetti. Ma io limito la mia proposta a due soli gradi: il giudice di pace, al quale vorrei affidare una quantità di poteri nuovi: la tenuta dei registri delle persone giuridiche e delle società commerciali, la potestà di procedere alla ventilazione di eredità, la potestà di citare le parti per un esperimento di conciliazione, ecc.; ed il pretore, sia civile, sia penale.

Come saranno eletti? Bisognerà fare una legge speciale. Io credo che, avendo noi già stabilito l’ordinamento regionale, potrebbe essere il Consiglio regionale ad eleggere questi giudici onorari, tenendo conto di speciali requisiti: dovranno essere uomini saggi e probi, o professori, o avvocati con un certo periodo di esercizio. Essi inoltre dovranno avere un adeguato emolumento e l’alloggio gratuito; ma sono tutte cose da vedersi a suo tempo. Prima bisogna creare questa coscienza nuova dell’alto e nobile dovere di alcuni cittadini, veramente «eletti», di saper rendere giustizia.

Bisogna che in Italia si formi questa classe media, conscia dei suoi doveri e dei suoi compiti, questo corpo dirigente della Nazione, che oggi manca. Noi soffriamo di una vera crisi della classe dirigente. Tutto ciò che deploriamo in Italia dipende dal fatto che non esiste una classe dirigente, che abbia coscienza dei suoi obblighi e delle sue responsabilità. Si dice: la colpa è del fascismo; però la nuova classe dirigente non l’ha creata nemmeno la resistenza. Si è improvvisata spontaneamente e tumultuariamente dopo il 25 luglio 1943, e dopo la liberazione, ma questa classe dirigente manca ancora, perché il crollo del fascismo è stato improvviso e non si erano preparati i nuovi quadri.

Ritornando al nostro argomento, io propongo che i giudici di pace, che i pretori civili e penali siano eletti secondo le modalità stabilite dalla legge.

Certo è assai nuovo questo sistema.

TONELLO. No, v’è da tanto tempo in Svizzera.

PERSICO. V’è in tanti altri Stati. Tutta l’amministrazione giudiziaria inglese ne dà l’esempio.

Quindi spero che il principio da me proposto possa essere accettato nella Costituzione. Attraverso una legge speciale, vedremo poi come si dovrà praticamente attuare. Ed una parola sola sull’ingresso nella Magistratura delle donne.

Io sono contrario, e credo che basti pensare all’unico esempio letterario di una donna magistrato per essere contrari. (Interruzioni).

Del problema dei tribunali per i minorenni potremo parlare a parte. Anche su tale argomento ho scritto qualcosa, che può interessare.

Nei collegi dei probiviri è ammessa la donna, perché si devono risolvere controversie economiche per le quali l’ingegno femminile ha speciali attitudini. Ma io dico che la donna magistrato non può esserci e lo dico in base a quanto ha scritto magistralmente Shakespeare che, nel Mercante di Venezia, ha fatto giudicare Porzia, e Porzia ha giudicato male, perché se è vero che ha dato torto a Shylock, gli ha dato torto con un’astuzia femminile, in quanto ha detto che la libbra di carne si doveva prenderla senza il sangue. E con questa trovata, veramente femminile, con questa scappatoia, ha salvato il debitore di Shylock. Ma se fosse stato giudice un uomo, avrebbe detto: caro Shylock, tu chiedi una cosa che è vietata dalla morale; non si può vendere il proprio corpo. La tua domanda è inammissibile, è contra legem, il tuo contratto è nullo. E con una questione di diritto avrebbe risolto il problema, senza ricorrere al cavillo della carne e del sangue. E credo che Shakespeare abbia pensato con questo esempio di dimostrare come la donna non sia la più indicata per pronunciare sentenze.

V’è stata Eleonora D’Arborea, ma era giudicessa nel senso di sovrana; non ha emanato sentenze, ha governato uno Stato. Ed allora vedete che questo problema, che pur ha dei lati seducenti (basti pensare che con una legge recente la Francia ha sanzionato l’ingresso delle donne nella Magistratura), si risolve con gli aspetti pratici della vita. Non è possibile che sentenze civili e penali siano date da un collegio misto, o, peggio ancora, da un collegio composto soltanto di donne, perché questa funzione, così grave, così difficile, che procura tante ansie e tante notti insonni, non è adatta allo spirito femminile.

Noi vediamo che anche nell’avvocatura, dove le donne sono entrate da molti anni, esse non hanno dato quel contributo che si poteva sperare.

Sono stato un amico e un ammiratore della più colta donna avvocato, la professoressa Teresa Labriola. Eppure nessun notevole apporto ha potuto dare alla nostra difficile professione. La donna sarà la madre dei giudici, sarà la ispiratrice dei giudici, ma è bene che lasci questa grave e talvolta terribile responsabilità agli uomini.

Una parola sull’articolo 99. Qui bisognerà eliminare la parola «retrocessione», perché è assurdo pensare che un magistrato possa essere retrocesso.

Io avevo fatto nel mio libro un’altra proposta, cioè che quando il magistrato, all’epoca dello scrutinio per conseguire il grado superiore, non sia dichiarato idoneo, né a conseguirlo, né a restare nel grado occupato, sia collocato a riposo. Si avrebbe così una specie di selezione permanente, assai utile per il prestigio e la dignità della Magistratura.

Articolo 100. Mi pare necessario che la Magistratura sia dotata di una polizia propria: ecco perché propongo che l’autorità giudiziaria abbia alle sue dirette dipendenze un corpo specializzato di polizia giudiziaria.

Ultimo argomento, ed ho finito, è quello della cassazione unica.

Mi dispiace che non sia più presente l’amico Villabruna, ma v’è l’amico Bellavista, che ha voluto anche lui raccoglierne la faretra e lanciarmi uno strale…

BELLAVISTA. Ma non era avvelenato!…

PERSICO. Gli avvocati romani vogliono la cassazione a Roma – ha egli detto – perché fa loro comodo, perché così hanno la cassazione a domicilio.

No, non è questa la ragione: Roma è il centro pulsante della vita nazionale, perché a Roma v’è il Capo dello Stato, perché a Roma v’è il Governo. Per il decentramento amministrativo vi sono le Regioni, che snelliscono il funzionamento burocratico, che avvicinano al cittadino gli organi centrali; ma non la cassazione. È il pretore che deve essere vicino al cittadino, non la Corte suprema di cassazione, che deve regolare tutta la vita giuridica nazionale. Perfino gli Stati federali hanno una cassazione unica, gli Stati Uniti d’America hanno con la Supreme Court of the United States, l’Inghilterra con lo Appeal to the House of Lords. Io potrei farvi l’elenco di tutti gli Stati che hanno una cassazione unica. Perfino la Germania, che era federalista, aveva la cassazione unica a Lipsia.

A me pare che sia cosa che stoni anche all’orecchio parlare di cassazioni plurime in uno Stato unitario: è un vero e proprio assurdo! Solo se si arrivasse ad una Confederazione, potremmo avere le varie cassazioni: la cassazione siciliana per lo Stato siciliano, la cassazione sarda per lo Stato sardo, la cassazione milanese per lo Stato lombardo, ecc.

Io ho discusso alla gloriosa cassazione civile di Napoli. So quali preclarissimi ingegni vi hanno dominato. Tra gli ultimi ricordo i colleghi Grippo e Ianfolla, che poi hanno brillato col loro grande ingegno anche alla Corte suprema di Roma.

L’ordine del giorno dell’amico Villabruna ha carattere piemontese. Guardate le firme. Se ne sarebbero potuti fare altri tre identici: uno siciliano, uno toscano e uno napoletano; ma questo non avrebbe cambiato nulla. Dice l’onorevole Villabruna, che alle altre ragioni esposte si aggiunge il fatto del grave disagio e della rilevantissima spesa che occorre affrontare per permettere agli avvocati dell’Alta Italia di recarsi a discutere dinanzi al Supremo collegio.

Ma se con un volo di aeroplano si va e si torna in poche ore! Avremo tra poco gli aerei ultrasonori, che viaggeranno a più di 300 metri al minuto secondo.

Non noi, ma voi volete la cassazione a domicilio. Io propongo poi uno speciale sistema per gli avvocati di cassazione: l’albo chiuso unico per tutta Italia a cui si arriva per concorso attraverso titoli e, se occorre, per esame. Saranno nominati, ad esempio, cento cassazionisti per tutta Italia, i quali potranno esercitare soltanto in cassazione e verranno necessariamente a stabilirsi a Roma. A mano a mano che si farà un posto vacante, si aprirà un concorso per ricoprirlo. E non mi dite che la cassazione unica si deve ad una legge fascista, per carità! Questo è un errore grossolano. La prima legge che iniziò l’unificazione delle cassazioni è del 12 dicembre 1875: essa dette una speciale competenza per alcune materie alla cassazione di Roma. Poi venne la legge del 31 marzo 1877, che attribuì alla Corte di Roma tutti i conflitti di attribuzione e l’esame dei ricorsi per incompetenza, o per conflitti, o per eccesso di potere contro le decisioni delle giurisdizioni speciali. Poi venne la legge del 6 dicembre 1888, che ha unificato le cassazioni penali, in occasione dell’entrata in vigore del codice penale Zanardelli.

Quali cassazioni vorreste ricostituire: le penali o le civili? Non l’ho capito. Perché, quando parlate di legge fascista, parlate della legge del marzo 1923, che ha unificato le cassazioni civili. L’onorevole Bozzi ha ricordato il progetto Minghetti del 1862. Io ricordo i grandi giuristi, da Calamandrei a Mortara, il più illustre processualista italiano, che si è battuto fino all’ultimo per sostenere l’unicità della cassazione civile.

È un puro caso che, come per una strada o per un ponte costruiti antecedentemente e inaugurati dopo il 28 ottobre 1922 sotto il segno del fascio littorio, è un puro caso, onorevoli colleghi, che la legge sulla cassazione sia stata emanata nel marzo del 1923. Del resto il fascismo allora non era ancora vero fascismo: collaboravano al Governo molti partiti ed anche la Democrazia cristiana. Io ricordo di aver parlato alla Camera su quella legge proposta dall’onorevole Oviglio, per difendere alcuni tribunali che si volevano sopprimere. Quindi non si dica che gli avvocati romani fanno una questione d’interesse. Questa accusa è troppo meschina, onorevole Bellavista! (Interruzione del deputato Bellavista). Quando nell’albo speciale della cassazione vi saranno cento iscritti, come in Francia, gli iscritti in quell’albo faranno il loro dovere, e non eserciteranno più in nessuna altra sede giudiziaria. Onorevoli colleghi, ho finito; non senza notare che è doloroso constatare come questa importantissima discussione si faccia in un’Aula semi-deserta.

Noi siamo stati per tanti anni gli ammiratori della sapienza giuridica dei tedeschi. Io ricordo quando, studente, i miei professori mi parlavano della filosofia giuridica del Trendelenburg, di Jhering e del suo Der Kampf um’s Recht, la lotta per il diritto, quasi che noi non comprendessimo la lotta per il diritto. Ricordo come i miei compagni di università accorressero a Berlino, ad Heidelberg, a Bonn, per ascoltare le lezioni dei professori di diritto, quasi che noi non avessimo la nobile tradizione, che va da Beccaria a Carrara, e non avessimo le gloriose università di Pavia, di Bologna e di Napoli, fari di civiltà e di sapienza attraverso i secoli.

Non si supponeva allora, che gli Herr Professor e gli Herr Doktor, sarebbero divenuti le iene e i torturatori di Bimhenwald, che i dotti professori avrebbero affermato il Führer Prinzip, cioè che la legge la fa il Führer e che, tranne la volontà del dittatore, non vi è altra fonte legislativa.

Noi italiani amiamo il diritto, amiamo veramente la lotta per il diritto.

Appena riconquistata la libertà, abbiamo nominato primo cittadino della Repubblica un grande avvocato, intesa questa parola nel senso più alto: advocatus, cioè colui che è chiamato a difendere la libertà, la giustizia, il diritto. Per i romani l’avvocato era il vir bonus dicendi peritus; e tale è Enrico De Nicola.

Questa Assemblea è presieduta da un avvocato, il quale dimostra quotidianamente, oltre che vastità di cultura e di sapienza politica, acume e finezza giuridica, nel dirigere i nostri dibattiti.

Noi siamo in quest’Aula circa duecento fra avvocati, professori di diritto e magistrati, quasi un terzo dell’Assemblea.

Questo dimostra la passione che il popolo italiano ha sempre avuto per il diritto, la sua sete di giustizia. La nostra classe forense ha mantenuto intatta la dignità della sua nobile missione, fieramente levata contro la dittatura. Quando a Torino l’avvocato Duccio Galimberti e a Roma l’avvocato Placido Mastini venivano trucidati, essi opponevano il diritto alla tirannia, e segnavano la loro fede col sangue.

Onorevoli colleghi, facciamo di questo Titolo quarto della nostra Costituzione cosa veramente degna del popolo italiano; diamogli una Magistratura – qui possiamo adoperare il termine Magistratura – che sia garanzia di giustizia alta: serena ed eguale per tutti.

Ricordiamo il motto della sapienza romana, che oggi chiameremmo uno slogan: justitia est fundamentum rei publicae. (Applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato ad altra seduta.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se rispondano a verità le notizie apparse sulla stampa circa un imminente sblocco degli affitti; e se, nella eventualità che sia in preparazione un provvedimento del genere, non ritenga opportuno tener presenti le condizioni in cui verrebbero a trovarsi tante categorie di cittadini e in particolare quelli a reddito fisso (statali, pensionati, ecc.) e i lavoratori in genere.

«Pressinotti, Malagugini, De Michelis».

«Al Ministro dei trasporti, per sapere se si ha l’esatta sensazione della gravissima situazione cui si è ridotta la classe dei ferrovieri, essendosi trattenute, sul mensile di ottobre, tutte le anticipazioni fatte nei mesi precedenti; e per chiedere che venga immediatamente corrisposta una nuova anticipazione – proporzionalmente minore al complesso di quelle rimborsate – da restituire ratealmente in quattro o cinque mesi.

«Morini, Sampietro».

«Al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere a che punto sono le trattative fra dipendenti e industriali delle aziende gas; e per sapere cosa intenda fare per evitare alle città italiane la iattura della sospensione della erogazione del gas; sospensione che si avrà martedì 11 a seguito dello sciopero già preannunciato per detto giorno di fronte all’ingiustificato irrigidimento padronale.

«Morini».

MORINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORINI. Vorrei sottolineare l’urgenza delle due interrogazioni da me presentate, facendo presente che i Ministri cui sono dirette mi hanno dichiarato di poter rispondere lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Sta bene. Le due interrogazioni saranno iscritte all’ordine del giorno della seduta di lunedì.

E stata anche presentata la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Ministro del bilancio, per conoscere quali motivi si appongano alla abrogazione della legge fascista 25 ottobre 1941, n. 1148, con la quale si rese obbligatoria la nominatività dei titoli azionari. Invero, tale abrogazione si risolverebbe in un afflusso immediato di almeno cento miliardi di lire all’erario, in un contributo alla ricostruzione, in un disboscamento di moneta, in un sollievo alla disoccupazione, in un vantaggio, insomma, per l’economia nazionale.

«De Martino».

Comunicherò le interrogazioni testé lette ai Ministri competenti perché dichiarino quando intendono rispondere.

VARVARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VARVARO. Ricordo che il 2 ottobre chiesi la risposta d’urgenza ad una interrogazione ai Ministri dell’interno e della giustizia sulla situazione della popolazione di Montelepre. I due Ministri hanno assicurato che avrebbero presto risposto. Ora la situazione denunciata in quella interrogazione perdura ancora ed è urgente che si abbia una risposta.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia sarà lunedì prossimo fuori Roma. Porrò tuttavia questa interrogazione all’ordine del giorno di lunedì, con la riserva che essa sarà svolta se il Ministro dell’interno, che interesserò allo scopo, potrà darle risposta in detta seduta.

La seduta termina alle 12.55.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 10 novembre.

Alle ore 16:

Interrogazioni.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Villabruna

Vinciguerra

Bettiol

Carboni Angelo

Verifica di poteri:

Presidente

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Sansone

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Comunicazioni dei Presidente.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Patricolo, Mazza e Russo Perez hanno comunicato di non far più parte del Gruppo parlamentare del Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque.

Sono stati pertanto iscritti al Gruppo misto.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Villabruna. Ne ha facoltà.

VILLABRUNA. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi! Sono un modesto empirico, che sente l’ansia e la predilezione per le cose semplici e concrete.

Per questo io mi sono sforzato di esaminare gli articoli del progetto sotto un punto di vista che indubbiamente è modesto, ma che – per me – riveste un certo interesse: ho cercato di accostarmi, per quanto era possibile, alla realtà, per poter rispondere più agevolmente ad alcune domande che si sono affacciate alla mia mente.

Io mi sono chiesto, quali risultati positivi ci possiamo attendere, e quali vantaggi concreti ci possiamo ripromettere da questa parte della Costituzione, quando sarà stata da noi approvata, e passerà, per il collaudo, da quest’Aula nelle aule giudiziarie?

Stanno di fronte a noi questioni gravi e preoccupanti.

La prima questione è quella che riguarda la Magistratura. Siamo tutti d’accordo nel riconoscere che la Magistratura è in fase di progressiva decadenza; e tutti concordi nel riconoscere che è diventata urgente ed indilazionabile la necessità di rialzare le sorti della Magistratura. Ebbene, io mi domando: siamo noi ben certi di aver fatto tutto ciò che era possibile, per rialzare davvero le sorti della Magistratura, per portarla a quel livello di dignità e di indipendenza che è indispensabile per l’esercizio della sua altissima funzione?

V’è poi un’altra questione, alla quale stamane accennava l’onorevole Dominedò: la giustizia considerata come la suprema garanzia del popolo. Ed io mi domando: abbiamo noi fatto qualche cosa di più e di meglio, che non di dare al popolo soltanto la sensazione vaporosa che qualche cosa è stato fatto nel campo della giustizia, senza poter dire esattamente se in meglio o in peggio? Siamo noi in condizioni di poter dire che le innovazioni che, attraverso la Costituzione, intendiamo introdurre, siano di tale natura da assicurare al popolo italiano un migliore funzionamento della giustizia?

lo mi sono proposto questi interrogativi, ed ho avvertito la necessità di questo richiamo alla realtà, perché non posso dissociare il mio pensiero dal ricordo di quello che è stato il triste destino della giustizia in questo ultimo trentennio.

Io non vado a ricercare se quello che è accaduto sia accaduto per forza di cose o per colpa di uomini. Mi limito ad una semplice constatazione, ad una realtà incontestabile: in questo trentennio la giustizia è stata bistrattata e maltrattata senza pietà; la giustizia è stata messa in balia di tutti gli eventi che hanno funestato e contristato questo tormentoso periodo storico; la giustizia è diventata materia di preda, asservita a fini politici; per la realizzazione di questi fini politici la giustizia è diventata il campo sperimentale delle innovazioni le più strane, ha dovuto subire le trasformazioni e le deviazioni le più capricciose e le più insensate. Il capriccio e l’arbitrio hanno trionfato istericamente in tutti i settori della giustizia, sia nel campo funzionale come nel campo legislativo.

Nel campo funzionale, siamo passati dai giurati agli assessori, dagli assessori ai tribunali speciali, dai tribunali speciali alle assise straordinarie: un cambiamento di scena continuo, un ballo in maschera a più riprese, nel quale, purtroppo, non è cambiata soltanto la foggia dei costumi, ma, quello che è ben più grave, sono cambiate, ad ogni ripresa, il criterio della legge, la mentalità dei giudici e la composizione dei collegi giudicanti. Tutto questo non poteva non essere fonte di danni gravissimi e di gravissime ingiustizie, talvolta irreparabili. Questo nel campo funzionale.

E nel campo legislativo? Noi abbiamo dovuto sottostare al diluvio delle leggi speciali, le più barocche e le più scellerate; leggi speciali che, nelle loro sperequazioni, hanno ridotto la funzione del giudice e la funzione della giustizia a un qualche cosa di così incerto, di così malsicuro e di così contradittorio, da dare ragione a chi amaramente concludeva che, anche per la giustizia, si sarebbe potuto istituire un listino di borsa, che segni giornalmente le variazioni delle quotazioni.

Ora, tutto questo evidentemente non poteva durare: è venuto per noi il momento di una grande opera di rinnovazione e di riedificazione che, se riusciremo veramente a compiere, sarà per noi titolo legittimo di orgoglio. È venuto il momento in cui bisogna ritrovare la via per ridonare al magistrato la sua dignità e la sua indipendenza, e per conferire alla giustizia l’indispensabile requisito dell’equilibrio, della cortezza e della stabilità.

Ora, prima di noi, la Commissione dei Settantacinque si è accinta a questa grandiosa opera di rinnovazione e di riedificazione, ed io mi rendo conto della gravità e della complessità del compito che la Commissione dei Settantacinque doveva assolvere. Comprendo queste difficoltà: e basta leggere i verbali dei lavori dei Settantacinque per intravvedere lo sforzo, quasi estenuante, che la Commissione ha dovuto compiere per conciliare in formule di compromesso tendenze diverse, le quali ripetevano la loro origine non soltanto da contrasti di natura dottrinaria, ma da un fattore di natura politica, che è perfettamente comprensibile, anche se può diventare pericoloso e talvolta aberrante, sul terreno della tecnica giudiziaria. È pesato sui lavori della Commissione il ricordo ancora troppo recente, ed il risentimento ancora troppo vivo delle amare e dolorose esperienze del fascismo. Ed ecco perché, a proposito del lavoro compiuto dalla Commissione, non mi sento di dire che esso sia riuscito, per intero e in ogni punto, a superare vittoriosamente la prova.

Il progetto di Costituzione contiene alcuni principî d’ordine generale, che rappresentano la base della grande riforma giudiziaria alla quale ci accingiamo; senonché, quando il progetto passa, dall’enunciazione astratta di questi principî, all’individuazione ed alla specificazione degli organi che dovrebbero concretamente attuare quelle norme, a me pare che, in tal momento, nel passaggio dall’astratto al concreto, dal generale allo specifico, il progetto di Costituzione perda della sua omogeneità.

Io non dirò – perché potrebbe sembrare irriverenza – che il progetto di Costituzione sia uno zibaldone; mi permetterò di dire soltanto che, in qualche punto, esso dà l’impressione di un mosaico variopinto, nel quale il vecchio si mescola al nuovo senza un evidente nesso logico, ma bizzarramente, attraverso un eclettismo, disposto a tutte le accettazioni e a tutte le concessioni.

Voi, signori della Commissione, avete fatto rivivere istituti che erano tramontati e che, secondo me, non meritavano l’onore di essere riportati in vita; avete accolto innovazioni delle quali temo non abbiate calcolato tutte le possibili conseguenze. Per la voluttà di essere eclettici ad oltranza, voi avete corso questo rischio: di sminuire in voi stessi l’ardimento dei novatori e, nel tempo stesso, la saggezza e la prudenza dei restauratori.

E io cercherò di fornire qualche esempio di quanto ho detto: e mi soffermerò su alcuni punti che rappresentano il sintomo più appariscente e la manifestazione più vistosa dello spirito di arrendevolezza e di eclettismo che ha guidato la Commissione nella compilazione del progetto di Costituzione. Voglio, in particolare, soffermarmi su tre punti: la partecipazione delle donne alla Magistratura, il ripristino della giuria, la soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace.

Nessuno può contestare che la partecipazione delle donne alla Magistratura rappresenti una innovazione estremamente ardita, tanto ardita da rivoluzionare la nostra tradizione in materia di ordinamento giudiziario. Io mi sono soffermato sulla disposizione che riconosce alle donne il diritto di partecipare alla Magistratura, e vi dico francamente che questa norma mi ha seriamente preoccupato, perché mi riesce facile di intravvedere l’inevitabile pregiudizio che la giustizia subirebbe il giorno in cui anche alle donne fosse consentito l’onore di vestire la toga dei magistrati: Ed io mi sono compiaciuto, quando ho constatato che da parte di una donna, dell’onorevole Federici, era stato proposto un emendamento soppressivo che corrisponde perfettamente a quello da me proposto.

Certo, v’è da sperare nel buonsenso e nel buon gusto delle donne; v’è da sperare che le donne – o almeno una buona parte di esse – non si lasceranno prendere da una frenesia di nuovo genere; e non sentiranno un eccessivo ardore di partecipare alla vita giudiziaria.

Questo lo possiamo sperare; ma intanto il pericolo c’è.

MERLIN ANGELINA. Quale pericolo?

VILLABRUNA. Abbiamo aperto un varco, spalancata una porta, la quale potrebbe consentire alle donne, ove lo volessero o lo gradissero, di invadere il campo della giustizia.

MERLIN ANGELINA. Invadere! Come se fossimo nemiche!

VILLABRUNA. E allora, onorevoli colleghi, io mi domando: il giorno in cui le donne penetrassero nel sacro tempio della giustizia, il giorno in cui la giustizia dovesse essere amministrata da un corpo giudiziario misto, parte costituito da uomini e parte costituito da donne, me lo dite che cosa ne guadagnerebbe, o meglio, che cosa ne perderebbe la giustizia?

Non v’è Carta costituzionale, la quale possa avere la pretesa di violentare le leggi della natura; non credo che vi sia alcuna Carta costituzionale che possa compiere un tale miracolo, se pure si trattasse di un miracolo: che riesca a portare sullo stesso piano la mentalità degli uomini e quella delle donne. Le donne – e non credo con questo di recare offesa al sesso gentile…

Una voce. Anzi!

VILLABRUNA. …hanno un modo di sentire, un modo di vedere, un modo di ragionare, un modo di giudicare che molto spesso non si concilia con quello degli uomini. E allora, il giorno in cui avrete affidato l’amministrazione della giustizia ad un corpo giudiziario misto, che cosa avrete ottenuto? Avrete portato nel sacro tempio della giustizia un elemento di più di confusione, di dissonanza, di contrasto; avrete creato, in sostanza, una giustizia bilingue, una giustizia che parlerà due linguaggi diversi, secondo che, nelle varie circostanze, avrà a prevalere la voce degli uomini o la voce delle donne.

Se tutto questo possa giovare al prestigio, alla serietà della giustizia, alla certezza nell’applicazione della legge, lo lascio giudicare a voi.

Altro punto: il ripristino della giuria.

Io non voglio qui ripetere quello che stamane – da pari suo – è stato detto dall’onorevole Crispo in punto di giustizia resa dai giurati; non dirò di tutti gli inconvenienti che derivano da una giustizia monosillabica, che rappresenta il trionfo dell’ignoranza, dell’impreparazione, della facile impressionabilità; una giustizia monosillabica che, appunto per essere tale, non consente la garanzia della motivazione, come non consente praticamente il rimedio del giudizio di secondo grado.

Io ho tentato di scoprire – e non vi sono riuscito – le vere ragioni per le quali il progetto di Costituzione ha ritenuto di riservare un posto d’onore alla giuria, ed ha pensato di risuscitare un rudero, superato dal tempo, e che certamente non ha lasciato di se il migliore ricordo.

Perché, perché dovrebbe risorgere la giuria? Avete inteso di rendere omaggio alla sovranità popolare? Ma, signori della Commissione, a questo avevate provveduto, e provveduto a sufficienza, quando, all’articolo 94, avevate detto che la funzione giurisdizionale è esercitata in nome del popolo.

Non vi è nessuno che non avverta la bellezza, la grandiosità di questa proclamazione! E di essa il popolo ve n’è e ve ne sarà grato.

Ve n’era a sufficienza perché il popolo si sentisse sodisfatto di questa consacrazione della sua sovranità, e non chiedeva di più. Parliamoci chiaro: coloro che si accalorano nell’esaltare la giuria, e vorrebbero rimetterla in vita, in definitiva si ostinano ad iniettare nelle vene del popolo un eccitante, un afrodisiaco che il popolo non gradisce, ma che, nella gran maggioranza, rifiuta.

Gli è che il popolo non sente l’ambizione di partecipare direttamente all’amministrazione della giustizia. Il cittadino – e lo possiamo attestare noi penalisti, che di queste cose abbiamo esperienza quotidiana – per quanto può, cerca di esimersi dal fastidioso incarico di fungere da giurato. Sì, potrete trovare soltanto qualche malinconico pensionato, che non sa come riempire la propria giornata, a cui può sorridere la prospettiva di arrotondare il magro stipendio col modesto compenso che viene corrisposto ai giurati.

La realtà è che i cittadini, nella loro grande maggioranza, per quanto sanno e per quanto possono, cercano di essere esonerati dal compito di fungere da giurati. Ed allora, perché ritornare ai giurati, a questa forma di giustizia che, ripeto, è un giuoco a mosca cieca, è il trionfo della ignoranza, della impreparazione e della facile impressionabilità. Su questo terreno si era fatto un piccolo passo avanti, che dava, perlomeno, la garanzia della sentenza motivata, quando si erano istituiti gli assessori.

MASTINO PIETRO. Un grande passo indietro.

VILLABRUNA. Un piccolo passo avanti, in quanto consentiva il concorso anche del magistrato togato. Intendiamoci bene, amico Mastino, non che questa fosse stata una soluzione ideale del problema, non che l’assessorato non abbia dato luogo a gravi inconvenienti. Basterebbe ricordare lo sconcio delle cosiddette sentenze suicide, rivelatrici del contrasto che inevitabilmente sorge laddove non v’è un collegio giudicante omogeneo.

Ricordo che un mio eminente collega, quando si è costituito l’assessorato, presagendo tutti gli inconvenienti che inevitabilmente sarebbero derivati da un giudizio reso da un collegio giudicante misto, si era permesso, forse con poca riverenza, di dire che, con la instaurazione degli assessori fiancheggiati dai magistrati, la giustizia, anziché essere simboleggiata dalla donna con le famose bilance, più degnamente poteva essere simboleggiata dal centauro che, come ognuno sa, è uomo dalla cintola in su ed è bestia dalla cintola in giù. Ora, io non vorrei aggiungere irriverenza ad irriverenza, ma mi permetto di dire che, se dovessimo cercare l’emblema degno della capacità intellettuale e tecnica dei giurati, forse non basterebbe nemmeno più il centauro, ma bisognerebbe scendere ancora di qualche gradino la scala zoologica.

Ma, si dice: i giurati portano nei loro giudizi un senso di umanità, hanno una sensibilità maggiore dei magistrati togati; il giudizio dei giurati aderisce maggiormente al sentimento dell’opinione pubblica. Questo è vero sino ad un certo punto, perché credo che ognuno di noi potrebbe ricordare casi di assolutorie scandalose e, nel tempo stesso, verdetti intonati a una severità assolutamente irragionevole ed insensata. Questi squilibri, queste sperequazioni si verificano tanto con i giurati come con i giudici togati. È questione di temperamento. Vi è il giudice mite e il non mite; il clemente e il non clemente, così tra i giurati che tra i magistrati. Ma per me vi è un altro pericolo ben più grave nel responso dei giurati ed è quello a cui stamane accennava l’onorevole Crispo: nel responso dei giurati troppo spesso giuoca il fattore passionale e lo spirito di parte. Non dimentichiamo che noi viviamo in un’età nella quale i partiti si rafforzano, si estendono. La sfera di influenza dei partiti tende a farsi sempre più estesa e sempre più profonda. Lo spirito del partito oggi è presente in tutte le questioni, e soprattutto nelle questioni giudiziarie.

E quale il pericolo per la giustizia? Immaginate, ad esempio, che un democristiano sia tradotto alla Corte di assise per rispondere di un delitto politico, e che il caso voglia (e non è un caso infrequente; è quello che oggi spesso si verifica nelle assisi straordinarie) che la giuria sia composta in prevalenza di elementi appartenenti ad un partito avversario. Ma credete voi seriamente che questo disgraziato imputato potrà confidare nella serenità e nella imparzialità dei propri giudici? E gli esempi si potrebbero moltiplicare.

Supponete che vi sia un Tizio, il quale sia rinviato a giudizio dei giurati per rispondere, ad esempio, di vilipendio ai ministri del culto compiuto attraverso la stampa, e supponete che il caso voglia che a presiedere la giuria ci sia un mangiapreti arrabbiato sul tipo del nostro collega ed amico Tonello. (Si ride). Ma ditemi, signori, se in questo caso l’imputato non può scommettere, anche se colpevole, sulla propria assolutoria prima ancora di aver aperto bocca.

Ora questi esempi rappresentano altrettanti attentati alla serietà ed alla imparzialità della giustizia, attentati ai quali si potrebbe mettere rimedio in un solo modo, quello che ha suggerito stamane il collega Crispo, il quale, nel mettere in luce una delle tante incongruenze e contraddittorietà del progetto di Costituzione, si chiedeva: ma perché soltanto per i magistrati e non per i giurati è stata escogitata la norma, secondo cui i giudici non possono appartenere a dei partiti politici? Ma io mi domando: quanti di coloro i quali oggi battono le mani all’istituto della giuria, esaltano la giuria, sarebbero disposti ad approvare una norma, con la quale si disponesse che non possono fungere da giurati coloro che appartengono a partiti politici? A parte l’ovvia osservazione che, se si dovesse stabilire una norma di questo genere, la giuria sarebbe automaticamente ed in anticipo abolita per assoluta mancanza di materia prima.

A proposito di questa norma, mi consenta l’Assemblea di dire che non mi sento di approvare la disposizione contenuta nel progetto, con la quale, in una forma categorica e cruda, si stabilisce che i magistrati non devono essere iscritti ad alcun partito politico. E questo evidentemente non perché non avverta una necessità che è intuitiva. È intuitivo che il magistrato, se vuol salvaguardare la propria indipendenza, non può legarsi a un partito, e sottostare alla disciplina di un partito; ciò sminuirebbe la sua indipendenza, o, nella migliore delle ipotesi, creerebbe il sospetto di una minorata indipendenza; e, in certi casi, l’apparenza equivale alla sostanza.

Nella mia coscienza di liberale non soltanto, ma nella mia sensibilità di uomo, io non mi sento di approvare questa norma, perché, inserita nella Costituzione, per me questa norma ha tutto il sapore di una lezione di buon costume che si vuol dare ai magistrati, e che i magistrati non meritano.

Questo è un problema che deve essere affidato esclusivamente alla sensibilità ed alla coscienza del magistrato; è il magistrato, esso per primo, che deve avvertire il dovere morale, per la tutela della sua indipendenza, di non legarsi ad un partito; e badate, che questa è una delle tante – e forse la non più grave – delle inibizioni e delle restrizioni alle quali il magistrato necessariamente deve uniformare la sua vita pubblica e privata, per non vedere sminuito il suo prestigio, e per allontanare il sospetto che egli sia legato a forze, le quali limitino o vulnerino la sua dignità e la sua indipendenza.

Terzo punto: soppressione della giurisdizione militare in tempo di pace. Io mi sono chiesto, anche qui: quale il motivo di questa norma, quale la ragione, quale il fine di questa disposizione? Mi sono chiesto: «L’avete introdotto per salvaguardare il principio della unità della giurisdizione?». La ragione, francamente, non sarebbe seria: perché basta scorrere il progetto di Costituzione per constatare che sono tante e tali le esclusioni e le eccezioni contenute nel progetto, per cui possiamo dire che la unicità della giurisdizione ormai è rimasta soltanto un pio e non glorioso ricordo.

È stato fatto, invece, per un senso di avversione, di diffidenza verso il giudice militare? E allora, permettetemi di dire che questa diffidenza è del tutto ingiustificata. E, badate, che se modestamente lo dico io in questo momento, vorrei che fosse vivo Bentini, perché venisse lui con la sua eloquenza a rivendicare degnamente lo spirito del giudice militare. Io ricordo un discorso di Bentini, pronunciato alcuni anni orsono in questa Aula. Parlando in nome del Gruppo socialista – mentre si discuteva sulla giustizia militare – Bentini, con quello slancio di generosità che gli era proprio, ha sentito il dovere di rivendicare il senso di umanità e di clemenza del giudice militare (Approvazioni). Ed allora perché sopprimere il giudice militare?

Intendiamoci bene! Io sono tra coloro che postulano una giurisdizione militare, in tempo di pace, ridotta e limitata esclusivamente ai reati tipicamente militari: cioè, la funzione punitiva militare deve consistere soltanto nella integrazione della funzione disciplinare, strumento indispensabile per tenere salda la compagine dell’esercito. Orbene, se la giurisdizione militare in tempo di pace deve essere limitata unicamente ai reati strettamente militari, con quale serietà affidare il giudizio di questi reati, che costituiscono una forma aggravata d’infrazione alla disciplina militare, a giudici ordinari?

Signori, questo significherebbe semplicemente voler disambientare la giustizia, affidare il giudizio di questi reati a magistrati svogliati, inetti, perché assolutamente lontani dallo spirito e dalle esigenze della vita militare.

Si dice: si costituisca una Magistratura specializzata. Questo dovrebbe essere il rimedio; ma, secondo me, non sarebbe un rimedio, ma un modo di complicare le cose.

Ben strana pretesa quella di prendere un ramo della Magistratura ordinaria e confinarlo in un reparto stagno. Che cosa avverrà di questo ramo, il quale, da un lato, perderebbe il contatto con la Magistratura ordinaria, e, dall’altro, non avrebbe contatto con la vita dell’esercito? Questo ramo sarebbe destinato a disseccarsi, perdendo, così, i pregi e le caratteristiche sia del magistrato civile come del magistrato militare.

È per queste ragioni che io aderisco all’emendamento proposto dall’onorevole Gasparotto per la soppressione del comma, con cui si stabilisce che i tribunali militari potranno essere istituiti soltanto in tempo di guerra.

Riguardo all’indipendenza della magistratura, non v’è più molto di nuovo da dire. È problema delicato, appassionante, divenuto attuale dopo quanto abbiamo subito durante il periodo fascista, ma è un problema non nuovo, che ha le sue radici in un lontano passato. Basterebbe ricordare che, della indipendenza della magistratura, se ne parlò innanzi al Parlamento italiano mezzo secolo fa; e molti tra di noi conoscono il mirabile discorso che in quella occasione, e su questo tema, fu pronunziato da Giuseppe Zanardelli; discorso che conserva tale freschezza di idee, da poter essere utilmente ripetuto ancora oggi in quest’Aula.

Aveva ragione il collega Bozzi, quando ieri diceva che il problema dell’indipendenza della Magistratura ha due aspetti: un aspetto, dirò così, esteriore ed un aspetto interno.

Un aspetto esteriore, che riguarda i rapporti tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato; un aspetto interno, che riguarda l’esplicazione dell’attività funzionale del magistrato in seno alla medesima Magistratura.

Ed aveva del pari ragione l’onorevole Bozzi, quando affermava che il progetto di Costituzione ha risolto soltanto a metà il problema dell’indipendenza della Magistratura. Sì, è vero, voi della Commissione avete considerato le garanzie dell’indipendenza della Magistratura in rapporto alla carriera dei magistrati; ma, alla fin fine, voi avete considerato questo problema soprattutto nei rapporti col potere esecutivo; il vostro sforzo è stato rivolto a sganciare, per quanto fosse possibile, la Magistratura dal potere esecutivo. E l’avete fatto, secondo me, in una forma che mi pare felice.

Certo, la soluzione ideale difficilmente si può trovare in questa materia. Da un lato v’è l’aspirazione di rendere la Magistratura più indipendente possibile; dall’altro, v’è una esigenza che tutti avvertiamo: non possiamo considerare la Magistratura come un astro isolato e vagante al di fuori di ogni sistema. Anche la Magistratura deve muoversi nell’ambito della sovranità dello Stato e deve collaborare con gli altri poteri dello Stato, per l’attuazione di tale sovranità. Sì, è difficile trovare una soluzione ideale; mi pare tuttavia che il progetto, su questo punto, abbia trovato una soluzione abbastanza felice, allorquando, dopo aver stabilito le necessarie garanzie, le opportune difese, che possono garantire l’indipendenza della Magistratura nel suo funzionamento interno, sia per quanto riguarda la carriera dei magistrati, sia per quanto riguarda il governo interno della Magistratura di fronte alla necessità di creare un collegamento tra la Magistratura e gli altri poteri dello Stato, ha stabilito, al capoverso dell’articolo 97, che «il Ministro della giustizia promuove l’azione disciplinare contro i magistrati, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario».

Che cosa significa questo? Si è inteso di riconoscere al Ministro della giustizia una potestà di vigilanza sull’andamento della Magistratura, ed anche un potere ed un dovere di intervento, in caso di trasgressione. Io avrei preferito che a questo capoverso si fosse data una formulazione ancor più ampia e più chiara, che si fosse detto esplicitamente, che il Ministro della giustizia risponde del buon andamento della Magistratura in seno al Governo e di fronte al Parlamento.

Ma è stato, dicevo, risolto soltanto a metà il problema dell’indipendenza della Magistratura. Per esempio, neppure una parola è detta nel progetto sull’autonomia finanziaria della Magistratura. Eppure occorreva rendersi conto che mettere la Magistratura al riparo dalle insidie e dai pericoli che possono provenire dal potere esecutivo significa tutelare l’indipendenza della Magistratura soltanto da un fianco, ma significa anche lasciare scoperto l’altro fianco, lasciarlo esposto ad altre insidie, di diversa provenienza, ma non per questo meno temibili. Bisogna prendere gli uomini quali veramente sono. Fintanto che non si sarà risolto radicalmente il problema del trattamento economico del magistrato, fintantoché il magistrato non sarà liberato dalla preoccupazione del bisogno, noi non potremo pensare ad un magistrato sicuramente corazzato contro tutti i pericoli, che possono insidiare e minacciare la sua indipendenza.

Si è pensato di creare l’organo che dovrebbe garantire l’indipendenza della Magistratura: il Consiglio Superiore della Magistratura. Io mi permetto di dissentire sui criteri che sono stati seguiti dalla Commissione circa la composizione di quest’organo. Avete creato un corpo di guardia, con la consegna di difendere l’indipendenza della Magistratura, ne avete fatto un corpo di formazione mista, in parte nominato dalla Magistratura ed in parte dall’Assemblea. Avete pensato anche a nominare il generalissimo, nella persona del Presidente della Repubblica. Perché? A quali fini e con quali scopi avete pensato di affidare la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura al Presidente della Repubblica? Soltanto per dare maggiore prestigio a questo Consiglio? È soltanto un arabesco, un pennacchio, come direbbe l’onorevole Ruini, destinato ad abbellire la facciata? Se così è, leviamolo di mezzo senz’altro, non creiamo delle inutili illusioni, ricorrendo all’espediente di elementi decorativi. Materia ornamentale ve n’è già tanta in questa Costituzione, che toglierne una parte non credo che nuoccia alla saldezza della Costituzione stessa.

Ma, signori, dalla lettura di qualche opuscolo e di qualche ordine del giorno provenienti dall’Associazione dei magistrati, ho potuto constatare che alla presidenza del Consiglio, affidata al Presidente della Repubblica, si intende dare ben altro significato e ben altro valore.

Si sostiene: il Presidente della Repubblica sia il Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, perché egli possa essere, quando occorra, il supremo moderatore ed il supremo coordinatore nei rapporti della Magistratura con gli altri poteri dello Stato. La tesi incomincia a diventare seria. Io faccio l’ipotesi di un eventuale conflitto fra i poteri dello Stato e mi domando: ma, in quale situazione di imbarazzo verrà a trovarsi il Presidente della Repubblica, il quale, in caso di conflitto, dovrebbe intervenire non come una autorità collocata al disopra della mischia, ma come il rappresentante diretto ed il diretto esponente di una delle parti in conflitto?

Quanto ai membri eletti dall’Assemblea è inutile che io dimostri – è già stato detto da altri – quale pericolo rappresenti il fatto, che proprio in seno al Consiglio Superiore della giustizia – l’organo che avrebbe la funzione specifica di tutelare l’indipendenza della Magistratura – siano inclusi elementi, i quali devono la loro elezione ad una Assemblea squisitamente politica come è l’Assemblea Nazionale.

Ma v’è qualche cosa di ben più singolare in questo articolo, permettetemi di dirlo, qualche cosa di così singolare, che per me ha persino un sapore umoristico, allorquando a proposito degli eletti dall’Assemblea Nazionale, si stabilisce che costoro non possono esercitare la professione finché fanno parte del Consiglio stesso.

V’è da presumere che, se l’Assemblea Nazionale intende scegliere gli elementi che devono far parte del Consiglio Superiore della Magistratura nella cerchia degli avvocati, ricercherà i più degni, i più eminenti: i professionisti di primo piano. Ma allora, se vogliamo stare nella realtà, ditemi quanti ne troverete professionisti di primo piano, dotati di tale spirito francescano da rinunciare ai loro vistosi proventi professionali, soltanto per l’onore di appartenere al Consiglio Superiore della Magistratura? E se costoro non fossero animati da tanto spirito di sacrificio (lo domando a voi, e lo vorrei domandare soprattutto all’onorevole Einaudi), che cosa verrebbe a costare all’erario il Consiglio Superiore della Magistratura, quando dovesse corrispondere un adeguato emolumento a questi satrapi della professione, disposti a deporre la corona di principi del foro per assumere quella di membri del Consiglio Superiore della Magistratura?

È per questo che io mi sono permesso di proporre un emendamento che modifica l’articolo del progetto. Intendiamoci bene: io personalmente sono dell’opinione che sarebbe molto meglio costituire un Consiglio Superiore formato esclusivamente da magistrati, ma si nutre il timore della casta chiusa, il timore che il Consiglio Superiore si cristallizzi nell’egoismo dei suoi interessi e delle sue prerogative. Bisogna, è stato detto, areare l’ambiente, bisogna immettere elementi estranei alla Magistratura, ecc.

Ebbene, io mi sono permesso di proporre una soluzione che non ha la pretesa di essere la più felice, ma che forse rappresenta un modo per sfuggire agli inconvenienti che ho testé enunciati; ed ho ragionato in questo modo: prima di tutto riduciamo la durata del periodo in cui i sullodati membri debbono restare in carica, onde non possano infeudare il Consiglio per la bellezza di sette anni. Riduciamola a quattro anni; parimenti riduciamo il numero dei componenti soltanto ad un terzo. Inoltre, gli elementi estranei alla Magistratura. siano scelti fra i Presidi delle facoltà di giurisprudenza, cioè tra persone lontane, per ragione dei loro studi, dalla politica, e che, per la loro cultura, per il posto che occupano, possono dare lustro al Consiglio Superiore della Magistratura. Ed ho proposto, che siano designati dal Consiglio Superiore della pubblica istruzione, per togliere di mezzo la procedura macchinosa delle elezioni, e anche perché mi è stato assicurato che il Consiglio Superiore della pubblica istruzione è, di per se stesso, un corpo elettivo.

Ho finito, salvo ricordare, se l’onorevole Presidente mi consente, l’onesto e candido ordine del giorno, che mi sono permesso di presentare relativamente al ripristino delle Corti di cassazione regionali soppresse dal fascismo.

Dico candido ed onesto ordine del giorno perché le ragioni per le quali io sollecito la restaurazione di un istituto già esistente e soppresso dal fascismo, sono nitidamente esposte, ed apertamente precisate nel mio ordine del giorno. Non v’è che da scorrerlo, per conoscerle, e per poterne apprezzare l’intrinseco valore, accanto alla confutazione delle ragioni opposte.

E un ordine del giorno – (lo dico a titolo di soddisfazione) – che reca le firme di colleghi di tutti i settori della Camera. E questo è un fatto consolante, perché significa che, quando ci troviamo di fronte a ragioni di autentica giustizia, scompaiono le distinzioni e le divergenze di partito.

Il mio ordine del giorno ha suscitato proteste, che avevo preveduto, perché riconosco lealmente, che esso involontariamente ferisce interessi rispettabilissimi, anche se non tutti di ragione prettamente ideale, che si sono venuti consolidando in questi venticinque anni.

Ma ecco che è sopraggiunta la protesta della Suprema Corte, e per di più, ieri in quest’Aula ha echeggiato il grido appassionato, angosciato dell’amico Bozzi: «Corti di cassazione regionali? Ma, dopo di esse, sbucheranno le Corti di cassazione di ogni singola Regione. In tal modo – diceva l’amico Bozzi – voi frantumate l’unità della giurisprudenza, voi colpite a morte l’unità dello spirito nazionale». Poco è mancato che non si sia detto che la Patria è in pericolo…

GASPAROTTO. La patria giurisprudenza..

VILLABRUNA. Amico Bozzi, prima esistevano cinque Cassazioni regionali, e di questo delitto di lesa patria, noi non ce ne siamo mai accorti.

Si dice: «Le Cassazioni regionali frantumano l’unità della giurisprudenza». Orbene, la difformità della giurisprudenza esiste anche con la Cassazione unica, e, in fondo, non è un gran male, perché l’urto delle idee giova, nelle questioni giuridiche. Ed io mi permetto di dirle, amico Bozzi, che la Cassazione unica ha un grande inconveniente: quello di favorire uno stato di inerzia, perché una volta trovata la massima della Cassazione unica, a chi vien dopo di essa non par vero di sedersi su quella massima come sopra una soffice poltrona, dalla quale non è facile e non è gradito di sollevarsi.

E infatti, senza far torto al Supremo Collegio, non c’è che da esaminare la giurisprudenza d’oggi per dover lealmente riconoscere che, con la Cassazione unica, la giurisprudenza si è anchilosata, si è impoverita.

PERSICO. No!

VILLABRUNA. Il collega Persico dice di no, perché quanto più povera è la giurisprudenza, tanto più facili sono per lui le vittorie in Corte di cassazione. (Ilarità).

Ora, onorevoli colleghi, uno dei pregi delle Cassazioni regionali sarà precisamente quello di destare lo spirito di emulazione fra Cassazione e Cassazione, e di dare così impulso alla giurisprudenza e all’elaborazione del diritto.

E non venite a dirmi che con il ripristino delle cinque Cassazioni, ciascuna Regione pretenderà di averne una sua. Intanto resti ben chiaro che noi chiediamo che siano ripristinate esclusivamente le Cassazioni soppresse dal fascismo; per quanto riguarda quelle che potranno essere invocate dalle singole Regioni, a ciò penseranno i nostri nipoti, se questa Costituzione sarà ancora in piedi.

Ma – ed ho finito – v’è una ragione che vale, amico Bozzi, tutte le altre perché la nostra istanza sia accolta: è inutile proclamare democrazia! democrazia!, democrazia!, quando all’atto pratico si tenta poi di ostacolare qualsiasi iniziativa che sia diretta a dare una fisionomia democratica alla giustizia, che tenda a spianare la via per portare la giustizia al livello del popolo, per renderla ad esso accessibile.

È inutile voler negare una patente verità: vi sono preoccupazioni, condizioni di difficoltà che in quest’Aula non sono forse avvertite, non sono forse considerate in tutta la loro importanza; ma, nella vita reale, me lo sa dire lei, amico Bozzi, che cosa significa affrontare, specialmente in materia civile, un ricorso in Cassazione? La Cassazione è diventata un articolo di lusso, è un bel tempio nel quale possono accedere, sì, quelli che dispongono di larghi mezzi finanziari, ma dalla cui porta debbono rimanere fuori coloro che non sono in queste condizioni.

Ecco la ragione più forte, che ci ha stimolati a chiedere il ripristino di queste Cassazioni regionali. Noi domandiamo che si elimini un iniquo privilegio, che si metta la giustizia alla portata di tutti, perché un simile privilegio è ingiusto e antidemocratico!

Noi sentiamo l’onesto orgoglio di avere formulato tale istanza col nostro ordine del giorno. Avrà fortuna? Non avrà fortuna? Io non lo so. Concludo però con il dire, che io mi sento fiducioso, quando penso che il nostro ordine del giorno è stato presentato ad un’Assemblea che giustamente si gloria del suo spirito democratico, delle sue origini democratiche, e, se questo veramente è, io credo che l’Assemblea non sarà insensibile al nostro appello. (Applausi – Molte congratulazioni).

Verifica di poteri.

PRESIDENTE. La Giunta delle elezioni, nella riunione odierna, ha verificato non essere contestabili le elezioni dei deputati:

Gaetano Chiarini, per la circoscrizione di Brescia (VI);

Antigono Donati, per la circoscrizione de L’Aquila (XXI);

Francesco Restivo, per la circoscrizione di Palermo (XXX); e, concorrendo negli eletti i requisiti previsti dalla legge elettorale, ne ha dichiarata valida la elezione.

Do atto alla Giunta di questa sua comunicazione e, salvo i casi di incompatibilità preesistenti e non conosciuti fino a questo momento, dichiaro convalidate queste elezioni.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.

VINCIGUERRA. Onorevoli colleghi, è mia modesta opinione che il nostro intervento in questo dibattito debba avere per scopo di porre dei concreti problemi giuridici e di starvi poi vicini per quanto più è possibile; giacché questa materia del Titolo IV è assai vasta e anche un po’ seducente, per cui essa consente ed ha consentito le più ampie divagazioni; divagazioni alle volte non del tutto innocenti.

Per esempio, una di queste si è avuta a proposito delle Corti di assise, materia da procedura penale, materia che va riservata all’Assemblea legislativa di prossima elezione. Ma non si è tralasciata l’occasione per dire che il ripristino della Corte d’assise con i giurati rappresenterebbe la irruzione della folla anonima, del numero – diceva l’onorevole Crispo – indifferenziato nell’amministrazione della giustizia. Il numero indifferenziato non sa distinguere; e, di conseguenza, non sa giudicare. E poi, in via di esemplificazione, si diceva: Ma vi pare possibile nel momento in cui i giudizi penali diventano prevalentemente tecnici, avere il giudizio esatto dal povero montanaro, dall’operaio o dal semianalfabeta, che è stato scelto per l’occasione e investito dell’alta funzione della giustizia? Dimenticava però l’onorevole Crispo che le migliori arringhe in materia di tossicologia ebbe a pronunciarle Nicola Amore proprio innanzi alle Corti di assise con i giurati.

Una divagazione, a mio modo di vedere: in quanto sarebbe bastato dire che i giurati vanno selezionati, prescelti da categorie sociali che offrano le dovute garanzie, e dire ancora che alle Corti d’assise vanno riservati i delitti politici, i reati passionali, per vedere semplificato enormemente il problema e non sentirsi autorizzati a prospettarlo sotto la forma paurosa d’una demagogia che invade, per cui si è sentito quasi il bisogno di tracciare le linee di un trattatello di perfetta democrazia.

Sì, si dimentica, a proposito della aborrita Corte di assise, che il giurato poteva essere scartato se non offriva le dovute garanzie. Un maestro delle giurie è l’onorevole De Caro, e sa se c’era o meno questa garanzia! Si dimentica – d’altra parte – che la giuria è destinata alla valutazione del fatto umano, del fatto umano nel suo complesso, nella sua naturalità e passionalità, dinanzi al quale il giudice togato, abituato alla formula, all’inquadratura giuridica, alle volte resta opaco, ed inaccessibile.

Per questi oppositori la giuria è pericolosa e l’onorevole Villabruna faceva un esempio dei più caratteristici, un esempio che è stato come un anello dalla magnifica catena di idee ardite della sua esposizione. E faceva l’ipotesi di un imputato che vada a finire dinanzi ad una giuria composta prevalentemente di democristiani, ed egli sia per ipotesi un socialista o un comunista, e prospettava la triste sorte del disgraziato. Ma l’esempio non calza col vero, perché se è stato fatto il divieto ai magistrati di appartenere a partiti politici, ognuno di essi avrà ciò non pertanto le sue idee politiche, la sua passione politica; dimodoché, se quell’esempio dell’onorevole Villabruna dovesse valere qualche cosa, dovrebbe portare diritto alla abolizione di tutte le forme di giudizio, comprese quelle dei magistrati. Quell’esempio fa parte delle assurdità che vengono messe in campo per combattere l’istituto della giuria, che ha reso grandi servizi alla libertà, un istituto che comunque ci viene dalla libera Inghilterra, la quale, se non erro, non è poi il paese più arretrato ed analfabeta di questo mondo.

Dunque, si è divagato intorno alle Corti di assise.

E invece, abbiamo da porre problemi giuridici concreti. Uno per la Magistratura è stato posto, e non ho la pretesa di dire delle cose originali: quello sulla indipendenza del potere giudiziario.

Come garantire questa indipendenza? È un problema. Ma di contraccolpo ci si domanda: come evitare che la Magistratura diventi una casta? Infatti, onorevoli colleghi, un potere giudiziario che sia casta è non meno pericoloso di un potere giudiziario che sia prono, asservito al potere esecutivo. Si obiettava che un’autonomia rigorosa concessa al potere giudiziario per costituirne l’indipendenza non può portare di per se stessa al pericolo della casta chiusa, e si citava l’esempio dei consigli professionali e di questa stessa Assemblea – mi pare che parlasse così l’onorevole Crispo – la quale e i quali consigli professionali con la loro autonomia in nulla hanno pregiudicato anche al loro libero e salutare funzionamento. Ma se non erro c’è qui un equivoco fondamentale. Sta in questo: la Magistratura ha funzioni di sovranità, applica la legge, ha una forza e una attività di sanzioni operativa verso di tutti. La sentenza che sia passata in giudicato costituisce un ostacolo, uno sbarramento per tutte le pretese. Ora, i consigli professionali hanno la stessa autorità, lo stesso potere di applicazione di legge? Lo avrebbe per caso l’Assemblea politica, per esempio la nostra Assemblea Costituente? Sissignori; noi abbiamo il potere di legiferare, però questa è un’Assemblea che domani sarà sottoposta ad un giudizio – e che specie di giudizio! – quello delle elezioni; un giudizio davvero universalistico, il quale ne valuterà tutta l’opera. E se è così, questa Assemblea non può essere mai confinata nella categoria delle caste.

Ma quando diciamo che vi è il pericolo che la Magistratura diventi una casta accenniamo alla possibilità che essa diventi un potere che non ammetta forme di controllo se non attraverso la propria gerarchia. Ora, una Magistratura di questo genere evidentemente deve preoccuparci e ci preoccupa. Ma, prima di questo, l’Assemblea deve preoccuparsi di dare la garanzia dell’indipendenza alla Magistratura. C’è un articolo in questo progetto di Costituzione che è di un’audacia quasi unica; è l’articolo 126, quello che dà vita ad uno strano istituto, l’istituto della Corte costituzionale. Ad esso attribuisce un potere assolutistico quando dice che la Corte costituzionale giudica della costituzionalità di tutte le leggi.

Ora, signori miei, dire che la Corte costituzionale possa giudicare della costituzionalità di tutte le leggi a me pare che significhi dire qualche cosa che non risponde e non può rispondere all’effettivo funzionamento dei poteri dello Stato, e tanto meno al funzionamento del potere giudiziario, giacché il potere giudiziario ordinario ha rapporti con l’esecutivo, ha rapporti con le amministrazioni, ha rapporti perfino con il Parlamento. Difatti facciamo l’ipotesi (una ipotesi, del resto, che è già un fatto per quello che è avvenuto con la ratifica dell’ultimo trattato di pace che importa limitazioni anche di diritti individuali di libertà), che un trattato di carattere internazionale, ratificato dalla Assemblea, sancisca determinate forme di rapporto fra privati e i privati insorgessero, lesi nel loro diritto, presso l’autorità giudiziaria ordinaria. Potrebbe la Magistratura esimersi dal portare il suo esame sulle formalità di questo trattato e vedere se esso ha avuto tutti i crismi e se è entrato nella vita internazionale con le forme che sono prescritte perché il trattato possa avere la sua vita giuridica? Evidentemente no; il potere giudiziario avrebbe questo diritto. Alla Corte Suprema di cassazione non potrà essere vietato il sindacato della costituzionalità. Ed allora esso non può essere riservato come un patrimonio esclusivo alla Corte costituzionale di nuova creazione. Necessità quindi di garantire le condizioni dell’indipendenza a questo potere giudiziario, che può entrare in contrasto anche con gli altri poteri dello Stato nell’applicazione della legge.

Contrasto e non conflitto rivoluzionario, come ipotizzava poco fa nella sua fantasia il preopinante onorevole Villabruna, pensando addirittura ad un urto con il Presidente della Repubblica quale Presidente del Consiglio Superiore. Se si verificasse una ipotesi del genere, effettivamente saremmo in piena rivoluzione. Ma questo progetto di Costituzione garantisce la indipendenza della Magistratura? A me pare di no. Ed è proprio l’articolo 97 che la vulnera. Questo articolo 97 che la vulnera non già con la creazione di un secondo vicepresidente pleonastico, ovvero col mettere il Presidente della Repubblica, che rappresenta l’unità dello Stato, a presiedere il Consiglio Superiore, ma con l’introdurvi l’elemento politico, e per giunta, in parità numerica con l’altro elemento eletto dai magistrati. Una parità numerica che inficia l’indipendenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Allora si ravvisa opportuno accogliere il voto dell’Associazione nazionale dei magistrati che propone vi sia l’elemento elettivo, ma con la prevalenza numerica di quello designato dai magistrati. Così avremmo nell’interno del Consiglio Superiore fattori che ne garantiscano la indipendenza e nel contempo evitino il pericolo della casta chiusa.

Perché è bene riflettere sul funzionamento e sui poteri di questo Consiglio Superiore della Magistratura, il quale segue tutta la vita del magistrato dall’assunzione alla promozione ed ai trasferimenti. Un organo del genere che fosse sotto l’influenza politica, sarebbe evidentemente un organo non adatto a dare una Magistratura indipendente, perché il magistrato è un uomo e non un eroe e sottoposto a questa forma di controllo, potrebbe essere tentato di ubbidire piuttosto alla voce del suo interesse personale anziché alla missione che lo Stato gli affida.

Di emendamenti ne sono stati proposti molti, e ne pigliamo atto con gradimento in quanto dimostrano che questa Assemblea non lascia passare le disposizioni del Titolo IV così, come sono, ma le sottopone al vaglio della sua critica e le modifica conformemente a quelle che ritiene siano le necessità nazionali.

Mi riservo in ogni modo di presentare per mio conto, se necessario, quegli emendamenti che valgano a far sì che il Consiglio Superiore sia un organo di tutela della Magistratura e non il preoccupatore.

Se, per quanto riflette la indipendenza del magistrato, si può trovare nella composizione del Consiglio Superiore qualcosa che non va occorre far presente all’Assemblea che non soltanto nel suo funzionamento può trovarsi la garanzia o meno della indipendenza della Magistratura. Alla indipendenza della Magistratura sono coordinate altre questioni, non meno importanti. Noi dobbiamo attendere ad un altro dei problemi giuridici, che io dicevo doversi proporre in concretezza al giudizio dell’Assemblea. La costituzione del pubblico ministero deve avvenire in modo che esso non sia, come oggi è, organo del potere esecutivo, ma organo giudiziario, parte del corpo della Magistratura; non sia l’occhio vigile di un potere estraneo, insinuato in quello giudiziario, ma sia invece il collaboratore per l’attuazione della legge, un elemento di questo potere.

C’è un’altra questione che non va tralasciata, non questione di carattere temporaneo; bisogna avere le Cassazioni regionali o la Cassazione unica?

È augurabile che ci sia unica Cassazione. La giurisprudenza ha variato; tuttavia ha variato meno di quando c’erano le cinque Corti regionali.

C’è un problema insito allo stesso organismo della Magistratura: il problema delle autorizzazioni a procedere.

Vogliamo l’azione penale libera, ma non rare volte avviene che l’azione penale è sbarrata da un divieto. Perché il giudizio possa avere il suo corso, c’è bisogno della così detta autorizzazione; la quale, alle volte, riguarda non già questo o quel funzionario della pubblica amministrazione, che abbia potuto commettere un reato nell’esercizio delle sue funzioni, ma persino estranei che abbiano potuto prestare la loro assistenza in fatti alle volte assai gravi, diretti contro la integrità fisica dei cittadini e la loro libertà. È la testuale disposizione dell’articolo 16 del Codice di procedura penale. Questo tuttavia è il caso meno preoccupante di divieto di esercizio dell’azione penale senza autorizzazione. Ve ne sono altri forse di maggior rilievo, diretti a creare la impunità a funzionari con attività meramente politica. Daremo le necessarie specificazioni in sede di emendamento.

Da più parti sono state avanzate istanze per il miglioramento delle condizioni economiche dei magistrati, condizione prima della loro indipendenza. Non lo disconosciamo, ma ci sia lecito osservare che non è certo compito della Carta costituzionale fissare i limiti degli stipendi. Ci sia una garanzia economica, ma noi, che facciamo una Carta costituzionale, dobbiamo dettare delle norme giuridiche di carattere permanente e queste norme di carattere permanente debbono essere dirette, soprattutto, a sgombrare il terreno della giustizia da quegli impedimenti, che tuttavia ci sono, e rappresentano il triste retaggio della diffidenza della pubblica amministrazione di regimi autoritari che non consentivano che l’occhio della giustizia penetrasse nei loro organismi. Ed allora la garanzia dell’indipendenza della Magistratura non deve essere una frase così, lanciata in aria, ma qualche cosa di complesso e di assai serio. La garanzia esterna di indipendenza del potere giudiziario sta nella inamovibilità della Magistratura. Ma è bene intendere che la inamovibilità dei magistrati non è un favore personale fatto ad essi, ma è una garanzia posta nell’interesse dei giudicabili, e la inamovibilità è una massima costituzionale che non ha bisogno di essere dimostrata.

Le Costituzioni moderne hanno affermato il diritto alla inamovibilità dei giudicanti, sia pure con alcuni temperamenti.

Ma, se la Magistratura ha bisogno di garanzie giuridiche, dell’intervento a suo favore del potere costituente, diciamolo pure: la Magistratura deve trovare anche in se stessa la ragione ed il motivo della propria garanzia. In se stessa, esercitando nobilmente la sua funzione; ed intanto una delle piaghe della Magistratura è il carrierismo, che porta alle disfunzioni. Onde, se una modifica vi deve essere nell’ordinamento giudiziario, io mi augurerei che fosse la modifica che desse, come unico sistema di promozione, quello dell’anzianità e lasciasse libera soltanto la facoltà, a chi lo vuole, di poter avere la promozione attraverso il concorso per esami. Niente promozioni per il solo merito, distinto o meno che fosse. Vi sono le promozioni di categoria e di grado, le quali, affidate al potere irrefrenato del Ministro, tolgono ogni valore alla inamovibilità. Non si è fatto molto con la inamovibilità, perché il potere esecutivo, se non ha il mezzo di punire, ha quello di ricompensare. La promovibilità è tra le sue mani un mezzo di influenza tanto efficace, e conseguentemente così pericoloso quanto l’amovibilità; specialmente se si tratta di una promovibilità arbitraria. Per tal modo l’inamovibilità diventa una pura lustra. Ciò ci induce a ritenere che la promozione di grado debba avvenire per l’anzianità di servizio.

E con quest’ordine di idee modestamente esposte, giacché non ho avuto la pretesa di venire qui a tracciare la Carta definitiva del potere giudiziario, ma prospettare singoli problemi, credo di avere adempiuto al dovere che ha ciascuno di noi di dire liberamente il proprio pensiero su un titolo quale il IV, tra i più importanti della Carta costituzionale. (Applausi).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Varvaro e Fusco, iscritti a parlare, si intende che vi abbiano rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Bettiol. Ne ha facoltà.

BETTIOL. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi siamo qui come dei rari nantes nel gurgite vasto di questo argomento che ci afferra tanto nei suoi momenti razionali, quanto in quelli passionali: l’argomento della Magistratura, che è poi l’argomento dell’amministrazione della giustizia che rese pietoso l’uomo verso se stesso e verso gli altri, come disse più di un secolo fa un nostro grande poeta; pietoso di quella pietas la quale è l’espressione concreta della giustizia. Ed intendiamo per giustizia la concreta applicazione della norma di legge, perché tutto il problema della Magistratura nella sua interna organizzazione, nei suoi poteri, nelle sue libertà, nella limitazione delle sue libertà, è polarizzata attorno all’applicazione singola dell’astratta norma di legge. Norma di legge che non può essere concretamente applicata così, come si appiccica un francobollo alla lettera che si spedisce, secondo l’immagine di un grande penalista vivente. L’amministrazione della giustizia, e, quindi, l’applicazione della legge è, invece, un vero e proprio dramma in quanto il processo può essere paragonato, ed è stato paragonato, ad una sacra rappresentazione, forse l’ultima delle sacre rappresentazioni che vengono ancora celebrate nel nostro secolo. Una sacra rappresentazione, quindi un dramma, che non può essere visto, impostato o risolto esclusivamente in base a criteri di logica astratta, quella logica astratta che un filosofo moderno, l’Unamuno ha considerato propria del foro e dei barbieri.

Questo problema deve essere impostato in base anche a criteri di logica concreta, in relazione non soltanto a quelli che sono gli interessi in conflitto fra di loro, come stamani accennava il collega Dominedò, ma anche in riferimento a quelli che sono i concreti valori morali e sociali. Se il problema della giustizia deve essere risolto in termini di logica concreta, più che in termini di logica astratta, è chiaro che il problema dell’amministrazione della giustizia, volenti o nolenti è, alla radice, un problema politico.

Io so che forse scandalizzerò più di uno dei colleghi che siede sui banchi di questa Assemblea, ma la conseguenza che scaturisce da questa impostazione del problema è che il momento politico non è estraneo a quella che può essere la organizzazione e la struttura della Magistratura, cioè di quell’organo che è chiamato in concreto ad applicare la legge.

Ora, se ci possono essere dei principî i quali sembrano forse sfuggire, nella loro enunciazione astratta, alla realtà concreta della organizzazione politica, è chiaro che, da che mondo è mondo, cioè da quando gli uomini hanno incominciato a riflettere sui problemi dell’amministrazione della giustizia, sono state le fondamentali concezioni politiche a determinare anche orientamenti e strutture dell’organismo giudiziario, e, quindi, anche dell’amministrazione concreta della giustizia. In altre parole questo problema deve essere impostato e risolto nel quadro delle determinanti concezioni e della realtà politica. Questo è un dato storico al quale non si sfugge. Io so che molti colleghi, moltissimi pensatori e studiosi dell’argomento, fanno appello al principio della divisione dei poteri, ed io per primo riconosco che il principio della divisione dei poteri risponde indubbiamente ad una delle fondamentali esigenze della nostra coscienza democratica, però (e lo disse anche stamane l’onorevole Dominedò) il principio della divisione dei poteri non può costituire un dogma logico e ontologico che vive al di fuori della storia; in altre parole noi, uomini che ci occupiamo di diritto e di politica, non possiamo, di fronte all’argomento della divisione dei poteri, metterci nello stato d’animo in cui, ad esempio, si mette il monaco tibetano di fronte alla montagna incantata, in una assoluta immobilità di fronte alle vette eterne e nevose, come uomini viventi al di fuori del flusso storico; noi dobbiamo sempre cercare di impostare e risolvere anche questo problema della divisione dei poteri in relazione alle strutture fondamentali del corpo politico democratico, nel quale noi ci muoviamo, e per il quale siamo qui operanti sul piano politico.

Ecco, quindi, il problema: per garantire una retta ed oggettiva amministrazione della giustizia, è necessario stabilire un regime costituzionale per la Magistratura, che sia tale da separare nettamente e marcatamente la Magistratura da ogni altro potere dello Stato, o non è più conveniente eliminare questa frattura, onde si arrivi, sì, alla necessaria libertà e indipendenza del magistrato, che singolarmente e concretamente è chiamato a dire ciò che è il diritto, ma nel quadro di un armonico riordinamento dei tre poteri.

Ora, di fronte a questa domanda, che affatica la nostra mente, le risposte sinora date da coloro che autorevolmente hanno parlato in argomento di fronte a questa Assemblea si possono ridurre a due. Da un lato (e ricordo gli interventi degli onorevoli Bozzi, Crispo e, sotto certi aspetti, dell’onorevole Villabruna) ci sono coloro che vogliono un regime costituzionale per la Magistratura, che sia veramente autonoma e indipendente da ogni altro potere, sicché, volenti o nolenti, anche se concretamente non lo affermano, devono arrivare logicamente a quel regime di casta chiusa, di circolo chiuso, dal quale essi dicono di voler, invece, rifuggire. In realtà però la logica è tale da trascinare costoro, prima o dopo, a quella conclusione, di portarli cioè, per la Magistratura, a determinare già sul piano costituzionale un regime tabù, vale a dire una specie di torre del silenzio entro la quale i magistrati nascono, vivono e muoiono, senza essere sottoposti neanche dopo la loro morte al travaglio degli avvoltoi politici che li stanno dall’alto della torre a guatare.

Ora, è indubbio che nell’ambito di questa casta, se questa casta dovesse realmente costituirsi sul piano costituzionale, per fatale corso delle cose, per fatale forza dei principî noi verremmo ad avere una Magistratura, in cui le funzioni si tramandano, come spesso accade, da padre in figlio, con una mentalità veramente chiusa, con mentalità – scusate la parola – spesso retriva.

Ora, è chiaro che questo, forse, può essere l’ideale di un certo liberalismo conservatore, di quel liberalismo che ama più i concetti che svettano al disopra delle nuvole, di quella che è la realtà viva e palpitante della nostra vita quotidiana e della nostra storia.

Dall’altra parte ci sono coloro i quali vorrebbero, invece, mettere, anima e corpo, la Magistratura sotto le forche caudine del potere esecutivo, del potere politico, sì da arrivare ad una vera e propria politicizzazione della Magistratura e dei canoni particolari, in base ai quali il magistrato sarà chiamato ad applicare la legge in relazione al caso concreto.

Questo processo di politicizzazione della Magistratura, questa totale subordinazione della Magistratura al potere politico, è stato proprio ed è proprio dei regimi antidemocratici e anticostituzionali, che non considerano il principio della divisione dei poteri come un principio direttivo, in relazione al quale questa questione dovrebbe essere impostata e risolta.

Ora, io credo che, tra queste due soluzioni, tra queste due strade opposte, le quali conducono a due poli opposti, si debba cercare di risolvere il problema passando attraverso una strada intermedia, cioè cercando di far sì che la Magistratura venga ad essere armonicamente inquadrata con gli altri poteri dello Stato, senza però che tali contatti armonici possano in concreto determinare, in relazione al singolo giudice, uno sviamento rispetto a quei canoni che debbono essere seguiti, perché la giustizia sia praticamente applicata.

Non quindi subordinazione assoluta della Magistratura al Ministro della giustizia e quindi all’esecutivo, ma d’altro canto nemmeno una soluzione che sganci completamente la Magistratura da quelli che sono gli altri fondamentali poteri costituzionali del nostro Stato democratico. Bisogna, cioè, cercare di arrivare ad una soluzione nell’ambito della quale la Magistratura possa, da un lato essere agganciata al potere esecutivo e, dall’altro, al potere legislativo, così come esiste, sotto molti profili, coordinazione fra il potere esecutivo e il potere legislativo.

Ora, voi sapete, onorevoli colleghi, che il progetto di Costituzione cerca di risolvere questo arduo problema mediante la costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura, i cui membri dovrebbero essere per la metà scelti dai magistrati e per l’altra metà scelti dalle Camere, presieduto poi dal Presidente della Repubblica.

Certo, io mi rendo conto di quelle che sono le obiezioni, anche giuste e fondate, in relazione alla presenza di questa metà di componenti scelti dalle Camere. Se infatti al Consiglio Superiore vengono commessi tutti quei poteri relativi alle nomine, alle promozioni, a tutto quanto, in una parola, si riferisce che carriere, è chiaro che coloro, i quali desiderano fare carriera, potranno puntare sugli elementi politici per avere un voto di maggioranza che consenta loro di avanzare sulla accidentata scala della loro carriera.

Io riterrei pertanto opportuno non già di eliminare i membri estranei dal Consiglio della Magistratura, ma di ridurre il loro numero dalla metà ad un terzo. Quanto ai membri estranei alla Magistratura che dovrebbero esser chiamati a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura, desidero dire anche che io, ad esempio, mi guarderei bene dall’aderire ad alcuni emendamenti che ho visto proposti nel fascicoletto che li raccoglie.

Non vorrei, nella specie, aderire all’emendamento proposto dall’onorevole Villabruna, il quale propone che questi membri estranei siano tutti scelti tra i presidi delle facoltà giuridiche. Io mi guarderei bene, onorevoli colleghi, dall’aderire a una simile proposta, perché, avendo io una certa dimestichezza con l’ambiente accademico in cui sono, per così dire, incardinato, so molto bene come tra l’ambiente accademico e l’ambiente della Magistratura non abbia mai corso buon sangue.

Che cosa potrebbe allora accadere, se l’emendamento proposto dall’onorevole Villabruna venisse approvato? Accadrebbe precisamente quello che avviene quando due galli si trovano insieme nello stesso pollaio, cosicché le povere galline, fra i due galli concorrenti, non riescono a deporre le loro uova.

Con ciò credo che si potrebbero evitare i guai di un Consiglio politicizzato, e si potrebbe invece arrivare ad un’autonomia che non sia anti-storicistica, cioè ad una autonomia che non sia in contrasto con quelle che sono le fondamentali esigenze storiche del momento che noi attraversiamo. Perché ogni problema – anche questo problema, ripeto – deve essere risolto in base a quelle che sono le fondamentali esigenze del corpo politico, entro l’ambito del quale noi siamo chiamati ad operare.

Ma il problema dell’indipendenza della Magistratura è ancora un problema astratto, perché quello che conta veramente è di studiare i mezzi per rendere concreta la libertà effettiva del singolo magistrato chiamato a dire ciò che è diritto. E qui, nel progetto costituzionale, credo che questa libertà sia garantita dalle norme le quali dichiarano che i magistrati sono inamovibili, dalla norma la quale afferma che i magistrati si distinguono fra di loro, non già per diversità di gradi – è pericoloso stabilire una gerarchia tra i magistrati, perché l’espressione tipica della gerarchia è il comando che il superiore rivolge all’inferiore, e che può essere in certi determinati casi cogente, obbligatorio, anche se anti-giuridico – ma per diversità di funzioni; ed in terzo luogo dal fatto che i magistrati dipendono esclusivamente dalla legge, e che essi poi non possono far parte di partiti politici o di associazioni segrete.

Io condivido pienamente il punto di vista del progetto, il quale fa divieto ai magistrati di aderire a partiti politici. Ho sentito questa mattina le intelligenti argomentazioni del collega Ruggiero, ma non mi hanno convinto, circa la necessità di vietare ai magistrati di appartenere ai partiti politici, perché l’appartenenza ad un partito politico rappresenta pur sempre una situazione psicologica nell’anima del giudice, dalla quale egli difficilmente può prescindere e che può essere influenzata dal di fuori.

Invece per quanto riguarda l’affermazione del progetto di Costituzione, là dove è detto che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano e applicano secondo coscienza, io, onorevoli colleghi, credo che l’inciso «che interpretano e applicano secondo coscienza» dovrebbe essere eliminato, perché è piuttosto pericoloso, quando si ha a che fare col problema delle lacune, di fronte alle quali, inevitabilmente, il giudice si viene nella sua concreta attività, spesso a trovare. È chiaro che di fronte ad una lacuna il giudice oggi non è lasciato completamente libero di giudicare secondo coscienza o secondo i dettami di un diritto ultrapositivo, come in certi determinati ordinamenti giuridici moderni, ma deve seguire già certi canoni logici, teleologici, cogenti, che sono previsti dalle disposizioni preliminari al Codice civile. Comunque, questo inciso potrebbe lasciare dei dubbi circa un eventuale sconfinamento del magistrato nel campo della libera creazione del diritto e nell’ambito di una libera applicazione di un diritto preesistente al caso concreto.

Credo che debba essere approvato quanto è stabilito nel progetto circa il divieto di determinare o di creare dei giudici speciali in materia penale. Credo però che questo termine «speciale» vada inteso come giudice straordinario, perché già un collega mi faceva osservare come, se dovessimo applicare questa norma rigorosamente, noi dovremmo anche eliminare la magistratura nei confronti dei minorenni, perché in questo caso, se anche non si tratta di una magistratura speciale al cento per cento, si tratta pur sempre di una magistratura con una funzione speciale. Invece per quanto riguarda i giudici straordinari, si deve tener conto che essi vengono creati nei momenti di passaggio da un regime politico all’altro, o quando si verifica qualcosa di nuovo nell’ambito politico preesistente, e il giudice straordinario rappresenta una violazione del principio secondo il quale nessuno può essere sottratto ai suoi giudici naturali, cioè ai giudici precostituiti.

Ogni giudice speciale, nel senso inteso dal progetto costituzionale, deve essere eliminato, perché ogni giudice speciale è un giudice politico, che nel momento concreto dell’applicazione del diritto è quindi tale da non sottrarsi all’atmosfera del corpo al quale egli appartiene.

Io non capisco, e in ciò aderisco pienamente a quanto brillantemente ha affermato il collega Villabruna, la norma prevista dal progetto, per la quale i tribunali militari non possono essere istituiti in tempo di pace.

Voglio fare riferimento all’idea fondamentale che il diritto in genere, e anche il diritto penale e processuale in particolare, sono sempre l’espressione d’una determinata istituzione, che può essere lo Stato nella sua totalità, ma che può consistere anche in altre istituzioni che si sviluppano ed operano nell’ambito dello Stato stesso.

L’idea di questa concezione istituzionale del diritto è oggi un’idea fondamentale e congenita; quindi negare la possibilità di istituire questi tribunali in tempo di pace, significa negare alla radice questa concezione istituzionale, che non è cervellotica invenzione di giuristi che vivono al disopra delle nuvole, ma espressione concreta e concreta visione della realtà sociale dalla quale il diritto si sprigiona.

Ed è chiaro che l’esercito è un’istituzione. Militaristi o antimilitaristi, non si può misconoscere che l’esercito ha una sua origine, una sua tradizione, un suo spirito, una sua disciplina, un suo senso particolare dell’onore, rispetto al quale non valgono, ad esempio, le norme proprie della legislazione penale comune. Perché in concreto il senso dell’onore nell’ambito militare deve essere più forte, più sentito di quanto non sia nella comune legislazione. Sicché il giudice comune non potrebbe comprendere in pieno la fattispecie della situazione nella quale il militare, che abbia offeso l’onore di un altro militare o che è stato offeso nel suo onore, si viene a trovare.

Qui si tratta di concetti incarnati e immedesimati nella concreta istituzione dalla quale si sprigionano, ed è per tutelare questi valori sociali di questa istituzione ed emettere una sentenza che non urti con le fondamentali esigenze dell’istituzione stessa, che è opportuno conservare questi tribunali militari anche nel periodo di pace, e non soltanto nel periodo di guerra o in occasione di guerra.

E veniamo brevemente alla giuria.

Già da più parti qui si è parlato contro la giuria, e poche voci finora si sono levate a favore della giuria.

Una pregiudiziale: questo problema potrebbe essere anche un problema, anzi dovrebbe essere un problema di codice, cioè di legge particolare, non un problema costituzionale. Un problema da demandarsi ad una legge sull’ordinamento giudiziario, da demandarsi alla futura struttura dei codice di procedura penale, senza risolverlo sul piano costituzionale. Ché se lo si vuole risolvere sul piano costituzionale, allora sia concesso a tutti, come è stato concesso, e sia concesso anche a me di dissentire da quella che può essere la soluzione data dall’articolo 96.

Si è voluta vedere una correlazione assoluta fra democrazia e giuria. Ma io ricordo quanto, ad esempio, ieri ebbe a dire al Congresso dei giuristi di Firenze l’illustre collega Leone: che il problema della giuria non è un problema politico, che possa essere impostato in termini politici. È soprattutto e soltanto un problema di competenza, non già un problema nel quale si voglia vedere, costi quel che costi, il riflesso di una determinata concezione politica democratica o antidemocratica.

Non è già, quindi, in base al criterio dell’estrazione a sorte, ma in base all’idea della selezione per capacità tecnica, che questo problema deve essere risolto.

E se il problema deve essere risolto in base al criterio della capacità tecnica – quindi in base all’idea della selezione – è chiaro che l’istituto della giuria, così come è nello spirito di questa Costituzione, deve essere eliminato. Ma deve essere eliminato proprio per ragioni attinenti alla tecnica concreta di giudizio, perché distinguere, nel campo del diritto, nella fattispecie, l’aspetto puramente naturalistico da quella che è la qualificazione giuridica, è un assurdo.

Ed io mi richiamo a quanto insegna il maestro insigne di diritto Calamandrei, quando dice, in una sua opera, che già la determinazione concreta della fattispecie, del fatto, importa tutta una serie di giudizi, che possono essere espressi soltanto dal magistrato, in base a quelle che sono le regole di esperienza che il magistrato si è acquisite attraverso la sua più o meno lunga carriera.

Vediamo il più banale esempio di delitto di omicidio: è una cosa semplice dire sì o no. Ma, quando si tratta di stabilire se fra una determinata azione imputata ad un soggetto e l’evento di morte esiste o non esiste un rapporto di causalità, sorge un problema tremendo, che non può essere risolto facendo appello al sentimento, facendo appello alla commozione, facendo appello a quello che può essere – diciamo così – l’impeto dei giurati, tutti protesi o per assolvere o per condannare.

Questo è un problema che deve essere impostato in termini ben precisi e spesso difficili, perché le soluzioni sono diverse nel caso concreto, a seconda che si accetti la teoria della «conditio sine qua non», o la teoria della causalità adeguata.

Sono problemi di estrema difficoltà, che affaticano anche la mente di coloro che dedicano tutta la vita allo studio dei massimi problemi di diritto penale! Ora è assurdo volere rimettere questi problemi, così difficili anche sul terreno del puro fatto, a quella che può essere la sensibilità, spesso scarsa, della giuria scelta a caso o estratta a sorte da determinate urne, con la sola garanzia che ha superato l’esame di abilitazione elementare.

Quindi, questo problema è un problema tecnico che deve essere risolto senza alcuna preoccupazione di carattere politico.

C’è un altro problema da tener presente, al quale ha accennato per primo il collega Villabruna; e mi ha quasi preso la parola di bocca: il problema delle donne nella amministrazione della giustizia.

San Paolo diceva: «Tacciano le donne nella Chiesa». Se San Paolo fosse vivo direbbe: «Facciano silenzio le donne anche nei tribunali», cioè non siano chiamate le donne ad esplicare questa funzione, la quale può arrivare (per fortuna noi abbiamo eliminato in parte questo pericolo) a pronunziare una sentenza di morte. Ed è assurdo, doloroso, inconcepibile che una donna, chiamata da Dio e dalla natura a dare vita, sia chiamata anche a dare, in casi tristi, la morte. D’altro canto, il problema della donna nell’amministrazione della giustizia deve essere risolto anche in base a quelle che sono le caratteristiche ontologiche di essere uomo o donna. Perché il problema dell’amministrazione della giustizia è un problema razionale, è un problema logico, che deve essere impostato e risolto in termini di forte emotività, non già di quella commozione puramente superficiale che è propria del genere femminile, di quella commozione puramente superficiale di cui sono spesso dotati gli ingegni di giurati chiamati dai solchi o dalle officine a esprimere il loro parere in relazione a un caso concreto. Quindi, a mio avviso, le donne non dovrebbero essere chiamate ad esplicare la funzione giurisdizionale: tutte le volte in cui si affaccia questo problema, più che la nostra ragione, il nostro sentimento unitario si deve ribellare a vedere le donne con la toga amministrare la giustizia.

Da ultimo due parole e poi ho finito.

Il progetto di Costituzione elenca tutta una serie di norme sulla giurisdizione. Ma io credo che tutte queste norme sulla giurisdizione sono norme che dovrebbero trovare collocazione nel Codice di procedura penale o in una legge dell’ordinamento giudiziario, perché, ad esempio, l’articolo 101 ricopia, quasi integralmente, una norma contenuta nel Codice di procedura penale.

Vorrei dire una cosa circa l’esclusione del rimedio dell’appello per quanto riguarda le sentenze della Corte di Assise. Questo è un problema tremendo, un problema che deve essere, un giorno o l’altro, risolto, facendo in modo che il doppio grado di giurisdizione, per quanto riguarda il fatto e il diritto, sia riservato anche alle sentenze pronunciate dalla Corte di Assise, che sono poi le sentenze che riguardano i reati più gravi, proprio quei reati nei confronti dei quali è indispensabile, necessario che siano osservate tutte le garanzie giurisdizionali per salvaguardare la libertà dell’imputato e la libertà e tutela degli innocenti. Caratteristica fondamentale, infatti, di tutte queste norme sulla Magistratura, di tutto questo affanno proprio del costituente per creare una struttura della Magistratura che sia tale da funzionare egregiamente, in concreto, è tutta polarizzata verso la necessità della difesa dei diritti fondamentali di libertà del cittadino e quindi per la difesa di quella che è l’innocenza dell’imputato. La nostra concezione democratica deve portare a indirizzare tutte queste norme a far sì che la giustizia e la libertà abbiano a trionfare, in modo – e qui chiudo – che la presunzione di colpevolezza, la quale purtroppo affiora da troppe disposizioni ancora vigenti, abbia veramente a tramutarsi, secondo quanto già noi abbiamo stabilito nelle prime norme della Costituzione, in una presunzione di innocenza. Tutte queste disposizioni riguardanti la Magistratura siano come un corollario del principio già stabilito, perché la libertà individuale, e quindi la giustizia democratica, abbiano sempre a trionfare nell’ambito del nostro ordinamento giuridico e del nostro ordinamento politico. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Carboni Angelo. Ne ha facoltà.

CARBONI ANGELO. Nella elevata discussione di queste due ultime sedute, gli argomenti principali che il progetto di Costituzione propone al nostro esame – l’indipendenza della Magistratura e la unicità della giurisdizione – sono stati trattati così a fondo, che forse a chi prende la parola in questo momento riuscirà difficile non cadere in qualche ripetizione. Se questo avverrà, ve ne chiedo scusa preventivamente.

Il problema dell’indipendenza dei magistrati è, secondo me, più che un problema costituzionale e legislativo, un problema di costume individuale e collettivo.

Le solenni proclamazioni di principio, come quella che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, saranno manifestazioni teoriche, platoniche, se ad esse non corrisponderà, dal lato dei magistrati, la coscienza che la propria indipendenza è un dovere prima che un diritto, e, dal lato dei cittadini, il senso del rispetto rigorosamente dovuto a quella indipendenza in qualunque occasione. Generalmente i magistrati italiani (ed io credo di poterlo dire con cognizione di causa, perché nella mia vita non ho fatto altro che l’avvocato ed ormai ho una esperienza di parecchi e parecchi lustri) generalmente, dicevo, i magistrati italiani sono degni della maggiore considerazione e del maggiore rispetto. Essi adempiono alla loro funzione, specialmente nei gradi più modesti, con un senso di onestà e di dedizione al dovere e con uno spirito di sacrificio veramente encomiabili. Vi sono casi eroici di magistrati, che sopportano austeramente le ristrettezze più angustianti, mentre sono chiamati a decidere cause nelle quali sono in gioco interessi patrimoniali enormi e nelle quali non manca l’occasione della corruzione. Però anche il magistrato, essendo uomo, è esposto alle tentazioni del bisogno, della carriera, dell’ambizione. Sono queste le cause di pericolose deviazioni, contro le quali deve essere apprestato un buon ordinamento giudiziario, capace di rafforzare nei magistrati la coscienza che quella del giudicare è una missione superiore alle passioni umane e d’infondere nei cittadini quella fiducia nella giustizia, che è condizione essenziale per il rispetto dell’indipendenza della Magistratura.

La Costituzione deve limitarsi a porre le linee direttive, i principî basilari, per la realizzazione dell’indipendenza della Magistratura: indipendenza costituzionale e funzionale.

A questo fine sono intese le disposizioni del progetto di Costituzione, delle quali esaminerò le principali, sottolineando quelle che a me sembrano opportune, criticando quelle che mi paiono inopportune, suggerendo modestamente alcune modificazioni.

Incomincio con l’approvare nel modo più assoluto il principio della apoliticità del magistrato, fissato nel progetto di Costituzione con il divieto di appartenenza ai partiti politici. Quando si dice divieto di appartenenza ai partiti, non si stabilisce che il magistrato non debba avere idee politiche e non debba interessarsi di problemi politici (questa sarebbe una norma innaturale); si dice soltanto che il magistrato non deve partecipare attivamente alla vita dei partiti. E questa a me pare un’ottima norma, la quale varrà a sottrarre il magistrato al pericolo delle interferenze dei partiti, con enorme vantaggio per l’imparzialità della funzione giudiziaria.

Il divieto d’iscrizione ai partiti politici costituisce la reazione al malcostume del periodo precedente, quando non soltanto l’appartenenza al partito nazionale fascista era diventata condizione per poter adire ai concorsi della Magistratura, ma quando alcuni magistrati non avevano ritegno di tenere udienza vestendo sotto la toga la divisa fascista ed eccitando negli imputati l’ostentazione dei distintivi di appartenenza allo stesso partito, quasi per sollecitare una solidarietà disonesta. Giusta reazione e misura saggiamente prudenziale, seppur si possa ritenere che in regime democratico sarebbe naturalmente impossibile il riprodursi di una degenerazione verificatasi soltanto nell’ambiente aberrante del totalitarismo fascista. E mi piace ricordare che la grande maggioranza dei magistrati italiani ha accettato favorevolmente la proposta del divieto di appartenenza ai partiti politici, con la consapevolezza che esso, mentre non li estranierà dalla vita pubblica, alla quale saranno chiamati a partecipare per altra via, li porrà al riparo anche dal semplice sospetto di parzialità, che è dannoso al decoro della funzione giudiziaria, quanto la parzialità stessa.

II divieto servirà anche ad eliminare una frequente occasione di distrazione dei magistrati dall’esercizio delle proprie mansioni. Altri ha già detto che il magistrato deve fare soltanto il magistrato: deve cioè fare soltanto istruttorie, requisitorie, sentenze. Cessi la corsa agl’incarichi, ai comandi, cessino le applicazioni fuori del ruolo della Magistratura. Come è proposto in diversi emendamenti, vedrei volentieri allargato il divieto all’accettazione di cariche ed uffici pubblici e d’incarichi presso Commissioni od organi di carattere politico.

Un’altra condizione essenziale per l’imparzialità e l’indipendenza della Magistratura è quella di un trattamento economico adeguato alla elevatezza della funzione.

Non ripeterò cose a tutti note circa la condizione economica della nostra Magistratura. Qualcuno in quest’Aula, mi pare l’onorevole Villabruna, nell’ottimo discorso odierno, molti fuori di quest’Aula, hanno proposto una autonomia finanziaria, la quale dovrebbe arrivare sino alla costituzione di una cassa di raccolta di tasse sugli atti giudiziari.

Io non sono di questa opinione, perché: o l’autonomia finanziaria è veramente tale, ed allora mi pare che si dovrebbe concedere alla Magistratura il diritto di imporre essa le tasse, per raccogliere i fondi necessari ai suoi bisogni; e questo sarebbe un assurdo; oppure si fa soltanto quello che ho letto o che ho ascoltato, cioè si accorda alla Magistratura di distribuire fra i propri aderenti i fondi messi a sua disposizione, nei limiti di bilancio, dagli altri poteri dello Stato, ed allora non c’è più l’autonomia finanziaria. D’altra parte, la cassa, nella quale dovrebbero confluire le tasse su determinati atti giudiziari, costituirebbe una maggiore complicazione del nostro sistema tributario, già tanto complicato, e perciò pregiudizievole per l’amministrazione e per i contribuenti.

Preferisco pertanto che ci si limiti ad affermare e proclamare nettamente il principio della necessità di un trattamento economico adeguato alle esigenze alla dignità, all’altissima funzione della Magistratura, e sottoscrivo e mi dispongo a dare voto favorevole all’emendamento presentato dall’onorevole Mastino: «Lo Stato garantisce l’indipendenza economica dei magistrati e dei funzionari dell’ordine giudiziario».

Dopo le tante garanzie introdotte in questa Costituzione, a proposito di altri problemi, ritengo che quella proposta dall’onorevole Mastino, anche se non disponiamo sin da ora dei mezzi adeguati per adempierla, sia saggia, opportuna, doverosa; e possa servire a dare ai magistrati e a coloro che si dispongono a partecipare ai futuri concorsi, un senso di tranquillità per il loro avvenire. Però, il problema dell’indipendenza poggia più che sulla apoliticità, più che sul trattamento economico, sul prestigio dei magistrati: bisogna preoccuparsi di dare al magistrato una posizione morale adeguata alla sua funzione. A questo scopo, secondo me, serve soprattutto un buon sistema di reclutamento: occorre selezionare gli aspiranti, in modo da fare della Magistratura un corpo sceltissimo che si imponga al rispetto per le sue doti intellettuali e morali. Quindi approvo pienamente che sia messa da parte la proposta dell’elettività dei magistrati. In un paese come l’Italia, nelle attuali condizioni politiche, l’elezione dei magistrati non sarebbe un sistema encomiabile. Ed approvo anche la norma dell’articolo 98, nel quale si stabilisce, costituzionalmente, cioè impegnativamente per il legislatore futuro, l’obbligo del sistema del concorso con tirocinio. Qualcuno mi pare abbia pensato persino all’opportunità di stabilire per i concorrenti alla Magistratura il requisito di un precedente esercizio della professione forense per un certo numero di anni. Non credo che questo sarebbe opportuno, perché probabilmente, dopo un prolungato periodo di esercizio professionale, coloro che si fossero affermati, non adirebbero al concorso per la Magistratura, ed allora si diffonderebbe l’opinione che soltanto i falliti della professione forense si dedicherebbero alla carriera del magistrato.

Penso, invece, che la necessità del tirocinio sia stata opportunamente affermata nella Costituzione. Anzi, vorrei che fosse un lungo tirocinio retribuito, che si esplicasse presso tutte le autorità giudiziarie, dalle più modeste alle più elevate, perché presso le varie autorità giudiziarie il giovane magistrato acquisisse conoscenza e del diritto e del funzionamento degli organi giudiziari; e vorrei che alle funzioni giudiziarie egli fosse destinato soltanto dopo che attraverso il tirocinio si fosse accertata e confermata la sua attitudine alla funzione giudiziaria. Il concorso iniziale può servire per l’accertamento della preparazione culturale; il tirocinio servirà a vagliare il possesso delle doti morali ed intellettuali ed a dare l’indispensabile preparazione tecnica. Vorrei anche che i giovani magistrati, anziché essere destinati in primo momento alle funzioni pretorie, per poi passare ai collegi, fossero chiamati a disimpegnare le loro mansioni da principio presso gli organi collegiali, sotto il controllo e la guida dei più anziani, e solo dopo l’acquisizione di quella competenza, che si può acquistare soltanto col prolungato esercizio della funzione, fossero destinati a reggere le preture, dove si troveranno, soli con la propria coscienza, con la propria intelligenza con la propria cultura a dover risolvere gravi problemi giudiziari, amministrativi e di umanità, che trascendono quelle che sono le conoscenze comuni degli uomini.

Non mi sento invece di sottoscrivere alla facoltà, che è prevista nel progetto, di nomina di magistrati onorari. Il magistrato onorario – e noi ne abbiamo fatto l’esperienza – è per solito un uomo, il quale dedica malvolentieri alle funzioni giudiziarie il poco tempo disponibile da altre occupazioni, considera spesso la funzione onoraria di giudice come una sinecura, se non, come avviene spesso per i giovani, come un apprendistato in corpore vili per l’esercizio della professione forense.

Comunque, certamente eccessiva è la proposta che si possa procedere alla nomina di magistrati onorari non soltanto per i posti di conciliatore e di vice-pretore, come è accaduto sinora, ma genericamente per tutte le funzioni attribuite dalla legge a giudici singoli. Sarebbe così possibile la nomina di giudici istruttori onorari.

Il problema del reclutamento dei magistrati ha aperto la via ad una discussione molto delicata, durante la quale due oratori in questo pomeriggio si sono dichiarati nettamente contrari alla proposta della Commissione, cioè all’ammissione delle donne nella Magistratura. Il progetto di Costituzione propone che possano essere nominate anche le donne, nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario. Analogamente il disegno di legge per la riforma della Corte d’assise, già esaminato dalla prima Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge e che dovrà essere discusso in Assemblea, propone che le donne possano far parte della giuria. In seno alla Commissione legislativa i pareri furono contrastanti e tali saranno anche in questa Assemblea, sebbene finora si siano udite soltanto voci contrarie, come quelle degli onorevoli Villabruna e Bettiol, che mi hanno preceduto immediatamente nella discussione. Per l’esclusione della donna dalla Magistratura, si è osservato che generalmente difettano nelle donne, per temperamento e per tendenza, quelle specifiche doti di esteriore autorevolezza e di interiore equilibrio, che sono indispensabili per l’esercizio della funzione giudiziaria, e che difficilmente si trovano anche negli uomini. Io non so fino a qual punto questa osservazione esprima una realtà o sia invece l’effetto di un pregiudizio misoneistico.

Certo, la donna è psicologicamente ed intellettualmente diversa dall’uomo; certo, secondo la tradizione e secondo la concezione che la grande maggioranza di noi ha della donna, che vorremmo vedere conservata alla più alta funzione della maternità, essa non sembra molto idonea a quella del giudicare, come non si è dimostrata molto idonea nell’esercizio della professione forense. Ma non credo che si possa in questa materia procedere per affermazioni astratte, generalizzatrici. V’è tutto un progresso nella cultura, nelle attitudini, nelle disposizioni della donna. V’è stato l’ingresso vivace della donna nelle varie branche del lavoro manuale ed intellettuale, per cui non ci possiamo arrestare ad una considerazione che può essere anche superata dalla realtà. Peraltro il problema della ammissione della donna nella Magistratura si può ritenere implicitamente risolto da altre norme, già approvate, della Costituzione; di fronte alle quali si potrebbe anche considerare superflua una esplicita dichiarazione, come quella proposta dalla Commissione nel primo comma dell’articolo 98, salvo che la ragione di essa non si debba rintracciare nell’inciso terminale: «nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario ecc.», e cioè nell’intendimento di limitare per le donne l’accesso alla Magistratura, che, in mancanza di una espressa limitazione, si sarebbe dovuto considerare consentito in condizioni di perfetta parità con gli uomini. Ricordo l’articolo 3 della Costituzione, nel quale abbiamo fissato che i cittadini, senza distinzione di sesso, hanno pari dignità sociale e sono eguali di fronte alla legge, e che «è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il completo sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale dell’Italia». Basterebbero queste disposizioni per aprire alla donna la via alla Magistratura. Ma v’è di più, perché nell’articolo 33 si assicura alla donna lavoratrice la parità di diritti con l’uomo lavoratore, e nell’articolo 48 si stabilisce che «tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza». Con quest’ultima disposizione si è riconosciuta alle donne la possibilità di accedere alla più alta carica di Presidente della Repubblica, che, secondo l’articolo 97 del progetto, comporta, ope legis, la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura. Quindi la proposta di ammettere le donne alla Magistratura non rappresenta che un corollario del principio dell’uguaglianza e della parità di diritti con l’uomo, tanto recisamente proclamato e ribadito.

E se questo è, se noi abbiamo fissato quelle norme costituzionali con l’intento d’impegnare il legislatore futuro, non potremo violarle noi stessi escludendo le donne dalla funzione giudiziaria. Perciò, mentre non credo che si possa negare a priori ed indiscriminatamente la capacità della donna – capacità, peraltro, da accertare caso per caso attraverso il rigore del concorso e del tirocinio, come per tutti gli altri aspiranti alla Magistratura – ritengo che non ci possiamo sottrarre, senza una troppo palese contradizione, alle conseguenze di quanto già abbiamo deliberato. Voglio aggiungere, però, che preferisco la formula della Commissione, contenente la riserva dei casi previsti dall’ordinamento giudiziario, all’emendamento proposto dalle onorevoli e gentili colleghe Mattei Teresa e Rossi Maria Maddalena, le quali vorrebbero che si dicesse che le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura. La riserva proposta dalla Commissione è opportuna, perché darà modo di adeguare l’ammissione delle donne alle esigenze dei diversi organi giudiziari ed ai risultati concreti dell’ardita innovazione.

Passo ad un altro problema, connesso con il tema dell’ammissione nella Magistratura, cioè al tema della carriera dei magistrati.

L’amico e collega Bozzi disse opportunamente ieri che bisogna sburocratizzare la magistratura; e a questo scopo corrispondono nel progetto costituzionale alcune norme che, secondo me, sono incondizionatamente da approvare. Cioè la norma che affida le assegnazioni ed i trasferimenti di sede e di funzioni, i provvedimenti disciplinari e in genere il governo della magistratura al Consiglio superiore; quella che sancisce l’inamovibilità dei magistrati, e il divieto di dispensa e retrocessione, se non con deliberazione del Consiglio superiore; e quella, infine, particolarmente sensibile, che stabilisce che i magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non per diversità di gradi.

Si è già sottolineata l’importanza di questa innovazione, che serve a svincolare la carriera dei magistrati non soltanto dalla soggezione al potere esterno del Ministro, ma anche dalla graduazione gerarchica, che è essa stessa ragione di parzialità e di insufficiente indipendenza, comportando non tanto l’ossequio dovuto naturalmente a chi ha la funzione direttiva dell’ufficio, ma anche l’adattamento della coscienza dell’inferiore alla volontà del superiore in grado nel momento della decisione in camera di consiglio, nel quale la coscienza dei decidenti dovrebbe potersi esternare in modo completamente libero ed indipendente. Tuttavia anche la diversità di funzioni comporta il concetto di promozioni, e pur di queste si parla nel progetto, affidandone il compito al Consiglio superiore della Magistratura. Ma le promozioni subordinate ad un accertamento periodico di merito attraverso concorsi per titoli o per esame aprono l’adito al pericolo di favoritismi e di transazioni di coscienza e tengono i funzionari in uno stato di ansietà e di reciproca gelosia. Onde io vorrei sottoporre all’esame della Commissione una mia idea: se cioè non convenga stabilire che le promozioni a funzioni più elevate debbano avvenire in base al solo criterio dell’anzianità, coordinato con un procedimento di eliminazione degl’incapaci e degl’indegni.

Una volta entrati in carriera, una volta ottenuto il riconoscimento della propria idoneità attraverso il concorso per l’ammissione in Magistratura e della propria attitudine attraverso il tirocinio, i magistrati non dovrebbero essere sottoposti ad esami o concorsi per l’ulteriore corso della carriera, salvo per accedere alla Corte di cassazione, per far parte della quale occorrono competenze specifiche ed attitudini particolari ed alla quale dovrebbero essere chiamati soltanto magistrati di valore eccezionale.

Accenno di sfuggita a un altro punto del progetto, che pure merita di essere considerato in rapporto all’indipendenza funzionale della Magistratura. Intendo riferirmi all’articolo 100, nel quale è detto che l’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria. Questa disposizione lascia il tempo che trova, in quanto non presenta nulla di nuovo rispetto alla situazione attuale, e mi sembra conveniente modificarla nel senso che sia messo a disposizione della Magistratura un proprio corpo di polizia, perché la Magistratura abbia il mezzo di far eseguire sempre, in ogni occasione, i proprî ordini.

Sinora ho parlato dell’indipendenza funzionale dei magistrati. Permettetemi ora, onorevoli colleghi, di esporre brevemente il mio pensiero su quello che è il punto cruciale della discussione apertasi qui dentro e fuori di qui, cioè sull’indipendenza costituzionale, ovvero sull’autonomia della funzione giudiziaria.

L’articolo 97 del progetto affronta la questione centrale circa il modo di realizzare costituzionalmente tale autonomia, accogliendo il criterio di attribuire a un Consiglio superiore autonomo il governo della Magistratura e riducendo le funzioni del Ministro della giustizia al compito di pubblico ministero nei procedimenti disciplinari a carico dei magistrati.

Questi hanno accolto favorevolmente la proposta del trasferimento dei poteri dal Ministro della giustizia al Consiglio superiore della Magistratura. Invece dalla grande maggioranza di essi – e qui dentro se ne sono avute ripercussioni autorevoli – si sono sollevate obiezioni vivacissime contro il modo di composizione del Consiglio superiore; e si è detto che soltanto un Consiglio formato esclusivamente o, quanto meno, prevalentemente di magistrati, può garantire istituzionalmente l’indipendenza della funzione giudiziaria. Ma quest’idea poggia sull’equivoco di confondere l’autonomia della funzione con quella dell’ordine che la esercita. L’istanza di indipendenza della funzione giudiziaria dalle altre funzioni dello Stato postula l’esigenza di abolire ogni vincolismo gerarchico della Magistratura dai poteri legislativo ed esecutivo, ma non postula necessariamente l’autogoverno di chi esercita la funzione giudiziaria. In altre parole, per realizzare l’indipendenza costituzionale della funzione giudiziaria, occorre che il governo dell’Ordine sia pienamente autonomo rispetto alle funzioni legislativa ed esecutiva, ma non pure che esso sia lasciato integralmente all’Ordine giudiziario. Onde, per stabilire se la creazione del Consiglio superiore, come proposto nel progetto, sodisfa all’esigenza dell’autonomia costituzionale della funzione giudiziaria, basta indagare se esso, nella sua composizione, sia un organo autonomo di governo, indipendente e dal potere legislativo e da quello esecutivo. La risposta non può non essere affermativa, perché la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura, mentre serve ad assicurare la necessaria armonizzazione di quello giudiziario con gli altri poteri dello Stato, non importa subordinazione o dipendenza verso questi ultimi.

La presidenza affidata al Presidente della Repubblica, mentre conferirà maggiore dignità al Consiglio superiore, simboleggerà nel seno del Consiglio stesso l’armonia del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato e costituirà, di per sé, una garanzia d’indipendenza.

Si è osservato che l’immissione nel Consiglio superiore di membri eletti dall’Assemblea Nazionale, e per giunta in numero pari ai rappresentanti dei magistrati, contiene il pericolo di subordinazione della Magistratura agli interessi dei partiti, e finirà col sopprimere l’indipendenza della Magistratura stessa. Ma si è dimenticato che l’Assemblea Nazionale sarà l’espressione sintetica della vita politica del Paese; che nell’Assemblea Nazionale saranno rappresentati pressoché tutti i partiti proporzionalmente alle loro forze e che la composizione dell’Assemblea si rifletterà nell’elezione dei componenti del Consiglio superiore, i quali risulteranno appartenenti alle diverse correnti politiche. Si è trascurato di considerare che a comporre il Consiglio superiore, per il fatto stesso che l’elezione spetterà alla massima Assemblea dello Stato, saranno chiamati cittadini eminenti e capaci di disimpegnare la funzione con piena indipendenza di giudizio: cittadini che in seno al Consiglio non si sentiranno rappresentanti dei partiti, ma supremi regolatori dell’Ordine giudiziario. Anche la durata della carica, superiore a quella dell’Assemblea Nazionale, costituirà elemento d’indipendenza.

Al contrario, un Consiglio superiore formato soltanto di rappresentanti dei magistrati imprimerebbe all’Ordine giudiziario il carattere di una casta chiusa, strutturalmente in antitesi con le altre forze dello Stato, e potrebbe favorire la formazione di clientele nell’interno della Magistratura e dare occasione a favoritismi incontrollati.

Quindi la soluzione proposta dalla Commissione a me pare la più adeguata per assicurare l’indipendenza della Magistratura senza il pericolo di turbare quell’armonizzazione tra le fondamentali funzioni statali, che è condizione indispensabile di una democrazia costituzionale.

Forse un correttivo si potrebbe introdurre nella proposta della Commissione, nel senso di non lasciare all’Assemblea Nazionale una facoltà indiscriminata di scelta dei componenti del Consiglio superiore e di determinare invece, costituzionalmente, le categorie degli eligendi, a somiglianza di quanto è previsto all’articolo 127 del progetto per la Corte costituzionale.

E se si teme che la funzione di pubblico ministero affidata al Ministro della giustizia nei procedimenti disciplinari a carico di magistrati possa tramutare il Ministro stesso da promotore di giustizia in giudice, si trasferisca tale funzione al Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di cassazione.

Esaurito il tema dell’indipendenza della Magistratura, tratterò, con la maggiore brevità possibile, data l’ora tarda e la necessità di non abusare della cortesia dei colleghi, della unicità della giurisdizione. È pacifico che il frazionamento della funzione giurisdizionale in una molteplicità di organi disparati ed eterogenei contribuisce ad accrescere la crisi della certezza del diritto e che una buona giustizia deve essere concentrata nei giudici ordinari. Onde, a rigore, dovrebbe essere sancita l’unicità della giurisdizione non soltanto in materia civile e penale, ma anche in quella amministrativa. Ma, se al rigore del principio si ritiene di dover fare eccezione, conservando le funzioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti per determinate controversie che hanno bisogno di una particolare specializzazione del giudice, non si può certo consentire alla sopravvivenza delle disparate e numerose giurisdizioni speciali, che si son venute creando durante il fascismo e dopo il fascismo, per circostanze contingenti, per fini politici o peggio, per lo scopo, sia pure dissimulato con vari pretesti, di togliere le garanzie inerenti alla giurisdizione ordinaria. Sotto questo profilo il progetto di Costituzione è gravemente manchevole.

È vero che l’articolo 7 delle disposizioni transitorie prevede la revisione entro cinque anni degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti. Però l’articolo 95 consente l’istituzione di giudici speciali con legge approvata dalla maggioranza assoluta delle due Camere, per modo che si va incontro al pericolo dell’istituzione di nuovi giudici speciali. Occorre sopprimere questa facoltà, il che non significa divieto di giovarsi della partecipazione di esperti, in concorso con i magistrati ordinari, per la decisione delle controversie che richiedono una competenza tecnica specializzata, perché a tanto provvede il terzo comma del detto articolo 95, disponendo che «presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario».

Al principio dell’unità della giurisdizione non contradice la proposta, contenuta nell’articolo 96, di far partecipare direttamente il popolo all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise, perché le Corti d’assise sono organi di giurisdizione ordinaria e tali rimangono anche con la partecipazione diretta di elementi popolari.

Sotto altro riflesso il tema della giuria è interessante e, di fatto, ha interessato molto la discussione di questi ultimi due giorni; ed io intendo occuparmene solo perché la mia opinione in proposito non coincide con quella espressa dai colleghi che mi hanno preceduto.

Dall’appassionata critica dell’onorevole Turco all’ultimo discorso dell’onorevole Bettiol, attraverso l’altro discorso dell’onorevole Villabruna, ho ascoltato una serrata critica dell’istituto della giuria; e se realmente la giuria presentasse soltanto i difetti posti in luce dai colleghi e non avesse, per contro, alcun pregio, non mi resterebbe che sottoscrivere all’ostracismo tanto autorevolmente sostenuto.

Ma bisogna riconoscere che vi sono buone ragioni pro e contro la giuria.

Io    che, in seno alla prima Commissione legislativa e nel Comitato dei redattori sulla riforma delle Corti di assise, sostenni la tesi opposta a quella dell’amico Turco, non ho difficoltà ad ammettere che l’incompetenza dei giurati, il verdetto monosillabico, la mancanza di motivazione, l’impossibilità dell’appello sono certamente inconvenienti molto gravi e che devono fare riflettere molto prima di adottare una decisione.

D’altro canto, io – che pur sento preferenza nelle condizioni attuali per l’istituto della giuria – non sottoscriverei all’affermazione di coloro che vedono nella giuria una garanzia insopprimibile di libertà democratica. Convengo, invece, con l’onorevole Bettiol, il quale diceva poco fa che una cosa è la giustizia ed una cosa diversa è la politica; e riconosco pure che si può organizzare una giustizia democratica pur senza la giuria.

La democraticità della giustizia si acquisisce con l’investitura democratica dei giudici, con le garanzie di libertà e di indipendenza, con la formazione di un Ordine giudiziario che sia veramente libero, che ubbidisca solamente alla legge, che non sia mancipio di tendenze politiche, che non sia strumento della maggioranza, ai danni della minoranza.

Però, in contrario, a me sembra prevalente la considerazione che nei più gravi delitti, in quei delitti che più offendono la sensibilità popolare, e specialmente nei delitti passionali ed in quelli politici (per i quali ultimi penso che la giuria sia una necessità), il giudice popolare porta nel processo una nota più schiettamente viva ed umana, che è espressione di giustizia, se la giustizia penale deve tendere alla reintegrazione dell’ordine sociale offeso.

Il magistrato togato, attraverso l’abitudine costante e quotidiana dell’applicazione della legge scritta, talvolta diventa schiavo del formalismo giuridico, che in qualche caso si risolve in una ingiustizia sostanziale. Per contro i giurati – bisogna pure riconoscerlo – hanno impresso sovente un impulso rinnovatore e adeguatore della legge alla mutata coscienza giuridica del popolo. Le frequenti assoluzioni di mariti imputati di uxoricidi commessi per sorpresa in flagrante adulterio, che sotto un punto di vista formale furono qualificate scandalose violazioni della legge, in sostanza non rappresentavano altro che la ribellione del sentimento popolare ad irrogare una pena ritenuta eccessiva, la manifestazione di un contrasto tra la legge scritta e la coscienza giuridica del popolo, vale a dire la condanna dell’ingiustizia della norma codificata. E quella ribellione contribuì alla riforma dell’articolo 587 del Codice penale che nel testo attuale prevede la figura attenuata dell’omicidio per causa d’onore. Basterebbero queste osservazioni per consigliare maggiore ponderatezza prima di respingere l’istituto della giuria. Peraltro io ritengo che una approfondita disamina non occorra in questo momento, perché, pur convinto che nella contingenza attuale sia da introdurre la giuria nei giudizi di Corte d’assise e che essa rappresenti un progresso di fronte all’ibridismo di un corpo giudicante misto, qual è quello in vigore, penso che stabilire se vi debba o non vi debba essere la giuria non è materia costituzionale. Onde io finisco col proporre la soppressione della disposizione imperativa dell’articolo 96 ed una formulazione facoltativa che compendi l’articolo 96 ed il terzo comma dell’articolo 95 nei seguenti termini: «Presso gli organi giudiziari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate anche con la partecipazione, secondo le norme dell’ordinamento giudiziario, di cittadini esperti e di elementi popolari».

In questa maniera si eviteranno l’errore ed il danno di una situazione invariabile su una questione, che in sostanza è di diritto processuale e sulla quale conviene lasciare libertà di deliberazione al legislatore, perché possa risolverla in un senso o nell’altro secondo le mutevoli contingenze del tempo.

Brevissime parole sul problema della Cassazione unica, egregiamente difesa iersera dall’amico Bozzi, contrastata oggi dall’onorevole Villabruna con un ordine del giorno a firma di numerosi colleghi antiregionalisti, convertiti per l’occasione ad un regionalismo integrale.

I presentatori dell’ordine del giorno, tutti piemontesi, invocano il ripristino delle Cassazioni regionali, a cominciare beninteso da quella di Torino, anzitutto perché – essi dicono – il decentramento deve attuarsi anche nel campo dell’amministrazione della giustizia. Essi invocano, cioè, l’applicazione del decentramento in un settore col quale non ha nulla che vedere e nel quale anzi ci si deve ispirare al principio opposto, perché la funzione della Corte di cassazione, suprema regolatrice del diritto, è essenzialmente unitaria.

L’unificazione della Cassazione in materia civile – deliberata dal Governo fascista nel 1923, a somiglianza della preesistente unicità in materia penale – non fu un provvedimento di carattere politico determinato dall’indirizzo accentratore del fascismo, ma l’attuazione di un criterio sostenuto dai maggiori esponenti della scienza giuridica, della magistratura e del foro. Le Cassazioni regionali, retaggio degli antichi staterelli, portavano al frazionamento ed alla contraddittorietà della giurisprudenza con grave pregiudizio per la certezza del diritto. La Cassazione unica, in conformità di quanto praticato negli altri maggiori paesi di Europa, ha realizzato indubbiamente un progresso, pervenendo alla unificazione della giurisprudenza, ma evitando il pericolo della cristallizzazione o della immobilizzazione di essa. L’esperienza di quasi un venticinquennio dimostra che la Cassazione unica ha favorito l’interpretazione uniforme della legge, anche nelle questioni più controverse, attraverso un processo di elaborazione mediante decisioni diverse, che, mentre sono inevitabili data l’opinabilità della materia, concorrono alla determinazione della communis opinio, ed ha eliminato il grave inconveniente di una contemporanea interpretazione contrastante da parte delle varie Cassazioni regionali. Perciò può dirsi assicurata l’esigenza di una interpretazione unitaria non sottratta alla possibilità di una ragionevole revisione.

Non mi attarderò a controbattere i singoli argomenti esposti dall’onorevole Villabruna, rilevando soltanto come l’affermazione che il ripristino delle Cassazioni regionali risponderebbe ad un criterio democratico di avvicinamento della giustizia al popolo, attraverso l’economia della spesa, è inconsistente, perché la sola economia realizzabile con la ricostituzione, per esempio, della Cassazione di Torino, sarebbe quella nel costo del viaggio del difensore per recarsi dalla sua normale residenza a Torino anziché a Roma. Voglio notare, invece, che lo stesso ordine del giorno della deputazione piemontese confessa l’esigenza di un organo unico, supremo regolatore per tutto il territorio della Repubblica, quando dichiara che al coordinamento e, se del caso, alla unificazione della giurisprudenza ben saranno in grado di provvedere, come vi provvedevano prima del 1923, le Sezioni Unite. Queste dovrebbero, dunque, provvedere alla eliminazione dei contrasti tra le varie Cassazioni regionali. Ma il rimedio delle Sezioni Unite, mentre non eliminerebbe il contrasto, che di per sé rappresenterebbe un regresso, presupporrebbe la ribellione del giudice di rinvio alla decisione della Corte di cassazione regionale ed il successivo ricorso alle Sezioni Unite. E per far ciò occorrerebbe eliminare dal Codice di procedura civile la norma che il giudice di rinvio è vincolato dal principio fissato dalla Corte di cassazione e ripristinare la possibilità della ribellione e del conseguente ricorso alle Sezioni Unite. Non intendo esaminare se tutto questo sia conforme all’economia ed alla serietà della funzione giudiziaria. Aggiungerò invece che il rimedio delle Sezioni Unite sarebbe frustrato tutte le volte che il giudice di rinvio si uniformasse alla decisione della Cassazione regionale. In tali casi si avrebbe questa situazione paradossale, che una stessa norma di diritto sarebbe interpretata ed applicata diversamente nelle varie regioni d’Italia.

Concludo con l’augurio che le nostre deliberazioni su quest’ultima parte della Costituzione costruiscano le fondamenta di un ordinamento giudiziario rispondente alla suprema esigenza della tutela dei diritti e delle libertà del cittadino. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 10.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se sono stati identificati ed arrestati gli autori dell’assassinio premeditato, consumato per brutale malvagità nella persona del giovane Mario Petruccelli, appartenente al Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque di Sesto San Giovanni.

«Mastrojanni».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali serie difficoltà si oppongono per concedere i fondi necessari (circa 18 milioni annui, per dieci anni) per l’elettrodotto sottomarino necessario a dare l’energia elettrica alle isole di Ischia e di Procida (Napoli) i cui 45.000 abitanti sono da anni condannati al buio.

«Sansone».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non intende, ai sensi dell’articolo 13 della legge 20 giugno 1865, prorogare il termine – per almeno due anni – di cui all’articolo 3 del decreto 23 settembre 1938, riguardante la Mostra d’Oltremare di Napoli per evitare che il 18 novembre prossimo – senza che siasi ancora deciso sulla riorganizzazione, sviluppo, o destino della Mostra stessa – siano restituite estensioni notevoli di terreno già dichiarate necessarie per la pubblica utilità. Considerando, altresì, che la proroga invocata è conforme ad una richiesta avanzata dal Consiglio comunale di Napoli e che non è pregiudizievole per i diritti di alcuno, nel mentre si potrà seriamente pensare alla riorganizzazione del complesso tuttora abbandonato.

«Sansone».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se è vero che è di imminente adozione un provvedimento tendente alla riorganizzazione dell’Istituto centrale di statistica ed alla conseguente immissione nei ruoli dell’Amministrazione centrale solo di una aliquota del personale dipendente; ed in caso affermativo per conoscere:

  1. a) in base a quali criteri si intendano ridurre i quadri del personale, e quindi l’efficienza di un servizio che allo stato attuale, come è stato pubblicamente e autorevolmente denunciato, si trova in condizioni estremamente arretrate e pertanto richiederebbe, invece, di essere ulteriormente sviluppato, perfezionato e coordinato con tutte le altre attività statistiche razionali;
  2. b) in base a quali considerazioni si intenda immettere nei ruoli dello Stato solo parte del personale e quale sorte è riservata al personale non immesso in ruolo alla scadenza dei singoli contratti;
  3. c) se, data la crescente importanza dei servizi statistici razionali, anche per i loro riflessi in campo internazionale, non ritiene opportuno di investire della materia l’Assemblea, o per essa la competente Commissione legislativa, in modo che un provvedimento di tanta gravità garantisca, oltre che la tutela dei diritti di tutti i dipendenti, anche il necessario potenziamento dei servizi statistici nel superiore interesse della Nazione.

«Sansone».

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Faccio notare che, per quanto riguarda la mia seconda interrogazione, il termine, ai sensi del decreto che istituisce la Mostra d’Oltremare, scade il 18 novembre; se il Ministro dei lavori pubblici per quella data non avrà emesso il provvedimento che ci auguriamo, i terreni saranno restituiti ai proprietari. Ora, ad evitare un danno alla Mostra stessa, esprimo il desiderio che il Ministro voglia rispondere in tempo utile.

PRESIDENTE. Sta bene: riferirò al Ministro dei lavori pubblici. E così pure darò comunicazione, ai Ministri competenti, delle altre interrogazioni.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e della pubblica istruzione, per sapere se non ravvisino l’urgenza di procedere allo svincolo dei centri minori dalle norme del regolamento edilizio per le costruzioni scolastiche. L’applicazione di quel regolamento, unico per tutte le regioni, le città, ed i villaggi, si risolve anzitutto a danno del carattere pittoresco delle nostre borgate, e, comportando oneri gravissimi, compromette il necessario più vasto sviluppo della edilizia scolastica, deficientissima particolarmente nelle borgate rurali e montane, per le quali le nuove costruzioni dovrebbero aderire alle effettive modeste necessità locali, pure rispondendo alle fondamentali esigenze igienico-sanitarie.

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e commercio, per conoscere se sia vero che il Governo intende sopprimere l’Istituto cotoniero italiano; e in caso affermativo quali ne siano le ragioni.

«Tremelloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, su gli incidenti verificatisi a Napoli mercoledì 5 novembre, in occasione di un corteo funebre.

«Riccio Stefano».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri dei trasporti, del tesoro, delle finanze e delle poste e telecomunicazioni, per conoscere le ragioni che li hanno indotti e li inducono a non dare esecuzione al decreto legislativo 2 giugno 1946, n. 502, non mai abrogato, che stabiliva la cessazione della Gestione raggruppamenti autocarri (G.R.A.) e a permettere invece che detto Ente:

  1. a) continui la sua attività, acquistando altro materiale automobilistico, mediante grosse operazioni finanziarie con istituti di credito;
  2. b) assuma servizi indiscriminati di carattere turistico e sportivo e di indole strettamente commerciale mediante forme di pubblicità inconsuete per servizi statali e parastatali;
  3. c) usufruisca di assegnazioni di benzina pari a circa al 17,50 per cento di tutto il contingente destinato agli autotrasporti privati di cose;
  4. d) non sia sottoposto ad alcun onere fiscale e tributario con gravissimo danno per l’Erario;
  5. e) sia esentato dal pagamento dei diritti postali per i trasporti dei pacchi e dei colli;
  6. f) possa effettuare l’importazione dei carburanti ad esso assegnati con impiego di notevoli entità di valuta pregiata (dollari), che potrebbero essere utilizzati per altri prodotti di prima necessità;
  7. g) sia esonerato dalla osservanza delle disposizioni di cui al decreto legislativo 19 luglio 1946, n. 89.

Ciò premesso e prescindendo da altri privilegi, riconosciuti al G.R.A. nell’esercizio della sua attività, si chiede agli onorevoli Ministri interpellati se non ritengano opportuno e necessario, nell’interesse della economia in generale e dei trasporti in particolare, nominare una commissione di esperti dei Ministeri competenti e degli autotrasportatori privati, che esprima il proprio parere sulla utilità economica del G.R.A. e indichi in quale modo si possa addivenire alla sua liquidazione con il minor danno possibile per i lavoratori che vi sono addetti e per l’Erario.

«Fuschini, Balduzzi, Moro, Scalfaro, Mannironi, Murgia».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della marina mercantile, per sapere perché è stato tolto lo scalo a Catania della linea Napoli-Siracusa-Malta-Tripoli e viceversa, mentre prima della guerra il piroscafo faceva scalo a Catania sia all’andata che al ritorno.

«L’interrogante chiede che sia ripristinato tale servizio, oltre che nell’interesse della città, anche dei viaggiatori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sapienza».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi al Ministro competente quella per la quale si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cclxxxii.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 7 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Dominedò

Ruggiero

Crispo

Russo Perez

La seduta comincia alle 11.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Di Giovanni e Preziosi.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

Essendo assente l’onorevole Carignani, al quale spetterebbe la parola, ha facoltà di parlare l’onorevole Dominedò.

DOMINEDÒ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, sia consentito qualche rilievo di ordine generale sul Titolo della Magistratura, che l’Assemblea Costituente è chiamata ad esaminare a chiusura della sua opera di costruzione costituzionale. E sia consentito qualche rilievo, proprio per il motivo che, questo Titolo sta forse a rappresentare nella seconda parte del progetto di Costituzione qualche cosa di così praticamente importante da potere essere ragguagliato a ciò che nella prima parte del progetto era raffigurato dal Titolo sui rapporti economici e quindi, più precisamente, sulla giustizia sociale.

Come nella prima parte della Costituzione rivolta a definire i diritti del cittadino, se non avessimo sancito le norme tendenti ad attuare gradualmente la giustizia sociale e con essa il principio di democrazia economica, avremmo ferito la possibilità stessa di attuare la democrazia politica, così, nella seconda parte rivolta a costruire l’architettura dello Stato democratico, se non garantissimo adeguatamente il funzionamento della giustizia, espressione della volontà del potere giurisdizionale, verremmo meno praticamente alle finalità stesse che ci siamo proposte nella nostra opera.

Senza la garanzia suprema ed ultima della giustizia, non vi è creazione alcuna di diritto costituzionale che possa riempire il quadro, per quanto prospettata nello schema di una costruzione teorica apparentemente ineccepibile, più o meno vicina al tipo di Weimar, formalmente mirabile. Come diceva Alessio de Tocqueville, ciò che attiene alle garanzie del potere giurisdizionale, e quindi alla funzione stessa della giustizia, è in verità quanto di più vitale esista nelle Costituzioni moderne.

Questo raffronto fra il risalto che deve conferirsi alle norme sulla giustizia sociale da un lato e a quelle sulla giustizia in generale dall’altro, appare pertanto tale da legittimare un rapido intervento nella materia. Alieno come sono dall’indugiare su aspetti già considerati da quanti abbiano mietuto nel vasto campo, alieno come mi ritengo dal prolungare discussioni generali che siano semplicemente fine a se stesse, mirerei piuttosto a qualche considerazione, la quale possa pesare per l’ora in cui saremo chiamati a prendere le nostre decisioni. Occorre prendere atteggiamenti definitivi in relazione a questa parte del progetto, che sarà d’importanza fondamentale per dare il senso della continuità storica alla nostra Costituzione.

Posti questi rilievi preliminari, io vorrei ora chiedermi quale sia veramente lo spirito informatore del Titolo della Costituzione che disciplina il potere giurisdizionale. E vorrei tentare di coglierne l’essenza, poiché, se a ciò riuscissimo, avremmo forse trovato il metodo per risolvere tutte le questioni particolari, alcune delle quali così gravi, che sorgeranno in sede di disciplina particolare. Infatti, ci basterebbe allora adeguare i criteri per la soluzione dei problemi singoli alla definizione del concetto ispiratore di tutta la materia, là dove si giungesse in realtà a determinarlo.

Ora a me pare, cercando di seguire la trafila dei lavori preparatori e la gestazione spesso faticosa delle Commissioni, ma soprattutto sforzandomi di sentire quella che è l’aspirazione della nostra coscienza, nella veste di rappresentanti del popolo italiano in sede costituente, a me pare che la finalità centrale – e perciò lo spirito informatore del Titolo – sia esattamente quella di assicurare l’indipendenza della funzione giurisdizionale e quindi la figura del giudice libero.

Mi guardo a questo proposito da reminiscenze storiche che mi potrebbero condurre troppo oltre, sino alla scuola del diritto libero. Lascio Kantorowicz ed i suoi continuatori, perché, quando parlo di giudice libero, intendo evidentemente direi giudice libero nell’alveo della legge.

La scuola del diritto libero fa del giudice qualche cosa che si allontana dalla nostra concezione fondamentale, poiché, attraverso il così detto potere creativo del diritto nel caso concreto, il giudice finisce per sovrapporsi alla legge. Non è questa presunta libertà che noi vogliamo in un ordinamento italico e latino, il quale si ricollega necessariamente alla tradizione romanista, la più pura della nostra civiltà giuridica. Noi vogliamo un giudice libero, il quale sia ad un tempo ancorato al diritto positivo, un giudice libero che operi nell’orbita della legge, un giudice libero che dica il diritto nel caso singolo, ma insieme si inchini alla creazione generale ed astratta del diritto, la quale è opera di altri poteri dello Stato e, per il nostro ordinamento, rappresenta garanzia di giustizia, di libertà, di democrazia.

Sul piano del così detto giudice libero, il quale operi con una propria volontà creatrice nel caso singolo, noi ricordiamo quali abusi e degenerazioni siano possibili. Là dove la certezza del diritto venga meno, noi sentiamo che la funzione giurisdizionale non è più garanzia di libertà, ma strumento di oppressione della libertà. Noi sappiamo che il giudice, il quale sia libero, nel senso di poter incondizionatamente interpretare la cosiddetta coscienza popolare, e cioè una asserita coscienza collettiva, non consacrata né in diritto scritto né consuetudinario, si trasforma in un giudice che potrà seguire sino all’estrema degenerazione il concetto della Führung, presunta interprete della volontà collettiva. Signori, quel giudice tradirà il diritto: egli non sarà segnacolo di libertà, bensì veicolo di servitù. E la storia troppo recente dei nostri tempi parla duramente in questo senso.

Vogliamo invece un giudice duttile, libero nella legge, il quale abbia il senso sociale del diritto, il senso dell’avvicinamento del diritto alla vita; questo, sì, noi intendiamo.

Riprendendo una espressione nota nel campo del diritto, miriamo ad un giudice che sia sensibile non alla sola giurisprudenza dei concetti, alla giurisprudenza teoretica, schematica o dottrinale, ma che faccia penetrare la vita nelle pieghe del diritto, che sia sensibile alla giurisprudenza degli interessi, se si vorrà ricordare la formula della Interessenjurisprudenz in antitesi alla Begriffjurisprudenz. Noi a questo tendiamo, poiché è questo che fa parte del nostro senso sociale del diritto, aderente alla viva realtà delle cose. Noi non concepiamo un diritto che sia avulso dalla coscienza sociale del popolo e che per ciò stesso non risponda alle esigenze della storia.

Ecco, precisamente: vogliamo che il diritto sia nutrito di socialità, non solo nella fase creatrice, ma anche nella fase applicativa. Questo fa parte del nostro senso umano, del nostro spirito della democrazia. Questo, sì, noi vogliamo. Ma ciò inquadriamo proprio nel principio di libertà del giudice nell’ambito della legge. Perché, a chi ben guardi, accentuare il senso di socialità del diritto, porsi a contatto col palpito della coscienza comune, significa veramente cogliere lo spirito della legge, essere cioè sul piano di chi applichi, di chi dica il diritto nello stesso quadro in cui il legislatore, espressione della volontà collettiva, lo formulò, lo creò. Siamo pertanto coerenti a noi stessi, quando si accentua questa nota sociale nella fase applicativa della legge. Poiché non si rinnega, bensì si avvalora il principio della certezza del diritto, quando affermiamo che un giudice libero, così nutrito di socialità nell’esercizio della sua virtù discrezionale, debba operare ad un tempo nel campo del diritto costituito e preservare quindi l’esigenza suprema della intangibilità del diritto obiettivo. Servi della legge per poterci dire liberi, secondo la grande parola di Cicerone.

Se tutto ciò è, come fermamente credo che sia quando interpello gli strati più profondi della mia coscienza, ritengo che, sulla base di un tale criterio ispiratore, noi possiamo ora serenamente affrontare la disciplina speciale della materia, qual è prevista e quale si snoda particolareggiatamente in questo Titolo della Costituzione che andiamo per esaminare. Noi potremo vagliare questo Titolo e forse introdurvi delle varianti con perfetta coerenza ai nostri punti di partenza. Soprattutto, per essere rapidi in questo intervento, potremo, alla luce dei principî direttivi, impostare subito due dei problemi fondamentali che saremo chiamati a trattare nell’esame della materia.

La premessa che ho tentato di svolgere sulla figura del giudice quale scaturisce dallo spirito del nuovo ordinamento, dalle caratteristiche essenziali cui la Costituzione ha mirato, non può infatti non giovare per dissipare alcuni equivoci, per rispondere ad alcune obiezioni che concernono precisamente i due punti, forse essenziali, del Titolo su cui dovremo discutere.

Il primo punto corrisponde al testo dell’articolo 97 del progetto e riguarda la configurazione dell’organo supremo che sta a capo del potere giurisdizionale, il Consiglio Superiore della Magistratura. Colleghi della Costituente, noi ci troviamo dinanzi a questa situazione, secondo lo schema di progetto elaborato dalla Commissione dei Settantacinque: dopo una serie di discussioni intorno a questo delicato punto, ha prevalso il concetto per cui l’organo preposto al vertice del potere giurisdizionale – il detto Consiglio Superiore della Magistratura – dovrebbe promanare ad un tempo dall’ordine giudiziario e dalle Camere legislative, rappresentate da quell’Assemblea nazionale che non a torto abbiamo a suo tempo condannato. Duplice afflusso, in parti uguali, da parte dei rappresentanti del potere legislativo e da parte dei rappresentanti del potere giurisdizionale; e, come coronamento la presidenza dell’organo affidata allo stesso Capo dello Stato.

Entro certi limiti, sarei anche disposto ad inchinarmi all’esigenza che può aver ispirato questa concezione e non avrei difficoltà a riconoscere che, almeno negli intendimenti, vi possa essere stata la volontà di perseguire così una democratica costituzione. Si è forse pensato che in questo modo si potesse istituire una forma superiore di sindacato nei confronti del potere giurisdizionale; si è forse pensato che il suo funzionamento non dovesse restare autonomo e quasi avulso rispetto ad una possibilità di controllo da parte dell’organo che rappresenta direttamente la volontà popolare, cioè del legislativo.

Ma se anche in questo modo si fosse ritenuto di far salva un’esigenza democratica, io mi permetto di domandare se sia questo il sistema più rispondente al fine, dopo le considerazioni fin qui svolte sulla struttura, sull’essenza della funzione giurisdizionale e per ciò stesso sul concetto ispiratore della nostra Carta costituzionale, destinata a creare il giudice libero nella legge ed il potere giurisdizionale indipendente nell’ordinamento costituzionale. E credo di poter affermare che, per un duplice ordine di considerazioni, la via prescelta dal progetto non sembra la più idonea a fronteggiare l’esigenza, che può aver determinato i proponenti nel senso contemplato dall’articolo 97.

Anzitutto, da un punto di vista generale, vorrei dire che il principio della divisione dei poteri, che non intendo qui invocare in un senso meccanico o dottrinale, già starebbe, almeno nel suo significato più schietto, contro una contaminazione così aperta nel funzionamento dei diversi poteri dello Stato. Ma, prescindendo da ogni arido schematismo nella critica della norma ed andando alla sostanza delle cose, io osservo che, se è vero che il giudice è investito della sua potestà solo a seguito di un insieme di garanzie, e cioè di un sistema complesso ed organico, costituzionalmente previsto, in forza del quale esclusivamente egli diventa titolare della jurisdictio, del suo potere di dire il diritto, se questo è, come è, noi siamo già dinanzi a una decisiva garanzia d’ordine costituzionale, eccedente gli stessi schemi di Montesquieu. In questo senso: che oggi il giudice in tanto potrà esercitare quelle funzioni in quanto esse gli siano conferite secondo un moderno e perfezionato quadro costituzionale, con le garanzie quivi volute, concepite e formulate, tutte snodatigli secondo quanto rappresenta il frutto di una dichiarazione di volontà la quale, in ultima analisi, è dovuta alla stessa volontà popolare.

Se oggi costituzionalmente il giudice può dire il diritto in forza del complesso delle più adeguate garanzie che a ciò l’abilitano, ecco una prima risposta di ordine sostanziale, e non solamente formale, rispetto all’esigenza di ricollegare anche il potere giurisdizionale alla volontà popolare. Il vero controllo sulla giurisdizione è questo: che il giudice risulta investito dei suoi naturali poteri ed è conseguentemente impegnato alla propria elevazione morale e tecnica, in perfetta armonia con la volontà popolare che trova l’espressione ultima nella Carta costituzionale.

Ma vi è dell’altro. Se per assurda ipotesi ciò non dovesse essere, noi cadremmo in contradizione, venendo meno a quella stessa esigenza che ponevamo all’inizio come criterio ispiratore di tutta la materia. In questo senso: che potremmo menomare quella superiore necessità per cui, nel momento in cui si deve applicare la legge, la politica cessa di essere la protagonista e la parola passa al diritto. Nel momento stesso in cui deve funzionare il potere giurisdizionale, importa porre il giudice in condizione di essere effettivamente libero, se vogliamo ancora parlare di certezza del diritto, ricordando nuovamente Tocqueville che definiva l’arbitrario nella giustizia come il volto stesso della barbarie, e invocando l’evoluzione dei paesi a più alta tradizione democratica, dall’Inghilterra agli Stati Uniti, i quali attraverso i poteri del Lord Advocate e la competenza della Suprema Corte hanno rispettivamente contemplato una partecipazione del giudiziario al legislativo, non mai una interferenza del legislativo nel giudiziario.

Ecco dunque la necessità di voltare pagina quando si passi a dire il diritto. Da allora noi pensiamo che la politica non debba più operare nel senso stretto del termine, senza volerci con ciò sottrarre ad una sana politicità del giudice, nello stesso modo in cui poco fa accentuavamo il senso di socialità della funzione giurisdizionale e in genere la sua aderenza alla voce dei tempi. Ma la politica in senso effettivo, diretta ed immediata, cioè l’efficacia determinante del gioco delle varie forze di parte, non può influire che in una prima fase: la creazione del diritto. La seconda fase, quella della più severa attuazione del diritto, se vuole essere effettivamente ricondotta all’imparziale autorità dello Stato, deve far capo al potere competente, venendo sottratta al riflesso di quel giuoco e della sua azione perturbatrice.

Ecco la risposta che tranquillizza una coscienza democratica. Probabilmente si potrebbe anche concepire una soluzione intermedia o di temperamento rispetto al sistema dell’articolo 97, poiché non ho difficoltà a riconoscere che la divisione dei poteri strettamente concepita è qualche cosa di schematico, talvolta lontano dalla vita, al punto di non avervi eccessivamente fatto leva per la dimostrazione della mia tesi. Considerando infatti che noi non dobbiamo semplicemente creare i pezzi di uno Stato, bensì lo Stato stesso nella sua unità, e cioè un congegno coordinato in vista delle sue inscindibili finalità, forse si potrebbe venire parzialmente incontro alla tesi discussa, ricercando delle soluzioni fondate su una rappresentanza ridotta e non perturbatrice del potere legislativo nel seno del Consiglio Superiore della Magistratura.

Come si osservava da un eminente collega della Commissione dei Settantacinque, il Perassi, anche la tesi di una rappresentanza simbolica potrebbe esprimere la funzionalità unitaria dei vari poteri dello Stato, rispetto alle finalità giuridiche e politiche che esso è chiamato ad assolvere. A rigore, basterebbe la presenza di un solo rappresentante del legislativo per allontanare il pericolo dell’hortus conclusus, superando il luogo comune di una casta separata e irresponsabile, mediante la proiezione esterna dei suoi atti. Ma è questione di particolari, e su ciò ci riserviamo di tornare in sede di emendamenti. Oggi resta affermata questa esigenza logica e politica, in armonia all’insegnamento dei nostri maggiori, da Gianturco a Scialoja: che, in coerenza del postulato di un giudice libero nell’ambito della legge, noi dobbiamo dettare norme idonee a tradurre in atto il principio, sottraendo il giudicante alla possibile ripercussione di una lotta politica capace di turbarne l’indipendenza morale e per ciò stesso ponendolo in una condizione di superiore serenità rispetto alle passioni dell’ora.

Era questo il primo tema sul quale intendevo richiamare l’esame dell’Assemblea. Ma mi permetto ancora un momento di pregare l’attenzione dei colleghi per riferirmi ad un secondo punto, anche esso di centrale risalto, se vogliamo tendere ad attuare in concreto, a garantire effettivamente i principî dai quali abbiamo preso le mosse, e intorno ai quali può forse raccogliersi un prevalente consenso.

Il punto sul quale desidero di spendere una parola, sempre in via generale, è quello che concerne la Corte costituzionale. Se, come ritengo, questa Assemblea si orienterà verso la tesi della sua istituzione a garanzia e controllo di una osservanza fedele della Costituzione, se questo crederà logicamente di fare l’Assemblea per un ordinamento in cui, essendosi voluta una Costituzione rigida, occorrerà di continuo controllare la validità delle leggi attraverso la loro aderenza alla Costituzione, sorgerà allora, anche nell’ambito della Corte costituzionale, a termini dell’articolo 127 del progetto, un problema sostanzialmente analogo. Poiché noi dobbiamo porci questo quesito: la Corte costituzionale che funzione avrà? Creare il diritto o dire il diritto?

Ora alla Corte spetterà precisamente di dire il diritto nell’ambito della Costituzione, voluta e creata dagli organi rappresentativi della volontà popolare. Ed allora, anche in questa suprema opera di jurisdictio, la Corte costituzionale dovrà essere posta in una posizione di superiorità e di indipendenza, sia pure con l’inserzione di quelle rappresentanze che chiamavamo simboliche e potranno essere reali fino ad un certo limite, onde la sua funzione si svolga su un piano di tale elevatezza, di tale distacco dal pericolo di una influenza politica, che il cittadino italiano abbia la certezza di trovare così, negli organi contemplati dalla Carta costituzionale, la garanzia più alta per l’uniforme applicazione del diritto ai cittadini, tutti veramente uguali dinanzi alla maestà della legge.

Se ciò sarà, e noi confidiamo che così debba essere perché qui sta il significato ultimo della nostra fatica e questi sono i risultati cui dovremo pervenire per non compiere opera vana, noi potremo in piena coscienza ritenere di aver contribuito perché la costruzione del potere giurisdizionale risponda alla suprema esigenza di assicurare la giustizia, dono di Dio in terra, fondamento degli Stati, garanzia della libertà umana. (Vivissimi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Praticolo, iscritto a parlare, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Ruggiero. Ne ha facoltà.

RUGGIERO. Onorevoli colleghi, il Titolo sulla Magistratura, attualmente sottoposto alla nostra considerazione, presenta una questione che – secondo me – ha importanza e giuridica e politica. È la questione che rinviene dall’ultimo comma dell’articolo 94; cioè la questione relativa al divieto di iscrizione dei magistrati nei partiti politici.

A proposito di questa norma, bisogna far subito un rilievo di carattere tecnico, che è questo: voi ricorderete che da parte dell’Assemblea fu approvato un articolo, il quale vietava l’esistenza delle associazioni segrete. Per questa ragione è assolutamente inutile sancire altra norma la quale faccia divieto particolare ai giudici di appartenere a questo genere di associazioni. Si capisce che, essendo vietata la esistenza delle associazioni segrete, è pure vietata l’appartenenza ad esse da parte di qualsiasi cittadino, e quindi pure da parte dei magistrati. Ne consegue che l’ultima parte dell’ultimo comma dell’articolo 94 deve essere necessariamente soppressa, per coerenza alla Costituzione – o, per lo meno – a quella parte della Costituzione che si riferisce a questo argomento.

Resta la questione essenziale di carattere politico e giuridico, contenuta nella norma la quale importa, così come è nel progetto, il divieto ai magistrati di iscrizione ai partiti politici. Con tutta modestia, onorevoli colleghi, io mi dichiaro contrario al progetto e ciò per una ragione la quale, oltre che essere giuridica mi pare schiettamente politica. E la ragione è questa: questa norma, come appare chiaro, stabilisce un rapporto tra i magistrati e i partiti politici, anche se il rapporto è espresso in forma negativa.

Dobbiamo quindi considerare la norma nei rapporti dell’uno e dell’altro termine, cioè nei confronti dei partiti politici da una parte e dei magistrati dall’altra. E se così è, onorevoli colleghi, mi pare che, quando si porti la nostra considerazione su uno dei termini, cioè sui partiti politici, voi vedete bene come questa norma presupponga qualche cosa che è, secondo me, chiaramente offensiva per i partiti politici.

Che cosa presuppone infatti la norma? La norma presuppone che, se è vero che esiste una certa suscettività da parte dei magistrati ad accedere a lusinghe esterne, è pur vere però che nella norma è presupposto il fatto di una attività illegittima ed antidemocratica da parte dei partiti, cioè di una attività politica la quale tenda a deformare la coscienza del giudice.

Come vedete quindi, noi arriveremmo a consacrare nella Costituzione la possibilità che i partiti politici operino contrariamente ai principî fondamentali della libertà e della democrazia; e mi pare che in un atto solenne e fondamentale quale è la Costituzione, ciò sia non soltanto inopportuno, ma veramente e stranamente offensivo per la nostra democrazia. A nessuno può sfuggire che questa norma è una sconsacrazione aprioristica della democrazia italiana, una svalutazione immanente della nostra democrazia, un giudizio preventivo e negativo dell’opera dei partiti. La Carta costituzionale è, in ultima analisi, la definizione etica di un popolo. E non è eccessivo da parte nostra consacrare nella Costituzione questa forma aprioristica di disonestà da parte dei partiti politici italiani? Con tutta modestia, onorevoli colleghi, vi dico che io mi rifiuto di pensare aprioristicamente che il mio partito possa essere capace di fare opera contraria alla libertà e alla democrazia; e vi dico anche che ho motivo di pensare che anche altri partiti non sono davvero capaci di addivenire mai ad una simile forma di attività.

Ora, se noi stabiliamo, attraverso la Carta costituzionale, che i partiti possono compiere quest’opera, mi pare che con ciò venga meno ogni presupposto etico-morale della politica italiana. Io penso che nessun deputato dell’Assemblea Costituente possa sottoscrivere una norma di questo genere, che come prima dicevo, si risolverebbe in un grave pregiudizio per la democrazia italiana.

Ma, onorevoli colleghi, a prescindere da questa prima considerazione che, come vi dicevo, riguarda uno dei termini della questione, cioè il termine «partiti politici», la questione va riguardata anche nei confronti del secondo termine, cioè dei «magistrati».

Ora, io mi domando se è data ai costituenti la facoltà di poter escludere dalla vita politica una classe di cittadini in omaggio ad un astratto principio di lesa giustizia, che fino a questo momento non abbiamo nessun diritto di ritenere che debba necessariamente essere nell’avvenire intaccato e leso. Io so che certe funzioni importano delle limitazioni e delle privazioni di diritto. Per esempio, gli avvocati, i cancellieri, i militari, i giudici stessi sono soggetti a limitazioni di attività e privazioni di diritto. Però bisogna pur vedere, onorevoli colleghi, la natura, la portata, l’entità di queste privazioni di diritto e di queste limitazioni di attività. In tutti i casi si tratta di attività e di diritti che hanno un carattere estrinseco, accessorio, non necessario, che non sono legati all’intima personalità dell’individuo, che non comportano la lesione di diritti di natura sociale.

Ma nella specie noi ci troviamo di fronte al fatto di escludere dalla vita politica tutta quanta una classe di cittadini, cioè di escluderla dall’esercizio di un diritto fondamentale e del cittadino. Non so come possa sfuggire l’importanza di questa limitazione nei confronti della classe dei magistrati italiani. Vedete, onorevoli colleghi, è vero che esiste una specie di concetto che chiamerei deteriore e negativo della politica; e di questo concetto molte volte si diventa inconsciamente vittime, per cui anche gli uomini politici non dànno alla politica quella rilevanza e quell’importanza che essa deve avere. E allora, penso che forse nei compilatori di questo progetto di Costituzione sia invalso questo concetto, cioè questa svalutazione della politica; se no non si poteva arrivare a consacrare una norma la quale nega un diritto così fondamentale ad una classe di cittadini. La politica non deve essere considerata come una superfetazione, come una soprastruttura; non deve essere considerata, come accade spesso, qualche cosa di dilettantistico o come una fiera di ambizioni o un mercato di vanità. La politica è necessità etica per il cittadino: è un dovere e un diritto.

Ora, se noi diamo della politica questa definizione, mi pare che dovremmo essere i primi a restare perplessi di fronte a questa esclusione di tutta una classe di cittadini dalla vita politica. La vita politica, nella sua vera accezione storica, intesa come continuità di umani eventi e pensieri, è un contrasto di ideali, un urto di interessi, un’espressione di valori etici, sia pure espressione contingente, ma espressione di tutto un popolo. La politica è la storia allo stato fluido che ogni giorno passa sotto i nostri occhi; è la vicenda che interessa ed impegna la nostra gente, la nostra casa, la nostra famiglia, i nostri figli, il nostro spirito.

Se questa è la politica, onorevoli colleghi (ed è questa) mi pare che non si possa escludere il giudice dal partecipare a questa forma di attività. Insomma, non possiamo relegare una classe di cittadini ai margini della vita, in una condizione di isolamento, in una zona neutra, in una specie di vuoto pneumatico, in omaggio a questo aprioristico ed astratto principio di eventuale lesione delle regole della giustizia.

Quindi, secondo me, il comma in esame non può essere ammesso nella Costituzione.

Ma esiste un terzo motivo di esclusione, che è questo. Io penso, molto modestamente, che questa norma si risolva in una specie di divieto formale, di nessun valore pratico, destituito di ogni concreta facoltà normativa: perché il giudice può rimanere fedele, o infedele alle sue funzioni, esista o non esista la norma. È impossibile che la norma possa determinare un giudice a questo o quello apprezzamento. Il giudice non è un’astrazione umana, ma è un uomo come tutti gli altri. È assurdo pensare che per effetto di questo divieto ad un certo momento il giudice diventi un essere completamente avulso dalla vita comune, destituito di ogni convincimento, insensibile agli impulsi della storia che si muove intorno a lui, isterilito nella speculazione dei principî giuridici, inteso solo alla interpretazione astratta ed all’applicazione automatica delle norme. Non mi sembra che il giudice possa vivere in questo ambiente di rarefazione metafisica. Il giudice non è la tabula rasa in cui è possibile incidere semplicemente il geroglifico non sempre decifrabile della formula di legge. Il giudice è un uomo come gli altri e, come tale, ha le sue passioni che gli vengono dal cuore, e i suoi interessi, che gli vengono dalla sua posizione di cittadino che vive nella umana società, e le sue opinioni, che gli vengono dalla sua facoltà raziocinante. E quindi, per questi motivi, penso che il giudice non possa rimanere legato, chiuso, costretto da questa norma, che secondo me si traduce poi praticamente in un divieto di carattere semplicemente formale. Infatti, a questo proposito i casi che possono verificarsi sono due: o il giudice viene sopraffatto dal suo convincimento, dal suo partito, dal suo interesse, dalla sua faziosa passione politica, da influenze esterne, e allora egli potrà determinarsi secondo modi che esulano dalla sua coscienza di galantuomo; oppure il giudice, per imprescindibile dirittura morale, riesce ad affrancarsi da ogni forma di soggezione interiore ed esteriore e seguirà allora il comandamento della giustizia e i precetti della sua coscienza.

Quindi, esista o non esista la norma, il giudice avrà sempre la possibilità di determinarsi come vuole: anzi, vi dirò questo, che forse (e non credo di esprimere un concetto peregrino, ma un concetto aderente alla realtà pratica di ogni giorno) è più pericoloso il giudice costretto ad una forma di agnosticismo formale, che il giudice il quale abbia fatto una pubblica professione di fede. Perché il primo può valersi della apparente neutralità politica per fare invalere il suo proposito infedele, mentre l’altro che ha fatto professione di fede politica mi sembra che sia legato e condizionato da quella professione di fede. Il caso del procuratore generale Pilotti, di cui si è parlato, è un esempio. Io penso che se, per esempio, il procuratore generale Pilotti fosse stato dichiaratamente iscritto al partito monarchico, molto probabilmente avrebbe avvertito un senso di peritanza, di pudore a compiere quel gesto che, come sapete, è stato commentato un po’ in tutto il paese. Egli ha commesso quell’atto, quel gesto, perché era garantito e difeso dalla sua condizione di neutralità politica.

Io penso che se, per esempio, un giudice, notoriamente democristiano, debba domani giudicare un imputato comunista, io penso che questo giudice metterà forse maggiore obiettività e cura e diligenza in quel caso che in altri casi; e così viceversa, se un giudice comunista dovesse giudicare un imputato democristiano.

È sempre una remora, un freno, una specie di controllo l’iscrizione. Quando si è espressa la propria opinione, si è legati a questa opinione. Quando si resta chiusi nel sacrario della propria coscienza si diventa impenetrabile ed ermetico. È questo un criterio pratico che io penso bisognerebbe tener presente nella valutazione della norma in esame. Accennerò ora brevemente alle piccole o grandi ragioni che hanno imposto nel progetto il divieto di iscrizione. C’è, per esempio, l’argomentazione dell’onorevole Mannironi, il quale dice: «per poter inserire nella psicologia popolare la necessaria fiducia nella Magistratura, è indispensabile che vi sia in tutti il convincimento che i magistrati sono liberi da legami di qualsiasi genere».

Io mi permetto di fare osservare che in questo modo – secondo me – la questione viene spostata, la questione non viene più valutata nella sua contenenza essenziale. Qui non viene in considerazione l’obiettivo della questione, cioè i due termini della questione, ma si pone sul piano della discussione un elemento estraneo: quello della fiducia popolare, e mi pare che così la questione si ponga erroneamente. Entrando in merito, dico che la fiducia popolare – secondo me – non può essere determinata dal fatto negativo della mancata iscrizione di un magistrato ad un partito politico, bensì deve essere determinata (questa è una regola di carattere etico da cui non si può prescindere) dalla condotta irreprensibile e indefettibile del giudice. Quindi, la fiducia deve nascere non dal fatto negativo della non iscrizione, ma dal fatto positivo della condotta del giudice.

Mi pare quindi, che non si possa tenere in considerazione questo argomento dell’onorevole Mannironi, perché si pone al centro della questione un elemento estraneo ai due termini della questione, cioè ai due termini in cui la questione deve essere chiusa e delimitata: i partiti politici e i magistrati.

Vi è poi un’altra obiezione che devo fare: quando l’onorevole Mannironi dice che bisogna suscitare nella psicologia popolare la fiducia nel giudice, mi pare che egli faccia una questione di semplice apparenza. Egli dice in sostanza questo: sia il giudice fedele o infedele alla sua funzione, si mantenga egli integro o meno, l’importante è che esista la fiducia popolare. Il che – secondo me – è una maniera di aggiustare le cose, di salvare le apparenze, di risolvere la questione su un terreno estraneo alla questione, superando molto semplicisticamente i termini giuridici e politici del problema. In effetti così si elude la questione riducendola ad un’espressione estrinseca di mera apparenza.

Esiste poi, a favore del principio di non iscrizione dei magistrati in partiti politici, un’altra argomentazione. Ed è dell’onorevole Ambrosini il quale sostiene che è necessario consacrare nella Carta costituzionale il divieto di appartenenza dei magistrati ai partiti politici e che i magistrati non devono sentirsi menomati da questa norma perché essi vengono, invece, da questa norma, posti al di sopra della politica, vengono posti (dice testualmente l’onorevole Ambrosini) «come su un altare». A proposito dei giudici che stanno sull’altare, devo dichiarare che questa è una frase retorica, vieta, che ha fatto il suo tempo, a cui i giudici non vogliono accedere e di cui si può parlare solamente quando si conoscano i giudici solo per sentito dire e non si è partecipato mai alla vita dei giudici. Tant’è vero, onorevoli colleghi, che il Primo Presidente della Corte di Cassazione, interpellato a proposito di questa norma, ebbe a dire che tale norma costituisce un grande sacrificio per la Magistratura. Sono le sue parole testuali. Quindi se questi giudici non vogliono stare sull’altare, ma vogliono scendere sulla strada, per vivere la vita degli uomini non possiamo metterceli per forza noi. Insomma, vedete, i magistrati non vogliono diventare santi di cartapesta, essi sono uomini di opinioni, di passioni, di sentimenti. Insomma, il giudice, vedete, si interessa pure lui di certi problemi fondamentali, ed essenziali, e qualche volta grandi ed eterni. Per esempio: la famiglia, la patria, l’umanità. Ed io mi domando: in ultima analisi di che cosa si occupa la politica se non proprio di questi grandi ed eterni problemi che si rinnovano ogni giorno? E se così è, se la politica è questa, come facciamo a dire a giudici: «voi non c’entrate in tutto questo, voi dovete solo subire; voi dovete estraniarvi dai grandi principî politici senza poter dire mai qualche cosa che venga dal vostro cuore o dal vostro cervello?»

Per questi motivi, che mi sembrano molto aderenti a quella che è la condizione pratica ed ideale della questione, mi sembra che debba essere soppresso il principio che pone il divieto d’iscrizione dei magistrati nei partiti politici e si debba dare al magistrato la possibilità di vivere la vita di tutti. Qui bisogna tener presente un altro principio fondamentale che è questo. Si può pensare che a un certo punto si crei un contrasto fra la libertà incondizionata, che è quella di esprimere da parte di tutti il proprio pensiero, e la lesione che potrebbe verificarsi domani in seno al principio della giustizia attraverso la politicità dei giudici. Guardiamo questi contrasti, questi conflitti, queste antitesi nel loro vero contenuto. Ed allora io vi dirò questo: forse è meglio che da parte di un giudice, di dieci giudici, di cento giudici, si compiano degli atti che ledano il principio della giustizia, ma che venga affermato il grande, immutabile principio della libertà di dire e di professare le proprie idee da parte di tutti. Insomma, se vengono in conflitto questi due grandi postulati dell’umanità, che sono il principio della libertà e il principio della giustizia, e se è vero che la giustizia è un aspetto del principio della libertà, mi pare che, se si debba sacrificare qualche cosa, debba sacrificarsi il principio subordinato. Ma questo è l’aspetto estremo della questione e del contrasto. Tenete presente, soprattutto, che noi con la norma contenuta nel progetto andiamo incontro alla consacrazione nella Carta costituzionale di quella svalutazione aprioristica dei partiti politici ed alla esclusione di una parte dei cittadini dalla vita politica nazionale. Tenete presente, onorevoli colleghi, il principio consacrato nella Carta costituzionale. Abbiamo detto: «Ad ogni cittadino compete il diritto di poter esprimere liberamente la propria opinione». Questo è sancito in un articolo approvato da noi tutti, ma è l’articolo più significativo della Costituzione perché esso è a base della rinnovata democrazia italiana.

Io penso che non dovremmo fare delle postille a questo articolo. Non dovremmo fare delle limitazioni a questo principio. Il principio sia tenuto nella sua interezza. Non bisogna umiliarlo con restrizioni e limitazioni.

Il principio della libertà sia quello che crediamo sia sempre stato e che sempre sarà per noi e per tutti gli italiani.

Questo principio venga tenuto e affermato al disopra di tutta la Costituzione, perché è principio fondamentale. Questo principio sia grande, sovrano, intangibile perché è il principio della libertà degli uomini. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Venditti, iscritto a parlare, si intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, il problema della Magistratura s’identifica, a mio avviso, con quello della indipendenza del giudice, ossia della «competenza morale» del giudice, problema intorno al quale non è facile dire una parola nuova.

Il principio della indipendenza del giudice è solennemente consacrato nel progetto di Costituzione, quando si dice nell’articolo 94 che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge che interpretano ed applicano secondo coscienza»; quando si soggiunge che «i magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete»; quando si afferma, nell’articolo 97, che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente»; quando, infine, per garantire tale autonomia e tale indipendenza, si stabilisce nell’articolo 99 che «i magistrati sono inamovibili».

Non v’è, dunque, un quesito da proporsi in rapporto alla indipendenza del giudice, ed occorre, invece, chiedersi soltanto se essa sia veramente e sufficientemente garantita con la norma relativa alla inamovibilità.

Prima che io risponda a questa domanda, mi sia consentito esprimere il mio dissenso dall’opinione or ora manifestata dall’onorevole Ruggiero, il quale ritiene che il divieto fatto al giudice di appartenere ad un partito politico costituisca evidente violazione di una delle libertà fondamentali del cittadino, e propone conseguentemente che il divieto stesso non sia mantenuto.

Le ragioni prospettate in proposito dall’onorevole Ruggiero sono innegabilmente interessanti, ma non riescono, in alcun modo, a persuadere chiunque abbia un elementare concetto della necessaria obbiettività del giudice, quale condizione dell’esercizio della sua funzione, e chiunque si renda conto della asprezza della lotta dei partiti, in un mondo completamente dominato da essi. È evidente che la norma è intesa a porre il giudice al di sopra dei partiti, ossia al di fuori di ogni passione di parte incompatibile con la funzione del giudice, nella superiorità morale d’una posizione che sia garanzia assoluta contro ogni sospetto che il giudice possa essere vincolato alla volontà o alla ideologia di una fazione, di un gruppo, o di un movimento politico qualunque.

Ogni conflitto, difatti, tra gruppi o individui di opposte tendenze, porrebbe il giudice partecipe di questo o quel partito, in una evidente difficoltà «morale nel dirimere il contrasto delle ragioni e degli interessi contrapposti, difficoltà che non potrebbe non influenzare la coscienza del giudice, onde sarebbero frequenti e innumerevoli i casi di astensione, e, più spesso, quelli di ricusazione.

Tornando al quesito che mi sono proposto, se cioè la norma dell’articolo 99, che stabilisce il principio della inamovibilità del giudice, costituisca garanzia sufficiente della di lui indipendenza, io non esito a rispondere negativamente. L’inamovibilità è, difatti, una garanzia soltanto per quei giudici che hanno raggiunto i supremi gradi della carriera, o che sono al termine di essa, per modo che, nell’uno o nell’altro caso, non possono avere alcuna preoccupazione di avanzamento. Il giovane magistrato, invece, che ha il legittimo desiderio di farsi innanzi, e d’essere promosso ai gradi superiori, non è mai del tutto indipendente, perché, ove non sia gradito, egli avrà davvero la sua particolare inamovibilità, quella di restare sempre allo stesso posto, nello stesso grado.

Non si risolve, adunque, il problema della indipendenza o della competenza morale del giudice, quando si pretende di garantirla con la inamovibilità stabilita nell’articolo 99.

Questo articolo 99, per altro, demanda al Consiglio Superiore della Magistratura il giudizio sulla dispensa o sulla sospensione dal servizio, sulle retrocessioni, sui trasferimenti o destinazioni ad altra sede o funzione, per modo che la garanzia dipende dalla deliberazione del Consiglio Superiore, e su di essa può evidentemente influire il modo in cui è composto il Consiglio stesso.

Come si potrà, adunque, garantire l’indipendenza del giudice? Questa indipendenza potrà aversi soltanto ove il giudice abbia la proprietà delle sue funzioni. Il problema non fu sconosciuto nemmeno all’«antico regime», nel quale si pretese di risolverlo, vendendosi ed ereditandosi la carica.

E non può non sorprendere che un uomo del genio di Montesquieu, accettando tal sistema di reclutamento, plaudisse ad Anastasio, che dell’impero aveva fatto una specie di aristocrazia, vendendone tutte le Magistrature. Onde, Voltaire, rispondendo a Montesquieu, scriveva: «È certamente deplorevole che Montesquieu abbia menomato l’opera sua con paradossi di questo genere, ma bisogna pure perdonargli perché uno zio di Montesquieu aveva acquistato una carica di Presidente in provincia, ed egli, Montesquieu, gli era poi succeduto in quella carica». E Voltaire conclude: «Nessuno di noi è senza debolezza».

Intendo precisare che il problema della indipendenza non è da porre in rapporto al reclutamento, perché, escluso che il magistrato possa acquistare o ereditare la carica, escluso che possa averla per elezione, o per nomina governativa, non v’è altra via che il concorso, col quale si garantisce un minimo di capacità tecnica e l’imparzialità dell’assunzione.

L’indipendenza del giudice può essere, adunque, garantita soltanto attraverso il «governo» della Magistratura, rendendolo veramente autonomo, preservandolo, cioè, da ogni ingerenza politica. Non vi è altro modo, non vi è altro mezzo. Onde è che, quando nell’articolo 97 si stabilisce che il Consiglio Superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica, ed è composto per metà di magistrati e per metà di membri designati dalle Camere, riesce difficile conciliare tale norma con quella che pretende consacrare l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura. La norma dell’articolo 97 è intesa, difatti, a penetrare l’ordine dei magistrati, non soltanto di elementi del potere legislativo, come diceva l’onorevole Dominedò, ma, soprattutto, dell’ingerenza del potere esecutivo, nella maggiore e più alta sua espressione. Ed io, per verità, non riesco a rendermi conto del pensiero dell’onorevole Bozzi, quando egli si compiaceva di veder posto a capo del Consiglio Superiore il Presidente della Repubblica, rappresentando egli l’unità dello Stato.

Non riesco a rendermene conto, perché mi sfugge del tutto il preteso rapporto tra il Presidente della Repubblica, come rappresentante della unità dello Stato, e il funzionamento del Consiglio Superiore della Magistratura.

Non si potrebbe, invece, a mio avviso, immaginare più pericolosa ingerenza del potere esecutivo, se è vero che il Presidente della Repubblica non è al disopra dei partiti, ma, esponente di uno di essi, non riesce mai a sottrarsi del tutto alle esigenze del proprio partito. È facile rilevare, d’altra parte, che la figura del Capo dello Stato, nella funzione di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, non può non suscitare, il più delle volte, quel timore riverenziale che menoma l’indipendenza e l’autonomia di ogni deliberazione.

Quanto ai membri che dovrebbero essere designati dalle Camere, il progetto stabilisce che «gl’iscritti negli albi forensi non possono esercitare la professione, finché fanno parte del Consiglio».

È evidente, adunque, la preoccupazione della incompatibilità morale tra l’esercizio della professione e la carica di componenti. Ora la norma diviene una lustra, ove si consideri che non si può chiedere seriamente a professionisti di valore di rinunziare per sette anni all’esercizio professionale, onde il facile espediente dell’esercizio per interposta persona, che, lungi dall’eliminare l’incompatibilità, l’aggrava non solo, ma induce ai peggiori sospetti e alle maggiori diffidenze. Non resterebbe, pertanto, che designare professionisti in condizioni di evidente inferiorità professionale, privi di clientela, e tali designazioni non sarebbero certo destinate a conferire dignità, decoro e prestigio al Consiglio Superiore della Magistratura.

Epperò, non mi pare che si possa aderire nemmeno all’idea dell’onorevole Dominedò, di una rappresentanza simbolica o consultiva, o di numero così ridotto da essere del tutto insufficiente, non riuscendosi, per verità, a comprendere la ragione di una simile rappresentanza che, mentre vulnererebbe il principio dell’autonomia, non apporterebbe, e, anzi, sarebbe designata unicamente per non apportare un qualunque contributo alla funzione.

Per le ragioni esposte, io sono d’avviso che il Consiglio Superiore della Magistratura debba essere costituito esclusivamente di magistrati, né mi sembra, onorevoli colleghi, fondata in alcun modo la preoccupazione che la Magistratura possa così divenire una casta chiusa.

UBERTI. Il pericolo è per l’appunto questo.

CRISPO. Dirò qualche cosa su questo punto. Si è mai pensato che, mutatis mutandis, la nostra Assemblea sia una casta chiusa, perché si governa autonomamente, ed ha una sua disciplina e un suo regolamento? E badate che la nostra autonomia è tale da renderci giudici di noi stessi, nelle eventuali contestazioni di questa o quella elezione, e per le eventuali autorizzazioni a procedere, giudici talvolta tanto imparziali da disdire oggi ciò che fu deciso ieri, anche per fattispecie sostanzialmente identiche.

Lo stesso può dirsi dell’ordine degli avvocati. Non hanno forse gli avvocati un ordinamento proprio, un governo proprio, e una propria disciplina?

E lo stesso può ripetersi di tutti i collegi professionali. Vero è che l’ordine giudiziario non può considerarsi alla stregua degli ordini professionali, ma il richiamo è qui inteso soltanto a dimostrare la insussistenza del pericolo che, attraverso una reale autonomia si possa creare una casta chiusa. È necessario, adunque, difendere la Magistratura da qualunque ingerenza di altro potere, anche perché l’incompetenza morale è in funzione negativa anche della competenza tecnica: il giudice non indipendente diviene di fatto facile strumento a servizio della causa che sarà costretto a sostenere.

Dirò qualche parola su di un altro problema d’ordine generale, riservandomi di intervenire in sede di discussione degli articoli su questioni particolari o di dettaglio.

Intendo riferirmi alla giuria. Se il problema della Magistratura s’identifica con quello dell’indipendenza del giudice, il problema della giuria si riferisce specialmente alla competenza tecnica del giudice.

Dico specialmente, e non esclusivamente, perché io non sono d’accordo con coloro che si compiacciono di rilevare ed esaltare la competenza morale o l’indipendenza propria del giurato.

Basterebbe in proposito ricordare che, mentre nell’articolo 94 si fa divieto al magistrato di appartenere ad un partito politico, tale divieto non sussiste per il giurato. Ora, è evidente il pericolo, costituito da giurie, le quali, nel decidere, possano essere ispirate e guidate da spirito o passione di parte.

Avviene così che il magistrato, occupandosi di una questione di confine o di una contravvenzione, può suscitare e suscita diffidenza, se sia inscritto ad un partito politico, mentre il giurato, nella medesime condizioni di morale incompatibilità, può essere il più fazioso uomo di parte, e nello stesso tempo, giudice del proprio avversario politico, nei giudizi di maggiore gravità.

Io posso bene intendere il motivo per il quale non è stato ripetuto il divieto per il giurato che, giudice non permanente, ma chiamato, di volta in volta, ad esercitare una funzione non sua e che egli non ha scelto, dovrebbe adempiere non solo un gravoso dovere, ma anche sacrificare ad esso uno dei diritti fondamentali di ogni cittadino.

Ma, se mi rendo conto della ragione per la quale il divieto sussiste pel magistrato, e non sussiste per il giurato, ciò non significa che il giurato non si trovi nelle condizioni di morale incompatibilità per le quali s’è voluto precisamente vietare al magistrato di iscriversi ad un partito politico, con l’aggravante della maggiore competenza per materia, propria della Corte d’assise.

Sotto questo aspetto, al giurato mancherebbe evidentemente la indipendenza necessaria, soprattutto nella vita che si vive oggi, agitata e dominata dalla lotta dei partiti, dalla quale non si può pretendere che si astragga il cittadino, quando diviene giurato.

Con la indipendenza, al giurato mancherebbe anche la più elementare competenza tecnica.

Avviene così che, per giudicare di una questione di dare e di avere, o di una contravvenzione qualunque, si richiede un giudice, investito delle sue funzioni a seguito di un concorso e di un determinato tirocinio, mentre per giudicare della libertà dei cittadini, nei casi più gravi, punibili anche con l’ergastolo, basterà che il giudice abbia la sua ragione naturale, o soltanto le risorse del suo buon senso.

Quanta gente non è stata assassinata legalmente nelle Corti di assise, che furono assai spesso lo scannatoio del buon senso!

Il verdetto, per altro, non è un giudizio, poiché il monosillabo positivo o negativo del giurato costituisce, anzi, una tragica parodia del giudizio. Esso sopprime una delle maggiori conquiste della civiltà umana, la motivazione, cioè, della condanna o dell’assoluzione. E, sopprimendo la motivazione, sopprime il diritto di appello, riconosciuto per ogni condanna, sia pure a pochi giorni di reclusione o di arresto, e perfino in caso di condanna alla multa superiore alle duemila lire, e in caso di assoluzione per mancanza di prova. E col diritto di appello sopprime anche, di fatto, il ricorso per cassazione, perché, di fronte al verdetto, e all’applicazione della legge penale che, a seguito del verdetto, viene fatta dal Presidente, l’intervento del Supremo Collegio sarebbe quasi esclusivamente limitato all’esame della costituzione del giudice, e della formulazione del questionario, a casi, cioè, nei quali sarebbe assai difficile rilevare eventuali nullità.

A proposito del così detto buon senso dei giurati si potrebbe utilmente ripetere quello che un grande giudice inglese, il Coke, disse al Re d’Inghilterra. Nel 1612 Giacomo I invitò i giudici d’Inghilterra a presentarsi dinnanzi a lui per rivendicare la facoltà di sottrarre ai giudici di diritto comune tutte le cause che a lui piacesse di decidere personalmente. A tale richiesta il Coke, il primo dei giudici, obiettò, a nome di tutti, che, «secondo la legge d’Inghilterra, il Re in persona non può giudicare alcuna causa, e che tutte le cause, sia civili sia penali, dovevano essere decise dai tribunali, in sede giudiziaria, secondo le leggi, e con le consuetudini del regno».

Il Re replicò che egli reputava essere la legge fondata sulla ragione, e che egli era, al pari dei giudici, fornito di ragione. «È certamente vero», rispose il Coke, «che Iddio ha fornito Sua Maestà di un grande sapere e di doti naturali non meno grandi, ma Sua Maestà non è abbastanza dotto nelle leggi del suo reame, e le cause che concernono la vita, diritti ereditari, i beni e le fortune dei suoi sudditi, non possono essere decise secondo la ragione naturale, ma secondo le norme del diritto, e il diritto è un’arte che richiede lungo studio e lunga esperienza, prima che se ne possa raggiungere la conoscenza completa».

Mulatis mutandis, il legislatore ragiona ancora oggi come Giacomo I ragionava ai suoi tempi, sostituendo al buon senso del Re il buon senso del popolo, mentre si accentua sempre più il carattere tecnico del giudizio penale, e, quindi, la necessità del giudice specializzato, dinanzi a questioni non solo di diritto, ma anche di psicologia criminale, di psicopatologia, di tecnica della polizia, di medicina legale, di tossicologia e simili. È questa la espressione più grossolana di quel fenomeno che fu definito il culto democratico dell’incompetenza, per il quale la società, dovendosi difendere dai ladri e dagli assassini, affida l’arma di tale difesa a coloro che non possono usarla. Quell’arma, difatti, non può essere che un codice, e questo codice sarà posto – incredibile a dirsi – nelle mani di cittadini che non sanno intenderlo per poterlo applicare. È difficile, adunque, trovare una sola ragione seria a favore di un istituto, cui rimane solo il prestigio delle origini, e di una tradizione superata, ormai, dalla esperienza vissuta, e travolta da censure di ogni genere, della scuola e della pratica, del giurista, del filosofo, e anche dell’uomo della strada, censure delle quali è così penetrata la coscienza generale da essere divenute veri e propri luoghi comuni. Resta, nondimeno, a favore della giuria, un solo argomento. Occorre – si dice – democratizzare la giustizia, onde non solo deve ripristinarsi la giuria, ma essa deve divenire del tutto popolare. Oggi non potrebbe intendersi più una giuria borghese, e nemmeno una giuria borghese-operaia: è necessario istituire una giuria proletaria. Più ignorante essa sarà, e meglio risponderà alle esigenze della democrazia! Ed è questa la ragione per la quale, in una recente legge, non entrata per fortuna in vigore, titolo sufficiente per l’idoneità alla funzione del giurato era considerato il certificato di licenza elementare!

Ora, non è già che io mi dolga di questa graduale trasformazione della personalità del giurato, fino alla più bassa sua espressione! Io non dico questo. Io dico, invece, che, borghese o proletario che sia, il giurato non ha alcuna capacità tecnica per decidere della sorte dei suoi simili, e, pertanto, occorre una buona volta insorgere contro il «tabù» del principio democratico, che s’invoca a sproposito nel tema dell’amministrazione della giustizia.

È grave errore, difatti, pretendere che il popolo debba partecipare direttamente all’amministrazione della giustizia, dato che il potere deriva dal popolo. Perché, se è vero che il potere dello Stato moderno deriva dal popolo, non è vero che si possa identificare lo Stato con il popolo, confondere lo Stato con il popolo. Sono due concetti distinti. E questa distinzione che ha un significato scientifico fu come il fondamento della Costituzione americana del 1776. Essa riconobbe che il potere deriva dal popolo e che, pertanto, il popolo ha diritto di governare, ma lo riconobbe, per trarne la conseguenza della necessità di rendere il popolo capace di governare. È assurdo pensare, infatti, che la massa indifferenziata possa governare. Il problema essenziale è precisamente questo: educare la massa e far sì che essa possa rispondere alle esigenze di una democrazia moderna. La Costituzione di uno stato non è, come diceva Burke, «un problema aritmetico». Il problema del governo consiste, invece, nell’organizzare il potere indiscusso e inalienabile del popolo, in modo che esso possa realizzare i suoi maggiori interessi.

Epperò, non si offende, e non si disconosce il principio democratico, quando si nega che il problema della giustizia in Corte di Assise possa porsi e risolversi in funzione delle esigenze d’una pura democrazia. L’istituto della giuria è, difatti, l’espressione d’un eccesso di democrazia, e Montesquieu ammoniva, e prima di lui Aristotele annunciava, che i regimi decadono non solo per l’abbandono dei principî che li informano, ma anche per l’eccesso dei principî stessi. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevole Presidente, non credo di poter dire delle cose nuove che non siano state dette o che non saranno dette da altri insigni colleghi avvocati.

Rinuncio, quindi, a parlare, riservandomi di fare, se sarà il caso, qualche osservazione in sede di discussione degli articoli.

PRESIDENTE. Sta bene. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

La seduta termina alle 13.5.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXI.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Messaggio della Camera dei deputati peruviana:

Presidente

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Risposte scritte ad interrogazioni:

Presidente

Progetto di Costituzione delia Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Turco

Bozzi

Mastino Pietro

Ciampitti

Per la nomina di tre membri dell’Alta Corte della Regione siciliana:

Caronia

Presidente

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

De Martino

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

 

La seduta comincia alle 16.5.

 

RUGGIERO, ff. Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana del 30 ottobre.

(È approvato).

Messaggio della Camera dei deputati peruviana.

PRESIDENTE. Sono lieto di comunicare un messaggio inviatomi dal Presidente della Camera dei deputati del Perù, Fernando Leon de Vivero, in occasione della ricorrenza del 4 novembre:

«La Camera dei deputati del Perù, nella ricorrenza dell’anniversario della festa nazionale esprime – per il tramite della S.V. – al popolo ed al Governo italiano il suo cordiale saluto, formulando voti – in occasione di così grande data – perché i legami di amicizia che uniscono i nostri Paesi divengano ogni giorno più stretti a garanzia della pace mondiale».

Ho risposto al Presidente della Camera dei deputati del Perù, esprimendo il vivo compiacimento mio personale e dell’Assemblea per questa manifestazione di solidarietà e di Comprensione (Vivi, generali applausi).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Dugoni per il reato di cui all’articolo 595 del Codice penale.

Sarà inviata alla Commissione competente.

Risposte scritte a interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che i Ministri competenti hanno inviate risposte scritte a numerose interrogazioni presentate da vari deputati.

Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta odierna.

Seguito della discussione del progetto di Costituirne della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

Dobbiamo iniziare oggi la discussione generale del Titolo IV, relativo alla Magistratura e del Titolo VI, relativo alle garanzie costituzionali, che come venne deciso dall’Assemblea fin dall’inizio, vengono dinanzi a noi abbinati.

Vorrei pregare gli onorevoli colleghi che si sono iscritti a parlare sulla discussione generale, ma che hanno contemporaneamente presentato emendamenti su singoli articoli, di volere svolgere nel corso del loro intervento anche gli emendamenti presentati.

In tal modo i loro discorsi avranno un riferimento concreto alla materia in esame, ed eviteremo anche di dare poi altro tempo per svolgere gli emendamenti.

Dichiaro aperta la discussione generale. Il primo iscritto a parlare è l’onorevole Turco. Ne ha facoltà.

TURCO. Onorevoli colleghi, mi trovo oltre ogni mio desiderio, e, certo, oltre ogni mio merito, ad inaugurare la discussione generale su questa che è praticamente la parte più viva e interessante della nuova Costituzione: perché buona parte del popolo può essere indifferente perfino per questa o per quella forma di Governo, può sentire, o no, la grande riforma regionale; può non essere molto preoccupata pel difficile dosaggio dei poteri del Capo dello Stato, e dalla più o meno omogenea struttura dell’Alta Corte Costituzionale, ecc.; ma tutti, dico tutti, hanno acutissimo ed immediato interesse alla pronta, retta e ferma amministrazione della giustizia, che assicuri la realizzazione effettiva della libertà di tutti e dei diritti di ciascuno. Inutile ed ingombrante lavoro resterebbe quello sinora durato per individuare ed allargare la sfera della libertà e del patrimonio giuridico di tutti i cittadini, qualora non riuscissimo ad organizzare per la vita pratica e mettere alla portata di tutti un istrumento vivo ed operante ed indipendente, che ne costituisca la permanente inflessibile garanzia.

Ora, io che sono fra i pochi superstiti di una remota generazione parlamentare che era, sì, di acuta sensibilità politica, ma assai meno della presente tecnicamente attrezzata al governo della sempre più complessa vita sociale, avrei preferito restare in silenziosa, ma vigile considerazione della splendida giostra dottrinale, che ha saturato l’attenzione di questa nobile Assemblea.

Senonché, a un certo momento, tratto ad esprimere, improvvisamente, in sede direi incidentale, il mio avviso alla Commissione parlamentare, su di un tema particolare, sul quale si è distillata e sedimentata l’esperienza di un cinquantennio di esercizio non ignobile della mia professione, quello del magistero della giuria, ho creduto di dovere accettare ed eseguire il compito di portavoce all’Assemblea della tendenza vigorosamente affermatasi nella Commissione, di contrasto irreducibile al ripristino della giuria, che ha imperversato troppo a lungo nelle aule giudiziarie, suggestionata sempre e spesso violentata dalla magniloquente ed inguaribilmente logorroica oratoria giudiziaria.

Così, iscrittomi per quella particolare discussione, per l’automatico rimando ed abbinamento in questa sede alla discussione del tema generale della Magistratura, mi trovo a rappresentare modestamente la corrente, che troppo demagogicamente si vuol gabellare per antidemocratica, ma che è invece ispirata a quel senso della realtà, che è il grado più elevato della matura sintesi mentale, e la matrice unica di ogni vero e stabile progresso civile.

Ma di ciò, a fra poco: perché non vorrei, affacciandomi alla soglia di questo poderoso argomento giurisdizionale, spingere il mio agnosticismo fino al punto di non avvistare, in rapida prospettiva, lo scontro vivace che in questo campo si è determinato fra l’istanza vigorosa, ma unilaterale, della Magistratura ed il sovrano criterio di superiore contemperanza e di equilibrio adottato dal progetto. Uno sguardo sintetico sul contrastato panorama di questo tema bisogna pur darlo, sia pure per inquadrarvi la tesi occasionale del mio discorso, che è diretto precipuamente contro la giuria popolare.

Debbo preliminarmente dichiarare che io sono un fedele, convinto assertore dei meriti della Magistratura italiana, presa nel suo grande complesso. Spesso ho ammirato dell’eroiche virtù; e quanto è stato detto del francescanesimo dei magistrati non è utopia. La Magistratura, nella sua enorme maggioranza, è degna della sua funzione, ed è proprio la radicata convinzione della necessità della unicità, direi dell’esclusività di tale funzione da parte dei giudici ordinari, che mi ha mosso a parlare. Sono un amico, dunque; ne siano ben sicuri i Magistrati.

Ma agli amici bisogna saper dire la verità, anche se sgradita e molesta: ed io dirò subito, perciò, che la posizione presa, nel movimento ricostruttivo istituzionale, dalla classe dei Magistrati è paradossale; e che nella gara delle istanze più o meno legittime, che premono sulla suprema delle nostre crisi statali, è antitetica e contradittoria.

Infatti, mentre la Magistratura reclama, ed a buon diritto, pel suo specifico settore della funzione giurisdizionale, la piena partecipazione – par inter pares – all’esercizio della sovranità; d’altro canto, nella sua tesi estremista, tende a sottrarsi, con la richiesta di indipendenza integrale ed assoluta dell’Ordine, a quella necessaria coordinazione, al collegamento con gli altri poteri sovrani, dalla cui armonica Collaborazione soltanto è possibile ottenere l’equilibrio e l’organica efficienza del complesso delle funzioni statali.

ROMANO. L’articolo 97 dice «autonomo ed indipendente». Se mai è contradittorio il progetto.

TURCO. L’onorevole Romano abbia la bontà di ascoltare, perché io non sono affatto nemico della necessaria indipendenza della Magistratura, ma affermo che, se sovrano è il popolo, nessun ordine può sottrarsi al suo volere, al suo controllo.

Ma poiché la espressione più difetta ed immediata e periodicamente rinnovantesi della volontà popolare è il Parlamento, una assoluta indipendenza (e quindi disgiunzione) della Magistratura dal Parlamento e dal Governo, sua emanazione, significherebbe rendere indipendente l’ordine giudiziario dalla stessa volontà del popolo.

D’altra parte, mentre la Magistratura si irrigidisce su questa posizione di punta (reclamando a corrispettivo del suo superdovere di garante delle elementari libertà di tutti, il superdiritto ad una splendida isolazione nel campo della sovranità, refrattaria ad ogni collegamento, ed aspirando perfino ad arbitrare la concorrente funzione degli altri poteri sovrani, col sostituire alla Corte Costituzionale il diktat del suo Consiglio Superiore), per converso, la Magistratura non esita ad adeguarsi, nei mezzi di reclamo e di rivendicazione, a tutte le varie categorie di prestatori di opere, rivendicando per sé perfino il diritto di sciopero.

ROMANO. Io ho parlato sempre contro il diritto di sciopero.

TURCO. Ma noi non possiamo condividere la sua solidarietà di casta, ed abbiamo il dovere, non solo della consapevolezza, ma anche della coraggiosa sincerità.

Ma, insomma, non sente la Magistratura che la indipendenza reclamata è un duro privilegio, che impone il coraggio di restare sola con se stessa, e che il superdiritto alla sovranità rende incompatibile la sua carenza in qualsiasi momento – come è inconcepibile lo sciopero dello Stato. No: i poteri dello Stato non possono in nessun momento scioperare, senza stroncare l’esistenza giuridica dell’organizzazione statale!

Questa aspra posizione di antitesi è stata felicemente superata dal compromesso fra l’autonomia ed il controllo, adottato dal progetto, che implica:

  1. a) indipendenza del giudice sì, ed indipendenza integrale;
  2. b) ma indipendenza assoluta del potere giudiziario, no: nel senso che non si vuol creare un corpo chiuso ad ogni influenza della volontà popolare esplicantesi attraverso l’intervento dei rappresentanti diretti del popolo.

Indipendenza del giudice, dunque: e sia indipendenza costituzionale, funzionale ed istituzionale, psicologica (per l’inamovibilità dalla funzione e dalla sede) ed economica, con riguardo alla incompatibilità con qualsiasi forma di attività economica. E su questo terreno, quando il principio fosse accettato, sarebbe agevole intendersi, anche in rapporto alle modifiche proposte circa il numero e la discriminazione dei membri politici del Consiglio Superiore, e con intesa che non si debba più sentir parlare di politica giudiziaria, e di Ministero chiave, in rapporto alla gestione giurisdizionale.

Ma non basta: dev’essere perentoriamente affermato il principio dell’unicità, della integrità, e, quindi, dell’esclusività di tale funzione, che risponde all’integrale fiducia che l’Ordine merita e meriterà sempre più con l’affinamento progressivo, mercé la specializzazione della competenza tecnica e correlative funzioni.

L’unicità importa che nuove giurisdizioni speciali (questa perniciosa crittogama della giustizia) non debbano essere instaurate, e che debbano, anche, essere prontamente eliminate tutte quelle che sono state create per circostanze contingenti e per fini politici.

La Corte Suprema ha espresso solennemente in proposito il suo parere, ed ha elencato tassativamente le sole giurisdizioni eccezionali ammissibili (Corte dei Conti, Consiglio di Stato, tutela giurisdizionale degli interessi legittimi) restituendo, quindi, al Magistrato ordinario l’intera funzione giurisdizionale.

E l’integrità importa sopra tutto, a mio avviso, che non sia strappato all’ordinaria magistratura, sotto pretesto di utopie politiche ed umanitarie, il compito più delicato e geloso – e della massima responsabilità – il governo della giustizia nella zona torrida dell’alta criminalità.

Ed eccomi, con questa considerazione di culminante interesse giuridico e sociale, entrato nella tesi specifica del mio intervento.

Proprio là dove incombe la suprema responsabilità del giudice, non può, non deve mancare il tranquillante corrispettivo della garanzia della competenza della superiorità morale, della vigilata e progressiva attitudine del giudicante!

Entrata di straforo, in occasione dell’esame dei progetti Gullo per le norme complementari e la procedura del decreto legge 31 maggio 1946 sulla riforma della Corte di Assise, la questione del ripristino della giuria determinò un immediato schieramento, pro e contro, ed io, di parte contraria, fui incaricato di redigere e redassi una relazione di minoranza, che fu onorata dalla sottoscrizione dei Commissari consenzienti.

Ma la vivace battaglia venne abilmente sopita in un prudente agnosticismo, poiché si adottò il criterio di rinviare, senza specifica pronuncia, collegando la questione al vaglio dell’Assemblea in sede costituzionale. Ed è in questa sede, dunque, ed in questo momento, che, nella modestia delle mie forze, adempio al mandato conferitomi.

La nostra tesi è nitida e precisa: noi siamo contrari ad un istituto imperfetto ed imperfettibile, la cui riapparizione, se può ritenersi giustificabile nel tempo e pel tempo di eccezionale, transitorio, arroventato clima politico nel quale riapparve, non può essere accettata definitivamente, sub specie aeternitatis, sul piano tecnico costituzionale. Tutt’al più, dovrebbe, secondo l’ammonimento della Suprema Corte, rinviarsene, con l’abolizione dell’articolo 96, l’esame nel futuro ordinamento giudiziario, poiché non impegna una riforma di diritto sostanziale, ma soltanto una modifica processuale imposta dalla voce perentoria, inequivocabile dell’esperienza.

Ma, prima di giustificare tale tesi, consentitemi di sbarazzarmi di un’accusa pregiudiziale, che scaltramente ci si getta fra le gambe. Siamo reazionari noi nel contrastare non già la partecipazione del popolo, ma la diretta partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia? Siamo noi antidemocratici nel contrastare la partecipazione laica al governo della pesante giustizia criminale?

Qui, perdonatemi, è necessario precisare, con una autocitazione: tengo a riprodurre testualmente il brano correlativo della mia abortita controrelazione:

«Noi non disconveniamo affatto sulla necessità attuale ed imperiosa di democratizzare tutta l’attività statale; e siamo ben lungi dal non riconoscere esatto che la sovranità appartiene al popolo; e che, quindi, sia specifica espressione della sovranità popolare la funzione giurisdizionale. Tutto ciò attiene all’elemento fondamentale di un regime democratico, è una vera e propria esigenza democratica.

«Ma riteniamo che operi soltanto un pregiudizio democratico nella pretesa della partecipazione diretta del popolo sovrano all’amministrazione della giustizia, quando è premessa la norma fondamentale che la sovranità si esercita nelle forme e nei limiti della costituzione, e che quella giurisdizionale (come quella amministrativa) non è funzione originaria, ma derivata, ed è esercitata in nome del popolo (art. 94) e che altre forme di sovranità – la legislativa, l’esecutiva, ecc. – si esercitano dal popolo mediatamente ed indirettamente.

«Il popolo esercita democraticamente la sua sovranità, indirettamente, a mezzo degli organi che attingono origine, legittimità e potere dal popolo stesso organizzato a Stato. Così il popolo partecipa all’amministrazione della giustizia mediante l’organo della Magistratura, proposto nello stesso progetto come organo di designazione derivata dal popolo, autonomo ed indipendente, espresso e governato da un Consiglio Superiore, nel quale la voce e la volontà della Nazione è determinante e decisiva. Oggi, mediante la netta distinzione dei poteri dello Stato ed il concorso delle varie categorie sociali alla formazione delle leggi per mezzo dei loro rappresentanti, la coscienza morale e giuridica della collettività si esprime nel momento legislativo. Al giudice resta soltanto il compito di applicare la legge».

Potrei aggiungere che noi oramai siamo pervenuti ad una svolta del concetto di democrazia, che, slargandosi dal settore politico, va trasformandosi in democrazia sociale ed economica.

Comunque, anche a restar fermi al vecchio schema, è troppo chiaro che noi, oppositori della giuria, non contrastiamo l’esigenza democratica, ma soltanto un pregiudizio democratico, che è costato troppo duro nel passato alla giustizia criminale.

Ma noi siamo tanto equanimi, dopo respinta la immeritata accusa, da ammettere e convenire che nelle speciali transitorie (oggi fortunatamente superate) circostanze politiche, sul piano della necessità di una drastica ritorsione politica, anche quello che era soltanto un pregiudizio democratico, potesse e dovesse avere diritto (precario) di cittadinanza legislativa, per dar la sensazione al popolo di volersi definitivamente cancellare, direi plasticamente e di impeto, ogni vestigio della combattuta, contraria ideologia.

Giacché noi abbiamo la serenità necessaria per riconoscere, sul piano storico, la ricorrenza e l’irresistibilità del fenomeno del globale mimetismo, pel quale, in ogni crisi costituzionale, nel suo periodo parossistico di sovratensione politica, ogni manifestazione sociale si adegua e si colora della colorazione politica del momento critico che si attraversa.

Nella vita politica dei popoli, si nota un fenomeno ricorrente: quello dell’inevitabile mimetismo che regola il ritmo della evoluzione legislativa, sul passo del progresso politico sociale nella storia di ciascun paese.

Inevitabile ed opportuna è la uniforme colorazione, l’adeguamento esageratamente formale di tutti gli istituti fondamentali dello Stato all’accentuazione politica. È la tendenza mitopeica che si sgancia ed opera, nel momento della febbre politica, e sommerge e colora l’intera fenomenologia politico-sociale. Così abbiamo avuto, nella nostra crisi, la palingenesi democratica. Tutto per la e nella democrazia: niente al di fuori della democrazia. Ed allora si esagera: ma è naturale, opportuna l’esagerazione, purché temporanea, limitata al momento e pel momento di sovratensione politica transitoria.

Ecco perché l’onorevole Togliatti ha fatto bene, e non poteva far diversamente, nel periodo di estrema concitazione politica, quando gli si chiedeva da ogni lato l’abolizione delle Sezioni Speciali delle Corti politiche, a ripristinare l’istituto della giuria per quell’arroventato clima politico.

Il fascismo – con la sua tendenza mitopeica dello Stato – non riconoscendo altra sovranità che quella dello Stato, non poteva tollerare che si contrapponesse, con la giuria, la giustizia del popolo a quella del Re.

Era ben naturale, che per necessaria, immediata ritorsione politica, l’onorevole Togliatti, non riconoscendo altra sovranità che quella del popolo, affermasse anche nel piano tecnico la contrapposizione della giustizia popolare a quella dello Stato. Epperò ristabilì con il decreto-legge 31 maggio 1945, n. 500, l’organo della giuria come patentemente, immediatamente e direttamente rappresentativo della coscienza popolare, per dare la sensazione viva della unicità della sovranità del popolo, per dare la colorazione politica anche alla funzione giurisdizionale.

Ma ora che il turbine politico va, lentamente ma decisamente quetandosi, e noi legislatori siamo chiamati a fare opera duratura in una Costituzione rigida, come faremo a conservare ancora questo ibrido istituto, regalatoci dalla nostra inguaribile mania imitativa delle legislazioni straniere, a mantenerlo ancora nella nostra tradizionale, limpida e quadrata compagine legislativa?

Crollano i troni attorno a noi, o signori, tramontano vecchie e pur nobili ideologie, che hanno fatto le glorie dei secoli passati. Solo i giurati debbono permanere a perturbare sempre, con il loro ictus irragionato, incorreggibile ed irresponsabile il tremendo flusso della giustizia punitiva?

Noi, modestamente, ci opponiamo: e non tanto per ragioni di fideismo scientifico o per servaggio a pregiudiziali politiche, quanto per la costatazione realistica del bilancio fallimentare dell’istituto della giuria al banco di prova dell’esperienza. Già al principio del secolo il nostro grande Alimena lo definiva «l’organo dell’ordinamento giudiziario senza pace».

E difatti è riuscito a guadagnarsi, nel cinquantennio di sua vita funzionale, l’ostilità decisa e quasi unanime della dottrina, dei tecnici, dei congressi. E la perturbazione era così progredita che, nella prassi giudiziaria, l’opera del Supremo Collegio, più che in un controllo di diritto si era dovuta trasformare in vero e proprio controllo di giustizia.

Per noi, che abbiamo lungamente vissuto l’avventura giudiziaria dei giudici popolari, è doverosa la testimonianza che il verdetto dei giurati, in buona metà dei giudizi in Assise, quando non era il risultato di sopraffazione (o intellettuale o politica o, peggio, finanziaria), era semplicemente il risultato dell’azzardo, pel meccanico sorteggio, di quei giudici improvvisati. Onde la coscienza pubblica s’era da tempo orientata più che verso la speranza, verso la sicura attesa dell’estromissione definitiva del giurì dalla nostra legislazione. Perché, ripeto, quello della giuria è un istituto imperfetto ed imperfettibile. Infatti, due supreme facoltà umane, antitetiche fra loro, ma egualmente indispensabili, dovrebbero concorrere alla formazione di un giudizio umanamente perfetto: la intuizione e la riflessione. Donde, due tendenze contrastanti: la commossa, spontanea reattività al reato della coscienza popolare: è la prima. La seconda è l’attento consapevole travaglio del senso critico del giudice esperto.

La prima sgorga dall’irrazionale, impulsivo campo della emotività, ed è, qualche volta, divinatrice: arma prodigiosa, ma pericolosa, perché «l’affetto l’intelletto lega» e trascina oltre e contro la volontà della legge, e sbocca e non può che sboccare in un enigmatico monosillabo incontrollato ed irretrattabile, donde la lunga teoria degli errori giudiziari, che di lagrime gronda e fa terrore.

La seconda, la riflessione, è facoltà raziocinante, detersiva di ogni contaminazione alogica o sentimentale, severa e sicura investigatrice della realtà ontologica (esistenza del reato e individuazione dell’autore) e della realtà psicologica (colpevolezza e responsabilità anche in rapporto all’alterazioni psichiche ed ai riflessi sociali) con pienezza di capacità di attenzione e di critica.

Questa sbocca in una pronuncia razionalizzata della motivazione, quindi controllabile e quindi riparabile; motivazione proporzionata all’importanza della imputazione. Una giustizia, si è detto, sottratta all’obbligo della motivazione è il sintomo di uno Stato in sfacelo.

Ora, come è possibile contemperare queste due esigenze? E, nella impossibilità, a quale delle due attenersi?

Noi optiamo decisamente per la seconda, perché, mentre non è, quasi mai, da aspettarsi che il giurì improvvisi la competenza, l’attitudine critica e la dirittura morale, doti del giudice togato, c’è da aspettarsi, invece, che il giudice togato, accortamente sollecitato, superi e vinca quella, che sotto il nome di deformazione professionale, gli si rimprovera come insensibilità al flusso della realtà ed al ritmo palpitante della vita collettiva.

Non vi è giudice che possa resistere allo squillante richiamo del sentimento e alla suggestione dell’umana giustificazione dell’episodio criminoso e delle sue correlazioni sociali e politiche: come non vi è reato che, nel suo intrico psicologico, non abbia una piccola luce di umanità, che, saputa scoprire e portare in primo piano, illumina tutto l’orizzonte processuale e guida e sorregge il giudice attraverso le dighe e le precisazioni scientifiche del diritto.

Il problema definitivo da affrontare è dunque, non già quello di scegliere fra il giudice improvvisato ed irresponsabile, ed il giudice ordinario e responsabile: ma è quello di arrivare, mediante gli opportuni ordinamenti, alla formazione di un giudice ordinario compos, sagace, addestrato, aggiornato nelle varie specializzazioni apprestate da tutte le scienze moderne: e di renderlo tetragono, nella sua coordinata indipendenza, al bisogno ed alle prepotenze.

E ad un giudice così fatto, che è fortunatamente frequente, e più lo sarà nel prossimo avvenire, non bisogna negare la fiducia, e disautorarlo negandogli il compito più grave ed essenziale della funzione giurisdizionale: quello di arginare le asprezze brutali della realtà criminosa.

Voglio dirvi un’ultima parola, o signori: una parola di vita palpitante di umana realtà.

I destini degli uomini sono imperscrutabili ed irreversibili. Niente può mettere al sicuro il più giusto, il più puro, il più forte degli uomini dal trovarsi impigliato, attore o vittima, in una macchinosa vicenda giudiziaria.

Quale giudice voi preferireste per la tutela della vostra libertà, del vostro onore, dell’avvenire dei vostri figli: il giudice improvvisato ed irresponsabile, o il giudice conscio, esperto, addestrato, indipendente e responsabile?

Questa scelta, che impegna la vostra responsabilità di legislatori, voi dovete tradurre sulle tavole della Costituzione.

E se noi, accettando il sistema bicamerale, abbiamo rifiutato di credere all’infallibilità di una intera Assemblea di ottimati: come possiamo credere al tabù delle infallibilità di un manipolo raccogliticcio di giudici popolari? (Applausi al centro – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bozzi. Ne ha facoltà.

BOZZI. Onorevoli colleghi, non mi intratterrò, come ha fatto l’onorevole Turco, su un tema particolare, se pure di alta importanza, quale quello della giuria; ma cercherò di dare uno sguardo panoramico ai Titoli del progetto, che sono all’ordine del giorno.

Dico subito che sul tema trattato dall’onorevole Turco io sono perfettamente d’accordo con lui; tuttavia ritengo che il problema della giuria non debba essere risoluto in sede di Carta costituzionale, perché la giuria è giudice ordinario e la questione se essa debba esistere o no e, eventualmente, con quali competenze e limitazioni è questione da Codice di procedura penale o da legge sull’ordinamento giudiziario, così come è stato fino ad oggi.

Io vorrei, come dicevo, occuparmi del problema centrale, della indipendenza della Magistratura: tema di somma rilevanza, anche se la desolazione di questi banchi possa far pensare che non tutti la sentono. Tema che non interessa una particolare categoria di pubblici funzionari. Qui noi non stiamo ad esaminare lo stato giuridico ed economico dei magistrati, quasi essi reclamassero per se stessi speciali provvidenze, come un settore, il più qualificato, il più nobilmente qualificato, della vasta famiglia dei pubblici funzionari. Noi affrontiamo oggi uno dei problemi fondamentali in uno Stato democratico: il problema della giustizia, il problema della attuazione della legge; cosa che interessa tutti i cittadini, nei loro beni, nel loro onore. Perché, amici e colleghi, sarebbe enunciazione puramente accademica l’affermazione dei diritti di libertà, che noi abbiamo sancito nella prima parte di questa Carta costituzionale; sarebbe enunciazione accademica l’allargamento della sfera dei diritti civili e politici del cittadino verso lo Stato, se nella Costituzione non forgiassimo in pari tempo uno strumento valido, che sapesse dare garanzia di questi beni a tutti i cittadini ed a ciascuno di essi, se occorre, anche contro lo Stato, quando lo Stato dei diritti e delle libertà dei singoli si facesse violatore.

Io devo dire che vi è oggi un diffuso stato d’animo contro la Magistratura. Vorrei ricordare, quasi come attestazione autentica, le parole pronunziate in questa Assemblea da uno dei più illustri giuristi viventi e membro autorevole dell’Assemblea medesima, l’onorevole Calamandrei, il quale, in sede di discussione generale sul progetto di Costituzione, ebbe a dire: «Il Consiglio Superiore della Magistratura che, secondo il progetto proposto da me, avrebbe dovuto essere composto unicamente di magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto per metà di elementi politici, eletti dagli organi legislativi. In realtà, chi ha impedito all’auto-governo della Magistratura di affermarsi in pieno non sono stati tanto gli argomenti dei colleghi sostenitori dell’opinione contraria, quanto è stato Sua Eccellenza il procuratore generale Pilotti; la Magistratura deve ringraziare proprio lui dell’ostilità con cui è stata accolta, ecc., ecc.».

Ora io, miei amici, non intendo – Dio me ne guardi! – rivangare qui il «caso Pilotti». Mi piace soltanto ricordare quanto ha scritto uno spirito libero e arguto: che, se l’atteggiamento del procuratore generale Pilotti, quell’atteggiamento che è stato criticato tanto duramente, fosse stato tenuto nei confronti, non già del Presidente della Repubblica, ma, poniamo, onorevole Conti, di Umberto II, il repubblicano onorevole Calamandrei avrebbe, probabilmente, esaltato l’indipendenza del magistrato, il quale…

RUGGIERO. Non l’avrebbe fatto in quel caso.

BOZZI. …il quale, anche di fronte al re, sapeva tenere alta l’indipendenza del potere che rappresentava. Di questo, adunque, non voglio parlare; mettiamo da parte gli argomenti contingenti, legati a situazioni di uomini, che passano. Altri argomenti, vorrei dire visti sub specie aeternitatis, noi dobbiamo tener presenti, perché ci guidino nello studio e nell’elaborazione di questo tema fondamentale: l’amministrazione della giustizia.

La Magistratura – lo dico io che da essa provengo ed ancor oggi vesto la toga, ed appartengo idealmente alla magistratura per una lunga generazione di famiglia – in questi ultimi 25 anni, per chi ne guardi la complessiva attività svolta, non merita forse né esaltazioni, spesso retoriche o demagogiche, ma nemmeno stroncature.

Rifacciamoci ai tempi, o signori. Vi sono state sentenze in cui evidentemente la bilancia ha pencolato sotto il peso della pressione politica; ma, nell’insieme, la giustizia, special mente la giustizia resa dai piccoli, dai modesti magistrati, è stata buona. Vorrei dire che, se vi è stata qualche deviazione, non è stata tanto nel non rendere giustizia in casi singoli, quanto in un atteggiamento generico, specialmente nella giurisprudenza della Corte di cassazione, in un atteggiamento generico che si potrebbe chiamare di conformismo. II giudice, cioè, ha cercato non tanto, come dovrebbe essere suo compito, di interpretare la legge, ma di indagare lo spirito del sistema politico, l’indirizzo desiderato dal Governo, lo scopo politico-sociale che questo voleva fosse raggiunto. Potrei ricordarvi casi tipici: la giurisprudenza sulla clausola oro e sul potere liberatorio della moneta; alcune sentenze sul rapporto di impiego privato. La legge fu interpretata in un certo modo per conformarsi all’indirizzo politico del regime.

D’altra parte, o signori, se non sempre, la Magistratura è apparsa a noi su quel piedistallo ideale sul quale la vorremmo sempre vedere, dobbiamo domandarci: non è forse ciò dipeso, sia pure in parte, dalla posizione di non assoluta indipendenza in cui essa era?

Dopo la caduta del fascismo la Magistratura ha ritrovato in pieno il suo antico spirito di indipendenza, che, credete a me, non viene tanto dalle formule della Costituzione, dalle norme dell’ordinamento giudiziario, quando da un abito mentale e morale, che è soprattutto il riflesso della situazione generale politica del Paese. In uno Stato libero la Magistratura è libera, in uno Stato di servitù, la Magistratura non può non essere serva, anche se lo Statuto la proclami sovrana e indipendente!

Lo so; in questi ultimi anni la Magistratura ha emanato sentenze molto criticate in sede politica; io non mi sentirei di sottoscrivere questa o quella; non dico come uomo politico, ma anche come giurista. Ma in questa grande crisi della legalità (perché oggi il fenomeno più acuto e più grave della nostra società è la crisi della legalità), in questa profonda incertezza che ci travaglia, in questa fase di trapasso fra un mondo che non è ancora del tutto tramontato ed un altro che si delinea e si va faticosamente formando, non pensate che questo complesso di fattori non potesse non ripercuotersi anche sugli organi che hanno il compito di attuare la legge? Incertezze, anche deviazioni forse, ve ne sono state. Ma a chi va attribuita la colpa? Tenete anche presente, o colleghi, che non tutte le leggi oggi sono tecnicamente perfette. La tecnica legislativa lascia molto a desiderare. Qui, più volte, è stata sollevata la questione dell’applicazione dell’ultimo decreto di amnistia. Bisogna riconoscere francamente che questo decreto tecnicamente non era ben fatto; e bisogna riconoscere che, perlomeno in gran parte, il giudice si è trovato in difficoltà obiettive di interpretazione, che hanno potuto dare luogo ad applicazioni che a volte son potute sembrare aberranti.

Ma, tutto questo è ancora particolare. Noi oggi lavoriamo per creare il nuovo Stato, uno Stato di democrazia costituzionale. In questo Stato, quale è la posizione che assegneremo alla Magistratura?

Io ricordo che nelle sedute della seconda Sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dall’illustre onorevole Conti, vi fu un argomento che si poneva sempre contro l’indipendenza della Magistratura, un argomento del quale si fece paladino l’onorevole Laconi: la Magistratura è conservatrice e, quindi, reazionaria e retriva; bisogna, perciò, renderla più diretta e genuina espressione del popolo, tenerla sotto il controllo del popolo, che è l’unico depositario della sovranità. Ebbene, o signori, non vi meravigliate se io dico che la funzione della Magistratura, la funzione del giudice dev’essere proprio funzione conservatrice; conservatrice non nel senso in cui si parla di conservatorismo sul piano politico, ma conservatrice nel senso di garanzia e di custodia dello Stato democratico e dell’ordinamento giuridico.

Vediamo le cose più da vicino. Quali sono le parti della politica, quali sono le parti della giustizia? La politica finisce il suo compito nel momento in cui si traduce nella legge; la politica esaurisce la sua funzione nell’atto in cui crea la norma obiettiva che si inserisce nell’ordinamento giuridico dello Stato. Questo è il compito della politica; questa è la funzione del popolo, se noi per popolo non intendiamo, con visione frammentaria che non è democratica, questa o quella manifestazione espressa da questo o da quel partito, da questa o da quella categoria, ma intendiamo la riduzione di queste diverse manifestazioni nell’unità dello Stato, che è appunto la volontà unica del popolo, che si manifesta nei modi previsti dalla Costituzione.

In un regime di democrazia costituzionale non può esservi antitesi fra Stato e popolo.

Ora, se le parti della politica finiscono nell’atto in cui si crea la legge, quale è la funzione del giudice? La funzione di interpretare questa legge e di applicarla, funzione di conservare la legge, consacrazione della volontà popolare. Se il giudice si facesse esso stesso legislatore, e volesse attuare la legge non secondo la lettera e lo spirito di essa, obiettivamente fissati, ma secondo i suggerimenti mutevoli della cosiddetta coscienza popolare, influenzati da fuggevoli maggioranze o da altro, allora non avremmo più una società civile regolata dalla legge, ma una società regolata dal criterio del caso per caso, cioè regolata dall’arbitrio. Questa è la funzione conservatrice, non nel senso retrivo, reazionario, del giudice. Volete cambiare la legge? Si aprono nuovi orizzonti o vi è un impeto di nuove correnti sociali? Non è compito del giudice di tradurle in atto, se prima il legislatore non le abbia elevate a norma di diritto. Il giudice ha un solo dovere: di conservare, applicandolo, l’ordinamento giuridico creato dal popolo. Questa è democrazia sana e costituzionale.

E, badate, la funzione del giudice è vincolata, perché egli non è nemmeno libero di interpretare (amico Persico, sento sottovoce le tue critiche) la legge come vuole. Il legislatore interviene e regola e detta esso stesso le norme, onde la interpretazione della legge deve avvenire.

Non c’è quindi nessun campo di arbitrio del giudice: la stessa legge dà le norme di interpretazione; il giudice svolge un’attività vincolata dallo stesso legislatore.

L’onorevole Turco, nel suo discorso di poco fa, è caduto in una certa contradizione, perché ha esaltato l’indipendenza del giudice, ma ha criticato l’indipendenza assoluta dell’Ordine giudiziario, come se l’indipendenza del giudice si potesse realizzare del tutto al di fuori della Magistratura, cioè del complesso di organi in cui il giudice si inserisce, indipendente. Egli è per la semiindipendenza; il che vale tanto quanto dire per la non indipendenza. Ora, la indipendenza della Magistratura e del giudice è un problema già risolto dal popolo nell’atto in cui esso si dà una Costituzione di democrazia costituzionale.

Ma, che cosa significa indipendenza? Indipendenza, di chi? Indipendenza da che? Secondo me, il problema fondamentale è l’indipendenza del giudice, l’indipendenza del singolo giudice che dicit jus ed applica alla fattispecie concreta la norma astratta di legge, che compie – avvicinandosi in qualche momento veramente alla divinità – la difficile funzione di giudicare il suo simile, di condannarlo o di assolverlo, del giudice che risolve i conflitti patrimoniali, del giudice che reintegra sempre il diritto offeso, anche contro lo Stato.

Indipendenza del giudice, che è la cosa più importante, credete a me; indipendenza che si deve realizzare (ed è questo un punto che vorrei richiamare alla vostra particolare attenzione) non solo nei confronti del potere esecutivo e del potere legislativo, ma si deve realizzare anche nei confronti della gerarchia interna giudiziaria. Questo è un aspetto sul quale, forse, l’attenzione non è stata a sufficienza portata: indipendenza anche dai superiori. Il magistrato non deve avere superiori, nel senso gerarchico della parola; egli deve ubbidire soltanto alla propria coscienza e alla legge. (Approvazioni). Al disopra, non vi deve essere gerarchia; e questo punto è, con solennità, affermato nella Costituzione.

Ma noi dobbiamo far sì che la formula abbia contenuto e che l’affermazione di indipendenza istituzionale diventi norma di vita, si inserisca in interiore homine.

Vedete: io vi dirò cose che possono sembrare meschine; ma, secondo me, che sono vissuto nell’ambiente e ne conosco un po’ da vicino gli uomini, esse hanno importanza notevole, forse maggiore di tante formule che sono inserite nel progetto. V’è un complesso di motivi, economici, psicologici, a volte anche di vanità, che influiscono sulla coscienza o, senza affiorare nella coscienza, sul subcosciente del giudice. Che è un uomo, vive nella vita, sente le influenze della società. Vorremo isolarlo, metterlo sotto una campana pneumatica? È una cosa difficile, anzi impossibile. Ma qualche cosa si può e si deve fare: smorzare, diminuire quelli che sono i motivi che, in base all’esperienza, noi sappiamo più direttamente e più profondamente incidono nell’anima del magistrato.

Non crediate che dica cosa miserevole; ma quando io sostengo che il magistrato non deve avere onorificenze, io lo sottraggo ad uno dei motivi che l’esperienza ha dimostrato avere maggiore influenza su di lui. Ormai noi, indirettamente, abbiamo affermato che la Repubblica distribuirà onorificenze.

NITTI. Spero di no!

BOZZI. I magistrati non devono avere onorificenze: il giudice che non si è mai venduto per denaro, non si venderà nemmeno per le onorificenze.

Una voce a sinistra. Ma s’imboscherà nei Ministeri!

BOZZI. Ma credete a me che l’idea della commenda – ieri della corona d’Italia, domani della Repubblica, non so quale nome avrà – esercita grande seduzione su molti. I giudici vivono in povertà e in onestà; amano queste chincaglierie, come le chiamava un alto magistrato a me molto caro. E pur di averle non esitano a fare anticamera nei Gabinetti dei Ministri. Ma poi v’è l’esame comparativo con il collega che è commendatore ed è meno anziano o, peggio ancora, v’è il caso del presidente che è cavaliere e del giudice che è commendatore!… Tutto questo complesso di inferiorità crea una situazione psicologica di disagio, di difficoltà, di indebolimento di quello stato di serenità per cui il giudice si deve sentire pago soltanto della nobile missione che a lui è affidata: difficile privilegio che gli deve saper dare l’amore di vivere solo con se stesso.

Ma vi sono problemi più sostanziali, come quello dell’iscrizione ai partiti politici. Noi abbiamo combattuto, in sede di seconda Sottosezione, una battaglia e abbiamo affermato nel progetto, che il giudice non deve essere iscritto a partiti politici, né ad associazioni segrete.

Ma si obietta: il giudice non può forse avere una sua opinione politica? Certo che la deve avere; ma lo status di iscritto, di gregario e, peggio, di capo, di esponente di un partilo, oggi che i partiti, per intrinseca necessità, si vanno sempre più organizzando su un piano di rigida disciplina e di gerarchia, è indubbio che potrebbe esercitare sulla sua coscienza o sulla sua subcoscienza un’innegabile influenza. E quando anche il giudice riuscisse a rendersi immune, con la sua dirittura, da simili debolezze, chi potrebbe mai togliere il dubbio, il sospetto alla pubblica opinione che il magistrato, in quella o in quell’altra controversia, si sia regolato in quel modo e non in altro perché l’imputato o la parte era di quel certo partito e non di altro?

Onorevoli colleghi! Noi dobbiamo circondare del più grande prestigio la figura del magistrato e dobbiamo eliminare tutte le cause che, sia pure ingiustamente, possano dar motivo a sospetti o a riserve, che non ferirebbero il singolo, ma l’istituto in se stesso.

V’è poi un altro problema che sono costretto ad indicarvi usando un’espressione assai brutta: bisogna «sburocratizzare» la Magistratura. Bisogna sburocratizzarla non solo nei confronti degli altri impiegati dello Stato, perché il giudice è lo Stato in una delle manifestazioni della sua sovranità, è la legge vivente; ma bisogna sburocratizzarla anche nei riguardi dell’interna organizzazione. Dovrà dunque cadere la gerarchia interna, nel senso che non vi dovranno esser gradi, ma distinzioni di funzioni.

Oggi avviene invece purtroppo che i giudici sentano notevolmente l’influenza del loro presidente, del «capo», come usa dire. Il Codice di procedura stabilisce, ad esempio, che il presidente, nella sua qualità di anziano, deve votare per ultimo: è il primus inter pares. Tutti sanno che ciò invece non avviene, o avviene di rado. Il presidente dice per primo la sua opinione e questo naturalmente pone il giudice di grado inferiore in una situazione di disagio.

Onorevoli colleghi, bisogna davvero che l’uomo, in certi momenti, attinga una forza quasi divina per resistere anche al suo superiore; e noi non possiamo sempre pretendere dal giudice, che è uomo, manifestazioni di questa forza.

Perciò sarà anche necessario che la progressione in carriera sia, di regola, affidata a criteri obiettivi; ai concorsi, soprattutto.

Ma vi è poi anche un’altra questione: quella cui accennava poc’anzi l’amico Musotto: l’imboscamento dei giudici! Non c’è stato mai Guardasigilli il quale sia stato capace di condurre a termine questa grande operazione chirurgica, di riportare i giudici, tutti i giudici, nelle preture, nei tribunali, nei processi, nelle corti. I giudici non sempre amano di fare i giudici!

Preferiscono i Ministeri, i Gabinetti, le Segreterie particolari. Ci sono Magistrati che sono arrivati in Cassazione dopo anni ed anni di codesta diserzione! Tutti si lamentano che i giudici sono pochi; mi duole che non sia qui il Guardasigilli: io dico che i giudici sono sufficienti. Già molte funzioni nella riforma dell’ordinamento giudiziario potranno essere tolte ai giudici e date ad altri funzionari; ma io vorrei che, costituzionalmente, si fissasse questo principio fondamentale: che il giudice non deve essere distolto dalla sua funzione, che è quella di render giustizia. Non giudici nei Gabinetti dei Ministri, non giudici nelle Commissioni, non giudici che – ahimè! –, alle volte sospinti dalle necessità, elemosinino di far parte di questa o di quella Commissione di esame, di questa o di quella Commissione per lo studio di un determinato progetto, di questo o quel Consiglio. Dico, ahimè sospinti dalla necessità, perché le loro condizioni economiche sono di povertà: di povertà che dev’essere, per la dignità della funzione, dissimulata. Questo veramente sarà uno dei punti più fondamentali nella riforma che noi tentiamo di dare all’ordinamento giudiziario.

Ma tutto questo non è sufficiente, onorevole Turco, perché il magistrato si inserisce in una organizzazione, fa parte di un potere, che è sovrano.

Qual è il posto che noi daremo a quello che, con frase non del tutto felice, anzi, non propria secondo il mio punto di vista, è chiamato ancora «Ordine giudiziario?». Quale è l’indipendenza, per usare un’espressione tecnica, l’indipendenza funzionale di questo cosiddetto Ordine giudiziario? Dico espressione non felice, perché è tolta di peso dallo Statuto albertino, per il quale – residuo di una mentalità proveniente dalla Rivoluzione francese, che vedeva i tribunali con molto sfavore – la funzione della giustizia era quasi una funzione delegata, delegata dal sovrano. Poi, con l’evolvere dei tempi, mutarono le cose, ma l’impostazione originaria era questa: si parlava di potere legislativo e di potere esecutivo, ma non di potere giudiziario, ma di Ordine giudiziario, perché si considerava la giustizia come delegata dal re; diversamente da quanto già, per esempio, aveva fatto, con una maggiore larghezza di impostazione, lo Statuto belga del 1831, che parlava di potere giudiziario. Noi abbiamo mantenuto questa frase quasi per paura di usare la parola potere. Ebbene, il potere giudiziario è un potere dello Stato, perché è una manifestazione della sovranità dello Stato.

Come è stata garantita l’indipendenza funzionale dell’Ordine giudiziario? Non bene. Si è fatto un tentativo; il progetto si è fermato a metà, un po’ per preoccupazioni del tipo «caso Pilotti», un po’ per motivi di diverso genere, più profondi, inerenti a una visione politica che io non condivido. In fondo, il progetto dice questo: l’autogoverno della Magistratura è affidato alla stessa Magistratura.

Qui bisogna intendersi. Che cosa è questo autogoverno che mette tanta paura a qualcuno? Ma, signori, non è già che al Consiglio superiore della Magistratura si dia – come taluno forse crede e come taluno ha sostenuto – la potestà di dettarsi esso stesso le leggi della sua vita. Ma no! Molti credono che l’autogoverno significhi questo: che il Consiglio superiore della Magistratura sia un potere legiferante.

L’autonomia qui è intesa in senso non tecnico; è soltanto una potestà amministrativa. È questo il punto che voglio sottoporre alta vostra attenzione. L’accordo che molti ritengono (ed io per primo fra questi) necessario fra potere giudiziario e potere legislativo, ha già la sua prima realizzazione in ciò: è il Parlamento, ossia il potere legislativo, che detta la legge fondamentale della Magistratura, l’ordinamento giudiziario. Insomma, il Consiglio superiore non è legibus solutus, è un organo di amministrazione. Si è voluto dire: l’amministrazione della magistratura, anziché affidarla al Ministero della giustizia, al potere esecutivo, l’affidiamo ai magistrati medesimi. Ma amministrazione che si muove nei limiti e nello spirito della legge che fa il Parlamento.

Ed ecco, vedete, il primo raccordo fondamentale: la Magistratura vive sulla base e in conformità della legge che fa il Parlamento. Siamo in regime di democrazia costituzionale. La Magistratura, potere dello Stato, si amministra da sé, come il Parlamento o, per fare altri esempi, come la Corte dei conti, istituto paraparlamentare. Lo status dei magistrati, l’assunzione in carriera, le promozioni, i trasferimenti da sede a sede, i passaggi da funzione a funzione, tutto quel complesso di attività, che si designa come governo e disciplina della Magistratura, è affidato alla Magistratura medesima.

Ma l’organo di amministrazione è inadeguato. Come è composto? Del Presidente della Repubblica, che lo presiede, e di due vicepresidenti: uno di diritto, il primo presidente della Corte di cassazione, l’altro eletto dall’Assemblea; e poi di un numero di membri, metà eletti dagli stessi magistrati, in categorie determinate dalla legge, metà eletti dall’Assemblea Nazionale, cioè dalle due Camere riunite.

Io non ho niente da obiettare circa la presidenza del Presidente della Repubblica; è il sistema della Costituzione francese. Il Presidente della Repubblica, che è capo del potere esecutivo, che noi abbiamo voluto non fosse mantenuto del tutto estraneo al potere legislativo; partecipa anche alla vita della Magistratura, del terzo potere dello Stato. Dà decoro e lustro all’organo, e riafferma l’unità dello Stato, che in lui si impersona.

Comunque, è qui da sottolineare che il Presidente della Repubblica interviene nell’organo di autogoverno in quella forma che l’amico Dominedò direbbe «in via di prerogativa», perché certamente i suoi atti non sono garantiti dalla responsabilità governativa; d’altra parte non ve ne sarebbe bisogno, perché, partecipando il Presidente della Repubblica ad un organo collegiale, non ha risalto individuale la manifestazione della sua volontà, che concorre a formare, assieme a quella degli altri membri, la volontà unitaria del collegio.

Poi vi sono due vicepresidenti. Ma che cosa significano due vicepresidenti? Noi dobbiamo pensare che, di fatto, il Presidente della Repubblica non potrà intervenire nel normale svolgimento della vita del Consiglio superiore della Magistratura. Come si divideranno i compiti questi due vicepresidenti, l’uno tecnico, l’altro politico? E non sente ognuno come i componenti politici potranno essere in conflitto, se non permanente, frequente con i membri tecnici? La politica farà come il lupo: superior stabat lupus!…

Io credo che se non vogliamo creare un regime di semi-indipendenza (la peggiore delle soluzioni), bisogna far sì che il Consiglio superiore della Magistratura sia composto esclusivamente di magistrati.

Io sento le obiezioni, sento l’eco viva delle obiezioni fatte in sede di Sottocommissione, sento adesso le critiche e le riserve mosse dall’onorevole Turco. Vi sono frasi che hanno fortuna. Una è questa: la Magistratura può diventare una «casta», una casta che si può porre fuori dello Stato, domani contro lo Stato; può perfino disapplicare, come sussurrava or ora, impaurito quasi, l’onorevole Ruggiero, le leggi dello Stato. L’onorevole Ruini teme una forma di «mandarinato». Ma veramente vogliamo discutere di questo? Per il fatto che si crea il Consiglio superiore della Magistratura, che già esiste, al quale il Guardasigilli onorevole Togliatti dette una configurazione veramente democratica con la legge del maggio 1946, perché si dà vita a quest’organo, prenderebbe forma concreta il pericolo che il magistrato possa rifiutarsi di applicare la legge! Ma perché questo non può avvenire anche oggi? Ma le leggi le applica il Consiglio superiore o le applicano i singoli collegi, i singoli giudici? Temete, per caso, che il Consiglio possa dettare norme circa l’interpretazione e l’applicazione della legge? E non protestate quando ciò vien fatto dal potere esecutivo!

Se, onorevole Ruggiero, dovesse avvenire ciò che lei teme, vorrebbe dire che si avrebbe lo sfacelo dello Stato. Se noi possiamo credere come veramente realizzabile l’ipotesi che i magistrati ad un bel momento non applichino le leggi dello Stato, allora lo Stato è in frantumi. Non è più questione di Costituzione. Siamo veramente nella notte, nelle tenebre più profonde. Ma di contro a questo pericolo immaginario noi abbiamo il grande vantaggio, certo, di avere veramente una Magistratura indipendente dal potere esecutivo e quindi quelle garanzie, che io ho detto individuali, acquistano maggiore rilievo per il fatto che vi è la coindipendenza costituzionale dell’organo.

La funzione giurisdizionale non è super partes, è al di fuori delle parti. Il potere che la esercita non può non essere indipendente in senso assoluto.

Il magistrato che elegge esso stesso il Consiglio che dovrà amministrare il suo stato giuridico, la sua vita di funzionario, si sente maggiormente garantito, non ha bisogno di ricorrere al Ministro Tizio o al Ministro Caio.

Ma ritorno a un tema al quale ho dianzi fatto riferimento: il collegamento con gli altri poteri dello Stato. Ci deve essere e si attua per due forme, per due raccordi. Uno è quello che ho indicato dianzi: la legge sull’ordinamento giudiziario che è fatta dal Parlamento; quindi una influenza, dirò così, preventiva, esercita l’organo rappresentativo della volontà popolare sulla vita della Magistratura, fissando i limiti della potestà di amministrazione del Consiglio superiore e la vita stessa della Magistratura come ordine. Il secondo raccordo è il Ministro della giustizia. Il Ministro della giustizia non deve scomparire (è detto nel progetto); il Ministro della giustizia ha una serie di compiti vastissimi. Già dovrebbero tornare alla sua competenza gli affari di culto, ma poi ha tutte le questioni professionali, gli ausiliari della Magistratura, del giudice (cancellieri, ufficiali giudiziari), materia che va trattata in perfetto accordo con il Consiglio superiore perché i giudici non funzionano se non funzionano bene i cancellieri e gli ufficiali giudiziari. Non solo, ma il Consiglio superiore della Magistratura, nella mia concezione, deve essere un organo soltanto deliberante; guai se diventasse esso stesso un Ministero; guai se trasferissimo il Ministero da Via Arenula a Piazza Cavour: sarebbe la stessa situazione, forse peggiore.

L’amministrazione, come parte di preparazione e poi di esecuzione dei provvedimenti, dovrebbe restare al Ministero di grazia e giustizia. Il Consiglio superiore è organo deliberante, che dice la sua parola definitiva nella materia dello status dei giudici, (Pubblico ministero compreso) sottraendola per sempre all’influenza del Ministro, del potere esecutivo. Il Ministro, poi, che acquisterà il maggiore rilievo costituzionale di Guardasigilli, risponderà al Parlamento del buon andamento dell’amministrazione della giustizia.

Egli avrà il potere di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati, e giudicherà su questa azione la sezione che sarà designata dal Consiglio superiore della Magistratura con potestà giurisdizionale, così come è detto nella legge Togliatti del 1946.

Quindi voi vedete che questa possibilità di casta chiusa fuori e contro lo Stato non esiste. È una ipotesi irreale, che non può essere nemmeno addotta come argomento polemico. Si infrange da se stessa. Io quindi credo, senza entrare in particolari, che noi dobbiamo dare alla Magistratura questa indipendenza con coscienza tranquilla, sicuri che la Magistratura saprà adempiere al difficile compito.

Ma, prima di terminare, volevo accennare a due altri punti, rapidissimamente.

Il sistema creato colloca l’Ordine giudiziario in una posizione che non è costituzionalmente appropriata. Dico, soprattutto, con riferimento alla Corte costituzionale. Noi abbiamo creato una Costituzione rigida. Nessuno ne ha mai discusso ex professo, ma si dà da tutti per ammesso che la Costituzione debba essere rigida, e sarà rigida. Quindi, necessità di un organo che compia il sindacato sulla costituzionalità intrinseca della legge. Quale deve essere questo organo? Badate che qui siamo di fronte a uno dei problemi più importanti di tutta la Costituzione.

Io vi dico che ho molto riflettuto. Io ho partecipato alla formazione di questa parte del progetto, ma ho riesaminato tutti gli aspetti e tutte le soluzioni, e devo onestamente dirvi che la soluzione adottata non mi sodisfa. Noi abbiamo creato una Corte costituzionale che è un organo politico, che è un super Parlamento. Questo è estremamente pericoloso. Se, per ipotesi, la maggioranza del Parlamento, messasi sul piano inclinato della dittatura, vota una legge contro la Costituzione, noi non avremo la possibilità che la Corte dichiari l’incostituzionalità della legge, perché il Parlamento stesso forma la Corte costituzionale, e quindi l’elemento politico della maggioranza sarà presente anche in sede di Corte costituzionale. Noi sconvolgiamo tutto il sistema che vogliamo creare, non so se consapevolmente o inconsapevolmente. Questo è estremamente pericoloso. La Corte costituzionale deve essere un organo strettamente giurisdizionale, non organo politico; deve compiere un procedimento logico di accertamento: esaminare se la norma corrisponda o no, violi o no la Costituzione è un’opera che deve essere rimandata ai tecnici dell’amministrazione della giustizia, ordinaria e speciale. Vogliamo creare un organo a sé e non affidarlo alla Corte di cassazione. Va bene. Comunque, la Corte costituzionale non deve essere un organo politico perché, altrimenti, noi creeremo un super Parlamento: cosa pericolosissima, specialmente se tenete presente la natura di certe norme costituzionali che noi abbiamo inserito nella prima parte della Costituzione. Norme vaghe, norme direttive, norme programmatiche. Quando il legislatore ordinario dovrà dare concreta forma a queste aspirazioni, a queste tendenze, quale sarà il giudice che potrà dire se veramente questo compito è stato felicemente compiuto, è stato compiuto con rispondenza, con fedeltà alle norme costituzionali?

Ed un ultimo punto voglio toccare: quella della Corte di cassazione. Io ho letto un ordine del giorno che mi ha meravigliato, e mi ha addolorato e preoccupato, perché l’ho visto firmato da deputati di molti settori, il che mi fa temere che potrà passare.

Si vuole frazionare la Corte di cassazione.

Onorevoli amici, c’è la necessità dell’unità della giurisdizione. Non mi fermo su questo punto. Ma se dovessero essere approvati i concetti inseriti in quell’ordine del giorno romperemmo l’unità della giurisdizione, perché questa si realizza soprattutto attraverso l’organo supremo di interpretazione e di attuazione della legge.

Si è detto che la Cassazione esercita una funzione pedagogica. Giustissimo! Vogliamo rompere l’unità dell’ordinamento giuridico, ripristinando le vecchie Cassazioni? No, signori! Erano cinque; saranno 14, perché verrà l’onorevole Lussu che dirà giustamente: «Perché volete che la Sicilia abbia la sua Cassazione e la Sardegna no?» (Interruzioni – Commenti).

Avremo la Cassazione della Val d’Aosta. Ora, onorevoli colleghi, questa della Cassazione unica non è una legge fascista. Molti dicono: «È stata adottata nel 1923: ergo, delenda est. Porta lo stemma del littorio, via!». Signori questo è un dato puramente cronologico. Fin dal 1862 (non mi voglio soffermare; ne discuteremo partitamente quando prenderemo in esame questo ordine del giorno) vi è un progetto Minghetti, che è di una attualità impressionante per l’unità; il progetto Pisanelli; e il progetto del 1919 del guardasigilli Mortara, il più grande processualista. Vi cito sulla dottrina, Calamandrei, che ha un’opera classica: La Cassazione civile, e che sostiene in questa la sua idea della Cassazione unica.

Si dice: «Vi è pericolo della immobilizzazione della giurisprudenza». No! Noi vogliamo l’uniformità della giurisprudenza; vogliamo che a Torino non si dica cosa contraria di quella che si dice a Palermo; non vogliamo vulnerare il principio che tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge. Ma volere l’uniformità della giurisprudenza, non significa cristallizzare il giusto moto progressivo di essa. Cambiare la giurisprudenza, sì, ma avvedutamente, e non per esigenze che possono essere regionali, extragiuridiche, di politica regionalista. Vi dico che se questa questione dell’unità della Cassazione è suffragata da ragioni tecniche validissime, oggi se ne aggiunge una, decisiva di per sé sola. Oggi abbiamo creato le Regioni, che sono enti dotati di autonomia politica; non voglio ancora una volta parlarne male; ma abbiamo anche detto che la Repubblica deve essere una e inscindibile. Come vogliamo tradurre in atto questa unità e inscindibilità, se non attraverso questi due principî: che la legge del Parlamento è superiore alla legge della Regione; che la funzione suprema d’interpretare il diritto deve essere uguale per tutto il territorio? Questo è il tessuto connettivo costituzionalmente più importante per mantenere l’unità dello Stato.

Io vorrei pregare gli amici di riflettere su questo punto. Io ho fiducia. Sono certo, onorevoli colleghi, che l’Assemblea, per lo meno nei giorni che verranno, sentirà la profonda importanza di questo tema. Noi stiamo creando il vero strumento di difesa dei diritti e delle libertà. Non creiamo prerogative a persone: vogliamo una Magistratura che sia soltanto al cospetto della sua coscienza e della legge, quale che essa sia. La legge, una volta creata, non appartiene a questo o a quel partito, a questa o a quella tendenza, che pur l’ha voluta; appartiene allo Stato, al popolo; il giudice ha il dovere di applicarla secondo coscienza. Noi vogliamo eliminare le pressioni politiche e le ingerenze di partiti e di Governo sull’amministrazione della giustizia. Perciò ci rivolgiamo a tutti gli spiriti anelanti a vera libertà e a vera dignità di istituti civili! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mastino Pietro. Ne ha facoltà.

MASTINO PIETRO. Onorevoli colleghi, accogliendo l’invito autorevole e giusto del nostro Presidente, io illustrerò gli emendamenti da me proposti al Titolo IV dell’attuale progetto di Costituzione ed accennerò solo ai principî ed alle questioni di indole generale, che servano ad illustrarne maggiormente la bontà.

Non perderò, quindi, né vi farò perdere il tempo per esaltare l’importanza del problema oggi in discussione, in quanto ritengo sia di consenso comune il ritenere che l’ordine, la tranquillità, direi anche il grado di civiltà di una nazione sono in rapporto diretto della bontà del sistema giudiziario, che la Nazione si sa dare; ed è giusto quindi che si dia speciale importanza, in questo rinnovato clima di democrazia, alla discussione sul potere giudiziario, anche se questa importanza non riceva conferma dalla presenza numerosa dei colleghi, durante questa discussione.

Un primo pericolo, un primo inconveniente dobbiamo evitare: quello di includere nella Costituzione argomenti o elementi, che possono trovare miglior posto nel Codice di procedura o di diritto. La Costituzione dovrebbe avere anche in questo campo principî fondamentali, principî essenziali; la Costituzione dovrebbe tracciare le direttive, sulle quali poi dovranno essere formati, e compilati, i Codici di diritto e di procedura.

Ad esempio, io leggo nel progetto come la pubblicità dei giudizi e la motivazione dei deliberati giudiziari siano elementi indispensabili da fissare nella Costituzione. Convengo su questi principî, in quanto la pubblicità dei giudizi è garanzia indispensabile di giustizia, ed in quanto la motivazione spiega e giustifica il provvedimento, ed affermare la loro necessità nel progetto di Costituzione non è fuor di luogo, soprattutto perché dobbiamo lamentare che, mentre molti ricorsi, anche di condannati a pene gravi, vengono respinti (anzi non vengono dichiarati ammissibili per mancanza di motivazione), assistiamo spesso a decisioni giudiziarie, da parte degli stessi organi, prive quasi completamente della motivazione necessaria.

Ma quando, nello stesso progetto, sono affermati il diritto di ricorso in Cassazione per violazioni di legge, e l’esecutorietà delle sentenze divenute definitive, si affermano due cose e due principî che, a mio avviso, meglio sarebbe collocare nel Codice di procedura. Fedele alla promessa fatta, onorevoli colleghi, di attenermi al progetto ed agli emendamenti da me formulati, io dico subito come nell’articolo 94 del progetto toglierei – ed ho presentato un apposito emendamento in questo senso – la seconda parte del primo capoverso. Dice l’articolo: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza». Toglierei questa seconda parte che fa riferimento alla coscienza e lascerei solo l’altra: «1 magistrali dipendono soltanto dalla legge». Che interpretino ed applichino secondo coscienza la legge stessa è un presupposto di indole morale, che non ha bisogno di essere incluso nel progetto di Costituzione, il quale deve affermare principî giuridici, e che, certamente, non verrebbe rispettato, anche se noi l’includessimo, da quei pochissimi che eventualmente manchino di coscienza.

Nell’articolo 94 ho introdotta una dizione che mi sembra più precisa, ed è questa: «La funzione giurisdizionale è esercitata dai giudici e dai magistrati del pubblico ministero, che dipendono soltanto dalla legge». Appositamente ho parlato di «magistrati del pubblico ministero», intendendo con ciò che la nuova fisionomia del pubblico ministero deve essere quella di un magistrato staccato dalla dipendenza del potere esecutivo; il pubblico ministero diventa così organo del potere giudiziario. Anche adesso la sua funzione principale è quella di dare giudizi di necessità e di legalità, e solo eccezionalmente esprime giudizi d’opportunità e di convenienza. È giusto, quindi, precisare che la funzione giurisdizionale è esercitata, oltre che dai giudici, anche dai magistrati del pubblico ministero.

Sono stato anche indotto a questa precisatone dal fatto che nei lavori non solo riaffiorò, ma fu sostenuto, in termini espliciti, il concetto opposto. L’onorevole Leone vorrebbe riaffermare nella Costituzione la figura del pubblico ministero dipendente dal potere esecutivo.

Con l’emendamento che ha il numero 99-bis, ed in cui è detto che «ogni magistrato esercita in modo autonomo le proprie funzioni», ho voluto stabilire l’indipendenza del giudice dal vincolo gerarchico; stabilire, cioè, la sua autonomia interna.

Questo lato del problema è stato illustrato poc’anzi dall’onorevole Bozzi ed io non mi vi soffermo più a lungo. Egli ha parlato della abituale violazione dell’obbligo, per i magistrati più giovani e di minor grado, di esprimere per primi il proprio parere nelle riunioni in camera di consiglio sulle decisioni da prendere, e lamenta che ciò metta il magistrato più giovane in difficoltà ad esprimere la propria opinione, quando il superiore gerarchico abbia già manifestato la propria, in senso diverso. Questo è un inconveniente che l’onorevole Bozzi giustamente lamenta, ma non è il maggiore degli inconvenienti. Maggiore inconveniente, ad esempio, era quello per cui nell’istruttoria le sentenze venivano rese da giudici istruttori necessariamente inferiori per grado a quei magistrati della Procura camerale, che avevano, in un senso o nell’altro, già dato, con le conclusioni definitive, il proprio giudizio.

Non si è accennato finora, onorevoli colleghi, a proposito dell’indipendenza della Magistratura, ad un argomento che è veramente essenziale. Intendo riferirmi a quello da me indicato nell’articolo 102-bis, così redatto: «Lo Stato garantisce l’indipendenza economica del magistrato e dei funzionari dell’ordine giudiziario»: Onorevoli colleghi, noi dobbiamo avere del magistrato – e l’abbiamo – una visione alta; la visione del magistrato che con nobiltà e dignità adempie alle sue funzioni, e tutti siamo d’accordo nel riconoscere che la generalità dei magistrati ha degnamente esercitato il proprio ministero. Dobbiamo però, nello stesso tempo, riconoscere che egli è un uomo come tutti gli altri, che ha necessità pratiche come tutti gli altri, e che per la tranquillità, per la serenità del suo lavoro, per la dignità del suo ministero, per la dignità stessa dello Stato, che delega ai magistrati una parte della propria sovranità, dev’essere a lui ed ai funzionari dell’ordine giudiziario garantita l’indipendenza economica. Quanto difficile sia amministrare giustizia, e non tradire i suoi segreti (e con ciò intendo soprattutto riferirmi alla posizione dei dipendenti ausiliari dell’amministrazione), mentre si vive in gravi strettezze economiche, fra mille difficoltà e troppe tentazioni, è cosa risaputa.

Necessità quindi di provvedimenti al riguardo, che non si limitino a riconoscimenti verbali. Mi pare che questo mio emendamento, se potrà essere discusso nella forma, dovrà trovarci tutti d’accordo nella sostanza.

Ho anche proposto un altro emendamento che riguarda l’immunità dei magistrati dall’arresto, nei casi in cui non concorra la flagranza di delitto. Troppo, onorevoli colleghi, è di danno per la società il caso, non infrequente, che un magistrato venga colpito nel suo prestigio da un arresto che poi risulti immeritato. Anche in Roma, se io non vado errato, precisamente lo scorso anno, si verificò il caso del «fermo» poi mutato in «arresto» di un magistrato, il quale, dopo un mese e più di carcerazione, venne riconosciuto completamente innocente degli addebiti che gli erano stati mossi. Questo si deve assolutamente evitare: il magistrato, il quale torni all’esercizio della propria funzione, dopo un periodo di carcerazione ingiusta, darà luogo a manifestazioni di stima, da parte di quelli che mai avranno dubitato della sua innocenza e che lamenteranno l’affronto ed il torto di cui fu vittima, ma nello stesso tempo non sarà mai sicuro di sfuggire alle insinuazioni artificiose ed interessate da parte di altri. Noi, in quanto rappresentanti della Nazione, godiamo di una immunità che si fonda sullo stesso principio per cui la chiedo e propongo per i magistrati: delicatezza della funzione esercitata.

Poiché si è parlato di indipendenza e si parte dal concetto indiscutibile della inamovibilità dei giudici, dobbiamo subito dire che è però giusto quanto è affermato nel progetto, per cui alla assunzione dei magistrali si deve procedere solo per concorso; il magistrato che ha speciali garanzie, il magistrato che appartiene alla categoria dei cittadini che esercitano la più alta delle funzioni, quella di interpretare ed applicare la legge, deve costituire un corpo composto di elementi scelti, deve appartenere ad una categoria, per quanto possibile, eletta.

Non si devono poi applicare i vecchi sistemi e riparare alla deficienza numerica dei magistrati con l’assumerli, senza concorso, in base al titolo di laurea, oppure ad un periodo di esercizio professionale più o meno brillante. Io sono contrario alla istituzioni di magistrali onorari, sono contrario ad inserire negli organi giudiziari magistrati tratti dall’avvocatura o dal campo accademico.

Solo attraverso un concorso rigoroso si potrà ottenere una buona Magistratura. Tanto più, quindi, sarei contrario, ove dovesse affiorare in quest’Aula, al concetto di una Magistratura elettiva. Con la elezione il popolo affida il proprio volere ai suoi rappresentanti. Nel caso della Magistratura noi siamo invece in questa condizione: che il popolo ha già manifestato il suo volere ed ha già consacrato la sua idea nella legge e nei codici che si debbono applicare. Quindi, il criterio elettivo è, non solo inopportuno, ma potrebbe essere addirittura disastroso.

Veniamo all’altro, importante argomento, quello che riguarda il Consiglio superiore della Magistratura.

In questo, onorevoli colleghi, che è uno dei punti più dibattuti, io non esito a dichiarare subito che sono contrario alla designazione da parte dell’Assemblea nazionale di membri del Consiglio superiore della Magistratura. È innegabile che la designazione conserverebbe sempre una specie di carattere, o di sapore politico, e che l’indipendenza di cui si è tanto parlato riceverebbe, per questo fatto, un colpo gravissimo; è innegabile, ancora, che la disposizione contenuta nell’articolo 97 del progetto è in stridente contrasto con l’ultimo capoverso dell’articolo 94.

Nell’articolo 94, ultimo capoverso, è scritto «I magistrati non possono appartenere a partiti politici». Io domando se non sia contradittorio e se non sia profondamente ingiusto pretendere dai magistrati di rinunziare ad una parte della propria personalità, col divieto di inscrizione nei partiti politici e, allo stesso tempo, invece, disporre che nel Consiglio superiore alla Magistratura rientri quella politica dalla quale vorremmo che il magistrato fosse escluso. Dobbiamo, senza diffidenza, riconoscere alla Magistratura l’autogoverno.

E non mi soffermo ad esaminare (per il caso che sia approvato il principio per cui elementi designati dall’Assemblea nazionale partecipino al Consiglio superiore della Magistratura), non mi soffermo ad esaminare il caso degli appartenenti agli albi forensi, che non esercitino la professione durante il periodo in cui appartengano al Consiglio superiore della Magistratura, ma che tuttavia potranno esercitarla in seguito.

Chiunque eserciti la professione sa quali possibilità – non voglio dire quali astuzie – si possono praticare, perché l’esercizio avvenga per interposta persona. Sarà possibile, soprattutto agli avvocati che esercitano, esclusivamente nei campi civile e amministrativo, servirsi, per la firma, del nome di un sostituto, di un collega, mentre l’appartenenza al Consiglio superiore della Magistratura, se non aumenterà il numero delle cause, certamente influirà, per porre in stato di possibile soggezione i magistrati.

In fatto di unità di giurisdizione io, onorevoli colleghi, sarei per l’unità della giurisdizione civile, penale e amministrativa. Ma se anche il Consiglio di Stato e la Corte dei conti dovessero rimanere come organi giurisdizionali, io chiederei che fosse sancito il diritto di ricorso alla Corte suprema contro ogni decisione di Magistratura ordinaria o speciale, per qualsiasi violazione o falsa applicazione della legge.

Credo che tutti siamo d’accordo, in linea per lo meno teorica, nel riconoscere che debbano essere aboliti i tribunali speciali e che nuovi tribunali speciali o commissioni straordinarie non debbano essere stabiliti. Però, intanto, nel progetto, la disposizione precisa dell’abolizione di quelli esistenti non è consacrata. È consacrato, sì, il divieto dell’istituzione di nuovi tribunali speciali, ma non è stabilita la soppressione immediata degli attuali. È stabilito che la soppressione debba avvenire entro cinque anni; ma se noi, ad esempio, dovessimo – uso questo termine un po’ volgare, ma espressivo – dovessimo, dicevo, sorbirci, per cinque anni ancora, i provvedimenti straordinari stabiliti in materia penale, per cui l’imputato viene sottratto talvolta ai suoi giudici naturali, ed affidato – direi consegnato – ai tribunali militari di guerra, se questo, dico, si dovesse verificare, dovrei dire allora che noi, con questo nostro progetto di Costituzione, non abbiamo fatto un passo innanzi, ma ne abbiamo fatto molti in una via di regresso.

Io sono favorevole alla soppressione del tribunale militare in tempo di pace. L’onorevole Bozzi, sostenendo poc’anzi la necessità della Cassazione unica, ha creduto di trovare un argomento a favore della propria tesi accennando al pericolo della richiesta di istituzione di Cassazioni in tutte le Regioni, il che, ove tale richiesta fosse accolta, determinerebbe una difformità eventuale nell’interpretazione della legge.

L’onorevole Bozzi ha detto che subito una richiesta del genere verrebbe presentata dall’onorevole Lussu per la Sardegna. Ebbene, io dico all’amico Bozzi che l’onorevole Lussu, il quale ha avuto con me uno scambio di idee sull’argomento, è favorevole alla Cassazione unica. Le ragioni per cui alcune Regioni chiedono la Cassazione regionale sono alquanto diverse da quelle cui ha fatto cenno l’onorevole Bozzi. Sono rappresentate dal fatto che sembra eccessivo accentrare tulle le cause in un’unica Corte suprema qui in Roma; che sia più difficile, per molti, la tutela dei proprî diritti per il fatto che è necessario sopportare un maggior cumulo di spese; sono rappresentate soprattutto dal desiderio di far rivivere le proprie Cassazioni regionali, che ebbero vita in certo senso gloriosa.

Ciò non di meno io, sebbene regionalista, riconosco che solo la Cassazione unica può dare un’eguale, un’uniforme, una stabile interpretazione della legge. So bene come le varie sezioni della Cassazione abbiano sovente espresso difformi pareri nell’interpretazione della legge; so benissimo che questo si è verificato anche nel campo penale. Ma so che questi errori sono correggibili e non raggiungono quella ricchezza, direi, di episodi e quella profondità di danno che invece verrebbero raggiunti se le Cassazioni fossero tante quante sono le Regioni, o se anche solo le Cassazioni risorgessero là dove ebbero vita in precedenza: Firenze, Torino, Napoli e Palermo.

La stabile, uniforme interpretazione della legge è un elemento assolutamente necessario per la vita dello Stato. E affermando, come affermo, io regionalista, la necessità di mantenere la Cassazione unica, do la riprova del come, onorevoli colleghi, il nostro regionalismo non sia un regionalismo anti-unitario. Vi sono i principî fondamentali della legge per tutta la Nazione, che hanno bisogno di un’unica interpretazione, in quanto la Nazione deve avere una direttiva fondamentale unica, che è data appunto dall’attività giurisdizionale che interpreta la legge in modo uniforme. (Approvazioni).

Ed entriamo, onorevoli colleghi, nell’ultimo argomento che io tratterò un po’ diffusamente: nella dibattuta questione della Corte d’assise. È curioso questo, ed è singolare come quasi tutti gli avvocati, soprattutto gli avvocati penalisti, siano in genere poco favorevoli alla Corte d’assise. (Commenti).

Intendiamoci: alla giuria, così come era e come funzionava anni fa, crederei che quasi tutti siamo contrari; alla giuria così come venne concretata e formulata nell’attuale progetto, crederei che anche quasi tutti siano maggiormente contrari; per lo meno sono contrari i penalisti. Ma siamo anche ugualmente contrari all’attuale funzionamento della Corte d’assise, che consiste nell’inserimento di elementi cosiddetti popolari fra i giudici togati, cioè all’assessorato. Si verifica questo, onorevoli colleghi: che il magistrato spesso considera precipua sua funzione quella di stare a guardia, per ciò che gli assessori eventualmente potranno fare. Noi dobbiamo uscire da questa situazione.

L’articolo 96 dispone che il popolo partecipi direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria, nei processi di Corte d’assise.

Io credo di non poter essere giudicato sospetto quando affermo che qui si è avuta una infiltrazione di tendenze demagogiche. Il popolo deve partecipare all’amministrazione della giustizia? Senza dubbio. Ma non è detto che debba parteciparvi solo attraverso la giuria nei processi di Corte d’assise; il popolo partecipa all’amministrazione della giustizia, informandone le leggi, rendendole più moderne, nel senso di renderle più adatte, più attuali, più adeguate all’ambiente; nel senso che la legge ha da essere modificata, rimodernata, resa viva, di modo che contempli i fatti umani così come si verificano nell’ambiente e nel periodo di tempo in cui deve essere applicata.

Io ricordo come il vecchio Codice – consentitemi l’accenno – non stabilisse minore pena per chi commettesse delitto per causa di onore. Tutt’al più si poteva ammettere il beneficio della provocazione. In seguito, opportunamente, venne introdotto un articolo, per cui i reati di sangue commessi per ragioni di onore vengono puniti con una pena speciale, di molto ridotta. Ecco che la spinta del popolo ha influito sulla modificazione della legge.

In questo senso, onorevole Bozzi, io trovo motivo per dire che non è vero che la giurisprudenza, quella che rappresenta e costituisce l’opera dei magistrati, debba necessariamente aver carattere conservatore. Il magistrato deve necessariamente applicare la legge, ma spetta al suo spirito, al senso di modernità e di umanità di cui possa essere animato, di far fare un passo innanzi alla legge stessa. I nuovi Codici, in certo senso, altro non rappresentano, se non la codificazione nuova di ciò che la giurisprudenza ha portato come nuovo contributo, per fare un passo innanzi. Ed è per questo che noi abbiamo introdotto nel Codice penale – come dicevo – un istituto relativo ai delitti per causa d’onore, considerati in modo speciale; ed è perciò che si è ristabilito il criterio delle attenuanti, ed è perciò che ha vita l’articolo 62 sulle diminuenti, articoli e principî che dovrebbero avere maggiore amplificazione.

Il popolo partecipa, quindi, all’amministrazione della giustizia, vi partecipa con le forme e per le vie di cui ho parlato. Quindi il problema delle Assise lo dobbiamo esaminare sotto un altro punto di vista.

Qual è il criterio fondamentale, in base al quale decidere se attribuire al giudizio delle assise le cause così dette di maggior competenza, oppure attribuirle ai tribunali? Dobbiamo seguire la via che porti ad una migliore amministrazione della giustizia. Questo dev’essere il criterio per decidere.

Attualmente, alla Corte di assise vengono deferiti tutti i processi in cui la pena superi i dodici anni. Questo criterio, onorevoli colleghi, non può essere seguito. Non bisogna badare ad un criterio quantitativo, bisogna badare ad un criterio qualitativo. Certi reati potranno essere ancora di competenza della Corte di assise. Quali? Ecco il punto. Potranno essere di competenza della Corte di assise, onorevoli colleghi, reati politici, qualche reato o tutti i reati passionali. Con questo criterio dovrà regolarsi la competenza delle Assise.

Io ho proposto la soppressione dell’articolo 96, non perché sia contrario a qualunque deferimento di cause alle Assise, ma perché non ammetta possa risorgere una giuria, le cui sentenze debbano decidere della vita di essere umani e dei loro averi senza neanche la possibilità di appello.

La stranezza oggi è questa: che mentre è possibile l’appello da qualunque sentenza che condanni a qualche migliaio di lire di multa o a pochi giorni di carcere, tale possibilità è vietata per le cause in cui prima c’era la condanna a morte ed oggi v’è la condanna all’ergastolo.

Di modo che si arriva a questa incongruenza: che di fronte a casi troppo appariscenti, che cioè troppo palesemente violano la giustizia, la Cassazione che dovrebbe occuparsi solo di questioni di diritto, esamina la causa talvolta in linea di fatto.

La Corte di assise, competente solo nelle poche cause alla cui natura ho accennato, dovrebbe essere sistemata e regolata in modo da garantire il diritto all’appello.

La difficoltà del problema dovrà essere esaminata in sede di ordinamento giudiziario, o potrà avere, alla luce dei criteri ora espressi, opportuna soluzione.

Devo spiegare perché non attribuisco l’esclusività della competenza ai magistrati togati, dicendo, anche a questo proposito, chiaro il mio pensiero. Devo riconoscere che non sempre e non tutti hanno l’animo aperto a correnti e a sentimenti nuovi, e voglio sperare che, con l’attribuire loro la competenza anche in molte cause ora di assise (e col togliere loro la preoccupazione di quello che sarà il comportamento dei giurati o degli assessori), siano animati nella loro opera da spirito più largamente umano e, mi permetto di dire, anche da minor senso di diffidenza verso le posizioni a difesa, se non, talvolta, verso gli avvocati.

Io avrei voluto, onorevoli colleghi, che fosse stato presente (non ne ha l’obbligo) il Ministro di grazia e giustizia, perché avrei voluto dire in sua presenza come non sia esatto quanto poc’anzi ha affermalo l’onorevole Bozzi, il quale ha detto che di magistrati ne abbiamo a sufficienza.. Noi abbiamo l’organico, se non sbaglio, del 1865. Noi abbiamo quell’organico di fronte ad una complessità di vita ben diversa di quella di allora; noi abbiamo un organico per cui, onorevoli colleghi, troppi tribunali sono disorganizzati per mancanza di giudici.

Intendo accennare, finendo, alla necessità che la giustizia di cui ci preoccupiamo con l’organamento del potere giudiziario, sia uguale per tutti i cittadini e per tutte le terre, che non si debba più verificare ciò che, ad esempio, capita a Cagliari nonostante il lodevole spirito di sacrificio di quei magistrati, che cause già istruite giacciano per mesi in attesa che si effettuino le conclusioni, rese impossibili dalla mancanza di personale. È giusto che la giustizia porti la sua luce benefica indistintamente verso tutti ed in tutte le Regioni. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ciampitti. Ne ha facoltà.

CIAMPITTI. Onorevoli colleghi, non sembri immodestia la mia, se inserisco la mia parola dimessa nella interessante discussione, alla quale hanno partecipato e parteciperanno insigni colleghi, certo più autorevoli e più competenti di me, intorno ad uno dei titoli più importanti del progetto di Costituzione.

Il mio intervento è dovuto unicamente alla lunga consuetudine professionale con la Magistratura, il che mi ispira il dovere di spendere una parola modesta, ma fervida, per la risoluzione di un problema vitale, che interessa la benemerita categoria dei magistrati, spesso indifesi e umiliati, ma sempre dignitosi, operosi, pieni di abnegazione, capaci di ogni sacrificio.

Il problema della Magistratura, altrettanto importante quanto in gran parte se non del tutto ignorato, va impostato ed affrontato coraggiosamente nella sua interezza e nella sua complessità, studiandolo a fondo e dando ad esso quella giusta soluzione che, non soltanto dalla benemerita categoria dei magistrati si attende, ma anche e soprattutto dalla coscienza pubblica. Deve essere merito dell’Assemblea Costituente dare un assetto definitivo e soddisfacente all’increscioso stato di cose attuale riguardo al potere giudiziario, che dura da troppo tempo e che minaccia di compromettere la funzione della giustizia, a giudicare dalla recente agitazione della Magistratura, allarmante segno premonitore di incresciose conseguenze. Chi crede che il disagio dei magistrati sia soltanto o prevalentemente economico, sbaglia di grosso. Anzitutto si tratta di disagio morale, di una vera crisi di prestigio. La Magistratura anela alla conquista dell’indipendenza e dell’autonomia, senza di che essa non potrà compiere serenamente e coscienziosamente la sua alta e nobile funzione, essenziale alla vita dello Stato, garanzia di ogni libertà, tutela dei diritti dei cittadini, in ogni libero ordinamento civile. Caduto il regime fascista e restaurato in Italia un regime di legalità e di libertà, occorre che questo sia validamente rispettato e difeso contro ogni sopraffazione o ingerenza e che tutti, cittadini ed organi della pubblica autorità, si assoggettino incondizionatamente al rispetto della legge. Tale garanzia può trovarsi soltanto in un potere giudiziario che sia indipendente e forte, cui si assegnino compiti ben determinati, precisandone i rapporti con gli altri poteri dello Stato.

Negandosi la più incondizionata indipendenza alla Magistratura, viene meno la condizione essenziale e fondamentale di una sana e retta giustizia, che non è possibile realizzare se chi deve amministrarla non goda di piena libertà ed autonomia. Si può anche negare il rapporto di dipendenza gerarchica nell’interno del suo funzionamento, perché il principio dell’obbedienza gerarchica, che vige nelle altre amministrazioni pubbliche o private, non è concepibile nell’ambito della Magistratura, perché chi rende giustizia deve ispirarsi soltanto alla propria coscienza, tanto che nella Magistratura collegiale vige il democratico sistema della maggioranza e non quello della dipendenza gerarchica, ed il voto del Presidente non è preminente, ma equivale a quello del meno anziano dei giudici. Se è vero che la funzione della giustizia umana ha in sé qualche cosa di divino, essa deve essere assolutamente preservata da ogni possibilità di danno, da ogni speranza di vantaggio, liberando il magistrato da ogni deleteria influenza estranea.

Secondo lo statuto albertino, la Magistratura era concepita come l’emanazione del potere regio, e l’ordine giudiziario, in sostanza, fu considerato né più né meno che come una qualsiasi branca della pubblica amministrazione.

Si disse che la funzione giudiziaria era autonoma e indipendente. Ma come considerarla effettivamente tale, se i magistrati erano soggetti al potere esecutivo per la disciplina, le promozioni ed i trasferimenti? Con lo statuto e la legge Orlando del 1908 si concessero delle guarentigie ai magistrati, ma esse non assicurarono una vera ed effettiva indipendenza, giacché non basta garantire i magistrati dagli arbitri positivi del potere esecutivo, occorrendo difenderli anche da quelli negativi, consistenti in atteggiamenti del Ministro contrari agli interessi dei magistrati. Non basta ad esempio assicurare l’inamovibilità del magistrato dalla sede, quando egli può avere interesse ad essere trasferito ad una sede più ambita, il che dipende dalla discrezione del Ministro, non sempre ispirata a giustizia e equità.

Particolarmente i magistrati delle province si lamentano che al Ministero della giustizia non sempre le cose vadano bene, specie in fatto di trasferimenti. Vero o no, giova eliminare ogni lamento ed ogni recriminazione. Il progetto di Costituzione riconosce l’esigenza dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura, ma delle riserve vanno fatte, non sul fine in se stesso, sibbene sui mezzi atti ad assicurare il conseguimento del fine medesimo.

Le norme del progetto non lasciano completamente tranquilli circa la realizzazione di una vera autonomia e di una reale indipendenza del potere giudiziario, anzi si può dire che contraddicano al principio affermato nell’articolo 97 del progetto stesso. È l’autonomia amministrativa che occorre realizzare, mediante l’auto-governo della Magistratura, come già è stato ricordato da qualche collega che ha parlato prima di me. Bisogna svincolare la Magistratura dalla dipendenza, come impiegati, dal potere esecutivo. Gli organi giudiziari devono provvedere alla propria amministrazione, altrimenti, attraverso i rapporti d’impiego, il potere esecutivo continuerà sempre ad essere il vero «padrone della Magistratura».

Forse non sarebbe inopportuno svincolare addirittura i magistrati dal concetto di carriera, di grado e di promozione, a somiglianza di quello che avviene per i professori universitari. Ma se l’attuale sistema deve perdurare, la materia deve essere affidata esclusivamente ad organi amministrativi composti dai magistrati, costituiti per elezione dai magistrati stessi. In sostanza è il sistema che è prospettato nel progetto che prevede la nomina del Consiglio Superiore della Magistratura, da costituirsi con membri eletti dalla Magistratura stessa e membri di nomina del l’Assemblea Costituente.

L’ideale sarebbe, in verità, che tutto il Consiglio Superiore fosse eletto dalla Magistratura, che più di ogni altro conosce ed apprezza i migliori della propria famiglia giudiziaria. Comunque, è manifestamente eccessivo il numero dei componenti di nomina dell’Assemblea Costituente rispetto a quello assegnato ai magistrati; senza dire che, indubbiamente, la nomina da parte dell’Assemblea Costituente risentirà facilmente, se non certamente, delle influenze politiche con indubbio danno della serenità e obbiettività dei giudizi da emettersi dall’alto consesso giudiziario.

Non si comprende poi la nomina di due vice Presidenti, di cui uno da nominarsi dall’Assemblea Costituente, quando uno potrebbe bastare nella persona del Primo Presidente della Suprema Corte di Cassazione, in assenza del quale potrebbe assumerne le funzioni il membro più anziano. È ovvio inoltre che gli iscritti agli albi forensi non possano essere eletti dall’Assemblea Costituente quali componenti del Consiglio Superiore della Magistratura. Non basta che si inibisca loro l’esercizio della professione durante il tempo in cui faranno parte del Consiglio Superiore, poiché la professione, come è già stato ricordato, si può anche esercitare per interposta persona, sicché il pericolo di influenza in un senso o nell’altro non si elimina affatto.

L’indipendenza della Magistratura deve essere assicurata anche con un adeguato trattamento economico. Per il prestigio effettivo della Magistratura e per invogliare gli elementi validi ad entrare nella Magistratura stessa, bisogna separare la Magistratura dall’esercito di funzionari ed impiegati statali, per farne un corpo sceltissimo, non numeroso, ben retribuito di rappresentanti della giustizia, cioè di un effettivo e vero potere dello Stato. Si impone quindi l’autogoverno finanziario lasciando alla Magistratura, nei limiti stabiliti ogni anno dal Parlamento, la determinazione degli emolumenti e delle indennità spettanti ai suoi componenti.

Né dovrebbe essere difficile la istituzione di una cassa speciale, cui potessero affluire i proventi degli atti giudiziari a vantaggio dei magistrati. Non è giusto che vada alle casse dello Stato tutto ciò che si ricava dall’amministrazione della giustizia. Del resto, il bilancio della Giustizia, come è noto, è attivo, forse il solo attivo fra tanti bilanci. E nel trattamento economico della Magistratura non è il caso di lesinare.

Il magistrato si vede oggi in uno stato di inferiorità e di impossibilità di vita. Dai frequenti contatti coi magistrati, so che essi vivono di stenti; in molti casi, nella maggior parte dei casi, essi fanno una vita grama, piena di sacrifici veramente enormi. Eppure essi devono rispettare le leggi della dignità e del decoro personale e della propria famiglia; e non hanno i mezzi per sostenere le spese richieste da una vita, anche la più modesta. Non bisogna dimenticare che le ristrettezze della vita materiale dei magistrati hanno un’influenza diretta anche sul potere spirituale e sulle energie mentali del magistrato stesso. Non si può pretendere un grande rendimento, aderente alle esigenze della magistratura, quando si soffre addirittura la fame, o non si hanno i mezzi materiali per poter provvedere alle esigenze più elementari della vita.

Se si fanno poi paragoni fra gli stipendi dei magistrati e quelli di molte categorie di impiegati statali o non statali, si vede in quale umiliante situazione i magistrati si trovino rispetto ad essi. È un quadro di avvilimento quotidiano quello al quale coloro che esercitano la professione forense debbono assistere, con vero rincrescimento ed anche con un senso di commiserazione per questi paria della società, i quali, pure esplicando una nobile funzione, non sono retribuiti in maniera da potere campare la vita con certa dignità e certo decoro.

Quindi, credo che non vi debba essere alcuno tra di noi che dissenta dal proposito, veramente fermo e concreto, di poter fare quanto è in noi per sollevare, oltre che moralmente, anche materialmente, la posizione della Magistratura italiana, che veramente deve essere considerata con quei criteri di umanità, che presiedono in tutte le altre risoluzioni prese dall’Assemblea.

C’è un punto, onorevoli colleghi, che va anche considerato a proposito della Magistratura italiana: parlo delle accuse e delle offese che con molta frequenza si fanno e si muovono contro la Magistratura, attorno alla quale si è creata una atmosfera di prevenzione e di sfiducia che si va sempre più totalmente appesantendo, talvolta per superficialità di giudizio, talvolta per malevolenza, però sempre ed in ogni caso con gravissimo danno dell’alta e delicata funzione della Magistratura e con evidente discredito della funzione del potere giurisdizionale.

C’è chi accusa i magistrati di inettitudine, chi di inerzia, chi di indegnità morale, ingiustamente e pericolosamente generalizzando, con serio discapito per tanti magistrati degnissimi, e più ancora, per l’esercizio del ministerio ad essi affidato. Non si esclude che nella famiglia della Magistratura, come del resto anche in altri settori della vita, fra tanti meritevolissimi di ogni lode e di ogni stima si annidino degli incapaci, dei neghittosi, dei moralmente censurabili. Se ciò è vero, è necessario, anzi è urgente (è la stragrande maggioranza dei magistrati stessi che lo reclamano) procedere ad una salutare e rapida eliminazione degli indegni, prima che questi contagino i buoni, ed anche per evitare che prenda consistenza la voce calunniosa che tutta la Magistratura sia bacata. I magistrati veramente degni di questo nome avvertono un intollerabile disagio morale nel sapersi sospettati di colpe che non hanno, e non possono tollerare che le accuse ed i sospetti contro gli immeritevoli si estendano ad essi, togliendo loro quella tranquillità di spirito e quella serenità di giudizio che sono condizioni prime ed indispensabili per la retta amministrazione della giustizia. A me pare anzi che un procedimento di eliminazione e di epurazione, severo, sereno ed obiettivo, sarebbe stato necessario e forse indispensabile, prima che l’Assemblea Costituente si accingesse alla discussione ed alle deliberazioni di ordine costituzionale nei riguardi della Magistratura. Non è possibile decidere sull’eventuale autonomia del potere giudiziario, sul credito che il Paese può fare alla Magistratura, sulle linee fondamentali del suo ordinamento, sulla partecipazione e sulla funzione che essa dovrà esplicare per il controllo costituzionale delle leggi e sull’ampiezza della sua giurisdizione, senza aver prima presa conoscenza della situazione attuale delle condizioni in cui i magistrati operano, delle cause del malcontento diffuso nel pubblico, prima di aver accertato fino a qual punto arrivi la fondatezza delle accuse e dove comincino per avventura i preconcetti, prima di aver dato il via ad un’opera di risanamento.

L’autonomia del potere giudiziario è tale condizione di indipendenza che dovrebbe essere riconosciuta al di sopra di ogni situazione contingente, perché in caso contrario l’ordine giudiziario riceverebbe un grave detrimento. Un senso di scoramento e di sfiducia nella sensibilità del Paese e di chi lo governa verso i problemi della giustizia, che furono sempre trascurati, pervade anche quelli che furono costantemente tra i più volenterosi, i quali si vedono oggi oltraggiati da accuse indiscriminate. Un maggior danno deriva alla Nazione, in cui diminuisce il senso di fiducia nella autorità dello Stato e nella stessa democrazia, quanto più si abbassa il prestigio degli organi che in un Paese civile dovrebbero costituire l’elemento fondamentale della tranquillità. Troppo spesso oggi accade che la Magistratura si trovi ad essere bersaglio di accuse mosse da chi se ne vuole servire a scopi politici e di parte, per sollevare l’indignazione degli ignari, per scaricarle addosso responsabilità che non la riguardano. Se in democrazia la giustizia è una delle principali funzioni dello Stato, l’Assemblea dei rappresentanti del popolo tutelerà la democrazia, se si metterà in grado di difendere l’ordine giudiziario da ogni ingiusto attacco.

Prima di porre fine a questo mio intervento, mi sia consentito di riferirmi all’ultimo capoverso dell’articolo 94 del progetto di Costituzione, per quanto riguarda il divieto ai magistrati di iscriversi a partiti politici e ad associazioni segrete.

La passione di parte, secondo me, toglie o può togliere al magistrato quel senso di obiettività e di serenità che è condizione prima ed essenziale per la retta amministrazione della giustizia. Seppure il magistrato, nell’adempimento del suo dovere, riesce a sottrarsi all’influenza dell’idea politica, va soggetto sempre e inevitabilmente a sospetti dell’una o dell’altra parte, specie nei piccoli centri giudiziari, in cui, anche volendo, il magistrato non riesce a nascondere la sua fede politica, offrendosi a bersaglio di critiche, di mormorazioni, di malignazioni, il che certo non influisce al suo decoro e al suo prestigio, né determina o consolida la fiducia del popolo nei suoi giudici.

Egli potrà liberamente coltivare nel suo intimo le sue opinioni politiche e liberamente potrà esprimerle con la segretezza del voto. È bene per lui e per l’amministrazione della giustizia che egli non sia sospettato di asservire l’alta e nobile funzione affidatagli di giudicare della libertà e dei beni del proprio simile sotto l’influenza della passione di parte.

Un’ultima parola a proposito della istituzione della giuria popolare, prevista nell’articolo 96 della Costituzione. Io sono convinto e irriducibile avversario della istituzione della giuria popolare. La mia lunga esperienza professionale mi conduce a questo convincimento, che io non so se sia condiviso dalla maggioranza di questa nobile Assemblea. Ma io ricordo gli scandali frequenti, gli errori frequenti, che si sono verificati durante il funzionamento delle giurie popolari. Nella relazione del Comitato per lo studio della riforma penale, costituito dall’Istituto italiano di studi legislativi e composto di magistrati insigni, di professori universitari e di liberi insigni professionisti, sono stati esposti e lumeggiati i motivi molteplici e seri che fanno ripudiare l’istituto della giuria popolare. Molte volte, specialmente nei processi indiziari, il delitto appare avvolto da mistero e l’imputato tenta ogni mezzo per occultare la verità e sfuggire alla condanna, traendo talvolta in errore anche il giudice più accorto ed esperto.

Ora, come può un giudice improvvisato, e quindi impreparato ed inesperto, accingersi alla ricerca della verità, quando egli non ha pratica, quando egli può essere facilmente travolto ed ingannato da equivoche apparenze e da falsi testimoni?

Ricordo che l’onorevole Enrico Ferri, a proposito della funzione giudiziaria che si attribuiva alla giuria popolare, ricorse ad un esempio banale, ma significativo. Egli si esprimeva così: «Sarebbe lo stesso come affidare la riparazione di un orologio ad un calzolaio». Non è colpa della giuria popolare se non è all’altezza della funzione che le si dovrebbe assegnare. E non perché si vuole che il popolo direttamente partecipi all’amministrazione della giustizia, si devono eliminare i magistrati togati, i quali, non so perché, dovrebbero essere capaci di giudicare nelle altre cause e non in quelle che ordinariamente si assegnano alla Corte d’assise.

Del resto, se si parla di percezione logica o di intuito da parte dei cittadini che dovrebbero costituire la giuria popolare, io mi permetto di osservare che tutto ciò non basta.

Occorre che vi sia una preparazione giuridica e che si abbia il sussidio di scienze complementari, oltre che pratica e tecnica giudiziarie, per rendere meno frequenti gli errori, il che con la giuria popolare non si può conseguire.

Moderni studiosi reclamano che il giudice penale abbia forte preparazione giuridica e scientifica. Ora, i rappresentanti del popolo si smarriscono molto spesso in quella che è la ricerca della verità, perché è soltanto la lunga pratica giudiziaria che può mettere i giudici in genere in condizione di poter ricercare la verità e corazzarsi contro tutte le insidie.

Questa non è opera che può essere attribuita a qualunque cittadino; non si possono improvvisare i giudici, specialmente quando alle Corti di assise si assegnano le cause per delitti più gravi di quelli che competono al tribunale. E poi, per chi abbia pratica delle Corti di assise, basta anche considerare la facilità con cui sono conseguite le vittorie da parte di avvocati che finiscono per travolgere il giudizio dei giurati con le blandizie della eloquenza oratoria. Ecco perché si hanno le facili vittorie nelle Corti di assise. Inoltre bisogna considerare anche la influenza che si può esercitare sull’animo dei giudici popolari in conseguenza di ragioni politiche, familiari, per interessi morali, per rapporti di simpatia, ecc., che possono determinare nell’animo dei giudici popolari un atteggiamento favorevole verso l’una o l’altra parte; il più delle volte ciò accade anche inconsapevolmente, per effetto di questi stessi rapporti.

Vi sono, è vero, dei difensori della giuria popolare, i quali si servono di questo argomento: essi dicono che nelle Corti di assise ordinariamente si dà un giudizio di fatto, e questo lo possono dare anche coloro che non sono cultori del diritto e che non sono dei magistrati; ma questo è un errore, perché il fatto ed il diritto spesso si concretizzano nello stesso processo, onde non è possibile parlare distintamente del fatto e del diritto. Il più delle volte bisogna giudicare una questione di diritto insieme ad una questione di fatto ed i giudici del popolo non sono sempre in grado di risolvere queste questioni.

Per quanto riguarda l’assessorato, il rimedio mi pare peggiore. Se i due magistrati che fanno parte della Corte di assise sono in dissenso circa la risoluzione di una questione di diritto, questa si decide col voto di cinque assessori, che non sono giuristi e che di legge non si intendono affatto. Basta questo per tutto.

Quindi, non v’è nessun serio motivo – ed io ho letto molto intorno a questo argomento e non ho trovato elementi capaci di distogliermi dalla mia convinzione – perché al magistrato togato si debbano sottrarre le cause di competenza della Corte di assise, molte delle quali – del resto – sono di più facile indagine e di molto più semplice decisione. Ancora, bisogna aver riguardo a quello che è il problema delle aggravanti e delle circostanze attenuanti in Corte d’assise. Quando si parla di circostanze aggravanti e di circostanze attenuanti non si può prescindere da considerazioni di diritto: il giudice popolare non è in grado di esaminare se, date alcune modalità di fatto, siano o no applicabili le aggravanti o le attenuanti previste dal Codice penale e, ancora, il giudizio della giuria popolare si esprime attraverso un «sì» o un «no», senza una motivazione, senza che, cioè, chi giudica abbia il dovere e la responsabilità di dire le ragioni, la motivazione del proprio giudizio, sia esso di condanna o di assoluzione.

Per queste modeste considerazioni, credo che si debba, da parte dell’Assemblea Costituente, respingere l’articolo 96 del progetto di Costituzione, nel senso che si debba eliminare il giudizio della Corte d’assise a base di giudici popolari e che addirittura tutte le cause penali, qualunque sia la loro entità, debbano essere giudicate dal magistrato togato, il solo che abbia la competenza, la capacità, l’esperienza per assicurare il trionfo della giustizia. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani, alle ore 11. Avverto che vi sarà seduta anche alle 16, sempre per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

Per la nomina di tre membri dell’Alta Corte della Regione siciliana.

CARONIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARONIA. Rinnovo la mia proposta formale di porre all’ordine del giorno dei nostri lavori la nomina dei tre membri della Corte costituzionale per la Regione siciliana. Ho già fatto anche proposta scritta.

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, comprendo perfettamente la ragione della sua richiesta; ma non so se in questo momento l’Assemblea sia in condizione – per la scarsità dei presenti – di decidere su questo argomento.

Io le sottopongo, pertanto, la possibilità di attendere a ripresentare formalmente la questione in una delle prossime sedute, nella quale la presenza di un numero superiore di membri dell’Assemblea consenta di darle la ponderata decisione che essa merita.

CARONIA. Mi rendo conto delle ragioni di un rinvio; ma io non chiedo che si discuta stasera, chiedo che l’argomento sia posto all’ordine del giorno di una delle prossime sedute, perché il tempo che passa è a tutto danno del Governo regionale.

PRESIDENTE. Poiché, secondo quanto ho esposto alcuni giorni fa, ero tenuto a ritenere che l’Assemblea nella sua maggioranza, attraverso i propri portavoce autorizzati, avesse espresso l’avviso che fosse opportuno procrastinare la decisione, o meglio la votazione per l’elezione dei membri dell’Alta Corte prevista dallo Statuto siciliano, oggi una modificazione di questo orientamento è possibile solo se l’Assemblea stessa decida che sia posta all’ordine del giorno l’elezione di cui si discute.

Ma ritengo che questa decisione non possa essere presa stasera, ma in altro momento in cui l’Assemblea sia sufficientemente numerosa.

Pertanto, alla prima seduta nella quale constateremo che il numero dei presenti sia sufficiente per dare validità alla decisione, io proporrò la questione che lei, onorevole Caronia, ha esposto in questo momento e chiederò all’Assemblea di decidere nel merito, cioè se porre o non porre all’ordine del giorno l’elezione dei membri dell’Alta Corte. Lei è d’accordo in questo senso?

CARONIA. Sì, riservandomi di insistere nella mia proposta.

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, la sua insistenza avrà il suo valore, salvo la decisione dell’Assemblea relativa alla designazione del momento in cui si possa procedere a questa votazione.

CARONIA. Onorevole Presidente, la mia insistenza è determinata dal fatto che i Gruppi non sono stati interrogati dai rispettivi Presidenti

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, questo è un problema interno dei Gruppi nel quale io non posso entrare.

CARONIA. Onorevole Presidente, ogni deputato ha il diritto che una questione sia sottoposta all’esame dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Ed io non glielo contesto, ma lei deve darmi atto che, ogni qualvolta la Presidenza interpella i rappresentanti autorizzati dei Gruppi, è nel pieno diritto di ritenere che quanto questi rappresentanti dicono rappresenti la volontà dei Gruppi stessi, salvo ad inficiarla da parte dei singoli, come ella sta facendo in questo momento.

CARONIA. Ripeto che nel caso specifico i rappresentanti dei Gruppi non hanno espresso la volontà dei Gruppi perché questi non sono stati interrogati. Insisto nella mia richiesta.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se egli non stimi che possa tradursi in grave accusa contro il Governo l’affermazione del quotidiano Buonsenso di essere stato costretto a cessare la pubblicazione per aver perduto le abituali sovvenzioni di organismi e ceti plutocratici e questo non appena il Qualunquismo si schierò contro il Governo democristiano. Se non ritenga, altresì, che debba sollecitarsi la discussione alla Costituente della legge sulla stampa, che contempli anche la denunzia delle fonti di finanziamento dei giornali.

«Nasi».

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere in via d’urgenza le ragioni per le quali è stata chiusa, per improvvise disposizioni del Provveditorato agli studi di Napoli, la sezione distaccata del Liceo-Ginnasio governativo di Meta di Sorrento, dove affluivano circa 100 allievi. Il provvedimento di chiusura è giunto tanto più improvviso e pregiudizievole, in quanto erano state già effettuate le iscrizioni e si erano anche iniziate le lezioni, e ciò in seguito alle ripetute assicurazioni del Ministro al sindaco di Meta, autorizzato alla stipula del regolare contratto di fitto dei locali.

«Crispo».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi che avrebbero consigliato il Governo a rinviare alle future Assemblee legislative, contrariamente alla comune aspettativa, la discussione e l’approvazione del progetto di legge sulla stampa, destinato a regolare in modo stabile e certo un settore dell’attività politica e culturale del Paese, turbato da ripetuti indizi di sopraffazione politica e di disordine economico e morale.

«Schiavetti, Valiani, Pertini, Cianca».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Il Governo risponderà a queste interrogazioni nella seduta di lunedì prossimo, facendo rilevare, per quanto concerne la terza, che il disegno di legge sulla stampa è stato presentato all’Assemblea fin dal 23 marzo scorso.

PRESIDENTE. È stata pure presentata la seguente altra interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Ai Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per conoscere quali motivi abbiano potuto determinare, a nove mesi di distanza dai fatti ora addebitatigli, l’arresto del dottor Marco Giardina, segretario della Camera del lavoro di Carbonia.

«Nel corso di uno sciopero avvenuto nel gennaio scorso ebbero luogo in Carbonia alcuni deprecabili incidenti, per altro isolati e rapidamente contenuti, i cui autori furono arrestati e deferiti all’autorità giudiziaria.

«In quell’occasione il dottor Giardina, nella sua qualità di responsabile della locale organizzazione sindacale, svolse opera di freno e di pacificazione.

«Il provvedimento che lo colpisce costituisce quindi un inqualificabile sopruso non soltanto contro la sua persona, ma contro l’organizzazione sindacale che egli dirige per riconfermata volontà degli aderenti, e contro tutta la popolazione lavoratrice del bacino minerario.

«Spano, Laconi».

Poiché il Ministro di grazia e giustizia è assente da Roma, gli darò comunicazione di questa interrogazione al suo ritorno.

DE MARTINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE MARTINO. Desidererei pregare il Governo di fissare la data per lo svolgimento di una interrogazione con richiesta di urgenza da me presentata, circa il termine che si dovrebbe stabilire per la vita dell’A.R.A.R.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Sottosegretario Andreotti di voler esprimere il pensiero del Governo in proposito.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tratta di un’interrogazione che concerne il Ministro dei trasporti; mi pare che una volta sia stata posta all’ordine del giorno, e poi rinviata, forse per assenza del Ministro. Comunque, salva diversa comunicazione, la si potrebbe porre all’ordine del giorno di lunedì.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RUGGIERO, ff. Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti abbia preso per sopprimere quella indegna espressione della stampa, che è rappresentata dai giornali e dalle riviste che si occupano esclusivamente di descrivere, con morbose illustrazioni e particolari, i delitti e i fatti di cronaca nera, e se non ritenga che ogni tolleranza in questo campo rappresenti una grave carenza dei compiti dello Stato, che devono essere volti all’educazione e all’elevamento morale dei cittadini, mentre questa stampa, contro l’interesse sociale, rappresenta una larga, intollerabile e ignobile scuola di delinquenza.

«Firrao, Giordani, Franceschini, La Pira, Bianchini Laura, Colombo Emilio, De Martino, Camangi, Monterisi, Titomanlio Vittoria, Rapelli, Ferrario Celestino, Corsanego, Codacci Pisanelli, De Michele, Bettiol».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri di grazia e giustizia e dell’interno, per sapere quali provvedimenti intendano prendere per impedire che si continui, senza alcun ritegno, a mezzo di agenzie e di giornali, una illecita attività diretta a violare il decreto-legislativo luogotenenziale 12 ottobre 1945, numero 669, il quale vorrebbe impedire che nelle sublocazioni di immobili e nelle cessioni di affitto si compiano le peggiori speculazioni ai danni di chi cerca una casa.

«Lami Starnuti».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere se il Governo consente che avvengano e si ripetano manifestazioni apertamente fasciste e di carattere provocatorio, come il corteo di ieri, 5 novembre, a Napoli, per via Roma: manifestazioni che offendono la coscienza democratica degli italiani e possono diventare cagione di gravi incidenti e disordini.

«La Rocca, Sereni, Reale Eugenio, Amendola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della marina mercantile, per conoscere le decisioni del Governo circa la destinazione delle navi che ci vengono consegnate dagli Stati Uniti, in restituzione di quel nostro tonnellaggio mercantile, catturato o distrutto nei porti americani in occasione della guerra, e per cui gli armatori ricevettero, a suo tempo, l’adeguato indennizzo.

«La Rocca».

.«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per conoscere quali misure di carattere straordinario il Governo intenda adottare per provvedere alla gravissima situazione edilizia della città di Napoli. Tale situazione, già piena di pericoli, diventa ogni giorno più insostenibile, per il crollo di vecchi palazzi, per lo sgombro forzato di abitazioni in seguito alle piogge (che mettono fuori uso case vetuste, ecc.), per il permanere delle requisizioni, e via di seguito.

«La Rocca, Reale Eugenio, Sereni, Amendola».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri del bilancio e del tesoro, per sapere se non ritengano giusto, doveroso ed opportuno disporre nuovi stanziamenti perché le piccole e medie industrie, specialmente se colpite e danneggiate dalla guerra, possano fruire e godere dei beneficî in loro favore disposti con il decreto 1° novembre 1944, n. 367. Da notare che molte di tali industrie hanno preso ed hanno in corso preziose iniziative che corrono il pericolo di naufragare con gravissimo danno anche per l’economia nazionale se non interviene l’aiuto che fu lasciato sperare e sul quale fu fatto assegnamento in vista del suddetto decreto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Braschi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga opportuno migliorare, e con la massima possibile sollecitudine, il servizio ferroviario sulla linea Ionica, istituendo una nuova coppia di treni diretti fra Reggio e Taranto e disponendo, nel contempo, l’invio di materiale rotabile nel Compartimento di Reggio, in modo da consentire che la composizione dei treni, sulla medesima linea, non venga fatta prevalentemente da carri bestiami. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per la sanità, per conoscere per quali ragioni i recenti concorsi per medici condotti sono stati banditi con le stesse modalità stabilite dal vecchio Governo: esami, titoli, limiti di età, ecc. senza nessuna agevolazione per coloro che sono in servizio; tranne quella di potervi prendere parte anche se superato il 45° anno. Ne viene di conseguenza che un medico condotto che per ragioni di educazione dei figlioli o per altre ragioni debba trasferirsi in sito migliore, anche dopo 20 anni di servizio deve non solo fare gli esami, ma vincendo il concorso viene a perdere tutti i quadrienni acquisiti dopo tanti anni di sacrificato lavoro, e quel che più bello iniziare la carriera ex novo col rischio di poter essere licenziato finito l’anno di prova.

«E se non sia il caso di disporre che i medici condotti in servizio stabile possano essere trasferiti da un comune all’altro, magari nell’istessa provincia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lucifero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se abbia notizia del malcontento diffuso tra i maestri supplenti anziani, i quali si vedono pareggiati ai giovani e giovanissimi nel concorso speciale riservato ai supplenti. Molti di questi maestri che furono già danneggiati dalla riforma Gentile ed hanno maturato dieci e più anni di supplenza, aspirerebbero ad una sistemazione per titoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Laconi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere per quale ragione non è ancora stata presa in esame la sistemazione definitiva di tutti gli epurati antifascisti del 1922-1923 dell’Amministrazione postelegrafonica riammessi in servizio in qualità di agenti diuturnisti; sistemazione che doveva essere decisa alla seduta del Consiglio dei Ministri dell’8 settembre 1947 e che è stata demandata alla Costituente per essere colà discussa in un tempo più o meno prossimo. E per far presente l’assoluta urgenza che la situazione di tale categoria venga al più presto risolta per dare ad essa la possibilità di una giusta ricostruzione della carriera. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Matteotti Matteo».

«II sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’industria e commercio, per conoscere:

se sia vero che i cartai siano stati autorizzati a trattenere la percentuale sul fatturato, di legittima spettanza dell’Ente cellulosa, e ciò a far data dagli ultimi mesi del 1945;

se sia vero che oggi, pur di giungere a una riduzione del costo della carta per quotidiani, s’intenda autorizzare i cartai a prelevare, dalle percentuali trattenute, la differenza fra il prezzo effettivo di costo della carta e quello di vendita agli editori;

se tutto ciò non costituisca un espediente al fine di stabilire un prezzo politico per la carta dei quotidiani, con una corrispondente grave limitazione della loro indipendenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Villabruna».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ravvisi l’opportunità, data la scarsa quantità di lavoro offribile al popolo italiano in patria, di studiare i mezzi più acconci a dividere equamente il lavoro per ogni singola famiglia, onde vuoi negl’impieghi statali, vuoi presso enti privati non vengano assunti contemporaneamente più di due membri della stessa famiglia se sprovvista di beni di fortuna ovvero più di un membro in caso contrario. Per evitare l’inconveniente lamentato e lamentabile di avere in alcune famiglie una paurosa integrale disoccupazione ed in altre una ingiusta ed immeritata occupazione di vari componenti, sarebbe al riguardo necessaria una congrua emanazione di norme imperative. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda assumere a favore delle popolazioni della montagna Pesciatina e Pistoiese, le quali vedendosi distrutte lentamente, ma inesorabilmente le piante del castagno da «la malattia dell’inchiostro», non hanno sufficienti risorse per procedere ai lavori di scasso e di bonifica dei terreni rimasti nudi delle piante in parola. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri degli affari esteri e del lavoro e previdenza sociale, per sapere quali misure sono state adottate o si ritiene debbano adottarsi per facilitare le correnti emigratorie nei Paesi d’oltremare a sollievo parziale della intermittente disoccupazione del nostro povero e popolatissimo Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno esonerare dalla ripetizione degli esami tutti o quasi tutti i maestri idonei che partecipano al concorso per il passaggio in ruolo, a norma del decreto legislativo n. 273, in data 21 aprile 1947, prescindendo naturalmente dal punteggio richiesto o abbassandolo alquanto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quando potrà essere riattivato il tronco ferroviario Roccasecca-Sora, per il quale i lavori di riattamento sono già da tempo ultimati, tenendo presente che si tratta di una linea assolutamente necessaria per la vita e lo sviluppo dei traffici delle industriose popolazioni della Valle del Liri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 6 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Tupini, Ministro dei lavori pubblici

Murgia

Colombo

Vinciguerra

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Macrelli

De Martino

Scelba, Ministro dell’interno

Bencivenga

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Lettieri

Malvestiti, Sottosegretario di Stato per le finanze

Tremelloni

Per alcune interrogazioni con carattere d’urgenza:

Cifaldi

Presidente

Perlingieri

Perugi

Macrelli

Malvestiti, Sottosegretario di Stato per le finanze

La seduta comincia alle 11.

COVELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Ambrosini, Pallastrelli e Bianchi Costantino.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

Dovendo l’onorevole Murgia assentarsi, ha pregato che sia svolta per prima la sua interrogazione, al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere se non ritenga necessario revocare alla Società Garigliano e suoi successori la concessione della costruzione del bacino idroelettrico del Taloro (Nuoro), già iniziata e poi abbandonata, costruzione di importanza vitale per l’avvenire industriale dell’Isola oltreché agricolo per la provincia di Nuoro e avente altresì – quale bacino a monte di quello del Tirso – la funzione importantissima di regolare le piene e impedire gli straripamenti che nella presente stagione provocano l’allagamento di diecine di migliaia di ettari del più fertile terreno isolano distruggendo le semine o rendendo impossibili altri lavori agricoli autunnali».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Effettivamente, la questione sollevata dall’onorevole Murgia ha una notevole importanza per la situazione idrica in cui si trovala sua provincia. Io ho esaminato la questione e soprattutto mi sono preoccupato dei precedenti. I risultati della indagine portano a questa conclusione: che non esiste, attualmente, alcuna concessione a favore di nessuna società.

Nel 1932, vale a dire quindici anni fa, la società Garigliano domandò la concessione per la formazione di questo bacino, per scopi irrigui e di produzione di forza motrice. Senonché, il Consiglio Superiore dei lavori pubblici si pronunziò in senso contrario, ritenendo che quell’opera proposta dalla società, che ne chiedeva la concessione, non fosse rispondente né ai bisogni della regione, né adeguata agli scopi che la concessione stessa si proponeva.

Ho esaminato quel responso, e mi è sembrato che almeno peccasse di eccessiva superficialità. Pertanto ho invitato i miei uffici a riprendere in esame la questione ed a metterla a punto al fine di vedere, come eventualmente si possa venire incontro ai bisogni della popolazione, di cui l’onorevole Murgia si è reso interprete. Allo stato attuale delle cose, non posso dare che questa risposta: il mio Ministero è sollecito a riprendere in esame la questione, che ritengo oggi molto importante, ed ove una nuova domanda, o della stessa società o di altre, venisse presentata al Ministero, essa formerebbe oggetto di attenta e benevola considerazione al fine di portare a soluzione il problema che sta a cuore dell’onorevole interrogante e delle popolazioni da lui rappresentate.

PRESIDENTE. L’onorevole Murgia ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MURGIA. Onorevoli colleghi, sono parzialmente sodisfatto della risposta del Ministro: dico parzialmente perché non è esatto quanto egli ha asserito, e cioè che una concessione alla società Garigliano non sia stata mai fatta dal Ministero dei lavori pubblici. Risulta, infatti, che il 4 gennaio 1929 la «Garigliano» firmava il disciplinare di concessione per il primo salto e il 30 settembre 1929 il Consiglio Superiore dei lavori pubblici emetteva voto favorevole per l’inizio dei lavori; il 30 giugno 1930 lo stesso Consiglio Superiore emetteva voto favorevole per l’esecuzione dei lavori di tutti e tre i salti.

In seguito a tale autorizzazione furono, infatti, eseguite opere notevoli, e precisamente: una galleria di circa 2 chilometri per la costruzione di una dighetta provvisoria per la produzione dell’energia elettrica necessaria per la costruzione dell’opera, al fine di evitare prezzi e forniture ostruzionistiche della Società Elettrica Sarda, che aveva ed ha un interesse supremo a che mai questo bacino venga costruito; fu impostata la costruzione della diga alta, costruita la strada di accesso dalla Nazionale fino al limite della diga, furono costruiti diversi altri chilometri di galleria forzata. Come dunque affermare che non è stata mai concessa un’autorizzazione alla Società Garigliano, e soprattutto come affermare che il Consiglio Superiore dei lavori pubblici aveva ritenuto l’opera non opportuna? Ciò non è possibile, di fronte ai dati sicuri e precisi che ho enunciato.

Ma ciò che soprattutto in quel giudizio di allora mi colpisce è che sia stata ritenuta non opportuna un’opera che è invece di vitale importanza per tutto l’avvenire dell’Isola dal punto di vista industriale e per la provincia di Nuoro dal punto di vista agricolo.

Quale è infatti dal punto di vista industriale la produzione dell’energia idroelettrica nell’Isola? Essa è costituita dal bacino del Tirso che produce 12.000 HP e del Coghinas che ne produce 19.866, cioè complessivamente 31.866 cavalli-vapore; mentre il solo Taloro ne produrrebbe 68.660, cioè più del doppio dei due bacini riuniti. E allora se da solo il Taloro ha la capacità di produrre il doppio dell’energia dei due bacini riuniti, quale può essere stato il motivo che ha determinato quel giudizio di inopportunità dell’opera? Forse un suo costo elevato? Assolutamente no; anzi è questo un altro elemento che dimostra in modo decisivo la convenienza e l’opportunità della costruzione. Infatti, la sua spesa è prevista in misura di circa otto volte inferiore a quella del Tirso e diverse volte in meno di quella del Coghinas. Ciò in virtù della felicissima posizione naturale del bacino, e perché esiste in loco, gratis, e abbondantissimo, un prezioso materiale da costruzione: il granito. Quindi convenienza duplice: dal punto di vista della produzione di forza e della minore spesa.

Ma ad altri due scopi di capitale importanza rispondeva il bacino del Taloro e cioè:

1°) alla bonifica di un comprensorio di ben 21.000 ettari di terreno di cui 8.000 irrigabili:

2°) alla costituzione di uno sbarramento poderoso destinato a contenere la quantità d’acqua che il sottostante bacino del Tirso non contiene e che trabocca inondando la fertilissima pianura del Campidano distruggendo le semine o rendendo impossibili altri lavori.

Quale è stato, dunque, nonostante tali evidenti vantaggi, il motivo per cui un’opera, di così capitale importanza per l’Isola, non è stata costruita? Ho accennato poco fa alla Società Elettrica Sarda come a una società rivale, che aveva interesse a che l’opera non venisse mai costruita per evitare concorrenza e inevitabile diminuzione di prezzi dell’energia, ora altissimi. Orbene la spiegazione è questa: risulta che la Società Garigliano fu incorporata nella Società Campania di Elettricità e la concessione delle dighe del Taloro passò alla Meridionale di Elettricità, che la controlla e il cui consiglio di amministrazione è costituito dagli stessi uomini della Società Elettrica Sarda. Ora preme a questa,Società, mantenere il monopolio dell’energia; e a tal fine ha in mano la concessione, ciò che giuridicamente non consentirebbe ad altri di costruire il bacino. È qui che io richiamo e invoco tutta l’attenzione del Governo perché in qualunque modo trovi una via d’uscita a questa situazione, promuovendo la costruzione dell’opera. Ciò perché in Sardegna, anche dopo che sarà costruito il bacino del Flumendosa, il fabbisogno isolano, checché se ne dica, sarà sempre di gran lunga superiore alla produzione che ne risulterà. Infatti attualmente la produzione complessiva isolana, compresa quella delle centrali termiche, si aggira appena sui 230 milioni di chilowatt. Ora, anche ammesso che il Flumendosa possa produrre 250 milioni di chilowatt (ciò che mi sembra difficilissimo), toccheremmo, sommandola alla produzione attuale, circa i 500 milioni di chilowatt. Sappiate però che quando saranno attuati i progettati, grandiosi impianti, la sola zona mineraria di Carbonia assorbirà oltre 430 milioni di chilowatt, cioè quasi tutta la produzione isolana. Aggiungete a tale considerazione il fatto che il bacino del Tirso, destinato alla irrigazione, dovrà cessare la produzione dell’energia elettrica in quanto che, per conservare l’acqua nella stagione estiva per la irrigazione della bonifica di Oristano, dovrà imporre un vincolo al serbatoio durante i mesi invernali. Tenete inoltre presente che, a tutt’oggi, quasi un terzo dei Comuni dell’Isola è ancora immerso nell’ombra per la mancanza di energia elettrica. Ciò non può essere ulteriormente tollerato. Ho messo – data la brevità dell’ora – rapidamente in luce i motivi essenziali che dimostrano la indispensabilità della costruzione del bacino del Taloro che, come ho precedentemente detto, ha una funzione triplice e precisamente:

1°) Produzione di forza motrice destinata a dare il massimo impulso alle industrie dell’Isola, che è – tenetelo presente – la più ricca regione mineraria d’Italia e dove perciò numerose altre industrie potrebbero sorgere e fiorire, trovandovi le condizioni ideali e cioè esistenza di minerali ed energia elettrica.

2°) Bonifica di un comprensorio di ben 21.000 ettari, di cui 8.000 irrigabili, e dove esistono circa un milione di olivastri spontanei che dovrebbero essere trasformati in oliveti determinando così, conseguentemente, la costruzione di case coloniche e il popolamento della zona, attualmente abbandonata per cinque mesi dell’anno a causa della quasi assoluta mancanza d’acqua, che rende impossibile la residenza stabile di pastori e di greggi; popolamento che costituirebbe il più efficace rimedio per combattere la delinquenza rurale, fino ad oggi invincibile a causa della solitudine.

3°) Sbarramento a monte per contenere, come poco fa ho detto, quella quantità di acqua che specialmente nell’autunno e nell’inverno straripa, travolgendo le coltivazioni e annientando le fatiche e i sudori di migliaia di contadini.

Concludendo, mi dichiaro pienamente sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Ministro nella parte della sua risposta dove mi assicura di aver dato già disposizioni all’ufficio competente per un più profondo esame del problema di cui intende tutta l’importanza per l’avvenire dell’Isola. E se, come non metto in dubbio, tale esame si farà da un punto di vista scientifico di giustizia e con visione lungimirante dei risultati, esso sarà un fattore potente e decisivo per l’avvenire della mia terra, la quale, una volta creati i necessari presupposti industriali ed agricoli, sarà in grado di nutrire un altro milione di abitanti.

Sotto questa luce, che è la luce giusta, questo problema isolano, che io ho modestamente agitato, interpretando la volontà e le aspirazioni del popolo sardo, assurge all’importanza di un problema nazionale; e sotto questo aspetto dovrà essere affrontato e risolto.

TUPINI. Ministro dei lavori pubblici. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. L’onorevole Murgia avrebbe dovuto, secondo me, scindere nel tempo le sue osservazioni; perché per quel che mi riguarda e per quel che riguarda questo Governo, non poteva aspettarsi una risposta diversa e migliore di quella che io gli ho data. Egli chiedeva che fosse revocata una concessione. Io ho trovato che una concessione non c’è, perché il Consiglio Superiore dei lavori pubblici, con voto del 19 luglio 1936, espresse parere che, sotto l’aspetto economico, agricolo ed industriale non si ravvisava l’opportunità ecc. ecc.

Le osservazioni dell’onorevole Murgia sarebbero fondate, se il suo interlocutore non fossi io, ma un Ministro del tempo fascista. Per quel che mi riguarda ripeto che non potevo dargli risposta diversa.

MURGIA. È esatto. Questi fatti riguardano il periodo del governo fascista che, nel 1936, ha impedito che fosse realizzata l’opera di cui in un primo tempo aveva innegabilmente riconosciuto tutta la necessità per l’avvenire e la prosperità dell’Isola.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Colombo e Zotta, al Ministro dei lavori pubblici, «per sapere se e quando intenda provvedere alla sistemazione degli acquedotti della Lucania ove, per la scarsa manutenzione e per la inadeguatezza degli impianti, intere popolazioni sono prive di acqua, con grave pregiudizio della salute e dell’igiene».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Anche l’onorevole Colombo, deve aspettarsi una risposta la quale riguarda questo Governo solo limitatamente al tempo della sua recente attività, non intendendo esso rispondere di quello che i precedenti Governi non hanno fatto. E all’uopo devo ricordare che la questione dell’Acquedotto della Lucania è una questione che veramente giustifica l’urgenza con la quale l’onorevole Colombo ha interrogato il Governo, perché quella regione si trova effettivamente nelle condizioni di abbandono e di carenza che l’onorevole Colombo ha ricordato.

Devo però, a mia volta, richiamare i precedenti relativi all’Acquedotto lucano.

La legge del 1942 autorizzava l’Acquedotto pugliese a provvedere alla manutenzione ed al consolidamento, nonché ai bisogni idrici delle popolazioni lucane; furono stanziati all’uopo 43 milioni, e successivamente altri dodici milioni per le opere di gestione per i primi cinque anni. La guerra ha impedito l’esecuzione di questi progetti; quindi il problema del rifornimento idrico, sia a scopo di forza motrice che a scopo di irrigazione della Lucania, risorge oggi in tutta la sua imponenza e in tutta la sua importanza.

Ora, la Società dell’Acquedotto pugliese è stata richiamata a mettere a punto i progetti, per vedere come si possa provvedere a quelle esigenze ricordate dall’onorevole Colombo e che si riferiscono a tutta la situazione dell’Acquedotto lucano. La società ha presentato una proposta di finanziamento che si aggira intorno ai due miliardi.

I miei uffici, anche prima che assumessi la direzione del Ministero, avevano esaminato queste proposte ed hanno trovato che questa somma è talmente insufficiente da bastare unicamente a provvedere alle spese ordinarie di manutenzione dell’Acquedotto medesimo.

Ho disposto perciò la messa a punto di un nuovo progetto. Frattanto ho interpellato gli uffici competenti, i quali mi hanno informato che la spesa si aggira intorno ai 6 o 7 miliardi. Questo fa sorgere un problema di finanziamento non indifferente, che, nelle condizioni attuali, non sarà tanto facile risolvere. Ma, in omaggio a quel criterio pratico che deve sempre guidarci nell’affrontare i vari problemi che riguardano la pubblica amministrazione, anche questo potrà essere affrontato e risolto gradualmente pianificando nel tempo, e cioè in più anni, l’esecuzione dell’opera e la spesa relativa con la volontà finalmente decisa di dare alla Lucania quello che essa giustamente attende.

In questo senso io ho dato direttive ai miei uffici di preparare i relativi progetti, e, intanto, ho invitato il Provveditorato alle opere pubbliche della Lucania a prendere gli opportuni accordi con l’Acquedotto pugliese al fine di predisporre il necessario per l’auspicato inizio dei lavori.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

COLOMBO. Ringrazio l’onorevole Ministro soprattutto per la concretezza di questa risposta, poiché egli ci dice che c’è qualche cosa di immediato da fare per la risoluzione di questo problema che è veramente grave. Penso che l’annunzio di una certa disponibilità di fondi e dell’ordine dato di iniziare la preparazione dei progetti porterà certamente un senso di soddisfazione in queste popolazioni, le quali sono quotidianamente costrette a percorrere dei chilometri per potersi approvvigionare di acqua.

La situazione, come poc’anzi dicevo e come l’onorevole Ministro ha ricordato, è veramente grave. Ci sono delle borgate e dei paesi dove l’acqua non arriva per niente, dove la gente, soprattutto i bimbi, vivono in una condizione, in quanto ad igiene, veramente deplorevole. Vi sono zone in cui la mortalità infantile è, a causa della dissenteria, quanto mai alta, proprio perché le popolazioni sono sovente costrette a fare uso di acque inquinate.

Certo il problema non si risolverà compiutamente con quello che è stato stabilito di fare in questo periodo e bisognerà pensarci poi, in forma più ampia. Io ringrazio ad ogni modo l’onorevole Tupini perché ci promette che si terrà ancora conto negli anni seguenti dei bisogni della Lucania.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Anche subito se ne tiene conto.

COLOMBO. Ma soprattutto desidererei che fossero immediatamente iniziati i lavori, e che venissero condotti proprio con il criterio cui ha fatto cenno l’onorevole Ministro, con il criterio cioè di inserire i particolari problemi, lungi dal considerarli a sé stanti, in una visione ampia e generale. Molto denaro infatti si è sciupato in passato, proprio perché non si è avuta una visione generale dei problemi.

E vorrei pregare anche, che si tenga conto di quegli acquedotti la cui manutenzione non è affidata all’acquedotto pugliese, ma che sono invece alla diretta dipendenza dei Comuni che si sono assunti la responsabilità della manutenzione stessa.

Concludo, pregando l’onorevole Ministro di tener conto, nella maniera più larga possibile, delle necessità di questa regione chc ha tanto bisogno di provvidenze. Lo prego altresì, in questo periodo in cui si fanno piani tanto nel settore dei lavori pubblici, quanto in quello dell’agricoltura, di voler tenere nella più ampia considerazione i problemi, in genere, dell’Italia meridionale, perché finalmente possano avere una soluzione.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Vinciguerra, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere le ragioni per le quali Ariano Irpino (Avellino) non è stata compresa nel provvedimento legislativo in corso presso l’ufficio legislativo dei lavori pubblici relativo all’acquedotto consorziale dell’Alta Irpinia, mentre Ariano, comune di trentamila abitanti, difetta di acqua potabile, avendo una tubolatura inquinata da infiltrazioni e con scarsissimo rendimento, per cui nella città il tifo è quasi endemico. Per conoscere altresì se invece l’onorevole Ministro non ritenga opportuno e di giustizia disporre che Ariano derivi l’alimentazione idrica dall’acquedotto pugliese, non essendo valide e fondate le ragioni che l’Ente obietta in contrario».

L’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Io concordo con l’onorevole Vinciguerra circa la situazione in cui si trova Ariano a proposito della questione del suo rifornimento idrico e dell’urgenza della sua soluzione. L’onorevole Vinciguerra non ignora i provvedimenti predisposti dal mio Ministero per l’acquedotto a favore della Regione irpina. L’onorevole Vinciguerra si domanda perché da questo acquedotto sia esclusa Ariano.

Ariano si è dovuta escludere, stando anche alle conclusioni tecniche dei competenti, perché sarebbe stato estremamente difficile poter allacciare questa località all’acquedotto degli altri comuni.

Perché i miei uffici dicono che è difficile, se non addirittura impossibile, collegare Ariano all’acquedotto degli altri comuni? Per l’enorme distanza che separa Ariano dall’acquedotto pugliese: si dovrebbero aggiungere ventinove chilometri di condutture a quelle previste; mentre le condizioni geologiche del terreno, le altimetrie, i franamenti richiedono poi anche opere d’arte estremamente costose, che dovrebbero aggiungersi a quelle già stabilite per il rifornimento idrico degli altri comuni dell’Irpinia.

L’onorevole Vinciguerra ha scritto anche a me la lettera nella quale confuta queste obiezioni dei miei uffici; dice che non è esatto che ci siano delle condizioni di terreno che rendono troppo difficile e quindi costosa l’opera; sostiene che la cifra denunziata dai miei uffici e che si aggira intorno al miliardo (Commenti), è esagerata, mentre basterebbero cento milioni, da aggiungere a quelli già stanziati per l’acquedotto dei comuni irpini, per rifornire di acqua sufficiente la città di Ariano.

Onorevole Vinciguerra, se ella mi dimostrerà, in contradittorio con le affermazioni dei miei uffici, di aver ragione, non sarà difficile aggiungere agli ottocento milioni, già stanziati per gli altri nove comuni, i cento milioni necessari per portare l’acqua anche al suo comune.

In ogni caso, io mi sono preoccupato di queste difficoltà e, portandovi un po’ di spirito pratico, ho domandato ai miei uffici: Ma è proprio necessario che noi agganciamo Ariano all’acquedotto dell’Irpinia, e attraverso l’acquedotto dell’Irpinia all’acquedotto pugliese? Non sarebbe possibile esaminare l’attuale acquedotto che fornisce l’acqua ad Ariano per migliorarlo, per aumentare il volume dell’acqua stessa? Esaminare un po’ in loco la possibilità di captare nuove sorgenti e poter quindi limitare l’opera del nostro Ministero a quella zona ridotta dell’attuale acquedotto che rifornisce già Ariano, per migliorarlo, per ripararlo, per impedire che delle infiltrazioni, come quelle lamentate dall’onorevole Vinciguerra, possano inquinare l’acqua e quindi mettere in pericolo le condizioni igienico-sanitarie della popolazione?

Io mi sono posto il problema e intendo risolverlo, perché anche a me sembra estremamente ingiusto che, mentre provvediamo con tanta sollecitudine ai nove comuni dell’Irpinia, Ariano, che è uno dei centri principali, debba restarne escluso, e mi metto a disposizione dell’onorevole Vinciguerra, per trovare insieme il modo migliore per poter sodisfare l’urgente necessità di acqua che ha il suo comune, che anche io riconosco. Ripeto che, ove questo possa essere sodisfatto con 100 milioni, io posso assicurare l’onorevole Vinciguerra e l’Assemblea che sarà facile aggiungere questa somma a quella già stanziata per poter dare anche ad Ariano l’acqua che il Governo ha assicurato agli altri comuni dell’Irpinia.

PRESIDENTE, L’onorevole Vinciguerra ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

VINCIGUERRA. Avevo fatto pervenire al Ministro un memoriale con cui cercavo d’illustrare la situazione, e mi attendevo una risposta un po’più sodisfacente.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Non vedo come potesse essere più sodisfacente di quella che ho dato.

VINCIGUERRA. Ho spiegato come l’inclusione del Comune di Ariano nel piano di lavori dell’acquedotto pugliese non importi né spese eccessive, né opere straordinarie e neppure un aggravio per l’acquedotto pugliese. Esporrò degli elementi che io ricavo dalla relazione del Genio civile di Avellino, il quale, in concordanza col Provveditorato alle opere pubbliche che nel 1936 risiedeva a Caserta, aveva contemplato la possibilità di includere Ariano in questo progetto di costruzione di acquedotto consorziale.

Incomincio col rilevare, poiché così risulta da questa relazione di carattere ufficiale, che l’acquedotto dell’Alta Irpinia si estende al Comune di Guardia Lombardi. Ora, da Guardia Lombardi ad Ariano, c’è una distanza di appena 29 chilometri che non possono spaventare nessuno. Tutto l’acquedotto dell’Alta Irpinia, senza Ariano, raggiunge una lunghezza di 70 chilometri. Non so perché 29 chilometri debbano spaventare.

TIPINI, Ministro dei lavori pubblici. Settanta chilometri divisi per 9 Comuni; 29 chilometri per un solo Comune: ecco il punto da risolvere.

VINCIGUERRA. Tutta l’opera è di 70 chilometri; per arrivare ad Ariano bisogna fare un piccolo sforzo ed aggiungere altri 29 chilometri.

Ad ogni modo non è esalto che bisogna perforare il sistema dei monti, come mi pare dicesse l’onorevole Ministro, perché questa condotta di mandata – è questo il termine tecnico dovrebbe percorrere soltanto la vallata del fiume Ufita dove sorgerebbe la necessità di qualche sifone.

Quindi non si tratta né di una distanza eccessiva, né di opere di carattere straordinario per superare difficoltà orografiche.

Per di più è previsto nel progetto che il ripartitore dell’acquedotto sarà collocato a Guardia Lombardi, che sta a quota 1020, sicché l’acqua arriverebbe ad Ariano che sta più in basso a quota 800, soltanto per forza di gravità e non vi sarebbe bisogno di nessuna opera di sollevamento.

Inoltre per il Comune di Ariano basterebbero 15 litri al secondo, in rapporto alla popolazione concentrata del Comune, perché il resto della popolazione vive in campagna. Ora, 15 litri non rappresentano un aggravio per l’acquedotto pugliese che ha una portata di 6.000 litri al secondo, e ora, per una transazione che ha fatto con la Società elettrica meridionale della Campania, capterà le sorgenti di Cassano Irpino per altri 3.500 litri. Io penso che 15 litri non rappresentino un prelievo, una usura tale da diminuire la possibilità di rifornimento per le Puglie. Sono i tecnici che dicono che l’aggregazione di Ariano importerebbe una maggiore spesa, di soli cento milioni. Per quanto riguarda la spesa, il provvedimento legislativo. (lo Stato darà un contributo del 70 per cento) prevede un’opera di 800 milioni per i nove comuni dell’Alta Irpinia. Arriviamo in complesso (perché 800 milioni è la previsione), arriviamo in complesso ad un miliardo con Ariano, che deve costruire solo 29 chilometri con una spesa in più di 200 milioni. Non capisco quindi perché si parli di una spesa di un miliardo solo per Ariano; se per nove comuni, con diverse opere di sollevazione, si prevede una spesa di appena 800 milioni, perché poi, solo per Ariano, la spesa sarebbe di un miliardo? Al Ministro dev’essere evidentemente pervenuta una informazione inesatta.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Sono dati tecnici.

VINCIGUERRA. Io credo che per una spesa di circa 200 milioni non sia il caso di avere esitazioni e di escludere il comune di Ariano dai benefici di un’opera il cui merito andrà per primo al Ministro in carica.

Con ogni sincerità il Ministro diceva; vediamo se è possibile provvedere diversamente all’alimentazione idrica di Ariano.

Ma non si può! Anzitutto l’acquedotto attuale da cui derivano le acque, secondo un provvedimento del cessato regime (non voglio dire che solo per questo fu un provvedimento dittatoriale!), fu dimezzato per destinarlo anche ad alimentare il comune di Montecalvo. Sono stati poi fatti esperimenti dal Genio civile e dal Provveditorato per le opere pubbliche della Campania per vedere se fosse possibile usufruire di altre opere pubbliche e captare altre sorgenti. Questo non è stato possibile.

Esisteva la sorgente di Noce Verde dalla quale, per captare un litro al secondo, occorreva (quella era una spesa veramente inutile!) una spesa di 300 milioni. In modo che, se in conclusione Ariano non approfitta in questo momento di questa opera di alta utilità, il comune è condannato a mantenersi nelle condizioni attuali, che non sono davvero le più felici, con un acquedotto inquinato (è riconosciuto da uria relazione della Direzione di sanità, che ho citato nel mio memoriale), con tutte le conseguenze che ne derivano, col tifo che regna in permanenza fra quella popolazione.

Il problema del Mezzogiorno – di cui tutti parliamo – è soprattutto un problema di acqua e di strade. Quando si parla del Mezzogiorno si fanno tante promesse, ma quando si deve passare ai fatti…

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. L’acquedotto Irpino è un fatto concreto!

VINCIGUERRA. Ma si commette una ingiustizia verso Ariano!

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Cerchiamo di riparare, l’ho già detto!

VINCIGUERRA. Del resto il Ministro Sereni aveva già disposto presso il Provveditorato delle opere pubbliche della Campania perché la conduttura fosse proporzionata alla popolazione di Ariano. Attendiamo che il Ministro Tupini dia eguale disposizione, perché se la tubatura sorge solo per il fabbisogno,di nove comuni è inutile pensare a un qualsiasi vantaggio per Ariano.

Di modo che, anzitutto bisogna provvedere al piano di questa tubatura e tenere fermo un impegno che è impegno del Governo d’Italia verso una benemerita popolazione che paga milioni e milioni di tasse e che vuole avere almeno un bicchiere di acqua. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Macrelli, ai Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, «per sapere quali provvedimenti saranno adottati o intendano adottare per alleviare i danni arrecati dal recente nubifragio in provincia di Forlì». L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Naturalmente io risponderò per una parte dell’interrogazione.

Per quanto riguarda la competenza del Ministero dell’interno devo premettere che l’intervento di questa amministrazione deve essere limitato, nei casi del genere, ad eventuali erogazioni speciali sui fondi per l’assistenza e attraverso l’E.C.A. in favore delle famiglie sinistrate che versano in condizioni più gravi e di più urgente bisogno, escluso, perciò, qualsiasi carattere di risarcimento di danni la cui valutazione e i cui provvedimenti esulano dalla competenza del Ministero dell’interno.

All’E.C.A. della provincia di Forlì, su richiesta del Prefetto, per l’assistenza delle famiglie bisognose, come è detto, perché danneggiate dai disastri del 22 settembre, è stata assegnata la somma di 4 milioni. Comunque il Ministero non intende limitare a questa somma i soccorsi in questo determinato settore, ma, naturalmente, occorre che da parte della autorità locali gliene venga fatta segnalazione.

Assicuro comunque che queste segnalazioni verranno vagliate con la massima benevolenza.

PRESIDENTE. L’onorevole. Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. All’onorevole Macrelli dico che i comuni che furono colpiti dal nubifragio e che formano oggetto della sua interrogazione, mi pare che siano stati cinque o sei: Bertinoro, Civitella di Romagna, Meldola, Predappio e Rocca San Casciano con le campagne circostanti. È inutile che noi adesso elenchiamo ed individuiamo i singoli danni riportati da questi comuni. Io debbo soltanto informare l’onorevole Macrelli che il mio Ministero, non appena fu informato di quanto era avvenuto, cercò di provvedere, nei limiti delle sue possibilità, a tutte le opere di pronto soccorso che costituirono un intervento finanziario di 20 milioni, che furono distribuiti con criterio di comparazione fra i vari comuni, in relazione alla entità dei danni. Furono dati a Meldola 5 milioni e 500.000 lire, a Predappio 5 milioni e 500.000 lire, a Civitella di Romagna 5 milioni e 500.000 lire, a Bertinoro un milione, a Rocca San Casciano 2 milioni e 500.000 lire.

Fu disposto anche un accertamento sommario dei danni riportati dalle opere pubbliche, e questo ammonta ad una cifra di 80 milioni salvo più approfondite valutazioni.

Ella sa, onorevole Macrelli, che per quanto attiene alla costruzione di opere definitive, in quanto non risultano sufficienti i lavori eseguiti di pronto soccorso, dovranno provvedere i comuni valendosi della legge che mette a carico dello Stato il 50 per cento dell’importo delle opere stesse. Il Governo, per quanto attiene al successivo intervento per la riparazione dei danni nei limiti delle sue disponibilità e delle leggi che regolano la materia, agirà con la massima larghezza perché sente il dovere di venire incontro a delle popolazioni che, senza loro colpa, hanno subito danni così gravi, come quelli che formano oggetto della sua interrogazione. Ad ogni modo stia tranquillo, onorevole Macrelli, che noi cercheremo di sodisfare questi bisogni con quello spirito di comprensione del quale, credo che abbiamo dato già prove concrete.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MACRELLI. Ringrazio l’onorevole Sottosegretario di Stato all’interno e il Ministro dei lavori pubblici per le risposte che mi hanno dato. Non sono completamente sodisfatto, ed è naturale che sia così del resto.

Noto intanto che quella somma che il Ministero dell’interno ha erogato alla provincia di Forlì, colpita gravemente dal nubifragio del 22 settembre, è una somma inadeguata. Penso che dovrà ancora essere aumentata e che dalla Prefettura e dai Comuni interessati arriveranno richieste a questo proposito. Prendo atto anche di quello che ha detto il Ministro dei lavori pubblici. Sapevo già che per alcuni comuni (non per tutti) della provincia di Forlì danneggiati da quell’alluvione, erano stati erogati per riparazioni venti milioni. La distribuzione non è stata molto equa. Bisognava aggiungere qualche cosa di più. Intanto i danni hanno raggiunto e forse superato gli 80 milioni solo per quanto riguarda le opere pubbliche. Non bisogna dimenticare però, che nel quadro generale occorre aggiungere il complesso di danni apportati in quella zona all’agricoltura. L’Ispettorato dell’agricoltura di Forlì – è un altro ufficio, siamo perfettamente d’accordo – ha mandato un rapporto al Ministero competente da cui risulta che i danni complessivamente per l’agricoltura hanno raggiunto la cifra enorme di quasi trecento milioni e l’ispettorato ha chiesto che siano dati i fondi congrui per riparare – almeno in parte – quello che è stato distrutto. Ma per rimanere sul terreno della interrogazione che riguarda il Dicastero dei lavori pubblici, farò notare che le zone colpite il 22 settembre sono quelle che, in precedenza, dalla guerra avevano riportato i danni maggiori e peggiori. Basta che io ricordi Bertinoro, Civitella di Romagna,. Meldola, Predappio, Rocca San Casciano.

Danni enormi comunque e dovunque verificatisi cui si sono aggiunti ora quelli del nubifragio. Il Ministero ha dimenticato un comune, che pure era stato segnalato dal Genio civile e dall’Ispettorato delle opere pubbliche di Bologna: Mercato Saraceno, proprio la zona cui si riallacciano i ricordi della mia lontana giovinezza.

CINGOLANI, Ministro della difesa. Ed anche della più antica democrazia cristiana.

MACRELLI. La sua interruzione è opportuna, onorevole Ministro. Continui quello che ha fatto ieri sera al Colle Capitolino. (Commenti).

Dunque, si è dimenticato completamente. Vorrei che il Ministro notasse anche questa lacuna. Ad ogni modo, farò presente che il Genio civile di Forlì, pur riferendosi alle provvidenze ed alle agevolazioni di cui alle leggi 30 giugno 1940 e 21 marzo 1907, ha chiesto di urgenza un provvedimento straordinario con il quale lo Stato dovrebbe assumersi gli oneri dei lavori per le riparazioni necessarie. Io mi rivolgo al Ministro a questo proposito perché voglia accogliere le richieste. L’altro giorno, voi lo sapete, abbiamo avuto qui una battaglia per la terra di Romagna. Sembrava che si dovesse cancellare dalla storia e dalla geografia: non cancelliamola adesso anche attraverso il nubifragio e attraverso le negate provvidenze del Ministero (Si ride). Io conto tanto sull’intervento del Ministero dell’interno quanto su quello degli altri due più importanti Dicasteri: il Ministero dei lavori pubblici ed il Ministero dell’agricoltura. Sono certo che ascolteranno questa mia invocazione. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole De Martino, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere se esistono speciali ragioni che determinano nell’Azienda della strada la volontà o la necessità di ben mantenere le strade nazionali del Nord, del Centro e di parte dell’Italia meridionale, precisamente fino alla città di Salerno, mentre da Salerno in giù le strade nazionali sono quasi completamente abbandonate».

L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.,

TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. La Direzione generale della strada mi assicura che le doglianze dell’onorevole De Martino non sono rispondenti allo stato delle cose – e nella specie, delle strade – perché l’A.N.A.S. afferma di procedere nelle opere di manutenzione e di miglioramento delle strade nazionali con un criterio uniforme e imparziale verso tutte le regioni.

La Direzione generale della strada mi fornisce anche delle cifre, in base alle quali, per quanto attiene ai 5 miliardi annui stanziati in bilancio per la manutenzione delle strade statali, questi vengono distribuiti in modo razionale e proporzionato sia alla lunghezza delle strade come al fabbisogno delle medesime, in ogni parte d’Italia. Inoltre, mi si assicura che, per quanto attiene a riparazioni di strade danneggiate per gli eventi bellici, si sta spendendo in questo momento, per le strade dell’Italia meridionale, una somma pari a un miliardo e 500 milioni. Io ho voluto portare una mia particolare attenzione sulla situazione di queste strade. Per quanto attiene all’erogazione di fondi già stanziati per i bilanci finanziari 1947-1948 e 1948-1949, noi disponiamo per la manutenzione, miglioramenti e fabbisogno delle strade statali, della somma di 6 miliardi. Si è disposto, dicevo, che vengano ripartiti per questi due esercizi nella seguente misura: Campania e Molise 320 milioni; Puglie 280 milioni; Basilicata 230 milioni; Calabria 270 milioni; Sicilia 2 miliardi e 180 milioni, tenuto conto che durante l’occupazione della Sicilia gli alleati trascurarono completamente la manutenzione di quelle strade, per mancanza di bitume e di asfalto, portandole in condizioni che meritano la più grande attenzione da parte degli organi governativi e tecnici.

Ove si consideri, onorevole De Martino, che la lunghezza delle strade stata è di 21.000 chilometri e che quelle rientranti nel comprensorio delle regioni indicate formano un chilometraggio complessivo di 7.800 chilometri, se ella fa la somma delle erogazioni per la manutenzione di quelle strade sui 6 miliardi, totalizzerà un complesso di 3 miliardi e 280 milioni, che rappresentano veramente una distribuzione tale – non so se da sodisfare l’onorevole De Martino per quanto riguarda il passato – ma, io credo, certamente da sodisfarlo per quanto riguarda il presente ed il prossimo futuro.

PRESIDENTE. L’onorevole De Martino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MARTINO. Per la prima parte, quella che riguarda le assicurazioni date dall’A.N.A.S., non posso dichiararmi sodisfatto.

L’onorevole Ministro ha detto che la distribuzione dei fondi viene fatta proporzionatamente, equamente; sono due vocaboli non concreti. Le provvidenze per le strade del Mezzogiorno dovrebbero essere in rapporto alla sua popolazione ed alle sue possibilità economiche. Anche le strade del Mezzogiorno rientrano in quel complesso problema, che noi consideriamo sotto l’appellativo di «problema del Mezzogiorno». Se l’A.N.A.S. intende distribuire le somme soltanto in rapporto al chilometraggio delle strade, allora va perpetuandosi il torto che si fa al Mezzogiorno, anche rispetto alle strade; mentre bisognerebbe cercare di dare al Mezzogiorno qualcosa di più.

Si potrebbe notare, come l’A.N.A.S. non nota, che, percorrendo le strade del Nord, non si va incontro agli inconvenienti che invece si hanno percorrendo le strade del Sud, inconvenienti dovuti alla cattiva manutenzione.

Richiamo l’attenzione del Ministro sul fatto che fino a Salerno esistono case cantoniere, mentre da Salerno in giù quasi non ne esistono. Mi sembra che l’A.N.A.S. non voglia tener presente questa situazione.

Per la seconda parte, riguardante la distribuzione dei 6 miliardi, mi dichiaro sodisfatto e spero che i fatti abbiano a seguire le promesse.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Bencivenga, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i reali motivi che hanno indotto il Governo a procrastinare fino al 30 giugno 1948, e cioè praticamente fino a dopo la convocazione dei comizi elettorali, l’istituzione del «confino di polizia», uno dei più efficaci strumenti della dittatura fascista; provvedimento, codesto, che offende gli imprescrittibili diritti della libertà, riconquistata dal popolo italiano a prezzo di sofferenze e di sangue e lede il diritto dell’Assemblea di definire quella parte della legge sull’elettorato attivo, sottoposta al suo esame, che riguarda la sospensione dal diritto elettorale (articolo 47)».

L’onorevole Ministro dell’interno ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Necessità obiettive hanno imposto al Governo di prorogare la legge per cui protesta l’onorevole interrogante. Necessità obiettive: l’esistenza, o meglio, la persistenza di manifestazioni fasciste ed il dovere, da parte dello Stato, di reprimere siffatte manifestazioni. Unica legge che prevede la repressione di queste manifestazioni è precisamente quella per cui protesta l’onorevole interrogante, perché la legge a difesa delle istituzioni democratiche è tuttora pendente davanti l’Assemblea Costituente, ed, in attesa che l’Assemblea Costituente decida su questa legge, non poteva il Governo onestamente rinunziare all’unico strumento legale che gli era dato per reprimere queste manifestazioni fasciste, anche perché il Governo, per impegni di carattere internazionale, è tenuto a reprimere il risorgere od il manifestarsi di attività fasciste.

Si è trattato di una proroga che, per quanto riguarda la limitazione del diritto elettorale, verrà senz’altro soppressa dalle disposizioni che l’Assemblea Costituente prenderà in ordine alle limitazioni del diritto elettorale. Quindi è ovvio che la parte di questa legge che è stata prorogata, cadrà automaticamente il giorno che l’Assemblea Costituente avrà deciso in materia di limitazioni del diritto elettorale.

«Il Ministro di polizia» – come ha detto l’onorevole Bencivenga, ripetendo analoga espressione, che vorrebbe essere spregiativa, ripetuta da altri settori dell’Assemblea – non ha avuto che questo modesto compito: di proporre al Consiglio dei Ministri, che l’ha unanimemente approvata, la proroga della legge, e non intende servirsene come strumento di persecuzione. Perché è vero, onorevole Bencivenga, che il confino fu uno strumento di persecuzione di cui si servì il fascismo, ma è altrettanto veto che il fascismo si servì anche di tante altre cose che noi troviamo lecite e legittime. La differenza, e non è molto lieve, è questa, onorevole Bencivenga: che il confino di polizia veniva usato da un regime di dittatura e con sistemi di puro arbitrio che sono tipici del regime di dittatura; mentre, oggi, il confino è usato da un Governo democratico, non per consolidare un regime di dittatura, come fu nelle intenzioni del regime fascista, ma – come è detto nella legge – per difendere le libertà democratiche contro gli attentati da parte di chi nega, o ha negato nel passato la democrazia. E l’uso di questo potere è fatto alla luce del sole, è fatto sotto il controllo vigile del Parlamento e del Paese e da un Governo che è responsabile della sua azione davanti all’Assemblea Costituente.

L’onorevole Bencivenga sa benissimo che tutte queste cose non esistevano in regime fascista e che quindi non possiamo mettere sullo stesso piano e qualificare con le stesse parole altisonanti e dare lo stesso atroce giudizio a un provvedimento di questo genere da parte di un Governo democratico, per la tutela delle libertà democratiche.

Tuttavia, il Governo ha dimostrato, come è nel costume di un regime veramente democratico, di usare delle leggi con molta temperanza, tanta temperanza che forse l’onorevole Bencivenga non sa esattamente quale è il numero delle persone colpite da queste disposizioni. Il numero è limitatissimo; ma non faccio questione di numero. Se nelle disposizioni ci fosse un arbitrio e se questo arbitrio potesse colpire solamente una persona, noi dovremmo colpire l’arbitrio.

Ripeto che l’applicazione di questa disposizione è così temperata che sono appena ventuno le persone colpite dal confino; e le persone che vengono deferite alla Commissione per il confino hanno tutti i mezzi di difesa, in primo e in secondo grado.

Il Ministro dell’interno personalmente non interviene mai perché ha rinunciato ed ha delegato al Sottosegretario la presidenza della Commissione centrale. Gli imputati hanno tutte le possibilità di difesa legale: ma sono difesi ben più ampiamente dal controllo parlamentare, della stampa e dell’opinione pubblica.

Non c’è quindi nessuna preoccupazione che il confino possa essere uno strumento di tirannia del Governo, democristiano o non, o per scopi di partito. Questo è assolutamente lontano dalle nostre intenzioni; e gli uomini che siedono a questi banchi di Governo possono dare garanzie sufficienti, che non si serviranno mai del potere per compiere soprusi contro le libertà dei cittadini, dal momento che molti di questi uomini hanno conosciuto quello che è stato il regime fascista ed il sistema poliziesco fascista.

PRESIDENTE. L’onorevole Bencivenga ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BENCIVENGA. Mi dichiaro sodisfatto solo in parte, solo per l’assicurazione di avvalersi di queste disposizioni con molta moderazione.

Io avevo fatto una interpellanza, che poi ho cambiato in interrogazione, data l’esigenza dei lavori parlamentari, e mi ripromettevo di richiamare l’attenzione dell’Assemblea sulla situazione di politica interna, e sui mezzi più idonei per affrontarla.

A nessuno sfugge che esiste nel Paese un senso di malcontento e, diciamo anche, di nostalgia fascista. Ma dobbiamo anche guardare se questo non è frutto di errori commessi da noi. Quando il Comitato di liberazione nazionale a Roma ebbe l’infelice idea di fare quel decreto col quale i vecchi fascisti – anche le persone che non avevano nulla da rimproverarsi – si cacciavano come avanzi, reietti dalla società, quando si privavano del diritto di voto, quando si epuravano, quando si licenziavano e si mettevano sul lastrico padri di famiglia, è chiaro che sorgesse un senso di ribellione; ma questo è avvenuto in ogni cambiamento di regime. Però nessun regime ha preso le misure che abbiamo prese noi. Perché, signori miei, quando si è instaurata la monarchia dopo l’impero napoleonico, Luigi XVIII, non solo non ha fatto niente di male, ma ha dato pure una pensione a dei regicidi! Ora, non vi è esempio delle esagerazioni che abbiamo fatte noi. (Interruzioni – Commenti).

Comunque, c’è una questione: io, signori, credo che anche i mezzi più severi di repressione possano essere tollerati, ma quello che io combatto sono i provvedimenti di polizia, perché la polizia è uno strumento di dittatura. La polizia serve a tutto, quando la polizia non sia altro che la maschera del Ministro, che fa da dittatore.

Io vi faccio osservare che quando fu adottato il confino dal fascismo, quella era una formula non dico accettabile, ma tollerabile, e fu presentata al Parlamento, al Senato e alla Camera, ed al Senato ebbe 43 voti contrari e al Parlamento otto, perché già c’era «l’Aventino» che aveva abbandonato l’Aula.

Ebbene, dopo pochi mesi che la legge era stata approvata, questa ebbe una applicazione veramente vergognosa, ed io ne posso parlare con cognizione di causa e per fatto personale: io non avevo fatto nulla, fui chiamato di fronte ad una Commissione composta come oggi è composta; mi si domandò se io ero fascista o antifascista. Io dissi: antifascista.

La prima sanzione fu un anno di ammonizione, e fin lì niente di male. Poi, circondato da guardie e carabinieri, ho cominciato a vivere nella mia casetta; ma successivamente fui chiamato per tre giorni in questura; poi, inviato per quaranta giorni a Regina Coeli senza essere interrogato; poi, ebbi cinque anni di confino; finisco il confino e ritorno a casa, ma, non avevo nemmeno disfatto le valigie, che ebbi un’altra ammonizione, e tutto questo sotto una legge che era mitissima e molto meno grave di quel famoso decreto Bonomi del 1944.

Ora, è contro questi pericoli che io parlo; e guardate che io non dico che la polizia sia degna di biasimo e faccia questo per malvolere, ma la polizia non può fare il processo; la polizia fonda le sue decisioni sulle informazioni. Sono gli informatori, i confidenti, che possono dire quello che vogliono, perché non c’è nessun tribunale che li possa condannare per falsa testimonianza; per cui se domani uno dice che Bencivenga, che poi sarei io, cospira contro la democrazia, questo basta per impacchettarmi e portarmi via. (Commenti).

Ma, onorevole Presidente, lei pure ha passato i guai che abbiamo passato tutti noi; e quindi noi dobbiamo togliere dalle mani della polizia la possibilità di colpire a suo piacimento. Mettete cinquanta anni di galera, mettete la fucilazione, ma non applicate questo sistema di polizia, perché sono i giudici quelli che debbono condannare. Io ho passato cinque anni di confino e qui c’è qualcuno che ne ha passati anche di più. Perciò l’esperienza deve servire a qualche cosa. La polizia è uno strumento di tirannia e deve essere, quindi, ridotta solo a vigilare e a controllare, in base a leggi, l’attività materiale; ma chi deve condannare sono i giudici e non la polizia.

Questo è quello che volevo dire, il resto non ha nessuna importanza e si può trascurare. Ma io vi invito a leggere gli articoli 1 e 3 di questa legge, che oggi sono stati richiamati in vigore. Con questi articoli si può colpire chiunque di noi, anche un antifascista: solo che ad uno salti in testa di girare col frustino e gli stivali, può èssere accusato di neo-fascismo ed inviato al confino!

In queste condizioni dobbiamo portare il popolo alle urne? No, onorevole Ministrò: siamo esperti noi. Lei è troppo giovane; ma noi abbiamo fatto tutta una esperienza. Perciò io protesto; ma, naturalmente, non c’è niente da fare, perché oggi siamo su per giù con una dittatura come quella che è andata via.

(Commenti – Proteste al centro).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Vorrei ancora dire due parole all’onorevole Bencivenga, affinché non resti l’impressione che, nell’infliggere il confino di polizia, sia la polizia arbitra e sovrana.

C’è una disposizione di legge, la quale stabilisce i casi tassativi e precisi in cui si può essere mandati al confino: questo è detto nella legge, e non è la polizia che ha stabilito questo. La polizia non può mandare nessuno al confino all’infuori delle persone che vengono trovate nelle condizioni previste dalla legge. Chi decide? Non la polizia, ma una commissione in cui sono presenti anche i rappresentanti della Magistratura, perché fa parte della commissione in magistrato.

Quindi, non vedo assolutamente perché si debba parlare di arbitrio della polizia o del Ministro dell’interno, o peggio di dittatura del Ministro dell’interno, in questo caso.

Sono pienamente d’accordo con l’onorevole Bencivenga che una legge di questo genere nelle mani di un governo dittatoriale può mandare al confino anche autentici democratici. Sono d’accordo quindi e, in linea di principio, sono contro tutte le leggi che possono potenzialmente servire gli arbitri di un governo dittatoriale. Ma questa legge oggi viene applicata in un regime di democrazia da un governo democratico, con l’esistenza di un Parlamento. Il giorno in cui queste condizioni non esistessero più, non avremmo nessuna garanzia di libertà né con questa, né con qualsiasi altra legge.

Ma finché il Parlamento esiste, finché la libertà di stampa sarà una realtà concreta, finché il controllo del Paese sarà vigile sugli atti del Governo, non deve esservi nessun timore o preoccupazione che di questa legge qualcuno si servirà per commettere arbitri o attentati.

D’altronde, l’applicazione concreta di questa legge ha dimostrato come il Governo sia conscio della sua responsabilità e, soprattutto, come il Governo intenda dimostrare il suo spirito democratico.

PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni dell’onorevole Lettieri, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se non ritenga di disporre – in considerazione del continuo depauperamento della terra delle colline, provocato dalle piogge e dalle annuali e superficiali coltivazioni – che sulle colline, specie a forte pendio, siano sospese le coltivazioni superficiali, sia impedito il depauperamento della terra (muratura, palizzate) e sia favorita in ogni modo la piantagione di alberi a profonde e fitte radici», e allo stesso Ministro, «per conoscere se non creda opportuno favorire ed incoraggiare l’allevamento del baco da seta e l’allevamento delle api, per incrementare la produzione e la ricchezza nazionale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Rispondo per conto del Ministro dell’agricoltura, che è indisposto.

Per quanto riguarda la prima interrogazione, non occorre alcuna nuova disposizione di legge, in quanto l’attuale legislazione permette di intervenire con l’istituto del vincolo idrogeologico di cui alla legge del 30 dicembre 1923, quando i terreni di qualsiasi natura e destinazione – quindi anche quelli di collina, cui si riferisce l’interrogazione – per effetto di forme di utilizzazione contrastanti con la loro buona conservazione, possano, con danno pubblico, subire denudazione, perdere la stabilità o turbare il regime delle acque.        

Per quanto riguarda poi le piantagioni, vi sono numerose provvidenze legislative che vanno dalla semplice concessione gratuita di semi e piantine alla direzione tecnica ed alla concessione di contributi da parte dello Stato.

Per quanto concerne la seconda interrogazione, osservo che la bachicoltura in Italia rappresenta indubbiamente un notevole cespite di entrata, il quale può essere valutato a circa 10 miliardi come valore dei bozzoli. Essa offre inoltre lavoro a numerose maestranze industriali della trattura della seta (filanda), della tintura, tessitura, ecc.

La produzione dei bozzoli, realizzata quest’anno, è di circa 25 milioni di chilogrammi, ma in passato si sono raggiunti anche 40-50 milioni di chilogrammi.

Il patrimonio gelsicolo attualmente esistente – nonostante distruzioni effettuate in questi ultimi anni – consentirebbe di poter aumentare sensibilmente la produzione, ma i bassi prezzi dei bozzoli, in rapporto a quelli degli altri prodotti agricoli, non invogliano gli agricoltori ad incrementare gli allevamenti dei bachi.

Tali prezzi (lire 200-300 al chilogrammo) inadeguati al costo di produzione dei bozzoli, sono la conseguenza della scarsa richiesta della nostra seta sui mercati esteri, seta che veniva specialmente esportata negli Stati Uniti.

Il Ministero dell’agricoltura è convinto che occorre intervenire tempestivamente per evitare il collasso della bachicoltura, che potrebbe essere provocato dall’attuale situazione del mercato mondiale delle sete. Ciò perché è ben noto, per l’esperienza fatta in passato, che dopo una riduzione, per qualche anno, degli allevamenti, difficile riesce, se non impossibile, ritornare sulle posizioni perdute, anche quando mutino in meglio le condizioni del mercato. Il Ministero perciò si è interessato quest’anno per assicurare l’aumentato stanziamento per il corrente esercizio finanziario (2 milioni) – stanziamento inadeguato agli intendimenti che si prefigge di raggiungere se si pensa all’attuale svalutazione della moneta –, oltre alla diffusione di materiale apistico a prezzo di favore, come già fatto per lo scorso anno e che ha dato notevoli risultati, ha inoltre in animo di curare particolarmente l’assistenza sanitaria agli apiari, affinché in ogni momento si sia in grado di soffocare eventuali focolari di peste americana ed europea od altre malattie, ed ha in animo, altresì, di indire dei corsi di apicoltura, in quelle provincie ove questa si distingua per la sua importanza al fine di avere degli allevamenti razionali conformi ai più moderni accorgimenti che vengono oggi praticati.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LETTIERI Sono sodisfatto per ciò che riguarda la bachicoltura e l’apicoltura. Però raccomanderei al Ministro d’istituire a Vallo di Lucania, capoluogo del Cilento, un istituto per la diffusione dell’una e dell’altra coltura.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Riferirò al Ministro dell’agricoltura e delle foreste.

LETTIERI. È naturale: è una raccomandazione. Una volta il Cilento era un terreno dove il baco da seta rappresentava un’industria fiorente e redditizia.

Per la prima interrogazione, invece, non sono sodisfatto. Ho letto ieri un magnifico articolo del Ministro Segni sul Domani d’Italia, articolo scritto dopo una visita fatta alla Basilicata, alle Calabrie, alla Puglia. In dette regioni il Ministro ha visto – egli scrive – le terrificanti argille della Basilicata; ha visto i danni incalcolabili prodotti dall’acqua piovana; ha visto la miseria; ha visto anche che intere popolazioni hanno dovuto lasciare i loro paesi, causa la miseria, e trasferirsi altrove. Noi del Cilento abbiamo colline e terreni somiglianti a quelli della Basilicata, dove v’è la stessa miseria, dove vi sono gli stessi bisogni. Il nostro povero contadino, pur di fare un po’ di grano per la propria famiglia, coltiva la terra sulle colline ripidissime, dove terra non ve n’è, o ve n’è per pochi centimetri.

I contadini scorticano quelle colline, e le piogge autunnali portano via la terra, le semenze ed i frutti degli alberi. In molti paesi non v’è più la terra; v’è l’argilla, v’è la pietra. E continuando così, fra poche diecine di anni, vedremo delle zone assolutamente spoglie e depauperate della terra, nude di alberi; su queste colline vi sono alberi tisici, invecchiati, con produzione scarsa e di cattiva qualità.

Ora, occorre arginare l’acqua piovana; occorre convogliarla. E questo lavoro non lo può fare il privato: fallirebbe. Ci vogliono lavori colossali da fare a monte. E occorrerebbe, secondo me, impedire la coltura del grano in queste zone ripide. Molte volte il povero contadino, dopo un anno di lavoro, non raccoglie neppure la quantità di semenza che ha seminato; occorrerebbe assolutamente favorire la coltura arborea. Gli alberi sulle colline con le loro radici trattengono la terra e la terra, quando non è zappata, non viene spostata facilmente dalle piogge. Secondo me, bisognerebbe incrementare assolutamente la coltura arborea, anche per sodisfare alle esigenze della gente: con la vendita dei frutti degli alberi il contadino potrebbe comperare il pane, mentre oggi, dopo un lavoro di mesi e mesi, molte volte non ha neppure il pane per sfamarsi.

Quindi vorrei raccomandare al Ministro – rifacendomi all’articolo, cui ho accennato, scritto con fede, con nobiltà di sentimenti, con cuore, con promessa di aiuti immediati, di ricordarsi che oltre alla Basilicata, alle Calabrie, ecc., v’è anche il Cilento, che è la zona più disagiata della provincia di Salerno. Vorrei raccomandare al Ministro di non fermare la sua attenzione solo sulle zone ricche di Salerno, Battipaglia, Pontecagnano, Nocera, ecc., che non hanno bisogno della visita degli uomini di Governo, ma visitare le zone disagiate, come il mio povero Cilento.

Occorre inoltre iniziare la bonifica dei torrenti principali ed io mi riferisco specialmente all’Alento che prende origine dal Comune di Stio e sbocca a mare nei pressi di Casal Velino dopo un percorso di parecchie decine di chilometri. Tale torrente colmo d’acqua nei mesi invernali con un letto largo in alcune zone molte centinaia di metri è causa di danni incalcolabili sui terreni coltivati che ne formano i limiti nel suo lungo cammino. Si potrebbe ridurne il letto a pochi metri, renderne il percorso tortuoso per attenuare l’impeto delle acque e lateralmente a tale corso ristretto sorgerebbero evidentemente immensi piani di terra fertile che in parte compenserebbero il depauperamento della terra delle colline, ove continuando l’attuale errato sistema di coltura del grano presto, fra poche diecine di anni, la terrà scomparirà del tutto e la miseria più nera piomberà sugli attuali proprietari.

Prego il Ministro d’incoraggiare la coltura arborea. Faccia piantare alberi sulle montagne, sulle colline, sulle vie comunali, provinciali, statali, pedonali, mulattiere, lungo i torrenti, lungo i fiumi. Avremo milioni e milioni di piante più di quelle esistenti. Si cooperi l’onorevole Ministro perché arrivino facilmente ai nostri laboriosi contadini semenze scelte, piante selezionate, tecnici agrari e quant’altro occorre perché la terra dia prodotti abbondanti e di qualità. Incoraggi e promuova la industrializzazione dei prodotti della terra e degli alberi. Faccia utilizzare le acque che oggi corrono inerti al mare. Smorzi la sete inesauribile del fisco a carico dei piccoli e disagiati proprietari. Crei l’agronomo condotto. Consigli l’allevamento delle api, del baco da seta, degli animali domestici. Premi i volenterosi, vada personalmente a visitare le zone più abbandonate dell’Italia meridionale, come già sta praticando.

Vada, lei Ministro, dove v’è bisogno di aiuto immediato, dove v’è la fame, dove v’è bisogno del medico illuminato, sapiente e di cuore. Vada lei in questi posti, onorevole Ministro, e vedrà che la sua visita sarà salutare, sarà efficace, sarà risanatrice.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Arata, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se non ritenga opportuno che, a differenza della condotta negativa tenuta su questo punto dal Governo negli anni decorsi, siano disposti sin d’ora, e comunque prima della semina, opportuni piani e provvidenze diretti ad ottenere il massimo incremento della prossima campagna granaria, evitandosi così che, nella completa oscurità circa gli orientamenti e i disegni del Governo, essa abbia ancora a svolgersi con criteri e piani di mera convenienza aziendale e personale, sovente contrastanti col superiore interesse e le esigenze della collettività».

Non essendo presente l’onorevole Arata s’intende che vi abbia rinunziato.

Seguono due interrogazioni dell’onorevole Scotti Alessandro:

al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per la prossima annata agraria 1947-48 in merito agli ammassi obbligatori dei cereali e se ritenga di accedere alle generali richieste dei contadini, abolendo i detti ammassi che si sono dimostrati di grave onere per il bilancio dello Stato e di gravissimo peso per i produttori, non dando, d’altra parte, per risultato che una sensibile contrazione della produzione. L’interrogante fa presente che l’abolizione degli ammassi, sia pure sostituita in via provvisoria con quegli accorgimenti che potranno rivelarsi opportuni, consentirà di provvedere con maggiore sicurezza al sostentamento dei meno abbienti, specie addivenendosi alla somministrazione di una parte del salario o stipendio in natura, a cura ed a carico, naturalmente, dei datori di lavoro. Ricorda che, essendo imminenti i lavori preparatori per la semina, questa, nell’ipotesi della persistenza del regime di ammasso, si attuerebbe – dato lo stato d’animo diffuso nelle campagne – su scala ridottissima»;

al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se non ritenga opportuno soprassedere alla costituzione del Consorzio nazionale canapa, se pure con la sola partecipazione degli agricoltori, essendo tale provvedimento in contrasto con la volontà dei canapicoltori, i quali chiedono la libera disponibilità del loro prodotto. L’ammasso obbligatorio della canapa avrebbe quale risultato un’ulteriore riduzione di tale coltura, con grave danno dell’economia nazionale»».

Non essendo presente l’onorevole Scotti s’intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Giacchero, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se, vista la continua diminuzione delle superfici coltivate a grano e l’insufficienza delle assegnazioni di concimi chimici (circa 13 chilogrammi per ettaro), non ritenga di dovere urgentemente stabilire, prima degli inizi dei lavori di semina, il prezzo del grano per il futuro raccolto del 1948 e impegnarsi ad assegnare ad ogni comune ed a prezzo ragionevolmente proporzionale a quello del grano e tempestivamente un quantitativo sufficiente di concimi chimici».

Non essendo presente l’onorevole Giacchero, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione degli onorevoli Tremelloni, Segala e Ghidini, al Ministro delle finanze, «per conoscere quale fondamento di verità abbia la notizia, apparsa sui giornali, che in Sicilia è stata abolita la nominatività obbligatoria dei titoli azionari. E per sapere, nel caso in cui la notizia sia esatta, quale atteggiamento intende prendere il Governo».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per le finanze ha facoltà di rispondere.

MALVESTITI, Sottosegretario di Stato per le finanze. L’Assemblea regionale siciliana ha effettivamente approvato il testo della legge che abolisce la nominatività delle azioni delle nuove società, non delle vecchie.

La legge non è stata ancora pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Regione. Questa stessa legge è stata impugnata dal Commissario del Governo davanti all’Alta Corte, ai sensi dell’articolo 25 dello Statuto siciliano del 15 maggio 1946, n. 455.

Mi sembra opportuno leggere qualche considerazione dell’atto d’impugnativa:

«Si vorrebbe derogare ad una disposizione emanata nello interesse generale costituendo con le società siciliane di nuova formazione una situazione fiscale di privilegio che potrebbe attirare il risparmio in Sicilia, ma che potrebbe avere sensibili ripercussioni sul mercato nazionale.

«Ma al disopra della norma positiva sopra richiamata, sembra che la legge sia viziata per un principio generale, quello che la potestà legislativa regionale deve trovare un limite insuperabile nella giurisdizione territoriale. Si deve perciò considerare illegittima ogni attività normativa della Regione che venga a creare un duplice ordinamento giuridico nel restante territorio dello Stato».

L’atto d’impugnativa prosegue affermando che, nel caso in esame, i titoli al portatore dovrebbero avere circolazione anche fuori della Sicilia, in contrasto con le no norme vigenti; né a tale conseguenza si potrebbe ovviare con un controllo valutario fra l’Isola ed il continente, che impedisse il trasferimento di titoli al portatore perché tale controllo sarebbe impossibile. Queste le considerazioni dell’atto di impugnativa.

E poiché l’Alta Corte, come l’onorevole Tremelloni sa, non è in funzione perché non ne sono stati nominati ancora i membri dall’Assemblea Costituente, non ha potuto esaminare e discutere l’impugnativa e ne consegue che la legge stessa è rimasta sospesa.

Sono state richieste altre informazioni all’intendenza di finanza.

L’amministrazione finanziaria segue con interesse la questione perché, avuto riguardo ai fini tributari che con la nominatività obbligatoria si possono raggiungere, sia nei riflessi dell’imposta ordinaria che di quelle straordinarie, ritiene opportuno che non sia comunque infirmato il principio della nominatività obbligatoria dei titoli azionari in tutto il territorio nazionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Tremelloni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TREMELLONI. Ringrazio il Sottosegretario di Stato per le finanze per la risposta che mi ha fornito e mi dichiaro sodisfatto.

La mia interrogazione aveva appunto lo scopo di segnalare una notizia che era apparsa sui giornali e che aveva provocato un certo disappunto; aveva anche lo scopo di sottolineare alcuni segni, che vanno accentuandosi, di autarchia regionale economica. Essi rappresentano – a mio avviso – un regresso, quando lo spirito con cui i colleghi votarono per la Regione nella nostra Assemblea era tale da costituire – almeno a me pare – uno stimolo al progresso economico. La più ampia dimensione spaziale, nella soluzione dei problemi economici, ha una grande importanza; noi cadremmo in un mortale errore se volessimo procedere a ritroso, ed io mi auguro che i nostri amici siciliani sappiano per primi evitare questo allettevole ma pericoloso viottolo.

Il Governo, da parte sua, deve – a mio avviso – difendere una politica economica unitaria, deve cioè evitare che le aree depresse siano private del calore della cordiale collaborazione di tutti i cittadini e debbano sentire ragioni di autarchia nella mancanza di solidarietà da parte delle Regioni più favorite. Nell’economia del mondo – si è replicato spesso – non possono sussistere isole di prosperità nel mare della miseria; nell’economia italiana non dobbiamo consentire che questo ragionamento sia inapplicabile. Noi dobbiamo cercare che questo mare di miseria non permanga nel nostro Paese.

MALVESTITI, Sottosegretario di Stato per le finanze. Il Governo non può che essere d’accordo con le linee generali di politica economica delineate in questo momento dall’onorevole Tremelloni.

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni sono rinviate su richiesta dei Ministri interessati:

Miccolis, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per conoscere se risulta rispondente a verità quanto è stato pubblicato dal quotidiano Il Globo del 18 luglio 1947, secondo cui grano turco avariato per uso zootecnico viene venduto all’asta ad un prezzo più che raddoppiato, o quasi triplicato rispetto a quello di lire 1600-1900 corrisposto dagli ammassi agli agricoltori, i quali in genere sono nel tempo stesso allevatori ed acquirenti di mangimi. Se gli risulta che il fatto denunziato dalla stampa alla pubblica opinione si riferisce ad un caso eccezionale di speculazione, che a nessun privato sarebbe consentita, oppure ad un sistema instaurato dagli enti ammassatori, i quali per sottoprodotti, commisti a materiale estraneo di ogni natura fino al 90 per cento, richieggono prezzi di gran lunga superiori ai prodotti genuini. Se l’onorevole Ministro ritiene simile commercio, monopolistico ed esoso, lecito e capace di favorire la produzione di carni, grassi, latticini con conseguente contrazione di prezzi»;

Caso, al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere come intenda sistemare giuridicamente la posizione di alcuni insegnanti delle scuole di avviamento al lavoro, i quali, non essendo di ruolo, non godono dei benefici di legge pur prestando a volte per decenni il loro incondizionato servizio allo Stato; e se non ritenga opera di giustizia promuovere un decreto legislativo che parifichi agli altri funzionari statali il trattamento da farsi doverosamente agli insegnanti delle scuole di avviamento al lavoro»;

Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere le cause del grave disastro sulla linea ferroviaria Camigliatello-Cosenza, gestita dalla Società Calabro-Lucana, nel quale hanno incontrato la morte cinque padri di famiglia, e si lamentano numerosi feriti. Si chiede se sia consentito, su queste linee a forte pendenza, il movimento di automotrici, logorate dal tempo e dall’uso, e per giunta sottoposte quotidianamente ad un sovraccarico di viaggiatori. I quali non lasciano né meno libero – con evidente e continuo pericolo – lo spazio riservato al conducente, di cui limitano vigilanza e possibilità di movimento e di immediata e provvida manovra»;

Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere se non creda doveroso mettere in esercizio sull’elettro-treno Roma-Reggio Calabria lo stesso materiale ferroviario in uso sull’elettro-treno Roma-Milano, aggiungendovi, come in questo, qualche vettura di seconda classe. L’interrogante chiede ancora che venga concessa, soddisfacendo i voti delle popolazioni cosentine e catanzaresi, una vettura diretta sul diretto che parte da Roma alle ore 19.10»;

Monticelli, ai Ministri di grazia e giustizia e del lavoro e previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponde a verità quanto il giornale Il Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito al mancato versamento della somma di lire 342.300 da parte della cooperativa «La Rinascita», di Grosseto, che, incaricata dalla Sepral di provvedere alla distribuzione ai vari comuni della provincia di 163 quintali di riso sequestrato il 12 febbraio 1946 dalla squadra annonaria, ne versò il ricavato l’8 agosto 1947, cioè dopo oltre un anno e mezzo, quando già era stata presentata denunzia per appropriazione indebita alla Procura della Repubblica di Novara. Per conoscere altresì quali provvedimenti si intendono adottare, anche da parte del Ministro del lavoro, verso la suddetta cooperativa»;

Monticelli, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponda a verità quanto il giornale II Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito alla mancata distribuzione alle cooperative di consumo di 200 quintali di baccalà salinato, assegnato dall’Alto Commissariato per l’alimentazione alla Federazione provinciale delle cooperative di Grosseto, e da questa rivenduto, a prezzo notevolmente maggiorato, ad una ditta di Fucecchio. In caso affermativo, quali provvedimenti intende prendere il Ministro del lavoro verso la Federazione delle cooperative di Grosseto»;

Nobile, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere quale ingegnere sia stato designato, ed in base a quali criteri, per i lavori relativi ai beni immobiliari di proprietà dello Stato italiano in Varsavia».

È così esaurito lo svolgimento delle interrogazioni inscritte all’ordine del giorno.

Per alcune interrogazioni con carattere d’urgenza.

CIFALDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Desidererei pregarla, signor Presidente, di chiedere al Ministro dei lavori pubblici quando intenda rispondere ad una mia interrogazione del 14 settembre, con la quale si sollecitano provvedimenti a favore di moltissimi senzatetto di Benevento.

PRESIDENTE. Interesserò il Ministro competente.

PERLINGIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERLINGIERI. Analoga preghiera desidero rivolgere per quanto riguarda una mia interrogazione al Ministro dell’industria e al Ministro delle finanze, interrogazione posta all’ordine del giorno di alcune sedute or sono, ma la cui discussione fu rinviata d’accordo col Ministro. Vorrei pregare che venisse fissata nuovamente la data di discussione.

PRESIDENTE. Sta bene.

PERUGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERUGI. Analoga preghiera vorrei fare io nei riguardi di una interrogazione rivolta al Ministro delle finanze, interrogazione che doveva essere discussa alcuni giorni or sono e che fu rinviata perché il Ministro non aveva elementi disponibili.

PRESIDENTE. Sarà provveduto anche per la sua interrogazione.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Giorni fa presentai una interrogazione con carattere di urgenza, diretta ai Ministri del tesoro e delle finanze, sulle pensioni di guerra e i danneggiati civili. Mi si disse che sarebbe stata data urgente risposta.

MALVESTITI, Sottosegretario di Stato per le finanze. È il Ministro del tesoro che deve rispondere.

MACRELLI. Riguarda anche il Ministro delle finanze.

PRESIDENTE. Sarà provveduto anche per questa interrogazione, onorevole Macrelli.

La seduta termina alle 12.40.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 30 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXIX.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 30 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE BOSCO LUCARELLI

INDICE

Dimissioni:

Presidente

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Sulla validità della votazione di un emendamento:

Macrelli

Presidente

Fioretto

Manzini

Russo Perez

Codacci Pisanelli

Dominedò

Nobile

Calosso

Selvaggi

Verifica del numero legale:

Presidente

Presentazione di relazioni:

Di Giovanni

Presidente

Svolgimento di due interpellanze:

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Persico

Micheli

Morandi

Di Vittorio

Vanoni

Ferrari

Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale

Interrogazione con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Laconi

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Dimissioni.

PRESIDENTE. Comunico che mi è pervenuta dall’onorevole Martino Enrico la seguente lettera:

«Onorevole Signor Presidente dell’Assemblea Costituente,

Roma, 29 ottobre 1947

«Nella mia qualità di Ministro d’Italia a Belgrado, mi trovo nella impossibilità di svolgere degnamente il mio mandato di deputato all’Assemblea Costituente.

«Mi onoro pertanto rivolgermi all’Assemblea Costituente perché mi voglia dispensare dal mandato, rendendo così possibile al mio successore di svolgere le sue funzioni nell’interesse superiore del Paese.

«Nel lasciare l’onorato mandato rivolgo a Lei, onorevole Presidente, e ai colleghi tutti il mio cordiale saluto e i migliori auguri per l’alto compito cui sono stati chiamati dalla volontà popolare.

«Con ossequio.

«On. Enrico Martino».

Se non vi sono obiezioni pongo ai voti l’accettazione delle dimissioni dell’onorevole Martino Enrico.

(Sono accettate).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere in giudizio contro il deputato Laconi, per il reato di cui all’articolo 18 del testo unico della legge di pubblica sicurezza.

Sarà inviata alla Commissione competente.

Sulla validità della votazione di un emendamento.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Signor Presidente, onorevoli colleghi! Ci sia consentito di tornare con tutta serenità sulla votazione della seduta di stamani a proposito della Regione emiliana. Pur non intendendo risollevare eccezione alcuna per il computo dei voti fatta dalla Segreteria, dobbiamo tuttavia rilevare, in base alle stesse parole dell’illustre signor Presidente, che può essere obiettivamente posto in dubbio che l’Assemblea, al momento della votazione, avesse adeguata scienza dei presupposti e dell’oggetto della medesima.

Se così è, come sembra, si verifica l’ipotesi, già contemplata dalla prassi e dai trattati parlamentari, per cui se i deputati votanti riconoscono di avere per errore votato contro la propria intenzione, vien meno il presupposto stesso della validità di una deliberazione. Precedenti storici sorreggono questa tesi. Chiediamo pertanto che, in vista delle circostanze obiettive che abbiamo ora esposto, il Presidente sottoponga ancora la votazione alla volontà dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, l’onorevole Macrelli, in ordine all’esito della votazione eseguita stamani circa un emendamento presentato dall’onorevole Corbino, relativo alla elencazione delle Regioni storico-tradizionali contenuta nell’articolo 123 del progetto di Costituzione, ha rilevato che può essere avvenuto che la votazione si sia svolta in un momento nel quale non tutti quanti i membri dell’Assemblea presenti nell’Aula avevano pienamente afferrato il valore ed il significato della votazione stessa, ed ha chiesto che questa sia ripetuta.

È un problema che riguarda l’Assemblea la quale ha dato il voto e che, evidentemente, può o non può accettare la proposta e condividere le considerazioni dell’onorevole Macrelli.

FIORITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FIORITTO. Credo che sarebbe umiliante per l’Assemblea ritornare con mia motivazione simile sulla deliberazione già presa, e ritengo che sia pericolosissimo questo esempio che daremmo a noi stessi per l’avvenire della prassi parlamentare, perché si potrebbe sempre esporre il dubbio che l’Assemblea non abbia compreso l’oggetto ed il motivo della votazione, ed allora ogni votazione dovrebbe essere nuovamente sottoposta a riesame, e non ci sarebbe più quella garanzia di serietà e di sicurezza che deve accompagnare le decisioni di un’Assemblea legislativa.

MANZINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MANZINI. Mi permetto di appoggiare la tesi del collega Macrelli, perché, se apprezzo in tutto il suo valore morale e giuridico l’obiezione che è stata fatta alla sua proposta, e riconosco che il precedente può suscitare una preoccupazione comprensibile, tuttavia i modi coi quali si è svolta la votazione di stamani avvalorano pienamente la tesi proposta dall’onorevole Macrelli.

Come proponente di un emendamento, che è stato la causale forse di questa variazione, aggiungo che un gruppo di coloro che hanno votato stamani, per opinioni dichiarate nelle successive votazioni, non hanno afferrato appieno il significato di quella votazione, perché l’emendamento da noi presentato, cioè la modifica della congiunzione Emilia e Romagna in Emilia-Romagna voleva riaffermare l’unità della Regione. Ma nella differenziazione nominale, per innegabile carattere di tradizione, di storia, di lingua, alcuni di coloro che avevano aderito a questo emendamento, il cui significato è motivo di ogni equivoco, hanno aderito perché non hanno colto tutta l’importanza della proposta dell’onorevole Corbino.

Quindi, siccome si tratta di una votazione importante, a vasta ripercussione e che può profondamente incidere sullo stato d’animo delle nostre popolazioni, e poiché la stessa mozione approvata ieri sera, ove si parla di Regioni storico-tradizionali, è in perfetta coerenza con la rivendicazione del nome Romagna, ormai consacrato dall’uso, io penso che la motivazione sia perfettamente fondata e che essa, anche per testimonianza individuabile di coloro che hanno votato, possa essere accolta, ponendo di nuovo in votazione l’argomento.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Io sono fra coloro che si dolgono che il nome di Romagna venga cancellato dall’elenco delle Regioni; però mi associo alle considerazioni che sono state fatte testé a questo riguardo e ritengo assurda la proposta dell’onorevole Macrelli. Io non conosco i precedenti parlamentari, ma dubito che ci possano essere precedenti favorevoli alla tesi Macrelli. Egli dice che è da supporre che parecchi di coloro che hanno votato, hanno votato senza sapere che cosa votassero. Ora questo mi sembra ingiurioso per l’Assemblea.

MACRELLI. Non è esatto.

RUSSO PEREZ. Comunque io dico che un galantuomo qualsiasi, se non sa che cosa vota, non deve votare. Per non costituire un pericoloso precedente, io propongo che l’Assemblea respinga la proposta dell’onorevole Macrelli.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Si è detto che sarebbe un pericoloso precedente, ma, come l’onorevole Presidente ha avuto più volte occasione di dire, quando l’Assemblea abbia deliberato sopra una determinata decisione, non è detto che vi sia una vera e propria preclusione. È stato più volte affermato che l’Assemblea può tornare sopra le sue deliberazioni.

Per dimostrare tale tesi, si potrebbero portare molti elementi di carattere giuridico, ma io faccio soltanto presente che, come quando si vota una legge e la si è approvata articolo per articolo, tuttavia la si può anche respingere nella votazione finale a scrutinio segreto; così non è detto che, quando questa Assemblea abbia deliberato, la sua deliberazione le impedisca di tornare su di essa, ove lo creda.

Per quanto riguarda la legislazione, è noto che si può sempre abrogare la legge, e come la si può abrogare dopo averla emanata, così si può ritornare sulle parti di essa già deliberate. Per queste ragioni ritengo che, anche dal punto di vista strettamente giuridico, non ci sia nulla da obiettare. Senza considerare poi che non mancano i precedenti parlamentari, dai quali è facile desumere che le Assemblee legislative hanno più volte usato la facoltà di ritornare sulle proprie deliberazioni precedenti, pure nel corso della discussione relativa a un medesimo progetto di legge.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Signor Presidente, onorevoli colleghi, personalmente debbo dissentire dal collega che mi ha preceduto, e più esattamente dalle premesse che lo hanno ispirato, in quanto sono il primo a volermi di regola inchinare ad una votazione già verificatasi, con tutte le conseguenze giuridiche e politiche che ad essa si collegano in via di principio.

Ma se, in via di eccezione, vedessi ricorrere delle circostanze straordinarie di carattere obiettivo, le quali possano sorreggere l’ipotesi di una non sicura validità della precedente deliberazione, evidentemente noi ci muoveremmo su un diverso terreno.

A me pare che le circostanze straordinarie, le quali eventualmente possono dare corpo a questa eccezione rispetto alla regola, e quindi non costituirebbero alcun pericolo di precedente, in quanto perciò stesso riaffermerebbero il principio della validità vincolante e preclusiva di ogni deliberazione valida, siano le seguenti.

Primo: il fatto dell’immediata reazione pubblica in Aula da parte dell’onorevole Macrelli, prima ancora che si passasse ad altri argomenti e che, in un certo senso, si formasse cosa giudicata sulla decisione avvenuta, quando ancora sussisteva invariata la composizione dei deputati presenti e votanti.

È vero che l’onorevole Macrelli ha motivato in base al dubbio sull’accertamento dei voti, dubbio che cade dinnanzi all’accertamento formale del Presidente. Ma è altrettanto vero – ed ecco il secondo elemento obiettivo del problema – che tempestivamente fu allora prospettata alla Presidenza l’eventualità che l’argomento non dovesse essere quello dell’inesatto computo, bensì quello della non piena scienza e coscienza dell’Assemblea nel momento della votazione. Mi si dirà che tutto ciò non si confà al prestigio della deliberazione di un’Assemblea. Ed io a ciò sottoscriverò, normalmente, senza però escludere che, eccezionalmente, possa ben verificarsi il caso. E, sempre che eccezionalmente il fatto avvenga, esso non può non tradursi in un difetto nei presupposti della deliberazione, difetto che ne inficia la validità e che determina da parte nostra il diritto e il dovere di ritornare nel merito.

In terzo luogo, è da considerare che i presentatori degli stessi emendamenti, che al momento della discussione sembravano porsi in antitesi con l’argomento che ha determinato la votazione de quo, hanno testé parlato per chiarire che non essi intendevano che l’emendamento proposto potesse determinare il conflitto di cui parliamo.

Io mi permetto obiettivamente, e con estrema serenità di prospettare all’Assemblea questo triplice ordine di circostanze, in aderenza alle quali ritengo che potremmo deferire con piena tranquillità alla maggioranza della volontà assembleare il quesito sulla riproponibilità o meno della votazione. (Commenti – Approvazioni).

Una voce a destra. Sofisma!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, poiché si sono manifestate opinioni contrarie sull’argomento, è evidente che questa non può essere una questione da risolversi direttamente dalla Presidenza, ovvero con la consueta formula: «Poiché non si sono sollevate obiezioni, si accede alla proposta».

Desidero precisare che si è detto da una parte e dall’altra che precedenti storici esistono o non esistono; in effetti, si sono verificati episodi di questa natura, sia durante i lavori della Camera, come durante i lavori del Senato e, precisamente, in alcune occasioni nelle quali – per il fatto che, appunto, a votazione già proclamata, alcuni membri delle due Assemblee hanno detto o fatto comprendere che non avevano partecipato alla votazione con piena conoscenza della materia su cui si votava – i Presidenti di quelle due Assemblee hanno ritenuto di poter procedere nuovamente alla votazione.

Evidentemente, occorre che vi siano manifestazioni di questo genere. L’onorevole Macrelli ci ha detto che, dopo la votazione avvenuta, un certo numero di colleghi si è, appunto, espresso in tal modo.

Questa è la situazione obiettiva.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Chiedo all’onorevole Presidente se risulti dai precedenti, come penso, che nei casi invocati, la richiesta di una nuova votazione sia stata fatta immediatamente dopo il voto, nella stessa seduta. Ci troviamo ora in un’altra seduta. Pensi l’Assemblea cosa potrebbe accadere domani: che un’Assemblea, che abbia votato una determinata proposta in un determinato senso, in un’altra seduta, voti la stessa proposta, in modo diverso: ma è assurdo!

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, a questo punto è l’Assemblea che deve decidere. Vi è dunque una proposta dell’onorevole Macrelli di ripetere la votazione eseguita stamane in relazione all’emendamento dell’onorevole Corbino, inteso a ridurre alla semplice formula «Emilia» la formula del testo della Commissione «Emilia e Romagna».

L’onorevole Macrelli appoggia tale sua proposta con il fatto che una parte dei membri dell’Assemblea, i quali hanno partecipato alla votazione, hanno successivamente dichiarato che essi avevano dato il loro voto senza aver bene afferrato l’oggetto della votazione stessa.

FIORITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FIORITTO. Un solo rilievo, onorevole Presidente: i diritti dei deputati assenti, di quelli cioè che hanno votato formando la maggioranza nella precedente seduta, ma che non sono più presenti ora a questa seconda votazione che si vorrebbe fare, chi può tutelarli con questo sistema? (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Fioritto, a questa sua osservazione, non posso se non rispondere una cosa: ogni decisione dell’Assemblea ha il presupposto che tutti i membri dell’Assemblea, quindi anche gli assenti, accettano in ogni determinato momento le decisioni dell’Assemblea stessa, le quali impegnano gli assenti allo stesso modo dei presenti. (Approvazioni).

Pongo pertanto in votazione la proposta dell’onorevole Macrelli di procedere alla ripetizione della votazione sull’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Corbino, di cui ho or ora ricordato il testo.

(Dopo prova e controprova, la proposta è approvata).

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ, lo protesto solennemente contro questo precedente, e mi dispiace che sia stato il nostro Presidente a istituirlo!

PRESIDENTE. È l’Assemblea che l’ha istituito.

RUSSO PEREZ. Lei l’ha proposto. Una legge approvata oggi sarà bocciata domani. (Rumori). Se si è sbagliato, si riconosca l’errore e basta!

 PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, sulla base della decisione presa dall’Assemblea nell’attuale votazione, procediamo alla nuova votazione dell’emendamento dell’onorevole Corbino.

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevole Presidente, penso che, prima di procedere a qualunque altra votazione, abbiamo l’obbligo di accertare in modo preciso che cosa dicono in proposito le pubblicazioni statistiche ufficiali delle quali si fa menzione nell’ordine del giorno approvato questa mattina. Mi pare che questa sia la stessa pregiudiziale che aveva avanzato l’onorevole Corbino.

A me pare che la votazione di stamane non avrebbe dovuto nemmeno aver luogo, per non correre il rischio di mettersi in contraddizione con una votazione precedente. Per non ripetere l’errore bisogna ora accertarsi di ciò che dicono le statistiche ufficiali. Se in esse si parla della Romagna, si potrà tornare sulla deliberazione presa, onde eliminare la contradizione fra le due deliberazioni dell’Assemblea. Altrimenti, a mio avviso, non si può tornare su una decisione già presa.

CALOSSO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CALOSSO. Di questo piccolo problema – in cui dovrebbe essere facile andare d’accordo – mi sono occupato quando ero Commissario della «Dante», e quindi c’erano questi problemi linguistici di mezzo, ed ho notato che il fascismo (voi lo sapete) ha distrutto i nomi storici di diverse città e di diversi paesi. E mi ero trovato sorpreso nel vedere che Castrogiovanni, paese con tutta una sua storia, principale fortezza siciliana, aveva avuto il suo nome distrutto, mangiato, per metterci al suo posto una parola stranamente archeologica che nessuno conosceva in Italia. E così il fascismo ha fatto anche a Roma, dove ha fatto di tutto per distruggere il senso della terza Roma moderna per metterci dei ruderi, come ha fatto a Borgo San Donnino.

Ora questo si fa di solito nei paesi coloniali. Ma se domani, supponiamo, a Londra (dove studiano il latino) venisse in mente a qualcuno di chiamare Londra Londinium, ci sarebbe una sollevazione generale. E così avverrebbe se si tentasse di chiamare Torino Augusta Taurinorum!

Ora l’Emilia, se guardiamo bene, come parola, viene dall’antica Roma soltanto, ed è passata nei manuali scolastici dagli ultimi 60-70 anni.

Non è mai esistita. Prima del 1870, diciamo così, nel nostro Risorgimento non esisteva questa parola. Emilia. C’erano allora i Ducati e la Romagna, paese storico che ha tutti i numeri per essere altamente caro agli italiani. Dante stesso, che chiama bastardi i romagnoli, li chiama tuttavia romagnoli. Non c’è che dire. (Si ride).

Ora noi non possiamo cancellare un nome millenario, storico, dantesco, per mettere un nome, Emilia, che, in fondo, è un po’ archeologico, benché le scuole elementari lo abbiano fatto passare negli ultimi 50-60 anni.

È un senso di italianità elementare. Mi pare che non sia una cosa bella togliere la parola Romagna per metterne una, in fondo, fittizia. Mi sembra che su questo dovremmo andare tutti d’accordo. (Applausi).

PRESIDENTE. Procediamo dunque alla votazione, onorevoli colleghi. Vi è una proposta di emendamento dell’onorevole Corbino, come bene ricordano, di sostituire all’articolo 123 il termine «Emilia e Romagna» con l’altro: «Emilia».

Comunico che è stata chiesta la verifica del numero legale dagli onorevoli Buonocore, Benedettini, Mastrojanni, Cannizzo, Mazza, Condorelli, Miccolis, Pat, Russo Perez, Colitto, Corsini, Bencivenga, Bergamini, Rodi, Coppa.

Verifica del numero legale.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Segretario a fare la chiama per la verifica del numero legale.

COVELLI, Segretario, fa la chiama.

(Segue la chiama).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la chiama. Prego gli onorevoli segretari di fare il computo dei presenti.

(Gli onorevoli segretari fanno il computo dei presenti).

Comunico che l’Assemblea è in numero legale.

Sono presenti:

Amadei – Amendola – Andreotti – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bastianetto – Bazoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini –Bernamonti – Bernardi – Bertola – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bolognesi –Bonino – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bordon – Bosco Lucarelli – Bovetti – Braschi – Bruni – Bucci – Buffoni Francesco – Bulloni Pietro – Buonocore.

Cacciatore – Caccuri – Calamandrei – Caldera – Calosso – Camangi – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carignani – Caso – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chiarini – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombo Emilio – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corsanego – Corsi – Corsini – Cosattini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

De Caro Gerardo – De Gasperi – Della Seta – De Maria – De Michelis Paolo – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Giovanni – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fantoni – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Foa – Fogagnolo – Foresi –Fornara – Fuschini.

Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gatta – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Giacchero – Giacometti – Giolitti – Giua – Gonella – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grieco – Gronchi – Guariento – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Iotti Nilde.

Jervolino.

Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Leone Francesco – Li Causi – Lizzadri – Lombardi Carlo – Longhena – Longo – Lozza – Lussu.

Macrelli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Manzini – Marazza – Marchesi – Marconi – Martinelli – Marzarotto – Massini – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Mazza – Mazzoni – Meda Luigi – Mezzadra – Miccolis – Minella Angiola – Molinelli – Momigliano – Montagnana Rita – Monterisi – Moranino – Morelli Luigi – Morini – Moro – Mortati – Murgia – Musolino – Musotto.

Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Novella – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Giuliano – Pollastrelli – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pellegrini – Perassi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignatari – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Raimondi – Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggeri Luigi – Ruini – Russo Perez.

Saccenti – Saggin – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Santi – Scarpa – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Selvaggi – Sicignano – Simonini – Spallicci – Spataro – Stampacchia – Storchi.

Tambroni Armaroli – Tega – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tonello – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi.

Uberti.

Valenti – Vanoni – Vernocchi – Viale – Vicentini – Villani – Vischioni.

Zaccagnini – Zuccarini.

Sono in congedo:

Angelucci.

Bertone.

Cairo – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Cavallari.

Dozza.

Gasparotto.

Jacini.

Porzio.

Ravagnan – Romita – Rumor.

Sardiello

Tosato.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi! Voi avete assistito oggi alla discussione su una mia proposta, attorno alla quale si sono espressi oratori di varie parti. Non solo di fronte a voi, ma soprattutto negli ambulacri della Camera si è accennato a qualche cosa di grave e di inevitabile, ed io mi permetto di richiamare su ciò l’attenzione dell’Assemblea Costituente. Si è detto cioè che questo sarebbe stato un precedente pericoloso per la vita dell’Assemblea, per le manifestazioni della volontà dell’Assemblea; facili, quindi, le speculazioni, particolarmente di ordine politico, in un momento delicato come quello che sta attraversando il Paese. Io intendo rispondere subito a questo proposito. I colleghi che erano presenti stamane debbono ricordare che io ho espresso immediatamente non la mia protesta, ma il mio rilievo per la votazione dell’Assemblea sulla Regione emiliana, ed ho detto immediatamente che si trattava soltanto di riesaminare il metodo della votazione, senza però con questo creare un precedente, perché come vecchio parlamentare e come uomo di legge conosco il significato di certi atti e di certe deliberazioni. Io potrei dichiararmi, e mi dichiaro lieto dei risultati della votazione. In fondo, l’Assemblea Costituente oggi è venuta incontro a quelle che erano state già le proposte della Commissione dei Settantacinque, a quelli che erano i nostri voti i nostri desideri che rispondevano ai voti e ai desideri della popolazione di Romagna. Si è creduto di cancellare con una votazione un po’ strana – la definirò soltanto così – la storia di una. Regione che ha non soltanto un nome, ma una tradizione, costumi, metodi di vita, affermazioni in ogni campo dell’attività umana, conosciuta non soltanto perché l’ha ricordata Dante, non soltanto perché l’ha ricordata Machiavelli, ma per quel contributo magnifico che ha dato, in ogni momento, per tutte le cause di giustizia e di libertà (Commenti). Lo so che quando si parla di Romagna voi ricordate l’uomo che definì sorda e grigia l’Aula nella quale noi oggi parliamo come rappresentanti del popolo e della Repubblica italiana; però vorrei ricordare a voi, all’Italia che ci ascolta fuori di qui, che l’innominato non è creatura dell’animo e del pensiero di Romagna, ma si è fatto altrove, si è educato altrove. (Commenti).

Comunque, onorevoli colleghi, ho accettato con lieto animo le vostre decisioni e la vostra votazione. Ma poiché non intendiamo che il fatto costituisca peraltro motivo di speculazione per infirmare quelle che sono state le delibere di questa Assemblea, dichiaro di ritirare la mia proposta e la trasformo in un ordine del giorno, che è un invito alla Commissione di coordinamento a volere, se è possibile, e se costituzionalmente è aderente alla realtà, allo spirito ed alla parola del mandato che abbiamo, in sede di revisione formale, determinare i nomi delle Regioni, tenendo conto delle denominazioni storico-tradizionali.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Per quanto riguarda la sostanza, sono d’accordo con l’onorevole Macrelli e sarei lieto che il voto espresso per la nobile Regione romagnola venisse accolto secondo la proposta da lui fatta; ma per la forma non posso far passare inosservato quello che è accaduto. Ciò che ha detto l’onorevole Macrelli aggrava la situazione. Egli ha detto che sin da questa mattina egli osservò che, a suo giudizio, la votazione poteva essere non regolare. Ne do atto; ma a questo suo rilievo la Presidenza dell’Assemblea rispose che il computo era stato ben fatto e che, a giudizio del Presidente e degli scrutatori, la differenza era di ben dieci voti. I deputati hanno ascoltato queste dichiarazioni e da questo rilievo della Presidenza sono stati ancora di più richiamati a comprendere l’importanza del voto dato.

Per conseguenza si sarebbe istituito un precedente molto pericoloso. Io trovo, quindi, che la nuova proposta dell’onorevole Macrelli esprime il segno della sua grande maturità parlamentare, ma osservo soltanto che egli lascia un po’ scoperta la Presidenza. (Commenti).

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Onorevole Presidente, io non entro in merito alla questione. Ma, riferendomi a quella pregiudiziale che io avevo poco fa affacciata, mi par necessario che il Comitato di coordinamento tenga presente l’ordine del giorno Targetti, che è stato approvato e che parla di Regioni storiche tradizionali secondo le pubblicazioni ufficiali statistiche.

Per mio conto, non avrei alcuna difficoltà a veder menzionata la Romagna a fianco dell’Emilia. Ma non vorrei che si creasse con ciò un precedente che potrebbe essere invocato da altre Regioni.

Domani potrebbe essere il Salento o la Daunia o la Peucezia a invocare un analogo trattamento. E perché si dovrebbe negarlo?

D’altra parte mi permetto comunicare all’Assemblea il risultato delle indagini che or ora ho fatto sulle pubblicazioni ufficiali statistiche. In esse mai si parla della Romagna, ma bensì esclusivamente di Emilia. Ho davanti a me l’annuario statistico italiano del 1942. Nell’elenco delle Regioni compare bensì il Molise accanto all’Abruzzo, non mai la Romagna a fianco dell’Emilia. Né mi sono accontentato di queste pubblicazioni recenti. Ecco l’annuario statistico ufficiale del 1878, ed anche qui si parla di Emilia e non di altro, e dell’Emilia si dà la superficie che comprende evidentemente anche la Romagna. Non saprei, quindi, come la Commissione di coordinamento potrebbe modificare la dizione di questa Regione, senza mettersi in aperta contradizione, dopo una votazione già presa dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Macrelli, Badini Confalonieri, Braschi, Reale Vito, Cosattini, Laconi, Fornara, De Mercurio, Spallicci, Vischioni, Pacciardi, hanno presentato la seguente proposta:

«L’Assemblea Costituente invita la Commissione di coordinamento a volere, in sede di revisione formale, determinare i nomi delle Regioni, tenendo conto delle denominazioni storiche tradizionali».

L’onorevole Macrelli ha già dato la motivazione di questa sua proposta. Penso che si possa senz’altro metterla in votazione.

SELVAGGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SELVAGGI. Se è esatto quello che ha detto l’onorevole Nobile, cioè che dagli annuari statistici risulta che questa Regione è chiamata soltanto «Emilia», non vedo come possa, da parte della Commissione di coordinamento, essere presa in considerazione la proposta, giustissima, dell’onorevole Macrelli.

PRESIDENTE. Vuol dire che la Commissione, in sede di coordinamento, controllando le votazioni avvenute alle quali è impegnata, darà il valore che ritiene a questa raccomandazione.

SELVAGGI. Mi duole, allora, per l’onorevole Macrelli. (Commenti).

PRESIDENTE. Pongo in votazione la raccomandazione di cui ho dato testé lettura.

(È approvata).

Presentazione di relazioni.

DI GIOVANNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI GIOVANNI. Mi onoro di presentare le relazioni della Commissione per le autorizzazioni a procedere sulle tre seguenti domande del Ministro di grazia e giustizia, per autorizzazioni a procedere:

contro il deputato Colombi Arturo, per il reato di cui all’articolo 595, commi secondo e terzo, del Codice penale;

contro il deputato Cremaschi Olindo, per il reato di cui all’articolo 336 del Codice penale.

PRESIDENTE. Saranno stampate e distribuite.

Svolgimento di due interpellanze.

PRESIDENTE. Rendo noto che il Governo ha dichiarato di essere pronto alla discussione immediata dell’interpellanza presentata ieri sera dagli onorevoli Morandi ed altri.

Comunico che un’altra interpellanza di contenuto analogo, è stata presentata dagli onorevoli Di Vittorio, Bitossi, Roveda, Noce Teresa, Massini, Fiore, Bosi e Negro.

Ne do lettura:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’industria e commercio e del lavoro e previdenza sociale:

1°) per conoscere quali misure intende prendere il Governo per parare la grave situazione determinata nell’industria italiana – specialmente nel Nord – dalla minaccia di licenziamenti in massa di operai e di impiegati da parte degli industriali, alcuni dei quali tentano di rallentare o fermare artificialmente la produzione a fini speculativi, mentre l’interesse evidente del Paese è quello di sviluppare al massimo la produzione stessa;

2°) per sapere se il Governo intende realizzare finalmente la promessa legalizzazione ed estensione dei consigli di gestione, la cui funzione è particolarmente necessaria nella situazione presente, per accertare la effettiva capacità di sviluppo e di assorbimento di mano d’opera delle aziende, per stimolare la produzione ed impedirne ogni freno doloso, per assecondare la tendenza al ribasso dei prezzi ed estenderla ai prodotti industriali;

3°) per conoscere se il Governo intende attuare una politica di grandi lavori pubblici d’effettiva utilità, per attenuare la disoccupazione ed alleviare la miseria della grande massa dei disoccupati, la cui situazione si prospetta più tragica in vista dell’inverno».

Chiedo al Governo quando intenda discutere questa interpellanza.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Sarà discussa insieme alla precedente.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevole Presidente, ho presentato di urgenza ieri mattina una interrogazione al Ministro delle finanze.

PRESIDENTE. Onorevole Persico, lei sa che queste questioni si pongono in fine di seduta.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Signor Presidente, io desidero una volta tanto protestare contro questo sistema di trasformare la nostra Assemblea Costituente, che deve provvedere e pensare alla Costituzione, in una continua discussione intorno a questioni particolari, attraverso queste interpellanze e queste interrogazioni le quali, col pretesto dell’urgenza (Commenti a sinistra), si presentano all’ultima ora per premere sul Governo a ciò che esso improvvisi risposte, che non possono evidentemente esser date all’ultima ora come si pretende. Questo impedisce al Governo il suo lavoro. Bisogna mettere anche in rilievo che noi qui siamo con un altro mandato; io non posso pertanto consentire – si capisce, lo si faccia in casi eccezionali – che, alla fine di tutte le sedute, ci sia sempre un gruppo di interpellanze e di interrogazioni sopra i più vari argomenti: mi pare che questo assolutamente esorbiti dal nostro mandato. (Proteste a sinistra).

La cosa è effettivamente in questi termini, colleghi della sinistra; e io, che sono rappresentante del popolo come voi, protesto contro questo sistema e vi invito a provvedere diversamente; in caso contrario, io presenterò ogni volta le mie eccezioni.

L’onorevole Persico, ad esempio, ha rivolto una domanda molto giusta per la denuncia della patrimoniale, in quanto vi è un termine di scadenza; ma effettivamente questa richiesta da lui fatta è stata già presentata da altri alla Presidenza per il Ministero delle finanze. Il Ministro delle finanze ha già ripetuto in diverse occasioni che egli non crede, non intende consentire…

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, per favore, non si sostituisca al Ministro delle finanze, la prego.

MICHELI, Onorevole Presidente, io non intendo di assumere la veste di Ministro che da tempo più non ho. Però si dimostrava opportuno… (Interruzione del deputato Fogagnolo). Ma lei, onorevole Fogagnolo, per quale ragione si rivolge a me? Dica chiaro almeno, perché possa rispondere…

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, la prego, non raccolga le interruzioni!

MICHELI. Ripeto dunque che con questo sistema di presentare tutte queste interpellanze e tutte queste interrogazioni non si può più andar avanti, tanti sono i piccoli casi locali che avvengono dovunque ogni giorno e che in tutte le provincie d’Italia possono essere comodi per gli interessi elettorali di tutti questi bravi signori, a destra e a sinistra (Commenti a sinistra). Io prego di tener presente che non è opportuno, che non si può – ciascuno di noi ha diritto di discutere, ma entro certi limiti… (Interruzioni a sinistra) …Onorevole Nenni, lei interrompa pure; io risponderò anche a lei, quando avrò capito, come già in altre occasioni le ho risposto. Dicevo, che non si può continuare così; lo abbiamo consentito, tollerato, ma purché non diventi una cosa quotidiana. Il Governo non può essere qui invece che al suo lavoro a rispondere a questo grandinare di interrogazioni, che sono fatte evidentemente per altre ragioni.

Per questo ho espresso il mio pensiero e la mia protesta. Voi sarete di parere diverso se lo esporrete io lo ascolterò ben volentieri, come voi avete finito per ascoltare me.

PRESIDENTE. Diamo inizio ora allo svolgimento delle due interpellanze.

Pregherei l’Assemblea di conservare la tranquillità e di permettere che si svolga regolarmente quest’ultima parte del nostro lavoro.

La prima interpellanza è quella presentata dagli onorevoli: Morandi, Lombardi Riccardo, Giacometti, Lizzadri, Nenni, Malagugini, Giua, Barbareschi, Grazia Verenin, De Michelis, Sansone, Pressinotti, Bonomelli, Fiorentino, Vischioni:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio:

1°) sull’atteggiamento che il Governo intende di assumere nei confronti della situazione creatasi nel Paese in seguito all’offensiva padronale per guadagnare mano libera nel licenziamento dei lavoratori, situazione che ha provocato l’odierno sciopero dimostrativo, deciso dal Consiglio generale delle leghe di Milano, e sta per determinare l’estensione delle agitazioni e degli scioperi in molti altri centri;

2°) sul punto di vista del Governo in merito alla opportunità di procedere al riconoscimento giuridico dei consigli di gestione, i quali si sono dimostrati nelle recenti esperienze come gli organi più propri a interpretare e a rappresentare gli interessi generali della produzione, evitando che essi possano essere compromessi dall’inasprirsi dei conflitti».

L’onorevole Morandi ha facoltà di svolgerla.

MORANDI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, io mi atterrò nello svolgimento di questa interpellanza all’argomento essenziale. Desidero tuttavia fare una dichiarazione preliminare: sarebbe assolutamente lontano dal vero chi pensasse che noi si sia voluto cogliere questa occasione per muovere un attacco di sorpresa al Governo. (Commenti al centro).

Voci ai centro. No! no!

MORANDI. Veramente no, onorevoli colleghi! Del resto noi avremmo concertato diversamente questa mossa, e non avremmo insistito per avere quest’oggi, allo scorcio della nostra sessione di lavori, la discussione.

Sono ben lieto che l’onorevole Presidente del Consiglio e i Ministri interessati si siano dichiarati disposti a farlo e li ringrazio.

È sul fatto preciso delle gravi agitazioni che oggi turbano il mondo del lavoro che noi vogliamo richiamare l’attenzione e le responsabilità del Governo. Io penso che nessuno possa seriamente sostenere che si tratti di montature, che si tratti della solita opera dei sobillatori, quando si parla, per la sola città di Milano, di un numero di licenziamenti previsto, richiesto, che interessa la vita di 50-60 mila famiglie! quando si parla – e ne ha fatto cenno ieri sera l’onorevole Ministro del lavoro – di 40 o di 30 mila, e non importa fossero anche 20 mila, licenziati a Genova.

Non si può dire dunque, che manchi una legittima ragione di allarme per le masse operaie, ed è di questa agitazione che noi ci vogliamo fare interpreti.

L’onorevole Ministro del lavoro, al quale noi non vogliamo affatto attribuire l’intenzione di aver voluto determinare uno stato di cose come quello che si è creato, ha inteso dare ieri sera in anticipo delle giustificazioni dell’operato del Governo. Egli ha dichiarato che tutte le trattative, sono state condotte con la partecipazione delle organizzazioni sindacali e che è in un’atmosfera di serenità – per non dire di cordialità – che le trattative oggi proseguono.

Voglio precisare al riguardo che non è sugli aspetti procedurali della questione, e non è certamente sui personali intendimenti dell’onorevole Fanfani – che noi apprezziamo come uomo che dà tutta la sua personale attività ai doveri del suo ufficio – non è su questo punto che noi vogliamo soffermarci e che noi chiediamo delle spiegazioni.

È invece sulla sostanza della questione, è invece su quest’altro punto: sugli effetti pratici, sulle risultanze che una certa iniziativa del Governo ha avuto. Di questa iniziativa il Governo porta una dichiarata responsabilità, ed è in base a ciò che noi dobbiamo chiamarlo anche responsabile del seguito che essa minaccia di avere, andando di là, noi vogliamo supporre, di quella che era la volontà e l’intenzione del Governo.

Onorevoli colleghi, signori del Governo, è questa che noi oggi trattiamo una annosa questione. Noi abbiamo avuto modo di misurarne molte volte la complessità e tutta la delicatezza. Non è una questione, dunque, alla quale il Governo si trovi di fronte all’improvviso.

Quando si parla di blocco o di sblocco dei licenziamenti noi sappiamo tutti che si usano dei termini assolutamente impropri. La situazione di oggi ha una comparabilità molto relativa con quella creatasi per effetto del decreto dell’agosto 1945 che impediva i licenziamenti.

Da quella data ad oggi molta strada si è fatta: in grandissima parte questo problema, che a un certo punto è sembrato pregiudicare la possibilità della nostra ripresa, in grandissima misura questo problema si è andato via via sgonfiando.

Dunque, vediamo a che cosa si riduce, quali sono i termini propri della questione odierna. Non è per rivolgere una imputazione al Governo che noi intendiamo di precisare preliminarmente questo punto: ché è proprio dal decreto che ho chiamato Fanfani, del 12 agosto di quest’anno, pubblicato in data del 13 settembre, che si sono originati i fatti che oggi si lamentano, ossia quella che è stata una gara da parte degli imprenditori nel denunziare una così numerosa serie di casi passibili di licenziamento. Il decreto del Ministro del lavoro prendeva le mosse da un accordo intervenuto fra le organizzazioni padronali e le organizzazioni dei lavoratori in data del 7 agosto (se ben ricordo) sulla famosa questione delle Commissioni interne, circa il nuovo statuto o nuovo regolamento delle Commissioni interne. A questo punto nacque, si originò un’altra questione, quella della interpretazione che la Confindustria, le organizzazioni padronali, davano delle conseguenze derivanti dal fatto stesso. La Confindustria si esprimeva al riguardo, molto esplicitamente, sostenendo che, raggiunto l’accordo sul punto Commissioni interne e demandati a queste Commissioni certi compiti, che sono precisati nel regolamento, veniva automaticamente meno ogni ragione giuridica e di fatto del blocco dei licenziamenti, ossia di limitazioni alla facoltà dell’imprenditore di licenziare i propri dipendenti. È sulla traccia di questa interpretazione data dalla Confindustria all’accordo del 7 agosto, che il Ministro del lavoro si mosse, e intese di stabilire certe provvidenze a termini del decreto 12 agosto.

Cosa avveniva in conseguenza della pubblicazione di questo decreto? Il decreto prevede la concessione di una integrazione salariale per un periodo di due mesi ai lavoratori che vengono licenziati e stabiliva un termine al riguardo, fissando agli imprenditori uno spazio di tempo massimo di due mesi per procedere ai licenziamenti, tale termine veniva dunque a cadere al 13 novembre. Si segnava così, ripeto, la data entro la quale gli industriali avrebbero dovuto comunicare alle Commissioni interne i licenziamenti. Il Ministro del lavoro ha riconosciuto in seguito l’errore e certa precipitazione in cui era caduto. Né io gliene voglio fare assolutamente una imputazione diretta e personale. Volentieri noi gli diamo atto di avere riconosciuto l’opportunità di variare i termini fissati dal decreto. Avemmo intanto in questo mese una riunione, presieduta dal Presidente del Consiglio, fra le organizzazioni padronali e le organizzazioni dei lavoratori per risolvere la pregiudiziale questione di merito. Conclusione di quell’incontro fu il riconoscimento dell’equivoco nella interpretazione degli accordi del 7 agosto.

Sicché si spostò il termine per i licenziamenti a dicembre. La questione è aperta ancora, ed è oggetto di trattative fra le due organizzazioni e di mediazione sollecita da parte del Ministro del lavoro. Io non voglio entrare nella materia di queste trattative. Non è qui, la sede. Ma voglio richiamare un fatto indiscutibile e facilmente constatabile da tutti: il fatto che qualcuno ha approfittato di quel che non era probabilmente nelle intenzioni del Ministro del lavoro. Come si sono comportati infatti gli industriali, dalla data di pubblicazione di questo decreto? Essi hanno dato la interpretazione più estensiva e, noi vogliamo sostenere, la più ingiustificata, alla possibilità che ad essi si offriva di licenziare senza limitazione di numero i propri dipendenti.

Pare a noi chiaro che essi in questa occasione abbiano cercato di conseguire questo preciso risultato: aver mano libera, avere piena libertà di licenziare a loro piacimento, sottoponendo le Commissioni interne, alle quali è demandato l’esame e il parere sulle richieste dei licenziamenti da parte degli imprenditori, ad una tale pressione da costringerle a scendere sul terreno della lotta.

Abbiamo visto delle aziende che non hanno mai avuto e non hanno mai denunciato alcuna eccedenza di mano d’opera, procedere alla richiesta di una serie di licenziamenti. Evidentemente, lo scopo che essi avevano in vista era ed è tutt’altro da quello che è assegnato al provvedimento del Ministro del lavoro.

Non si tratta qui di scaricare l’azienda di mano d’opera eccedente, ma piuttosto di liberarla di quegli elementi che non sono grati. Abbiamo visto e vediamo una serie di aziende, che non hanno minimamente curato in tutto questo tempo di risolvere i problemi della ricostruzione e che insistono oggi per ottenere finanziamenti dallo Stato, annunziare licenziamenti in massa.

Si tratta di vere e proprie decimazioni. Questo non avviene soltanto a Milano ed a Genova, ma in molti altri centri d’importanza minore. Guardiamo il caso tipico della O.M. che impiega nei sui stabilimenti di Brescia e di Gardone circa sei mila operai e che ha chiesto di licenziarne 3.500. Ora, fra l’altro, uno di questi stabilimenti appartiene alla Direzione generale dell’Artiglieria, la quale aveva assegnato alla ditta una serie di lavori interessanti la produzione bellica.

È questo un esempio che ci rappresenta la natura, la caratteristica tipica del problema che concerne la conversione nel settore della meccanica e che non si risolve coi licenziamenti. Questo avviene oggi nella provincia di Brescia che, caso unico per tutta l’Alta Italia, ebbe, sotto l’amministrazione Alleata, la facoltà di procedere liberamente ai licenziamenti, facoltà di cui gli imprenditori bresciani si valsero anche largamente.

Vi potrei citare casi non meno caratteristici, ma non voglio tediare l’Assemblea. Ve ne sono di chiaramente sospetti. Vi è il caso di una piccola azienda milanese di Sesto San Giovanni che impiega duecento operai e che li ha licenziati, o li vorrebbe licenziare, tutti quanti in tronco. Ha dichiarato sabato che intendeva chiudere i battenti il lunedì.

Una situazione particolare è quella delle aziende dell’I.R.I., come ieri anche il Ministro del lavoro dichiarava, e va considerata a sé. Questo a motivo dello speciale carattere della gestione e della speciale natura delle aziende, che sono in buona parte aziende già destinate alla produzione bellica.

Però, io devo rilevare che proprio in seno all’I.R.I. è stato da vario tempo affrontato il caso più grave, quello dell’Ansaldo, e questo caso Ansaldo, che aveva consentito nell’ambito aziendale di addivenire ad accordi risolutivi, è stato tenuto in mora. Osservo poi, che non si procede invero, con troppa cautela in materia di licenziamenti nelle aziende siderurgiche dell’I.R.I., perché è noto a tutti noi che il Presidente della Finsider ha la fissazione dei licenziamenti. Il Presidente della Finsider prese pubblicamente posizione sulla stampa ancora nel settembre scorso, al tempo in cui il Governo aveva investito una Commissione ministeriale dello studio e dell’esame della questione. Il Presidente della Finsider dispone a suo arbitrio delle maestranze e, con questo, anche delle sorti della nostra siderurgia.

Un certo programma di ricostruzione era stato fatto e messo in attuazione per gli stabilimenti siderurgici di Piombino. Oggi pare che il programma sia cambiato e che anche là la ricostruzione non debba effettuarsi nelle misure e nelle forme prestabilite col concorso degli organi ministeriali. Si tratterebbe poi, di licenziare in tronco tutte le maestranze e chiudere gli stabilimenti siderurgici di Porto Ferraio; la questione, se richiede di essere considerata sotto particolari aspetti economico-tecnici, non può essere risolta in questa forma drastica che colpirebbe, per l’incidenza che ha, la vita di tutta l’isola.

Il problema della esuberanza della mano d’opera va praticamente circoscritto alla industria meccanica, al campo della grande meccanica. Abbiamo qualche riferimento utile da prendere, per quel che riguarda le esperienze fatte in questo recente periodo: il caso della Fiat, il caso, cui ho fatto cenno, dell’Ansaldo. Essi ci indicano molto bene che la portata vera della questione non è misurata dall’onere finanziario, derivante dal fatto di dover corrispondere dei salari a delle maestranze eccedenti; ma è costituita piuttosto dal fatto che, con questa palla al piede, le aziende possono andare a fondo. La soluzione del problema non può essere che graduale. Il primo raddrizzamento si deve conseguire in via amministrativa. Si tratta di assicurare alla parte eccedente di mano d’opera un certo trattamento economico (non importa se di due o di sei o di dodici mesi; non deriva da qui il peso) ed i consentire all’azienda di accantonare la parte di mano d’opera eccedente, per procedere su un piano di maggiore equilibrio alla programmazione della produzione. Con questo avremmo già fatto un gran passo verso la soluzione del problema, e non dobbiamo lasciarci fissare all’incantesimo di quel tanto di paga che deve essere corrisposto alla mano d’opera in eccesso.

Ora, non possiamo assolutamente dire che ci sia stata della intransigenza e sia mancata la volontà di contribuire alla soluzione di questo problema da parte delle organizzazioni sindacali. Invece, molte considerazioni si potrebbero fare per la inerzia da imputare agli industriali.

Abbiamo degli esempi molto interessanti – possono essere presenti a quanti conoscono la nostra industria – di aziende meccaniche, che hanno ricostituito gli impianti, ma soprattutto i programmi di lavoro. Esistono esempi significativi come è quello di un grande complesso tessile in Italia che attende alla produzione di macchinario tessile e per una tale mole, da essere in difficoltà nell’espletamento del lavoro; vuol dire dunque, che l’orizzonte non è completamente chiuso per la meccanica italiana. È necessario che questo orizzonte non si chiuda sulla nostra meccanica, che è la migliore speranza del nostro avvenire. Ora, prima di pensare a soluzioni semplicistiche, come quelle che s’inseguono oggi da parte di molti imprenditori, prima di arrivare alla esportazione di stabilimenti interi ed alla esportazione – più che di emigrazione si tratta di esportazione – di mano d’opera specializzata, si dovrebbe, con l’intervento e l’assistenza del Governo, studiare meglio quello che è l’organico legame di questa situazione disagiata, di cui oggi risente la nostra industria meccanica per l’esuberanza di mano d’opera, con i problemi più seri e gravi della nostra conversione e ricostruzione.

Ritorno al tema, onorevoli colleghi, per porre questa domanda: avevano ragione gli industriali di prendere l’atteggiamento aggressivo che hanno assunto, quando, per la stessa testimonianza che ce ne ha fatto il Ministro del lavoro, le organizzazioni sindacali hanno dimostrato così largo spirito di conciliazione? Badate che non è facile, per chi rappresenta i lavoratori e ne deve tutelare gli interessi, andare a convincerli alle soglie dell’inverno, quando così fitte sono già le schiere di disoccupati, che è necessario lasciare le fabbriche ed accontentarsi di un avvenire limitato a pochi mesi.

Noi abbiamo visto quale preziosa collaborazione abbiano prestato, per avviare a soluzione questo problema, i consigli di gestione ed ecco perché noi riproponiamo, in connessione all’argomento dei licenziamenti, la questione del loro riconoscimento.

È al Governo ch’io rivolgo in proposito un’altra domanda: come esso ha corrisposto a questa disposizione che i lavoratori hanno manifestato, ed a quello che è stato l’intervento positivo e, in molti casi, risolutivo dei consigli di gestione? Il caso Ansaldo, così grave, non avrebbe potuto nemmeno cominciare a trattarsi senza l’intervento, pieno di comprensione, del consiglio di gestione.

I consigli di gestione non sono di certo svaniti, perché il Governo, ad un certo punto, se ne è disinteressato. Forse non tutti i colleghi sanno che in Italia oggi si contano oltre 700 consigli di gestione, e che questi 700 consigli di gestione, non dico che controllino, ma estendono la loro possibilità d’influenza su un milione e più di lavoratori.

Perché si vuol respingere la collaborazione che si offre? Del resto, parliamoci chiaro su questo punto, onorevoli colleghi: le agitazioni disturbano tutti, ma che cosa si fa per evitarle? Cosa si fa per evitare gli scioperi? Che cosa si fa per eliminare i legittimi sospetti che nascono nell’animo dei lavoratori? Quale è stato il contegno assunto dagli imprenditori su una questione e sull’altra, sulla questione dell’esuberanza di mano d’opera e sulla questione dei consigli di gestione? Un irrigidimento totale, minacce di ricatto, questo è stato il modo di condursi di questi signori. E giustamente, fondatamente si è potuto parlare di condizioni dettate dalle associazioni padronali al Governo.

Domandiamo al Governo che smentisca con i suoi atti questi sospetti.

Vediamo quale linguaggio tiene certa stampa, che noi sappiamo benissimo a quali casse attinge. Io potrei portarvi dei dati, informazioni e cifre strabilianti sulla campagna condotta dalla Confindustria presso i suoi organizzati per munirsi dei mezzi necessari a controbattere questa che è una campagna spontanea della massa lavoratrice, la quale rivendica il suo diritto a partecipare alla gestione dell’economia aziendale; per schiacciare i consigli di gestione, per agitare l’opinione pubblica, per impressionare e ricattare anche il Governo.

Noi ci dobbiamo chiedere quali vedute abbia la classe padronale oggi, quale mira persegua questo organismo padronale. Ma il mio discorso sarebbe troppo lungo, se io volessi fare riferimento a quella che si intravvede essere la vera politica economica oggi voluta dalla classe padronale, che forse tenta di ridurci in certe strette pericolose, per averci poi alla sua mercé.

Il Governo tenta di puntellare in qualche modo questa situazione, ricorrendo a provvedimenti di carattere finanziario, come la creazione del FIM e gli stanziamenti per la piccola industria, proponendosi evidentemente di controbilanciare certi effetti pericolosi del tentativo deflazionistico oggi in corso.

Non voglio entrare nel merito di queste questioni. Noi ci riserviamo di domandare spiegazioni al Governo in altri momenti, ma richiamo la vostra attenzione sul fatto che tutte queste cose si svolgono in un ambiente ovattato di silenzio, tenendo all’oscuro perfino l’Assemblea. In ogni caso il Governo pensa che si debba contendere al lavoratore il diritto di sapere quella che è la sua sorte, partecipando al processo della produzione. Io mi domando che interesse ha il Governo a condursi in questo modo e perché non cerca un sostegno dove lo potrebbe trovare, se le sue reali intenzioni sono quelle che dichiara.

Assistiamo a dei maneggi che avvengono fuori di ogni possibilità di controllo nel campo dell’industria di Stato: si dispone, si fa, si disfà, come meglio aggrada e non si sa più a chi far risalire la responsabilità di questa condotta. Ho fatto già riferimento al caso della siderurgia italiana, che è tipico a questo riguardo. Ecco dunque le ragioni delle richieste che fanno i lavoratori dell’I.R.I per ottenere dal Governo assicurazioni più esplicite di quelle che non abbiano avuto fino ad oggi al riguardo.

Come tante altre questioni che oggi angustiano la vita dei lavoratori, questa dei licenziamenti non va isolata, onorevole Ministro del lavoro, perché non è che uno degli aspetti di quella politica di produzione, che non è possibile di pensare riserbi ai lavoratori la parte di strumenti passivi; di quella politica della produzione che dev’essere pertanto svolta sotto il controllo dei lavoratori stessi.

Ebbene, io rilevo che troppe lacune a questo riguardo presenta la visione governativa, per quanto si riferisce alla materia dei licenziamenti: il Governo ha dato tutta l’impressione di muoversi sotto pressioni imperative, perché quello che è oggi ancora oggetto di trattative poteva essere utilmente e più prudentemente definito già in precedenza. La. questione dei termini fissati dal decreto poteva essere trattata prima; la questione delle scuole di riqualificazione e gli stanziamenti che si fanno a questo scopo non costituiscono neppure una questione nuova che sorga soltanto oggi. Ora, il Governo, prima di prendere l’iniziativa col suo decreto, avrebbe dovuto portare già come risolte queste particolari questioni. La gradualità poi, onorevole Ministro Fanfani, di cui si parla e di cui ella giustamente si preoccupa, da che cosa è garantita? Che cosa si è fatto perché gli industriali seguissero una certa norma, e non si lanciassero invece così alla corsa per toccare tutt’altra meta, cioè la possibilità di essere liberi, senza alcun vincolo, nel disporre dei propri dipendenti?

C’è anche un’altra questione: una questione che va chiarita e risolta prima che si addivenga all’applicazione di provvedimenti qualsivoglia, ed è il trattamento che si intende di riserbare all’Italia centro-meridionale, poiché non è soltanto nel Nord che grava sui lavoratori la minaccia del licenziamento. Anzi, fatte le debite proporzioni, più grave ancora è questa minaccia per i lavoratori meridionali. Fino ad oggi noi non abbiamo sentito parlare di garanzie, di misure, di tutela nei confronti dei lavoratori del Centro e Sud Italia.

Voglio concludere, voglio dare una dimostrazione del nostro senso di misura agli onorevoli colleghi del Governo, che forse hanno male interpretato ieri la portata e il fine della nostra interpellanza; una prova della nostra buona volontà di contribuire alla soluzione di problemi che investono le sorti di tutto il Paese. Perché, se noi abbiamo buone ragioni per preoccuparci della vita dei lavoratori, abbiamo anche dato dimostrazione – non da oggi, ma per tutti questi anni – di interessarci non meno alle sorti della produzione e dell’economia nazionale.

Insomma, pare a noi che si corra un po’ troppo da parte di certa gente, che manifesta delle nostalgie per un passato che è decisamente passato e che non può più ritornare.

Che cosa vogliono questi signori? Che noi si rinfreschi loro la memoria, che hanno troppo labile? che noi si ricordi loro quel che i lavoratori hanno fatto, quel che i lavoratori hanno dato per salvare la nostra industria? Dove erano allora certi burbanzosi rappresentanti del grande capitale, che oggi trattano a nome dell’industria italiana?

È su questo titolo, onorevole Presidente del Consiglio, che noi abbiamo fondato il diritto dei lavoratori ad una partecipazione alla vita dell’industria e dell’economia nazionale. Ma è anche a un altro titolo che noi insistiamo nella nostra richiesta che i Consigli di gestione abbiano una regolamentazione giuridica; è in base ad una motivazione più interna e più propria al problema economico, perché questi Consigli di gestione, di cui si è fatta larga esperienza, sono divenuti una esigenza dei tempi.

Un’altra volta, forse, se ne tratterà in modo più specifico: io ho dei grossi dossiers da cui poter estrarre segnalazioni interessanti. Mi limito ad una citazione sola, che riguarda un grande industriale torinese, il quale nella primavera di quest’anno – in una data dunque non troppo remota – così si esprimeva, interrogato per avere il suo giudizio su quel progetto di legge che, ad un certo momento, chi allora era membro del Governo rese noto al pubblico e dette alla stampa:

«Quanto è detto nel progetto è stato già messo in pratica nella mia azienda: da tempo è mia abitudine far partecipare i lavoratori alla direzione della mia gestione, perché so quanto questo sia utile per il raggiungimento degli scopi produttivi…

«Il progetto di legge che ho esaminato corrisponde alle necessità attuali dell’industria, dalle quali non si può prescindere».

Interrogato su un’altra questione più delicata, perché la Confindustria avesse assunto atteggiamento così ostile, egli rispondeva: «Evidentemente la posizione di intransigenza dimostrata verso i Consigli di gestione è ingiusta: noi abbiamo ricevuto alcuni rimproveri…». Chi riceveva rimproveri era il Presidente di un’azienda di una certa portata, l’«Italgas» di Torino; ma gli industriali che non stavano a questa quota non ricevevano rimproveri, ma intimidazioni. Ebbene, noi vogliamo sapere dal Governo se è a queste intimidazioni che esso si è arreso.

E se non è così, vogliamo sapere per quali ragioni esso si sottragga, come oggi fa, alla considerazione di una questione che era stata posta e ribadita da tutti i Governi precedenti. Su questa questione noi abbiamo da rivolgere un franco avvertimento al Governo:

Questi diritti, quando si sono col sangue conquistati, non si sopprimono, non si lasciano sopprimere: queste rivendicazioni che sono nell’animo, nel cuore delle masse lavoratrici italiane, non si soffocano.

E allora volete voi proprio che essi diventino il segno di agitazioni permanenti, che non cesseranno fino a quando non abbiano conseguito il loro scopo? Che cosa vi si chiede infine? Che cosa vi si chiede da parte dei lavoratori, se non di assumere una parte delle gravose responsabilità che voi portate oggi dinanzi al Paese, onorevoli colleghi del Governo?

È a queste domande che noi chiediamo risposta. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Di Vittorio ha facoltà di svolgere l’interpellanza di cui ho dato precedentemente lettura.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi! Lo scopo di questa mia interpellanza analoga a quella già svolta dal collega Morandi è di denunziare al Paese e al Governo la gravità della situazione economica che va maturando nel Paese e l’aggravamento incessante delle condizioni di vita dei lavoratori che si verifica in questo periodo, più preoccupante specialmente per l’avvicinarsi del prossimo inverno.

Uno degli aspetti più caratteristici dell’aggravamento della situazione delle masse lavoratrici è dato dalla portata che i grandi industriali vogliono dare allo sblocco dei licenziamenti. A proposito del blocco dei licenziamenti, si sono dette molte cose: alcune giuste, la maggior parte ingiuste. Si sono, in particolare, individuate nel blocco dei licenziamenti tutte le ragioni che avrebbero ostacolato o impedito un ulteriore sviluppo della produzione industriale italiana.

Il blocco dei licenziamenti avrebbe impedito o, per lo meno, reso più difficile il risanamento delle aziende produttive. Ebbene, noi affermiamo che il blocco dei licenziamenti – misura socialmente indispensabile nel momento in cui è stata presa, misura di giustizia verso i lavoratori che avevano difeso con eroismo le aziende industriali italiane – ha risposto anche a determinate esigenze produttive.

Tutti sappiamo che, quando la situazione è difficile, la soluzione che si cerca è sempre la più facile: quella che si poggia sulla forza d’inerzia, quella che richiede il minore sforzo a chi può disporre, a chi può deliberare. E la cosa che più immediatamente veniva allo spirito degli industriali italiani era quella di liberarsi della mano d’opera considerata esuberante.

Il blocco dei licenziamenti, fra l’altro, obbligando gli industriali a pagare la mano d’opera che essi consideravano esuberante, ha contribuito a stimolare la loro iniziativa, a far loro escogitare tutte le possibilità produttive per cercare di utilizzare quella mano d’opera che erano costretti a pagare ugualmente. E ciò ha permesso di accelerare la ricostruzione di alcune industrie, che erano state distrutte o semi-distrutte; ed ha permesso anche la ricerca di altre iniziative che hanno accelerato il processo di trasformazione dell’industria di guerra in industria di pace; hanno permesso una maggiore utilizzazione della mano d’opera, e perciò hanno facilitato una relativa ripresa della nostra industria.

Con ciò noi non abbiamo mai inteso di teorizzare il blocco dei licenziamenti come una misura di carattere permanente. Era ed è una misura di carattere eccezionale; e noi – le organizzazioni sindacali – abbiamo sempre dato prova d’un grande senso di responsabilità, cercando di concorrere a risolvere il più rapidamente possibile questo problema nell’interesse del risanamento delle aziende e quindi dell’economia del Paese, e nell’interesse dei lavoratori.

Noi consideriamo la difesa degli interessi legittimi di ciascuna categoria di lavoratori nel grande quadro degli interessi generali del Paese; ma vi è troppa gente in Italia che concepisce la difesa degli interessi del Paese indipendentemente dall’interesse e dalle esigenze di vita dei lavoratori. I lavoratori sono una parte fondamentale del Paese e, se volete, anche dell’economia del Paese. E la preoccupazione di non gettare sulla strada, attraverso una disoccupazione di carattere permanente, una parte importante dei lavoratori italiani, è una preoccupazione che corrisponde agli interessi generali del Paese, anche di natura economica, oltre che sociale ed umana.

Perciò noi vogliamo ricercare la soluzione di questi problemi che si pongono nelle nostre aziende, nella nostra economia in generale, in funzione della difesa degli interessi dei lavoratori, i quali nel loro complesso coincidono sempre con gli interessi generali del Paese.

Si è affermata la tendenza degli industriali italiani a considerare lo sblocco dei licenziamenti come il fatto che deve loro consentire di abbandonarsi a licenziamenti in massa.

Noi abbiamo considerato la questione del blocco dei licenziamenti dallo scorso luglio fino ai primi di agosto e, come il problema si presentava in quel momento, sembrava che esso fosse limitato esclusivamente al settore metalmeccanico e più particolarmente alle aziende I.R.I. Assistevamo ad un certo sviluppo dell’attività industriale che dava a noi la speranza di una certa capacità di assorbimento di mano d’opera da parte di altre aziende e di altre industrie; perciò, la Confederazione del lavoro non si oppose al principio dello sblocco dei licenziamenti, per risolvere con la necessaria regolarità questo problema.

Oggi la situazione si presenta in un modo del tutto diverso. Oggi piovono dappertutto alle Commissioni interne e ai sindacati delle domande di licenziamenti in massa. Allora la situazione è diversa! Ed è diversa dal giorno in cui il Ministro del lavoro, onorevole Fanfani, ha emesso il noto decreto sullo sblocco dei licenziamenti. (Interruzione del Ministro del lavoro).

Io ho sentito l’affermazione di ieri sera, che mi pare ripeta ora l’onorevole Fanfani. Mi dispiace di dover dire all’onorevole Fanfani – del quale riconosco la solerzia e la buona volontà che quotidianamente impiega per cercare di dare una soluzione ragionevole alle controversie del lavoro – che non è esatto che la Confederazione del lavoro abbia dato il suo parere favorevole alla promulgazione di quel decreto. Anzi, subito dopo il decreto, in un numero del «Notiziario» della Confederazione Generale del Lavoro…

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Disse una bugia!

DI VITTORIO. …noi abbiamo (posso far vedere il numero del giornale) preso posizione sul decreto ed abbiamo riaffermato il nostro concetto che l’accordo del 7 agosto, relativo al funzionamento delle commissioni interne, realizzava una delle condizioni dello sblocco dei licenziamenti, ma non realizzava un’altra condizione che era fondamentale ed importante.

Ma adesso la questione come era vista allora è superata. Adesso si vuole licenziare in massa, si vogliono chiudere delle fabbriche, si vogliono smobilitare interi reparti. Noi non possiamo consentire a questi licenziamenti in massa dei lavoratori, alla soglia d’un inverno che sarà fra i più penosi per la gran massa dei lavoratori italiani!

Noi domandiamo che vi sia la possibilità per i lavoratori di aver modo di accertare quali sono le cause di un certo rallentamento della produzione da parte di alcuni grandi industriali e quali sono le cause per cui si minaccia la chiusura di interi stabilimenti.

Vi sono stabilimenti in condizioni economiche risolvibili facilmente, come la Breda, con parecchi miliardi di commissioni, con un capitale rilevantissimo di cui soltanto una percentuale irrilevante è impegnata verso le banche.

Questo complesso minaccia di chiudere per delle difficoltà di carattere creditizio. Noi abbiamo il fondato sospetto che molti industriali italiani tentano artificialmente, cioè dolosamente, di rallentare il ritmo della produzione. Perché? Per due ragioni fondamentali: la prima di carattere speculativo, perché molti industriali hanno accumulato degli stocks importanti, sperando di venderli sempre un mese dopo a un prezzo superiore. Oggi di fronte alla prospettiva, sia pure ancora incerta, di flessione dei prezzi, questi signori vogliono liberarsi degli stocks e non vogliono liberarsene come dovrebbe avvenire normalmente gettando il prodotto sul mercato. Facendo questo eserciterebbero una influenza nel senso di diminuire i prezzi. Essi lo vogliono fare lentamente, con comodo, rallentando la produzione, rarefacendo la produzione, in modo da impedire che la tendenza alla flessione dei prezzi abbia ad affermarsi in Italia. E poiché l’interesse evidente e fondamentale del Paese, del popolo italiano, è quello di sviluppare al massimo grado la produzione in tutti i rami, noi pensiamo che sia dovere del Governo e che sia dovere dei lavoratori di impedire che vi sia un rallentamento doloso della produzione da parte di alcuni grandi industriali.

Ma a questo punto interviene un’altra ragione di carattere politico. La grande plutocrazia industriale italiana che insieme ai grandi agrari è stata sempre e sarà sempre l’anima della reazione nel nostro Paese, ha interesse ad aggravare la situazione economica, a peggiorare la situazione delle masse per darne la colpa alla Repubblica e alla democrazia in generale e cercare di trarne un vantaggio ai fini di una ripresa reazionaria nel nostro Paese. Vi sono fenomeni che non si potrebbero capire diversamente. Per esempio, la Fiat di Torino produceva 150 macchine al giorno. Attualmente ha commissioni per degli anni. Se un cittadino qualsiasi domanda una macchina alla Fiat si sente dire che deve aspettare un anno e mezzo, due anni. Per disposizioni superiori la produzione è stata ridotta a 130 da 150 macchine al giorno.

La Pirelli, un’azienda floridissima (il mercato è tutt’altro che saturo; anche il mercato interno italiano), anch’essa ha chiesto una riduzione del personale. Motivazione: bisogna ridurre la produzione. E perché bisogna ridurre la produzione di gomme in Italia? Perché bisogna mantenere i prezzi elevati. Perché si guarda al fine speculativo e perché bisogna aggravare sempre di più la situazione per dar modo alla reazione italiana di trovare un salvatore che venga a liberare questo popolo dalla fame, dalla miseria, dal caos ecc. ecc.

Questi i motivi della volontà degli industriali di chiudere le fabbriche, di ridurre al minimo l’occupazione dei lavoratori. Ma vi è anche un altro scopo di carattere ricattatorio. Non possiamo dimenticare che in tutto il periodo fascista i grandi industriali italiani si sono abituati molto bene all’essenza del regime corporativo; essenza che consiste fondamentalmente in ciò: quando le aziende vanno bene e si realizzano dei profitti, i profitti appartengono agli industriali; quando poi le industrie vanno male e bisogna rimetterci qualche cosa, allora deve essere lo Stato, deve essere il popolo italiano a pagare le perdite di queste industrie. Oggi molti degli industriali italiani che pretendono di non poter pagare i salari e gli stipendi agli operai e agli impiegati, hanno investito centinaia di milioni (milioni di profitti realizzati nelle aziende, dalle aziende) in terreni, in palazzi, in ville ed in altri beni di lusso, operando in tal modo una maggiore concentrazione di ricchezza nelle proprie mani.

Oggi che le industrie devono superare alcune difficoltà anche di carattere obiettivo, questi signori dicono di non poter pagare e ricorrono allo Stato per poter pagare, perpetuando l’abitudine che hanno preso sotto il regime fascista e che, in realtà, non rimonta esclusivamente al regime fascista stesso.

Bisogna che il Governo prenda delle misure per obbligare questi signori, che hanno ricavato centinaia di milioni e miliardi di profitti da quelle aziende che oggi vogliono chiudere, a smobilitare questi capitali investiti in altri beni ed a rinsanguare le aziende industriali con questi capitali, senza ricorrere allo Stato.

È necessario che il Governo prenda misure per impedire che un signore qualsiasi, a fine speculativo, a fine ricattatorio o a fini politici, possa mettere sulla strada migliaia e migliaia di operai, di impiegati e di tecnici nel nostro Paese e concorrere ad aggravare la situazione generale. E questo lo si può impedire soltanto se si prendono misure straordinarie che permettano al Governo, ai lavoratori, ai consumatori, al Paese di accertare qual è la situazione reale delle aziende e se risulta da questi accertamenti che la situazione dell’azienda è vitale, è sanabile, bisogna sanarla ed obbligare il proprietario a sanarla con i suoi mezzi, smobilitando quei beni a cui ho accennato. Se egli non vuol farlo, lo Stato democratico, lo Stato della Repubblica, come espressione del popolo, deve avere la forza e la volontà di impossessarsi di queste aziende, di assicurare una gestione straordinaria, per fare in modo che le aziende, fonte di lavoro, di produzione, di beni, di ricchezza del popolo italiano possano continuare a vivere se sono vitali. (Commenti). Io credo che misure di questo genere nella situazione attuale siano pienamente giustificate. Che cosa dà ai grandi industriali italiani ed anche ai grandi agrari l’ardire di assumere così sovente un atteggiamento d’intransigenza e qualche volta sprezzante, nei confronti delle masse lavoratrici, atteggiamento alcune volte provocatorio? Io ho detto quello che fanno tanti industriali che dichiarano senz’altro di non poter pagare i salari, di dover chiudere le aziende, poco curandosi del destino dei lavoratori messi sul lastrico.

Il collega onorevole Morandi ha accennato all’atteggiamento avuto recentemente dalla Confindustria nei confronti della Confederazione del lavoro. Vi è l’atteggiamento dei grandi agrari. Tutta l’Assemblea e tutto il Paese conoscono il famoso lodo De Gasperi e tutte le peripezie di questo lodo. Dovrebbe essere applicato per tutti. Non viene applicato nella maggior parte delle provincie italiane; viene soltanto applicato dove la forza delle organizzazioni sindacali è così potente da imporne l’applicazione.

Dove l’organizzazione sindacale è meno forte, allora gli agrari dichiarano esplicitamente e pubblicamente che non intendono applicarlo. È ancora di ieri uno sciopero generale a Grosseto, determinato dal fatto che gli agrari avevano dichiarato di non voler rispettare un contratto di lavoro da loro sottoscritto.

Ancora oggi vi è una agitazione, vi è una ripresa della grande agitazione dei braccianti del Nord originata dal fatto che gli agricoltori nel corso dello sciopero di settembre si erano impegnati a discutere con i rappresentanti dei lavoratori alcuni punti relativi a rivendicazioni importantissime dei lavoratori stessi, fra cui quella di porre alcune limitazioni alla facoltà di disdetta (cioè regolare le disdette per i salariati fissi attraverso una commissione mista che è il modo più legale e più normale per risolvere queste questioni in tutti i paesi civili).

L’organizzazione dei lavoratori, perché non ha voluto che fosse compromesso un solo chicco di riso dallo sciopero dei braccianti del Nord, ha cessato lo sciopero dietro la promessa dei signori agrari che questi punti sarebbero stati trattati e che si sarebbe trovata una soluzione sodisfacente per le parti.

Finita la mietitura, i signori agrari non hanno voluto nemmeno che si discutesse la questione per quest’anno. Vi è dunque una nuova agitazione dei braccianti del Nord. Da queste situazioni che cosa risulta? Risulta che vi è da parte dei grandi datori di lavoro, dei grandi industriali e dei grandi agrari, la volontà determinata di attaccare, di contrattaccare, le organizzazioni sindacali e le masse lavoratrici. E bisogna dire, onorevole De Gasperi, che questi strati dirigenti dell’economia italiana, questi strati tradizionalmente e naturalmente reazionari del nostro Paese, hanno tratto incoraggiamento e ardimento dalla confusione del vostro Governo, che è un Governo di destra.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Dai vostri errori. (Applausi al centro).

DI VITTORIO. Noi non crediamo di avere commesso errori.

Io credo – pensavo almeno di dimostrarlo, sulla base di fatti controllabili, perché di dominio pubblico – che sono i grandi datori di lavoro a provocare gli scioperi. (Commenti al centro – Si ride). Ridete; avete diritto di ridere. Saremmo forse noi a provocare gli scioperi senza ragione? (Commenti al centro).

Perché non protestate contro chi non applica il lodo De Gasperi? Perché non protestate contro chi non applica i contratti di lavoro sottoscritti, a danno dei lavoratori? (Applausi a sinistra). Perché non protestate contro gli industriali che riducono alla fame diecine di migliaia di operai?

Potrei dimostrare con delle statistiche che nelle provincie dove v’è stato o vi può essere uno sciopero vittorioso, gli agrari applicano il lodo De Gasperi; mentre dove essi pensano che scioperi non ve ne possano essere, lì si rifiutano apertamente di applicarlo.

Cosa deve fare l’organizzazione operaia? Rinunziare alla difesa dei diritti e del pane dei lavoratori? Signori, l’organizzazione sindacale non rinunzierà mai ad assolvere la sua funzione di tutela dei diritti dei lavoratori. (Applausi a sinistra).

Noi crediamo che la soluzione ai problemi, che angosciano il Paese, non si debba trovare in misure di carattere negativo.

Vi è mano d’opera esuberante? Licenziamo della gente ed il problema è risolto. No, signori, il problema non si risolve così. Anche se ne risolve uno, ne sorge immediatamente un altro.

Noi dobbiamo cercare la soluzione in una via di progresso, in una via di sviluppo della produzione. Dobbiamo ricercare nuove fonti di lavoro, utilizzare tutte le possibilità produttive che ci sono nel nostro Paese e che non sono tutte utilizzate.

E vediamo come sia il Governo a dare il cattivo esempio in questa direzione.

Il Governo può fare di più per dare lavoro agli operai italiani? Io credo, senza dubbio, che può fare di più.

È stato rilevato – e tutti lo sanno del resto – che tutta la crisi legata al blocco o sblocco dei licenziamenti si concentra fondamentalmente nel settore metal-meccanico.

In questo settore, dunque, non vi è lavoro sufficiente, per occupare utilmente tutta la mano d’opera, tutti gli impiegati e tutti i tecnici di questa industria.

La cosa è un po’ strana, perché è vero che noi siamo in una situazione diversa rispetto all’ante-guerra, ma è anche vero che il mercato metal-meccanico tedesco è scomparso praticamente dall’Europa e noi, che abbiamo avuto le officine salve, soprattutto per merito dei lavoratori, dovremmo essere in condizione di supplire in qualche modo alle deficienze del mercato tedesco.

TOGNI, Ministro dell’industria e del commercio. I costi.

DI VITTORIO. E se noi facessimo una politica di scambi commerciali con l’estero più larga di quella che non si fa, che questo Governo non vuole fare, per ragioni di tendenza, se riuscissimo a riallacciare relazioni commerciali con l’Europa orientale che ha bisogno di tanti prodotti, fabbricabili in Italia, si potrebbe dare più lavoro alla mano d’opera italiana. (Commenti a destra).

Ma vi è di peggio. Vi sono grandi complessi metal-meccanici italiani, che in questo momento domandano il licenziamento di diecine di migliaia di operai.

Ad esempio, l’Ansaldo ed altri complessi, come la San Giorgio, possono costruire materiale ferroviario di ogni genere. Vi sono gli arsenali militari italiani – della guerra e della marina – dei quali si dice che abbiano mano d’opera esuberante e che bisognerà licenziare in parte ecc.

All’arsenale di Taranto sono stati licenziati 450 operai recentemente. Stiamo lottando per cercare di mantenerne almeno una parte al lavoro. Questi arsenali sono capaci di costruire materiale ferroviario di ogni genere, con piccoli adattamenti. Cosa avviene? Una cosa che, per me, ha valore di scandalo: il Governo italiano ha ordinato 1000 carri ferroviari all’industria belga, carri che dobbiamo pagare in valuta straniera. Io dico: perché far questo quando questi carri potrebbero essere costruiti in Italia e dar lavoro a migliaia e migliaia di lavoratori italiani? (Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Questi sono errori!

TOGNI, Ministro dell’industria e del commercio. E le materie prime? (Commenti a sinistra).

Di VITTORIO. E vi è ancora un fatto: io leggo in una relazione, un documento che non può essere messo in dubbio, che il prezzo convenuto con l’industria belga, per la fornitura di questi carri, corrisponde all’incirca agli stessi prezzi che i carri sarebbero costati in Italia. Non c’è nemmeno la scusante di averli dall’estero con maggior convenienza di quanta non ve ne sia costruendoli nel nostro Paese. Noi crediamo che un Governo che volesse fare una politica produttivistica, diretta a sviluppare l’industria, dovrebbe, nelle relazioni commerciali con gli altri paesi, difendere con maggiore energia il diritto dei lavoratori italiani a lavorare nel proprio Paese. Non voglio far riferimento ad alcuni commenti che sarebbero stati fatti in proposito, quando qualche osservazione è stata mossa su queste importanti ordinazioni all’estero, che ammontano a miliardi di lire. Cioè i lavoratori italiani dovrebbero andare a lavorare nel Belgio, dove sarebbero obbligati a lavorare in concorrenza con i lavoratori belgi, ecc., ecc. Ma è evidente che vi e, da parte delle classi dirigenti italiane, un interesse evidente ad aggravare la situazione per i fini speculativi e reazionari ai quali ho prima accennato.

Ora, io penso che, mai come in questo momento, sia per assecondare il processo di sviluppo della produzione di cui il nostro Paese ha bisogno, sia per aumentare il reddito nazionale e migliorare le condizioni di vita del popolo italiano e fare, nello stesso tempo, una politica di massimo assorbimento della mano d’opera, mai come in questo momento siano stati necessari i Consigli di gestione.

Questi Consigli di gestione sono stati promessi a più riprese dallo stesso onorevole De Gasperi. È stata formulata una legge, che un Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi aveva fatto propria, e che prometteva di presentare ben presto, non so se all’Assemblea Costituente od al Consiglio dei Ministri, perché divenisse una legge dello Stato. Oggi, i Consigli di gestione sono indispensabili, non solo per esercitare il controllo necessario nell’interesse della produzione e per la difesa dei consumatori contro i monopoli e le tendenze monopolistiche della grande industria italiana, non soltanto per sviluppare la produzione, ma anche per controllare l’esigenza effettiva dell’industria e permettere agli operai, ai tecnici, agli impiegati di collaborare alla soluzione dei problemi economici e produttivi del nostro Paese, e quindi assecondare l’azione necessaria per lo sviluppo economico dell’Italia.

Ebbene, questo non si è fatto e noi domandiamo che i Consigli di gestione vengano al più presto legalizzati ed estesi a tutte le aziende di una certa importanza, secondo il progetto Morandi, dichiarando che i lavoratori italiani non rinunciano a questi strumenti di democratizzazione delle aziende, quali sono i Consigli di gestione, e che essi svilupperanno la lotta per ottenere che i Consigli di gestione esistano e funzionino in tutte le aziende di un certo interesse.

Adesso, in rapporto a quanto ho detto, vi è la questione dei prezzi. Io ho visto che il Governo si è attribuito naturalmente il merito della flessione di alcuni prezzi, specialmente dei prezzi dei grassi in genere e dell’olio in particolare. Il ribasso del prezzo dell’olio è dovuto in gran parte all’abbondantissimo raccolto di ulive di quest’anno.

FANFANI, Ministro del lavoro e della, previdenza sociale. Provvidenza di Dio.

DI VITTORIO. Io so che voi vi attribuite tutti i meriti del buon raccolto e che poi darete a noi tutte le responsabilità, comprese quelle dei cattivi raccolti.

Però, noi notiamo che il Governo oggi non è armato, o non lo è sufficientemente, per assecondare la tendenza al ribasso di alcuni prezzi e cercare di generalizzarla. Noi, Confederazione del lavoro, avevamo suggerito al Governo uno strumento, avevamo chiesto la riforma dei Comitati dei prezzi, sia quello centrale che quelli provinciali, per far entrare una rappresentanza più larga in questi Comitati, perché, appoggiati sugli Enti di consumo e sulle Cooperative, potessero contribuire a facilitare la compressione, o almeno la stabilizzazione dei prezzi. Il Governo al memoriale della Confederazione del lavoro rispose che aveva accettato questo punto. Difatti lo accettò: il Comitato dei prezzi è stato modificato, ma in peggio! Infatti, mentre quello di prima era deliberativo, e per quanto piccola, la rappresentanza dei lavoratori e dei consumatori poteva esercitare qualche influenza nel senso di impedire l’aumento dei prezzi, adesso ne avete fatto uno più largo (la rappresentanza dei consumatori dei lavoratori non è aumentata) ma è un Comitato che ha soltanto poteri consultivi. II problema, quindi, è stato risolto alla rovescia. Perciò, il Governo oggi non ha i mezzi che sarebbero necessari per assecondare questa tendenza al ribasso, tendenza al ribasso che per ora si verifica quasi esclusivamente nel settore agricolo. Noi salutiamo questo ribasso, cerchiamo di intensificarlo, ma dobbiamo estendere questo ribasso ai prodotti industriali.

Io non ho mai capito perché il Governo non ha accettato una delle proposte della Confederazione del lavoro inclusa nel memoriale presentato l’estate scorsa: che cioè grandi industriali italiani di prodotti di largo consumo popolare, come tessuti, scarpe ed altri prodotti indispensabili alle famiglie delle masse popolari, fossero obbligati a cedere determinati quantitativi dì queste merci agli enti comunali di consumo, cooperative, spacci aziendali, ecc., a prezzi all’ingrosso e controllati, in modo da sottrarre queste merci alla speculazione, distribuendole direttamente ai lavoratori in condizioni più disagiate, ed alleviare così la miseria di questi lavoratori. Perché il Governo non ha accettato questa proposta? Perché evidentemente non si vogliono ledere in nessuna misura gli interessi egoistici dei grandi industriali, i quali oggi, in combutta con gli altri strati di grossi speculatori, combinano i trust industriali con i trust commerciali e realizzano il doppio profitto industriale e commerciale. Noi domandiamo che queste misure si applichino in modo da estendere la flessione dei prezzi anche ai prodotti industriali. Infine, noi siamo preoccupati di che cosa pensa il Governo per il prossimo inverno. Noi abbiamo almeno un milione e mezzo di disoccupati in Italia e la grande maggioranza di questi non ha sussidio. Il sussidio è limitato a quelle poche centinaia di migliaia di disoccupati che si trovano in determinate condizioni previste dalla legge.

Che cosa si pensa di fare per questi disoccupati alla soglia del prossimo inverno? È stato annunciato un programma di lavori pubblici. Sono stati dati al Ministero dei lavori pubblici 60 miliardi. Ora, è troppo poco rispetto ai bisogni, e questi bisogni dei disoccupati coincidono con i bisogni fondamentali del Paese. Noi abbiamo in Italia delle grandi opere di bonifica, di irrigazione, di trasformazione fondiaria da intraprendere, che possono permettersi di conquistare nell’agricoltura centinaia di migliaia di ettari, ed altri lavori che possano immediatamente aumentare il reddito nazionale e dare nuove fonti di lavoro e di vita al popolo italiano.

Bisogna che il Governo faccia una politica economica e di lavoro diretta a procurarsi i mezzi necessari per dare lavoro alla maggior parte dei disoccupati, per alleviare i disoccupati e, quindi, la miseria dei lavoratori, facendo produrre, facendo lavorare, accrescendo le possibilità di vita del nostro Paese. E noi non vediamo che vi sia una politica di questo genere. Concludendo, i lavoratori italiani si opporranno a quei signori industriali che pretendono di abbandonarsi ai licenziamenti in massa, si opporranno a quei grandi agrari che non vogliono rinunciare a nessuno dei loro antichi ed iniqui privilegi, e cercano di peggiorare ancora le condizioni della grande massa di braccianti, salariati agricoli e lavoratori della terra in generale.

I lavoratori italiani comprendono molto bene, vedono chiaramente che a questa offensiva sul terreno sociale e sul terreno sindacale contro le condizioni di vita dei lavoratori corrisponde un’offensiva sul terreno politico, che è caratterizzata non Soltanto dalla formazione di questo Governo, dallo spostamento a destra del Governo, ma è caratterizzata anche e soprattutto dal sorgere di tutti questi movimenti neofascisti di ogni genere, che in Italia in questo momento credono di aver riconquistato la possibilità di affermarsi e di poter sperare di riprendere il sopravvento.

I lavoratori italiani comprendono tutto questo e comprendono che per essi la questione del pane è legata strettamente alla questione della libertà; perciò i lavoratori italiani hanno la forza, la capacità, la maturità di difendere gli interessi del Paese, gli interessi della produzione e di difendere, col loro pane, la libertà di tutto il popolo italiano. (Applausi a sinistra).

VANONI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Vanoni, non ho sentito pronunciare il suo nome.

VANONI. Si è parlato di un trattato di commercio stipulato durante il periodo in cui ero Ministro del commerciò con l’estero e mi corre l’obbligo di dare spiegazioni obiettive su questo trattato.

PRESIDENTE. Le faccio presente che i Ministri e gli ex Ministri, chiamati in causa durante ima discussione politica, hanno diritto di parlare per dare chiarimenti o informazioni.

Ma, in sede di interpellanze, onorevole Vanoni, un richiamo più o meno generico non è sufficiente per far mutare il metodo della discussione. In sede di interpellanza possono parlare l’interpellante e il Ministro interpellato.

VANONI. Signor Presidente, è stato fatto un accenno preciso ad un atto di Governo, di cui sono in parte responsabile.

Il trattato di commercio in questione ha rappresentato la condizione precisa per una fornitura di 50 mila tonnellate di materiale siderurgico, destinato prevalentemente alla costruzione di vagoni ferroviari in Italia. Tutti coloro che conoscono questo grosso problema della nostra economia in questo momento, sanno che la difficoltà maggiore della nostra ricostruzione ferroviaria è costituita dalla scarsità di materie prime necessarie per la costruzione di vagoni.

La politica che è sempre stata seguita dal Dicastero che ho avuto l’onore di presiedere per qualche tempo è proprio stata diretta a garantire l’approvvigionamento dei materiali necessari per la ricostruzione ferroviaria. Tanto è vero che quando dal Dicastero dei trasporti, allora retto dall’onorevole Ferrari – che certamente non era un plutocrate affamatore – venne proposto di fare una commissione di altri mille carri ferroviari in Svizzera io mi opposi e svolsi l’azione perché venisse comprato, con l’equivalente in valuta, il materiale necessario alla costruzione di carri ferroviari in Italia.

Questa è stata la politica che abbiamo seguito e che, ho motivo di ritenere, segua tuttora il Governo in carica.

FERRARI Chiedo di parlare. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi! Se veramente noi non vorremo convincerci una buona volta che il Regolamento ha una sua ragion d’essere e finché di conseguenza non rinunceremo ad ogni tentativo di evadere in qualche modo da esso, nessuna delle nostre discussioni potrà presentare carattere di coerenza.

Poiché, tuttavia, l’onorevole Vanoni ha chiesto di parlare ed ha anzi parlato prima ancora che io gliene dessi facoltà, è evidente che anche l’onorevole Ferrari ha acquisito il diritto alla parola.

Onorevole Ferrari, ha facoltà di parlare.

FERRARI. Quello che ha detto l’onorevole Vanoni è esatto; soltanto, debbo rettificare un punto. L’onorevole Vanoni ha detto cioè che da parte del Ministero dei trasporti era venuta – così almeno ho creduto di intendere – la richiesta di forniture di carri ferroviari dalla Svizzera: io mi sono opposto, ha detto l’onorevole Vanoni.

Orbene, non è che sia venuta la richiesta dal Ministero dei trasporti a quello del Commercio estero. È venuta l’offerta da parte della Svizzera e il Ministero dei trasporti, data la situazione di rapporti di credito tra l’Italia e la Svizzera, ha ritenuto doveroso di portare la questione anche dinanzi al Ministro del Commercio estero.

Ma l’opinione del Ministro Vanoni era anche l’opinione del sottoscritto e ci trovammo, pertanto, d’accordo entrambi nel respingere la richiesta, perché precisamente ci trovammo d’accordo nell’adottare il criterio di far entrare materie prime per far lavorare i nostri operai.

Questo solo intendevo precisare; mi riserbo di chiedere nuovamente di parlare dopo che avrà risposto l’onorevole Ministro alle interpellanze, qualora venissi ancora chiamato in causa.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro del lavoro e della previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

Presidenza del Vicepresidente BOSCO LUCARELLI

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. La preoccupazione costante del Governo, cui ho l’onore di appartenere dal momento della sua costituzione, è stata quella di individuare, impostare e svolgere una razionale politica del lavoro. Naturalmente, una razionale politica del lavoro non può avere per obbiettivi che i seguenti: la massima occupazione possibile, compatibilmente con i mezzi ed i limiti del nostro Paese; l’adeguamento più perfetto possibile delle retribuzioni al costo della vita dei lavoratori; il miglioramento di tutte le forme di retribuzione familiare; il miglioramento di tutte le forme di retribuzione previdenziale; le agevolazioni e le misure per una nuova occupazione all’interno, o, disgraziatamente – nei casi in cui all’interno non sia possibile – all’estero; l’assistenza infine in tutti quei casi in cui, per le misure precedenti, non fosse stato possibile realizzare la massima occupazione prevista.

In occasione della discussione in questa Assemblea delle mozioni degli onorevoli Nenni e Togliatti di sfiducia al Governo, il Ministro del lavoro, per un insieme di circostanze, non ebbe la possibilità di intrattenere i colleghi su questa politica del lavoro. Io non posso quindi, in questa occasione, non esprimere la più viva gratitudine agli onorevoli colleghi Morandi e Di Vittorio, i quali, con le loro interpellanze, mi concedono ora di impostare la discussione, partendo da una larga visione dei problemi stessi. E naturalmente, sia consentito al primo membro del Governo che prende la parola sull’interpellanza di ringraziare l’opposizione per avere offerta l’occasione di dire una parola di precisazione sulla gravità (per il momento diciamo solo gravità) del problema dei licenziamenti che, secondo la parola un poco apocalittica dell’onorevole Di Vittorio, starebbero non soltanto provenendo dalle direzioni delle imprese, ma addirittura piovendo dal cielo.

Alto livello di occupazione; massimo livello possibile di occupazione. Che cosa ha fatto il Governo a questo proposito?

Settore agricolo. C’è un decreto Segni per il passaggio dall’ammasso totale all’ammasso per contingente che, a detta dei competenti, ma soprattutto in base alle prime risultanze intorno alle semine, sta a dimostrare che ha rappresentato un incoraggiamento all’applicazione ai lavori dei campi.

C’è poi un decreto – uno di quei tanti decreti che ieri sera l’onorevole Morandi con benevolenza attribuiva a chi vi parla – sulla massima occupazione in agricoltura, discusso ampiamente con le Confederazioni interessate, in funzione del quale gli esperti ritengono che cento o centoventimila braccianti potranno nel prossimo inverno trovare occupazione.

Settore industriale. Il decreto istitutivo del «Fondo industria meccanica» non so come si voglia interpretare dagli amici o dagli oppositori; mi pare che nelle intenzioni del Governo e nella valutazione obiettiva sia un provvedimento il quale ha per fine, e lo raggiungerà, quello di intervenire a mantenere il più alto livello possibile di occupazione proprio in questo settore dell’industria meccanica, sulla cui difficoltà l’onorevole Morandi, non da ora del resto, ha richiamato la comune attenzione.

Si è parlato dagli onorevoli interpellanti delle imprese I.R.I., soprattutto di quelle navali o naval-meccaniche, e si è detto: «Perché non procurare lavoro a queste imprese?». Orbene, uno dei decreti del Governo prevede proprio questo: la garanzia, mi pare, per oltre dieci miliardi di lire all’Ansaldo e alle imprese I.R.I. genovesi per procedere a lavori che uno Stato estero ha affidato all’Italia. È quindi un provvedimento il quale ha una funzione precipua: impedire il licenziamento di notevoli masse di lavoratori dell’Ansaldo.

Ordinazioni di costruzioni ferroviarie. Qui non ritornerò nuovamente, anche per evitare nuovi interventi di colleghi che ebbero l’onere e l’onore di essere Ministri nei passati Governi, sulla questione delle ordinazioni di carri ferroviari al Belgio.

DI VITTORIO. È una questione recente; è un’altra cosa quella alla quale si riferiva l’onorevole Vanoni.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Allora mi scusi di aver ritoccato questo argomento.

C’è da ricordare, però, che il piano triennale di finanziamenti per 175 miliardi per costruzioni e ricostruzioni ferroviarie, ha evidentemente questo scopo: di garantire a tutte le imprese italiane che attendono a questi lavori la possibilità di continuare l’assorbimento della mano d’opera in essi impiegata. Del resto, che questo avvenga lo si dimostra con due rilievi: alcune delle industrie che si trovano in crisi nell’Alta Italia, in tanto possono continuare a pagare i salari ai loro dipendenti, in quanto l’Amministrazione delle ferrovie ha anticipato l’ammontare delle somme dei costi di pari lavori che ancora queste imprese stanno eseguendo; usiamo un eufemismo: stanno eseguendo.

Riordinamento e finanziamento dell’I.R.I. Ma tutti quelli che sono al corrente di queste faccende, sanno che il Governo non ha lesinato niente all’I.R.I. perché lavorasse ed ha preso anche dei provvedimenti perché si riordinasse.

E non possiamo dimenticare la fatica del commissario ingegner Longo, il quale si accinge all’opera di risanamento e di ricostruzione di questo nostro Ente statale.

Il decreto del 24 di questo mese, che garantisce il credito per sei miliardi di lire alle medie e piccole industrie; il preannunciato decreto che dovrebbe facilitare – e faciliterà – l’afflusso di capitali esteri; il preannunciato decreto dei prossimi giorni sulle agevolazioni all’artigianato ed alle imprese artigiane: ecco altri mezzi di massima occupazione.

E poiché si è accennato agli arsenali della Marina e della guerra, non possiamo dimenticare che l’arsenale di Piacenza, coi suoi 7000 operai, è stato trasformato in arsenale che fabbrica macchine agricole, per intervento del Governo! (Approvazioni).

Adeguamento delle retribuzioni al costo della vita: aumenti agli statali del giugno 1947 e dell’ottobre 1947, che complessivamente vengono a costituire un onere (che il Governo in parte ha affrontato e che in parte sta studiando di affrontare) di un centinaio di miliardi di lire; aumenti che lasciano ancora un’amarezza in fondo al cuore, amarezza che è quella di non potere veramente provvedere a questo esercito di fedeli lavoratori e collaboratori dello Stato italiano con quella larghezza che sarebbe necessaria, considerando la loro grande responsabilità e le troppe pene che da molti anni stanno soffrendo. (Vivi applausi).

Partecipazione alle vertenze salariali. Se voi mi consentite, onorevoli colleghi, io sorvolo questo argomento perché non vorrei involontariamente essere portato a parlare dell’azione che in questi mesi ho dovuto svolgere in questo settore. Posso dire soltanto questo: che per concordi dichiarazioni delle parti, dichiarazioni anche scritte, è stato sempre constatato come l’intervento del Governo (e non solo mio, ma anche di tutto il Governo e del Presidente del Consiglio), è stato sempre decisivo per realizzare positive e durature conquiste in questo settore. (Applausi).

Ma l’adeguamento delle retribuzioni al costo della vita si fa non solo aumentandole retribuzioni nominali, ma anche accrescendo il potere di acquisto.

La politica dei prezzi. Naturalmente non ha ragione l’onorevole Di Vittorio quando dice che noi ci vogliamo attribuire i meriti della Provvidenza per i recenti buoni raccolti. No, vogliamo solo cogliere l’occasione per ringraziarla! (Applausi al centro).

Dobbiamo ringraziare anche altri interventi, proprio in questo settore agricolo: i lavoratori, i lavoratori che hanno predisposto e preparato, nonostante enormi difficoltà, gli ottimi raccolti che in questo scorcio di autunno noi stiamo ammassando!

Se mi consentite, infine, c’è da ringraziare qualche altro; c’è da ringraziare il senatore Einaudi che con certi provvedimenti ha finalmente trovato modo di mettere paura agli speculatori! (Applausi al centro – Interruzione dell’onorevole Scoccimarro).

E speriamo, onorevole Scoccimarro, che li accresca anche per il futuro!

C’è l’altro settore: quello dei miglioramenti delle retribuzioni e degli assegni familiari. Quando siamo arrivati al Governo, in questo quarto Gabinetto De Gasperi, ho constatato che ancora i lavoratori agricoli ricevevano come assegno familiare l’enorme somma di 80 centesimi al giorno! Il primo decreto che ho avuto l’onore di sottoporre alla firma del Capo dello Stato, il 7 giugno, è stato quello che aumentava questa retribuzione irrisoria; anzi questo impedimento alla retta contabilità. E finalmente, il 24 ottobre, a seguito degli accordi e degli interventi del Governo nella ormai famosa vertenza bracciantile del settembre, è stato approvato il decreto che aumenta ulteriormente gli assegni familiari dei lavoratori agricoli, moltiplicando di 37 volte la quota che noi abbiamo trovato arrivando al Governo.

Industrie: decreti recenti hanno portato all’aumento dal 25 al 40 per cento a seconda delle categorie, gli assegni familiari.

Commercio: aumento del 50 per cento.

Miglioramento delle previdenze, cioè delle retribuzioni previdenziali.

Quando il nostro Governo si è costituito, tra le eredità dei passati Governi, abbiamo trovato questo: che grazie a delle trattative lunghissime non si era ancora arrivati in porto per procedere a un aumento delle pensioni agli assicurati dell’Istituto di previdenza sociale.

Io non posso qui altro che fare una lode all’onorevole D’Aragona, che impostò per primo il problema ed ebbe l’idea del fondo di solidarietà sociale, e al suo successore e mio predecessore, l’onorevole Romita, che insieme all’onorevole Togni, fece di tutto per arrivare in porto. Evidentemente ciascun Ministro poteva e doveva essere fiero di realizzare questa misura. Purtroppo è capitata a me la sorte di portare in porto questa lunga fatica e di portarla, indipendentemente dalla mia buona volontà o della sua, onorevole Di Vittorio, in termini ed entità tale da non dare tranquillità di vita ai pensionati, pur diminuendo per lo meno le forti apprensioni che i pensionati della previdenza sociale avevano; e continuano ad avere nonostante gli aumenti.

Comunque 29 miliardi di lire anche in questa circostanza passarono a beneficio di queste categorie benemerite di anziani e invalidi; anche col concorso dei lavoratori, ai quali non soltanto in questa occasione, onorevole Di Vittorio, ma ben prima di ora, con tutti i mezzi consentiti oggi dal progresso alla voce e al pensiero umano, ho cercato di dare testimonianza per questo loro atto generoso e, se lei mi consente, onorevole Di Vittorio, anche doveroso. (Applausi al centro).

Il problema degli statali. Anche qui due successivi aumenti. Anche in questi giorni è stato deliberato un aumento, nel giorno stesso in cui la C.G.I.L. premurosamente, come era suo dovere, faceva analoga richiesta al Governo.

Malattie. L’indennità malattia in agricoltura è aumentata quattro volte; l’indennità del commercio in questi giorni – decreto del 24 ottobre – aumentava sette volte; indennità infortuni in agricoltura aumentata quattro volte e questa volta senza aumentarne le prestazioni, perché per errato calcolo negli anni precedenti si prelevava più di quanto si pagasse. È un miracolo di quella riforma ante lettera degli istituti previdenziali, che io spero si ripeta parecchie volte per arrivare davvero ad impostare e risolvere questo problema della riforma previdenziale su basi razionali, che sono anche quelle della diminuzione del costo delle prestazioni.

Assistenza. Il problema della disoccupazione.

Le statistiche della disoccupazione dal gennaio 1946 in poi sono aumentate con ritmo vertiginoso, e ad un vecchio studioso di statistiche la semplice indicazione dell’ammontare e dell’andamento della curva non poteva tardare a rivelare che c’era qualche anomalia. Le anomalie sono saltate fuori quando sono cominciati gli accertamenti: fior di occupati i quali erano iscritti fra i disoccupati ed alcuni di questi – onorevole Di Vittorio, lei non ne ha colpa, ma neanche io ne ho colpa, nessuno ne ha colpa, ne hanno colpa solo loro – andavano ad ingrossare la piccola pattuglia dei disoccupati italiani che percepiscono l’indennità. E bene hanno fatto coloro che presiedevano all’amministrazione della giustizia in Italia a provvedere energicamente. Devo aggiungere che, per quanto riguarda Roma, si è dovuto un po’ attenuare l’energia, perché temevamo di dover trasferire troppi falsi disoccupati non proprio in case di lavoro. (ilarità).

Comunque, dagli accertamenti in materia di disoccupazione sono saltate fuori delle cose veramente spassose. Fra l’altro, questo, che l’Italia è l’unico Paese in Europa e nel mondo, in cui i disoccupati o gli iscritti agli Uffici di collocamento, dal giugno al settembre, anziché aumentare, diminuiscono. Perché? Perché si continua a spulciare e a trovare continuamente che c’è gente la quale indebitamente, qualche volta per negligenza (anzi, rendiamo onore ai nostri concittadini, la maggior parte delle volte per negligenza) resta, dopo due o tre mesi dall’occupazione, iscritta ancora nelle liste.

Per affrontare il problema della disoccupazione bisognava incominciare ad accertare il fenomeno. Gli accertamenti sono in corso, ed è in funzione di questi accertamenti che il Governo è potuto arrivare ad una conclusione.

PAJETTA GIAN CARLO. È un problema anagrafico.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Magari fosse solo anagrafico!

Ne veniva fuori questo, che, accertando che in Italia non esistevano due milioni e 200.000 disoccupati, come figurava nel febbraio scorso, ma forse la metà, il Governo poteva impostare una soluzione meno spilorcia del sussidio di disoccupazione e vedere, racimolando tutte le riserve possibili, se questo sussidio poteva essere aumentato oltre le 50 lire che noi abbiamo trovato. Il 12 agosto di quest’anno, con decreto di quella data entrato in vigore il 13 settembre, infatti, il sussidio di disoccupazione è passato da cinquanta a duecento lire. Ed in quell’occasione – altra prova della collaborazione che dall’esterno forse nessuno immaginerebbe, fra Governo e Associazioni e Confederazioni sindacali – quando esaminando insieme il provvedimento con le varie organizzazioni di categoria, uno dei Segretari della C.G.I.L., Fernando Santi, ebbe a dirmi: ma, probabilmente, è poco indovinato dal punto di vista psicologico il portare l’indennità di disoccupazione da cinquanta a duecento lire e contemporaneamente dire che le duecento lire conglobano anche l’indennità di caro-pane, io non ebbi che da ringraziare questo Segretario della C.G.I.L., e dire: benissimo, il Governo è disposto anche a far sì che le duecento lire abbiano non nel loro interno, ma all’esterno, l’indennità di caro-pane. Contemporaneamente quadruplicammo l’indennità dei figli a carico. E lo stesso 12 agosto provvedemmo per il nuovo trattamento di integrazione. Naturalmente siamo qui arrivati alla serie dei provvedimenti di cui si sta discutendo.

Devo, prima di entrare nella discussione, ricordare un altro decreto dei primi di ottobre, quello che garantisce i salari arretrati di un mese e l’indennità di licenziamento agli operai e agli impiegati di imprese, che per dissesto venissero a cessare la propria attività. Credo sia un provvedimento unico al mondo, almeno negli Stati occidentali.

Su quello che si è potuto fare in materia di nuova occupazione, distinguendo in due settori all’interno e all’estero, farò un breve accenno. L’onorevole Di Vittorio nella sua interpellanza e nel suo svolgimento ha detto: «Occorre fare dei lavori pubblici». Ha parlato di una cifra: 60 miliardi. Sono esattamente 65, ed in questa misura: 25 all’agricoltura, 40 ai lavori pubblici, i miliardi stanziati dal Governo. Il Governo ha mobilitato e sta mobilitando questa somma per far sì che durante la stagione invernale i lavoratori, più che avere sussidi, abbiano lavoro. L’onorevole Di Vittorio dice che sono pochi: anche io sono convinto di questo, come pure lo sono tutti i membri del Governo. Evidentemente, c’è un limite alla soddisfazione dei nostri desideri. In tutta questa politica, come in tutti quanti gli aspetti della politica. E il limite da che cosa è rappresentato? In questo caso specifico, dalla necessità di non aumentare ulteriormente la circolazione, dalla necessità quindi di trovare delle entrate che facciano fronte a queste spese ed a tante altre che ogni giorno aumentano.

A proposito di questa nuova occupazione interna, il grande problema, la tragedia della situazione italiana è: disoccupati, possibilità di occupazione; e nessun incontro, nessun matrimonio legittimo fra l’occupazione ed i disoccupati. Perché? Perché per troppi anni giovani italiani sono stati avviati non ad operazioni di pace ed a opere costruttive, ma ad opere distruttive. Occorre in ritardo quindi, con una serie di inconvenienti gravissimi, provvedere a dare a questi giovani quello che non ebbero quando era tempo: la qualificazione professionale. Il problema è stato sollevato dalla C.G.I.L. da tempo. Questo problema ugualmente noi abbiamo sollevato, su esso desideriamo arrivare a concreti provvedimenti oltre quelli già presi. Per questo il Governo ha deliberato lo stanziamento di due miliardi per corsi di qualificazione.

Queste intenzioni ho comunicato in questi giorni alle organizzazioni sindacali interessate perché collaborino col Governo a dare la forma più idonea ai corsi, per far sì che non si moltiplichino le scuole, che non sarebbero frequentate a 30-35 anni. Con la fame e la paura della disoccupazione, non si va nelle scuole a mangiare i libri. Viceversa, occorrono macchine, cantieri, reparti in cui uomini, che in ritardo arrivarono alla qualificazione, possano qualificarsi nell’unico modo possibile a quell’età: cioè lavorando e imparando. Imparare, ma naturalmente avendo una situazione che non può essere quella del semplice disoccupato.

Proprio stamani, onorevole Di Vittorio, ho avuto la risposta che lo schema è piaciuto anche alla Confindustria. La Confindustria ha detto che è disposta, secondo le promesse che lei stesso ha sentito nei giorni scorsi, a dare un contributo affinché la somma di due miliardi sia integrata. Queste faccende dovete discuterle fra di voi, onorevole Di Vittorio: il Governo fa il notaio. Bisogna che queste 200 lire che oggi i disoccupati hanno, siano, non dico raddoppiate, ma possibilmente un po’ più che raddoppiate.

Il mercato estero del lavoro: è una valvola che ha funzionato come ha potuto. Gli accordi stipulati dai passati Governi sono stati eseguiti meglio che si poteva, con qualche notevole inconveniente, che il Comitato interministeriale dell’emigrazione, al quale partecipano le organizzazioni interessate, sta affrontando. Sono in corso tentativi e trattative per migliorare gli accordi stessi: missione Jacini in Argentina, fra pochi giorni riunione della commissione mista italo-francese, alcune nostre richieste che si stanno formulando alla Svezia, non per migliorare la situazione, che è ottima in Isvezia, ma per aumentare il contingente: altre trattative con la Cecoslovacchia per aumentare il contingente e per far sì che i nostri emigranti in quel Paese abbiano un trattamento rispondente al trattamento salariale, soprattutto per quanto riguarda gli assegni familiari, percepito in Italia.

A proposito di emigrazione, tutti possono visitare il centro di Milano, realizzato dal Governo in una forma, non voglio dire signorile, ma decorosa, affinché tutte quante le delegazioni straniere, che in questo centro sono accolte per convogliare nei rispettivi paesi i nostri emigranti, abbiano la sensazione che in Italia i lavoratori sono trattati bene; non dico perché imparino, ma perché si convincano che il trattamento da noi fatto ai nostri lavoratori pretendiamo sia fatto ad essi anche negli altri Paesi. (Applausi al centro).

Con questi ultimi provvedimenti e con questi ultimi accenni siamo arrivati proprio al nocciolo della questione, impostata in termini sufficientemente obiettivi, certamente sereni, dall’onorevole Morandi.

Esamineremo questi provvedimenti, che avrebbero dato la stura allo sblocco; ma prima mi sia consentito riferirmi ad una cifra, che il Presidente del Consiglio indicò qui nelle sue dichiarazioni conclusive del dibattito sulla mozione di sfiducia al Governo. Egli disse che coi provvedimenti presi dal Governo – come era suo dovere – tra il 7 giugno e il 2 ottobre, solo nel settore privato, solo in materia previdenziale (assegni familiari, assistenza), si erano travasati o si erano adottate disposizioni perché si travasassero, nel corso dell’anno finanziario 1947-48, dalle tasche degli abbienti a quelle, troppo spesso perfino sdrucite, dei lavoratori, 80 miliardi di lire; con l’ultimo provvedimento abbiamo superato i 90. E questo dica come noi cerchiamo, meglio che possiamo, di fare il nostro dovere, stimolati, per di più, come siamo, dall’accusa che saremmo un Governo contrario ai lavoratori.

Capite, ora – e vi svelo un nostro segreto, colleghi dell’opposizione – che più insistete su questa accusa, più noi faremo di tutto per andare incontro ai lavoratori. (Applausi al centro).

SCOCCIMARRO. Adesso che lo sappiamo lo faremo senza economia.

Presidenza del Presidente TERRACINI

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Il problema dello sblocco dei licenziamenti, più esattamente chiamato dall’onorevole Morandi problema della smobilitazione o, meglio, della riduzione del sovraccarico di lavoro o della, potremmo dire, razionalità dell’impiego dei lavoratori, non è nuovo; non voglio dire che nacque quando nacque il blocco; il problema dello sblocco nacque, però, nell’agosto del 1946. Allora il Governo decise di costituire una Commissione interministeriale con Sottocommissioni per studiarlo e avviarlo a soluzione. In una di quelle riunioni, a cui partecipava naturalmente anche la Confederazione generale del lavoro, fu dichiarato dalla C.G.I.L., nel verbale 14 dicembre 1946 che: «La Confederazione subordinava le trattative relative allo sblocco dei licenziamenti alla regolamentazione delle funzioni e dei compiti delle Commissioni interne». In quell’occasione la Confederazione italiana dell’industria propose che, per non mettere sul lastrico le maestranze licenziate, fossero devoluti adeguati sussidi di disoccupazione, ed il Ministro del lavoro – aggiungeva la Confindustria – avrebbe dovuto esaminare con molta attenzione la possibilità di instaurare una larga politica di sussidi di disoccupazione. Questo verbale fotografa abbastanza bene le rispettive posizioni quali erano all’inizio di questa vertenza e di questo problema.

Nel mese di luglio 1947 si parlava ancora dello sblocco, ma non era stata ancora trovata una soluzione, anche perché la Confederazione generale del lavoro continuava ad insistere e – a mio modo di vedere – giustamente, sulla necessità di premettere ad una attuazione dello sblocco, l’individuazione e la determinazione dell’organo atto a disciplinare questo sblocco, tornando alla sua posizione del 14 dicembre 1946. In varie lettere, che ho, la Confederazione più volte, alle richieste della Confindustria e alle mie, sempre insistette nel dire: bisogna, prima di fare una legge la quali confermi – questo era il punto di vista del Governo – l’esistenza legale della possibilità dello sblocco o dia – questo era il punto di vista dalla C.G.I.L. – la possibilità dello sblocco stesso, realizzare un accordo per le Commissioni interne. L’accordo per le Commissioni interne verteva soprattutto sulla formulazione dell’articolo 2, il quale avrebbe dovuto stabilire le funzioni generali delle Commissioni interne. Senza che si fosse stabilito l’articolo 2, non si poteva arrivare ad applicare l’articolo 3, che già era stato formulato, d’accordo tra le due Confederazioni, e che prevedeva le modalità di intervento della Commissione interna nella gradualità dei licenziamenti. Naturalmente in questa circostanza il Governo, intervenendo, si assunse l’obbligo e l’onere di predisporre i due provvedimenti, che più volte le due Confederazioni avevano richiesti. Un primo provvedimento che regolasse meglio la materia delle integrazioni, vale a dire provvedesse ad una ulteriore assistenza per i lavoratori licenziati; un secondo provvedimento che, in un successivo periodo di licenziamento, desse un sussidio di disoccupazione meno visibile di quello che fino allora si era dato. La Confederazione generale del lavoro discusse insieme con noi, in gran parte, questi provvedimenti, i quali furono trattati alla presenza non dell’onorevole Di Vittorio, il quale era assente, perché si trovava in non so quale zona d’Italia, per appianare e dissipare gli scioperi (Ilarità al centro), ma alla presenza di Santi, di Rubinacci e, certamente, di Bitossi, prima che Bitossi si recasse in Russia con la nota nostra missione sindacale. Orbene in quella circostanza – debbo dire le cose come stanno – i rappresentanti della Confederazione generale del lavoro, ad esclusione dell’onorevole Di Vittorio, che era assente, discutendo con me il famoso articolo 2 dell’accordo per le Commissioni interne, arrivarono a dire che lo sblocco si doveva attuare contemporaneamente con due provvedimenti: uno di natura sindacale (accordo fra le Confederazioni) ed uno di natura governativa. Naturalmente, aggiunsero che secondo loro la perfezione del sistema si sarebbe ottenuta quando la Confindustria si fosse decisa ad esaminare la loro vecchia proposta (proposta dei lavoratori) di integrare l’indennità di licenziamento, e quando da parte del Governo si fossero prese misure per i corsi di riqualificazione.

Ecco la genesi di tutta la legislazione che stiamo studiando.

Il 1° di agosto il Consiglio dei Ministri, mi pare alle 8 e mezzo di mattino, si riunì per approvare il decreto sul nuovo sistema di integrazione ed il decreto sull’aumento dei sussidi dei disoccupati, cioè il sistema congegnato. In quegli stessi giorni la Confindustria e la Confederazione generale del lavoro stavano ultimando, in riunioni alle quali io stesso partecipavo, l’accordo per le Commissioni interne. Nello stesso giorno in cui io discutevo e facevo approvare i due decreti, la Confederazione generale del lavoro scriveva un’ultima lettera con le sue richieste ulteriori, a proposito del decreto che noi stavamo approvando, in data 1° agosto. Ma io ricevetti la lettera, sebbene più rapidamente del solito, solo il 2 agosto, quando il decreto era già stato approvato. Comunque, gran parte delle richieste sulle quali tornava la Confederazione del lavoro, poiché oralmente mi erano già state fatte, erano già accolte nel decreto. Per esempio, l’onorevole Morandi mi ha rimproverato di aver fissato due mesi di tempo per far sì che i lavoratori licenziati dovessero beneficiare dei sussidi e delle provvidenze predisposte. Ma questi due mesi costituivano la richiesta precisa della Confederazione generale del lavoro!

Lettera n. 23265 – onorevole Di Vittorio – in data 1° agosto, con le firme autentiche di Bitossi, Pastore ed un’altra che mi pare di Santi. A questo proposito, esattamente la Confederazione chiedeva inoltre che venissero allargati i termini per poter fare le prescritte domande, e secondo la richiesta orale (qui non si arrivava a specificazione, ma nei giorni precedenti il Santi ne aveva già fatta la richiesta orale) io avevo modificato in 15 giorni anche questo termine per le prescritte autorizzazioni. Naturalmente, la Confederazione generale del lavoro faceva altre richieste. Io risposi subito, il giorno 2, e lamentai che queste ulteriori richieste aggiuntive a quelle altre che erano state fatte, mi fossero formulate il giorno in cui ne discuteva il Consiglio dei Ministri e fossero pervenute dopo che la approvazione stessa del decreto era avvenuta. Comunque, per riparare ad alcune di queste richieste (problema della gradualità dei licenziamenti e istituzione di scuole di qualificazione professionale) il Governo che cosa ha fatto? Ha fatto e fa quello che in questi giorni i giornali hanno detto e che qui in parte si discute: ha prorogato ulteriormente, non di un mese, come aveva chiesto la Confederazione generale del lavoro, ma di un altro mese e mezzo, fino al 31 dicembre, i termini per questi sblocchi, per consentire una maggiore graduazione di questi licenziamenti. Del resto, il Governo, come l’onorevole Di Vittorio avrà visto nella discussione di lunedì sera, non è alieno dal considerare le proposte che dovessero venire dalle due parti, perché nessun proposito c’è nell’animo dei governanti d’Italia di prendere i lavoratori e buttarli sul lastrico per la gioia sadica e impolitica di vedere aumentare le proteste contro il Governo stesso. Ora, dall’insieme di queste richieste risulta che la Confederazione del lavoro chiedeva la gradualità dei licenziamenti; ma lo strumento per attuare questa gradualità la Confederazione se lo era già assicurato ottimamente con l’articolo 3 dell’accordo fra le Commissioni interne del 7 agosto, il quale, al paragrafo 2 dice: «la Direzione dell’azienda e la Commissione interna, su richiesta di quest’ultima, esamineranno, con spirito di mutua comprensione, i motivi del licenziamento e le possibilità concrete da attuare, per evitarle senza costituire un carico improduttivo per l’azienda. A tal fine si terrà conto di elementi obiettivi, fra cui l’anzianità, il carico di famiglia, la situazione economica familiare, le capacità tecniche e di rendimento, ecc.». Nell’ipotesi che l’accordo non si raggiunga, vi è il paragrafo 3, che dice: nel caso che non si sia realizzato un accordo nella materia dei licenziamenti, la questione sarà deferita alla Camera del lavoro ed alle associazioni territoriali degli industriali, che esamineranno le ragioni addotte dalle due parti per addivenire ad un accordo. La procedura di conciliazione tra le organizzazioni Competenti deve essere tassativamente esaurita entro un termine di tre settimane dal giorno della comunicazione della Commissione interna. Poi ci sono altri paragrafi che prevedono altri aspetti del problema.

Quindi lo strumento c’era per la graduazione, e debbo anche aggiungere che ha funzionato. Quando tra breve noi passeremo a delimitare l’entità del fenomeno per vedere come si manifesta, vedremo che se oggi, pochi o molti, i licenziamenti minacciati non si sono attuati, si deve proprio al fatto che ha funzionato il paragrafo 3 di questo articolo. Quindi, il sistema «legge ed accordo» ha funzionato, e non certo a danno dei lavoratori. Dovremo fare qualche cosa di più per perfezionare questo sistema, nella eventualità che questo sistema abbia delle manchevolezze; e su questo punto siamo tutti d’accordo. Circa le modalità del funzionamento di questo sistema ha già in parte intrattenuto l’Assemblea l’onorevole Morandi.

In una circolare che il Ministero del lavoro ha emanato in data 28 agosto a tutte le organizzazioni di categoria, ai prefetti, agli uffici del lavoro ed agli ispettorati, per far sì che non nascessero equivoci e per richiamare l’attenzione sulla gravità del problema, sulla necessità che nessuno vedesse in questo sblocco una specie di inizio di carnevale per mettere della gente sulla strada, in questa circolare sono spiegate a parte tutte le modalità. Il sistema prevedeva l’eventualità che i licenziati, una volta che l’evento si fosse verificato, avessero bisogno di particolare assistenza. E che cosa stabiliva? Stabiliva che per i primi 60 giorni successivi alla data del licenziamento, la Cassa integrazione operai dell’industria dovesse pagare, a suo completo carico, i due terzi della retribuzione globale corrispondente a 40 ore settimanali e gli assegni familiari nella misura normale, a carico della Cassa relativa, il che vuol dire che viene consentito il trattamento che i lavoratori avevano in quelle aziende con supero di personale. Per i successivi 120 giorni son concessi gli assegni di disoccupazione previsti. E proprio per far sì che questi non fossero la cosa poco lauta di cui abbiamo parlato, in quella stessa data del 12 agosto si emanava l’altro decreto che portava l’indennità di disoccupazione da 50 a 200 lire e quadruplicava la quota per i figli a carico.

Dice l’onorevole Morandi che il Governo poteva far prima le trattative che adesso sta conducendo, a proposito dei termini e dei corsi. Ma queste trattative furono fatte: ho dimostrato come, a proposito dei termini, non ho fatto altro che accogliere la richiesta della Conflavoro, che probabilmente si è ingannata. In che modo? È facile spiegarlo: si è ingannata dello stesso inganno al quale soggiacque il Ministro del lavoro, pensando cioè che se lo sblocco si doveva fare, era molto più opportuno che si realizzasse prima dell’inverno, per non farlo cadere nel pieno dell’inverno stesso. È lo stesso motivo che oggi, quando ci ha portato a prorogare il termine oltre il prefisso 13 novembre, al 31 dicembre, ci ha fatto sorgere contemporaneamente nell’animo la preoccupazione di spostare ancora questa data; perché non credo che il giorno di San Silvestro sia il più adatto a mettere gli uomini fuori del luogo di lavoro.

Resta da chiarire – l’onorevole Morandi ha toccato questo problema, ma l’hanno toccato anche le due Confederazioni – il problema del trattamento ai lavoratori dell’Italia centro-meridionale.

Ora, bisogna tener presente che con questo provvedimento volevamo risolvere il problema dello sblocco e, naturalmente, il problema dello sblocco si poteva risolvere dove il blocco c’era stato. Nell’Italia meridionale il blocco, giuridicamente, non ci fu; di fatto, è vero, ci furono stabilimenti ed imprese che, per pressioni politiche dovute alla necessità di provvedere a bisogni umani, furono sovraccaricate di personale. Il problema bisognerà affrontarlo e bisognerà risolverlo.

In questo senso le due Confederazioni lunedì sera si sono trovate d’accordo, e credo che stiano formulando uno dei tanti promemoria al Governo e spero lo facciano in termini concreti, perché evidentemente non si può pensare di stabilire un trattamento speciale come quello fatto a questi lavoratori, a tutti i lavoratori licenziati per qualsiasi motivo. E bisognerà identificare bene l’obiettivo da raggiungere, che sia analogo a quello che abbiamo voluto raggiungere per l’Italia settentrionale.

Sulle ultime discussioni che tra Confindustria e Conflavoro ci sono state dalla fine di settembre alla metà di ottobre, sulla interpretazione dello sblocco, sulle modalità relative, chiedo venia all’Assemblea se non mi trattengo, anche perché la questione è ormai superata. Ed è superata nel senso che ho sempre auspicato e cercato di far conoscere attraverso i giornali, cioè con serenità, con un senso di intesa; perché qui non è un problema di una categoria o di un’altra: è un problema di uomini che rischiano di trovarsi nel pieno dell’inverno in condizioni che nessuno di noi invidia. E naturalmente il Governo non può essere cieco di fronte a questo fatto; ma naturalmente nemmeno cieche devono essere le parti in causa.

Ho potuto constatare proprio ieri sera – rispondendo brevemente all’onorevole Morandi, accennavo appunto a questo fatto – ho potuto constatare, dicevo, che ieri sera questo equivoco era già completamente dissipato. Io mi auguro, pertanto, che l’atmosfera di comprensione che ieri c’era tra le due Confederazioni continui a beneficio di questi cittadini italiani, i quali non chiedono se non di continuare a lavorare e di passare l’inverno nel modo meno grave possibile.

C’è, sì, il problema dell’entità del fenomeno. Guardate: lo sblocco ha prodotto una serie di effetti. Fra l’altro, uno di cui posso dare notizia – immagino che qualcuno non ci crederà – è questo: un’impresa di Torino ha incominciato ad assumere lavoratori oltre quelli che aveva, dopo che è avvenuto lo sblocco; e ne ha detto le ragioni. Ha incominciato ad assumere dopo che era venuto lo sblocco perché, finché c’era il blocco temeva che, una volta assunti questi lavoratori per necessità di lavoro, fosse ad essa poi impossibile licenziarli, quando la necessità di lavoro fosse venuta meno.

DI VITTORIO. Si era ovviato a questa difficoltà: dopo il 25 aprile.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Sì, in parte si era ovviato; però, oltre a questi, ci furono anche gli aspetti non benevoli, per i quali io trovò legittimo che i partiti, i rappresentanti dei partiti, abbiano sollevato il problema nell’Assemblea ed abbiano chiesto chiarimenti al Governo.

L’onorevole Morandi ha detto che, per la sola città di Milano, si sarebbero fatti, o si starebbero facendo, licenziamenti che interessano dalle quaranta alle cinquantamila famiglie; a Genova, dalle quindici alle ventimila. Per fortuna, io posso assicurare l’onorevole Morandi che non è questa l’entità dei guai che si profilano all’orizzonte.

Io ho dei dati. Prego l’Assemblea di esimermi dal leggerli integralmente, azienda per azienda; anche perché sarebbe mio desiderio non renderli di pubblica ragione per un senso di riguardo verso i lavoratori stessi. Posso dire comunque che, per le province di Milano e di Varese, i licenziamenti preannunciati, e non ancora notificati come tali, ma proposti a queste famose commissioni interne, oscillano fra i 4150 e i 5150.

DI VITTORIO. Ma se solo la Caproni…

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Un momento: questi sono i dati precisi ed esatti dell’ispettorato del lavoro di Milano.

Una voce a sinistra. Ma sono dati fantastici!

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Se l’assemblea lo desidera, posso fornirli alla Presidenza, ma vorrei, come ho già detto, non renderli di pubblica ragione per un senso di riguardo verso i lavoratori delle aziende indicate.

Facendo dei calcoli sulla capacità produttiva attuale della O.M., si arriva, sì, a una certa cifra complessiva di esuberanti cui accennava poc’anzi l’onorevole Morandi, ma ancora alla notifica in ragione di questa cifra non si è arrivati.

Per un’altra impresa bresciana, si è arrivati ad una cifra di molto, di molto inferiore, a quella cui accennava l’onorevole Morandi. Genova: il capo dell’ispettorato del lavoro di Genova ha comunicato che a tutto stamane sono stati effettuati licenziamenti solo in casi sporadici, in numero non superiore a dieci. (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Perché li abbiamo impediti.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Li avete impediti perché il sistema funziona.

Una voce a sinistra. No, perché c’è una discussione in corso.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Come no? Attraverso l’articolo 3 delle Commissioni interne. E posso dire di più: che sono stati impediti anche dal fatto che è venuta la proroga, perché molti di questi industriali dicevano – e la ragione è credibile – che fino a quando il termine era il 13 novembre non potevano assumersi oltre la responsabilità di licenziare gli operai anche quella di licenziarli scaduto il termine, mettendoli cioè in condizioni di non partecipare ai benefici previsti dalla legge. Quindi è pensabile che questa proroga abbia funzionato come una battuta d’arresto e consenta, dando tempo alle Commissioni interne, che ne hanno diritto in base all’accordo fatto, di intervenire per predisporre quella gradualità per i casi assolutamente indifferibili; per gli altri hanno diritto di chiedere la sospensione.

Ora, per Genova la situazione si presenta peggiore di quella di Milano, perché esistono lì dei complessi, o meglio un complesso I.R.I., che è particolarmente sovraccarico di lavoratori. Orbene, sommando tutte queste possibilità di licenziamenti (perché io ho avuto assicurazione precise dai dirigenti dell’I.R.I. che ancora nessun licenziamento è stato fatto e che sono state prese le misure perché non siano fatti fino a che non avremmo studiato, preordinato, individuato, o meglio, realizzato…

Una voce a sinistra. Ma se abbiamo delle lettere che ci dicono che sono stati licenziati!

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. No, signori: sono preannunciati. E si arriva per Genova, qualora tutti questi preannunci si realizzassero, scaglionati in un tempo assai lungo, o meglio non lungo quanto desidereremmo noi; lungo rispetto alla brevità minacciata nei giorni scorsi, ad un totale di diecimila lavoratori.

Torino. Fino al 20 ottobre si sono avuti soltanto pochi licenziamenti. Dal 20 ottobre ad oggi si sono licenziati meno di 300 operai. Un grande complesso come quello della Fiat, che occupa 50 mila operai, prevede un licenziamento di duecento operai. (Commenti al centro).

In totale, per Torino e provincia si prevedono dei licenziamenti nei prossimi mesi, e non nei prossimi giorni, tra i 4500 e i 5000 operai.

Poiché io non attingo ad una sola fonte (credo che sia mio dovere), sono ricorso a fonti diverse. (Il Ministero del lavoro ha anche questa fortuna, di avere due diverse fonti: gli Uffici del lavoro e gli Ispettorati del lavoro). Per quanto riguarda precisamente Torino ho ricevuto oltre a questa comunicazione, anche un telegramma di altra fonte, sempre ufficiale del Ministero del lavoro, il quale diceva: «Licenziamenti sinora effettuati in Torino e provincia dopo 20 ottobre seguono andamento normale. Licenziamenti probabili ora preannunciati settore industriale ammontano globalmente a poche centinaia di unità. Segue espresso». E naturalmente l’espresso ci dirà i termini della questione.

Da una terza fonte risulta che in provincia di Milano sarebbero stati dati preannunci di licenziamenti per 4000 lavoratori.

Per il resto della Lombardia 8500; per la Liguria 10.000 (le cifre collimano); per il Piemonte, da 3 a 4000; per l’Emilia 1000; per il Veneto 1000. In totale, fra 27.500 e 28.500. Naturalmente, tutti questi sono casi in contestazione fra le Commissioni interne e le direzioni degli stabilimenti, non sono licenziamenti effettuati.

Finora l’I.R.I. ha licenziato in tutta Italia solamente 400 operai, nella Filotecnica, a Milano.

Il sopraccarico dell’I.R.I. è notevole; notevole soprattutto a Genova e meno notevole a Milano. Complessivamente questo sopraccarico attuale, urgente, non supera le 11.000 unità.

C’è il problema dell’I.R.I. nell’Italia meridionale, ma ho avuto la confortante notizia che per quanto riguarda Napoli non si prevedono – anzi si escludono in modo assoluto – licenziamenti da parte dell’I.R.I. Anzi si predispongono piani perché venga mantenuta la capacità lavorativa attuale, e questo in funzione proprio dell’ormai noto stato di disagio in cui, specialmente a Napoli, la classe dei lavoratori metalmeccanici si trova.

Si è accennato anche alla Finsider. Ora i dirigenti della Finsider, oggi stesso mi hanno fatto arrivare all’ultimo momento, nel primo pomeriggio, l’assicurazione che le eccedenze (non licenziati o preannunciati licenziati!), le eccedenze del complesso industriale vanno fra 3500 e 4000. Quindi, nemmeno da questa parte vedremo una pioggia di licenziamenti!

C’è il problema di Taranto. Credo che i Cantieri navali di Taranto abbiano dato una prova di come si debba attuare il provvedimento. Che cosa hanno fatto? Prima di preannunciare licenziamenti, cioè prima di creare uno stato d’animo difficile ed inspiegabile per chi non capisce la gravità del provvedimento stesso, i dirigenti dei Cantieri navali di Taranto si sono rivolti alla Confederazione dei lavoratori e al Ministero del lavoro ed hanno detto: studiamo, prima di preannunciare questi provvedimenti, le modalità per assorbire l’assorbibile, per avviare gli avviabili in altri settori. E, attraverso l’intervento (che i dirigenti di Cantieri di Napoli del resto dichiararono apertamente) della Confederazione del lavoro e – per la parte che gli spettava – del Ministero del lavoro, è stato disposto un piano graduale e in parte un avviamento ad altri settori di queste quattro o quattrocentomila unità dei Cantieri navali di Taranto.

È questo, anzi, un tipico esempio, che conviene segnalare, di quello che può l’intesa fra gli interessati.

Una voce a sinistra. Corporativismo.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Non è corporativismo, è intesa fra la Confederazione del lavoro e la Confederazione industriale.

Attraverso questa intesa si arrivò anche ad una razionalizzazione (e mi pare che fu proprio l’onorevole Di Vittorio che persuase la commissione interna ad intenderne l’opportunità nell’interesse di tutta la massa dei lavoratori), la razionalizzazione del pagamento dei cottimi.

Ho creduto mio dovere segnalare questo esempio, perché mi pare che in questo momento – in cui forse alcuni per loro conto hanno creduto di approfittare di questa legge di sblocchi senza prendere cura delle conseguenze – l’esempio di quello che è avvenuto a Taranto possa segnare per tutte quante le imprese la via da seguire.

Percentuale. La percentuale, oltre ai 27 mila licenziamenti previsti nell’alta Italia, è per ipotesi di altri 13 mila. Se volete aggiungiamo altri 10 mila. Altri 23 mila per le altre Regioni d’Italia in base alle notizie che ho…

BITOSSI. Savona, Imperia, La Spezia, Livorno.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Io ho tutte le notizie possibili in questo momento. Non gioco al lotto e quindi non posso tirare fuori delle cifre a caso. (Applausi al centro).

LIZZADRI. Le tira lei le cifre.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ad ogni modo ho aggiunto a queste cifre altri 23 mila casi prevedibili…

LIZZADRI. Come fa a dirlo? Questi sono numeri al lotto.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Per larghezza. Si arriverebbe in questa ipotesi a 50 mila licenziabili. I 50 mila licenziabili rispetto al totale degli occupati nell’industria in Italia sono meno dell’uno per cento e se ci si riferisce (non mi rallegro di questo, ma siccome bisogna misurare il fenomeno, cerco di misurare tutto insieme; vedremo poi come ridurlo) solo al settore dei metalmeccanici, al quale nella generalità dei casi questi licenziamenti si riferiscono, si arriva la circa il 4 per cento. Se vogliamo attenerci solo alle cifre note, e cioè ai 27 mila licenziabili dell’Alta Italia preannunziati, rispetto agli occupati nel settore industriale, trasporti e comunicazioni nell’Alta Italia – due milioni e duecentomila – i 27 mila sono uno ed un mezzo per cento. Se vogliamo scendere invece ai confronti regionali e si confrontano ì disoccupati preannunziati per ogni regione, con gli occupati nel settore industriale in ogni regione, si arriva a questa percentuale: meno dell’uno per cento in Piemonte; quattro per cento in Liguria…

Una voce a sinistra. Sempre la Liguria!

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. È la regione che più ci deve preoccupare.

Dicevo il quattro per cento in Liguria; 1,3 per cento in Lombardia; 0,3 per cento nel Veneto e 0,4 per cento nell’Emilia.

Ma devo aggiungere che per queste due ultime regioni non possiamo lasciarci sollevare da queste cifre, perché si tratta di due regioni eminentemente agricole, in cui la disoccupazione massima e quindi la nostra massima preoccupazione deve essere rappresentata dai braccianti e dai disoccupati agricoli.

Questo è stato il motivo per il quale il Governo, predisponendo un piano di opere pubbliche, ha preso particolarmente in considerazione queste regioni destinando ad esse una somma di miliardi che è notevolmente superiore a quella destinata alle altre regioni.

In questa situazione, che preoccupa, che cosa si chiede dai lavoratori e dai rappresentanti dei lavoratori?

Io credo di ritenere che si può ricorrere a dei testi per così dire ufficiali, certo, molto autorevoli, come un articolo di Fernando Santi sull’Avanti di ieri, il quale fa dei rilievi. Comincia col riconoscere che vi sono delle aziende (il riconoscimento è stato fatto dall’onorevole Morandi e ripetuto dall’onorevole Di Vittorio) in cui il peso della manodopera non può più continuare senza che rischi di schiacciare la possibilità di vita dell’azienda stessa, riconoscimento che tutti facciamo. È un riconoscimento il quale non esonera dal predisporre tutti i mezzi opportuni per far sì che di questa smobilitazione il peso non sia portato dai lavoratori.

Aggiunge Fernando Santi: «Gli industriali hanno attinto per ventenni alle proprie aziende non investendo i larghi profitti in riserve o impianti, ma in attività extra aziendali. Queste ricchezze devono tornare al patrimonio dell’azienda o costituire comunque garanzie per i finanziamenti che si sollecitano».

Evidentemente questo passo io penso che dovrebbe essere sottoscritto da tutti quanti noi.

DI VITTORIO. Trasformatelo in una legge.

FANFANI, Ministro del Lavoro e della previdenza sociale. Se l’onorevole Di Vittorio ha letto e meditato il decreto istitutivo del fondo per l’industria meccanica avrà visto che in esso è previsto anche questo.

La Confederazione generale italiana del lavoro – aggiunge Santi – chiede anche che si provveda a dare una qualifica professionale ai lavoratori che ne sono sprovvisti, per facilitarne l’assorbimento in quei settori che avvertono la mancanza di specializzati e per agevolare l’avvio a quei Paesi che ne fanno richiesta.

Siamo perfettamente d’accordo. Ci stiamo muovendo su questa strada. Desidero essere aiutato da tutti quelli che possono.

Ed aggiunge il Santi: devono a ciò contribuire lo Stato e gli industriali, poiché tanto il Paese, quanto questi ultimi beneficiano duella maggiore capacità produttiva della mano d’opera qualificata.

Pienamente d’accordo anche su questo, e non soltanto in teoria, ma in pratica, perché il decreto sui corsi che insieme dobbiamo discutere prima di arrivare ad una sua determinazione in sede legislativa, prevede proprio questo: il concorso dello Stato con due miliardi, un concorso proporzionale al numero dei disoccupati da parte degli industriali.

L’onorevole Bitossi è un po’ diffidente sul concorso degli industriali…

BITOSSI. Possono bastare per le scuole professionali di duemila persone?

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Se l’onorevole Bitossi desidera schiarimenti, gliene posso dare. Se noi pensassimo di creare delle scuole professionali, coi professori, coi banchi, coi calamai, colle macchine, i due miliardi farebbero ridere. Ma noi non vogliamo questo. Io penso che voi non volete questo. Io non presterei la mia collaborazione ad una cosa di questo genere, nonostante che con questo io precluda per l’eternità la mia candidatura al Ministero dell’istruzione pubblica.

Ma che cosa si deve fare? Incoraggiare i corsi che vi sono già. L’onorevole Bitossi sa che vi sono già. Vanno migliorati, ma esistono per esempio quelli dell’E.N.A.L. e dell’I.M.P.L.I. che l’anno scorso avviarono ad una migliore istruzione professionale, o ad un perfezionamento professionale qualche cosa come 70.000 lavoratori. Sono troppo scolastici ancora: occorre trasformarli nel senso che insieme desideriamo.

Si tratta di usare questi due miliardi per integrare le indennità di disoccupazione dei lavoratori, per far sì che si migliorino operando in settori speciali, industriali o dell’edilizia. Questi due miliardi servono ad avviare a questo perfezionamento qualche cosa come centoventimila lavoratori. Penso, onorevole Bitossi, che se solo con questo espediente si dovesse provvedere alla disoccupazione italiana, io dovrei associarmi al suo sorriso. Ma io non penso che solo con questo mezzo si debba provvedere. Bisogna fare qualche cosa di ragionevole perché molti lavoratori di qualificazione non ne hanno bisogno, altri lavoratori hanno bisogno di altre forme d’intervento. Per altri v’è tutto un sistema di lavori pubblici ai quali l’onorevole Di Vittorio ha accennato, e per i quali ha dato qualche notizia. Spero che nei prossimi giorni ne vengano di ulteriori, ma soprattutto spero che nei prossimi giorni si inizino questi lavori pubblici. Con le notizie soltanto la gente non si fa lavorare.

Sono state fatte altre richieste (le desumo dal Globo di stamane) dai lavoratori dell’alta Italia. Il giornale dice che queste nuove richieste verranno trasmesse al Governo. Le ho lette, ed ho visto che nella quasi totalità per quel che riguarda l’economia noi possiamo trovarci d’accordo. Non solo, dico che siamo su questa strada; che stiamo operando in questo senso.

Ho già accennato all’incontro avvenuto nei giorni scorsi fra la Confindustria e la C.G.I.L. Non torno su questo argomento: mi pare di buon auspicio. Naturalmente, occorre realizzare le speranze, e far sì che a quella riunione altre ne seguano; e siano riunioni fattive, concrete, che offrano la possibilità ed i mezzi di andare incontro a questi lavoratori.

Per quanto riguarda il problema di Genova, io posso dire che mi sono preoccupato della situazione. Ho qui perfino una cartina topografica. In una città come Genova non è indifferente far sorgere una scuola a Cornigliano o in un’altra zona. Quindi, bisogna provvedere razionalmente anche a questo aspetto che sembra secondario ma che è molto importante ai fini di far cosa utile ai lavoratori stessi.

V’è il problema dell’emigrazione: ho detto già qualche cosa.

V’è il problema dei corsi. Ho qui lo schema del decreto che insieme stiamo preparando. V’è tutta una serie (e potrei leggere la cronologia) di riunioni fatte o da farsi da ora all’8 novembre nelle varie zone d’Italia con l’intervento degli interessati: prefetti, Uffici del lavoro, Ispettorati del lavoro, per far sì che questi corsi escano dalla teoria e dal provvedimento per entrare nella realtà.

Questa, la rassegna che, a proposito del problema sollevato dagli onorevoli Morandi e Di Vittorio, fio ho creduto opportuno di fare per precisare la genesi del fenomeno e la sua attuale intensità; per aggiungere una parola sugli sviluppi, che potrebbero essere gravi di questo stesso fenomeno; sulla necessità, quindi, che oltre alle provvidenze prese dal Governo tutti quanti i cittadini italiani interessati a questo problema – evidentemente, primi gli industriali – manifestino appieno un grande senso di responsabilità.

Stiamo a trattare non di un semplice fenomeno economico, ma di un fenomeno economico che, come quasi tutti – vorrei dire, tutti – coinvolge problemi di esistenza, di dignità, di benessere di tutti quanti i lavoratori, e – starei per dire – di tutti quanti gli uomini.

È necessario che in questo momento venga, anche da parte del Governo, un invito a tutti coloro che possono intervenire favorevolmente per limitare il fenomeno, per combatterlo e, in una parola, per ridurlo; e per far sì che questa politica della massima occupazione possibile venga spinta davvero al massimo.

Non si tratta di fare un’opera che torni a beneficio di questo o di altri Governi: si tratta di fare un’opera che torni a beneficio di tutti quanti i nostri concittadini. (Vivissimi applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Morandi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MORANDI. Sarò molto breve nella mia replica, per dichiarare la mia insoddisfazione.

L’onorevole Ministro ha portato all’Assemblea una larga visione, come egli si è espresso, dei problemi del lavoro, forse troppo larga, fino a sommergere l’oggetto dalla materia propria dell’interpellanza.

Non starò a riprendere uno per uno gli argomenti ed i punti programmatici da lui esposti. Dirò soltanto che gli sviluppi di una politica della massima occupazione non hanno avuto finora fondamento troppo solido nella politica governativa. Poiché è vero certamente che la determinazione di procedere agli ammassi per contingente non è stata presa a questo fine, come non hanno avuto in vista quale loro scopo diretto la massima occupazione, i provvedimenti di carattere finanziario, cui ha fatto riferimento.

Di queste cose, come ho già accennato, noi ci riserviamo di riparlare in altro momento.

Onorevole Ministro, ella però è caduta in un grave sbaglio parlando dell’I.R.I., evidentemente perché male informato. Ha detto che si è già provveduto alla sua sistemazione perché di recente sono stati dati dieci miliardi a questo istituto.

FANFANI. Ministro del lavoro e della previdenza sociale. I dieci miliardi sono per la garanzia delle navi costruibili presso l’Ansaldo; forse mi sono espresso male.

MORANDI. Onorevole Fanfani, il Ministro del tesoro le può certamente dire in quale situazione versi l’I.R.I. I fondi assegnatigli, entro metà novembre saranno assorbiti per intero semplicemente dal pagamento delle paghe.

Quanto alla copertura delle commesse estere per ordinazione di naviglio, voglio osservare che soltanto l’Ansaldo è scoperta per 20-25 miliardi. Tale grave questione si è originata dalla nostra politica valutaria e forse anche da qualche errore nella stipulazione dei contratti.

Il Ministro del lavoro ci ha dato ancora una volta l’attestazione dello scarso interesse che il Governo porta alla situazione dell’I.R.I., della leggerezza con la quale ne tratta.

Voglio soffermarmi su un punto solo di quello che il Ministro Fanfani ha spiegato essere stato il processo di formazione della situazione attuale, la genesi, più particolarmente, dei provvedimenti da lui presi. Mi riferisco alle trattative che si svolsero nel settembre dello scorso anno, e all’indagine condotta da una commissione ministeriale. L’atteggiamento della Confederazione del lavoro risultò allora chiarissimo oltre che dalla lettera, soprattutto dallo spirito nel quale le trattative si svolsero, trattative cui parteciparono personalmente dei Ministri.

Si subordinava al nuovo accordo per le commissioni interne, non già l’attuazione dello sblocco, ma l’inizio di trattative per lo sblocco dei licenziamenti. Ho partecipato di persona a queste trattative e posso testimoniarne.

Ora, però, io avevo già prevenuto l’onorevole Ministro che poco ci poteva interessare, in merito all’argomento da noi svolto, la questione procedurale e la genesi dei provvedimenti. C’interessano molto di più le conseguenze derivatene di fatto: a questo proposito debbo dire che quando l’onorevole Ministro Fanfani sostiene che la gradualità nell’attuazione dello sblocco dei licenziamenti era automaticamente assicurata dalle facoltà di esame che erano conferite alle commissioni interne, io obietto che esse non potevano essere uno strumento valido allo scopo. Si trattava piuttosto di limitare con norme obiettive la quantità od il volume dei licenzia menti. È chiaro infatti che se gli industriali volessero – come pare che facciano – svolgere una loro politica del lavoro e tenere un atteggiamento tale da costringere le commissioni interne a negare ogni volta il loro assenso alle richieste di licenziamento avanzate in modo così smisurato per fare alla fine saltare il sistema, non v’è procedura migliore da offrire loro di quella che oggi si prevede. Per quanto riguarda il centro-sud l’onorevole Ministro ci ha detto che se ne tratta, e sta bene, ma questo avviene ora, e il provvedimento porta la data del 12 agosto. Ha la sua importanza quel che l’onorevole Ministro ha riferito circa l’entità del fenomeno. Mi consenta però di dubitare che le cifre di cui è in possesso rispondano alla realtà, non perché manchi veridicità alle cifre, nel momento in cui esse furono rilevate, ma perché il fenomeno si presenta con un aspetto incalzante e soggetto ad un accrescimento continuo.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Sono state rilevate stamattina,

MORANDI. Ella sa come funzionano questi apparati: non sarà certamente la situazione odierna che sarà stata rilevata dagli uffici del lavoro. Ad ogni modo, sommando le cifre che Ella ha portato, si avrebbe un complesso di 63.000 licenziamenti, e non 50.000. Noi però non abbiamo capito se siano da considerare tanti o pochi questi 50.000 o 60.000, il che importa un criterio di valutazione nei confronti del fenomeno. Se la cifra d’altronde fosse così ridotta, sarebbe da domandarsi per quale ragione si chiede lo sblocco da parte degli industriali con tanto accanimento e perché tanta spilorceria si pratica da parte del Governo nell’erogare i sussidi e nell’assegnare i termini.

Evidentemente è perché significa che ben altra ampiezza abbia ad assumere il fenomeno dei licenziamenti. Ora, a me pare che l’onorevole Ministro, al quale attesto ancora una volta la mia personale estimazione, abbia un po’ troppo incautamente preso oggi la difesa dei fatti, piuttosto che non del proprio operato. Egli ha voluto dare piena legittimazione a quel che sta avvenendo, e che ha causato lo sciopero a Milano, come potrà causare domani agitazioni e scioperi in altri centri. Egli ha detto che il Governo ha sentito e sente questa che è l’angoscia dei lavoratori. Sì, lo ha sentito teoricamente, ma non ci ha detto come intende di reagire davanti ad una situazione derivata come risultanza pratica, non che gli intendimenti che hanno ispirato le provvidenze prese, ma dal comportamento degli industriali. È quello che volevamo sapere, è questo che dobbiamo sapere.

V’è ancora qualcosa di assai grave, che si limita da parte nostra ad una constatazione in due parole. Io trovò una lacuna anche troppo significativa nella risposta del Ministro. Egli non ha fatto parola dei consigli di gestione. Eppure noi non abbiamo portato la questione dei consigli di gestione così per farlo, lateralmente, ma l’abbiamo svolta dall’interno del problema considerato, come una questione di fondo, per lo meno così la vediamo. Perché ancora questa volta, in questo momento, il Governo sfugge ad esse? Non possiamo usare altra parola che questa.

Onorevole Presidente del Consiglio ed onorevoli colleghi, commossi e preoccupati degli avvenimenti di questi giorni, noi avevamo cercato di provocare una parola che tranquillasse oggi le masse lavoratrici. È questa la nostra funzione. Onorevole Fanfani, non abbiamo bisogno dei suoi suggerimenti. È questo proprio che noi vogliamo fare: incalzare il Governo, tenerlo sotto un assillo continuo perché operi a vantaggio dei lavoratori piuttosto che contro di essi.

Ora, questa parola che noi abbiamo inteso di provocare non è venuta. Io non vorrei allora che la deliberata moderazione con la quale ho svolto l’interpellanza, fosse interpretata come un atto di debolezza o di cedimento. Credo di aver portato delle questioni non vuote del tutto, credo di aver pacatamente precisato, sotto qualche aspetto per lo meno, il significato e la portata di una questione come questa.

La risposta che abbiamo avuto non ci rassicura per niente. Pertanto non abbiamo a questo punto che da lasciare la parola ai fatti. Noi ci riserviamo di risollevare questa questione dopo la breve vacanza che l’Assemblea sta per prendersi, qualora la situazione non migliorasse. E, naturalmente, saremo anche più duri, se così si richiede per ottenere maggiore ascolto. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Di Vittorio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, il discorso dell’onorevole Fanfani, così ricco di dettagli sull’azione svolta dal suo Dicastero, credo che abbia eluso, come giustamente osservava anche il collega Morandi, la questione fondamentale posta dalla nostra interpellanza.

La questione fondamentale è questa: in presenza dei risultati generali della politica economica del Governo, in presenza della minaccia di licenziamenti in massa annunciati da numerosi industriali (e tornerò brevemente sui dati dell’onorevole Fanfani) si sono provocate nel Paese, alla vigilia dell’inverno, profonde preoccupazioni, particolarmente nelle masse lavoratrici.

Noi abbiamo chiesto al Governo se intendesse svolgere una politica economica produttivistica, di stimolo alla produzione, ricorrendo ai mezzi che sono necessari per raggiungere questo scopo, impedendo che ci si appoggi sulla forza di inerzia dei licenziamento e dell’abbandono al loro destino di migliaia e migliaia di lavoratori per vincere le difficoltà attuali; e se intendesse modificare la sua politica generale, per quanto riguarda il commercio con i paesi esteri e per aumentare le possibilità di lavoro e di esportazione del nostro Paese.

A queste domande, però, l’onorevole Fanfani praticamente non ha risposto. Il Ministro del lavoro ha ridotto il fenomeno dei licenziamenti annunciati a proporzioni assai modeste.

Tutti noi ci auguriamo che il fenomeno sia in realtà più modesto ancora; però, fra i dati che sono giunti all’onorevole Fanfani e quelli che sono giunti alla Confederazione del lavoro, vi è una grande sproporzione.

D’altra parte, non possiamo credere che la Confederazione dell’industria avrebbe posto il problema dello sblocco con l’acutezza, l’intransigenza, la forza con cui l’ha sostenuto se si fosse trattato appena di 4000 licenziamenti a Milano, di qualche centinaio a Torino, e di altre poche centinaia in altre province. Se la Confederazione dell’industria ha posto il problema come l’ha posto, compiendo verso la Confederazione del lavoro un atto di sfiducia, che noi abbiamo rintuzzato con forme moderate, ispirandoci sempre al più alto spirito di responsabilità, ma che è un fatto senza precedenti nella storia dei rapporti sindacali non soltanto in Italia, fra due grandi organizzazioni di datori di lavoro e di lavoratori; è evidente che il fenomeno ha proporzioni ben più imponenti di quelle che risultano dai dati comunicatici dall’onorevole Fanfani.

Comunque, noi desideriamo che il Paese sappia, che il Governo sappia che le masse lavoratrici e le loro organizzazioni sindacali, ispirandosi sempre alla preoccupazione non solo di non nuocere alla economia del Paese, ma di fare tutto ciò che è possibile per risanarla e svilupparla, non permetteranno però che si possa disporre dei lavoratori, delle grandi masse dei lavoratori come delle cose; non permetteranno cioè che si effettuino licenziamenti in massa.

I lavoratori insistono ed insisteranno perché si attui una politica che forzi in tutta la misura del possibile la produzione e l’assorbimento della mano d’opera in tutti i lavori produttivi che si possono eseguire nel nostro Paese (e non vengono eseguiti) e dei quali ho già fatto cenno.

Noi abbiamo posto, come urgente ed attuale, il problema dei consigli di gestione nell’interesse della produzione, perché si possano fare gli accertamenti necessari affinché i grandi industriali, e i monopoli, siano posti in condizione di non nuocere agli interessi del Paese, e quindi dei consumatori. Nell’interesse dell’economia generale del Paese vogliamo che i lavoratori, attraverso i consigli di gestione, cessino di essere semplici locatori di braccia e di menti – per quanto riguarda i tecnici e i dirigenti – e diventino invece i compartecipi coscienti, consapevoli, corresponsabili della produzione.

Voi, ai consigli di gestione non avete fatto nessuna allusione. È evidente: l’ostilità ai consigli di gestione si spiega soltanto per il fatto che i signori industriali tengono a riaffermare ed a consolidare il concetto dell’assolutismo del padrone nella fabbrica, considerando i lavoratori come gente che non deve partecipare, che non deve avere nessuna corresponsabilità, come dei semplici locatori di braccia.

I consigli di gestione esistono anche in altri paesi. I comités d’entreprise hanno dato in Francia eccellenti risultati, specialmente nelle aziende in cui hanno potuto svolgere con maggiore libertà la loro funzione; le aziende nazionalizzate della grande industria metalmeccanica, con la partecipazione dei comitati di impresa, hanno raggiunto e superato la produzione dell’anteguerra.

Ebbene, poiché attraverso i consigli di gestione i lavoratori possono procurarsi delle garanzie positive contro ogni possibilità di abusi e di ingiustizie da parte dei padroni, dei grandi industriali, noi insistiamo nel chiedere che questi organismi siano legalizzati ed estesi in Italia a tutte le aziende di notevole importanza. Il Governo non fa parola di tutto ciò; è per questo quindi che noi diciamo che i consigli di gestione, già funzionanti in Italia, terranno prossimamente un grande congresso cui inviteranno numerose commissioni interne funzionanti nell’ambito delle aziende. In questo loro congresso, essi riaffermeranno la volontà dei lavoratori italiani di partecipare al processo della produzione con eguale responsabilità, per poter collaborare allo sviluppo economico del Paese.

Si è parlato anche dell’I.R.I. e si sono dette delle cose di carattere generico. I consigli di gestione dell’I.R.I. da circa un anno ed anche da maggior tempo hanno elaborato un piano di riorganizzazione dell’istituto e delle principali aziende da esso dipendenti, fra cui l’Ansaldo. Il piano di riorganizzazione dell’Ansaldo prevedeva alcuni contributi importanti da parte dello Stato, ma presupponeva un risanamento di carattere definitivo.

Non si è preso in considerazione il progetto di riorganizzazione dell’I.R.I. e, in generale, tutti i problemi sono rimasti insoluti e si sono anzi aggravati e complicati. Questo accenno può contribuire a far risaltare l’utilità che i consigli di gestione possono avere e il torto che ha il Governo di non volerli accogliere e di non volerne nemmeno parlare per non dire al Paese le ragioni per cui si ostacola questa aspirazione che costituisce una profonda esigenza dei lavoratori italiani e del Paese.

Io domando perciò che il Governo si pronunzi sul problema fondamentale allo scopo di rassicurare i lavoratori che è sua intenzione di far qualche cosa di più, molto di più di quel tanto che ha previsto sinora in Italia e soprattutto esprima il proprio pensiero intorno ai consigli di gestione. (Applausi a sinistra).

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io vorrei che il problema dei consigli di gestione che qui qualche volta in forma polemica è stato trattato, fosse invece discusso in forma, direi, tangenziale. Se non esistesse infatti un organo di collaborazione operaia, voi avreste allora ragione di cercare questo organo nei consigli di gestione; ma poiché esiste un accordo fra i lavoratori e gli industriali per la procedura da seguire in caso di necessità di sblocchi e poiché quest’organo è rappresentato dalle commissioni interne le quali hanno un ufficio decisivo e determinante, io non ravviso la esigenza immediata dei consigli di gestione; i quali, del resto, investono un problema di ben maggiore ampiezza, tanto che potremmo continuare questa discussione per tutta la notte, senza giungere ad una conclusione. Essi riguardano infatti la produzione in genere.

È quindi ridicolo pensare che con un organo di tal genere si possano mutare le basi della produzione. (Proteste a sinistra). Ne potremo del resto parlare a tempo debito; non è però per niente vero che sia questo dei consigli di gestione un rimedio per la materia specifica dello sblocco dei licenziamenti. (Commenti a sinistra).

Ad ogni modo, parliamoci seriamente: credete che si possa oggi, per legge, imporre i consigli di gestione?

Voci a sinistra. Sì! Sì!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Io dico di no. (Interruzioni – Rumori a sinistra). Quando siamo venuti a questo banco per la quarta volta si era di recente ottenuto un accordo sulle commissioni interne, e allora abbiamo dichiarato: come è stato possibile ottenere un accordo tra le rappresentanze dei lavoratori sindacati e i rappresentanti degli industriali sulle commissioni interne, così deve essere possibile ottenere un accordo sui consigli di gestione.

Questa è la strada che si doveva percorrere anche nell’azione degli altri Ministeri. Ne abbiamo discusso anche con Morandi, ne abbiamo discusso tante volte: si trattava di ottenere la collaborazione, attorno a questo progetto, delle due parti, perché se i consigli di gestione costituiscono uno strumento di cooperazione con gli industriali, le industrie si possono salvare, ma se rappresentano un nuovo elemento di rottura allora ci portano al disastro. (Vivi applausi al centro e a destra – Rumori a sinistra – Interruzione del deputato Cacciatore).

PRESIDENTE. Facciano silenzio!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Le basti il fatto, onorevole Cacciatore, che in quasi tutte queste industrie in cui si arriva al blocco, nelle quali la produttività è scarsa e per le quali dobbiamo arrivare a misure così antipatiche, in quasi tutte, dico, esistono i consigli di gestione. (Rumori a sinistra).

Io riconosco che il problema dei consigli di gestione è molto importante. Io dico però: in un momento di crisi, in cui tutte le forze devono concentrarsi (Interruzioni a sinistra), bisogna che i consigli di gestione nascano dalla collaborazione fra gli uni e gli altri, ed è questo che si deve cercare. (Interruzioni).

Voi potete avere in mano un modo di attuazione, e il Governo si affretterà a consolidarlo, a dar forma giuridica a tutti questi accordi che valgano ad ottenerlo. Se in un certo momento questo non sarà possibile bisognerà ricorrere anche a forme di legge. Si farà; ma non in un momento di crisi industriale. (Vivi applausi al centro e a destra – Rumori a sinistra).

Quanto alle nostre disposizioni pratiche, vi basti l’esempio che stiamo introducendo – è stato deciso il 24 – il consiglio di gestione nell’unica grossa industria statale che abbiamo, l’industria del carbone in Sardegna, e in più, anche la partecipazione dei lavoratori al consiglio di amministrazione. Tutto questo prima non v’era. Noi non siamo contrari ai consigli di gestione; però… (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Però?

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. …però crediamo che si debba agire in un clima d’accordo, come si è fatto, per le commissioni interne, e a tutti gli sforzi che. tendono a questo scopo noi daremo il nostro appoggio.

Una voce a sinistra. Però, però!

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Però vi dico questo: che se continuano le agitazioni e gli scioperi, in questa maniera non si salva l’Italia e non si salva la Repubblica! (Vivissimi, prolungati applausi al centro e a destra – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Lo svolgimento delle interpellanze è così esaurito.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Caso, Riccio e Firrao hanno presentato la seguente interrogazione con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere le ragioni che hanno determinato la soppressione dell’Ispettorato provinciale forestale di Napoli, danneggiando il prestigio, sia pure in un settore soltanto, della grande città mediterranea e della sua provincia e mettendo in serio pericolo quella tutela boschiva che, all’indomani delle distruzioni belliche, merita invece di essere intensificata onde riparare i danni e dare nuovo rigoglio al patrimonio boschivo».

Mi riservo di darne notizia al Ministro competente perché faccia sapere quando intenda rispondere.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Ed ora, onorevoli colleghi, penso che possiamo sospendere per alcuni giorni i nostri lavori, per riprenderli il 6 del prossimo mese, alle 11, per lo svolgimento di interrogazioni. A tal proposito faccio presente che il Ministro dei lavori pubblici ha chiesto che per quella seduta siano poste all’ordine del giorno tutte le interrogazioni che gli sono state rivolte in questi ultimi tempi.

Nel pomeriggio dello stesso giorno, alle 16, ritengo che si potranno discutere i seguenti disegni di legge:

«Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico».

«Disposizioni relative al soggiorno nel territorio dello Stato ed ai beni degli ex regnanti di casa Savoia».

Poi, tempo avanzando, seguirà la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana; ma, comunque, nella seduta antimeridiana del giorno 7 potremo incominciare la discussione generale sopra gli ultimi due Titoli del progetto di Costituzione, e cioè: «La Magistratura» e le «Garanzie costituzionali».

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Prego l’Assemblea di voler consentire che la discussione dei due disegni di legge, annunziata dal Presidente, anziché nella seduta pomeridiana del 6 si faccia in una seduta posteriore al giorno 7, dato che fino a quel giorno sono impegnato, e con me credo molti dei colleghi avvocati, al Congresso forense di Firenze.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia chiede di rinviare di un paio di giorni la discussione dei due disegni di legge testé citati, perché a quella discussione egli desidera di essere presente. Credo che si possa senz’altro accogliere la proposta dell’onorevole Grassi.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Proporrei di iniziare l’esame dei disegni di legge nella seduta di lunedì 10 novembre.

PRESIDENTE. Terremo conto di questo suo desiderio. Credo che non vi siano ragioni particolari per non accettare la sua idea. Però questa sera l’Assemblea non deve prendere alcuna decisione per le sedute dal 7 in poi.

Se non vi sono osservazioni, rimane stabilito che la seduta antimeridiana di giovedì 6 novembre sarà dedicata alle interrogazioni e la pomeridiana al seguito della discussione del progetto di Costituzione.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e del bilancio, per sapere se risponde a verità la notizia secondo la quale il personale del Poligrafico dello Stato si sarebbe rifiutato di procedere alla stampa del fascicolo della Gazzetta Ufficiale contenente il nuovo ordinamento dell’Istituto Poligrafico stesso, e si sia poi indotto a dar corso alla pubblicazione in seguito a formale promessa che le disposizioni concernenti un limitato intervento dei rappresentanti del personale nel Consiglio di amministrazione, sarebbero state modificate nel senso desiderato dal personale medesimo.

«Nell’occasione si desidera conoscere se il Governo non ravvisi l’opportunità di rendere la stampa delle carte valori e quella delle leggi dello Stato indipendenti da intollerabili interventi esterni, incompatibili con la delicatezza della materia e col principio di sovranità dello Stato.

«Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, sui provvedimenti che intende di adottare per indurre la Prefettura di Bergamo a riconsegnare alla Ditta Fratelli Pero di Mortara l’autovettura Fiat 1100 targata PV 15190 (ora arbitrariamente targata BG 11564) rapinata dai fascisti, ed ora illecitamente tenuta da quella questura.

«In proposito si fa presente:

1°) che nel febbraio 1944 alcuni elementi della guardia fascista repubblicana di Vigevano si impossessarono della autovettura Fiat 1100 targata PV 15190 della Ditta Fratelli Pero di Mortara (Pavia);

2°) che tale autovettura andò a finire alla Prefettura di Bergamo, presso la quale a qualcuno ha fatto comodo di cogliere l’occasione (invece di restituirla alla ditta rapinata) di tentarne l’espropriazione trasmettendo, per la ditta rapinata, all’ufficio disciplina autoveicoli di Pavia, un assegno bancario di lire 28.800 in data 9 marzo 1945, quale prezzo di acquisto;

3°) che all’economato del Ministero dell’interno non risulta nessuna annotazione relativa a tale acquisto;

4°) che i fratelli Pero, non intendendo di sanzionare in qualsiasi modo la violenza e il danno subìto non soltanto si rifiutarono di ritirare il predetto assegno (che pertanto rimase a disposizione del mittente), ma fin dal gennaio 1946 presentarono domanda al Ministero dell’interno per avere in restituzione la loro automobile, e ottenere i compensi relativi, senza peraltro ottenere alcuna risposta;

5°) che da allora la Ditta Fratelli Pero svolse numerose pratiche presso il Ministero dell’interno, la Direzione generale di pubblica sicurezza, la Prefettura di Pavia e quella di Bergamo, il Ministero dei trasporti (Ispettorato generale della motorizzazione civile e dei trasporti in concessione), la Questura di Bergamo e che pure l’interrogante, da oltre un anno, sta occupandosi di ciò, senza risultato alcuno;

6°) che il prefetto di Bergamo, con sua nota 17 ottobre 1946 comunicava all’interrogante che l’autovettura Fiat 1100 targata PV 15190, dopo essere stata per breve tempo presso quella Prefettura, era stata ritirata dal Ministero dell’interno e che nulla egli poteva fare in proposito; cosa che non rispondeva al vero, perché l’autovettura medesima è sempre rimasta ed è tuttora presso la Questura di Bergamo;

7°) che il 29 ottobre 1946 i fratelli Carlo e Giuseppe Pero si presentarono alla Prefettura di Bergamo muniti di una regolare decisione del direttore comparti mentale di Milano, dell’Ispettorato generale della motorizzazione civile, in data 23 dello stesso mese, numero 16604/G-106; con la quale si autorizzava la ditta stessa a ritirare l’autoveicolo in parola dalla Prefettura medesima, alla quale pure si comunicava la predetta autorizzazione, in copia; ma si sentirono rispondere che la macchina non era più a Bergamo, perché ritirata, insieme ad altre, dal Ministero dell’interno; e dopo loro vive insistenze, si ammise da quei funzionari che la macchina era ancora presso la Questura, ma che il questore riteneva di dover attendere il benestare del Ministero per farne la consegna;

8°) che la voluminosa corrispondenza in proposito svoltasi da allora culminò (come ultima beffa della Prefettura di Bergamo alla Ditta Pero, all’interrogante, alla Direzione generale di pubblica sicurezza e al Ministero) con la lettera 30 agosto 1947, n. 13694, con la quale la Prefettura comunicava alla Direzione generale della pubblica sicurezza che l’autovettura di cui trattasi è ferma presso l’autorimessa della Questura di quella città, perché bisognosa di riparazioni, e che non è ancora stata restituita ai fratelli Pero perché si devono ricuperare prima le seguenti somme: lire 33.879 per riparazioni fatte durante i tre anni di illecito uso; lire 28.000 spedite all’ufficio disciplina autoveicoli di Pavia;

9°) che tutto ciò si è fatto e si fa da funzionari impegnati in tal modo a compromettere il prestigio dello Stato e delle alte autorità che lo rappresentano. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Canevari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti ha preso contro il questore di Milano che arbitrariamente ha vietato l’affissione di un manifesto della Fiom, tendente ad informare la cittadinanza sulla minaccia che incombeva su parecchie decine di migliaia di lavoratori di essere licenziati.

«I vari pretesti con i quali il questore di Milano ha vietato l’affissione sono una palese violazione della libertà di stampa, e valga, a dimostrazione della puerilità dei pretesti, la lettura del manifesto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roveda».

PRESIDENTE. La prima delle interrogazioni testé lette sarà posta all’ordine del giorno e svolta a suo turno, trasmettendosi ai Ministri competente le altre per le quali si chiede la risposta scritta.

La sedata termina alle 21.45.

Ordine del giorno per la seduta di giovedì 6 novembre 1947.

Alle ore 11:

Interrogazioni.

Alle ore 16:

  1. – Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
  2. Discussione dei seguenti disegni di legge:

Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico. (10). – Relatore Bettiol.

Disposizioni relative al soggiorno nel territorio dello Stato ed ai beni degli ex regnanti di casa Savoia. (11). – Relatore Bozzi.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 30 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXVIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 30 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedi:

Presidente

Comunicazione del Presidente:

Presidente

Sull’ordine dei lavori:

Nitti

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Micheli

Salizzoni

Fabbri

Macrelli

Corbino

Zuccarini

Persico

Codignola

Cifaldi

Fuschini

Tonello

Zaccagnini

Gronchi

Moro

Cosattini

La seduta comincia alle 11.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Bertone e Gasparotto.

(Sono concessi).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che avendo l’onorevole Uberti rinunciato a far parte della Commissione per l’esame del disegno di legge sulla stampa, ho chiamato a sostituirlo l’onorevole Bulloni.

Sull’ordine dei lavori.

NITTI. Chiedo di parlare sull’ordine dei lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NITTI. Se le notizie diffuse anche dalla stampa sono vere, noi dovremmo oggi sospendere i nostri lavori per alcuni giorni. Io debbo dichiararmi in colpa, perché ieri non assistetti all’ultima delle tre sedute dello stesso giorno. La mia assenza mi dà però il motivo di chiedere al Presidente, con tutto il rispetto che gli debbo, se queste sedute notturne devono ripetersi e se si deve ancora e se si possa, in una forma irresistibile di stanchezza da parte di tutti quelli che vi partecipano, discutere dei più gravi problemi e se queste sedute siano veramente utili.

Io devo dire che per quanto abituato ad essere al lavoro fin dalle cinque del mattino e per quanto abituato a lavorare a lungo, giunto ad un certo punto non so proprio come si possa, specie in un argomento così delicato come la preparazione della Costituzione, discutere ancora dopo due sedute della stessa giornata, prendendo parte ad una terza seduta notturna e ciò fino quasi al mattino.

Non è possibile che vi sia un uomo così forte che riesca a compiere questo sforzo, non solo di fare dieci, undici, dodici ore, ma di decidere su argomenti così gravi per la vita nazionale come la Costituzione, all’ultima ora, in stato di confusione dello spirito. Dopo due lunghe sedute nelle ore del giorno, le sedute notturne sono sempre pericolose ed avvengono in esse le più gravi cose in materia di stravaganza. Si può deliberare e si delibera a caso.

Dunque, poiché dovremo riprendere il lavoro fra sei o sette giorni (non so che cosa di preciso deciderà l’Assemblea) facciamo in modo che non ci sia la sorpresa di queste sedute notturne.

Io avrei dovuto parlare ieri lungamente, se l’Assemblea me l’avesse permesso, sulla questione delle Regioni. Ormai si è deciso o si crede di aver deciso. Avremo le Regioni. Le Regioni saranno la rovina dell’Italia. (Commenti – Proteste).

Una voce al centro. Questa volta, onorevole Nitti, lei è pessimista! (Commenti).

NITTI. Lo vedremo. Ma la questione non è esaurita. Vuol dire che la lotta, esaurita qui dentro, sarà ripresa fuori di qui. Io considero le Regioni come una delle più grandi aberrazioni e preparazione di disordini e di rovine. È vero, io avrei dovuto assistere alla seduta di ieri notte; ma non prevedevo che dopo la mezzanotte ci sarebbe stata ancora una discussione sulle Regioni, cioè su una questione che è fra le più importanti per la vita d’Italia.

Vedo dal processo verbale che la seduta è finita alle due e quaranta minuti di notte. Si è votato in piena conoscenza? Esiste forza umana capace di tanta resistenza? Solo il nostro Presidente, che ha una resistenza meravigliosa e che ha voluto sobbarcarsi a questo sacrificio, poteva esserne capace. Ma tutti, non credo.

La questione delle Regioni è finita forse in questa Aula; ma fuori di qui voi ne vedrete ancora gli sviluppi. Io non ho potuto parlare qui, ma ne parlerò altrove, resisterò fuori come meglio potrò, convinto di rendere un servigio al Paese creando la diffidenza per questa forma pericolosa di malefiche e dissolventi autonomie.

Io chiedo ora al nostro Presidente che ci faccia l’onore di meditare sulla nostra stanchezza e veda se non sia il caso, fra sette od otto giorni, quando riprenderemo i lavori, di disporre le cose in guisa che non vi siano sedute notturne. Perché nelle sedute notturne possiamo avere le più gravi sorprese, ora soprattutto che l’Assemblea diventa nervosa. Lavorare sulla stanchezza e distrattamente, porta inevitabilmente all’eccitazione dei nervi e al disordine delle idee. Siamo, a quanto si dice, alla vigilia delle elezioni generali: si vogliono precipitare i lavori. Il semplice fatto di determinare questo stato d’animo, rende impossibile all’Assemblea di fare delle sedute notturne, sia per l’eccitazione che vi è, e sia perché qualunque Assemblea, quando vede il pericolo della sua fine, cioè delle elezioni, (Interruzioni) entra in un tale stato di nervosità che non è più in grado di lavorare con calma.

E perciò mi rivolgo rispettosamente al Presidente, ammirando il suo spirito di sacrificio, la sua volontà di fare tutto il suo dovere, pregandolo di voler evitare che vi siano sedute notturne alla prossima ripresa dei nostri lavori.

PRESIDENTE. Onorevole Nitti, posso assicurare che non è intenzione prestabilita di nessuno fare le sedute notturne e che si ricorre ad esse solo nel caso di necessità, perché, se i termini imperativi, che ci siamo proposti, cominciano a non essere osservati, il nostro intero programma minaccia di cadere e la scadenza ultima, che tutti conosciamo, potrebbe sopravvenire prima che abbiamo potuto compiere il nostro dovere.

Ad ogni modo, assicuro l’onorevole Nitti che, nonostante la volontà di sacrificio – non solo mia ma comune – sarà evitato al massimo di richiedere ai membri dell’Assemblea uno sforzo eccezionale.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Onorevoli colleghi, dobbiamo esaminare l’articolo 123. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Le Regioni sono così costituite:

Piemonte;

Valle d’Aosta;

Lombardia;

Trentino-Alto Adige;

Veneto;

Friuli e Venezia Giulia;

Liguria;

Emiliana lunense; Emilia e Romagna; Toscana;

Umbria;

Marche;

Lazio;

Abruzzi;

Molise;

Campania;

Puglia;

Salento;

Lucania; Calabria;

Sicilia;

Sardegna.

«I confini ed i capoluoghi delle Regioni sono stabiliti con leggi della Repubblica».

PRESIDENTE. Nella seduta di ieri sera è stato approvato l’ordine del giorno Targetti, con l’intendimento che esso precluderà il riconoscimento di Regioni non comprese nell’elenco di quelle storico-tradizionali di cui al nuovo testo dell’articolo 123 presentato dalla Commissione: rimane ora da votare questo articolo, che, nel nuovo testo del Comitato di redazione, è così formulato:

«Oltre alle Regioni indicate dall’articolo 108, che hanno forme speciali di autonomia, sono costituite, con le funzioni ed i poteri stabiliti dalla Costituzione, le Regioni seguenti:

Piemonte;

Lombardia;

Veneto;

Liguria;

Emilia e Romagna;

Toscana;

Umbria;

Marche;

Lazio;

Abruzzi e Molise;

Campania;

Puglia;

Basilicata;

Calabria».

Sono stati proposti degli emendamenti a questo nuovo testo. Alcuni di questi emendamenti, dato il carattere preclusivo che l’Assemblea ha dato ieri sera alla votazione dell’ordine del giorno Targetti, evidentemente non possono più essere né svolti, né posti in votazione. Così ad esempio il primo emendamento, che porta le firme degli onorevoli Nobile, Corbino, Marchesi, Rubilli, Giannini, Cevolotto, Gullo Fausto, Paratore, Benedetti, Bergamini, Martino Gaetano, Preziosi, Mancini, Nobili Tito Oro, Cifaldi, Lombardi Riccardo, Rodi, De Falco, Condorelli, Fresa, Abozzi, Marinaro, Venditti, Mastrojanni, Morelli Renato, Crispo e Fornara:

«Sostituire il nuovo testo del Comitato col seguente:

«A parte le Regioni della Sicilia, Sardegna, Trentino-Alto Adige e Val d’Aosta, tutte le altre verranno costituite con legge del Parlamento da emanarsi entro due anni dall’entrata in vigore della Costituzione. La legge stessa stabilirà i confini ed il capoluogo di ogni singola Regione».

La stessa sorte segue l’emendamento proposto dagli onorevoli Bosco Lucarelli e Perlingieri, in quanto comprende fra le Regioni il Sannio:

Sostituirlo col seguente:

Il numero, la denominazione, i confini ed i capoluoghi delle Regioni saranno stabiliti con legge della Repubblica.

In attesa della legge, le circoscrizioni regionali, oltre quelle indicate nell’articolo 108, che hanno forme speciali di autonomia, restano per un triennio cosi stabilite:

Piemonte, comprendente le provincie di Alessandria, Asti, Cuneo, Novara, Torino e Vercelli. Capoluogo Torino;

Lombardia, comprendente le provincie di Bergamo, Brescia, Como, Cremona, Mantova, Milano, Pavia, Sondrio e Varese. Capoluogo Milano;

Veneto, comprendente le provincie di Belluno, Padova, Rovigo, Treviso, Venezia, Verona e Vicenza. Capoluogo Venezia;

Liguria, comprendente le provincie di Genova, Imperia, La Spezia e Savona. Capoluogo Genova;

Emilia, comprendente le provincie di Modena, Parma, Piacenza e Reggio Emilia. Capoluogo Parma;

Romagna, comprendente le provincie di Bologna, Ferrara, Forlì e Ravenna. Capoluogo Bologna;

Toscana, comprendente le provincie di Arezzo, Firenze, Grosseto, Livorno, Lucca, Massa-Carrara, Pisa, Pistoia e Siena. Capoluogo Firenze;

Umbria, comprendente le provincie di Perugia e Terni. Capoluogo Perugia;

Marche, comprendente le provincie di Ancona, Ascoli Piceno, Macerata, Pesaro ed Urbino. Capoluogo Ancona;

Lazio, comprendente le provincie di Frosinone, Latina, Rieti, Roma e Viterbo. Capoluogo Roma;

Abruzzi, comprendente le provincie di Chieti, L’Aquila, Pescara e Teramo. Capoluogo L’Aquila;

Sannio, comprendente le provincie di Avellino, Benevento, Campobasso. Capoluogo Benevento;

Campania, comprendente le provincie di Caserta, Napoli e Salerno. Capoluogo Napoli;

Puglia, comprendente le provincie di Bari, Brindisi, Foggia, Lecce e Taranto. Capoluogo Bari;

Basilicata, comprendente le provincie di Matera e Potenza. Capoluogo Potenza;

Calabria, comprendente le provincie di Catanzaro, Cosenza e Reggio Calabria. Capoluogo Catanzaro.

Subordinatamente, aggiungere all’elenco delle Regioni proposto dalla Commissione il Sannio, togliendo, dopo la parola: Abruzzi, la parola: Molise.

Subordinatamente ancora, aggiungere alla parola: Campania, la parola: Sannio, togliendo la parola: Molise dopo la parola: Abruzzi.

L’onorevole Micheli, ha presentato il seguente emendamento:

«Nell’elenco delle Regioni, dopo: Liguria, aggiungere: Emilia e Lunigiana».

Questo emendamento cade sotto quella stessa norma preclusiva.

MICHELI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICHELI. Mi pare che effettivamente, una volta che noi veniamo a discutere l’articolo 123 nel nuovo testo, è evidente che si può fare ogni discussione al riguardo.

Io non mantengo il mio emendamento; però desidero che l’Assemblea mi consenta di dire una brevissima parola, che spieghi le ragioni per le quali io mi sono indotto a non mantenere l’emendamento stesso, che era un po’ la ragione della mia presenza in quest’Aula. (Commenti).

Certamente io non posso tacere in questo momento – verrei meno al mandato che io ho avuto – e quindi prego l’Assemblea di confortarmi colla sua solidarietà nell’esplicazione del mio mandato. Dirò poche parole, giacché io comprendo il particolare momento nel quale io parlo.

Avendo il Gruppo del Partito democratico cristiano al quale io appartengo, ed appartiene buona parte degli onorevoli colleghi che avevano con me presentata la proposta della formazione della Regione emiliano-lunense o lunigianese – come indicai successivamente, comprensiva di Parma, Piacenza, Reggio, Modena e La Spezia e circondario di Pontremoli – deliberato di aderire all’ordine del giorno Targetti, già approvato, e all’articolo aggiuntivo dell’onorevole Mortati, il quale consente che entro 5 anni si possa provvedere con legge costituzionale alla modifica delle circoscrizioni regionali, quali risultano dall’articolo 123 ora letto e posto in discussione, ci siamo trovati obbligati a rinunciare in questa sede alla proposta da noi presentata in corrispondenza ai desiderata delle popolazioni che abbiamo l’onore di rappresentare.

La proposta, come è noto, era stata accolta dalla seconda Sottocommissione nella sua tornata del 17 dicembre 1946, per modo che la Regione da noi vagheggiata figurò per molto tempo nell’elenco contenuto nel testo ufficiale proposto per la Costituzione e in distribuzione in quest’Aula per molti mesi, sino a quando, recentemente, il Comitato di redazione, senza sentire l’avviso della Sottocommissione, né quello della Commissione dei Settantacinque, ha creduto di eliminarla dall’elenco stesso.

Appena presentato il nuovo, diminuito elenco io ho fatto dichiarazioni e proteste che mantengo e ripeto.

Ma soprattutto intendo e voglio ripetere qui i punti conclusivi della relazione che ho dato alle stampe e che ho presentato alla seconda Sottocommissione, in base alla quale la Sottocommissione ha approvato la nostra proposta. Dico nostra perché era presentata con me da altri undici colleghi.

Mi richiamo a questa relazione che è agli atti e lo faccio anche per quella brevità che è doverosa, particolarmente in questo momento della discussione, per non ripetere quanto io ho allora ampiamente dimostrato.

I punti conclusivi sono i seguenti:

1°) Non esservi argomenti storici e tradizionali e molto meno statistici che esigano la riunione in una sola Regione di tutto il territorio che va da Piacenza a Rimini.

2°) Incontestabili le ragioni di convenienza le quali reclamano che le popolazioni del golfo di La Spezia siano unite, anche amministrativamente, al loro naturale entro terra della Valle Padana.

3°) Indiscutibile la necessità nella quale si trova la Valle della Magra ed il suo centro maggiore Pontremoli, di fare parte finalmente di unità amministrative più rispondenti agli interessi di quelle popolazioni, eliminando l’attuale assurda situazione per cui, per arrivare al capoluogo della Provincia, bisogna passare attraverso un’altra Provincia finitima che si vuole ignorare.

Quanto poi al punto di vista generale della discussione debbo ripetere quanto ebbi ad esporre a questa Assemblea, nel mio discorso sulle finanze della Regione, il 15 luglio 1947, essere cioè, a mio avviso, essenziale che il primo esperimento di una organizzazione regionale nello Stato unitario debba compiersi – per la migliore formazione della tradizione nuova che dovrà integrare e sostituirsi in tutto o in parte a quella provinciale – attraverso Regioni piccole e grandi insieme, e perché questo darà modo di particolari risultati e confronti e di più fecondi studi, e perché le prime, cioè le Regioni piccole, oltre a giovare meglio alla preparazione di coloro che dovranno dirigere le nostre future organizzazioni politiche, consentiranno insieme un più facile e meglio ordinato sviluppo della iniziativa privata, una reale ed effettiva attuazione del pubblico controllo, rendendo più accessibili e comprensibili al popolo gli organismo del nuovo regime.

Con queste mie dichiarazioni, che oggi per me e per i miei colleghi sono un rinnovato punto di partenza, perché attraverso l’articolo Mortati che ha avuto non solamente l’adesione della mia parte, ma anche quella di molti altri autorevoli Gruppi della Camera, la Regione emiliano-lunigianese sarà domani un fatto compiuto, io ed i colleghi che mi hanno confortato della loro autorevole adesione, ritiriamo il nostro emendamento. (Applausi). Senza rammarico perché l’articolo aggiuntivo dell’onorevole Mortati, ci consente di mantenere la proposta della nostra Regione emiliano-lunigianese e di ripresentarla subito. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Comunico che, in seguito alle votazioni di ieri, sono superati i seguenti emendamenti al nuovo testo:

Nell’elenco delle Regioni, al posto della Regione:

Abruzzi e Molise,

sostituire:

Abruzzi;

Molise.

Colitto, Morelli Renato, Ciampitti, Rubilli, Venditti, Rodi, Miccolis, Perugi, Condorelli, Bordon.

Nell’elenco delle Regioni, al posto di:

Abruzzi e Molise,

sostituire:

Abruzzi;

Molise.

Camposarcuno, Mannironi, Codacci Pisanelli, Zotta, Gabrieli, Micheli, De Palma, Foresi, Mastino Gesumino.

Nell’elenco delle Regioni, fare del Molise una Regione a sé, staccata dagli Abruzzi.

Lussu.

Nell’elenco delle Regioni, al posto di: Abruzzi e Molise, ripristinare il testo primitivo, facendo due distinte e separate formulazioni:

Abruzzi;

Molise.

Ciampitti.

Nell’elenco delle Regioni, dopo: Calabria, aggiungere: Sannio.

Cifaldi, De Caro Raffaele.

Nell’elenco delle Regioni, aggiungere: Salento.

Stampacchia, Grassi, Codacci Pisanelli, Gabrieli, Vallone, Camposarcuno, De Maria.

Penso che non sia il caso di svolgere gli emendamenti al vecchio testo perché ciò contrasterebbe con lo spirito dell’ordine del giorno Targetti, votato ieri sera.

Gli onorevoli Salizzoni e Mannironi hanno proposto il seguente emendamento:

«Sostituire, nell’elenco delle Regioni: Emilia e Romagna, con: Emilia-Romagna».

L’onorevole Salizzoni ha facoltà di svolgere l’emendamento.

SALIZZONI. Mantengo l’emendamento rinunziando a svolgerlo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 123:

«Oltre alle Regioni indicate dall’articolo 108, che hanno forme speciali di autonomia, sono costituite, con le funzioni ed i poteri stabiliti dalla Costituzione, le Regioni seguenti».

(È approvato).

Pongo in votazione i singoli alinea indicanti le Regioni:

«Piemonte».

(È approvato).

«Lombardia».

(È approvato).

«Veneto».

(È approvato).

«Liguria».

(È approvato).

A questo punto si deve votare l’emendamento dell’onorevole Salizzoni che propone di sostituire alla dizione «Emilia e Romagna», l’altra «Emilia-Romagna».

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE, Ne ha facoltà.

FABBRI. Non vedo la ragione di questo emendamento e quindi voterò contro di esso perché io non mi sono mai eretto a vindice investito delle ragioni dei regionalisti, per le quali è noto che ho ben scarso entusiasmo, ma nel caso particolare non vedo perché, trattandosi di una questione di denominazione, l’Emilia e la Romagna dovrebbero avere un trattamento diverso dell’Abruzzo e Molise. Si è discusso se il Molise rientri o no a certi effetti nell’Abruzzo. Nel caso particolare della Romagna, si discuterà se la Romagna deve a certi effetti considerarsi compresa o no nell’Emilia, ma il fatto che la Romagna, come tradizionalmente si intende, non si identifica come estensione territoriale con l’Emilia mi pare assurdo metterlo in dubbio e quindi, non capisco le ragioni per cui l’espressione geografica Emilia e Romagna dovrebbe avere un trattamento diverso dell’espressione geografica Abruzzo e Molise. Mi pare lo stesso, identico problema relativamente al punto della denominazione e non capisco perché relativamente ad una Regione ci dovrebbe essere una «lineetta» e relativamente ad un’altra Regione una «e». Mi pare che dovrebbe essere assolutamente identica la grafia. Non voglio aprire una questione, ma confermo che dal punto di vista del nome nessuno pensa che la Romagna possa avere a che vedere con Parma e Piacenza riferendosi ai confini ed alla tradizione, storica e geografica.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Mi associo alle dichiarazioni dell’onorevole Fabbri e voterò il testo della Commissione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Abbiamo deciso ieri di dare alle Regioni i nomi che corrispondono alle pubblicazioni ufficiali statistiche; e nelle pubblicazioni ufficiali statistiche la parola Romagna non esiste; si parla soltanto di Emilia.

Propongo, pertanto, che le parole «Emilia e Romagna» siano sostituite, nell’articolo 123, con la parola «Emilia».

ZACCAGNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZACCAGNINI. Mi pare che nella dichiarazione dell’onorevole Lami Starnuti sia stato chiaramente ed esplicitamente espresso questo pensiero: che l’ordine del giorno votato si richiamava sostanzialmente all’elenco del progetto.

Il richiamo alle pubblicazioni statistiche doveva avere questo preciso significato. In questo nuovo elenco la dizione è Emilia e Romagna, così come del resto risulta da varie pubblicazioni statistiche non recentissime.

Dichiaro di votare contro l’emendamento Salizzoni ed in favore del mantenimento della dizione dell’elenco proposto dalla Commissione.

PRESIDENTE. Porrò in votazione per prima la proposta dell’onorevole Corbino di dire semplicemente «Emilia». Successivamente, l’emendamento dell’onorevole Salizzoni «Emilia-Romagna»; ed infine il testo della Commissione «Emilia e Romagna».

Pongo in votazione l’emendamento Corbino.

(Dopo prova e controprova è approvato).

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Non vorrei mettere in dubbio la proclamazione del risultato della votazione testé fatta dalla Presidenza: cioè, l’approvazione della proposta dell’onorevole Corbino. Mi si consenta di dire, senza ombra di offesa – è una impressione personale – che la votazione non ha avuto l’esito annunziato dalla Presidenza; comunque esiste un dubbio nell’animo di alcuni di noi.

Pregherei, quindi, la Presidenza di voler ripetere la votazione per divisione.

PRESIDENTE. Non posso accedere alla richiesta dell’onorevole Macrelli perché fondata su di un dubbio che non ha ragione di sussistere. Avendo di nuovo consultato gli onorevoli Segretari della Presidenza, posso dichiarare che la differenza tra voti favorevoli e voti contrari è risultato superare la decina. Pertanto, non può essere ammessa alcuna possibilità di errore.

Per questa ragione credo che la votazione eseguita debba essere convalidata, sia pure con amarezza per qualcuno di noi.

Pongo in votazione i successivi alinea nella elencazione delle Regioni:

«Toscana».

(È approvato).

«Umbria».

(È approvato).

«Marche».

(È approvato).

«Lazio».

(È approvato).

«Abruzzi e Molise».

(È approvato).

«Campania».

(È approvato).

«Puglia».

(È approvato).

«Basilicata».

(È approvato).

«Calabria».

(È approvato).

Abbiamo, quindi, approvato l’elenco delle Regioni contenuto nell’articolo 123, proposto dalla Commissione, con la sola modificazione relativa alla sostituzione della dizione «Emilia», alla primitiva «Emilia e Romagna».

Pongo ora in discussione l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli Codignola, Parri, Cevolotto e Binni:

«L’Assemblea Costituente,

ritenendo che siano venuti meno i presupposti che a suo tempo determinarono l’introduzione del Friuli-Venezia Giulia fra le Regioni fornite di autonomia speciale,

persuasa di esprimere la volontà della popolazione interessata,

riaffermando il solenne impegno di tutela delle minoranze etniche e linguistiche, già consacrato dalla Costituzione,

fa voti che, in sede di approvazione dell’articolo 123, sia revocata l’autonomia speciale già concessa al Friuli-Venezia Giulia, rinviando alla legge l’eventuale erezione del Friuli in Regione fornita di autonomia ordinaria».

Si potrebbe fare osservare da qualche collega che la votazione dell’ordine del giorno Targetti sarebbe preclusiva per le proposte contenute nell’ordine del giorno Codignola. Ma l’ordine del giorno Targetti si riferiva alle Regioni storico-tradizionali, mentre l’onorevole Codignola si riferisce a Regioni di nuova costituzione.

ZUCCARINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZUCCARINI. Io trovo strano che su una deliberazione già presa, contrariamente a quanto in precedenza stabilito si proponga addirittura il capovolgimento di una precedente regolamentazione. Ciò mi sembra, non solo poco serio, ma inammissibile. Dirò anche che non so rendermi ragione dei motivi che possono aver consigliato questa proposta di annullamento di una deliberazione già presa in tema costituzionale. Quando si parla sulla particolare questione delle popolazioni interessate, non esiste, intanto, nessuna delimitazione, almeno dal punto di vista…

PRESIDENTE. Ma lei, onorevole Zuccarini, entra nel merito e non fa una questione pregiudiziale.

ZUCCARINI. Vorrei, infatti, entrare nel merito.

PRESIDENTE. In questo caso è necessario che, prima di lei, l’onorevole Codignola entri nel merito.

ZUCCARINI. Mi fermo allora alla pregiudiziale riservandomi di intervenire se l’onorevole Codignola svolgerà il suo ordine del giorno.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Ricordo che noi abbiamo testé approvato un preciso riferimento all’articolo 108. Ora, il Friuli-Venezia Giulia appartiene alle Regioni indicate nell’articolo 108. Non mi pare che si debba, a cinque minuti da una precedente deliberazione, votare su un principio che le è contrario.

PRESIDENTE. Onorevole Persico, la sua è una questione di merito, ed ora siamo in tema di pregiudiziale. Se mai, potrà riprendere la questione da lei posta dopo che l’onorevole Codignola avrà svolto l’ordine del giorno.

Onorevole Zuccarini, mantiene la sua pregiudiziale?

ZUCCARINI. Insisto nella pregiudiziale.

PRESIDENTE. Sta bene. Secondo questa pregiudiziale, l’ordine del giorno non è ammissibile perché l’Assemblea ha già preso una deliberazione, la quale stabilisce per l’appunto il contrario di ciò che l’ordine del giorno Codignola vorrebbe proporre.

CODIGNOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Onorevole Presidente, per poter decidere circa la pregiudiziale proposta dall’onorevole Zuccarini, ritengo che sia necessario che io prima esponga i motivi che mi inducono a presentare la mia proposta, poiché fra questi motivi vi è appunto quello che son venuti meno i presupposti che a suo tempo determinarono l’Assemblea a votare in favore della concessione al Friuli di una autonomia speciale. Essendo venuti meno i presupposti, io ritengo che l’Assemblea possa legittimamente riprendere in esame il problema.

PRESIDENTE. Faccio presente che, a norma di Regolamento, sulla pregiudiziale possono parlare soltanto due deputati a favore e due contro.

CODIGNOLA. Chiedo di parlare contro la proposta pregiudiziale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Mi limiterò a brevissime considerazioni. Quando nella seduta del 27 giugno 1947, l’Assemblea approvò l’autonomia speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia, come gli onorevoli colleghi sanno, non era stato ancora ratificato né entrato in vigore il Trattato di pace. L’introduzione della parola «Venezia-Giulia» nel testo della nostra Costituzione, aveva un significato che a nessuno poteva allora sfuggire. Ed è per questo che da tutti i settori dell’Assemblea, senza entrare nel merito del problema assai delicato che allora veniva messo in discussione, si ritenne opportuno in quel momento di non avanzare pregiudiziali sopra la questione che era in discussione.

Passò così, improvvisamente, senza che ci fosse stata alcuna discussione approfondita, ed in contrasto coi voti che erano stati espressi dagli enti locali in seguito alle richieste fatte dalla Commissione, l’autonomia speciale per la Regione Friuli-Venezia Giulia.

Successivamente, da un lato tutti gli onorevoli colleghi sono stati informati delle reazioni molto vaste e serie che la deliberazione dell’Assemblea ha avuto nelle popolazioni interessate, le quali hanno dichiarato che la deliberazione presa da questa Assemblea era in contrasto con la loro volontà; dall’altro questa Assemblea ha proceduto alla ratifica del Trattato di pace.

Ora, dopo questa ratifica, mi pare che noi possiamo legittimamente rimettere il problema in discussione in quanto le parole «Venezia Giulia», che sono legate alla parola «Friuli», non rispondono più ad una Regione che appartenga allo Stato italiano. Le ragioni formali per cui io ritengo che l’Assemblea possa rimettere in discussione il problema, sono queste due: il fatto che la Venezia Giulia non è più una Regione che appartiene allo Stato italiano, e la volontà delle popolazioni interessate.

CIFALDI. Chiedo di parlare a favore della pregiudiziale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIFALDI. Mi pare che ci sia l’impossibilità di esaminare, nel merito, la proposta dell’onorevole Codignola, perché vi è un ostacolo insormontabile, costituito da quanto ieri sera l’Assemblea ha deciso, quando cioè è stata preclusa la possibilità di formare nuove Regioni.

Ci si è fermati ad esaminare il complesso di quello che aveva stabilito la Commissione, al punto che questa mattina siamo giunti a dover modificare, attraverso un riferimento esplicito alle statistiche, cioè in base alla indicazione ufficiale della statistica, un fatto acquisito alla coscienza italiana, avendo dovuto accettare la dizione esclusiva dell’Emilia, cancellando la Romagna dal novero delle Regioni italiane.

FUSCHINI. Questa decisione non è degna dell’Assemblea, perché non si può negare l’esistenza di una Regione che ha le sue tradizioni e la sua storia.

PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, se lei fosse stato presente, avrebbe potuto parlare ieri sull’argomento.

CIFALDI. Ora, onorevoli colleghi, se l’Assemblea, in ossequio a quanto ha votato ieri sera nell’ordine del giorno, ultima parte, ha dovuto arrivare alla cancellazione della Romagna (e questo è ormai stato deliberato dalla Assemblea) è impossibile per analogia, modificare quanto già deliberato per altra Regione.

Comunque, io mi permetterei di ricordare il monito del Presidente a proposito della votazione intervenuta, dicendo all’onorevole Codignola che noi dobbiamo uniformarci alla volontà dell’Assemblea già manifestata.

TONELLO. Chiedo di parlare contro la pregiudiziale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Mi preme precisare un fatto. Qui non si tratta di rigettare o di cancellare nuove Regioni.

Abbiamo votato e votammo che il Friuli facesse una circoscrizione sua e tutti fummo concordi. In fin dei conti, il Friuli domanda adesso di rimanere con una sua autonomia regionale, rinunziando solo allo statuto speciale, che avrebbe dovuto comportare il suo distacco dal Veneto. Quindi, il Friuli domanda di rimanere Regione separata ma non di avere lo statuto speciale, al quale rinunzia. Sono quindi contro la pregiudiziale, perché togliere al Friuli lo statuto speciale non significa cancellarlo dal numero delle Regioni.

CODIGNOLA. Ritiro il mio ordine del giorno e chiedo di parlare per darne ragione.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODIGNOLA. Ritiro il mio ordine del giorno poiché ritengo di potere, in linea di massima, aderire ad un altro testo, presentato dall’onorevole Gronchi sotto forma di articolo aggiuntivo, da collocare nelle norme transitorie.

Come ha detto poc’anzi l’onorevole Tonello, il problema che ci preoccupa non è l’autonomia del Friuli a carattere ordinario, ma quello dell’autonomia a carattere speciale.

Ora se l’Assemblea ritiene più opportuno seguire la proposta dell’onorevole Gronchi, che non propone un ordine del giorno ma un articolo aggiuntivo e dichiarativo rispetto all’articolo 108, non ho alcuna difficoltà a ritirare il mio ordine del giorno e ad aderire alla proposta dell’onorevole Gronchi.

PRESIDENTE. Passiamo, allora, all’esame dell’articolo aggiuntivo, da collocarsi tra le norme transitorie, proposto dagli onorevoli Gronchi, Piccioni, Piemonte, Facchinetti, Macrelli, Vigna e Scoccimarro.

Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«La Regione Friuli-Venezia Giulia, di cui all’articolo 108, sarà provvisoriamente retta secondo le norme generali contemplate nel Titolo V, essendo assicurata la tutela delle minoranze linguistiche dalle apposite norme previste dalla Costituzione».

PRESIDENTE. L’onorevole Gronchi ha facoltà di illustrare l’articolo aggiuntivo proposto.

GRONCHI. Farò brevi dichiarazioni, perché la stessa discussione sulla pregiudiziale opposta all’ordine del giorno Codignola ha ormai chiarito le posizioni.

In sostanza, noi realisticamente diciamo che questo momento non è il più adatto per definire lo statuto speciale per una Regione la quale, per i recenti avvenimenti internazionali, rappresenta un punto particolarmente delicato e sensibile non solo per la nostra politica interna, ma anche per la politica internazionale.

D’altra parte, molti di noi si rendono conto essere inopportuno politicamente rimettere oggi in discussione quella concessione di autonomia regionale, sancita non oltre due mesi dalla presente discussione. Quello che interessa, come l’onorevole Codignola ha detto, è di riprendere in esame la questione dello statuto speciale che il 27 giugno fu dall’Assemblea indicato. E l’articolo aggiuntivo che io ho proposto, anche a nome di colleghi di altra parte dell’Assemblea, si propone appunto questo, di mantenere cioè un’autonomia di carattere generale al Friuli-Venezia Giulia, che fu eretto in Regione il 27 giugno, rimandando alla prossima Camera la questione se, anche in conseguenza di una situazione internazionale la quale potrà orientarsi verso forme e soluzioni che oggi non prevediamo, risponda agli interessi delle popolazioni interessate il creare un’autonomia speciale, uno statuto speciale per questa Regione.

E con ciò mi pare che la posizione sia sufficientemente chiara perché occorra prolungare la presente discussione.

ZUCCARINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZUCCARINI. Io credo che con la proposta dell’onorevole Gronchi si tenda pur sempre a modificare una deliberazione dell’Assemblea Costituente in materia costituzionale. Se il principio venisse accettato, bisognerebbe infatti accettarlo anche nei confronti degli articoli che sono stati già approvati.

Non credo che ciò sarebbe male; io credo anzi che ciò sarebbe bene, perché verremmo in tal modo a modificare molte decisioni che sono state prese senza la dovuta maggioranza e anche senza la dovuta ponderazione. Per quello che si riferisce poi allo statuto speciale per il Friuli-Venezia Giulia, io non vedo il motivo per cui, secondo l’ipotesi affacciata qui da alcuni colleghi, le popolazioni interessate dovrebbero non trovarsi consenzienti.

L’avere infatti accettato per il Friuli una posizione speciale, qui nell’Assemblea Costituente, fu appunto in considerazione del fatto che noi intendevamo porre una Regione di confine in una situazione tale che rendesse democraticamente accettabili le nostre istituzioni dalle popolazioni di minoranza incluse nel nostro territorio nei confronti anche dell’influenza che queste nostre istituzioni democratiche possono esercitare sulle popolazioni limitrofe e che ora ci sono state strappate.

Fummo favorevoli a quella deliberazione appunto perché non dimenticava quanto grande e funesto sia stato l’errore commesso daii precedenti governi nel sopprimere quelle autonomie locali che esistevano già sotto il Governo austriaco, e nell’avere obbligato di conseguenza le Regioni di confine a sottostare ad un unico ordinamento ed ad un unico sistema amministrativo centralista e accentratore. Noi ci riferiamo anche ad un esempio che i democratici non dovrebbero mai perdere di vista: all’esempio della Svizzera..

Noi volevamo cioè dimostrare, con questo statuto speciale allo stesso modo e nelle stesse condizioni dell’Alto Adige, come le minoranze incluse nel territorio italiano possono rimanerci senza alcuna preoccupazione che nel nostro sistema politico ed amministrativo esse non godano di tutti i diritti che sono riconosciuti agli altri cittadini. Non vediamo quindi come e perché coloro i quali sono ammessi a beneficiare dell’autonomia, e il beneficio è comune per gli allogeni e per gli altri, dovrebbero, proprio essi, ribellarsi, quasi si trattasse di un’offesa, quasi questa concessione fosse loro accordata per danneggiarli o per opprimerli.

E per vero, l’aver concesso una maggiore autonomia quali pericoli potrebbe presentare? Io vedrei, onorevoli colleghi, un pericolo soltanto se questa maggiore autonomia concessa alle minoranze costituisse un pericolo per la nostra Costituzione e per l’italianità della Regione. Ma se quelle autonomie servono, serviranno invece – come era nelle intenzioni dei proponenti e della Costituente – ad affezionare alle nostre istituzioni le popolazioni di confine, specialmente là dove esistono regimi totalitari in cui la democrazia non si esercita; se questo potranno fare le nostre istituzioni speciali di confine (e lo potranno fare!) credo che noi dobbiamo mantenere ferma la nostra deliberazione. Non solo, perché si tratta di una deliberazione già votata e come tale non può essere cancellata – in quanto sarebbe un gravissimo precedente –, ma soprattutto perché a queste autonomie speciali noi dobbiamo dare un carattere speciale, una funzione speciale. Quella stessa funzione che la Val d’Aosta esercita ai confini con la Francia, quella stessa funzione che l’Alto Adige-Trentino esercita nei confronti dell’Austria e della Germania, quella stessa funzione vogliamo che eserciti l’autonomia del Friuli – chiamatelo anche Friuli solamente – verso le popolazioni che sono strappate ai nostri confini e alla nostra sovranità.

Bisogna dimostrare praticamente che la democrazia, quando è bene esercitata – e sarà esercitata bene solo in regime di autonomie speciali, perché altrimenti cadremmo in quel sistema amministrativo che noi bene conosciamo e che qui in Italia è rimasto sempre lo stesso – può attrarre le simpatie verso la nostra Nazione di quelle popolazioni, le quali, appunto, in questo momento meno godono di quella libertà cui erano abituate col vecchio sistema austriaco e che il regime fascista soppresse.

Ed a quelli che si preoccupano che l’autonomia speciale concessa al Friuli possa servire a beneficio degli slavi, e cioè per immettere nel nostro territorio un numero straordinario, eccessivo di slavi e quindi per contestare successivamente la sovranità dell’Italia sui territori dello stesso Friuli, io chiedo se invece proprio questa immigrazione di slavi nel nostro territorio non sarebbe la documentazione della bontà delle nostre istituzioni, e se queste nostre istituzioni speciali in quanto più democraticamente applicate non abbiano ad esercitare proprio quella funzione di propaganda e di attrazione che ha esercitato ed esercita la Svizzera di fronte a tutte le Nazioni europee. (Commenti). Badate bene, a questo esempio probativo non c’è tedesco che avendo esercitata la libertà in Svizzera, con quelle autonomie, abbia cercato o abbia desiderato di riunirsi alla Germania o all’Austria; non c’è francese in Svizzera che si sia pronunciato per una annessione alla Francia (Commenti a sinistra), non c’è italiano del Canton Ticino che abbia desiderato di abbandonare le libertà di cui godeva nel Canton Ticino, nella libera Svizzera, per ritornare coll’Italia.

Il che vuol dire, amici e colleghi, che la democrazia ha un’influenza assimilatrice maggiore anche del principio di nazionalità; e solo la democrazia supera i particolarismi. Invece qui gli ordini del giorno e le pubblicazioni, che sono venute all’Assemblea per premere nel senso di una modifica delle sue decisioni, sono ispirati ad una preoccupazione nazionalistica (Commenti al centro), dalla preoccupazione che anche il territorio del Friuli ci possa essere strappato. Ma bisognerebbe vedere chi ha scritto questi ordini del giorno, chi li ha diramati, quali atteggiamenti abbia preso prima. E io credo che non ci sarebbe allora molto da discutere per vedere che l’autonomia concessa al Friuli è stata una buona concessione e gioverà assai a rendere democratiche anche al di fuori di noi le nostre istituzioni, proprio nei confronti di quella Jugoslavia che in questo momento ha assorbito una gran parte dei nostri connazionali. Bisogna che le nostre istituzioni – e le abbiamo volute democratiche per questo – attraggano, siano cioè anche elementi di espansione e di propaganda. Questa è l’espansione che vogliamo, quella di far desiderare le istituzioni nostre. Per questo noi siamo venuti qui a formare questa Costituzione e desideriamo che essa, per quanto possibile, risponda a questo scopo, di dare libertà e con la libertà assicurare all’Italia istituzioni solide e una solida compagine nazionale. (Approvazioni).

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Prima di dare la parola all’onorevole Tonello, vorrei far presente che, poiché l’onorevole Codignola ha ritirato il suo ordine del giorno di fronte alla pregiudiziale che era stata posta, in questo momento non si discute se concedere l’autonomia speciale. È già concessa, e perciò tutto il discorso molto appassionato dell’onorevole Zuccarini, mi pare si sia risolto in un combattimento per qualcosa che nessuno minaccia. C’è una norma transitoria e pregherei i colleghi di attenersi a questa norma.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Tonello.

TONELLO. Tutte le belle cose che ha detto il collega Zuccarini noi possiamo sentirle, ma non hanno nulla a che fare con la questione che trattiamo adesso.

Qui non si tratta di mettere in dubbio e di revocare l’autonomia del Friuli. Si tratta di dire che, siccome c’è un regolamento per quella Regione, esso resta sospeso anche per il momento politico che attraversiamo: prima di tutto perché tutte le organizzazioni del Friuli hanno detto che non vogliono questa legislazione speciale. Non è questo il momento di farla, perché altrimenti si acuiscono i dissidi fra la popolazione slava e quella italiana. Non c’è di peggio che fare del nazionalismo ai confini del proprio Paese per creare antipatie al proprio Paese.

Nel Friuli e sulle terre che ci sono contestate, ci sono queste due minoranze, questi due nazionalismi arrabbiati che cozzano e cercano di invelenire i reciproci rapporti. Noi dobbiamo dire ai friulani che il Paese concede loro una autonomia speciale perché essi, che sono sul luogo e conoscono uomini e cose, e sanno quello che si deve fare, lo facciano per il meglio. Diciamo, dunque, ai friulani: fate voi; verrà poi un momento in cui dovremo fare questo Statuto speciale per il Friuli. Ma non prima che le condizioni speciali politiche fra l’Italia e la Jugoslavia si siano calmate e siano tornate allo stato normale.

Perché voi sapete meglio di me, onorevoli colleghi, che esiste un profondo dissidio in quelle terre. Noi abbiamo i nostri italiani, i nostri fratelli in Jugoslavia che non ci sono ancora stati restituiti; abbiamo questo motivo ed altri per cui non dobbiamo venire a condizioni antipatiche.

Quando le cose si saranno calmate, quando gli animi saranno rientrati in se stessi, quando le ragioni essenziali del dissidio saranno tramontate, allora si dovrà fare anche questo Statuto speciale del Friuli e della Venezia-Giulia.

Per ora si sappia che al Friuli l’Assemblea dà il mandato di fare buona guardia al confine per il nostro Paese e per il nostro diritto. Questo noi vogliamo e nient’altro. (Approvazioni).

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Poche parole, signor Presidente, per rispondere alle obiezioni che sono state sollevate dall’onorevole Zuccarini, il quale opponeva una preclusione all’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Gronchi, quasi che esso fosse in contraddizione con un’altra norma, che è stata votata da questa Assemblea qualche tempo fa.

Vorrei fare osservare all’onorevole Zuccarini che non si tratta, in quest’ordine del giorno, di contraddire ad un’altra norma, ma soltanto – con una norma transitoria – di sospenderne nel tempo l’applicazione. Il che mi pare sia stato fatto in altri casi, e certamente, in base ai principî, può esser fatto anche in questo.

È una norma transitoria che obbedisce a necessità di carattere pratico, le quali si sono venute determinando ad un certo momento per lo svolgimento della politica internazionale. Se da parte nostra non si è consentito alla richiesta di considerare la situazione internazionale del nostro Paese in conseguenza del Trattato come elemento che potesse indurre a modificare la norma precedente, certamente però noi vediamo in questa situazione ragioni che giustificano la nostra proposta di sospendere nel tempo l’attuazione dell’autonomia speciale della Regione del Friuli-Venezia Giulia.

Mi pare che su questo punto non vi sia molto da dire, perché l’onorevole Gronchi, pur parlando brevemente, ha fatto chiaramente intendere quali sono le ragioni di opportunità che consigliano questa decisione. Siamo in un momento di passione, in un momento difficile per questa zona di confine del nostro Paese, e si può perciò fondatamente dubitare che la concessione dell’autonomia speciale invece che contribuire – come opinava l’onorevole Zuccarini – alla pacificazione degli animi e ad una migliore intesa fra le popolazioni interessate, costituisca invece un motivo per il sorgere di nuove difficoltà per il nostro Paese.

Ma, ripeto, nulla è pregiudicato, perché si tratta di una sospensione nel tempo, sospensione che obbedisce a ragioni contingenti, mentre restano validi tutti i principi inerenti alla tutela delle minoranze, che sono stati solennemente consacrati nella nostra Costituzione, sia all’articolo 3 – che prevede l’uguaglianza di tutti i cittadini a prescindere da ogni differenziazione dì carattere linguistico e di nazionalità – sia attraverso l’emendamento Codignola, che fu approvato da questa Assemblea anche se non è ancora collocato, col quale s’impegna lo Stato italiano ad adottare norme le quali intendano ad una adeguata protezione delle minoranze linguistiche nel territorio dello Stato italiano.

Perciò io credo che non debba esservi nessuna preoccupazione nel senso esposto dall’onorevole Zuccarini e che noi possiamo con tranquilla coscienza votare l’articolo proposto dall’onorevole Gronchi.

COSATTINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COSATTINI. Onorevoli colleghi, con la proposta dell’onorevole Gronchi si viene a riparare ad un errore, ad un grave errore, in cui era stata indotta l’Assemblea per attribuire – sarebbe meglio addirittura dire imporre – lo statuto per una autonomia speciale alla regione friulana.

Occorre aver presente quale sia la funzione di tale statuto e quali mete si vogliano raggiungere mediante la attribuzione di questa particolare autonomia. La ragion d’essere della stessa altro non è che la sussistenza di una popolazione mistilingue, che nel caso non ricorre.

A me pare che l’oratore del Partito repubblicano abbia confuso quanto è funzione di autonomia amministrativa con ciò che è obietto della tutela delle minoranze.

Vi è al riguardo una deliberazione dell’Assemblea che rivendica alla Repubblica, e cioè allo Stato, la tutela delle minoranze. La tutela delle minoranze, nel conflitto gravissimo dei contrasti di confine, se lasciata alle autonomie locali, e cioè ad libitum delle maggioranze locali, che hanno sempre possibilità di predominio e tendenza a schiacciare le minoranze, porterebbe ad un effetto opposto a quello a cui accennava l’onorevole Zuccarini.

Di più è da avvertire che, data la acerbità della situazione locale, è opportuno che lo Stato abbia mezzo di valersi di una carta di discussione nelle provvidenze che saranno da prendere per le minoranze etniche al confine, minoranze del resto molto esigue, perché in tutto gli slavi che sono rimasti al di qua in effetto superano appena la cifra di diecimila, in confronto circa di un milione del resto della popolazione della regione, quindi l’uno per cento. Tuttavia tutti convengono che anche a questa minoranza, per quanto modesta, e quantunque in tutto bilingue, debba essere resa giustizia e cioè data garanzia della possibilità di svolgere nel modo migliore ogni sua aspirazione a difesa della sua cultura e della sua lingua. Ma sarebbe errore lasciare libertà e incondizionata potestà di decidere in questo ad autonomie locali.

Di più, nessuno dimentica che al di là del confine, purtroppo, rimangono minoranze ben rilevanti di nostri fratelli. È pertanto opportuno sia lasciata al Governo la possibilità di trattare e discutere per ottenere dai nostri vicini, su un piano di reciprocità che le concessioni, che indubbiamente faremo, a difesa di queste piccole minoranze, domani su un terreno internazionale di mutua comprensione, trovino uguale trattamento per gli italiani dolorosamente rimasti nell’altra sponda.

Ora, è avventatezza il pregiudicare comunque ciò; il consentire questa autonomia particolare al Friuli esclude la possibilità di dominare la situazione, può esporre ai gravissimi pericoli derivanti dal prepotere delle maggioranze, che, come sempre è avvenuto nella storia, pervengono a schiacciare le minoranze. Voi comprendete quanto ciò sia errore.

In Friuli sono seguite notevoli manifestazioni per ottenere l’autonomia regionale, ma nulla più che una autonomia uguale a quella di tutte le altre Regioni italiane; nessuno mai pretese di voler spiegare una funzione internazionale e coloro che ciò hanno dimenticato non hanno avvertito quanto grave sugli sviluppi della storia potesse essere un tale stato di fatto, dato che ognuno ricorda che nelle trattative svoltesi a Parigi ed in una infinità di altre manifestazioni le rivendicazioni dei vicini miravano a portare il confine al Tagliamento. Quindi ammettere che il Friuli possa essere una Regione cui senz’altro assegnare un trattamento appropriato alle popolazioni mistilingui, quale è il trattamento attribuito alla Val d’Aosta, all’Alto Adige, dove la popolazione non è solo mista, ma quasi completamente alloglotta, non è una offesa al Friuli, ma certamente una carta che domani può essere nelle relazioni internazionali molto pregiudizievole.

Quindi ritengo che giustamente l’Assemblea, ad onta dell’edulcoramento delle frasi della proposta, in fatto sostanzialmente ritorni sopra la deliberazione già presa e riconosca al Friuli quello che unicamente ha domandato e cioè l’autonomia uguale a quella di tutte le altre Regioni italiane.

Ed a questa soluzione diamo voto favorevole anche noi, fermi e convinti antiregionalisti. Sotto questo riflesso: che quando la Regione si minimizza e come nel caso si riduce a poco più dell’ambito della provincia, porta alla sua stessa negazione spogliandosi del suo carattere di regione. Ciò ci consente di approvare, in piena coerenza col nostro pensiero, la proposta.

PRESIDENTE. Desidero precisare, in relazione ad alcune affermazioni dell’onorevole Cosattini, che l’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Gronchi ed altri colleghi non mira a fare ritornare sopra una decisione dell’Assemblea. Questo era invece il proposito dell’ordine del giorno Codignola. Con la proposta Gronchi, invece, si riconferma la decisione dell’Assemblea, salvo a proporre una norma transitoria per la sua applicazione.

Pongo in votazione l’articolo aggiuntivo, da collocarsi fra le disposizioni transitorie, proposto dall’onorevole Gronchi e da altri colleghi, di cui do ancora lettura:

«La Regione Friuli-Venezia Giulia, di cui all’articolo 108, sarà provvisoriamente retta secondo le norme generali contemplate nel Titolo V, essendo assicurata la tutela delle minoranze linguistiche dalle apposite norme previste dalla Costituzione».

(È approvato).

Vi sarebbero ancora da esaminare due articoli aggiuntivi, uno dell’onorevole Mortati e l’altro dell’onorevole Persico; ma, d’accordo con la Commissione, resta inteso che li esamineremo alla ripresa dei lavori, avendo completato, con la votazione or ora avvenuta, quanto era necessario per porre il Ministero dell’interno in condizione di redigere il progetto di legge elettorale per il Senato della Repubblica.

Il seguito dello svolgimento dell’ordine del giorno è rinviato alla seduta pomeridiana.

La seduta termina alle 12.35.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXVII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul processo verbale:

Perrone Capano

Macrelli

Giacchero

Votazioni segrete dei seguenti disegni di legge:

Approvazione dello scambio di Note effettuato in Roma fra l’Italia e la Francia, il 1° giugno 1946, circa il recupero di navi mercantili francesi affondate nelle acque territoriali italiane. (24).

Approvazione dell’Atto di emendamento della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e della Convenzione per la revisione parziale delle Convenzioni adottate dalla Conferenza Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro nelle sue prime 28 Sessioni, per assicurare l’esercizio futuro di alcune funzioni di cancelleria affidate dalle predette Convenzioni al Segretario Generale della Società delle Nazioni e per apportarvi emendamenti complementari resisi necessari in seguito alla estinzione della Società delle Nazioni ed all’emendamento della Costituzione dell’Organizzazione del Lavoro. (25).

Approvazione dell’Accordo fra l’Italia e l’Argentina in materia di emigrazione, concluso a Roma il 21 febbraio 1947. (29).

Soppressione del Senato e determinazione della posizione giuridica personale dei suoi componenti. (33).

Modificazioni al Codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato. (9).

Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento. (21).

Presidente

Chiusura delle votazioni segrete:

Presidente

Risultato delle votazioni segrete:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione

Condorelli

Colitto

Benedettini

Mortati

Schiavetti

Dominedò

Cianca

Nenni

Moro

Russo Perez

Fuschini

Uberti

Lussu

Codacci Pisanelli

Bosco Lucarelli

Longhena.

Lami Starnuti

De Martino

Ruggiero

Bordon

Piccioni

Rubilli

Stampacchia

Togliatti

Nobile

Covelli

Ambrosini

Badini Confalonieri

Grassi

Rivera

Morelli Renato

Spallicci

Sereni

Fioritto

Camangi

Ghidini

Camposarcuno

Lopardi

Cevolotto

Laconi

Gronchi

Corbino

Votazione nominale:

Presidente

Risultato della votazione nominale:

Presidente

Votazione segreta:

Presidente

Risultato della votazione segreta:

Presidente

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri

Morandi

Fanfani, Ministro del lavoro e della previdenza sociale

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

Sul processo verbale.

PERRONE CAPANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERRONE CAPANO. Onorevoli colleghi, mi riferisco al mio intervento di ieri nel corso della discussione del disegno di legge che reca alcune modifiche al Codice penale, e al susseguente intervento dell’onorevole Macrelli, per chiarire che io intesi esprimere il mio dissenso intorno alla forma adoperata nella stesura dei testi sottopostici, e in modo particolare intesi censurare la eccessiva genericità ed elasticità di alcune norme e il criterio informatore dell’intero disegno, in quanto esso è stato limitato alla sostituzione di poche parole dei Codice fascista, mentre, a mio avviso, debbono difendersi, e seriamente, gli istituti costituzionali dello Stato, ma non secondo la lettera e lo spirito del Codice fascista. L’occasione andava colta, a mio avviso, per punire con maggiore chiarezza e più adeguata precisione fatti concreti, esattamente delimitati nel loro contenuto e secondo le opportune gradazioni.

Questo il mio pensiero, non quello attribuitomi involontariamente dall’onorevole Macrelli.

MACRELLI. Ne prendo atto.

GIACCHERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIACCHERO. Nella seduta di ieri io chiesi la parola, a nome del Gruppo democristiano, per fare una dichiarazione di voto sull’emendamento Boldrini all’articolo 290 della legge riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato. Il Presidente non me la concesse per motivi regolamentari. Faccio oggi una brevissima dichiarazione.

Noi abbiamo votato contro l’emendamento Boldrini, non perché fossimo contrari allo spirito che lo informava, tanto è vero che noi siamo disposti a dare fin d’ora tutto il nostro appoggio ad una legge organica, che provveda a tutelare tutto quanto costituisce il patrimonio di gloria del nostro Paese, patrimonio di gloria di cui il movimento partigiano, se è l’ultima parte, non è certamente la minore né per entità di sacrificio, né per luminosità di eroismo; ma noi abbiamo votato contro perché, come giustamente hanno fatto osservare ieri il Ministro di grazia e giustizia ed il Relatore onorevole Colitto, mancando una configurazione giuridica corrispondente all’intenzione dell’emendamento, questo doveva essere respinto. Infatti noi non siamo disposti a seguire la strada, evidentemente sbagliata, di coloro i quali, pur volendo con buona intenzione dare lustro al movimento partigiano, non sono riusciti che a togliere quello dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Votazioni segrete.

PRESIDENTE. Occorre procedere alla votazione a scrutinio segreto dei disegni di legge che sono stati discussi dall’Assemblea nelle sedute di ieri e di stamani. Si tratta, come i colleghi ricordano, dei seguenti provvedimenti:

«Approvazione dello scambio di Note effettuato in Roma fra l’Italia e la Francia, il 1° giugno 1946, circa il recupero di navi mercantili francesi affondate nelle acque territoriali italiane»;

«Approvazione dell’Atto di emendamento, della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e della Convenzione per la revisione parziale delle Convenzioni adottate dalla Conferenza Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro nelle sue prime 28 Sessioni, per assicurare l’esercizio futuro di alcune funzioni di cancelleria affidate dalle predette Convenzioni al Segretario Generale della Società delle Nazioni e per apportarvi emendamenti complementari resisi necessari in seguito alla estinzione della Società delle Nazioni ed all’emendamento della Costituzione dell’Organizzazione del Lavoro»;

«Approvazione dell’Accordo fra l’Italia e l’Argentina in materia di emigrazione, concluso a Roma il 21 febbraio 1947»;

«Soppressione del Senato e determinazione della posizione giuridica personale dei suoi componenti»;

«Modificazioni al Codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato»;

«Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento».

Le urne rimarranno aperte.

(Segue la votazione).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, essendosi concluso stamane lo svolgimento degli emendamenti presentati alla prima disposizione transitoria, terzo comma, prego l’onorevole Ruini di volere esprimere il parere della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Domando scusa se stamane, per dovere d’ufficio, non son potuto intervenire alla seduta. Del resto, ero quasi in congedo regolare, perché avevo avvertito il nostro Presidente.

Esaminerò brevemente gli emendamenti proposti in sede dell’ultimo comma dell’articolo 1 delle disposizioni transitorie.

Devo ricordare che quando, un anno fa, la Commissione formulò questi articoli delle disposizioni transitorie, era partita dal concetto di trovare una formula molto elastica, che consentisse di essere applicata, come nella commedia di Pirandello, ad uno, a diecimila o a centomila. Si era adottato la formula «per responsabilità fasciste» in generale.

Recentemente, durante la discussione del disegno di legge sulla eleggibilità, l’Assemblea ha deliberato di sospendere la discussione dell’articolo 47 del disegno e di decidere prima, in sede Costituente, la questione della norma costituzionale; che ora appunto dobbiamo esaminare.

Ci siamo trovati in Comitato di fronte a tre proposte di soppressione, presentate dall’onorevole Russo Perez, dall’onorevole Marinaro e dall’onorevole Dominedò.

Il Comitato ha ripreso in considerazione la formula precedente, e ne ha nuovamente constatato la elasticità e possibilità di adattamento ai casi concreti. Non si è però opposto – e qui vi è stata concordia si può dire assoluta di tutti i partiti, – a tener conto delle tendenze generali che si sono delineate, nella legislazione e nell’azione politica d’ogni genere, e che si potrebbero esprimere così: amnistia ed oblio per gli ex fascisti, se non ebbero gravi responsabilità; severità per i recidivi, per i neofascisti; severità spietata per quelli che, approfittando del perdono, insidiano nuovamente lo Stato democratico.

Il Comitato è disposto ad andare incontro alle nuove tendenze ed all’esigenza di prendere atteggiamenti definitivi in una discussione che si trascina troppo a lungo. Ma non può accogliere le proposte di soppressione. Basta un solo cenno, ed anche qui siamo stati tutti d’accordo; non è concepibile che entri qui dentro, come rappresentante del Paese, un ex presidente del Tribunale straordinario del regime fascista.

Vi sono proposte subordinate degli onorevoli colleghi, che ho ricordato, e che chiedevano in via principale la soppressione. Sostengono che in ogni caso si debbano rispettare le disposizioni di legge già prese ed i giudicati emessi in base ad essi. A prescindere che non si tratta di veri giudicati, ma di iscrizioni o meno nelle liste, da parte di Commissioni elettorali, mi limito ad osservare che la tesi degli onorevoli colleghi sarebbe contro operante, giacché da più Commissioni si sono fatte assai larghe esclusioni che bisognerebbe rispettare. So che questo rilievo ha convinto alcuni dei proponenti.

Vi sono poi tesi intermedie, di cui non è traccia completa negli emendamenti, e che sono venute in luce durante l’esame del Comitato. Si possono considerare tre punti di maggiore larghezza: sostituire alla formula «sono esclusi», la formula «possono essere esclusi»; limitarsi a colpire l’eleggibilità e non l’elettorato; ridurre ad un quinquennio il termine massimo delle limitazioni. Questo ultimo concetto è espresso in un emendamento testé presentato dall’onorevole Mortati. Il Comitato non si è pronunciato espressamente: ma, sentiti alcuni colleghi, dichiaro che, se non fa sua, non si oppone alla proposta Mortati.

È stata pur presentata, testé, una proposta di colleghi per mantenere il testo della disposizione, quale è nel progetto presentato all’Assemblea. Ripeto che, a mio avviso, la formula, per la sua elasticità, potrebbe essere benissimo conservata; ma, come vi ho detto, il Comitato ha ritenuto di dover attenuare in certo modo l’espressione, e mettere qui il criterio che si è manifestato (specialmente da un anno a questa parte, e cioè da quando fu approvata la prima formula): che non si devono colpire tutti i fascisti, ma i capi responsabili del fascismo. La nuova formula non è che la inserzione del principio che ormai appartiene al clima politico e giuridico della Repubblica.

Sulla nuova formula finì per essere unanime il Comitato, con adesione dei rappresentanti dei vari Gruppi politici, tranne il liberale.

Che cosa è necessario ora? È necessario determinare i casi ai quali debbono applicarsi le limitazioni stabilite dalla disposizione della Costituzione. L’onorevole Mortati proponeva che l’elencazione fosse inclusa senz’altro nell’articolo primo della disposizione transitoria della Costituzione. Comprendo che si tratta di una norma transitoria; ma che si debba mettere nella Costituzione un lunghissimo elenco di questo genere, non mi pare cosa opportuna: se non altro per esigenze d’ordine formale e, direi, d’estetica costituzionale, che pur hanno il loro valore. Respinta tale proposta, è prevalsa l’idea di formulare ed approvare un ordine del giorno: e così si è fatto, e su esso riferirà l’onorevole Uberti.

L’ordine del giorno si ispira al criterio di finirla una buona volta con incertezze e discussioni interminabili. Bisogna evitare nuovi esami di discriminazione individuale, e di giudizi caso per caso, che hanno in realtà provocato il fallimento dell’epurazione nel nostro Paese. Si è voluto, per un concetto superiore di giustizia, valutare ogni singola posizione; ma l’amministrazione italiana non è stata capace di autoepurarsi, anche con gli organi appositamente costituiti. L’errore del sistema delle valutazioni individuali è risaltato poi nella recente amnistia. Bisogna a tali metodi sostituire quello di un’applicazione automatica e meccanica, senza alcuna incertezza. Ciò porterà ad alcune imperfezioni ed inconvenienti; ma saranno sempre incomparabilmente minori di quelli in cui si incorrerebbe riaprendo la porta a giudizi e discriminazioni, che darebbero luogo fatalmente, come l’esperienza dimostra, a maggiori disparità. La volontà del Paese è che si finisca con l’incertezza.

L’ordine del giorno è stato compilato con una elencazione tale che colpisce i fascisti che hanno avuto maggior responsabilità nel fascismo, senza che si debbano fare nuovi giudizi individuali; si è studiato il modo di un’applicazione veramente automatica.

L’ordine del giorno sarà votato dalla nostra Assemblea in sede di Costituente; e cioè – come abbiamo fatto in altri casi – avrà un valore vincolante per le future deliberazioni della nostra Assemblea. Bisogna evitare che si possa, con leggi ordinarie, procedere a mutazioni o in senso troppo largo o in senso troppo tenue. Sembra che la via seguita sia la più giusta. Il Comitato, lo ripete ancora una volta, ritiene che si debba concedere perdono ed oblio agli ex fascisti, salvo che non abbiamo colpe speciali o che vi siano incompatibilità insuperabili (come vi sono, in certi casi, in materia elettorale). Nel tempo stesso bisogna essere severi per i fascisti recidivi; e spietatamente severi per i perdonati che tornano ad insidiare l’Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. Chiedo ora ai vari presentatori di emendamenti se, dopo le considerazioni del Presidente della Commissione, li mantengono.

L’onorevole Russo Perez aveva proposto, con altri colleghi, il seguente emendamento.

«Sopprimere il comma.

«Ove l’emendamento soppressivo non fosse approvato, sostituire il comma col seguente:

«Possono essere stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste, purché non si estendano a casi non contemplati da precedenti leggi e l’elettore non sia stato già sottoposto a giudizio individuale, nel qual caso sarà da rispettare il giudicato».

Onorevole Condorelli, vuol dichiarare lei se mantiene l’emendamento, che reca anche la sua firma?

CONDORELLI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto aveva proposto il seguente emendamento:

«Sopprimere il comma.

«Subordinatamente, aggiungere: In nessun caso, però, potrà derogarsi a leggi precedenti più favorevoli e saranno rispettati i giudicati».

Lo mantiene?

COLITTO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Benedettini aveva proposto il seguente emendamento:

«Sopprimere il comma.

«Subordinatamente, dopo le parole: responsabilità fasciste, aggiungere: individuali già accertate con provvedimento definito.

«La limitazione non può essere superiore ad anni cinque».

Lo mantiene?

BENEDETTINI. Sì, lo mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Monticelli aveva presentato il seguente emendamento, che non aveva svolto, non essendo presente.

«Fino ad un quinquennio dalla entrata in vigore della Costituzione la legge può stabilire una limitazione alla eleggibilità e al diritto di voto per rilevanti responsabilità nell’ex regime fascista».

Poiché non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

L’onorevole Mortati aveva presentato il seguente emendamento sostitutivo:

«In deroga all’articolo 45, la legge potrà stabilire, per non oltre un quinquennio dalla data di entrata in vigore della Costituzione, limitazioni alla eleggibilità ed al diritto di voto per coloro che sono da ritenere responsabili, in grado eminente, della formazione e del mantenimento del cessato regime fascista per la natura delle cariche ricoperte o dell’attività esercitata, obiettivamente determinata, in una delle seguenti categorie: membri del Governo, del gran consiglio, degli organi legislativi, del tribunale speciale, della milizia volontaria sicurezza nazionale, delle gerarchie del partito fino al grado di segretario provinciale; funzionari direttivi militari e civili della cosiddetta repubblica sociale».

Lo mantiene?

MORTATI. Lo mantengo limitatamente all’introduzione dell’inciso in merito all’articolo 45.

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti aveva proposto di tornare al testo del progetto.

Onorevole Schiavetti, mantiene la sua proposta?

SCHIAVETTI. La mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Dominedò ha proposto di sopprimere il comma.

Mantiene l’emendamento?

DOMINEDÒ. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Abbiamo, dunque, come base della discussione, il nuovo testo della Commissione, del seguente tenore:

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità ed al diritto di voto per i capi responsabili del regime fascista».

L’onorevole Schiavetti ha proposto di ritornare al primitivo testo del progetto:

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste».

Questo è l’emendamento più radicale al nuovo testo e pertanto ritengo debba essere posto per primo in votazione.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Ho ascoltato le spiegazioni date dal Presidente del Comitato di redazione per quanto riguarda la sostituzione della nuova formula all’antica. Il Presidente mi consentirà di dirgli che i suoi argomenti non mi hanno assolutamente persuaso. Egli ha detto che, in fondo, il concetto ispiratore che ha mosso il Comitato alla sostituzione è stato questo: oblio del passato; severità verso il neo-fascismo.

Ora, io ritengo che la formula «oblio del passato», se può avere un significato morale e sentimentale, è sul piano politico assolutamente irrazionale. Noi dobbiamo tener conto di quello che il passato rappresenta, per premunirci contro tutti i possibili ritorni di un tale passato. Quindi, ripeto, il criterio ispiratore del Comitato di redazione non è, a mio giudizio, un criterio politicamente accettabile.

Ma io penso che la dizione nuova del Comitato debba essere respinta, soprattutto perché esiste una contradizione evidente, segnalata già questa mattina dal collega Schiavetti, tra l’emendamento della Commissione e l’ordine del giorno dalla Commissione stessa proposto. Infatti, nel nuovo comma della Commissione si parla dei capi responsabili del fascismo, mentre nell’ordine del giorno sono elencate le categorie a cui la formula «capi responsabili del fascismo» non potrebbe essere applicata.

D’altronde devo aggiungere che se la Commissione aveva il diritto e la facoltà di modificare la formula, non aveva, a mio giudizio, il diritto di elencare queste categorie, in quanto, ferma la norma costituzionale, si trattava di considerare le modalità dell’applicazione di questa norma nella sede della legge sull’elettorato attivo.

Perciò io sono contrario alla votazione stessa dell’ordine del giorno, in quanto penso che la Commissione dei diciotto non può assolutamente entrare in questo campo, che spetta al libero esame e al sovrano giudizio dell’Assemblea in sede competente, quando cioè verrà in discussione la legge sull’elettorato. E penso che si debba rigettare la formula nuova della Commissione, sia per il contrasto accennato fra la formula stessa e l’ordine del giorno che la segue, sia perché la formula «capi responsabili del fascismo» si presta a tutti gli equivoci e a tutti i sotterfugi.

Noi dobbiamo assolutamente premunirci contro qualsiasi ritorno del passato. Siamo pronti ad obliare il passato sul piano sentimentale: tradiremmo il nostro mandato se l’obliassimo sul piano politico. (Applausi a sinistra).

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Io voterò contro l’emendamento Schiavetti e contro tutti gli altri emendamenti, per ragioni di stretta legalità, alle quali, a mio giudizio, non è possibile sottrarsi.

Lascio da parte le ragioni di legittimità circa il fondamento etico, politico, e giuridico di questa legge. Ma vi sono nella legislazione vigente delle preclusioni a che noi votiamo nel senso proposto.

Vi è stato il decreto-legge 27 luglio 1944, n. 159, che prevedeva questa sanzione di sospensione del diritto elettorale e prevedeva precisamente delle categorie comprendenti coloro che si erano resi colpevoli di mal costume fascista, coloro che con atti rilevanti avevano contribuito al mantenimento del fascismo, i gerarchi, i capi del fascismo, che dovevano essere precisamente determinati in un elenco che si demandava al Presidente del Consiglio.

Questo elenco è stato fatto con decreto 2 febbraio 1945. Poi è succeduta la legge del 26 aprile 1945, n. 149, nella quale si stabilì che le Commissioni provinciali avrebbero dovuto irrogare la sospensione dal diritto elettorale da uno a dieci anni entro un anno dall’entrata in vigore di quel decreto, cioè entro il 29 aprile 1946.

Queste sanzioni così previste, stabilite e regolate da una procedura, sono state irrogate. Vi sono stati dei giudizi che hanno avuto per esito l’ordinanza di condanna o l’ordinanza di assoluzione. Comunque, è cosa fatta e il termine è da tempo consumato.

Quando approvassimo questa norma transitoria o uno qualsiasi degli emendamenti che non fosse soppressivo, noi compiremmo una enormità, noi riapriremmo dei termini ormai chiusi da quasi due anni, noi distruggeremmo i giudicati, perché a coloro che hanno avuto irrogata una pena di due, di tre, di quattro, di cinque anni, dovremmo irrogarla adesso di dieci o di quel diverso numero di anni che si volesse stabilire. Coloro che sono stati assolti potrebbero essere condannati!

Sarebbe una enormità tale, che io non comprendo come ancora se ne possa discutere!

Io ieri, discutendo di un problema affine, in quest’Aula mi son sentito dire da un collega della cui fede democratica non oserei discutere, che la legge è libera, il legislatore fa quel che vuole, non può trasformare un maschio in femmina o viceversa, ma quanto ad altro può fare quello che vuole. Formalmente questo è esatto, ma io gli dico che non è, questo, dettame democratico! Questo può essere dettame di assolutismo di Stato, che può essere assolutismo monarchico o assolutismo repubblicano. Ma la legislazione dei paesi civili ha dei limiti morali ed ha dei limiti nell’equilibrio dei poteri che regolano la vita civile! Una legge che violasse i giudicati, che violasse i diritti quesiti, andrebbe contro i più naturali principî della civiltà giuridica ormai consacrati, ed io, come italiano, sarei dolente ed umiliato di vedere sancita nella Carta costituzionale del nostro Paese, sulla quale si dovrebbe costruire la nostra vita politica – speriamo per non lungo tempo! – una enormità simile! (Commenti).

PRESIDENTE. Comunico che mi è pervenuta una domanda di votazione per appello nominale sull’emendamento Schiavetti, firmata dagli onorevoli Cianca, Lussu, Schiavetti, Bordon, Pistoia, Nasi, Bennani, Spallini, Carpano Maglioli, Bianchi Bianca, Grazzi, Foa, Bellusci, Binni, Costantini.

NENNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NENNI. Io chiederei alla Commissione, per finire questa discussione che mi sembra inutile, se non possa accettare lo spirito con cui è stata modificata la dizione della norma transitoria, essendo evidente l’osservazione fatta dall’onorevole Schiavetti, cioè che c’è un contrasto fra la dizione della norma statutaria e l’ordine del giorno.

Ora, noi dichiariamo che voteremo l’ordine del giorno così come è stato predisposto dal Comitato di redazione, ma che preferiremmo che il Comitato accettasse la proposta dell’onorevole Schiavetti, e cioè ripristinasse la vecchia formula, che avrebbe ora la sua interpretazione nell’ordine del giorno che noi voteremo.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Dichiaro che il mio Gruppo voterà contro l’emendamento Schiavetti e in favore del testo della Commissione, con l’emendamento Mortati.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Ruini di esprimere il pensiero della Commissione, sulle osservazioni dell’onorevole Nenni.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Vorrei far presente all’onorevole Nenni che le cose vanno considerate nel loro complesso. Si è realizzato in seno al Comitato un accordo, cui hanno partecipato anche i rappresentanti del suo Gruppo. La nuova formula del capoverso e l’ordine del giorno sono l’espressione di tale accordo. So che l’onorevole Nenni condivide pienamente il criterio che si debbano evitare ormai giudizi, valutazioni e discriminazioni caso per caso, e si debbano stabilire criteri obiettivi e definitivi.

Ciò che più importa non è la formula del capoverso, è l’ordine del giorno che deve passare. Se chi ha proposto di tornare alla formula anteriore del capoverso, dichiara nello stesso tempo di votare l’ordine del giorno, come ha dichiarato di fare l’onorevole Nenni, non avrei difficoltà ad accogliere il desiderio di ripristinare la precedente espressione. Ma purché si voti l’ordine del giorno. Trattandosi, in sostanza, di un tutto inscindibile, attendo le dichiarazioni dei proponenti.

Chiusura delle votazioni segrete.

PRESIDENTE. Dichiaro chiuse le votazioni ed invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Votazione nominale.

PRESIDENTE. Indico la votazione nominale sull’emendamento Schiavetti, che propone di ritornare al testo del progetto:

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste».

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà la chiama.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato Vischioni.

Si faccia la chiama.

Presidenza del Vicepresidente CONTI

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama.

Rispondono sì:

Amadei – Amendola – Arata – Assennato – Azzi.

Baldassari – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bei Adele – Bellusci – Bennani – Bernabei – Bernamonti – Bernardi – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bonomelli – Bordon – Bucci.

Cacciatore – Caldera – Calosso – Canevari – Caporali – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chiostergi – Cianca – Codignola – Colombi Arturo – Corbi – Cosattini – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Aragona – Della Seta – De Mercurio – De Michelis Paolo – D’Onofrio.

Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiorentino – Fioritto – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Giacometti – Giolitti – Giua – Gorreri – Grazi Enrico – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Nilde.

Laconi – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Li Causi – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Marchesi – Mariani Enrico – Mattei Teresa – Matteotti Matteo – Mazzoni – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Momigliano – Montagnana Rita – Morandi – Moranino – Morini – Moscatelli – Musolino.

Nasi – Negro – Nenni – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Novella.

Pacciardi – Pajetta Giuliano – Parri – Pastore Raffaele – Pellegrini – Persico – Pesenti – Piemonte – Pieri Gino – Pignatari – Pistoia – Pollastrini Elettra – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Pucci.

Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo.

Salerno – Sansone – Santi – Scarpa – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Sereni – Sicignano – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia.

Tega – Togliatti – Tomba – Tonello – Treves.

Varvaro – Vernocchi – Veroni – Vigna – Villani – Vischioni.

Zanardi – Zuccarini.

Rispondono no:

Ambrosini – Andreotti – Angelini – Arcaini – Arcangeli – Avanzini.

Badini Confalonieri – Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bergamini – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchini Laura – Bonino – Bonomi Paolo – Bosco Lucarelli – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Burato.

Caccuri – Camposarcuno – Cannizzo – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Enrico – Caronia – Carratelli – Caso – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombo Emilio – Colonnetti – Condorelli – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Corsini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo.

De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Dominedò – Dossetti.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fantoni – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Foresi – Franceschini – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Garlato – Gatta – Geuna – Giacchero – Giordani – Gonella – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Jervolino.

La Gravinese Nicola – Lagravinese Pasquale – La Pira – Lazzati – Lettieri – Lizier.

Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Meda Luigi – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Monterisi – Monticelli – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Mortati – Murgia.

Nicotra Maria – Nitti – Notarianni – Numeroso.

Pallastrelli – Pat – Pecorari – Pella – Penna Ottavia – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Piccioni – Pignedoli – Ponti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Rapelli – Reale Vito – Recca – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Rognoni – Romano – Rubilli – Ruini – Russo Perez.

Saggin – Salizzoni – Sampietro – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Selvaggi – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Taviani – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Vanoni – Venditti – Viale – Vicentini – Villabruna.

Zaccagnini– Zotta.

Si sono astenuti:

Conti.

Scotti Alessandro.

Sono in congedo:

Abozzi – Angelucci.

Cairo – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Cavallari.

Dozza – Dugoni.

Jacini.

Porzio.

Ravagnan – Romita – Rumor.

Sardiello.

Tosato.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari fanno il computo dei voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

Risultato della votazione nominale.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale:

Presenti                       367

Votanti                        365

Astenuti                         2

Maggioranza                183

Hanno risposto         164

Hanno risposto no        201

(L’Assemblea non approva).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Avverto che non porrò in votazione gli emendamenti soppressivi presentati dagli onorevoli Russo Perez, Colitto, Benedettini e Dominedò, che potranno essere implicitamente votati respingendo le formulazioni proposte. Porrò, invece, in votazione, gli emendamenti sostitutivi proposti, in via subordinata, dagli onorevoli Benedettini, Colitto e Russo Perez.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Penso che debba esser posta in votazione prima la proposta principale, cioè la soppressione del comma, e poi la subordinata.

PRESIDENTE. Onorevole Russo Perez, come di consueto non porrò in votazione le proposte soppressive.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Una volta respinto l’emendamento Schiavetti, penso che si debba votare la formulazione della Commissione. Tale votazione penso che si dovrebbe fare, prima che si scenda alla subordinata. Se tale formulazione venisse respinta, sarebbe accettato il nostro emendamento soppressivo. Se, invece, venisse accettata, si potrebbe allora passare alla votazione della subordinata.

PRESIDENTE. Non vedo in qual modo si possa seguire questa sua indicazione, onorevole Colitto, perché come potremmo mettere in votazione una formulazione, che rappresenta un emendamento al testo principale, dopo aver votato il testo principale che per norma regolamentare e per logica non può non essere votato per ultimo, respinti che siano gli emendamenti?

COLITTO. Il Comitato di redazione propone che al terzo comma dell’articolo 1 sia sostituito questo comma: «Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità ed al diritto di voto per i capi responsabili del regime fascista». Ora a me pare che, se questo emendamento fosse approvato, si potrebbe passare alla subordinata; se venisse, invece, respinto, dovrebbe dirsi accolto il nostro emendamento soppressivo. È perciò che io chiedo che si ponga in votazione detto comma, e poi, l’emendamento soppressivo.

PRESIDENTE. Poiché il suo emendamento e quello dell’onorevole Benedettini possono considerarsi non sostitutivi ma aggiuntivi, potranno esser messi in votazione dopo la formulazione dell’onorevole Russo Perez, che è sostitutiva di tutto il testo della Commissione e che quindi deve esser posta in votazione per prima.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Io debbo dichiarare che non mi persuade logicamente il metodo di votazione, perché allora noi saremmo costretti a votare contro quello che abbiamo proposto. Noi che siamo per la soppressione come dobbiamo votare? A me pare che si debba discutere prima se conservare o non conservare l’articolo, e poi cominciare a passare agli emendamenti ed allora potremmo orientarci. Se si stabilisce che un articolo ci debba essere, il quale preveda comunque queste responsabilità fasciste, vedremo poi come si deve fare; ma noi che sosteniamo che non ci deve essere, verremo messi in contraddizione con noi stessi, se costretti a votare la nostra subordinata, ed a precludere col nostro voto sull’emendamento la messa in votazione della proposta soppressiva.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Dichiaro di rinunciare al mio emendamento, e di aderire a quello dell’onorevole Benedettini.

PRESIDENTE. Allora, onorevoli colleghi, votiamo dapprima la formulazione della Commissione e successivamente le due proposte di emendamenti aggiuntivi degli onorevoli Colitto e Benedettini.

BENEDETTINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BENEDETTINI. Ponendo in votazione il testo della Commissione o il nostro emendamento, non avremo modo di manifestare la nostra volontà favorevole alla soppressione della norma.

PRESIDENTE. Se pongo in votazione il testo della Commissione, coloro che intendono sopprimerlo, votano contro.

Vi è una proposta di emendamento dell’onorevole Mortati, alla quale la Commissione non è contraria.

La proposta si differenzia dal testo della Commissione, in sostanza, perché vi premette le parole: «In deroga all’articolo 45», ed aggiunge la limitazione nel tempo, così formulata: «per non oltre un quinquennio dalla data di entrata in vigore della Costituzione».

Pongo in votazione il testo completo, formato cioè dalle due proposte dell’onorevole Mortati e dal testo della Commissione:

«In deroga all’articolo 45 sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità ed al diritto di voto per i capi responsabili del regime fascista, per non oltre un quinquennio dalla data di entrata in vigore della Costituzione».

(È approvato).

Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Benedettini che, se accettato, dovrà essere coordinato col testo approvato:

«Dopo le parole: responsabilità fasciste, aggiungere: individuali già accertate con provvedimento definitivo».

(Non è approvato).

La seconda parte del suo emendamento, onorevole Benedettini, è già stata assorbita dalla formulazione Mortati, approvata dall’Assemblea.

Pongo allora in votazione l’emendamento aggiuntivo degli onorevoli Colitto e Marinaro, del seguente tenore:

«In nessun caso, però, potrà derogarsi a leggi precedenti più favorevoli e saranno rispettati i giudicati».

(Non è approvato).

Passiamo ora all’ordine del giorno proposto al Comitato di redazione, del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente afferma che le limitazioni, di cui all’ultimo comma dell’articolo 1 delle disposizioni transitorie della Costituzione, sono da applicarsi a coloro che hanno ricoperto le seguenti cariche nel regime fascista, e in quello repubblicano sociale fascista:

1°) ministri e sottosegretari di Stato in carica dal 5 gennaio 1925;

2°) senatori, tranne quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia o per i quali l’Alta Corte ha respinto la proposta di decadenza; deputati delle legislature XXVII, XXVIII e XXIX, tranne i deputati della XXVII che non giurarono o che furono dichiarati decaduti con la mozione del 9 novembre 1926 o che fecero parte della Consulta nazionale; consiglieri nazionali;

3°) membri del consiglio nazionale del partito fascista o del partito fascista repubblicano; membri del tribunale speciale per la difesa dello Stato e dei tribunali speciali della repubblica sociale fascista;

4°) alti gerarchi del partito fascista sia al grado di segretario federale (provinciale) incluso;

5°) ufficiali generali della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi speciali; ufficiali della guardia nazionale repubblicana, delle brigate nere, delle regioni autonome e dei reparti speciali di polizia della repubblica sociale fascista;

6°) capi di provincia e questori nominati dalla repubblica sociale fascista».

L’onorevole Fuschini ha proposto il seguente emendamento:

«Aggiungere, dopo le parole: tranne i deputati della XXVII legislatura che non giurarono, le parole: o che esercitarono la opposizione nell’Aula».

«Aggiungere alle parole: o che fecero parte della Consulta nazionale, le parole: o dell’Assemblea Costituente».

L’onorevole Fuschini ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

FUSCHINI. Mi pare che non ci sia bisogno di svolgimento per questo emendamento che è così semplice e chiaro. Volevo semplicemente osservare che, oltre ai deputati della XXVII legislatura, che furono dichiarati decaduti dal fascismo – che mandò via tutti i deputati dell’Aventino – vi era un numeroso gruppo di deputati, i quali rimasero nell’Aula e fecero opposizione, e di questi ritengo sia necessario di tener conto.

D’altra parte v’è anche un altro problema, ed è quello riguardante l’Assemblea Costituente. Vi sono deputati che non hanno fatto parte della Consulta Nazionale, ma fanno parte dell’Assemblea Costituente: mi pare che sia necessario dichiarare che essi sono esclusi da ogni restrizione di eleggibilità, perché sarebbe assurdo che un membro dell’Assemblea Costituente fosse dichiarato ineleggibile, quando è stato eletto nell’Assemblea Costituente. Mi pare che in tal modo egli abbia già avuto una sanatoria decisiva. Per queste ragioni insisto sull’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Uberti ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI. L’emendamento dell’onorevole Fuschini si compone di due parti: la prima non ritengo che sia necessaria, perché la formula «quelli che hanno fatto opposizione nell’Aula» comprende coloro che sono stati chiamati a far parte della Consulta Nazionale, per un preciso disposto della legge che ha convocato quest’ultima.

La seconda parte: «o dell’Assemblea Costituente» mi sembra che possa essere accettata, perché vi può essere qualche membro che non fece parte della Consulta Nazionale e che fa parte dell’Assemblea Costituente. Quindi la Commissione accetta l’aggiunta della seconda formula.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Nasi, Foa, Schiavetti, Cianca, Codignola hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere un punto settimo: coloro che per la loro attività fascista siano stati esclusi dall’insegnamento o dagli albi professionali».

I firmatari hanno rinunziato allo svolgimento.

L’onorevole Uberti ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

UBERTI. A questo ordine del giorno, che fu esaminato in sede di Comitato di redazione, e che fu il risultato di un accordo generale, a me sembra che non sia il caso di aggiungere nuove formulazioni, soprattutto di fronte al criterio fondamentale che ha seguito il Comitato di redazione di partire dal concetto di non far luogo a processi di nessun genere, ma che la copertura della carica significa obiettivamente esclusione dal voto.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione.

Onorevole Fuschini, lei limita il suo emendamento alla parte accettata dalla Commissione?

FUSCHINI. Insisto anche sulla prima parte.

PRESIDENTE. Allora, voteremo dapprima la parte introduttiva dell’ordine del giorno con il primo alinea; poi il secondo alinea con l’emendamento Fuschini.

Pongo in votazione la prima parte dell’ordine del giorno e il primo alinea:

«L’Assemblea Costituente afferma che le limitazioni, di cui all’ultimo comma dell’articolo 1 delle Disposizioni transitorie della Costituzione, sono da applicarsi a coloro che hanno ricoperto le seguenti cariche nel regime fascista e in quello repubblicano sociale fascista:

1°) ministri e sottosegretari di Stato in carica dal 5 gennaio 1925».

(Sono approvati).

Pongo in votazione le seguenti parole del secondo alinea:

«2°) senatori, tranne quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia e per i quali l’Alta Corte ha respinto la proposta di decadenza, deputati delle legislature XXVII, XXVIII e XXIX, tranne i deputali della XVII che non giurarono».

(Sono approvate).

Pongo in votazione la prima parte dell’emendamento Fuschini:

«o che esercitarono l’opposizione nell’Aula».

(Dopo prova e controprova e votazione per divisione, è approvata).

Pongo ai voti le successive parole del secondo alinea:

«o che furono dichiarati decaduti con la mozione del 9 novembre. 1926 o che fecero parte della Consulta Nazionale».

(Sono approvate).

Pongo in votazione la seconda parte dell’emendamento Fuschini:

«o dell’Assemblea Costituente».

(È approvata).

Pongo in votazione le ultime parole del secondo alinea:

«consiglieri nazionali».

(Sono approvate).

Pongo in votazione il terzo alinea:

«3°) membri del consiglio nazionale del partito fascista o del partito fascista repubblicano; membri del tribunale speciale per la difesa dello Stato e dei tribunali speciali della repubblica sociale fascista».

(È approvato).

Pongo in votazione il quarto alinea:

«4°) alti gerarchi del partito fascista sino al grado di segretario federale (provinciale) incluso».

(È approvato).

Pongo in votazione il quinto alinea:

«5°) ufficiali generali della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi speciali; ufficiali della guardia nazionale repubblicana, delle brigate nere, delle legioni autonome e dei reparti speciali di polizia della repubblica sociale fascista».

(È approvato).

Pongo in votazione il sesto alinea:

«6°) capi di provincia e questori nominati dalla repubblica sociale fascista».

(È approvato).

Passiamo all’emendamento aggiuntivo degli onorevoli Nasi, Cianca e altri:

«7°) coloro che per la loro attività fascista sono stati esclusi dall’insegnamento o dagli albi professionali».

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Io ho rinunciato a svolgere il mio emendamento, perché la sua dizione era così chiara che legittimava la nostra speranza che la Commissione lo avrebbe accettato. In realtà, era forse una speranza ingenua, di fronte alla stranezza degli avvenimenti ai quali assistiamo, per i quali accade che l’Assemblea respinga oggi quello che un mese e mezzo fa aveva accettato. (Commenti a destra).

Noi crediamo che l’Assemblea assuma una grave responsabilità, e l’assuma anche la Commissione, respingendo un emendamento il quale, inserito in una legge che contempla delle sanzioni politiche, tende a colpire degli uomini su cui queste responsabilità politiche gravano in modo inconfutabile. (Applausi a sinistra).

Nel nostro emendamento abbiamo contemplato le categorie di coloro i quali, attraverso l’insegnamento o attraverso il giornalismo, hanno avvelenato l’opinione pubblica, spingendo il Paese alla guerra e alla disfatta. (Applausi a sinistra).

Per quello che ci riguarda, noi vogliamo legare la Commissione e la maggioranza alle loro responsabilità dinanzi al Paese; noi assumiamo le nostre, insistendo nel nostro emendamento. (Applausi a sinistra – Commenti a destra).

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo proposto dagli onorevoli Nasi, Cianca ed altri:

«7°) coloro che per la loro attività fascista siano stati esclusi dall’insegnamento o dagli albi professionali».

(È approvato – L’ordine del giorno è così approvato nel suo complesso).

Onorevoli colleghi, passiamo adesso all’altra parte della materia costituzionale, relativa alle Regioni, che dobbiamo affrontare e sulla quale dobbiamo prendere una decisione prima di sospendere i nostri lavori.

Come i colleghi rammentano, fu accantonato l’articolo 123, il quale contiene l’elencazione delle Regioni.

Abbiamo ora il nuovo testo di questo articolo 123, formulato dal Comitato di redazione. Se ne dia lettura.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Oltre alle Regioni indicate dall’articolo 108, che hanno forme speciali di autonomia, sono costituite, con le funzioni ed i poteri stabiliti dalla Costituzione, le Regioni seguenti:

Piemonte;

Lombardia;

Veneto;

Liguria;

Emilia e Romagna;

Toscana;

Umbria;

Marche;

Lazio;

Abruzzi e Molise;

Campania;

Puglia;

Basilicata;

Calabria».

PRESIDENTE. A questo nuovo testo sono già stati presentati alcuni emendamenti.

Inoltre gli onorevoli De Martino, Codacci Pisanelli, De Maria, Giordani, Corsini, Dominedò, Miccolis, Perugi, Marina, Condorelli, Tieri, Benedetti, Cacciatore, Preziosi, De Caro Raffaele, Rodinò Mario, Fusco, Persico, Gasparotto, Penna Ottavia, hanno presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente:

riaffermata la opportunità di dare modo alle popolazioni interessate di esprimere la loro volontà circa la Regione di cui dovrebbero far parte;

delibera di rinviare alla legge il compito di determinare il numero delle Regioni, il loro nume, le rispettive delimitazioni territoriali ed i capoluoghi».

Il secondo ordine del giorno, a firma degli onorevoli: Targetti, Cevolotto, Grieco, Lami Starnuti, Filippini, Bennani, Carboni Angelo, Laconi, Binni, Zanardi, Bianchi Bianca, Canevari è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente delibera che – salva la procedura per istituire nuove Regioni – siano nell’articolo 123 costituite le Regioni storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche».

Di questi due ordini del giorno evidentemente quello presentato dagli onorevoli De Martino, Codacci Pisanelli ed altri, ove approvato, avrebbe un carattere preclusivo. Io penso pertanto che sia opportuno far svolgere dai presentatori gli ordini del giorno e decidere in merito ad essi.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ho presentato personalmente un ordine del giorno portante la mia firma, che riguarda il Molise. Sostengo in esso che, per le sue condizioni particolari, il Molise deve essere annoverato fra le nuove Regioni costituite, anche se, per preoccupazioni di ordine generale, vengano rimandate al futuro Parlamento le costituzioni delle nuove Regioni.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Onorevole Presidente, pongo una questione di carattere pregiudiziale. Ritengo che il Comitato di redazione non abbia la facoltà di modificare l’articolo 123 così come era stato formulato nel progetto di Costituzione distribuito. Vi era una riserva, che leggo: «Su questo testo, proposto dalla seconda Sottocommissione, la Commissione, in seduta plenaria, ha sospeso ogni decisione, in attesa che siano raccolti gli elementi di giudizio, mediante l’inchiesta in corso presso gli organi locali delle Regioni di nuova istituzione».

È stata fatta questa consultazione?

BOSCO LUCARELLI. No.

CODACCI PISANELLI. È stata fatta forse in modo incompleto, ma certo è stata fatta. La formulazione contenuta nella deliberazione approvata dalla seconda Sottocommissione diceva che sarebbe stata data comunicazione delle deliberazioni adottate a tutti i comuni e provincie interessate, perché, ove lo avessero ritenuto opportuno, avessero potuto esprimere il loro parere. Questo, a quanto mi risulta dagli atti, è stato fatto. È stata fatta una statistica, forse incompleta, ma certo i risultati di questa statistica sono stati tali che non avrebbero consentito di sopprimere l’articolo. In ogni modo, il Comitato di redazione doveva limitarsi a coordinare, e coordinare non equivale a modificare.

Qui sono state soppresse alcune Regioni che erano state incluse dopo accurata discussione e dopo votazioni.

Sono state soppresse, senza che al Comitato di redazione fossero stati dati questi poteri.

Ritengo perciò che l’articolo 123 debba essere presentato all’Assemblea nella formulazione adottata nel progetto di Costituzione e non nella attuale formulazione.

BOSCO LUCARELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOSCO LUCARELLI. Ho chiesto di parlare per smentire nella maniera più formale che sia stato adempiuto l’obbligo di questa inchiesta, perché fra le Regioni che erano in discussione vi era anche il Sannio. Se del Sannio fa parte la provincia di Benevento, l’amministrazione provinciale di Benevento ed i Comuni della provincia di Benevento, dovevano essere sentiti, cosa che non è stata fatta ed il Presidente della Commissione mi deve dare atto che non è stata fatta. Quindi l’inchiesta è stata una cosa parziale, ad usum delphini, non per responsabilità del Presidente, ma per responsabilità, magari involontaria, degli impieghi che erano stati incaricati di fare questa inchiesta. Ed allora noi non abbiamo gli elementi necessari; abbiamo una sola voce, non abbiamo la voce di tutti; non possiamo vagliare le ragioni delle singole Provincie e dei singoli Comuni in una materia così importante, quale è quella di costituire un nuovo organismo regionale, che non può calpestare i diritti di una Provincia senza ascoltarli.

PRESIDENTE. Vorrei fare presente che, forse inavvertitamente, stiamo spingendoci alla discussione dell’ordine del giorno degli onorevoli De Martino, Codacci Pisanelli ed altri, che non è ancora in questione.

L’onorevole Codacci Pisanelli dice che c’è una questione pregiudiziale e l’ha definita. Restiamo a questa per ora.

L’onorevole Codacci Pisanelli ha proposto che, come base di discussione, si assuma non il nuovo testo dell’articolo 123 così come è stato presentato dalla Commissione, ma il testo primitivo. Questa la questione e possibilmente non sfociamo dall’argomento.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Io credo, onorevole Presidente, onorevoli colleghi, che la richiesta dell’onorevole Codacci Pisanelli sia fondata.

Io che so quanto interessa la Regione che mi ha qui mandato la questione, di cui ci andiamo occupando, posso dire che la situazione di fatto è la seguente. La espongo con la necessaria precisione. Nella seduta del 16 dicembre 1946 l’onorevole Terracini, che presiedeva la Sottocommissione, mise ai voti la presa in considerazione della richiesta del Molise di essere riconosciuto come Regione autonoma. Fu approvata.

DE CARO RAFFAELE. Il numero dei voti dell’approvazione. La prego di essere preciso.

COLITTO. Fu approvata. Non è a dubitarne. Io ho qui presenti i verbali della Sottocommissione ed il Presidente dell’Assemblea mi può far fede di quello che vado dicendo.

Nella seduta del 16 dicembre, adunque, la presa in considerazione della richiesta del Molise fu approvata. Nella stessa seduta il Presidente dispose che si discutesse del merito. Se ne discusse e si votò ed il Molise entrò nell’elenco delle Regioni.

Che cosa è accaduto posteriormente? Furono disposte delle indagini. Furono queste compiute. Ora possono essere state non rivolte le stesse alla provincia di Benevento, come diceva dianzi l’onorevole Bosco Lucarelli. Ma, per quanto riguarda il Molise, furono compiute e tutti i paesi del Molise risposero, come dallo specchietto, che è stato allegato ai lavori della Sottocommissione e distribuito all’Assemblea. Nulla, quindi, di nuovo si è verificato, che potesse indurre la Sottocommissione a cambiare il testo dell’articolo, e, se nulla è avvenuto… (Interruzione del deputato Fuschini).

PRESIDENTE. Onorevole Fuschini, la prego di non interrompere. Onorevoli colleghi, capisco che questa discussione possa appassionare, ed era attesa da quattro mesi; ma questa è una ragione di più, se mai, perché si svolga ordinatamente.

COLITTO. Vi è, dunque, una votazione, la quale si è conclusa con la presa in considerazione della proposta, vi è una votazione, che si è conclusa con l’approvazione della proposta del merito. Vi sono state delle indagini e sono state favorevoli alla nostra proposta. Io penso, perciò, per la parte che riguarda il Molise, che l’articolo, così come dalla Sottocommissione era stato formulato, non potesse dal Comitato di coordinamento essere modificato. È perciò che mi associo alla richiesta dell’onorevole Codacci Pisanelli.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Io ho il compito di dichiarare qual è l’atteggiamento del nostro Gruppo nei confronti dei due ordini del giorno che sono stati presentati, per decidere questa importante materia delle circoscrizioni regionali.

Noi siamo favorevoli all’ordine del giorno Targetti-Cevolotto ed altri, e voteremo per esso, salvo quelle modifiche formali che potranno essere apportate. Voteremo per l’ordine del giorno Targetti e contro l’ordine del giorno degli altri colleghi, perché riteniamo che in questo momento l’Assemblea Costituente non abbia elementi sufficienti per procedere ad una seria determinazione delle circoscrizioni regionali secondo i criteri innovativi che vengono da più parti richiamati.

Noi non intendiamo con questa votazione precludere la possibilità che in avvenire, ad opera delle Assemblee legislative, dopo studi seri ed attenti sulla realtà economica, politica, geografica, sociale delle regioni interessate, dopo più attenta e più seria consultazione delle popolazioni interessate, si giunga ad un diverso assetto delle circoscrizioni regionali. Ma se volessimo invece anticipare questo momento, mentre siamo sollecitati dall’urgenza di terminare i nostri lavori, noi correremmo il rischio di non creare un serio assetto regionale in Italia, determinando piuttosto delle circoscrizioni le quali obbediscano a criteri di opportunità contingente.

Noi ci opponiamo, d’altra parte, a che si compia un rinvio alla legge, come si propone nell’ordine del giorno De Martino, contro il quale noi voteremo. Non crediamo che si possa rinviare alla legge, perché il rinvio alla legge vorrebbe dire un lungo rinvio nell’attuazione di questa riforma regionale che pure, attraverso contrasti, è nata in fondo con il quasi unanime consenso di questa Assemblea; e – tanto meno si potrebbe poi fare un rinvio alla legge ordinaria, perché questa determinazione delle circoscrizioni regionali, incidendo su elementi costitutivi dello Stato, deve essere definita attraverso una legge costituzionale. In altri termini, accettando l’articolo 123 del progetto di Costituzione così come ci viene presentato, noi intendiamo definire questa materia, senza escludere – anzi presupponendo – che essa tornerà ad essere oggetto di esame (se così sarà creduto opportuno) nella prossima Assemblea legislativa; tornerà ad essere oggetto di esame attraverso quella speciale procedura che viene indicata nell’articolo aggiuntivo dell’onorevole Mortati, procedura, cioè, la quale tende a permettere una più rapida ed agile definizione in questo stadio iniziale delle circoscrizioni regionali, prescindendo dal procedimento normale di revisione previsto dall’articolo 125 del nostro progetto di Costituzione.

Assumendo questa posizione, la quale implica doloroso sacrificio da parte di taluni nostri colleghi, i quali hanno presentato in modo appassionato e vibrante talune rivendicazioni, il nostro Gruppo intende dare un contributo ad una rapida realizzazione concreta dell’ordinamento regionale affinché esso, operando, possa mostrare i vantaggi che arreca alla vita dello Stato. Se l’ordinamento regionale nascesse inficiato da inammissibili indeterminatezze, se nascesse inficiato dalla polemica disordinata di questo momento e da non meditate decisioni di maggioranza, esso nascerebbe meno vitale di come noi lo vogliamo. Poiché per noi l’ordinamento regionale italiano è una cosa seria, rinviamo al domani quelle modificazioni nelle circoscrizioni che sembrino necessarie, intanto votando per quelle soltanto che siano indicate dalla storia e dalla tradizione del nostro Paese.

PRESIDENTE. Penso che, non avendo l’Assemblea sollevato obiezioni alla procedura che ho proposto, sia il caso di dare la parola ai presentatori degli ordini del giorno.

LONGHENA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGHENA. Io ho presentato un emendamento il quale coincide perfettamente con l’ordine del giorno presentato dagli onorevoli Targetti ed altri; desidero svolgerlo, perché ritengo che sia in esso una priorità.

PRESIDENTE. Onorevole Longhena, lei può benissimo mettersi d’accordo con l’onorevole Targetti. Se c’è una identità fra il suo emendamento e l’ordine del giorno Targetti, lei potrà apporre la sua firma a questo ordine del giorno.

Poiché l’onorevole Targetti non è presente, l’onorevole Lami Starnuti, confirmatorio, ha facoltà di svolgere l’ordine del giorno.

LAMI STARNUTI. Debbo fare soltanto alcune brevi considerazioni, anche perché l’onorevole Moro, dichiarando di votare il nostro ordine del giorno, ha sommariamente indicato le ragioni che stanno a conforto dell’ordine del giorno medesimo.

La nostra proposta proviene da colleghi di vari gruppi di questa parte della Camera e muove dalla considerazione, non tanto di abbreviare in questa tornata la discussione sull’articolo 123, quanto dal desiderio di non essere costretti a delle facili improvvisazioni, e pertanto rappresenta un accoglimento pregiudiziale della nuova formula che il Comitato di coordinamento ha presentato a modificazione dell’articolo 123 del progetto. Noi accettiamo il nuovo testo, in quanto risolve alla radice quelle che erano le controversie più accese in merito alla ripartizione in Regioni del territorio nazionale. La discussione che noi abbiamo udito testé tra l’onorevole Codacci Pisanelli e l’onorevole Bosco Lucarelli, è la prova più palmare e concreta della insufficienza delle nostre indagini e delle nostre istruttorie in merito alla creazione di nuove Regioni.

Quando nel Comitato delle autonomie locali si parlò di questo argomento, parve subito evidente l’opportunità di non uscire dalle Regioni tradizionali, per non rinfocolare rivalità regionali e rivalità paesane, per non esser costretti a giudizi sommari e frettolosi. Quell’opportunità non è venuta meno. E poiché noi non vogliamo né rinviare alla legge la ripartizione regionale – in quanto ciò impedirebbe la sollecita creazione dell’ente Regione decisa dalla Costituzione – né impedire che, nel prossimo futuro, avvengano correzioni territoriali o creazione di nuove Regioni, così abbiamo proposto che, intanto, le Regioni da istituire in attuazione sollecita, se non immediata, delle norme costituzionali siano quelle che rispondono alla nostra tradizione e che per il futuro sia fatta salva la procedura per istituire nuove Regioni o per addivenire a modificazioni di territorio.

La procedura per istituire nuove Regioni o per modificare quelle esistenti era già stata prevista nel progetto di Costituzione dall’articolo 125; ma ora il collega onorevole Mortati propone al riguardo un suo emendamento diretto a rendere meno complicata e meno meccanica la istruttoria e la possibilità di queste modificazioni venture. Riconosco giusto, nelle condizioni attuali, l’emendamento; anzi, io debbo dichiarare, anche a nome dei colleghi che hanno firmato il nostro ordine del giorno, che con il nostro inciso, «salva la procedura per istituire nuove Regioni», abbiamo inteso di aderire alla proposta dell’onorevole Mortati, e che l’emendamento da lui presentato avrà anche il nostro voto.

PRESIDENTE. L’onorevole Ruggiero ha presentato il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea delibera che la legge stabilirà le circoscrizioni, il nome, i confini, ed i capoluoghi delle Regioni, previo parere delle Province e dei Comuni interessati».

Risultato delle votazioni segrete.

PRESIDENTE. Comunico il risultato delle votazioni a scrutinio segreto, sui disegni di legge all’ordine del giorno:

«Approvazione dello scambio di Note effettuato in Roma fra l’Italia e la Francia, il 1° giugno 1946, circa il recupero di navi mercantili francesi affondate nelle acque territoriali italiane».

Presenti e votanti     346

Maggioranza           174

Voti favorevoli        326

Voti contrari                        20

(L’Assemblea approva).

«Approvazione dell’Atto di emendamento della Costituzione dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro e della Convenzione per la revisione parziale delle Convenzioni adottate dalla Conferenza Generale dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro nelle sue prime 28 Sessioni, per assicurare l’esercizio futuro di alcune funzioni di cancelleria affidate dalle predette Convenzioni al Segretario Generale della Società delle Nazioni e per apportarvi emendamenti complementari resisi necessari in seguito alla estinzione della Società delle Nazioni ed all’emendamento della Costituzione dell’Organizzazione del Lavoro».

Presenti e votanti     346

Maggioranza           174

Voti favorevoli        332

Voti contrari                        14

(L’Assemblea approva).

«Approvazione dell’Accordo fra l’Italia e l’Argentina in materia di emigrazione, concluso a Roma il 21 febbraio 1947».

Presenti e votanti     346

Maggioranza           174

Voti favorevoli        311

Voti contrari            35

(L’Assemblea approva).

«Soppressione del Senato e determinazione della posizione giuridica personale dei suoi componenti.

Presenti                              346

Votanti                               345

Astenuti                  1

Maggioranza           173

Voti favorevoli        315

Voti contrari                        30

(L’Assemblea approva)

«Modificazioni al Codice penale per la parte riguardante i delitti contro le istituzioni costituzionali dello Stato».

Presenti e votanti     346

Maggioranza           174

Voti favorevoli        304

Voti contrari            42

(L’Assemblea approva).

«Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento».

Presenti                              346

Votanti                               345

Astenuti                   1

Maggioranza           173

Voti favorevoli        287

Voti contrari            58

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Amadei – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bastianetto – Bazzoli – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Benedetti – Benedettini – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamenti – Bernardi – Bertola – Bertone – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonino – Bonomelli – Bordon – Bosco Lucarelli – Bozzi – Braschi – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro.

Caldera – Camangi – Camposarcuno – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carboni Enrico – Carignani – Caronia – Carratelli – Caso – Castelli Avolio – Castiglia – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chieffi – Chiostergi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cimenti – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corsanego – Corsi – Corsini – Cosattini – Costa – Costantini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

Del Curto – Della Seta – De Maria – De Martino – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Fioritto – Firrao – Foa – Foresi – Franceschini – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacchero – Giacometti – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto – Gullo Rocco.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jervolino.

Laconi – Lagravinese Pasquale – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longhena – Lopardi – Lozza – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marchesi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Massini – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Matteotti Matteo – Mazza – Mazzei – Mazzoni – Meda Luigi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Momigliano – Montagnana Rita – Monterisi – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini– Moro – Mortati – Moscatelli – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pellegrini – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Persico – Perugi – Pesenti – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignedoli – Pistoia – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quarello – Quintieri Adolfo.

Raimondi – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Restagno – Ricci Giuseppe – Rivera Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Rognoni – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Russo Perez.

Saggin – Salerno – Salizzoni – Sampietro – Sansone – Santi – Scalfaro – Scarpa – Schiavetti – Schiratti – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Secchia – Selvaggi – Sicignano – Silipo – Silone – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Tega – Terranova – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tomba – Tonello – Tozzi Condivi – Tremelloni – Treves – Trimarchi – Tumminelli – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigna – Villabruna – Villani – Vischioni.

Zaccagnini – Zanardi – Zotta – Zuccarini.

(L’onorevole Conti si è astenuto dalla votazione sui disegni di legge: «Soppressione del Senato» e «Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento»).

Sono in congedo:

Abozzi – Angelucci.

Cairo– Caristia – Carmagnola – Caroleo – Cavallari.

Dozza – Dugoni.

Jacini.

Porzio.

Ravagnan – Romita – Rumor.

Sardiello.

Tosato.

PRESIDENTE. Ritengo opportuno sospendere la seduta per esaurire alla ripresa l’argomento in esame.

(La seduta, sospesa alle 19.30, è ripresa alle 21.30).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’onorevole De Martino, ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno.

DE MARTINO. Lo svolgerò nella maniera più breve possibile, anche in considerazione dell’ora tarda. Tengo innanzitutto a dichiarare che io ero nettamente contrario all’istituto della Regione, ma che, dopo i discorsi così esaurienti pronunziati in questa Assemblea, io mi sono ricreduto, specialmente dopo quello dell’onorevole Conti e dopo quello dell’onorevole Piccioni. Conseguentemente ho votato a favore dell’istituto della Regione.

L’ordine dei giorno che ho ora presentato ratifica quanto è stato fatto, anzi riafferma quanto è stato fatto. Nessuno, credo, in questa Camera, pensa che si possa tornare sopra le decisioni già prese. La Regione ormai, è entrata fra le istituzioni della Repubblica italiana. L’ordine del giorno mio e degli altri colleghi tende semplicemente a rinviare l’applicazione della norma che stabilisce la Regione. Perché tende a rinviarla? Per le ragioni che io cercherò di accennare soltanto. Noi dobbiamo fare di questa nostra Repubblica un insieme organico; la Regione è un perfezionamento, un particolare. Perciò io mi domando se, prima di fare i particolari, non sia meglio guardare all’insieme, cioè fare il quadro d’assieme e poi scendere al dettaglio.

Noi, sia in questa Camera, sia fuori di questa Camera dobbiamo onestamente riconoscere di non trovarci di fronte ad un’organizzazione collettiva fatta veramente come si dovrebbe. Quindi, ripeto, io non insisto perché voglia dilazionare sine die l’applicazione di questa volontà della Camera, alla quale volontà io ho contribuito dando anche il mio voto favorevole; ma domando soltanto ai colleghi che l’applicazione di questa legge sia fatta gradualmente, perché diversamente corriamo dei pericoli, e dei pericoli gravi sotto tutti i profili.

L’amico onorevole Moro – che non vedo – dice: «Noi vogliamo varare un elenco di Regioni che saranno delle Regioni variabili». Ma, per carità, onorevoli colleghi, non facciamo altre cose provvisorie; in Italia ve ne sono già abbastanza. Riteniamo per definitive quelle norme che abbiamo deliberate e proponiamoci di fare l’elenco delle Regioni in maniera definitiva entro il più breve tempo possibile. Non è giusto, che noi qui, Assemblea Costituente, si debba fare tutto. Io talvolta mi domando: «E gli altri che cosa faranno?». Tanto più che noi quello che facciamo, diciamocelo onestamente, lo facciamo sulla carta; ma quello che scriviamo sulla carta non corrisponde al cento per cento nella vita pratica, nell’attuazione.

Poiché questo argomento non investe questioni, diremo così, politiche; non investe questioni di partito, io faccio appello a tutti, perché tengano conto di queste mie modestissime osservazioni. Quindi dobbiamo fare unicamente un provvedimento che valga a rendere meno dura, più agevole la vita dei cittadini. A qualunque partito essi appartengano. Nient’altro. Ed io ho parlato per un bisogno, per un imperativo di coscienza, perché avrei dovuto rinunciare a svolgere questo ordine del giorno, cedendo la parola ad altri colleghi, molto autorevoli, che hanno voluto aderire a questo mio punto di vista.

Ma l’ho fatto perché, dicevo, la mia coscienza me lo ha imposto, in quanto ritengo di essere un modesto organizzatore, e l’organizzazione della Regione io non la vedo così facile. Io non vedo che mentre si include nell’articolo 123 l’elenco delle Regioni, si possa pensare e credere che le Regioni siano nate e possano funzionare. Pensiamo un po’ a quello che succederà quando avremo varato questo elenco di Regioni. Pensiamo un po’ anche alle spese. In Italia abbiamo già un milione e duecentomila impiegati dello Stato. Le Regioni, che rappresentano un’entità non indifferente, avranno bisogno di altre decine di migliaia di impiegati. E noi, che dobbiamo naturalmente gettare le basi di questa nostra Repubblica, anziché pensare a risolvere i problemi più vitali della Nazione, penseremmo a creare degli impiegati. I quali sono rispettabilissima gente che vuol guadagnarsi il pane e ha ragione. Ma a noi compete il compito di creare per questi nostri concittadini un lavoro redditizio, così che la vita nazionale si possa svolgere in maniera meno dura che non sia attualmente.

Quindi, io mi permetto di insistere sull’ordine del giorno. Mi permetto di insistere assicurando, intendiamoci, la perfetta buona fede di quanto è stato detto nella sua premessa, cioè che l’Assemblea Costituente riafferma la necessità di un decentramento amministrativo sulla base delle Regioni. Ma ritengo pure che qualche parola di chiarimento debba essere detta a proposito della seconda considerazione, quella con la quale si riconosce l’opportunità di dar modo alle popolazioni interessate di esprimere la loro volontà circa la Regione di cui dovrebbero far parte.

Naturalmente non proporremo un referendum, ma è anche logico che alcune città si pronunzino sulla loro appartenenza ad una Regione o all’altra, e penso che dovremo chiedere ai vari comuni d’Italia di riunire i loro consigli comunali ed esprimere un voto all’Assemblea Costituente perché l’Assemblea possa tener conto di questi voti e andare incontro al desiderio delle popolazioni interessate.

E poi vorrei dire una parola agli amici della Democrazia cristiana, se è consentito in questa sede.

Io ho sempre votato in conformità dei voti dati dalla Democrazia cristiana, perché ho pensato e penso oltre tutto, che non facendo parte ufficialmente della Democrazia cristiana io sto più a posto con la coscienza, inquantoché la responsabilità delle determinazioni compete al Gruppo e io riverso la responsabilità della mia coscienza su queste persone che stimo e che fanno parte del centro. Ad esse ed alle altre persone per bene di tutti gli altri settori della Camera, rivolgo la mia preghiera per dire: consideriamo a fondo quello che stiamo per fare. Qui si tratta degli interessi della Nazione, degli interessi del popolo italiano. Qui non si tratta – come dicevo poc’anzi – di partiti, ma di economia. Non facciamo in modo che, per affrettare le decisioni o per affrettare l’applicazione di certe decisioni, noi, anziché avere una unità organica nazionale, corriamo il pericolo di peggiorare le situazioni! Prepariamo prima l’ambiente. È questione di pochi mesi. Prepariamo l’ambiente per la nascita di queste Regioni e coloro che ci succederanno potranno con coscienza, con fermezza, con sicurezza maggiore di quella che noi non possiamo avere oggi, fare l’elenco delle Regioni, delimitarle territorialmente e creare il loro capoluogo, interpretando con elementi di fatto quella che è la volontà delle popolazioni interessate

Onorevoli colleghi, io non voglio ulteriormente tediarvi. Vi dico soltanto che ravviso in questa legge dei pericoli molto gravi per l’organizzazione, per l’economia, per il futuro del nostro popolo. Speriamo veramente che Iddio ci assista e ci faccia scegliere la via migliore: sono sicuro che tutti quanti in questa Camera sono dell’avviso di dover fare – come faremo – gli interessi unicamente dell’Italia e del popolo italiano. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Lussu ha facoltà di svolgere il suo ordine del giorno, che è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente afferma che, per le particolari condizioni in cui si trova, il Molise deve essere annoverato fra le nuove Regioni, anche se per preoccupazioni di ordine generale venga rimandata al futuro Parlamento la costituzione delle nuove Regioni».

LUSSU. Onorevoli colleghi, a quest’ora tarda io di questo argomento non parlerei se non sentissi in coscienza di difendere una giusta causa.

Mi rendo perfettamente conto delle preoccupazioni e delle diffidenze di molti di questa Assemblea circa la costituzione immediata di nuove Regioni. Me ne rendo perfettamente conto, ma io mi rendo anche perfettamente conto – e vorrei che con me se ne rendessero conto i colleghi – che il Molise si trova in una particolarissima sua situazione.

Perché io parlerei del Molise e non delle altre Regioni?

Io mi rimetto perfettamente a quello che fa l’Assemblea per le altre Regioni, anzi non prenderò mai la parola neanche per dichiarazione di voto. Perché prenderei dunque questo atteggiamento circa il Molise? Ho io degli interessi particolari nel Molise? Questa è un’Assemblea elettiva e naturalmente la fonte delle nostre cariche ci viene dai collegi elettorali, dai voti; anche i migliori sono obbligati ad avere questa fonte unica, onesta e legittima. Ma io non ho neppure voti che m’interessino nel Molise. Il Molise, aggiungo, credo sia la sola Regione d’Italia in cui il Partito di azione, che io ho per lungo tempo rappresentato, non esiste.

Non esiste; tanto che nell’elenco dei partiti reclamanti la costituzione del Molise in ente Regione non figura. Ho saputo poi che esiste qualche gruppo di simpatizzanti, ma senza costituzione ufficiale di partito.

Perché dunque, io mi arrogherei il diritto di parlare per il Molise in questa Assemblea, dove siedono tanti rappresentanti del Mezzogiorno che conoscono la vita nostra meridionale e le sue aspirazioni? Perché lo farei? Con quale pretesa?

In coscienza, nello studiare questo problema mi sono convinto che è necessario che a questa Regione sia concessa l’autonomia. Io mi sono trovato, nella seconda Sottocommissione, ad essere relatore per la costituzione di tre nuove Regioni: la Regione Umbro-Sabina, la Regione del Sannio e la Regione del Molise. E credo di avere assolto il mio compito con obiettività, con la massima obiettività possibile: e ho concluso negativamente, per delle ragioni che mi dispenso dal ricordare qui, perché ormai mi pare che la costituzione di queste due Regioni Umbro-Sabina e del Sannio non sia suffragata da elementi reali, ho concluso negativamente per queste due Regioni e favorevolmente per il Molise. Il Molise non è una nuova Regione che si vuole creare; è una vecchia Regione, che già esiste. Non è già una Regione che pretenda staccarsi dall’Abruzzo (con il quale peraltro i suoi rapporti sono i più cordiali che si possano immaginare anche in questo momento), perché il Molise è stato sempre staccato da ogni altra Regione, compreso l’Abruzzo; staccato storicamente, logisticamente e geograficamente. (Commenti). Il Molise, in sostanza è una Regione a sé. Gli Abruzzi e Molise nella denominazione ufficiale delle Regioni storiche italiane costituiscono la sola Regione in cui ci sia il riferimento a due denominazioni differenti e a due Regioni differenti: Abruzzi e Molise. Con questo solo fatto, si viene ad affermare che quella dell’Abruzzo e Molise non è una sola Regione; sono due: l’Abruzzo da una parte e il Molise dall’altra.

Credo che nessuna questione sarebbe sorta se questa Assemblea non avesse dato al Paese una organizzazione autonomistica dello Stato su base regionale. Quindi l’Abruzzo viene a costituire una nuova configurazione particolare di ente Regione con capitale, io ritengo senza discussione, L’Aquila.

Onorevoli colleghi, consultate un poco la carta geografica e vedete: come può vivere il Molise facente parte di una Regione come l’Abruzzo, capoluogo L’Aquila? È impossibile.

Chi conosca quelle zone sa che non solo col cattivo tempo, ma anche col buon tempo, è estremamente lungo, penoso e difficile arrivare dal Molise fino a L’Aquila. È questa la ragione per cui tutti gli abruzzesi – ed è a loro onore, perché sta a dimostrare la loro generosa lealtà – riconoscono francamente giusta la richiesta dei molisani perché il Molise sia costituito in Regione autonoma.

Il Molise non può vivere con l’Abruzzo.

Ma quello che è peggio è che non può vivere con nessun’altra regione e non può collegarsi a nessun altro capoluogo di regione. Non a Roma, che è troppo lontana; non a Napoli, che è troppo lontana. A Roma, si sa, convergono interessi culturali; a Napoli convergono interessi giudiziari. L’alta cultura del Molise si forma prevalentemente a Napoli e a Roma; ora, più a Roma che a Napoli, probabilmente per il fatto che essendovi forte la Democrazia cristiana, molto forte, i giovani preferiscono Roma, città del Papa. E commercialmente, per trovare sbocco alla sua attività produttiva, il Molise bisogna si spinga non già fino a Roma o a Napoli, ma deve spingersi verso l’Adriatico; e non può fermarsi nella Capitanata, a Foggia, perché Foggia non ha sbocco sul mare, ma deve puntare su Bari. Ora, guardate la carta geografica: può il Molise far parte d’una regione la cui capitale sia Bari? È impossibile. E non può neppure dirigersi al capoluogo (mi sia consentito) del cosiddetto Sannio. Come reminiscenza storica…

BOSCO LUCARELLI. Ma è realtà vivente! (Commenti). Lei non è obiettivo!, (Proteste).

LUSSU. Mi sia consentito di finire il periodo che io avevo inteso iniziare con tanto spirito cordiale e con un tantino – ma appena appena – di sale di ironia.

Dicevo che sul Sannio, onorevole Bosco Lucarelli, caro al ricordo di tutti noi – sto per dire al cuore di noi non imperialisti, non fosse altro perché i sanniti le hanno date sode ai romani (Si ride)non può convergere il Molise, non può gravitare sulla sua capitale Benevento. Per la semplice ragione, egregio collega Bosco Lucarelli – questo è il punto – che la regione del Sannio è difficile a costituirsi perché manca il consenso di quelli che dovrebbero costituirla. C’è contrarietà in tutto il Molise e c’è contrarietà in tutta la provincia di Avellino. Ed allora, onorevoli colleghi, come si potrebbe chiedere a questa Assemblea che si costituisca una nuova Regione, quando su tre provincie che dovrebbero costituirla, una è a favore e due contro? Non è possibile.

Non vi può essere quindi che una sola soluzione onesta, da prendere; una sola soluzione giusta: riconoscere al Molise la nuova costituzione in ente Regione. Solo così il Molise può vivere senza essere danneggiato dalla costituzione delle Regioni che l’accerchiano.

Devo comunicarvi una mia esperienza personale. Quando ero al Governo ed avevo la direzione del dicastero dell’assistenza post-bellica, ed ho creato gli uffici provinciali e regionali di assistenza post-bellica, sono rimasto lungamente fisso sulla carta geografica, dopo essermi informato ampiamente in precedenza, prima di decidere; ed ho capito che non potevo in nessuna forma obbligare il Molise a dipendere da un capoluogo qualunque dell’Abruzzo. E ho dovuto, facendo una eccezione alla regola generale, stabilire a Campobasso un ufficio regionale autonomo per tutto il Molise. E devo dire che in questo ho agito nell’interesse delle categorie dei reduci e danneggiati di guerra che rappresentavo.

Ma io ho scoperto, dopo, che altri Ministri si erano trovati perplessi di fronte allo stesso problema, ed avevano, ognuno per proprio conto, preso decisioni analoghe a quelle mie. Ho scoperto che quando il Ministro della pubblica istruzione, durante il fascismo, creò gli uffici regionali del Provveditorato, e quando il Ministro dell’industria e commercio volle prendere un provvedimento particolare nell’interesse del Mezzogiorno e creò le Sottocommissioni regionali per l’industria e commercio, stabilirono entrambi a Campobasso i rispettivi uffici regionali.

Non c’è nessun elettoralismo in questo; tutti i partiti sono d’accordo sul posto. Quindi non vi sarà nessuno che profitterà della riforma più di un altro.

DE CARO RAFFAELE. Vuole spiegarmi di quante province si compone il Molise?

MORELLI RENATO. Come l’Umbria.

LUSSU. Quello che è interessante è il sapere – e ciascuno di voi lo può controllare – che nel Molise, già dopo l’altra guerra, nel 1919 (se ci fosse l’onorevole Nitti gli direi: dopo «una guerra vinta e non una guerra perduta), i molisani chiedevano la costituzione in Regione del Molise; e vi fu un Congresso preparato fin dal 1921 e fattosi a Campobasso nel 1922 reclamante la costituzione autonomistica del Molise.

Non parlo degli avvenimenti politici recenti, perché li conosciamo tutti, culminanti nel secondo Congresso regionale per l’autonomia del Molise. Ma sarà interessante per tutti, soprattutto per quelli che hanno fatto la guerra di liberazione come combattenti organizzati nell’esercito o come partigiani, sarà interessante per tutti questi, che hanno coscienza come la guerra partigiana abbia espresso profonde aspirazioni democratiche, sapere che il Comitato di liberazione nazionale riunitosi a Campobasso immediatamente dopo la liberazione, reclamò la costituzione del Molise in Regione.

I colleghi mi perdoneranno se io, studiando questo problema, ho sentito il dovere, senza nessuna presunzione o sicumera, di portare qui la mia voce: una voce che non vuol farsi eco di interessi locali, e che si esprime nell’interesse generale del Paese e dello Stato.

Si dice: ma noi abbiamo fissato nella Carta costituzionale, all’articolo 125, che le nuove Regioni, che si costituiranno in avvenire, non potranno avere meno di 500 mila abitanti: e il Molise non li ha.

Mi sia permesso di dire che questa non è un’obiezione. Intanto l’articolo 125 lo dobbiamo ancora discutere ed approvare; e potremo ridurre a 400 mila il limite minimo oppure lasciarlo a 500 mila. Ma se il Molise sarà riconosciuto oggi, come spero e auguro ardentemente a quella generosa popolazione, sarà perfettamente indifferente lasciare intatto l’articolo 125. Il Molise non ne avrà nessun ostacolo, perché sarà, da una votazione precedente di questa Assemblea, riconosciuto in ente Regione.

È piccolo il Molise: poco più di 400 mila abitanti su una superficie di chilometri quadrati 4600 circa. Ma credo che sono parecchi in Italia coloro che guardano a questa Regione come ad una sicura speranza di civiltà rurale moderna: il Molise ha una produttività ed un tecnicismo di lavoro in agricoltura, come pochissime Regioni d’Italia: la Lombardia, la Toscana, le Marche: eppure il suo è un terreno montano in cui è estremamente difficile il lavoro. E credo che non sono pochi coloro che in Italia sanno che il Molise è Regione produttrice in sommo grado di vino e che quella popolazione ha saputo, attraverso il suo lavoro e la sua tecnica – in gran parte dovuta agli emigrati in America ritornati in Italia – trasformare una Regione precedentemente povera in Regione produttrice, che si può mettere fra le avanguardie di questa civiltà montana, verso cui non è lecito guardare con ironia. Questa piccola Regione, con la sua organizzazione di produzione e di lavoro, ha dimostrato di essere qualcosa di serio.

Ebbene, onorevoli colleghi, a questa Regione diamo tutti, con la serena coscienza di adempiere ad un dovere nazionale, il riconoscimento che le spetta, per volontà unanime dei suoi cittadini, per la sua coscienza popolare; nell’interesse della nuova vita che insieme siamo decisi a riprendere nel nostro Paese. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Ruggiero ha facoltà di svolgere il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea delibera che la legge stabilirà la circoscrizione, il nome, i confini ed i capoluoghi delle Regioni, previo parere delle Provincie e dei Comuni interessati».

RUGGIERO. Onorevoli colleghi, parlo a titolo personale, perché ho il dispiacere di trovarmi in una condizione di contrasto col Gruppo parlamentare al quale ho l’onore di appartenere. Farò brevi osservazioni sull’ordine del giorno che ho presentato e che si esprime così: «L’Assemblea delibera che la legge stabilirà la circoscrizione, il nome, i confini ed il capoluogo delle Regioni previo parere delle Province e dei Comuni interessati». Mi permetto di osservare che, secondo la mia opinione, questo ordine del giorno forse è giuridicamente più coerente a quello che è lo spirito costituzionale. Per questa ragione obiettiva: perché questo ordine del giorno realizza quello che effettivamente e concretamente noi abbiamo conseguito attraverso i lavori costituzionali. Che cosa abbiamo noi conseguito fino a questo momento, onorevoli colleghi, nell’ambito della questione della autonomia regionale? Noi abbiamo conseguito questo di concreto: l’affermazione del principio della autonomia regionale e non siamo andati oltre questo principio. Null’altro è stato fatto.

Onde è che, se questo ordine del giorno propone che venga consacrato nella Costituzione solo questo principio, mi pare che l’ordine del giorno, per ragione direi di onestà e di dignità giuridica, resti aderente perfettamente alla somma dei lavori da noi compiuti. Vedete, noi, durante i lavori, non abbiamo avuto la possibilità di accertare quali fossero effettivamente le Regioni che dal punto di vista geografico, economico e storico potessero legittimamente aspirare ad essere configurate come enti regionali. Questa è stata una dichiarazione fatta concordemente da tutti. Ora, se questo è vero, cioè se non abbiamo gli elementi necessari per un giudizio di valutazione su questa e quella Regione, mi pare che voler consacrare nella Carta costituzionale un certo numero di Regioni, riferendosi solo a un criterio di carattere tradizionale e storico, da un punto di vista rigorosamente giuridico dovrebbe essere considerato più come un fatto arbitrario che come l’effetto di una valutazione basata su elementi veramente obiettivi ed irrefutabili. Ne deriva che, secondo il mio ordine del giorno, si vedrebbe consacrato nella Carta costituzionale solo il principio che afferma l’autonomia regionale e non già la determinazione delle Regioni che possono aspirare legittimamente a questo titolo, mancando tutti gli elementi necessari per una valutazione del genere.

Mi pare, onorevoli colleghi, che in questo sforzo di voler consacrare necessariamente certe Regioni nella Carta costituzionale, si possa ravvisare più che un’esigenza di carattere giuridico, un’esigenza di carattere politico: mi pare, se non erro, o se non sono eccessivamente maligno, che in questo sforzo si possa ravvisare, per esempio, la fretta che può avere un partito, il quale avendo conseguito l’affermazione astratta del principio dell’autonomia regionale non abbia più la pazienza di aspettare che questo principio venga tradotto in realtà. Ci potrebbe essere anche in questa frettolosa determinazione delle Regioni l’istanza di un altro partito il quale, per esempio, potrebbe accettare il meno peggio: cioè vedrebbe consacrato il problema regionale in grosse Regioni, avendo deprecato la frantumazione della Nazione in tante piccole Regioni.

Ora, se così è, io mi permetto, con molta, umiltà, di far presente agli onorevoli colleghi che in questa materia noi non stiamo affermando un principio giuridico astratto, ma rappresentiamo milioni di cittadini i quali aspettano una decisione che non incida solo sulle velleità di carattere campanilistico, ma su interessi del loro avvenire come cittadini d’Italia.

D’altra parte però, mi sembra che debba farsi luogo all’accettazione del mio ordine del giorno e non di quello presentato dall’onorevole, Targetti, per una ragione che io chiamerei di ordine tecnico. Che cosa vuole l’ordine del giorno Targetti? Vuole Consacrare la determinazione delle Regioni storiche ed il rinvio di ogni decisione per le altre Regioni. Infatti, delle richieste delle piccole Regioni non si dovrebbe discutere perché mancano gli elementi di valutazione. Ora, quest’ordine del giorno così consideralo assume automaticamente un carattere di pregiudizialità. Perché? Perché dovrebbe essere, onorevoli colleghi, e questo mi sembra un punto fondamentale dell’ordine del giorno Targetti, approvato o accettato anche senza entrare nel merito della questione. Quindi, di qui deriva il carattere pregiudiziale di quest’ordine del giorno. Permettetemi di dire che questo non è possibile, perché l’ordine del giorno non può avere questo carattere pregiudiziale. La ragione è questa: nell’ordine del giorno Targetti non vi è il riconoscimento puro e semplice delle Regioni tradizionali; si propone invece in esso proprio l’istituzione di Regioni.

E quando si fa accenno al concetto tradizionalistico, la parola non deve indurci in un errore di interpretazione, perché qui non esiste il riconoscimento di una posizione di fatto già esistente, ma si tratta di creare una condizione nuova per le Regioni. Infatti, queste Regioni non restano come erano prima, ma ad esse viene applicato il principio già approvato nell’autonomia regionale. Quindi le Regioni diventano delle entità nuove.

Ora, se così è, la costituzione e la creazione di queste Regioni comportano necessariamente un esame nel merito della questione. Ecco perché l’ordine del giorno dell’onorevole Targetti non dovrebbe avere un carattere pregiudiziale. Esso comporta un esame di carattere positivo per arrivare all’istituzione di certe Regioni, e comporta un esame di carattere negativo per arrivare alla esclusione delle altre piccole regioni.

Ora, si tenga presente che effettivamente l’esame sulle aspirazioni, istanze o proposte delle piccole Regioni non viene compiuto perché non c’è possibilità di fare questo esame per difetto di elementi di valutazione. Io vi pongo allora dinanzi alla questione di ordine tecnico: noi ci troviamo di fronte all’assurdità tecnica di un ordine del giorno come quello dell’onorevole Targetti; infatti se esso comporta un esame nel merito, ciò non può conferire all’ordine del giorno stesso un carattere di pregiudizialità. Onde accade questo: si deve ritenere non pregiudiziale l’ordine del giorno Targetti, poiché comporta una valutazione di carattere positivo quando istituisce le Regioni, e negativo quando esclude le Regioni; è pregiudiziale invece tutto quello che per essere discusso e valutato non comporta un esame di sostanza.

Perciò io pongo questa questione di ordine solamente tecnico e di carattere schiettamente giuridico: l’ordine del giorno Targetti potrebbe andare alla votazione soltanto nel caso in cui venisse esaurita tutta la discussione sostanziale, cioè solo nel caso che le proposte ed istanze delle piccole Regioni – che aspirano a diventare enti regionali – fossero sottoposte al giudizio dell’Assemblea Costituente: soltanto allora noi potremmo arrivare all’approvazione dell’ordine del giorno Targetti.

PRESIDENTE. Lei sta facendo, onorevole Ruggiero, una questione di procedura. La prego di mantenersi al tema dell’ordine del giorno.

RUGGIERO. A proposito del mio ordine del giorno, concluderò in questa maniera: mi pare che l’Assemblea Costituente non possa consacrare un principio e poi dare a questo principio solo una esecuzione a metà, cioè affermare il principio dell’autonomia regionale, ed applicare poi questo principio solo entro un certo ambito, cioè determinare la consacrazione di certe Regioni escludendo le piccole Regioni nelle loro richieste. Avremmo insomma qualche cosa che sta contro quella che è proprio la dignità, direi, giuridica di una Costituzione.

Non possiamo, onorevoli colleghi, arrivare ad una Costituzione che dovremmo chiamare a rate mensili, o a rate annuali, perché la Costituente affrontato un problema dovrebbe svolgerlo fino in fondo.

Ond’è che, anche per questa ragione, ritengo non possa farsi luogo all’approvazione dell’ordine del giorno Targetti.

Concludendo, quindi, poiché non abbiamo gli elementi necessari per la valutazione delle Regioni che possono essere costituite in enti regionali, ritengo che resti nella Costituzione la sola affermazione del principio dell’autonomia della Regione, rinviando alla legge la determinazione di tutte le Regioni, nessuna esclusa.

BORDON. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BORDON. Mi limiterò a chiedere un chiarimento. Si tratta di questo: se si dovesse votare l’articolo 123, così come è stato presentato dalia Commissione, non avremmo nulla da eccepire, perché la formula è chiara e cristallina.

Ma siccome non si voterà l’articolo 123, ma si voterà l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Targetti e da altri, desidererei conoscere il contenuto delle espressioni usate in questo ordine del giorno. Il collega Lami Starnuti ha dato chiarimenti, che vorrei si precisassero.

Chiedo pertanto in ordine alle Regioni da costituire cosa si intenda per Regioni tradizionali, di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche.

PRESIDENTE. Ritengo che il seguente ordine del giorno, presentato dagli onorevoli Codignola, Parri, Cevolotto e Binni, possa essere rinviato ad altro momento, in quanto non strettamente attinente alla materia in esame:

«L’Assemblea Costituente,

ritenendo che siano venuti meno i presupposti che a suo tempo determinarono l’introduzione del Friuli-Venezia Giulia fra le Regioni fornite di autonomia speciale,

persuasa di esprimere la volontà della popolazione interessata,

riaffermando il solenne impegno di tutela delle minoranze etniche e linguistiche, già consacrato dalla Costituzione,

fa voti che, in sede di approvazione dell’articolo 123, sia revocata l’autonomia speciale già concessa al Friuli-Venezia Giulia, rinviando alla legge l’eventuale erezione del Friuli in Regione fornita di autonomia ordinaria».

Sono stati così svolti i vari ordini del giorno presentati, tranne quello presentato dagli onorevoli Codignola, Parri, Cevolotto e Binni, che ritengo non debba avere svolgimento. Esso tratta infatti una questione che non riguarda ciò di cui ci stiamo occupando ora; esso propone in sostanza, di ritornare su una decisione già presa: ora, è evidente che una proposta di questo genere si può porre in qualunque momento.

L’ordine del giorno svolto dall’onorevole Ruggiero è analogo a quello dell’onorevole De Martino.

RUGGIERO. Onorevole Presidente, aderisco all’ordine del giorno De Martino ritirando il mio.

PRESIDENTE. Sta bene. Voteremo quindi per primo l’ordine del giorno De Martino, successivamente l’ordine del giorno Targetti.

PICCIONI. Chiedo di parlare per una pregiudiziale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PICCIONI. L’oggetto della pregiudiziale è questo: che l’ordine del giorno De Martino, a mio avviso, non può essere messo in votazione, perché è in contraddizione palese e sostanziale con tutto il lavoro che la Costituente ha fatto sin qui in ordine a questo grave problema dell’ordinamento regionale.

Se lei consente, io svilupperò brevissimamente i motivi di questa mia impostazione.

Mi permetto di ricordare all’Assemblea che la discussione sull’ordinamento regionale ha occupato un notevolissimo numero di sedute dell’Assemblea e che le deliberazioni, alle quali l’Assemblea è pervenuta, sono state di carattere sostanziale e definitivo. Ritornare ora – cosa che fu già fatta attraverso una serie direi quasi esagerata di ordini del giorno che furono presentati e ripresentati ad ogni piè sospinto e regolarmente respinti – sullo stesso concetto informatore dell’ordinamento regionale, volendolo di nuovo ridurre, come già era previsto da taluni ordini del giorno, qualcuno dei quali firmato anche dall’onorevole Rubilli o da altri, al concetto informatore del puro decentramento amministrativo, mi pare che sia per lo meno pleonastico se non assurdo al punto al quale la discussione è arrivata.

La discussione fu rinviata sull’articolo 123, per dar modo di farla precedere dalla discussione sul modo col quale il Senato sarebbe stato costituito. Se non erro, questa fu l’unica motivazione per la quale si sospese l’approvazione dell’articolo 123; dar modo cioè all’Assemblea Costituente di considerare in qual forma la seconda Camera, il Senato, sarebbe stato costituito, con l’intesa che si sarebbe ripreso l’esame e la votazione dell’articolo 123 non appena ultimato il lavoro che concerne la formazione della seconda Camera.

Questo è avvenuto. Si è stabilito il modo della costituzione del Senato; si sono stabilite alcune modalità particolari in ordine alla formazione del Senato, che presuppongono anche l’ordinamento regionale. Si sono attribuite alle Regioni, nella discussione che si è nel frattempo ultimata, anche altre facoltà che incidono direttamente sulla struttura costituzionale della nuova Repubblica italiana.

Quindi, venire a questa tardissima ora della nostra discussione del nostro esame sull’ordinamento regionale, a dire di nuovo all’Assemblea Costituente che l’applicazione di quello che abbiamo per tanti mesi discusso e deliberato, deve essere rinviata alle future Camere legislative, evidentemente vuol dire un po’ ironizzare – se mi è lecito dirlo – su quello che è il contenuto del lavoro della nostra Assemblea.

E mi occorre appena ricordare, che questa tesi del rinvio dell’applicazione dell’ordinamento regionale alle nuove Camere legislative fu anche oggetto di taluni ordini del giorno e votazioni esplicite, per modo che mi pare che al punto in cui siamo sia decisamente precluso il prendere in esame delle formulazioni di questo genere e delle proposte consimili.

Altrimenti, onorevoli colleghi, si potrebbe veramente dire che intorno all’ordinamento regionale noi stiamo un po’ scherzando e scherzando da alcuni mesi, chi con maggiore chi con minore coscienza, ma senza il propositi da parte dell’Assemblea Costituente di condurre ad una definitiva risoluzione questo grave problema che costituisce uno dei fulcri fondamentali del nuovo ordinamento costituzionale dello Stato.

La tesi era legittimo prospettarla sul limite della discussione, e questo è stato fatto e rifatto abbondantemente e ripetutamente. Ma una volta messi per la strada della realizzazione dell’ordinamento regionale, è serio e deve rispondere ad un senso di alta responsabilità dell’Assemblea Costituente non tornare di nuovo, all’ultimo momento, a riprodurre questa medesima tesi per sabotare – lasciate che io dica la parola che mi pare la più espressiva – per sabotare quello che è uno degli istituti innovatori del nuovo ordinamento della Repubblica italiana. (Applausi).

Per queste considerazioni io ritengo che per tutto lo svolgimento della discussione, così come si è sviluppato, per le votazioni già avvenute sullo stesso contenuto che è ora oggetto di quell’ordine del giorno, l’ordine del giorno stesso non possa esser messo in votazione. (Applausi al centro).

RUBILLI. Chiedo di parlare in relazione alla proposta dell’onorevole Piccioni.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUBILLI. Ho domandato la parola per chiarire la portata di quello che abbiamo fatto e di quello che ancora potremmo fare, e l’ho domandata altresì per una ragione personale: perché l’onorevole Piccioni ha fatto il mio nome ed ha ricordato un ordine del giorno da me presentato e respinto dall’Assemblea, ed ha creduto che l’ordine del giorno De Martino riproducesse la stessa questione che io proposi all’Assemblea. E giustamente, se fosse così, egli avrebbe proceduralmente ragione, perché non si potrebbe ripetere la votazione su di un argomento che già è stato discusso ed è stato in un modo qualsiasi deliberato dall’Assemblea.

Ma bisogna ricordare e chiarire – e posso forse, me lo permetta l’onorevole Piccioni, maggiormente chiarire io che lo ricordo un po’ meglio perché presentai proprio io quell’ordine del giorno – che le questioni sono completamente diverse. Io proponevo fondamentalmente che tutto quanto il problema della riforma regionale non fosse esaminato, ma fosse sospeso e rinviato alla Camera legislativa.

Io dicevo: non è pronta, non è matura la riforma, non la vedo chiara. È una riforma troppo grave che non è stata ben valutata e non può essere in questo momento deliberata dall’Assemblea. Sarà meglio che sia preparata, discussa e deliberata dalla Camera legislativa. Questo era l’ordine del giorno su cui votò l’Assemblea.

Ora non è chi non veda che l’ordine del giorno attuale è completamente diverso. L’ordine del giorno mio, respinto dall’Assemblea (e non posso fare a meno di constatarlo, sia pure con dispiacere), l’ordine del giorno mio proponeva che non si parlasse proprio della riforma regionale, in questa sede di Assemblea Costituente. Invece, onorevole Piccioni, la riforma regionale è stata discussa ed approvata. Non c’è dubbio su questo. Quindi la questione da me proposta è completamente esaurita. La Regione è deliberata.

Adesso che cosa dice l’ordine del giorno De Martino? Arrivati a questo punto, stabilita cioè la Regione, dobbiamo risolvere il problema di frazionare l’Italia, dividerla, fare dei pezzi più grandi o più piccoli, e come meglio convenga. Ma prima di accingerci a questo lavoro sentiamo gli interessati, chiediamo che vogliono, ascoltiamo che dicono! Non sappiamo se si deve propendere per estensioni più vaste o più limitate. Insomma chiedono i firmatari dell’ordine del giorno De Martino: Raccogliamo i sentimenti, le espressioni, il pensiero delle popolazioni interessate. Questo è l’ordine del giorno De Martino.

Di modo che non ci sarebbe che un rinvio solamente per le circoscrizioni regionali. La Regione è fatta, l’ordine del giorno presentato da me è stato respinto. D’accordo. Ora si tratta di stabilire ben altro.

E, in fin dei conti, non lo sapevamo nemmeno che si passasse ora all’esame dell’articolo 123. Noi credevamo ed era stato stabilito (il Presidente ricorda benissimo e non mi smentirà), che l’articolo 123 sarebbe venuto in discussione alla fine della legge costituzionale. Solo tre o quattro giorni fa, signor Presidente, ci avete detto che vi erano state insistenze da parte del Ministero degli interni per cui, per ragioni di compilazione di liste elettorali, bisognava mettere presto all’ordine del giorno il problema delle circoscrizioni. Sono tre o quattro giorni e non più, onorevole Piccioni. E perché procedere con tanta fretta senza una seria valutazione?

Io mi sono rassegnato! Le Regioni sono fatte, ma ditemi voi se in tre o quattro giorni sia stato possibile raccogliere i desideri delle popolazioni almeno attraverso gli organi locali responsabili. Per esempio, per la provincia di Avellino, per la regione Campana, io ho sentito che uno dei più autorevoli vostri colleghi democristiani, l’onorevole Bosco Lucarelli, in mia assenza poco fa ha dichiarato che in provincia di Avellino solo una piccola parte è favorevole alla Regione campana, e gli altri vorrebbero la Regione del Sannio. E ha detto cosa completamente inesatta, difforme dal sentimento delle popolazioni interessate. Su questo punto posso rispondere, perché sono della provincia di Avellino e sono bene informato. E non c’è dubbio che si è unanimi nell’Irpinia nel desiderare che rimanga ferma la secolare tradizione della Campania con le sue cinque province e con Napoli a capoluogo.

Un dubbio sorgeva soltanto per l’incertezza dell’atteggiamento eventuale della Democrazia cristiana, perché, siccome si conosce la disciplina, lo stretto collegamento fra i membri di questo grande partito, si pensava che di fronte all’autorità dell’onorevole Bosco Lucarelli non sorgessero altri a contrastare la sua opinione. Viceversa proprio questa sera è arrivato a tutti noi deputati, qualche ora fa, un ordine del giorno, non dirò violento, ma abbastanza vivace formulato e presentato alla popolazione dell’Irpinia dal collega Sullo, con il quale assolutamente si respinge l’opinione manifestata dall’onorevole Bosco Lucarelli e si chiede invece che la circoscrizione rimanga quella che è stata prospettata dalla Commissione, si faccia cioè la Regione campana. Come vedete siamo completamente impreparati…

PICCIONI. Impreparati a che cosa?

RUBILLI. .i.Impreparati sì, e non per colpa nostra, a poter discernere quali siano i sentimenti e i desiderî delle popolazioni interessate. Ora, perché dobbiamo qui con tanta fretta dividere le nostre popolazioni come crediamo noi, secondo i nostri sentimenti, i nostri interessi, le nostre opinioni più o meno di carattere elettorale, e non dobbiamo sentire quelli che con sincerità hanno il diritto di esprimere il loro parere; cioè i nostri concittadini, attraverso le autorità locali?

Non entro in merito all’ordine del giorno De Martino. Si voti come si vuole. Si respingerà, si accoglierà, non importa. Io non voglio nemmeno esprimermi al riguardo. Ma soltanto voglio rilevare che l’ordine del giorno De Martino propone una questione ben diversa da quella che è stata esaminata, valutata e deliberata da parte dell’Assemblea Costituente, specialmente sul mio ordine del giorno che l’onorevole Piccioni poco fa ha ricordato. Perciò secondo il mio avviso può benissimo essere posto in votazione. (Applausi).

STAMPACCHIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

STAMPACCHIA. Suppongo che i colleghi, almeno molti di essi, sanno come io sia un sostenitore della Regione in cui ho avuto i natali, il Salento. Ciò è risaputo e voglio qui dirlo preventivamente perché poi, in seguito, non possa eventualmente sembrare contradittorio quello che potrà essere il mio atteggiamento nello sviluppo di questa discussione.

La questione delle Regioni, della loro istituzione, è fuori discussione, perché già suparata dalla nostra Assemblea: se bene o male, lo dirà il tempo. È stata superata; onde le preoccupazioni di alcuni colleghi, dell’onorevole Piccioni, per esempio, non credo che abbiano più alcun fondamento. Noi, in questo momento, non più della creazione della Regione discutiamo, sibbene dobbiamo esaminare solo la proposta, che ci viene da più parti, di rinviare alla legge la determinazione e fissazione delle varie Regioni in cui l’Italia deve essere divisa. Mi si potrà domandare perché io, sostenitore fervido della mia Regione – in quanto è stata creata la Regione in Italia – perché io sono oggi disposto ad accedere a questi ordini del giorno i quali rinviano al Parlamento, al futuro Parlamento, la decisione circa le diverse circoscrizioni regionali; perché, rispondo subito, mi è parso che in questo ultimo periodo, specialmente da quando la questione dell’articolo 123 è stata riportata all’Assemblea, mi è parso, dicevo, che vi fosse una specie di crisi nelle coscienze: singolarmente e collettivamente considerate. Abbiamo visto un certo movimento diretto a smuovere posizioni che avevamo ragione di ritenere salde e ferme; movimento che ha base ed origine, sembrerebbe, in interessi diversi dei diversi settori; e può essere spiegato con sopravvenuti interessi di carattere elettoralistico di partiti, perché molti recenti atteggiamenti penso siano ispirati proprio da preoccupazioni di carattere elettoralistico. Ed è così che molti di noi si sono soffermati e sono venuti nella conclusione che forse la questione non è matura per poterla portare alla decisione in questa Costituente così preoccupata dalle prossime elezioni politiche. In verità molte cose sono accadute, vorrei dire assai equivoche, a cominciare dall’atteggiamento del Comitato di coordinamento; il quale, dopo aver fatto una elencazione delle Regioni giusta le decisioni della seconda Sottocommissione, è venuto (e mi si dice neanche in una seduta plenaria, completa, ma ad opera di quattro o cinque che si sono visti nel pomeriggio del 27 luglio di quest’anno) nella determinazione di potere, motu proprio, cancellare quelle che hanno poi arbitrariamente battezzato regioni di nuova formazione, come se, nel nostro diritto, vi fossero mai state Regioni riconosciute…

PRESIDENTE. Onorevole Stampacchia, ho l’impressione che lei non stia parlando della pregiudiziale, ma di un ordine del giorno. Atteniamoci per adesso alla questione pregiudiziale. Se sarà respinta, avrà modo di spiegarci perché ritiene che quell’ordine del giorno debba essere accettato.

STAMPACCHIA. Io mi riferisco al fatto per potere discutere così se l’ordine del giorno in esame può esser messo in votazione, perché – checché ne pensi l’onorevole Piccioni, il quale ritiene che le deliberazioni precedenti costituiscano un impedimento a metterlo in discussione – è evidente che noi non poniamo oggi in discussione la Regione. La Regione è creata. Noi pensiamo però, ci preoccupiamo di farla funzionare bene per non creare dei mostriciattoli che potranno dar poi delle sorprese…

PICCIONI. Dei mostriciattoli mi pare vogliate crearli voi.

RUBILLI. Tutto questo conferma che siamo impreparati a questa riforma.

STAMPACCHIA. Vorrei fare una osservazione agli amici della Democrazia cristiana, ed è questa: che quando loro parlano, noi siamo abituati, almeno io personalmente, ad ascoltarli sereni. Perché allora pensano d’impedirci di parlare con frequenti interruzioni? Perché turbare quella cordialità di rapporti fra Gruppo e Gruppo, che pure, penso, è indispensabile pur la serietà e la più rapida conclusione dei nostri lavori?

Tornando in argomento, io dicevo: noi non c’imbattiamo in nessuna ragione di preclusioni nel Regolamento che c’impedisca di decidere sulla pregiudiziale. Noi, onorevole Piccioni, non vogliamo in questo momento tornare a discutere della Regione. Noi diciamo che la questione Regione – per quella parte che in questo momento è oggetto di discussione – ci appare non matura nella sua completezza perché, come abbiamo inteso, vi sono cento e cento domande diverse ed ognuna di questa è contrastante con le altre.

L’onorevole Lussu ha detto che egli, per quanto attiene al Molise, è in una condizione di favore in quanto che non ha ragioni elettoralistiche che lo muovano; io dico che mi trovo come lui in una condizione di favore, inquantoché tutte e tre le provincie salentine, che chiedono di essere elevate a Regione, sono d’accordo in questa richiesta, è quindi non si può avere alcun sospetto che essa abbia carattere elettoralistico.

Io dico che non siamo maturi questa sera per decidere quali e quante devono essere le Regioni.

Allora, salvo che io non debba ancora parlare più a lungo se fosse respinto l’ordine del giorno in esame, voglio dire che mi associo, e con me gli amici del mio Gruppo, all’ordine del giorno il quale rinvia alla legge la determinazione di tutte le Regioni, perché non sarebbe opportuno che noi questa sera – per la fretta che abbiamo e l’incomprensione di vitalissimi problemi locali – pregiudicassimo le aspirazioni di parecchi settori. In Italia, insomma, e concludo, questa delle Regioni tradizionali e storiche, è una bella trovata, una fantasia di quanti vogliono soffocare le dette aspirazioni. Ogni settore italiano può dire di avere una storia e una tradizione. Vedremo poi (e lo diranno le stesse popolazioni) quali di questi settori meritino o non meritino di essere elevati a Regioni, e il Parlamento sanzionerà allora la volontà dei settori interessati, se un colpo di maggioranza non voglia questa notte soffocare la loro voce.

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevoli colleghi, se ho ben compreso, l’onorevole Piccioni ha sollevato una questione pregiudiziale nel senso che si oppone a che venga messo in votazione l’ordine del giorno di cui primo firmatario è l’onorevole De Martino. Ritengo doveroso associarmi a questa pregiudiziale. Il motivo è evidente. L’ordine del giorno, così come è formulato, per i suoi termini stessi e per il suo contenuto, non soltanto rimette in discussione tutto il problema dell’ordinamento regionale come l’abbiamo già esaminato e deciso, ma contradice a tutto l’orientamento che abbiamo dato agli articoli della Costituzione approvati in merito a questo ordinamento. Qualcuno di noi poteva essere d’accordo con questa formulazione all’inizio del dibattito. Qualcuno di noi ha anche sostenuto questo punto di vista e nelle riunioni preparatorie e nelle discussioni nell’Aula; il punto di vista, cioè, che fosse da preferirsi un decentramento esclusivamente amministrativo. Ma questa non è stata la decisione dell’Assemblea; questo non è stato il risultato dei nostri dibattiti che sono durati circa tre mesi. Abbiamo deciso per un decentramento regionale non solo amministrativo, cioè burocratico, ma politico, democratico e in parte anche legislativo, entro quei limiti che abbiamo fissati. Come possiamo oggi con un ordine del giorno contradire a tutto quello che abbiamo fatto in questo senso? Sono d’accordo con l’onorevole Piccioni che questa non sarebbe una cosa seria. Non accetto nemmeno l’argomentazione dell’onorevole Stampacchia secondo la quale potremmo sempre prendere una deliberazione contraria ad una precedente. È vero che una Assemblea legislativa può votare a distanza di alcuni mesi due leggi le quali siano contradittorie, ma la Costituzione è una sola legge. Noi, dal momento che abbiamo iniziato a votare sul primo articolo della Costituzione al momento in cui ne voteremo l’ultimo articolo, compiamo un atto costituzionale secondo una decisione unica e non possiamo contradirci. Anche se l’argomento formale venisse respinto, però rimane sempre l’argomento sostanziale. Se noi oggi contradicessimo all’indirizzo che abbiamo dato a questa parte della Costituzione, riapriremo il problema della Costituzione in generale, perché verremmo a distruggere una delle colonne su cui abbiamo fondato tutto l’edificio che abbiamo sino ad oggi costruito.

Uscendo dal limite della pregiudiziale, ritengo che porre oggi il problema di una consultazione generale di tutta la popolazione italiana, per sapere a quale delle Regioni ciascuna provincia o ciascun comune vogliano appartenere, sia cosa difficilmente accettabile.

MAZZONI. Si seguirebbe un metodo democratico.

TOGLIATTI. Ma si tratterebbe di un rinvio di fatto della organizzazione dell’ordinamento regionale, perché la consultazione richiederebbe uno o due anni e un lavoro enorme.

RUBILLI. Basta sentire gli organi responsabili.

TOGLIATTI. Vogliamo avere le Regioni costituite sulla base delle nostre decisioni nel più breve termine possibile: questa è la nostra aspirazione. Senza porre ostacoli che ci impediscano di arrivare praticamente a questo risultato, lasciamo aperta una possibilità democratica di correzioni. Vi è un articolo che le prevede; applichiamo quell’articolo. Questa è la giusta linea democratica.

Per tutti questi motivi ritengo che questo ordine del giorno non possa essere messo in discussione, perché in contradizione con tutto il risultato attuale del nostro lavoro. (Applausi).

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Dopo voci così autorevoli avrei l’obbligo di tacere; però la coscienza mi induce a dire il mio pensiero a proposito della pregiudiziale sollevata dall’onorevole Piccioni.

Noi abbiamo, anche in sede di ordinamento regionale, rinviato tante cose alla legge; e quindi, dal punto di vista formale, non vedo perché non si possa rinviare anche la questione della definizione delle circoscrizioni regionali. Dal punto di vista sostanziale, l’onorevole Piccioni ha adoperato una frase grave; ha detto che con ciò quelli di noi, che siano disposti ad appoggiare l’ordine del giorno di cui si discute, in qualche modo intenderebbero sabotare la riforma regionale. Ora, io mi domando: cosa vuol dire sabotare? Sabotare perché vogliamo rinviare di un anno la definizione delle circoscrizioni regionali? Sabotare perché vogliamo rimandare al Parlamento futuro la definizione di tutte le innumerevoli controversie, che sorgono attorno alle circoscrizioni? A me sembra grave che siasi adoperata tale parola contro chi vuol essere prudente e non vuole improvvisare in una materia così complessa e di tale importanza.

Ma forse si dubita che il futuro Parlamento potrebbe ritornare su questa grave questione dell’ordinamento regionale e non farne più nulla; specialmente se l’esperimento in corso con le autonomie già concesse dovesse, come è probabile, risultare negativo? Forse si dubita che, fra un anno o due, questa malaugurata riforma, di cui ancora oggi vi sono tanti fanatici assertori, potrebbe persino ad essi apparire non più opportuna? Ma, se così fosse, se questo dubbio vi è; sarebbe una ragione di più per non precipitare oggi una decisione su una questione così complessa quale è quella delle circoscrizioni regionali. Molti entusiasmi regionalistici sono già svaniti da quando l’Assemblea ha iniziato i suoi lavori. Forse, tra un anno, i superstiti, fanatici sostenitori dell’incauta riforma potrebbero aprire gli occhi davanti alla realtà, ed accorgersi che il popolo italiano, in questo travagliato dopoguerra, quando vi è da rimettere in piedi l’economia del paese, non ha proprio bisogno di così avventata riforma nella struttura statale, che certamente ritarderà il ritorno alla normalità, all’equilibrio, di cui pur così vivo è il bisogno.

Concludendo, non vedo, a mio modesto avviso, perché non si possa e dal punto di vista della sostanza e da quello formale mettere in votazione l’ordine del giorno De Martino.

COVELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COVELLI. Ritengo, signor Presidente, che si passi da un’enormità all’altra. A parte i funambolismi che vediamo in quest’Aula, per cui taluni settori si presentano oggi in una veste diversa da quella in cui si presentarono qualche tempo fa, non vedo il motivo per cui una manifestazione democratica – dal momento che qui si parla di democrazia e di libertà ad ogni piè sospinto – debba perfino incontrare proposte pregiudiziali come quella dell’onorevole Piccioni. L’ordine del giorno De Martino dice esattamente che, confermando quel che è stato già discusso, cioè la Regione, che a nostro parere è una delle prime sciagure che la Repubblica ha donato all’Italia (Proteste al centro e a sinistra), confermando questo principio acquisito dalla volontà della Costituente, si vuol dare diritto alle popolazioni che debbono costituire queste Regioni, di scegliersi le provincie entro cui debbono essere raggruppate.

Noi sentiamo, per esempio, sviluppare argomentazioni contrastanti perfino da membri dell’Assemblea della stessa provincia e ciò costituisce una prova di più del fatto che oggi non si è nelle condizioni adatte a per poter esaminare i diversi problemi di questa o quella Regione e confermare con gesto antidemocratico e totalitario, onorevole Piccioni ed onorevole Togliatti, delle decisioni su cui non si potrebbe più tornare. (Rumori al centro e a sinistra).

MAZZONI. Solo oggi ve ne siete accorti?

COVELLI. In ogni caso noi invochiamo non solo il diritto di consultare le popolazioni interessate sulla creazione delle Regioni, una volta che è stato acquisito, ma invochiamo oltre tutto che, commesso un errore, ed i precedenti, onorevole Togliatti, i precedenti non sono confortanti per il regionalismo italiano, si corregga e si dia la possibilità alla Regione di vivere domani senza originare ribellioni. Infatti sussiste la preoccupazione, che domani certe provincie non ne vorranno sapere di quello che voi sancite oggi.

Pertanto, non solo riteniamo fuori luogo la proposta di non mettere in votazione l’ordine del giorno De Martino, ma ravvisiamo in essa un manifestarsi di pericolosi principî antidemocratici. (Commenti al centro e a sinistra).

AMBROSINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. Parlerò brevemente sulla questione pregiudiziale giacché le argomentazioni esposte per la irricevibilità dell’ordine del giorno De Martino sono più che fondate, dal punto di vista formale e di merito.

Riguardo alla sostanza basta osservare che in concreto il rimandare la determinazione delle Regioni alla legge, cioè il rimandare alle future Camere legislative, significherebbe impedire l’attuazione della riforma, per lo meno per tutte le Regioni d’Italia, salvo quelle che già sono dotate di autonomia; significherebbe impedire che la riforma sia oggi attuata, il che non solo è in contrasto con tutto lo spirito della riforma, ma anche con varie disposizioni tassative del progetto di Costituzione già approvate dall’Assemblea, fra le quali quella relativa al Senato, che deve essere costituito sulla base regionale.

Ora, non approvare oggi l’articolo, che specifica quali debbono essere le Regioni, significherebbe impedire la costituzione di uno degli organi legislativi del futuro Parlamento.

Riguardo alla questione formale, l’onorevole Rubilli, dal suo punto di vista, può anche avere ragione, perché egli effettivamente nel suo antico ordine del giorno negava la utilità di tutto l’ordinamento regionale; però, se non erro, fra gli ordini del giorno che a suo tempo quest’Assemblea esaminò e votò c’era, oltre il suo, un ordine del giorno firmato per primo dall’onorevole Bonomi, nel quale si riconosceva la utilità della riforma regionale, ma si chiedeva il rinvio (qui non ho gli atti, ma si possono confrontare) semplicemente per un più approfondito esame; cioè per lo stesso motivo per il quale si chiederebbe ora il rinvio riguardo alla delimitazione delle circoscrizioni regionali.

Orbene, se l’Assemblea ha deciso l’istituzione della Regione, se l’Assemblea non ha la possibilità di ritornare su questa decisione solenne, se si deve dare esecuzione a quello che l’Assemblea ha già stabilito, è evidente che ciò non può farsi se non arrivando ora – vedremo come dopo – alla delimitazione delle circoscrizioni regionali.

Quindi, la proposta di non accettare, dal punto di vista pregiudiziale, l’ordine del giorno De Martino, è completamente fondata non solo per la sostanza, ma anche per la forma.

COVELLI. Ma perché è fondata? Qui si vuole la disgregazione del Paese.

PRESIDENTE. Onorevole Covelli, la prego.

Ritengo che la discussione sulla pregiudiziale sia stata esauriente; poiché, però, sono stati richiamati alcuni precedenti desidero ricordare che fu nella seduta del 22 luglio che si avanzò una proposta di rinvio dell’articolo 123.

Presentatore della proposta era l’onorevole Fuschini il quale, come risulta dal resoconto sommario della seduta, ne dava ragione rilevando che l’esame di questo articolo avrebbe richiesto un lungo dibattito dati i vari e contrastanti interessi investiti e pertanto sarebbe stato opportuno rinviarne l’esame alla ripresa dei lavori dopo la sospensione estiva. Questa proposta, posta in votazione, fu approvata dall’Assemblea.

Ritengo anche opportuno precisare che gli ordini del giorno richiamati, come quelli che contrasterebbero con la pregiudiziale, sono quelli dell’onorevole Grieco e dell’onorevole Rubilli. Il primo era del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente riconosce la necessità di effettuare un ampio decentramento amministrativo democratico dello Stato, a mezzo della creazione dell’Ente Regione, avente facoltà legislativa di integrazione e di attuazione, per le materie da stabilirsi, onde adattare alle condizioni locali le leggi della Repubblica;

riconosce la necessità della conservazione e del potenziamento dell’Ente Provincia;

decide che il Titolo V si limiti ad affermare i principî costituzionali dell’Ente Regione, rinviando ad una legge speciale la regolamentazione delle funzioni del nuovo Ente e dei suoi rapporti con le Provincie, i Comuni e lo Stato».

L’ordine del giorno Rubilli era così formulato:

«L’Assemblea Costituente,

considerato che l’istituzione dell’Ente Regione non risponde ad alcuna necessità che si sia realmente manifestata, e non può seriamente ritenersi in alcun modo richiesta o reclamata dal popolo italiano;

che i giusti ed opportuni criteri di decentramento potranno essere attuati indipendentemente dalla creazione di enti regionali;

che ad ogni modo, per ora almeno, una grande riforma come quella che si prospetta per le Regioni non appare, anche secondo il progetto, ben ponderata nelle sue non lievi conseguenze dal punto di vista politico, amministrativo e specialmente finanziario, sicché non sembra possibile, di fronte alle enormi difficoltà del periodo che si attraversa, lanciarsi con leggerezza incontro ad incognite preoccupanti e pericolose;

delibera, anche senza affermazioni vaghe e generiche, le quali potrebbero rappresentare inopportuni ed affrettati vincoli, che sia rinviato senz’altro alla Camera legislativa l’esame di pratici, concreti e completi progetti di legge, sia pure di carattere costituzionale, per un oculato decentramento, che giunga, se possibile, anche ad una riforma regionale, ed intanto sia stralciato dalla Costituzione in esame l’intero Titolo V, relativo alle Regioni e ai Comuni».

Avverto ora che sulla pregiudiziale sollevata dall’onorevole Piccioni, gli onorevoli Vigna, Costantini, Nobili Tito Oro, Tonello, Lopardi, Nobile, Tomba, Vernocchi, Cosattini, Nasi, Costa, Fogagnolo, Tega, Santi, Caldera, Pistoia, Giacometti, Pressinotti, Bernardi, Grilli, Fioritto, Bonomelli hanno chiesto la votazione a scrutinio segreto.

Poiché sono presenti soltanto tredici firmatari della richiesta, chiedo se questa è appoggiata.

(È appoggiata).

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Io chiedo, sebbene un po’ in ritardo, ai presentatori dell’ordine del giorno De Martino se sono disposti a sopprimere la parola «amministrativo» che si legge nel primo comma del loro ordine del giorno.

Perché mi pare che le affermazioni dell’onorevole Togliatti siano senza dubbio fondate e d’altronde occorre chiarezza prima di prendere una decisione, richiederei appunto questa soppressione.

PRESIDENTE. L’onorevole De Martino, quale primo firmatario dell’ordine del giorno, ha facoltà di rispondere.

DE MARTINO. Non ho difficoltà ad aderire, onorevole Presidente.

PRESIDENTE. Allora, su proposta dell’onorevole Badini Confalonieri e dietro consenso dell’onorevole De Martino, nella sua qualità di primo firmatario, si toglie dall’ordine del giorno in discussione la parola «amministrativo».

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Indico ora la votazione segreta sulla pregiudiziale dell’onorevole Piccioni, secondo la quale l’ordine del giorno dell’onorevole De Martino ed altri non può essere messo in votazione, perché contrastante con precedenti deliberazioni dell’Assemblea.

(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione. Invito gli onorevoli segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti                              310

Votanti                               309

Astenuti                              1

Maggioranza           155

Voti favorevoli        221

Voti contrari            88

(L’Assemblea approva la pregiudiziale).

Hanno preso parte alla votazione:

Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Belotti – Benedetti – Benvenuti – Bernamonti – Bernardi – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Binni – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonino – Bordon – Bosco Lucarelli – Bosi – Bozzi – Braschi – Bubbio – Bucci – Bulloni – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Camangi – Camposarcuno – Cannizzo – Cappa Paolo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carignani – Caronia – Caso – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti– Cevolotto – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombo Emilio – Colonnétti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsini – Cosattini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Gasperi – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo –De Palma – De Unterrichter Maria – Dominedò – Donati – D’Onofrio – Dossetti.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Foresi – Fornara – France-schini – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidini – Giacchero – Giacometti – Giolitti – Giordani – Gonella – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jervolino.

Laconi – La Gravinese Nicola – Lagravinese Pasquale – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Lettieri – Lizier – Lombardi Carlo – Longhena – Longo – Lopardi – Lozza – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Mazza – Mazzei – Mazzoni – Meda Luigi – Merlin Angelina – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Momigliano – Montagnana Rita – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Renato – Moro – Mortati – Moscatelli – Musolino.

Negro – Nenni – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Novella – Numeroso.

Pacciardi – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Paris – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Pellegrini – Penna Ottavia – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quintieri Adolfo.

Raimondi – Rapelli – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodinò Ugo – Romano – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggiero Carlo – Ruini.

Saggin – Salerno – Salizzoni – Sampietro – Santi – Saragat – Scalfaro – Scarpa –      Scelba – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Segni – Selvaggi – Sereni – Sicignano – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Tega – Terranova – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tomba – Tosi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Vanoni – Viale – Vicentini – Vigna – Vischioni.

Zaccagnini – Zanardi.

Sono in congedo:

Abozzi – Angelucci.

Cairo – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Cavallari.

Dozza – Dugoni.

Jacini.

Porzio.

Ravagnan – Romita – Rumor.

Sardiello.

Tosato.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non si porrà in votazione l’ordine del giorno a firma dell’onorevole De Martino ed altri.

Vi è invece l’ordine del giorno presentato dall’onorevole Targetti. L’onorevole Moro aveva già fatto, prima della sospensione della seduta, una dichiarazione di voto.

Sull’ordine del giorno Targetti sono stati presentati alcuni emendamenti che ritengo tuttavia non siano, nella loro maggioranza, pertinenti all’ordine del giorno stesso. Di fatto, essi mirano a mutarne completamente il valore e il significato.

L’ordine del giorno Targetti, è del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente delibera che, salva la procedura per istituire nuove Regioni, siano nell’articolo 123 istituite le Regioni storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche».

Ora, l’onorevole Camposarcuno propone il seguente emendamento aggiuntivo:

«Intendesi compreso fra le Regioni d’Italia il Molise, indipendentemente dall’Abruzzo».

Vi è anche un emendamento aggiuntivo dell’onorevole Codacci Pisanelli:

«Intendesi compreso fra le Regioni d’Italia anche il Salento».

È chiaro che questi non possono essere considerati emendamenti all’ordine del giorno dell’onorevole Targetti, ma proposte a sé stanti, che l’Assemblea esaminerà dopo che si sia votato sull’ordine del giorno Targetti.

Vi è invece un emendamento firmato dagli onorevoli Colitto, Morelli Renato e altri, del seguente tenore:

«Sopprimere le parole: di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche».

Se l’emendamento fosse accolto – e può senz’altro essere posto in votazione poiché è strettamente pertinente al concetto dell’ordine del giorno dell’onorevole Targetti – questo dovrebbe essere ridotto a questa formulazione: «L’Assemblea Costituente delibera che, salva la procedura per istituire nuove Regioni, siano nell’articolo 123 costituite le Regioni storico-tradizionali».

Comunque mi pare questo l’unico emendamento che possa essere preso in considerazione in questa sede.

Se l’ordine del giorno dell’onorevole Targetti non venisse accolto, allora gli emendamenti dell’onorevole Codacci Pisanelli e dell’onorevole Camposarcuno si ripresenterebbero come emendamenti al testo proposto dalla Commissione.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ritirerei il mio ordine del giorno e aderirei all’emendamento dell’onorevole Camposarcuno.

Non capisco, ve lo confesso, la portata dell’emendamento Colitto-Morelli ed altri per cui verrebbe a sparire l’ultima parte «pubblicazioni ufficiali statistiche».

Che cosa si intende dire con questa frase? Lo chiederei all’onorevole Targetti. Quali sono queste «pubblicazioni ufficiali statistiche»? È nelle «pubblicazioni ufficiali statistiche» compreso il Molise? A me non pare che sia compreso. Per queste ragioni, io sarei favorevole anche all’ordine del giorno Targetti con l’emendamento aggiuntivo Camposarcuno, ordine del giorno, che si dovrebbe votare per divisione, a mio parere, perché si può votare e per la prima parte e per la seconda.

PRESIDENTE. L’onorevole Ambrosini ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

AMBROSINI. La Commissione accetta l’ordine del giorno Targetti per vari ordini di considerazioni. In sostanza si tratta di precisare per il momento quali debbono essere le Regioni.

Le considerazioni che hanno portato la Commissione ad accettare questo ordine del giorno sono di opportunità e di merito. Di opportunità, perché andare ora a fare le indagini relativamente a tutte le situazioni particolari con le lungaggini correlative e le discussioni che si protrarrebbero a lungo, significherebbe portare una grave remora alla economia tutta del progetto. Ragioni di sostanza: devo anzitutto fare un accenno all’emendamento del quale si è fatto eco l’onorevole Lussu, col quale si chiede la soppressione delle ultime parole dell’ordine del giorno Targetti «di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche». La Commissione ritiene che debba mantenersi anche quest’ultima parte dell’ordine del giorno, perché se si dicesse soltanto: «Le Regioni storico-tradizionali», potrebbe nascere qualche questione, mentre se si aggiunge «di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche», si fa un riferimento preciso, che elimina ogni equivoco. Il che non impedisce, naturalmente, che revisioni rispondenti ai desideri delle popolazioni possano essere disposte da questa Assemblea e dalle future Camere legislative.

Detto questo, rispondo subito alla domanda che va al cuore della questione posta dall’onorevole Colitto. Egli dice: come mai la Commissione dei diciotto ha accettato un ordine del giorno che muta il deliberato precedente. Anzi, se non sbaglio, egli tassativamente ci chiede: «Quale fatto nuovo è avvenuto?».

Egregio collega Colitto, il fatto nuovo è evidente: il progetto fu redatto in base al riconoscimento delle provincie come circoscrizioni di decentramento statale e regionale. Quando questa Assemblea, con una deliberazione precisa, riconobbe le provincie quali enti autarchici, evidentemente spostò su questo punto fondamentale l’asse del progetto. Nel primo tempo, data quella configurazione della provincia, io e diversi altri componenti del Comitato sentimmo di poter aderire alle richieste dei rappresentanti di talune piccole regioni, perché gli inconvenienti derivanti dalla ristrettezza della circoscrizione regionale sarebbero stati in parte diminuiti dal fatto che le provincie non avrebbero avuto una propria specifica rappresentanza, una propria finanza, dei propri uffici, ecc. Ma, quando l’Assemblea spostò questo, che era uno dei punti fondamentali del progetto, allora evidentemente bisognava rivedere le posizioni. Infatti se è possibile, ed anche forse consigliabile, che le provincie siano conservate come enti autarchici in una grande Regione, come ad esempio la Sicilia, ciò non è possibile nelle piccole Regioni, composte di poche provincie e specie di due provincie, dove avverrebbe una sovrapposizione di funzioni e di organi, incompatibile con un buon funzionamento degli istituti. La situazione diventerebbe ancora più complicata nel caso di una Regione composta di una sola provincia. È il caso del Molise. I colleghi sanno che io fui sensibile di fronte alle richieste del Molise e che ne determinai quasi, nel primo tempo, il riconoscimento come Regione a sé stante. Non fui io che presi l’iniziativa di revocare quel riconoscimento. Ma non posso negare che ora, con la provincia ente autarchico, ci troveremmo in questa posizione veramente strana, di una Regione la quale nello stesso tempo è provincia. Ed allora come si spiegherebbe la coesistenza di un Consiglio provinciale e un’Assemblea regionale?

MORELLI RENATO. Ma la provincia non fa parte dell’ordinamento costituzionale.

AMBROSINI. Io dissi a lei, onorevole Morelli, e dissi all’onorevole Camposarcuno che vi era una soluzione; vi suggerii una possibilità; e mi meraviglio come voi non ne abbiate approfittato. Voi avreste dovuto proporre che il progetto a questo punto subisse una modifica nel senso che alla provincia del Molise si dessero le attribuzioni della Regione, facendone una provincia con lo status di Regione; col che si sarebbero eliminati gli inconvenienti e l’assurdità suaccennati.

Comunque, al punto in cui siamo arrivati, noi, come Commissione, abbiamo accettato l’ordine del giorno dell’onorevole Targetti, con l’intesa però che debba essere integrato da un articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Mortati, e credo approvato da parecchi Gruppi di questa Assemblea; articolo aggiuntivo nel quale si fa salva, infra cinque anni dall’approvazione della Costituzione, la possibilità di modificazione o, meglio ancora, di fusione e di creazione di nuove Regioni, senza (e con questo, onorevoli Morelli e Camposarcuno, credo di essere venuto incontro al vostro desiderio), senza richiedere le condizioni speciali previste dall’articolo 125, che potrebbero rappresentare una preclusione specialmente per il Molise. Ora, data questa situazione, data l’impossibilità, o per lo meno l’estrema difficoltà, di continuare le indagini, dati i contrasti (perché, purtroppo, io ho sentito la voce degli onorevoli Bosco Lucarelli ed altri contrari al vostro assunto), dati i contrasti che si sono manifestati fra le varie regioni e le difficoltà che ha l’Assemblea di decidere, il Comitato ha creduto di accettare per il momento una soluzione che può risolvere le difficoltà attuali senza pregiudicare per nulla l’avvenire, specie per il Molise. È per queste complesse ragioni di opportunità e di merito, sulle quali in seguito forse noi dovremo tornare, che il Comitato accetta l’ordine del giorno proposto dall’onorevole Targetti.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Onorevole Presidente, io ho presentato all’ordine del giorno Targetti un emendamento, che lei ha ricordato dianzi. Se lo consente, vorrei brevemente svolgerlo. Onorevoli colleghi, sono vivamente turbato, nel prendere a quest’ora così tarda la parola per difendere quello che al Molise sembra un sacrosanto diritto. Sono turbato, perché pensavo che l’Assemblea dovesse essere concorde nel riconoscerlo. Nel nostro Molise sono venute personalità di prim’ordine di tutti i partiti. Recatesi sul posto, avendo sentito i bisogni del nostro paese, non hanno esitato un istante a dire, sulle piazze, che sarebbero venute nel Parlamento a sostenere le ragioni del Molise. Da ultimo, il Ministro dei lavori pubblici, onorevole Tupini, in tutte le piazze del Molise è venuto a. dire: «Avete ragione!». E adesso io vedo con dolore infinito la Democrazia cristiana concorde nel sostenere il contrario. Il Molise è un paese di montanari. Crede di trattare con persone, che hanno scritto sulla loro bandiera: lealtà! lealtà! lealtà! Ora noi non la vediamo, o signori della Democrazia cristiana, questa lealtà nei confronti della nostra terra. Ed io sono dolente di dover dichiarare che, come sulle piazze del Molise siete venuti a dire che difendevate il nostro buon diritto, io andrò predicando che il Molise non avrà raggiunto le sue idealità, per le quali combatte da trenta anni, proprio per colpa della Democrazia cristiana. Ognuno assuma, in questo momento particolarmente delicato per il mio paese, le sue responsabilità. Noi sapremo trarre le conseguenze.

Io propongo che sia eliminata dall’ordine del giorno Targetti l’ultima frase: «di cui alle comunicazioni ufficiali statistiche». Perché? Rispondo subito alla domanda.

Io sono d’accordo con i presentatori dell’ordine del giorno Targetti nel criterio informatore, che dovrebbe regolare la determinazione delle Regioni nel nuovo assetto costituzionale dello Stato.

Qual è questo principio informatore? Si vogliono le Regioni storiche tradizionali. (Commenti). E sia. Ma volete usarmi, onorevoli colleghi, la cortesia, prima di prendere una qualsiasi decisione, di ripiegarvi un po’ sulle carte, in cui è scritta la storia del nostro Paese? Volete tener presente quello che è stato il Molise nei confronti dell’Abruzzo dal 1861 in poi? Volete tener presente quello che sta facendo il Governo, in questo momento, nei confronti del Molise o dell’Abruzzo? Lo volete tener presente? O, solo perché avete fretta, volete, signori, distruggere la vita del nostro Molise? (Commenti al centro). Abbiate bontà. È stato l’onorevole Chatrian nel nostro Molise è ha detto che abbiamo ragione. Vi è stato l’onorevole Restagno ed ugualmente lo ha detto. (Interruzioni al centro).

GRONCHI. Abbia il senso delle proporzioni. Il Molise schiavo dell’Abruzzo, che enormità!

COLITTO. Ma chi lo ha detto? Io sto ricercando il criterio che presiede alla determinazione delle Regioni. Si vogliono per il momento porre nell’elenco solo le Regioni di carattere storico. Ed allora io vorrei domandare agli insigni avversari della mia tesi, dove hanno letto che il Molise non è una Regione storica tradizionale.

Nel 1861 il Molise dal Governo italiano fu unito all’Abruzzo.

Una voce al centro. Non c’era Tupini, allora!

COLITTO. Le questioni che interessano il Paese non si risolvono con le battute di spirito o con simpatici sorrisi. Assumete, signori, le vostre responsabilità! (Rumori al centro).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, credo che si sia avuta la possibilità di constatare, da quando ho l’onore di presiedere questa Assemblea, che io garantisco il diritto di parlare a tutti, e pertanto vi prego di permettere all’onorevole Colitto di proseguire.

COLITTO. Nel 1861 il Molise fu unito dal Governo italiano (Interruzione al centro) all’Abruzzo. Ma quel che interessa sottolineare è questo: che fu all’Abruzzo unito soltanto per ragioni statistiche, soltanto per ragioni statistiche. Ciò è ricordato anche dal giornale «La Costituente» del 15 ottobre dello scorso anno.

Ci troviamo, quindi, di fronte a due Regioni, l’Abruzzo ed il Molise, che, sebbene contigue, costituiscono da secoli, dal punto di vista geografico, etnico ed economico, due Regioni distinte, le quali vennero, ai primordi del Regno d’Italia, riunite, ripeto, soltanto per ragioni statistiche. Ora, che cosa domandiamo noi? Ripiegate un istante, onorevoli colleghi, su voi stessi e considerate quello che noi chiediamo. Che cosa chiediamo? Chiediamo di rimanere nella condizione in cui ci troviamo, e non di essere posti in una posizione deteriore. Chiarisco il mio pensiero. Fin quando si è trattato di unione dell’Abruzzo e del Molise per ragioni statistiche noi non abbiamo risentito danno dalla vicinanza con l’Abruzzo. Tutta la legislazione italiana, che naturalmente i miei illustri avversari dovrebbero conoscere e sulla quale dovrebbero soffermarsi per poter decidere cognita causa della questione, tutta la legislazione italiana, dicevo, ha sempre tenuto distinto l’Abruzzo dal Molise. Quando alcuni anni fa furono creati i provveditorati regionali per le opere pubbliche, fu creato quello per gli Abruzzi e Molise con sede in Aquila, perché si occupasse anche del Molise. Ebbene, dopo qualche anno, il Molise dovette essere distaccato dal provveditorato regionale predetto ed aggregato a quello di Napoli. Quando furono creati i provveditorati agli studi regionali, ne fu istituito uno nell’Abruzzo ed uno nel Molise. E proprio in questi ultimi anni si è sentita la necessità di creare una sottocommissione regionale dell’industria per il Molise, un ufficio regionale per l’assistenza post-bellica con sede in Campobasso, una sezione pel Molise dell’Azienda nazionale autonoma delle strade statali e si è riconosciuto dall’Istituto nazionale assistenza per malattie ai lavoratori avere il Molise diritto ad un suo rappresentante.

L’onorevole Lussu, che io ringrazio dal profondo del cuore, a nome dei Molisani tutti per le belle parole da lui pronunciate, ha già detto in quante altre occasioni il legislatore ha tenuto presente l’Abruzzo distaccato e separato dal Molise.

Che cosa ora chiediamo noi? Chiediamo che le cose restino come sono. Che cosa possiamo chiedere di meno, onorevoli colleghi? Desideriamo che le cose restino come sono, e cioè che Abruzzo e Molise restino in quella situazione, nella quale dal 1861 si trovano. Non ci opponiamo a che si continuino a mandare le statistiche ad Aquila: le continueremo a mandare. Le dobbiamo continuare a mandare a Pescara o a Chieti? Le continueremo a mandare. Ma, se si approva il progetto così come è stato proposto, il Molise viene a far parte di un organismo, che, data la sua struttura, assume rilevanza nel campo giuridico, nel campo tecnico, nel campo economico, nel campo agricolo. Ed allora enormi saranno i suoi danni.

Pensi l’Assemblea che Aquila è la capitale del compartimento assicurativo Aquila-Campobasso.. Ebbene il Ministero ha dovuto alla fine disporre che la liquidazione degli infortuni si svolga a Campobasso, perché per andare da Campobasso ad Aquila occorrono tre giorni.

Vi dicevo, onorevoli colleghi, che quello che sto affermando per il Molise è stato riconosciuto da membri illustri di questa Assemblea. Tutti hanno detto che abbiamo ragione; ma lo hanno detto soprattutto i deputati, le associazioni ed i Consigli provinciali dell’Abruzzo, con una generosità, con una benevolenza, con una serenità, con una obiettività degna del massimo elogio. Essi hanno proclamato, rivolgendosi a noi: avete ragione. Il Molise ha ragione di essere considerato come una Regione a sé stante.

Signor Presidente, onorevoli colleghi, ecco perché io dico di approvare l’emendamento Targetti, ma di sopprimere le parole: «di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche». È ridicolo, signori, che si debba provvedere alla determinazione delle Regioni d’Italia in base al criterio delle pubblicazioni ufficiali statistiche! Se questo criterio viene soppresso, allora noi diciamo: sono Regioni d’Italia le Regioni storiche tradizionali. E, poiché non è dubbio che dal secolo XII il Molise è stato il Molise, io credo che non esista in Italia una Regione, che dal punto di vista storico meriti più del Molise di essere riconosciuta come Regione a sé stante nel quadro del nuovo ordinamento costituzionale dello Stato. (Applausi).

GRASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI. L’ordine del giorno Targetti propone che, salva la procedura per istituire nuove Regioni, siano nell’articolo 123 costituite le Regioni storiche tradizionali, di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche.

Noi abbiamo due testi, uno preparato dalla prima Sottocommissione, e poi votato dalla Commissione dei Settantacinque, ed un altro emendato in seguito al coordinamento da parte del Comitato, il quale ha creduto di coordinare modificando l’articolo 123. Ho inteso le spiegazioni dell’onorevole Ambrosini, esimio costituzionalista, che ci ha detto che, se nel testo veniva introdotta la provincia come un ente amministrativo facente parte della Regione, poteva dare luogo ciò ad una modifica di coordinamento.

Io non sono perfettamente convinto di questo e credo che l’Assemblea debba avere davanti a sé il testo che fu votato dalla Commissione dei Settantacinque; perché non era nelle funzioni del Comitato di coordinamento (di cui anch’io feci parte ad un certo momento) di poter modificare sostanzialmente un articolo precedentemente votato dalle Sottocommissioni, articolo che sostanzialmente, come abbiamo inteso dalla accorata parola dell’onorevole Colitto, può rappresentare la voce delle popolazioni che noi presentiamo qui direttamente, in quanto ognuno è legato alla sua origine, alla sua situazione, alla sua terra. Io sento di essere ferito profondamente da questa modifica sostanziale portata da parte del Comitato coordinatore.

Le ragioni modificative portate non mi soddisfano, perché è stato detto che le Regioni attuali – avendo la provincia carattere di ente amministrativo – non potevano essere modificate e non potevano formarsi Regioni più piccole; basta pensare che la Basilicata rimane sempre come una di quelle Regioni conservate dal Comitato coordinatore, pur essendo sostanzialmente una provincia, e così pure l’Umbria, che effettivamente è stata sempre una sola provincia, o altre di quelle che sono fra le 14 conservate dal Comitato di coordinamento.

Quindi, non è esatta l’osservazione presentata dall’onorevole Ambrosini, che si doveva portare per necessità una modifica sostanziale all’articolo 123. Io penso che gran parte di questa bufera serale non ci sarebbe stata se l’articolo 123 fosse venuto nel suo testo originale.

D’altra parte io dico: quando l’Assemblea ha votato questo ordine del giorno che cosa ha fatto? Ha fatto un testo costituzionale? No. Dobbiamo tornare daccapo e stabilire quali sono queste Regioni storiche tradizionali, ed allora mi pare che ha ragione l’onorevole Colitto. Vale la pena di votare questo ordine del giorno se dobbiamo tornare a stabilire quali sono le Regioni storiche tradizionali? Perché non si trova in Italia la storia tradizionale se non risaliamo molto indietro nel tempo.

Per esempio nel Mezzogiorno, dal 1000 in poi, attraverso normanni, angioini, aragonesi, non c’è stata che una sola organizzazione statale: il regno di Napoli, le forme amministrative assunte in questo complesso statale, forme amministrative che hanno preso caratteristiche diverse a seconda delle diverse epoche. Ma se tradizioni ci sono state, sono state tradizioni puramente amministrative. Ora l’amministrazione, non fa la storia. Ed allora, quali sono le forme storiche di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche?

Ora, diciamo, nel testo di un ordine del giorno che vorrebbe essere di indirizzo costituzionale, affidarci soltanto alle forme statistiche ufficiali mi pare assurdo. Quindi, se vogliamo tenere il senso della nostra responsabilità rispetto alle popolazioni che rappresentiamo, diciamo francamente quali sono queste Regioni. Non è che voglio discutere di questa o di quell’altra Regione; io voglio risparmiare ora questa indagine. Rimettiamoci ad una Commissione: nominiamo noi, se vogliamo, una Commissione. Ma credete, onorevoli colleghi, non si tratta di una piccola cosa, sulla quale si può ridere o irridere: è una cosa sostanzialmente sentita da alcune popolazioni, che sarebbero defraudate del loro diritto se non faremo bene questa costruzione della Repubblica su forma regionale. (Applausi a destra).

BADINI CONFALONIERI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BADINI CONFALONIERI. Io mi riferisco a quel giusto richiamo che lei, onorevole Presidente, mi ha fatto poco fa. Il fatto si è che volevo evitare una discussione la quale mi sembra non si debba sollevare in questo momento. Il Molise infatti, se le mie cognizioni sono esatte, non raggiungerebbe i 500 mila abitanti, ed è pertanto necessario discutere prima la questione di carattere generale proposta con l’articolo 125 del testo della Commissione. Detto articolo parla di Regioni che potrebbero essere create qualora raggiungessero un minimo di 500 mila abitanti.

Vorrei, in buona sostanza, osservare (e per questo motivo mi sono permesso di interrompere l’oratore) che abbiamo una questione generale da risolvere, in base alla decisione della quale la questione del Molise potrà, oppur no, venire in discussione.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Faccio osservare all’onorevole Badini Confalonieri che l’articolo 125, da lui richiamato, riguarda le Regioni che saranno create ex novo, dopo che sarà entrata in vigore la Costituzione.

PRESIDENTE. L’onorevole Rivera ha proposto di aggiungere alle parole «regioni storico-tradizionali» la parola «ante-fascismo». (Commenti). L’onorevole Rivera ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

RIVERA. Onorevoli colleghi, non mi sembrava che occorresse, in una Assemblea come questa, una spiegazione particolare di questa aggiunta che vorrei fosse fatta alle parole «storico-tradizionali», che peraltro sarebbe pleonastica, in quanto ritengo che il periodo fascista non appartenga al periodo storico-tradizionale italiano.

Però io ho inteso qui un argomento, che cioè questa Assemblea non intende portare delle variazioni alla antica costituzione e delimitazione delle Regioni, in quanto vuole che ciò avvenga solo per auto-decisione da parte delle stesse popolazioni, successivamente, in variazione di quello che sarà il ripristino delle Regioni storico-tradizionali.

Orbene, io dico: se vogliamo riconoscere alle popolazioni questo diritto di cambiare nel futuro la costituzione da quella antica delle nostre Regioni, noi dobbiamo parimenti dichiarare di non volere riconoscere nessuna di quelle variazioni territoriali che fossero avvenute nelle Regioni durante il periodo fascista. A me sembra, cioè, che, se vogliamo risparmiarci l’arbitrio di fare mutamenti nella costituzione storica e tradizionale delle nostre Regioni, dobbiamo preliminarmente condannare l’arbitrio di mutamenti fatti dal fascismo durante il periodo in cui imperversò nel nostro Paese.

Questo è lo spirito del mio emendamento, che raccomando alla vostra benevolenza. Non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ambrosini a esprimere al riguardo l’avviso della Commissione.

AMBROSINI. Io debbo brevemente rispondere alle nobili parole dell’onorevole Grassi. Tutti i miei colleghi della Commissione ed io abbiamo sentito il richiamo dei colleghi che parlavano in nome della loro Regione; senonché abbiamo visto che era impossibile arrivare ad una soluzione perché, quando nella Sottocommissione riconoscemmo al Molise la capacità di essere Regione, sorsero naturalmente le richieste di altri onorevoli colleghi, suffragate dal consenso delle rispettive popolazioni, per domandare lo stesso trattamento.

Siccome poi tutte queste richieste andavano al punto tale da complicare non poco il sistema, si arrivò a quella decisione salomonica delle Regioni storiche tradizionali. Indubbiamente l’ottimo non è possibile; ma poiché questa Assemblea deve por termine ai suoi lavori il 31 dicembre e poiché una ricerca in proposito assorbirebbe di certo molto tempo, non solo per la ricerca in se stessa, ma anche e forse più per le discussioni che avverrebbero di conseguenza, questa è la ragione di opportunità cui io accennai e per la quale il Comitato di coordinamento credette di accedere all’ordine del giorno Targetti.

Aveva questo potere? Lo aveva, sì, perché il Comitato aveva ricevuta in questo senso una delega amplissima. Io debbo tuttavia dichiarare con molta chiarezza che a quest’ultima formulazione non presi parte, perché mi sentivo quasi legato ad una precedente decisione. Debbo però onestamente soggiungere, per dovere di coscienza – come ho dichiarato anche questa mattina al mio Gruppo – che debbo assumere io pure questa responsabilità, perché, adottando una decisione che vada incontro alle richieste di una parte di Regioni o di una Regione, noi saremmo fatalmente costretti, per un dovere di coerenza e di onestà, ad esaminare per lo meno tutte le altre richieste. Ci ritroveremmo allora in quel groviglio cui prima ho accennato e dal quale non ci fu possibile districarci or è circa un anno.

Onorevoli colleghi, io non vado alla questione di sostanza che ha ripreso l’onorevole Grassi; questa questione prenderebbe molto tempo. D’altra parte, non è proprio l’ora. Ma che un ordinamento regionale basato su una sola provincia possa essere cosa opportuna e fattibile, io assolutamente nego.

BOZZI. Sono funzioni diverse quelle della provincia.

AMBROSINI. È indubbio, onorevole Bozzi. Quando l’Assemblea ha approvato il mantenimento della provincia come ente autarchico, ha certamente voluto non solo conservarle quelle funzioni molto ristrette che ha oggi, ma ha creduto di segnare un indirizzo, per cui la provincia dovesse essere potenziata. Ciò nondimeno, noi non dobbiamo dimenticare che vi sono per ogni Regione assemblee rappresentative, uffici inerenti a queste assemblee e uffici degli enti.

Ora, tutto naturalmente può farsi: ma dalla complicazione di tutti questi organismi, è evidente che non potrebbe mai derivare un bene per le popolazioni.

Una voce a sinistra. E poi sempre sei senatori come per la Lombardia!

AMBROSINI. Questa è un’altra questione. Gli egregi colleghi sanno che io non ero favorevole ad attribuire alle varie Regioni un numero fisso ed eguale, anche minimo, di rappresentanti nel Senato, perché tale sistema richiamava quello federale. Ma non posso negare che ha una sua logica. Ma non dobbiamo adesso occuparci di questo argomento.

Vado alla conclusione: mi rendo perfettamente conto delle aspirazioni e dell’ansia, dello slancio accorato di parecchi onorevoli colleghi; però ritengo che, salvo a rimettere in discussione tutto il problema, al punto in cui siamo, noi non potremmo che accedere a quella che è la via segnata nell’ordine del giorno Targetti. E nel finire, tornando al Molise, debbo dire che ce ne siamo preoccupati nei vari stadi di elaborazione del progetto ed anche ora. Ed in proposito, all’egregio onorevole Colitto, che tanto aspra parola ha voluto lanciare contro il Gruppo al quale appartengo – quasi minacciando di metterlo alla gogna davanti alle popolazioni del Molise – io debbo aggiungere questo: che il Gruppo della Democrazia cristiana si è tanto preoccupato della situazione del Molise da arrivare a proporre l’articolo aggiuntivo, in virtù del quale sarà possibile al Molise di chiedere la modificazione della situazione attuale «anche senza il concorso delle condizioni di cui all’articolo 125» del progetto di Costituzione.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare sul mio emendamento. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio, onorevoli colleghi.

Onorevole Codacci Pisanelli, quando abbiamo incominciato questo esame dell’ordine del giorno dell’onorevole Targetti, mi sono permesso di mettere in evidenza che, degli emendamenti presentati, alcuni evidentemente non potevano essere presi in considerazione. E lei sa che il Regolamento dà una certa facoltà a questo proposito al Presidente del l’Assemblea.

Credo che lei stesso sia d’accordo con me quando io dico che il suo emendamento di fatto viene a contraddire all’affermazione contenuta nell’ordine del giorno Targetti. Non è pertanto un emendamento all’ordine del giorno Targetti; è un’altra proposta.

Io vorrei che si riconoscesse la ragionevolezza di queste mie osservazioni e che l’Assemblea stessa, o anche direttamente gli interessati mi evitassero l’obbligo spiacevole di dover io, con la mia autorità, impedire ad un collega di sostenere la presa in considerazione di una proposta inammissibile.

Ad ogni modo le do la facoltà di parlare, onorevole Codacci Pisanelli.

CODACCI PISANELLI. Mi rimetto completamente alla sua decisione; volevo soltanto precisare che non ritenevo si trattasse di un emendamento in contradizione con l’ordine del giorno Targetti, in quanto penso sarei riuscito a dimostrare che il Salento deve essere considerato fra le Regioni storiche italiane. Comunque mi rimetto a lei, non disturberò più oltre l’Assemblea, specialmente quando di fronte ad un problema grave come l’attuale, nonostante la correttezza e la dignità dell’atteggiamento sempre da me tenuto, noto segni di intolleranza nei miei riguardi. (Commenti).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’ordine del giorno Targetti e degli emendamenti che sono stati presentati.

MORELLI RENATO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORELLI RENATO. Dichiaro che voterò a favore dell’emendamento, malgrado i chiarimenti forniti in contrario, con onesta parola, dal Relatore onorevole Ambrosini, perché la mia determinazione di votare in tal senso dipende da uno stato d’animo e da una convinzione.

Lo stato d’animo è di sorpresa. Tutte le elaborazioni della Commissione su questo argomento sono come «collaudate» dalle informazioni contenute in un foglietto che, per quanto anonimo, deve essere considerato ufficiale, in quanto redatto e pubblicato a cura della stessa Commissione, nel quale si legge: «Concludendo, delle nuove Regioni proposte, il solo Molise ha riscosso l’approvazione quasi generale degli Enti interpellati». Ebbene, malgrado questa constatazione, il Molise è scomparso dalle Regioni elencate nel precedente testo della Commissione.

La convinzione è questa: che, dal nuovo ordinamento che si è voluto dare allo Stato italiano, deriva necessariamente il rispetto delle Regioni storico-tradizionali. Io non voglio quindi girare intorno all’argomento opposto da un uomo politico dell’autorità dell’onorevole Piccioni e da un giurista del valore dell’onorevole Ambrosini: che il Molise ha una sola provincia. Ma secondo me le provincie non hanno niente a che fare con la struttura fondamentale dello Stato. Se c’è una provincia estesa come quella di Campobasso che raggruppa oltre 140 comuni, essa può essere modificata in avvenire e divisa in due o tre provincie (c’è già una proposta per la zona di Isernia). Viceversa io credo che l’Assemblea debba in tutta serietà considerare che il Molise ha una estensione quasi uguale a quella della Liguria ed una popolazione quasi uguale a quella dell’Umbria e della Basilicata..

Non è quindi contemplando l’esistenza di una sola provincia che possiamo risolvere il problema, ma guardando al carattere storico-tradizionale delle Regioni ed alle reali esigenze delle popolazioni. E pongo termine alla mia dichiarazione con la preghiera, rivolta soprattutto ai partiti che ritengono di avere una rappresentanza de jure di tutti i lavoratori, di tener presente che i lavoratori molisani, gente semplice e povera, saranno costretti a far capo alla lontana Aquila, come capoluogo di Regione, il giorno in cui il Molise venisse aggregato agli Abruzzi.

SPALLICCI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. Io dichiaro che voterò in favore dell’ordine del giorno dell’onorevole Targetti, sia pure con qualche riserva. Accolgo l’invocazione del Relatore, onorevole Ambrosini, di non gettarci nel groviglio delle discussioni, che potrebbero essere di una difficoltà inaudita, sulle divisioni e suddivisioni delle circoscrizioni regionali. Io comprendo che l’Assemblea non ha nessuna intenzione di trasformare quest’Aula in una fiera di vanità municipali. Credo che ognuno abbia amore alla piccola Patria regionale contemperato coll’amore per la grande Patria italiana. Quindi rinunzio anche a quell’emendamento che avevo presentato per la mia Regione romagnola che volevo creare autonoma, divisa dal resto dell’Emilia. (Commenti). Non condivido il criterio dell’onorevole Targetti che parla delle Regioni «storico-tradizionali di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche» per quanto la Romagna possa anche considerarsi, sia dal lato storico, sia dal lato geografico, rientrante anche in questo ordine di idee. Ma dico soprattutto, in omaggio a quello che stabilisce l’articolo 125, che creazioni di Regioni nuove possono essere fatte indipendentemente da queste «pubblicazioni ufficiali statistiche», e non c’è bisogno di riferirsi a queste, quando le popolazioni interessate vogliano fondere vecchie Regioni o crearne di nuove.

Ad ogni modo, ripeto, rinunzio al mio emendamento, però desidero che rimanga agli atti questo desiderio che è espresso, sia pure in linea molto subordinata, cioè del riconoscimento in avvenire di una Regione autonoma romagnola che comprenda realmente la vera Romagna, non la Romagna delle quattro legazioni pontificie – Ferrara, Bologna, Forlì, Ravenna – ma la vera Romagna, che comprenda due Provincie, Forlì e Ravenna con la costituenda di Rimini e il circondario di Imola, come ci dà la possibilità di sperare l’emendamento Mortati.

LUSSU. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ho la convinzione che possiamo votare l’ordine del giorno Targetti con l’emendamento Camposarcuno. E credo che questo possa essere consentito, di modo che quelli che si trovano nella mia situazione possano votare senza equivoci. Desidererei pregare i firmatari dell’ordine del giorno Colitto perché rinunzino al loro emendamento di soppressione delle «pubblicazioni ufficiali statistiche», perché si potrebbe discutere all’infinito per sapere se il Molise sia storico o no, mentre è molto più chiaro l’emendamento aggiuntivo Camposarcuno. Debbo dire che io voto con tranquilla coscienza questo ordine del giorno più l’emendamento aggiuntivo Camposarcuno, nonostante le dichiarazioni del collega onorevole Ambrosini. E debbo dire che le sue dichiarazioni, contrariamente alle sue abitudini, al suo temperamento, e al suo passato, mancano di un certo coraggio. Egli ha chiesto in sostanza: come faccio io a votare per il Molise, della cui autonomia regionale sono convinto? Dovrei anche votare per le altre Regioni.

AMBROSINI. No.

LUSSU. Allora, per gentilezza, segua il mio esempio che è molto chiaro. Io voto per il Molise, perché mi pare che, costituito l’ente Regione in Italia, sia ingiusto che noi condanniamo il Molise a pendere dall’Aquila; e non voterò per le altre nuove Regioni, per le quali mi rimetto al futuro Parlamento. Ma per il Molise è indispensabile provvedere immediatamente; per le altre no. E debbo aggiungere, perché vorrei che ai colleghi non sorgesse nessun sospetto: il collega Colitto ha parlato di personalità che hanno visitato il Molise: io non sono una personalità. Comunque io non sono mai andato dalla guerra in poi nel Molise perché non volevo, in nessuna forma, farmi, sia pure minimamente, commuovere o inebriare, fra le altre cose, dal vino locale, ché è eccellente. Parlo quindi in modo assolutamente obiettivo.

Poi mi permetto dirle, onorevole collega Ambrosini, che la storia della provincia non regge un solo minuto in piedi. Il Molise non potrebbe costituirsi in Regione perché è provincia unica? Ma è l’ideale. Avere una Regione che è provincia unica è l’ideale. Ma, se proprio si volesse, nel Molise si potrebbero costituire due provincie e persino tre! Comunque, io dico che una provincia unica regge magnificamente come Regione. Le disposizioni transitorie potrebbero agevolmente regolare la questione.

SERENI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SERENI. Mi associo a quanto ha detto or ora l’onorevole Lussu. Insieme con un gruppo di deputati comunisti del Mezzogiorno voterò l’emendamento Colitto. Precisiamo che intendiamo dare al nostro voto all’emendamento Colitto un significato esclusivo per quanto concerne il Molise.

FIORITTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FIORITTO. È chiaro che se viene approvato l’ordine del giorno Targetti, saltano via tutti gli emendamenti e tutte le proposte di aggiunta di nuove Regioni. Io sono fra i proponenti della Regione Daunia e credevo che si sarebbe arrivati alla discussione del perfezionamento di questa polverizzazione dell’Italia in varie Regioni. Ora non entro più nel merito. In un momento in cui l’Assemblea è commossa dalle parole degli onorevoli Colitto, Lussu e Sereni, in favore del Molise, non voglio profittare della commozione e spezzare una lancia per questa suddivisione. Ho preso la parola soltanto per dichiarare che voto l’ordine del giorno Targetti con una riserva sulla frase che accenna alle Regioni storico-tradizionali, poiché questo ordine del giorno ha un carattere provvisorio: quando noi affermiamo in esso che le Regioni provvisoriamente saranno divise in quel modo come sono state divise nell’ultimo elenco della Commissione per ragioni storiche e tradizionali, noi veniamo a pregiudicare quella che sarà l’azione legislativa futura, poiché avremo già affermato un carattere storico tradizionale, ed io devo richiamare l’attenzione dei colleghi, che hanno presentato emendamenti per la creazione di altre Regioni, sull’impegno che essi prendono sottoscrivendo senza riserve la frase «storico-tradizionale». Epperò, con questa esplicita riserva, posso votare l’ordine del giorno Targetti.

CAMANGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Il Gruppo repubblicano voterà l’emendamento del collega Colitto, intendendo con questo stabilire che fra le Regioni storico-tradizionali il Gruppo riconosce il Molise.

GHIDINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDINI. L’onorevole Ambrosini è stato facilmente profeta quando ha osservato che, accogliendosi l’emendamento Colitto per quanto si riferisce al Molise, si suscitavano le questioni che si riferiscono alle altre circoscrizioni delle quali hanno parlato, anche poco fa, i colleghi: la Romagna, il Salento, la Daunia ecc. Per mio conto ritengo che il dilemma sia questo: o noi accettiamo il nuovo testo proposto dal Comitato di coordinamento, il quale contiene l’elencazione di queste Regioni – siano poi Regioni le quali siano tali per ragioni economiche, storiche o geografiche, questo non m’importa – oppure accettiamo la nuova formulazione fatta dal Comitato di redazione. Non c’è altro. Per mio conto, se voto l’ordine del giorno Targetti, lo voto in quanto si voti anche l’emendamento Mortati; perché anche la Regione Emiliano-Lunense può vantare ragioni non soltanto di carattere economico ma anche di carattere storico veramente imponenti. Non so se l’Assemblea conosca queste ragioni; ma se dovessimo entrare nel merito sarebbe agevole esporre le ragioni di carattere economico e storico che militano a favore della Emiliano-Lunense. Non mi trattengo sull’argomento e mi riservo di farlo in altra occasione. Meglio lo potranno far altri. Intendo pertanto che questa istanza sia implicita nell’ordine del giorno Mortati. Ma se oggi fosse votato l’emendamento a favore del Molise, dovrebbero tornare alla ribalta anche le questioni che riguardano il Salento, la Daunia, e l’Emiliano-Lunense.

Voterò, con questa riserva e con questo chiarimento, l’ordine del giorno Targetti-Lami Starnuti la cui ragione fondamentale penso sia questa: che oggi non possiamo non votare le circoscrizioni regionali, in quanto sono il presupposto e il fondamento di altri istituti già consacrati nella Costituzione.

AMBROSINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

AMBROSINI. Due parole per fatto personale. L’onorevole Lussu ha detto che la mia determinazione sarebbe stata determinata da debolezza e quasi da mancanza di coraggio. No, assolutamente no. Se sono conciliante, non è per debolezza, ma per temperamento di conciliazione; e divento fermo e non cedo quando così mi detta la coscienza. Di questa fermezza e di questo coraggio credo di aver dato prova anche oggi, assumendo la responsabilità di un’adesione all’ordine del giorno Targetti, al quale pure ero stato estraneo, e più ancora assumendone la difesa, pur sapendo le opposizioni ed i risentimenti, infondati e ingiusti, ma sempre risentimenti che avrei suscitato.

CAMPOSARCUNO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMPOSARCUNO. Onorevoli colleghi, vi chiedo pochi minuti di benevola attenzione, perché il problema, che si sta agitando in questo momento, non interessa un Partito, ma un’intera nobilissima Regione, che attende il responso della nostra Assemblea.

Il Molise, onorevoli colleghi, non è una delle Regioni nate di recente, ma affonda le sue origini nei millenni (Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Camposarcuno, tenga presente che, quando numerosi deputati firmano la stessa proposta, è implicito che v’è delega ad uno di svolgerla: e l’emendamento di cui lei parla è stato già svolto. Si limiti a una dichiarazione di voto.

CAMPOSARCUNO. Fra le Regioni storiche vi è anche il Molise, che vuole essere distaccato dagli Abruzzi. (Interruzioni a sinistra,). Questa sua volontà è stata dimostrata in ogni tempo e in diverse circostanze; le enumero solamente, senza commento.

Quando nelle elezioni politiche del 1921 (Interruzioni à sinistra) si creò il collegio elettorale Avellino-Benevento-Campobasso, il senso di ribellione dei molisani fu così vivo, che i candidati di tutti i partiti si rifiutarono di far parte delle proprie liste nella circoscrizione e si presentarono in unica lista regionale contraddistinta dallo stemma del Molise. Non valsero a farli recedere da tale decisione lusinghe e disciplina di partito. La volontà popolare ebbe accenti di disperazione che non fu possibile contenere. Nel 1922 (Interruzioni a sinistra) vi fu il primo congresso regionale molisano svoltosi a Campobasso. Il grido di dolore del Molise per la sua umiliante situazione fu di una solennità austera. Fra gli altri problemi fu dibattuto quello della Regione; si riconobbe avere il Molise i caratteri geografici, storici, economici, sociali e spirituali per costituire Regione a sé stante; si rilevò che il Molise si trovava in una condizione ibrida e svantaggiosa; si affermò solennemente la necessità del Molise Regione e si invocò dal Governo il riconoscimento di tale diritto, a torto misconosciuto. (Commenti a sinistra).

Durante il regime fascista non fu possibile parlare di autonomia regionale: ma appena riapparvero i primi segni di libertà, dopo la dittatura e la violenza, il Molise tornò alla sua battaglia con inesausto vigore.

Il primo Comitato molisano di liberazione, in occasione della formazione della Consulta Nazionale, alla unanimità, rivendicò per il Molise il diritto di essere riconosciuto Regione.

In vista del nuovo ordinamento statale, il problema si è reso ancora più vivo. Nel 1945 la Deputazione provinciale del Molise rivendicò ancora una volta il diritto antico di avere il riconoscimento regionale. Un riconoscimento aveva dato anche il fascismo, perché quando furono creati regionalmente i Provveditorati agli studi, il Ministro della pubblica istruzione istituì il Provveditorato agli studi del Molise con sede in Campobasso.

Di recente il Ministro per l’industria e il commercio, creando delle sottocommissioni regionali per l’Italia meridionale, ne ha istituito una nel Molise, con sede in Campobasso.

Il Ministro dell’assistenza post-bellica, istituendo i suoi organi regionali in tutta l’Italia, ha riconosciuto il Molise come Regione, creando un ufficio regionale in Campobasso.

Oggi vi è il Comitato di agitazione «Pro Molise» che, interpretando l’unanime volontà dei molisani amanti della propria terra, ha lanciato ancora una volta l’allarme per la realizzazione dell’antico sogno di tutti i molisani. Nel novembre del 1946, in occasione del secondo Congresso regionale svoltosi in Campobasso, furono presenti i rappresentanti di tutti i Comuni, di tutti gli enti, dei sindacati, della Camera del lavoro, dei partiti, della cultura. Ancora una volta la realtà s’impose e la necessità del riconoscimento regionale, data la impossibilità di unire il Molise alle altre provincie confinanti (Foggia, Benevento, Caserta) per diversità di aspirazioni, di storia, di tradizioni, di costumi, di linguaggio, apparve imperiosa e indilazionabile. L’ordine del giorno che chiuse i lavori del Congresso ne fu la dimostrazione più luminosa ed inequivocabile.

Alla Commissione dei Settantacinque ed alla seconda Sottocommissione dell’Assemblea Costituente sono state illustrate le ragioni che vanta il Molise per il suo riconoscimento regionale. Ed il Molise è stato proposto quale Regione a sé stante.

La risoluzione del problema è per il Molise di una urgenza indilazionabile. Sono perciò assai perplesso e sorpreso, dopo tutti questi precedenti, delle tendenze manifestate da diverse parti dell’Assemblea di rinviare l’esame della questione molisana.

Io elevo qui il grido di dolore della mia gente che attende di essere liberata da una situazione umiliante.

Io mi inchinerò innanzi alle decisioni dell’Assemblea, ma riaffermo ancora una volta il diritto del Molise di essere riconosciuto Regione a sé stante.

E dico, ad alta voce, che i molisani non desisteranno dalla loro santa lotta sino a quando non sarà resa ad essi giustizia. È questo un solenne giuramento che faccio innanzi agli uomini e innanzi a Dio.

Deve essere riparato l’errore commesso con la unità d’Italia, quando, per la impreparazione e la incomprensione delle classi dirigenti del tempo, si unì «ufficialmente e statisticamente» il Molise agli Abruzzi. Fu un errore funesto perché fra gli Abruzzi e il Molise non vi è stata, né vi poteva essere, alcuna opera comune, essendo diversi i bisogni, gli interessi, le usanze, le tradizioni delle due Regioni. Sono differenti le condizioni dell’agricoltura, dell’industria, della viabilità, dell’ordinamento giudiziario.

La stessa denominazione dell’attuale artificiosa circoscrizione – Abruzzi e Molise – dimostra chiaramente che di due Regioni se ne è fatta, con arbitrio inqualificabile, una sola.

Poche e malagevoli sono le strade di comunicazione fra gli Abruzzi e il Molise; difficili, anche nella stagione buona, i rapporti con l’Aquila; per giungervi da Campobasso occorrono giornate intere di viaggio; nei mesi invernali, le comunicazioni sono assolutamente interrotte. Praticamente le due Regioni sono state sempre divise, con completa autonomia di azione, con disagio e danno infinito, particolarmente del Molise.

Tale situazione dolorosa deve cessare ad opera dell’Assemblea Costituente.

Invoco giustizia, nell’assoluta e ferma convinzione e certezza di interpretare il pensiero unanime di tutta la gente molisana.

Consentite, infine, onorevoli colleghi, che vi chieda di non commettere un altro errore che porterebbe a conseguenze illogiche. Se il Molise non fosse riconosciuto come Regione a sé stante, verrebbe a trovarsi in una delle condizioni più inverosimili. Rimanendo nello stato attuale, dovrebbe procedere alla elezione del Senato con gli Abruzzi e all’elezione della Camera legislativa con Benevento. (Rumori a sinistra).

DE CARO RAFFAELE. Con quattrocentomila abitanti ha sei senatori!

CAMPOSARCUNO. Io vi chiedo che il Molise sia effettivamente riconosciuto Regione a sé stante, anche se le altre questioni regionali debbono essere, in questo momento, rinviate.

È questo un atto di giustizia e di equità: è, soprattutto, una verità che l’Assemblea Costituente, sono sicuro, riconoscerà con la sua votazione. (Applausi).

LOPARDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LOPARDI. Nato in Abruzzo, vissuto sempre in Abruzzo, oso affermare con tutta coscienza, che nella mia esperienza di cittadino, di amministratore, di professionista e di uomo politico, ho sempre constatato la totale estraneità della vita del Molise dalla vita dell’Abruzzo, per sentimenti, affetti ed interessi. Tutte le amministrazioni pubbliche dell’Abruzzo, tutte le deputazioni provinciali e tutte le maggiori municipalità della mia terra hanno espresso voto favorevole alla costituzione in Regione autonoma del Molise. Per queste ragioni, tenendo presente i sentimenti che animano la mia terra, dichiaro che voterò a favore dell’emendamento in discussione.

PRESIDENTE. Passiamo alle votazioni sull’ordine del giorno dell’onorevole Targetti di cui do lettura:

«L’Assemblea Costituente delibera che, salva la procedura per istituire nuove Regioni, siano nell’articolo 123 costituite le Regioni storico-tradizionali, di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche».

Pongo in votazione la prima parte: «L’Assemblea Costituente delibera che, salva la procedura per istituire nuove Regioni, siano nell’articolo 123 costituite le Regioni storico-tradizionali».

(È approvata).

Pongo in votazione la proposta dell’onorevole Rivera di aggiungere la parola «antifascismo».

(Non è approvata),

Passiamo ora all’ultima parte del testo dell’ordine del giorno Targetti del quale è stata chiesta la soppressione dagli onorevoli Colitto, Morelli Renato e altri: «di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche».

Su questa ultima parte dell’ordine del giorno Targetti vi è una richiesta di votazione a scrutinio segreto, presentata dagli onorevoli Moro e altri.

LUSSU. Chiedo di parlare per un chiarimento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Chiedo un chiarimento sul preciso significato della votazione. L’eventuale accoglimento dell’emendamento Colitto significa costituzione della Regione Molise, sì o no? Bisogna dirlo, altrimenti discuteremo, dopo, delle ore per l’interpretazione di questo punto. Io preferirei che i firmatari dell’emendamento Colitto si associassero all’emendamento Camposarcuno, che è chiaro.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. In tanto non mi sono associato all’emendamento Camposarcuno inquanto ho avuto l’impressione che il signor Presidente non intendesse mettere in votazione quegli emendamenti aggiuntivi. Se invece l’emendamento Camposarcuno viene messo in votazione, io non trovo difficoltà ad associarmi.

PRESIDENTE. A me pare che chi è più in condizione di poterci dare l’esatto significato della eventuale soppressione di queste parole, siano i colleghi i quali hanno redatto l’ordine del giorno Targetti. Non è evidentemente dall’interpretazione che si dà alla proposta di soppressione di queste parole che si potrà sapere che cosa vuole significare la formulazione da votare.

Ha pertanto facoltà di parlare l’onorevole Lami Starnuti, che ha svolto l’ordine del giorno.

LAMI STARNUTI. Avevo già dichiarato, svolgendo l’ordine del giorno, che intendevamo aderire al nuovo testo del Comitato di redazione e che per Regioni storiche noi intendevamo esattamente, e solamente, quelle indicate nel nuovo testo della Commissione. Aggiungo che noi non accettiamo né l’emendamento dell’onorevole Colitto, né quello dell’onorevole Camposarcuno.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, ritengo che si possa risolvere il quesito procedendo in questo modo: votando adesso la soppressione delle ultime parole dell’ordine del giorno e poi i due emendamenti che ho dichiarato non strettamente pertinenti. Ma, poiché, forse, senza quella votazione potrebbe restare un equivoco sul significato della decisione dell’Assemblea, metterò in votazione, successivamente, le due proposte che si riferiscono appunto l’una alla inclusione eventuale fra le Regioni storico-tradizionali dell’Abruzzo l’altra, per equità, del Molise e del Salento.

CEVOLOTTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO. Faccio presente all’Assemblea che, con le parole che si vorrebbe sopprimere, si è stabilito un principio che sarebbe molto pericoloso modificare; perché, se torniamo alle Regioni tradizionali senza la specificazione che si tratta delle Regioni come ora sono costituite, alcune di esse – ad esempio il Lazio – verrebbero profondamente modificate; la provincia di Rieti non è tradizionalmente nel Lazio (è stata aggiunta dopo); la provincia di Latina comprende ora anche Formia, che non faceva parte del Lazio, il cui confine storico è subito dopo Terracina.

Noi, con la soppressione dell’ultima parte dell’articolo proposto, veniamo a modificare la struttura di alcune Provincie e di alcune Regioni. Non è senza ragione che si è fatto quel richiamo alle Provincie quali risultano delle statistiche ufficiali.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. La soppressione dell’ultima parte dell’ordine del giorno Targetti-Lami Starnuti equivale all’annullamento dell’ordine del giorno stesso. Io ho cercato di comprendere le conseguenze che ne deriverebbero: la proposta è tale da annullare completamente il valore dell’ordine del giorno Targetti-Lami Starnuti. Io penso che se si intendeva puramente e semplicemente annullare il valore di tale ordine del giorno, bastava votare contro di esso: non c’era nessuna ragione per adottare questa forma complicata. Ma io credo che invece c’è in questa Assemblea un certo numero di colleghi che, pur condividendo integralmente l’ordine del giorno Targetti-Lami Starnuti, vuole però stabilire determinate eccezioni per l’una o per l’altra Regione. Ed allora noi dobbiamo semplificare la votazione in questo modo: dobbiamo o votare prima sulle eccezioni eventuali, oppure sull’ordine del giorno dell’onorevole Targetti, riservandoci di votare poi sulle eccezioni eventuali.

In ogni caso, quindi, bisognerebbe escludere la votazione sull’emendamento Colitto.

Se il Presidente concede questa riserva, e cioè concede la riserva di votare le eccezioni eventuali dopo la votazione dell’ordine del giorno Targetti, credo che l’onorevole Colitto possa tranquillamente ritirare la sua proposta.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Dati i chiarimenti offerti dal signor Presidente, penso che sia inutile una votazione sull’emendamento da me presentato.

Io dichiaro formalmente di ritirarlo, se, come ha detto il signor Presidente, sarà posto in votazione l’emendamento aggiuntivo. Allora su questo l’Assemblea potrà votare.

Io rinunzio, quindi, alla mia proposta.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. A me pare che se noi votiamo l’intero testo dell’ordine del giorno Lami Starnuti, col riferimento finale, non sia possibile votare successivamente una eccezione a questo criterio, ove fosse stabilito.

Altrimenti, dovremmo concludere che quell’ultima frase dell’ordine del giorno a cui i presentatori hanno dato uno specifico significato sia, invece, priva di ogni valore effettivo.

Evidentemente, una votazione chiara avverrebbe – secondo il nostro modestissimo avviso – in questi termini: o si vota l’intera dizione dell’ordine del giorno Lami, e allora risultandone che oggi, costituzionalmente, le Regioni non sono altre che quelle comprese nell’articolo 123 del nuovo testo della Commissione, coloro i quali intendono apportare aggiunte per il Molise o per altre Regioni, voteranno contro. Fra parentesi, il nostro pensiero in questa materia è che non si può pensare di sollevare la questione per una sola Regione. Amico Lussu, lei sentirà il nostro amico Micheli battersi sul suo stesso terreno, sostenendo che le stesse ed equivalenti ragioni obiettive che esistono per il Molise ci sono anche per la sua Regione (Interruzioni dei deputati Colitto e Lussu). E così altri colleghi: poiché è innegabile che in questa discussione non manca neppure un «pathos» rispettabile che anima e riscalda le parole dei difensori delle nuove Regioni, quasi che esse gemessero sotto i ceppi di una straniera altra nazione che le angaria. Chiudo la parentesi ed accenno all’altro termine: la votazione sarà pure chiara qualora sia mantenuta divisa l’ultima parte del collega Lami Starnuti. Infatti chi voterà per la soppressione di questa ultima parte potrà riservarsi di proporre in sede dell’articolo 123 e il Molise e il Sannio e la Daunia e altre novissime Regioni; mentre chi voterà contro la soppressione è evidente, invece, che intende non aggiungere altre Regioni in confronto a quelle tradizionali. Noi siamo, quindi, per il mantenimento della votazione per divisione sull’ultima parte dell’ordine del giorno Lami Starnuti.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, poiché l’onorevole Colitto ha dichiarato di ritirare il suo emendamento soppressivo dell’ultima parte del testo dell’ordine del giorno Targetti, chiedo ai presentatori della richiesta di votazione a scrutinio segreto se la mantengono.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Vorrei capire il senso del ritiro di questo emendamento da parte dell’onorevole Colitto.

Credo che il collega Gronchi sia stato molto chiaro. Il senso dell’ordine del giorno è questo; votandolo integralmente, intendiamo precludere la via al riconoscimento di nuove Regioni, almeno in questo momento. È evidente che noi diamo questo senso alla votazione. Vorremmo sapere se, dopo avere votato in questo senso, qualora l’articolo fosse approvato, taluno possa venire a chiedere il riconoscimento di altre Regioni. Vorrei sapere cioè qual è il senso che, accanto alla interpretazione che diamo noi, conferiscono gli altri colleghi a questa votazione.

MORELLI RENATO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORELLI RENATO. Non condivido la opinione espressa dall’onorevole Gronchi: il richiamo alle statistiche si riferisce agli Abruzzi e al Molise considerati come una sola Regione.

Chiedo quindi che si proponga all’Assemblea una votazione che riguardi il distacco del Molise dagli Abruzzi, che del resto è propugnato dagli stessi abruzzesi.

Soltanto a questa condizione noi potremmo ritirare l’emendamento.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Colitto e all’onorevole Morelli se, di fronte alle dichiarazioni dell’onorevole Gronchi e dell’onorevole Moro a tenore delle quali questa votazione, se positiva, avrà un carattere preclusivo, intendono mantenere la loro dichiarazione di rinunzia all’emendamento soppressivo, o se abbiano invece mutato il loro atteggiamento.

COLITTO. Evidentemente lo abbiamo mutato, onorevole Presidente; insistiamo sul nostro emendamento.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Abbiano la bontà i colleghi della Democrazia cristiana di voler permettere che si chiarisca il più possibile la votazione.

L’onorevole Gronchi dice: chi vota per l’ordine del giorno Targetti vuole implicitamente che si escluda qualsiasi emendamento aggiuntivo. Ora, sotto questo riguardo, io debbo dichiarare che vi sono in quest’Aula parecchi colleghi, ed io sono fra questi, che non condividono il pensiero ufficiale della Democrazia cristiana. (Commenti al centro).

Qual è il problema infatti? Il problema è questo: di fronte a questa questione delle nuove Regioni, la Democrazia cristiana si trova in una situazione diversa da quella in cui si trovano molti fra noi, in quanto essa è obbligata a sostenerle tutte o ad avversarle tutte. Noi no. Molti fra noi intendono votare sì per il Molise e la sospensiva per le altre.

La Democrazia cristiana è obbligata a sostenere tutte queste Regioni, oppure a non sostenerne nessuna. Invece in quest’Aula vi sono, io credo, più che parecchi, molti, i quali votano «sì» per il Molise – perché la situazione del Molise è particolare (e non insisto) – e votano «no» per la Daunia, o che so io. Sia allora consentito a questi colleghi di esprimersi secondo la loro coscienza; il problema non si può eludere. Trovi il Presidente il modo di votare: o prima il Molise, o dopo; ma non precluda, per chi vota l’ordine del giorno Targetti, la possibilità di altre votazioni. Perché io ed altri intendiamo votare quell’ordine del giorno, ma intendiamo di avere anche il diritto di votare per altre Regioni. (Applausi a destra).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Vorrei dire una parola, perché credo di essere io responsabile della discussione. La frase «secondo le pubblicazioni ufficiali statistiche» l’ho suggerita proprio io (Commenti a sinistra), perché intendevo riferirmi ad un dato di fatto: quando noi diciamo «Piemonte», non v’è niente nella legislazione italiana che definisca il Piemonte; ed allora ho pensato che per definire il Piemonte occorra riferirsi a quello che si chiama «Piemonte» nelle «pubblicazioni ufficiali statistiche». Credo poi che vi sia la possibilità di mantenere intatto l’ordine del giorno Targetti, senza compromettere, come afferma il collega Gronchi, il problema del Molise, perché in tutte le statistiche voi trovate «Abruzzi», «Molise», «Abruzzi e Molise», in maniera che quando noi abbiamo votato «Regioni secondo le indicazioni ufficiali statistiche», non ci siamo per nulla vincolati a fare degli Abruzzi e del Molise una sola Regione, perché in sede di elencazione delle Regioni, prevista dal nuovo testo del Comitato di coordinamento, quando arriveremo agli Abruzzi e Molise, potremo votare se queste Regioni statisticamente si debbano considerare come una o come due regioni.

Non mi pare perciò il caso di togliere il periodo che l’amico Colitto vorrebbe levare, perché altrimenti non avremmo nessuna definizione delle Regioni a cui riferirsi. Potremo rimandare la questione del Molise al risultato di una votazione separata.

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Sono costretto a riprendere la parola, perché queste varie e diverse interpretazioni rendono sempre più difficile il capire che cosa votiamo.

Ora, è autorevolissima l’opinione dell’onorevole Corbino relativa a questa inclusione negli annuari statistici del Molise, ma mi pare che ciò sia in contraddizione con l’interpretazione ufficiale che l’onorevole Lami Starnuti ha dato al suo ordine del giorno.

Mi perdoni l’Assemblea, ma per evitare contestazioni successive alla votazione, pregherei i presentatori dell’ordine del giorno di chiarire univocamente che cosa intendono con l’espressione che stiamo per votare.

PRESIDENTE. Onorevole Moro, i presentatori dell’ordine del giorno hanno già, a più riprese, chiarito il loro pensiero.

MORO. Mi permetta: v’è una domanda dell’onorevole Lussu e v’è anche una interpretazione dell’onorevole Corbino. Credo che sia legittimo sapere quale significato dà la Presidenza a questa votazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Corbino non è presentatore dell’ordine del giorno e pertanto ciò che egli ha detto, lo ha detto a titolo di informazione. Ma l’onorevole Lami Starnuti, che è firmatario e che ha svolto l’ordine del giorno, ha detto all’Assemblea in qual modo interpreta il suo ordine del giorno.

PICCIONI. Quindi è preclusivo di altri emendamenti, nel caso che sia accettato, compreso quello dell’onorevole Colitto. Altrimenti facciamo delle votazioni superflue.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Se questo può tranquillizzare maggiormente gli onorevoli Moro e Piccioni, io aggiungo la mia voce a quella dell’onorevole Lami Starnuti, come altro firmatario dell’ordine del giorno, per precisare che l’integrale votazione dell’ordine del giorno è indubbiamente preclusiva di qualsiasi altra votazione.

PRESIDENTE. Dopo queste precise dichiarazioni, possiamo passare alla votazione: coloro che ritengono che, oltre alle Regioni elencate nel nuovo testo dell’articolo 123 presentato dalla Commissione, devono esserne aggiunte altre, ad esempio il Molise come sostenuto da alcuni, tengano conto che, votando il testo integrale dell’ordine del giorno Targetti, rendono poi impossibile la realizzazione di questo loro desiderio. È evidente che, chi vuol lasciare la via aperta a queste inclusioni, data l’interpretazione dell’ordine del giorno Targetti, dovrebbe votare contro.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Questa volta, onorevole Lussu, le chiedo venia, ma ormai la questione è chiarita e non posso più dare la parola a nessuno. (Approvazioni).

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Passiamo, pertanto, alla votazione dell’ultima parte dell’ordine del giorno Targetti: «di cui alle pubblicazioni ufficiali statistiche», per la quale, come si ricorda, è stato chiesto lo scrutinio segreto.

Avverto che, coloro i quali sono favorevoli all’emendamento soppressivo proposto dall’onorevole Colitto, voteranno contro.

Indico la votazione segreta.

(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione ed invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Interrogazioni e interpellanze con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico, intanto, che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, sulla opportunità di agevolare il passaggio ai consorzi degli ortofrutticoltori e alla loro Associazione delle attrezzature strumentali del cessato ente, perché siano sollecitamente messe in piena attività, nell’interesse dei relativi servizi e ai fini di utilità generale.

«Canevari».

«Al Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga assolutamente indispensabile prorogare di almeno un mese il termine per la presentazione delle denunce riguardanti la imposta straordinaria sul patrimonio, in quanto la legge relativa è stata pubblicata soltanto in data 25 ottobre 1947 in un supplemento della Gazzetta Ufficiale, non ancora noto, né a Roma, né tanto meno nelle province, ed in quanto mancano le istruzioni ministeriali necessarie per rendere possibile in pratica la presentazione delle denunce.

«Persico».

«Al Ministro delle finanze, perché dica se non creda opportuna una ulteriore, definitiva e congrua proroga del termine per la presentazione delle denunzie ai fini della imposta straordinaria sul patrimonio, atteso che il decreto 11 ottobre 1947, n. 1131, contenente le disposizioni relative all’imposta stessa, è stato pubblicato soltanto il 25 corrente in apposito supplemento della Gazzetta Ufficiale.

«Perrone Capano».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri degli affari esteri e della difesa, per conoscere se intendano avviare o se già abbiano avviate iniziative per il rimpatrio delle salme di caduti italiani sepolti in territorio estero; e, in caso affermativo, quali provvedimenti si intenda adottare per sopperire alle spese inerenti alla traslazione delle salme stesse o, almeno, per aiutare economicamente quelle famiglie di caduti che intendessero affrontare l’onere relativo.

«Geuna, Giacchero».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’agricoltura e foreste e del tesoro, per sapere se non intendano – visto l’articolo 6 del decreto legislativo 1° luglio 1946, n. 31 (Lex 1946, p. 904) e visto il decreto ministeriale 3 luglio 1947 (Lex 1947, p. 1307, n. 27) – decretare che il contributo da erogarsi a favore delle aziende agricole, che hanno subito danni di guerra, non venga limitato – come stabilisce l’articolo unico del sullodato decreto ministeriale 3 luglio 1947 – alle sole 20 province a sud della linea gotica, che venga esteso anche a tutte quelle province dell’Italia settentrionale, che hanno subito i maggiori danni nella lotta partigiana per la liberazione; ad esempio, la trascuratissima provincia di Torino, nella quale vi sono parecchie centinaia di aziende agricole che sono state completamente distrutte dalla furia vandalica delle orde nazi-fasciste e che nulla ancora hanno ricevuto, quale contributo statale, per la ricostruzione dei loro beni mobili strumentali.

«Geuna, Stella, Giacchero, Scotti Alessandro».

Mi riservo di darne notizia ai Ministri competenti perché facciano sapere quando intendano rispondere.

Comunico, inoltre, che è stata presentata la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’industria e commercio:

1°) sull’atteggiamento che il Governo intende di assumere nei confronti della situazione creatasi nel Paese in seguito all’offensiva padronale per guadagnare mano libera nel licenziamento dei lavoratori, situazione che ha provocato l’odierno sciopero dimostrativo, deciso dal Consiglio generale delle leghe di Milano, e sta per determinare l’estensione delle agitazioni e degli scioperi in molti altri centri;

2°) sul punto di vista del Governo in merito alla opportunità di procedere al riconoscimento giuridico dei Consigli di gestione, i quali si sono dimostrati nelle recenti esperienze come gli organi più propri a interpretare e rappresentare gli interessi generali della produzione, evitando che essi possano essere compromessi dall’inasprirsi dei conflitti.

«Morandi, Lombardi Riccardo, Giacometti, Lizzadri, Nenni, Malagugini, Giua, Barbareschi, Grazia Verenin, De Michelis, Sansone, Pressinotti, Bonomelli, Fiorentino, Vischioni».

Chiedo all’onorevole Presidente del Consiglio di comunicare quando ritiene che possa essere svolta.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Il Governo ha promesso che provocherà delle riunioni con entrambe le Confederazioni. Comunque esso segue attentamente tutte le fasi con la massima attenzione e nell’interesse delle classi lavoratrici.

Dirà in una delle sedute odierne quando avrà completato la raccolta di tutti gli elementi affinché il dibattito sia efficace e conclusivo.

MORANDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORANDI. Considerando l’importanza dei fatti chiedo, a nome anche degli altri firmatari, lo svolgimento con tutta urgenza dell’interpellanza, prima che l’Assemblea prenda le vacanze. La situazione che ha provocato lo sciopero odierno di Milano è a tutti nota. Per effetto del decreto Fanfani è stata precipitata la temporanea soluzione della intricata e complessa questione dello sblocco dei licenziamenti. Il Ministro del lavoro ha bensì protratto i termini che erano stati stabiliti nel decreto, e che hanno determinato una vera corsa ai licenziamenti da parte degli imprenditori, ma intanto la minaccia di essere privati di lavoro incombe su decine e decine di migliaia di lavoratori. D’altra parte, l’atteggiamento assunto da parte padronale è caratterizzato, a parer nostro, da una serie di casi prospettanti una falcidia del tutto ingiustificata delle maestranze. Il che scopre forse altri fini che non siano quelli della eliminazione della mano d’opera esuberante. E di questo noi giustamente ci preoccupiamo. Lo sciopero di Milano deve essere di grave avvertimento. Il Governo deve dare serio affidamento di voler meglio ponderare la questione e risolverla d’accordo con l’organizzazione sindacale. Ed è in una tale condizione che riteniamo acquisti oggi tutta una nuova attualità il riconoscimento giuridico dei Consigli di gestione che si sono dimostrati – tipico il caso dell’Ansaldo – gli organi di mediazione più adatti per la risoluzione di questi conflitti di interesse. L’interpellanza, ritengo, potrebbe essere svolta in una delle sedute odierne.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Dico subito che, alla ripresa dei lavori, oggi stesso, indicherò il giorno in cui potrò rispondere.

In quanto all’atteggiamento del Governo non avrei nessuna difficoltà a rispondere subito, perché esso risulta abbastanza chiaro da documenti e da conferenze, sicché non dobbiamo che comunicare quello che abbiamo fatto.

Se si affronta questo problema, vorrei che fossimo in grado di fissarne la estensione e la profondità, dando delle assicurazioni tranquillanti a questa massa in agitazione. Per questo dico: lasciatemi il tempo di poter fare delle precisazioni; oggi, nel pomeriggio, senz’altro.

MORAND1. Non è nostra intenzione cogliere di sorpresa il Governo, ma si tratta di questioni urgenti (Commenti) per cui s’impone una sollecita trattazione della materia.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Poiché l’onorevole Morandi mi ha chiamato in causa ed ha voluto attribuire l’origine di questo fenomeno al decreto, che ha chiamato Fanfani, devo immediatamente precisare come di decreti, che potrebbero chiamarsi Fanfani, ve ne sono diversi.

MORANDI. Mi riferivo al decreto dell’agosto scorso.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Evidentemente, quello dell’agosto è un decreto Fanfani, ma stilato con l’accordo della Confederazione generale del lavoro e della Confederazione degli industriali dopo molteplici discussioni e abbinato ad un accordo fra le parti promosso dal Governo, perché le parti non riuscivano ad intendersi, a proposito delle Commissioni interne; e fu tanto concordato fra la Confederazione degli industriali e la Confederazione generale del lavoro, che il Governo fu pregato di attendere, prima di sottoporlo alla firma, che le due Confederazioni avessero firmato l’accordo per il famoso articolo 2 delle Commissioni interne.

Una voce a sinistra. Non si parlava allora di smobilitazione, come si parla ora.

FANFANI, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. In quella occasione le parti che si incontrarono ed il rappresentante del Governo, che presiedeva la riunione, furono preoccupati del duplice aspetto della questione: problema della gradualità e problema dell’assistenza.

In quella circostanza, su richiesta delle parti, fu protratto il termine utile per procedere allo sblocco, in condizioni tali da garantire un minimo di assistenza ai lavoratori, dal mese previsto inizialmente, a due mesi. Il decreto fu pubblicato il 12 settembre; il termine veniva a decorrere dal 13 settembre al 13 novembre. Naturalmente, quando le parti, negli ultimi contrasti, fecero presente come non fosse opportuno mantenersi in questi 60 giorni, per non far sì che la generalità dei licenziamenti avvenisse nei primi giorni di novembre, il Governo di buon grado accedette al suggerimento di protrarre ancora il termine, anzi le parti richiesero un mese, nella riunione che ebbero e che fu promossa dal Presidente del Consiglio. Il Governo ritenne opportuno di andare oltre le richieste delle parti e poiché il mese di proroga sarebbe scaduto il 13 dicembre, al Governo parve bene prorogarlo fino al 31 dicembre. Inoltre vi è stato, sempre per iniziativa del Governo, un nuovo incontro ancora lunedì scorso e fu confortante, almeno per chi assisteva, constatare che Confindustria e Confederazione generale italiana del lavoro intravedevano la possibilità di procedere alla richiesta di una ulteriore proroga allo scopo di attuare la massima gradualità possibile, in coincidenza con l’entrata in vigore di altri provvedimenti, diretti a riassorbire questa mano d’opera licenziata, per essere riqualificata al momento opportuno, e per i quali provvedimenti il Governo, ancor prima di questa riunione, aveva fatto lo stanziamento opportuno di due miliardi ed aveva promesso un decreto che nei giorni scorsi è stato comunicato nel suo testo alle due Confederazioni affinché, prima che il Governo proceda all’integrale approvazione del decreto sui corsi di riqualificazione dei lavoratori licenziati, le due Confederazioni potessero far sapere il loro punto di vista ed aiutare il Governo a trovare la forma più concreta e più adatta per questa opera di riqualificazione.

Posso dire di più: questa sera mi sono state comunicate dalla Confindustria le osservazioni che aveva da fare in proposito e l’onorevole Di Vittorio, col quale ho trattato il problema, mi ha assicurato che domani potrà comunicarmi anch’egli le osservazioni necessarie a far sì che questo provvedimento vada il più lontano possibile per accogliere la massima parte delle esigenze prospettate e, se possibile, per sodisfarle tutte. Poiché il Governo non vuole aspettare per provvedere che gli eventi si siano verificati, avant’ieri ha già tenuto una riunione con i dirigenti dell’I.R.I. per studiare uno specifico problema, quello dei licenziamenti dalle aziende dell’I.R.I., con particolare riferimento alla città di Genova. A seguito di quella riunione, ieri sera i dirigenti dell’I.R.I. si sono incontrati col Ministro dei lavori pubblici per identificare specificamente dei lavori che, su iniziativa dell’I.R.I., si è detto essere, se svolti in prossimità della città di Genova, in grado di riassorbire gran parte della mano d’opera che eventualmente dovrebbe essere licenziata. A questo proposito i giornali hanno parlato di 40.000 licenziati a Genova, mentre ieri l’altro il Commissario dell’I.R.I. mi assicurava che questa cifra non sarebbe stata assolutamente raggiunta. (Interruzione del deputato Negro).

Poiché i giornali avevano parlato di questo e l’opinione pubblica è espressa, oltre che dai resoconti di questa nostra Assemblea, anche dai giornali, mi sembra doveroso richiamare il seguente fatto: il responsabile Commissario dell’I.R.I., subito dopo la riunione che ho avuto con lei, onorevole Negro, avvertiva che questo sblocco del personale dell’I.R.I. sarà graduato entro e forse oltre i termini previsti dai decreti di proroga. Comunque, per quanto riguarda i licenziamenti previsti, già ieri sera predisponemmo un piano per cui per i primi 300 lavoratori sono stati già fissati i criteri per l’assorbimento, non in azienda dove v’è esuberanza di mano d’opera, ma in altri rami in cui vi sia possibilità d’occuparla. (Interruzioni a sinistra).

Comunque, l’Assemblea è pregata di dare i suoi lumi al Governo per portare a risoluzione questo gravissimo problema. (Applausi al centro).

MORANDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Onorevole Morandi, o concludiamo la discussione e consideriamo l’interpellanza svolta, oppure stabiliamo la data in cui l’interpellanza sarà svolta.

MORANDI. Il Ministro del lavoro è entrato nel vivo dell’argomento. Egli ci ha fatto un quadro un po’ troppo idilliaco di questa situazione. Non è una mia fantasia lo sciopero di Milano… (Interruzioni al centro).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, il problema è questo: o il Governo è disposto in questo momento ad affrontare la discussione, ed allora continuiamo la seduta, oppure il Governo riconferma le sue intenzioni, e in tal caso la togliamo.

Prego il Presidente del Consiglio di esprimere il suo parere.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Spero di poter dire che saremo pronti oggi stesso. Comunque, se l’Assemblea intende proseguire, il Governo è a disposizione.

PRESIDENTE. Sta bene. Onorevoli colleghi, spetta al Governo la facoltà di indicare la data di svolgimento delle interpellanze ed il Governo ha dichiarato appunto che farà sapere in una delle sedute odierne quando intenda che sia svolta questa interpellanza.

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione segreta sull’ultima parte dell’ordine del giorno presentato dall’onorevole Targetti:

Presenti e votanti     286

Maggioranza           144

Voti favorevoli        203

Voti contrari            83

(L’Assemblea approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Belotti – Benvenuti – Bernamonti – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Binni – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonino – Bonomelli – Bordon – Bosco Lucarelli – Bosi – Bozzi – Braschi – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.

Cacciatore – Caccuri – Camangi – Campusarcuno – Cannizzo – Cappi Giuseppe – Cappugi – Carbonari – Carboni Angelo – Carignani – Caronia – Caso – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombo Emilio – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsini – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo.

De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Gasperi – Del Curto – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti.

Ermini.

Fabbri – Fabriani – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Foresi – Fornara – Franceschini – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidini – Giacchero – Giolitti – Giordani – Gonella – Gorreri – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jervolino.

Laconi – La Gravinese Nicola – Lagravinese Pasquale – Lami Starnuti – Landi – La Pira – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Lettieri – Lizier – Lombardi Carlo – Longhena – Longo – Lozza – Lussu.

Maffi – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Manzini – Marazza – Marconi – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Mazza – Meda Luigi – Merlin Angelina – Mezzadra – Miccolis – Minella Angiola – Minio – Montagnana Rita – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Moranino – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Musolino.

Negro – Nenni – Nicotra Maria – Novella – Numeroso.

Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Pellegrini – Penna Ottavia – Perassi – Perrone Capano – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci.

Quintieri Adolfo.

Raimondi – Rapelli – Reale Eugenio – Recca – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Rognoni – Roselli – Rossi Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Ruggiero Carlo – Ruini.

Saggin – Salizzoni – Sampietro – Sansone – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Selvaggi – Sereni – Sicignano – Silipo – Simonini – Spallicci – Stampacchia – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Tega – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tomba – Tosi – Tumminelli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Vallone – Vanoni – Viale – Vicentini – Vigna – Villani – Vischioni.

Zaccagnini – Zanardi.

Sono in congedo:

Abozzi – Angelucci.

Cairo – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Cavallari.

Dozza – Dugoni.

Jacini.

Porzio.

Ravagnan – Romita – Rumor.

Sardiello.

Tosato.

Il seguito di questa discussione è rinviato alle ore 11 di oggi, 30 ottobre.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere i motivi che si oppongono alla concessione preferenziale di tradotte e di carri ferroviari ai consorzi e alle cooperative fra produttori agricoli per il trasporto della paglia destinata ai loro soci, i quali – specie in Piemonte – hanno assoluto e urgente bisogno di paglia per le necessità degli allevamenti.

«Secondo informazioni raccolte in Piemonte, le cartiere, che godono di particolare preferenza per i trasporti ferroviari, hanno scorte di paglia più che sufficienti.

«L’interrogante fa presente che cooperative di contadini del Piemonte, che hanno notevoli depositi di paglia nell’Italia centro-meridionale, non sono riuscite ad ottenere un solo vagone, mentre varie ditte, che possono disporre di vagoni e tradotte, offrono la paglia sui mercati dell’Italia settentrionale a prezzi elevatissimi.

«Scotti Alessandro, Giacchero, Raimondi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ritenga opportuno ed urgente provvedere allo stanziamento di una prima somma occorrente per la costruzione del carcere giudiziario a Foggia, tenuto conto delle esigenze del servizio della giustizia, giusta reiterate segnalazioni del Ministero di grazia e giustizia, e della grave disoccupazione che affligge detta città, particolarmente nel campo dell’edilizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Imperiale».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per chiedere se non ritenga opportuno, a parziale modifica delle tariffe per i trasporti ferroviari, introdotte il 1° agosto 1947, trasferire la voce «legna da ardere» alla prima categoria che comprende i generi di maggiore consumo (alimentari, ecc.).

«L’interrogante fa presente che l’aumento introdotto è così sensibile da incidere sul prezzo di vendita della legna da ardere, nella misura del 25 per cento, e che tale aumento pone le classi povere nell’impossibilità di provvedersi del combustibile indispensabile al riscaldamento.

«Il provvedimento che l’interrogante si permette suggerire, nell’impossibilità di renderlo generale, dovrebbe essere concesso almeno per i trasporti diretti ai comuni e a tutti gli enti pubblici. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pistoia».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga necessario e urgente provvedere alla riattivazione della ferrovia Piacenza Cremona. All’uopo si osserva:

1°) trattasi di un tronco ferroviario che, per il fatto di collegare due importanti capoluoghi di provincia, oltreché numerosi centri intermedi della Bassa Piacentina, deve ritenersi d’importanza rilevante;

2°) se è vero che per indisponibilità di materiale, venne momentaneamente sospeso il riattivamento della ferrovia, destinandosi pure qualche parte del materiale pesante all’armamento di ferrovie di più grande traffico, è anche vero che, in seguito anche alle pressioni e agli insistenti reclami degli enti e delle popolazioni interessati, il Ministero dava formale assicurazione che la riattivazione del tronco in parola sarebbe stata disposta nel minor tempo possibile;

3°) trascorsi invano parecchi mesi ed avvicinandosi la stagione invernale col conseguente rincrudimento del disagio, che la mancanza del servizio in oggetto comporta per gli abitanti della zona interessata, gli interroganti chiedono all’onorevole Ministro quali siano i suoi propositi riguardo alla soluzione di questo problema che, per molti aspetti, è ormai divenuto indilazionabile. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Arata, Bernamonti, Pallastrelli, Mazzoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro degli affari esteri, per conoscere se e quali trattative siano in corso per ottenere dal Governo degli Stati Uniti d’America un congruo aumento della quota per gli espatri dei connazionali extra contingente, per dar modo di far fronte in questo periodo di immediato dopo guerra a casi eccezionalissimi in cui considerazioni di umanità impongono di concedere l’autorizzazione all’espatrio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bubbio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del tesoro e della pubblica istruzione, per conoscere se non si ritenga necessario sollecitare il finanziamento per l’istituzione e la trasformazione delle scuole elementari sussidiate in scuole di Stato, in conformità delle proposte già presentate per le singole provincie; i quali provvedimenti si debbono ravvisare indilazionabili di fronte alle esigenze della popolazione ed all’iniziato anno scolastico. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bubbio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere quali effettive misure siano state adottate all’aeroporto di Ciampino in Roma – approdo diretto degli aerei provenienti dal Cairo – in vista del grave andamento dell’epidemia colerica in Egitto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Fausto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere con quale programma e con quali mezzi sia stato impostato il problema della ricostruzione del ponte sul fiume Po, a Piacenza.

«È vero che, da qualche tempo, sono stati intrapresi alcuni lavori, ma essi, oltre che trovarsi ancora allo stato iniziale, procedono con tale lentezza e palese modestia di mezzi, da non rappresentare alcun serio indizio di un concreto e deciso proposito ricostruttivo.

«D’altra parte la ricostruzione di questo ponte – il cui carattere di interesse nazionale non è necessario rilevare – non può oltre procrastinarsi senza enorme danno per le comunicazioni e i traffici tra le regioni interessate.

«Neppure a tale gravissima deficienza può congruamente sopperire la costruzione del ponte in barche elevata a valle, in località Finarda, perché trattasi di un’opera non soltanto di limitata capacità, ma che è pure soggetta a continui periodi di completa interruzione (come in oggi si verifica) in dipendenza delle variazioni del livello delle acque.

«Di qui la necessità di avviare l’intensissimo e vitale traffico verso lontani passaggi, in altre provincie, oppure di ricorrere al sistema del traghetto su barche, con quali ingorghi, ostacoli, insufficienze e spese è inutile descrivere.

«Su questo essenziale problema si richiama pertanto la pronta e rigorosa attenzione dell’Amministrazione competente. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Arata, Pallastrelli, Micheli, Ferrari, Valenti, Mazzoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se è a sua conoscenza, e se la notizia è esatta, che: tutti gli aventi obblighi militari che hanno prestato servizio alle dipendenze della Croce Rossa Italiana nel corso della guerra, invece di ricevere lire 18,50 al giorno, così come era stato disposto dal Ministero della guerra, hanno ricevuto lire 3,30 al giorno come i normali soldati mobilitati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gervasi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per rimuovere la ormai intollerabile situazione creatasi per gli alloggi dei ferrovieri residenti a Pescara.

«Come è risaputo, tale città è una delle più sinistrate di tutto il compartimento di Ancona, nell’ambito del quale si è già provveduto– sia pure insufficientemente – alla costruzione di notevoli lotti di case economiche per i ferrovieri di Terni, Foligno, Ortona, Giulianova, ecc.

«Così ad Ancona si sono costruiti 305 alloggi e si è disposta testé la costruzione di altri 100; mentre a Pescara finora sono stati assegnati appena 40 alloggi, dei quali solo 22 effettivamente costruiti a tutt’oggi. Ciò malgrado che i ferrovieri ivi residenti ammontino a parecchie centinaia e siano tuttora condannati con le loro famiglie ad abitare in tuguri malsani o addirittura lontani dal centro urbano, con grave loro disagio e fors’anco con detrimento del servizio.

«Si chiede pertanto che siano disposti al riguardo, e di urgenza, adeguati provvedimenti, usando ai ferrovieri di Pescara lo stesso trattamento già fatto ai ferrovieri degli altri centri del compartimento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non creda urgente realizzare un programma di costruzioni ferroviarie in Sicilia includendo le linee: 1°) Giardini – Francavilla – Randazzo – Leonforte; 2°) Francavilla – Taormina – Castroreale – Barcellona; 3°) Capo d’Orlando – Naso – Tortorici – Taormina; per rendere giustizia alle laboriose popolazioni di così importanti centri agricoli, che attendono da una perequazione delle spese di utilità pubblica, la valorizzazione e la rinascita dell’economia siciliana. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Basile».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia per segnalare le gravi incertezze sorte presso i vari Tribunali circa l’interpretazione dell’articolo 1 del decreto di amnistia 8 maggio 1947, n. 460, laddove si dichiara che «è concessa amnistia per i reati punibili… nei casi in cui i procedimenti sono tuttora sospesi in applicazione degli articoli 2, 5 e 11 della legge 9 luglio 1940, n. 924».

«La formula «tuttora sospesi» ripete in sostanza l’infelice dizione del decreto di amnistia 2 settembre 1919, n. 1414, che ha dato luogo, presso la magistratura giudicante, a decisioni contraddittorie, finché non vennero emanati i successivi chiarimenti della legge del 1920.

«Qualche Tribunale ha ritenuto che il beneficio sia applicabile soltanto nei casi in cui l’azione penale sia stata arrestata dal verificarsi delle condizioni previste dalla legge 9 luglio 1940, n. 924, e non sia stata più rimessa in moto con qualche atto della procedura.

Qualche altro Tribunale invece ha ritenuto che l’amnistia sia in ogni caso applicabile, quando trattisi di processi che siano stati sospesi per effetto della legge del 1940 e che siano tuttora pendenti in attesa del giudizio.

«La relazione dell’onorevole Ministro sembrerebbe appoggiare questa seconda tesi di più ampia interpretazione del decreto, perché in essa si è posto l’accento su un’unica condizione per l’applicabilità del beneficio, e cioè che il processo sia stato sospeso nel corso delle ostilità; e ciò allo scopo di non colpire con sanzioni di carattere penale chi è già ritornato da lungo tempo alla vita civile, dopo le tragiche vicende della guerra, per fatti che appartengono ormai a un mondo crollato. Del resto è da tenersi presente il criterio che scaturisce dall’articolo 9 del decreto, secondo il quale l’amnistia non si applica nei casi in cui l’imputato, prima che sia pronunziata sentenza di non doversi procedere per amnistia, dichiari di non voler usufruire del beneficio: ciò infatti sta ad indicare che il procedimento ha già subito un atto della procedura, colla citazione e la celebrazione del dibattimento.

«Infine l’interpretazione restrittiva del decreto non solo offenderebbe la larga concezione del Ministro e le ragioni sociali che lo hanno determinato alla concessione del beneficio, ma verrebbe a creare in definitiva una situazione di palese ingiustizia, perché, mentre nei piccoli Tribunali molti processi non potrebbero usufruire dell’amnistia, perché nel frattempo è stato compiuto un atto della procedura, nei grandi Tribunali invece, ove migliaia di procedimenti giacciono, data la enorme mole di lavoro, tuttora fermi, gli imputati verrebbero a godere dell’amnistia.

«In tal modo si verificherebbe una diversità di trattamento non attribuibile alla sostanza del reato e alla natura della causa, ma a motivi estranei al procedimento, dando luogo a casi di palese ingiustizia.

«Ciò premesso gli interroganti domandano che l’onorevole Ministro voglia chiarire il significato e l’estensione dell’articolo 1 del citato decreto d’amnistia, in coerenza colle ragioni dedotte nella relazione al Capo provvisorio dello Stato. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bernardi, Pressinotti, Giacometti, Bonomelli, Vischioni, Mariani Enrico».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dei trasporti, per conoscere se non credano opportuno e giusto estendere a tutto il personale aggregato degli Istituti di prevenzione e di pena (cappellani, sanitari, suore, ecc.) la concessione per i viaggi a riduzione (tariffa C), della quale fruiscono tutti i dipendenti civili delle Amministrazioni dello Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camposarcuno».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri dell’agricoltura e foreste, dei lavori pubblici e del lavoro e previdenza sociale, sul problema del Mezzogiorno e, in particolare, sulle direttive e sui mezzi adottati e da adottare per fronteggiare tempestivamente la grave disoccupazione che affligge quelle regioni e per attendere al tempo stesso alle maggiori e sostanziali esigenze delle popolazioni meridionali.

«Perrone Capano, Caccuri, Sullo, Recca, Rodi, Monterisi».

PRESIDENTE. La prima interrogazione testé letta sarà iscritta all’ordine del giorno e svolta al suo turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 2.40.

Ordine del giorno per le sedute di oggi.

Alle ore 11 e alle 16:

  1. – Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
  2. Discussione dei seguenti disegni di legge:

Norme per la repressione dell’attività fascista e dell’attività diretta alla restaurazione dell’istituto monarchico. (10).

Disposizioni relative al soggiorno nel territorio dello Stato ed ai beni degli ex regnanti di casa Savoia. (11).

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXVI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 29 OTTOBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Disegno di legge (Discussione è approvazione):

Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento. (21).

Presidente

Perassi

Condorelli

Cevolotto, Relatore

Conti

Grassi, Ministro di grazia e giustizia

Marinaro

Tonello

Fabbri, Presidente della Commissione

Avanzini

Dominedò

Gullo Fausto

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Colitto

Benedettini

Lussu

Cianca

Dominedò

Mortati

Schiavetti

Per l’elezione di tre membri della Corte costituzionale prevista dall’articolo 24 dello Statuto della Regione siciliana:

Caronia

Presidente

La seduta comincia alle 10.30.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Tosato.

(È concesso).

Discussione del disegno di legge: Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento. (21).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca Discussione del disegnò di legge: Revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento. (21).

Dichiaro aperta la discussione generale.

PERASSI. Chiedo di parlare..

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Confesso di non avere ben capito la portata di questo disegno di legge. Mi pare che dobbiamo anzitutto vedere quali modificazioni esso porterebbe al diritto vigente.

In questa materia – come si rileva nella relazione ministeriale – esistono già delle norme contenute in diverse leggi: nella legge sullo stato giuridico degli impiegati civili, nella legge concernente i segretari comunali e, ritengo, anche nello stato giuridico degli ufficiali. Vi si prevede la mancata fede al giuramento come un fatto che dà luogo a sanzioni disciplinali, e precisamente a due: la revoca o, nei casi più gravi, la destituzione.

Leggendo il disegno di legge si constata anzitutto che in esso si parla soltanto di revoca. Vuol dire che la destituzione viene tolta come sanzione in questo caso? Ecco la prima domanda.

In secondo luogo, nel progetto del Governo, e soprattutto nel disegno di legge come è stato emendato dalla Commissione, si precisa l’oggetto del fatto che sarebbe colpito da quella sanzione.

In tal caso, è per lo meno da porsi questa domanda: Questa legge, rispetto al diritto vigente, che cosa tende a fare ? Sembra doversi rispondere che essa avrebbe l’effetto di rendere più tenue la sanzione applicabile al caso previsto. Se così è, rilevo che bisogna anzitutto affermare nettamente che non si può qualificare questa legge come una legge eccezionale per il consolidamento della Repubblica. Bisogna dire, invece, che essa viene a mitigare le norme legislative vigenti. Chiedo che a questo riguardo sarebbe utile avere un chiarimento dall’onorevole Relatore.

CONDORELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, è interessante seguire l’evoluzione della legislazione del nostro Paese in questa materia, al fine di consolarci in rapporto ai progressi che costantemente si realizzano sulla via della democrazia e della libertà.

La legge del 1908, fatta ai tempi dei regimi liberali, non prevedeva sanzioni particolari per l’infrazione al giuramento. Ed era ovvio, perché c’era una norma sufficientissima, l’articolo 53 lettera c) che prevedeva la perdita dell’impiego per mancanze contro l’onore e per qualsiasi mancanza che dimostri difetto di senso morale. L’infrazione al giuramento è una delle più gravi mancanze contro l’onore, e chi veramente infrange il giuramento cade indubbiamente sotto questa sanzione.

Fu soltanto il fascismo, al quale oggi ci ricolleghiamo con la legge proposta, che intese il bisogno – per ovvie ragioni – di creare specifiche sanzioni per la contravvenzione al giuramento ed usò le stesse parole che ritornano oggi nella legge democratica che si propone al voto della nostra Assemblea.

Si disse, all’articolo 64 della legge 30 dicembre 1923, che si perde l’ufficio per mancata fede al giuramento, sia che essa si concreti in una o più infrazioni disciplinari, sia in atteggiamenti che contradicano fondamentalmente al giuramento stesso. Non vi è chi non veda la gravità, il carattere inquisitorio della seconda ipotesi di questa legge, perché sono condannati non soltanto le infrazioni disciplinari, ma finanche gli atteggiamenti, ed è solo un regime che si appresta a diventare dittatoriale e che sa di doversi dirigere verso il totalitarismo, che può creare delle sanzioni giuridiche contro gli atteggiamenti.

Però, i progressi della democrazia e della libertà sono continuati nello stesso senso nella legislazione dell’Assemblea Costituente, cioè spero, nei lavori legislativi che precedono le decisioni dell’Assemblea Costituente, perché ancora mi illuderei o vorrei illudermi che un voto negativo dell’Assemblea Costituente potesse disdire quelle che sono le mie facili previsioni sulla sorte di questa legge.

Il progetto ministeriale, che vorrebbe essere un attenuazione della legge fascista, in fondo, mi pare che non l’attenui affatto, perché parla ancora di infrazioni disciplinari ma sente il bisogno di calcare l’accento sull’aspetto politico di queste infrazioni disciplinari. Difatti, mentre la legge fascista parlava di «una o più infrazioni disciplinari», la legge che si propone all’Assemblea democratica italiana parla di «infrazioni disciplinari in rapporto al contenuto politico del giuramento».

Ma quello che veramente sorprende è che la Commissione non si è contentata di quello che ha fatto e di quello che ha proposto il Governo. Ha creduto di andare oltre perché, mentre il Governo si ferma alle infrazioni disciplinari, che sono delle entità giuridiche abbastanza chiare e determinate, la Commissione propone che non si parli più di infrazioni disciplinari, ma si scenda nell’indeterminato, si parli di atti in genere, cioè di atti i quali teoricamente potrebbero anche non rivestire il carattere di infrazioni disciplinari, ma che comunque denunzino al giudice, denunzino all’inquisitore, una tendenza a venir meno al giuramento, che sia in contrasto con il giuramento.

Certamente non è un progresso quello che ha fatto la Commissione. In questa situazione onorevoli colleghi, chi è liberale, chi crede nelle sorti della democrazia, di fronte alle proposte del Governo, di fronte alle proposte della Commissione, trova un rifugio nella legge fascista, che è certamente più liberale.

Io vorrei il voto contrario contro questa legge e vorrei la soppressione di quell’infame articolo della legge fascista che condanna, alla luce del secondo ventesimo, financo gli atteggiamenti; e mi preoccupo… delle mie basette, le quali potrebbero essere considerate come un atteggiamento, che sono anzi già state considerate in questa Assemblea come un atteggiamento.

E vorrei che si tornasse alla legge del 1908, la quale considera l’infrazione al giuramento sotto l’unica specie sotto cui va considerata, come mancanza alla fede, all’onore. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Relatore a esprimere il parere della Commissione.

CEVOLOTTO, Relatore. Onorevoli colleghi, l’onorevole Perassi ha chiesto spiegazioni sull’origine di questa legge e sui motivi che hanno determinato il Ministero a proporla. Credo che sia il Governo precedente a questo che ha proposto la legge; ad ogni modo, l’intenzione del Ministero, chiara ed evidente, è stata proprio quella di attenuare le sanzioni tuttora in vigore per la mancata fede al giuramento.

Attualmente, infatti, vige il testo unico sull’impiego civile, il quale, agli articoli 64 e 65, commina, per la mancata fede al giuramento, la revoca dall’impiego e, nei casi più gravi, la destituzione. Per la mancata fede al giuramento, indiscriminatamente. La legge che propone il Governo stabilisce invece che le infrazioni al giuramento, la mancata fede al giuramento, punibili con la sola revoca dall’impiego, quindi con una sanzione minore, anche per i casi più gravi, della destituzione, sono le infrazioni commesse nell’esercizio delle funzioni.

Fuori quindi dell’esercizio delle funzioni dell’impiegato, l’atteggiamento di ognuno è perfettamente libero e un impiegato il quale, ad esempio, dopo aver giurato, faccia, fuori dell’esercizio delle sue funzioni impiegatizie, propaganda monarchica, o si dichiari monarchico, o si iscriva ad un circolo monarchico non è punibile.

È evidente, quindi, che ciò che ha detto l’onorevole Condorelli non ha fondamento, perché, se si tornasse alla formula, un po’ vaga, della legge del 1908, che parla di perdita dell’impiego per mancanza contro l’onore, e si intendesse per mancanza contro l’onore qualunque infrazione al giuramento, si dovrebbe estendere il giudizio anche a quegli atteggiamenti o a quelle infrazioni che fossero compiute fuori dell’esercizio delle funzioni impiegatizie.

Sotto questo aspetto non vi è dubbio che la nuova legge non è, in realtà, una legge che aggravi la situazione precedente, ma anzi è una legge che l’attenua. Nella volontà del Governo proponente è chiaro che si è voluto democraticamente lasciare libertà di atteggiamento a tutti, fuori dell’esercizio delle funzioni, in modo che il giuramento riguardi soltanto ciò che l’impiegato compie nel suo ufficio, ma non lo vincoli per la sua azione nella vita privata.

Non vi è il carattere inquisitoriale della legge cui ha accennato l’onorevole Condorelli. La Commissione si è preoccupata di modificare, molto lievemente, il testo proposto dal Governo. Questo diceva che gli impiegati che «commettono una o più infrazioni disciplinari che contrastino direttamente col giuramento prestato» sono revocati dall’impiego. La Commissione ha proposto di sostituire ad «infrazioni disciplinari» la parola «atti». Tanto poco vi è un carattere o una intenzione inquisitoriale in questo, che la proposta è partita da tutta la Commissione. Perché, se anche si vuole escludere che l’atto, compiuto fuori dal servizio o fuori dall’impiego sia comunque censurabile, è evidente che nell’esercizio delle funzioni non si può ammettere che l’impiegato sia passibile di sanzione soltanto se compia un’infrazione disciplinare, e non anche se compia un atto che non sia infrazione disciplinare, ma che sia comunque contrario al giuramento. Poniamo (per fare un esempio) il caso dell’impiegato che nel suo ufficio distribuisca del materiale – giornali od opuscoli di propaganda monarchica – mano a mano che gli impiegati vengono a contatto con lui. Si può discutere se questa sia un’infrazione disciplinar. D’accordo che tutto può essere «infrazione disciplinare» in ufficio, perché si può due che un impiegato non deve far niente che sia estraneo al suo ufficio, nell’interno dell’ufficio stesso. Ma il fatto di regalare un giornale o un opuscolo può anche non essere valutato come infrazione disciplinare. Ma si può ammettere che sia lecita un’azione di questa specie?

Così pure, quando il testo proposto dal Governo parla di atteggiamenti in fondamentale contrasto con il giuramento, si riferisce a fatti che nell’ufficio non possono essere tollerati. Pensate, per esempio, a un impiegato il quale si presenti costantemente in ufficio ostentando un distintivo monarchico, per dimostrare pubblicamente, in ufficio, la sua fede in contrasto con quella giurata alla Repubblica. Non si tratta – in questo caso – di un’infrazione disciplinare; questo non è neanche un atto, è un atteggiamento. Ma l’atteggiamento non è tollerabile.

Ecco la ragione per la quale abbiamo mantenuto il testo che è stato proposto dal Governo. Non mi pare che perciò la legge possa essere definita una legge inquisitoriale.

Si è proposto alla Commissione un quesito, che la Commissione non ha risolto e che ha lasciato risolvere alla Costituente. Ed è questo: la volontà di restringere nell’ambito delle funzioni il giudizio sugli atti e sugli atteggiamenti degli impiegati può essere democraticamente plausibile e va accettata senza riserva per quel che si riferisce agli impiegati civili, ma è ammissibile per gli ufficiali delle Forze armate? Ecco il problema.

Era stato proposto un emendamento il quale stabilisce che per gli ufficiali delle Forze armate, in ogni caso, gli atti e gli atteggiamenti fuori di servizio in contrasto poi giuramento prestato dovevano portare alla perdita dell’impiego.

Ma poi la Commissione non ha formulato una precisa proposta anche perché, dal esame della situazione dei militari, si passava necessariamente all’esame anche di altre situazioni degne anch’esse di attenzione. Per esempio, è ammissibile che un questore, sia pure fuori dal suo ufficio, si iscriva ad un circolo monarchico, faccia propaganda monarchica, si dichiari apertamente monarchico? Evidentemente no.

Non ci siamo nascosti la difficoltà della posizione ed abbiamo quindi mantenuto su questo punto il testo proposto dal Governo senza emendamenti, lasciando alla Costituente di vedere se alcuni casi particolari dovranno essere regolati in modo differente.

CONTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONTI. Ho già avuto occasione di dichiararlo, e ripeto che io voterò contro questa legge, come voterò contro quella che dovrà venire in discussione domani. Qualunque limitazione della libertà mi troverà sempre contrario! Però, all’onorevole Condorelli e ai colleghi monarchici o liberali e agli altri che non so che cosa siano in definitiva…

CONDORELLI. Quello che sono io lo sanno tutti perché lo dico sempre!

CONTI. Essi dicono che la Repubblica è liberticida, che la povera monarchia ci faceva vivere una vita deliziosa.

CONDORELLI. Sempre!

CONTI. Onorevole Condorelli, domani quando si discuteranno le leggine per la repressione del fascismo e dei tentativi di restaurazione monarchica, l’affogherò con le documentazioni!

CONDORELLI. Badi che so nuotare! (Si ride).

CONTI. Non se la caverà, glielo dico io!

Oggi desidero dire una mia parola a proposito di queste disposizioni sul comportamento degli impiegati. Non si vogliono impiegati monarchici. E perché non si devono lasciare? Che volete che facciano gli impiegati monarchici?

Io ne conosco qualcuno e qualcuno temerario. Giorni or sono, in un ufficio militare, un avvocato ha assistito ad escandescenze di un pover’uomo, che disse parole irriguardose perfino contro il Presidente della Repubblica! È un disgraziato! Ma che gli volete fare? Io l’avrei invitato a prendere un caffè o gli avrei detto di prendere un gelato, così si sarebbe calmato!

Però, onorevoli monarchici, bisogna che vi ricordiate sempre che la monarchia è stata la persecutrice della libertà in tutti i tempi! (Interruzione del deputato Russo Perez). Onorevole Russo Perez, questa non è materia su cui si possa scherzare o fare dell’ipocrisia.

RUSSO PEREZ. Onorevole Conti, durante la monarchia lei non è stato mai molestato da nessuno. È l’esempio della vigoria fisica.

CONTI. In questa materia io non transigo.

RUSSO PEREZ. Lo so!

CONTI. Voi dite che si fa luogo, con questa legge, alla persecuzione all’impiegato. Ma la monarchia appena mise mano ai poteri dopo la caduta del Borbone, dell’Austria e degli altri regimi del passato, incominciò subito a fare falcidie nel campo impiegatizio. Ecco tra i tanti casi: Eugenio Rossi, di Reggio Emilia, sostituto segretario della Procura generale a Modena, il 2 gennaio 1860 fu destituito dall’impiego per il contegno politico dopo l’assunzione in servizio.

CONDORELLI. Era contro l’unità d’Italia, non contro la monarchia.

CONTI. Ma che dice? Domani gliene racconterò parecchie. Faremo divertire l’Assemblea una mezz’ora.

Il pensiero è sempre stato perseguitato dalla monarchia. L’onorevole Condorelli, che è abbastanza colto, non ha dimenticato il nome di Ruggero Bonghi. Ebbene, Ruggero Bonghi non fu sottoposto a giudizio disciplinare quando difese il principio monarchico puro, quando, col suo famoso opuscolo sulla costituzionalità o meno del regime monarchico, sostenne che non si poteva ammettere che il regime monarchico costituzionale diventasse un regime parlamentare?

GASPAROTTO. E Carducci?

CONTI. Giolitti, il grande liberale, perseguitò Bonghi fino al punto che voleva farlo destituire da Consigliere di Stato.

CONDORELLI. Ma questa era la monarchia? Era il Re che faceva questo? Ma la legge è legge.

CONTI. Voglio ricordare un altro episodio. Il professore Maffeo Pantaleoni fu sottoposto a procedura disciplinare dal Consiglio superiore della pubblica istruzione per avere, in una sua lettera al Secolo, nel 1896, dopo la disfatta di Adua, quindi ad una certa età matura della monarchia in Italia, fatto allusione al «Signore che tutti sanno». Il «Signore che tutti sanno» era Umberto, il responsabile del disastro africano del 1896.

Onorevole Condorelli, Pantaleoni dovette riparare in Svizzera e tutti sappiamo che fu onorato con l’assunzione alla cattedra di economia della Università di Ginevra.

Onorevole Presidente, per oggi non ho niente altro da dire.

CEVOLOTTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO, Relatore. Ho chiesto di parlare per avvertire l’Assemblea che occorre aggiungere l’articolo 2, del seguente tenore:

«La presente legge costituzionale entra in vigore il giorno successivo alla sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale».

È una formula che non si può omettere.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Mi sembra che anche qui ci sia l’equivoco sorto ieri a proposito del disegno di legge portante modificazioni al Codice penale. Anche questa, che stiamo esaminando, non è una legge costituzionale. È irrilevante, agli effetti di tale qualificazione, che l’esame del disegno di legge sia stato deferito alla Commissione della Costituzione. Quindi l’articolo deve essere quello usato per le leggi ordinarie.

CEVOLOTTO, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CEVOLOTTO, Relatore. La Commissione ed io abbiamo ritenuto che si tratti di una legge costituzionale, per il fatto che è stata mandata alla Commissione dei Settantacinque, invece che alla normale Commissione legislativa.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, io difendo una legge già preparata dal precedente Gabinetto e che viene in discussione presso l’Assemblea solo oggi. Le osservazioni fatte dall’onorevole Perassi, che si concludono nel dire che sarebbe inutile questo provvedimento, in quanto che già le leggi esistenti prevedono le conseguenze della mancata fedeltà al giuramento, trovano, secondo me e secondo la Commissione, difficoltà di applicazione nella legge del 23 dicembre 1946, che stabilì le nuove formule del giuramento da prestarsi, e lo estese, oltre che ai dipendenti civili dello Stato, a cui si riferisce la legge del 30 dicembre 1923 sullo stato giuridico degli impiegati, ed oltre che ai segretari comunali, a tutti i dipendenti locali. Quindi l’estensione del giuramento ha reso necessario, secondo il Governo, la presentazione di questo disegno di legge, il quale cercasse di estendere anche alle altre categorie quello che era disposto per alcune categorie. Si è creduto, pertanto, di fare una disposizione unica e si è ritenuto opportuno introdurre con questo articolo unico la possibilità di dare una disposizione di sanzione rispetto alla mancata fedeltà al giuramento.

Per quanto si riferisce, poi, alle osservazioni mosse in un senso e nell’altro – sensi che poi tutti quanti si congiungono in una forma negativa – da parte degli onorevoli Condorelli e Conti, la ragione mi pare sia stata già esposta da parte del Relatore. Non è che la disposizione non esiste. La disposizione c’è già. La possibilità della revoca non è un fatto che si introduce con questa legge, la quale non cerca che adattare disposizioni, già esistenti in una legge del 1923, alla situazione creatasi con la nuova formula del giuramento nei confronti della Repubblica.

Si dice: voi avreste dovuto abolire il paragrafo f) dell’articolo 64 in quanto che questo è stato introdotto dal fascismo, perché prima del fascismo l’articolo 64 si fermava alla revoca dell’impiego per mancanze contro l’onore, ecc. ecc. È vero. Il fascismo ha introdotto questo paragrafo f), ma le leggi fasciste sono disgraziatamente ancora in vigore. Quindi, in fondo, questa disposizione non fa che sostituire, ad una legge che esisteva, delle disposizioni che, secondo quello che ha detto il Relatore, sono state attenuate, perché si è stabilito tassativamente che le infrazioni disciplinari sono considerate in quanto possano imputarsi all’impiegato; non al cittadino, ma all’impiegato nelle sue funzioni, nel suo ufficio. Ecco la limitazione. Si mantiene l’infrazione nel campo dell’ufficio, nel campo delle funzioni. Ed ecco perché diventa infrazione e non è atto semplice. Non solo, ma quando si parla di atteggiamento, come nell’articolo 64 del 1923 si parlava di atteggiamento che contraddicesse fondamentalmente al giuramento stesso, si è detto non solo che questo atteggiamento è nel campo dell’attività dell’impiegato e non del cittadino, ma si è voluto far risaltare che l’atteggiamento deve essere di fedeltà al nuovo ordinamento istituzionale dello Stato. Questa è la portata del provvedimento. Quindi è inutile drammatizzare. Non si è voluto fare molto di più di quello che c’era effettivamente nella legislazione e che non è stato abolito: si è voluto soltanto completare, si è voluto precisare meglio che l’atteggiamento non è generico contro il giuramento, ma contro il giuramento in quanto vincolo di fedeltà all’istituto della Repubblica e all’osservanza delle leggi, mentre prima non si precisavano questi due limiti.

Data questa portata, mi pare che la legge debba essere confortata dal vostro voto. Voi tutti volete innestare la legislazione precedente all’istituto repubblicano, confermato dopo il referendum del 2 giugno.

Per quanto si riferisce alle modifiche apportate dalla Commissione, si tratta soltanto di una modifica in senso tecnico. La Commissione ha proposto di dire, invece che «infrazioni», «atti». Vorrei pregare la Commissione di mantenere il testo governativo, perché l’infrazione rappresenta l’atto proprio nell’esercizio delle funzioni, che diventa infrazione.

lo penso che il testo, così come è stato formulato dal Governo, potrebbe rispondere meglio a quei concetti ai quali vuole ispirarsi il provvedimento stesso. L’onorevole relatore ha accennato all’eventualità di un emendamento, che non è stato presentato, e che quindi sarebbe inutile discutere: se sia il caso cioè di aggiungere un comma per le Forze armate. Ma io credo che basti mantenersi nei limiti delle disposizioni stabilite nel nostro testo, il quale è effettivamente esauriente: si rivolge agli impiegati civili, che sono regolali dallo stato giuridico del 1923; e si rivolge ai militari e a tutti i dipendenti degli enti locali.

PERASSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERASSI. Vorrei solo chiarire un equivoco. Non ho detto che la legge è inutile. Mi ero posto un quesito sulla portata della legge rispetto allo stato attuale della legislazione e sono lieto di aver provocato i chiarimenti dell’onorevole Relatore. Ciò che interessa rilevare è, soprattutto, che la legge attenua le norme vigenti in materia. Le attenua nel senso che precisa meglio l’oggetto della sanzione disciplinare e – almeno così risulta dal testo – prevede solo la revoca. Stando al testo proposto, la destituzione non sarebbe più in nessun caso applicabile per mancata fede al giuramento, mentre le leggi vigenti prevedono la revoca e, nei casi più gravi, la destituzione.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. L’articolo 65 rimane lo stesso.

PERASSI. Questo è un punto delicato: una volta adottato questo disegno di legge, si ammette che unica sanzione disciplinare per mancata fede al giuramento è la revoca. Mi pare difficile sostenere una tesi diversa.

Comunque, se c’è questo dubbio, si potrebbe chiarire.

Il mio intervento, ad ogni modo, desidero ripeterlo, aveva unicamente lo scopo di mettere in evidenza che, secondo il testo presentato, la legge non si può affatto qualificare come una. legge eccezionale.

MARINARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha. facoltà.

MARINARO. Concordo quasi del tutto con l’onorevole Perassi: non ha niente a che vedere in questa questione l’articolo 64 della, legge sullo stato giuridico degli impiegati, al quale fa esplicito riferimento la relazione ministeriale. Essa infatti dice che scopo di questa legge è anzitutto quello di confermare la disposizione dell’articolo 64 della legge del 1923.

Ora, nello scorso anno, il 23 dicembre, abbiamo approvato una legge sul giuramento, che in questa Aula si disse essere legge di carattere assolutamente formale, non sostanziale; e questa dichiarazione, che venne da più parti dell’Assemblea, fece in modo che la legge fosse approvata con una entità di voti veramente rilevante. Ora, il giuramento che gli impiegati dello Stato hanno prestato successivamente a quella data è il giuramento prescritto dalla legge 23 dicembre 1946, la quale stabiliva delle formule speciali in relazione al nuovo Stato repubblicano. Non solo, ma tutti gli impiegati, che avevano precedentemente prestato giuramento secondo la legge sullo stato giuridico del 1923, furono invitati, tutti indistintamente, a rinnovare il giuramento in base alle nuove disposizioni conformi alle istituzioni repubblicane dello Stato.

Questo concetto, che affiora nella relazione ministeriale, fatto proprio dalla Sottocommissione e poi dalla Commissione dei Settantacinque, è concetto perfettamente pretestuoso e non ha riferimento alcuno con l’articolo 64 della legge sullo stato giuridico degli impiegati.

Non solo per queste ragioni io voterò contro questo disegno di legge, ma anche per una questione di sostanza, in quanto che nella stessa relazione ministeriale si legge che «era indispensabile determinare l’elemento materiale che avrebbe portato alla revoca dall’impiego». Questo elemento materiale è ben definito e determinato in tutte le disposizioni regolamentari di ogni singola amministrazione; di guisa che sembra oggi difficile, direi assurdo, collegare la mancata fede al giuramento, un fatto cioè che può considerarsi retrospettivo, con la infrazione disciplinare.

In questo mi sembra che stia soprattutto la mostruosità del concetto contenuto nella leggina in esame. In sostanza, onorevoli colleghi, noi processiamo un impiegato, fino al punto di destituirlo dall’impiego, per il solo fatto di supporre, poiché nessuno potrà mai accertarlo, che ci sia stata una intenzionale mancata fede al giuramento prestato, nella estrinsecazione di un fatto disciplinare che si riferisce all’adempimento dei propri doveri di ufficio.

Per l’un motivo e per l’altro, a me pare che le considerazioni fatte nella relazione ministeriale e nella relazione della Commissione siano del tutto infondate.

Ma voglio richiamare l’attenzione dell’Assemblea su altra circostanza, che mi sembra di capitale importanza. Sostanzialmente, quest’articolo unico, specialmente nella forma, non fa altro che riprodurre l’articolo 51-bis della legge sullo stato giuridico degli impiegati del 1923; questo articolo, che fu uno dei più mostruosi strumenti di persecuzione da parte del fascismo, fu abolito, successivamente alla liberazione, dal Governo di quell’epoca con apposito decreto del 16 novembre 1945, poiché si ritenne che quella disposizione, introdotta dal fascismo nel 1927, fosse uno strumento di persecuzione.

Ora, a distanza di appena due anni non si fa altro che far rivivere quella disposizione dell’articolo 51-bis che i Governi precedenti avevano abolito. E questo mi sembra veramente inconcepibile. Sembra anzi fatale, onorevoli colleghi, che l’antifascismo, sempre che voglia dare una prova manifesta di quella che è stata l’attività del fascismo, non sappia far altro che battere le stesse vie del fascismo. (Applausi a destra – Commenti all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

CEVOLOTTO. Relatore. La risposta all’onorevole Marinaro è molto semplice e molto breve. Dire che il giuramento è una legge formale e non una legge sostanziale mi pare che non significhi niente, mi scusi l’onorevole Marinaro. Noi abbiamo, bene o male – si può essere favorevoli o contrari per ragioni di principio – stabilito che gli impiegati debbono giurare; e questo giuramento deve essere una cosa seria. Sarebbe assurdo imporre un giuramento e poi ammettere che questo giuramento lo si è richiesto per ischerzo e che chi, nell’esercizio delle sue funzioni, manca fede al giuramento non deve subire alcuna sanzione.

Quanto all’osservazione dell’onorevole Marinaro, che l’articolo 64 del testo unico sull’impiego civile (che stabilisce la revoca, per mancata fede al giuramento in tutti i casi, anche per la mancata fede commessa fuori d’ufficio, anche nell’estrinsecazione dell’attività politica privata), si potrebbe applicare solo a giuramenti anteriori e non al giuramento ora richiesto dalla nostra Repubblica, mi sembra che sia basato su un errore. Qualunque sia il giuramento che è imposto in un dato momento, se vi è una disposizione di legge sullo stato giuridico degli impiegati, la quale stabilisce una sanzione per la mancata fede al giuramento, essa si applica alla mancata fede anche a questo giuramento. Quindi è perfettamente esatta la posizione assunta dalla Commissione.

Nemmeno mi pare esatto dire che L’attuale disegno di legge riproduce l’articolo 51-bis della legge del 1923. Abbiamo detto ed abbiamo chiarito, ed il Ministro ha spiegato nel modo più preciso, il perché dalla nuova disposizione che, come l’onorevole Perassi giustamente ha osservato, attenua e non aggrava le sanzioni contro chi manca al giuramento ed impone la fedeltà al giuramento all’impiegato soltanto nell’ambito delle sue funzioni impiegatizie. Questo è naturalmente necessario, per la dignità stessa dell’amministrazione e per la dignità stessa del giuramento, che altrimenti diventerebbe una formalità priva di qualsiasi significato. Sarà un bene o sarà un male imporre il giuramento? Su questo si può discutere. Ma una volta ammesso il giuramento, ci deve essere una pronta e severa sanzione per chi vi manca nell’esercizio delle proprie funzioni.

Quanto poi all’osservazione dell’onorevole Perassi, che cioè questa legge, così limitata, non è una legge costituzionale, la Commissione, credo, si rimette all’Assemblea. Può essere vero che, così limitata, questa non si può considerare una legge costituzionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, io non ho che da confermare quanto l’onorevole Relatore ha detto nei confronti delle dichiarazioni fatte dall’onorevole Marinaro.

Qui non si tratta di riprodurre un nuovo articolo 51-bis, ma di ridurre la portata larga dell’ultimo comma dell’articolo 64. È inutile dire frasi roboanti, su di una disposizione molto semplice in esecuzione ad un giuramento prestato, giuramento che lega tutti gli impiegati dello Stato repubblicano. Fuori dello Stato, il cittadino può essere libero di fare quello che crede, ma nel campo dello Stato bisogna che mantenga fede al giuramento prestato.

Questa è la portata dell’articolo. Io sono un liberale e credo che si mantenga rispetto alla libertà quando si dice che i funzionari, nel campo delle loro funzioni, devono rispettare il giuramento che hanno prestato.

Per quello che si riferisce all’articolo 2, proposto dal Relatore, io condivido le osservazioni dell’onorevole Perassi. Queste non sono norme di portata costituzionale perché noi ci inseriamo in un regolamento dello stato giuridico, che non è una legge costituzionale. E dobbiamo anche considerare che una legge costituzionale implicherebbe poi quelle tali revisioni, con quei tali quorum, che l’Assemblea non ha ancora approvato. La formula dev’essere compilata secondo la proposta dell’onorevole Perassi.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Ho chiesto di parlare per un chiarimento. Volere o no questa è una legge di eccezione. Dato il momento che attraversiamo, con le attuali agitazioni di carattere economico, anche i funzionari dello Stato, per non morire di fame, possono essere costretti ad uno sciopero. Domani, un Governo reazionario potrebbe dire: voi, funzionari dello Stato, non siete andati in ufficio, non avete adempiuto con fedeltà ed onore alle vostre funzioni. Ora, io chiedo: si può applicare la legge in questo caso? Bisogna che la Camera lo dica chiaramente, perché allora è una legge da forca ed io non la voterò.

CEVOLOTTO, Relatore. Mi pare chiaro ed evidente che non può il fatto dello sciopero essere compreso nella mancata fede al giuramento.

TONELLO. Mi basta questa dichiarazione.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la. discussione generale. Passiamo all’esame dell’articolo 1 il quale, nel testo del Governo, è del seguente tenore:

«Il dipendente civile o militare dello Stato o il dipendente degli Enti locali, tenuti a prestare giuramento a norma degli articoli 2, 3 e 4 della legge 23 dicembre 1946, n. 478, incorrono nella revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento, indipendentemente dall’eventuale azione penale, se commettono una o più infrazioni disciplinari che contrastino direttamente col giuramento prestato, ovvero se assumono, nell’esercizio delle loro funzioni, atteggiamenti in fondamentale contradizione con l’obbligo di fedeltà alla Repubblica e al suo Capo, o di leale osservanza delle leggi dello Stato».

La Commissione ha proposto la seguente formulazione:

«I dipendenti civili o militari dello Stato o dipendenti degli Enti locali, che hanno prestato giuramento a norma degli articoli 2, 3 e 4 della legge 23 dicembre 1946, n. 478, incorrono nella revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento, indipendentemente dall’eventuale azione penale, se commettono, nell’esercizio delle loro funzioni, uno o più atti che contrastino direttamente col giuramento stesso, ovvero se assumono, nell’esercizio delle loro funzioni, atteggiamenti in fondamentale contradizione coll’obbligo di fedeltà alla Repubblica e al suo Capo, o di leale osservanza delle leggi dello Stato».

Prego il Ministro di grazia e giustizia di dichiarare se accetta che si discuta sul testo della Commissione.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Accetto il testo della Commissione, però domando alla Commissione se insiste nella sostituzione della parola «atti» alla formula: «infrazioni disciplinari».

PRESIDENTE. L’onorevole Fabbri ha facoltà di rispondere in nome della Commissione.

FABBRI, Presidente della Commissione. La maggioranza della Commissione è stata favorevole all’espressione «atti» anziché a quella di «infrazioni disciplinari» perché è parso che la frase «infrazioni disciplinari» messa in relazione all’impiego implicasse anche il concetto di lievi mancanze, rispetto alle quali l’unica sanzione prevista della revoca dall’impiego risultava di evidente gravità e inesorabilità. È parso alla Commissione che bisognasse bensì rimanere nell’ambito di quelli che sono i doveri dell’impiego civile o militare, ma che una eventuale infrazione di carattere disciplinare non potesse implicare di per sé la sanzione prevista da questa legge, che è quella gravissima, da applicarsi soltanto nei casi estremi, secondo la legge sull’impiego pubblico. Questo è stato il concetto per cui effettivamente la maggioranza della Commissione deliberò, dopo avere attentamente esaminato il problema, la sostituzione della espressione «atti» con quella di «infrazioni». Ora, siccome io non ho adesso la possibilità di consultare la Commissione, non posso che riferire quella che è stata la determinazione della maggioranza.

PRESIDENTE. Comunico che gli onorevoli Condorelli, Colitto, Rodi, Bergamini, Corbino, Perrone Capano, Rodinò Mario ed altri hanno proposto il seguente emendamento sostitutivo:

«È abrogata la disposizione di cui alla lettera f) del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2960, ed è sostituita con la seguente:

«Si incorre nella revoca dell’impiego per mancanza contro l’onore e per qualsiasi mancanza che dimostri difetto di senso morale».

L’onorevole Condorelli ha già svolto questo emendamento.

L’onorevole Avanzini ha presentato un emendamento del seguente tenore:

«Sopprimere le ultime parole dell’articolo unico, dalle parole: ovvero se assumono, ecc.».

L’onorevole Avanzini ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

AVANZINI. Già qualche altro oratore ha accennato alla opportunità della soppressione delle ultime parole dell’articolo 1 della legge. Io l’avevo già proposto perché mi pareva appunto, che questa parte dell’articolo portasse la legge all’arbitrio o alla indeterminatezza.

Il richiamo alla infrazione disciplinare esaurisce tutta intera la materia delle sanzioni e mi sembra che non vi sia bisogno di aggiungere altro.

C’è di più: questo richiamo della infrazione disciplinare fissa il fatto, lo individua, come oggetto della sanzione, mentre «atteggiamento» è un termine eccessivamente generico e vago, talché si presta ad una valutazione estremamente soggettiva, in quanto per atteggiamento potrebbe essere considerata anche una parola, un gesto, un attacco qualsiasi; e non bisogna dimenticare che questo troverebbe una sanzione gravissima, che consiste nella revoca dall’impiego.

Quindi, a nostro avviso, onorevoli colleghi, la prima parte dell’articolo esaurisce completamente la tutela della fede che deve essere mantenuta al giuramento e pertanto si presenta opportuna la soppressione della seconda parte.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

CEVOLOTTO, Relatore. Per quanto si riferisce all’emendamento dell’onorevole Condorelli, quello che abbiamo già detto in precedenza l’onorevole Fabbri ed io e quello che ha detto il Ministro, chiarisce perché la Commissione non può accettarlo.

Per quanto si riferisce all’emendamento proposto dall’onorevole Avanzini, noi non ci nascondiamo che, col fatto di aver sostituito la parola «atti» alle parole «infrazioni disciplinari», realmente ci si è avvicinati in questa prima parte, con una migliore specificazione, al concetto della seconda parte dell’articolo. Mentre la distinzione fra «infrazioni disciplinari» e «atteggiamenti» era molto chiara nel testo ministeriale, invece la diversità tra «atti» e «atteggiamenti» è molto meno rilevante.

Quindi, su questo punto la Commissione si rimette alla Assemblea.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di esprimere il parere del Governo.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Confermo quanto ha detto il Relatore. Non possiamo accettare la proposta abrogativa della lettera f) dell’articolo 64 per sostituirla con quanto propone l’onorevole Condorelli, perché la Lettera e) dice proprio quello che vuol dire l’onorevole Condorelli. C’è già la revoca dall’impiego per mancanza contro l’onore e per qualsiasi mancanza che dimostri difetto di senso morale.

Circa l’emendamento presentato dall’onorevole Avanzini, io confermo quello che ha detto il Relatore. La posizione assunta dal Governo riguardava due situazioni diverse: una era infrazione, e quindi due infrazioni potevano portare alla revoca, anche se non riferentesi al giuramento. Ma se si vuole adottare il testo della Commissione, osservo che la parola «atti» non significa «infrazioni». Se si adottasse questa formula potremmo considerare inutile la seconda parte: però penso che bisogna sempre mantenere le ultime parole.

FABBRI, Presidente della Commissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI, Presidente della Commissione. Con La soppressione proposta dall’onorevole Avanzini è evidente che si richiama la formula che è stata assunta dal giurante e quindi tutta la parte successiva potrebbe cadere, sempre secondo la proposta Avanzini.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. In ogni modo, mi rimetto alla Commissione.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Vorrei chiedere un chiarimento. C’è una ulteriore differenza tra il testo del Governo e quello della Commissione, quando si parla, nel primo, di «dipendenti tenuti a prestare giuramento» e, nel secondo, «dipendenti… che hanno prestato giuramento».

Gradirei conoscere la posizione che prende il Governo.

PRESIDENTE. Mi pare che l’onorevole Ministro abbia detto di esser disposto ad accedere al testo della Commissione: comunque l’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Ho già detto che possiamo anche accettare il testo della Commissione; l’importante è che i dipendenti siano tenuti al giuramento: se poi l’hanno già prestato o debbono ancora prestarlo, è cosa di poca importanza.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, mantiene il suo emendamento?

CONDORELLI. Lo mantengo, onorevole Presidente, e vorrei, nel tempo stesso, pregare l’onorevole Ministro di un chiarimento: la lettera e) dell’articolo 64 relativa alla mancata fede al giuramento, sia che essa si concreti in una o più infrazioni disciplinari, non è la stessa lettera f) di cui ho proposto io l’abrogazione?

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Mi pare di essere stato molto chiaro. L’onorevole Condorelli propone, in altri termini, l’abrogazione della lettera f) sostituendo le seguenti parole: «Si incorre nella revoca dell’impiego per mancanza al senso dell’onore e per qualsiasi mancanza che dimostri difetto di senso morale». Ora, io ho osservato che la lettera e) dell’articolo 64 dice già sostanzialmente la stessa cosa: questo è il punto.

CONDORELLI. Si tratta di abrogare una legge illiberale e antidemocratica; comunque, limito il testo del mio emendamento alle parole: «È abrogata la disposizione di cui alla lettera f) del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2960».

PRESIDENTE. Va bene. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Condorelli.

(Non è approvato).

Onorevole Avanzini, mantiene il suo emendamento?

AVANZINI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Gullo Fausto ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire alle parole: che hanno prestato, le parole: che prestano».

Domando se è appoggiato.

(È appoggiato).

Invito l’onorevole Cevolotto ad esprimere il parere della Commissione.

CEVOLOTTO, Relatore. L’emendamento dell’onorevole Gullo è dettato evidentemente da questo scrupolo: che la formula «che hanno prestato giuramento» possa riferirsi soltanto a quegli impiegati che al momento dell’entrata in vigore della legge hanno già prestato giuramento, non a tutti quelli che lo presteranno in seguito.

È una questione di forma, quindi, non di sostanza. La Commissione si rimette all’Assemblea, sebbene lo scrupolo dell’onorevole Gullo sembri forse eccessivo.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Governo?

GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Concordo con l’onorevole Relatore.

FABBRI, Presidente della Commissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI, Presidente della Commissione. In linea di chiarimento posso dire che la maggioranza della Commissione variò la formula «che sono tenuti a prestare» in quella «che hanno prestato», in quanto partì dal concetto che una grave sanzione per mancata fede al giuramento lo presupponga e non si possa irrogare a coloro che eventualmente si rifiutino di prestarlo.

Non capisco nemmeno – e in questo momento parlo a titolo personale – la portata precisa della sostituzione proposta dall’onorevole Gullo, perché nel momento in cui i dipendenti dall’amministrazione prestano il giuramento evidentemente non possono contravvenirvi, ma ciò può accadere solo dopo che lo hanno prestato. Quindi non vedo le ragioni della modifica proposta dall’onorevole Gullo, mentre ho dette le ragioni della modifica introdotta deliberatamente dalla maggioranza della Commissione.

GULLO FAUSTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO FAUSTO. Io ne faccio una questione di tecnica legislativa, perché la legge usa sempre il presente. Nel momento che giura l’impiegato deve sapere che incorre nella sanzione ove manchi al giuramento. Non si dice, infatti, «chi ha ucciso, è punito», ma «chi cagiona la morte, è punito», perché nel momento in cui uccide, deve sapere che incorre nella punizione. Tecnicamente, la legge usa sempre il presente. Quindi l’impiegato, nel momento in cui presta giuramento, sa di incorrere nelle pene stabilite ove manchi ad esso.

Potrebbe darsi luogo, poi, a questo equivoco: anzi, letteralmente parlando, la legge andrebbe interpretata così: soltanto chi ha giurato alla data della entrata in vigore della legge, incorrerebbe nelle pene previste.

PRESIDENTE. Porrò per primo in votazione l’emendamento dell’onorevole Gullo.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per una dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Dichiaro di votare contro l’emendamento dell’onorevole Gullo, perché nella norma in esame il tempo presente non deve concernere il giuramento, bensì il fatto che determina un’infrazione al giuramento preesistente. Come è nel testo. E non ho altro da aggiungere.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte del testo della Commissione, con l’emendamento Gullo:

«I dipendenti civili o militari dello Stato o i dipendenti degli Enti locali, che prestano giuramento a norma degli articoli 2. 3 e 4 della legge 23 dicembre 1946, n. 478».

(Dopo prova e controprova, non è approvata).

Pongo in votazione la stessa prima parte nel testo della Commissione:

«I dipendenti civili o militari dello Stato o i dipendenti degli Enti locali, che hanno prestato giuramento a norma degli articoli 2, 3 e 4 della legge 23 dicembre 1946, n. 478».

(È approvata).

Pongo in votazione le parole:

«incorrono nella revoca dall’impiego per mancata fede al giuramento, indipendentemente dall’eventuale azione penale».

(Sono approvate).

Pongo in votazione le parole:

«se commettono nell’esercizio delle loro funzioni uno o più atti che contrastino direttamente col giuramento».

(Sono approvate).

Avverto che, a questo punto, vi è l’emendamento Avanzini di soppressione dell’ultima parte dell’articolo; il Ministro Grassi, accettando sostanzialmente la proposta, ritiene però che si debbano lasciare le ultime parole: «di fedeltà alla Repubblica e al suo Capo e alle leggi dello Stato».

L’onorevole Avanzini accetta?

AVANZINI. Accetto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti queste parole, avvertendo che la loro approvazione significherà soppressione delle parole: «ovvero se assumono, nell’esercizio delle loro funzioni, atteggiamenti in fondamentale contradizione con l’obbligo», conformemente all’emendamento Avanzini accettato dal Governo.

(Sono approvate).

Passiamo al secondo articolo, secondo la proposta dell’onorevole Cevolotto, accettata dal Ministro di grazia e giustizia, di completamento del testo primitivo del disegno di legge:

«La presente legge entra in vigore il giorno successivo a quello della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale».

Avverto che era stata sollevata la questione se si dovesse parlare di legge costituzionale. La Commissione ha accettato la proposta Perassi di soppressione della parola «costituzionale».

Pongo pertanto in votazione la formula testé letta.

(È approvata).

Se non vi sono osservazioni, questa legge, e le altre discusse ieri e poste all’ordine del giorno per la votazione, saranno votate a scrutinio segreto nella seduta pomeridiana.

(Così rimane stabilito).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: «Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana».

Vi sono due questioni ancora da affrontare e decidere prima della sospensione dei nostri lavori: la prima è quella relativa all’elenco delle Regioni; la seconda si riferisce al terzo comma della prima disposizione transitoria del progetto di Costituzione.

Come i colleghi ricordano, era stata sospesa la decisione relativamente all’articolo 47 della legge sull’elettorato attivo, allo scopo, appunto, di decidere dapprima su questo terzo comma della prima norma transitoria.

Si tratta di vedere se in questo momento dobbiamo affrontare questa questione oppure l’elenco delle Regioni. Io penso che sarebbe meglio affrontare la discussione della norma transitoria, per i riferimenti che ha con la legge sull’elettorato attivo.

Il terzo comma della prima disposizione transitoria del progetto di Costituzione è del seguente tenore:

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste».

Il Comitato di redazione, avendo preso in esame la discussione avvenuta in questa Assemblea in sede di legge sull’elettorato attivo, ha proposto il seguente nuovo testo:

«Sono stabilite con legge limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per i capi responsabili del regime fascista».

Il Comitato stesso ha proposto poi un ordine del giorno del seguente tenore:

«L’Assemblea Costituente afferma che le limitazioni, di cui all’ultimo comma dell’articolo I delle Disposizioni transitorie della Costituzione, sono da applicarsi a coloro che hanno ricoperto le seguenti cariche nel regime fascista e in quello repubblicano sociale fascista:

1°) ministri e sottosegretari di Stato in carica dal 5 gennaio 1925;

2°) senatori, tranne quelli non deferiti all’Alta Corte di giustizia o per i quali l’Alta Corte ha respinto la proposta di decadenza; deputati delle legislature XXVII, XXVIII e XXIX, tranne i deputati della XXVII che non giurarono, o che furono dichiarati decaduti con la mozione del 9 novembre 1926 o che fecero parte della Consulta nazionale; consiglieri nazionali;

3°) membri del consiglio nazionale del partito fascista o del partito fascista repubblicano; membri del tribunale speciale per la difesa dello Stato e dei tribunali speciali della repubblica sociale fascista;

4°) alti gerarchi del partito fascista sino al grado di segretario federale (provinciale) incluso;

5°) ufficiali generali della milizia volontaria sicurezza nazionale in servizio permanente retribuito, eccettuati gli addetti ai servizi speciali; ufficiali della guardia nazionale repubblicana, delle brigate nere, delle legioni autonome e dei reparti speciali di polizia della repubblica sociale fascista;

6°) capi di provincia e questori nominati dalla repubblica sociale fascista».

Gli onorevoli Russo Perez, Mazza, Condorelli, Lettieri, La Gravinese Nicola, Lagravinese Pasquale hanno presentato il seguente emendamento al testo della Commissione:

«Sopprimere il comma.

«Ove l’emendamento soppressivo non fosse approvato, sostituire il comma col seguente:

«Possono essere stabilite con leggi limitazioni temporanee alla eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste, purché non si estendano a casi non contemplati da precedenti leggi e l’elettore non sia stato già sottoposto a giudizio individuale, nel qual caso sarà da rispettare il giudicato».

Non essendo presente l’onorevole Russo Perez e rinunciando gli altri firmatari a svolgere l’emendamento, passiamo al successivo emendamento degli onorevoli Colitto e Marinaro che è del seguente tenore:

«Sopprimere il comma.

«Subordinatamente aggiungere: In nessun caso, però, potrà derogarsi a leggi precedenti più favorevoli e saranno rispettati i giudicati».

L’onorevole Colitto ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

COLITTO. Io dirò brevemente le ragioni, per cui penso che il mio emendamento debba essere accolto. Numerose norme sono state dal 1944 ad oggi emanate, che, considerando il regime fascista ora una «condizione permanente di illegalità», ora uno «stato di fatto mai legittimato», ora un «periodo di vacanza della giustizia», si sono proposte il fine di liquidare il sistema, che per oltre un ventennio aveva di sé improntato la vita del Paese, e spianare la via maestra della democrazia. Volgendo, ora, la nostra attenzione alle sole norme comminanti quella particolare sanzione, che è la sospensione dai diritti elettorali attivi e passivi, possiamo, salvo errore, affermare che ben tre provvedimenti legislativi (il decreto legislativo luogotenenziale 27 luglio 1944, n. 159; il decreto legislativo luogotenenziale 26 aprile 1945, n. 149; il decreto legislativo luogotenenziale 18 febbraio 1946, n. 32) sono stati in detto periodo emanati, nei quali di detta sanzione è parola. E tali norme hanno preso in esame l’attività di tutti coloro, che, vissuti durante il regime, hanno tenuto cariche o si sono comportati in guisa da meritare la grave sanzione. E tutti sono stati sottoposti a procedimento, durante il quale si è indagato proprio se dovessero o no essere privati del diritto di voto.

Queste persone sono state giudicate. Nei confronti di ciascuna è stata emanata una sentenza, ora di assoluzione ora di condanna. Se nei confronti di alcuni (pochi o molti) non si è emanata la sentenza o addirittura non si sono fatte investigazioni, ciò è accaduto perché una norma legislativa stabiliva (appunto per determinare nel Paese un’aura di pacificazione) che il procedimento non potesse essere espletato, se fosse decorso il periodo di un anno dalla entrata in vigore della legge. Io ricordo in proposito l’articolo 6 del decreto legislativo luogotenenziale 25 aprile 1945, n. 149.

Ora, se di ogni persona l’attività, proprio ai fini della privazione o meno del diritto di voto, è stata esaminata e definita in base a norme e da magistrature create dalla nuova democrazia, se è certo che tutte le persone, che sono indicate nell’ordine del giorno proposto dal Comitato di coordinamento – tutte, nessuna esclusa – hanno subito una procedura, avente la precisa finalità – ripeto – di accertare se esse potevano o no essere sottoposte alla sanzione della privazione del diritto di voto, se per ciascuna di esse è stata emanata una sentenza, per cui esse sono state o prosciolte o condannate alla privazione del diritto di voto per un determinato periodo di tempo, ritengo che sarebbe grave errore fare dei passi indietro, sottoponendo a novello esame una attività già esaminata. Noi verremmo a sottoporre di nuovo queste persone a procedimenti, noi verremmo di nuovo ad indagare se queste persone hanno o no il diritto di votare, mentre ciò è stato già fatto in base a disposizioni, che sono state emanate proprio dai Governi della liberazione dal 1944 in poi.

Vogliamo il «bis in idem»? Vogliamo di nuovo la distruzione dei giudicati? Vogliamo di nuovo norme di carattere retroattivo? Se questo è il desiderio dell’Assemblea, l’ordine del giorno si approvi. Ma se, nella patria del diritto, dobbiamo proporci di non ricadere più nell’errore di emanare leggi con effetto retroattivo, leggi che distruggano l’autorità della res judicata, mi pare che il capoverso dell’articolo 3 delle disposizioni transitorie non debba essere approvato. E ciò senza dire che non è proprio opportuno lasciare nella Costituzione la traccia di una situazione contingente e di una faziosità, che ci auguriamo superata.

Ho proposto una subordinata. Ho detto: vogliamo che una norma, come che sia, venga in materia emanata? E sia! Ma allora, per lo meno, dobbiamo riconoscere efficacia a leggi precedenti più favorevoli e, per lo meno, dobbiamo far sì che siano rispettati i giudicati.

Chiarisco il mio pensiero. Vi sono persone, che non furono giudicate, ma acquisirono il diritto di non poter essere più giudicate. Si pensò allora – e giustamente – che certe posizioni dovessero essere definite con sollecitudine. Avrebbero dovuto essere definite entro il 29 aprile 1946. Possiamo ora, dopo diciotto mesi dalla scadenza del termine, fare, ripeto, passi indietro e tornare ad esaminare quelle posizioni? Che accadrà poi dei giudicati? Le leggi precedenti stabilivano una penalità in materia: stabilivano che le persone, sottoposte a procedimento, potessero essere private del diritto di voto per un tempo non superiore ai dieci anni. Le Commissioni, quindi, potevano privarle del diritto di voto anche per uno-due anni. In virtù, quindi, della disposizione precedente, un gerarca fascista ha bene potuto essere giudicato e condannato alla privazione del diritto di voto, per esempio, per due anni. Ora, se questi due anni andranno a scadere il 31 dicembre 1947, quale sarà la situazione di quel gerarca – approvandosi la disposizione, di cui ci stiamo occupando – di questo gerarca, il quale è stato già condannato ed ha già scontato la sua pena? Dovrebbe essere di nuovo privato del diritto di voto? E che dire di coloro, che, appartenendo a pubbliche amministrazioni, hanno subito diversi procedimenti di epurazione e ne sono usciti prosciolti, e che oggi si vedrebbero privati dei diritti politici in base a nuove leggi, che eventualmente accoglierebbero quel criterio di condanna per categorie, che fu sempre escluso nella legislazione sulla epurazione? Ancora una volta vogliamo annullare la forza dei giudicati? Alla domanda non si può rispondere affermativamente. Non può rispondere affermativamente l’Italia, che ha al proprio attivo una tradizione fulgidissima di dottrina giuridica, l’Italia, che, inoltre, in ogni direzione grida un reciso «Basta!» con gli odi e le divisioni, che il popolo proprio più non sente ed anzi depreca, come profondamente deleteri per la sua vita ed il suo progresso.

Ecco perché io insisto nella mia proposta. Per lo meno si accetti la mia proposta subordinata.

PRESIDENTE. L’onorevole Benedettini ha proposto il seguente emendamento:

«Sopprimere il comma.

«Subordinatamente, dopo le. parole: responsabilità fasciste, aggiungere: individuali già accertate con provvedimento definitivo.

«La limitazione non può essere superiore ad anni cinque».

L’onorevole Benedettini ha facoltà di svolgere l’emendamento.

BENEDETTINI. Mi associo, per quanto riguarda la soppressione del capoverso, a quanto ha detto l’onorevole Colitto.

Io ho proposto un emendamento in via. subordinata, perché ritengo che si possano escludere dal diritto di voto solo alcune persone, per responsabilità fascista, quando queste responsabilità siano già interamente accertate.

Pertanto, io escludo la possibilità che questo provvedimento vada esteso a intere categorie. Lo escludo in quanto, se vi sono responsabilità individuali accertate con provvedimento definitivo, non vedo perché individui già giudicati e che hanno avuto una precisa rivalutazione, per quanto riguarda le responsabilità o meno, debbano essere esclusi dal voto.

Si può essere stati consiglieri nazionali, si può avere appartenuto al partito fascista, ma si può essere state delle persone oneste, capaci e degne (Interruzioni a sinistra) di vivere nel nostro consesso, perché già con provvedimento definitivo è stata chiusa la loro situazione giuridica. Ecco perché ritengo ingiusto generalizzare un giudizio per intiere categorie ed escludere dal diritto di voto gente di indiscusso ingegno, di indiscussa preparazione e di indiscussa capacità. (Commenti a sinistra). Non è giusto ed è antigiuridico escludere da questo diritto categorie intere. Qui si riapre un’altra volta una piaga grandissima. Noi lavoriamo per la pacificazione e per questa ci siamo sempre battuti.

Se un individuo è stato già giudicato e si è detto: «del suo passato non se ne parla più e può partecipare alla vita degli italiani», ebbene, questo individuo ha il sacrosanto diritto di partecipare alla vita politica del nostro Paese! (Rumori a sinistra). Ripeto che non è dignitoso per noi italiani escludere intiere categorie: non è né dignitoso né giusto. (Commenti a sinistra).

L’appartenere a una categoria, quando si è stati persone oneste, non è sufficiente per essere esclusi da un diritto come il diritto di voto. Fortunatamente abbiamo delle possibilità, perché l’Italia è stata sempre la culla del diritto e non può ammettere che nelle nuove leggi sia così violato il diritto in una forma che farebbe rabbrividire. (Vivi rumori a sinistra).

TONELLO. Hanno tradito il Paese e la Patria!

BENEDETTINI. Una legge che vuol porre al bando intere categorie di cittadini e non fa le dovute discriminazioni, non è legge, ma arbitrio: una legge può privare del diritto di voto dei cittadini, non in quanto abbiano ricoperto delle cariche, ma in quanto abbiano mal operato.

Vi sono indubbiamente tra i Ministri, i senatori, i deputati ed i consiglieri nazionali del passato regime uomini che rovinarono il Paese e che per leggerezza, o per malafede, o per vigliaccheria, o perché solo preoccupati dei loro interessi personali, furono incuranti del male che con la loro azione causavano all’Italia. Vi furono certamente uomini che specularono sul fascismo, si arricchirono ed aumentarono le loro ricchezze lavorando prima al servizio dei tedeschi e poi degli angloamericani, e che oggi speculano sulle rovine della Patria e sulle miserie del popolo italiano per accrescere i loro già pingui patrimoni. Codesti signori vanno privati del diritto di voto di cui non saprebbero che fare, e dovrebbero essere privati altresì delle ingenti ricchezze accumulate a danno delle classi povere del popolo italiano.

Vi sono però, onorevoli colleghi, fra i Ministri, i senatori, i deputati ed i consiglieri nazionali del passato regime, uomini di profondo ingegno, di vasta cultura e di larga preparazione nel campo economico, politico e sociale e dirò, particolarmente, sindacale (Rumori a sinistra), i quali non solo non hanno demeritato, ma hanno anzi ben meritato dal Paese; uomini che potrebbero dare in quest’ora un notevole contributo, se stessero ai posti di comando. (Rumori a sinistra). Sono uomini i quali si affermarono non perché fascisti, ma perché ben dotati di ingegno, di preparazione, di spirito d’iniziativa e che entrarono poveri nel fascismo e ne uscirono poverissimi ed onesti avendo servito il Paese in pace ed in guerra. (Vivi rumori a sinistra).

MORANINO. Questa è apologia del fascismo!

BENEDETTINI. Questo dico, non solo per le più alte cariche, ma anche per le minori, vale a dire per gli ufficiali, i podestà, i federali. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, prego di far silenzio.

BENEDETTINI. Dunque se noi vogliamo punire i colpevoli – ed è giusto che così sia fatto – è necessario colpire gli uomini per le loro attività singole e non perché appartenenti a determinate categorie sociali.

Guardiamoci bene dal commettere un tale errore che certamente sconteremmo, giacché in tali questioni non possiamo dimenticare il fattore politico. Questo fattore ci porta a considerare che, oggi, quelli che furono fascisti vanno inquadrandosi negli altri partiti, cosicché si può affermare che non vi sia partito, dall’estrema destra all’estrema sinistra, che non conti tra le sue fila ex fascisti. (Commenti prolungati a sinistra).

Se una giusta legge priverà del diritto di voto coloro che come fascisti ebbero delle colpe, gli italiani, senza distinzione di parte, saranno contentissimi e noi elimineremmo sempre più la possibilità di rinascita del fascismo sotto qualsiasi forma. Se, al contrario, con una legge iniqua si priveranno del diritto di voto decine e decine di migliaia di ex fascisti, molti dei quali ebbero il solo torto di essere dotati di ingegno e di cultura (Proteste a sinistra) e di aver servito con senso di dovere e onestà la Patria, noi costringeremmo questi ex fascisti – oggi dispersi, divisi nei vari partiti – a ricostituirsi in unità, perché qualificati fra i reprobi.

Noi abbiamo il preciso dovere di interpretare il sentimento della maggioranza degli italiani… (Interruzioni a sinistra – Rumori) e non di dare seguito alle parole di pochi spiriti i quali credono di farsi un nome, di passare alla storia, di imporsi all’attenzione delle masse proponendo emendamenti che avrebbero il solo effetto di dividere ancora più gli italiani. (Rumori a sinistra).

Una voce a sinistra. Doveva pronunciare ieri, 28 ottobre, questo discorso!

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, mi pare che lei stia sviando molto dall’argomento. La prego di restare all’emendamento.

BENEDETTINI. Noi che da quest’Aula ogni giorno ci vantiamo di batterci per la libertà e la democrazia, dopo un ventennio di dittatura, non dobbiamo dare vita a leggi inique che la dittatura fascista non emanò mai… (Interruzioni a sinistra). Non facciamo – come disse un altro antifascista, l’onorevole Nitti – che nella Costituzione e nelle leggi noi si debba mettere insieme la parte peggiore del fascismo, senza mettere quella che fu la parte migliore. (Commenti a sinistra).

Io vi esorto a ricordare il passato, sia remoto che prossimo. E questo passato ci grida che nell’aprile del 1945 circa 300.000 italiani furono uccisi nel Nord. (Rumori vivissimi e prolungati a sinistra – Interruzioni – Commenti).

SCOTTI FRANCESCO. Sono stati giustiziati giustamente i repubblichini; ma non sono mai stati 300.000.

PRESIDENTE. Onorevole Benedettini, le impedisco di proseguire su questo tono. La prego immediatamente di concludere. (Vivi rumori a sinistra).

Onorevoli colleghi, mi stupisco dell’assoluta mancanza di sensibilità politica che si manifesta. Nel momento stesso in cui, in una maniera che ritengo un po’ più autorevole di quella di ciascuno dei membri dell’Assemblea, faccio un richiamo all’onorevole Benedettini, con le loro grida incomposte, tolgono ogni valore al mio richiamo, il quale o appare così obbligato, come fatto sotto la loro pressione o si perde in queste grida incomposte.

Onorevole Benedettini, mi rammarico vivamente per la frase che lei ha pronunciato, e la prego di concludere immediatamente restando al tema del suo emendamento.

BENEDETTINI. È, dunque, per un senso di pace e di concordia, che io avrei proposto di abolire senz’altro il terzo comma della disposizione: ma l’esito avuto dalla proposta dell’onorevole Bencivenga mi consiglia di presentare un opportuno emendamento subordinato:

«Dopo le parole: responsabilità fasciste, aggiungere: individuali già accertate con provvedimento definitivo.

«La limitazione non può essere superiore ad anni cinque».

Questo emendamento, che raccomando alla vostra approvazione, è destinato a dare forma e vita alla nuova legge; legge di giustizia e non di vendetta, di pace e non di odio.

Onorevoli colleghi, nel decidere, nel legiferare, non ci dimentichiamo le condizioni dell’Italia e degli italiani: l’una e gli altri vogliono pace, concordia, giustizia e lavoro. (Applausi all’estrema destra).

LUSSU. Chiedo di parlare per una pregiudiziale.

PRESIDENTE. A che proposito?

LUSSU. A proposito delle parole che sento pronunciare qui. Noi, l’ultima volta che abbiamo discusso di questo problema, in sede di articolo 47, ci siamo fermati, in seguito alla richiesta sospensiva presentata da un collega dell’estrema destra. Ma a me pare evidente, ed a ciascuno di noi pare evidente, che la sospensiva riguarda il punto dell’articolo 47 non ancora toccato. Quando io sento, quindi, riprendere questioni sulle quali ci siamo già pronunciati, ho l’impressione che usciamo dal Regolamento.

PRESIDENTE. Ho l’impressione che lei ancora non si sia reso conto, onorevole Lussu, che all’ordine del giorno questa mattina non c’è la legge sull’elettorato attivo, e che non stiamo trattando dell’articolo 47 della, legge, ma del terzo comma della prima disposizione transitoria del testo costituzionale. È questo l’argomento intorno al quale l’Assemblea deve discutere e decidere. E ciò appunto in dipendenza di una decisione dell’Assemblea che, su proposta di uno dei suoi membri, ha deciso di discutere prima il terzo comma della prima disposizione transitoria della Costituzione, e poi, in dipendenza delle decisioni che saranno prese, circa le disposizioni dell’articolo 47 di quel progetto di legge.

Noi siamo pertanto in tema costituzionale ed ogni richiamo all’articolo 47 della legge sull’elettorato attivo è al di fuori della nostra discussione.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Mi permetta, signor Presidente, che io dissenta.

Non sono d’accordo col suo punto di vista: noi ci troviamo oggi qui, all’improvviso, di fronte ad un problema che era ben chiaro nella volontà dell’Assemblea.

Il problema riguardava l’articolo 47. Oggi assistiamo ad uno scambio di parole, di ordini del giorno, alla rievocazione di principî sui quali avevamo già deciso con votazioni.

Ho, quindi, il diritto di chiedere che la discussione rientri nei suoi veri termini e che non sia consentito negare ciò su cui l’Assemblea ha deciso.

Mi pare che questa sia una questione procedurale estremamente chiara e legittima.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, sull’incidente sollevato dall’onorevole Lussu, per prima cosa dirò che mi pare un po’ avventato il dire che la questione sia stata portata all’improvviso all’Assemblea. Cinque giorni fa, quando esposi il programma di lavoro, ebbi occasione di specificare che avremmo trattato anche questo argomento. I colleghi che erano presenti certamente se ne ricorderanno.

Ma l’onorevole Lussu ha sollevato una questione più ampia: che, senza un’espressa decisione dell’Assemblea, la Presidenza ha sospeso la discussione di un disegno di legge in corso di esame ed ha – mi permetta, onorevole Lussu – surrettiziamente introdotto l’esame di un argomento che non doveva ancora essere presentato all’Assemblea.

Ricordo pertanto che nella seduta antimeridiana del 19 settembre, mentre si discuteva sul disegno di legge concernente la disciplina dell’elettorato attivo, l’onorevole Russo Perez presentò una mozione d’ordine con la quale sosteneva che non si potesse discutere ancora l’articolo 47 di quella legge, se prima non si fosse deciso sopra il terzo comma della prima disposizione transitoria del progetto di Costituzione, e pertanto proponeva di sospendere la discussione in corso per riprenderla solo dopo approvato tale comma.

La mozione d’ordine fu discussa per un’intera mattinata dagli onorevoli Russo Perez, Mazzoni, Cianca, Bellavista, Schiavetti, Uberti, Marazza, Togliatti, Mastino Pietro, Condorelli, e la proposta di sospensiva fu, come risulta dal resoconto, dopo prova e controprova e votazione per divisione, approvata.

E la proposta di sospensiva era così stata spiegata dall’onorevole Russo Perez, come risulta dal resoconto sommario:

«Precisa che la sua proposta tende a che si sospenda la discussione dell’articolo 47 fino a quando l’Assemblea non abbia deciso sulla prima disposizione transitoria del progetto di Costituzione».

Nella seduta antimeridiana del 24 settembre l’Assemblea riprese in esame la questione, non già per ritornare sopra la decisione presa, ma per esaminare in qual modo pratico si potesse attuare la sospensiva approvata, avendo il Ministro dell’interno fatto presente che, allo scopo di preparare le liste elettorali in tempo debito, in vista di elezioni non troppo lontane, non poteva attendere oltre.

Leggo dal resoconto sommario:

«Scelba, Ministro dell’interno, ricorda che occorre avere al più presto lo strumento tecnico necessario per potere senz’altro procedere alla compilazione delle liste elettorali.

«Dato che l’articolo 47, sospeso, non è essenziale a tal fine, prega l’Assemblea di approvare la legge elettorale, con l’impegno del Governo di ripresentare le disposizioni contenute negli articoli 47 e seguenti in sede di legge sull’elettorato passivo, disposizioni che avrebbero valore naturalmente anche per la legge in esame».

«Uberti, Relatore, osserva che si potrebbe accettare la proposta del Ministro, per evitare un ritardo eccessivo nell’applicazione della legge. Propone peraltro di stralciare gli articoli 47-50 per farne una legge a parte, e non di rinviarli alla legge sull’elettorato passivo».

L’onorevole Ruini accetta questa proposta dell’onorevole Uberti, e l’Assemblea, dopo prova e controprova, approva la proposta dell’onorevole Uberti, fatta propria dall’onorevole Ruini.

Qual è, dunque, la situazione, onorevole Lussu? Questa, che l’Assemblea ha deciso – e non la Presidenza ha cercato di far accogliere dall’Assemblea – che l’articolo 47 fosse rinviato e in un secondo tempo ha accettato che esso fosse materia di un nuovo disegno di legge, e che questo disegno di legge fosse presentato e discusso solo dopo che l’Assemblea avesse deciso in ordine alla prima norma transitoria del progetto di Costituzione, che comprende il terzo comma di cui stiamo discutendo.

Mi pare, quindi, che le osservazioni dell’onorevole Lussu non abbiano fondamento, poiché l’Assemblea ha legittimamente disposto di mettere all’ordine del giorno di oggi questo argomento, sul quale occorre giungere ad una decisione, che renda poi possibile un disegno di legge che comprenda la materia dell’articolo 47 del vecchio disegno di legge.

LUSSU. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Ella mi attribuisce, signor Presidente, con eccessivo spirito critico, di avere posto in dubbio la serenità del Presidente nell’esercizio della sua carica. Quando ho detto che questo ordine del giorno ci era stato presentato di sorpresa, non ho inteso già di affermare che l’onorevole Presidente ci avesse sorpreso, per cui la discussione avvenisse mentre noi eravamo impreparati a sostenerla; ho inteso dire invece semplicemente che noi, di fronte a questa discussione, venivamo manifestamente a trovarci carenti di quegli elementi che i più – ed io in particolare – giudichiamo indispensabili e per seguire la discussione e per decidere in merito ad essa.

Non appena, quindi, ho ascoltato questi interventi, ho chiesto che mi venissero sottoposti gli atti ufficiali scritti, che noi non possiamo tutti i giorni andar ricercando, perché altrimenti dovremmo venir qui con delle valigie; ed è stato soltanto grazie alla cortesia di un collega che ne ho potuto prendere visione.

Io quindi non ho inteso di alludere se non ad una sorpresa soggettiva; non ho inteso cioè di muovere un appunto all’onorevole Presidente, perché non sarebbe stato il caso.

Circa poi il resto, l’onorevole Presidente mi consentirà che io mi dica sorpreso del modo come si procede in Commissione, per cui l’articolo 47, già per metà discusso ed approvato, improvvisamente viene ad essere ripresentato, insieme con l’altro prezioso articolo 50, in veste di una futura legge particolare da discutere.

Io mi permetto quindi di esprimere, per tutto questo, la mia più alta sorpresa.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, mi pareva di averle fornito gli elementi sufficienti perché lei arrivasse a comprendere che non è in sede di Commissione che tutto questo è stato deciso, ma in sede di Assemblea. Ora, è evidente che ognuno può essere più o meno soddisfatto dei risultati delle votazioni che avvengono in Assemblea, ma nessuno può dire che esse abbiano alcunché di recondito nei principî ai quali si richiamano e nel modo come si svolgono.

LUSSU. Mi permetta, onorevole Presidente: io chiedo a lei e in pari tempo chiedo a tutti i colleghi dell’Assemblea di tener presente come il Regolamento che disciplina i nostri lavori contempli, al Capo XIV, la disciplina delle votazioni. V’è forse nel Regolamento stesso qualche altro luogo ove si parli ancora di tale disciplina e ove sia consentito che delle materie già sottoposte all’esame dell’Assemblea e da questa approvate possano divenir lettera morta?

È questa, onorevoli colleghi, una domanda che io rivolgo, sì, a tutti i colleghi dell’Assemblea, ma che rivolgo in modo particolare al Presidente.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, non riesco a comprendere le sue obiezioni.

L’Assemblea ha deciso, ed è appunto compito del Presidente di fare applicare ciò che è stato deliberato in quelle votazioni. Di ciò che lei ha detto potrà tenersi conto, se mai, quando l’Assemblea sarà chiamata ad esaminare quella nuova formulazione che il Governo presenterà. Se in quella formulazione non si terrà conto di ciò che l’Assemblea aveva già deliberato, la sua eccezione potrà essere sostenuta ed anche accettata. Ma in questo momento ella non può anticipare gli eventi, prevedendo che le decisioni dell’Assemblea saranno tenute in non cale.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Ringrazio l’onorevole Presidente per l’esposizione fatta circa i precedenti di questo dibattito. Io pongo alla mia coscienza, prima che al Presidente, dei quesiti.

Noi abbiamo discusso in settembre l’articolo 47 della legge sull’elettorato attivo ed abbiamo approvato alcuni numeri compresi in quell’articolo. Vale a dire, abbiamo espresso la volontà della maggioranza della Assemblea su determinate sanzioni con cui devono essere colpite determinate categorie. Rimane acquisito all’attività di questa Costituente il fatto che su quei problemi delle soluzioni sono state prese.

Ora io domando a me stesso – e chiedo al Presidente – quale sia la sorte di questi punti che sono stati discussi e decisi. Vale a dire: è possibile oggi fare una discussione, la quale contraddice alle decisioni che sono state prese dall’Assemblea Costituente durante il dibattito dell’articolo 47? È vero che c’è stata la sospensiva, ma la sospensiva è intervenuta quando su determinate questioni – ripeto – la decisione era stata presa.

Lo stesso articolo che abbiamo sotto gli occhi è una modificazione di quella che è stata la decisione della maggioranza dell’Assemblea.

PRESIDENTE. È un ordine del giorno.

CIANCA. Non solo si tratta dell’ordine del giorno, ma dello stesso articolo modificato, perché questo nuovo articolo, se mi permette l’onorevole Presidente, incide sulle decisioni da noi adottate in settembre.

PRESIDENTE. Onorevole Cianca, scusi se l’interrompo, ma è proprio per il desiderio di non prolungare una discussione che forse può essere evitata.

Lei aveva preso la parola in sede di quella discussione che io ho richiamato ed aveva lungamente esposto le sue considerazioni. Lei era contrario al rinvio ed ha anche motivato la sua opposizione.

Tuttavia l’Assemblea, allo scopo di evitare deliberazioni sulla legge dell’elettorato attivo che avrebbero potuto poi trovarsi in contrasto con una norma costituzionale, ha deciso di deliberare prima sulla materia costituzionale e poi di redigere la nuova legge.

Oggi si approva la norma costituzionale transitoria che aprirà la via della deliberazione sull’emendamento dell’onorevole Schiavetti all’articolo 47 della legge sull’elettorato.

Siamo quindi nell’ordine logico delle cose: stabilire prima la norma costituzionale e poi la norma legislativa.

CIANCA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIANCA. Io non contesto affatto le ragioni che lei ha esposte, però rilevo che arriveremmo a questa conclusione: che a un mese e mezzo di distanza l’Assemblea voterebbe oggi in pieno contrasto con quello che decise allora.

PRESIDENTE. Onorevole Cianca, l’Assemblea Costituente, in sede costituzionale, può votare una norma che porti alla necessità di modificare una norma legislativa. Questo è evidente. Può rammaricarsene qualcuno, ma d’altra parte non si può fare diversamente, dato che questa è un’Assemblea Costituente.

LUSSU. Solo a scrutinio segreto si poteva annullare quanto, sull’articolo 47, abbiamo già votato.

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, lei precipita i tempi.

Aspetti a fare constatazioni del genere.

CIANCA. Vuol dire che noi ci rassegneremo a formulare dei giudizi sulla coerenza dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Onorevole Cianca, ciascuno farà quello che crede più opportuno e doveroso.

Ritengo che si possa ora proseguire nell’esame degli emendamenti.

Gli onorevoli Dominedò e Giacchero propongono di sopprimere il comma.

L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

DOMINEDÒ. Non credo che occorra un apposito discorso per l’emendamento soppressivo, che ho l’onore di sottoporre al voto dell’Assemblea, sia pure a titolo personale insieme al collega Giacchero.

Mi limiterò a considerare che il suo spirito informatore è anzitutto di natura tecnica, giuridica e costituzionale, trattandosi qui di materia che, se mai, dovrebbe essere di competenza delle leggi speciali, come infatti è avvenuto con la legge che già risolve il problema, mediante limitazioni al diritto di voto nei confronti dei singoli soggetti, a seguito di apposito giudizio.

Se così è, ne deriva che una Costituzione democratica, protesa verso una costruzione positiva, e non solamente limitantesi a una negazione del passato, non può introdurre condanne per categoria, distinguendo ancora una volta i cittadini optimo jure da quelli non optimo jure. Di qui il vantaggio, anche politico, di non fare nemmeno menzione dei relitti di un ordine totalitario che deve considerarsi come appartenente definitivamente al passato, nello sforzo creativo di una vera democrazia. (Commenti).

UBERTI. V’è l’articolo 45 della Costituzione che lo rende necessario.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Monticelli, del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Fino ad un quinquennio dalla entrata in vigore della Costituzione la legge può stabilire una limitazione alla eleggibilità e al diritto di voto per rilevanti responsabilità nell’ex regime fascista».

Non essendo presente l’onorevole Monticelli si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

Segue l’emendamento dell’onorevole Mortati:

«Sostituirlo col seguente:

«In deroga all’articolo 45, la legge potrà stabilire, per non oltre un quinquennio dalla data di entrata in vigore della Costituzione, limitazioni alla eleggibilità ed al diritto di voto per coloro che sono da ritenere responsabili, in grado eminente, della formazione e del mantenimento del cessato regime fascista per la natura delle cariche ricoperte o dell’attività esercitata, obiettivamente determinata, in una delle seguenti categorie:

membri del governo, del gran consiglio, degli organi legislativi, del tribunale speciale, della milizia volontaria sicurezza nazionale, delle gerarchie del partito fino al grado di segretario provinciale, funzionari direttivi militari e civili della cosiddetta repubblica sociale».

Ha facoltà di svolgerlo.

MORTATI. Dichiaro di accettare il testo della Commissione, rinunciando ad una mia precedente proposta, la quale riguardava anche l’esclusione dal corpo della Costituzione della elencazione delle categorie degli esclusi dall’elettorato per indegnità fascista.

Insisto però sul mio emendamento per quanto attiene a due altri punti: in primo luogo nel richiedere che sia inserito, al principio del comma, l’inciso: «In deroga all’articolo 45». Questa inserzione mi sembra opportuna se non necessaria. Forse non è necessaria perché la stessa inserzione nella Costituzione di una disposizione transitoria, quale quella dell’ultimo capoverso dell’articolo 1, fa argomentare per il carattere eccezionale delle limitazioni in essa sancite. Tale carattere eccezionale può argomentarsi anche dalla sospensione che l’Assemblea ha deliberato dell’articolo 47 della legge sulle liste elettorali, al momento in cui si discutevano gli emendamenti dell’onorevole Schiavetti, sospensione motivata dalla convinzione che si vertesse in materia costituzionale.

Tuttavia, anche considerando tutto questo, credo sia opportuno stabilire in modo testuale che queste limitazioni costituiscono deroga all’articolo 45. Ciò perché l’articolo 45, in seguito alle modificazioni apportate al suo testo dall’Assemblea, consente l’esclusione del diritto di voto in caso di indegnità morale. Ora, potrebbe essere sollevato il dubbio che in questi casi di indegnità morale siano compresi o comprensibili anche casi di indegnità dovuta alla posizione politica del cittadino. Il che si deve escludere perché contrastante con il significato voluto attribuire a quella espressione. A mettere in rilievo tale significato giova operare un’interpretazione autentica all’articolo, attraverso la modifica da me proposta dell’ultimo comma dell’articolo 1, disposizioni transitorie, che tende a precisare il carattere di deroga alla norma generale in materia di limitazioni al diritto di voto.

Il secondo punto per cui mi distacco dal testo della Commissione riguarda la determinazione del termine massimo entro il quale queste sanzioni devono essere introdotte. Già il concetto della temporaneità è affermato in quel testo: ma a me pare opportuno delimitare l’estensione di questa in un quinquennio. Mi pare sia questo un termine sufficiente, essendo da presumere il sopravvenire dopo di esso di un periodo di normalizzazione, di attenuazione delle passioni politiche che non riabiliti di per sé gli ex gerarchi fascisti, ma consenta, per l’elettorato passivo, di affidare alla stessa spontanea selezione del corpo elettorale la determinazione, in via di fatto, delle indegnità. Selezione che riuscirà tanto più rigorosa e sodisfacente quanto più il nuovo regime democratico si sarà consolidato nella coscienza dei cittadini, con la felice risoluzione dei problemi che affaticano la Nazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti ha proposto di tornare al testo primitivo del progetto. Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

SCHIAVETTI. Qui ci troviamo di fronte a due atti del Comitato di redazione che sono in contraddizione l’uno con l’altro ed a noi resta la legittima curiosità di sapere perché il Comitato ha affrontato così leggermente una contraddizione formale.

C’è la disposizione per cui sarebbero esclusi dall’eleggibilità e dal diritto di voto i capi responsabili del regime fascista. Poi v’è un ordine del giorno, sempre proposto dal Comitato di redazione, in cui si specificano le speciali categorie da escludere. E qui abbiamo la sorpresa, per non dire altro, di trovare fra i capi responsabili del regime fascista anche gli ufficiali della guarda nazionale repubblicana, delle brigate nere, ecc. Ora è evidente che qui v’è stata una certa improvvisazione da parte degli egregi colleghi del Comitato, e noi, che siamo solleciti del loro buon nome, non vorremmo che essi cadessero in una contraddizione che non farebbe loro onore. Animati quindi da spirito cristiano, facciamo la proposta, per troncare tutte queste discussioni ed anche per cercare di portare la discussione sopra un piano di sincerità, di ritornare al testo del primitivo progetto di Costituzione per cui sarebbero ammesse limitazioni temporanee all’eleggibilità e al diritto di voto per responsabilità fasciste. Questo ci permetterà poi, nella discussione sull’articolo 47, la più ampia latitudine e potremo quindi esaminare le singole categorie onde vedere quelle che sono da escludere e quelle che non sono da escludere. Altrimenti, in caso contrario, noi ci legheremmo le mani e rischieremmo di trovare degli egregi avvocati i quali ci direbbero che l’ordine del giorno è in contraddizione con l’emendamento del Comitato di coordinamento, e trarrebbero da questa contraddizione la possibilità di non arrivare a nessuna conclusione. Chi parla non è avvocato, ma è un uomo di buon senso animato da passione e volontà politica. Domando che si tagli corto a queste contraddizioni, le quali possono celare manovre di carattere politico, e che si ritorni al vecchio progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

Per l’elezione di tre membri della Corte costituzionale prevista dall’articolo 24 dello Statuto della Regione siciliana.

CARONIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CARONIA. Mi occuperò brevemente della elezione dei membri della Corte costituzionale della regione siciliana.

Mi richiamo a quanto ebbi a richiedere alla Presidenza circa il rinvio dell’elezione dei membri della Corte costituzionale della Regione siciliana per chiedere all’onorevole Presidente quando intende mettere all’ordine del giorno l’elezione di detti membri.

PRESIDENTE. Faccio presente all’onorevole Caronia che, avvertendo l’importanza della questione, mi sono preoccupato d’interpellare i Presidenti di tutti i Gruppi parlamentari o un loro rappresentante; e ieri mattina, in una apposita riunione, i presenti, all’unanimità, sono arrivati alla conclusione che non fosse in questo momento da porsi all’ordine del giorno dell’Assemblea questa nomina, e che si dovrebbe attendere, quindi, un momento più opportuno. Pertanto, dinanzi ad una opinione così unanime, la Presidenza ha ritenuto e ritiene di non porre per adesso all’ordine del giorno l’elezione dei tre membri effettivi e del membro supplente della Corte costituzionale siciliana, che devono essere designati per l’appunto dall’Assemblea Costituente.

CARONIA. Mi permetto di dissentire da quanto hanno deciso i pochi che pretendono di rappresentare la volontà dei Gruppi. Rimandare sine die la nomina dei tre membri della Corte costituzionale significa paralizzare l’attività della Regione. La Regione deve poter vivere; il Governo della Regione deve poter funzionare. Quindi è inderogabile la nomina dei membri della Corte costituzionale.

Abbiamo già degli esempi recenti di veti posti dal Commissario governativo alla Regione siciliana per provvedimenti importantissimi. Io non intendo entrare nel merito della questione di ciò che sarà domani, dopo il coordinamento e dopo le decisioni che l’Assemblea avrà preso sulla Corte costituzionale Nazionale. Intendo riferirmi al bisogno che, in via transitoria, finché tutti questi provvedimenti siano presi, la Regione possa funzionare. Non vedo il motivo per cui oggi si debba procrastinare la nomina dei membri della Corte costituzionale perché il Governo della Regione non trovi intralci nel suo compito. Quindi, insisto perché nel più breve tempo possibile sia posta all’ordine del giorno l’elezione dei tre membri della Corte costituzionale per la Regione siciliana, secondo le norme stabilite dallo Statuto regionale in vigore.

PRESIDENTE. Onorevole Caronia, non posso mettere in dubbio la capacità e il diritto che di rappresentare i propri Gruppi avessero i convenuti a quella riunione, dai Gruppi stessi designati a parteciparvi. Non credo di poter contestare agli onorevoli Gronchi, Scoccimarro, Nasi, Rodinò Mario, Nenni, Perrone Capano, Saragat, Facchinetti, Reale Vito e Bergamini il diritto di rappresentare i rispettivi Gruppi e di parlare a loro nome. Poiché i colleghi, dei quali ho fatto nomi, ieri mattina unanimemente sono pervenuti a quella conclusione, mi sono ritenuto autorizzato, come ritengo di esserlo in questo momento, a pensare che essi abbiano espresso il pensiero dei rispettivi Gruppi.

Comunque, onorevole Caronia, Ella può sempre presentare una proposta formale sulla quale l’Assemblea deciderà.

CARONIA. Faccio proposta formale che siano eletti subito i tre membri della Corte costituzionale per la Regione.

La seduta termina alle 13.5.