Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

lxiv.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Pieri                                                                                                                  

Relazione della Commissione per il caso Finocchiaro Aprile-Parri:

Presidente                                                                                                        

Crispo                                                                                                               

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Targetti                                                                                                           

Giordani                                                                                                           

Risposta dell’Assemblea Nazionale francese al messaggio dell’Assemblea Costituente italiana:

Presidente                                                                                                        

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Ravagnan                                                                                                        

Condorelli                                                                                                      

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana precedente.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che il sindaco di Avola ha fatto pervenire i ringraziamenti per le condoglianze che, interpretando il pensiero dell’Assemblea, ho inviato per la morte dell’onorevole Antonino d’Agata.

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Pieri. Ne ha facoltà.

PIERI. Prendo la parola nella mia doppia veste di segretario di un’importante sezione italiana del movimento federalista europeo e di deputato socialista: noi socialisti siamo federalisti per definizione, perché internazionalisti. Intendo, dunque, parlare per esprimere il mio, il nostro compiacimento nel vedere codificata nell’articolo 4° della Costituzione quell’aspirazione propria della democrazia, e che è viva e profonda nella classe lavoratrice: l’aspirazione alla creazione dei vincoli federali fra gli Stati europei.

Il movimento federalista è di origine italiana. Anche a prescindere che esso deriva dalle dottrine di Mazzini e di Cattaneo, resta di fitto che la prima organizzazione federalista è stata creata nell’isola di Ventotene da un gruppo di confinati politici, nel giugno 1941. Questi lanciarono un manifesto-programma, fondarono un giornale clandestino: L’Unità europea, e scrissero opuscoli sui vari problemi del movimento federalista.

Quasi tutti coloro che facevano parte di questo gruppo sono morti nella lotta per la liberazione, ed essi appartenevano ai vari partiti di sinistra: Ginsburg, del Partito di azione, morì in carcere a Roma, a Regina Coeli; Jervis, del Partito di azione, fu impiccato a Villarpellice; Colorni, socialista, fu trucidato a Roma dagli sgherri della banda Koch; Barbera, socialista, fu fucilato a Torino.

Nel breve periodo di libertà che seguì la caduta del regime di Mussolini il movimento federalista tenne il suo primo congresso a Milano il 27-28 agosto 1943.

Nel frattempo l’idea federalista aveva fatto strada ed era penetrata anche in altre Nazioni. Nel maggio del 1945 si riunì a Parigi il comitato per il movimento federalista, che decise la fondazione di una rivista: L’Europe fédéraliste e pubblicò i Cahier du fédéralisme européen.

In Italia, dopo la fine della guerra, il movimento federalista tenne un congresso a Milano nel settembre 1945, ed un altro congresso a Firenze nel gennaio 1946, e decise la pubblicazione di un periodico quindicinale: L’Unità europea, che si stampa a Torino.

Ora, noi federalisti ci teniamo a distinguere il nostro federalismo, che è un federalismo realista, da un federalismo utopistico, le cui idee ed origini risalgono a quei pensatori che hanno predicato la pace e la fraternità dei popoli partendo da presupposti filosofici, a cominciare da Seneca e discendendo ad Erasmo da Rotterdam e giù giù fino a Spinoza, Voltaire, Tolstoi ecc. Un federalismo utopista ispirò anche i vari tentativi destinati a fallire in partenza, come la Società per la pace fondata da Nicola I all’Aja, la Società delle Nazioni, la Paneuropa di Coudenhove-Kalergi, il recentissimo movimento unionista promosso da Churchill, al quale noi opponiamo una ostilità pregiudiziale per il fatto di rappresentare un federalismo in funzione antirussa, diretto cioè a scopi non di pace, ma di guerra.

Noi ci teniamo a definirci federalisti realisti, perché la nostra dottrina si basa non su principî astratti ed eterni, ma sopra interessi concreti ed attuali.

E ciò, perché il nostro movimento si basa sulla necessità, sulla urgenza di ricostruire questa vecchia e rissosa Europa, in modo che da essa non partano più le scintille di un incendio che, questa volta, potrebbero divorare tutto l’edificio della civiltà.

Ora, noi dobbiamo domandarci: perché l’Europa è un continente stremato economicamente ed irrequieto politicamente? Lo è, sia perché numerose guerre hanno dilapidato completamente le ricchezze del continente, e lo è anche perché le barriere nazionali bloccano la produzione e i mercati.

Quindi necessità di abolire, se non le frontiere politiche, almeno in primo tempo le frontiere economiche; e noi vediamo che questa abolizione avrebbe una importanza grandissima, anzitutto perché permetterebbe una riorganizzazione razionale della economia e darebbe un grande incremento alla produzione, per il fatto che ogni Paese dovrebbe produrre le merci per le quali ha l’attrezzatura e le materie prime, quelle, cioè, per le quali, si trova nelle condizioni più favorevoli; e ciò si applicherebbe anche all’agricoltura, nel senso che ogni Paese dovrebbe coltivare i prodotti della terra per i quali è più adatto. Poi avrebbe la conseguenza di aprire ai singoli paesi non il piccolo mercato nazionale, ma l’intiero mercato europeo.

Ora è chiaro che ciò non può avvenire, se non si arriva all’abolizione delle barriere doganali. E questo è il lato economico del problema.

C’è poi un lato politico: noi riteniamo necessario che le singole nazioni rinuncino ad una parte della loro sovranità, delegando ad un consiglio federale i problemi che riguardano la politica estera e l’esercito; le nazioni dovrebbero avere esclusivamente delle forze di polizia.

La Francia, con l’intuito politico che le è caratteristico, nel preludio alla sua Costituzione ha inserito un periodo che dice: «La Francia, a condizioni di reciprocità, è pronta a rinunciare ad una parte della sovranità, quando ciò si renda necessario per l’organizzazione e per la difesa della pace».

Ora, io penserei che il nostro articolo 4 ci potrebbe mettere in condizioni di entrare in intese con la Francia, in modo da costituire un primo nucleo federalista, al quale si aggiungerebbe quasi certamente la Svizzera e poi, probabilmente, le altre nazioni europee. Noi non riteniamo che il movimento federalista possa, almeno in principio, estendersi in tutta l’Europa; pensiamo che con tutta probabilità si formerà un nucleo centro-occidentale federalista, perché da una parte l’Inghilterra e dall’altra la Russia con la catena degli Stati satelliti, probabilmente resteranno fuori dall’organizzazione.

Ma, in fondo, Inghilterra e Russia sono paesi che possiamo considerare marginali per l’Europa, che hanno il loro centro di gravità fuori dell’Europa: l’Inghilterra lo ha sull’Oceano, la Russia in Asia. Ma è anche possibile che in seguito al trattato di alleanza concluso recentemente a Dunkerque tra la Francia e l’Inghilterra, questa possa essere attirata nell’orbita dell’organizzazione federalista europea. È anche probabile che la Russia si avvicini sempre più al resto dell’Europa e possa in seguito inserirsi nell’organizzazione federale dell’Europa.

Ma quand’anche ciò non accadesse, noi potremmo realizzare un blocco federalista centro-occidentale europeo, sinceramente democratico e pacifista, omogeneo politicamente e vitale economicamente, che potrebbe esercitare un’utile funzione di pacificazione, e rappresentare come un cuneo interposto fra i due blocchi russo e angloamericano. E, nella deprecabile ipotesi di un conflitto fra i due blocchi, la presenza di questo cuneo potrebbe stornare dall’Europa la tempesta che si scaricherebbe lontano da noi, nell’altro emisfero.

Ora, qualcuno potrà domandarsi: non può l’Italia cercare di trovare la tutela del suo pacifico sviluppo nell’Organizzazione delle Nazioni Unite? Noi riteniamo che ciò non sia possibile, per almeno tre ragioni.

Anzitutto l’Organizzazione delle Nazioni Unite ha una struttura che ricorda molto da vicino quella della Santa Alleanza. In fondo, sono cinque popoli che si sono assunti la tutela di tutti gli altri popoli del mondo, e l’Organizzazione appare destinata a fallire come la prima Santa Alleanza.

Poi, l’organizzazione delle Nazioni Unite si è messa sul terreno della politica delle zone d’influenza, di equilibrio politico, di blocchi; politica che ha sempre condotto alla guerra e che non ha risolto nessuno dei problemi fondamentali, ma tende a dividere il mondo in due blocchi antagonisti, e davanti a problemi scottanti, né è uscita con espedienti (quando il Consiglio di sicurezza discusse il problema dei rapporti fra l’Iran e la Russia fu tolta la questione dall’ordine del giorno; così il Consiglio rinunziò a formulare una decisione sulla questione della presenza delle truppe inglesi in Grecia); politica che ha prodotto l’atmosfera di sospetto e di equivoco che si addensa minacciosa sugli attuali colloqui di Mosca.

Infine, noi crediamo che l’O.N.U. sia in grado di evitare la guerra fra le nazioni minori, ma che non sia in grado di evitarla fra le nazioni maggiori, e che molto meglio servirebbe la causa della pace il movimento federalista europeo, in quanto verrebbe ad unificare quell’Europa che è stata finora il focolaio di origine delle recenti guerre.

Bisogna anche pensare che la tendenza federalista sia implicita nel dinamismo della evoluzione politica moderna; infatti, vediamo che forma federale hanno raggiunto gli stati più progrediti politicamente: la Svizzera, con la sua Confederazione, l’Inghilterra col suo Commonwealth; così gli Stati Uniti e la Russia.

Ora, onorevoli colleghi, questa nostra propaganda per la idea federalista trova adesioni non solo in questi banchi, ma anche in altri settori ed anche presso personalità politiche di primo ordine. Mi limiterò a citare il Conte Sforza, gli onorevoli Parri, Einaudi, Calamandrei.

Questo ci dà affidamento, non solo che l’articolo 4° sarà approvato, ma che l’idea federalista in esso affermata non resterà lettera morta, non resterà come una platonica affermazione di principio, ma rappresenterà la forza viva ed operante della politica estera della nuova Italia.

Terminerò il mio dire con un augurio: questa nostra Italia, povera e fieramente bistrattata dal destino, è stato sempre il paese più ricco di vita spirituale. Essa ha dato in ogni tempo al mondo le idee nuove. L’ultima è quella del federalismo. Qualora, come ne abbiamo fede, l’idea federalista, possa realizzarsi, l’Italia si riscatterà dalla involontaria colpa di aver dato al mondo il fascismo. (Applausi).

Relazione della Commissione per il caso Finocchiaro Aprile-Parri.

PRECIDENTE. Comunico all’Assemblea che la Commissione, nominata su richiesta dell’onorevole Parri, perché ricercasse il fondamento delle accuse che all’onorevole Parri erano state rivolte in pubblica Assemblea dall’onorevole Finocchiaro Aprile, ha concluso i lavori ed ha assolto al proprio compito nel termine assegnatole, ed ha chiesto di dare la sua relazione all’Assemblea.

Ha pertanto facoltà di parlare l’onorevole Crispo, relatore della Commissione.

CRISPO, Relatore della Commissione. Onorevoli colleghi, la Commissione incaricata di indagare e riferire sul caso occorso all’onorevole Parri, accusato in questa Assemblea dall’onorevole Finocchiaro Aprile di avere attinto i fondi per la propria elezione a Deputato alla Banca commerciale, ha adempiuto il proprio compito agevolmente e rapidamente. Agevolmente e rapidamente, perché ha ritenuto di poterlo, dico meglio, di doverlo contenere nei limiti delle rispettive dichiarazioni delle parti. Difatti, mentre l’onorevole Finocchiaro-Aprile, interrogato dalla Commissione, dichiarava di non avere alcuna prova da produrre a sostegno dell’addebito mosso all’onorevole Parri, riconoscendo peraltro di aver raccolto soltanto voci, meglio si potrebbe dire dicerìe, pubblicate dai giornali Buonsenso e Uomo Qualunque, a sua volta l’onorevole Parri, non pago di queste dichiarazioni ed esprimendo con visibile indignazione, dirò anche di più, con visibile disprezzo, il proprio rammarico per quello che gli era occorso, esigeva una più ampia, più precisa, più categorica ritrattazione delle accuse a lui mosse, dichiarandosi peraltro a disposizione della Commissione per offrirle la documentazione precisa ed esauriente dell’infondatezza dell’addebito rivoltogli.

Preciso che l’onorevole Parri non soltanto determinò l’ammontare delle spese occorse per la propria elezione ed in generale per la campagna elettorale del gruppo politico a cui egli apparteneva, ma dichiarò, essendo in grado – egli disse – di poter individuare singolarmente i nomi degli amici, dei fautori, dei sostenitori della propria lista, che soltanto a queste fonti erano state attinte le spese occorse per la propria elezione a deputato. Deplorò, peraltro, e sottolineò che potesse tutt’ora imperversare nel nostro Paese un costume giornalistico tale da render lecito di farsi eco di voci incontrollate, e che purtroppo potesse ancora esservi un costume parlamentare che al primo rassomigliasse. (Approvazioni).

Sicché la Commissione, ritenne superflua ogni altra indagine di fronte a queste risultanze che potevano dirsi pacifiche, contenute nei limiti delle dichiarazioni delle parti; ed emise il suo giudizio, dichiarando insussistente l’addebito, così come da questa breve relazione che leggo all’Assemblea:

«La Commissione, sull’affermazione fatta, nella seduta del 26 febbraio 1947, dall’onorevole Finocchiaro Aprile, di avere l’onorevole Parri ricevuto fondi cospicui dalla Banca commerciale per fare fronte alle spese della propria elezione a deputato, rileva:

  1. a) che l’onorevole Parri, interrogato il 12 marzo 1947, smentiva recisamente l’accusa, precisando l’ammontare delle spese occorse, e che i fondi erano stati raccolti col concorso dei candidati della lista, dei fautori e sostenitori di essa. Escludendo, pertanto, categoricamente qualunque intervento, diretto o indiretto, sia della Banca commerciale, sia di qualunque altro Istituto finanziario, l’onorevole Parri soggiungeva di essere in grado di presentare la lista delle spese suddette, e di indicare individualmente tutti coloro che concorsero a sostenerle;
  2. b) che contestate tali dichiarazioni all’onorevole Finocchiaro Aprile, egli dichiarava di essersi fatto eco, nell’Assemblea, di voci riferite dai giornali Buonsenso e Uomo qualunque, per non essere state smentite; e che, pertanto, prendendo lealmente atto della smentita dell’onorevole Parri, non aveva «ragione di mantenere quanto aveva detto, e riconosceva la verità delle dichiarazioni dell’onorevole Parri che è notoriamente e personalmente un galantuomo».

«Ciò premesso, la Commissione ritiene adempiuto il proprio compito, per la evidente superfluità di qualunque altra indagine. Epperò dichiara insussistere l’addebito mosso all’onorevole Parri, non senza rilevare che se, in regime democratico, la libera censura è non solo un diritto, ma anche un dovere, il buon costume parlamentare e giornalistico esige il più rigoroso e vigile senso di responsabilità nell’esercizio di quel diritto o nell’adempimento di quel dovere. (Vivissimi, prolungati, generali applausi all’indirizzo dell’onorevole Parri).

PRESIDENTE Ringraziando la Commissione per la sollecitudine severa e serena, e per la diligenza particolare con la quale ha adempiuto al compito delicato ed importante che l’Assemblea, per tramite mio, la aveva affidato, prendo atto, a nome dell’Assemblea stessa, delle conclusioni a cui la Commissione è giunta e delle quali l’onorevole Crispo ci ha dato comunicazione, conclusioni che restano registrate nei verbali dell’Assemblea Costituente.

Si riprende la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Targetti. Ne ha facoltà.

TARGETTI. Onorevoli colleghi, i primi 7 articoli del progetto di Costituzione che stiamo discutendo non sono i più adatti per permettere una discussione che mantenga rigorosamente il carattere di discussione generale, perché, come i colleghi sanno, non sono collegati da uno stretto nesso, non costituiscono un tutto omogeneo.

Si può anzi dire che ciascuno di questi articoli ha una vita autonoma, una vita a sé. La discussione generale di questo gruppo di articoli viene quindi a confondersi con la manifestazione del concetto che dei vari articoli si è fatta chi vi interviene e deve servire alla manifestazione del suo pensiero relativamente a modifiche proposte e non ancora illustrate o ad emendamenti che si possono considerare già svolti in questa discussione generale. Questo per evitare ripetizioni in quest’occasione più dannose di sempre.

L’Assemblea sa che nel discutere questo progetto noi siamo combattuti da due esigente opposte, senza che si possa scegliere quale sacrificare e quale sodisfare: la necessità di far presto e la necessità di discutere con la massima ampiezza tutti i problemi relativi al compito per il quale siamo stati mandati qui dalla volontà popolare. Dare all’Italia repubblicana la sua Carta costituzionale è il compito storico di quest’Assemblea.

Qualche osservazione sull’articolo primo, e, prima ancora, qualche dubbio su la proprietà, sull’esattezza della qualifica di «disposizioni generali», data a questi primi articoli. Il nostro collega onorevole Oro Nobili propone che venga sostituita con la parola: Stato. Ma, con tutto il desiderio che avrei di dargli ragione, non mi sembra giustificata, ragionata, neppure questa denominazione. E ciò per ragioni intuitive. Nello Statuto della Repubblica romana queste disposizioni ebbero il titolo di «Principî fondamentali». Forse sarebbe più consona alla natura dell’argomento questa dizione.

«L’Italia è una Repubblica democratica», così dice l’articolo 1 del Progetto. È stato presentato da noi e dai comunisti un emendamento aggiuntivo inteso a specificare la natura di questa Repubblica: «Repubblica democratica di lavoratori».

Ricordo all’Assemblea che questa stessa proposta fu strenuamente sostenuta nella Commissione elaboratrice di questa prima parte della Costituzione, dai nostri colleghi onorevoli Basso, Togliatti e Mancini e ci corse poco che non raggiungesse la maggioranza. Io non facevo parte di quella Sottocommissione, ma, se ricordo bene, la formula «Repubblica democratica dei lavoratori» non passò, perché raccolse 7 voti contro 8. Non voglio dire quali rappresentanti della democrazia cristiana furono favorevoli a questa formula, perché non si sa mai quale servizio si rende a mettere troppo in rilievo il particolare atteggiamento di qualche appartenente a partito diverso dal nostro. Specialmente poi in questo momento in cui, a quanto ho letto stamani nel suo organo, anche la Democrazia cristiana si preoccupa non poco del formarsi di tendenze, se è vero che la Direzione del Partito è intervenuta a proibirne l’organizzazione.

Quindi io non faccio il nome di quei colleghi – ma lo dovrei fare a tutto loro onore – della Democrazia cristiana che si trovarono d’accordo con i rappresentanti del Partito socialista e comunista in questa specificazione di «Repubblica dei lavoratori».

Ma io non intendo svolgere ora il nostro emendamento. Richiamo più che altro l’attenzione dell’Assemblea sopra la portata, il significato politico e le conseguenze degli emendamenti, in senso contrario, presentati da altri colleghi, i quali vorrebbero che, non solo non si aggiungesse la specificazione «di lavoratori», ma che, nel secondo comma dell’articolo, non si dicesse neppure «la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». Alcuni propongono di. attribuire al lavoro un concorso nell’organizzazione della vita della Repubblica. Altro che concorso!

Altri vorrebbero affermare che il fondamento della Repubblica non sta nel lavoro, ma nella libertà e nel lavoro, mentre, poi, mettono da parte i lavoratori per sostituirli con i cittadini nell’indicare l’organizzazione del Paese.

Altro collega, di altro settore, propone di sopprimere senz’altro la parola «lavoro» con tutti i suoi derivati.

Per concludere su questo punto, per noi oggi non si tratta di un’affermazione di principî, quanto di una constatazione storica. Il nostro Paese se risorgerà, come vogliamo che risorga, come, nonostante tutto, sta risorgendo, se troverà, e la deve trovare, certezza di vita e di prosperità, sarà un Paese di lavoratori.

La fatica della ricostruzione sarà gigantesca. Diranno i credenti che richiederà un aiuto divino. Certo ci vorranno sforzi e fatiche, che il lavoro potrà compiere soltanto se avrà la certezza di non servire interessi egoistici, ma di giovare a tutti, alla collettività. Devono i lavoratori avere questa certezza e la sensazione che la Repubblica è cosa e casa loro.

Un accenno all’ultima parte dell’articolo 1°: «La sovranità emana dal popolo».

Alcuni colleghi non sono entusiasti in questo caso del verbo «emana». C’è chi propone «promana»; altri «risiede». È questione di forma.

Credo, piuttosto, dover richiamare l’attenzione sull’espressione «ed è esercitata, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Io non esiterei a togliere questa specificazione. Probabilmente essa è dovuta al ricordo dello strapotere della volontà statale sotto il nefasto regime fascista, e la soppressione di questa aggiunta potrebbe dare il sospetto, non di fascismo, venendo da parte nostra, ma di totalitarismo, di dittatura. Spettri, questi, che si evocano tanto di frequente! Quindi mi astengo dal proporne l’abolizione.

Ma, secondo me, occorre, se non altro dire: «La sovranità promana – o deriva – dal popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Altrimenti non si sa con precisione da chi questa sovranità viene esercitata, mentre dovrebbe risultar chiaro che viene esercitata dal popolo o direttamente o attraverso i suoi delegati, i suoi rappresentanti o, insomma, attraverso quegli organi e con quelle modalità e con quei mezzi che le leggi e la Costituzione dovranno determinare.

Un’altra osservazione, anche questa di carattere generale, vorrei fare sopra la prima parte dell’articolo 6.

I colleghi sanno che a questo Progetto, fra i tanti appunti che gli sono stati mossi, vi è stato quello, ripetuto con maggiore insistenza di ogni altro, di essere troppo ricco di affermazioni finalistiche. Ebbene, forse qui abbiamo un’affermazione finalistica, che, se non è dannosa, è certo superflua. Basterebbe dichiarare – e la norma risulterebbe più eloquente nella sua concisione – che la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui e alle formazioni sociali, senza parlare di principî inviolabili e sacri. Si potrebbe forse trovare qualche altro aggettivo. Ma sopprimere senz’altro l’affermazione non sarebbe che bene.

Vi è poi l’articolo 7 che dice: «i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di opinioni religiose e politiche sono eguali davanti alla legge».

Siamo tutti d’accordo nella sostanza e la sostanza è che la legge è uguale per tutti, e che tutti i cittadini sono eguali dinanzi alla legge. Anche qui evidentemente, in questa specificazione, si sente la condanna del regime nefasto che si caratterizzò nella sua attività criminosa, anche più barbaramente che in qualsiasi altro modo, con la persecuzione razziale; e si è voluto stabilire un principio di eguaglianza di tutti i cittadini senza distinzione di razza.

Ma questa parola «razza», suona tanto male. Mi pare sia stato l’onorevole Lucifero a proporre in seno alla prima Sottocommissione di sostituirla con la parola «stirpe». «Razza» fa pensare più che agli uomini, agli animali. Ma esaminando la questione dal punto di vista linguistico, storico, scientifico è difficile sostituirlo e anche «stirpe», non credo che potrebbe essere un termine proprio. Comunque ho voluto richiamare l’attenzione dei colleghi anche su questo punto della disposizione. Certo, che se non si cede a certi tristi ricordi ed al bisogno di condannare, ogni volta che se ne presenta l’occasione, inumane, odiose distinzioni che nel passato portarono a tante iniquità, basterebbe dire che tutti i cittadini sono eguali di fronte alla legge, salvo poi colpire la eventuale propaganda antirazziale, annoverandola tra le attività criminose, e dando così vita ad una forma di reato che dovrebbe trovar nel Codice penale una severa sanzione.

Egregi colleghi, io dovrei ora avvicinarmi a quello che mi sembra l’onorevole Marchesi abbia chiamato un roveto ardente; il roveto ardente dell’articolo 5.

Mi ci avvicino cercando di non bruciarmi.

Vorrei dire di più, cercando di non scaldarmi neppure a tanta fiamma.

Onorevoli colleghi, il problema è divenuto di una importanza capitale. Ha già dato luogo qui ad elevatissime discussioni in tutti i settori. Bisogna riconoscerlo. Non dobbiamo diminuire noi stessi e disconoscere il valore di quest’Assemblea. Io posso affermarlo, perché sto per dirvi delle cose così semplici su questo tema che nessuno può pensare che io mi voglia includere fra gli oratori ai quali in questo momento mi riferisco. Dobbiamo riconoscere che la discussione di questo importantissimo problema ha raggiunto delle altezze che farebbero onore all’Assemblea di qualsiasi altra Nazione. (Approvazioni).

Io invece, egregi colleghi, mi permetto di fare alcune osservazioni, mettendomi dal punto di vista di un cittadino, non dico qualunque, perché questo aggettivo è ormai un po’ compromesso, ma dirò dal punto di vista di un cittadino qualsiasi che abbia potuto seguire con attenzione questa discussione ed abbia anche ieri ascoltato il discorso dell’onorevole Jacini, veramente eletto nella sostanza, come nella forma.

L’onorevole Jacini ci portò alla conclusione dei Patti Lateranensi con una chiarezza di esposizione, che dimostrò la sua grande padronanza della materia. Ma egli tirò l’acqua, se non al suo mulino, certamente a quello della democrazia cristiana, giacché i fatti si prestano spesso ad essere ricostruiti come meglio si vuole. Vedete, e si tratta di episodi del nostro tempo, io ancora non sono riuscito a sapere chi ha ragione fra l’onorevole Nitti e l’onorevole Orlando, a proposito della priorità dell’iniziativa della Conciliazione.

NITTI. Glielo spiegherò.

TARGETTI. Ed io gliene sarò proprio grato. Dall’onorevole Orlando abbiamo sentito dire con ricchezza di particolari, che è stato lui a Parigi a condurre le cose in buon punto. Ma quando l’onorevole Orlando disse questo, l’onorevole Nitti incominciò a scuotere la testa. Il contrasto è evidente. Questo per dire quanto sia difficile essere precisi. L’onorevole Jacini alla sua volta ha detto molte cose utili, più utili però alla sua tesi che inconfutabili, anche in linea di fatto. Comunque, tutti abbiamo ammirato la sua competenza, la nobiltà del suo pensiero, ed io l’ho tanto più apprezzato, il mio vecchio amico, quando ha detto che le religioni diverse dalla religione cattolica debbono, appunto perché sono religioni di minoranza, essere ancor più difese e protette.

Ma, o che io in quel momento mi sia distratto, o sia colpa della cattiva acustica di questa sala, o sia stata dimenticanza dell’onorevole Jacini, fatto è che io non ho saputo da lui perché i Patti Lateranensi debbano figurare nella Carta costituzionale. Non ho saputo quello che più mi premeva di sapere.

JACINI. Vuol dire allora che io mi sono spiegato molto male.

TARGETTI. O sarò io che non avrò capito: giacché non voglio ammettere che l’onorevole Jacini si sia spiegato male. Questa, comunque, è la questione che dovrebbe essere chiarita e che, per ora, è rimasta oscura almeno per me.

Che questi Patti esistano è una realtà. Se la democrazia cristiana si accontentasse, pertanto, della constatazione della sussistenza attuale di questi Patti, credo non troverebbe nella sua pretesa alcun ostacolo. Sarebbe la constatazione di un fatto storico. Ma qui si tratta di ben altro. Parlo – ripeto – col linguaggio di chi non abbia troppa confidenza né con la storia né col diritto, e mi domando: perché questa insistenza della democrazia cristiana ad includere nella Carta costituzionale il richiamo dei Patti Lateranensi? Quando si tiene presente che l’autore, il creatore di questa formula è stato l’onorevole Tupini, si capisce che la ragione ci deve essere, anche se non si vede da parte di un osservatore superficiale ed ingenuo; la ragione ci deve essere e deve avere un grande significato.

Lasciamo da parte – lo ripeto – le questioni storiche, le questioni giuridiche, le questioni tecniche. L’onorevole Orlando – e qualcuno si è azzardato a dire che questa è stata una malizia cui il grande parlamentare è ricorso – si trincerò dietro il tecnicismo e, disse che questa non era materia giuridica, materia di Costituzione. No! queste sono eccezioni che dobbiamo superare. Poco ci interessano: è la sostanza che ci interessa. Noi ci chiediamo: a che cosa mira questa disposizione? Essa dice: «I loro rapporti – cioè fra lo Stato e la Chiesa cattolica – sono regolati dai Patti Lateranensi». Se ci fosse l’avverbio «attualmente» si sarebbe tutti d’accordo, perché – ripeto – questa è una realtà storica. Ma poi si aggiunge: «Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata non richiede procedimento di revisione costituzionale». Qui è ammirevole la forma, perché chi si avvicini per la prima volta a questa parte dell’articolo ha quasi l’impressione che sia una disposizione più a favore dello Stato, che della Santa Sede. Dicendo: «qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede», ecc. ecc. sembra si tratti di una concessione, di una facilitazione a modificare i Patti.

TUPINI. Comunque, questa seconda parte non è mia; la prima sì.

TARGETTI. Ma meritava di esserlo anche la seconda, perché è piena di significato e di conseguenze; è un capolavoro. (Approvazioni a sinistra).

Ma io domando ai colleghi che cosa significhi questo? Significa che i Patti Lateranensi sono e rimangono quello che sono, che se si trova un accordo fra lo Stato e la Santa Sede allora – bella forza! – si possono modificare come si vuole. Siamo d’accordo. Questa è l’ipotesi della volontà bilaterale. Ma se questo accordo non si trova? Eh, caro mio collega Dossetti, se si trattasse soltanto di aprire le braccia come ella fa, poco male. Ma per arrivare a qualsiasi modificazione, a qualsiasi ritocco, qualsiasi correzione, pensi, pensi l’Assemblea a quale cammino si dovrebbe fare. Eppure di ritocchi, di correzioni, in senso opposto sia pure, anche l’on. Jacini ieri ammise che ce ne fosse bisogno.

L’onorevole Jacini non è d’accordo che se la nomina dei Vescovi, degli Arcivescovi, non è più sottoposta all’«exequatur», debba essere, in fondo in fondo, di gradimento dello Stato. Non è d’avviso che gli ecclesiastici siano esclusi dalla vita politica. Una esclusione, onorevole Jacini, più di forma che di sostanza. Un sacerdote non si può iscrivere alla democrazia cristiana; ma, che da questo si desuma che nessun sacerdote vive la vita della democrazia cristiana e non agisce nell’orbita del Partito democratico cristiano il passo è un po’ lungo, tanto lungo che è un po’ difficile farlo. Comunque, qualsiasi modificazione, in conseguenza di quest’articolo 5 attraverso una legge di revisione costituzionale. L’Assemblea mi insegna che la revisione costituzionale non si può fare che attraverso una legge approvata da tutti e due i rami del Parlamento, in due letture e fra l’una e l’altra lettura deve correre un intervallo non minore di tre mesi ed in seconda lettura la legge deve riportare la maggioranza assoluta dei membri di ciascuna Camera. Ma, quando si sia arrivati in fondo a questo lungo cammino, basta che un quinto dei componenti della prima e della seconda Camera lo richieda, e questa legge di revisione della Costituzione dovrà essere sottoposta a referendum popolare. Questo che cosa significa? Questa difficoltà di revisione di qualsiasi parte, di qualsiasi articolo della Costituzione, quali conseguenze porta, o, meglio, che cosa impone? Che nella Costituzione non si collochino principî, norme che valgano soltanto per oggi e neppure soltanto per domani o domani l’altro.

Ciò che oggi noi nella Costituzione affermiamo o neghiamo, deve valere, come comando o come divieto, od almeno come direttiva anche per un lontano domani. Si deve, quanto meno, presumere che valga. Ed allora, colleghi della democrazia cristiana, voi che non siete la maggioranza in questa Assemblea, come potete pretendere di inserire nella Costituzione una norma che impedisca qualsiasi modificazione dei Patti lateranensi? Mi dispiace che la lancetta dell’orologio mi ricordi il dovere che io ho di concludere per non trasgredire una regola che abbiamo fissata, tutti d’accordo, allo scopo di non prolungare eccessivamente queste nostre discussioni.

È certo che va fatta una distinzione fondamentale fra il Trattato ed il Concordato. Fra la portata dell’uno e quella dell’altro. Ma l’onorevole Togliatti ha ragione quando dice, a proposito del Trattato, che l’articolo 1° fa rivivere l’articolo 1° dello Statuto Albertino. Ha ragione di dolersi di ciò anche se non è perfettamente esatto dire che sia senza altro travasato nella Costituzione attraverso l’articolo 5, l’articolo 1° dello Statuto. C’è una differenza. È vero che con quell’articolo 1° si attribuisce allo Stato italiano una specie di religione di Stato; ma, mentre nello Statuto Albertino si dice delle altre religioni che sono tollerate, ciò non è ripetuto nell’articolo 1° del Trattato.

TOGLIATTI. Può essere anche peggiore.

TARGETTI. Comunque sia, e dovendo affrettarmi alla conclusione, io sono costretto a limitarmi a ricordare all’Assemblea che nel Concordato esistono norme le quali contrastano in pieno con principî solennemente affermati dal nostro Progetto di Costituzione, norme che qui sono già state ricordate. Questo contrasto è così innegabile e forte che, a quanto ricordo, lo stesso onorevole Dossetti (non so se gli si fa del bene o del male a ricordarlo come esempio di una grande comprensione in alcuni campi), non sia stato dei più contrari a riconoscere nella prima Sottocommissione che qualche ritocco sia necessario. Certamente l’onorevole Merlin deve averlo convenuto, se non altro, relativamente a quell’articolo 5, al quale non ha certo dato buona fama il doloroso episodio Bonaiuti. Noi non possiamo oggi parlare della questione della scuola, cioè dell’azione che spetta allo Stato, alla Repubblica, in questo campo. Ma, egregi colleghi democristiani, mettetevi una mano sulla coscienza e diteci se, al nostro posto, voi potreste mai accedere ad una proposta di legge che tramandi ai posteri questo principio stabilito nell’articolo 36:

«L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana», e si aggiunge: «secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica». Eppoi si aggiungono le norme regolatrici di questo insegnamento, per le quali l’autorità ecclesiastica entra in pieno nella scuola dello Stato. Tutto ed a parte la quistione della giurisdizione matrimoniale, che non può certamente considerarsi sepolta. Egregi colleghi, noi non diciamo cose non vere quando diciamo che e lontana da noi l’idea di creare motivi, pretesti per una discordia religiosa. _

Io, del resto, sono dell’opinione che questa famosa pace religiosa, che si dice conquistata nel 1929, non sia mai stata neppure antecedentemente turbata. Intendo turbamento della pace religiosa un impedimento od almeno una limitazione dell’esercizio del culto, intendo episodi di contrasti religiosi. Ma questo non si è verificato neppure a questione romana aperta, neppure prima che la Santa Sede riconoscesse Roma capitale d’Italia.

Comunque, voi sapete che è un atteggiamento ufficiale del Partito socialista, confermato recentemente qui dall’onorevole Nenni come anche del Partito comunista questo: di non fare niente che possa turbare questa pace religiosa.

MONTERISI. Allora, perché ve ne preoccupate tanto?

TARGETTI. Questa volta mi azzardo a dire che è il collega interruttore che non ha compreso o non vuol comprendere. Noi diciamo chiaramente che non possiamo accettare di essere vincolati ad eternare includendoli nella Costituzione, questi determinati rapporti fra la Chiesa e lo Stato. Rivedremo questi rapporti al momento opportuno; ci metteremo tutti la migliore buona volontà per raggiungere un’intesa sulle modificazioni, gli aggiornamenti da apportarvi. Non mercanteggiando, ma comprendendoci a vicenda. Ma intanto nessuno può pretendere che noi, col nostro modo di pensare, di sentire, di considerare la vita e il mondo, non voglio dire con la nostra filosofia, per non adoperare parole troppo grosse, si sottoscriva, come se corrispondesse alle nostre convinzioni, ciò che non pensiamo, ciò che va contro le nostre convinzioni.

Noi che abbiamo un grande rispetto per la vostra fede ci limitiamo a chiedere eguale rispetto per quella che, se non è una fede religiosa è una convinzione, un’idea di cui siamo gelosi quanto lo siete voi delle vostre credenze.

L’onorevole Marchesi vi diceva: «Concedeteci, ammettete che anche senza una fede religiosa si può vivere onestamente».

Una voce a destra. Vi sia concesso!

TARGETTI. Io aggiungo che non solo si può vivere onestamente senza nessuna fede religiosa; ma si può essere anche capaci dei più grandi sacrifici, dei più puri eroismi, come tanti dei nostri fratelli hanno dimostrato, lottando, cadendo per il socialismo, per la libertà.

Una voce a destra. Concesso anche questo!

TARGETTI. Questo va riconosciuto, onorevole interruttore, e non concesso. E non ci sembra di pretendere troppo, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, se vi chiediamo di riconoscere parità di diritto alla difesa ed al rispetto delle proprie idee anche a quanti, come noi, non riescono a vedere nella volta celeste, che stelle, stelle e stelle. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Giordani. Ne ha facoltà.

GIORDANI. Onorevoli colleghi. L’onorevole Targetti ha detto benissimo che il dibattito sui rapporti fra Chiesa e Stato, in questa Assemblea, è stato veramente degno dell’alto argomento, e si può dire che l’altezza del tema ha tratto quasi tutti gli oratori al livello di essa. L’Assemblea ha scritto una degna pagina su questo punto.

In fondo, noi ancora una volta siamo portati ad esaminare un problema che ha appassionato la coscienza dell’umanità da 20 secoli.

Prima questo problema non esisteva; prima, come è stato detto da uno studioso – Fustel de Coulanges – lo Stato era clericale: era Stato e Chiesa nello stesso tempo. Infatti Giulio Cesare era dittatore politico e Pontefice massimo.

E ancora l’anno scorso, il Mikado impersonava la suprema autorità politica e religiosa del Giappone.

È nata col Cristianesimo la distinzione fra la sfera di Cesare e quella di Dio. La distinzione porta conseguenze drammatiche ed ha prodotto una delle forze dinamiche più poderose della storia umana. Di fatti, questa distinzione della sfera di Cesare da quella di Dio, significa che la sfera di Cesare non è più totalitaria, non comprende più tutta la vita dell’uomo, ma soltanto una parte di essa.

Nasce così la libertà morale. In questo senso, volevo dire, lo Stato laico, lo Stato cioè distinto dalla Chiesa, è una conquista cristiana. E badate che non è soltanto accorgimento polemico o apologetico. Lo dicevano due anni fa i vescovi francesi che se per laicismo si comprende questo, un tale laicismo lo accettiamo anche noi cattolici.

Ieri l’onorevole Rossi Paolo, citava un articolo sul Popolo, che diceva appunto questo; ma io lo trovo affermato anche su un documento che potrei chiamare ufficiale, un quaderno intitolato La Chiesa, edito dall’Istituto cattolico di attività sociale, l’I.C.A.S., dove è detto: «Molti tuttavia sono tornati a richiedere lo Stato laico e nello stesso tempo assumono di volere assicurare il rispetto alla concordia. In questa concezione, lo Stato laico sarebbe quasi sinonimo che non subisce l’influenza della Chiesa, e se i suoi sostenitori fossero in buona fede, anche i cattolici potrebbero sostenere tale nuova coniazione di concetti».

Io ritengo che i sostenitori siano in buona fede e quindi possiamo sostenere tale nuova coniazione di concetti.

La definizione del problema fra Chiesa e Stato è veramente ardua. Questi rapporti si possono risolvere o nell’accordo o naturalmente nel disaccordo. L’accordo favorisce quella pace spirituale, quella pace interiore che ha formato la grandezza dell’Italia.

Nei tempi più felici l’Italia aveva il popolo che godeva della pace religiosa e politica, cioè che non conosceva il contrasto fra le due attività.

Il disaccordo invece danneggia tanto la Chiesa quanto lo Stato, perché se le due società sono indipendenti, come è detto giustamente nell’articolo 5 del progetto, però i loro rapporti vanno regolati tenendo presente che cosa significhi Chiesa e che cosa significhi Stato. Qui veramente vorrei introdurre una concezione democratica che manda un po’ per aria le concezioni giurisdizionalistiche che ancora sopravvivono e che tuttora impediscono di vedere nella sua vera realtà il problema, perché si pensa che la Chiesa sia qualche cosa al di fuori di noi. Si vede soltanto la Curia, il Vaticano, i vescovi. Certo, anche questi sono la Chiesa: anzi sono le basi della Chiesa; ma nessun edificio consiste solo nelle basi. La Chiesa, come diceva al suo popolo di africani Sant’Agostino di Ippona, la Chiesa siamo noi. Ciascuno di noi è cittadino ed è credente; in quanto cittadino, potremmo dire, è Stato; in quanto credente, è Chiesa; sicché siamo la stessa persona su cui si esercitano le due attività. Ed allora il problema si risolve, se si risolve dentro la coscienza di ciascuno di noi. Non vale fare delle leggi esterne e degli istituti esterni, se poi si lasciano il dissidio e l’incertezza nel nostro spirito. Quindi la risoluzione va ricercata nel popolo cristiano, il quale è, secondo San Paolo, la Chiesa. La Chiesa non è altro che il popolo sovrano, o, come allora egli lo chiamò, «il popolo regale». Ed allora si vede che la difficoltà dell’accordo e del disaccordo sta appunto nella possibilità di trovare questa conciliazione dentro la coscienza dei cittadini.

Il disaccordo porta a varie soluzioni.

La prima è quella per cui lo Stato ignora la religione del cittadino. Che lo Stato ignori la religione del cittadino significa che io cittadino ignoro me credente. È un assurdo e lo diceva bene Mazzini in quella prefazione al suo libretto Dei doveri che scrisse per i lavoratori, ed in cui spiegava come sia impossibile separare in questo senso l’attività politica e l’attività sociale dalla concezione filosofica e ideologica del popolo.

«Quando andate da un affittacamere» diceva Chesterton «non domandategli il prezzo della camera, ma domandate la sua concezione dell’universo. Da quella dipende il prezzo della camera». Noi siamo cittadini e credenti nello stesso tempo e non possiamo separarci da noi stessi. Ciascuno di noi non può essere vivisezionato in due parti: una parte naturalmente reagisce sull’altra, una parte non può ignorare l’altra. Io, quando esco di casa, non posso lasciare all’attaccapanni la mia coscienza di cristiano.

La seconda soluzione è, potremmo dire, la soluzione stupida, cioè la persecuzione. Tante volte lo Stato ha tentato di liberarsi da questo problema perseguitando la Chiesa! Ma perseguitare la Chiesa significa perseguitare i propri cittadini battezzati, cioè significa in sostanza svenare il proprio organismo sociale. È un atto di emorragia che si pratica al proprio organismo sociale, e difatti ogni persecuzione si risolve non soltanto in danno della Chiesa, ma anche e soprattutto dello Stato, e si arriva sempre al punto che questo Stato deve fare macchina indietro.

La terza soluzione, e questa è la più scaltra, consiste nel crearsi una Chiesa ancella, una Chiesa fatta a libito e servizio dello Stato. Questo è stato tentato in Oriente.

C’è quel bellissimo libro dello scrittore russo Soloviev, stampato a Parigi, perché la censura di Mosca non ne permise la stampa a Mosca, La Russie et l’Eglise universelle, che spiega come tutte le eresie in Oriente nascessero nella Corte imperiale, dove i sovrani si mettevano a teologizzare, come facevano i nostri sovrani giurisdizionalisti, non per il gusto della religione, ma per il desiderio di rendersi indipendenti dalla morale religiosa; perché quella morale che era di non rubare, non uccidere, risultava incomoda moltissimo ai tiranni.

Ed allora, in Oriente, tutte le eresie – alle volte contemporaneamente due eresie contradittorie nello stesso tempo – furono manipolate nella Corte imperiale, cioè al centro della politica. E questo avvenne finché non si riuscì a separarsi da Roma. Separatosi l’Oriente da Roma, non ci fu più bisogno di manipolare eresie. Qualcosa di simile successe per i prìncipi germanici nel secolo XVI.

L’Italia non fece questo, perché non poteva separarsi dalla matrice, non voleva separarsi da Roma; l’Italia, anzi, fu la nazione più fedele all’idea cattolica, quindi all’idea della distinzione tra Chiesa e Stato.

In Italia, il problema dei rapporti è estremamente facile e, nello stesso tempo, estremamente difficile. È estremamente facile, onorevole Targetti, perché la grande maggioranza del popolo italiano è cattolica. Guardate i censimenti, anche anteriori al fascismo, e voi trovate il 97 per cento circa di cattolici. In democrazia, la maggioranza significa qualcosa; cioè il popolo cattolico, che ha la maggioranza, vuole una sua pace religiosa, ha bisogno di una sua pace religiosa. Non concederla, non realizzarla, significa fare il danno di questa grande maggioranza.

Ma, il problema è per noi anche estremamente difficile e delicato, perché ci troviamo nelle condizioni di albergare una capitale politica che è anche la capitale del mondo cattolico, che è la capitale considerata tale da 300, 400 milioni di esseri; quella città, la quale, come ricordava ieri l’onorevole Rossi, era considerata da quel pellegrino che veniva a farsi macinare a Roma, come frumento, dalle tigri nel secolo II, come la città che ha la presidenza dell’amore. E l’amore è anti-limite, l’amore è quello che ci obbliga a superare di continuo anche i particolarismi di razza, i particolarismi di casta ed i particolarismi di nazione. Quindi, vedete quale problema grave devono risolvere il popolo italiano ed il Governo italiano.

Ma non basta. Questa capitale del mondo cattolico contiene uno staterello, il più piccolo Stato del mondo, che ospita la più grande autorità spirituale del mondo. Quindi, ci si pone sempre questo problema: conciliare il particolarismo, gli interessi nazionali, con gli interessi supernazionali religiosi, mantenere d’accordo queste due funzioni che spesse volte vanno in disaccordo.

Il capo di questo Stato piccolissimo, che è albergato dentro Roma, è un sovrano: è il Papa, che è un sovrano indipendente, ma non straniero, come qualcuno pensa; e non è straniero, non soltanto perché da 400 anni i Papi sono sempre italiani, e magari romani, ma non è straniero per il fatto che questo sovrano è vescovo di Roma, è il primate d’Italia. Quindi, è cosa nostra, appartiene alla nostra comunità, virtualmente è il nostro Capo. Arduo problema, quindi, che è stato assegnato al popolo italiano, e i medioevali avrebbero detto per una ragione provvidenziale, grandissima, perché il popolo italiano più di qualunque altro possiede il senso della universalità.

Lo diceva una rivista francese L’Esprit, all’epoca dell’elezione dell’ultimo Papa. Ai francesi diceva: Non vi sorprendete se i Papi sono italiani; lo sono perché il Papa è il Vescovo di Roma, ma lo sono soprattutto perché nessun popolo come l’italiano è capace di accogliere e di difendere il sentimento dell’universalità. In questo senso il popolo nostro è erede dell’antica Roma che, pure nella razionalità pagana, già realizzò quel magistero cosmopolita che fu proprio degli stoici.

Bisogna riconoscere che il mondo cattolico attorno a noi, col quale noi siamo intimamente legati, perché questo mondo cattolico guarda di continuo a Roma, ha capito e apprezza questa funzione, questa sensibilità del popolo italiano. Io credo che nessuno vorrebbe che la Santa Sede fosse al di fuori dell’Italia, perché ritiene che nessun popolo come il popolo italiano ne sappia fare la più accorta, la più prudente, la più intelligente difesa esterna.

Per tutti questi motivi, quando nel 1870 si produsse la frattura fra lo Stato e la Chiesa, si creò un disagio nello spirito degli italiani e nello spirito dei cattolici di tutto il mondo, disagio che la legge delle guarentigie cercò di risolvere. Badate che la legge delle guarentigie, come ha detto ieri l’onorevole Jacini, è stata una grande legge, la quale tra l’altro permise ai Conclavi di tenersi in tutta libertà. Ma era un atto unilaterale e quindi non poteva sussistere, e quindi sopravvisse il disagio e sopravvisse la speculazione su quel disagio, speculazione all’interno, ma speculazione soprattutto all’esterno.

Ieri c’è stato raccontato come anche nel Gabinetto della Maestà apostolica di Francesco Giuseppe fosse preparato un disegno di legge con un progetto di Stato in miniatura per la città del Vaticano. Ma ricordate che un disegno simile voi lo potevate trovare anche nei cassetti di Presidenti di Repubbliche laiche, perché quando si trattava di mettere gli occhi nelle cose nostre e di inserire possibilmente un’azione nociva nelle case italiane, tutti quanti si pareggiavano. Questo era un problema grave, ma il grave e l’importante, onorevole Rossi, non è che ci fosse della gente che pensasse di intervenire in Italia per risolvere la questione romana, l’importante è che il Papa non volle mai questo intervento, non volle mai saperne di questi progetti e li respinse tutti, perché la Santa Sede voleva la risoluzione del problema dalla coscienza libera del popolo italiano e tanto aspettò fino a che questo non avvenne e fu il popolo italiano che risolse la questione romana. (Applausi al centro Interruzione dell’onorevole Tonello).

E qui ha ragione l’onorevole Marchesi, il quale ha detto che la risoluzione della questione romana si poté avere perché finalmente le classi popolari espulsero quella egemonia che aveva conquistato quella borghesia volterriana e anticlericale, la quale aveva arricchito i propri patrimoni domestici con la spoliazione delle chiese e dei monasteri ed arricchiva la propria posizione politica mediante la coltivazione del dissidio interno della nazione, e viveva anzi del dissidio della nazione. (Applausi al centro).

C’è stato bene spiegato come si addivenisse alla conclusione della Conciliazione: il tentativo di Nitti e il tentativo di Orlando; e veramente la Conciliazione era matura negli spiriti quando venne Mussolini, che colse il frutto maturato dall’albero, maturato nella coscienza del popolo italiano. Mussolini lo fece per aggiungere al proprio prestigio e al proprio regime un’aureola la quale sapeva, dalle dichiarazioni di Cavour e di Crispi, quanto sarebbe stato grande; e difatti gli giovò enormemente presso le Nazioni estere. Senonché, incostante com’era, si affrettò a sciupare colle sue mani questo prestigio; e difatti si può dire che il conflitto ideale, il conflitto di principio tra fascismo e cattolicesimo, tra totalitarismo e cattolicesimo, cominciò all’indomani della Conciliazione. Già c’era prima, ma l’urto, che portò quasi alla rottura nel 1931, fu all’indomani della Conciliazione.

Questa Conciliazione comporta, come sapete bene, un Trattato ed un Concordato.

Il Trattato si riferisce al territorio; un territorio così piccolo, che potremmo definirlo un territorio simbolico, come il corpo di San Francesco; così piccolo, che – l’abbiamo visto nei cinque anni di guerra – costituisce un vero blocco attorno all’azione del Papato; tanto che per cinque anni il Papa non ha potuto comunicare coi vescovi e coi popoli cattolici, quasi non ha potuto ricevere nessuno dei rappresentanti dei popoli che erano in conflitto con l’Italia; così piccolo, che non c’è neppure un campo di atterraggio per aeroplani stranieri.

Non solo; ma, per riguardo all’Italia, in quei cinque anni, il Papato, la Santa Sede non partecipò a nessun genere di convegni internazionali, neppure culturali, per non parere di compromettere la posizione dell’Italia. Aspettò.

Senonché il Papa – lo sapete – non fa questione di territorio. La sua difesa non sta nell’estensione del territorio o nelle mura del Vaticano e neanche in quel cannone di stagno, che serve solo a tenere una gabbia con un canarino; sta in quel baluardo costituito dalla simpatia, dall’onestà, dalla coscienza del popolo italiano. Il baluardo del Papato, della Città del Vaticano è la coscienza del popolo italiano. Ma questa coscienza il Papa vuole salvata, custodita, ed ecco il Concordato, che fa parte integrante ed è completamento necessario del Trattato; appunto perché raggiunge questa difesa della sua indipendenza e della sua sovranità, che territorialmente non è raggiunta.

Ora, il problema che si pone è questo: questo Trattato e questo Concordato devono essere inseriti nella Costituzione?

O meglio ancora: avendoli la Sottocommissione e la Commissione dei Settantacinque inseriti già nel progetto di Costituzione, dobbiamo oggi noi toglierli?

La risoluzione di questo problema ci lascia molto tranquilli, perché su tutti i settori dell’Assemblea è stata affermata la volontà di pace religiosa. Questa volontà, a mio parere, è uno degli elementi di fortezza maggiore della nuova Repubblica italiana; se la sapremo mantenere, nascerà dalla pace religiosa ogni forma di solidarietà, di cooperazione, anche nel campo politico, anche nel campo sociale.

Da lì partono per noi tutte le energie che muovono la ricostruzione.

Ora, noi desideriamo che questa pace in nessun modo si turbi; e perché non si turbi, riteniamo che sia meglio non toccare niente o – come diceva l’onorevole Tupini – quieta non movere.

Questa costruzione, che il genio politico degli italiani ha preparata, è così delicata, ci è costata tante lagrime e tanta fatica, che oggi il toccarla, il comprometterla significa veramente sciupare un capolavoro e non si capisce a beneficio di chi, se non dei re di… Prussia.           

Perché noi vogliamo inserire i Patti Lateranensi nella Costituzione? Perché vogliamo affermare la loro enorme ed unica importanza di Patti internazionali. Non si tratta del solito Trattato fra due potenze, fra due sovrani. Quando si fa un Trattato col Presidente di una Repubblica d’America, al popolo interessa ben poco sapere come si chiami il Capo di questa Repubblica e che vita faccia. Ne ignora forse anche il nome e non se ne cura; è cosa estranea alla sua coscienza. Ma qui il Trattato è stato concluso con un Capo che è il Capo spirituale della nostra religione, che è il fondamento della nostra Chiesa, e nel quale s’impernia tutta l’autorità e il prestigio della nostra fede. È dunque qualcosa di unico. Non si tratta qui di interessi economici pattuiti fra due Stati, ma dei più alti interessi spirituali che hanno trovato la loro sistemazione; sistemazione che non riguarda soltanto noi in Italia, ma i cattolici di tutto il mondo.

Ecco perché noi vogliamo che questi Patti siano consacrati in un documento che ne affermi la solennità, l’unicità e la stabilità. Perché se noi oggi, amici miei, cominciassimo con l’estrometterli dal progetto di Costituzione, noi li indeboliremmo, e questo è il primo risultato che se ne avrebbe.

Guardiamo le cose sotto l’aspetto dell’interesse politico: se noi oggi ripudiassimo il progetto che ci è stato offerto dalla Commissione, si verrebbe a dire che questi Patti si sono, per la strada, indeboliti, e che la loro stabilità oscilla. Il popolo non si potrebbe sottrarre a questa impressione, che già a 15 o 16 anni di distanza si pensi a modificarli, quasi che tutta quella stabilità sia per tramontare.

Quindi, alla stregua di questa esigenza fondamentale, tutti i dubbi che sono stati sollevati, tutte le perplessità a cui accennava adesso l’onorevole Targetti e il tecnicismo a cui accennava l’onorevole Orlando, hanno una importanza subordinata.

Noi vogliamo contemplarli sotto l’aspetto dell’interesse politico. Per il popolo italiano oggi conviene quieta non movere, conviene lasciare che il Trattato e il Concordato siano là dove li ha messi la Commissione. E badate, anche la legge delle guarentigie, per gli stessi motivi, fu dal Consiglio di Stato in Italia, il 2 marzo 1878, «qualificata come legge fondamentale dello Stato». E si trattava di una legge unilaterale, di una cosa molto al disotto dei Patti lateranensi.

Noi, nell’interesse del popolo, per una ragione soprattutto democratica, chiediamo la consacrazione nella Costituzione di questi documenti. Questo è l’importante.

Per il resto si sono fatte critiche ad alcuni articoli. Ma sappiamo che c’è la valvola della revisione o di «qualsiasi modificazione bilateralmente accettata». E noi conosciamo dall’esperienza quanto generosa ed indulgente sia la Chiesa nell’accedere ad istanze ragionevoli.

Non parliamo di menomazione di libertà per nessuna minoranza, perché io ho fatto un raffronto nel mio giornale, da cui risulta che non c’è paese d’Europa in cui regni una libertà religiosa così ampia come in Italia. Vi raccontavo come neppure in Isvizzera, neppure nei paesi scandinavi si faccia ai cattolici il trattamento che qui si fa alle altre religioni. Qui c’è piena libertà per tutti; quindi cerchiamo di tener presenti le conseguenze rovinose che verrebbero oggi dal ripudio di questa inserzione. E, badate, io sono sicuro – e lo sappiamo ormai dalla storia – che la Santa Sede non dà nessun peso alle rimostranze dei cattolici esteri; ma noi sappiamo che queste sono noiose e nocive, perché la politica è fatta anche delle simpatie dei popoli: se infatti vi sono negli altri Paesi dei nuclei che dubitano della nostra serietà nel trattare il problema delicatissimo dei rapporti tra Chiesa e Stato e nel proteggere il Papato nell’esercizio delle sue funzioni, questo rappresenta un danno anche alla nostra politica che noi dobbiamo eliminare.

Veramente la Conciliazione ci ha procurato simpatie dappertutto; il che, in politica, significa anche aiuti economici. Teniamone conto. Questa è la politica: fare l’interesse del popolo, facendo anche qualche sacrificio ideologico.

Per tutte queste ragioni, sarebbe bene che questa Assemblea dichiarasse solennemente di nuovo di voler consacrare questa Conciliazione, conferendole il crisma democratico e repubblicano. La Conciliazione porta la firma di Mussolini, porta la firma della monarchia decaduta; ebbene, noi, inserendola nella Costituzione, la facciamo democratica e repubblicana.

Una voce a sinistra. Meno male!

GIORDANI. Questa democraticità cui alludo nasce proprio dalle scaturigini della nostra fede. Oggi c’è anche nei settori protestanti un risveglio di quello che si chiama Sensus ecclesiae: il senso della Chiesa, come popolo che agisce nel campo dello spirito. Orbene, questo avviene in Italia; e il popolo agisce nella concordia e nell’unità, con enormi frutti e beneficî nella politica stessa.

I Patti lateranensi consacrarono e saldarono l’unità politica in Italia. L’onorevole Togliatti tiene molto a questa unità del popolo italiano: ebbene, su quale base noi possiamo fondarla meglio, che sulla base religiosa? Specialmente in questo momento, che stiamo attraversando, di enorme crisi, noi abbiamo bisogno di ciò per creare gli istituti della nuova repubblica, per creare e per operare quelle riforme sociali che saranno possibili soltanto in uno stato di euforica concordia. Questo si farà, se noi considereremo definitivamente chiusa questa partita con i Patti lateranensi del 1929, conferendo ad essi quella consacrazione che la coscienza cattolica detta.

L’altro ieri, l’onorevole Marchesi ha detto così belle cose sulla concordia, che veramente commuovono. E allora io mi domando: perché dobbiamo sciupare questa concordia? Perché dobbiamo sciuparla in un punto così delicato? Qui non si parla più della Democrazia cristiana, ma di un interesse che sta a cuore ai cattolici di tutta l’Italia.

Si direbbe veramente che questo riavvicinarsi al tema religioso abbia irradiato su di noi un senso di fraternità dal quale molto c’è da sperare. Io credo che un riconoscimento simile conferirà all’Italia un nuovo prestigio dentro e nuovo prestigio fuori. Tra l’altro io credo che aiuterà a conquistare alla Repubblica italiana anche vari gruppi di monarchici, per esempio quei monarchici, i quali fino al 1929 erano contro i Savoia, proprio per causa della questione romana, e dopo si convertirono ai Savoia per la risoluzione della questione romana.

Con queste ragioni, Roma, sotto un duplice aspetto, per l’impulso di una doppia corrente, avrà le forze per concorrere, nell’ordine delle idee più che in quello delle potenze economico-politiche, alla creazione di un’Europa pacifica, dove, muovendo guerra alla guerra, superando i nazionalismi, si realizzi il primo atto della fondazione di quella che è stata vaticinata come la nuova cristianità giuridica dell’avvenire. E questo attraverso la trasformazione, di cui parla il Profeta, delle armi omicide in utensili di fecondo lavoro. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

Risposta dell’Assemblea Nazionale Francese al messaggio dell’Assemblea Costituente Italiana.

PRESIDENTE, Onorevoli colleghi, per mandato dell’Assemblea, che aveva espresso la sua volontà, alla chiusura della discussione sulle comunicazioni del Governo, votando ad unanimità due ordini del giorno, presentati l’uno dall’onorevole Gronchi e l’altro dall’onorevole Nenni, a suo tempo ho inviato alle Assemblee rappresentative delle Nazioni Unite un appello, e in particolare uno speciale all’Assemblea Nazionale francese. In questo appello, a tenore della volontà dell’Assemblea Costituente italiana, io avevo particolarmente sottolineato le maggiori e più gravi ingiustizie contenute nel Trattato di pace a danno del nostro Paese; avevo affermato le aspirazioni che muovono tutto il nostro popolo, indipendentemente dalle opinioni e correnti politiche alle quali di volta in volta esso aderisce, ed avevo particolarmente sottolineato le necessità della nostra Nazione, affinché essa potesse riprendere il suo cammino e dare non soltanto tutte le forze necessarie alla propria ricostruzione, ma anche alla ricostruzione del mondo intero.

Mi è pervenuta la risposta del Presidente dell’Assemblea Nazionale francese, Herriot, della quale do lettura:

«Ho ricevuto il messaggio indirizzato dall’Assemblea Costituente italiana all’Assemblea Nazionale francese.

«Questo messaggio contiene diverse considerazioni nei riguardi dei Trattati di pace. In conformità dei nostri usi parlamentari, l’ho trasmesso al Presidente della Commissione per gli affari esteri dell’Assemblea Nazionale.

«Ma, d’altra parte, il messaggio esprime la speranza che il popolo francese vorrà riprendere col popolo italiano rapporti di collaborazione e di amicizia.

«Davanti all’Assemblea Nazionale, che mi ha approvato con applausi unanimi, io ho dichiarato che avrei dato ai membri dell’Assemblea Costituente italiana, ed a Voi personalmente, l’assicurazione che noi condividiamo tale speranza. Desideriamo agire in modo da evitare, per l’avvenire, tutto ciò che potrebbe nuocere al consolidamento di una intesa franco-italiana sincera e durevole, ferma contro ogni tirannide, nella libertà e con la libertà».

I popoli, dunque, egregi colleghi, hanno la possibilità di parlarsi e di intendersi, se non ancora nel campo più vasto di tutti i problemi nazionali ed internazionali, quanto meno su quegli elementi che rappresentano un inizio fecondo di una ripresa della loro collaborazione internazionale.

E le rappresentanze elettive – e ciò sottolinea l’enorme valore della funzione della democrazia – possono farsi interpreti dei reciproci sentimenti. È un primo dialogo che ha cominciato ad intrecciarsi al di sopra di certe frontiere, se non ancora di tutte le frontiere. Credo che la nostra Assemblea Costituente sia lieta di avere presa la prima iniziativa a questo proposito. Credo che saremo più lieti se questa iniziativa ci darà i frutti che noi ci attendiamo. (Vivissimi, generali, prolungati applausi).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Ravagnan. Ne ha facoltà.

RAVAGNAN. Onorevoli colleghi, mi propongo di svolgere davanti a voi succintamente la materia che è contenuta negli articoli 6 e 7 del progetto della nostra Costituzione. È una materia che è in connessione diretta, a mio modo di vedere, con l’articolo 1.

Qual è il contenuto fondamentale degli articoli 6 e 7? Mi sembra che essi contengano tre elementi essenziali:

1°) Essi riconoscono e riaffermano quelli che si conviene di chiamare i diritti di libertà, già sanciti nelle varie Costituzioni dell’800, aggiungendo a questi il riconoscimento di quelli che conveniamo di chiamare i diritti economici e sociali;

2°) Questi diritti di libertà e diritti economici e sociali non sono soltanto riconosciuti al singolo, ma anche alle formazioni sociali nelle quali gli individui sviluppano e perfezionano la loro personalità;

3°) Non solo è dato questo riconoscimento, ma è data la garanzia dell’effettivo godimento di questi diritti, cioè la garanzia della rimozione degli ostacoli che si frappongono al libero godimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali.

Un primo problema si pone a questo punto, ed è stato sollevato da parecchi oratori che mi hanno preceduto, ossia: è necessario che nella Costituzione, accanto ai tradizionali diritti di libertà, si riconoscano ai cittadini anche i diritti economici e sociali? Alcuni colleghi hanno proposto che i diritti di libertà vengano, come è logico, riconosciuti, ma che i diritti economici e sociali vengano confinati e relegati in un preambolo.

Io affermo che non è possibile, allo stato attuale dello sviluppo storico della società, di tornare indietro e negare la evoluzione che la società moderna ha compiuto dal 1789 ad oggi; è nella coscienza universale, nella coscienza di tutti, il riconoscimento di questa situazione di fatto: che, per poter affermare la democrazia, per poter far sì che i diritti politici e le libertà politiche siano effettive, nella loro realtà, e non solo nella forma, è necessario che a tutti i cittadini siano riconosciuti i diritti economici e sociali che la nostra Costituzione elenca nel prosieguo degli articoli.

Già ai princìpî del secolo scorso i più avveduti, i più profondi pensatori, mentre riconoscevano che il nuovo Stato moderno, con l’affermazione, dell’uguaglianza politica di tutti i cittadini e con la libertà riconosciuta a tutti i cittadini, aveva fatto compiere alla società un grandissimo passo in avanti e che questa era la premessa del grandissimo sviluppo delle forze produttive, riconoscevano che, esistendo delle disuguaglianze sociali, la libertà, in fondo, non sarebbe stata che libertà delle classi possidenti di sviluppare liberamente la concorrenza fra di esse. Il movimento della concorrenza ha creato il monopolio e le classi lavoratrici hanno continuato ad aspirare alla loro libertà politica, lottando per la rimozione degli ostacoli economici che impedivano il raggiungimento da parte loro – nella effettività, nella realtà – dell’uguaglianza e della libertà politica.

Le lotte sociali che hanno percorso tutto il secolo passato, e che si ripercuotono ai nostri giorni, in fondo non costituivano e non avevano par scopo se non la conquista effettiva dell’uguaglianza e della libertà politica. Se noi guardiamo che cosa fu, in fin dei conti, che significato, che carattere ebbe l’avvento ai potere del fascismo, noi possiamo constatare oggi la cecità degli uomini politici e delle classi dirigenti, che diedero torto ai lavoratori nel loro sforzo, nella loro lotta per raggiungere una effettiva libertà ed uguaglianza politica, e praticamente diedero ragione, fecero trionfare e vincere coloro che, diventati monopolisti della produzione, integrarono il loro monopolio economico col loro monopolio politico ed instaurarono la dittatura fascista, liquidando cioè anche la libertà politica.

E se noi osserviamo ciò che avviene al giorno d’oggi, possiamo constatare che in molte plaghe d’Italia i lavoratori sono sottoposti ad ammonizione per il semplice fatto che essi aderiscono a partiti o ad organizzazioni che non sono di gradimento dei proprietari; cioè, essi sono impediti di realizzare la pienezza della loro partecipazione alla vita pubblica.

I monopoli e le industrie che hanno un carattere pubblico e generale, la cui estensione è diffusa su tutto il territorio nazionale e che sono in mani private, sono praticamente nelle condizioni di dettare leggi a tutti i cittadini; vi è quindi una disuguaglianza di fatto che si attua ed esiste fra la generalità dei cittadini e dei piccoli gruppi dominanti.

È chiaro che noi non possiamo dire di poter instaurare l’uguaglianza, la perfetta uguaglianza, nel campo delle libertà politiche, finché queste disuguaglianze di fatto non saranno scomparse o non saranno per lo meno attenuate.

Quindi, se vogliamo che la nostra Costituzione abbia un carattere effettivamente moderno, aderente alla realtà attuale, se vogliamo che la democrazia non sia soltanto una democrazia formale, ma che sia effettiva, dobbiamo integrare il riconoscimento dei diritti di libertà con i diritti economici e sociali. Ne viene, come corollario, che non si tratta soltanto del riconoscimento, ma che è necessaria anche la garanzia epperciò gli articoli 6 e 7 giustamente affermano che è garantito l’esercizio dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali, prendendo lo Stato impegno di rimuovere gli ostacoli di carattere economico e sociale che si frappongono all’esercizio e al godimento di questi diritti.

Ora, coloro i quali sostengono che questa affermazione, che questo riconoscimento non hanno che un semplice carattere programmatico, errano, a mio modo divedere, perché questa garanzia rappresenta, effettivamente, una norma costituzionale, ossia un impegno che il legislatore costituzionale affida al legislatore ordinario, quello di emanare leggi e disposizioni le quali attuino questa garanzia e la rendano effettiva.

Ora, se noi siamo convinti, e, come io credo, se la grandissima maggioranza di questa Assemblea è convinta della necessità, della opportunità che solennemente la Carta costituzionale riconosca i diritti di libertà ed i diritti economici e sociali a tutti i cittadini, è logico che noi, definendo il carattere della Repubblica, dobbiamo definirlo francamente, correttamente una Repubblica democratica di lavoratori. Se ci limitassimo a definire semplicemente la Repubblica come una Repubblica democratica, metteremmo in ombra i diritti economici e sociali, cioè affermeremmo che la Repubblica non è altro che una Repubblica di democrazia formale, quale era lo Stato anteriore al fascismo.

Se vogliamo invece che i lavoratori siano ammessi nello Stato, che il lavoro abbia il primato nella Repubblica italiana, come deve essere in uno Stato moderno, è logico che in testa alla nostra Costituzione, noi francamente adottiamo la definizione di Repubblica democratica di lavoratori.

Le obiezioni mosse da taluni, cioè che questa definizione avrebbe un carattere restrittivo, ossia consacrerebbe una specie di privilegio di una parte dei cittadini soltanto, sono obiezioni che non reggono, poiché l’articolo 7, al primo comma, stabilisce l’eguaglianza di tutti i cittadini, senza distinzione né di sesso, né di razza, né di nazionalità, né di condizioni economiche, né di opinioni politiche e religiose. Ecco quindi che questa definizione di Repubblica democratica di lavoratori non contiene né di più, né di meno di ciò che deve contenere e corrisponde al senso ed ai concetti fondamentali che ispirano gli articoli 6 e 7.

Vi è un problema secondario che, secondo me, deve essere anche risolto, quello di vedere se la formulazione degli articoli 6 e 7 corrisponda effettivamente ai concetti che la Commissione ha creduto di introdurre, e che, secondo noi, sono giusti, ai concetti cioè della dichiarazione del riconoscimento dei diritti di libertà e dei diritti economici e sociali e della loro garanzia.

E qui è da rilevare, come già è stato rilevato dall’onorevole Togliatti nel suo precedente discorso, che fra il testo della prima Sottocommissione ed il testo del progetto che ci è presentato è occorso un processo di levigazione, vi è stato una specie di laminatoio, io penso, che ha operato sopra questo testo, nel senso che il rilievo è stato perduto o è stato attenuato. Io domanderei agli onorevoli colleghi di confrontare il testo degli articoli 6 e 7 come è stato redatto dalla prima Sottocommissione con il testo del progetto. Questo afferma che la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui e alle formazioni sociali; il testo della prima Sottocommissione dice: «riconosce e garantisce i diritti dell’uomo sia come singolo, sia nelle forme sociali nelle quali esso organicamente e progressivamente si integra e si perfeziona».

Mi pare che sia più corretto il testo della prima Sottocommissione.

Nell’articolo 7 – testo del progetto – è detto: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana»; mentre il testo della prima Sottocommissione è il seguente: «È compito della società e dello Stato eliminare gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza degli individui, impediscono il raggiungimento della piena dignità della persona umana ed il suo completo sviluppo».

Io penso che sia più corretto, nel senso e nella forma, il testo della prima Sottocommissione che non il testo del progetto che ci è presentato, ed a questo proposito noi ci riserviamo di presentare le opportune proposte di emendamento in sede di discussione degli articoli.

Onorevoli colleghi, io sono convinto – e credo che il maggior numero di noi sia convinto – che questi articoli contenuti nelle disposizioni preliminari costituiscano l’essenza e la caratteristica fondamentale della nostra Costituzione. Essi, se, come noi speriamo, saranno approvati, daranno effettivamente alla nostra Costituzione il carattere di una Costituzione moderna, di una Costituzione corrispondente all’attuale stadio di svolgimento della società.

Credo che la nostra Costituzione, inspirata a questi principî, avrà non soltanto un altissimo valore di carattere interno, nel senso cioè che mentre nel passato, sotto la vecchia Costituzione, i lavoratori, le masse lavoratrici erano fuori dello Stato, con questa Costituzione i lavoratori, ai quali sono riconosciuti i diritti economici e sociali, la grande massa cioè dei cittadini italiani, non si sentiranno estranei allo Stato, ma saranno nello Stato e si realizzerà così una unità essenziale fra la grande massa dei cittadini e lo Stato, cioè la Repubblica. Penso che la nuova Costituzione, se sarà inspirata, come noi fermamente crediamo, a questi principî, avrà un altissimo valore di carattere interno, nel senso che aiuterà lo sviluppo pacifico della nostra rinascita e del nostro rinnovamento, ed avrà altresì un altissimo valore di carattere internazionale.

La politica internazionale è fatta dai popoli, in ultima analisi. E sarà di grandissima importanza e di grandissimo interesse per noi italiani che i popoli di tutto il mondo riconoscano in questo documento il volto nuovo dell’Italia, la prova che l’Italia si avvia ad essere e vuole essere un paese libero, democratico, orientato e indirizzato verso il progresso sociale, fondato sulla preminenza del lavoro. Penso che questo documento costituzionale riuscirà a disperdere le incomprensioni che ancora sussistono nei nostri riguardi nel mondo, a correggere le ingiustizie che sono state commesse contro di noi.

Io credo che sia necessario, per il nostro rinnovamento, l’approvare ed il sancire questi concetti fondamentali, che sono contenuti nelle disposizioni preliminari del nostro progetto, i quali hanno valore non soltanto per realizzare l’unità e lo sviluppo pacifico del popolo italiano, ma altresì per realizzare la nostra rivalutazione internazionale. (Applausi).

(La seduta, sospesa alle 18,10, è ripresa alle 18,30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, mai come in questo momento sento il valore del vocativo col quale apriamo i nostri discorsi. Perché se noi collaboriamo sempre, anche nei momenti di più rigida tensione, anche quando esplichiamo da una parte l’attività dell’opposizione e dall’altra quella della maggioranza, in questo momento collaboriamo pienamente, perché di massima i principî che debbono informare la nostra Costituzione sono stati fissati in quello che si è chiamato il compromesso dei partiti, ma che è poi il presupposto di ogni legge, giacché ogni legge è la risultante di un rapporto di forze e di tendenze che in essa si compongono e questa legge è, come tutte le altre, una risultante. A noi in questa fase tocca prevalentemente un problema tecnico, che è quello di scolpire nelle formule legislative i principî «risultati» e poi quello, forse più importante, di creare un apparato costituzionale che valga a rendere attuosi e fecondi questi principî, talché la Costituzione, che noi dobbiamo creare su quei principî, si possa attuare e per il più lungo tempo possibile.

Noi trovandoci di fronte alle disposizioni di carattere generale abbiamo uno solo di questi problemi: formulare esattamente i principî. Poi, esaminando gli altri titoli e principalmente la seconda parte, dovremo risolvere l’altro: creare l’apparato tecnico che attui efficacemente questi principî.

Sui principî formulati si è di massima d’accordo, però la formulazione ha bisogno di essere riveduta.

Si è voluto creare uno Stato democratico, uno Stato di diritto e libero, uno Stato sociale e si sono formulati, in queste sette prime disposizioni, i principî corrispondenti.

Il principio informatore dello Stato democratico è consegnato principalmente all’articolo primo, il quale si apre con questa dichiarazione: «L’Italia è una Repubblica democratica».

La formulazione mi sembra inesatta: è prima di tutto generica. Non si è usata questa formula nelle altre Costituzioni. In queste si dice: lo Stato si regge a monarchia rappresentativa, o a Repubblica democratica e non che è quella o questa. Evidentemente l’esigenza dell’esattezza nella redazione di un testo legislativo è la prima. E qui non si tratta soltanto di esattezza linguistica, si tratta di esattezza tipicamente tecnica. Quell’«è» esprime un concetto di qualificazione.

L’Italia è qualificata come Repubblica democratica.

Già la qualificazione non è esatta, perché non definisce l’Italia.

L’Italia è una nazione, è una civiltà, è una storia.

Invece: «L’Italia si regge a Repubblica democratica» ha un significato anche profondamente politico, perché vi è scolpito il concetto di attività, di autogoverno, che è proprio dello Stato libero e democratico. Si pone che è l’Italia che regge se stessa.

A me sembra che la formulazione del progetto sia inesatta e che, da tutti i punti di vista, sia consigliabile sostituirla con l’altra, che io ho proposto: «L’Italia si regge a Repubblica democratica».

L’onorevole Crispo, nel suo intervento, ha proposto di aggiungere «parlamentare». Non credo che sia necessario, perché nella stessa Costituzione si dice di volere fare una repubblica parlamentare; infatti, nella parte seconda, che segue immediatamente, si dice di volere creare questo apparato parlamentare.

Sarà, dunque, questione di vedere se veramente un apparato di repubblica parlamentare si è formato nella seconda parte della Costituzione e, se non si è formato, di formarlo. Se fossero esatte le istanze mosse dall’onorevole Orlando nel suo magistrale intervento, dovremmo dire che una Repubblica parlamentare non è stata evidentemente avvisata dal progetto di Costituzione.

Allora, nulla varrebbe la definizione iniziale, se mancasse la sostanza là dove si crea l’apparato costituzionale.

Vi è poi la seconda parte di quest’articolo:

«La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Cosa vuol dire che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro?

Si è detto qui: una Repubblica senza lavoro non può sussistere; argomento indiscutibile.

Vi dico subito che io sento profondamente, non soltanto la nobiltà, ma la santità del lavoro, perché il più alto orgoglio della mia vita è di essere professore universitario, cioè un lavoratore che conosce l’aspra sudata e non remunerata fatica.

E l’altro orgoglio della mia vita è di non aver nulla, che non sia frutto del mio lavoro e del lavoro di mio padre.

Poi, io sento profondamente la santità del lavoro, perché sono cristiano e so che laborare est orare. Sento la nobiltà del lavoro perché sono italiano e so che il lavoro è l’unica ricchezza del nostro Paese, come ha dimostrato la tragedia in cui viviamo, nella quale, fra tanto disastro, si è verificato questo prodigio: che noi siamo ancora in qualche modo in piedi e che con la nostra lira si compra ancora qualche cosa. Questo è avvenuto perché la nostra economia è imperniata sul lavoro, che è una ricchezza che non si è potuta distruggere e non ci si è potuta espropriare. Si è verificato per la nostra famiglia nazionale quello che si verifica nelle famiglie di lavoratori che perdono il loro patrimonio: rimangono in una situazione presso a poco uguale, perché se manca il cespite patrimoniale, rimane il lavoro di cui vivono. Le famiglie, invece, che vivono di patrimonio, perduto questo, cadono anch’esse.

Per tutte queste ragioni io sento altamente la nobiltà e la santità del lavoro. Non sono dunque preconcetti che mi spingono a queste osservazioni.

Che cosa vuol dire, dicevo, che il lavoro è il fondamento della Repubblica? Si osservava: una Repubblica senza lavoro non può esistere. Indubbiamente. Ma ciò non vale ad identificare la Repubblica, perché non solo la Repubblica ma nessuna associazione umana si regge senza lavoro, soprattutto la società economica, la famiglia, il comune, la società internazionale di tutti gli uomini. Nessuna di queste forme si reggerebbe senza il lavoro.

Dunque il lavoro non identifica l’essenza della Repubblica in modo da poterne essere il fondamento. Ma poi, soprattutto, è da osservare che non si può dire che il lavoro sia da solo il fondamento della repubblica.

Abbiamo prima imparato e poi insegnato nelle università che gli elementi fondamentali, costitutivi dello Stato, e perciò anche della repubblica, sono tre: il popolo, il territorio, l’organizzazione giuridica. Qualcheduno aggiunge anche l’organizzazione dell’economia e del lavoro, e allora diventano quattro questi elementi fondamentali dello Stato.

Ma è chiaro che la parola «fondamento» non è stata usata in questo senso, direi, fisico, di base su cui consiste la Repubblica, ma in un senso deontologico, cioè nel senso di titolo che dà diritto a partecipare alla Repubblica. In questo senso il lavoro è stato chiamato fondamento della Repubblica: è il fondamento ideale, etico, giuridico. E allora se è così – ed è certo che è così, perché è chiarito dall’articolo 31 dello stesso progetto, là dove è affermato il dovere dei cittadini di partecipare all’organizzazione del Paese con una funzione che concorra allo sviluppo della società e si aggiunge che chi si sottrae a questo dovere è privato dei diritti politici – non c’è dubbio, o amici, che qui, non so se claris verbis o surrettiziamente, come diciamo noi giuristi, si è tentato di far rientrare dalla finestra quel che è uscito per la porta. Si voleva dire che la Repubblica italiana è la repubblica degli operai, dei contadini e degli intellettuali: si sono trovate opposizioni e si è escogitata quest’altra formula che vale perfettamente lo stesso. Ora se è stata questa la vostra intenzione, noi non possiamo essere d’accordo, e se non è stata questa la vostra intenzione, l’espressione che avete usato va modificata.

Il nostro dissenso è dunque necessario e irriducibile, perché siffatta repubblica non sarebbe una repubblica se, come dicevamo giorni addietro riecheggiando il dialogo ciceroniano De repubblica, la repubblica è la res populi, la res dunque di tutti i cittadini, nessuno escluso. E Cicerone ci insegnava che, quando la Repubblica diventa di parte, quando la Repubblica diventa disponibilità di una parte, o è amministrata nell’interesse di una parte, cessa di essere res publica, e diviene res privata, sia questa parte un monarca, o sia un’Assemblea, o sia anche una larga collettività, che non comprenda però tutta quanta la collettività politica.

Diventa comunque uno Stato di parte; ed è mirabile come il filosofo nostro tragga dallo stesso nome la legge deontologica dell’essenza della repubblica. Voi, lasciando invariata la formula del progetto, non avreste creato una repubblica e tanto meno una repubblica democratica.

La Repubblica democratica è invece fondata sulla sovranità popolare. Io vi propongo questa formula: «La Repubblica italiana ha per fondamento la sovranità popolare». Io so che questa è un’espressione scientificamente discutibile, perché la scienza del diritto pubblico insegna che l’attributo della sovranità non appartiene ad una parte dello Stato o ad un elemento dello Stato, sia pure al popolo che può essere l’elemento principale. La sovranità è attributo dello Stato nella sua pienezza ed è soprattutto l’attributo dell’ordinamento giuridico, talché si potrebbe e si dovrebbe dire che sovrana in uno Stato è la legge.

Però l’espressione «sovranità popolare» ha un significato ormai acquisito alla storia. La sovranità popolare è un sistema di vita statale nel quale la volontà dello Stato vien formata dal popolo. Noi dunque, con questa espressione che, attraverso l’uso tradizionale, ha acquistato un significato ben fisso e stabile, affermiamo veramente ed integralmente la democraticità dello Stato.

Per altro, quando noi diciamo la partecipazione effettiva non dei lavoratori, ma dei cittadini, anzi io direi di «tutti i cittadini», all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese, in fondo noi veniamo a riaffermare che si è cittadini attivi dello Stato in quanto si partecipa con la propria attività, o economica, o sociale, o morale, o politica, alla vita della collettività.

Solo a questo titolo si è cittadini dello Stato. No, no: togliete quell’espressione che creerebbe dei cittadini optimo iure e dei cittadini minoris iuris. E poi è un’espressione pericolosa che potrebbe sopprimere la libertà, nella quale io penso anche voi crediate. (Proteste a sinistra).

PERTINI. Quell’«anche» è esagerato: ci siamo battuti venti anni per la libertà; Anche! Quale generosità!

CONDORELLI. Io penso che non ci sia aderenza nella vostra dottrina alla libertà, ma che ci sia aderenza nel vostro sentimento.

Ora, se conservassimo questa espressione, potremmo cadere in errori gravissimi. Perché voi dite: «Ma noi con questa espressione vogliamo raggiungere soltanto questo effetto: che i lavoratori siano immessi nella cittadella dello Stato, ma non che ne siano esclusi gli altri».

Ma guardate come può essere interpretata questa parola «lavoratori». Io vi porto l’esempio di un economista non dell’avvenire, ma di oggi, uno dei più celebrati economisti di oggi – Pareto – che distingue le classi sociali in rapporto alle occupazioni, e fa una distinzione quadruplice: parla di occupazioni dirette a produrre beni economici o servizi; poi di occupazioni che producono indirettamente dei beni economici – e sarebbero appunto le occupazioni ausiliarie; probabilmente gli avvocati, nella migliore delle accezioni, potrebbero appartenere a questa categoria subliminale di lavoratori – poi c’è una terza categoria: gli oziosi; e infine una quarta, che sarebbe costituita da coloro che attraverso un’attività legale o illegale si impadroniscono dei beni altrui. Le prime due classi sono probabilmente di lavoratori; dico probabilmente, perché per la seconda si potrebbe discutere; ma gli oziosi non sono certamente dei lavoratori; e nessuno si sentirebbe di mettere fra i lavoratori coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.

Ora, lo sapete da chi è costituita la terza classe, quella degli oziosi? Da coloro che vivono di rendita e amministrano il loro patrimonio. Questi sono degli oziosi, in quanto traggono dal loro patrimonio qualche cosa di più, o molto di più, di quella che potrebbe essere la remunerazione della loro attività di amministratori. Quel di più che traggono li fa diventare degli oziosi, cioè dei non lavoratori. Nella quarta categoria, naturalmente, ci entrerebbero tutti i proprietari, perché, secondo la vostra dottrina, la proprietà è un mezzo attraverso il quale si espropria il lavoro degli altri.

Voi vedete, anche interpretando le cose alla luce del pensiero di un grande economista moderno, a che cosa si potrebbe arrivare. Ma poi, guardiamo anche soltanto alla prima categoria. Oggi sareste tutti pronti a dirmi che persone che rendono certi generi di servizi, che tutti consideriamo poco leciti e poco decenti, certamente non sono dei lavoratori. Come i sacerdoti, i religiosi, che pregano o che esercitano un ministero di assistenza spirituale, sono dei lavoratori, perché esercitano una funzione che concorre allo sviluppo della società. Ma lasciate che cambino queste posizioni mentali, che divenga comune un certo modo di pensare, che è affiorato in questa Assemblea, in questo dibattito, e allora vedrete che i sacerdoti, i religiosi, gli spirituali saranno messi subito al livello degli indovini, dei fattucchieri, degli stregoni, e perciò relegati senz’altro nella quarta categoria, di coloro che con mezzi legali o illegali si appropriano dei beni altrui.

Voci a sinistra. No! No!

CONDORELLI. Ma certamente sarebbe così! Noi consideriamo in questo modo gli stregoni delle tribù primitive, in quanto sappiamo che sono superstiziose le loro pratiche. Ma solo che prevalga l’opinione che anche la religione di Cristo è una superstizione (e non sarebbe la prima volta nella storia che si sono relegati senz’altro i religiosi, i sacerdoti, nella quarta categoria nella quale sono posti i parassiti, e non sarebbe la prima volta che si sentono chiamare parassiti i sacerdoti, i frati, i discepoli di San Francesco), e che le etere esercitano una funzione sociale, voi vedrete le etere entrare trionfanti nella prima categoria e le monache uscirne per passare nella quarta!

Ma, per niente hanno scritto gli studiosi! Per niente si insegna nelle Università! Ma non per il prevalere di formule trite, che se ebbero un significato in un certo momento storico, lo hanno totalmente perduto ora!…

Affermiamo che la nostra Repubblica è fondata sulla sovranità popolare e noi veramente avremo formulato ed affermato un principio democratico!

E nella ultima parte di questo articolo non si dica che la sovranità emana dal popolo o è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e della legge.

Si dica che il potere spetta al popolo ed è esercitato nelle forme e nei limiti, ecc., perché la sovranità popolare non è che una formula. Si può usare questa formula e non dare un briciolo di potere al popolo. Bisogna che il potere sia dato al popolo, che è la concretezza della società.

Una voce a sinistra. Il potere è un aspetto della sovranità.

CONDORELLI. Non è un aspetto della sovranità; il potere è il potere, e la sovranità è un attributo che si dà allo Stato e quindi anche ai poteri dello Stato.

Badate, da questo punto di vista credo di passarvi avanti.

Noi abbiamo premesso che il problema di cui ora ci interessiamo è un problema essenzialmente tecnico. Se avete voluto, come anche noi vogliamo, affermare il principio dello Stato democratico, voi dovete dire che esso è fondato sulla sovranità popolare e che il potere, e cioè la concretezza della sovranità, spetta al popolo.

Si è voluto, dicevo, creare lo Stato libero e formularne i principî. Lo Stato libero è Stato di diritto. Ciò è stato affermato acconciamente nell’ultima parte dell’articolo 1, dove si dice che la sovranità – io direi il potere – è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. E lo Stato di diritto è pienamente lo Stato di diritto quando esso è limitato non solo dal diritto interno, ma anche dal diritto esterno, cioè dal diritto internazionale. Avrete pertanto completa la figura dello Stato di diritto con l’articolo 3 delle disposizioni generali nel quale si dice che l’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciuto. Nella formulazione, vi è qualche cosa di superfluo che può intorbidare: quella aggiunta, cioè: «generalmente riconosciuto».

Io credo di intuire la genesi di questa aggiunta.

È una tesi scientifica che è stata autorevolmente sostenuta, ma è meglio non introdurre questa questione dottrinale nella legge. Il diritto internazionale sappiamo che cosa è. Il diritto internazionale risulta da tre fonti: i trattati internazionali – trattati-accordo o trattati normativi – le consuetudini ed una fonte, non da tutti ammessa, che è il diritto tacito fondamentale.

Evidentemente questa espressione «generalmente riconosciuto» non si può riferire ai trattati, si riferisce alle consuetudini. Forse, si pensa che una consuetudine non è tale se non è generalmente riconosciuta. In fondo, ci si ricollega alla teoria del riconoscimento come fondamento obbligatorio della consuetudine. È una opinione che non solo io, ma la generalità non condivide, perché il riconoscere una consuetudine non dat esse alla consuetudine, non è un atto di volontà creativo della consuetudine, è soltanto la constatazione dell’esistenza della consuetudine, è solo un atto di intelligenza. La consuetudine esiste da per sé, a prescindere dal riconoscimento.

Io penso che bisognerebbe toglierla, questa aggiunta, perché potrebbe essere interpretata come volontà di attenuare la subiezione del nostro ordinamento giuridico al diritto internazionale, che invece perfeziona la figura dello Stato di diritto, che volontariamente si limita, col diritto interno all’interno, col diritto internazionale nei rapporti esterni, nei rapporti con gli altri Stati.

Voi avete voluto creare e noi vogliamo creare lo Stato sociale, imprimere un carattere fortemente sociale allo Stato italiano. La rivoluzione francese era sorta con l’accordo teorico o con la spinta, non sappiamo, dell’individualismo razionalista che metteva l’individuo al centro di tutti i valori, talché lo Stato assumeva una giustificazione in quanto mezzo per l’individuo, come garanzia della sua libertà. Il diritto, nella formulazione di Kant, era considerato come la condizione della coesistenza dell’arbitrio di ciascuno con l’arbitrio di tutti. Si svolge tutto un travaglio spirituale dal secolo XIX a questo secolo, che pone in evidenza il carattere sociale e storico dell’uomo: l’individuo non è che una astrazione. La realtà sostanziale che deve essere il centro di tutto quanto il sistema etico, giuridico, economico, non è questo scarnito individuo che è una astrazione, ma l’uomo, che è contemporaneamente, come diceva poco fa il collega Giordani, famiglia, classe economica, Nazione, Stato, Chiesa. È l’uomo sociale. Questo voi avete voluto affermare. Da ciò un nuovo concetto di libertà che, per altro, era acquisito alla scienza, alla filosofia, al nostro stesso diritto positivo. La libertà, intesa non più in senso soltanto negativo, ma anche e più in senso positivo, cioè come possibilità data all’uomo di attuare sé stesso, di svolgere la sua personalità. E questo mi pare che voi abbiate voluto affermarlo nell’articolo 6.

Ma l’affermazione è difettosa, gravemente difettosa. Io so qual è l’alchimia delle deliberazioni collettive. Ad un certo punto, di fronte a tante tendenze, si trova un compromesso ed una formula che non soddisfa nessuno, ma che è il mezzo per uscire da una discussione che si prolunga. Ma, questa volta, la formula sortita non può meritare l’approvazione di nessuno dei giuristi che hanno dato prestigio alla Commissione dei Settantacinque.

L’articolo 6 dice che «per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e dignità della persona e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce i diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale».

Garantisce i diritti essenziali? Perché solo quelli? E gli altri diritti non li garantisce? Garantisce tutti quanti i diritti soggettivi, ma non transige su quelli essenziali: in sostanza il vostro pensiero doveva essere questo. Viceversa avete fatto una formulazione palesemente difettosa perché pare che la Repubblica garantisca soltanto i diritti essenziali e che gli altri li sacrifica, non li considera.

La Repubblica, che è un ordinamento giuridico, non può garantire altro che tutti i diritti che essa dà, cioè tanto i diritti essenziali, quanto quelli accidentali e secondari. Ma poi dove è stata trovata questa distinzione fra diritti essenziali e diritti non essenziali? Forse in qualche trattato di diritto naturale di un secolo e mezzo fa? Ma nella terminologia moderna, che io sappia, non c’è. Che cosa sono questi diritti essenziali? I diritti innati? Ma oggi nessuno, né nella filosofia, né nelle scienze del diritto crede nelle idee innate né tanto meno nei diritti innati. Tutti i diritti in senso tecnico si hanno dallo Stato, si hanno dall’ordinamento. Ci sono diritti che hanno un fondamento naturale, ma non sono diritti innati. Si voleva dire i diritti naturali? Ci siamo ingolfati nelle nebbie del giusnaturalismo che, non so se a ragione o a torto, se per il bene o per il male dell’umanità, non è più di attualità. L’espressione non è certo felice ed io sono certo che i giuristi me ne daranno atto.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, tenga conto che la mezz’ora stabilita per ciascun oratore è passata già da cinque minuti.

CONDORELLI. E poi c’è che la Repubblica richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale, cioè di tutti i doveri umani. Ma così il diritto soffoca. Come lo richiede la Repubblica, l’adempimento di questi doveri? come il maestro può richiederlo al suo discepolo, il padre al figlio, il precettore allo scolaro?

Vi accorgete che questa è una posizione attraverso la quale lo Stato può diventare un convento, una caserma o, peggio, un carcere! Si può creare un regolamento di disciplina che regoli in tutti i modi, fino agli ultimi dettagli, tutte quante le azioni, a incominciare dall’ora della levata, passando a quella dei pasti, a quella di andare a letto. Stiamo attenti! Sono anch’io convinto che sono disposizioni che non avrebbero nessuna efficacia pratica; ma voi sarete i primi a riconoscere che noi italiani, che ci vantiamo soprattutto di una grande tradizione giuridica, proprio a Roma, non possiamo fabbricare un documento nel quale ci siano di queste espressioni.

Dell’articolo 6, secondo me, non c’è altro da fare che sopprimerlo e passare l’affermazione di questi principî di solidarietà sociale fra gli nomini nel preambolo. Non c’è altro da fare. Mi sono sforzato a pensare come quest’articolo potesse essere conservato, ma devo dichiarare che mi sono trovato assolutamente impotente a trovarlo. Non è possibile.

C’è poi nell’articolo 7 un’espressione che ha richiamata l’attenzione anche del nostro collega dottor Capua. L’espressione è la seguente: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». Stiamo attenti alla espressione «rimuovere gli ostacoli». Badate, che si parla di ostacoli economici e sociali, cioè di ostacoli umani, di ostacoli che vengono dagli uomini. Come rimuove lo Stato questi ostacoli? Noi già avvisiamo nella stessa Costituzione delle leggi che tendono a favorire la conquista di questa eguaglianza di fatto. Non basta infatti enunciare una eguaglianza di diritto – è vero, Mancini? – perché l’eguaglianza ci sia. L’eguaglianza deve essere di fatto. Naturalmente, come tendenza. L’eguaglianza di fatto non si può raggiungere. Dunque, lo Stato prometta di aiutare l’uomo nella conquista di questa eguaglianza di fatto. Gli dia l’eguaglianza di diritto e poi gli permetta di integrare la sua attività per conquistare l’uguaglianza di fatto, ma non gli può promettere di rimuovere gli ostacoli economici e sociali. Gli può promettere di aiutarlo a superare questi ostacoli, ma non di rimuovere gli ostacoli.

Io sento il richiamo del signor Presidente. Perciò rinuncio ad illustrare altri punti che mi riprometto di illustrare in sede di discussione degli emendamenti, e vado a quello che è stato chiamato il punto incandescente, il campo infuocato dell’articolo 5, che io chiamerei, veramente, il campo fertile di equivoci: equivoci che sono giuridici e che sono politici e che ora, in gran parte, sono stati chiariti dal discorso veramente illuminante dell’onorevole Jacini e dall’altro discorso, che gli è buon secondo, che oggi abbiamo avuto il piacere di sentire in quest’aula dalla bocca del collega Giordani. Equivoco giuridico perché il problema, dal punto di vista giuridico, non è stato, secondo me, posto esattamente; equivoco politico perché io sento che in questa lunga discussione riaffiorano i motivi che si sono scontrati in Italia nell’evo cristiano nelle dispute tra papocesaristi e cesaropapisti, tra curialisti e regalisti, tra guelfi e ghibellini. E poi ritornano i fermenti del nostro Risorgimento, che si dovette fare fatalmente contro la Chiesa, talché residuarono, specialmente negli uomini della vecchia generazione, che oggi volge al tramonto, sentimenti di ostilità verso la Chiesa che aveva costituito un intralcio, forse plurisecolare, alla realizzazione della nostra unità nazionale. Il certo si è che la nostra Nazione, pur essendo una delle Nazioni più chiaramente determinate geograficamente, linguisticamente, religiosamente, storicamente, è l’ultima che sia pervenuta all’unità politica. Probabilmente era la presenza di questo grande potere spirituale che ne sosteneva uno temporale ed ostacolava il processo di unificazione che il potere temporale avrebbe travolto. Da ciò una eredità, forse inconscia, di avversione verso la Chiesa, avversione superstite, che si rivela in considerazioni giuridiche e in considerazioni politiche, che vorrebbero essere spassionate, ma che sono certamente condizionate da questi vaghi fermenti non ancora eliminati.

Ma io non rifarò la questione storica che è stata fatta egregiamente ieri; cercherò soltanto di porre il problema nei suoi termini strettamente giuridici.

Nel primo comma di questo articolo si afferma una verità di carattere giuridico-storico: che Chiesa e Stato sono sovrani e indipendenti nei loro rispettivi ordini. Non è una novità della nostra Costituzione. La Chiesa, cioè la Santa Sede, che poi rappresenta la Chiesa, è stata sempre un soggetto di diritto internazionale. Sarebbe grave errore pensare che soggetti di diritto internazionale siano soltanto gli Stati. Soggetti di diritto internazionale sono tutti gli ordinamenti giuridici sovrani. Abbiamo soggetti di diritto internazionale come la Chiesa, o meglio la Santa Sede, come, per esempio, il sovrano Ordine di Malta, che è anch’esso un soggetto di diritto internazionale. Chiesa e Stato sono dunque ambedue entità di diritto internazionale, dunque sovrani ognuno nel suo campo. Qui la sovranità vuol dire, come ho avuto occasione di accennare poco fa, originarietà della potestà. Ossia – per quanto riflette la Chiesa – potestà che non proviene dallo Stato od aliunde, ma potestà originaria propria, connaturata, onde il diritto canonico non è diritto perché lo riconosce lo Stato, ma è diritto perché emana da un potere sovrano, che è la Chiesa. Nel primo comma dell’articolo 5, dunque, non si è affermato niente ché non fosse già consacrato dalla scienza e dalla storia al cospetto delle quali la Chiesa è apparsa sempre come un ordinamento sovrano.

Posto questo principio, la conseguenza: è ovvia: i rapporti tra Stato e Chiesa non si possono regolare che paritariamente, cioè per atto consensuale: si regolano per concordato. Esistono delle materie che i canonisti chiamano res mere spirituales, e queste sono di competenza esclusiva della Chiesa; vi sono delle materie che la scienza dei canonisti chiama mere corporales, e queste sono di competenza dello Stato. Vi sono delle interferenze, vi sono le cosiddette res mixtae, cioè delle res spirituales che hanno ripercussioni e propaggini nel mondo temporale e di quelle corporali o temporali che hanno ripercussioni nel mondo spirituale.

È ovvio che queste materie miste vadano regolate con concordati fra le due potestà.

Ed allora, se la Chiesa è un ordinamento sovrano, come lo Stato, se i rapporti tra questi due enti nelle cose miste si devono regolare con concordati, era ben logico che nella formulazione della norma costituzionale si uscisse dall’astratto e si venisse al concreto, dicendo: i rapporti sono regolati dai Patti lateranensi.

È una constatazione di fatto.

Qui sono nate delle discussioni, che hanno particolarmente appassionato questa Assemblea.

Ed io raggruppo gli argomenti, per ragioni di rapidità e di chiarezza, in due ordini: vi sono questioni di carattere formale e questioni di carattere sostanziale.

Coloro che fanno questione di carattere formale affermano di non avere niente da dire contro quegli accordi, di essere lieti di questa situazione di accordo tra lo Stato e la Chiesa, che non vogliono modificare, ma di ritenere antigiuridico ed anticostituzionale che questi accordi siano recepiti nella Costituzione.

Coloro – e purtroppo sono molti – che sono contrari a questi accordi, dicono che, quanto meno, essi dovrebbero essere riveduti, perché consacrano dei principî contrastanti con quelli dello Stato democratico. Ci sarebbe, insomma, incompatibilità su diversi punti, tra gli accordi e l’ordinamento della Repubblica democratica.

Ora, io non accetto nessuno di questi due ordini di idee, perché, francamente, mi sembrano infondati.

Qual è la difficoltà a che questi accordi siano recepiti dalla nostra Costituzione?

Si dice che sarebbe una limitazione della nostra sovranità.

Si è scritto all’articolo 3 (ed era superfluo, perché si sa che lo Stato moderno è soggetto al diritto internazionale) che noi volontariamente ci sottoponiamo al diritto internazionale.

Ora, gli accordi vaticani constano d’un Trattato, stipulato con la Santa Sede, nel quale si crea lo Stato del Vaticano, e del Concordato, con cui si regolano i rapporti tra Chiesa e Stato, queste res mixtae.

Sono: l’uno, un trattato internazionale; l’altro, un contratto di diritto pubblico interno, stipulato fra due enti sovrani.

Lo Stato volontariamente si è autolimitato. Qual è l’offesa alla nostra sovranità? Non la vedo; a meno che non si pensi, non da un punto di vista giuridico, ma da un punto di vista storico-geografico, alla perdita dei 44 ettari di territorio nazionale. Non è questo.

È un errore che questa cosiddetta recezione degli accordi sia una limitazione della nostra sovranità.

Qualcuno, onorevole Presidente, ha financo detto che è un assurdo giuridico, perché noi creiamo ex novo l’Italia e non possiamo, perciò, recepire relitti del passato.

Guardate come va a risorgere il mito del contratto sociale: noi costituenti rinnoviamo i nostri favolosi progenitori che si incontrano alla foresta e fanno il contratto sociale!…

Guardiamo le cose come sono. Noi, grazie a Dio, non stiamo creando lo Stato italiano. Non ha bisogno di essere creato; esso è una realtà storica che ha basi ben più solide di questa Costituzione, che speriamo soltanto lo rafforzi. Dire che noi creiamo lo Stato e che dobbiamo ignorare ogni presupposto giuridico, è un’eresia.

Qualche altro ha detto che la difficoltà consiste in questo: che noi veniamo a limitare il nostro potere di denunziare gli accordi.

Noi, in rapporto al Trattato col quale si crea la Città del Vaticano, non abbiano nessuna facoltà di denunzia. Uno Stato, una volta creato attraverso un trattato, si può debellare, ma non si può distruggere revocando o denunciando un trattato. Nessuna maggioranza né di metà più uno né qualificata, né la totalità della nostra Assemblea può distruggere il trattato. Ripeto, noi possiamo aggredire la Città del Vaticano, distruggere lo Stato del Vaticano, ma non possiamo denunziare il Trattato: nell’ordine del diritto questa facoltà non c’è.

Però, si dice, noi abbiamo la facoltà di denunziare il Concordato e siccome esso viene incluso nella Costituzione noi non lo potremmo denunziare come prima. La Costituzione in cui è recepito ci obbliga a considerarlo come una legge costituzionale, e per modificarlo unilateralmente, cioè denunciarlo, dobbiamo raggiungere quelle determinate maggioranze necessarie per il processo di revisione.

PRESIDENTE. Scusi, onorevole Condorelli, a questo punto dovrei chiedere ai colleghi se, nonostante che ella parli da 55 minuti, ritengano che ella debba proseguire.

Voci. Sì, sì; ascoltiamo tutti con molto interesse.

PRESIDENTE. Fo soltanto rilevare che uno strappo alle norme regolamentari impedirà poi di potersi opporre a che lo stesso strappo non valga per altri colleghi. Comunque, onorevole Condorelli, continui, ma tenga conto che c’è un’intesa accettata dal rappresentante del suo Gruppo.

CONDORELLI. Dunque, questo Trattato non potremmo denunziarlo che raggiungendo quella tale maggioranza.

Anche sulla denunciabilità del Concordato ci sono molti dissensi, molto gravi, perché la formula della Chiesa è: «simul cadent simul stabunt». Perciò, siccome non può cadere il Trattato, non può cadere nemmeno il Concordato. Questa è la tesi della Chiesa, condivisa anche da giuristi laici, i quali peraltro trovano argomenti nell’articolo 44 del Concordato nel quale è prevista l’interpretazione d’accordo in caso di dissenso. Il conflitto che potesse nascere tra Chiesa e Stato non si dovrebbe mai risolvere con una denunzia, ma in nuove trattative, in una interpretazione fatta concordemente.

Checché sia di questa tesi si ha, comunque, se la necessità di adottare le forme della revisione, per modificare unilateralmente le norme concordate, apparisse troppo gravosa, che non c’è niente di irrevocabile, nulla di fatale, nessun ostacolo dinanzi al quale si debba fermare la intelligenza dei giuristi di questa Assemblea. Non c’è che daffare un ritocco agli articoli 76 e 83 della Costituzione, là dove è prevista l’autorizzazione alla ratifica dei trattati da parte del Parlamento e la ratifica da parte del Presidente della Repubblica. Perché dunque parlare solo di ratifica dei trattati internazionali di natura politica o di arbitrato? Si parli anche dei Concordati: è una lacuna che si è lasciata e che può essere colmata, giacché lo Stato fa anche dei Concordati che debbono essere logicamente anche essi sottoposti alla ratifica del Presidente della Repubblica previa autorizzazione del Parlamento. Si parli anche della denunzia, che deve essere opportunamente autorizzata, e il grande problema è risolto.

Io non so che cosa residui di questo problema, di fronte ad una Costituzione che è ancora in fieri e nella quale possiamo mettere quello che vogliamo. E badate che non mettiamo niente di arbitrario, ma qualche cosa di ragionevolissimo. Prevediamo il processo di formazione e di disfacimento anche dei Concordati e i Concordati si creeranno e si disfaranno come si creano e come si disfanno i trattati.

Non rimane che l’avversione di merito al Concordato e questa non so se sia molto o poco diffusa; ma è certo che c’è ed affiora nelle discussioni.

TI nostro compagno – consentitemi che usurpi per un momento questa vostra espressione – onorevole Crispo ha esposto degli argomenti secondo i quali, a suo giudizio, il nuovo diritto pubblico italiano, quale risulta dal progetto di Costituzione, è incompatibile con il Concordato. Egli ha espresso autorevolmente, con un discorso che non esito a definire notevole, un suo punto di vista che non è il mio e che non è neanche quello, penso, della maggioranza del gruppo liberale e che non è niente affatto il pensiero del liberalismo italiano. Il liberalismo italiano infatti, nella sua genuina scaturigine, non ha mai avuto di questi preconcetti, al punto che – come è noto – Cavour, per risolvere la questione romana, nel 1861, pochi giorni prima della morte, era disposto ad avere Roma con il re d’Italia quale vicario del papa. In ciò non trovava niente di straordinario il progenitore del partito liberale italiano.

Ora, esaminiamo in merito le eccezioni di carattere giuridico che si trovano nel Concordato.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli: è interessantissimo il suo discorso, ma ricordi l’invito che le faccio per la terza volta.

CONDORELLI. Lo Stato che risulta dal Trattato è uno Stato confessionale, perché l’articolo primo dello Statuto diceva che la religione cattolica apostolica romana è la sola religione dello Stato e l’articolo primo del Trattato si rimette all’articolo primo dello Statuto, trascrivendone anzi la formula. E come ciò si mette d’accordo con la norma che tutti i cittadini sono uguali, senza distinzione di opinioni religiose, che lo Stato è uno Stato libero e democratico?

Ora, non da solo, ma appoggiandomi a quella che si può dire la costante opinione dei giuristi italiani, nego che lo Statuto albertino, quali che fossero le intenzioni di colui che lo emanò, abbia creato uno Stato confessionale. Malgrado quella dichiarazione, lo Stato piemontese prima e lo Stato italiano poi non furono mai degli Stati confessionali. Era una dichiarazione che aveva soltanto questo significato: ove lo Stato avesse avuto bisogno di accompagnare dei suoi atti con riti propiziatori o di ringraziamento, avrebbe dovuto ricorrere al rito cattolico e ai sacerdoti cattolici. Non ebbe mai altro significato, e non ne ha acquistato nuovo, quando è stato trascritto nel Trattato. Il significato è rimasto identico.

E poi, d’altro canto, ormai negli Stati moderni può esistere più questo confessionalismo? Non può esistere, perché lo Stato moderno si è spersonalizzato; sia monarchia, sia Repubblica, è una istituzione, un istituto che non si confonde col sovrano, con colui che detiene il potere: un istituto – è ovvio – non si può né battezzare, né confessare, né comunicare, ecc.; non ha la possibilità di essere cattolico. Le dichiarazioni di confessionalismo hanno soltanto questa importanza, che dicevo poco fa, formale.

Badate che non vengo meno a quel rispetto che debbo alla Chiesa. È un’esigenza di concetti. Questo è il significato moderno di confessionalismo, tanto è vero che ormai quelle vecchie distinzioni tra unione, separazione, confessionalismo, ecc. sono state relegate fra i ricordi scolastici, non hanno più nessun significato fuorché storico. Noi abbiamo oggi dei casi di separazione sostanziale e di unione meramente formale; separazione sostanziale, perché lo Stato è un’entità laica; formale, perché si dà forma giuridica, attraverso il Concordato, a certi rapporti intercorrenti fra Stato e Chiesa. Lo Stato italiano è veramente questo: è uno Stato sostanzialmente separato dalla Chiesa, formalmente coordinato per regolare le materie comuni.

E giacché più di una volta il nostro onorevole Presidente mi ha richiamato alla fatalità del termine, io devo rinunciare…

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, ormai non si può più dare la parola ad un altro oratore; quindi può continuare. Lei è riuscito brillantemente ad assorbire il tempo di tre oratori: è un esempio di dottrina, ma forse non di disciplina.

CONDORELLI. Questo è un argomento che tocca così profondamente un lato tanto geloso della nostra coscienza, che avrei sentito di mancare ad un preciso dovere, se non avessi detto chiaramente il mio pensiero, e ne avrei conservato il cruccio per tutta la vita. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, poteva limitare a questo argomento di così profondo interesse il suo intervento e rinunciare a tutta la prima parte, che era anche interessante, ma forse non un problema di coscienza. (Approvazioni).

CONDORELLI. Dunque, quali sono questi conflitti tra il nuovo diritto pubblico e il Concordato? Quello del confessionalismo non ha significato. Non è confessionale il nostro Stato. Se lo fosse, lo sarebbe nel senso che ho detto, meramente formale. Non vi ha certo conflitto in quel famoso, articolo 5, che è stato richiamato da tutti, e nel quale in sostanza non si dicono che delle cose ovvie, che credo sarebbero state, almeno in parte, sancite dallo Stato, anche fuori del Concordato. Quando un sacerdote o un ecclesiastico ricopre un ufficio italiano deve essere autorizzato dai suoi superiori ecclesiastici e se questo diritto e questa autorizzazione è revocata, lui deve lasciare l’impiego. È una limitazione della libertà umana? Ma da quando in qua le limitazioni volontarie sono limitazioni della libertà? Ma anche i contratti sono allora limitazione della libertà. Io, divenendo sacerdote, accetto le limitazioni che mi vengono dalla disciplina dell’organizzazione della quale volontariamente vengo a far parte e so benissimo qual è la mia sorte. È un po’ come la indissolubilità del matrimonio: è una limitazione di libertà? Io, allorché mi sposo, so benissimo quali sono gli effetti dell’atto a cui vado incontro. È così quando si prende l’ordine sacro. Si dice che un sacerdote apostata o irretito da censura non può esercitare uffici particolarmente esposti al pubblico, per esempio non può fare il professore. Ma è una invenzione del Concordato che il 97 per cento degli italiani sono cattolici e che lo Stato, tenendo delle scuole, le deve mantenere accettabili e frequentabili dalla maggioranza dei cittadini? Ma chi di noi – non parlo del mio caro amico Tonello – manderebbe un figlio in una scuola in cui insegna uno scomunicato?

TONELLO. Io non lo manderei da un prete!

CONDORELLI. Ma la scuola deve essere accettabile dalla maggioranza, dalla quasi totalità degli italiani. Non si possono creare dei servizi pubblici dei quali si possa servire solo qualcuno in via sporadica.

Si parla poi delle particolari sanzioni per chi vilipende la Chiesa, per chi bestemmia la divinità o i santi, o per chi offenda il Papa, ecc. Ma vi pare che sia lo stesso bestemmiare Allah o Budda, o Gesù o la Madonna? Ma è evidente che per la maggioranza degli italiani bestemmiare Allah o Budda potrà essere soltanto uno scherzo. La bestemmia a Bacco la fanno tutti. Non è che una celia! Un altro significato ha la bestemmia alla Divinità, ai santi che sono venerati da tutti gli italiani. Non devono esprimere le leggi la coscienza pubblica del Paese?

L’insegnamento religioso: altro equivoco! L’insegnamento religioso è libero in Italia. Il padre che la pensa come l’amico Tonello fa sapere ai professori che non vuole che il suo figliolo sia contaminato da sì prava dottrina e lo fa dispensare dall’insegnamento religioso. Nessuno lo costringe a mandarvelo. Ce ne sarà uno su 10 mila, ma la libertà di quest’uno è anche rispettata. E così nessuno vuole che si insegni ad alcuno la religione contro la sua volontà. Ma, signori, dove sono queste incompatibilità col nuovo diritto pubblico che noi andiamo a creare in Italia? Non ne esiste nessuna. A meno che non si insista su quella dei titoli nobiliari, che la Chiesa ammette e lo Stato no.

Ora, signori, io chiudo con un dilemma: c’è contrasto tra il diritto pubblico nuovo e il Concordato? Non c’è contrasto, si può rispondere, e non c’è, allora, nessuna ragione valida per escludere dalla Costituzione il richiamo dei Patti Lateranensi. C’è contrasto? Soltanto questa potrebbe essere la ragione della esclusione. Ma allora, se c’è contrasto, effettivo o anche soltanto supponibile, non vi accorgete che, legiferando così voi venite a denunziare il Concordato, cioè a distruggere quella pace religiosa che tutti quanti dite di volere conservare?

Badate che legiferare contro il Concordato equivale a denunziarlo nella maniera più solenne, perché un Concordato non è esso stesso fonte di diritto, fonte di obblighi per i cittadini. È fonte di obblighi soltanto per lo Stato che deve legiferare conformemente al Concordato. Finché il Concordato non è trasfuso in una legge non ha nessun effetto nel diritto pubblico interno; lo acquista quando è trasfuso nella legge.

Ora, se noi invece di trasfondere nella legge il Concordato, legiferiamo contro il Concordato…

Una voce a sinistra. Ma non contro!

CONDORELLI. …contro il Concordato, noi lo denunziamo. È così e non ammetto che in campo di diritto si possa sostenere il contrario, perché non è possibile. Proprio se si potesse sostenere qualche incompatibilità tra il Concordato ed i principî della nuova Costituzione, il richiamo dei Patti lateranensi diverrebbe ancora più indispensabile onde escludere, il significato di denuncia implicita!…

MANCINI. In questo modo si mutano i termini della discussione!

CONDORELLI. Ed allora badate a quello che fate! Si sono create tante ragioni di dissenso tra gli italiani e non c’è bisogno di crearne un’altra per una questione dottrinale che interessa, se interessa, uno sparuto numero di liberi pensatori male informati.

TONELLO. Non è sparuto il numero!

CONDORELLI. È sparuto!

TONELLO. I Patti del Laterano li ha fatti Mussolini!

CONDORELLI. E per questo si crea una questione che separerebbe ancor di più gli Italiani e che accrescerebbe, assommandosi agli altri scontenti, il distacco, già grave agli inizi, tra il popolo della nascente Repubblica italiana e la nuova Costituzione? (Applausi al centro e a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a lunedì alle 16.

Avverto che, con la settimana prossima, ho intenzione di essere molto severo nella direzione della discussione. Ringrazio l’onorevole Condorelli per le cose che ci ha detto, ma il suo discorso non deve costituire un precedente. Prego i colleghi di tenerlo presente.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per le sedute di lunedì 17 marzo 1947.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 15 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio                               

Martino Gaetano                                                                                            

Canepa                                                                                                              

Rodi                                                                                                                  

Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Seguito e fine della discussione):

Foa                                                                                                                    

Pesenti                                                                                                              

Marinaro                                                                                                         

La Malfa, Relatore                                                                                           

Campilli, Ministro delle finanze e del tesoro                                                       

Presidente                                                                                                        

Perassi                                                                                                              

Bonomi Ivanone, Presidente della Commissione                                                

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Richiesta di svolgimento di interpellanza:

Gortani                                                                                                            

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Lucifero, Dossetti, Colonnetti, Fiore, D’Amico Diego, Spataro.

(Sotto concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella dell’onorevole Volpe, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i motivi dell’esclusione degli insegnanti orfani di caduti nella prima guerra mondiale dal beneficio di preferenza nelle supplenze di cui usufruiscono gli insegnanti orfani dell’ultima guerra; e per chiedere provvedimenti di riparazione a questo stato di stridente ingiustizia».

Non essendo presente l’onorevole interrogante, si intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Martino Gaetano, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se risponde a verità che l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica abbia disposto, con sua circolare ai Prefetti ed agli Uffici sanitari provinciali, che venga sospesa la rigida applicazione delle norme del Codice penale e del testo unico delle leggi sanitarie, le quali vietano l’esercizio abusivo della professione di medico odontoiatra. E per conoscere, nel caso affermativo, quali ragioni abbiano ispirato tale provvedimento

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di parlare.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Rispondo per l’Alto Commissario all’igiene.

L’esercizio abusivo di una professione sanitaria è perseguibile a norma del Codice penale e può dar luogo, in sede amministrativa, a provvedimenti di polizia in base all’articolo 101 del testo unico delle leggi sanitarie, che conferisce ai Prefetti la facoltà di disporre la chiusura del locale ed il sequestro del materiale destinato all’esercizio abusivo di dette professioni. Con circolare 23 dicembre 1946, allo scopo di reprimere il dilagante abusivismo nell’esercizio dell’odontoiatria, questo Alto Commissariato ritenne opportuno richiamare i Prefetti alla piena e rigorosa applicazione delle norme vigenti in materia. Tale rigore, dopo molti anni di tolleranza, ha dato luogo a risentimenti, agitazioni collettive e minacce gravi contro i denunzianti, nonché ad un autorevole intervento da parte della Confederazione generale italiana del lavoro presso l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica.

Allo scopo di ovviare all’acuirsi di tale situazione ed in considerazione che tutto l’annoso e complesso problema è al riesame dell’Alto Commissariato stesso, si è ritenuto necessario segnalare ai Prefetti l’opportunità di applicare le istruzioni con tatto e moderazione, onde evitare spiacevoli incidenti. In tale senso è stata diramata una circolare, alla quale naturalmente non può in nessun caso attribuirsi carattere sospensivo delle disposizioni in materia di repressione dell’esercizio abusivo delle professioni sanitarie.

Pertanto, continuano ad avere vigore le disposizioni sulla disciplina giuridica delle professioni sanitarie, alle quali, com’è ovvio, non potevano apportarsi limitazioni o sospensioni con le raccomandazioni contenute nella predetta circolare.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MARTINO GAETANO. Mentre ringrazio l’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio per la cortese risposta alla mia interrogazione gli do atto ben volentieri delle buone intenzioni che, a quanto pare, hanno ispirato l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità. Di queste peraltro io non ho mai dubitato e se questa interrogazione ho presentato, non è certo per muovere garbato appunto alle intenzioni, bensì, piuttosto, al provvedimento che è stato adottato. Gli occhi del nostro intelletto sono muniti di lenti colorate e il mio colore non è analogo a quello dell’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica. Dove questi vede una questione sindacale, io vedo invece un problema di morale e di pubblico interesse.

Evidentemente la visione sindacale del problema legittimerebbe e l’intervento della Confederazione generale del lavoro e il provvedimento conseguente dell’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità. Ma, né quell’intervento, né questo provvedimento possono giustificarsi, se si pensa – come io penso – che lo scopo dell’articolo 348 del Codice penale e dell’articolo 101 del testo unico delle leggi sanitarie non è già quello della difesa degli interessi di una categoria di professionisti, ma è quello della difesa della sanità dei cittadini, della difesa della società. Ma dirò di più: il vero problema è quello di ordine generale, se, cioè, possa essere consentito in un ben ordinato sistema politico ad un Ministro o ad un Alto Commissario di tentare di sospendere con una sua circolare gli effetti di leggi repressive di un reato o anche solo di tentare di attenuarne o limitarne l’applicazione.

Questo è, a parer mio, il vero problema, problema che supera evidentemente il significato del fatto specifico da me denunziato.

Devo dichiarare se sono soddisfatto? Ebbene, evidentemente no.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Canepa, al Presidente del Consiglio dei Ministri, Ministro dell’interno, «per sapere, in seguito alla risposta scritta all’interrogazione sul tema «Alberghi e Turismo», tenuto conto della scarsa efficienza dei due decreti legislativi 29 maggio 1946, quali siano in Italia le reali condizioni del turismo e che cosa si faccia per imprimere a questa industria lo sviluppo necessario all’economia nazionale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA. Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Data la grave situazione in cui versa l’economia nazionale, i due decreti legislativi n. 452 e n. 453 del 29 maggio u.s. hanno un’importanza che non si deve sottovalutare e costituiscono un primo passo verso la ricostruzione alberghiera. Coi contributi di cui al decreto n. 452, infatti, si dà ai privati la possibilità di effettuare lavori di costruzione e di ricostruzione di alberghi, stabilimenti e rifugi di carattere turistico, per l’importo di oltre tre miliardi e mezzo. Istanze di contributi a fondo perduto o rateali sono cominciate a pervenire ai competenti uffici del Governo; ed il loro numero crescerà man mano che sarà possibile agli interessati corredare le domande stesse dei richiesti documenti.

Altra concessione non trascurabile prevista dal citato decreto, è l’esenzione dalla normale imposta fabbricati e dalle relative sovrimposte comunali e provinciali, per un periodo di venticinque anni, a favore di tutti gli esercizi ricettivi costruiti, ampliati o ricostruiti entro cinque anni. Si fa riserva di chiedere al Tesoro una maggiorazione degli stanziamenti, al fine di aumentare la consistenza del patrimonio ricettivo, ed è allo studio una modifica alle norme procedurali del decreto legislativo luogotenenziale n. 452 tendente a facilitare le concessioni dei contributi.

Il movimento turistico è stato finora limitato, a causa degli avvenimenti bellici e delle devastazioni che ne sono derivate all’economia generale del Paese. Per l’anno in corso si delinea, peraltro, una ripresa del flusso turistico, ad incoraggiare la quale serviranno: la riattivazione delle ferrovie e delle altre linee di comunicazione; la propaganda svolta a nostro favore – d’intesa con l’E.N.I.T. – da riviste straniere; l’opera di agenti all’estero, i quali hanno il compito di richiamare l’attenzione dei turisti stranieri sui valori turistici dell’Italia; l’appoggio che viene dato alle manifestazioni d’arte e di cultura, ecc.

Così, in attesa di maggiori possibilità, l’attività turistica – il cui sviluppo è connesso con la ricostruzione nazionale – può segnare al suo attivo le prime premesse per un ritorno graduale, ma costante, al livello dell’anteguerra.

Sono stati portati a termine gli studi per la riorganizzazione degli uffici centrali del Turismo. I due schemi di legge, uno relativo alle attribuzioni dell’organo di Governo, l’altro, riguardante un Ufficio centrale tecnico, principalmente di propaganda in Italia e all’Estero, e di coordinamento fra i vari enti ed associazioni di categoria che interessano il turismo, sono già stati trasmessi dalla Presidenza ai ministeri competenti per il parere e le osservazioni del caso e saranno in una delle prossime riunioni presentati al Consiglio dei Ministri per l’approvazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Canepa ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CANEPA. Prendo atto con soddisfazione della risposta dell’onorevole Sottosegretario alla Presidenza, in quanto annunzia l’imminente decreto costitutivo del Commissariato del turismo. È la risposta che mi aspettavo dopo che il Presidente del Consiglio ha accettato l’ordine del giorno che ho svolto nella tornata del 24 febbraio u.s. E la sua risposta sarà gradita anche da quanti hanno partecipato al congresso di Palermo, che ha avuto luogo in questi giorni e che ha ripetuto appunto questa istanza.

Non posso peraltro non insistere per quanto riguarda la questione delle riparazioni degli alberghi lesionati dalla guerra. Non è che io sottovaluti i decreti del 24 maggio 1946, con cui, invece di accogliere la mia proposta di devolvere il compito ai Comuni, si è stanziato una lieve somma per la riparazione degli alberghi lesionati dalla guerra. Non è, dicevo, che io sottovaluti questa disposizione, e specialmente la buona intenzione che essa dimostra, ma purtroppo questo decreto non ha prodotto un risultato apprezzabile, perché il contributo era del tutto inadeguato. Infatti i danni mobiliari e immobiliari prodotti dalla guerra agli alberghi si calcolano in 12 miliardi, cifra che forse è inferiore ancora al vero.

Ora mi pare che lo Stato dovrebbe partecipare con almeno il 3 per cento non il 2 e mezzo in riduzione della quota annua comprensiva dell’interesse e dell’ammortamento presso la Banca del Lavoro, sezione credito alberghiero.

Ammesso che lo Stato intervenga soltanto fino alla concorrenza del 50 per cento, cioè per 6 miliardi, ne risulta 6 moltiplicato 3, un minimo stanziamento venticinquennale di 180 milioni, mettiamo 200 in cifra tonda.

Con questo stanziamento il problema sarebbe risolto e in breve ripristinato l’assetto alberghiero.

Non mi obiettate le condizioni dell’erario. Dico che nessuna spesa potrebbe essere più di questa utile all’erario, in quanto salverebbe la lira, e senza la salvazione della lira non si va avanti. È proprio così. Perché i forestieri non domandano di meglio che di tornare in questa Italia ad essi tanto gradita. Leggete l’ultimo numero del Joumal de Genève che è in sala di lettura dei giornali esteri. C’è un bellissimo articolo su Taormina e dice che già 100 svizzeri sono tornati a stare a Taormina, e che altre centinaia sono pronti a seguirli, purché trovino alloggio negli alberghi. Questo per quanto riguarda la Sicilia, ma altrettanto posso dire – perché mi consta personalmente – per quanto riguarda la Riviera Ligure.

Devo, oltre a questo, insistere perché il soggiorno degli stranieri non sia limitato. Qualcosa si è fatto. Sono stati dati ordini alle questure perché facciano un discrimine fra forestieri desiderabili e forestieri indesiderabili. Qualche cosa si è fatto, ma non ancora abbastanza. È insensato per sterili preoccupazioni poliziesche disseccare una fonte di vantaggi morali e monetari. Prego, pertanto, il rappresentante del Governo di volere, per mezzo del Ministero dell’interno, dare ordini espliciti. Bisogna abolire i «visti». Bene ha fatto il Ministro degli esteri a ordinare ai consoli di non voler sottoporre a interminabili formalità burocratiche il rilascio dei passaporti. Auguro che il Governo prenda tali provvedimenti, per cui il grande Congresso nazionale del turismo che si terrà in maggio a Genova, abbia a dargli un voto di plauso.

Concludo dicendo che ho letto in questi giorni che l’Inghilterra ha proposto all’Italia l’abolizione dei passaporti tra l’Italia e la Gran Bretagna. Io spero che il Ministro degli esteri accoglierà questa proposta e confido che tale accordo tra la Gran Bretagna e l’Italia segnerà davvero l’inizio di un’era nuova, di un’era in cui siano eliminali gli ostacoli che oggi impediscono alla gente di muoversi e la tengono inchiodata al suolo. È appunto questo avvenire in cui l’umanità possa almeno camminare, almeno svolgere la propria attività, è questo avvenire che sarà inaugurato da tale soppressione dei passaporti tra l’Italia e l’Inghilterra. (Applausi).

CAPPA. Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Assicuro l’onorevole Canepa che le sue osservazioni sono in gran parte condivise dal Governo e che terremo nel maggior conto i rilievi ulteriori che egli ha fatto nel corso della sua replica.

PRESIDENTE Segue l’interrogazione dell’onorevole Rodi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere le ragioni per le quali è stata ripristinata l’efficacia del decreto-legge 14 gennaio 1944, n. 13, riguardante la disciplina della stampa, considerato che: 1°) il provvedimento è stato preso dal Consiglio dei Ministri subito dopo l’aggiornamento dell’Assemblea Costituente, che doveva essere consultata in proposito; 2°) l’articolo 4 del decreto in questione, imponendo l’obbligo agli editori dei giornali di richiedere ogni tre mesi una nuova autorizzazione, pone praticamente la stampa alla discrezione delle autorità competenti e di eventuali interferenze di natura politica; 3°) l’articolo 7 dello stesso decreto dispone che le norme ivi contenute vanno applicate per tutta la durata della guerra, il cui stato è ora ufficialmente cessato; 4°) il provvedimento in parola non trova giustificazioni plausibili nell’eccessivo esercizio della libertà di stampa, perché ogni licenza può e dev’essere punita con le leggi ordinarie».

L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Data l’importanza della legislazione sulla stampa, che deve trovare il suo fondamento nei diritti di libertà sanciti nella Costituzione, il Governo non ha ritenuto di poterla emanare di sua iniziativa, ed ha nominato una Commissione di studio per la redazione di un progetto, da sottoporre all’Assemblea Costituente.

La Commissione ha ultimato i suoi lavori, nei quali ha tenuto largamente conto dei principî che sono stati accolti dalla prima Sottocommissione della Costituente in questa materia.

A tali principî fondamentali si ispira la disciplina della stampa contenuta nel progetto definitivo ieri stesso rassegnato al Consiglio dei Ministri che, giusta l’impegno assunto dal Presidente del Consiglio nelle sue recenti dichiarazioni, sarà prossimamente presentato all’Assemblea Costituente.

Nel frattempo è stato necessario prorogare, ancora per breve termine, le disposizioni provvisorie del decreto Badoglio del 1944, la cui efficacia era limitata alla durata dello stato di guerra.

È da rilevare che il decreto non prevede particolari sanzioni per i reati di stampa, i quali continuano ad essere puniti secondo le disposizioni penali vigenti.

Inoltre l’articolo 4, che impone agli editori l’obbligo di chiedere una nuova autorizzazione ogni tre mesi, non è stato mai praticamente applicato, mentre per quanto riguarda la concessione delle autorizzazioni il Governo può assicurare che l’azione dei competenti organi amministrativi è stata sempre ispirata a criteri assolutamente obbiettivi ed al rispetto della maggiore libertà, evitando qualsiasi interferenza di natura politica.

PRESIDENTE. L’onorevole Rodi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

RODI. Sono spiacente di non potermi dichiarare soddisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario alla Presidenza, perché il problema della libertà di stampa è diventato, specialmente oggi, alquanto scottante.

La mia interrogazione fu presentata nello scorso agosto, vale a dire sette mesi fa. Ma ora sono intervenuti fatti nuovi, per cui è necessario che di questa libertà di stampa si parli. Fra questi fatti nuovi io non voglio citare, per esempio, una circolare che prescrive la censura sui copioni teatrali, perché anche questa circolare potrebbe essere di carattere provvisorio; ma penso che una censura oggi sulla libertà del pensiero riesce dannosa non soltanto perché ricorda tempi ormai tramontati, ma anche perché è chiaro – psicologicamente chiaro – che ogni divieto induce ad usare astuzie per raggiungere quell’intento nel campo artistico che non si può raggiungere con vie legali.

Inoltre, qualche giorno fa, in questa Assemblea è stata discussa un’interpellanza da parte dell’onorevole Grilli, il quale ha fatto una distinzione fra stampa onesta e stampa disonesta. Che la stampa disonesta debba essere punita è chiaro, ma l’onorevole Grilli – poiché lamentava che nei processi che riguardano i reati di stampa la magistratura è generalmente lenta e generosa – invocava che le punizioni dei colpevoli della stampa disonesta fossero attuate in un modo singolare, cioè impedendo che vi sia una stampa disonesta. Ora non è possibile impedire che una determinata stampa diventi in un certo determinato momento una stampa disonesta. Quindi noi pensiamo che, essendo soltanto la magistratura competente in questo campo, nella peggiore delle ipotesi il Governo provvederà a che la magistratura sia meno lenta e meno generosa e provveda a colpire chi attraverso la stampa ha dimostrato di essere disonesto.

E lo strano è questo: che alle proposte dell’onorevole Grilli si associava il Presidente del Consiglio dei Ministri, il quale, annunziando che la legge sulla stampa sarebbe stata rigorosa, pregava l’Assemblea di renderla ancora più rigorosa. Ora, io comprendo benissimo i sentimenti dai quali è stato mosso il Presidente del Consiglio dei Ministri, perché tutti quanti sentiamo la necessità di una stampa onesta; specialmente nella stampa noi desidereremmo che tutti attuassero un criterio di superiore moralità: ma è chiaro che per ovviare a questo inconveniente le leggi speciali sono controproducenti. La legge speciale induce sempre a cercare una via sotterranea, perché alla disonestà si giunga in maniera diversa. Del resto, la preoccupazione dell’onorevole Grilli e dell’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri si riferiva alla calunnia e alla diffamazione. È ben doloroso per un amministratore, per un Ministro, essere accusato di qualche cosa che egli non ha commesso; ma noi pensiamo che la legge speciale, anche in questo caso, è negativa, poiché contro le calunnie si combatte con l’onestà della vita pubblica e privata. Sono convinto che nessuno insiste sulla calunnia quando si tratta di esponenti onesti. Anzi, credo che l’unica arma per salvaguardarsi dalla calunnia e dalla diffamazione attraverso la stampa sia proprio quella della onestà della vita pubblica e privata, e quando la calunnia e la diffamazione dovessero estendersi, provvederà a questo la magistratura ordinaria.

Ad ogni modo, poiché in questi giorni è stato dato un allarme per quanto riguarda la libertà di stampa, prego il Governo di tener presente che, specialmente in questo periodo, che chiamiamo democratico, sia lasciata la massima libertà alla stampa, e che tutti i reati di stampa siano legalmente puniti con la massima severità. Ma l’importante è che si conservi sempre e soprattutto la libertà del pensiero umano.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Debbo replicare a mia volta perché non sono soddisfatto della replica dell’onorevole interrogante. Negare che attualmente esista una delle, maggiori libertà di stampa nel nostro Paese è negare la realtà. Noi abbiamo a Roma ventitré giornali politici quotidiani e nessuno di questi (almeno da otto o nove mesi, cioè da quando io sono alla Vicepresidenza del Consiglio) ha avuto, nonché il minimo disturbo, la minima osservazione. Può l’interrogante eccepirmi che, anche di recente, una qualsiasi richiesta di autorizzazione di amici dell’interrogante non abbia avuto liberamente corso e soddisfazione?

Ad ogni modo, c’è un disegno di legge sulla stampa all’esame del Consiglio dei Ministri che sarà prossimamente presentato all’Assemblea Costituente. Vedranno i colleghi delle varie parti dell’Assemblea se questo disegno di legge poteva essere ispirato a criteri di più perfetta libertà di stampa. La censura teatrale, contro cui ha parlato l’onorevole interrogante, procede con una tale prudenza, con una tale moderazione, che la Presidenza del Consiglio riceve osservazioni da destra e da sinistra perché non agisce abbastanza severamente.

Il Governo cerca di contemperare le esigenze degli uni e degli altri, le esigenze cioè della libertà di pensiero e le esigenze della opinione pubblica in materia di rispetto del buon costume e dei nuovi ordinamenti repubblicani.

Ritengo, insomma, che gli organi competenti hanno dimostrato in questo senso un criterio di moderazione che deve essere apprezzato anche dai colleghi dell’estrema destra.

L’onorevole interrogante ha polemizzato con l’onorevole Grilli. Non spetta a me rispondere su questo, ma faccio presente che nessuna legge speciale avrà ragione di prevalere di fronte alla legge sulla stampa, nel senso che questa disciplinerà questa speciale materia; e sarà una legge ispirata ai principî della libertà di propaganda del pensiero, perché sopprime il bisogno di autorizzazione, perché lascia largo limite alla polemica politica e si riferisce, per quello che è repressione dei reati, al Codice penale.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato allo svolgimento delle interrogazioni.

Seguito della discussione del disegno di legge: Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del disegno di legge: Partecipazione dell’Italia agli accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

È iscritto a parlare l’onorevole Foa. Ne ha facoltà.

FOA. Voterò, con gli amici del mio Gruppo, a favore del disegno di legge. E poiché sono anche persuaso che l’approvazione da parte di questa Assemblea non mancherà, avrei voluto rinunciare a far sentire la mia parola in questo dibattito, tanto più che sono rimasto io stesso leggermente impressionato dall’atmosfera di premura, di urgenza che, a mio giudizio, si è voluta creare attorno alla discussione di questo disegno di legge.

Ritengo, tuttavia, di non poter rinunciare alla parola e sento come un dovere di coscienza di richiamarvi ancora una volta alla responsabilità di questa Assemblea nell’atto in cui essa darà l’adesione al disegno di legge proposto dal Governo, alla responsabilità di questa Assemblea circa le conseguenze che sono implicite nell’accettazione del disegno di legge.

Il Governo aveva, a mio giudizio, la facoltà costituzionale di decidere da solo l’adesione a Bretton Woods. In quanto esso ha rimesso all’Assemblea Costituente la decisione, io non penso che il Governo abbia voluto assicurarsi una adesione plebiscitaria, più o meno arricchita da dichiarazioni di voto: credo che il Governo abbia voluto giustamente trasferire all’Assemblea Costituente la responsabilità di un atto che impegna tutta la politica futura.

Avvertiva il Governo questa responsabilità? Può darsi; però a mio giudizio esso non ne ha dato dimostrazione. La preparazione degli accordi si è svolta in un modo quasi clandestino. Delle eccellenti inchieste che il Ministero del Tesoro e il Ministero della Costituente avevano fatto sulle questioni monetarie e sui problemi del risanamento monetario non hanno avuta alcuna diffusione nel Paese. E soprattutto, a mio giudizio, è grave che il Governo, nell’atto di presentare all’Assemblea Costituente un provvedimento che implica un preciso impegno non solo di fronte all’estero, ma anche di fronte al popolo italiano, un preciso impegno di politica monetaria, di politica finanziaria, di politica economica generale, non abbia sentito il bisogno di dire una sola parola. Io comprendo che questo non è forse il momento e la sede di un ampio dibattito sulla situazione finanziaria ed economica; tuttavia il Governo aveva, a mio giudizio, il dovere di far comprendere all’Assemblea che esso avvertiva la responsabilità del fatto per il quale si chiede la nostra approvazione. Noi abbiamo sentito, invece, semplicemente accennare ai possibili e più lo meno grandi vantaggi immediati che possono derivarci dalla nostra adesione al Fondo ed alla Banca internazionale di Bretton Woods.

Ritengo, soprattutto, che in seno a questa Assemblea si debba dissipare una impressione che può essere stata data nel Paese da parte di quelle pochissime sporadiche manifestazioni di stampa, nel quasi generale disinteresse dell’opinione pubblica per questo problema. In un giornale economico del mattino dell’altro giorno ho visto enunciato questo pensiero: che non bisogna prendere sul serio l’impegno di stabilizzazione; che, in fondo, oggi si tratta di richiedere vantaggi e benefici immediati attraverso la nostra adesione al Fondo e alla Banca; ma che, in fondo, l’Assemblea Costituente dovrebbe onestamente far comprendere che questi impegni di stabilizzazione nel mondo attuale non contano più nulla.

Ora io credo che se può essere logico che a qualcuno venga in mente o interessi di svalutare gli impegni di stabilizzazione e di richiamarsi al fallimento di tutte le conferenze e di tutti i tentativi di organizzazione economica internazionale dopo l’altra guerra, credo che l’Assemblea Costituente italiana non possa accettare questo punto di vista, il quale sarebbe puramente e semplicemente una truffa. Se noi sottoscriviamo all’impegno di stabilizzazione, siamo responsabili della sua esecuzione e dobbiamo richiedere al Governo di eseguirlo con la massima serietà.

Questo è lo spirito che dovrebbe presiedere da parte dell’Assemblea Costituente nella sua approvazione agli Accordi di Bretton Woods.

Dirò subito che noi dobbiamo dare atto al Governo delle condizioni specifiche dell’accordo. Quando il Governo è andato a Bretton Woods e ha chiesto di entrare, l’alternativa era semplice: o prendere, o lasciare. Così pure non possiamo far carico al Governo di alcuni degli aspetti particolari, pur molto importanti, che sono insufficienti, a nostro giudizio, per garantirci l’esiguità della quota, la mancanza, per il momento, di nostri elementi nell’amministrazione esecutiva dell’Istituto internazionale, ecc. Sotto questo punto di vista è chiaro che il Governo non ha potuto finora fare di più di quello che ha fatto. Sarà bene, tuttavia, che l’Assemblea Costituente faccia sentire il suo stimolo, faccia sentire la sua insistenza presso i nostri uomini di Governo perché essi, quanto più rapidamente possibile, riescano a migliorare queste nostre condizioni.

Noi dobbiamo anche dare atto al Governo, in modo essenziale, di una circostanza, cioè che esso ha deliberatamente deciso di anteporre un’esperienza di stabilizzazione monetaria ad una stabilizzazione finanziaria ed economica del Paese. A nostro giudizio, questa anticipazione di una esperienza di stabilizzazione monetaria rispetto al risanamento del bilancio, che è lungi da venire, e al risanamento dell’economia e della produzione italiana, che è lungi da venire, questa anticipazione è giusta e valida ad una sola condizione, che la stabilizzazione monetaria, cioè, appaia e sia veramente uno degli elementi strettamente connessi ad un proposito costruttivo coordinato di risanamento finanziano ed economico. Perché se la stabilizzazione monetaria è nella mente dei nostri uomini di Governo ed in generale di tutti i responsabili della politica economica italiana come un provvedimento isolato, essa è destinata al fallimento.

Ha il Governo coscienza di questo? Io credo che se il Governo ne ha coscienza, ce lo deve dire nella sede più appropriata. Ma allora deve ricordarsi che questo impegno di stabilizzazione è emanato da una legge dello Stato italiano e vale perciò anche rispetto ai cittadini dello Stato italiano. E noi sappiamo che cosa comporta l’impegno di stabilizzazione, quali rischi, quali sacrifici, quali deliberate volontà. Io credo veramente che, sotto questo punto di vista, sia stato detto troppo poco da parte del Governo. Un accenno, un buon accenno, un misurato accenno di questa responsabilità noi l’abbiamo trovato soltanto nella eccellente relazione dei colleghi La Malfa e Lombardo, relatori per le Commissioni riunite. Io credo che questo accenno dovrebbe e potrebbe essere utilmente sviluppato, perché bisogna che l’Assemblea Costituente, nell’atto di decidere, mostri al Paese di conoscere le conseguenze della sua decisione e dell’impegno che assume.

In secondo luogo, dobbiamo dare atto al Governo di una circostanza fondamentale. Con questa adesione noi dichiariamo di rinunciare alla manovra monetaria nazionale e dichiariamo di volerci inserire nel quadro della cooperazione economica internazionale. Sotto questo punto di vista, però, io credo che non sia il caso oggi di fare né della retorica, né di abbandonarsi a del lirismo sul problema della cooperazione internazionale, soprattutto a due giorni di distanza dal messaggio di Truman; cioè a due giorni di distanza da un atto che ha messo in rilievo come questa cooperazione può anche avere un senso diverso da quello che noi ci auguriamo.

Tuttavia sta il fatto preciso che con il nostro provvedimento noi, Assemblea Costituente italiana, rinunciamo alla manovra monetaria nazionale. E questo, a nostro giudizio, è una cosa importante. Noi abbiamo fatto una dura, tragica esperienza di quella che è la manovra monetaria sul terreno nazionale.

Abbiamo ascoltato ed ascoltiamo con deferenza i richiami storici, l’apologia commossa che si fa del regime aureo, del paradiso perduto del secolo fra il 1814 e il 1914, e quando ci rendiamo conto lucidamente della situazione catastrofica che è susseguita colla prima guerra mondiale e dopo la prima guerra mondiale, dobbiamo aver lucida in mente questa circostanza e cioè che il sistema monetario che si è susseguito al sistema aureo era strettamente connesso ad un sistema economico che era figlio legittimo del sistema economico precedente. Non è stata la malizia degli uomini, non la volontà soggettiva di questo o quell’uomo politico, e di questo o di quel partito, che hanno determinato il passaggio dal sistema aureo al sistema delle monete manovrate in regime autarchico o semi-autarchico; è la logica situazione, è la logica conseguenza di quel regime di cui abbiamo ieri, con commozione e con deferenza, ascoltata la rievocazione da parte dell’onorevole Einaudi.

Però, questo sistema della moneta manovrata sul terreno nazionale, noi sappiamo che è un sistema fallito, è un sistema che tutte le nostre forze devono tendere a superare, e sappiamo che era connesso a precisi interessi che potevano a volte essere interessi indiscriminati di una politica imperiale e militare, che erano spesso gli interessi di quelle classi che lo sviluppo normale dell’economia aveva posto in una delicata situazione di decadenza. La manovra sul terreno nazionale salvava i profitti di quelle categorie, e, indubbiamente, non si sviluppava, a vantaggio degli interessi generali.

Anche per questa ragione specifica, cioè che lo strumento monetario di manovra nazionale aveva ed ha dimostrato di essere uno strumento di carattere privilegiato ed oligarchico, noi crediamo che debba essere risolutamente abbandonato. Ma quale è il sistema al quale noi andiamo incontro? Credo che in questa Assemblea Costituente non si debba fare della dottrina, fare della teoria sul sistema monetario, ma si debba valutare chiaramente quale può essere la conseguenza pratica alla quale il Governo italiano potrà andare incontro col fatto della sua adesione agli accordi di Bretton Woods.

Vorrei aggiungere ora una circostanza di carattere tecnico. L’onorevole Dugoni, molto opportunamente, ieri, ha posto una domanda relativa al modo come sarà pagata la quota al Fondo e alla Banca. Io credo che vi è un’altra domanda da fare: come sarà determinato il criterio di parità? È evidente che questo non è un problema che possa essere discusso in un’Assemblea politica. Questo problema spetta al Governo. Tuttavia, siccome grossissimi interessi sono coinvolti in questa questione, siccome è un problema che non può essere risolto unicamente con determinati dati statistici, attraverso la valutazione degli indici di inflazione interna o attraverso un’analisi comparativa dei costi attuali interni ed esteri, ma è un problema che coinvolge la previsione del ritmo degli incassi e delle spese di tesoreria, la previsione delle finalità dello strumento fiscale, la previsione della nostra politica commerciale, ed anche la previsione che abbiamo sentito ieri in quest’aula e sul cui contenuto io credo che qualche riserva debba essere fatta, dei possibili sconvolgimenti monetari esteri, che possono avvenire in un prossimo domani, e che avranno influenze decisive anche rispetto alla determinazione della nostra parità monetaria, questo significa che anche la questione della parità, che si può rinviare di qualche settimana o di qualche mese, ma che fatalmente dovrà venire all’ordine del giorno della politica del Governo, è una questione che implica delle previsioni, che non può essere, perciò, meccanicamente risolta, ma richiede una prospettiva chiara di azione su quello che si intende fare per il risanamento finanziario ed economico. Questo mi pare un punto decisivo, sul quale l’attenzione dell’Assemblea Costituente e l’attenzione del Governo dovrebbe essere energicamente richiamata.

Si è citata, a vantaggio del nostro Paese, una circostanza che può agevolare in un certo senso la nostra esecuzione degli Accordi, in risposta ai dubbi di coloro che suggeriscono di non porci nella difficile situazione che oggi andiamo ad assumere, perché tra qualche mese saremo costretti ad uscirne e saremo posti nella condizione di uno Stato che non mantiene fede ai suoi impegni; si è citata una garanzia di carattere statutario; e cioè la possibilità della svalutazione successiva del 10 per cento e del 20 per cento.

Ora io credo che è una questione di ordini di grandezza, e credo di non dover dire di più. La nostra esperienza monetaria, la nostra esperienza economica sa che i problemi di svalutazione che si pongono a noi hanno un ordine di grandezza, che non è quello previsto dagli statuti di Bretton Woods, ed hanno anche un ordine di grandezza che è diverso da quello possibilmente previsto per le tempeste monetarie che possono avvenire nei paesi anglosassoni.

Per questo credo che noi non possiamo dormire i nostri sonni tranquilli. Questo provvedimento ha un’importanza capitale che impegna tutte le nostre energie e, a questo proposito, vorrei dire che in questa sede non dobbiamo discutere la situazione del bilancio, né la situazione del tesoro. Però credo che si possa fare all’onorevole Ministro – sulle cui spalle grava veramente questa pesantissima responsabilità, di cui tutti ci rendiamo conto – un invito, rivolgergli un consiglio che è questo: noi crediamo che sarebbe veramente opportuno che la futura politica finanziaria e in generale la politica economica trovi modo di appoggiarsi più di quanto non abbia fatto fino ad oggi sui consensi, sulla collaborazione pratica delle forze politiche, delle associazioni economiche, della stampa, dell’opinione pubblica in generale; esca da quella clandestinità nella quale continua a trovarsi.

Si parla oggi, a ragione, del problema tragico delle spese pubbliche. Credo che nessun Ministro del tesoro, neanche Quintino Sella, o un uomo della durezza di Quintino Sella, se oggi sedesse al banco occupato dall’onorevole Campilli, potrebbe trovare l’energia di resistere a pressioni che tutti sentiamo profondamente giustificate dalle condizioni di vita del nostro Paese, quando noi sappiamo inoltre che troppo spesso, purtroppo, in altre amministrazioni, gli stessi Ministri, anziché resistere di persona a queste richieste, scaricano tutto sulle povere spalle del Ministro del tesoro; e rinviando la responsabilità alla sua persona, in un certo senso, accrescono la pressione. Ora io credo che questa questione delle spese pubbliche trovi una sua ragione profonda e giustificata e che il Ministro del tesoro con le sole sue forze e con la forza dei suoi funzionari non potrà resistere. Questo mi pare evidente. Noi potremo fare tutti gli ordini del giorno che vogliamo, tutte le pressioni che vogliamo, ma il compito è superiore alle sue forze. Quello che invece deve rendersi possibile al più presto, camminando passo passo, è un’altra cosa: i sacrifici che tutti dobbiamo affrontare, tutti i ceti sentiranno di doverli affrontare e li affronteranno se si hanno le garanzie di dove si va. Perché nelle attuali circostanze nessuno si sente in grado di poter rispondere di no a richieste che siano materialmente e moralmente giustificate, quando non si può dire: «guardate che questo sacrificio porterà un certo frutto comune domani» se lo spettacolo che ci sta di fronte si traduce invece, in realtà, in benefici per le categorie privilegiate.

Questo è il primo punto sul quale richiamo l’attenzione: se il Governo continua nell’attuale via, in questa situazione veramente di disordine, senza fare delle proposte, senza fissare una pianificazione, senza fare un appello e dare una motivazione profonda agli interessi del Paese, il Governo non può riuscire, qualunque sia la sua buona volontà. E questo argomento, mi permetto di ricordarvi, è strettamente congiunto agli impegni che ci assumiamo di fronte all’Italia e di fronte all’estero. Questo mi pare che sia veramente importante da ricordare.

Un secondo punto è questo: la gente non crede più alle promesse del Governo, non crede più ai programmi del Governo. Mi permetto di citare, a questo riguardo, un indice significativo: l’indice dell’andamento delle quotazioni del prestito redimibile. La caduta iniziale del redimibile 3.50 per cento era evidentemente dovuta, a mio giudizio, alla mancata esecuzione del cambio della moneta. L’ascesa successiva, che impegna grossissime partite di acquisti, rivela una circostanza interessante e cioè i capitali di fuga che all’atto dell’emissione non hanno sottoscritto, o hanno sottoscritto dopo per mettersi al coperto dall’imposta patrimoniale. Questo dimostra che la parola dei Governo non è più creduta, sia quando il Governo promette, sia quando il Governo minaccia. Bisogna quindi che il Governo si metta in condizioni di farsi credere.

Vi è un’altra circostanza interessante ed è la fenomenologia, la manifestazione di scivolamento della nostra valuta. Vi è oggi un fenomeno diverso da quello che avveniva prima: mentre prima vedevamo salire rapidamente il dollaro libero e successivamente i titoli industriali, assistiamo ora invece al fenomeno inverso: ciò significa che, nonostante tutti i divieti, tutti i limiti che sono stati stabiliti, nel campo industriale, la gente di affari non crede più a questi impegni; sa benissimo che il Governo può scrivere sul suo programma questo o quel provvedimento, ma non crede alla sua esecuzione. Sotto questo punto di vista, per la serietà dell’impegno, che dobbiamo assumere, nei rispetti fiscali ed economici, in generale, credo che l’adesione da parte dell’Assemblea Costituente ai Patti di Bretton Woods deve significare una svolta, un mutare strada.

Dobbiamo avere coscienza che, se approviamo gli accordi di Bretton Woods, con l’idea di continuare così come abbiamo fatto finora, noi sottoscriviamo un documento con la convinzione di non potere mantenere gli impegni.

Allo stato attuale, devo personalmente dichiarare che, se sapessi con precisione che il Governo e l’Assemblea Costituente non trovano una occasione per mutare decisamente strada, non darei la mia adesione, dovrei scindere la mia responsabilità da quella dell’Assemblea.

Credo che occorra chiarire un altro punto, senza fare della dottrina monetaria, ma prendendo sul serio queste cose.

Cosa significa il sistema di Bretton Woods, come funzionerà nei nostri confronti questo impegno di carattere internazionale, questo nuovo sistema monetario?

Credo veramente che oggi non è più il caso di porre l’alternativa: moneta manovrata o sistema aureo.

Il paradiso perduto del sistema aureo è veramente perduto. Ricordo le conferenze internazionali susseguitesi dopo la prima grande guerra, da quella di Bruxelles del 1920 a quella di Londra del 1933, attraverso quelle di Ginevra, di Stresa e dell’Aja, quelle Conferenze che si illudevano di poter riaffermare i principî del sistema aureo in confronto del protezionismo e dell’autarchia, che stava prendendo piede. Quella alternativa non esiste più.

Oggi per noi esiste un’altra alternativa: o moneta manovrata nazionale, o moneta regolata su scala supernazionale.

È chiaro anche che, nonostante le analogie che il sistema di Bretton Woods presenta rispetto al sistema aureo (che sono notevoli) i riaggiustamenti che conseguono a squilibri temporanei della bilancia dei pagamenti e la tecnica di questi riaggiustamenti prevista nello statuto del Fondo non possono basarsi su forze spontanee.

Intanto, in primo luogo, credo che le remore stabilite dallo statuto del Fondo (impegno di riscatto per la valuta eccedente, provvigioni crescenti per l’eccesso di valuta detenuto) non siano elementi sufficienti, quando lo Stato è dissestato, per poterlo fermare sulla china in cui si trova.

Credo che, anche nella ipotesi di normale funzionamento del Fondo, non possiamo più contare sulle forze spontanee di aggiustamento, per il fatto che gli elementi di rigidità, economici e sociali, nell’interno delle economie nazionali, non sono più il frutto d’un uomo o d’un partito; sono dati che si possono modificare soltanto in sede politica.

Questo per me è convincimento preciso: sono convinto che il giorno in cui vedessimo veramente funzionare il Fondo e dovessimo, per un caso di squilibrio d’una situazione debitoria nostra, riaggiustare il sistema dei prezzi nel nostro interno, per recuperare la posizione di equilibrio, non potremo affidarci alle forze spontanee e che i vecchi strumenti classici della manovra bancaria siano ormai organi insufficienti.

Quindi, anche per il normale funzionamento del Fondo, che dobbiamo auspicare, sotto questo aspetto penso che la previsione del Governo dovrebbe disporsi ad una politica di intervento, cioè disporsi veramente, nel caso in cui sorgesse la necessità, a modificare con interventi pubblici gli elementi di rigidità, che, altrimenti, farebbero saltare il sistema; se non ci si dispone, con visuale unitaria, a colmare le lacune che possono derivare da situazioni momentanee di squilibrio, ci troveremo in condizione di essere posti fuori del Fondo o di esservi ancora ammessi in una situazione incerta, in una situazione cioè già fallimentare.

Se ciò dovesse avvenire, preferirei che non dessimo la nostra adesione oggi, ma fra un anno. Credo che anche sotto l’aspetto del funzionamento normale del Fondo il Governo debba disporsi a pensare non ad una politica di automatismo, di spontaneità, ma di diretto intervento. Questa è la realtà che mi suggerisce la lettura degli accordi di Bretton Woods e delle polemiche che li hanno accompagnati nei vari paesi.

Voglio concludere con una osservazione di carattere più strettamente politico. Si dice oggi spesso che questo è il primo atto che ci pone sul piede di parità in sede internazionale, e cioè noi andiamo per la prima volta a testa alta in sede internazionale, ed assumiamo impegni di natura reciproca con gli altri Stati. Si aggiunge che ciò significa veramente che noi facciamo un primo passo verso la cooperazione internazionale. Ora io ripeto qui: non lasciamoci sedurre dalla bellezza delle parole. L’onorevole Corbino, con realismo e crudezza, ci ha dato una rappresentazione vivacissima della lotta feroce che i grandi capitalisti mondiali stanno conducendo l’uno contro l’altro, della lotta del dollaro contro la sterlina, ed egli ha fatto benissimo a richiamare su ciò la nostra attenzione. Noi dobbiamo comprendere questo richiamo alla realtà. Noi dobbiamo cioè comprendere che l’abbandono da parte nostra di una politica monetaria autonoma non significa per nulla la nostra adesione ad un sistema o di forze spontanee o di una economia regolata con criteri di giustizia. Criteri di giustizia in questa materia non esistono ancora nella realtà delle cose.

L’onorevole Corbino ci ha spiegato benissimo, e noi gliene siamo grati, la posizione di forza che all’economia ed alla politica degli Stati Uniti è fatta nel Fondo internazionale. Sotto questo riguardo dunque dobbiamo valutare il problema, soprattutto dopo il messaggio di Truman, dopo la manifestazione politica dell’altro giorno che è passata sopra le nostre teste come una ventata di tempesta, che purtroppo potrebbe anche abbattersi su di noi.

Dobbiamo tener gli occhi bene aperti. Non possiamo continuare una politica monetaria nazionale, e noi siamo quindi nettamente contrari a qualunque forma di nazionalismo economico.

Bisogna però che ci rendiamo conto che l’organizzazione economica internazionale di cui entriamo a far parte sarà ancora per lungo tempo dominata da forti gruppi particolari, ed è questo un pericolo per il nostro Paese. Perché è chiaro che se noi ci presentiamo a questa cooperazione economica internazionale nella situazione di anarchia economica feudale in cui ci troviamo, noi saremo fatalmente ridotti al rango coloniale. Ci presenteremmo, infatti, lasciando intatte le forze politiche ed economiche screditate, sempre state bisognose di protezione e fallite sul terreno politico ed economico, forze che rialzano la testa. E allora fatalmente, nei confronti dei nostri feudi economici, si svilupperebbe una politica analoga a quella che è stata la politica imperiale inglese nei riguardi dell’India, dove i principotti feudali erano sostenuti per assicurare il dominio sul Paese.

Un’altra alternativa è che l’Italia si dia un determinato ordine basato su prospettive pianificate. Allora io ritengo che i pericoli di essere asserviti si ridurrebbero notevolmente. Io credo che a queste condizioni, alle condizioni cioè che noi diciamo apertamente quale è l’ordine economico interno che ci vogliamo dare, tutti gli aiuti saranno i benvenuti e tutte le collaborazioni internazionali saranno proficue.

Quello che chiedo al Governo è moltissimo: so molto bene che qualunque uomo sieda oggi al Governo può fare invece pochissime cose. Nessuno, neppure noi che siamo all’opposizione, pretendiamo che il Governo possa fare miracoli; ma noi non chiediamo se non una modestissima cosa: che, invece di stare fermi e di fare passi indietro, si faccia qualche passo avanti. A questa sola condizione, noi crediamo che il Governo possa assumere un impegno internazionale di questa portata. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pesenti. Ne ha facoltà.

PESENTI. Onorevoli colleghi, il disegno di legge che viene presentato alla nostra discussione propone di accedere agli accordi firmati a Bretton Woods il 22 luglio 1944 per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale di ricostruzione e di sviluppo. Esso pone di fronte al problema di accettare o meno, cioè, un accordo internazionale costituito senza la nostra partecipazione. Onorevoli colleghi, riconosciamolo subito; l’alternativa è puramente teorica, perché, data la nostra posizione internazionale, politica ed economica, è da escludere qualsiasi convenienza a rifiutare l’invito ad accedere agli Accordi in parola. Non è su questo punto, quindi, che può vertere la discussione dell’Assemblea, che ha infatti dimostrato di raggiungere a questo proposito l’unanimità. Ma è invece necessario che l’Assemblea dimostri al Paese di avere piena e precisa coscienza del carattere e dell’importanza degli accordi di Bretton Woods, nel loro aspetto di strumento internazionale e della posizione che verrà ad avere il nostro Paese in seno ai nuovi organismi economici internazionali. Ha assolto l’Assemblea a questi compiti?

Dal punto di vista del gruppo che io rappresento, credo di no.

L’onorevole Corbino ha illustrato egregiamente e con precisione, come in una lezione universitaria, il funzionamento del sistema aureo, l’instabilità monetaria succeduta dopo la prima guerra mondiale e il meccanismo istituito a Bretton Woods, esaltando la cooperazione internazionale che si intende raggiungere;

È stata una descrizione esauriente, che mi libera, tra l’altro, dal dovere di ripeterla, ma che a mio parere non ha reso il vero spirito, l’origine intima e il prevedibile sviluppo degli accordi che oggi discutiamo.

E l’onorevole Einaudi, ricordando i tempi della sua gioventù, ha magnificato con immagini brillanti il mitico oro, l’età aurea, lamentandosi che il mondo poi abbia tralignato, cambiato strada e vedendo negli accordi di Bretton Woods un grande passo per avvicinarci alla vecchia via, alla normalità.

Onorevole Einaudi: posso apprezzare la sua commozione, ma è inutile prendersela col mondo perché ha cambiato strada: quello che è necessario è comprendere perché il mondo ha cambiato strada, e, se può o non può ritrovare la vecchia via. Questo è il punto su cui credo necessario dire la mia opinione.

La moneta manovrata ha avuto la scomunica del professor Einaudi come una eresia, un’aberrazione del mondo moderno.

Ma è la moneta manovrata proprio una eresia o un elemento fondamentale costitutivo del mondo capitalistico, giunto nella sua fase di decadenza definitiva? È questa la domanda che io pongo, e se la risposta è affermativa, quale significato hanno gli accordi di Bretton Woods?

Dopo la prima guerra mondiale noi abbiamo visto, infatti, venire chiaramente alla ribalta questo nuovo fenomeno che, per semplificazione, possiamo chiamare «moneta manovrata». In questo termine noi vogliamo indicare tutti quei fenomeni monetari, deliberatamente voluti, che si sono verificati nelle stabilizzazioni monetarie del primo dopo guerra, ma più ancora quelli che abbiamo visto verificarsi durante e subito dopo la grande crisi del 1931-1933, anche se nella dottrina economica il termine di moneta manovrata abbia un significato più ristretto.

Cioè, dopo un lungo periodo di stabilità monetaria durato quasi un secolo – il secolo d’oro dell’età capitalistica – noi abbiamo avuto un fenomeno nuovo, la rottura di questa stabilità: inflazioni, deflazioni, svalutazioni, monete manovrate.

Gli economisti hanno osservato, è vero, che la tanto decantata stabilità del secolo scorso, basata sulla moneta aurea, era una stabilità apparente ed hanno rilevato i mutamenti di tendenza dei prezzi in rapporto al valore dell’oro. Questo fatto, anzi, è stato particolarmente studiato ed è stata un’arma teorica in favore di coloro che hanno sostenuto l’opportunità di abbandonare la base aurea per poter compiere una politica di espansione attraverso la manovra monetaria.

Comunque, la base aurea rappresentò effettivamente una condizione di stabilità economica, sia perché i mutamenti del livello generale dei prezzi avvenivano con una certa lentezza, sia perché, dato lo sviluppo delle relazioni economiche tra i vari Stati capitalistici, data la base aurea mondiale (per paesi già sviluppati capitalisticamente), essi si riflettevano subito in tutti i paesi capitalistici che si facevano la concorrenza reciproca. Il «trend» come dicono gli anglosassoni, era unico per i prezzi mondiali ed anche nella struttura economica interna questo mutamento si rifletteva lentamente, a lunga scadenza, tra le varie categorie sociali che intervenivano nella produzione, senza provocare subitanei eccessivi spostamenti di redditi o senza esercitare una influenza particolare, cioè come causa particolare, sulla dinamica del saggio del profitto.

La guerra 1914-1918 distrugge il sistema aureo e introduce una fase di instabilità monetaria.

Mi si può dire: nella storia ciò non rappresenta una novità: ogni grande rivolgimento storico ed economico ha portato a periodi di instabilità dei prezzi: vi sono state nella storia tante svalutazioni, altri annullamenti quasi totali delle monete.

Sembra, perciò, a prima vista, non corretto considerare sotto una luce tanto diversa i fenomeni monetari che si sono verificati in seguito alla prima guerra mondiale e giusto considerarli invece come fa il professor Einaudi «aberrazioni dalla retta via»; ma, se noi esaminiamo dialetticamente i problemi e non ci fermiamo alla superficie dei fenomeni, per cui tutti sembrano uguali, ne scopriamo la diversità.

La diversità è profonda: la politica di moneta manovrata che si è iniziata dopo il 1914, apre un nuovo periodo della storia economica del sistema capitalistico, capitolo che non prevede ritorni.

Vi sono nelle instabilità monetarie del dopo guerra dei caratteri nuovi, particolari, che si legano alla specifica struttura della società capitalistica, ormai dominata dal monopolio e dal capitale finanziario; per cui un fenomeno economico che inizialmente sembra imporsi come necessità, per leggi economiche superiori e che si sono imposte in altri momenti storici, diventa uno strumento cosciente nelle mani della classe dominante, uno strumento di sfruttamento, di cui la classe dominante fa uso «regolare».

Questo ci dice la pratica e la dottrina degli ultimi anni.

La guerra mondiale del 1914-1918, causata dai contrasti dei paesi capitalistici in lotta per la conquista dei mercati, intesa, assieme alle altre misure, ad arrestare la caduta del saggio del profitto, comporta delle spese che causano un deficit finanziario. Tale deficit non può essere colmato se non con prestiti ed emissioni di carta-moneta-imposta indifferenziata, di semplicissima esazione e che grava sui lavoratori a reddito fisso, sui piccoli risparmiatori.

Questo è un fatto inevitabile, date le spese e le distruzioni della guerra, benché la diversa misura con cui si ricorre a questo strumento sia un fatto cosciente; prova ne sono le violente discussioni sulla misura da dare ai prestiti, alle imposte e infine alla carta-moneta.

Ma ad un certo momento la cosa cambia di aspetto: ciò che era inevitabile diventa cosciente; strumento di lotta di classe all’interno, strumento di lotta nei contrasti di interessi con i capitalisti paesi stranieri. E noi possiamo seguire questa seconda fase in tutta la politica di stabilizzazione monetaria nel 1924-1928, e con maggiore chiarezza negli esperimenti monetari succedutisi durante e dopo la crisi 1931-34.

Chi ha studiato le vicende della politica monetaria dei vari paesi capitalistici dopo la guerra 1914-1918, non può non essere conscio della importanza che ha rappresentato l’arma monetaria nelle mani di gruppi di interessi per spogliare ceti sociali e provocare comunque trasferimenti di ricchezze e, nella concorrenza internazionale, come arma di penetrazione. Il dumping monetario si sviluppa allora.

L’arma monetaria diventa prevalente rispetto alle altre meno efficaci e politicamente più pericolose, tenuto conto dell’accresciuto senso di classe della massa lavoratrice e della vigilanza dell’avversario straniero.

Il ritorno alla parità aurea del 1925, che rappresenta la vittoria dei money interests della potentissima City, come direbbe il Marx, di fronte agli industriali interests, risente ancora della vecchia mentalità del capitalismo regolare, per così dire, che non è ancora ben conscio dell’importanza dell’arma monetaria, benché essa sia già stata usata nel continente e studiosi come il Keynes l’abbiano illustrata (Monetary Reform, 1923).

Ma quando la situazione del capitalismo industriale inglese si rende difficile, quando la forza organizzativa della massa operaia inglese mostra con lo sciopero del 1926 che non è possibile decurtare direttamente i salari, come può avvenire, per esempio, in Italia, quando l’industria carboniera tedesca e polacca, l’industria siderurgica e tessile degli altri paesi riduce le esportazioni e i profitti del capitalismo inglese e minaccia i mercati, allora, deliberatamente, il capitalismo britannico ricorre alla svalutazione della sterlina, alla moneta manovrata, alla creazione dell’area della sterlina in cui tutti i paesi economicamente tributari subiscono l’azione del centro economico capitalistico dominante. Il rapporto Mac Millan del 1931, preceduto del resto da articoli del Keynes, del Gregory e d’altri, è significativo.

Gli effetti dimostrano chiaramente gli scopi che si volevano raggiungere. All’interno: aumento di profitti, passaggio di ricchezze da categorie sociali ad altre, diminuzione relativa dei salari; all’estero: caduta dei costi inglesi in confronto di competitori stranieri, miglioramento delle esportazioni.

Negli Stati Uniti, quando nel 1933 vi è la svalutazione, questa avviene con un preciso scopo, che viene illustrato anche nella teoria della «reflazione» (Fisher The Theory of the Debt Deflaction). Ridurre il peso dei debiti, aumentare i prezzi, cioè i profitti, creare un trasferimento di ricchezza – cioè di frutto di lavoro – da categorie sociali ad altre.

In Germania, dopo la politica inflazionistica (che si chiuse nel 1924 e che fu fatta deliberatamente dal Paese vinto per riversare i pesi della guerra sulle masse lavoratrici e della piccola borghesia, e per sottrarsi agli impegni internazionali), abbiamo, nel tempo della crisi del 1929-1934, una diversa politica monetaria. Essa corrisponde alla diversa situazione di paese debitore – che si avvantaggia del non pagamento dei debiti (moratoria e trasformatoria) e di Paese in cui la punta reazionaria del capitalismo può, prendendo il potere con il nazismo, raggiungere gli scopi ottenuti altrove mediante le svalutazioni formali, con metodi diretti, controllando i prezzi nei vari settori, agendo all’interno attraverso la politica autarchica, i piani capitalistici, mentre nei riguardi dei competitori stranieri può ricorrere all’aggressione diretta o indiretta, di cui sono esempio i contratti di clearings jugulatori verso paesi agrari fascisti dell’Europa sud-orientale.

Ad una politica simile tenta di avvicinarsi l’Italia, che però, per la minore forza economica, non può compierla conseguentemente, come fa la Germania, e nel 1936 mescola i due sistemi: la svalutazione, l’attacco diretto ai salari e la conquista diretta dei mercati.

La Francia, che possiede una composizione sociale più equilibrata, e mercati relativamente sufficienti per la sua industria, segue una via diversa nella prima stabilizzazione. Questa viene attuata sotto la guida di quell’intelligente reazionario che era il Poincaré, tenendo conto degli interessi dei produttori industriali ad un livello che sconta il «coefficiente di inflazione», cioè il normale aumento dei prezzi durante il processo produttivo in una fase inflazionistica. Ciò provoca una forte svalutazione dei debiti, ma nello stesso tempo stabilizza una situazione di fatto che altrimenti, peggiorando, sarebbe andata a danno ulteriore dei risparmiatori.

Quando con la grande crisi e l’acutizzarsi della competizione internazionale la situazione interna e internazionale muta, le forze del mur d’argent tentano la prima via: l’attacco diretto inteso a mutare i rapporti tra le categorie economiche attraverso la politica di deflazione del Gabinetto Doumergue e di Laval. Di fronte alla resistenza delle classi popolari, si apre deliberatamente la seconda fase: la svalutazione sistematica, il trasferimento di redditi e l’aggressione indiretta contro le classi popolari attraverso la politica monetaria.

Risparmio per brevità l’analisi per gli altri paesi e giungo alla conclusione: dove il capitalismo finanziario è più accentrato e, soppresse le libertà popolari, ha gettato la maschera, la moneta manovrata rimane sempre come arma, ma si attua con forme particolari, con diversi aspetti: il controllo dei prezzi, la costituzione di diverse monete nei riguardi dell’estero (marco, lira-turistica, per il cotone, per il grano, ecc., rapporti diversi nei vari clearing). In questi paesi, del resto, è più facile controllare anche direttamente il mondo economico e il mercato in particolare con altri sistemi. Si possono assicurare profitti ai monopolisti anche direttamente in danno della media e piccola industria e dei lavoratori (limitazione degli impianti industriali – piani capitalistici – soppressione delle libertà sindacali – decurtazioni di salari). Nei paesi dove ciò non è completamente possibile, perché esistono altre condizioni generali rispetto all’interno del paese ed all’estero, si ricorre più chiaramente a quella che viene in certi casi chiamata col suo vero nome di «moneta manovrata»: manovrata, cioè, per raggiungere i seguenti scopi: impedire od attenuare la caduta del saggio di profitto, rialzando i prezzi di vendita e riducendo i costi; esercitare il dumping monetario, legare mercati diversi (area della sterlina).

Un fatto è certo: dopo la prima guerra mondiale non si vuol ritornare al sistema prebellico: il gold bullion standard non esiste più. Anche il gold standard e il gold exchange standard, fase intermedia, scompare di fatto quasi ovunque con la crisi del 1931; la moneta manovrata timidamente o apertamente in forme diverse, si instaura dovunque, apertamente difesa dalle teorie «reflazioniste», dalla prosperità attraverso mezzi monetari del Fisher, del Keynes, dell’Hagek.

Che significato hanno allora, dopo questa seconda guerra mondiale, gli accordi di Bretton Woods? È forse un ripudio definitivo della moneta manovrata e il ritorno al sistema aureo? Come costruzione tecnica può essere una via intermedia, ma come fatto politico-economico è la pace dopo la guerra, è la tregua consentita, è la Società delle Nazioni del 1919 (più che O.N.U.) nel campo economico con diritto di recesso, con regole vaghe, piene di tollerate eccezioni, cioè la disciplina, l’introduzione delle regole del gioco, nella lotta monetaria.

Vi è, è vero, la parità delle monete con l’oro, seguendo nel complesso la proposta nord americana (il progetto White prevedeva la Unitas di 10 dollari di fronte al Bancor di Keynes) con la possibilità di svalutare tutte le monete di fronte all’oro, quando i due maggiori Stati capitalistici, Stati Uniti e Inghilterra, che hanno più del 10 per cento dei voti, lo credono opportuno, e ciò per evitare che una caduta dei prezzi possa essere dovuta a deficienza di oro, ma sono ammesse svalutazioni, sia pure controllate di singole monete, sono ammesse sospensioni temporanee di parità monetarie, controlli per regolare le esportazioni dei capitali (fenomeno caratteristico dell’imperialismo e via maestra attraverso la quale si è introdotta la moneta manovrata); sono ammessi in certi casi limitazioni valutarie per i normali pagamenti correnti.

E poi… poi se ne parla fra qualche anno, perché su richiesta dell’Inghilterra che si trova nelle note difficili condizioni, per cinque anni, cioè fino al 1950 è possibile e qualche volta anzi consigliato, mantenere le restrizioni dei cambi. Così, tra le pieghe dei vari articoli, si insinua la moneta manovrata.

Del resto è opportuno che sia così, che gli accordi di Bretton Woods tengano conto della realtà odierna, delle necessità del sistema capitalistico di produzione giunto a questo stadio, tenga conto della esperienza tra le due guerre.

Riuscirà questa tregua economica stabilita dagli accordi di Bretton Woods a mantenere una certa stabilità nei rapporti monetari internazionali, a regolare la lotta monetaria o gli interessi particolaristici dei singoli Stati si imporranno a tutte le norme? A questa domanda risponderà l’avvenire. È opportuno porla per metterci in guardia dall’illusione che si vada decisamente e sicuramente verso un’era di spontanea cooperazione internazionale e di sistema aureo, che non ammetta ritorni al recente passato.

In modo particolare il futuro del sistema internazionale creato a Bretton Woods dipende dai rapporti tra i due maggiori Stati capitalistici, Stati Uniti e Inghilterra. Essi hanno una posizione preminente nel Fondo. Gli Stati Uniti da soli hanno il 31 per cento dei voti. L’Inghilterra da sola il 15,1 per cento, e il 25 per cento se si computano i voti assegnati agli altri Paesi dell’impero Britannico, esclusa l’Australia e la Nuova Zelanda, che non hanno ancora ratificato gli accordi. Ora i contrasti di interessi tra i due Paesi sono notevoli ed è per questo che gli accordi di Bretton Woods derivano da un compromesso tra il piano Keynes ed il piano White. È per questo anche che su richiesta dell’Inghilterra, per i primi cinque anni è possibile mantenere le limitazioni agli scambi e al commercio monetario che si ritengono necessari per raggiungere un assestamento definitivo.

Infine è da tener conto del gruppo di quei paesi che sono già fuori degli accordi; gruppo che può arricchirsi nel futuro per eventuali recessioni. Oggi questo gruppo non è omogeneo. V’è l’Unione Sovietica, paese importante e socialista, la Svizzera, paese a moneta forte, la Spagna a moneta debole. Domani questo gruppo può essere diverso e più omogeneo.

Onorevoli colleghi, quanto abbiamo detto se serve a dare una coscienza realistica della importanza e del significato dagli accordi di Bretton Woods, riguarda scarsamente il punto fondamentale che noi oggi siamo chiamati ad esaminare: gli eventuali vantaggi o svantaggi, cioè, che la nostra adesione procura al nostro Paese. Occorre di esaminare la convenienza della nostra partecipazione agli Accordi, anche non avendo praticamente possibilità di scelta.

Gli svantaggi sono determinati dagli obblighi che ci sono imposti. Gli onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, e quanto io stesso ho detto nella parte generale, hanno constatato che l’unico obbligo consiste nel versamento della nostra quota, la quale espressa in oro è per il Fondo di 45 mila dollari e per la Banca di 36 milioni. All’atto del deposito dello strumento dobbiamo pagare 1’1 per cento della nostra quota, cioè 1,8 milioni di dollari. Per quanto riguarda gli altri problemi, possiamo mantenere la regolamentazione dei cambi, dato che siamo Paese già occupato dal nemico; non è necessario che fissiamo subito una parità della nostra moneta e in particolare una parità con carattere abbastanza definitivo.

A questo riguardo, alcuni onorevoli colleghi hanno colto l’occasione per accennare alla politica monetaria e finanziaria del Governo e al problema di una eventuale stabilizzazione. Io credo che non sia questo il momento opportuno di discuterne, per quanto siano state molto giuste in proposito le osservazioni che ha fatto or ora l’onorevole Foa sugli obblighi che assumiamo di preparare la stabilizzazione. Certo il Governo non potrà compiere un atto così importante senza il parere di quest’Assemblea e in quell’occasione sarà da esaminare a fondo l’importante problema. A mio parere, comunque, non esistono oggi le condizioni per una seria stabilizzazione.

Obblighi, quindi, veri e propri immediati non ci sono, tranne quelli derivanti dalla partecipazione ad accordi che limitano la sovranità di tutti i partecipanti. Certo la nostra posizione in seno al sistema non corrisponde alla nostra importanza economica.

Per quanto Stati Uniti e Inghilterra da soli abbiano il dominio dei due Istituti, sicché anche un sindacato degli altri partecipanti non prevarrebbe, la posizione relativa dei membri ha sempre importanza, in particolare se si tiene conto anche dei Paesi fuori dell’accordo. All’epoca della formazione degli accordi fra le due tesi, quella sostenuta dal Keynes perché corrispondente agli interessi inglesi (che, per determinare il peso dei Paesi nella nuova organizzazione internazionale, intendeva basarsi sul volume degli scambi internazionali) e quella americana (White) che si basava principalmente sul volume delle riserve del reddito nazionale e delle fluttuazioni del commercio estero, è prevalsa nel complesso la tesi americana. La nostra quota di 180 è comunque inferiore al nostro peso economico (se pur inferiore alle nostre riserve!) e dovrebbe essere di almeno 300.

Quali sono i vantaggi che ci procura la nostra partecipazione?

Evidentemente il progressivo inserimento della nostra economia nell’economia mondiale è già un vantaggio, benché non sia misurabile e ciò ci imponga un serio esame di tutta la nostra organizzazione economica e possa anche porci di fronte a dure conseguenze.

Più concreti sono invece i vantaggi che gli accordi stabiliscono per gli aderenti. Il Fondo agisce come un serbatoio di divise per far fronte a temporanei sbilanci monetari.

È possibile acquistare divise pregiate (come dollari) contro moneta nazionale per una somma pari alla quota da versare: cioè, nel nostro caso, 45 milioni di dollari. Ciò in un anno e per 4 anni di seguito fino a raggiungere il 200 per cento della quota riservata al nostro Paese, cioè 180 milioni.

Se si confronta questa cifra col deficit della nostra bilancia di pagamento che si aggira, secondo i calcoli più recenti, fra i 6 e 700 milioni di dollari all’anno, si comprende l’esiguità del vantaggio.

La Banca internazionale può fare 1600 milioni di dollari di prestito diretti ed 8 miliardi di garanzie. Ma non c’è solo l’Italia a chiedere. Purtroppo ora il nostro Paese non è quello che offre le maggiori garanzie di buon investimento.

Onorevoli colleghi, l’impostazione realistica, salvo le divergenze di interpretazione che è stata data a questa discussione nei vari settori di questa Assemblea, è di buon auspicio.

Il popolo italiano, affronta la sua strada per la ricostruzione ed il progresso economico e sociale senza false illusioni, esaminando e prendendo coscienza della realtà.

Con queste premesse anche noi, gruppo comunista, riteniamo opportuno per il nostro Paese aderire agli accordi di Bretton Woods. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Marinaro. Ne ha facoltà.

MARINARO. Dopo quanto è stato detto dagli onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, mi limiterò a fare alcune brevi considerazioni, che, se non si trattasse di una legge tecnica, costituirebbero una semplice dichiarazione di voto.

Il disegno di legge in esame adombra due preoccupazioni: la prima concerne l’esiguità della quota assegnata all’Italia – 180 milioni di dollari – tanto più esigua se si pensi che uno dei mezzi principali per riequilibrare la nostra economia, cioè per adeguare quello di cui disponiamo con quello di cui abbiamo bisogno, è lo sviluppo del commercio con l’estero.

L’Italia è un superbo cantiere di lavoro, in potenza, avente una forza che gli altri Paesi ci possono invidiare. In realtà, uno dei problemi più urgenti che si impongono in Paesi come l’Inghilterra, la Svizzera e la Francia, è la scarsità di mano d’opera che, invece, in Italia abbonda. E se la nostra mano d’opera, con l’afflusso di capitali stranieri, potesse essere adibita a produrre non solo i beni indispensabili all’interno, ma anche molti beni e servizi indispensabili ad altri Paesi, il problema economico e sociale italiano potrebbe rapidamente avviarsi ad una felice soluzione.

Perciò l’approvazione al disegno di legge non può esser data se non coll’augurio che la quota di partecipazione dell’Italia venga sollecitamente riveduta, con maggiore aderenza alla realtà, della nostra situazione e dei suoi immediati sviluppi.

La seconda preoccupazione è stata ieri indicata dall’onorevole Dugoni, che ha voluto sottolineare le difficoltà di una dichiarazione di parità monetaria per quanto concerne la nostra lira.

Sono d’accordo con i relatori, onorevoli La Malfa e Lombardo, circa la necessità per l’Italia di mantenere talune restrizioni nei pagamenti e nei trasferimenti relativi ad operazioni internazionali e circa l’opportunità di tornare al più presto ad un regime di libertà dei cambi, con la consapevolezza delle nostre direttive politiche e soprattutto con i magnifici sforzi del nostro popolo, dedito al lavoro.

Tuttavia, fin da ora dovrebbe essere chiaro il proposito che al momento della dichiarazione di parità, non si cada nell’errore così funesto, verificatosi nel passato, di attribuire alla lira un contenuto aureo non rispondente a quello che tutte le condizioni del mercato sembrano determinare. Dovrà, invece, ricercarsi un contenuto aureo che permetta facile sbocco a tutte le nostre esportazioni.

Solo in questo modo, anche se i risparmiatori possano apparire sacrificati, si può mettere decisamente in moto il meccanismo riequilibratore dell’economia del Paese, vale a dire, nel nostro caso, l’intensificata corrente di scambi con l’estero. Diversamente, anche nella generosa illusione di salvare una parte del reddito e del risparmio, si finirebbe con il nuocere ad essi, bloccando le esportazioni.

Poiché una cosa è certa, e mi sembra non sia stata fin qui accennata dagli onorevoli colleghi che mi hanno preceduto, questa: che gli accordi di Bretton Woods costituiscono uno degli aspetti del problema del riequilibramento delle economie dei Paesi devastati dalla guerra, l’aspetto cioè monetario. Ma l’efficienza degli accordi stessi sarà tanto maggiore, quanto più altri organismi internazionali riusciranno a consentire il libero giuoco delle importazioni e delle esportazioni, il vero e solo meccanismo capace di riequilibrare le economie dei paesi, il vero e solo meccanismo che può permettere ai vari paesi una durevole stabilità monetaria.

Da un punto di vista tecnico gli accordi di Bretton Woods rappresentano soltanto uno sforzo di amplificazione del sistema dei fondi di stabilizzazione; ma sono anch’essi, come questi fondi, destinati a svolgere azione limitativa se non vengono integrati da altri accordi internazionali, che provvedano a consentire una maggiore intensità di traffici fra paesi ricchi e paesi poveri.

Oserei dire che la portata degli accordi in discussione, almeno per il momento, è più morale e politica, in quanto tende a stringere tutti gli Stati in un poderoso intento di collaborazione internazionale.

In questo intento l’Italia non può essere seconda ad alcun paese, purché abbia ben chiare davanti a sé le vie da battere per una reinserzione della propria economia nella vita internazionale, non solo sotto l’aspetto monetario, ma altresì sotto l’aspetto sostanziale di mettere i risultati fecondi del proprio lavoro a servizio anche degli altri paesi, con le proprie esportazioni. Con questo intento e con questa speranza noi daremo la nostra approvazione al disegno di legge in esame. (Applausi).

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale, riservando la parola al Relatore e al Governo.

Ha facoltà di parlare l’onorevole La Malfa, Relatore.

LA MALFA, Relatore. Onorevoli colleghi, desidero ringraziare, a nome delle Commissioni dei Trattati e delle Finanze e Tesoro, tutti gli onorevoli colleghi, che hanno parlato prima di me, per le dotte argomentazioni, con le quali hanno accompagnato la loro adesione agli accordi di Bretton Woods.

Devo dire che è stato di particolare interesse per me il dibattito di principio, che, dalla seduta di ieri a quella di oggi, ha avuto luogo nell’Assemblea.

Ieri, attraverso il discorso dell’onorevole Corbino e soprattutto attraverso la commossa rievocazione dell’età dell’oro dell’insigne collega e maestro, onorevole Einaudi, abbiamo sentito l’esaltazione del liberismo. Con i discorsi degli onorevoli Treves e Dugoni, col discorso odierno, notevole, del collega ed amico Foa, col discorso infine dell’onorevole Pesenti, noi abbiamo visto svilupparsi, nei vari gradi di pensiero, le posizioni opposte, fino, dico, al discorso dell’onorevole Pesenti, che ha significato una manifestazione della più pura ortodossia marxista sul terreno monetario.

Non vorrei entrare molto nei presupposti ideologici di questo dibattito, e mi tengo piuttosto alla esposizione obiettiva che, nonostante le sue simpatie liberiste, ha fatto il collega Corbino. Il quale, secondo me, col suo brillante discorso, ha dato all’Assemblea una precisa, sebbene rapida idea, del cosiddetto dramma monetario (sotto la vita monetaria c’è la vita economica e sociale del mondo) che turba l’umanità dall’età dell’oro dell’onorevole e amico Einaudi all’età molto disgraziata di questo dopo guerra.

Dal discorso dell’onorevole Corbino abbiamo visto anzitutto prendere rilievo la cosiddetta età dell’oro, l’epoca della maggiore delicatezza e sensibilità dello strumento monetario, dello strumento economico.

Abbiamo visto, attraverso la sua arte oratoria notevole, delinearsi il mercato prima del 1914, quale esso era nei suoi valori, di benessere, di ricchezza, di pace per l’umanità.

L’onorevole Einaudi, che ha esaltato da par suo quest’epoca, ha detto che gli uomini hanno voluto guardare dentro questo sistema di orologeria, come i fanciulli che si dilettano a guardar dentro il congegno, e l’hanno sfasciato. No, mi permetta l’onorevole collega, questo strumento non è stato sfasciato da uomini che si sono dilettati a guardarvi dentro, da bambini desiderosi di avventure, ma da due grandi catastrofi mondiali, che, esse stesse, appartengono alla storia del mondo, alla seria e drammatica storia del mondo.

L’onorevole Corbino ha poi trattato della seconda fase, che va dal primo al secondo dopoguerra, e ci ha parlato della svalutazione della sterlina (di quella sterlina che ha tentato di riprendere la posizione di moneta del mondo che aveva prima della guerra), della svalutazione del dollaro e della serie di gravi problemi monetari connessi.

Su questo secondo tratto io non avrei nulla da aggiungere. Chi, come me, ha vissuto come studioso questo tormento dei cambi multipli dei vari tipi di marco, dei vari tipi di lira, della lira turistica, della lira cotone, della lira lana e così via, si è trovato di fronte ad un congegno spaventoso e diabolico, dal quale ha sempre sperato di poter uscire un giorno o l’altro.

La sola cosa che vorrei. osservare all’onorevole Corbino su questo argomento è che egli ha attribuito al riguardo una responsabilità troppo forte alla Francia.

CORBINO. È stata la prima a cominciare.

LA MALFA, Relatore. La Francia ha molte e gravi responsabilità nel mondo, ma non questa. Se non ricordo male, i sistemi di clearing, di cambi multipli, ecc., sono nati prima nei paesi danubiani e balcanici e sudamericani, e poi altrove. Ma questo non ha importanza, e può interessare solo i tecnici.

Veniamo piuttosto alla terza fase. Attraverso il discorso dell’onorevole Corbino abbiamo rivissuto, sia pure fugacemente, prima l’età dell’oro, poi il ritorno all’età della pietra, e infine, dopo la seconda catastrofe mondiale, questo tentativo di uscire dalle difficoltà, di riprendere una strada, che è Bretton Woods.

Dicevo, non voglio entrare nella disputa ideologica tra liberismo e marxismo, ma questa terza fase che si apre con Bretton Woods che valore ha? Questo è, in fondo, il problema che sta dinanzi a noi.

Bretton Woods, come risultato di molti studi, come risultato di molte proposte, di molti piani, del contributo di molti uomini d’ingegno, rappresenta un punto di partenza. Che valore ha questo punto di partenza? Certamente non dobbiamo dimenticare che, a scopo ultimo, a punto finale di questi accordi, c’è l’ambizione di restituire all’umanità la libertà – la libertà di commercio, la libertà di movimento, la libertà di trasferimento di capitali e di uomini – e, con queste libertà, che sono il fondamento stesso della stabilità e dell’ordine monetari del mondo, restaurare tale stabilità e tale ordine.

Questo è Bretton Woods; Bretton Woods è questa mèta, è la mèta di una libertà per il mondo, della libertà economica che ne coinvolge molte altre: quella cioè che i lavoratori vadano dove c’è il lavoro, quella che i capitali vadano dove c’è la possibilità di investimento produttivo, quella che tutto si muova come si muoveva nell’età dell’oro.

Ma se questa è la mèta ultima, a mio giudizio Bretton Woods rappresenta un’altra cosa. Che cosa rappresenta? Ecco il punto in cui ci possiamo avvicinare e insieme distaccarci dagli onorevoli Einaudi e Corbino. Che cosa rappresenta, dunque? Questo: che l’esperienza ha detto ai popoli, ai Paesi, ai governanti, che bisogna sapere dove si va. Non è vero che la spontaneità possa regolare ancora le faccende di questo mondo, perché, se questa spontaneità è venuta meno per un fatto della storia e non già perché gli uomini vi abbiano voluto guardar dentro, ciò vuol dire che anche questa spontaneità rappresenta un’epoca finita, un’esperienza superata.

Mi ricordo che, nel discorso da me pronunciato, in occasione della cosiddetta crisi Cordino – torniamo sempre a queste posizioni – io dicevo: badate che la disputa che noi facciamo tra libertà e intervento è, a mio giudizio, una disputa astratta. Il fatto nuovo è questo per i governanti: il dovere di conoscere le vie attraverso le quali, e in regime di libertà economica e in regime di intervento, si realizzino determinati fini per la società.

Bretton Woods vuol dire, dunque, che noi dobbiamo conoscere innanzi tutto come i popoli si muovono per ricostruire la loro economia, quali sono le condizioni reali in cui essi vivono, che cosa bisogna fare per orientarli ad uscire dalla miseria e dalle ristrettezze economiche di questo dopoguerra.

Solo attraverso questa conoscenza noi possiamo avviare l’umanità ad un sistema di vita che io chiamerei razionale. Siamo al di qua della discussione sulla libertà o sull’intervento in materia di economia; siamo al punto che oggi qualsiasi governo, qualsiasi Stato, qualsiasi popolo e qualsiasi collettività devono conoscere la sostanza dei problemi e il significalo che i problemi stessi hanno per la vita collettiva. Senza questa conoscenza, i popoli vanno verso la libertà o verso i monopoli e gli interventi nel buio, e vanno quindi verso il disastro.

Vorrei proprio fissare questo punto; e lo fisserei anche fino a dire all’onorevole Einaudi che non si tratta nel sistema di Bretton Woods di limitare le sovranità. No! Quando questo congegno, che è il Fondo monetario e la Banca internazionale si occupano dei problemi dei Paesi aderenti, si occuperanno anche dei problemi dei Paesi non aderenti, state sicuri. E se si autolimitano come Paesi, si autolimitano nel senso che ciascuno di questi Paesi che partecipa al Fondo e alla Banca deve tener conto delle condizioni in cui stanno tutti gli altri Paesi, e tutti gli altri Paesi devono tener conto delle condizioni in cui sta quel determinato Paese.

Perciò, quando i nostri rappresentanti saranno nel fondo o nella Banca, avranno la responsabilità di presentare a queste due grandi istituzioni la situazione del nostro Paese, e presentarla su un piano di reale conoscenza e di serietà; ma avranno altresì il diritto di giudicare la situazione degli altri Paesi in condizioni di perfetta parità. Se vogliamo chiamare questa una limitazione di sovranità – forse non si tratta ancora di sovranità – chiamiamola pure; ma non si tratta che di una collaborazione in cui ciascuno mette la conoscenza e la responsabilità delle cose che più direttamente conosce, ed ha diritto di vedere anche chiaramente nelle faccende altrui. E in questo senso do ragione all’amico Foa quando parla di rinunzia alla manovra monetaria nazionale. Non nel senso che non esistano problemi di manovra monetaria per ogni Paese, ma nel senso che questa non sarà mai una manovra che ciascun Paese farà in maniera anarchica e, direi, trascurando gli interessi di tutti gli altri Paesi, ma una manovra che sarà sempre inquadrata in quello che è un organismo di responsabilità internazionale.

Non entro nel giudizio di chi comanda o comanderà in questi grandi organismi. Debbo esprimere personalmente il mio rincrescimento – e credo che tutta l’Assemblea debba esprimere il suo disappunto – che in questo consesso non ci sia un grande Stato a cui la civiltà del mondo deve molto: l’Unione Sovietica.

Nella relazione noi, quasi a toglierci da una specie di cruccioò, abbiamo trovato, se volete, un sollievo, osservando che, a Bretton Woods, ci sono Paesi come la Polonia, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia, che in definitiva sono in una situazione, se volete, di maggiore responsabilità nei riguardi dell’Unione sovietica. Il che vuol dire che, almeno da un punto di vista politico, noi non facciamo nulla che alteri la nostra posizione politica e il dovere di essere obiettivi.

Tuttavia non possiamo nasconderci il fatto che nei consensi di Bretton Woods dominano le grandi potenze finanziarie. Ma anche in questa Assemblea, noi, che facciamo parte delle piccole potenze, sentiamo la presenza delle grandi potenze. Questa è la vita del mondo, ed in definitiva devo dare atto che il sistema delle grandi potenze, dà in questa Assemblea a noi sufficiente libertà di movimento per difendere la nostra posizione. Così, entrando a Bretton Woods, credo che anche lì potremo trovare una situazione di piena dignità e di piena indipendenza per noi. E d’altra parte, se dovessi esprimere un augurio, è appunto che i conflitti di cui si è parlato in questa Assemblea (e l’onorevole Corbino ne ha parlato brillantemente) i conflitti fra le due maggiori potenze finanziarie del mondo siano risolti nel seno delle due grandi istituzioni internazionali.

Non è nulla di male per noi se i problemi esistono. Esiste, per esempio, il problema del grande indebitamento in valute dell’Inghilterra e così pure il problema del rapporto fra sterlina e dollaro, esiste a tal punto che questo problema (mi permetta il Ministro del tesoro se faccio una indiscrezione a questo riguardo) pesa un po’ troppo sul nostro stremato Paese. Siamo al punto che questa povera Italia, che ha tante cose edi cui occuparsi, è costretta ad occuparsi anche del rapporto fra dollari e sterline. È bene che questo problema sia affrontato, se sarà affrontato, a Bretton Woods, poiché ciò rappresenta una garanzia per noi. E, magari, il Fondo monetario ci desse una indicazione, in un problema che è delicato per la nostra politica e si presenta superiore alle nostre forze. Avremo tutto da guadagnarci.

D’altra parte in uno dei progetti, in quello Keynes, mi pare, c’era una disposizione che riguardava la liquidazione dell’indebitamento di guerra, che è spaventoso ed enorme; nel progetto Keynes, cioè, si cercava, attraverso una ratizzazione, facendo assorbire l’indebitamento del Fondo monetario, di non fare pesare sulle sorti monetarie del mondo una questione, la cui liquidazione sarà uno dei più gravi grattacapi della vita monetaria internazionale di questo dopoguerra.

Quindi, anche su questo punto, non vi debbono essere preoccupazioni. Assisteremo al grande conflitto tra i colossi in quella sede, ed è bene, del resto, che i grandi conflitti si affrontino in una conferenza a quattro o a cinque. Peggio sarebbe se invece di tenere conferenze, si preparassero le armi.

Passando ad altro aspetto della questione, quei colleghi che hanno osservato che i mezzi del Fondo monetario e della Banca internazionale sono relativamente modesti, hanno ragione. Effettivamente, i mezzi di cui il Fondo e la Banca si possono servire per questa grande opera non sono molto vistosi, molto ingenti, sono piuttosto limitati. Tuttavia io credo che dobbiamo avere più fiducia in un punto di partenza limitato e tecnicamente ben definito, che non in una imponente creazione, esistente solo in astratto. Si tratterà di vedere se, nel corso del funzionamento, si troverà modo di adeguare i mezzi all’ordine dei problemi e delle necessità che si pongono.         

Adesione dell’Italia. Qui è sorto un problema fondamentale, e cioè: il momento scelto per l’adesione è un momento felice, o no? Questo naturalmente si riduce, in concreto, a stabilire se noi siamo in grado di fissare una parità. Siccome l’adesione al Fondo ci pone questo problema specifico, siamo oggi nelle condizioni economiche e finanziarie, monetarie, di rapporti di prezzi e costi, tali che possiamo fissare la nostra parità, oppure no?

Vorrei premettere ai colleghi che dei Paesi che aderiscono al Fondo – e sono 39 (43 tenendo conto dell’Italia e dei nuovissimi) – alla data del 18 dicembre 1946, in cui fu fatta la prima tabella delle parità, avevano denunziato la parità solo 32 Paesi. Cioè 7 Paesi, pur aderendo al Fondo, si sono riservati, in base alle norme del Fondo stesso, la facoltà di fissare la parità un po’ più tardi. Questo vuol dire che anche noi potremo prendere, su questo grave problema, il tempo necessario.

Ma il problema vero della parità quale è? È quello cui si riferiva particolarmente l’amico Foa: nel momento in cui sceglieremo la parità, dobbiamo avere una precisa idea della nostra reale situazione economica e finanziaria e stabilire se la situazione economica e finanziaria sostenga la parità scelta.

Occorre naturalmente risolvere alcune questioni pregiudiziali, prima che la parità sia fissata la questione del bilancio dello Stato, quella dei cambi e delle valute. Noi abbiamo un sistema di cambi multipli; dobbiamo stabilire se mantenere questo sistema o passare al sistema del cambio unico.

Le Commissioni dei Trattati e delle Finanza e Tesoro hanno discusso ampiamente questi aspetti, in presenza e con la partecipazione dello stesso Ministro del tesoro. Esse hanno concluso tuttavia che la fissazione della parità, e quindi la determinazione di una nostra politica prima della fissazione della parità stessa, non potesse essere una pregiudiziale all’adesione agli accordi di Bretton Woods. Le Commissioni hanno ritenuto che questo fosse un problema di politica economica interna, che dovesse essere discusso in opportuna sede, e, d’accordo col Ministro, hanno nominato un Comitato che su questo punto prenderà precisi accordi col Governo.

L’Assemblea Costituente può essere pertanto sicura che il Governo non assumerà impegni su questo terreno se non dopo avere consultato il Comitato, e quindi le Commissioni delle quali il Comitato è emanazione.

La scarsità del tempo e l’urgenza della votazione non mi consentono di dilungarmi più oltre. Tuttavia, è necessario che io dica che, a partire dal momento in cui aderiamo a Bretton Woods, la nostra politica economica e finanziaria deve avere una direzione e uno scopo. Muovo un appunto al Governo di non avere determinato da tempo questa direzione e di non avere costretto la situazione economica e finanziaria italiana entro i necessari binari. Ma anche di questo avremo occasione di discutere.

Mi pare, con quel poco che ho detto, di aver chiarito molti dei dubbi che potevano essere negli onorevoli colleghi. Da un punto di vista ancora più strettamente tecnico, vorrei dire all’amico Dugoni che non vedo nessun pericolo nel fatto che la Banca d’Italia si dovrà impegnare a versare un forte ammontare di moneta nazionale al Fondo. Anzitutto si tratta di un’apertura di conto e poi la stessa Banca d’Italia potrà fare questa apertura nella forma più conveniente. Potrà accreditare, ad esempio, buoni infruttiferi.

Concludo, onorevoli colleghi, dicendo che senza farsi nessuna illusione, la ricostruzione economica e finanziaria del nostro Paese dipende in grandissima misura dal nostro lavoro e dal nostro senso di responsabilità; tuttavia l’Italia darà prova di grande maturità politica e di grande senso di responsabilità aderendo pienamente agli accordi di Bretton Woods. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro delle finanze e del tesoro.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. La relazione delle Commissioni e la partecipazione alla discussione di colleghi insigni per prestigio e competenza esonerano il Governo dall’aggiungere altre dichiarazioni a quanto è già stato esposto nella relazione che illustra il disegno di legge e più ancora a quanto è stato messo in luce nell’ampio dibattito che su è svolto in questa Assemblea.

Con l’adesione agli accordi di Bretton Woods l’Italia assume l’obbligo di adeguare la sua politica economico-finanziaria alla linea direttiva degli istituti che da quegli accordi sono contemplati. E poiché l’adesione ha avuto come premessa un atto di formale ammissione, occorre sottolineare – pur senza sopravalutarlo – il significato di questo atto che è il primo riconoscimento – come ha osservato l’onorevole Corbino – del contributo che l’Italia può portare – su un piano di assoluta parità – alla riorganizzazione economica mondiale.

L’epoca del mito aureo – ha detto l’onorevole Einaudi – si è chiusa con la guerra del 1914. L’esperienza successiva poggiata sulle monete manovrate, sulle cinture doganali, sulle esasperazioni autarchiche, ha sconvolto l’economia mondiale, approfondendo tra Paese e Paese i fossati che dovevano invece essere colmati.

La guerra ha posto in tragica evidenza come sia vano per ogni Paese alzare delle cinture di sicurezza per difendere il proprio benessere o la propria prosperità in mezzo ad un mondo immiserito ed agitato.

L’interdipendenza delle economie è una realtà che si impone, così come la collaborazione fra i popoli è una esigenza insopprimibile.

Bretton Woods ha creato due istituti che questa collaborazione vogliono rendere operativa.

Si è parlato di una inadeguatezza dei mezzi di cui il Fondo monetario e la Banca della Ricostruzione dispongono in rapporto ai fini che vogliono raggiungere. È esatto. Ma è stato anche osservato che il poco è meglio del niente e che ogni sforzo va compiuto perché questo tentativo di una cooperazione sul piano monetario ed economico si affermi e riesca.

Illusioni non ce ne facciamo, né intendiamo diffonderne né, tanto meno, vediamo negli istituti di Bretton Woods delle provvidenze che ci sollevano dai nostri compiti e dalle nostre responsabilità.

La prima delle nostre responsabilità sarà quella di denunciare una quota di cambio e di fare ogni sforzo per mantenerla. È ovvio però che la denuncia di una quota di cambio non è un atto formale e che la sua stabilità non è legata alla forza di un decreto-legge.

Dobbiamo essere persuasi che nessuna parità monetaria potrà essere mantenuta senza una politica economica che indirizzi produttivamente le nostre risorse, senza un bilancio assestato, senza una produzione che regga, per costi economici, alla concorrenza internazionale, senza una bilancia dei pagamenti che tenda all’equilibrio, e senza quelle condizioni ambientali che consentano ad altri Paesi di offrirci quel concorso che è anche nel loro interesse non lesinare, ma che è nostro obbligo meritare.

E questo è un impegno che vale per il Governo come per il Paese.

La collaborazione internazionale – che noi auguriamo vasta, senza esclusioni e senza contrapposizioni di aree monetarie, di blocchi o zone di influenza – è essenziale per la ripresa economica e per la pace del mondo. Ma premessa di questa collaborazione è l’intesa, la solidarietà, nell’ambito nazionale, di tutte le classi e di tutte le categorie.

Ciascuno deve dare il concorso del proprio sforzo e del proprio sacrificio. Prossimi provvedimenti daranno la misura dello sforzo e del sacrificio che, specie le classi più abbienti, sono chiamate a compiere perché l’Italia possa negli Istituti e nei Consessi internazionali parlare con l’autorevolezza di chi sa di aver compiuto, fino al limite delle sue possibilità, tutto intero il proprio dovere. (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Si passa alla discussione degli articoli.

Do lettura dei primi due articoli per i quali, oltre che per il titolo, sono stati proposti emendamenti:

Art. 1.

Il Governo della Repubblica italiana è autorizzato ad accettare integralmente i termini e le condizioni stabilite dai Consigli dei Governatori del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo per l’ammissione dell’Italia nei due predetti Istituti. (Allegati 1 e 2).

Art. 2.

Gli accordi sulla costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca per la ricostruzione e lo sviluppo, firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944 dai rappresentanti delle Nazioni Unite, sono accettati ed il Governo della Repubblica italiana è autorizzato a firmare la copia originale degli Accordi, tenuta negli archivi del Governo degli Stati Uniti d’America. (Allegati 3 e 4).

L’onorevole Perassi unitamente agli onorevoli Camangi, Cianca, Azzi, Della Seta, Conti, Einaudi, Foa, Cevolotto, Carboni, Lami Starnuti, Treves, ha presentato i seguenti emendamenti:

All’attuale titolo del disegno di legge sostituire il seguente:

«Partecipazione dell’Italia agli Accordi sulla costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo».

Sostituire l’articolo 1 con il seguente:

«Il Governo della Repubblica è autorizzato ad accettare di divenire membro del Fondo monetano internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo alle modalità e condizioni stabilite nelle annesse deliberazioni del Consiglio dei Governatori dei due predetti Istituti. (Allegati 1 e 2).

Sostituire l’articolo 2 con il seguente:

«Gli Accordi sulla costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo sono approvati». (Allegati 3 e 4).

L’onorevole Perassi ha facoltà di svolgerli.

PERASSI. Onorevoli colleghi, la discussione generale è stata così ampia che ha messo in luce tutti gli aspetti tecnici, economici e storici degli accordi che ci sono stati presentati. Mi limito soltanto a dire che il gruppo parlamentare repubblicano aderisce alle conclusioni a cui è arrivata l’Assemblea attraverso le dichiarazioni dei suoi diversi oratori. L’adesione ai due accordi costituisce una notevole riaffermazione dell’Italia nel campo della cooperazione internazionale.

Chiusa la discussione generale, si passa ora all’esame del disegno di legge, cioè dell’atto interno che si rende necessario ai fini dell’adesione dell’Italia ai due accordi internazionali. Ora, la formulazione del disegno di legge, mi sembra che esiga qualche ritocco, che è concretato negli emendamenti, che ho presentato con altri colleghi.

Un primo emendamento riguarda il titolo del disegno di legge, ed è motivato dal rilievo che l’espressione «accordi firmati, a Bretton Woods il 24 luglio 1944» non è esatta. I cosiddetti accordi di Bretton Woods sono stati bensì elaborati nel corso di una Conferenza temutasi in quella città americana, ma gli atti formali concernenti la costituzione del Fondo monetario e della Banca internazionale risultano fatti a Washington, come si legge nei testi allegati al disegno di legge.

Gli altri emendamenti sono intesi a dare una formulazione tecnicamente più appropriata agli articoli 1 e 2 del disegno di legge, avuto riguardo ai fini di questo atto legislativo, che ha il duplice scopo, quello di autorizzare il Governo a procedere agli atti necessari per perfezionare l’adesione ai due accordi internazionali e quello di adattare il diritto interno italiano alle esigenze derivanti dagli obblighi internazionali risultanti dai due accordi.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo se accetta gli emendamenti.

CAMPILLI, Ministro delle finanze e del tesoro. Il Governo li accetta, come pure accetta il testo proposto dalla Commissione per gli articoli 3 e 4.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

BONOMI IVANOE, Presidente della Commissione per i trattati internazionali. La Commissione accetta gli emendamenti.

PRESIDENTE. Pongo ai voti gli emendamenti accettati dal Governo e dalla Commissione.

(Sono approvati così modificati, il titolo del disegno di legge e gli articoli 1 e 2).

Pongo ai voti l’articolo 3 nel testo proposto dalla Commissione, accettato dal Governo:

«Il Ministro per le finanze e il tesoro, di concerto con il Ministro per il commercio con l’estero, è incaricato della esecuzione della presente legge e dei rapporti da mantenere con le Amministrazioni del Fondo e della Banca e può delegare alla Banca d’Italia i compiti inerenti all’intervento dell’Italia nell’Amministrazione dei due predetti Istituti».

(È approvato).

Pongo ai voti l’articolo 4, nel testo proposto dalla Commissione, accettato dal Governo.

«Il Ministro per le finanze e il tesoro è altresì autorizzato ad adottare i provvedimenti di carattere finanziario richiesti dalla applicazione degli Accordi, e ad apportare le variazioni di bilancio all’uopo necessarie».

(È approvato).

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro aperta la votazione segreta sul disegno di legge ora approvato.

(Segue la votazione).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Alberti – Aldisio – Amadei – Ambrosini – Andreotti – Angelucci – Arata – Arcaini – Assennato – Avanzini – Ayroldi.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Bargagna – Bassano – Basso – Bastianetto – Bazoli – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Bennani – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bettiol – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bocconi – Bolognesi – Bonino – Bonomi Ivanoe – Bordon – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Bubbio – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Camangi – Candela – Canevari – Caporali – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Carbonari – Carboni – Caroleo – Carratelli – Cartia – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cevolotto – Chatrian – Chiaramello – Chieffi – Chiostergi – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cingolani Mario – Clerici – Codacci Pisanelli – Codignola – Conci Elisabetta – Condorelli – Coppa Ezio – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Corsini – Costa – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Filpo – De Gasperi – Del Curto – De Maria – De Martino – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – Di Fausto – Di Gloria – Dominedò – Dozza – Dugoni.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fanfani – Fantoni – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Fioritto – Firrao – Foa – Fornara – Froggio – Fuschini.

Galioto – Gasparotto – Gatta – Ghidini – Giacchero – Giacometti – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Rocco.

Iotti Leonilde.

Jacini,

Labriola – Laconi – La Gravinese Nicola – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Lazzati – Leone Francesco – Li Causi – Lizier – Longhena – Lozza – Lussu.

Maffi – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Mannironi – Manzini – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Martino Gaetano – Marzarotto – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Matteotti Matteo – Mazza – Meda Luigi – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Molinelli – Montemartini – Monticelli – Montini – Morini – Moro – Mortati – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Natoli Lamantea – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Oro – Noce Teresa – Numeroso.

Orlando Vittorio Emanuele.

Pallastrelli – Paris – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Penna Ottavia – Pera – Perassi – Perlingieri – Pertini Sandro – Piemonte – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preti – Priolo – Puoti.

Quintieri Adolfo.

Ravagnan – Reale Vito – Ricci Giuseppe. – Rodi – Rodinò Mario – Romita – Roselli – Rossi Maria Maddalena – Rubilli – Ruggiero Carlo – Ruini – Russo Perez.

Saccenti – Salvatore – Sampietro – Saragat – Sardiello – Sartor – Scalfaro – Schiratti – Scoca – Secchia – Segala – Segni – Selvaggi – Siles – Silipo – Simonini – Stella – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Tega – Tessitori – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Tonello – Tosato – Tosi – Treves – Trimarchi – Tupini – Turco.

Uberti.

Valiani – Vallone – Valmarana – Vanoni – Venditti – Vernocchi – Veroni – Vicentini – Vigna.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta, e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico il risultato della votazione segreta:

Presenti e votanti  289

Maggioranza        145

Voti favorevoli     286

Voti contrari            3

(L’Assemblea approva).

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate alla Presidenza, con richiesta d’urgenza, le seguenti interrogazioni:

«Ai Ministri dell’agricoltura e delle foreste e all’Alto Commissario per l’alimentazione, per sapere che cosa intendano fare per mantenere la promessa di sbloccare l’olio d’oliva in quelle provincie che hanno versato il contingente prefissato e concordato.

«L’interrogante, mentre si rende conto delle difficoltà tecniche e di controllo conseguenti ad uno sblocco parziale per zone, ritiene che gravi conseguenze di ulteriore sfiducia si determinerebbero tra gli agricoltori che sono colpevoli di aver fatto il proprio dovere e di aver creduto nella parola del Governo e nella solidarietà di altri agricoltori (che è mancata).

«Non è giusto che paghino coloro che dovrebbero essere premiati; è giusto invece che si trovi il modo di colpire quelli che mancano.

«Sullo».

«Ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e delle finanze e tesoro:

1°) sulla urgenza dei provvedimenti legislativi da emanare relativamente alla cooperazione;

2°) sui provvedimenti da adottarsi, nel frattempo, perché sia sospesa ogni decisione sulla imposta generale sull’entrata relativa alla distribuzione dei generi di largo consumo popolare fatta dalle cooperative di consumo senza scopi speculativi ed al fine di operare un’azione calmieratrice nell’interesse generale.

«Canevari, Di Gloria, Zanardi».

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo si riserva di fissare in una prossima seduta quando intende rispondere.

Richiesta di svolgimento di interpellanza.

GORTANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GORTANI. Domando al Governo quando intende fissare lo svolgimento di una interpellanza da me presentata, unitamente al collega Mannironi e altri, il 20 febbraio scorso, circa maggiori assegnazioni al Ministero dell’agricoltura delle somme stanziate per i coltivatori disoccupati.

PRESIDENTE. L’onorevole Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Il Governo si riserva di fissare in una delle prossime sedute la data di svolgimento di questa interpellanza.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei lavori pubblici, del lavoro e previdenza sociale, del commercio con l’estero e degli affari esteri, per sapere se la situazione della produzione delle materie prime, ai fini della ricostruzione, consente in Italia il pieno impiego della mano d’opera e dei relativi mezzi meccanici esistenti, e se, in caso negativo, non sia opportuno, per il periodo prevedibile di carenza, agevolare l’espatrio di complessi di lavoro verso mercati esteri, quando si tratti di iniziative che offrano sicure garanzie morali, tecniche e finanziarie nel confronto dei paesi di destinazione e nei confronti delle superiori esigenze della Nazione.

«Di Fausto».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per controllare efficacemente la produzione nazionale dei fertilizzanti azotati, che con essenziale danno degli agricoltori e dell’agricoltura, sono in massima parte destinati ad alimentare una delle più losche attività della borsa nera.

«Pastore Raffaele, Allegato».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere quali sono state le ragioni che lo hanno indotto a fissare il prezzo pieno dell’olio, per la campagna 1946-47, escludendo i fittavoli dal beneficio del sussidio di coltivazione per gli affitti pagati in natura, come fu praticato nella decorsa campagna olearia 1945-46, con decreto ministeriale del 19 ottobre 1945.

«Se non ritiene opportuno e giusto ripristinare a favore dei fittavoli detto sussidio di coltivazione, a compenso delle maggiori spese di coltivazione, anche in vista di agitazioni in atto.

«Pastore Raffaele».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quando intenda promuovere il ripristino nelle sue funzioni del presidente della Corte di appello di Brescia, rimosso con improvvida determinazione, tanto che i Ministri Togliatti e Gullo ebbero ripetutamente a proporre il ripristino suddetto, mentre s’indugia a disporlo, col danno e il disdoro evidente di un magistrato unanimemente apprezzato e stimato negli ambienti giudiziari e forensi.

«Bertini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, perché, in considerazione dell’intollerabile grave ritardo con cui vengono definite le istanze di pensione e segnatamente di quelle di guerra, non ritenga di urgente necessità provvedere ad una agile riorganizzazione dei competenti uffici di istruzione e di liquidazione, per metterli in grado di rispondere adeguatamente alle legittime esigenze dei richiedenti, verso i quali è assolutamente doverosa la sollecitudine del Governo.

«Bubbio».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della difesa, per sapere se è vero che si vorrebbe disporre il trasferimento di tutto il 10° C.A.R. da Avellino, ove trovasi attualmente a Caserta.

«Sembra che il motivo del trasferimento del Centro ad altra sede, molto probabilmente Caserta, debba ricercarsi nel fatto che si presume la zona avellinese non rispondente in pieno alle esigenze addestrative, e che i poligoni di tiro sono lontani dalla città.

«Con opportuna intesa e collaborazione tra le autorità provinciali e militari, si può trovare la zona adatta per la bisogna, e creare così qualche altro poligono di tiro rispondente alle necessità del 10° C.A.R. (esempio, frazione Valla) migliorando inoltre quello di Rivarato, di Cupa Macchia, ecc.

«Il trasferimento del C.A.R. comporterebbe nuove gravi spese per l’Erario dello Stato, perché in quasi tutte le caserme, per quanto accaduto dal settembre 1943, per eventi bellici, per rapine e saccheggi subìti, c’è tutto o quasi, da rifare. L’esempio è dato dalla Caserma generale Berardi, sede del 10° C.A.R., la quale costò nel 1939 circa 18 milioni, mentre per renderla efficiente, dall’inizio del 1946 ad oggi, per la sistemazione degli impianti igienici, idrici, elettrici, pitture, infissi, vetri, ecc., si sono spesi circa 36 milioni.

«Con la costituzione del 10° C.A.R. in Avellino, gran parte del personale – ufficiali e sottufficiali. – si sono fatti raggiungere, dopo una serie lunga e penosa di peripezie, dalla propria famiglia, e quasi la totalità di esse hanno trovato alloggio nella città; per quelli che non ancora hanno abitazione, fra breve, sarà offerta loro una degna sistemazione nella palazzina I.N.C.I.S., per cui sono stati stanziati circa 8 milioni per la messa in efficienza (attualmente i lavori sono in corso). Lo stabile potrà ospitare all’incirca 15 famiglie. Con l’allontanamento del C.A.R. da Avellino, gli ufficiali e sottufficiali, i cui stipendi sono già tanto irrisori, verrebbero a trovarsi in serie difficoltà morali ed economiche, e non tanto facilmente superabili, anche perché nella nuova sede dove essi andrebbero, prima di trovare una nuova sistemazione, dovrebbero vivere chissà quanto tempo lontano dai propri cari. Gli ufficiali e i sottufficiali ammogliati, in forza al 10° C.A.R., sono rispettivamente n. 65 e n. 130.

«Da aggiungere che i predetti, nella quasi totalità, hanno ottenuto il trasferimento al C.A.R. di Avellino per «particolari disagiate condizioni di famiglia».

«Nel C.A.R. di Avellino hanno trovato lavoro molti impiegati ed operai civili tra reduci, invalidi e combattenti; alcuni di questi vivono con numerose famiglie a carico.

«È notorio che la città di Avellino vive con il ricavato che ottiene esercitando il piccolo commercio, perché priva di fabbriche, industrie, ecc.; con l’allontanamento del 10° C.A.R., che complessivamente raggiunge una forza di 3500 uomini tra ufficiali, sottufficiali e truppa, le risorse economiche di essa verrebbero ad aggravarsi maggiormente.

«Pertanto, e per le considerazioni che l’onorevole Ministro saprà maggiormente trarre dai brevi cenni esposti, per il prestigio della città e della Provincia, si chiede che il 10° C.A.R. non venga allontanato da Avellino. Così, come la città di Salerno ha ottenuto dal Ministero della difesa – Esercito – la revoca del trasferimento del deposito 1° reggimento fanteria – assorbito come deposito 10° C.A.R. – da quella città ad Avellino. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Preziosi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non ritenga doveroso provvedere, per ragioni di giustizia, ad estendere la disposizione di legge, in base alla quale i professori ebrei universitari, allontanati dal servizio per ragioni razziali, hanno ottenuto il riconoscimento di tutti i loro diritti a decorrere dal giorno in cui essi vennero allontanati dal servizio, ai professori ebrei di scuole medie, ai quali l’articolo 13 del decreto-legge 19 ottobre 1944, n. 301, ammette soltanto di percepire gli stipendi arretrati a decorrere dal 1° gennaio 1944 (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Baldassari».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dei trasporti e delle finanze e tesoro, per sapere se non ritengano doveroso ed urgente andare incontro alla umana richiesta della laboriosa popolazione di Chioggia, città con oltre 50 mila abitanti, che vive quasi esclusivamente dell’industria della pesca e dei trasporti marittimi, la quale troppo spesso conosce momenti angosciosi per assistere impotente all’improvviso scatenarsi degli elementi, ed a piangere sovente i suoi figli travolti dal mare insieme col naviglio; mentre la tanto invocata Stazione di salvataggio, o – almeno – una motobarca di salvataggio (della quale fu autorizzata la costruzione dal Ministero delle comunicazioni nel 1939, ma la di cui esecuzione fu differita per mancanza di fondi) consentirebbero di salvare tante preziose vite umane e a ridonare tranquillità a tutta una operosa popolazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere se non ritenga opportuno emanare un provvedimento che assicuri comunque ai pensionati il mantenimento del livello di pensione in godimento, allo scopo di evitare che in conseguenza di revisione, di aggiornamento, o per altre cause dovute a materiali errori di calcolo, accada ai pensionati di vedersi diminuire l’assegno mensile già così inadeguato ai bisogni più elementari della vita; come devesi deplorare sia accaduto per i pensionati dell’assicurazione volontaria della vecchiaia, le cui pensioni, in molti casi, sono state ridotte, col gennaio 1947, da 300 a 200 lire mensili, provocando sconforto e demoralizzazione facili ad intendersi, solo se si pensi che l’assegno mensile, già prima della riduzione, era insufficiente anche per vivere un solo giorno. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ghidetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere se – in relazione a quanto è stato pubblicato da un quotidiano della Capitale, il 13 marzo 1947 – risponda a verità che, nell’Ente approvvigionamenti carboni, si è verificata una profonda crisi, con gravi conseguenze sugli acquisti di carbone destinato al nostro consumo, e, in caso affermativo, per conoscere quali siano le vere ragioni che l’hanno provocata, e quali provvedimenti e rimedi s’intenda disporre perché un settore di tanta importanza per la nostra ricostruzione economica, non sia ulteriormente turbato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Arata».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali provvedimenti preventivi e decisamente repressivi intenda adottare il Governo contro la clandestina esportazione dei nostri cereali, esportazione che nell’anno corrente ha avuto così impreviste e tremende ripercussioni sulle necessità alimentari del popolo italiano, e che minaccia una notevole ripresa dopo il prossimo raccolto, se hanno fondamento le notizie correnti circa la presenza nel Paese di agenti stranieri e particolarmente jugoslavi, i quali cercano di concludere con i nostri produttori contratti di cessione di cereali per l’esportazione clandestina. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare per intensificare e migliorare la produzione del grano, fonte prima ed imprescindibile per la ricostruzione del Paese. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tieri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e l’Alto Commissario dell’alimentazione, per sapere se risponde a verità quanto è stato affermato dal Collegio degli amministratori e dei giudici della Sepral in un comunicato comparso su II Corriere dell’lrpinia, di sabato scorso e cioè che:

la Sepral di Avellino ha gestito, da grossista, merci soggette a razionamento, dal periodo dell’occupazione alleata (e per ordine degli alleati) sino almeno al 1946, e ciò in contrasto alle funzioni normalmente assegnate alle Sepral, almeno sotto l’amministrazione italiana;

durante questa lunga pluriennale gestione ha accumulato utili di parecchi milioni, il che dimostra che nell’esercizio della sua gestione la Sepral ha seguito criteri speculatori di azienda commerciale e non criteri solidaristici di azienda cooperativistica e che pertanto ha accumulato utili sui consumatori;

ha distribuito questi utili (di parecchi milioni) tra gli impiegati, gli amministratori e i sindaci in parte, e in parte li ha accantonati a disposizione della Sepral (fondo che, a quel che si dice, dovrebbe servire per la cooperativa edilizia degli impiegati della Sepral).

«Se tutto ciò risponde a verità, l’interrogante chiede che cosa si intende fare:

per ripristinare la buona amministrazione nella Sepral di Avellino;

per incamerare il fondo tuttora disponibile, mettendolo a disposizione, eventualmente, di opere assistenziali non limitate agli impiegati della Sepral, che finora è stata adoperata come una qualsiasi società privata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Sullo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro della difesa, per sapere cosa ci sia di vero in quanto pubblica Il Corriere Tridentino del 6 corrente, riportando la notizia dal quotidiano La Rinascita, circa l’esistenza nel Cazachistan (Russia asiatica) di ben 16.000 prigionieri di guerra italiani, colà internati dalla Russia ed adibiti a lavori agricoli.

«Per sapere inoltre:

1°) per quali ragioni, se la notizia è vera, non sia possibile addivenire ad accordi con la Russia che consentano il rimpatrio di tali nostri prigionieri;

2°) se la notizia è falsa, se non sia il caso di prendere provvedimenti contro chi, con riprovevole leggerezza, specula sul dolore di tante mamme, sorelle e spose e, pur di pubblicare notizie sensazionali, non bada allo strazio che recano in tanti cuori le smentite che sistematicamente seguono a tali notizie;

3°) se sia il caso di chiedere ai giornali la preventiva autorizzazione del Governo alla pubblicazione di qualsiasi notizia del genere. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Pat, Ferrarese».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.50.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 14 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 14 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Russo Perez                                                                                                     

Bruni                                                                                                                

Marchesi                                                                                                          

Rossi Paolo                                                                                                      

Jacini                                                                                                                

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È inscritto a parlare l’onorevole Rodinò. Essendo assente, si intende che vi abbia rinunziato.

È inscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli colleghi, non ho preso la parola durante la discussione preliminare, perché era giusto che il nostro gruppo lasciasse il. compito di esprimere il nostro pensiero sull’intero progetto di Costituzione a quei colleghi che hanno partecipato ai lavori preparatori; ed anche perché i setti articoli delle disposizioni generali contengono il piano programmatico di tutta la Costituzione: natura dello Stato, rapporti tra lo Stato colla creatura, dico di proposito «creatura»; col mondo esterno, colle altre nazioni (art. 3-4); col mondo dello spirito, la Chiesa (art. 5); col mondo del lavoro (art. 6-7). Aveva ragione l’onorevole Ruini quando parlava di architettonicità della Costituzione. C’è, infatti, dell’architettura, per lo meno in questa parte del progetto. Proprio così, non sarà quella di Michelangelo, sarà quella del Palladio; ma è sempre spirito cinquecentesco e mediterraneo.

Potrò così ugualmente esprimere il mio pensiero sull’intera Costituzione, sia pure brevemente, senza che l’ottimo presidente onorevole Terracini, del quale ogni giorno di più ammiriamo la preparazione e, sovrattutto, il garbo, sia costretto a richiamarmi all’ordine.

Ed ecco il mio pensiero:

L’esame degli articoli 1, 6, 7, seconda parte, pur prescindendo dalle considerazioni fatte dall’onorevole Orlando sulla seconda parte del progetto, ci convincerebbe (il significato di questo condizionale lo spiegherò più tardi) che questo progetto di Costituzione potrebbe (altro condizionale) costituire una pedana di lancio verso il totalitarismo.

Dall’articolo 1 si desume che l’Italia vuol essere una repubblica di lavoratori. Il progetto non dice così, ma è questa la dizione proposta dall’onorevole Togliatti, e l’attenuazione della formula è stata dallo stesso Togliatti subìta, ma non abbandonata, come egli stesso ci ha detto.

Repubblica di lavoratori, come ce ne sono già tante nel mondo; e sappiamo da quale parte orientarci per scoprirne qualcuna.

Ricordo, per esempio, che un giorno il capo del Partito comunista, durante una riunione della Commissione dei trattati, disse che il regime jugoslavo è uno dei più civili e democratici del mondo.

Vi fu qualcuno che propose, invece del termine «lavoratori», il termine «cittadini»; e badate che, quando si passò alla votazione della proposta, essa ottenne la parità dei voti.

Adesso alcuni colleghi ripropongono «cittadini». Ebbene, colleghi, io respingo questo termine e accetto quello di «lavoratori», perché qui si vuole incidere nelle tavole del nuovo patto il segno di un orientamento nuovo: la rivendicazione dell’alta dignità del lavoro umano, rivendicazione che dev’essere il fondamento essenziale della Repubblica democratica italiana, conferendosi ai lavoratori il diritto di partecipazione effettiva, come dice il progetto, alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Sarebbe assurdo e antistorico, oltre che immorale, voler negare, e sarebbe puerile nascondere sotto un termine denicotinizzato questa ascesa delle masse lavoratrici, che vorrei dire magnifica, soprattutto se potessi comprendervi i ceti medi…

Una voce a sinistra. Sono lavoratori anche quelli.

RUSSO PEREZ. Senza dubbio, ma è difficile classificarli proletari.

Una voce a sinistra. Lo sono il più delle volte, anche se non si accorgono di esserlo.

RUSSO PEREZ …e se potessi escludere, dalla testa dei suoi battaglioni, alcuni pericolosi attivisti.

Vi sono molti oggi che ostentano uno sviscerato amore per la classe operaia, e mi sembrano simili a quel tale che, vedendo scendere la piena, si pose sull’argine in costume da bagno, dichiarando che i bagni di fiume fanno bene alla salute.

Ma non di noi può dirsi questo, che tutta la vita abbiamo riempito di questo anelito verso una migliore giustizia sociale e che alle masse lavoratrici abbiamo sempre detto e diciamo ancor oggi «avanti», per tante ragioni, ma soprattutto perché esse sono noi stessi.          

Però la società non è composta soltanto di lavoratori. I pensionati, gli invalidi non sono lavoratori, eppure non si può negare ad essi la partecipazione alla vita del Paese.

Disse l’onorevole Ruini, nei lavori preparatori, che l’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica ha per fondamento essenziale l’apporto di tutti i lavoratori, il lavoro di tutti, non solo manuale, ma in ogni sua forma di espressione umana. L’onorevole Togliatti un giorno aggiunse che egli non aveva difficoltà, per sgombrare il terreno da ogni equivoco, che si dicesse «lavoratori del braccio e della mente». Io spero che vorrà confermarlo in questa più acustica sede e, soprattutto, nelle più stabili tavole di questo nuovo statuto che vogliamo dare al nostro Paese.

Per le considerazioni che ho fatte, ho proposto qualche emendamento agli articoli in esame. Innanzi tutto, l’Italia è una – aggiungerei «una» – Repubblica democratica. Come nella Costituzione francese: grammaticalmente e letterariamente suona meglio.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Sì; è un errore di stampa della vecchia edizione.

RUSSO PEREZ. Poi: La Repubblica italiana ha per fondamento – aggiungerei l’aggettivo «essenziale» – il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori – accetto la frase dell’onorevole Togliatti – del braccio e della mente… Il resto dell’articolo potrebbe rimanere immutato, salvo la formula che la sovranità non emana, ma risiede nel popolo ed è esercitata nelle forme di legge.

Nell’articolo 6, mi sembra mal detto «principî di umanità fra gli uomini», perché, se sono principî di umanità, non possono certo attuarsi fra le scimmie: è una ripetizione. Mi pare che basti dire «principî di umanità».

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Gli uomini si erano dimenticati di essere umani.

RUSSO PEREZ. Questo è verissimo: è un’amara constatazione; ma non toglie valore al mio rilievo.

Questo articolo si ispira alla Costituzione russa e a quella francese. Come sostanza, mi sembra impeccabile, perché concede abbastanza alla nostra ideologia, la cristiana, contemplando prima i diritti della persona come individuo isolato e poi quelli della persona in funzione sociale. Si metta, ora, l’articolo 6 in relazione con l’articolo 7: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana». Che cosa significa ciò? Ce lo dice l’onorevole Togliatti – lavori preparatorî della prima Sottocommissione, pagina 175 – il quale cita l’esempio della Costituzione sovietica, in cui si afferma che tutte le libertà devono essere esercitate nell’interesse dello sviluppo della società socialista. Ora, è certo – egli dice – che non si può introdurre una simile formulazione nello Stato italiano, dato che purtroppo, – il «purtroppo» è suo e non mio…

Una voce a sinistra. Lo sappiamo.

RUSSO PEREZ. …dato che purtroppo l’Italia non ha ancora un ordinamento socialista. Ma si potrebbe adottare una formula in cui si dicesse – è sempre lui che parla – che tutte le libertà debbono essere esercitate in modo che siano coerenti allo sviluppo della società democratica.

Sarebbe come dire: libertà di marcia, con l’obbligo di andare a destra, cioè… a sinistra, o libertà di respirare… ma col naso chiuso!

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No.

RUSSO PEREZ. Si tratta di un concetto di libertà diverso, come diceva l’onorevole Dossetti, dal concetto finora adottato. E l’onorevole Cevolotto disse testualmente – come vede, onorevole Ruini, non sono il solo a fare rilievi di questo genere – che, se alla libertà del progetto si desse una sola direzione obbligatoria, non si avrebbe più una Costituzione democratica. In tal caso – aggiunse con finezza l’onorevole Cevolotto – sarebbero lesi i diritti di libertà… del Partito comunista, che non potrebbe esercitarli per arrivare alle finalità dello Stato comunista. Ma l’onorevole Togliatti rispose che il Partito comunista potrebbe esercitare egualmente i suoi diritti, perché lo Stato comunista è uno Stato democratico.

E siamo al nocciolo della questione: lo Stato comunista è uno Stato democratico! Ricorderete che ho usato un condizionale, anzi due condizionali in principio, dei quali vi ho promesso la spiegazione. Ecco: dissi che la Costituzione ci farebbe pensare ad un avviamento al comunismo. Ci farebbe pensare non significa ci fa pensare. Dobbiamo confessare il vero: il testo, la lettera di questo codice non sono allarmanti; sarebbero accettabili. Ma, adombrata dall’onorevole Orlando, accennata dall’onorevole Croce, manifestata da me, vi è in molti di noi la preoccupazione assillante che esso potrebbe venire interpretato ed attuato con uno spirito nettamente totalitario.

Ma, si dirà, non è lecito attribuire la malafede all’avversario. Esatto. Però troppi episodi smentiscono le parole, perché alle parole si possa credere: Viminale, Emilia, Dongo, per citarne alcuni. (Commenti Interruzioni a sinistra).

Non posso né debbo addentrarmi nell’argomento. Primo, perché mi allontanerei dal tema. Secondo, perché si tratta di fatti storici, di fatti rivoluzionari. Rivoluzionari, e, quindi, non vanno giudicati con la logica e con la morale di tutti i giorni. Se Giovanni Amendola avesse avuto una mentalità rivoluzionaria, tante sventure sarebbero state evitate al nostro Paese. Storici: ed è la storia che dovrà giudicare di fatti compiuti da uomini i quali in momenti supremi, hanno avuto nelle loro mani le trame della storia. Ma quando un uomo, un cittadino, prende, dinanzi a certi episodi rivoluzionari e agli aspetti più discutibili di codesti episodi, un atteggiamento di sfida nei confronti del Paese… (Interruzioni a sinistra).

LI CAUSI. L’accenno a Dongo si riferisce all’uccisione di Mussolini?

RUSSO PEREZ. Vuol fare una sfida al Paese anche lei? Io parlo con un senso di misura e con un senso di equilibrio che lei, onorevole Li Causi, dovrebbe invidiarmi.

LI CAUSI. Ma la chiarezza? Io domando la chiarezza! L’accenno a Dongo si riferisce all’uccisione di Mussolini?

PRESIDENTE. Onorevole Li Causi, s’è già sentito bene quello che lei ha detto.

RUSSO PEREZ. Io dico che quando si parla di questi fatti nel modo come ne fu parlato, anzi scritto, dal giornale L’Unità, alcuni giorni fa, con quell’atteggiamento di sfida che oggi si mutua con poca fatica e con poco rischio l’onorevole Li Causi, e il Paese non reagisce o reagisce debolmente, vuol dire che il Paese è diventato sordo e grigio…. (Interruzioni a sinistra).

LI CAUSI. È la frase di Mussolini! Lei è sordo e grigio.

RUSSO PEREZ. …è sotto il peso di una coazione morale che equivale e supera la violenza fisica! Aggiungo che spesso anche i grandi attori commettono degli errori, come quando il capo del Partito comunista ha fatto, come poco fa ricordai, l’imprudente parallelo tra comunismo e democrazia.

Che importa dunque che egli venga a dirci che non ha conquistato i Comuni con le latte di petrolio o col manganello, come se tutte le violenze fossero fisiche ed a base di carburanti liquidi! Si pensi anche alle recenti proposte di legge jugulatorie della libertà, se pure non si tratti di una malvagia invenzione ai danni dell’onorevole De Gasperi!

Ecco perché, onorevole Togliatti, siamo scusabili se non vi prestiamo soverchia fede, quando, dall’alto del vostro sesto cerchio, con l’impeccabile vestito bleu, col tono cattedratico e mellifluo di un professore di teologia, affermate di essere il più fiero paladino della libertà. Ma, onorevole Togliatti, il sesto cerchio è proprio quello degli eresiarchi nell’inferno di Dante. (Rumori Commenti).

Ora, poiché viviamo in questo clima, e dobbiamo preoccuparci della sorte e della libertà degli uomini che vivono in questo clima e lo Statuto deve interpretare i bisogni e le aspirazioni di questa gente, e poiché gli articoli criticati da me (come del resto gli articoli 31, 36, 37, 40, 41, 43) possono essere interpretati ed attuati in modo da non garantire ai cittadini il bene fondamentale della libertà, io propongo di sopprimere la seconda parte dell’articolo 7; vale a dire dovrebbero rimanere in piedi l’articolo 6, e la prima parte dell’articolo 7.

Del resto, quanto è detto nella seconda parte è anche espresso dall’articolo 6. Si dovrebbe sopprimere la parte che dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Se voi rileggete l’articolo 6, vedrete che c’è quanto basta affinché il legislatore, che poi interpreterà ed attuerà lo Statuto, possa farlo tutelando tutti i diritti del lavoro ed insieme quelli del singolo.

Ho finito per quanto riguarda gli articoli 1, 6 e 7. Passiamo all’articolo 4. Di questo articolo 4 vi ha già parlato l’onorevole Bencivenga. Debbo premettere, affinché l’amico Li Causi si risparmi l’incauta fatica di interrompermi ancora, che io ho già dichiarato che sono fieramente contrario a tutte le guerre, e che nel 1937 avevo preparato una conferenza, in cui sostenevo che una guerra tra nazioni di eguale o simile livello di civiltà, deve essere per forza un cattivo affare sia per l’aggressore come per l’aggredito. Non potei fare questa conferenza perché gli amici con i quali mi consigliai, mi dissero che, se l’avessi fatta, probabilmente sarei andato a finire al confino. (Commenti).

LI CAUSI. Essere eroico non è un obbligo.

RUSSO PEREZ. Il confino non è un monopolio della Repubblica; esisteva al tempo del fascismo.

Una voce a sinistra. Prendiamo atto della buona intenzione.

RUSSO PEREZ. Il fatto che io chiedo, insieme all’onorevole Bencivenga (egli è un generale ed io sono un borghese), la soppressione di questo articolo, non deve far pensare che io sia favorevole all’idea di una guerra di conquista, o anche di riconquista.

Però l’articolo è strano e non so da dove sia nato. Ho cercato nei lavori preparatorî, ma non sono riuscito a trovare la fonte; forse qualcuno ha pensato che c’era un articolo simile nella Costituzione francese ed ha creduto opportuno copiarlo.

Una voce a sinistra. C’è il Trattato di pace!

RUSSO PEREZ. «L’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista». L’Italia, dunque, rinuncerebbe alla guerra, ma soltanto come strumento di conquista e di offesa alla libertà di altri popoli. Quindi bisognerebbe fare questo esame, che è molto difficile: guerre giuste e guerre ingiuste. Ci sono stati dei giuristi, a corto di occupazioni più serie, i quali hanno scritto perfino dei trattati, come il signor De la Prière e il signor Regout (Le droit de juste guerre), nei quali sono elencati i principî in base ai quali si dovrebbe subito riconoscere se una guerra è giusta o ingiusta.

Ma, nella pratica, la cosa non è così semplice. Per esempio, il collega Bencivenga ha ricordato il caso della Francia, nella cui Costituzione è scritto da tempo immemorabile che «La Francia rinuncia alle guerre di conquista». Però, sottilizzando, i giuristi e gli uomini d’arme francesi sono venuti alla conclusione che una guerra per la riconquista della Ruhr non sarebbe stata una guerra di conquista. E, se vogliamo allontanarci dalla storia ed avvicinarci ai tempi presenti, guardate un po’: la guerra della Russia alla Finlandia è una guerra di difesa o una guerra di aggressione? E non è forse vero che, nel patto Ribbentrop-Mólotov, si ritrova per lo meno una duplice e coeva volontà di aggressione?

E, se non vi piace parlare dell’est, parliamo dell’ovest. Pensate che l’America sostiene di essere stata una nazione aggredita; ma io vi prego di tornare indietro col pensiero e di ricordare quei carichi di armi che gli Stati Uniti di America mandavano, scortati dai loro aerei e dai loro caccia, alla belligerante Inghilterra. Io domanderei al signor Regout se la guerra che nacque da quegli invii di armi, che una nazione neutrale faceva ad una nazione belligerante, sia da considerarsi una giusta o un’ingiusta guerra, una guerra di aggressione o una guerra di difesa.

LI CAUSI. La guerra fascista e la guerra di liberazione: quale è giusta e quale ingiusta?

Una voce a destra. È una fissazione! (Commenti).

RUSSO PEREZ. Dica un poco, onorevole Li Causi: quando parla di guerra fascista, non potrebbe rivolgersi al suo portiere, se lo ha? Perché si rivolge a noi? Scelga migliori occasioni per parlare; lei non è felice nelle interruzioni; le lasci fare all’onorevole Togliatti. Ella si accende a freddo e dice corbellerie!

Scusi, onorevole Presidente: dovevo ribattere l’interruzione, per quanto fatta male a proposito.

In fondo, volevo dire questo: che per quanto teoricamente possa apparire facile discernere le guerre giuste dalle guerre ingiuste, praticamente tutte le guerre vinte sono giuste e tutte le guerre perdute sono ingiuste. Quindi, rinunciamo a questo articolo, tanto più che è ridicolo che noi, nazione disarmata, con un esercito ridotto soltanto ai limiti di una forza di polizia, senza navi da guerra, senza fortezze, senza bomba atomica, facciamo affermazioni del genere. Lasciamole fare alle nazioni satolle; noi possiamo farne a meno. Anche perché, onorevoli colleghi di questa Assemblea, in quell’ignobile «ordine» di pace, se voi lo rileggete articolo per articolo, troverete dieci volte la frase «l’Italia rinunzia», che non corrisponde a nessun atto di volontà del popolo italiano. «L’Italia rinunzia» dieci volte; «l’Italia riconosce» quattordici volte! Allora il Governo presieduto dall’onorevole De Gasperi ha creduto di firmare sotto l’imperio della coazione; accettare, allora, quella parola, «rinunzia», è stata una necessità; adesso sarebbe una viltà.

Quindi, io credo che questo articolo debba venir soppresso, o, se questa Assemblea sarà del parere che l’articolo va mantenuto, lo sostituirei con il seguente: «L’Italia condanna il ricorso alle armi nelle controversie tra le Nazioni e consente»… (il resto può andare nel testo attuale, e precisamente: consente, a condizione di reciprocità è di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli).

E veniamo brevemente all’articolo 5: pochi minuti ancora ed avrò finito.

Vi devo confessare che, quando ho letto per la prima volta nel progetto di Costituzione questo articolo: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani. I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti, bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale», si trovarono un poco in conflitto la mia coscienza di giurista e di legislatore, per quanto modesto, e la mia coscienza di cattolico; perché mi domandavo come mai lo statuto della Repubblica italiana potesse contenere il riferimento ad un trattato di carattere internazionale.

Ma ho studiato meglio la questione ed ho attinto luce dai maggiori e adesso il dubbio è scomparso dall’animo mio. Certo, coloro che sono più esperti di me in materia di diritto costituzionale potranno escogitare una forma che faccia riuscire più accettabile ai colleghi dell’altra sponda questo riferimento della nostra Costituzione ai Patti Lateranensi, ma se anche l’articolo dovesse rimanere così, io lo accetterei senz’altro.

PAJETTA GIANCARLO. Allora ha chiesto consiglio al confessore, non ai giuristi!

RUSSO PEREZ. Se il confessore fosse stato più intelligente e, soprattutto, spiritualmente più elevato di voi, il che è facile, avrei fatto bene a chiedere consiglio a lui! (Approvazioni a destra).

L’onorevole Ruini ha detto testualmente: L’affermazione dell’articolo 5 non significa inserire nello statuto i Patti Lateranensi, ma dare ad essi una speciale posizione costituzionale. Mi sembra che abbia detto così e di aver trascritto esattamente il suo pensiero. Non so se sia pienamente accettabile questa proposizione, ma credo, anzi so, che alcuni membri autorevoli di questa Assemblea stanno elaborando delle proposte di emendamento all’articolo 5. Io credo che nella sostanza siamo tutti d’accordo, perché anche l’onorevole Togliatti, nei lavori preparatori, ha detto autorevolmente che il suo Partito non ha nulla in contrario a che anche la firma della Repubblica italiana sia apposta in calce al Concordato ed ai Patti Lateranensi.

Quindi, in fondo, si tratta di una questione di forma: se debba o non debba nel nostro statuto farsi un riferimento esplicito ai Patti Lateranensi. Ed allora io voglio ragionare non come un giurista, ma come un uomo della strada…

Uria voce dall’estrema sinistra. Come un uomo qualunque.

RUSSO PEREZ. Come un uomo qualunque, e me ne onoro. E dico questo: il Concordato ed i Patti Lateranensi da un canto riguardano i rapporti fra uno Stato sovrano e un altro Stato sovrano. E anche in ciò i patti hanno dei caratteri peculiari, perché questo altro Stato sovrano è circondato da tutte le parti dallo Stato italiano, abitato da italiani, in terra italiana. Ma la considerazione da fare, di molto maggior valore, è un’altra. I Patti Lateranensi non stabiliscono soltanto i rapporti fra uno Stato sovrano e un altro Stato sovrano, ma i rapporti fra uno Stato sovrano e la Chiesa Cattolica Apostolica Romana, che è cosa ben diversa.

Questo Istituto, rispettabile per tutti, per noi di origine divina, si irradia e vive in tutte le contrade d’Italia per mezzo delle sue Chiese, i rintocchi delle cui campane si fanno sentire anche nel latifondo siciliano, nei più remoti villaggi. E poi c’è una folla, una miriade di ambasciatori, consoli, addetti di ambasciata, vescovi, parroci, sacerdoti che portano la parola della Chiesa in tutte le contrade d’Italia. E con questi rappresentanti di quest’altra Potenza spirituale la grande maggioranza dei cittadini italiani ha giornalmente dei rapporti intimi, dei rapporti spirituali, sia pure come quelli a cui alludeva poco fa il collega dell’opposizione, per cui da questi ambasciatori del mondo dello spirito, e, per noi, del mondo della Verità, ci vengono giornalmente dei consigli, degli ammonimenti, che noi qualche volta consideriamo, e sono, delle direttive di vita e di azione.

Orbene, di questo fatto assolutamente peculiare, ineguagliabile, che rappresenta tanta parte della vita della nazione, è possibile che lo Stato, nella sua Carta fondamentale, non debba tener conto, chiarendo in che modo devono essere regolati i suoi rapporti con questo ente spirituale e sovrano che siede e vive nel suo stesso territorio?

Questo è il mio pensiero. Cosicché io concludo col dire che, per mezzo di questo articolo del progetto di Costituzione, noi, Stato, con indifferenza, la Chiesa, con dolore, consentiamo agli amici dell’altra sponda di professare liberamente la religione che vogliono, e anche di non professarne alcuna; ma consentano essi senza rammarico a noi cattolici che, nell’orbita dello Stato sovrano, attraverso il riferimento costituzionale all’inviolabilità dei Patti Lateranensi, possiamo vedere riaffermato il nostro filiale ossequio alla Chiesa Cattolica Apostolica Romana. (Applausi a destra e al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bruni. Ne ha facoltà.

BRUNI. Il capitolo delle disposizioni generali enuncia dei principî, consacra dei valori, fissa delle direttive, quasi tutte da dirsi fondamentali per la vita del nostro popolo.

L’eguaglianza dei diritti, di cui all’articolo 7; gli obblighi che la Repubblica s’impegna di assumere verso ogni cittadino, di cui all’articolo 6; il respiro che è chiamata ad avere sul più vasto campo internazionale la difesa degli stessi valori umani, di cui agli articoli 3 e 4, costituiscono un insieme di direttive profondamente vitali per la civiltà di ogni Nazione.

Come è stato da altri rilevato, rappresenta una caratteristica della nostra Carta il secondo comma dell’articolo 1, dove si proclama che «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese». La corrente dei cristiano-sociali, che io rappresento in questa Assemblea, sa apprezzare appieno questo comma, avendo sempre proclamato il principio della sovranità del lavoro nei rapporti sociali, e avendo esplicitamente espressa, sin dal loro programma del 1941, l’esigenza che l’esercizio dei diritti politici fosse legato al possesso di un «titolo di lavoro».

Senonché essi hanno sempre tenuto a precisare come al «lavoro» non intendessero attribuire un valore esclusivamente economico e di semplice soddisfacimento di bisogni materiali, ma soprattutto il valore di mezzo della propria elevazione morale ed intellettuale e di strumento di concreto servigio verso i proprî simili.

Solo se inteso in tal modo, quale concreto legame sociale, che in sé attua il primato dello spirituale ed è distintivo dell’amore fraterno e della solidarietà tra gli uomini, il lavoro può essere assunto all’onore di costituire il fondamento di una Repubblica. Non altrimenti. Il fondamento, il mezzo, e certamente non il fine, come ho detto, del viver civile.

Se è vero che all’uomo non è concesso – in via ordinaria – di poter dare una dimostrazione reale del suo attaccamento al mondo dei valori spirituali al di fuori del proprio lavoro, è anche vero che deve essere il mondo di quei valori a finalizzare l’opera umana.

Ho sentito affermare da alcuni che questo capitolo delle Disposizioni generali può sostituire sufficientemente bene quel preambolo che manca nel nostro progetto di Costituzione. Dissento dal loro parere, appunto perché non vedo in esso elencati tutti quei valori di libertà, di giustizia, di solidarietà, che normalmente non fanno difetto nei preamboli delle Costituzioni di altri popoli.

È in ogni modo da lamentare che la nostra Costituzione manchi di questo preambolo, e, di conseguenza, anche di un preciso riferimento alle condizioni storiche che l’hanno vista nascere, sì da apparire un documento pressoché estemporaneo.

Come, per esempio, non ricordare che questa Costituzione è la prima che si dà il popolo italiano; e che, con tale documento – per la prima volta nella sua storia – il popolo è stato in grado di affermare pienamente la sua sovranità?

Come non ricordare che questa Costituzione è scritta col sangue e col dolore degli italiani, dopo l’avventura totalitaria e le terribili vicende della guerra, dopo tanti anni di regime monarchico, dopo molti decenni di lotte sociali?

Io penso che alcuni degli articoli che ora fanno parte del capitolo in questione potranno convenientemente essere inclusi nel preambolo, che potrà, inoltre, accogliere altri principî e disposizioni che ora si trovano disseminati nei diversi Titoli.

In questa Assemblea ho udito esprimere il timore che le disposizioni, che di solito compaiono nei preamboli, possano rivestire un carattere meno impegnativo di quelle contenute altrove. Crederei di far torto ai costituzionalisti di professione se condividessi tale parere. I costituenti francesi, ad ogni modo, non la pensarono così. Direi che la pensarono in modo totalmente diverso.

Gli articoli che ordinariamente compaiono nei preamboli hanno certamente un carattere più generale; senza dubbio appartengono ad una categoria più universale di quella alla quale gli altri appartengono; ma dovrebbe essere anche noto come essi costituiscano i cardini basilari di tutta la Costituzione, sui quali tutta la Costituzione si regge; la fonte stessa della sua ispirazione; e, in altre parole, la sua anima, il suo indirizzo fondamentale, il binario sul quale tutti gli altri articoli dovranno camminare.

Per tutte queste considerazioni, sono da giudicarsi le disposizioni le più impegnative, non le meno impegnative; le più chiare, non le più oscure.

Il preambolo non si è fatto non perché non ci abbia pensato alcuno a farlo, o perché non si è ritenuto conveniente farlo, ma perché si è avuto paura di assumere quegli impegni solenni e precisi che la redazione di esso importava. Ciò che sino ad ora ha impedito questa redazione è stata la incapacità nei Settantacinque di interpretare l’anima unitaria, e cioè, quel minimo denominatore comune spirituale che, al di sopra di tutte le particolari ideologie, pur esiste nel popolo italiano ed al quale giovedì scorso bellamente accennò l’onorevole Moro.

Il non averlo saputo mettere convenientemente in luce, questo comune denominatore, il non essersi impegnati più esplicitamente su di esso, non solo rappresenta un grave difetto formale del progetto – (il che sarebbe il meno) – ma un grave difetto di sostanza che non depone favorevolmente per l’avvenire della nostra democrazia. Infatti, sulla democrazia esistono ancora in Italia delle gravi riserve.

Non posso essere d’accordo con coloro che si sono accomodati troppo facilmente al carattere eccessivamente empirico e frammentario che presenta il progetto, e non ritengono valga la pena compiere un ulteriore sforzo per correggerlo.

Come mi pare abbia notato l’onorevole Togliatti nel suo ultimo discorso, sarebbe profondamente errato confondere lo spirito ed il metodo della democrazia con il carattere empirico del compromesso.

Come pare sia opinione diffusa in Italia, lo spirito dell’autentico metodo democratico non deve essere individuato in un accostamento tutto esteriore di una corrente spirituale o sociale con l’altra. Se così fosse, la democrazia dovrebbe raffigurarsi ad un mosaico di ideologie, o peggio, ad un sistema di monadi, ciascuna chiusa in se stessa, senza che una possa comunicare con l’altra.

La democrazia non è questo. La democrazia crea una situazione spirituale per tutti. È un regime di comunione tra gli uomini, che posseggono convinzioni diverse circa l’ultimo destino dell’uomo, ma che nella Città temporale vogliono compiere un’opera comune, che non pregiudichi questo destino, che, anzi, lo favorisca. Esiste un «credo civico pratico», come lo chiama uno scrittore cattolico francese, che ci deve unire tutti, non perché siamo «cattolici» o «marxisti», ma perché siamo «uomini». Pretendere di far adottare dallo Stato nella sua totalità l’ideologia cattolica o marxista, significherebbe introdurre nella vita politica degli elementi di turbamento, che la politica, di sua natura, non può sopportare.

Esistono delle verità e dei valori che tutti gli uomini non possono non riconoscere e che lo Stato, organo del bene comune, deve perciò riconoscere. Di fronte a questi valori lo Stato non può essere agnostico; una Costituzione non può chiudersi nell’agnosticismo.

I francesi, e con essi i popoli più evoluti, hanno definito «laico» lo Stato che così si regola, per contrapporlo allo stato «confessionale» che, esorbitando dalla sua missione, volesse farsi il carabiniere e il paladino di un determinato sistema filosofico e teologico.

È questa divenuta ormai una conquista della scienza politica e del mondo moderno. Ogni ulteriore esitazione di fronte ad essa declasserebbe la civiltà italiana. E così, quasi senza volerlo, sono arrivato alle soglie dell’articolo 5, e le varco ed entro nella «zona infiammata» (come se ben ricordo, l’ha chiamata l’onorevole Orlando) dei rapporti tra la Chiesa cattolica e lo Stato italiano, sperando di non bruciare.

Onorevoli colleghi, le garanzie, atte ad assicurare la libertà di coscienza, di culto e di religione, non potranno essere stimate giammai eccessive da coloro che, come voi, sanno apprezzare il valore della spontaneità dello spirito nella ricerca della verità e l’importanza che assume il rispetto dei diritti naturali dell’uomo in ogni conquista spirituale, politica ed economico-sociale. Voi non ignorate neppure, onorevoli colleghi, come il diritto di usufruire di tali garanzie, appartenga all’uomo in se stesso, indipendentemente dal particolare credo religioso o filosofico da lui professato, e indipendentemente che egli ne possegga uno, o meno.

Noi tutti, in questa Assemblea, nessuno escluso, ci dobbiamo, innanzi tutto, preoccupare del bene politico spirituale del nostro popolo, come del primo e più importante capitolo del bene politico generale.

Ma qual è il bene politico spirituale di tutto il nostro popolo?

Né in Italia, né altrove esiste più unità confessionale.

Esiste una pluralità di famiglie religiose e filosofiche. Non è più possibile, dato che fosse consigliabile, unificare politicamente gli italiani all’ombra di un determinato credo religioso.

È invece possibile unificarli sulla base del rispetto delle regole della morale naturale e dei diritti naturali dell’uomo, sulla base, come ho detto, di un credo civico pratico, morale e politico, su precise disposizioni costituzionali e legislative che prescindono da qualsiasi giustificazione teologica e filosofica. Ripeto: qui evidentemente non si tratta di un semplice compromesso imposto dalle attuali condizioni della società.

Si tratta, piuttosto, di identificare un principio e di tracciare una linea di condotta politica da valere in tutti i tempi ed in tutte le situazioni, che sono tenute a rispettare tanto le maggioranze quanto le minoranze religiose.

Non si tratta di un compromesso; si tratta di un metodo consigliato dalla natura stessa del vivere politico e dalla stessa natura dell’atto per cui ogni uomo si accosta alla verità. È bene che l’unità politica non si tenti di cementare dall’alto di un sistema di verità rivelate, e cioè con un movimento discendente, ma sibbene con un movimento ascendente, che parta dalla chiarezza delle verità naturali come il processo più educativo e più formativo dello spirito umano.

L’unità politica non può avere per base che la chiarezza di queste verità naturali, che costituiscono come l’ideologia di tutti, l’ideologia comune a tutta la Nazione; l’ideologia per eccellenza, del vivere democratico.

Ma questo patrimonio comune non deve essere più misconosciuto dagli italiani, e dev’essere positivamente e rigorosamente difeso dalla legge.

Anche sotto tale aspetto si vedrà se la democrazia italiana sarà in grado di funzionare. Non è possibile conservare e garantire dalla disgregazione le società umane senza prestare ossequio a questo minimo di patrimonio comune che – se veramente rispettato – ci mette nella condizione di dare alla vita sociale un abbrivo che, per rispondere a ragione, con ciò stesso può dirsi di positivo e vitale orientamento religioso.

Il nostro progetto di Costituzione rivela un cospicuo orientamento vitalmente religioso in molti articoli, e nella misura che questi articoli costituiscono una difesa della libertà e della dignità della persona e nella misura che assicurano la solidarietà e la giustizia sociale.

Per questo il nostro progetto di Costituzione, nonostante le sue contraddizioni, lacune ed incertezze, denuncia un orientamento religioso molto più deciso dello Statuto albertino, nonostante, il primo articolo di questo Statuto. Perché, come voi ben sapete, onorevoli colleghi, c’è una religiosità, e, vorrei dire, un cristianesimo apocrifo, che è quello dei Governi clericali, paternalistici, assoluti, che lasciano sussistere tranquillamente le più grosse ingiustizie sociali; e c’è una religiosità ed un cristianesimo autentico, che è quello dello sforzo costante ed eroico verso la libera ricerca della verità e della giustizia.

È pertanto su questa base spirituale, che può chiamarsi bensì laica, ma non laicista, che potrà trovare la sua piena applicazione il principio dell’unità e del pluralismo spirituale in campo politico, che solo è in condizione di garantire il pieno rispetto della libertà di coscienza, di culto e di religione ad ogni cittadino.

Evidentemente non si può parlare di queste libertà dove esiste, una «religione di Stato» e dove esiste «l’ateismo di Stato». Qui, evidentemente, non si tratta di affermarsi sul principio della «tolleranza religiosa» e della «tolleranza filosofica» che per me equivarrebbe a professare l’indifferentismo religioso e filosofico; qui si tratta dell’adozione – in via di principio – del metodo della «tolleranza civica».

Quando mi appello a questa tolleranza, mi appello al «rispetto del segreto delle anime, che è il segreto di Dio».

Aggiungerò – per calmare delle coscienze – che essa è una virtù cristiana per eccellenza.

La tolleranza «riposa sul più profondo fondamento della vita cristiana, sulla credenza inconcussa alla eguaglianza dell’uomo, ai diritti inalienabili di ciascuno allo sviluppo della sua vita, alla libertà di parole e di azione, al libero perseguimento della sua felicità». Un manifesto del 1942 dei più grandi scrittori cattolici europei rifugiati negli Stati Uniti d’America, affermava, tra l’altro, che «è lo stesso cristianesimo che pone le basi della tolleranza civile in materia religiosa».

Senza compiere un tentativo di sovvertire l’ordine politico, che anch’esso è una parte dell’ordine divino, non ci è lecito, dirò usando una terminologia teologica, comportarci come cattolici quando ci troviamo sul terreno politico; siamo, invece, tenuti a comportarci sempre da cattolici, distinguendo, in tal modo, senza separarlo, l’ordine politico dall’ordine religioso.

Quando ci troviamo sul terreno politico, l’unico modo di salvare l’essenza del cristianesimo, e cioè la carità e lo spirito di fratellanza, non è quello di instaurare una legislazione d’eccezione e di privilegio nei riguardi della propria Chiesa; è invece quello d’instaurare un regime fondato su basi di eguaglianza.

L’onorevole Togliatti, nel suo discorso di risposta alle dichiarazioni del Governo, accennando al problema delle relazioni tra Chiesa e Stato in polemica con la Democrazia cristiana, se ben ricordo, pare insinuasse come la qualifica di «cristiano» costituisse un impedimento alla tolleranza civica. Non so se un tale rimprovero potesse riguardare questo o quel cristiano o alcuni degli onorevoli colleghi democristiani; ma è certo che non riguarda la natura e l’essenza del cristianesimo. La maggioranza cattolica del nostro Paese accetterà questa disciplina civica, se fosse illuminata, sapendo di ubbidire allo spirito stesso del Vangelo, e conscia di contribuire efficacemente all’unità nazionale, all’amicizia politica di tutti gli italiani, sempre necessaria, ma nelle attuali circostanze. necessarissima, essendo in corso l’ardua opera della ricostruzione. Naturalmente la società italiana, in quanto composta in maggioranza di cattolici, conserverà la sua fisionomia spirituale, ma non in virtù di una giurisdizione confessionale dello Stato, ma in virtù del numero e dello spirito della maggioranza dei suoi membri e delle forme democratiche che permettono e garantiscono pienamente l’espressione pubblica dei sentimenti religiosi.

Gli articoli del progetto di Costituzione, che furono specificamente elaborali con questo spirito, sono l’articolo 7 che dice: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge», e l’articolo 14 che suona così: «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa, in qualsiasi forma individuale o associata, di farne propaganda e di esercitare in privato ed in pubblico atti di culto, purché non si tratti di principî o riti contrari all’ordine pubblico o al buon costume» ed infine l’articolo 15, che dice: «Il carattere ecclesiastico ed il fine di religione o di culto d’una associazione od istituzione, non possono essere causa di speciali limitazioni legislative né di speciali gravami fiscali per la sua costituzione, per la sua capacità giuridica, per ogni sua forma di attività».

Sono dell’opinione che sono questi articoli a fissare la linea fondamentale della politica religiosa dello Stato italiano, e perciò non posso giustificare le ragioni che hanno indotto i Settantacinque a posporli all’articolo 5, che invece si riferisce ad un determinato problema di questa politica.

La prima cosa che si nota gettando lo sguardo sull’articolo 5, è la presenza di un’esplicita menzione della Chiesa cattolica. Pur facendo mie le critiche di metodo rivolte a questo articolo dall’onorevole Calamandrei, non è tale menzione che in se stessa mi scandalizza, perché bisogna ricordare che una menzione nella nostra Carta pur meritava la Chiesa cattolica, che è la Chiesa della quasi totalità del popolo italiano.

E neanche voglio discutere la tesi, che non manca di giustificazioni, di coloro che stimano pleonastico tutto l’articolo 5, rispetto agli articoli 7 e 14.

Nel suo primo comma l’articolo 5 dice: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Tale sentenza, che è di Leone XIII, se non erro, a parte l’osservazione che sulla sua presenza nel testo costituzionale ne fece l’onorevole Calamandrei e che io non posso non condividere, noto che, ad ogni modo, rispecchia fedelmente lo spirito della costituzione dello Stato che si vuol costruire decentrato, senza pretese monopolistiche né in campo nazionale né in campo internazionale, rispettoso delle autonomie degli altri gruppi sociali, e che dà alla sua sovranità un significato ed un valore analogico, come si conviene ad uno Stato realmente democratico.

Colpiscono, al contrario, la sostanza della politica religiosa del nostro Stato le critiche mosse al secondo comma dell’articolo 5, cioè quella sostanza che si trova precisata negli articoli 7 e 14.

Nel 1929 le relazioni tra la Chiesa cattolica ed il nostro Stato furono precisate nei Patti lateranensi, con un Trattato e un Concordato. A proposito del Trattato, c’è da osservare che non ci troviamo di fronte ad un trattato concluso con una qualsiasi potenza straniera, avente carattere di pura natura politica. Il Trattato del 1929, da cui sorse lo Stato della Città del Vaticano, ha riflessi anche religiosi e fortemente incide sulla pace religiosa del Paese, anche se solo riguardato nei suoi effetti territoriali.

Come è noto, il Trattato, anche sotto tali aspetti, chiudeva un lungo periodo di lotta tra la Santa Sede e lo Stato italiano, che pochissimi oggi in Italia avrebbero il cattivo gusto di riaprire. Senonché il Trattato non riguarda esclusivamente questioni territoriali e non contiene soltanto clausole finanziarie. Nei Patti, evidentemente, non sono contenute soltanto delle cose definitivamente sorpassate per forza di eventi, come l’articolo 8 del Trattato che punisce le offese e le ingiurie fatte al Sommo Pontefice, come quelle fatte al re; come l’articolo 21, che equipara i cardinali ai principi del sangue, e come l’articolo 26 con il quale il Pontefice riconosce la dinastia di Casa Savoia; tutto ciò naturalmente non ci commuove più perché è stato cancellato dai Patti. Ma è un fatto che devono essere cancellate anche quelle parole. Il trattato si apre, come sapete, con la seguente dichiarazione: «L’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del Regno 4 marzo 1848, pel quale la religione cattolica, apostolica e romana è la sola religione dello Stato». Tale affermazione consacra chiaramente il carattere confessionale dello Stato italiano, in evidentissima contradizione con gli articoli 7 e 14 del progetto di Costituzione.

Il Concordato, poi, deve essere giudicato come un tipico documento del passato regime. Esso presenta due aspetti fondamentalmente contrastanti con lo spirito e la lettera del progetto di Costituzione. Innanzi tutto rappresenta un parto della mentalità giusnaturalista, propria dei governi clericali, paternalistici ed assoluti, che tende a restringere la libertà della Chiesa e aggiogarla al carro della «ragion di Stato».

Questa mentalità ha sortito l’articolo 2 del Concordato, che dice: «Tanto la Santa Sede quanto i Vescovi possono pubblicare liberamente ed anche affiggere nell’interno ed alle porte esterne degli edifici destinati al culto o ad uffici del loro ministero, le istruzioni, ordinanze, lettere pastorali, bollettini diocesani ed altri atti riguardanti il governo spirituale dei fedeli…», ecc.

Ecco a che cosa si riduceva la libertà di stampa per la Chiesa cattolica!

L’ingerenza poi dello Stato nella nomina dei vescovi e dei parroci, è consacrata negli articoli 19, 20, 21.

Tale aspetto del Concordato contrasta con la natura dei limiti che lo Stato democratico si riconosce e con le autonomie che esso intende garantire agli altri gruppi sociali e si mette in antitesi con lo stesso primo comma dell’articolo 5 che riconosce tali autonomie con una certa prosopopea fuor di luogo in una Costituzione. La Chiesa cattolica, come del resto le altre Chiese, dev’essere lasciata pienamente libera nella sua amministrazione interna e nella nomina dei suoi vescovi e parroci.

In secondo luogo, il Concordato del 1929 – se la logica non è una semplice opinione e se le parole devono essere intese nel significato che tutti loro attribuiscono – ribadisce il carattere confessionale dello Stato italiano ed anch’esso si mette in conflitto aperto ed evidente con gli articoli 7 e 14 del progetto di Costituzione, che affermano il principio della indiscriminabilità politica e sociale, in base ad un criterio religioso, e l’eguaglianza dei diritti.

Questo principio mi pare offeso dall’articolo 5 del Concordato che suona così:

«Nessun ecclesiastico può essere assunto o rimanere in un impiego od ufficio dello Stato italiano o di enti pubblici dipendenti dal medesimo senza il nulla osta dell’ordinario diocesano.

«La revoca del nulla osta priva l’ecclesiastico della capacità di continuare ad esercitare l’impiego o l’ufficio assunto.

«In ogni caso i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio od in un impiego, nei quali siano a contatto immediato col pubblico».

E dell’articolo 36, che dice: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta dalla tradizione cattolica…», ecc.

Di fronte a tale testo, il più modesto dei ragionatori arguisce, mi pare, come segue.

Se «cattolico» deve essere l’indirizzo della scuola statale, come potranno insegnarvi i maestri che non condividono questo indirizzo e dove quei genitori, che parimenti non lo condividono, potranno mandare a scuola i loro figliuoli?

Se tale deve essere l’indirizzo della scuola statale, viene praticamente distrutta la distinzione tra scuola confessionale e non confessionale, e distrutta, con essa, la libertà di insegnamento che la nostra Costituzione sancisce.

L’onorevole La Pira, per giustificare, per inquadrare, come disse lui, l’inclusione dei Patti lateranensi nella Carta costituzionale, si è appoggiato alla teoria del cosiddetto pluralismo sociale e giuridico, tanto caro agli scrittori e ai politici cattolici di Francia.

A questo pluralismo s’appellò anche, nel suo discorso, l’onorevole Tupini. Ma, onorevoli La Pira e Tupini, siete stati degli incauti; la dottrina del pluralismo sociale e giuridico, alla quale anche i cristiani sociali si ispirano, costituisce un’aperta condanna della posizione da voi abbracciata nei riguardi delle relazioni tra Chiesa cattolica e Stato italico.

La teoria in questione ammette sì, come si esprime un autore che l’onorevole Tupini citò, statuti giuridici diversi per le diverse chiese e famiglie spirituali conformi alla natura di ciascuna, ma sopra una base civica eguale per tutti.

Non discuto le vostre rette intenzioni; ma mi dovreste dimostrare come qualmente l’articolo 1 dello Statuto albertino, che ritroviamo nel Trattato, e l’articolo 5 e 36 del Concordato rappresentino un esempio di parità civica da prendere a modello.

I cattolici francesi dell’M.R.P., che sono seguaci della dottrina del pluralismo sociale e giuridico, la pensano proprio come i cattolici del Partito cristiano sociale, ed hanno conseguentemente definito laico lo Stato che essi vogliono costruire.

Qui, onorevoli colleghi, è in contrasto non certo una diversa concezione dell’uomo o una diversa concezione religiosa, ma una diversa concezione della politica.

Si tratta di cercare raccordo sopra una direttiva politica, non proprio sopra una idea specificamente religiosa, il che esorbiterebbe dal nostro campo, da quello di questa Assemblea, dalla natura stessa di un testo costituzionale.

Si tratta di decidere se lo Stato debba sì o no definirsi in base a un determinato credo religioso, se il nostro Stato dovrà essere sì o no confessionale, se cioè dovrà, sì o no, in definitiva, invadere il campo della Chiesa o la Chiesa invadere il suo campo o come si sia confondersi, sì o no, con la Chiesa.

Quando lo Stato dichiara la sua religione, con ciò stesso si qualifica non in forza di una sua determinata natura, ma in base alla natura della Chiesa; e in tal caso quale valore attribuire, onorevoli colleghi, alle parole del primo comma: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani»? Come, mettere questo primo comma dell’articolo 5 d’accordo col secondo comma, che si riallaccia al primo articolo dello Statuto albertino?

Rimanendo tali contradizioni e non potendosi, d’altra parte, sopprimere la diversità di natura dello Stato e della Chiesa per volontà umana o in seguito a solonica sentenza, come la storia ci insegna, i rapporti tra l’uno e l’altro di fatto si determinerebbero come una lotta di ingerenze, egualmente esiziale per la Chiesa e per lo Stato.

Ciò che questa Repubblica non può volere che avvenga, perch’essa vuol garantire ogni libertà e non offenderne nessuna e difendere ogni suo diritto, senza offendere l’altrui.

Non è che mi faccia dunque paura la firma di Mussolini apposta ai Patti lateranensi, se la firma di Mussolini non vi avesse lasciato niente dello spirito e dei procedimenti del fascismo.

Ma purtroppo non è così.

Questi documenti, così come furono stilati, poterono essere uno strumento di pacificazione, e forse lo furono veramente tra la Chiesa e lo Stato fascista o, meglio, un semplice modus vivendi tra i due poteri; ma nego che possano continuare ad essere, in tutte le loro assunzioni, uno strumento di pacificazione tra la Chiesa e lo Stato democratico e repubblicano, che, per sua natura, non può volere un semplice modus vivendi, un accordo basato sul do ut des, ripugnando alla sua stessa natura ogni sorta di compromesso, di accomodamento, di empirica negoziazione in fatto di libertà e di garanzie.

Onorevoli colleghi, bisogna decidersi! O fare lo Stato confessionale, con tutte le sue logiche conseguenze, come esplicitamente lo vogliono i Patti lateranensi, e, in tal caso, bisognerebbe modificare sensibilmente gli articoli 7 e 14, o fare lo Stato aconfessionale, come lo vogliono gli articoli 7 e 14, ed allora bisogna sopprimere o modificare il secondo comma dell’articolo 5.

Onorevoli colleghi, non si può tenere il piede in due staffe; o prendere o lasciare! Qui non è soltanto questione di logica, ma di elementare onestà. Ed è alla vostra onestà, ch’io, in definitiva, mi appello, sicuro di non essere deluso.

La legislazione italiana sui rapporti tra Stato e Chiesa non può continuare a dibattersi – come da un secolo a questa parte s’è dibattuta – in una continua contradizione, in un continuo compromesso tra vecchio e nuovo, che turba la pace della Nazione.

Poiché né i principî della logica, né quelli dell’onestà possono giustificare l’inclusione sic et sempliciter di quel Patto nel testo costituzionale, questa inclusione acquista il valore di un mero atto di forza, suggerito, se si vuole, dalla diffidenza verso questo regime democratico; insomma, nella migliore delle versioni, non può apportare che un eccesso di garanzia, inintelligente e dannoso alla Chiesa e allo Stato, perché è con la preoccupazione di salvaguardare i diritti dell’una e dell’altro, ch’io parlo.

È pertanto doloroso constatare come un Paese, cattolico a così grande maggioranza, mostri così poca fede nei procedimenti democratici, da ritenerli insufficienti a garantire alla Chiesa cattolica la libertà della sua spirituale missione.

Questo gesto di sfiducia verso la democrazia si converte in un gesto di sfiducia verso i cattolici italiani che non si stimano capaci di garantire la loro Chiesa, in regime di libere istituzioni.

Si comprende, perciò, la mia ribellione come democratico e come cattolico. Che se poi coloro che hanno voluto tale inclusione, in aperta contradizione con l’articolo 14, che pur hanno avallato con la loro firma, hanno realmente inteso di fare dello Stato italiano uno Stato confessionale, più sinceramente mi sarei atteso da loro che il primo comma dell’articolo 5 riproducesse il primo articolo del Trattato, che a sua volta riproduce il primo articolo dello Statuto albertino, che, com’è noto, consacra, apertis verbis, il carattere confessionale dello Stato italiano.

Questo articolo, come tutti sanno, si trova celato nel secondo comma dell’articolo 5 del progetto di Costituzione.

Ma io mi domando come mai, in considerazione della sua decisiva importanza in materia, esso non sia stato piuttosto chiamato ad occupare il 1° comma dell’articolo 5, eliminando, così, quella bruttura giuridica, rilevata dall’onorevole Calamandrei, che presenta l’attuale dizione del primo comma.

Perché, per non dire altro, questa assoluta mancanza di chiarezza?

Perché complicare i termini di un problema di così grande importanza?

Questo problema non tocca forse ciò che gli italiani, cattolici e non cattolici, hanno più caro della vita?

Perché una così scarsa sensibilità dei problemi spirituali?

Perché s’è voluto scherzare proprio con questo problema?

Quali i motivi che hanno potuto spingere a compiere un gesto così profondamente antigiuridico, impolitico ed ingiusto?

Si è data, con ciò, l’impressione, tutt’altro che simpatica, di aver voluto far passare dalla finestra ciò che forse non sarebbe passato dalla porta; o, ciò che sarebbe molto più grave, non si aveva il coraggio di far passare dalla porta.

La Chiesa cattolica, onorevoli colleghi democristiani, e mi rivolgo specialmente a voi, ma non soltanto a voi, non può passare dalla finestra! Deve passare dalla porta. E non dalla porta del confessionalismo, divenuta ormai porta di servizio, ma dalla porta, ch’è padronale per tutti, della democrazia.

Non con questi mezzucci, che suonano sfiducia verso la democrazia, si difendono, nel migliore e più efficace dei modi, le vere libertà della Chiesa; ma rafforzando lo spirito stesso della democrazia e le istituzioni democratiche.

La difesa della libertà della Chiesa, se posta in termini di democrazia, troverebbe l’appoggio di tutto il popolo senza distinzione di credo; mentre, se posta al di fuori di questi termini, getta l’amarezza anche nel cuore di molti cattolici, ai quali se il comma passerà tale e quale in questa Assemblea, com’è passato nella Commissione dei 75, non resterebbe davvero che augurarsi una cosa: che sia la Santa Sede stessa (come del resto saggiamente ha fatto in analoghe occasioni) a prendere l’iniziativa della necessaria ed improrogabile revisione, per non mettere il Governo italiano in gravi difficoltà.

Ma è nostro preciso dovere, di cui siamo debitori verso la gerarchia cattolica, verso i cattolici e verso tutto il popolo italiano, di non attendere questa iniziativa, ora che la possiamo prendere noi costituenti, mentre siamo nell’esercizio del nostro mandato.

La permanenza dei Patti lateranensi nella Costituzione, rilevò già l’onorevole Basso, provocherà purtroppo un appello all’O.N.U., appello le cui ripercussioni, morali e politiche, potranno non essere simpatiche per il nostro Paese.

Tale permanenza farà entrare in funzione quell’odiosissimo articolo 15 della seconda parte del nostro Trattato di pace, che suona così:

«L’Italia prenderà tutte le misure necessarie per assicurare a tutte le persone rientranti nella sua giurisdizione, senza distinzione di razza, di sesso, di lingua o di religione, il godimento dei diritti dell’uomo e della libertà fondamentale, ivi compresa la libertà di espressione del pensiero, la libertà di stampa e di pubblicazione, la libertà del culto, la libertà di opinione e di riunione».

Ciò costituirebbe il peggiore dei mali che ci potrebbe capitare; peggiore della perdita della flotta, peggiore della perdita di Trieste e delle Colonie.

Già l’onorevole De Gasperi nel ricevere, durante il suo viaggio negli Stati Uniti d’America, una Commissione del «Consiglio federale della Chiesa di Cristo», poté saggiare gli umori di quelle potenti comunità che esplicitamente lo interrogarono attorno all’introduzione del Concordato nella Costituzione. Stando a ciò che riferì in data 21 gennaio l’«Associated Press», l’onorevole De Gasperi rispose all’interpellante reverendo Anthony che «non credeva che i termini del Concordato sarebbero stati inclusi nella Costituzione».

Dunque i «termini» no, ma il Concordato sì; tutto il Concordato, il Concordato di peso sì, come è avvenuto di fatto. Ma chi ci raccapezza niente?

Queste parole di «colore oscuro» dell’onorevole De Gasperi dimostrano, per lo meno, il suo imbarazzo di fronte a così precisa richiesta del reverendo Anthony, ed anch’esse vengono a giustificare pienamente le mie richieste e la conseguente mia proposta di emendamento.

La battaglia, per la difesa della missione spirituale della Chiesa, bisogna portarla – o amici democristiani – decisamente sul terreno della più schietta democrazia.

Bisogna abbandonare i vecchi metodi di difesa, buoni, forse, e giusti per altri tempi, ma che nel nostro tempo si sono mostrati dappertutto inefficaci, e rischiano di offendere la giustizia.

Soltanto sopra una base, chiaramente espressa, che non ammetta politiche discriminazioni, neanche formali, tra maggioranza cattolica e minoranze acattoliche, la religione della maggioranza potrà ricevere le migliori e più concrete garanzie di libertà.

Che cosa temete, o amici democristiani, dall’adozione sincera e totale di questo metodo? Che in regime democratico non ci sia posto per una conveniente manifestazione pubblica della vostra, di tanti altri che risiedono in tutti i settori di questa Assemblea, e della mia religione?

Voi non potete temere questo; e se lo temete, a maggior ragione dovreste temere dell’efficacia di alcune forme giuridiche, irritanti e contradittorie, che avete avuto il grande, ma non altrettanto encomiabile, coraggio (perdonatemi il rilievo) di proporre e di difendere a spada tratta, e che non assicurano affatto la pace religiosa, come per avventura potreste credere, nel nostro Paese, che ha tanto bisogno di unità e di amicizia politica per risorgere.

Se mai, lasciate pure che altri settori dell’Assemblea continuino a tenere questa linea di condotta; e che non voi, che parlate a nome della democrazia e del cristianesimo, ma altri, compiano certi tentativi, che offendono lo spirito dell’una e dell’altro.

Infatti la vocazione del «cattolico» non è certamente quella di coltivare una mentalità da «parrocchiano»; di sua natura essa si dirige verso l’universale, e di tutto ciò che è genuinamente universale, come sono i diritti naturali dell’uomo e la libertà; e di questi valori si nutre e potenzia.

Le libertà democratiche, il costume e il metodo democratico, appartengono di diritto anche all’anima del cristianesimo.

Sul terreno politico, chi realizza il rispetto dell’uomo e l’umana fratellanza predicati dal Vangelo è lo spirito ed il metodo democratico. Non potete ferire la democrazia senza ferire l’anima cristiana!

L’includere di peso, senza alcuna discriminazione e riserva, i Patti Lateranensi nel testo costituzionale, rappresenta un tentativo di inserire un corpo estraneo nel corpo della nostra democrazia; costituisce un tentativo di ferire a morte la nostra «giovinetta Repubblica».

Del resto, l’amico onorevole La Pira ha ammesso anche lui che in questi Patti ci possa essere qualche punto che non va, e che sarà revisionato. Benone! Frattanto noi siamo chiamati a prendere posizione, conformemente alle sue ammissioni, per quanto ci concerne…

L’onorevole La Pira, egli lo ha detto espressamente, non vuole lo stato confessionale. Benone! Ma i Patti dichiarano lo stato confessionale. Frattanto noi abbiamo il dovere – dato che si voglia insistere nel mantenere la menzione dei Patti nella Carta costituzionale – di dichiarare che non vogliamo lo Stato confessionale. E ciò per andare d’accordo con la nostra coscienza e con l’oratore ufficiale della Democrazia cristiana; il che ci fa sempre piacere.

Dopo avere espresso, con la massima sincerità, il mio pensiero circa l’inclusione dei Patti lateranensi nel Testo costituzionale, d’altra parte mi rendo conto delle difficoltà contingenti che, in seno a questa Assemblea e fuori di essa incontrerebbe una proposta che mirasse ad abolirne interamente la menzione.

Una proposta di tal genere, onorevoli colleghi delle sinistre, potrebbe far sorgere il sospetto che si abbia l’intenzione di sbarazzarsi non di alcuni, ma di tutti gli articoli dei Patti, e non soltanto in sede di Carta costituzionale.

Noi non possiamo far sorgere tale sospetto. Tale sospetto se è fondamentalmente ingiustificato, bisogna, però, convenire che è in qualche modo alimentato da notevoli correnti anticlericali e niente affatto democratiche esistenti nel Paese.

C’è anche chi ritiene che gli articoli 7 e 14 siano sufficientemente chiari ed impegnativi per garantire la libertà religiosa sia della maggioranza cattolica che delle minoranze cattoliche.

Con l’inclusione, poi, nella Costituzione, degli articoli contro il divorzio e per la libertà d’insegnamento ed altri, i cattolici si sarebbero potuti ritenere sufficientemente garantiti.

Ma io non voglio qui discutere questa rispettabile opinione, e desidero invece osservare che mentre l’inclusione dei Patti, se fatta di peso e senza discriminazione, può suscitare un dissidio fondamentale tra i due poteri, che non conviene a nessuno minimizzare, una menzione la ritengo però politicamente opportuna, oggi come oggi, in una qualsiasi parte del testo, in considerazione dell’attuale schieramento delle forze. Basta che ne sia deliberatamente determinata la portata.

Si tratta, se si vuole, di una menzione ad abundantiam, che forse potrebbe offendere la sensibilità giuridica di alcuni ed anche la mia, ma è una menzione di cui i politici possono capire la grande opportunità, in quanto calma eventuali apprensioni (del resto non del tutto ingiustificate, come ho detto) e facilita la futura buona comprensione e la reciproca fiducia tra le parti, che è tanto necessaria per governare il Paese.

Ma se la menzione non potrà essere evitata per le esposte considerazioni, ritengo che, comunque, debba venir neutralizzata di quella parte di preoccupazioni, che essa desta a numerosi colleghi, con una esplicita dichiarazione che metta in rilievo come il secondo comma dell’articolo 5 non può, in ogni modo, entrare in conflitto, con il carattere aconfessionale dello Stato e con quanto è sanzionato negli articoli 7 e 14. Il secondo comma, emendato in tal senso, suonerebbe così:

«I loro rapporti sono regolati dai Patti lateranensi, in quanto non entrino in conflitto con il carattere aconfessionale dello Stato e con il principio della uguaglianza dei diritti di cui agli articoli 7, 14 e 15 della presente Costituzione».

Con il mio emendamento la revisione dei Patti lateranensi – e soltanto la revisione – è dichiarata aperta costituzionalmente.

Il futuro legislatore ed uomo di Stato non si troverà più in imbarazzo se applicare l’articolo 5 o gli articoli 7 e 14.

Lo Stato italiano con ciò prende una posizione di massima e precisa una sua linea direttiva da valere nella revisione dei Patti, che dovrà essere negoziata tra le parti, esplicitamente indicando questa linea nei principî contenuti negli articoli 7 e 14 che sanciscono il carattere aconfessionale dello Stato italiano e la parità dei diritti di tutti i cittadini, indipendentemente dal credo religioso da ciascuno professato.

Questa mi pare essere la sola via della sincerità, dell’onore, della saggezza politica.

Gli onorevoli colleghi democristiani non possono negare ragionevolmente il loro appoggio al mio emendamento senza farci sorgere il sospetto che la loro votazione a favore degli articoli 7 e 14 non sia stata sincera; senza farci sorgere il sospetto che si voglia giocare con l’articolo 5 per eludere, almeno in parte, ciò che si dice negli articoli 7, 14 e 15. (Commenti al centro).

Ma io ritengo che essi non abbiamo mai avuto intenzione di giocare; ritengo, piuttosto, che essi non si siano accorti della flagrante contradizione esistente fra questi articoli, o che abbiano bisogno di un incoraggiamento per superare una posizione in cui li han posti, senza loro colpa, certe contingenze storiche e ambientali di cui loro sono le prime vittime, e che io non credo opportuno, qui, di enumerare.

Non so se vorrete accettare da me tale incoraggiamento, onorevoli colleghi democristiani; io rappresento, in questa Assemblea, una vox clamans in deserto, senza efficace forza politica. (Commenti). Ma io mi rivolgo a voi ugualmente perché conosco i miracoli che sa compiere il sentimento della fraternità cristiana, che non può giammai separarci, e che ci fa abbracciare tutti gli uomini, indipendentemente dalla famiglia religiosa e politica alla quale appartengono. Perciò vi prego di accettare se non la formula, almeno lo spirito, del mio emendamento, che mira ad allontanare ogni ombra di dubbio sulle vostre intenzioni, che certamente rifuggono dal voler mortificare una sola anima, che è pellegrina in questa nostra Repubblica.

Al gruppo liberale, che in sede di Commissione dei Settantacinque ha affiancato la democrazia cristiana, rivolgo lo stesso appello.

I liberali, che hanno una così magnifica tradizione di amore alla libertà, sono in grado di apprezzare in tutto il suo valore la portata del mio emendamento.

E ai compagni delle sinistre, con i quali Condivido la tormentosa ansia per la giustizia sociale, che hanno votato, sdegnati, contro il secondo comma dell’articolo 5, con il mio emendamento ho la coscienza di offrire l’occasione di dimostrare sensibilmente come non sia nelle loro intenzioni di turbare la pace religiosa in Italia. Il mio emendamento, se chiede loro un sacrificio di forma, salva però, esplicitamente, la sostanza che deve essere da tutti salvata, dalla destra, dal centro, dalle sinistre.

A nessuna delle parti conviene stravincere.

Intendiamoci bene! Nessuno più di me è convinto che il mio emendamento rappresenti una vera bruttura dal punto di vista giuridico.

Io l’ho presentato nella supposizione che si voglia mantenere in piedi l’impalcatura dell’articolo 5, mentre dichiaro che sarei pronto a ritirarlo qualora si giudicasse preferibile includere la menzione dei Patti, per esempio, tra le «disposizioni finali e transitorie», in attesa della loro revisione, o qualora, in altra parte qualsiasi del testo, la loro menzione fosse comunque fatta con quelle cautele che sono nello spirito del mio emendamento.

Onorevoli colleghi, dobbiamo vincere questa battaglia della sincerità e dell’onore! Essa è forse la più dura e, certo per me, la più dolorosa a combattere. Ma è certo la più significativa, perché puntualizza la vera essenza dell’umanesimo cristiano di cui sono seguace, e più di ogni altra scopre quello che deve essere il genuino volto della democrazia e della Repubblica.

Nel chiudere il mio discorso mi assale il dubbio di aver troppo drammatizzato il problema. In tal caso io dovrei chiedervi perdono. Voi mi risponderete che anche su questo benedetto articolo 5 non esistono due trincee l’una contro l’altra armata, e che tutto andrà a posto, perché gli animi sono tutti volonterosi, e tutti pronti ad accordarsi.

In tal caso, cancellate pure, dalla vostra memoria, le mie parole sciocche e vane, per tema che esse vi abbiano potuto offendere e possano intralciare la vostra opera di pacificazione della giustizia. (Vivi applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Marchesi. Ne ha facoltà.

MARCHESI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, entro senza preamboli nella zona ardente, come ha detto l’oratore che mi ha preceduto, dell’articolo 5, col proposito di trattenervi il meno possibile in questo inferno. Sul secondo comma dell’articolo 5 ha già lucidamente l’onorevole Togliatti espresso il pensiero del nostro gruppo. A me non resta che aggiungere alcune rapide osservazioni con l’animo di chi questo articolo ha visto nascere, senza avere alcuna responsabilità nella sua genitura. Tale comma, da alcuni autorevoli membri di questa Assemblea, è stato considerato e si considera come una indebita e incauta intrusione; io continuerò a credere che sia dovuto, piuttosto, a mancanza di buona intesa e di fiducia. Ma a tale mancanza di fiducia confido si possa riparare in quest’Assemblea, dove le nostre dichiarazioni hanno più di solennità decisiva e di pubblicità. E spero, come ho sempre sperato, che la democrazia cristiana (questo grande partito politico, che, fra i suoi compiti principali, ha certamente quello di preparare migliori condizioni di convivenza e di coesistenza fra lo Stato e la Chiesa) ci venga incontro nel trovare tale accordo; accordo auspicato dall’onorevole Orlando, dall’onorevole Togliatti, dal presidente nella nostra Commissione dei 75; accordo che noi abbiamo invano, senza fortuna, tentato di raggiungere in quella prima Sottocommissione, dove pure qualche volta ha regnato una così amichevole e sorridente discordia.

I colleghi della prima Sottocommissione sanno che nessuno di noi ha mai pensato, ha mai sognato di chiedere la denunzia dei Patti lateranensi.

Nostro proposito era ed è che la Costituzione, che stiamo per dare alla Repubblica italiana, non sia impegnata fin da principio da norme, le quali continueranno a vivere fino a che le circostanze e la saggezza delle parti insieme lo permetteranno.

Ma i colleghi democristiani hanno voluto che questi Patti entrassero nel tessuto organico e vitale della Costituzione della prima Repubblica italiana.

Onorevoli colleghi, la Chiesa con varietà di aspetti ha sempre proceduto con la civiltà del mondo della quale è stata largamente partecipe; ed ha badato a che l’orologio della storia non suonasse nei suoi riguardi ore troppo avanzate; e, quando questo è avvenuto, ha saputo attendere e ricavare dalla forza e dall’autorità sua secolare la possibilità di riconoscimenti e di conciliazioni.

Nel febbraio del 1929 una conciliazione concludeva uno dei periodi più inquieti della vita politica italiana.

La legge delle guarentigie era servita a consolidare uno Stato attuale: l’Italia unificata con Roma capitale; ed a mostrare al mondo cattolico la indipendenza spirituale della Chiesa.

Quella legge non aveva in sé germi di longevità, perché non aveva capacità di sviluppi. Il dissidio non poteva essere sanato che mediante una legge di conciliazione, la quale nell’interno componesse la pace religiosa, e d’altra parte potesse eliminare ogni possibilità di umiliante intervento di potenze straniere nelle cose italiane.

Nel campo politico quella delle guarentigie fu una provvida legge nazionale, nel campo ideologico fu una legge della borghesia colta, la quale aveva da custodire un passato di due secoli.

Intanto nuove forze si profilavano verso l’avvenire, in quell’800 che fu certamente uno dei più grandi e forse il più grande secolo della storia umana, perché tutti contenne in sé i germi del futuro.

Le classi lavoratrici si avanzavano verso la loro emancipazione, e la borghesia, compresa la borghesia colta, e vorrei dire anche quella massonica, cominciarono a guardare con altro animo verso la Chiesa di Roma.

Già nell’anno 1887 in tutti gli ambienti politici romani si parlava di una legge di conciliazione. I Ministri di allora, Crispi Ministro dell’interno e Zanardelli Ministro Guardasigilli, a Giovanni Bovio che li interrogava, rispondevano riaffermando la nota formula: sovranità dello Stato e libertà della Chiesa. Una formula che cominciava già ad invecchiare dinanzi alle esigenze crescenti di rapporti diretti ed immediati fra lo Stato e la Chiesa.

Noi sapevamo di già, e l’onorevole Orlando ce l’ha ricordato, che la storia del Concordato non comincia a Roma nel 1926 per concludersi nel 1929, protagonista Mussolini, ma era cominciata a Parigi nel 1919, protagonista Vittorio Emanuele Orlando.

NITTI. Era cominciata nel 1917.

MARCHESI. Ringrazio l’onorevole Nitti della rettifica. Nel 1917 dunque, dicevo, ebbe a protagonista l’onorevole Orlando.

Voci. Nel 1917 c’era anche Nitti.

PRESIDENTE. Onorevole Marchesi, non si soffermi alle interruzioni. La sostanza della sua argomentazione rimane inalterata anche se vi è una differenza di due anni.

MARCHESI. Ad ogni modo se l’onorevole Orlando o l’onorevole Nitti non poterono precedere Mussolini, questo fu dovuto alle inquiete acque della politica italiana che impedirono – a quanto si afferma – una serena soluzione della questione romana. E così si dovettero aspettare dieci o dodici anni perché si potesse giungere a quella soluzione.

Di fronte alla Chiesa stava il Governo fascista, l’unico Governo con il quale la Santa Sede potesse trattare; e i Patti furono sottoscritti e la pace religiosa fu conclusa. Il fascismo non tardò ad annunciare ai quattro venti il trionfo della propria saggezza.

E in questa medesima aula, nel maggio del 1929, il capo del Governo, con quel suo fraseggiare fra l’altezzoso e il minaccioso, che finiva spesso con una volgarità, affermava: «Lo stato fascista rivendica in pieno il suo carattere di eticità. È cattolico, ma è fascista, anzi soprattutto, esclusivamente, essenzialmente fascista. Il cattolicesimo lo integra, ma nessuno pensi, sotto la specie filosofica o metafisica, di cambiarci le carte in tavola».

Nel giorno del Corpus Domini, il Pontefice, nel messaggio inviato al cardinale segretario di Stato, precisava argutissimamente:

«Stato cattolico, si dice e si ripete, ma stato fascista. Ne prendiamo atto, senza speciali difficoltà, anzi volentieri, giacché ciò vuole indubbiamente dire che lo stato fascista, tanto nell’ordine delle idee e delle dottrine, quanto nell’ordine della pratica azione, nulla vuole ammettere che non si accordi con la dottrina e con la pratica cattolica, senza di che stato cattolico non sarebbe né potrebbe essere».

Di fronte al fascismo violatore di ogni coscienza e di ogni libertà, la Chiesa cattolica affermava la propria supremazia morale e sopra i delirî di una scomposta tirannia, poneva la stabilità e l’altezza del suo insegnamento religioso.

Ma, onorevoli colleghi, io mi domando: oggi è la stessa cosa? Interpretando il primo articolo del Trattato, quel primo famoso articolo del Trattato, per il quale la religione cattolica apostolica e romana è la sola religione dello Stato, voi, onorevoli colleghi della democrazia cristiana, giungereste alle medesime conclusioni di allora, del 1929? Oggi, in cui l’onorevole La Pira, ferventissima anima cattolica, nel quattordicesimo articolo della sua relazione, propone che ogni cittadino abbia la libertà di esprimere con ogni mezzo le proprie opinioni e i propri pensieri, oggi noi siamo certamente in una diversa situazione.

E voi, se non avete diaboliche riserve mentali – e il diavolo non può venire a patti con voi in nessun modo – vi trovate con noi sulla medesima linea della libertà.

Già la modificabilità dei Patti lateranensi era affermata nell’articolo 44 del Concordato, il quale diceva: «Se in avvenire sorgesse qualche difficoltà sulla interpretazione del presente Concordato, la Santa Sede e l’Italia procederanno di comune intelligenza ad una amichevole soluzione». Si parla di interpretazione, ma noi sappiamo, e la Chiesa sa, e voi sapete, che interpretare significa spesso creare, e l’interprete è spesso un ricreatore. D’altra parte la parola del Pontefice su questo punto conferma la nostra opinione: «Qualche particolare divergenza o dissenso – scriveva il Pontefice al Cardinal Gasparri – in tanta varietà di cose quante contiene il Concordato, altrettanto è inevitabile che rimediabile e componibile». Componibile, dice il testo pontificio. E a qualche elemento di nuova composizione, se non ricordo male, mi pare che assentissero nella prima Sottocommissione – sebbene con lievissimo battere di ciglio – parecchi colleghi della democrazia cristiana; per esempio, riguardo a quel famigerato articolo 5 del Concordato, col quale lo Stato, riconoscendo la incapacità giuridica degli ex-religiosi cattolici, viene ad urtare coll’articolo 7 della nostra Costituzione che contiene una così nobile affermazione di eguaglianza giuridica per tutti i cittadini. E ricordo l’osservazione di uno dei nostri egregi e stimati colleghi di Commissione, il quale diceva: «Se un qualche articolo del Concordato non dovesse corrispondere più ad una vasta parte dell’opinione pubblica, ebbene, il Governo italiano faccia presente alla Santa Sede l’opportunità di una soppressione o di una modificazione. La Santa Sede, non rifiuterà certamente di trattare coi rappresentanti del Governo italiano». Già: ma voi con la inserzione dello articolo 5, date alla Santa Sede il diritto di non trattare, il diritto di chiudere le porte in faccia ai rappresentanti del Governo italiano; e di chiuderle in nome e in onore della Costituzione della prima Repubblica.

Nella seduta dell’11 dicembre l’onorevole Dossetti – non dispiaccia al collega se faccio il suo nome – conveniva che al riconoscimento costituzionale dei Patti in vigore si possa opporre una serie di obiezioni tecniche, quali, ad esempio l’opportunità di alcune affermazioni; opportunità affermata esplicitamente dall’onorevole Moro con uno spirito di larga democrazia.

Egli diceva: «essere intenzione della democrazia cristiana portare il suo contributo perché siano operati nel Concordato quei ritocchi che valgano a rendere i termini della pace religiosa perfettamente aderenti allo spirito liberale e democratico della nostra Costituzione». Ed allora, perché incuneare quei Patti nella nostra Costituzione, se già riconoscete che quel cuneo va levigato?

L’onorevole La Pira, il quale si è fatto mistico anche della realtà concreta, osservava in quel discorso che abbiamo ascoltato con vivo interesse, che i Patti lateranensi esistono, sono una realtà concreta, e bisogna pertanto riconoscerli. Ma, onorevoli colleghi, non tutto quello che esiste si può e si deve riconoscere. La Costituzione deve contenere quelle norme che hanno validità oggi e più ne avranno domani; non quelle che sono già bisognose di cancellatura e di correzione, come voi stessi avete riconosciuto.

Un’altra ragione adduceva l’onorevole Dossetti per sostenere la necessità d’inserire quei Patti, questa: «Quando, sotto il velame di esplicite dichiarazioni di rispetto ci si rifiuta a questo riconoscimento in nome di pretese difficoltà tecniche, i democristiani hanno ragione di sospettare che tale atteggiamento nasconda qualche cosa di più che una semplice ragione di essere, e che ci sia una ragione politica, e che non si voglia dare quella garanzia che i democristiani considerano fondamentale e che chiedono venga affermata nella Costituzione».

Dunque, come dicevo prima: mancanza di fiducia, dunque sospetto che il risorto e rinnovato Parlamento italiano possa riportare, ora, quelle condizioni di inquietudini e di agitazioni politiche che impedirono allora, prima del fascismo, la soluzione della questione romana. Ma, pensare in questo modo, onorevoli colleghi, significa impugnare la validità ed il fondamento popolare e nazionale dei Patti lateranensi; significa non riconoscere che la situazione è mutata oggi; ed è culminata in quello che, con un arguto motteggio, l’onorevole Orlando chiamava il triunvirato; un triunvirato che non è quello di Crasso, Pompeo e Cesare, dei tre capi di esercito e finanzieri che mettevano insieme le proprie forze personali di contro all’autorità del Senato di Roma; che non è un triunvirato De Gasperi, Togliatti e Nenni; ma un Comitato di tre Partiti, il quale si è costituito per effetto di una lotta combattuta insieme, con le armi alla mano, contro l’oppressore; e per effetto di un solenne ed imponente responso popolare.

Ma, che cosa vogliamo noi comunisti? La revoca dei Patti Lateranensi? Sarebbe una stoltezza ed una colpa. Vogliamo la loro modificazione? Nemmeno. A modificarli penseranno, quando sarà opportuno (e credo che l’ora non debba tardare) le due parti interessate.

Noi vogliamo che questi Patti Lateranensi non entrino nell’ossatura e non divengano parte organica del nuovo Stato; vogliamo che essi abbiano vigore come gli altri trattati, con quel senso di speciale osservanza che devono avere per noi italiani.

Questa discussione non l’abbiamo voluta noi. Voi l’avete voluta: nessuno di voi poteva immaginare che sarebbe rimasto avvolto nel silenzio il tentativo di inserire quei Patti nella Costituzione repubblicana d’Italia.

Con quei Patti, certamente una nuova storia è incominciata nei rapporti fra la Chiesa e lo Stato italiano. Noi vogliamo che quella storia non si arresti; noi vogliamo che quei Patti siano mantenuti, anzi, siano resi più validi in un’aria più limpida di libertà e di sincerità. Di sincerità, colleghi democristiani. Credeteci: sarà meglio per tutti. Da questi banchi nessuna offesa potrà venire alle anime religiose ed ai principî della solidarietà umana, nessuna offesa.

Io comprendo un liberalismo anticomunista; non comprendo un cristianesimo anticomunista. Capisco il liberale, il quale afferma che la libertà economica è fattore essenziale, indispensabile di progresso sociale ed individuale; non comprendo il cristiano ed il cattolico, il quale affermi che senza la professione di quella determinata religione positiva, non si possa vivere onestamente, e generosamente.

Una voce a destra: Nessuno lo nega! (Commenti al centro).

MARCHESI. Voi dite: nessuno lo nega. Ma è certo un problema grave questo per voi: «come si possa vivere cristianamente, senza professare il Cristo». Mistero angoscioso; ma quel mistero accettatelo, come lo accettava il sommo dottore della Chiesa.

Fra questi nostri banchi voi trovate i cristiani professanti; gli altri, quanti viviamo nel buio, ma viviamo onestamente, siamo i cristiani partecipanti.

Adopero parole tomistiche.

Non ponete, onorevoli colleghi, barriere fra il comunismo ed il cristianesimo. Mi rivolgo a voi che avete dottrina e coscienza. Non ponete barriere fra il comunismo ed il cristianesimo.

Da molti pulpiti si sente dire: essi, i comunisti, sono i nemici della civiltà. Un giorno, non so quanto lontano, da quei medesimi pulpiti si dirà: essi avevano ragione! (Applausi a sinistra Commenti a destra).

Ricordate, onorevoli colleghi, le magnanime parole che un francese, il marchese Melchior de Vogué scriveva allora nel 1889, allorché un pellegrinaggio francese di quattromila operai venne al cospetto di Leone XIII. «Mi pareva, egli scriveva, che fossero entrati allora per la prima volta in San Pietro i rappresentanti del nuovo potere sociale, i nuovi pretendenti all’impero, i soggetti del potere, entrati, come una volta gli antichi imperatori Carlo Magno, Oddone e Barbarossa, per ricevere dal Pontefice la consacrazione e la investitura».

E la riceveranno, onorevoli colleghi democristiani, la riceveranno mercé l’opera dei vostri migliori, la consacrazione e la investitura, i lavoratori dell’Italia e del mondo. Soggetti del potere, i lavoratori. Appunto: e ha ragione l’onorevole Togliatti quando propone di scrivere nel primo articolo della Costituzione quelle due semplici e grandi parole, che non sono parole comuniste, che potrebbero e dovrebbero essere parole piene di profondo sentimento cattolico: Repubblica di lavoratori. Sì, Repubblica democratica di lavoratori; sarà questo il nuovo grande titolo di nobiltà che noi potremo dare al popolo italiano. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.25, è ripresa alle 18.45).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rossi Paolo. Ne ha facoltà.

ROSSI PAOLO. Onorevoli colleghi, nelle disposizioni generali del Progetto manca stranamente una dichiarazione che è scritta invece a capo di quasi tutte le Costituzioni: l’affermazione dell’unità e della indivisibilità della Repubblica; e ciò mentre si introduce l’autonomia regionale e si pone per la prima volta in termini concreti ed attuali un problema sostanzialmente nuovo.

So bene che, confinata in un lontano inciso dell’articolo 106, la frase «Repubblica una e indivisibile» esiste nel progetto, ma noi dobbiamo dichiarare subito che quella modesta forma incidentale non ci basta e non ci assicura. Appunto perché l’ordinamento regionale, sul quale avremo naturalmente anche la nostra parola da dire, non possa mai nel futuro intendersi in senso indipendentista, federalista o quasi federalista, riteniamo che l’affermazione dell’unità e indivisibilità della Repubblica debba trovar posto nelle disposizioni generali e precisamente nell’articolo 1. Laddove si dice: «L’Italia è Repubblica democratica», sarà bene proclamare solennemente, di fronte al serpeggiare e talora all’esplodere di disintegratrici forze anti unitarie, che l’Italia è Repubblica democratica una e indivisibile, indivisibile nella solidarietà della sua economia, che sarà tanto più florida, nei suoi fini politici, che saranno tanto più facilmente raggiunti, nella sua indipendenza, che sarà tanto più sicura, quanto più e meglio il Paese, amministrativamente decentrato e snello, si manterrà nazionalmente unitario e compatto.

Per rispondere subito ad un’affermazione fresca dell’onorevole Marchesi, mi sembra quasi superfluo di dichiarare che il nostro gruppo accetterà la formula: «Repubblica democratica dei lavoratori». E come potrebbe essere diversamente, se siamo fieri di intitolarci appunto «Partito Socialista dei Lavoratori Italiani»? Questa formula, prima di essere un’affermazione politica, è il riconoscimento di una imponente, di una immanente, di una massiccia verità storica. L’Italia è un Paese di lavoratori, dove tutto si è fatto e si farà con il lavoro. Nulla con preziose materie prime vendute dall’estero, nulla con fortunate guerre di conquista, nulla attraverso mantenute posizioni egemoniche. Tutto per mezzo del lavoro, e soltanto col lavoro, dal pane che abbiamo sempre misuratamente mangiato, alla gloria senza confini della nostra civiltà artistica. Con la formula «Repubblica di lavoratori» si vogliono riaffermare, insieme, il carattere pacifico della Repubblica, l’illimitata fiducia nelle risorse del lavoro, l’obbligo di ogni cittadino di prestare l’opera sua per la causa comune.

Ma, sia ben chiaro, per rispondere alle preoccupazioni manifestate da alcuni oratori, dall’onorevole Crispo ieri, dall’onorevole Russo Perez poco fa, che i concetti «lavoro» e «lavoratori» sono intesi da noi nel senso più ampio, nel senso più umano. Non è la Repubblica degli operai e dei contadini quella che concepiamo, né quella degli operai e dei contadini più i tecnici e i professionisti; ma una Repubblica nella quale abbiano cittadinanza anche le attività non meramente economiche, una Repubblica, colleghi democratici cristiani e colleghi liberali, in qui ci sia posto per tutti i cittadini partecipanti utilmente alla vita nazionale.

Talune critiche, e non del tutto infondate, sono state mosse agli articoli 6 e 7 per la imprecisione del loro contenuto, soprattutto per gli impegni che viene ad assumere la Repubblica senza che le siano dati, contemporaneamente, dalla Carta costituzionale, i mezzi per assolverli degnamente. Noi non siamo così ingenui da non comprendere la serietà dell’argomento, ma pensiamo che gli articoli debbono rimanere sostanzialmente come sono e dove sono e ci opporremo a che siano trasferiti in eventuali preamboli. Vogliamo che il legislatore li abbia fissi davanti agli occhi, quali scopi e condizioni della sua attività.

E sono adesso alla zona infiammata della Costituzione. Ma, colleghi della democrazia cristiana, è privilegio di coloro che si sentono, almeno su un punto, puri di cuore, incedere immuni per ignes. E affronto, senza timore, la strada di questo fuoco.

Risuonava qui l’altra sera la parola meditata di Benedetto Croce che interruppe – non per caso, ma per costruire un ponte fra il passato e l’avvenire – il suo diuturno lavoro di filosofo e di storico; risuonava la parola di Benedetto Croce, rappresentante di quel pensiero liberale che dal 1870 al 1915 diede all’Italia una struttura unitaria ed un volto civile. Egli ci esortava, con la sobria sua critica all’articolo 5 del progetto, a non insistere in quel confessionalismo apertamente professato nello Statuto del 1848, scomparso di fatto e di diritto nel 1870 con la breccia di Porta Pia e con la legge delle Guarentigie, e tornato a galla, sotto il segno del più scettico e cinico opportunismo, ad opera della dittatura fascista. Confessionalismo che si radica tuttavia nel nostro Progetto, come ci hanno dimostrato ampiamente, da opposti punti di vista, il liberale onorevole Crispo e il neo-gallicano e forse giansenista…

BRUNI. Cattolico.

ROSSI PAOLO. …anche i giansenisti sono cattolici, onorevole Bruni. E come ci ha dimostrato, meglio di tutti, nella sua infuocata orazione, con argomenti a contrariis, l’onorevole Riccio democristiano.

Il Partito socialista dei lavoratori, che si vanta di riaffermare, onorare, e difendere quanto c’è di vivo e di eterno nello spirito liberale, ritiene invece che indispensabile presupposto della nostra Costituzione debba essere l’intrinseca laicità. Niente di più lontano da noi dell’anticlericalismo vecchio e rinascente. Se si fa accusa a qualche partito di sinistra di sostenere taluni giornali a grande tiratura che io non leggo, non per timore della scomunica del Santo Uffizio, ma perché francamente mi dispiacciono e mi offendono, spero che sia ben chiaro che il nostro gruppo politico non ha con essi radici comuni. L’anticlericalismo del vecchio Partito socialista era rappresentato da quelle correnti borghesi e massoniche… (Interruzioni).

TONELLO. Era rappresentato dal popolo lavoratore. (Commenti).

ROSSI PAOLO. Ci saranno stati anche degli operai anticlericali e certamente il nostro amico e compagno Tonello è un operaio nel senso più nobile della parola; ma lasciami dire, amico e compagno Tonello, lasciami dire questo: che il vero, il grossolano, l’incorreggibile anticlericale della brutta maniera nel nostro vecchio partito, l’uomo incapace per trivialità dell’animo a intendere comunque l’esigenza religiosa, l’esigenza dello spirito, fu proprio il promotore, il sottoscrittore dei Patti Lateranensi, Benito Mussolini. (Commenti Interruzioni).

TONELLO. Non importa.

ROSSI PAOLO. Nella coscienza dell’amico Tonello i sentimenti anticlericali sono ancora vivi; non lo sono più nella mia. Non essere, amico Tonello, clericale verso di me pretendendo che io la pensi esattamente come te e non costringermi ad essere confessionale nell’anticlericalismo. (Commenti Interruzioni).

TONELLO. Tuo padre era anticlericale e anche socialista. (Commenti).

ROSSI PAOLO. Vi sono nel nostro gruppo degli amici e dei compagni illustri che, senza frequentare i sacramenti, hanno fatto con spirito religioso il pellegrinaggio di Port Royal e tutti, se mi permette l’amico Tonello, rispettiamo quanto ha di saggio e di buono la morale cattolica…

TONELLO. Cristiana, sì, cattolica no.

ROSSI PAOLO. …che ha nutrito di sé la tradizione, e la dottrina cristiana, che ha alimentato di sé la nostra storia ed il nostro carattere.

Né si può certo parlare in altro senso di avversione o di contrasto specifico col clero italiano.

Taluno si è doluto – e non del tutto a torto – anche in quest’Aula, che parroci e curati abbiano turbato la coscienza dei fedeli, giovandosi di mezzi religiosi per fini politici, confondendo così il divino coll’umano, il cielo colla democrazia cristiana e l’inferno col partito comunista.

In realtà, salvo le eccezioni di quello spirito che chiamerò, per intenderci, cremonese, la condotta del clero italiano durante le persecuzioni antiebraiche, la lotta partigiana e l’occupazione tedesca, è stata tale, da fare superare, in parte, l’antico vallo e sostituirlo con un legame di solidarietà e di simpatia; solidarietà e simpatia, che noi, sensibili ai valori di questa natura, riaffermiamo di buon grado.

E qui vi domando il permesso di una digressione personale: vorrei esprimere il mio rispetto di laico verso la religione cattolica e la mia gratitudine per l’indicibile conforto tratto nel ventennio. fascista non già dall’opera politica della Curia romana o del cardinale Gasparri, ma dagli scritti immortali dei Padri e dei Dottori della Chiesa, esaltatori della libertà…

TONELLO. Specialmente quando si tratta di strappare i voti (Commenti).

ROSSI PAOLO …da Ignazio Antiocheno, esposto volontariamente nella lotta contro il fascismo di allora, che si chiamava cesarismo, ai denti delle fiere, per essere, come frumento del Signore, macinato e fatto farina più pura, a Tommaso d’Aquino, ricordato testé dal dotto collega onorevole Marchesi, teorizzatore del diritto all’insurrezione (Interruzione dell’onorevole Tonello).

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, la prego di non interrompere!

ROSSI PAOLO. La revisione completa, sostanziale dell’articolo 5, se non, come avremmo desiderato, l’introduzione di un’affermazione laica nell’articolo 1 della Costituzione, non corrisponde ad un’istanza anticlericale.

La revisione, ad onta della difesa d’ufficio del nostro illustre e caro Presidente onorevole Ruini, del quale dirò che mi pare inesatto e sgarbato averlo chiamato il Licurgo del confusionismo italiano, ma che mi pare lecito chiamare il S. Giuseppe di questa Costituzione, perché, per molti articoli, la sua paternità è puramente putativa, così come d’ufficio mi sono parse le sue difese, la revisione, ad onta di quella autorevole difesa d’ufficio, è necessaria.

È necessaria sotto un profilo completamente diverso, ed anzi in un certo senso opposto, ai motivi del vecchio clericalismo. È necessaria la revisione proprio per mantenere quella pace religiosa a cui tutti aspiriamo, e che sarebbe per l’appunto compromessa dal passaggio sic et simpliciter dal Concordato fascista nella nostra Carta costituzionale. È necessaria per impedire la rinascita di quel sentimento inutile e pericoloso che si chiama anti-clericalismo.

Ho assistito ad un interessante dibattito poco fa tra l’onorevole Marchesi e l’onorevole Nitti. L’onorevole Marchesi attribuiva il primo atto di nascita del Concordato e dei Patti Lateranensi ad Orlando, Parigi 1919. L’onorevole Nitti insorgeva dicendo: no, Nitti, Roma 1917. Mi sia lecito introdurmi nel contrasto per dire: non Orlando Parigi 1919, non Roma Nitti 1917, ma Vienna 1914-15, Francesco Giuseppe e la Cancelleria austriaca!

Si esaltano i Patti Lateranensi come una magnifica conquista dello Stato italiano. Ebbene diciamo qui quello che durante la dittatura fascista era pericoloso dire pubblicamente: fra gli scopi di guerra degli imperi centrali vi era appunto la ricostituzione di un piccolo stato teocratico temporale in Roma.

E Francesco Ruffini, esaminando i Trattati Lateranensi e paragonandoli articolo per articolo, virgola per virgola, col progetto austro-germanico, trovò che il Concordato del 1929 non è diverso da quello che sarebbe stato imposto all’Italia sconfitta, per sua umiliazione, dai due Kaiser.

Sarà certo deplorevole per voi, colleghi democristiani, ma sembra anche a me deplorevole il pullulare di libelli antireligiosi per tutta la penisola. Se con debole maggioranza, né potrebbe essere altrimenti, l’Assemblea votasse quegli articoli che danno tono confessionale al documento e che sono, in buona sostanza, i medesimi che lasciarono morire lontano dalla sua cattedra Ernesto Buonaiuti e avrebbero messo in un tremendo imbarazzo il vostro stesso antesignano don Romolo Murri, allora l’Assemblea creerebbe in Italia un decennio di lotta religiosa, inutile, demoralizzante, capace da sola di stremare il Paese (Applausi a sinistra), che ha bisogno invece di conservare intatte ed unite le proprie forze, per ascendere l’erta travagliata della sua rinascita.

Ve lo ha accennato con grande autorità l’onorevole Nitti; vero è che l’onorevole Nitti passa per un profeta di sciagure. Ma ve lo ha fatto capire anche, con la voce dell’antica saggezza, Vittorio Emanuele Orlando, al quale non si potrebbe certo rimproverare di essere un pessimista che veda tutto nero.

Intendiamoci: noi non vogliamo, come il vecchio cattolico Odilon Barrot ricordato nella discussione dall’amico onorevole Lussu, che la legge sia atea. Noi prendiamo atto volentieri che gli italiani sono naturaliter christiani e, con il Guizot e il Lamartine, intendiamo che la legge segua e interpreti questa natura cristiana del popolo italiano, introducendo nelle leggi umane quanto più si può del senso originariamente cristiano della giustizia. E volutamente io dico «cristiano» della giustizia, perché noi non siamo dei socialisti cosiddetti scientifici, per cui il valore umano giustizia possa fare a meno del valore trascendente carità.

Ma non possiamo nemmeno lontanamente pensare che, mentre tutto il mondo attende con ansia nata dal tormento il trapasso da una concezione liberistica a una concezione solidaristica dello Stato, il nuovo Stato italiano segni, per una parte di tanto rilievo, il regresso dallo Stato liberale al vecchio Stato teocratico. Non con diverso nome, infatti, si dovrebbe chiamare lo Stato che l’onorevole La Pira – mi dispiace che non ci sia questo collega che non si può avvicinare senza subire il fascino della sua nobile personalità di studioso e di asceta – ci ha fatto intravedere, nel suo importante e, direi, grave discorso politico.

Non sono fra coloro che hanno trovato fuori di luogo il gesto ineffabile del divino olocausto con cui l’amico onorevole La Pira ha chiuso ispiratamente le sue nobili parole. Tutt’altro. Quel gesto solenne, nato spontaneamente da un fervente cristiano, vi assicuro che mi ha toccato. Ma esso ha costituito per me un’illuminazione politica: quello Stato che l’onorevole La Pira ed i suoi amici propugnano è uno Stato sicuramente confessionale, uno Stato sotto il segno della Croce.

Io accetto con deferenza quel segno, ma bisogna anche preoccuparsi delle minoranze non cattoliche in Italia.

In questo, o amici, è vero quello che Kant ha detto: la dignità e la libertà di un uomo sono la dignità e la libertà di tutti gli uomini. Debbo, perciò, insistere ancora un momento nel richiamare all’Assemblea alcuni principî fondamentali.

Essi sono ancora quelli fatti valere in un secolo di polemiche da tutti gli uomini politici e pensatori illuminati del nostro Paese: Non giova allo Stato l’etichetta confessionale, né giova alla Chiesa la protezione del braccio secolare.

Ci fu un momento, nella storia contemporanea della Chiesa cattolica italiana, in cui essa apparve – e fu veramente – grande. È a quel momento che si deve il rifiorire del senso religioso, a quel momento che si deve l’elezione dei 207 Deputati democratici cristiani, a quel momento di contrapposizione, di lotta, di libertà. Non certo ad altro momento in cui un gruppo di Vescovi concordatari si recò per le vie di Roma ad offrire la croce pastorale per la guerra di Abissinia!

Stato laico non vuol dire menomamente Stato ateo, e nemmeno, nel nostro modo di pensare, Stato areligioso. «Essere laico, scriveva il Lavisse – e noi concordiamo – non significa limitare il pensiero umano all’orizzonte visibile, né interdire all’uomo l’idea della perpetua ricerca di Dio; significa rivendicare per la vita presente tutto lo sforzo degli uomini». Per noi laicità significa soltanto posizione dei valori religiosi nella loro sede naturale, senza la pericolosa e corruttrice contaminazione con i poteri dello Stato. Lasciatemi esprimere, parafrasando il detto lapidario di un grande e sincero cattolico, il Montlosier, il nostro esatto pensiero: noi non siamo atei e vogliamo professare pubblicamente la nostra fede in Dio; non siamo anarchici e vogliamo da onesti cittadini obbedire alle leggi dello Stato. Ciò che non vogliamo è una legge che ci obblighi a credere in Dio con la minaccia dei carabinieri (o con la perdita della nostra cattedra, se siamo sacerdoti) e un Dio che ci obblighi ad obbedire alle leggi con la minaccia dell’inferno. Noi contiamo, nella nostra proposta per la revisione dell’articolo 5, sulla completa e naturale solidarietà di tutta la sinistra e di quei liberali che non vogliono rinnegare la loro eredità.

Ho sentito – domando perdono se riferisco un discorso di corridoio – sussurrare di un compromesso fra democristiani e comunisti. Ma quando, l’altra sera, io vedevo l’onorevole Togliatti, con gli occhi acuti dietro le lenti, l’accento vagamente piemontese, mi pareva in questa luce di acquario, in questa penombra, di vedergli spuntare la barba a collare del Conte di Cavour; e penso che egli voterà – anche per non tradire i manifesti che lo pongono tra Cavour e Mazzini – appunto come egli sa, nel suo vivo senso della storia, che voterebbero oggi Mazzini e Cavour. Ma noi nutriamo qui l’audace speranza di persuadere anche i democratici cristiani. Crediamo – e dobbiamo crederlo – sia sincera l’affermazione, certo autorizzata, di Igino Giordani nel Popolo dell’11 marzo: «Sabato l’onorevole Nitti, parlando alla Costituente, lesse il primo articolo della Costituzione francese, e calcò, con ovvia intenzione, sull’aggettivo «laïque» (laica), scoprendo una particolare preoccupazione, ribadita ieri dall’onorevole Nenni. A noi essa pare più che eccessiva, poco fondata, perché la Repubblica italiana è laica quant’altra mai…

«Se laico designa distinzione dei due poteri, nella sovranità di ciascuno entro la propria sfera, il regime italiano è laico in una maniera degna della sapienza giuridica degli italiani».

Orbene, se la Repubblica vuole essere laica, secondo la vostra stessa intenzione, aiutateci a togliere dal Progetto le affermazioni e le norme che ne fanno chiaramente una Costituzione confessionale.

L’onorevole Tupini ha invocato il nome e l’autorità di un uomo politico francese – di secondo piano, a dire la verità – di Duvergier de Hauranne; ma se l’onorevole Tupini accoglie il pensiero di quell’uomo politico cattolico, deve accettarlo per intero. Ebbene, nella discussione del 1816 alla Camera francese, il de Hauranne sostenne ciò che noi oggi vogliamo: la libertà e l’indipendenza dello Stato da ogni ombra di soggezione religiosa.

Si è rinunciato, da un forte gruppo di Deputati, a chiedere la inclusione, nell’articolo 1° della Costituzione, di quella dichiarazione di laicità che con voto unanime dei cattolici francesi è stata premessa alla Carta costituzionale della quarta Repubblica.

È vero che la Francia cattolica ha tutta una grande tradizione ultramontanista e gallicana, mentre l’Italia è posta sotto la vasta ombra di San Pietro. Ebbene, anche con il vostro concorso, onorevoli colleghi democristiani, e nel supremo interesse dei più veri ed alti valori religiosi, facciamo in modo che quella vasta ombra protegga e conforti il cuore dei cattolici italiani, ma lasci indipendente e al sole, nella pienezza della sua vitale, sovrana, libertà e dignità, lo Stato italiano. (Applausi a sinistra Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Jacini. Né ha facoltà.

JACINI. Onorevoli colleghi, l’ardente questione implicita nell’articolo 5 del nostro progetto di Costituzione, ha trovato alimento in una discussione vivace, sotto i più diversi aspetti: giuridico, politico, tattico, sentimentale; e, se me lo consente l’amico e compagno d’esilio onorevole Marchesi, anche sotto l’aspetto della più sacra ed edificante eloquenza quaresimale.

Io mi propongo di portare una pietruzza a questo edificio che deve poi essere, in fondo, l’edificio della pace religiosa d’Italia, da un punto di vista quasi esclusivamente storico; poiché i venti anni che il regime fascista, espellendomi da quest’aula, mi ha concesso di dedicare agli studi, li ho consacrati posso dire esclusivamente a questo problema dei rapporti fra Chiesa e Stato nel nostro Risorgimento; pur sono in grado di recare un modestissimo contributo al riguardo, né credo poter essere sospettato di intolleranza clericale o di reazionarismo, se penso che il mio nome riecheggia una tradizione cattolico-liberale congiunta ad una delle più liberali soluzioni proposte alla questione romana, e se penso che i miei, dirò così, debutti negli studi religiosi furono fatti in quel cenacolo dal Rinnovamento milanese, che non passava certamente per una torre dell’ortodossia ecclesiastica di quei tempi.

E non ritengo neppure che i nostri fratelli separati, delle altre confessioni religiose, vorranno vedere nella mia parola alcuno spunto di intolleranza, se ricorderanno aver io dedicato una parte dei miei studi proprio alla biografia di un loro fratello, il riformatore toscano dell’800, Piero Guicciardini; con un lavoro che ha avuto questa singolare fortuna, di essere elogiato contemporaneamente dall’Osservatore Romano e dalla Rivista valdese. Il che dimostra, se non altro, lo spirito di oggettività al quale ho cercato di attenermi.

Questi precedenti miei, se da una parte mi permettono di credere che le mie parole saranno ascoltate con benevolenza, dall’altra mi fanno però temere di non essere il più sicuro interprete della decisa e disciplinata corrente del mio Gruppo; onde, a buoni conti, dichiaro di parlare a titolo personale, per qualsiasi dato che io potessi citare od argomento che potessi svolgere.

Mi sembra che non siasi incisa sufficientemente la distinzione fra i quattro aspetti della questione religiosa, dei rapporti fra Chiesa e Stato, quali risultano dal nostro articolo 5, e quali sono regolati dagli stessi Patti Lateranensi.

Si è parlato qui da alcuni – per esempio dall’onorevole Crispo, il quale ha alluso alla legislazione matrimoniale riferendosi ai tribunali dello Stato del Vaticano – come se tali rapporti fra Chiesa e Stato in Italia fossero regolati dal Trattato del Laterano. Il che non è: il Trattato del Laterano è un Trattato diplomatico che si informa direttamente al diritto internazionale e si riferisce alle relazioni fra lo Stato italiano e la Santa Sede. Vi è poi il Concordato, che riguarda i rapporti fra Stato e Chiesa in Italia, rapporti di carattere pubblico esterno, ma non di carattere internazionale.

In terzo luogo deve considerarsi la posizione dei culti acattolici, che sono regolati da una legge interna dello Stato italiano. E vi sono infine i bisogni, i desideri, le aspirazioni, le tendenze, i diritti dei cittadini italiani, in quanto cattolici; i quali costituiscono materia di legislazione interna, in cui la Santa Sede non interviene, se non come spettatrice benevola, non certo come parte in causa.

Quando noi domandiamo la difesa della famiglia o del vincolo matrimoniale o la libertà della scuola, non lo facciamo in omaggio ad alcuna potenza straniera, e neppure ad alcuna potenza italiana, lo facciamo in omaggio alla nostra coscienza di liberi cittadini italiani.

Mi sembra che questi quattro aspetti debbano essere tenuti molto distinti e che occorra esaminarli particolarmente, anche sotto il punto di vista storico.

Anzitutto il Trattato: Il Trattato Lateranense dell’11 febbraio 1929 elimina il famoso dissidio, iniziatosi molto prima del 20 settembre 1870; sancisce definitivamente l’unità d’Italia, pone fine alla questione Romana.

L’Italia, nel suo millenario processo di unificazione, si era sempre trovata davanti a questo ostacolo, di uno Stato, situato al centro della penisola e diverso da tutti gli altri, perché appannaggio temporale di una potenza spirituale, base nazionale di un potere internazionale, il quale potere, a sua volta, aveva per altri aspetti, influenza su tutto il resto della penisola.

Questo fatto (è inutile che lo stiamo a discutere) la polemica anticlericale laicista ce lo ha dipinto sempre come una tremenda disgrazia per il nostro Paese.

Noi cattolici pensiamo invece che fosse un grande privilegio ed onore quello di avere, in casa nostra, la sede del più alto potere del mondo. Noi abbiamo sempre pensato che, dopo l’impero romano, l’Italia è stata grande appunto grazie alla irradiazione di questo potere. Ma, comunque lo si volesse discutere e giudicare, il fatto esisteva e rappresentava un ostacolo alla compiuta unità territoriale del Paese; è questa una circostanza innegabile che era giuocoforza prendere in considerazione e cercare di risolvere.

Il Trattato Lateranense ha risolto il problema con un atto bilaterale, mentre tutti siamo d’accordo – la storia l’ha dimostrato – che non poteva esserlo con un atto unilaterale, per quanto sapientemente redatto, come la legge delle guarentigie.

Lo ha risolto con un atto bilaterale, in un momento storico particolare. Questo atto reca una firma odiosa, ma esso non è, nella sua soluzione pratica, diverso da quello che sarebbe stato se fosse stato trattato in un altro clima.

Evidentemente, nella formulazione dell’atto stesso si può sostenere che un tale divario esista. È certo che se l’onorevole Orlando avesse avuto la ventura di concludere un accordo con la Santa Sede, non avrebbe creato un vero e proprio Stato della Città del Vaticano. Lo avrebbe chiamato diversamente, perché non era nelle nostre tradizioni liberali ammettere in seno allo Stato italiano neppure un pollice di territorio che non appartenesse alla sovranità dell’Italia.

Ma, in linea di fatto, questo Stato Vaticano che tutti i giuristi sono concordi nel qualificare sui generis è molto minore, come perimetro, di quella parte di territorio italiano che il Governo liberale di Giovanni Lanza, invadendo lo Stato pontificio, aveva lasciato a disposizione della Santa Sede; esso non comprende infatti neppure quella città leonina che il Cardinale Antonelli pregò personalmente il generale Cadorna di occupare, pochi giorni dopo la breccia di Porta Pia.

Quindi, come risultato pratico, il Trattato del Laterano effettivamente conclude, e felicemente chiude, il lungo travaglio della nostra unità e della nostra indipendenza, e lascia a noi tutto il vantaggio e tutto il vanto di albergare nel nostro seno la più alta potenza spirituale del mondo senza sottoporci ad alcuno degli inconvenienti che nei passati secoli si potevano temere come derivanti da un tale circostanza.

Sotto questo punto di vista, pertanto, ritengo che nessun Governo futuro della Repubblica Italiana vorrà porre in dubbio, né scuotere alla base questo patto, che garantisce all’Italia una posizione di prestigio in Europa e nel mondo senza rappresentare per l’unità della Patria il più lieve e più lontano pericolo.

Quelle difficoltà che sono state affacciate da alcuni come incongruenze derivanti dalla incorporazione di questo trattato in seno alla costituzione Repubblicana mi sembrano, me lo permette l’onorevole Crispo, di scarsa importanza, perché se è vero, ad esempio, che non vi sarà più un potere regio tenuto a registrare le onorificenze araldiche concesse dalla Santa Sede, ciò vuol dire che la Santa Sede si troverà semplicemente, rispetto al Governo italiano, nelle Condizioni di tutti gli altri Stati, i quali conferiscono titoli nobiliari che per valere in Italia devono essere sottoposti all’omologazione del nostro Governo. È questione sulla quale ci si può intendere e di così scarso rilievo, che mi duole che alcuno vi si sia soffermato.

Quanto al riconoscimento ufficiale della Repubblica italiana da parte della Santa Sede, ho proprio sott’occhio un numero degli Acta apostolicae sedis del 28 gennaio 1947; esso riporta il decreto 26 novembre 1946 della Sacra Congregazione dei Riti che sostituisce a tutti gli effetti la preghiera pro-repubblica alla preghiera pro-rege prescritta dal Concordato; il che significa il più ampio e completo riconoscimento del nuovo stato di cose da parte della Suprema autorità ecclesiastica.

E veniamo al Concordato. Il Concordato costituisce un fatto ben altrimenti complesso: esso fa nascere una questione che ho sentito or ora riaffacciare dall’onorevole Rossi e riecheggiare nelle parole di molti altri colleghi; la questione cioè, se un regime di accordi concordatari sia preferibile alla separazione amichevole tra Chiesa e Stato, alla neutralità, assoluta dello Stato, alla religione considerata come cosa privata: Privatsache, secondo la formula giuridica tedesca.

Orbene a me sembra il caso di considerare una siffatta questione con uno spirito di estremo realismo. Io posso arrivare a concedere – e appunto per questo ho fatto appello alla mia responsabilità personale perché non voglio impegnare che me stesso – posso arrivare a concedere, in linea teorica e dottrinale, la superiorità d’una amichevole e rispettosa separazione dei poteri, di una libertà di coscienza non garantita né vincolata da alcun accordo fra Chiesa e Stato; di una Chiesa inquadrata semplicemente nel diritto comune; posso ritenere che ciò rappresenti qualche cosa di desiderabile, anche perché offrirebbe alla Chiesa stessa enormi possibilità di sviluppo. Ricordo a questo proposito di avere conosciuto ai tempi della mia gioventù uno dei nostri più illustri giurisdizionalisti, il senatore Carlo Piola Daverio; ottimo cattolico, ma giurisdizionalista feroce, egli temeva una cosa sola: che la Chiesa in Italia venisse trattata come cosa privata; perché, diceva, da quel momento, la Chiesa sarà onnipotente e ci schiaccerà tutti.

Si può anche pensare così; ma la questione, in Italia e nel mondo occidentale, non si pone in questi termini.

Non vi è mai stata, non vi è, e presumibilmente non vi sarà mai, la possibilità di separazione assoluta tra i due poteri, in un Paese dell’occidente europeo e in Italia in modo speciale. Non vi è mai stata e non vi sarà mai, perché l’europeo non è divisibile. La Chiesa si può combattere, la Chiesa si può perseguitare; con la Chiesa si può patteggiare; ma la Chiesa non si può ignorare; è questo un dato di fatto che diciannove secoli di storia confermano. Bisogna, cari amici, spogliarsi dagli schemi della storia ufficiale, quale ci è stata propinata dai nostri buoni maestri anticlericali di un tempo. Questi, sulla scorta di quella mente acutissima ma unilaterale che fu Giuseppe Ferrari, ci rappresentavano tutta la Storia d’Italia come un progressivo affermarsi del laicismo contro il potere ecclesiastico, come un progressivo liberarsi dello Stato italiano, della vita civile italiana, dal dominio e dall’oppressione della Chiesa: essi arrivavano persino a vedere una vittoria dello spirito laico in quella che era una mostruosa deviazione dell’autorità ecclesiastica; nella Legazia Apostolica di Sicilia, nel Tribunale ecclesiastico della monarchia, nel Re legato a latere perpetuo del Papa, il cui ritratto era posto, come ancora l’ho visto io, in cornu Evangelii sulla cattedra episcopale nella Cappella palatina di Palermo.

L’enorme sopruso diventava nel loro ingenuo racconto una affermazione di laicismo e di libertà di pensiero.

Non avete bisogno di credere a me. Faccio appello alla memoria cara e venerata d’un uomo che era una grande autorità in questo campo: alla memoria di Francesco Ruffini – che molti di voi avranno certamente conosciuto – grande maestro di scuola liberale, il quale ha scritto un mirabile libro sulla libertà religiosa – storia della idea – che si conclude proprio dimostrando come la libertà di coscienza, il laicismo, lo Stato neutro non siano mai esistiti in Italia, anzi in Europa; e come la coscienza religiosa individuale non abbia trionfato se non in momenti, fuggevolissimi, di provvisorio equilibrio tra i due poteri.

La storia, dopo l’affermazione superbamente privatistica del primissimo Cristianesimo, all’epoca dei martiri, si riduce tutta qui: il potere civile, il potere delle Corone, con argomentazioni teologiche, servendosi di proprii teologi, cerca di strappare alla Curia il maggior numero possibile di prerogative ecclesiastiche; la Curia a sua volta resiste a tale pretesa, e quando si impersona in Papi geniali ed ardimentosi arriva all’affermazione d’un superpotere civile della Santa Sede, al tentativo di attribuire a questa una assoluta supremazia anche in materia civile.

Ma in tutto questo, che ha a che fare il pensiero laico, la libertà di coscienza, la liberazione del pensiero umano dalle pastoie del clericalismo?

Teologi da una parte, teologi dall’altra (sono ecclesiastici, per la maggior parte, gli eroi del così detto libero pensiero, da Giordano Bruno a Paolo Sarpi); Corone da una parte, Tiara dall’altra, contesa che va dalle lotte medioevali delle investiture alle lotte giurisdizionalistiche della Rinascenza, alle controversie della Riforma.

Liberazione del pensiero laico, nel periodo della Riforma? Ma, amici miei, la Riforma è Lutero che invoca il braccio secolare per soffocare nel sangue la rivolta dei contadini; è Calvino che istituisce a Ginevra una delle più perfette teocrazie che la storia ricordi; è Enrico VITI, che non si accontenta di tagliare la testa a Tommaso Moro, ma perseguita con squisite torture tutti gli aderenti alle confessioni evangeliche difformi dalla sua. E giù giù si arriva fino allo Stato-Patria dei principi assoluti del XVII secolo, a quella dei Sommi illuministi, ai Tannucci, ai Pombal.

Molti di voi avranno letto le interessantissime memorie d’uno di quegli avventurieri del XVIII secolo, che sono passati un po’ per tutte le strade, le memorie del conte Gorani, di recente pubblicate dal nostro collega ed amico senatore Casati. Quest’uomo, spregiudicatissimo, si trovava in Portogallo all’epoca della persecuzione antigesuitica del marchese di Pombal, persecuzione non sanguinaria, ma a modo suo veramente feroce; e attraverso le pagine dei suoi ricordi ne sentiamo tutto l’orrore. Questa persecuzione si è estesa da un capo all’altro d’Europa e ha indotto alcuni degli spiriti più illuminati del secolo, da Caterina di Russia a Federico il Grande, a dare asilo nei propri Stati ai gesuiti, che erano in quel momento i soli rappresentanti di una libera coscienza religiosa.

Tutto questo dimostra che di laicità, di libertà di pensiero, di separazione amichevole dei poteri non si può certamente parlare prima della Rivoluzione francese. Ci troviamo allora di fronte alla prima grande affermazione dei diritti di coscienza dell’uomo, e quasi contemporaneamente al celebre emendamento della Costituzione di Washington.

Ma la libertà di coscienza e di culto, proclamata alla Rivoluzione francese, è stata uno sprazzo di luce senza domani, luce soffocata dapprima nel sangue della persecuzione, poi dall’oppressione del cesarismo napoleonico malamente camuffata da Concordato. Invece la Costituzione nord-americana è un fatto più notevole, perché ha dato luogo alla mirabile libertà religiosa tuttora vigente negli Stati Uniti. Ma andiamo a vedere come è nato quell’emendamento. Allora negli Stati Uniti i cattolici non esistevano o quasi: i pochi erano oppressi, perseguitati. Si trattava di difendere le confessioni congregazionaliste, le confessioni della sinistra protestante contro i ritorni offensivi di quelle Chiese stabilite, che avevano spinto i primi Puritani a varcare l’Oceano. È in vista di questa difesa che venne redatto il famoso emendamento della Costituzione di Washington, il quale garantisce una libertà religiosa, che peraltro è ben lungi dall’essere completa. Non penso infatti che per ora e molti anni ancora un cattolico possa ad esempio aspirare a diventare Presidente della Repubblica stellata. E in altri paesi d’Europa, dove lo stesso spirito vige in paesi civilissimi come la Svezia, la Danimarca, oggi ancora, un cattolico non può diventare membro del Governo. In Danimarca non può nemmeno diventare giudice. Ho visitato la Svezia, paese di estrema libertà, e vi so dire che il culto cattolico oggi, non per intolleranza della popolazione, ma certo in omaggio alle tradizioni, vi viene ancora celebrato in forma quasi clandestina, perché effettivamente là vige ancora la vecchia tradizione, la quale è bensì liberale nei confronti delle varie confessioni evangeliche, ma non lo è affatto nei confronti della religione cattolica.

L’avversione al cattolicesimo è tuttora molto effettiva in alcuni paesi d’Europa, né certo vorremmo vederla trapiantata nel nostro paese.

Ciò premesso arriviamo – e mi ci fermo pochissimo – al Risorgimento nostro, da cui lo Statuto Albertino e la presente Costituzione traggono la loro origine.

Nel Risorgimento, tre sono gli atteggiamenti di fronte al problema dei rapporti fra Chiesa e Stato. Il primo, fuggevolissimo, è l’atteggiamento giobertiano, neoguelfo, che sogna un’Italia confederata sotto l’egida del Pontificato romano. Voi sapete quale rapida meteora sia stato il pensiero federale giobertiano in Italia. Il secondo, il pensiero mazziniano, che logicamente elimina il conflitto fra Chiesa e Stato, in quanto sogna una demoteocrazia che riassorbe i due poteri in una sintesi superiore. Non ho bisogno di fare appello a chi mi può essere maestro in fatto di cultura mazziniana per affermare che Mazzini non ha mai accettato la separazione tra la Chiesa e lo Stato: egli non intendeva la Chiesa nel senso tradizionale della Chiesa Cattolica, ma la concepiva strettamente connessa al potere civile nello Stato repubblicano.

Terza mediatrice fra le due, la concezione cavouriana che si riassume nella formula: «libera Chiesa in libero Stato», formula che, come sapete, non è di Cavour e neppure del Montalambert, ma è di Agostino Cochin, che però era molto amico del Montalambert, concezione desunta dunque dal cattolicesimo liberale, ma che Cavour sentì in modo tutto particolare.

Questa formula non si è mai realizzata in Italia, perché troppo viva e troppo forte era fra noi la tradizione giurisdizionalistica e perché gli uomini non possono tagliare la loro anima in due e lasciar fuori dalla propria sensibilità un problema che tutto li assorbe.

Ci furono, nel nostro Risorgimento, due soli fuggevolissimi momenti in cui sembrò che la formula cavouriana potesse integralmente realizzarsi. Il primo di questi momenti si presentò nell’ultimo anno di vita del grande ministro, all’epoca della missione Passaglia; il secondo sei anni più tardi, nei pochi mesi di governo di Bettino Ricasoli, allorché venne compilata quella legge sulla libertà della Chiesa che non ottenne neppure l’onore della discussione parlamentare. In quei due soli momenti, si tentò la separazione amichevole dei poteri e la sottomissione della Chiesa al diritto comune. L’uno e l’altro furono tentativi infelici che urtarono, più che con il malvolere degli uomini, con la irriducibilità delle cose.

La stessa legge delle Guarentigie, a parte il carattere unilaterale che la rendeva impropria a risolvere la questione romana, resta pur sempre un monumento di sapienza giuridica, eppure anch’essa pecca – come ho dimostrato in un mio lavoro – per la imperfetta conciliazione delle tradizioni liberali cavouriane con le tradizioni giusnaturalistiche, particolarmente della scuola giuridica napoletana; i due filoni si possono seguire attraverso tutto lo svolgimento della discussione parlamentare.

Così nacque il dissidio, che tanto ha tormentato le coscienze, ma che ha permesso ai cattolici italiani di formarsi sulla parziale astensione della vita pubblica, una salda coscienza politica. Questo dissidio, già praticamente scontato prima della guerra del 1914, svalutato nel corso di essa dal patriottico contegno dell’episcopato e del clero e dalle note dichiarazioni del cardinale Gasparri, giunse nell’ora voluta dalla Provvidenza, alla sua soluzione normale; la quale ebbe la disgrazia di essere opera di un uomo, che cercando in essa il soddisfacimento della propria sfrenata ambizione e un’arma di dominazione sui cattolici italiani, la svalutò subito nell’atto stesso in cui la sanciva; forse, però, di fronte alla storia, egli ebbe questo merito: che, non essendo legato alle tradizioni risorgimentali, alle antiche formule delle quali vi ho parlato, poté concludere con un tratto di penna ciò che ad altri sarebbe costato una lunga e faticosa elaborazione. Ciò debbo lealmente ammettere, come lo ammetterà la storia futura.

Sta però di fatto che questo Concordato in regime fascista non è stato mai integralmente praticato, se non nelle sue parti deteriori, e che, se esso reca clausole che possono dispiacere ad una coscienza democratica, contiene anche parecchie tracce di vecchio giurisdizionalismo, che possono spiacere ad una coscienza liberamente cattolica. Talché se un giorno mai si penserà, d’accordo fra i due poteri, di modificarlo, non saranno certo in numero maggiore le rivendicazioni dello Stato di quelle che non saranno le rivendicazioni della Chiesa. Il Concordato stabilisce ad esempio un giuramento per i vescovi, il quale, o non significa nulla o significa ciò che significava nei vecchi concordati: l’asservimento della Chiesa al potere regio. Il Concordato abolisce formalmente il placet e l’exequatur, ma introduce quella tale clausola dell’intesa preventiva, con questo bel risultato: che lo Stato non ha più nemmeno bisogno di assumersi la responsabilità di negare una libertà ecclesiastica, perché può ottenere egualmente il suo scopo, attraverso intese segrete con l’altro potere, senza portare la questione davanti alla opinione pubblica. E via dicendo; molte sono le clausole che potrebbero essere opportunamente rivedute, in senso favorevole alla Chiesa. Non parliamo delle clausole patrimoniali, del divieto ai sacerdoti di occuparsi di politica. (Commenti a sinistra). Voi vi lagnate che già se ne occupino; ma vi sono paesi d’Europa, dove i sacerdoti possono legittimamente adire alle più alte cariche dello Stato, entrare nella Camera, prendere parte al governo, perché sono cittadini come tutti gli altri. E io non vedo perché il Concordato glielo debba vietare.

Una voce a sinistra: Ragione di più, allora!

JACINI. Quindi dico, non è con uno spirito di intolleranza e di clericalismo che noi chiediamo la conservazione dei Patti del Laterano; la chiediamo da un punto di vista storico, perché riteniamo che solo in questo modo si possa garantire la pace religiosa. Solo in questo modo, perché – come credo di avervi dimostrato – non abbiamo esempi finora che si sia potuto altrimenti stabilire la pace religiosa. Non mi direte che questa – con tutto il rispetto per quei settori della Camera (Accenna a sinistra) – specie per quanto riguarda la religione cattolica, viga oggi in Russia! In Russia, Pietro il Grande abolì il Patriarcato per assicurarsi attraverso il Santo Sinodo un più docile strumento ai suoi voleri; Stalin ha abolito il Santo Sinodo ed ha restaurato il Patriarcato, per creare uno strumento ancora più docile ai suoi voleri. (Commenti a sinistra).

Credo però di avervi soverchiamente affaticati a questo riguardo e non vorrei prolungare il mio ragionamento.

Tutto quello che vi ho detto non significa affatto che ogni singola disposizione del Concordato venga, nemmeno per trasparenza, come diceva l’onorevole Calamandrei, incorporata e fatta propria dalla Costituzione.

Dal testo dell’articolo 5 emerge che noi facciamo riferimento ai Patti Lateranensi, soprattutto come ad una fonte della norma giuridica sancita dalla Costituzione. Se le norme in parola facessero singolarmente parte integrante della Costituzione, non basterebbe un accordo bilaterale per modificarle, né tanto meno si potrebbe dire che possono eventualmente modificarsi senza richiedere un procedimento di revisione costituzionale; rimane quindi aperta la porta ad una revisione per via di semplici accordi bilateralmente concordati, mentre il principio di una separazione amichevole, onesta, rispettosa, come è nel desiderio di tutti, è proprio sancita dal primo comma dell’articolo 5, laddove si dice che «Lo Stato e la Chiesa Cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Chiedeva l’onorevole Della Seta: Ma come «indipendenti e sovrani»? Si tratta di un ordine interno o di un ordine esterno? Io rispondo: di entrambi. Ogni potere è indipendente e sovrano nella propria sfera, nel proprio foro interno; ma è altresì sovrano e quindi indipendente dall’altro potere, sempre che si mantenga nell’ambito della rispettiva competenza. Ritengo che quel tanto di separazione, che è possibile conseguire allo stato storico degli atti, non lo si possa conseguire se non attraverso il patto che viene sottoposto al nostro esame.

Passo ad un altro argomento: quello delle confessioni religiose acattoliche. Come ho detto, io sono, non solo personalmente amico di molti evangelici ed israeliti, ma anche sollecito, come studioso della libertà, degli interessi degli altri culti. Dirò di più: la circostanza che essi raggruppano una infima minoranza della popolazione italiana rappresenta ai miei occhi una ragione di più per rispettarne la libertà (Approvazioni) ed aggiungo che se ciò può dirsi delle confessioni evangeliche, a tanta maggior ragione vale per quegli israeliti, vittime sanguinanti di una persecuzione senza nome, che ha infierito in tanta parte d’Europa contro di loro (Approvazioni). Perciò il nostro spirito non può essere che informato a sensi di amichevole comprensione verso i loro desideri. Io ho letto con grande attenzione i vari reclami che mi sono stati sottoposti, da parte dei rappresentanti sia delle confessioni evangeliche e sia della religione ebraica. C’è un punto nel quale do loro torto, ed è quando essi ci chiedono di rinunciare ai Patti Lateranensi. Che cosa interessano a loro i Patti Lateranensi? Essi riguardano esclusivamente i rapporti fra i cattolici e lo Stato italiano. Gli acattolici hanno titolo e diritto di chiedere la più completa parità di trattamento e la più completa libertà attraverso la legge. Riconosco che, non già le disposizioni della legge 24 giugno 1929, ma il titolo di essa, in cui si parla di «culti ammessi» rappresenti una offesa alla libertà dei culti medesimi. Non ammessi, né tollerati: devono essere culti legittimamente svolgentisi nell’ambito della libertà nello Stato democratico italiano. E allora, potranno essi chiedere la revisione di quelle parti di detta legge che non sembrino loro conformi alla libertà: dall’esame dei singoli punti vedo che non sono molti quelli che danno luogo a reclami a questo riguardo. C’è di più; l’articolo del quale parliamo prevede che queste modifiche debbano essere fatte d’accordo con le rispettive rappresentanze; il che significa che, se non proprio dei concordati, saranno dei modus vivendi stipulati singolarmente con le rappresentanze delle singole confessioni. E, quanto alla limitazione, che non abbiano ad urtare contro la moralità e il buon costume, credo che sarebbe fare offesa ai vari culti ritenere che essi possano ribellarsi contro una disposizione di tal genere; ritengo dunque che l’assetto dei rapporti tra lo Stato italiano e i culti dissidenti dal cattolico, nonché la perfetta libertà degli aderenti a questi culti siano completamente nelle loro mani e che essi possono farli valere legalmente, nel che troveranno in noi l’appoggio e l’aiuto più completo. (Approvazioni al centro).

Rimarrebbe ora a trattare – ma non temete, non lo farò – l’ultima parte del mio discorso, cioè quella che si riferisce alla legislazione interna e a quanto noi chiediamo a soddisfazione dei nostri particolari bisogni di cittadini italiani cattolici.

Tali argomenti sono contemplati dai vari articoli: uguaglianza perfetta dei cittadini, articolo 7; libertà di riunione, articolo 12; libertà di associazione, articoli 13 e 15; difesa della famiglia, articoli 23 e 24; posizione dei figli legittimi e illegittimi, libertà della scuola, libertà di lavoro, ecc.; tutte cose che i miei colleghi tratteranno molto meglio di me e sulle quali non mi soffermo.

Mi basti dire che queste libertà non le chiediamo come mandatari di alcuna potenza, neppure della suprema autorità ecclesiastica; le chiediamo semplicemente come soddisfacimento di nostri legittimi diritti, in qualità di cittadini italiani, allo Stato italiano cui apparteniamo.

Onorevoli colleghi, io ho finito; ed è contrario alla mia indole terminare i discorsi con formule reboanti. L’illustre Maestro, anche se temibile avversario, Benedette Croce, ha terminato il suo rievocando i versi del Veni Creator; egli ha così invocato lo Spirito Santo sui nostri lavori, come i potenziali rivoluzionari francesi dell’’89 lo invocarono attraverso la Messa dello Spirito Santo che precedette l’apertura degli Stati Generali. Il nostro amico La Pira, con un gesto di grande e semplice spontaneità, che l’Assemblea ha nobilmente rispettato, ha chiuso il suo dire col segno della Croce. Io non sono né un grande alfiere del pensiero scientifico, né un grande alfiere della fede religiosa: la fiammella della mia fede è così tenue, che temerei di spegnerla se l’agitassi come una fiaccola. Mi accontento quindi di terminare con un pensiero terra terra. Vi sarà forse qualcuno fra noi che proporrà di porre tutto l’atto costituzionale sotto la invocazione di Dio, così come l’hanno posto molti altri Paesi che si costituivano a libertà.

Io non so se l’Assemblea accetterà tale proposta, ma dico che una pattuizione, fatta in buona fede tra uomini di buona fede, si pone sempre da sé sotto la protezione di Dio; e questa io invoco sui lavori della nostra Costituzione. (Vivissimi applausi al centro e a destra Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 16.

Prima però di comunicare l’ordine del giorno, devo rendere edotti i colleghi di alcune intese che stamane sono state prese in una riunione dei rappresentanti dei Gruppi, posti da me dinanzi ad alcune cifre che, d’altra parte, sono state anche pubblicate sui giornali e che tutti conosciamo.

Si tratta di questo: fino a stamane, gli iscritti. Ora, è questa un’ottima dimostrazione ammontavano a 309. (Commenti).

Non so perché la cifra susciti sorpresa. È evidente che quasi tutti i presenti si sono iscritti. Ora, è questa un’ottima dimostrazione dell’interesse e del desiderio di collaborare tutti alla formazione dello Stato costituzionale, ma evidentemente ciò crea gravi difficoltà, quanto meno per la prospettiva e lo sviluppo dei nostri lavori.

Allo scopo di permettere a tutti gli iscritti di dare il loro contributo ai nostri lavori e di conservare i lavori stessi entro i limiti del tempo di cui disponiamo, si è rimasti, in linea di massima, d’accordo nella decisione formale che gli oratori abbiano da domani mezz’ora a loro disposizione.

Non ho fatto la comunicazione all’inizio di questa seduta perché i colleghi che hanno parlato quest’oggi, all’oscuro di questa intesa, avranno fatto calcolo d’una possibilità di parola più ampia, e sarebbe stato scortese e dannoso venire a spezzare il piano di pensiero che si erano costituiti.

A cominciare da domani credo che saremo d’accordo di attenerci a questa disposizione. Se essa sarà attuata con severità, occorreranno circa 35 sedute perché parlino tutti gli iscritti; e poiché la domenica non si tiene seduta, almeno per ora, e vi sono anche periodi di riposo per la Pasqua, per la sola discussione dei titoli occorreranno circa 2 mesi.

Io sarei ben lieto se, a cominciare da domani, i colleghi che parleranno resteranno nell’ambito della mezz’ora. Ciò significa che potranno parlare otto oratori al giorno, e questo ci aiuterà a giungere alla fine dell’elenco degli iscritti entro il termine fissato.

Prego di tener conto di questa decisione e sono sicuro che ciascun deputato cercherà di attenervisi. (Approvazioni).

La seduta termina alle 20.15.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

  1. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 14 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LXI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 14 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Domanda di autorizzazione a procedere:

Presidente                                                                                                        

Annuncio di nomina di un Sottosegretario di Stato:

Cappa, Sottosegretario di Stato per la presidenza del Consiglio                            

Interrogazioni (Svolgimento):

Romita, Ministro del lavoro della previdenza sociale                                           

Porzio                                                                                                               

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Presidente                                                                                                        

Fiore                                                                                                                 

Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (Discussione):

Corbino                                                                                                            

Treves                                                                                                              

Montini                                                                                                            

Dugoni                                                                                                              

Einaudi                                                                                                             

Interrogazioni ed interpellanze con richiesta d’urgenza:

Rodi                                                                                                                  

Presidente                                                                                                        

Bellavista                                                                                                       

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Sforza, Ministro degli affari esteri                                                                     

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro                                                     

Perugi                                                                                                               

Codacci Pisanelli                                                                                            

Priolo                                                                                                               

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana precedente.

(È approvato).

Domanda di autorizzazione a procedere.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso una domanda di autorizzazione a procedere contro il deputato Finocchiaro Aprile, per il delitto di cui all’articolo 595, primo capo verso, del Codice penale.

Sarà stampata, distribuita ed inviata alla Commissione competente.

Annuncio di nomina di un Sottosegretario di Stato.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio. Ho l’onore di informare l’Assemblea che il Capo provvisorio dello Stato, con decreto in data 15 febbraio 1947, ha nominato Sottosegretario di Stato per le poste e le telecomunicazioni l’onorevole professore dottore Vito Giuseppe Galati, deputato all’Assemblea Costituente.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni. La prima è quella dell’onorevole Porzio, firmata anche dagli onorevoli Rodinò Mario, Puoti, Gatta, Amendola, Notarianni, La Rocca, Cortese, Salerno, Crispo, Mazza, Sansone, Riccio, Rodinò Ugo, Coppa, Numeroso, Titomanlio Vittoria, Leone Giovanni, ai Ministri del lavoro e previdenza sociale, delle finanze e tesoro e dell’interno, «per conoscere quali provvedimenti si intendano adottare per la grave crisi che da tempo investe l’industria dell’arte bianca e che produce l’aggravarsi della disoccupazione nelle città di Napoli e Provincia dolorosamente provate; e per conoscere, inoltre, per quali ragioni non si adottano quelle misure che sono in vigore in altre Provincie per lenire i danni alle industrie ed ai lavoratori».

L’onorevole Ministro del lavoro e previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Onorevoli colleghi, l’interrogazione dei colleghi di Napoli è molto importante, perché non riguarda solamente Napoli, ma tutta l’Italia meridionale e centrale.

A Napoli si è formata una situazione di particolare disagio, perché numerosi mulini lavorano da tempo a scartamento ridotto, con una percentuale che al massimo è del 30 per cento, e che qualche volta scende al 18 e anche al 12 per cento.

Ciò ha prodotto un disagio negli stabilimenti e nella massa lavoratrice dell’arte bianca: negli stabilimenti, per gli oneri che gravano su di essi, dato anche eccessivo numero di operai; nella massa operaia per l’eccessiva disoccupazione.

Quando, qualche tempo fa, sono venuti da me i rappresentanti dell’una e dell’altra categoria, ho esaminato le questioni che mi hanno prospettato, e cioè: 1°) dare il contributo di integrazione sino alle 16 ore e gli assegni familiari anche in mancanza delle condizioni effettive per tale contributo; 2°) cercare, attraverso l’Alto Commissario per l’alimentazione, di fare arrivare a Napoli, centro importante dell’arte bianca, una maggiore quantità di sfarinati di grano, per dar lavoro a stabilimenti e a maestranze; 3°) allargare le leggi che valgono per il Nord sulle integrazioni salariali.

La prima richiesta, che era di mia competenza, è stata attuata subito, e non ha dato luogo a rilievi; la seconda, che riguarda l’Alto Commissario per l’alimentazione, è stata attuata nei limiti possibili, inviando scorte purtroppo scarse di grano e di sfarinati; per la terza, relativa all’integrazione, è occorso più tempo, perché il problema è veramente grave, a cagione dell’onere finanziario che il Governo viene ad addossarsi.

Superata quindi la prima, rimane la seconda dell’invio di grano e di sfarinati: ancora questa mattina l’Alto Commissario per d’alimentazione mi assicurava che cercherà di dirottare a Napoli il maggior quantitativo possibile. Purtroppo le previsioni non sono rosee ed io non amo illudere gli egregi interroganti. Non sono rosee perché prevediamo un ritardo di spedizione, sino a che non arriverà il grano dell’Argentina, fino al 15 aprile.

Auguriamoci che dopo tale data la situazione sia notevolmente migliorata. Sarà, comunque, mia cura di sollecitare l’Alto Commissario per l’alimentazione in modo che, di mano in mano che arrivano queste navi, Napoli, che è il centro dell’arte bianca, abbia una quota adeguata.

La terza questione, che è la più importante e che ha causato anche i disagi che hanno lamentato e lamenteranno gli egregi interroganti, è quella di estendere al Centro-Sud gli accordi per l’integrazione salariale del Nord.

Siccome l’argomento è molto importante, permetta l’Assemblea che io riepiloghi in sintesi questi accordi. Liberata l’Italia del Nord, ci siamo trovati in una difficoltà grave: v’era, da un lato, già una legge, che aveva emanato lo pseudo Governo di Salò, la quale concedeva il 75 per cento; v’erano, dall’altro, le industrie del Nord in crisi perché, in periodo di lotta clandestina, operai, dirigenti, industriali avevano sabotato la produzione: gli operai lavorando il meno possibile, i dirigenti, lasciando mancare or l’una or l’altra materia prima, gli industriali, ugualmente, per poter ridurre la produzione e boicottare la guerra nazi-fascista.

Liberata l’Italia, questi industriali e questi operai si sono trovati, per le loro benemerenze politiche, a non poter lavorare. Nel medesimo tempo, se voi ricordate, le condizioni di salario del Nord erano inferiori a quelle del Sud. Si è allora stipulato un accordo, nell’agosto 1945, che avrebbe dovuto durare fino al settembre dello stesso anno, ma che fu poi prorogato fino all’aprile 1946 prima, fino al settembre 1946 poi, a titolo sempre provvisorio.

Dopo il settembre del 1946, questa legge non fu più prorogata, cosa che però io farò ora per legalizzare una situazione di fatto. Ma un’ulteriore applicazione ci fu quando, a gennaio, essendo venuta a mancare l’energia elettrica, intervenne nel Nord un accordo per l’integrazione salariale per questa causa. Ora, gli interroganti chiedono che anche questi accordi siano estesi al Centro-Sud d’Italia. Il problema non è facile, perché dobbiamo calcolare sulla possibilità, innanzitutto, delle industrie di pagare la quota di loro competenza. Non è facile, perché il Governo cerca di eliminarla anche nel Nord, e il fatto che dal settembre siamo arrivati sino ad oggi senza sanare questa situazione dimostra che il Governo vuole eliminare, appena possibile, questa integrazione che tanti oneri porta allo Stato.

Comunque, dissi ai colleghi che vennero da me circa una ventina di giorni fa, che non c’è più nessuna ragione di sperequazione tra il Nord e il Sud, e specialmente per i lavoratori dell’arte bianca di Napoli e per i solfatari della Sicilia, che hanno diritto allo stesso trattamento del Nord. Ma la legge presenta difficoltà, perché mentre nel Nord è facile individuare l’operaio disoccupato, l’operaio che lavora un minor numero di ore, al Sud tale accertamento non è agevole e può dar luogo ad eventuali abusi. Comunque, ho presentato la settimana scorsa – e sarà discusso proprio oggi dal Consiglio dei Ministri – un provvedimento che con carattere (si intende) provvisorio, dovrà estendere al Sud un’integrazione per cui da zero ore a 24 ore spetterà il 50 per cento, da 24 ore a 40 ore spetteranno i due terzi.

L’onorevole Porzio, che è stato al Governo, sa che io non posso impegnare in questo momento il Governo, sa che non posso dire che cosa farà oggi il Consiglio dei Ministri: se abolirà l’integrazione per tutta l’Italia, o se la prorogherà per qualche mese. Posso dire: ho la certezza che oggi dal Consiglio dei Ministri verrà fuori una disposizione che pone nello stesso piano gli operai del Nord e gli operai del Sud; e che, comunque, permetterà a Napoli, come ai solfatari della Sicilia, ed a qualche altra categoria che si trova in disagiate condizioni, di poter superare la crisi che prevediamo ancora per qualche mese.

Spero che gli onorevoli interroganti saranno sodisfatti. L’onorevole Porzio, sa che, appunto perché comprendo la situazione di Napoli – l’ho compresa quando avevo l’onore di essere Ministro dei lavori pubblici; e i colleghi sanno che quello che ho potuto fare per Napoli l’ho fatto volentieri, nel limite del possibile – anche adesso farò quello che potrò fare, ed ho la convinzione che domani, quando saranno noti i deliberati del Consiglio dei Ministri, gli egregi interroganti si troveranno sodisfatti.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se è sodisfatto.

PORZIO. Onorevole Ministro, io sono veramente dolente – perché devo lealmente dichiarare che proprio il Ministro Romita, nella sua visita a Napoli, fu largo di comprensione e veramente ebbe un vivo fervore per venire incontro ai bisogni e alle necessità della nostra città – sono proprio dolente che oggi, cambiato il Ministero, debba a lui dichiarare la mia insodisfazione. Noi aspettiamo ormai non più delle promesse, ma dei fatti, e di fronte ai fatti ci inchineremo.

Veramente questa mia interrogazione, la quale è sussidiata autorevolmente dalla firma di tutti i miei colleghi, senza distinzione di parte, non è che appena appena una piccola pagina di un grande volume, che un bel giorno noi dovremo leggere insieme: i danni, le sperequazioni, le ingiustizie, e quasi direi le iniquità che sono state commesse e si commettono ai danni di Napoli e del Mezzogiorno. (Applausi). È un grosso volume. Ora, per quale ragione avviene ciò? Ecco: noi siamo venuti più volte (giacché non ci anima né una vanità, né un desiderio di voler inasprire certi contrasti) a Roma per parlare con gli onorevoli componenti del Governo, prospettando loro tutte le necessità.

Ed ultimamente, prima della crisi, ci siamo rivolti, insieme a tutti i colleghi, all’Alto Commissario per l’alimentazione, abbiamo parlato con l’onorevole Presidente del Consiglio ed abbiamo prospettato proprio queste particolari questioni, che abbiamo ripresentate oggi, ricevendo i più larghi affidamenti, le più larghe promesse e categorici impegni.

Sono passati due mesi, e siamo stati costretti a presentare una interrogazione per cercare di elevare una voce qui, dinanzi all’Assemblea. Per quale ragione, per esempio, quel tale dato di pastificazione non è giunto anche al Sud? Per quale ragione la Cassa di integrazione non si estende anche al Sud? Nel 1945 fu istituita questa Cassa di integrazione al Nord, e perché non si fece anche per il Sud?

Ed ora l’onorevole Ministro dice: forse noi pensiamo di toglierla anche al Nord; ma non l’avete tolta però, e sono due anni che Napoli e i lavoratori napoletani l’aspettano. Per quale ragione, per esempio, (ecco un’altra piccola paginetta del volume) quando sono state acquistate le 50 Liberty, al Mezzogiorno non ne sono state assegnate che otto, dico otto! E quando, dopo il viaggio del Presidente del Consiglio in America, si è avuta l’opportunità di acquistarne altre 50, il centro economico del Mezzogiorno che ha rivolto un telegramma al Ministro, ha avuto degli impegni, ma poi anche questo è stato dimenticato? Eppure queste Liberty furono acquistate con dollari, e questi dollari erano la contropartita delle am-lire spese ed emesse a Napoli, dove più a lungo abbiamo avuto l’occupazione, i disagi, il dolore.

Ed allora questi dollari, che sono intrisi della nostra sofferenza, perché devono servire per l’acquisto delle materie prime, che sono date ad altre industrie non napoletane? Ella sa, onorevole Ministro, che Napoli ha perduto il 70 per cento delle industrie, e l’altro 30 per cento che è rimasto, è stato minorato di un altro 15 per cento per fabbriche che sono state requisite ed occupate. È rimasto soltanto lo squallore. Io in questi giorni ho sentito tanti eloquenti discorsi; tutti hanno voluto consacrare nella Carta fondamentale il diritto al lavoro; ma noi siamo carenti di diritto, forse? Abbiamo una popolazione marittima di prim’ordine, disoccupata; abbiamo i cantieri che languono; abbiamo le fabbriche distrutte e nessuno lo sa più di noi, e perdonate, più di me, che nei giorni neri sono rimasto al mio posto a Napoli, fra i miei concittadini e ho ancora nel cuore, nelle orecchie il rombo sinistro delle esplosioni con le quali si spezzavano le vertebre della nostra ricchezza, delle nostre fabbriche che noi avevamo costruito in base alla legge Giolitti, legge che dovremmo riprendere e ridiscutere nell’Assemblea. (Approvazioni).

Come volete che io mi dichiari sodisfatto?

All’onorevole Romita do atto del suo buon volere; gli do atto di essersi preoccupato della questione del Porto, dei bacini di carenaggio; ma vi sono i sinistrati che aspettano.

Non intendo in nessun modo infastidire l’Assemblea, ma vorrei che molti onorevoli colleghi facessero una gita a Napoli e vedessero che vi è ancora una popolazione che vive come i trogloditi, nelle vecchie caverne create dalla disperazione della guerra, senza giaciglio.

Ma questa voce, sia pure di miseria, deve echeggiare in quest’aula, deve preoccupare i governanti; ed io ricordo le parole di un grande napoletano, il cui centenario si compie fra breve: Luigi Settembrini, il quale diceva allora, in un documento storico: «Napoli è paziente, Napoli sa anche rassegnarsi, Napoli ha subito mille penose vicende: però pensate, che il civismo napoletano può anche venir meno, pensate che la pazienza stanca diventa furore». (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Ne ha facoltà.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Mi pare che l’argomento sia di tale importanza, anche per l’ampiezza con cui così eloquentemente ne ha trattato l’amico Porzio, da meritare che l’Assemblea mi sopporti ancora per qualche minuto.

Non comprendo perché l’onorevole Porzio mi abbia concesso l’onore di avermi dato atto di fiducia per quello che ho fatto come Ministro dei lavori pubblici.

PORZIO. L’ho detto lealmente.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Deve allora, per corollario, anche darmi atto di fiducia che lo stesso spirito, lo stesso intendimento porterò nelle mie mansioni di Ministro del lavoro.

E dico di più di quello che ha detto lei, onorevole Porzio. Lei sa che a Napoli ho avuto belle soddisfazioni. Napoli mi vuole bene, nonostante che io sia l’artefice della Repubblica e Napoli non sia repubblicana, almeno nella votazione. Mi vuole bene, perché sa che ho studiato i problemi napoletani. Ebbene io ho studiato e studierò ancora i problemi napoletani, perché sono stato uno dei primi uomini politici attuali che ha detto, dice e dirà che il problema meridionale è problema italiano: che se vogliamo risollevare l’Italia dobbiamo risolvere il problema meridionale. E l’ho dimostrato, onorevoli colleghi, e non ho fatto ingiustizie. Permettetemi che io ripeta, e sempre ripeterò, anche se ciò mi procurerà delle noie elettorali, che dei 10 miliardi ne ho dati due alla Campania e nemmeno un centesimo al mio Piemonte. Ma perché ho aiutato e aiuterò Napoli? Non perché io abbia paura dei pericoli prospettati dall’illustre interrogante, ma perché non credo che l’animo napoletano si ribellerà. Napoli è patriottica e sa che il Governo fa quello che può e quello che deve. Ho aiutato e aiuterò Napoli, a cui devo fare questo elogio; ho aiutato il porto perché ho trovalo che con tanta intelligenza, con tanta competenza, con tanta laboriosità i tecnici, gli operai napoletani hanno risolto il loro problema portuale e quello inerente delle strade. Ecco perché sono con voi.

E allora l’onorevole Porzio mi dia atto e mi dia la sua fiducia su due punti: come membro del Governo mi farò interprete delle sue lamentele, anche se le ritenga esagerate: come Ministro del lavoro sarà mia cura fare in modo che le promesse siano realtà. (Applausi).

Voci a destra. Speriamo!

Una voce al centro. Come quelle di Genova e Liguria.

ROMITA, Ministro del lavoro e della previdenza sociale. Genova non può lamentarsi.

PRESIDENTE. Seguono le interrogazioni, di argomento analogo, degli onorevoli:

Candela, Bonino, Bellavista, al Ministro dell’interno, «per sapere le cause che hanno determinato i luttuosi incidenti di Messina e perché, sopravanzando le trattative in corso per l’equa composizione della vertenza, abbia avuto luogo la manifestazione che ha degenerato in atti violenti e se legittimo sia stato l’uso delle armi da parte della forza pubblica. E quali provvedimenti intenda prendere per punire i responsabili, qualunque essi siano, e per prevenire manifestazioni del genere, che turbano l’ordine pubblico e l’opera di ricostruzione del Paese»;

Fiore, Li Causi, Di Vittorio, Musolino, al Ministro dell’interno, «per conoscere, in relazione ai luttuosi fatti di Messina, quali provvedimenti intenda prendere contro i responsabili spezzando, una buona volta, la tradizione mafiosa e di polizia, secondo la quale, in Sicilia, si può impunemente assassinare dei lavoratori»;

Varvaro, al Ministro dell’interno, «per conoscere quali provvedimenti abbia adottato e si proponga di adottare in seguito ai gravissimi e luttuosi avvenimenti verificatisi in Messina il giorno 7 ultimo scorso, sia per l’accertamento delle cause e delle responsabilità e sia perché il popolo siciliano venga rassicurato autorevolmente per l’avvenire contro l’ormai abituale leggerezza con la quale la forza pubblica fa uso delle armi contro inermi cittadini che manifestano il loro disagio economico o la loro miseria. Tanto più che troppo vicina è la sconcertante assoluzione di tutti gli imputati dei luttuosi fatti di Palermo dell’ottobre 1944»;

Salvatore, al Ministro dell’interno, «per conoscere: 1°) i motivi e le modalità che hanno determinato o favorito i luttuosi incidenti svoltisi la mattina del 7 marzo in Messina; incidenti che, tra l’altro, hanno colpito le gelose tradizioni di rispetto e di libera convivenza di una popolazione civile, laboriosa ed onesta; 2°) se tra tali motivi se ne sia accertato qualcuno di natura o di preoccupazione elettoralistica; 3°) se l’uso delle armi, tristemente impiegate, può ritenersi giustificato dalle modalità e dal contenuto degli incidenti occorsi ed, in casa negativo, quali provvedimenti si intende prendere o siano stati presi in confronto degli eventuali responsabili; 4°) quali disposizioni siano state date per assicurare l’incolumità di tutti i cittadini nella malaugurata evenienza che qualche episodio del genere possa essere ulteriormente tentato; 5°) i motivi per cui non è stata consentita dalla autorità l’affissione di un manifestò solamente ad una delle parti in contrasto, mancando così alla cittadinanza la possibilità di valutare situazioni e giustificazioni, al fine anche di favorire quella distensione di animi tanto necessaria al buon nome ed alla vita economica della città di Messina»;

Natoli, ai Ministri dell’interno e della difesa, «per sapere se rispondano a verità le notizie date dai giornali sui luttuosi fatti di Messina, e per sapere se sono state assodate le responsabilità e quali provvedimenti sono stati disposti a carico di un ufficiale dei carabinieri che avrebbe caricato la folla al grido di «Avanti Savoia!»;

Li Causi, Montalbano, ai Ministri dell’interno e della difesa, «per sapere quali provvedimenti intendano adottare contro i responsabili dei luttuosi fatti verificatisi nella giornata del 7 marzo decorso durante una pacifica dimostrazione di lavoratori dianzi alla Prefettura di Messina, nonché contro il comandante la legione dei carabinieri di Messina e il capitano dei carabinieri, che in quel giorno comandava il servizio, responsabili l’uno indirettamente e l’altro direttamente di aver fatto sparare i carabinieri sul popolo al grido monarchico di «Avanti Savoia!».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Sugli incidenti avvenuti a Messina il 7 corrente, come già annunciato, è stata disposta, per mezzo dell’Ispettorato generale del Ministero, una rigorosa inchiesta, tutt’ora in corso di espletamento. In concomitanza si svolgono indagini a cura dell’Alto Commissariato per la Sicilia. Non appena sarà esaurita l’inchiesta e non appena saranno esaurite le indagini dell’Alto Commissario, gli onorevoli interroganti avranno notizia dei chiarimenti che si rendessero necessari in base ai risultati delle inchieste stesse. Quindi chiedo di attendere l’esito di questa ispezione e dell’inchiesta ordinata dall’Alto Commissario.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Sottosegretario di Stato di dichiarare quando il Governo potrà rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Appena perverranno i risultati.

PRESIDENTE. Resta allora stabilito che lo svolgimento delle interrogazioni testé lette è rinviato alla seduta nella quale il Governo sarà in condizioni di rispondere.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Fiore. Ne ha facoltà.

FIORE. Noi protestiamo per questo rinvio, perché pensiamo che il Governo avrebbe potuto già rispondere dopo sette giorni dai fatti luttuosi. D’altro canto segnaliamo che per il modo come è stata disposta l’inchiesta e per il funzionario che è stato adibito all’inchiesta stessa, si ha l’impressione che si voglia ricorrere a dei salvataggi, poiché il funzionario inviato a Messina per questa inchiesta è il fratello di uno dei marescialli dei carabinieri in servizio alla legione di Messina. Quanto all’ufficiale dei carabinieri che ha gridato l’ordine di «fuoco» al grido di «Savoia», noi chiediamo che sia sostituito. (Commenti).

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato allo svolgimento delle interrogazioni.

Discussione del disegno di legge: Partecipazione dell’Italia agli accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (6).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo (6).

Dichiaro aperta la discussione generale. Sono iscritti a parlare sette oratori; mi permetto di far presente la necessità di esaurire entro stamane la discussione e la votazione di questo disegno di legge. Perciò prego gli oratori di contenere nei limiti del possibile le loro esposizioni.

Il primo oratore iscritto a parlare è l’onorevole Corbino. Ne ha facoltà.

CORBINO. Onorevoli colleghi, non parlo dal mio banco, non solo per ragioni di resoconto, ma anche perché su questo disegno di legge, da parte del mio gruppo, vi è adesione completa, così come spero che possa esservi da parte degli altri gruppi di opposizione.

Si tratta dell’accoglimento di una richiesta che il Governo italiano aveva presentato fin dal febbraio dell’anno scorso, perché l’Italia potesse accedere al Fondo monetario e alla Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo, creati con gli accordi del 22 luglio 1944, noti col nome di «Accordi di Bretton Woods».

Le origini di questi accordi vanno ricercate nel frazionamento del mercato finanziario mondiale, determinato dalla guerra mondiale del 1914-18.

In realtà, prima del 1914 qualche cosa di simile a quello che si è voluto creare a Bretton Woods esisteva già nel mondo; ma non era codificato, non faceva parte di convenzioni internazionali: era il risultato della spontanea attività dei mercali finanziari, ed era soprattutto il mercato finanziario di Londra che svolgeva nel mondo un’azione, non solo presso a poco analoga a quella che verranno ad avere ora il Fondo e la Banca per effetto degli accordi, ma probabilmente una funzione molto più vasta, molto più profonda.

Era il periodo veramente aureo dell’economia mondiale, quando bastava una piccolissima variazione del saggio dello sconto per spostare ingenti capitali da un mercato all’altro, o variazioni non molto sensibili del saggio dell’interesse per spingere ad investimenti in Paesi stranieri.

Londra era il centro ove questa massa enorme di capitali si moveva attraverso quella che si potrebbe definire «l’atmosfera del credito», una delle più mirabili costruzioni dell’attività umana, tanto più mirabile in quanto che non aveva niente di concreto: la si poteva percepire così come noi oggi percepiamo l’esistenza delle onde hertziane, attraverso gli apparecchi trasmittenti o riceventi, apparecchi che erano le banche. Ed il mercato era allora così perfettamente collegato che una piccola crisi di credito a Melbourne, entro 24 ore aveva i suoi effetti indiretti a Rotterdam o a New York.

Per darvi un’idea della sensibilità del mercato, anteriormente alla prima guerra mondiale, vi bastano due dati che metto a confronto: la crisi del 1907-08, nel giro di una settimana da quando scoppiò, era già universale e nel giro di sei mesi era stata completamente chiusa; la famosa crisi di Wall Street del 1929, pur essendo di portata infinitamente più grande, impiegò 21 mesi per fare arrivare le sue ripercussioni in Europa. Questo mercato fu dunque rotto, frantumato dalla guerra, ma, soprattutto, fu rotto e frantumato da uno degli episodi monetari più gravi del dopoguerra: il crollo del marco tedesco.

Prima del 1914 la gente era convinta che il contenuto aureo delle monete fosse qualcosa che non si potesse toccare. Tutti erano convinti che la lira era la lira, che la sterlina era la sterlina, che il dollaro era il dollaro. Nessuno sapeva quanti grammi di oro ci fossero nella sterlina, nel dollaro, nella lira o nel franco. Chi ricorda, per esempio, che la lira aveva un certo contenuto di grammi oro fissato da una legge del 1861, che ripeteva la legge francese del 1793? Le manipolazioni monetarie erano sconosciute. Noi che abbiamo avuto come malattia costituzionale il corso forzoso, al massimo eravamo arrivati a svalutazioni del 16 per cento; ma, immediatamente dopo, si ritornava alla normalità. Abbiamo toccato il 16 per cento nel 1896, dopo Adua, ma già nel 1898 eravamo all’8 per cento di aggio e nel 1904-1905 la lira italiana in carta faceva premio sulla lira italiana in oro.

Era tale la fiducia nella incrollabilità delle unità monetarie che le monete si sorreggevano l’una con l’altra e ne era venuta fuori quella costruzione che io vi ho tratteggiato molto fugacemente. Questa convinzione fu in parte rafforzata dalla decisione del Governo inglese, presa nel 1921, di riportare la sterlina alla sua antica parità. Il Governo inglese non volle riconoscere la svalutazione del 30 % di fatto, e decise di riportare la sterlina alla parità antebellica; e la gente si convinse quindi che si ritornava alla mentalità antebellica.

Senonché, nel 1922-23 l’umanità fu esposta al più grande disastro monetario che abbia avuto ripercussioni veramente notevoli nel sistema: il disastro del marco tedesco. Molti di voi conosceranno le vicende di questo disastro, di cui non so dire (nessuno potrebbe agevolmente darne la dimostrazione positiva o negativa) se il Governo tedesco abbia voluto compiere, ai danni di coloro che credevano nella stabilità monetaria, una delle più colossali truffe che la storia ricordi. Sei miliardi di marchi oro – badate, marchi oro del 1914 – furono pagati dai neutrali e dai sudditi dei paesi ex nemici della Germania nella speculazione sul marco; sei miliardi che la Germania poi si è fatta accreditare in conto riparazioni, in maniera che le riparazioni, per sei miliardi, le abbiamo pagate noi. Il tracollo del marco diede la sensazione che la vecchia mentalità sulla stabilità del contenuto aureo della moneta non rispondeva alla realtà concreta. E allora tutti coloro che avevano pagato del proprio per imparare questa verità economica, crearono una mentalità diametralmente opposta a quella del 1914, e non si credette più nella stabilità monetaria. Non appena una moneta cominciava a correre il rischio di una svalutazione, ecco la gente affrettarsi a mandar fuori i proprî capitali per sottrarsi al taglio della svalutazione ritenuta probabile, e, per questo solo fatto, una svalutazione probabile diventava una svalutazione inevitabile. Se voi ricordate tutte le vicende monetarie fra il 1924 e il 1939 non vedete altro che una serie successiva di svalutazioni monetarie precedute e seguite da fughe e rientri di capitali da parte di coloro i quali pretendevano di essere troppo furbi per sottrarsi alla svalutazione che così veniva effettuata, e ve ne furono alcuni che non furono furbi affatto perché, scappando da un Paese all’altro, incapparono in tutte le svalutazioni monetarie che si sono succedute l’una all’altra. Si scappa da Parigi per andare a Londra e, nel 1931, si perde il 40 per cento; ci si ricovera dopo negli Stati Uniti e nel 1933 si perde un altro 40 per cento del resto; si ritorna a Parigi e nel 1936 si perde ancora un 40 per cento.

Vi furono in Europa dei tentativi di arginare questa situazione, ma i tentativi si svolgevano non nel senso di ricostituire la fiducia, ma nel senso di contenere il fenomeno della fuga dei capitali. Da questi tentativi sono venute fuori tutte quelle forme artificiose del controllo del commercio d’importazione e d’esportazione, tutte quelle forme di vincolismo al movimento dei forestieri, al movimento turistico, al movimento emigratorio, tutto quel complesso di norme restrittive che la Francia cominciò ad inventare nel 1933-34 con uno spirito tutto latino, e a cui tutti gli altri Paesi si sono lanciati dietro, aggiungendo ciascuno qualcosa del proprio, finché poi noi, con la Germania, non raggiungemmo la perfezione in questa materia con la famosa politica autarchica.

Il mondo si era ormai organizzato a base di compartimenti stagni, e ciascuno cercava di difendere la propria stabilità monetaria, non collegandosi al mercato internazionale, ma isolandosi da esso.

Fino a qual punto il sistema avrebbe potuto resistere noi non sappiamo, non possiamo dirlo, perché nel 1939 sopravvenne la seconda guerra mondiale, e si crearono quindi gli elementi per far temere che, a pace fatta, vi sarebbe stata una seconda edizione degli esperimenti del 1929 e del 1936, durante i quali nessuna delle monete del mondo fu esente dalla svalutazione.

La sterlina, che faticosamente era arrivata alla parità nel 1925, nel 1931 cadde. Cadde con lo schianto di un edificio divorato alle basi, perché Londra aveva ripreso la sua funzione di centro del mercato monetario, aveva raccolto per centinaia di milioni di sterline depositi da tutte le parti del mondo e li aveva prestati alla Germania. La Germania nel 1930 disse: io riconosco i miei debiti, però non sono in condizione di pagare. E i crediti di Londra sul mercato tedesco si congelarono. Londra fu sottoposta da ogni parte alla richiesta di sterline. Le partite attive non erano realizzabili; nel giro di tre giorni la Banca d’Inghilterra vide sparire quasi completamente le sue riserve metalliche e una domenica mattina si dovette riunire un Consiglio di Gabinetto – badate, durante la guerra non si era mai riunito di domenica un consiglio di Gabinetto, a Londra – per stabilire che la sterlina non era più la sterlina. Non erano passati 18 mesi e la stessa sorte toccò al dollaro: dovette subire un taglio del 40 per cento.

Alcuni Paesi dell’Europa, noi, l’Olanda, il Belgio, la Francia, la Svizzera crearono il cosiddetto blocco aureo, ma era cosa da niente, un debole tentativo di resistenza; ma nel 1936 cominciò a declinare anche il franco francese e tutti allora, rubando la terminologia dal linguaggio militare, decisero di fare non una svalutazione, ma un allineamento. Eravamo nel 1936: c’era già Monaco in vista, c’era già in vista la seconda guerra. Si adoperano così termini militari: le monete si allineano come tanti soldati, facendo un passo indietro del 40 per cento.

Durante la guerra due studiosi, il Keynes e il White furono incaricati di studiare qualcosa che sostituisse il mercato di Londra nella sua storica funzione di regolatore della distribuzione dei capitali del mondo e quale risultato dei loro studi e dell’apporto dei tecnici, vennero fuori gli schemi dei due accordi: quello per il Fondo monetario e quello per la Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. Badate, che l’accordo per il Fondo monetario ha un’importanza, dal punto di vista storico, che non isfuggirà ai nostri nipoti, quando si occuperanno di queste cose, perché esso crea una moneta di conto che in questo momento non esiste, ma che sarà probabilmente la moneta di conto dell’avvenire: crea il dollaro oro del 1944, il quale corrisponde ancora al dollaro oro del 1947, ma che non sappiamo se corrisponderà anche al dollaro del 1948 o del 1949. Fra cinque o sei anni, noi avremo una nuova unità monetaria che sarà quella su cui saranno fatte probabilmente le statistiche e su cui si intrecceranno gli scambi di notizie sulle riserve auree o altro: il dollaro Bretton Woods, che corrisponde al dollaro equivalente al valore di 35 dollari per ogni oncia di oro fino.

Voi avrete visto probabilmente dalla relazione e dalla lettura degli articoli dell’accordo, in che cosa esso consista: nella sua essenza, esso è un concorso volontario per alcuni fini, di alcuni Stati, a ciascuno dei quali è assegnata una quota del Fondo corrispondente alla sua capacità economica. Sull’assegnazione delle quote vi è stato molto conflitto, vi sono state molte ragioni di conflitto. La Russia non ha ancora dato la sua adesione – a parte eventuali riflessi di politica non di carattere monetario – quasi certamente per il fatto che la quota a lei assegnata è stata da essa giudicata modesta in confronto a quella assegnata alla Gran Bretagna che, in un primo tempo, aveva avuto 1.200 milioni di dollari, contro 900 assegnati alla Russia. In un secondo tempo però l’Inghilterra ebbe assegnati 1.300 milioni e la Russia 1.200, la Gran Bretagna sostenendo, come sua ragione, l’esistenza di quel tale mercato internazionale di cui dianzi vi ho parlato.

Il Fondo amministra queste quote, di cui una parte è versata in oro, ed è la parte minore che corrisponde o al 25 per cento della quota, o al 10 per cento delle disponibilità in valute estere, ragguagliate al dollaro degli Stati Uniti 1944. Ciascuno si può servire del Fondo per effettuare i proprî saldi nelle operazioni di carattere internazionale, comperando le divise di cui ha bisogno, o vendendo quelle che gli sono ordinariamente affluite. Noi avremo quindi due tipi di monete: quelle che verranno più offerte che domandate e quelle che verranno più domandate che offerte. Il secondo gruppo dà luogo alla cosiddetta dichiarazione di «moneta scarsa»; e ad esso apparterrà certamente il dollaro degli Stati Uniti, perché teoricamente tutti i Paesi hanno una potenzialità di domanda di circa 7 miliardi di dollari, mentre di dollari disponibili non vi saranno che circa tre miliardi e settecento milioni. Gli altri Paesi vedranno la loro moneta offerta più che domandata.

Quali scopi ha il Fondo? Prima di tutto fermare la parità. «Beh, adesso allineatevi!» – ecco l’invito del Fondo. – «Stabilite qual è la vostra parità rispetto al dollaro degli Stati Uniti o rispetto all’oro; e questa parità consideratela non come immutabile, ma come modificabile solo a certe condizioni».

Quali sono queste condizioni? Fino ad un 10 per cento la svalutazione può essere fatta direttamente dallo Stato aderente, con notifica al Fondo; per un ulteriore 10 percento, il Fondo, se richiesto prima, deve dare il suo parere non più tardi di settantadue ore prima del giorno in cui la modifica dovrebbe aver luogo. Badate, che se il Fondo dice di no, e lo Stato membro effettua egualmente la svalutazione, automaticamente esso si pone fuori del Fondo. Al di là di questo 20 per cento, uno Stato può anche ulteriormente modificare la propria parità d’accordo col Fondo, e tenendo conto delle condizioni economiche nelle quali il Paese sì trova. Senonché, c’è una clausola negli accordi, che è bene sia messa in evidenza, ed è questa: le svalutazioni di carattere generale non entrano nel calcolo di queste percentuali. Le svalutazioni di carattere generale possono essere effettuate quando vi aderisca la maggioranza degli Stati membri e vi aderiscano individualmente i membri che hanno ciascuno più del 10 per cento della quota. Ora, di membri che abbiano più del 10 per cento della quota non vi sono che gli Stati Uniti d’America e, fino a questo momento, l’Inghilterra. Che cosa vuol dire questo? Che una svalutazione generale di tutte le monete del mondo non potrà avvenire se non vi consentono separatamente gli Stati Uniti e l’Inghilterra. Se sono d’accordo questi due – siccome gli Stati Uniti hanno il 28 per cento e la Commonwealth britannica ha quasi un 26 per cento – fra tutti e due possono imporre agli altri la svalutazione generale; mentre gli altri da soli non potranno mai imporla a ciascuno dei due.

Questa è la situazione. Badate, che questa situazione ha importanza rispetto a quello che vi dirò subito. Qual è il pericolo grave rispetto al quale va incontro il funzionamento del Fondo e che ha costituito una delle ragioni per le quali si sono fatte delle critiche molto aspre sia in Inghilterra che, soprattutto, in America? Come voi sapete, la sterlina ha un rapporto di parità rispetto al dollaro, in cifra tonda, di uno a quattro: 4 dollari equivalgono ad una sterlina. Di fatto, sul mercato libero la sterlina vale molto meno: è quotata con un prezzo che varia da 2.6 fino a 3, secondo i varî mercati. Questa situazione è dovuta al fatto che l’Inghilterra esce dalla guerra con un’economia completamente schiantata.

Essa ha realizzato quasi tutto il suo capitale precedentemente investito all’estero; ma esce dalla guerra con una massa di debiti congelati in sterline, che alcuni tecnici hanno valutato a circa 12 miliardi di dollari.

Ora si pone questo problema: quale sarà la futura parità dollaro-sterlina? Perché, badate, il problema ha un aspetto immediato importante, che è quello di sapere su chi debba gravare l’onere della svalutazione della sterlina. Se la sterlina domani dovesse essere svalutata in maniera da avere una parità ufficiale corrispondente a quella, chiamiamola così, di mercato nero, chi perderebbe? Su questi 12 miliardi di dollari si perderebbe circa un terzo, cioè 4 miliardi di dollari, che andrebbero ad incidere su tutti i creditori dell’Inghilterra che hanno sterline in mano. Soltanto l’India è creditrice per circa 5 miliardi di dollari.

Gli Stati Uniti potrebbero domani rilevare tutti i debiti in sterline ed assumerli per proprio conto, regolando poi i propri rapporti con l’Inghilterra. Ma questo significherebbe far pagare ai cittadini degli Stati Uniti quei tali 4 miliardi che invece dovrebbero pagare i creditori del mercato inglese. Questa è la sostanza del problema. Come si risolverà? Vedremo quale sarà l’indirizzo di politica che vorranno seguire le autorità finanziarie nord americane. Noi siamo troppo piccoli per poter influire in un giudizio di questo genere. Andando a Bretton Woods, cercheremo di difendere, nei limiti del possibile, i nostri interessi, facendoli coincidere con quelli che sono gli interessi generali della economia mondiale. Ma, badate, è questo il problema fondamentale che il Fondo dovrà risolvere: il problema non si pone ancora, perché l’Inghilterra ha ancora tre o quattro mesi di respiro; ancora fino alla prossima estate le sterline possono restare congelate; ma con la prossima estate esse dovranno uscire dal frigorifero, e che cosa accadrà di questa roba che uscirà dal frigorifero, se non sarà pronta una massa finanziaria corrispondente per poter fronteggiare le richieste di rimborso?

Il Governo inglese si era da tempo preoccupato di questa situazione ed aveva fatto un piano di espansione dell’attività economica nazionale, in maniera da esportare il 75 per cento in più della media di esportazione del triennio anteriore al 1939; se non che nei primi 10 mesi del 1946 si è giunti solo a circa il 35 per cento in più; negli ultimi 2 mesi si è scesi al 17 per cento in più; nei primi 2 mesi di quest’anno si è caduti al di sotto del cento per cento, e l’economia britannica, malgrado i sacrifici veramente straordinari ai quali va incontro il popolo britannico in questo memento, non può sopportare a lungo uno stato di privazione tale quale quello che oggi è imposto alla popolazione. Quindi, la speranza di poter pagare tutti i debiti, senza una larga svalutazione, a mio giudizio non esiste.

Si tratta di vedere se ragioni politiche di altro ordine non possano imporre agli Stati Uniti di fare il salvataggio di questa economia dissestata, con una forma di prolungamento della famosa legge dei prestiti e affitti: circa 50 miliardi di dollari che sono stati prestati con la legge dei prestiti e affitti, dei quali 31 all’Impero Britannico, e 11 alla Russia. Dipenderà dalla volontà dei contribuenti americani la scelta della soluzione.

Il Fondo ha, come voi vedete, una delle funzioni vecchie del mercato inglese: provvedere ai bisogni a breve scadenza (quelle che erano le vecchie cambiali finanziarie a 15 giorni, a 1 mese, a 2 mesi). Oggi queste funzioni saranno svolte dal Fondo, il quale deve chiudere il conto in maniera perfetta dentro l’anno. Se vi sono dei crediti, devono subito essere realizzati a spese del debitore o in oro o in divise equiparate all’oro.

Ma sorgeva poi il problema degl’investimenti a lunga scadenza, e a questo si è cercato di provvedere con la Banca per la ricostruzione e lo sviluppo, la quale Banca, in sostanza, tende a creare la base per investimenti che altrimenti non avrebbero la possibilità di essere finanziati, sostituendo ad una garanzia singola la garanzia collegiale di un ente in cui sono rappresentati tutti gli Stati del mondo. Il capitale della Banca è su per giù lo stesso di quello del Fondo, ma di esso è versato soltanto il 20 per cento (quindi circa 1.600 milioni di dollari), cifra che segna i limiti dei prestiti diretti da parte della Banca. Fino al resto del capitale la Banca può dare garanzie oppure può emettere obbligazioni in dollari Bretton Woods con il consenso degli Stati nei quali le obbligazioni devono essere collocate.

Si tratta di creare un congegno che cominci a far circolare di nuovo i capitali fra i paesi che ne hanno molti e i paesi che ne hanno pochi. I mezzi predisposti non sono molto abbondanti: 1.600 milioni di dollari in prestiti diretti e 8.000 milioni in prestiti garantiti sono una goccia d’acqua rispetto alle necessità dei paesi che devono essere ricostruiti. Ma il non poter fare che poco non è una ragione perché si debba rinunciare anche a questo poco in un mondo in cui il prevalere degli egoismi tende a disintegrare completamente lo strumento con cui l’economia del mondo si dovrebbe svolgere.

Che interesse abbiamo noi ad andare a Bretton Woods? Bisogna che la gente si metta in testa che quando noi saremo stati accolti a Bretton Woods non avremo risolto nessuno dei nostri problemi fondamentali. Vi sono delle illusioni a questo proposito. C’è qualcuno che crede e dice: Beh, adesso ce ne andiamo a Bretton Woods e non ci saranno più problemi per l’Italia.

No, niente affatto, i problemi ci sono, Bretton Woods avrà soltanto il merito di porceli, non soltanto rispetto a noi stessi, ma rispetto al mondo con cui intendiamo di essere collegati.

È per questo che da taluni è stata ventilata qualche riserva sull’opportunità in questo momento di aderire a questi accordi; in una situazione monetaria come quella nella quale ci troviamo, si dice, ci conviene di legarci con una parità fissa? La risposta potrebbe anche essere negativa. Ma, ci conviene rimandare a tempo indeterminato lo stabilimento di una certa parità? Ma, quale ingegnere si potrebbe mettere a costruire un palazzo, se non gli si dice quale è il metro con cui dovrà misurare le finestre, i mattoni, le fondamenta, i tetti? Se no, finirà col fare una finestra a sghimbescio, un portone che casca da un lato, ecc., ecc. La ricerca della stabilità monetaria è un problema che ci dobbiamo porre, e che dobbiamo voler risolvere. Se, per risolverlo, l’ingresso a Bretton Woods costituisce un motivo psicologico che ci aiuti a vincere questa forma di abbandono a noi stessi, questo senso di fatalismo, noi dobbiamo auspicarlo. No, le cose non si accomodano per conto proprio, so noi non contribuiamo a farle accomodare nel senso a cui corrispondono le esigenze del Paese. (Applausi).

Tuttavia potremo raccomandare al Governo di chiedere all’Amministrazione del Fondo che non ci obblighi a fissare subito una parità, che ci conceda quelle dilazioni che sono previste dall’accordo, in maniera da darci un po’ di tempo per vedere come le cose si mettono. Ma non molto tempo, badate bene, perché vi è la necessità di ricorrere alla Banca. Quello che la Banca ci potrà dare è poco, d’accordo; ma per noi può essere indispensabile quel poco, perché io sono convinto che noi avremo ancora qualche anno da dover tirare i denti, ma poi ci tireremo fuori; e in quest’anno quel qualsiasi aiuto che ci viene sarà forse quello che ci consentirà di vivere fino al giorno in cui potremo andare avanti per conto nostro.

Né si può dire che il ricorso al Fondo ci precluda la possibilità di aiuti diretti da ricercare sui mercati nei quali i capitali sono disposti a venire verso di noi, perché, se noi rifiutassimo di aderire al Fondo, allora la gente potrebbe dire: «L’Italia deve essere veramente in tali condizioni caotiche, che non è voluta andare neppure a Bretton Woods, malgrado l’avesse chiesto un anno fa». Mentre, il giorno in cui si saprà che noi siamo andati a Bretton Woods, che siamo stati accolti a Bretton Woods, il discorso cambierà. Bretton Woods non è un ospedale in cui si accolgono i morti; negli ospedali i morti non si ricevono, si accolgono i malati per guarirli e noi siamo appunto un malato che ha moltissime probabilità, anzi la quasi certezza di guarire, se agli strumenti tecnici che l’adesione agli Accordi ci consentirà di adoperare, aggiungeremo quel minimo di buona volontà che è necessario perché i vari problemi siano affrontati e risolti.

Vorrei fare ancora una considerazione, e con questa avrò finito.

L’adesione agli Accordi di Bretton Woods è indipendente dal Trattato di pace; non c’è nessun collegamento con esso. Noi l’abbiamo ottenuta in condizioni di perfetta parità morale e politica con tutti gli altri Stati aderenti.

Credo che questa circostanza debba essere messa in rilievo, perché è, in fondo, il primo velo che copre il ricordo della sconfitta, è il primo passo che lo Stato italiano compie in condizione di eguaglianza con gli altri Stati vincitori nel mondo. E in un mondo in cui troppa gente dimentica che il costo di un giorno di guerra potrebbe servire a lenire le miserie di milioni di vite umane per anni interi, in un mondo in cui non si sa se il cuore nostro si debba aprire alla speranza di un avvenire in cui sia utilizzata, a fini pacifici, l’energia del nucleo, o al terrore in cui debba essere utilizzata la bomba atomica, in questo mondo l’Italia vuole entrare per portare il suo desiderio infinito di pace e di collaborazione, per camminare con gli altri popoli, a parità, verso un mondo migliore. (Vivissimi generali applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Treves. Ne ha facoltà.

TREVES. Onorevoli colleghi, io accolgo, senza riserva, e direi con riconoscenza, l’invito che ci ha rivolto il nostro illustre Presidente a non volere inutilmente prolungare questa discussione. Sarebbe, senza dubbio, molto invitante, approfittare di questo dibattito sulla nostra partecipazione agli accordi di Bretton Woods, per porre, in qualche modo, in discussione tutta la politica finanziaria del Governo. E non sarebbe, forse, nemmeno andare completamente fuori tema perché – lo possiamo pur dire – solo questo progetto di legge è il risultato, visibile almeno, di tutta la politica finanziaria del Governo in questi ultimi mesi, nonostante che nelle dichiarazioni programmatiche dell’onorevole Presidente del Consiglio a questa Assemblea si sia posta la politica economica e la stabilizzazione della lira a fondamento del suo programma di Governo.

Effettivamente, in questa situazione di aumento continuo della circolazione monetaria, che oggi potrebbe, credo, superare di parecchio i 510 miliardi del 10 febbraio contro i 485 a fine dicembre. 1946, non penso che sia molto differibile una discussione generale sulla politica finanziaria del Governo. Ma non sarebbe tuttavia una ragione per fare il viso dell’arme – anche per noi che non siamo sostenitori della politica finanziaria del Governo – a questo disegno di legge che ci chiede di approvare la partecipazione italiana agli Accordi di Bretton Woods. Anzi, appunto perché noi crediamo di dover circondare di molte riserve la concezione politico-finanziaria del Governo, vediamo con soddisfazione questo inizio, al quale noi diamo il nostro appoggio. Ed io qui mi limiterò a spiegare perché il Gruppo parlamentare, a cui mi onoro di appartenere, voterà a favore di questo disegno di legge.

Non tenterò una discussione tecnica, specialmente dopo il discorso dell’onorevole Corbino, perché, devo confessare agli onorevoli colleghi che tutte le volte che sento l’onorevole Corbino, mi spavento terribilmente. Lo dico senza nessunissima irriverenza, anzi col massimo rispetto per lui; ma tutte le volte che lo sento parlare non posso trattenermi dal pensare ad una specie di mago, il quale fa saltare fuori dei miliardi, specialmente dalle dita, ma sono miliardi che escono dalle dita della mano destra e ritornano nelle dita della mano sinistra. Mi perdoni l’onorevole Corbino questa figurazione letteraria, ma essa mi serve a dire perché non lo seguirò su questo terreno, anche perché sarebbe da parte mia una stolida presunzione.

Ma è innegabile che noi dobbiamo considerare gli Accordi di Bretton Woods sotto due aspetti: un aspetto tecnico e anche, sostanzialmente, un aspetto politico.

Sotto il primo punto, ripeto, non mi dilungherò. Noi non ci nascondiamo tutte le riserve che si potrebbero avanzare al riguardo, che sono già state espresse in parte dall’illustre oratore che mi ha preceduto e sono state anche a lungo analizzate nelle riunioni della Commissione che hanno preceduto questa discussione plenaria, soprattutto sulla inadeguatezza della quota che ci viene fatta di 180 milioni di dollari, che rappresenta forse la metà di quella che dovrebbe essere logicamente la nostra quota. Notiamo con soddisfazione che nella stessa relazione che ci viene presentata dagli onorevoli colleghi La Malfa e Lombardo, si suggerisce di chiedere fin dall’inizio una revisione sostanziale della nostra quota. Altro motivo, se non di preoccupazione, di discussione, potrebbe essere la non partecipazione agli Accordi di altri paesi che hanno notevole importanza non solo nella generale linea finanziaria e politica del mondo, ma coi quali noi abbiamo rapporti economici notevoli. Ma a questo punto mi si può rispondere che il medesimo congegno tecnico di Bretton Woods non esclude, anzi ammette, che noi possiamo in piena e assoluta libertà continuare, e se possibile sviluppare, i nostri rapporti economici con queste nazioni.

In sostanza, noi vediamo in questa nostra adesione agli accordi di Bretton Woods un primo passo, ma solo un piccolo primo passo, verso quella che deve essere l’ultima mèta nostra, quella per cui l’onorevole Ministro del tesoro ha certo molta preoccupazione – e sicuramente superiore a quella che egli possa avere per altri recenti motivi – cioè la stabilizzazione monetaria. Si potrebbe affermare che noi abbiamo molto poco, forse niente da perdere e, in realtà, probabilmente, qualche cosa da guadagnare dalla nostra adesione agli Accordi di Bretton Woods e in questo senso io riassumerei ciò che volevo dire sotto l’aspetto tecnico.

Ma per noi molto più importante è l’altro aspetto, che possiamo chiamare politico. Vorrei anche aggiungere che la politica finanziaria in genere non si limita alla pura tecnica; vi è sostanzialmente in una buona politica finanziaria – particolarmente per quanto riguarda quello che può essere il consenso popolare – necessariamente un problema politico, un problema di sensibilità politica. È infatti soltanto grazie a una chiara concezione politica che qualsiasi politica finanziaria può poi suscitare nei Paese un particolare senso di civismo, di comprensione e di entusiasmo per determinati problemi; problemi che sono necessariamente complessi, come abbiamo visto nell’esempio recente di molte Nazioni europee, che i colleghi ricordano, senza che io insista, e che sono relativi alle esperienze fatte in Francia e in Inghilterra.

Quanto all’aspetto politico della questione, noi siamo favorevoli perché questi accordi si inquadrano sostanzialmente in quel grande processo di ritorno dell’Italia all’Europa e al mondo che è l’aspetto più caratteristico di questo periodo storico. Non solo, ma esso costituisce il nostro compito fondamentale, compito fondamentale di tutti noi in questo difficile e disgraziato dopo-guerra, cioè di cercare di far rientrare, quanto più rapidamente possibile, e con parità di diritti ed eguaglianza di doveri, il nostro Paese nella grande famiglia internazionale, nella compagine internazionale intesa nel suo senso migliore.

Noi non siamo certo di coloro che nutrono dei dubbi o malguariti e nostalgici desideri di nazionalismo. Noi pensiamo, al contrario, che esiste la fondata speranza pel nostro Paese di ritornare al più presto possibile a quella posizione di dignità e di rispetto che gli compete nell’ambito internazionale.

È in questo senso che noi consideriamo con favore la nostra adesione agli accordi di Bretton Woods, che rappresentano, come già è stato notato, il primo passo per il nostro ritorno di pieno diritto e in condizioni di parità nella vita economica internazionale.

Infatti, se noi abbiamo bisogno di aiuto possiamo anche pensare che non sempre dovremo chiedere aiuto e che potremo, una volta rientrati nel circolo delle Nazioni democratiche, avere anche qualcosa da offrire a queste Nazioni, all’Europa e al mondo intero, per merito soprattutto delle classi lavoratrici, che con la loro tenacia, con la loro tecnica e col loro sacrificio potranno ancora aiutarci a farci riprendere il posto a cui abbiamo diritto.

Per tornare alla tecnica degli Accordi di Bretton Woods, sappiamo benissimo che la nostra adesione non è un toccasana, non è un colpo di bacchetta magica, che ci farà superare tutte le difficoltà: non è che un primo passo e sappiamo che il vero risanamento della nostra moneta non verrà di qui; sappiamo che molte altre misure dovranno esser prese. E qui necessariamente si riaprirebbe la discussione sulla politica finanziaria del Governo, di cui noi non siamo sodisfatti.

Ma ho detto le ragioni per cui, pur essendo oppositori sulla politica generale, noi siamo favorevoli a questo disegno di legge, anche perché speriamo, pur senza soverchie illusioni, che anche dalle conseguenze di esso un qualche alleviamento possa venire alla nostra situazione nell’ora che volge, ora di espiazione di un recente passato e soprattutto per coloro che di questo passato non sono colpevoli (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Montini. Ne ha facoltà.

MONTINI. Dopo quanto è stato detto in merito, io mi limiterò ad un aspetto indiretto dei patti di Bretton Woods, ad un aspetto complementare, e quasi essenzialmente sociale. Gli accordi di Bretton Woods fanno parte di quel piano di collaborazione internazionale che è stato studiato quando si pensava alla pace autentica, alla pace della Carta Atlantica per una concreta solidarietà fra i popoli.

La prima tappa di quella pace era un vasto programma di immediato sollievo delle zone devastate dalla guerra. E nasceva così l’U.N.R.R.A., alla quale era appunto affidato questo compito di intervento a fondo perduto: un’assistenza per assicurare la prima ripresa della vita.

Il compitò è stato in gran parte assolto. Ma rimane oggi ancora in certo grado aperto, perché effettivamente non venne peranco raggiunto lo scopo di assicurare le condizioni essenziali della ripresa autonoma, sia pure modesta, dei Paesi devastati. Mancano ancora quelle condizioni minime che consentano almeno di poter lavorare al limite del sostentamento assicurato: anche se si vuol ridurre questo limite al così detto «miuimo essenziale». Tanto che è stato osservato che, interrompendosi l’opera dell’U.N.R.R.A., ci si troverà come chi, provvedendo alla costruzione di un edificio, lasci mancare il tetto, sicché si minaccia in un certo senso la inutilità degli stessi soccorsi avuti, se ancora resta scoperto il bisogno essenziale del pane, senza del quale è vano pensare alla produzione e agli scambi.

È proprio qui che viene il commento ai patti di Bretton Woods, perché essi sono bensì la seconda, o una delle successive tappe della collaborazione e della solidarietà internazionale, ma essi presuppongono essenzialmente che sia in qualche modo compiuta, o almeno assicurata la prima.

Infatti il sistema di Bretton Woods postula un qualsiasi possibile equilibrio economico-finanziario, di cui il Fondo e la Banca vengono a garantire un più efficiente e normale funzionamento. Ma si può aiutare e sostenere ciò che non abbia una base di esistenza?

Invero il Fondo monetario, come detto nella stessa relazione, svolgerà la propria funzione di regolatore del mercato internazionale delle valute, vendendo ai Paesi aderenti la valuta di altri partecipanti, in cambio di oro o della propria moneta, purché la richiesta sia determinata dalla necessità di correggere «temporanei» squilibri della bilancia dei pagamenti per partite correnti e per importi «limitati»

D’altro canto, la Banca interazionale ha il compito di facilitare gli investimenti per aumentare la produzione; ed appare come complemento del Fondo, facilitando con opportune operazioni di credito e garanzie la partecipazione degli Stati del Fondo e l’adempimento di essi dei conseguenti impegni.

Fondo e Banca presuppongono quindi un intervento solo occasionale, direi marginale, nella economia di un Paese. Ma quali sono le condizioni della bilancia italiana? Riferiamo dei dati che sono noti a tutti.

Secondo le più attendibili previsioni, l’Italia dovrà importare nel 1947 merci diverse per circa 1.230 milioni di dollari, tenendo l’indice di alimentazione a circa il 90 percento del periodo pre-bellico e tenendo pure al 90 per cento il livello globale dell’attività industriale.

Di contro a questa cifra di un miliardo e duecentotrenta milioni di dollari non si può fare assegnamento, secondo i calcoli più probabili e attendibili, del resto già noti a questa Assemblea, su più di 630 milioni di dollari per esportazioni e partite invisibili. Il deficit della nostra bilancia dei pagamenti ammonterebbe quindi a 600 milioni di dollari.

Per certe voci di tale scoperto si può confidare in prestiti ed operazioni relative, ed è ciò che speriamo ottenere con la partecipazione ai patti di Bretton Woods. Ed è questa precisamente la sua funzione e la ragione precipua per la quale intendiamo votare favorevolmente all’accordo. Ma, esaminando la natura dello scoperto – ed è questo il punto fondamentale, sul quale mi soffermerò per pochi minuti – troviamo che la cifra più cospicua di questo scoperto corrisponde quasi esattamente non già a necessità economiche, industriali o finanziarie, ma alla pura cifra del fabbisogno alimentare di cereali! Ora, è ben difficile chiedere ed ottenere prestiti, anche a Bretton Woods, per andare a comperare il pane.

Questo ci dice che le provvidenze di Bretton Woods riguardanti la restaurazione della nostra vita economico-fìnanziaria e la ripresa della nostra produzione minacciano di essere un’illusione, se con tali provvidenze di carattere finanziario non continuino, almeno per qualche tempo, a concorrere ancora le provvidenze assistenziali.

E ciò proprio nell’interesse stesso della stabilità del piano proposto sulla base di Bretton Woods. Infatti, non solo è evidente – come è stato osservato a suo tempo dall’amministratore delegato stesso del Fondo – che uno squilibrio strutturale dei rapporti di commercio estero non potrebbe trovare un rimedio nel ricorso al Fondo monetario, ma lo stesso sistema previsto ne sarebbe pregiudicato. Il delicato strumento previsto per aggiustare gli squilibri temporanei e contenuti in una certa normalità, sarebbe addirittura rovinato dalla ampiezza dello sforzo a cui verrebbe sottoposto, o meglio è logico pensare che non otterrebbe neppure i mezzi e la fiducia sufficiente per intraprendere il proprio funzionamento.

Noi ci apprestiamo quindi a partecipare agli Accordi di Bretton Woods per impostare anche con questo mezzo l’opera di ricostruzione e di sviluppo del nostro Paese. Ma, consci della situazione reale in cui siamo, intendiamo ripetere che le ulteriori necessità di assistenza del nostro Paese postulano necessariamente la connessione con altre fonti di risanamento iniziale della nostra vita.

Del resto, gli organi stessi responsabili della vita internazionale «si rendono conto di questa nostra situazione. Il Consiglio economico sociale dell’O.N.U. ha nominato una Sottocommissione per le zone devastate, ed ha fatto compiere un’inchiesta a questo proposito. La Sottocommissione ha constatato che anche il nostro Paese, per far fronte al suo fabbisogno minimo, avrà ancora necessità di un certo grado di aiuti assistenziali.

I calcoli di questa Sottocommissione hanno fatto segnare a circa 107 milioni di dollari, per quest’anno, il conto del nostro fabbisogno minimo. La cifra è assai inferiore al reale. Ciò è provato da un bilancio di previsione – con dati molto più fondati – fatto dal nostro Governo col controllo della stessa missione dell’U.N.R.R.A. Comunque il principio indiscutibile è questo: nel bilancio commerciale dell’Italia non deve entrare, almeno per quest’anno, il conto dei generi di prima necessità alimentare.

Il popolo italiano non è oggi in grado di pagare né tutte le materie prime industriali che gli occorrono per la sua vita economica, né tutti gli alimenti che gli occorrono per la sua vita fisica.

Lavorando e appoggiandosi alla organizzazione creditizia internazionale, il Paese potrà pareggiare il bilancio dei bisogni industriali. Ma il pane non può entrare nel conto di questa prima restaurazione.

Quel che si dice per il saldo immediato dei bisogni assistenziali, si dovrebbe estendere alle clausole economiche del Trattato di Pace, clausole tanto inique quanto illogiche che, se applicate, verrebbero ad annullare radicitus il programma e il sistema di Bretton Woods.

La partecipazione agli Accordi è uno dei presupposti per la creazione di condizioni normali dei traffici e della vita fra i popoli (come è detto nella relazione) e d’altra parte lo scopo delle due grandi istituzioni è appunto quello di aiutare i paesi rovinati dalla guerra a raggiungere una condizione relativa di stabilità economica.

L’Italia, quindi, si appresta ad accogliere questi patti e a concorrere al funzionamento del sistema; ma un senso realistico ci impone la messa a punto delle nostre condizioni. Gli Accordi di Bretton Woods hanno il loro campo d’azione limitato non solo per la disponibilità dei mezzi, ma anche per la loro intrinseca natura strettamente finanziaria. Ne prendiamo atto per volgere anche altrove la nostra azione.

E noi pensiamo, proprio che il nostro accenno alle necessità assistenziali del nostro Paese costituisca in questo momento un atto di realistica onestà di fronte agli impegni che vogliamo assumere e che abbiamo interesse di assumere. Gli aiuti assistenziali, di cui denunciamo il bisogno, debbono divenire in certo senso una garanzia del funzionamento stesso degli Accordi di Bretton Woods.

Noi intendiamo votare favorevolmente l’adesione a Bretton Woods. Con ciò intendiamo fare un atto di consapevolezza nella vitalità ricostruttiva del nostro Paese e un atto di fiducia nella solidarietà e nella collaborazione internazionale.

Noi siamo certi che organizzare la pace è opera complessa e che la pace si realizzerà solo attraverso alla convergenza di molte attività, di molte strutture giuridiche, economiche e sociali. I Patti di Bretton Woods sono uno degli elementi più forti è più sicuri della struttura economica della pace. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Dugoni. Ne ha facoltà.

DUGONI. Onorevoli colleghi, il Governo chiede a noi, oggi, che sediamo qui in sede di legislatori, la nostra approvazione affinché egli possa accettare i termini e le condizioni poste dai governatori del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo per la nostra adesione ai due istituti internazionali predetti. In secondo luogo, il Governo ci chiede di essere autorizzato, in sede di approvazione della legge, a porre la sua firma ai testi che sono stati preparati a Bretton Woods e che ivi sono stati firmati il 22 luglio 1944.

Due sono i problemi che abbiamo davanti a noi: da una parte le condizioni poste per la nostra adesione e dall’altra l’accettazione delle condizioni generali che riguardano il regolamento della Banca e del Fondo internazionale.

Io non mi attarderò ad esaminare i dettagli dell’una e dell’altra questione. Questo è stato fatto dal precedente oratore onorevole Corbino con molta chiarezza; e ci è stato esposto con minuzia e con gran precisione dalla relazione ministeriale e dalla relazione parlamentare. Ma noi non possiamo non sottolineare, come è già stato fatto, l’enorme importanza di questo tentativo di riportare su un piano internazionale una parte almeno delle difficoltà che ogni Stato trova nell’uscire dall’immane flagello che è stata la seconda guerra mondiale. È indubbio il fatto che la Banca dei regolamenti internazionali, legata al problema delle riparazioni con la Germania, veramente non ha mai potuto essere uno strumento efficace, e che dopo la scomparsa del mercato di Londra a cui ha accennato l’onorevole Corbino, questo è veramente il primo, notevole, serio tentativo di riportare sul piano internazionale questo grande travaglio che ogni nazione deve subire per togliersi dalle conseguenze di carattere sottoproduttivo e di carattere ricostruttivo relative alla guerra. Il processo economico produttivo che segue a queste difficoltà è evidente. Gli esperti di Bretton Woods pensarono che, oltreché mettere a disposizione, almeno in modo indiretto. l’85 per cento dell’oro a favore di tutte le nazioni che con buona volontà concorrono al lavoro della ricostruzione, si doveva anche prevedere il passaggio dei debiti a breve scadenza in debiti a lunga scadenza. E per questo è stato provveduto alla creazione di una Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo.

L’unanime adesione data prima separatamente e poi in seduta plenaria dalla Commissione dei Trattati internazionali e dalla Commissione permanente per l’esame dei decreti-legge di finanza e tesoro, sono una prova che non vi è nessuna differenza di valutazione circa la nostra adesione a questi accordi e l’accettazione dei termini posti dai governatori del Fondo e della Banca.

Però noi non possiamo passare sotto silenzio, come è stato già segnalato, che la quota assegnata all’Italia è insufficiente non solo ai nostri bisogni, ma anche agli effetti di mantenere l’Italia solidale ad una data direttiva di politica monetaria internazionale. Quando si ponga mente alle cifre riportate testé dall’onorevole Montini e che portano il nostro fabbisogno a 1.500 milioni di dollari per le importazioni del 1947, di cui solo una modesta parte potrà essere coperta dalle nostre esportazioni, noi vediamo che il giuoco delle percentuali annue nell’ambito della nostra quota di 180 milioni di dollari ci lascia ben poche risorse, anche se noi riuscissimo a ridurre il nostro bilancio ben al di sotto delle cifre che sono state accennate dall’onorevole Montini.

D’altra parte non possiamo neppure tacere che ci preoccupa la mancata adesione a questi due grandi Istituti internazionali di molti paesi importanti sia dal punto di vista politico che dal punto di vista finanziario: accenno alla Russia, all’Australia, alla vicina Svizzera. È vero che questo accordo non ha carattere esclusivo; ossia noi possiamo stringere accordi con questi altri paesi, indipendentemente dalla loro adesione o meno agli accordi di Bretton Woods; ma è altrettanto vero che più cordiali, più intimi, più facili, più rapidi sarebbero stati i nostri rapporti se queste nazioni avessero partecipato agli Accordi medesimi.

Le osservazioni che devono essere fatte a nome del Gruppo parlamentare socialista, a proposito del progetto legislativo che sta ora avanti a noi e di cui il Governo chiede a noi l’approvazione, saranno brevi ed essenzialmente di carattere tecnico per una parte, e per l’altra parte consisteranno in un accenno alla necessità di inquadrare questi accordi internazionali in una determinata politica finanziaria nostrana.

Sul terreno puramente tecnico (già l’onorevole Corbino lo ha accennato), noi saremo temporaneamente autorizzati a mantenere il sistema delle monete multiple. Ora è indubbio che questo sistema porta in sé uno spirito nettamente contrario, opposto a quello che è lo spirito informatore degli Accordi di Bretton Woods. Questi accordi vogliono portare diversi paesi sul piano di una unità monetaria unica, di una unità monetaria internazionalmente controllata e internazionalmente sostenuta, ma sostanzialmente tendono a che una sola sia la parità delle monete nazionali con l’oro e quindi nei rapporti con le altre monete.

Ma noi saremo, a termini dell’Accordo internazionale di Bretton Woods, obbligati a denunziare al Fondo la nostra parità aurea. Ora, io credo che sia molto difficile all’ora attuale poter determinare, con elementi di sufficiente fondatezza, quale sia il valore di parità aurea della nostra lira, che abbia almeno due probabilità: cioè quella di durare un certo periodo di tempo e quella di non sottoporre certi settori della nostra economia ad uno sforzo sproporzionato alla loro situazione attuale. Ci sembra pertanto necessario che noi attendiamo il più possibile per formulare la nostra parità aurea, non per aspettare situazioni più favorevoli o per sottrarci ad un obbligo che riconosciamo, ma per le ragioni dette prima, anche tenendo conto del fatto che questo non ci impedirà di usare delle facilitazioni previste dal Fondo e che saremo autorizzati provvisoriamente a comprare con moneta nazionale monete estere auree come il dollaro.

D’altra parte, quando noi dovremo fare, e faremo, la dichiarazione ufficiale della nostra parità, io sono d’avviso che bisognerà tener conto, non dei cambi ufficiali che hanno regolato la nostra moneta nei 60 giorni che precederanno la dichiarazione, ma del reale potere d’acquisto della lira. Solo tenendo conto di questo fondamentale e – direi quasi – unico indice, noi potremo dare a questa parità un valore che sia vicino il più possibile alle due condizioni della durata e della uguaglianza per tutti i settori a cui ho accennato prima.

L’altro problema strettamente tecnico che abbiamo da esaminare è quello relativo al versamento della nostra quota.

Come voi ben sapete, onorevoli colleghi, i 180 milioni di dollari che siamo chiamati a versare, dovranno essere composti, per una parte dalla minor somma di oro fra il 25 per cento della quota stessa ed il 10 per cento delle nostre riserve auree, o in dollari degli Stati Uniti. (Nessuna altra moneta entra in conto). Ora, è certo che, dato il fatto che la nostra riserva aurea è stata sottratta dal tedesco invasore, noi non possiamo attualmente determinare con facilità quali sono le nostre riserve. Conseguentemente, dovremmo chiedere di versare una somma provvisoria, in attesa che sia definita la nostra disponibilità. Ed in questo caso io credo che dovremmo versare una somma che sarà di molto inferiore ai 10 milioni di dollari aurei. Resta, sempre, una somma di 170 milioni di dollari che dovremmo versare in moneta nazionale.

Ora, problema è grave, perché come raccoglieremo noi queste somme, cioè questi 170 milioni di dollari in lire? Dovremmo raccoglierli dal mercato e chiuderli nei forzieri della Banca d’Italia, che li deterrà per conto del Fondo internazionale con i possibili inconvenienti deflazionistici relativi? Oppure preferiremmo la seconda via che ci è aperta, cioè quella di depositare delle obbligazioni di Stato dentro le casse della Banca d’Italia? Io credo che dovremo seguire il secondo procedimento.

Però, i tecnici devono tener presente che avremo, in un secondo momento, il problema inverso; cioè, quando useremo di queste obbligazioni per comperare valuta estera con la quale verranno delle merci sul mercato nazionale, dovremo stare attenti che in quel momento non si produca il fenomeno inverso. Questa è la preoccupazione che io segnalo.

E mi avvio rapidamente alla conclusione, parlando della necessità che questi begli Accordi di Bretton Woods non creino illusioni e non siano presi per una specie di toccasana. Essi sono – e mi associo con questo a quanto ha detto l’onorevole Treves – degli strumenti, dei fattori utili per la nostra ripresa nazionale, ma non ne sono né un presupposto né una garanzia. La nostra salvezza monetaria dipenderà da altri fattori. L’imponenza della inflazione è quella che è, e tutti la conoscono; ma noi socialisti ne siamo particolarmente preoccupati, perché non crediamo che la politica monetaria sia principalmente, se non esclusivamente, un problema che riguardi i detentori di capitali e di mezzi di pagamento: crediamo che la politica monetaria riguardi soprattutto la classe lavoratrice, perché, in ragione della loro debole posizione iniziale, della loro mancanza di mezzi accantonati, di fronte ad una decurtazione dei loro salari reali, non hanno che un modo per difendersi: quello di ridurre il loro consumo, mezzo che, voi comprendete benissimo, si esaurisce in un brevissimo tempo.

Da qui il nostro vivo interesse a combattere l’inflazione; da qui il nostro prendere posizione, sempre energicamente, contro la mentalità delle classi industriali che, come l’onorevole Corbino ha dimostrato in un brillante articolo, sono per struttura inflazionistiche; da qui il nostro appoggio incondizionato ad ogni iniziativa che possa aiutarci ad uscire da queste insidiose sabbie mobili.

Ma noi dobbiamo credere che solo da una politica unitaria, nel senso di una politica finanziaria e monetaria unitaria, noi ricaveremo un qualsiasi giovamento per la nostra situazione, Noi abbiamo visto dei dolorosi esempi di fughe di capitali dal nostro Paese, abbiamo visto che, avendo concesso una certa libertà di valuta a determinate categorie di cittadini, si sono avute delusioni (per non dire elusioni) sistematiche. Perciò noi abbiamo sempre invocata una certa pianificazione, e crediamo che, oggi, questa pianificazione debba essere imposta. È inutile che noi abbiamo in mano quegli strumenti che stiamo oggi approvando, se non siamo in grado di farli giovare alla collettività.

Quando avremo approvato gli Accordi di Bretton Woods, che ci sono cari perché in parte sottraggono al monopolio privato gli spostamenti di capitali e i mezzi di pagamento nel campo internazionale, bisognerà che il Governo per inerzia, o per incapacità, non se li lasci cadere di mano, ma che siano tenuti saldamente, affinché siano adoperati a favore delle classi lavoratrici.

D’altra parte, onorevoli colleghi, io credo che sia una buona occasione questa per ricordare che i continui quos ego del cambio della moneta e dell’imposta straordinaria devono cessare di risuonare a vuoto. Se vogliamo fare il cambio della moneta facciamolo, ma non parliamone più; se dobbiamo introdurre, come si deve introdurre, la imposta straordinaria sul patrimonio, introduciamola senz’altro. Saranno questi i complementi necessari agli Accordi di Bretton Woods. Su questi Accordi internazionali si dovrà basare la nostra politica (altrimenti sarà inutile averli approvati), per metterci in condizione di farli giocare a favore dell’intera collettività.

Noi, ripeto, siamo convinti che i sistemi liberisti, che hanno prevalso nel nostro Paese in questo dopoguerra, siano una delle cause principali per le quali ci troviamo nell’attuale estrema difficoltà finanziaria. Io sono convinto anche che le difficoltà di tesoreria derivano dallo stesso malanno; e che l’arenamento delle nostre esportazioni, perché i nostri prezzi sono divenuti troppo cari sul mercato mondiale, ha esattamente la stessa origine. Ora io credo che, noi, appoggiando l’opera del Governo per l’approvazione degli Accordi di Bretton Woods, avremo fatto un primo buon passo avanti nella stabilizzazione della moneta, primo problema che ci deve preoccupare, perché, quando la moneta è stabile, stabile è la democrazia, rispettato è il Governo, e, soprattutto, garantito è il minimo di vita delle classi lavoratrici. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Einaudi. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Dopo quanto hanno detto gli oratori che mi hanno preceduto, non mi tratterrò più sull’aspetto tecnico della questione. L’amico Corbino ha già ampiamente illustrato, ed altri fra cui l’oratore che mi ha preceduto, onorevole Dugoni, hanno aggiunto nuove osservazioni. Dirò piuttosto la ragione fondamentale per la quale ritengo sia necessario aderire all’istituzione del Fondo e della Banca internazionale. Questa ragione è, ai miei occhi, soprattutto di carattere economico-storico. Lo ha già detto Corbino: noi abbiamo attraversato, prima del 1914 un’epoca felice che io temo non si riprodurrà mai più. Il secolo trascorso dal 1814 al 1914 è stata una parentesi nella storia del mondo, parentesi la quale probabilmente noi della generazione attuale e forse di parecchie generazioni avvenire non vedremo più.

Uno degli aspetti caratteristici di quel secolo felice è stato il mito dell’oro, vorrei piuttosto chiamarlo la magìa dell’oro. Se parlasse, invece di un economista, una nonna ai suoi nipotini e volesse raccontare quello che accadeva prima del 1914, quando anche i bambini potevano sodisfare le loro esigenze di zucchero e di pane bianco, essa certamente direbbe: c’era una volta un mago, uno di quei nani o gnomi che voi bambini avete contemplato quando siete andati alla rappresentazione di «Biancaneve e i sette nani»; uno di quei nani di cui nessuno poteva prevedere a priori le decisioni, ma che intanto guidavano gli uomini e che impedivano che gli uomini facessero del male. Il mago dell’oro era certo un mago di seconda qualità. Se dovessi dire in quale paese del mondo vi sia una moneta perfetta, imparziale, neutra, come ora dicono gli economisti, direi che questo paese si trova in un’isola sperduta del Pacifico, nel quale la leggenda ha immaginato che in tempi remotissimi cadessero nell’isola una quarantina di grossi massi. In verità quei massi sono alquanto squadrati, non si sa se da sacerdoti o dagli dei che in epoca antecedente li avevano formati: ma erano in numero determinato. La leggenda, il mito ha trasformato quei massi nell’unica moneta esistente in quell’isola. Sono massi enormi che non possono essere trasportati dalla forza dell’uomo. Eppure essi, nonostante la loro immobilità, servono all’uso monetario più e meglio di quello che servissero le monete manovrate dal 1814 fino ad oggi. E perché servivamo più di quanto non servissero le monete manovrate dalla pazienza degli uomini? Perché non c’è nessuna forza al mondo che in quell’isola possa variare il numero di quelle unità monetarie. Sono biglietti alquanto pesanti ed anzi immobili, per i quali non può agire il torchio. Essi appartengono a coloro che per transazioni successive ne sono venuti in possesso.

Tutti i contratti di quell’isola – che non so se sia felice, ma che certo dal punto di vista monetario è di esempio a tutto il mondo – tutti i contratti si fanno con la trasmissione ideale di quei massi. Tutti quelli che vendono qualcosa o trasferiscono un diritto acquistano quei massi e gli acquirenti vanno a contemplarli e se ne ritengono i padroni. Nessun uomo di governo, nessun capo tribù può variare il numero di quei massi di oro.

Ciò che accade in quell’isola fortunata è accaduto nel secolo dal 1814 al 1914, in misura attenuata, perché la quantità dell’oro esistente nel mondo era allora variabile. Essa però variava al di fuori della volontà di qualsiasi uomo di governo o di Stato. Non la volontà degli uomini, ma il caso fa venire alla luce l’oro. Sono stati dei ragazzi nelle pianure del Transwaal che, giocando con dei sassi lucidi, misero sull’avviso i ricercatori d’oro, facendo supporre l’esistenza di miniere d’oro, le più importanti che si siano scoperte durante la lunga storia degli uomini.

Era dunque una forza estranea all’uomo la quale faceva sì che la quantità di oro aumentasse o diminuisse. La estraneità che l’unità monetaria aveva nel secolo felice rispetto alla volontà od all’arbitrio umano ha costituito la fortuna di quel secolo. Essa ha fatto sì che in esso si sia avuto uno sviluppo economico mai prima visto e gli siano congiunti meravigliosi progressi tecnici; e si siano verificati i maggiori avanzamenti nel reddito nazionale e i maggiori progressi nei redditi salariali delle classi lavoratrici.

Nessuno invero poteva impunemente agire sulla quantità della massa circolante. Il mito dell’oro era diventato talmente potente in quel secolo che anche uomini di governo erano forzati a curare si emettesse soltanto quella certa quantità di biglietti che essi erano sicuri di poter convertire a vista, veramente a vista e veramente al portatore, a coloro che si presentavano all’istituto di emissione.

Anche quando – lo ha ricordato pure l’onorevole Corbino – noi attraversammo tempi di corso forzoso, gli uomini di Stato erano talmente ossessionati dal mito dell’oro che essi sempre guardavano al rapporto tra l’unità-oro e l’unità-carta. E quando l’aggio, come allora si chiamava, superava il 5 per cento, l’allarme era generale; e quando esso perveniva al 10 o al 15 per cento, sembrava si fosse quasi alla fine del mondo.

Era il mito dell’oro che faceva sì che onestà la quale, considerata sempre uno dei bliche e private e che coloro i quali contraevano dei debiti si sdebitassero delle obbligazioni introdotte con la medesima moneta; l’onestà la quale, considerata sempre uno dei dieci comandamenti, era diventata miracolosamente una regola d’azione alla quale neppure gli uomini di Stato potevano sottrarsi, pretestando la cosiddetta ragione di Stato. Era un’epoca nella quale, in conseguenza della onestà monetaria che dipendeva dal mago mitico dell’oro, gli scambi internazionali di beni e di uomini erano facili.

Nei giornali si leggevano perciò frequenti articoli contro la bilancia commerciale che incombeva su quasi tutti i paesi progressivi e fra gli altri anche sull’Italia. Ma in Italia lo sbilancio in realtà non esisteva nel conto complessivo e le riserve degli istituti di emissione che erano quasi inesistenti nel 1860, nel 1914 avevano invece notevolmente superato il miliardo di lire-oro. Mai un solo anno passò, dal 1860 al 1914, in cui non si fosse dovuto denunciare uno sbilancio nella bilancia commerciale. Ma gli emigranti mandavano di fuori le loro rimesse; i turisti venivano dall’estero e facevano spese; e la bandiera marinara italiana guadagnava noli in tutti i paesi del mondo. Con queste parti invisibili lo sbilancio veniva eliminato e si rimborsavano i debiti verso l’estero. L’Italia al 1914 aveva ricomprato tutti i titoli di debito pubblico emessi all’estero durante il periodo del risorgimento ed aveva anzi costituito una sua rispettabile riserva aurea.

Nel 1914, gli uomini immaginarono di guardare dentro a questo meccanismo, quasi fosse un giocattolo; essi vollero vedere come questo meccanismo, questo sapientissimo e delicatissimo movimento di orologeria lavorasse. Esso lavorava a costi minimi. Era il tempo in cui si potevano fare degli arbitraggi pagando provvigioni, le quali non arrivavano nella maggior parte dei casi, a cinque centesimi per ogni cento lire; mentre oggi sappiamo bene che anche gli istituti monopolistici di Stato per ogni transazione monetaria percepiscono l’1 per cento: venti volte tanto di quello che si percepiva prima; e nelle transazioni sul mercato libero, oggi i conti dell’arbitraggio, della trasformazione di una moneta in un’altra, vanno dal 10 al 20 al 30 per cento e più, quando si tratta di arbitraggi, di trasformazioni di monete che sono fatti a carico di coloro che sono inesperti, che non conoscono e non possono afferrare le vie attraverso le quali questi arbitraggi si fanno alle migliori condizioni.

Nel 1914 gli uomini immaginarono di poter guardare dentro al meccanismo meraviglioso e lo ruppero; e al posto di esso istituirono quella che fu chiamata la moneta manovrata, moneta che non è più abbandonata al caso, che non è più abbandonata all’arbitrio, che non è più abbandonata alla scoperta fortuita di miniere d’oro, tutte cose del passato, cose che devono essere soppresse, perché non il caso, ma la volontà dell’uomo, la sapienza dell’uomo deve dominare anche il mercato monetario. Abbiamo visto quello che vuol dire la sapienza dell’uomo posta al luogo del caso: la sapienza dell’uomo ha condotto a questi risultati: che il dollaro ha perduto il 41 per cento del suo valore, la sterlina il 53 per cento; il marco, annullato una volta, oggi non sappiamo che cosa sia; è una figura, è una cifra aritmetica della quale noi non conosciamo il valore e che funziona finché dura un regime di controllo rigidissimo. Il giorno in cui il controllo venisse a cessare, noi non sappiamo che cosa potrà essere il marco. Abbiamo visto che cosa è successo con la sostituzione della sapienza dell’uomo al caso, al caso fortuito della scoperta di miniere d’oro rispetto alla lira. La lira oggi ha una potenza d’acquisto che forse è la duecentesima parte di quella che era la potenza d’acquisto della medesima lira nel 1914. La lira d’oggi compra una duecentesima parte di quello che la lira comprava prima che si iniziasse il regime della moneta manovrata.

Non sappiamo neppure più – e non si sa in nessun paese del mondo – se ci sia ancora un’unità monetaria; non sappiamo più se esiste e in che cosa consista la lira. Di lire ce ne sono tante: una lira al cambio 100; un’altra a 225, un’altra ai cambi di esportazione, che sono diversi a seconda dei paesi con i quali si commercia. Dove non esistono accordi c’è la lira e ci sono tante lire quante risultano dagli scambi di compensazione; c’è la lira la quale risulta dalla media tra il valore ufficiale e il cambio di esportazione; c’è la lira turistica, alla quale si è dato di nuovo cominciamento. Vi sono anche tante specie di lire interne: c’è la lira la quale serve alle compere nelle cooperative od in certe agenzie pubbliche e c’è la lira del mercato libero. Le lire sono diventate un’infinità; non possiamo più raccapezzarci.

Questi sono i risultati della sostituzione al caso della volontà preordinata da parte degli uomini. Questa sostituzione, in molti paesi del mondo, è la grande colpevole dei trasporti di ricchezza dall’uomo all’altro. La svalutazione monetaria – ed in certi momenti la rivalutazione monetaria – è la colpevole dell’arricchimento degli uni e dell’impoverimento degli altri e del sorgere di odii e di invidie fra le classi, che non furono mai tanto gravi come negli ultimi trent’anni. La mancanza di una base solida della moneta ha fatto sì che gli odii e le invidie si inasprissero e portassero ad uno stato d’animo rivoluzionario in tutti i paesi del mondo.

Che cosa vogliono dire in questo ambiente gli accordi di Bretton Woods? Non ancora il ritorno all’età dell’oro; non ancora il ritorno al mito dell’oro; non ancora il ritorno ad una moneta, la quale sia indipendente dalla volontà umana.

Se ciò non è ancora, gli accordi di Bretton Woods sono però qualche cosa che vale più di quanto non valga la volontà i dei singoli Stati. Gli effetti della volontà dei singoli Stati grondano di malcontento e di rivoluzione in tutti i paesi del mondo. Noi vogliamo che a questo stato di cose, prodotto della sapienza degli uomini di governo dei singoli Stati, si sostituisca qualche cosa di più alto. Che cos’è questa sostituzione, in che cosa consiste? È la sostituzione, in fondo, alla volontà dei singoli Stati di una volontà comune di coloro che reggono i diversi Stati e che, venendo a far parte di un corpo unico, regoleranno e dovranno regolare questa materia. Noi non sappiamo se la sapienza dei molti potrà essere superiore alla sapienza dei singoli; se i risultati che potranno ottenersi si possono prevedere esattamente fin da ora. Come si debba attuare l’azione del direttore del Fondo e della Banca internazionale, noi non sappiamo prevedere con sicurezza; non sappiamo se questi risultati saranno confacenti a quello che è il nostro desiderio, ossia la stabilità della capacità l’acquisto della moneta; ma ben sappiamo che la nostra opera dovrà contribuire a raggiungere i risultati voluti.

Il contributo che noi daremo supporrà (l’hanno già rilevato alcuni oratori) una menomazione della sovranità nazionale. Vi sarà certo una menomazione della sovranità nazionale in fatto di moneta, ma ciò accadrà perché la sovranità nostra si sarà trasfusa nella sovranità degli altri. Dall’insieme delle sovranità soppresse e rivissute in una sola è da augurare si riesca ad ottenere risultati migliori di quelli pessimi che si sono ottenuti nel trennio scosso.

Noi possiamo sperare che dalla trasfusione delle sovranità singole in una sovranità unica abbia ad uscire un risultato il quale possa farci ritornare, almeno in parte, a quello che era il meccanismo meraviglioso e delicatissimo lentamente creatosi prima del 1914 e che noi, con infantile ingenuità, abbiamo rotto e distrutto. Certo, ci troviamo di fronte ad una menomazione della sovranità nazionale; ma dobbiamo rassegnarci ad una evoluzione in questo senso, alla progressiva diminuzione del concetto tradizionale della sovranità nazionale. Altre verranno dopo; ma la menomazione della sovranità nazionale, in fatto di moneta, che cosa vorrà dire? Vorrà dire che noi controlleremo e vigileremo sull’azione degli altri Stati, ed a questo patto soltanto noi possiamo consentire che altri possano, indirettamente, non con un controllo interno, ma indirettamente, agire e controllare l’opera nostra. L’azione del Fondo implica perciò sostituzione di volontà diverse dalla nostra e di una volontà comune alla esclusiva nostra volontà.

La mutazione profonda nel tipo della sovranità monetaria avvantaggerà meglio i paesi poveri o i paesi ricchi? Saranno i paesi più poveri o quelli più ricchi che in questa trasfusione di sovranità finiranno per trarre maggiore giovamento? Io non credo che si possa così porre il problema. Gli Stati che faranno parte del funzionamento del Fondo dovranno constatare che non i paesi ricchi o i paesi poveri dovranno trarre vantaggio particolare superiore a quello degli altri, ma tutti dovranno trarre un vantaggio. Forse quelli che avranno un maggiore vantaggio saranno i paesi più poveri in confronto di quelli più ricchi.

Ricordiamo le parole di Camillo Cavour, pronunciate ad altro fine, sopra un altro problema economico: il problema dei dazi doganali.

Quando a Camillo di Cavour, nel Parlamento Subalpino, si obiettò che il Piemonte, paese povero, non poteva prendersi il lusso di concedere agevolazioni doganali, di spalancare le sue porte alla concorrenza straniera, egli disse: «Siamo proprio noi, paese povero, siamo proprio noi che abbiamo bisogno di innalzarci, e dobbiamo avere il coraggio delle riforme audaci, siamo proprio noi quelli che trarranno maggiore vantaggio nell’aprire le nostre frontiere alla inondazione di merci e beni stranieri».

Oggi si ripete il medesimo fatto: cogli accordi monetari che oggi approviamo noi avremo rinunciato alla sovranità monetaria. Ciò vorrà dire: riapertura delle frontiere alla circolazione dei beni e alla circolazione degli uomini. La riapertura delle frontiere, sono persuaso, riuscirà più a favore dei poveri che non a favore dei ricchi! (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione di questo disegno di legge è rinviato a domattina alle ore 10.

Interrogazioni e interpellanze con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Rodi. Ne ha facoltà.

RODI. Nello scorso mese di agosto presentai una interrogazione riguardante la libertà di stampa. Dopo molte vicende, questa interrogazione è stata inserita nell’ordine del giorno dell’altro ieri, ma non è stata ripetuta in quello di oggi. Desidererei avere una risposta a meno che non debba considerare come tale i provvedimenti speciali che stanno per essere emanati.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio in questo momento non è presente; però la Presidenza dell’Assemblea disporrà che la sua interrogazione sia posta all’ordine del giorno di domani.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Vorrei sollecitare una risposta ad una mia interrogazione urgente relativa alla campagna agrumaria in Sicilia, il cui svolgimento avrebbe dovuto essere fissato oggi dal Governo.

PRESIDENTE. Assicuro l’onorevole Bellavista che saranno fatte sollecitazioni al Governo perché affretti la sua risposta.

Sono state presentate alla Presidenza le seguenti altre interrogazioni per le quali è stato chiesto lo svolgimento d’urgenza:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intendano prendere onde eliminare la situazione anormale ed insostenibile che si è creata a Crotone, in provincia di Catanzaro, in seguito all’atteggiamento dei grossi agrari del luogo, i quali si rifiatano di fornire alla città prodotti agricoli non contingentati, animali da macello e latticini, sebbene possano farlo a prezzo di esportazione.

«Silipo».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi dell’avvenuta sostituzione del Commissario nazionale alla gioventù italiana, professore Giorgio Candeloro, con un funzionano della pubblica istruzione, ed in particolare, per sapere se con tale nuova nomina si voglia avviare la ripartizione dei compiti e quindi del patrimonio dell’ex G.I.L., bene comune della gioventù e del popolo italiano, nei termini previsti dal decreto-legge 2 agosto 1943, affidando cioè questi beni ai Ministeri della difesa e della pubblica istruzione, che non possono sodisfare le giuste esigenze delle organizzazioni giovanili e sportive, le quali vedono, in una diretta assegnazione in uso alla gioventù ed allo sport dei beni dell’ex G.I.L., una forma di concreto aiuto dello Stato alla vita ed allo sviluppo dello sport e delle organizzazioni giovanili.

«Gli interroganti chiedono quindi all’onorevole Presidente del Consiglio se non ritiene necessario di invitare, innanzi tutto, il nuovo Commissario della G.I. a non pregiudicare, con alcuna ripartizione, la situazione patrimoniale dell’ex G.I.L., e di provvedere immediatamente alla destinazione definitiva del patrimonio e dell’attività dell’ex G.I.L., attraverso l’emanazione di un nuovo decreto-legge, all’elaborazione del quale siano messi in grado di partecipare, oltre ai competenti organi governativi, anche, in veste di tecnici, gli esponenti delle organizzazioni giovanili nazionali democratiche e del C.O.N.I., affinché questo decreto possa nel miglior modo corrispondere alle aspirazioni ed agli interessi della gioventù e dello sport.

«Pajetta Giuliano, Mattei Teresa, Marchesi».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se – in vista delle disposizioni del Governo per l’assetto definitivo della Zona Ardeatina – intenda determinare quella soluzione che, informata a criteri di semplicità e di dignità, e traendo l’ispirazione dalle Catacombe vetuste, nelle quali trovarono pace nei secoli i martiri della Fede, non alteri la schietta e commossa poesia delle tragiche fosse, e ai nostri fratelli, i quali testimoniarono col sangue alla Libertà, finalmente assicuri il riposo degno nel luogo della loro morte, che resti come monumento di vita agli italiani, conforto ai liberi, monito ai tiranni.

«Giordani, Di Fausto».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissariato per l’alimentazione, per sapere:

  1. a) se si è a conoscenza del profondo stato di disagio e di irritazione in cui versa la popolazione tutta di Roma in genere, e la massa lavoratrice in specie, in conseguenza di mancate forniture alimentari ed in particolare per il fatto che dal 15 dicembre 1946 non si è più avuta alcuna distribuzione di pasta;
  2. b) se si intende provvedere di urgenza a questo stato di cose, intollerabile per una città senza retroterra largamente produttivo.

«Morini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere se, di fronte alle unanimi proteste della cittadinanza e della stampa, non voglia disporre per Roma la soppressione del Commissariato degli alloggi o non intenda – in ogni caso – di non consentire proroghe alla legge istitutiva che cesserà d’aver vigore il 15 aprile prossimo, creando in sostituzione del Commissariato un organismo di più semplice e rapido funzionamento, capace realmente di alleviare la crisi delle abitazioni.

«Veroni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se non creda ormai giunto il momento di procedere allo sblocco dell’olio, nella provincia di Brindisi, residuato al forfait o contingentamento, a suo tempo concordato in quintali 20 mila, già versati agli oleari.

«Domanda che alla presente interrogazione sia riconosciuto il carattere di urgenza in vista del malcontento e delle agitazioni che si vanno manifestando in seno alle categorie interessate, le quali, avendo eseguito in piena disciplina il proprio impegno, vedono con preoccupazione la strana e sospetta tardanza che il Governo interpone ad eseguire il suo.

«Lagravinese Pasquale».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si riserva di fissare la data di svolgimento di queste interrogazioni.

PRESIDENTE. È pervenuta alla Presidenza la seguente altra interrogazione con richiesta di svolgimento d’urgenza:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se e quali provvidenze intenda attuare il Governo, attraverso l’iniziativa dei Ministri dell’agricoltura e foreste o del lavoro e previdenza sociale o dell’interno o delle finanze e tesoro o della difesa, perché alla popolazione del comune di Campotosto (L’Aquila), rimasta senza mezzi di sussistenza, con la perdita del proprio territorio agricolo, sommerso ormai da sei anni per costituire un lago artificiale, non sia preclusa la possibilità di vivere.

«Rivera».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. II Governo si riserva di fissare la data di svolgimento dell’interrogazione.

PRESIDENTE. È stata inoltre presentata alla Presidenza la seguente interrogazione urgente:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se sia vero che saranno effettuate da parte degli organi finanziari perquisizioni domiciliari agli avvocati e procuratori per accertamenti e controlli ai fini dell’imposta sulla entrata, assimilandosi così l’esercizio della professione forense ad attività commerciali e industriali, che con la medesima non hanno e non possono avere nulla in comune.

«Monticelli».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Governo fisserà domani la data di svolgimento della interrogazione.

PRESIDENTE. È pervenuta alla Presidenza la seguente interpellanza con richiesta di svolgimento d’urgenza:

«I sottoscritti chiedono di interpellare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e del tesoro, per conoscere se e quali rimedi abbiano predisposto per impedire che tra poche settimane le maggiori Università italiane debbano chiudersi per mancanza degli indispensabili mezzi di sussistenza».

«Calamandrei, Valiani, Foa, Cianca, Mastino Pietro».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Il Governo si riserva di indicare nella seduta di domani la data in cui questa interpellanza potrà essere svolta.

PRESIDENTE. Infine è stata anche presentata la seguente interpellanza, sempre con richiesta di svolgimento d’urgenza:

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri del tesoro e dell’agricoltura e foreste, sulla grave e inderogabile necessità di provvedere immediatamente alla tutela dei preziosi valori naturalistici, scientifici, economici e sociali, di cui è composto il patrimonio dei nostri parchi nazionali e in particolare quello dell’Ente del Gran Paradiso, chiedendo che si voglia d’urgenza:

1°) emanare il decreto che, predisposto ed approvato dal Consiglio della Valle d’Aosta a difesa dell’Ente Parco del Gran Paradiso, già venne presentato alla firma del Consiglio dei Ministri fin dall’8 gennaio 1947, onde evitare i danni irreparabili che, colla sospensione della corresponsione dovuta al personale preposto alla difesa dell’Ente stesso, gli deriverebbero, se tale approvazione dovesse essere ritardata oltre il 30 marzo corrente;

2°) nominare una commissione incaricata di esaminare la situazione economico-tecnica dei parchi stessi, allo scopo di proporre i provvedimenti che, in concorso alle disponibilità del Tesoro, si rendano necessari per una adeguata assistenza e difesa dei parchi nazionali in questione».

«Calamandrei, Bordon, Chiaramello, Foa».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Il Governo si riserva di fissare la data per lo svolgimento della interpellanza.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Perugi. Ne ha facoltà.

PERUGI. Ho presentato il 6 marzo una interrogazione con carattere di urgenza, della quale non ho saputo più nulla. Ho anche presentato una interpellanza fin dal 17 luglio, alla quale non è stata mai data risposta.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Codacci Pisanelli. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Chiedo che sia fissata la data per la discussione di una interpellanza presentata da me il 6 marzo scorso, sulla situazione dell’Istituto orientale di Napoli, per la quale il Ministro della pubblica istruzione riconobbe l’urgenza.

PRESIDENTE. Assicuro che sarà sollecitato lo svolgimento dell’interrogazione e delle interpellanze.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Priolo. Ne ha facoltà.

PRIOLO. Io porto qui l’eco di una infinità di lagnanze da parte dei colleghi, a proposito delle interrogazioni. Quindici, venti giorni fa, io avevo proposto che una seduta fosse dedicata interamente alle interrogazioni. Rinnovo la proposta. Con una seduta che cominci alle 15 e termini alle 20, potremo togliere di mezzo quel famoso fascicolo delle interrogazioni, che sta diventando un tomo.

PRESIDENTE. Farò presente questo desiderio alla Presidenza dell’Assemblea per le determinazioni del caso.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi per facilitare il rimpatrio degli italiani da Lussinpiccolo e da Zara.

«Rodinò Mario, Perugi, Mastrojanni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati, o siano per esserlo, allo scopo di ovviare alla gravissima situazione in cui vengono a trovarsi numerosi lavoratori edili, dipendenti da imprese di costruzioni, che per il mancato incasso dei mandati dell’A.N.A.S. sono costrette a sospendere i lavori.

«Risulterebbe che l’A.N.A.S., pur avendo iniziata la sua gestione fin dal 1° gennaio corrente anno, non è a tutt’oggi in condizioni di provvedere al pagamento dei lavori, né agli acconti sulle revisioni, mentre in previsione del trapasso della gestione dai Provveditorati all’A.N.A.S. la maggior parte dei pagamenti fu sospesa coi primi del dicembre scorso.

«Gli inconvenienti segnalati sono di tale gravità da costituire serio ostacolo all’opera di ricostruzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pastore Giulio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere quale provvedimento intenda adottare per giungere ad una sollecita definizione delle molte pratiche di pensione che la Cassa di previdenza dei dipendenti degli enti locali ha da lungo tempo giacenti, con grave ed ingiustificato pregiudizio dei beneficiari delle pensioni stesse. L’interrogante è in grado di precisare casi e circostanze atti a provare la lentezza della procedura seguita e il gravissimo danno che ne deriva agli interessati, come ha potuto constatare, nella sua duplice veste di deputato alla Costituente e di sindaco di Bologna. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Dozza».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se nell’imminente bando dei concorsi a cattedre negli istituti secondari intenda espressamente riaffermare il beneficio di preferenza sancito, a favore delle sorelle nubili dei Caduti in guerra, dal decreto-legge 5 luglio 1934, n. 1176, e precedenti disposizioni legislative, riaffermazione illegalmente omessa nel bando di concorsi di cui al decreto ministeriale 18 novembre 1941. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere se non ritenga opportuno prendere in esame la possibilità di pagare il soldo, maturato dall’8 settembre alla liberazione, ai militari sbandati dopo l’armistizio, così come sono stati pagati gli stipendi agli ufficiali e sottufficiali. Nel caso l’Erario non fosse in condizioni di sopportare un tale aggravio, l’interrogante chiede che sia presa in esame la possibilità di dare una modesta cifra a titolo di liquidazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Biagioni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga ormai tempo provvedere al pagamento delle lettere di accredito dei nostri prigionieri reduci dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra.

«L’interrogante desidera inoltre sapere se l’onorevole Ministro non reputi opportuno dare pubbliche e precise assicurazioni alla massa dei reduci, timorosa di perdere i frutti del proprio lavoro. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Biagioni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se, in presenza di un esodo senza precedenti per spontaneità ed imponenza, il Governo, interprete dell’unanime sentimento degli italiani, intenda considerare la tragica situazione degli esuli giuliani non alla stregua di un semplice problema assistenziale, ma nella sua vera essenza di un dovere di solidarietà nazionale, assicurando concretamente ed adeguatamente la sistemazione nella vita di quei nostri fratelli costretti ad abbandonare nella terra natia beni materiali e spirituali, nonché ogni forma di attività economica, e a cercare asilo entro le nuove frontiere imposte dal cosiddetto «Trattato di pace», riaffermando, dinanzi all’Umanità e alla Storia, il loro indefettibile attaccamento alla Madre Patria.

«In caso affermativo, se il Governo convenga nell’opportunità di emanare provvedimenti legislativi intesi a:

1°) precisare meglio ed integrare le norme del decreto legislativo luogotenenziale 22 febbraio 1946, n. 137, sul temporaneo collocamento presso Enti locali del personale appartenenti ad Enti «similari» di territori occupati nelle zone di confine, la cui applicazione si è rivelata insufficiente e incerta anche per la imperfetta redazione tecnica delle relative disposizioni, estendendo queste al personale di tutti gli Enti statali e parastatali esistenti nei territori sottratti, per effetto di quel Trattato, alla sovranità italiana;

2°) estendere agli esuli giuliani le norme sul collocamento degli invalidi e orfani di guerra e di altre benemerite categorie di cittadini presso aziende pubbliche e private;

3°) dare le necessarie facoltà e concedere gli occorrenti mezzi finanziari all’Istituto per la ricostruzione industriale (I.R.I.), ad altro Istituto, oppure ad un apposito Ente da costituirsi, perché si renda possibile la riattivazione, in località appropriate, delle industrie ed altre attività produttive, che gli esuli han dovuto lasciare nei territori suddetti;

4°) promuovere ogni altra iniziativa che valga a consentire agli esuli stessi di procurarsi un’occupazione confacente con la loro capacità lavorativa.

L’interrogante chiede, infine, di conoscere il pensiero del Governo sulla ventilata iniziativa della fondazione di una nuova città, che accolga e riunisca tutti gli esuli giuliani. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Orlando Camillo».

«Il sottoscritto chiede di interpellare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se non ritenga di emettere, senza ulteriori dilazioni, i provvedimenti, che vennero più volte richiesti a favore dei partigiani, disponendo:

1°) che sia concesso a coloro di essi, che incorsero in reati anteriormente alla data del 22 giugno 1946, di beneficiare, anche per i reati comuni, del condono di cui all’articolo 8 del citato decreto, abrogando nei loro riguardi le eccezioni di inapplicabilità di cui alla lettera c) dell’articolo 10 del decreto stesso;

2°) che le disposizioni del decreto 22 maggio 1946, colla modificazione di cui alla lettera precedente, siano estese ai partigiani condannati dai Tribunali alleati;

3°) che, in subordine, rispetto ai reati cui fosse negata l’applicabilità del condono di cui al n. 1, sia concesso, a coloro che parteciparono alla guerra di liberazione, la possibilità di avere almeno il beneficio della libertà condizionale, indipendentemente dal termine prescritto per l’applicabilità di tale beneficio, ovverosia anche quando la pena scontata sia inferiore a tale termine;

4°) che sia concessa la riabilitazione di ufficio, senza l’osservanza del termine prescritto dalla legge, a coloro che, avendo riportato condanne anteriormente alla data dell’8 settembre 1943, si siano, colla loro partecipazione alla guerra di liberazione, dimostrati meritevoli del beneficio in parola.

«Bordon».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure l’interpellanza sarà iscritta nell’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La seduta termina alle 12.45.

GIOVEDÌ 13 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LX.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 13 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Mastrojanni                                                                                                    

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Presidente                                                                                                        

De Vita                                                                                                             

Crispo                                                                                                               

Moro                                                                                                                

Bencivenga                                                                                                      

Vinciguerra                                                                                                     

Riccio                                                                                                               

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

MASTROJANNI. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MASTROJANNI. Ieri l’onorevole Ruini, durante la sua analitica relazione sulle critiche che al progetto di Costituzione avevano apportato i vari oratori, mi ha attribuito il fatto di avere elogiato la Costituzione, e anzi l’onorevole Ruini ha riportato testualmente alcune parole che io avevo premesso in senso elogiativo. Egli infatti ha detto che io avrei, elogiando la Costituzione, rilevato che essa è coerente, che ha uno stile impeccabile e altri attributi che in questo momento mi sfuggono. Desidero precisare che è vero che ho rilevato nel progetto di Costituzione uno stile coerente, e ho rilevato che esso non è il risultato di compromesso, ma ho rilevato altresì che è la elaborazione meditata di un programma particolaristico e che in questo stile e in questa coerenza identificavo gli obiettivi particolaristici che la Costituzione si è prefissa di raggiungere, finalizzando le libertà e subordinando le stesse alla realizzazione dei fini economici e sociali che costituiscono la parte essenziale della Costituzione.

Questo intendevo dire perché non abbia a presumersi che abbia voluto elogiare la Costituzione per elogiarla.

PRESIDENTE. Se non vi sonò altre osservazioni il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Viale.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Diamo inizio all’esame delle disposizioni generali. Ieri accennavo ad una proposta di porre certi limiti, se non alle iscrizioni, quanto meno al tempo concesso a ogni oratore; ma essa è caduta in una benevola indifferenza. Pertanto ritengo valida la lista di oratori che ho dinanzi e mi rimetto ad essi per l’impiego del tempo. Solo come elemento orientatore per coloro che parleranno e per coloro che ascolteranno, dirò che a tutt’oggi vi sono ancora 41 iscritti sulla discussione generale delle disposizioni generali e 272 iscritti sulla discussione generale dei vari titoli.

Ha ora facoltà di parlare l’onorevole De Vita.

DE VITA. Onorevoli colleghi, non è agevole separare la discussione sulle singole parti del progetto di Costituzione dalla discussione generale già fatta ed è ancora meno agevole questa separazione in ordine alle disposizioni generali le quali racchiudono o dovrebbero racchiudere lo spirito informatore di tutta la discussione.

Cercherò, comunque, di mantenermi entro i limiti posti a questa discussione. Mi si consenta, però, di premettere – e assicuro l’onorevole Presidente che non parlerò più di 20 minuti – che nel lavoro di riorganizzazione sociale, intrapreso da questa Assemblea, si devono, a mio avviso, tenere presenti due cose: qual è lo scopo dello Stato; quali sono i limiti, che debbono porsi all’azione dello Stato.

Questo ultimo punto per me fornisce la misura della libertà dell’individuo e della indipendenza dei suoi atti, libertà ed indipendenza verso le quali dobbiamo tendere.

Oggi noi sentiamo imperioso il bisogno di ricondurre la libertà ad un principio morale, di considerare la libertà come la vita stessa dell’individuo, come la forza stessa della società. E, pur dovendo riconoscere allo Stato la suprema potestà regolatrice della vita in comune, io non riesco a comprendere, o signori, come lo Stato possa essere libertà operante per tutti, se tutto deve trarre dallo Stato vita ed indirizzo, se lo Stato deve avere financo la propria religione.

In quest’aula sono state udite voci possenti. Sono stati solennemente affermati i diritti dell’individuo, è stata solennemente affermata la dignità della persona umana; ma io trovo, onorevoli colleghi, una profonda contradizione tra queste affermazioni ed il concetto dello Stato, che ha particolarmente inspirato la formulazione di alcuni articoli delle disposizioni generali.

Poco importa riaffermare solennemente la libertà individuale, se poi si pone lo Stato al disopra dell’individuo, al disopra della società. Poco conta, onorevoli colleghi, riaffermare il valore originario della persona umana, negare la riduzione hegeliana dell’individuo ad un momento accidentale della sostanza statale, se poi, forse inavvertitamente, forse consapevolmente, attraverso gli organismi sociali, in cui la persona umana dovrebbe integrarsi e progressivamente espandersi, si arriva, fatalmente, al concetto dello Stato, il quale vive per i proprî fini. Questa concezione organica della società e dello Stato, la quale ha avuto tanta parte nella formulazione dell’articolo 6, può naturalmente orientare la nostra società e determinare il destino della nostra società, può consentire di richiamare in vita, sotto novelle spoglie, l’idea dello Stato antico, fornendo nuovi argomenti alla politica autoritaria; e sotto le apparenze di conciliare le esigenze della vita dello Stato con la libertà moderna, si è infatti arrivati a sacrificare quest’ultima alle esagerate esigenze della vita sociale. E così lo Stato, penetrando il tutto – la comunità, la famiglia, l’individuo – diventerebbe meramente quel Dio terreno e reale, di cui parlava l’onorevole La Pira. Questa divinizzazione dello Stato, o signori, è per me il risultato naturale e spontaneo del concetto dello Stato, sintesi intrinseca dell’organismo sociale. È questa una tendenza a rappresentare lo Stato come una personalità separata, distinta dagli individui; a concepirlo come un organismo etico.

Ora, è certo che personificare lo Stato ed opporlo all’individuo, è, per me, un fare della metafisica. Questo è per me una specie di panteismo politico contrapposto a un panteismo metafisico. In verità, noi non siamo debitori dei nostri diritti allo Stato; non è vero che il cittadino, formando lo Stato, rinunzi a parte dei suoi diritti per avere meglio assicurato l’esercizio di altri diritti. La formazione della Repubblica non deve diminuire ma accrescere la libertà, deve svilupparne la coscienza, deve assicurarne l’esistenza.

L’alienazione dell’uomo allo Stato è per me un artificio logico assai pericoloso. Nessun diritto i cittadini debbono abbandonare, ma, nell’ordinamento sociale e politico della Repubblica, debbono trovare l’ambiente adatto all’esercizio di tutti i diritti.

Che la concezione dello Stato come organismo etico abbia ispirato la formulazione dell’articolo 6, risulta evidente dal contesto dell’articolo stesso. E risulta anche evidente dalle parole del relatore. Prima di parlare dei diritti di libertà, è detto nella relazione, è necessario un articolo nel quale si indichi l’orientamento della libertà. E allora si è voluto, prima di parlare dei diritti di libertà dell’individuo, determinare l’orientamento della libertà; si è voluto, nientemeno, finalizzare la libertà stessa.

Per me, la libertà è fine a se stessa e, per dirla alla kantiana, non può essere assunta a valore di mezzo. La libertà è l’essenza stessa dello spirito umano e non può quindi essere costretta a muoversi entro i limiti della legge, perché è la libertà stessa che foggia le leggi come suoi strumenti e, così come le foggia, le modifica ed anche le abbatte. Ma noi non vogliamo limitare la libertà; vogliamo orientarla verso il bene: dicono i sostenitori dello Stato etico. Ma quale bene è più grande, quale bene è più sommo, della stessa libertà?

La libertà esiste – essi dicono – ma intanto lo Stato le deve riconoscere, in quanto è esercitata per il raggiungimento di un determinato fine. Ecco lo Stato etico, lo Stato che vive per i proprî fini. Io non riesco a capacitarmi del concetto dello Stato come completa realtà etica.

Per me lo Stato non è una realtà né etica, né anti-etica; per me lo Stato è una realtà politica, sia pure non indifferente all’etica. Nell’ordine morale l’unica realtà è la coscienza e le forme della coscienza, ed io, onorevoli colleghi, non riesco, tra le forme della coscienza, a trovarne una che si chiami lo Stato. Con l’articolo 5, però, questo scopo è stato pienamente raggiunto, perché si è voluto lo Stato etico, tanto è vero che gli si è data anche una religione. Soltanto mi domando allora che valore abbia il primo comma dell’articolo 7, in cui è detto: «I cittadini, senza distinzione di sesso, di razza e di lingua, di condizioni sociali, di opinioni religiose e politiche, sono eguali di fronte alla legge».

La verità è che quando allo Stato si dà una religione, esso deve difenderla. Questo mi sembra ovvio; e in questa difesa esercita una inammissibile pressione sulla coscienza dell’individuo, violando una delle fondamentali libertà della persona umana. Nell’attuale stato di sviluppo della nostra civiltà, il rispetto delle opinioni dei singoli professanti religioni differenti deve assurgere a maggiore pubblica considerazione. I cittadini devono essere effettivamente eguali di fronte alla legge, indipendentemente dalla religione professata.

Dall’articolo 5 delle disposizioni generali appare evidente che la religione è usata come mezzo per agire sul carattere e sul costume della Nazione. Per me un’ingerenza di tale natura, in qualunque modo esercitata dallo Stato, è dannosa, perché incatena la libertà dell’individuo. A mio avviso, non può sussistere alcuna ingerenza dello Stato in materia religiosa, senza che questa ingerenza significhi maggiore o minore favore per determinate professioni religiose. Si potrebbe obiettare che l’incoraggiamento della religione per mezzo delle leggi e delle istituzioni dello Stato è reclamato per la difesa dell’ordine interno, per la moralità. Io sono fermamente convinto che la religione può produrre buone azioni, ma debbo anche dire che la religione è un mezzo d’azione il cui punto d’appoggio è estrinseco allo Stato. Sono anche convinto che le idee religiose concorrono al perfezionamento morale; ma debbo anche dire che per me religione e morale non sono due termini indissolubilmente connessi.

Io chiedo a voi, onorevoli colleghi, se all’infuori di un’idea religiosa vi è l’idea della perfezione spirituale. Se si ammette che all’infuori di qualsiasi religione vi sia l’idea della perfezione spirituale, tale idea è abbastanza grande, è abbastanza sublime per non aver bisogno di una veste e di una forma esteriore. Certamente, la religione insegna agli uomini a sentire la bellezza della virtù; sviluppa senza dubbio il sentimento dell’amore e della solidarietà umana; ma l’uomo che ha la coscienza del proprio valore, della propria esistenza, non sarà certamente meno virtuoso. E questa idea della perfezione non è soltanto una fredda percezione della intelligenza, è anche un caldo sentimento del cuore che fa penetrare l’esistenza dell’uomo in quella dei suoi simili, ed il sentimento d’amore e di solidarietà umana diventerà sempre più fecondo mano a mano che lo spirito umano apprenderà che la sorte dell’uomo dipende dall’uomo stesso.

Mi si potrebbe obiettare che io attribuisco all’uomo una potenza di spirito e di carattere non soltanto non comune, ma affatto eccezionale. Ebbene, onorevoli colleghi, questa obiezione varrebbe anche per coloro i quali ritengono che il sentimento religioso possa determinare una vita veramente bella, egualmente lontana dall’indifferenza e dal fanatismo. Pertanto io ritengo che se non si vuole arrestare l’espansione dello spirito e lo sviluppo delle facoltà dell’animo, si debba attribuire allo Stato soltanto il compito di rimuovere gli ostacoli che menomano la fiducia nel sentimento religioso, e di agevolare lo spirito del libero esame. Se lo Stato va oltre, se lo Stato tenta direttamente di dominare il sentimento religioso o di orientarlo, anziché determinare la vera convinzione religiosa, determinerà una coscienza religiosa che poggia sopra l’autorità.

FORESI. Ma i cattolici italiani costituiscono l’assoluta maggioranza in Italia.

DE VITA. Anche se in Italia ci fosse un solo uomo che la pensasse diversamente dalla maggioranza, noi, in omaggio alla libertà dell’individuo, dovremmo assicurargli la piena libertà di coscienza e di pensiero.

Una voce al centro. Ha letto il Concordato, lei?

DE VITA. L’ho letto bene, ed ho letto bene anche gli articoli 1 e 5. All’articolo 1 è espressamente detto che la religione dello Stato italiano è la religione cattolica. Quindi è uno Stato confessionale.

All’articolo 5 è contemplata la perdita dei diritti civili e politici per i sacerdoti apostati e questo non è conforme alla libertà che noi vogliamo instaurare. Anche se certi principî religiosi giovano a determinare azioni conformi alla legge, ciò solo non basta ad autorizzare lo Stato a propagare le idee religiose, anche a detrimento della libertà di coscienza e di pensiero.

Il cittadino, lasciato interamente libero in materia religiosa avrà o non avrà nell’animo sentimento religioso, a seconda della sua indole personale; ma è certo in ogni caso che le sue idee saranno più logiche, la sua sensibilità più profonda, e sarà più ammirevole per moralità ed obbedienza alle leggi. Credo quindi, per terminare questo argomento, che si possa stabilire il principio che tutto ciò che si riferisce alla religione sta al di fuori dei limiti dell’azione dello Stato.

Mi si consenta anche di fare alcune osservazioni in ordine al 1° comma dell’articolo 5: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani».

Poiché illustri uomini del passato, e anche del presente, non hanno affrontato in pieno questo argomento e, come si suol dire, sono usciti dal rotto della cuffia, cercheremo, con serenità di spirito, di affrontarlo noi.

A mio parere, il comma in questione, così com’è formulato, anziché assicurare la tanto desiderata pace religiosa, potrebbe portare ad aperti contrasti. Con questo comma, infatti, non si vuole affermare il principio di separazione fra Stato e Chiesa. Lo scopo, evidentemente, è un altro: si vuole non soltanto affermare il principio del riconoscimento dei diritti e dei poteri temporali della Chiesa come Santa Sede – e per ciò ente con personalità internazionale perfetta – ma anche dei diritti e poteri che si estendono oltre i limiti della Città del Vaticano.

Sorge allora spontanea la domanda: chi determina i limiti dell’ordinamento giuridico dello Stato e della Chiesa, se non lo Stato e la Chiesa medesimi, quali enti sovrani? In materia matrimoniale, ad esempio, la Chiesa ritiene di avere la competenza esclusiva non soltanto in ordine al matrimonio come sacramento, ma anche in ordine agli effetti che sono indissolubilmente connessi col matrimonio.

E questi effetti voi sapete quali sono: rapporti fra i coniugi, patria potestà secondo il diritto di natura, legittimità della prole. Sarebbero di competenza dello Stato soltanto gli effetti cosiddetti «meramente civili» del matrimonio, ossia quegli effetti che possono separarsi dal matrimonio e sussistere anche se il matrimonio viene a mancare, come la successione ereditaria.

Ora, deve lo Stato disinteressarsi di tutta questa materia che la Chiesa ritiene di sua esclusiva competenza? Io ritengo di no. Possono Stato e Chiesa legiferare entrambi in questa e in altre materie senza il pericolo di conflitti? Si potrebbe obiettare che, ai sensi del successivo comma dello stesso articolo, il collegamento fra Stato e Chiesa deve essere concordatario. Ma, a mio avviso, l’obiezione non regge, perché col primo comma si riconosce la piena sovranità della Chiesa anche nei rapporti esterni e nel secondo comma è soltanto contenuto un impegno unilaterale dello Stato.

Questa è, per me, la portata dell’articolo 5 che io lascio alla prova di un esame più profondo.

Per quanto riguarda l’ultimo comma dell’articolo 1: «La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi», mi limito ad osservare che molto opportunamente si distingue lo Stato dalla sovranità. Invero, altra è la ragion d’essere dello Stato ed altro il titolo per cui la sovranità si esercita nello Stato. Devo però rilevare che la parola «emana» – e questo rilievo ebbi a farlo in sede di prima Sottocommissione e in sede di Commissione plenaria, insieme all’onorevole Lucifero – che la parola «emana», usata nella formulazione del comma, limita il concetto della sovranità popolare, come ebbe a dire anche qualche collega. Alcune moderne costituzioni repubblicane usano la parola «emana»; per esempio l’Austria, la Spagna, la Cecoslovacchia. Altre usano invece il termine «appartiene al popolo»: la Lettonia, la Lituania, la Turchia, l’U.R.S.S. Soltanto nella costituzione dell’Estonia e della Finlandia è usata la parola «risiede»: la sovranità risiede nel popolo.

Questa espressione a me pare la migliore, perché significa che la sovranità permane nel popolo, mentre invece la locuzione «la sovranità emana dal popolo» sta a significare che la sovranità è bensì generata dal popolo, ma una volta generata si distacca da esso.

E per terminare desidero fare qualche osservazione in ordine al secondo comma dell’articolo 7: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli d’ordine economico e sociale che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui e impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Questa disposizione ha per me questo significato: il nuovo assetto costituzionale non deve produrre soltanto cambiamenti di persone o di possessi, e su questo credo che siamo d’accordo. Questa disposizione racchiude lo spirito che deve informare la soluzione di ogni problema sociale. Orbene, il problema sociale può risolversi soltanto determinando l’armonia degli interessi. Ma il mondo odierno presenta le sue profonde antitesi sociali: differenza di lavoro e proprietà, di lavoro manuale ed intellettuale, di piccola, media, e grande proprietà. Si devono allora sanare queste antitesi. Come? Questa è la domanda che io pongo a questa Assemblea. Per me vi sarebbe un mezzo per sanare queste antitesi, ed è, secondo la formula mazziniana, capitale e lavoro nelle stesse mani. È quella forma di associazionismo, è la partecipazione operosa ed eguale, ed anzitutto e soprattutto cosciente, del lavoro al processo produttivo. Certamente ogni privilegio deve scomparire dalla nostra società, ogni ineguaglianza deve scomparire, ogni distinzione che non derivi dalle opere dell’uomo deve essere condannata come una usurpazione. Su questo credo che siamo d’accordo. Ma io ritengo che in ogni riforma sociale deve sempre – e questo è per me fondamentale – respirare l’anima dell’uomo, deve espandersi l’essenza della natura umana che è la libertà. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Crispo. Ne ha facoltà.

CRISPO. Onorevoli colleghi, a me sembra di tutta evidenza la necessità – dico necessità e non opportunità – che il progetto di Costituzione, che è come l’atto di nascita della Repubblica, si preoccupi di determinare il carattere dello Stato repubblicano. Onde il primo articolo del progetto vuole essere la definizione del carattere della Repubblica. L’articolo dice che l’Italia è una Repubblica democratica; dunque, s’intende affermare il carattere democratico della Repubblica. Senonché, a me sembra che questa definizione abbia bisogno di precisazione, perché quando si è detto che l’Italia è una Repubblica democratica, occorrerà ancora intenderci sul concetto di democrazia.

Che cosa si vuole dire quando si dice che l’Italia è una Repubblica democratica? A quale democrazia, a quale nozione della democrazia ci si intende riferire? Credo che il quesito sia questo, e a questo quesito occorre dare risposta. Si è detto che ci si deve riferire alla democrazia, nel senso storico attuale. Parole per me di colore alquanto oscuro, se non si rapportano all’istituto parlamentare che è una forma storica particolare della democrazia. E credo che ad essa si rifacesse ieri l’onorevole Ruini, quando rilevava la necessità di conservare e di consolidare il regime parlamentare.

Dunque, quando si dice nell’articolo 1 che l’Italia è una Repubblica democratica, noi identifichiamo la democrazia nelle istituzioni parlamentari, diciamo, cioè, che queste istituzioni realizzano la democrazia. Ma si può affermare che siamo tutti d’accordo su questo concetto? L’altro giorno, l’onorevole Nitti mi diceva che pur avendo versato lungo studio e lungo amore nell’esame dei problemi della democrazia, raccogliendo le proprie meditazioni in ben due volumi, egli si era ridotto a questo: che non sapeva più dire che cosa fosse la democrazia, nella confusione delle diverse lingue e delle orribili favelle che s’incrociano su questo terreno.

E, per verità, ad esempio, non dirò cosa nuova, affermando che qui non siamo certo d’accordo nel ritenere che l’istituto parlamentare realizzi la democrazia, se socialisti e comunisti hanno sempre considerato i Parlamenti come l’insegna, come la bandiera degli interessi borghesi.

Una voce a sinistra. No, no.

CRISPO. Come no?

Sì, come la bandiera degli interessi borghesi, come l’indice della dominazione borghese, al segno che il Parlamento è apparso come inutile bagaglio ingombrante, di fronte ad una ideologia che pretende di sostituire alla forma democratica parlamentare il cosiddetto Governo del proletariato, attraverso la lotta degli interessi di classe, evidentemente intesa a realizzare la superclasse, vale a dire una classe destinata a sopraffare e a travolgere le altre classi. (Interruzioni a sinistra).

La conseguenza è che, mentre per noi l’istituto parlamentare costituisce la forma nella quale la democrazia si realizza, per i comunisti e per i socialisti esso è soltanto un mezzo. Epperò, la valutazione finale di questo mezzo dipenderà dalla idoneità o dalla inidoneità di esso a raggiungere il fine. Sicché, se il mezzo apparirà inidoneo, è evidente che sarà abbandonato; sarà abbandonata, cioè, la democrazia. (Interruzioni. a sinistra).

Una voce a sinistra. Questo lo dice lei.

CRISPO. È un procedimento logico.

Una voce a sinistra. È una logica formale e soggettiva la sua.

Una voce a destra. Già, voi non lo pensate nemmeno!

PRESIDENTE. Onorevole Crispo, non raccolga le interruzioni.

CRISPO. Con vostra licenza, signori, questa mia logica elementare non mi pare faccia grinze, perché le ipotesi sono due: o siete d’accordo nel ritenere che l’istituto parlamentare realizza la democrazia, o non ritenete questo, ed è evidente, in tal caso, che se l’istituto parlamentare è per voi come un ponte di passaggio, quale mezzo, cioè, è evidente che, ove il mezzo fallisce come inefficace, inidoneo, voi sareste pronti ad abbandonarlo. Per sostituirvi che cosa? Un mezzo diverso, che non potrebbe essere se non un mezzo rivoluzionario. Non vi pare logico questo ragionamento? (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Faccia il ragionamento opposto.

CRISPO. E perché no?

Col ragionamento opposto, il risultato sarà identico, perché se il mezzo riuscisse idoneo, realizzando il vostro fine, voi realizzereste la così detta conquista del potere da parte del proletariato. È così?

E se è così, la conquista del potere da parte del proletariato vuol dire niente altro che la sovrapposizione di una classe su tutte le altre, escludendosi le altre.

Una voce a sinistra. È una presunzione la sua. (Interruzioni Commenti).

CRISPO. Non vi scaldate. Per me – e parlo con la parola di parecchi fra voi che coltivarono l’ideologia marxista e la ritennero poi superata – per me, la democrazia si definisce e si concreta, in modo negativo, nell’assenza di qualunque dominazione di classe, e, in modo positivo, in uno Stato, nel quale possa trionfare non solo il diritto all’eguaglianza di tutti i cittadini, ma, soprattutto, il principio che ciascuno ha il diritto di partecipare alle decisioni relative alle sorti della organizzazione politica, economica e sociale del proprio Paese.

Come vedete, la conseguenza è sempre la stessa: la dittatura attuata o con mezzi violenti o con metodo democratico.

Nell’uno e nell’altro caso, la democrazia è favola per bambini. (Interruzione a sinistra).

PRESIDENTE. Forse, onorevole Crispo, qualche collega ha la sensazione che in questo momento non è il problema di analisi di una democrazia o della dittatura che si deve fare, ma è un giudizio sopra la formulazione del primo articolo, dove si parla di Repubblica democratica.

CRISPO. Non mi sembra esatta la osservazione, se è vero che la Costituzione vuole definire il carattere democratico della Repubblica, e che tale carattere dovrebbe essere lo stesso per tutti.

Se è così, e se le istituzioni parlamentari sono la forma storica attuale nella quale si realizza la democrazia, mi sembra evidente la necessità che, nella prima parte dell’articolo 1, questo principio sia consacrato, dicendosi, cioè, che l’Italia è una Repubblica parlamentare. E ciò perché non sorga l’equivoco che si possa considerare la Repubblica parlamentare non un punto di arrivo – salva la perfettibilità dell’istituto parlamentare – ma soltanto un modus convivendi nel senso, cioè, che esso possa o debba servire a realizzare una pretesa democrazia, che è la negazione palese della democrazia parlamentare.

(Interruzioni a sinistra).

CONDORELLI. La vostra democrazia è quella della dittatura del proletariato.

CRISPO. Propongo, adunque, di dire all’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica parlamentare, ordinata democraticamente, secondo il principio delle sovranità popolare, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Per le ragioni già espresse, s’intende che nemmeno il 1° capoverso dell’articolo 1, possa, per me, essere approvato. Esso dice: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Ora; a me sembra evidente che si voglia affermare un principio classista.

Spiego subito il mio pensiero.

Se non è possibile configurare una qualunque convivenza umana, che non sia basata sul lavoro, non mi pare, d’altra parte, si possa dire che il lavoro è il fondamento d’una Repubblica.

FEDELI. L’ozio.

CRISPO. Come può attribuirmi tale idea? Intendo dire che il lavoro non è il fondamento della Repubblica, in quanto col lavoro concorrono altri fattori, i quali sarebbero negati nella unilateralità dell’affermazione contenuta nel 1° capoverso.

Con la stessa logica di quel capoverso si potrebbe, per esempio, anche dire che fondamento della Repubblica è la religione, e forse i democristiani amerebbero che si dicesse questo.

CINGOLANI. No; non è vero.

CRISPO. O si potrebbe dire…

FEDELI. Il latifondo è la base della Repubblica!

CRISPO. …che La Repubblica ha per fondamento la giustizia, o anche la ragiono.

RUBILLI. Quale ragione?

CRISPO. Quella del signor Voltaire, il quale diceva che solo per opera della ragione l’uomo è perfettibile, perché essa combatte l’ésclavage de l’ésprit.

Una voce a sinistra. Tutte queste belle cose, senza il lavoro, non fanno niente: questa è la faccenda.

CRISPO. Ora altra cosa è dire che i problemi del lavoro non possono non interessare profondamente l’ordinamento giuridico di uno Stato, o che occorre porsi il problema costituzionale del lavoro, in rapporto alla funzione sociale, alla dignità e alla tutela di esso, e anche in rapporto alle possibilità di sviluppo della posizione del lavoro nell’ordinamento sociale, ed altra cosa è dire che il lavoro è il fondamento della Repubblica, poiché il lavoro non costituisce, e non può costituire – esso solo – il fondamento di una Repubblica. Egli è per questo che io colgo nella formula usata nel 1° capoverso un concetto classista, sì che mi sembra si voglia come preconizzare l’assunzione alla direzione della cosa pubblica di quella classe di lavoratori che, attraverso la conquista proletaria, dovrebbe sovrapporsi alle altre classi.

Una voce a sinistra. È un sofisma.

CRISPO. No, non sono sofismi questi. Il vostro Stato s’intende non come una Repubblica di tutti i lavoratori, ma come una Repubblica di operai e di contadini. (Proteste a sinistra).

Una voce a sinistra. Anche gli intellettuali: la conosce lei la Costituzione sovietica?

CRISPO. Non ne parlerei, se non la conoscessi.

Una voce a sinistra. Allora s’è sbagliato: la legga un’altra volta.

CRISPO. Non è vero: gl’intellettuali, per esempio, vi sono considerati come «strato» delle altre due classi.

Una voce a sinistra. È vecchia questa storia.

CRISPO. Ma riproduce fedelmente il pensiero di Marx, tanto che mi sono sempre domandato come mai Marx avesse negato un posto agl’intellettuali nella società da lui descritta, mentre poi il movimento proletario, per lo meno alle sue origini, non è che un movimento squisitamente intellettuale.

Le osservazioni fatte finora possono essere riassunte e concretate nel seguente emendamento:

«L’Italia è una Repubblica parlamentare, ordinata democraticamente secondo il principio della sovranità popolare, nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi. Il lavoro, nelle sue varie manifestazioni, concorre all’organizzazione politica, economica, sociale della Repubblica». (Commenti Interruzioni).

FEDELI. Al lavoro lasciate un posticino!

PRESIDENTE. Onorevole Fedeli, per favore, non interrompa!

Onorevole Crispo, sarebbe stato preferibile che ella avesse presentato il suo emendamento quarantott’ore fa.

È essenziale che in sede di discussione generale dei titoli non si presentino e non si commentino gli emendamenti; altrimenti si sposta completamente la procedura.

CRISPO. In rapporto al carattere democratico della Costituzione penso che debba ripugnare al sentimento democratico – dico di proposito: sentimento democratico, cioè spirito democratico – il pensiero di una guerra intesa come strumento di conquista o di offesa della libertà degli altri popoli. Epperò, esaminando l’articolo 4, osservo che l’espressione usata «L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli» non riproduce esattamente il concetto di repugnanza morale per una guerra di conquista o di offesa alla libertà degli altri popoli.

Questa formula fu tratta dal Patto di Parigi del 1928 Briand-Kellogg, e fu già tradotta nella Costituzione spagnola del 1931. Io ritengo che a questa formula si debba sostituire la formula adoperata dalla Costituzione francese, alla quale, del resto, mi sembra si sia attinto nella redazione dell’articolo 4. Nella Costituzione francese è detto:

«La Repubblica francese, memore delle sue tradizioni, non intraprenderà alcuna guerra di conquista». Ecco: vi è come un impegno categorico; e v’è come l’espressione di un dovere morale, insito…

PERTINI. Siamo d’accordo.

CRISPO. …insito, dicevo, nello spirito democratico di un popolo, dovendo repugnare ad un popolo che inspira i suoi ordinamenti alle libertà, a tutte le libertà fondamentali consacrate nella Costituzione, il pensiero di una guerra di conquista.

Anche per un’altra ragione penso che occorra sostituire questa espressione: perché, badate, il termine «rinuncia» richiama subito l’idea di un diritto o di una facoltà. Si rinuncia, difatti, ad una facoltà o si rinuncia ad un diritto. E mi sembra inconcepibile che si possa dire che lo Stato democratico abbia il diritto di intraprendere una guerra di conquista.

Non mi sembra, per altro, che il concetto espresso in questa parte dell’articolo 4 sia completo, perché lo Stato può anche altrimenti che con una guerra comprimere le libertà di un altro popolo: si pensi, per esempio, all’esercizio di un protettorato o all’amministrazione di una colonia: in tale esercizio possono essere compressi i diritti del popolo amministrato. E l’articolo 4 non dice nulla, mentre anche questo concetto è scolpito nel preambolo della Costituzione francese, laddove è detto che la Francia non intraprenderà alcuna guerra e non adopererà la forza contro la libertà di un altro popolo. Occorre, a mio avviso, adunque integrare la disposizione. In questo senso io propongo che l’articolo 4 sia redatto nel modo seguente:

«L’Italia non intraprenderà alcuna guerra di conquista né userà mai violenza alla libertà di alcun popolo, ecc.».

Il principio della sovranità dello Stato che, a mio avviso, nella Costituzione deve affermarsi senza menomazione alcuna, m’induce a fare alcune osservazioni sull’articolo 5. Mi sembra, innanzi tutto, che, nella discussione generale, l’esame dell’articolo 5 abbia dato luogo a vere e proprie deviazioni. Qui si tratta solo di un problema costituzionale che, pertanto, va posto in termini costituzionali. Che importa, per esempio, indagare l’origine fascista dei Patti? Comunque siano stati stipulati, essi, allo stato, restano. Pacta sunt servanda.

Che importa, inoltre, sapere se questi Patti, nel momento in cui si stipulavano, rappresentassero o non la coscienza del Paese? Se realizzassero o non realizzassero la pace religiosa? Se, rompendosi questi Patti, sarebbe per avventura turbata questa pace?

Che importa, infine, indagare se, per avventura, sia da preferirsi il regime della separazione, secondo il principio del Locke, al quale il nostro Cavour attinse la formula «Libera Chiesa in libero Stato» e il Luzzatti la formula «Libere Chiese nello Stato sovrano», o piuttosto sia da preferire un regime di collaborazione concretato e definito per mezzo di accordi bilaterali?

Indagini che qui non possono trovar posto; poiché qui l’indagine è una sola, quella che si riferisce al carattere dei Patti, allo scopo di stabilire se costituiscano materia costituzionale, tale da dovere essere inserita nella Costituzione. Indagine che, come è chiaro, non ha nulla di irriverente, e nulla che possa offendere la coscienza e il sentimento dei nostri amici della Democrazia cristiana.

Che cosa, adunque, sono questi Patti?

I Patti comprendono il Trattato e il Concordato. Il primo è un trattato di diritto internazionale, nel quale, per ragioni che non mette conto indagare, lo Stato italiano si è disannessa una parte del proprio territorio, ed ha consentito che su questa parte si costituisse uno Stato che si chiama «Città del Vaticano», Stato riconosciuto de jure; riconoscimento solenne, senza riserve e senza condizioni.

Questo Trattato aveva una particolare importanza, e un particolare significato. Non voleva certo, come qualcuno ha erroneamente pensato, restaurare l’antico Stato Pontificio, caduto nel 1870 per debellatio. Poiché lo Stato Pontificio era del tutto distinto, separato dalla Chiesa, ed era espressione tipica di un vero e proprio potere temporale. Come tale, esso non può confondersi con lo Stato Città del Vaticano, costituito col Trattato.

Nondimeno il Trattato aveva una particolare importanza, nel senso che, com’è detto nella premessa del Trattato stesso, per assicurare alla Santa Sede assoluta e visibile indipendenza, esso era inteso a garantire una sovranità indiscutibile, pur nell’ambito internazionale, onde si ravvisava la necessità di costituire, con particolari modalità, la Città del Vaticano, riconoscendo alla Santa Sede esclusiva e assoluta potestà e giurisdizione territoriale. Che cosa significa questo? Significa che lo Stato Città del Vaticano si pone, nella stipulazione, come un ente di diritto internazionale; cui è riconosciuta personalità internazionale, sia in rapporto al diritto di legazione attivo e passivo (diritto subiettivo internazionale), sia perché lo Stato Città del Vaticano si colloca sul caratteristico terreno normativo internazionale, per compiere, con gli altri Stati, atti internazionali, che hanno non soltanto valore formale, ma valore sostanziale di trattati, con i quali si pongono norme vere e proprie di diritto internazionale quali sono i concordati.

Perché vi ho detto questo? Perché, incorporandosi il Trattato nella Costituzione, quando nell’articolo 5 si dice che lo Stato e la Chiesa sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, evidentemente si collocano, l’una vicina all’altra, due sovranità temporali.

Ora. mi domando: se si tratta di un trattato di diritto internazionale, col quale si riconosce de jure la personalità dello Stato Città del Vaticano, quale motivo potrebbe giustificare la inserzione di questo Trattato nella Costituzione? Sarebbe come domandarsi se possa esserci un motivo qualunque perché un altro trattato qualsiasi con altra Nazione possa considerarsi materia costituzionale, sì da far parte della Costituzione. E, badate, non si potrebbe, a mio avviso, andare in opinione diversa se si volesse tener conto della particolare fisionomia istituzionale dello Stato Città del Vaticano.

Parecchi scrittori hanno sostenuto che, in buona sostanza, lo Stato Città del Valicano non è uno Stato veramente e propriamente, nella comune concezione dello Stato. In ciò si può evidentemente consentire. Si può dire, cioè, che lo Stato Città del Vaticano si differenzia dagli altri Stati, perché è uno Stato sui generis, uno Stato strumentale, uno Stato teleologico, nel senso che la sovranità temporale viene esercitata in funzione della sovranità spirituale, viene, cioè, posta al servizio della missione propria della Chiesa.

Ma quando si è detto questo, non si è detto nulla. Perché questo carattere peculiare che differenzia lo Stato Città del Vaticano dagli altri Stati, nulla toglie alla sovranità dello Stato Città del Vaticano, in quanto Stato, sovranità consacrata nell’articolo 1 della Costituzione dello Stato Città del Vaticano, nel quale è detto: «Il Sommo Pontefice, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, ha la pienezza dei poteri legislativo, esecutivo e giudiziario.

Se, adunque, il Trattato rivendica la potestà temporale della Chiesa, se il Trattato costituisce uno Stato sovrano, se riconosce ad esso personalità di diritto internazionale, la conseguenza qual è? La conseguenza è che, quando nell’articolo 5 si dice che lo Stato e la Chiesa cattolica sono, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, si pongono nella Costituzione due sovranità che evidentemente non possono coesistere. E voglio esprimere un altro concetto. Badate, nell’articolo 1 del Trattato, quando s’incorpora l’articolo 1 dello Statuto, lo s’incorpora con un significato ben diverso da quello che nello Statuto aveva di una professione di fede. Quando nel Trattato si dice che «l’Italia riconosce e riafferma il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del regno 4 marzo 1848, per il quale la religione cattolica, apostolica e romana, è la sola religione dello Stato», e quando il Trattato s’introduce nella Costituzione, ciò significa riconfessionalizzare lo Stato. Perché qui non si vuol dire già che la grande maggioranza dei cittadini italiani professa la religione cattolica: qui si vuol dire che lo Stato ha una religione; mentre lo Stato, come tale, non ha religione, ma garantisce la religione; e si vuole che lo Stato italiano sia uno Stato cattolico, onde è da chiedere se i non cattolici facciano parte della Repubblica italiana. (Commenti al centro).

TUPINI. Non bisogna mai commentare per absurdum.

CRISPO. Abbiamo parlato del Trattato, parliamo ora del Concordato.

Incorporandosi il Concordato nella Costituzione, si cristallizzano gli accordi, nel senso che non possono esser modificati, per revisione costituzionale, perché bilaterali.

La conseguenza è una condizione di contrasto tra Costituzione e Patti. Difatti, mentre lo Stato si dichiara indipendente e sovrano, si attribuisce, nello stesso tempo, carattere confessionale. E può avvenire che, mentre nell’articolo 27 della Costituzione si dice (e si dice erroneamente) che l’arte e la scienza sono libere (erroneamente, perché dovrebbe dirsi che le manifestazioni dell’arte e della scienza sono libere), nell’articolo 36 del Concordato si stabilisce: «L’Italia considera fondamento e coronamento dell’istruzione pubblica l’insegnamento della dottrina cristiana secondo la forma ricevuta, dalla tradizione cattolica. E perciò consente che l’insegnamento religioso, ora impartito nelle scuole pubbliche elementari, abbia un ulteriore sviluppo nelle scuole medie, secondo programmi da stabilirsi d’accordo fr la Santa Sede e lo Stato».

E mentre si dice, nella Costituzione, all’articolo 94, che la giurisdizione è la espressione precipua della sovranità dello Stato, con l’articolo 34 del Concordato si stabilisce che la Chiesa consente alla giurisdizione dello Stato italiano d’intervenire nei giudizi di separazione coniugale, e che nei giudizi di annullamento del matrimonio, unica giurisdizione è quella della Chiesa. Così, mentre lo Stato rivendica a sé la tutela e l’assistenza della famiglia, il matrimonio può essere celebrato dalla Chiesa, e le cause del dissolvimento della famiglia sono del tutto sottratte al giudice italiano.

Così, per altro, mentre la Costituzione consacra il principio della eguaglianza di tutti i cittadini, per il Concordato tale principio non vale per i sacerdoti colpiti da scomunica o irretiti da censura. E non basta; perché, nello Stato Città del Vaticano vigono il Codice penale del 1889, e il Codice di procedura penale del 1913, e ciò può creare non lievi difficoltà, sia in rapporto al regime della piazza aperta o chiusa di San Pietro, sia in rapporto alla devoluzione della giurisdizione da parte della Città del Vaticano allo Stato italiano, a norma dell’articolo 22. Altre difficoltà potrebbero sorgere a proposito dello status personale e in tema di successione, perché la cittadinanza è regolata nello Stato Città del Vaticano con una legge in contrasto con la legge italiana del 1912 sulla cittadinanza.

Credo opportuno anche ricordare che, mentre per l’articolo 4 delle disposizioni transitorie sono aboliti i titoli nobiliari, per l’articolo 42 del Concordato «L’Italia è obbligata a riconoscere, mediante decreto reale, i titoli nobiliari conferiti dai Sommi Pontefici, anche dopo il 1870, e quelli che saranno conferiti in avvenire». E ciò crea una vera e propria condizione di privilegio. (Proteste al centro).

CLERICI. La conseguenza del suo dire è che i Patti Lateranensi devono essere denunziati?

CRISPO. Abbia la cortesia di ascoltarmi ancora.

Rispondo subito a questa osservazione. Vediamo che cosa significa incorporare questi Patti concordatarî nella Costituzione. Significa questo: immobilizzarli, cristallizzarli, come ho già detto, non essendo ammessa revisione costituzionale. Né occorreva dirlo, perché si tratta di patti bilaterali, ed è evidente che lo Stato, cioè una delle parti, non potrà riesaminarli e modificarli per conto proprio.

E poi si aggiunge nell’articolo 5 che i Patti potranno essere modificati con accordi consensuali. Ma se il consenso deve essere reciproco, esso può mancare, anche da parte di uno solo dei contraenti, e, in ogni caso, se l’accordo si raggiungesse, esso menomerebbe il carattere rigido della Costituzione. Questa condizione di contrasti creerebbe, adunque, confusione, disordine e contestazioni. Qui, difatti, non si tratta di norme successive, il cui eventuale contrasto potrebbe essere risoluto a norma dell’articolo 15 delle preleggi, per abrogazione espressa, o per abrogazione tacita. Nel caso nostro, i Patti introdotti nella Costituzione costituiscono un tutto unico con la Costituzione stessa, sì che i Patti non potrebbero essere modificati. Non si possono, difatti, denunziare i Patti, perché fanno parte della Costituzione, né si può invocare la clausola rebus sic stantibus, perché non si attribuisce ad essa automatismo di funzionamento. Né, infine, si potrebbe essere inadempienti, perché per il principio della connessione giuridica, consacrato nella nota formula simul stabunt, simul cadent, l’inadempimento del Concordato determinerebbe la decadenza del Trattato, e sarebbe così risollevata la così detta questione romana.

Ecco perché, come vi dicevo – con tutto il rispetto per la vostra coscienza e la vostra fede (Accenna al centro) – io pongo questa questione in termini rigorosamente giuridici, in termini di diritto costituzionale; cioè la pongo così: il Trattato, il Concordato sono – signori – materia costituzionale? Se voi ritenete che lo sono, inseriteli nella Costituzione; ma se dovrete rispondere, per le ragioni che io mi sono permesso di prospettarvi, negativamente, i Patti devono essere esclusi dalla Costituzione.

Per le ragioni esposte, propongo che alla prima parte dell’articolo 5 si sostituisca:

«Lo Stato riconosce l’indipendenza della Chiesa cattolica, con la quale continuerà a regolare i suoi rapporti per mezzo di Patti concordatarî».

Se questo emendamento non venisse accettato, e fosse votato l’articolo 5 così com’è, allo scopo di eliminare le contradizioni denunziate, si potrebbero aggiungere, al primo capoverso, dopo le parole: «i loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi», le parole: «in quanto non siano contrarî alla presente Costituzione». (Commenti).

Come vi ho detto, ho voluto compiere una indagine giuridica, la sola indagine, dico la sola, propria in sede di discussione della Costituzione. Se volessi fare un rilievo morale o un rilievo politico, io dovrei dire che mi sembra una ironia la pretesa di coloro che vorrebbero, niente di meno, che ricongiungere la Costituzione italiana, sia idealmente che rivoluzionariamente, alla Costituzione del 1849, perché, mentre l’articolo primo della Costituzione repubblicana del 1849 proclamava la caduta del potere temporale, la nostra Costituzione lo rivendica, retrocedendo nel tempo, e rinnegando i maggiori valori ideali del nostro Risorgimento.

Ed è davvero strano che proprio io debba ricordare questo ai soci fondatori della Repubblica italiana. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Moro. Ne ha facoltà.

MORO. Mentre mi accingo ad esaminare gli articoli 1, 6 e 7 delle disposizioni generali del progetto costituzionale, mi torna in mente un’espressione adoperata dall’onorevole Togliatti durante una delle prime sedute della Commissione nella quale noi lavoravamo insieme, espressione richiamata nel corso della discussione generale dall’onorevole Lucifero.

Aveva detto l’onorevole Togliatti che bisognava che la nostra Costituzione fosse una Costituzione non ideologica, che in essa e per essa fosse possibile una libera azione non soltanto delle varie forze politiche, ma anche di tutti i movimenti ideologici che stanno nello sfondo delle forze politiche stesse.

Riguardata così questa espressione, non può non trovare il nostro consenso. Preoccupati, come siamo stati e come siamo, di realizzare attraverso la nuova Costituzione italiana uno strumento efficace di convivenza democratica, noi non abbiamo mai cercato e neppure adesso cerchiamo di dare alla Costituzione un carattere ideologico. Però mi sembra necessario fare qualche precisazione su questo punto. Vi è una ideologia che può essere effettivamente qualificata di parte, ed è giusto che uno strumento di convivenza democratica quale è la nostra Costituzione, elimini un siffatto richiamo ideologico. Ma vi è, da un altro punto di vista, una ideologia alla quale una Costituzione non può fare richiamo; ideologia non soltanto non pericolosa, ma necessaria. E quando io avrò spiegato brevemente che cosa intendevo per ideologia in questo senso, non dubito che tanto l’onorevole Togliatti, quanto l’onorevole Lucifero vorranno concordare, come in effetti hanno in gran parte concordato nel corso delle nostre discussioni in sede di Sottocommissione, nel ritenere che un tale richiamo, largamente morale, ed umano, è necessario nella nostra Costituzione. È necessario perché, elaborando il progetto di Costituzione e preparandoci a votarlo come adesso facciamo, noi attendiamo ad una grande opera: la costruzione di un nuovo Stato. E costruire un nuovo Stato, se lo Stato è – com’è certamente – una forma essenziale, fondamentale di solidarietà umana, costruire un nuovo Stato vale quanto prendere posizione intorno ad alcuni punti fondamentali inerenti alla concezione dell’uomo e del mondo.

Non dico che ci si debba dividere su questo punto, partendo ciascuno da una propria visione ristretta e particolare; ma dico che se nell’atto di costruire una casa nella quale dobbiamo ritrovarci tutti ad abitare insieme, non troviamo un punto di contatto, un punto di confluenza, veramente la nostra opera può dirsi fallita. Divisi – come siamo – da diverse intuizioni politiche, da diversi orientamenti ideologici, tuttavia noi siamo membri di una comunità, la comunità del nostro Stato e vi restiamo uniti sulla base di un’elementare, semplice idea dell’uomo, la quale ci accomuna e determina un rispetto reciproco degli uni verso gli altri.

Costruendo il nuovo Stato noi determiniamo una formula di convivenza, non facciamo soltanto dell’organizzazione dello Stato, non definiamo soltanto alcuni diritti che intendiamo sanzionare per la nostra sicurezza nell’avvenire; determiniamo appunto una formula di convivenza, la quale sia la premessa necessaria e sufficiente per la costruzione del nuovo Stato.

Quando io ripenso a quella che è stata la vigilia del 2 giugno, quando mi ritorna alla mente la mobilitazione spirituale che tutte quante le forze politiche hanno fatto nel nostro Paese – una mobilitazione la quale tendeva appunto a dare alcuni supremi orientamenti di vita umana e sociale – quando ripenso che questa mobilitazione era precisamente determinata dalla coscienza di questo grande atto che si stava per compiere, di questa grande e decisiva ricerca da fare, io dico che veramente di questa fondamentale ideologia che ci accomuna noi non possiamo fare a meno, se non vogliamo fare della nostra Costituzione uno strumento antistorico ed inefficiente.

Diceva l’onorevole Lucifero, nel corso del suo interessante intervento in sede di discussione generale, riprendendo un’idea lungamente espressa nella nostra cordiale discussione in sede di Sottocommissione, che era suo desiderio che la nuova Costituzione italiana fosse una Costituzione non antifascista, bensì afascista.

Io, come già ho espresso in sede di Commissione all’amico Lucifero qualche riserva su questo punto, torno ad esprimerla, perché mi sembra che questo elementare substrato ideologico nel quale tutti quanti noi uomini della democrazia possiamo convenire, si ricolleghi appunto alla nostra comune opposizione di fronte a quella che fu la lunga oppressione fascista dei valori della personalità umana e della solidarietà sociale. Non possiamo in questo senso fare una Costituzione afascista, cioè non possiamo prescindere da quello che è stato nel nostro Paese un movimento storico di importanza grandissima, il quale nella sua negatività ha travolto per anni le coscienze e le istituzioni. Non possiamo dimenticare quello che è stato, perché questa Costituzione oggi emerge da quella resistenza, da quella lotta, da quella negazione, per le quali ci siamo trovati insieme sul fronte della resistenza e della guerra rivoluzionaria ed ora ci troviamo insieme per questo impegno di affermazione dei valori supremi della dignità umana e della vita sociale. (Applausi).

Guai a noi, se per una malintesa preoccupazione di serbare appunto pura la nostra Costituzione da una infiltrazione di motivi partigiani, dimenticassimo questa sostanza comune che ci unisce e la necessità di un raccordo alla situazione storica nella quale questa Costituzione italiana si pone. La Costituzione nasce in un momento di agitazioni e di emozione. Quando vi sono scontri di interessi e di intuizioni, nei momenti duri e tragici, nascono le Costituzioni, e portano di questa lotta dalla quale emergono il segno caratteristico. Non possiamo, ripeto, se non vogliamo fare della Costituzione uno strumento inefficiente, prescindere da questa comune, costante rivendicazione di libertà e di giustizia. Sono queste le cose che devono essere a base della nostra Costituzione e che io trovo in qualche modo espresse negli articoli che sto per esaminare.

Questa, ripeto, non è ideologia di parte, è una felice convergenza di posizioni. Io posso dare atto, come membro della prima Sottocommissione, che su questi punti non vi è stato mai fra noi e l’onorevole Lucifero e l’onorevole Togliatti alcun patteggiamento, perché effettivamente da ogni parte si è andato, sia pure attraverso la fatica di alcune iniziali incomprensioni, verso questo punto comune nel quale veramente ci sentivamo uniti. Abbiamo soltanto trovato, pur in questa sostanza, in questa base comune, qualche difficoltà di comprensione. Talvolta i termini da noi usati sembrava che nascondessero qualche interesse di parte, ma poi, quando amichevolmente, cordialmente si conversava, si capiva che la sostanza era eguale e che si poteva passare al di là delle parole per cogliere il fondo comune. In realtà questa ideologia, questa sana accettabile ideologia che io ho racchiuso nelle due espressioni – libertà e giustizia sociale – si ritrova in questi tre articoli della Costituzione che noi esaminiamo e viene espressa come una indicazione dei fini del nostro Stato, del volto storico che assume la Repubblica italiana. Indubiamente una indicazione di questo genere è indispensabile. Non avremmo ancora detto nulla, se ci limitassimo ad affermare che l’Italia è una Repubblica, o una Repubblica democratica. Occorre che ci sia una precisazione intorno ad alcuni orientamenti fondamentali che storicamente caratterizzano la Repubblica italiana.

Io, per questo, avevo proposto al nostro amabile Presidente della Commissione, onorevole Ruini, che i tre articoli, il primo, il sesto ed il settimo, fossero congiunti insieme, in quanto mi pareva che essi concorressero, da punti di vista diversi, a caratterizzare il volto storico dello Stato italiano. Sono prevalse altre ragioni, che sono ottime e dinanzi alle quali mi inchino, ma non volevo dimenticare questa mia modestissima proposta, la quale riconferma la mia vecchia idea che si tratti di articoli unitariamente confluenti per definire il carattere storico della Repubblica italiana.

Questi tre pilastri, sui quali mi pare che posi il nuovo Stato italiano sono: la democrazia, in senso politico, in senso sociale ed in senso che potremmo chiamare largamente umano.

Io richiamo l’attenzione degli onorevoli colleghi sul secondo comma dell’articolo 1, «La sovranità emana dal popolo ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi». Io non vorrei ora entrare nella disputa sottile che già è affiorata in seno alla prima Sottocommissione ed alla Commissione dei 75, la disputa circa l’appartenenza della sovranità, se sia più corretto dire che la sovranità emana dal popolo, o come ha accennato anche l’onorevole De Vita che la sovranità risiede nel popolo, o, come è stato detto da qualche altra parte, che la sovranità spetta allo Stato anche se emana dal popolo. Io vorrei precisare che non entro, per ragioni di tempo, in questa disputa sottile e degna degli altri oratori assai competenti che siedono in quest’Aula. A me pare, però, che la formula, sia pure indicata in questo modo – e le formule sappiamo che possono cambiare – anche così contrassegnata, serve bene a individuare l’appartenenza della sovranità in senso lato, cioè l’esercizio dei poteri politici, dei poteri di direzione della cosa pubblica in un regime democratico a tutti i cittadini, che sono, in quanto popolo, in condizioni fondamentali di eguaglianza nell’esercizio di questi poteri ed hanno la possibilità di determinare, mediante il loro intervento, la gestione della cosa pubblica nel senso più conforme all’interesse collettivo. È un punto, quindi, che mi pare sia al suo posto, in quanto richiama questo primo aspetto della democrazia italiana, la quale realizza, io credo – malgrado i dubbi che sono stati espressi qualche tempo fa dall’onorevole Crispo – realizza, attraverso la forma parlamentare, il suo carattere di democrazia. Ed è importante anche l’aggiunta, per la quale si dice che questa sovranità «è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Fummo noi, io ed alcuni colleghi, nell’ambito della prima Sottocommissione, che chiedemmo che vi fosse una indicazione di questo genere, la quale servisse a precisare in modo inequivocabile, dopo la dura esperienza fascista, che la sovranità dello Stato è la sovranità dell’ordinamento giuridico, cioè la sovranità della legge.

Non è il potere dello Stato un potere o un prepotere di fatto, è un potere che trova il suo fondamento e il suo limite nell’ambito dell’ordinamento giuridico formato appunto della Costituzione e delle leggi. E anche questa mi sembra rilevantissima affermazione e dal punto di vista politico e anche da quello pedagogico, direi, che non dovrebbe essere estraneo alle intenzioni di coloro che compilano una Costituzione per un popolo che per 20 anni è stato diseducato e ha bisogno di essere richiamato e riabituato a queste idee fondamentali attraverso le quali soltanto si garantisce la dignità e la libertà degli uomini.

Vengo ora all’altra parte dell’articolo 1: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Permettetemi su questo punto di ricordare, in quanto membro della Commissione, la storia di questo articolo, anche per contribuire a chiarirne il senso e a dissipare alcuni dubbi che già sono affiorati, in seno soprattutto alla Commissione dei 75. Ricordo che questo articolo in sostanza fu proposto dal nostro amico La Pira il quale, nel suo slancio generoso, nel suo desiderio di contribuire in ogni modo all’affermazione più piena della dignità umana, vagheggiava di inserire nella Costituzione un articolo nel quale fosse consacrato quello che egli chiamava lo status del lavoratore, cioè una condizione giuridica particolare dell’uomo che lavora e che doveva essere considerata fondamento di diritti. Furono fatte a questa proposta dell’amico La Pira alcune obiezioni, che in realtà non erano fondate, e, nella dinamica dei lavori per la Costituzione, questa proposta, che pure aveva trovato una prima articolazione, fu fatta cadere. Restò, di quella formulazione primitiva, questa idea che evidentemente è un’idea cristiana, un’idea democratica, che cioè bisogna dare al lavoro una particolarissima considerazione, che bisogna impegnare la nuova democrazia italiana in questo processo di elevazione dei lavoratori e di partecipazione la più piena dei lavoratori stessi all’organizzazione economica, politica e sociale del Paese. Questo il senso della disposizione: un impegno cioè del nuovo Stato italiano di proporsi e di risolvere nel modo migliore possibile questo grande problema, di immettere sempre più pienamente nell’organizzazione sociale, economica e politica del Paese quelle classi lavoratrici, le quali, per un complesso di ragioni, furono più a lungo estromesse dalla vita dello Stato e dall’organizzazione economica e sociale. Nessun intento di esclusione pertanto. Non si voleva da parte dei proponenti dichiarare che questa qualifica, intesa in senso stretto, come è indicato nell’articolo, fosse la condizione indispensabile per essere considerati cittadini e trattati come tali. Il problema della cittadinanza, cioè della pienezza dei diritti civili e politici, è risolta dalla prima parte dell’articolo 1, in quanto dichiara: l’Italia è Repubblica democratica, cioè stato di tutti i cittadini e risolta dagli altri due o tre titoli della prima parte di questa Costituzione, nei quali si tratta dei cittadini nel senso più largo dell’espressione. Si poneva semplicemente un problema di carattere strettamente politico, indicando come una mèta di notevole importanza nella costruzione del nuovo Stato, questa, cioè, di dare accesso in modo reale, pieno e costruttivo, alle forze lavoratrici nella vita del nostro Paese.

Ed io ricordo di più che questa proposta La Pira – chiamiamola così – venne presentata in contrapposto amichevole ad altra proposta dell’onorevole Togliatti, quella alla quale egli si riferiva ancora qualche giorno fa nel suo notevole intervento, in sede di discussione generale, quando domandava ancora che la Repubblica democratica italiana fosse qualificala come Repubblica di lavoratori. Ed assicurava, colla consueta amabilità, l’onorevole Togliatti che tale espressione non doveva essere intesa in nessun modo in senso classista, ma voleva indicare soltanto la convergenza di tutte le forze produttive verso questo punto di incontro, il lavoro, che permette alla Repubblica italiana di essere qualificata, senza esclusioni, come Repubblica di lavoratori.

Ed indubbiamente la suggestione che una simile espressione può avere per un cristiano, in quanto eccita la sua sensibilità tradizionale per la sorte della dignità umana e per la sorte delle classi meno abbienti e più sfortunate, può essere grande. Ma vi era da parte nostra, in sede politica, una considerazione da fare: che quella espressione, sia pure chiarita così nettamente dell’onorevole Togliatti, avrebbe assunto fatalmente un significato classista.

Ed ecco la nostra contro-proposta, che salva di quella dell’onorevole Togliatti la sostanza, assegnando allo Stato italiano questa mèta altissima di dare pienezza di vita sociale, politica ed economica alle classi lavoratrici.

Quindi, nessun significato di esclusione; soltanto un impegno della nuova democrazia italiana in questa strada di elevazione morale e sociale. E io credo che nessun uomo onesto, che segga in questa Assemblea – e, quindi, penso, nessuno tra noi – potrà respingere il significato di questa affermazione. Si potrà chiarire la sua portata, si potranno fare delle aggiunte, allo scopo di rendere indubbio che la cittadinanza democratica è cosa indipendente dalla qualifica di lavoro; ma non si potrà negare che il compito storico che sta dinanzi alla democrazia italiana, in quanto essa persegue il potenziamento della dignità umana, sia di immettere nella pienezza della vita del Paese le classi lavoratrici.

A questo punto io credo si debba ricollegare l’altro che costituisce l’ultima parte dell’articolo 7:

«È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli, di ordine economico e sociale, che limitano la libertà e l’eguaglianza degli individui ed impediscono il completo sviluppo della persona umana».

Evidentemente siamo, in questa applicazione del principio dell’eguaglianza, nello stesso ordine di considerazione cui adesso facevo cenno.

Si tratta di realizzare in fatto, il più possibile, l’eguale dignità di tutti gli uomini.

Il senso di questo articolo è precisamente questo. Non accontentiamoci di parole, di dichiarazioni astratte, facciamo in modo, attraverso la nostra legislazione sociale, che, il più possibile, siano in fatto eguali le condizioni e le possibilità di vita di tutti i cittadini.

Quindi anche questa parte dell’articolo 7 ha un significato evidente, discreto, accettabile e non credo che possa dare, così inteso e così inquadrato, alcuna preoccupazione. Comunque, anche qui le possibilità di modificazioni, di chiarimenti formali sono sempre aperte.

E ora permettetemi che io dica qualche cosa sull’articolo 6.

L’articolo 6 era inizialmente l’articolo 1° del progetto della prima Sottocommissione.

Vi abbiamo lavorato per molti giorni. Ripeto, non abbiamo incontrato difficoltà di sostanza, abbiamo incentrato delle difficoltà di forma, di comprensione del nostro punto di vista. In fondo in questa rivendicazione della dignità, della libertà dell’uomo, dell’autonomia della persona umana non vi poteva non essere concordanza. L’onorevole Basso che lavorava con noi, dopo qualche esitazione di carattere formale, ha finito per convenire circa l’opportunità di formulare in un articolo i principî inviolabili e sacri di autonomia e di dignità della persona.

È un articolo che ha un duplice riferimento.

A prescindere dall’ultima parte nella quale si parla dei doveri di solidarietà economica, politica e sociale, doveri che sono strettamente connessi con i punti ai quali ora ho accennato, l’articolo 6 ha due riferimenti: alla dignità, autonomia e libertà della persona umana, e ai diritti delle formazioni sociali ove si svolge la personalità umana.

L’opportunità, la necessità di questi riferimenti mi pare scaturiscano da queste considerazioni fondamentali. Abbiamo detto che occorre definire il volto del nuovo Stato in senso politico, in senso sociale, in senso largamente umano. L’articolo 6 riguarda quest’ultimo punto. Uno Stato non è veramente democratico se non è al servizio dell’uomo, se non ha come fine supremo la dignità, la libertà, l’autonomia della persona umana, se non è rispettoso di quelle formazioni sociali nelle quali la persona umana liberamente si svolge e nelle quali essa integra la propria personalità.

Qui non è un problema teoretico che noi solleviamo. Io potrei richiamarmi – non lo faccio perché non credo sia il caso di perder tempo – potrei richiamarmi senz’altro a tutto quello che ha detto qualche giorno fa l’onorevole La Pira nel suo elevatissimo discorso, nel quale ha svolto la concezione del pluralismo sociale e giuridico.

Egli ha chiarito questa caratteristica considerazione della società, la quale non è unica, non è monopolizzata nello Stato, ma si svolge liberamente e variamente nelle forme più imprevedute, soprattutto in quelle fondamentali, che corrispondono più pienamente alle esigenze immancabili della personalità umana.

Vorrei proporre qui non il problema scientifico del pluralismo giuridico, ma il problema del pluralismo pratico e politico, ricordando ancora una volta, perché siamo ancora sotto l’azione degli insegnamenti che ci vengono dalla tirannide donde siamo usciti, ricordando ancora le lunghe, dure compressioni non soltanto della dignità della persona direttamente considerata, ma della dignità della persona considerata nelle formazioni sociali nelle quali essa si esprime e si compie. Io credo che sia più duramente offensiva una menomazione di libertà umana, fatta attraverso i vincoli sociali che sono particolarmente cari, quella che investe un campo più vasto e impegnativo, nel quale si moltiplicano gli interessi e le possibilità individuali. Quando discutevamo di questa materia con l’amico onorevole Basso, qualche volta, da parte sua e da parte dell’amico onorevole Marchesi, ci è venuta questa obbiezione: voi parlate di comunità naturale; ma non vi è nulla di naturale in questo senso. Si tratta sempre di formazioni storiche, si tratta sempre di formazioni sociali. Si diceva: la personalità umana come potete concepirla fuori della società che la determina, fuori della società che contribuisce alla sua configurazione? La stessa famiglia è un prodotto storico ed essa ha una funzione sociale nel senso più largo.

Ma, alla fine, noi siamo riusciti a farci capire. Si parli pure di storicità, in questo senso, come noi parliamo dal nostro punto di vista di naturalità. Non poniamo una cosa contro l’altra, ché non si tratta di cose diverse.

Sta di fatto che la persona umana, la famiglia, le altre libere formazioni sociali, quando si siano svolte sia pure con il concorso della società, hanno una loro consistenza e non c’è politica di Stato veramente libero e democratico che possa prescindere da questo problema fondamentale e delicatissimo di stabilire, fra le personalità e le formazioni sociali, da un lato, lo Stato dall’altro dei confini, delle zone di rispetto, dei raccordi.

Ed io insisto, onorevoli colleghi, su questo punto: quello dei raccordi da stabilire, perché, quando noi parliamo di autonomia della persona umana, evidentemente non pensiamo alla persona isolata nel suo egoismo e chiusa nel suo mondo. Non intendiamo – ritorneremo su questo fra qualche giorno, studiando gli argomenti della famiglia e della scuola – non intendiamo di attribuire ad esse un’autonomia che rappresenti uno splendido isolamento. Vogliamo dei collegamenti, vogliamo che queste realtà convergano, pur nel reciproco rispetto, nella necessaria solidarietà sociale. (Applausi al centro).

Abbiamo con queste norme, con gli articoli uno, sei e sette, garantito, se noi sapremo essere fedeli a questi principî nel corso della futura attività legislativa e politica, l’effettiva democraticità dello Stato italiano.

Questo principî costituiscono, io credo, la chiave di volta della nostra Costituzione, il criterio fondamentale di interpretazione di essa. Come potremo intendere il valore delle norme relative ai diritti civili, ai diritti politici, ai diritti economici, ai diritti etico-sociali, se non avremo chiaramente posto questi principî fondamentali, di cui tutti gli altri non sono che un’applicazione? Si potrà dire: ma, in fondo, noi potremo desumerli questi principî di qua e di là. Prima dalla stampa e poi in questa autorevole sede, è andata serpeggiando la critica che tali cose non fossero da inserire nella nostra Costituzione. Si dice, infatti, che sono cose che, al più, fanno parte di un preambolo della Costituzione, ma non sono norme di legge, perché non creano diritti azionabili, non conferiscono possibilità immediate, pretese nei confronti dello Stato. Si dice che la Costituzione regola l’organizzazione dello Stato, ovvero disciplina i diritti concreti, cioè conferisce delle pretese nei confronti dello Stato, in relazione ai limiti posti allo Stato.

Io penso che vi sia nella Costituzione qualche cosa di più; e mi confermo in questa tesi, se penso a quella che è stata ed è la nostra passione, non dico di noi come Assemblea, ma dico di noi come popolo italiano nelle sue più nobili espressioni. Abbiamo sentito nell’atto in cui quest’Assemblea si eleggeva, è di momento in momento quando essa veniva funzionando, abbiamo sentito che non era in giuoco una piccola cosa, una piccola vicenda accessoria; ma era veramente in giuoco tutta la civiltà del nostro Paese. Io non mi sentirei – dico, ho una certa ripugnanza – a porre un problema tecnico in questa sede, per quanto riguarda queste norme, una pregiudiziale tecnica, quando siamo di fronte ad un documento di importanza storica, qual è questa Costituzione.

Veramente fare una Costituzione significa cristallizzare le idee dominanti di una civiltà, significa esprimere una formula di convivenza, significa fissare i principî orientatori di tutta la futura attività dello Stato. Parlare di preambolo sotto questo profilo, mi sembra veramente ancora molto poco. Quando l’onorevole Calamandrei diceva che vi sono dei diritti nella Costituzione, dei quali si deve dichiarare la immutabilità, la superiorità su ogni legislazione positiva; io mi domandavo: «Ma quale diritto più di questo della dichiarazione della dignità umana, della solidarietà sociale, dell’autonomia delle associazioni umane; quali principî più stabili e più immutabili di questi?». E mi pare, vedete, che si possa dare un’espressione tangibile a questa immutabilità, la quale è stata affermata così autorevolmente da un maestro quale l’onorevole Calamandrei, proprio ponendo nella Costituzione questi principî, ponendoli nella Costituzione come norme di legge e facendoli superiori alla legge ordinaria e inattingibili da essa.

Si dice: «Ma qual è l’effetto giuridico che producono queste norme»? L’effetto giuridico è quello di vincolare il legislatore di imporre al futuro legislatore di attenersi a questi criteri supremi che sono permanentemente validi. Ciò significa stabilire la superiorità della determinazione in sede di Costituzione di fronte alle effimere maggioranze parlamentari. Quando si parla di tante norme che andiamo discutendo e ci si scandalizza che siano norme costituzionali, bisognerebbe dire: ma in fondo questo non significa altro che sottrarle all’effimero giuoco di alcune semplici maggioranze parlamentari. Quindi, lasciamo che queste norme, che rappresentano i principî dominanti della nostra civiltà e gli indirizzi supremi della nostra futura legislazione, restino in sede giuridica, come formulazione di leggi. Io non vedrei contro questo altro che motivi di opportunità. Li potrei capire cioè, ma non li vedo. Io penso che un preambolo si possa fare. Un preambolo io lo intendo come una motivazione storico-politica, una individuazione del momento storico nel quale nasce la Costituzione. Io penso che si possa dire – che sia opportuno dire – qualche cosa su questo punto, se così sembrerà attraverso l’esame che faremo del progetto. Certamente la rivendicazione della libertà della persona, dell’autonomia delle formazioni sociali, della democraticità e socialità dello Stato, sono rivendicazioni che noi facciamo di fronte al fascismo e contro il fascismo; sono quelle da cui emergiamo per creare un avvenire più degno. Ma non sono soltanto una motivazione, onorevoli colleghi: esse sono anche davanti a noi come mete da realizzare. Mi parrebbe, relegandole nel preambolo, di averle come fissate in quel punto, di averle esaurite nel passato, quasi non fossero questi i principî ai quali ispirarsi nella soluzione del nostro quotidiano problema, che non è finito, che non è risolto; esso si porrà sempre più vivo, ogni giorno, perché questa è la debolezza umana, questa è la complessità dei problemi sociali.

Abbiamo bisogno perciò di questo sicuro criterio di orientamento, per una lotta che non è finita adesso e che non può finire, lotta per la libertà e per la giustizia sociale. (Vivi applausi).

(La seduta, sospesa alle 17,45, è ripresa alle 18,10).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bencivenga. Ne ha facoltà.

BENCIVENGA. Non dispiaccia all’Assemblea ch’io la trattenga, come al solito per breve tempo, su quanto il progetto di Costituzione stabilisce circa l’argomento guerra, circa questo evento fatale che scuote profondamente la vita dei popoli.

Ho chiesto di parlare su questo capitolo delle disposizioni generali, perché è in questo capitolo che all’articolo 4 si comincia ad affrontare tale argomento sul quale si ritorna in successivi articoli del testo; ma tutti così strettamente collegati ed interdipendenti, che si rende necessario, per venire a logiche conclusioni, uno sguardo di insieme.

In sintesi dirò che il progetto di Costituzione tocca due questioni: la base etica della guerra, il modo col quale la sovranità del popolo debba essere esercitata per la decisione di far ricorso all’uso delle armi: ed infine – ed in modo alquanto oscuro – chi debba assumere il comando delle forze armate e la responsabilità della condotta della guerra.

È ovvio che tali questioni si presentano in modo diversamente complesso a seconda del reggimento dei popoli. Di massima semplicità, quando essi siano retti da un Capo arbitro della pace e della guerra; di natura assai più complessa quando la sovranità risieda nel popolo.

Nella storia moderna il primo caso ha un esempio tipico nell’impero napoleonico, nel quale il Capo dello Stato era anche il condottiero. In questi si assommavano gli elementi inscindibili: politica e condotta della guerra; fattori codesti strettamente interdipendenti, poiché come ho già detto altra volta, la guerra è la continuazione della politica con le armi alla mano.

E, quando dico politica, mi riferisco non soltanto alla politica estera, ma anche a quella interna, cioè alla preparazione degli animi dei cittadini che dovranno affrontare la morte ed i sacrifici che la guerra impone.

La questione è assai più complessa e le difficoltà cominciano a rivelarsi nelle monarchie costituzionali in senso crescente con la maggiore quantità dei poteri che la Costituzione riserva alle Assemblee che traggono i loro poteri dal popolo. Le difficoltà sono poi grandi negli Stati retti a Repubblica, quando tutto il potere è al popolo; tanto più poi quando in esso difetti educazione politica e non si dimostri vigile ai pericoli derivanti dalla possibilità dei colpi di Stato.

Noi oggi ci troviamo a compiere il gran passo di trasferire quei poteri, che lo Statuto albertino assegnava al sovrano nel campo della decisione della guerra e del comando delle forze armate, ai rappresentanti diretti del popolo. E non è cosa facile e non ci sembra che la Commissione dei settantacinque abbia ben approfondito il problema.

Né è possibile prendere a modello quello che, nelle rispettive Costituzioni, sanciscono altre repubbliche; poiché bisogna tener conto della interpretazione e dell’applicazione che esse hanno ricevuto nel tempo e delle particolari condizioni storiche, geografiche in cui dette repubbliche si trovano.

I nostri colleghi hanno attinto molto dalla recente Costituzione francese, ma non hanno tenuto conto che molti di questi principî risalgono alla rivoluzione del 1789 e sono stati ribaditi in tutte le Costituzioni successive, il che non ha impedito alla Francia di prendere l’iniziativa o partecipare a numerose guerre nel secolo scorso o nel nostro secolo, anche e molto spesso in contrasto – per lo meno letterale – coi principî sanciti nelle varie Costituzioni.

Come è noto, lo Statuto albertino, all’articolo 5, stabiliva:

«Al Re solo appartiene il potere esecutivo. Egli è il Capo supremo dello Stato: comanda tutte le forze di terra e di mare; dichiara la guerra, fa i trattati di pace, d’alleanza, di commercio ed altri, dandone notizia alle Camere, tosto che l’interesse e la sicurezza dello Stato il permettano, ed unendovi le comunicazioni opportune…».

Coll’evolversi delle nostre istituzioni in senso democratico, questi poteri di fatto erano molto diminuiti. Il Parlamento, guidato dalla pubblica opinione, che soprattutto si rivelava per mezzo della stampa, limitava i poteri del sovrano nei trattati di alleanza e soprattutto nella dichiarazione di guerra.

Il comando di tutte le forze di terra e di mare non era assoluto. In tempo di pace era virtualmente esercitato dai Ministri, sotto il controllo del Parlamento; in tempo di guerra il comando effettivo veniva assunto dal Capo di Stato Maggiore, la cui nomina, almeno formalmente, era fatta dal Governo.

Tuttavia il sovrano non restava estraneo alla condotta della guerra. L’educazione e la cultura che veniva data ai principi, li rendeva atti ad un’azione di controllo e talvolta, come avvenne nella grande guerra, ad un deciso intervento, come dopo l’episodio di Caporetto.

Ora si tratta di trasformare tutto codesto processo, ma non si può approvare il semplicismo, adottato dalla Commissione dei settantacinque, di trasferire nella nostra Costituzione quello che è nella Costituzione francese.

Anche perché ogni Paese ha le sue esigenze di carattere tecnico e politico, dipendenti dalla situazione geografica e dai reggimenti politici delle nazioni con esse confinanti, né astrarre dalle ambizioni di conquista che tali nazioni nutrono.

È ovvio infatti che diverse sono le condizioni nelle quali si deve deliberare la guerra quando le frontiere sono chiuse ad ogni invasione immediata, quando cioè nessun pericolo improvviso sia da tenere, quando la cosiddetta «isolation» (che, a dire il vero, oggi non esiste più per nessuno Stato, colla adozione della bomba atomica!) permette di decidere in tutta tranquillità se si debba o no scendere in campo.

Né è lecito fare astrazione dalla natura e dall’aspirazione dei popoli confinanti. È logico che quei Paesi che hanno ai loro confini popoli turbolenti, dai quali possono temere aggressioni, giustificate talvolta dall’infatuazione messianica di apportare nuova civiltà od una particolare ideologia politica (similmente a quanto fece la Francia dopo la rivoluzione del 1789), non possono sottoporre la decisione della pace e della guerra a complesse deliberazioni di Assemblee, nelle quali facilmente si delineerebbe il contrasto tra i fautori di una nuova civiltà e coloro che ad essa fossero avversi.

Abbiamo detto che la nostra Costituzione ha preso a modello la Costituzione francese.

Ebbene, a riguardo dell’articolo 4, secondo il quale l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli – principio indubbiamente nobilissimo – io domando all’Assemblea: siamo anche noi d’accordo nel dare ad esso l’interpretazione che a questo principio, sancito nella Costituzione francese dal 1789 in poi, ha dato la Francia?

Al riguardo mi si consenta di dare qui l’interpretazione che, subito dopo la Costituzione francese del 1848, dava un commentatore della medesima. Si rifletta che detta Costituzione è forse una delle più organiche e complete fra le numerose Costituzioni che si sia data la Francia, e già risente dell’ansia di risolvere quei problemi di natura politico-sociale che oggi angustiano i popoli.

Orbene, il commentatore al quale mi riferisco, il Saint Prix – dirò in sintesi il suo pensiero – esclude dalla classifica di guerre di conquista quelle intese al raggiungimento dei confini naturali (l’eterna ossessione della Francia per la sicurezza!) e giustifica quelle intese a portare la libertà nei popoli, che secondo l’autore non è in quelli retti a monarchia! Ed infine l’autore conclude il suo lungo commento con l’osservare che essendo il popolo sovrano, esso ha diritto di fare le guerre che vuole…

E nella realtà il popolo francese ha ritenuto giuste tutte le guerre che ha fatto, anche quando, evidentemente, si proponeva propositi di egemonia e di conquista, naturalmente mascherandole sempre dietro gli immortali principî del 1789.

E poiché noi oggi, per la prima volta, poniamo in testa alla nostra Costituzione detto principio, è doveroso, ripeto, chiedere all’Assemblea se intenda oppure no, dare ad esso l’interpretazione che ne ha dato la Francia dal 1789 ai nostri giorni.

Non dimentichiamo che la Francia, pur avendo nella Costituzione successiva alla disfatta del 1870-71 un tale principio, non cessò mai, come era giusto e naturale, di pensare alla rivendicazione dei territori nazionali perduti, come ne era prova il fatto di aver velato a lutto la statua simboleggiante l’Alsazia e Lorena.

E guardate che la mia domanda ha uno scopo pratico. Perché della pace e della guerra – a senso dell’articolo 75 – dovrebbe decidere l’Assemblea Nazionale: un’Assemblea di circa un migliaio di membri, tra Deputati e Senatori. Aggiungerò anzi che la nostra Costituzione va ancora più in là: cioè (cosa che la nuova Costituzione francese non sancisce) vuole che sia la nostra Assemblea Nazionale a decidere anche della mobilitazione.

Non rilevo tutto l’assurdo di questa disposizione, sulla quale, se sarà il caso, ritornerò a suo tempo. Mi limito ora a far osservare che se dovesse restare in vigore, credo che difficilmente si troverebbe un capo di Stato Maggiore che potesse assumere la responsabilità di un’eventuale guerra. È ovvio infatti che, poche ore dopo la decisione di entrare in guerra presa dall’Assemblea, sarebbe paralizzato dall’uso dell’arma aerea tutto il sistema di trasporti ferroviari, ed anche il traffico sulle rotabili con la distruzione dei ponti.

D’altra parte, non si dimentichi che elemento pressoché decisivo del successo, sia nel campo tattico sia in quello strategico, è la sorpresa, e questo fattore così importante di successo sarebbe escluso, quando la mobilitazione dovesse essere decisa dall’Assemblea. Non è mistero per alcuno, che tutte le guerre moderne sono state precedute dalla cosiddetta mobilitazione occulta, la quale può essere anche una preventiva misura a scopo di difesa.

Se realmente un’Assemblea, di circa un migliaio di persone, dovesse decidere della guerra e della mobilitazione, potrebbe ad esse avvenire quello che avvenne ai coalizzati contro il grande Napoleone, il quale, di fronte alle discussioni sul da fare tra i coalizzati, disse la celebre frase: «Tandis qu’ils délibèrent, la grande armée marche»…

Ma non è sull’argomento della mobilitazione che io voglio indugiarmi, bensì richiamare l’attenzione sul fatto che l’Assemblea Nazionale, secondo il progetto, dovrebbe decidere della pace o della guerra, il che richiede che sia chiarita la portata reale effettiva dell’articolo 4 delle disposizioni generali. Poiché le discussioni potrebbero essere lunghe ed inconcludenti, e, qualora mancasse l’unanimità, esse lascerebbero nel popolo quell’indecisione sulla legittimità e l’opportunità della guerra che costituisce un fattore psicologico di grande importanza, e che, per esperienza, sappiamo aver avuto nella grande guerra (per il dissidio tra i neutralisti ed interventisti) un’influenza che, per poco, non ci condusse al disastro.

PRESIDENTE. Permetta, onorevole Bencivenga: noi non esaminiamo ora l’articolo 75, dove si parla della dichiarazione di guerra.

BENCIVENGA. Onorevole Presidente, la guerra è un tutto unico; sono stati fatti dei capitoli sull’economia, sulla vita sociale… (Commenti).

PRESIDENTE. Non voglio impedirle di parlare; le facevo presente soltanto questo: che lei si diffonde sul contenuto dell’articolo 75, che è quello che prevede il modo di dichiarare la guerra, mentre l’articolo quarto afferma, e speriamo che valga, che la guerra non si possa fare. (Approvazioni a sinistra).

BENCIVENGA. Non c’è niente di politico in questo; è una questione tecnica.

PRESIDENTE. Io non le ho fatto una osservazione di carattere politico. Ho cercato soltanto, come cerco con tutti, di contenere le nostre discussioni entrò certi limiti; e ricordo, come ho detto all’inizio della seduta, che vi sono 272 iscritti.

BENCIVENGA. La questione non riguarda soltanto un partito, ma tutti i partiti politici. Si tratta della pace e della guerra e dobbiamo vedere come viene regolata tutta questa materia. Del resto chiedo soltanto dieci minuti ed ho finito.

PRESIDENTE. Prosegua pure, onorevole Bencivenga.

BENCIVENGA. La recante Costituzione francese, conforme alle sue precedenti, stabilisce bensì essere potere dell’Assemblea, previo parere del Consiglio della Repubblica, di decidere della pace o della guerra (si guarda bene di toccare la questione della mobilitazione), ma su questa prerogativa dell’Assemblea al decidere della pace e della guerra non sarà superfluo ricordare quanto il Saint Prix scrive nel commento alla Costituzione del 1848: «Non si esageri – dice il nostro autore – l’efficacia pratica della regola; introdotta nella Costituzione consolare, essa non impedì a Napoleone di incendiare l’Europa con il pericolo della Francia». Le precauzioni più salutari restano impotenti quando l’opinione pubblica non ne reclami altamente l’esecuzione. Egli è, onorevoli colleghi, che la salvaguardia contro la guerra ingiusta non può essere riposta in rimedi, dirò così, in extremis, ma nel retto funzionamento delle istituzioni democratiche e in definitiva della libertà.

La guerra, come ho ripetutamente detto, soprattutto per aprire le menti di coloro che hanno della guerra e della pace un concetto semplicistico, trova le sue origini nella politica ed è in questo campo che le Assemblee debbono mostrarsi attente e vigilanti ed a loro volta farsi interpreti della pubblica opinione non coartata da leggi che offendono la libertà, soprattutto di quella della stampa, che tanto più potrà agire con senso di responsabilità quanto più essa acquisti coscienza del proprio compito.

Ma io mi avvedo che l’ora passa e mi preme toccare un altro argomento che riguarda il comando delle forze armate.

È questo un punto sommamente delicato per una Repubblica; poiché altro è il diritto che le varie Costituzioni dei regimi monarchici riconoscevano al Sovrano (specie nelle monarchie costituzionali come era divenuta la nostra), altro è quello che si può riconoscere ad un Presidente di Repubblica. Le ragioni sono ovvie. Le forze armate dipendenti da un Presidente possono favorire un colpo di Stato che significherebbe la fine della Repubblica e delle libertà civili.

Orbene, l’articolo 83 del nostro progetto di Costituzione stabilisce quanto segue: il Presidente della Repubblica… «ha il comando delle forze armate; presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale».

Quasi con le stesse parole ritroviamo questo articolo nella presente Costituzione francese. Vi è però una differenza, che può apparire trascurabile a chi non vi porti grande attenzione. Ed è là dove, dopo aver detto che presiede il Consiglio superiore e il Comitato di difesa nazionale, aggiunge, «e prende il titolo (sottolineo queste parole) di comandante delle forze armate». Il titolo dunque, non il comando effettivo.

La Costituzione del 1848 era ancora più esplicita. All’articolo 50 diceva: Il «Presidente dispone della forza armata, senza poter «jamais» (sottolineo il jamais) comandarla di persona».

Se voi, onorevoli colleghi, mettete in relazione i due testi del 1848 e quello della recente Costituzione e la lunga tradizione che ne è seguita, non vi è alcun dubbio sulla determinazione che giammai il Capo della Repubblica potrà assumere il comando effettivo, come era del Sovrano, delle forze armate; ma quale interpretazione possiamo noi dare all’articolo 83 della nostra Costituzione?

Chi allora avrà il comando in guerra che una volta aveva il Sovrano, il quale, come è noto, la esercitava attraverso il suo Capo di Stato Maggiore generale? Daremo il comando ad un generale. E se questi avesse le ambizioni di un Buonaparte?

Mi riservo di ritornare a suo tempo, quando verranno discussi a suo tempo i poteri del Presidente della Repubblica, la questione del modo con il quale siano garantite le civiche libertà e siano poste al sicuro le nostre istituzioni democratiche da avventure simili a quelle di Luigi Buonaparte.

E sempre per restare nell’ambito del problema militare, mi sia concesso esprimere il mio dubbio circa l’opportunità di quella, indubbiamente nobilissima, dichiarazione, della seconda parte dell’articolo 4, secondo la quale «l’Italia consente, a condizioni di reciprocità ed eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia tra i popoli».

Noi, che conosciamo tutti gli orrori della guerra, perché nessuno come chi ha tenuto elevati comandi di truppe può averne sensazione esatta, siamo tra i più ferventi apostoli della abolizione di tutte le guerre. Ho anche scritto in proposito sulla rivista L’europeo qualunque uno studio circa l’organizzazione militare di una federazione di Stati europei, suscettibile di essere estesa ad un complesso sempre maggiore di Stati aderenti al concetto della unione tra i popoli.

Ma, è ovvio, che nessuna adesione a progetti del genere può essere presa in considerazione dal nostro Paese dopo l’iniquo Trattato di pace. Uno Statuto che si prefiggesse di eternare lo status quo non potrebbe trovare il consenso di quegli italiani che il «Diktat» ha strappato alla Patria!

La Francia ha anch’essa inserito nella sua nuova Costituzione qualche cosa di simile. Ma, onorevoli colleghi, la Francia oggi può permettersi il lusso di dichiararsi disposta ad un accordo internazionale che impedisca la guerra. Essa ha realizzato il suo sogno di egemonia e di sicurezza. E tale sicurezza ha interesse a completare con una garanzia internazionale. Però, per la sua sicurezza, essa non ha esitato a ripudiare quel concetto delle frontiere naturali a nostro riguardo, assicurandosi teste di ponte per la facile invasione del Piemonte!

Io mi domando poi se un articolo analogo avrebbe posto nella sua Costituzione del 1875, dopo la perdita dell’Alsazia-Lorena! Il suo motto allora fu la «revanche». Noi non ne seguiremo l’esempio (Commenti), ma neppure suggelleremo, con un impegno internazionale, il delitto da essa commesso contro il nostro Paese, al quale deve se ha potuto resistere sulla Marna nella grande guerra del 1914-1918. (Approvazioni a destra).

Dato che negli articoli della Costituzione è un principio etico, morale ed un impegno di leale osservanza, io non credo opportuno inserire quella dichiarazione della seconda parte dell’articolo 4, che potrà trovare invece più opportuna sede in dichiarazioni di Governo.

E concludo. Dal breve cenno che abbiamo dato sul complesso problema della guerra appare evidente che il progetto di Costituzione, per questa parte, debba essere riveduto a fondo con il concorso di esperti, non solo nel campo militare, ma di esperti in politica estera, e, perché no, anche di politica interna. E questo voto io faccio al disopra di ogni intendimento politico di partito, ma nel supremo interesse della nostra Patria! (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Vinciguerra. Ne ha facoltà.

VINCIGUERRA. Onorevoli colleghi, sento che si parla con un certo disagio per fare delle pedestri osservazioni in un’atmosfera così incandescente come quella che ci ha portato l’onorevole Bencivenga. (Commenti).

Io cercherò di non scottarmi, e me la sbrigherò rapidamente, annunziandovi subito che parlo senz’altro sugli articoli 1 e 2.

Noi entriamo, anzi siamo entrati, in un dibattito prevalentemente giuridico, in cui penso che non siano consentite divagazioni, del resto molto facili. C’è una specie di tentazione a fare degli excursus, in quanto trattiamo argomenti fra i più suggestivi, quali la sovranità dello Stato, la sovranità della Chiesa, l’indissolubilità del matrimonio, che spinsero persino l’insigne onorevole Croce a recitare in fine della sua nobilissima orazione il «Veni, creator Spiritus». Sarebbe, dunque, facile addentrarsi in una prova di dottrina, la quale, però, in questa Assemblea esclusivamente politica, sarebbe perfettamente inutile; ovvero, se non fosse un’imbottitura, potrebbe essere un modo come un altro di imbrogliare le carte in tavola. Non lo dico per l’onorevole La Pira, che ha parlato nella massima buona fede, ma per chiunque possa addentrarsi in questo campo esploratissimo. Però, se c’è una cosa che si deve dire senz’altro, è che, avviandoci a questa discussione conclusiva che riguarda la Carta costituzionale della Repubblica, dovremmo tutti, per un impegno reciproco, sentirci liberi da vincoli di mandato. Questo è scritto anche nella Costituzione; mi sembra, però, una delle norme destinata ad essere violata prima ancora che la Costituzione trovi applicazione.

Liberi da mandato, perché dobbiamo decidere di interessi che non sono di questo o di quel partito, ma, io penso, della Nazione.

Per conto mio mi ispirerò a questa condotta, e per ciò nessuno si meraviglierà se qualche mia dichiarazione apparirà poco ortodossa.

Dice l’articolo 1: «L’Italia è una Repubblica democratica.

«La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Sarà chiesta la seguente modifica: «L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori». Ebbene, con tutti questi presupposti di lavoro e di lavoratori, la cosa più strana è che, niente di meno, proprio l’organizzazione sindacale è stata dichiarata libera, in virtù dell’articolo 35; di modo che noi ci diamo tanto da fare per introdurre questi lavoratori o sotto la forma generica di lavoro, o sotto quella concreta e specifica di lavoratori, e i lavoratori invece, nell’organizzazione sindacale, sono in isciopero, per quanto sia vero che questo progetto di Costituzione autorizza lo sciopero anche nei pubblici servizi. Ma l’onorevole La Pira mi insegna che, in tal modo, verrebbe a mancare uno degli elementi essenziali dello Stato: la popolazione. È una stranezza, se penso che una Carta costituzionale del secolo XX – mi pare che viviamo proprio in questo beato secolo – non può ignorare un fenomeno preminente, come quello sindacale, che riguarda la società nel suo complesso. Anzi, se c’è un modo mediante il quale una Costituzione dei nostri giorni possa distinguersi dalle Carte dell’Ottocento, esso è appunto quello di regolamentare il movimento sindacale; tanto più che, a questo movimento era da assegnarsi una funzione costituzionale, visto che, nel progetto, la pluralità di organi costituzionali non è davvero eccessiva. I sindacati dovrebbero, in questo senso, costituire un elemento di equilibrio.

Quando io penso che la teoria della divisione dei poteri non è del tutto superata e che dall’altra è garanzia della libertà, la mia meraviglia aumenta, e pertanto proporrò una modificazione dell’articolo 35, quando verrà in discussione.

Mi piace, ora, rilevare che la dizione di questo articolo – me lo permetta l’onorevole Ruini – è un plagio autentico della 3a dichiarazione della Carta del Lavoro.

Voi sapete, però, in che modo quel regime rispettò l’impegno: il sindacato, servì per i suoi fini, e la costruzione dello Stato corporativo se valse, sotto un’eleganza giuridica, a far conseguire lauti guadagni a parecchi, asservì il sindacato, creò un’atmosfera di polizia, imprigionò le masse.

Quando abbiamo di questi esempi e questi precedenti, in verità è molto dubbio se non ci si voglia giocare lo stesso tiro, se cioè questa organizzazione sindacale non debba essere la massa di manovra, non sappiamo per quale impresa contro la Repubblica quanto meno contro quella democratica. Certo, l’assenza di una disciplina giuridica dell’organizzazione sindacale nella Costituzione è una delle ragioni di sospetto e di preoccupazione che io sinceramente denuncio all’Assemblea.

Ho sentito fare una discussione alquanto bizantina in ordine all’ultimo comma dell’articolo 1. Si dice nel progetto: «La sovranità emana dal popolo»; si è però osservato che la sovranità «risiede» nel popolo, oppure «appartiene» al popolo. Si può anche pensare diversamente, con ogni rispetto e ammirazione per i rilievi degli onorevoli colleghi. Una cosa invece essenziale, che è sfuggita, e che davvero può avere delle ripercussioni sulla vita dello Stato che andiamo a costruire, è l’ultima parte del comma ove si dice:… «ed è esercitata nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi». Qui sta l’insidia, forse non voluta, perché io suppongo che i «Settantacinque» abbiano lavorato sempre in perfetta buona fede. Si dice cioè: «Tu, popolo, sei sovrano, con tutti i verbi che ti credi di scegliere, però bada che questa sovranità verrà esercitata come dico io (Commenti): l’Etat c’est moi; cioè l’organizzazione la faccio io, e la tua sovranità deve passare attraverso le forme che io ti preparo».

Io non dico che si sia voluto proprio questo, ma il rilievo è necessario, tanto più che le Costituzioni già emanate, non esclusa quella del 1849, tanto cara al cuore dei repubblicani, si limitano a dire che la radice della sovranità sta essenzialmente nel popolo. Nessuno di noi può dire che la sovranità deve obbligatoriamente esercitarsi attraverso questi stampi che noi le prepariamo, mentre abbiamo poi, d’altra parte, riconosciuto il diritto di referendum al popolo, il che sta a indicare che noi ancora una volta riconosciamo che la sovranità risiede, senza possibilità di alienazioni, nel popolo. E allora, in sede di discussione dei singoli articoli – sempre col rispetto dei termini prescritti dall’onorevole Presidente – mi riservo di proporre un emendamento.

Ma la questione grossa è un’altra. Tutti hanno girato attorno all’articolo 6, che è servito anche di motivo poetico. Si è detto che i principî di autonomia e dignità della persona sono anteriori alla nascita dello Stato, quali diritti naturali, in contrasto con chi ne ha fatto dei riflessi soltanto dello Stato e non altro.

Penso che questa non sia materia di discussione che si tratti di un patrimonio oramai acquisito – sia pure contestato – perché è venuto a noi attraverso molte lotte, non ultima quella contro la dittatura: ma la novità è nella parola; «garantisce».

Noi vogliamo sapere come la Repubblica «garantisce». Una volta tanto c’è uno Stato in formazione che avanza, ci dà la mano e ci dice: io ti garantisco i diritti più sacri. Ma quali diritti? Mi sembra che qui occorra discriminare: sono i cosiddetti diritti di libertà, i diritti naturali, i diritti – come li chiama l’ultima Costituzione francese – sacri e inviolabili della libertà di coscienza, di associazione, di riunione di stampa, ecc.; sono diritti i quali, quando si verifica un colpo di forza o si instaura un regime di violenza, sono esposti alle aggressioni? Gli altri diritti non si toccano, perché nessun ordine nuovo vuol portare alla distruzione fisica i suoi subietti. Così l’ordine delle famiglie viene regolato più e meglio che si possa; così i rapporti economici, nessuno li tocca. I diritti al miglioramento economico conquistati attraverso tutta la grandiosa lotta che sta conducendo il proletariato nel mondo, sono diritti che non si toccano, che non si possono toccare. Abbiamo visto che è un po’ la smania dei dittatori di dichiararsi autori di un certo benessere. È il «festa, farina e forca» dei Borboni.

Io sono stato un avversario di quello che fu il passato regime, e credo che non si possa mettere in dubbio la sincerità di quanto dico. Esso ci ha dato quelle privazioni che ci poteva dare; ma debbo riconoscere che un merito sotto quella dittatura ci fu: che una infinità di persone mangiò e mangiò romanamente – i romani sapevano mangiare anche due o tre volte nel corso del banchetto. – Le stesse masse furono (e questo torna a titolo di onore per esse, perché non subirono la suggestione) agevolate; ma, per quanto riflette i diritti di libertà di pensiero, di riunione, di associazione, il regime fu inflessibile verso di loro. Li soppresse tutti.

Di modo che quando questa Repubblica ci viene a dire: «vi garantisco questi diritti», evidentemente intende e deve garantirci i diritti di libertà, diritti sacri, diritti naturali.

Ma qui è il punto: ce li garantisce? Ho premesso che bisogna parlare senza preoccupazioni di parte. Ora è giustificato il dubbio che questa Costituzione – per fortuna è ancora in progetto – ci dia questa garanzia, una garanzia che ci viene promessa, come un impegno di onore, in una specie di proemio.

E qui a me pare che bisogna parlar chiaro, rifacendomi un po’ a quello che diceva il Presidente dei Settantacinque, anzi dei Settantaquattro, giacché è da escludersi il Presidente. (Si ride).

L’onorevole Ruini, a proposito dei rapporti economici ha detto che essi segnano una grande conquista della nostra Carta e avviano allo Stato economico. Accetto anch’io questo programma (giacché non trattasi di disposizioni legislative) inserito nella Costituzione e si dovrà solo vedere come la Camera Legislativa lo saprà tradurre in una serie di riforme agrarie, industriali, ecc.

Bisogna frattanto stare accorti a non creare illusioni e specie in ordine a questo futuro Stato economico preannunciato dall’onorevole Ruini.

Ora, io, come socialista, per quello che intendo come dottrina socialista, per quello che ho studiato sui testi, per la mia esperienza, devo dire che non potrei supporre che da queste premesse di rapporti economici debba venir fuori quest’impegno di uno Stato economico.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Non ho mai detto Stato economico. Ho detto che è in corso un’economia del lavoro, il che è ben diverso. E per questo la Repubblica assume impegno.

VINCIGUERRA. Ho ricercato il resoconto stenografico delle sue dichiarazioni e desumo il suo pensiero da un’intervista che ella ha concesso al Momento-Sera.

Comunque, se sia stato detto o non sia stato detto, questo non vuol dire niente, questo non muta la cosa, perché se non è stato detto, potrebbe essere la pretesa di qualcuno.

E su questo terreno si dovrebbero mettere le carte in tavola. Ora noi diciamo: rapporti economici, da tutelarsi costituzionalmente, va bene; ma che poi debba sorgere lo Stato regolamentatore, una forma di corporativismo, questo poi no.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. E chi l’ha detto?

VINCIGUERRA. È inutile che ella faccia dei dinieghi. Posso anche chiederle scusa di averla chiamata in causa, potendo essere lo Stato economico anche qualche cosa che lei scatena contro la sua volontà e che io temo per le libertà naturali che la Costituzione deve garantire.

Che volete farci? Sono un ingenuo. Chiamatemi, come volete, un primitivo. Voi sapete che sono i primitivi che dettero inizio al Contratto sociale, ed hanno acquistato poi dei diritti, sia pure ridotti. Ora, signori, il mio diritto è di chiarire: che vi siano questi rapporti economici, va bene, ma che vi possa essere la pretesa, dello Stato economico che irreggimenta ed incasella, penso che non possa essere consentito.

Io credo che abbia il diritto di esprimere la mia opinione, che non si arrivi a queste costruzioni di inquadramento, di incasellatura, le quali rappresentano una invasione nel campo dei diritti di libertà, una menomazione di questi diritti, presidio della civiltà e senza dei quali voi potreste anche avere uno Stato perfetto, come quelli costruiti da Platone a Campanella, ma senza anima. Si tratta delle nostre libertà, di un sacrario che va difeso anche contro gli equivoci, che possono aprire la porta ad ulteriori pretese.

Tutto ciò mi sembra che sia un po’ sfuggito all’onorevole La Pira, il quale si è mantenuto troppo in metafisica. La metafisica è pericolosa e fu in nome dello Stato etico di Hegel, il grande teologo della filosofia, che il fascismo pretese imporci il suo dominio acquisito prima colla violenza.

Dallo Stato etico venne fuori la mistica fascistica e gli insegnanti di essa.

E ora la nostra giovane Repubblica si avanza, ci dà la mano e dice: vi garantisco questi diritti; ma noi diciamo: grazie, vi prendiamo in parola, ma la vostra garanzia non deve avere sottintesi.

Comunque, resti chiaro che l’attuazione di queste promesse non deve avvenire con mezzi che ripugnano alla mia coscienza di cittadino, e soprattutto alle mie convinzioni socialiste.

Questo ordinamento della Repubblica ha però in sé le garanzie che ci aspettiamo? Non v’è nessuna minaccia, nessuna imboscata, nessun sottinteso?

Diceva l’onorevole Ruini: il nostro progetto è dei più belli, o, per lo meno, dei più semplici e si avvicina molto alla Carta francese.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, non ho detto questo.

VINCIGUERRA. Comunque ci avete tenuto a dire che non stava a molta distanza dal progetto francese.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. No, non ho detto questo.

VINCIGUERRA. Nemmeno questo. Comunque, quando ho avuto l’impressione che ci potesse essere stata questa parentela, questa sororità, avrebbe detto D’Annunzio, ho consultato i dibattiti svoltisi nella prima Costituente francese, dai quali ho appreso che avverso quel progetto furono mosse le stesse obiezioni che si voleva garantire la preminenza di un tripartitismo, ecc.

Pensai allora ad un plagio di argomenti da parte degli oppositori italiani, ma poi lo esclusi, rilevando che il plagio esiste nelle cose e nelle situazioni che si intendono creare. Certo, l’ordinamento della Repubblica come previsto dal nostro progetto minaccia le nostre libertà e necessita che vada rivisto.

PRESIDENTE. Onorevole Vinciguerra, non stiamo trattando dell’ordinamento della Repubblica.

VINCIGUERRA. Ho finito. Noi vogliamo che l’ordinamento della Repubblica sia la garanzia di tutte le libertà; noi vogliamo soprattutto, ed in ciò sono stato preceduto da autorevolissimi oratori, la riforma dell’articolo 88, che tende ad assicurare il governo ad un sol partito.

PRESIDENTE. Non parli dell’articolo 88. Parli dei primi 7 articoli, la prego.

VINCIGUERRA. Noi non vogliamo un Governo inamovibile, non vogliamo un primo Ministro che si possa chiamare, come prima, Capo del Governo, ma vogliamo che prevalga la sovranità popolare. E dichiaro che se così non fosse, signori dell’Assemblea, il problema delle autonomie andrebbe ripreso sotto altro profilo. Alberto Mario, la camicia rossa, ed altri, erano favorevoli alle autonomie e le consideravano come un baluardo di libertà contro l’assolutismo regio. Questo bisogno potrebbe ripresentarsi.

PRESIDENTE Onorevole Vinciguerra, non parli delle autonomie, la prego.

VINCIGUERRA. Onorevoli colleghi, ho prospettato alcuni problemi e credo che, da parte di noi, vi debba essere l’impegno che, dai dibattiti di questa Assemblea, venga fuori una Costituzione che sia garanzia di tutti i diritti per tutti gli italiani. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Riccio. Ne ha facoltà.

RICCIO. Nel prendere la parola, onorevoli colleghi, sento il bisogno – prima di venire alla dimostrazione della mia tesi – di procedere ad alcune osservazioni generali e confutare qualche obiezione di secondaria importanza.

Ho ascoltato oggi l’onorevole De Vita, il quale ha affermato che tutto quello che si riferisce alla religione sta al di fuori dello Stato. Mi sono domandato se la religione sia anche al di fuori dell’uomo; perché, se la religione non è al di fuori dell’uomo, non può essere neppure al di fuori del popolo; e se non è al di fuori del popolo, non può essere neppure al di fuori dello Stato che è il popolo organizzato.

E quando l’altro giorno ascoltai l’onorevole Basso e sentii questa espressione: «se l’articolo 5 passa, è un’offesa alla nostra civiltà», io mi domandai di quale civiltà egli intendesse parlare. Se dobbiamo riferirci alla civiltà italiana, noi sappiamo che questa civiltà ha per sostanza il cristianesimo e per base la coscienza cattolica. Onde è che, se non passa questo articolo, dobbiamo parlare di un’offesa alla civiltà italiana.

TONELLO. Studiate bene la storia. (Commenti).

RICCIO. La prego di ascoltare, e vedrà che avrà la risposta anche alle sue osservazioni.

Voi la rinnegate la storia; è questo che volete fare. L’onorevole Togliatti poi, tra l’altro, si è domandato: che farà la Chiesa nei rapporti della democrazia? E si è richiamato a un testo di un professore della Gregoriana. Noi pensiamo che quel testo debba essere il Wermz, il quale ha scritto in altri tempi e prima che il Codice di diritto canonico fosse stato concretizzato. Ma, a parte questo, vorrei chiedere all’onorevole Togliatti come egli mi giudicherebbe se io volessi comprendere la politica di Stalin da un brano di un libro di un professore dell’università di Mosca?

Se volessi giudicare il pensiero di un uomo soltanto da un brano, io potrei dare la dimostrazione all’onorevole Togliatti che egli ha accettato in pieno l’articolo 5. Invero, nella seduta di Commissione del 21 novembre 1946 (Resoconto, pag. 421) egli ebbe tassativamente ad accettarlo. Si legge nel verbale: «Tutto considerato, non sarebbe contrario ad inserire nella Costituzione un articolo, in cui si dica che la Chiesa Cattolica, che corrisponde alla fede religiosa della maggioranza degli italiani, regoli i suoi rapporti con lo Stato per mezzo dell’esistente Concordato. Una formula di questo genere reputa che potrebbe essere di gradimento dei democristiani».

So bene che in quest’aula l’onorevole Togliatti, rispondendo all’onorevole Orlando, ha detto che egli ebbe a votare contro. Lo so bene. Ciò non toglie che prima aveva accettato il richiamo espresso nella Costituzione del Concordato. Comunque dico: non si giudica degli orientamenti della Chiesa da un brano d’un qualunque volume, anche se di un maestro.

C’è un fatto, ed è opportuno richiamarlo perché questa Assemblea possa giudicare sul contegno della Chiesa in rapporto alla democrazia. È di questi giorni quella correzione nei testi ufficiali, che non è soltanto formale, ma che è sostanziale, in cui al «regno» si sostituisce la «Repubblica». Questo significa che la Chiesa ha riconosciuto l’avvento della Repubblica; questo significa che la Chiesa è sensibile alla democrazia; questo significa che la Chiesa gradisce trattare con la rinata democrazia italiana. (Commenti a sinistra).

L’onorevole Nenni, poi, ha dato una inesatta interpretazione della volontà popolare del 2 giugno. Egli ha detto che il 2 giugno il popolo italiano ha chiaramente manifestato di volere uno Stato, tra l’altro, laico.

Ci aspettavamo una dimostrazione della affermazione. Quando, invece, l’onorevole Nenni si è fermato soltanto a richiamarci che nella lotta clandestina, nella lotta partigiana e nella lotta al nazismo, ci trovammo insieme, cattolici e non cattolici, e non sentimmo allora che vi era una frattura nella pace religiosa, io ho pensato che il 2 giugno non c’entrava. Mi scusi l’onorevole Nenni, ma egli non ha detto e non ha dato un argomento che potrebbe influire sulla sua dimostrazione, perché non ha detto niente in rapporto al 2 giugno. Ma, se vogliamo fermarci per un momento al 2 giugno, credo che si possa e si debba pervenire ad una interpretazione della volontà popolare in un senso completamente contrario a quello al quale pervenne l’onorevole Nenni. Perché certo noi, democristiani, ci siamo presentati al popolo in una posizione precisa, ed abbiamo detto al popolo che sostenevamo i Patti lateranensi.

Se l’avessimo fatto soltanto noi si potrebbe anche discutere. Ma, quando, prima del 2 giugno, altri grandi partiti hanno detto solennemente che essi intendevano non denunziare i Patti lateranensi (Interruzioni), è evidente che il popolo italiano, di fronte a questa affermazione, ha dovuto interpretare l’orientamento di questi partiti nel senso che i Patti lateranensi andavano pienamente rispettati (Interruzioni a sinistra); e vedremo se rispettarli significhi che debbono entrare nella Costituzione.

Una voce. Lo dimostri.

RICCIO. Lo dimostrerò; sto al principio soltanto. Noi vogliamo che la pace, la quale esiste, sia mantenuta. È inutile fare salti. Bisogna dire chiaramente se si intende o meno denunziare i Patti lateranensi; bisogna, ripeto, dirlo chiaramente e non già venire in Assemblea a dirci che sì, la pace religiosa si vuole, ma non si vuole il riconoscimento della sovranità della Chiesa e non si vuole il riconoscimento dei Patti lateranensi. (Interruzioni Commenti a sinistra).

Non siamo noi a turbare la pace esistente, perché non poniamo condizioni nuove: siete voi che questa pace intendete turbare. E, in verità, l’onorevole Nenni l’ha turbata questa pace, e non ha turbato soltanto da pace, ma ha turbato l’equilibrio umano della coscienza italiana (Vivaci proteste a sinistra), quando ha detto che al suo gruppo non interessano i problemi dello spirito. Ricordate: egli ha detto che quando si vuol porre all’ordine del giorno la riforma agraria e la riforma industriale, non si vanno a cercare le farfalle sotto l’Arco di Tito. Ma la religione non è la farfalla sotto l’Arco di Tito (Commenti a sinistra).

Non è esatto? L’onorevole Nenni ha detto precisamente questo.

Ebbene, ripeto, la religione non è la farfalla sotto l’Arco di Tito. I problemi dello spirito non sono farfalle. (Commenti). L’uomo ha uno spirito e questi problemi che riguardano la sua vita, e che incidono sulla sua libertà, devono essere affrontati e risolti. Che sarebbe un popolo che questi problemi nella Costituzione non avesse a risolvere?

La riforma agraria e la riforma industriale noi le vogliamo. Non sono soltanto nel nostro programma, ma anche e soprattutto nella nostra volontà di realizzazione, e ne abbiamo già dato la dimostrazione. Ma queste riforme riguardano l’uomo e noi dobbiamo dire se quest’uomo lo guardiamo anche come spirito. Non è filosofia, è politica, perché c’entra la vita della nazione. (Commenti). L’ha posto l’onorevole Nenni il problema; e su questo punto si scontrano il marxismo materialista e il cristianesimo spiritualista. (Commenti).

Ma mi si permetta che io dica con tutta sincerità che se prima del 2 giugno un impegno fu assunto, l’impegno di rispettare i Patti lateranensi, questo significava il mantenimento delle condizioni e dei rapporti attuali tra lo Stato e la Chiesa. Questo impegno è stato assunto…

TONELLO. Ma da chi è stato assunto?

RICCIO. Dal V congresso del Partito comunista, per esempio; è stato ricordato in questa aula anche dall’onorevole Togliatti. (Interruzione dell’onorevole Tonello).

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, non capisco ora le sue interruzioni. Quando ha parlato l’onorevole Crispo ella non ha interrotto.

RICCIO. Non parliamo perciò di spirito laico o agnostico – come l’ha definito l’onorevole Nenni – che, portato nella Costituzione, sarebbe la rinnegazione della volontà della maggioranza ed il misconoscimento della libertà dei cattolici d’Italia. (Rumori a sinistra).

Intendiamoci subito.

Il laicismo dello Stato è un postulato essenziale ed originale del Cristianesimo, giacché se gli uomini più non debbono dare a Dio quel che è di Cesare, più non debbono dare a Cesare quel che è di Dio; onde il dualismo dei supremi reggitori dell’umanità risulta ineliminabile.

V’è la duplice sudditanza dei credenti. E vi è la duplice sovranità: quella della Chiesa e quella dello Stato. Il Cristianesimo ha iniziato subito il processo dell’unione nella distinzione. Noi la distinzione la vogliamo; non vogliamo la contrapposizione e, tanto meno, l’eliminazione.

Per aversi uno Stato confessionale è necessario:

  1. a) un giudizio di valore, per cui lo Stato dichiari di aderire ad una determinata confessione, riconosciuta come la sola, vera religione;
  2. b) conseguentemente un regime di particolare favore per siffatta confessione.

Ad aversi perciò uno Stato confessionale non basta il semplice riconoscimento esterno di una data religione come fenomeno storico, né quello dell’eventuale prevalente importanza da essa conquistata nella storia di un popolo. Né un regime giuridico speciale per il culto prevalente contraddice al principio dell’uguaglianza dei culti. Uguaglianza giuridica non significa trattamento uguale di problemi disuguali, ma applicazione dei principî di giustizia alle situazioni concrete. «A ciascuno il suo: non a tutti lo stesso», è il principio di giustizia. L’eguaglianza non è parità aritmetica né quantitativa; come la giustizia è proporzione.

Sostenere principî diversi significa non già soltanto non riconoscere alcuni privilegi alla Chiesa cattolica, ma anzi combattere e negare quella importanza che storicamente essa ha assunto di fronte al nostro popolo; significa negare una realtà sociale attuale, cui deve ispirarsi una Costituzione la quale quella realtà deve pur garantire ed organizzare.

Laicismo dello Stato, se è agnosticismo verso il contenuto dogmatico di una o più confessioni religiose, non è e non può essere – come bene ebbe ad osservare il Del Giudice in un suo scritto (La separazione tra Stato e Chiesa, pag. 85) – disinteresse anche verso le manifestazioni sociali e le formazioni concrete di una data confessione religiosa. Questo significherebbe trattare la Chiesa come una qualunque società privata; come se fosse un club di armi o un circolo di caccia; questo significherebbe disconoscere il diritto dei cattolici all’integrale manifestazione del loro credo religioso. Non è neppure una separazione tra lo Stato e la Chiesa; ma è una sovrapposizione dello Stato sulla Chiesa. Ma ciò sarebbe intollerabile dovunque, e soprattutto in Italia. Noi cattolici italiani abbiamo il diritto di chiedere alla legge fondamentale del nostro Paese che l’Italia non diventi la longa manus dell’anticattolicesimo e dell’anticlericalesimo mondiale nella parvificazione della Santa Sede, del Papato, della Chiesa cattolica.

Tutti uguali di fronte allo Stato; ma ciascuno deve essere libero di credere e di esprimere esternamente il proprio culto. Sarebbe altrimenti un’uguaglianza estrinseca, uniformista, imposta, non quella di uomini liberi che vivono nella loro libertà e realizzano il loro ideale e che in libertà si uniscono e si associano per gli scopi della vita e trasmettono a queste associazioni la loro stessa libertà, per cui anche queste vanno rispettate dallo Stato; onde la concezione pluralista di cui parlava l’onorevole La Pira.

La Chiesa è la società dei credenti, i quali vivono nello Stato. E se Stato e Chiesa si riferiscono allo stesso soggetto umano, cioè necessariamente interferiscono in rapporto ai soggetti destinatari dell’esercizio delle loro funzioni, è evidente che non si possono ignorare reciprocamente. Distinzione sì, ma non contrasto; laicismo dello Stato e uguaglianza dei cittadini di fronte allo Stato, ma non livellamento di tutti i cittadini e di tutte le fedi.

L’Italia ha una sua storia; la Chiesa cattolica costituisce una realtà sociale attualissima. Non si fa e non si può fare una Costituzione rinnegando la storia di un Paese e la realtà sociale che è base e coronamento insieme della Costituzione.

Noi crediamo di poter affermare che nessuna delle obiezioni generali, poste in sede di Sottocommissione e in sede di discussione preliminare, reggono ad una critica obiettiva, e che, chi vuole adeguare le leggi alla coscienza sociale deve necessariamente porsi sulla via della realtà sociale e non allontanarsi da essa. In nome di questa realtà sociale e della libertà di coscienza e di culto, espressione nobilissima di quella libertà che è l’anima del progetto di Costituzione, noi riaffermiamo il nostro orientamento religioso e sosteniamo l’articolo 5, la di cui costituzionalità, contrariamente a quanto è stato detto dall’onorevole Crispo, è indiscutibile. Già, diciamo subito che i Patti lateranensi sono stati stretti fra la Chiesa e lo Stato…

TONELLO. Dal fascismo! Da un assassino, e non dal popolo italiano!

RICCIO …e che nello Stato italiano la pace religiosa era sentita come un bisogno assoluto e si poneva come la base potenziatrice della rinascita libera del popolo stesso. L’avvertirono i tanti grandi italiani, che subito dopo il 1870 tutto fecero per giungere alla conciliazione ed eliminare la questione romana.

Si noti che nell’articolo 1 del Concordato si parla dell’Italia, e soltanto dell’Italia; e così negli articoli 1, 2, 3, 6, ecc. del Trattato. L’Italia non fu il fascismo, che la tradì e la scardinò moralmente. (Interruzioni).

Una voce. L’uomo della Provvidenza!

RICCIO. Mai è stata pronunziata questa frase: andate a leggere i discorsi del Papa e troverete che l’espressione è del tutto diversa ed ha un significato profondamente diverso.

L’Italia visse prima del fascismo e visse durante il fascismo, nonostante il fascismo; l’Italia vive oggi e vivrà meglio domani quando saranno da essa eliminati tutti i residui di statalismo e la libertà e la democrazia trionferanno in pieno.

I Patti lateranensi non sono una imposizione, né una espressione del fascismo; sono la libera conquista di una coscienza popolare, che volle ricomporre un dissidio intimo, eliminando contrasti che venivano sfruttati da speculatori politici, avvelenatori della libertà. Siamo d’accordo con l’onorevole Togliatti quando critica la classe dirigente italiana prefascista, in quanto essa effettivamente non seppe essere popolare, e cioè non riuscì ad interpretare la coscienza e la volontà del popolo e porsi al servizio del popolo stesso per la sua elevazione e creò una frattura dannosa fra essa e il popolo stesso. Non si lamentino oggi quelli che coscientemente o incoscientemente prepararono il fascismo ieri, quando ieri conculcarono la libertà in nome delle loro idee, come non avranno diritto di lamentarsi domani (Dio non faccia mai verificare questo giorno) ove trionfasse un’altra dittatura se oggi non lottassero con ogni forza e con ogni sacrificio per salvare la libertà dell’individuo, le libertà politiche e la libertà religiosa. È che le libertà sono solidali: l’una è strettamente connessa all’altra; e tutte vivono di una stessa realtà e si alimentano di uno stesso cibo.

La storia di sessant’anni in Italia sta ad indicare che la classe dirigente visse contro il popolo, ma sta ad indicare anche che nessuna classe dirigente può vivere e deve vivere contro il popolo, ignorando i suoi sentimenti, la sua volontà, i suoi bisogni, non soltanto materiali ma anche etici. Sono le forze vive del popolo che hanno preparato i tempi nuovi, furono le forze vive del popolo che crearono la pace religiosa e prepararono la via ai Patti lateranensi. Il popolo di ieri è il popolo di oggi. Non in nome di questo popolo si può chiedere quanto in quest’aula è stato chiesto. Anzi i gruppi parlamentari dei partiti, che noi preferiamo chiamare di popolo e non di massa, se vogliono davvero il rispetto della fede religiosa dei loro aderenti, non devono seguire la tattica da alcuni seguita. L’onorevole Togliatti non coglie nel giusto quando, criticando gli uomini del passato, pare voglia indirettamente anche diminuire l’autorità delle dichiarazioni dell’onorevole Orlando in rapporto alla maturazione dei Patti lateranensi. L’onorevole Orlando fu allora l’interprete fedele della coscienza italiana; egli seppe comprendere a pieno il bisogno dell’anima di questo popolo; la sua sensibilità politica fu allora, come oggi, pienamente aderente alla volontà popolare. Se l’onorevole Orlando allora non stipulò i patti, questa è forse una colpa, perché il popolo italiano li voleva, anche se uomini di vecchia marca politica, e per motivi certo non democratici, li avrebbero ostacolati. E se questo popolo li voleva allora, anche noi dobbiamo volerli oggi. Noi, che pur vogliamo ritornare alla libera tradizione italiana, realizzando in pieno però una vera democrazia, una democrazia sostanziale e non apparente soltanto. È stato detto più volte che Mussolini stipulò i Patti per avere prestigio. Dunque dai patti nasceva anche un prestigio di fronte al popolo italiano. Credo che la riconferma costituzionale dei Patti dia anche alla rinata democrazia italiana un prestigio, un grande prestigio di fronte al popolo e di fronte alle altre nazioni.

Io ricordo non soltanto le dichiarazioni fatte dall’onorevole Orlando in questa aula, non ricordo i tentativi fatti sotto il pontificato di Leone XIII da Padre Tosti, autore del famoso opuscolo: La Conciliazione, con Francesco Crispi, ma i tanti altri tentativi fatti in campo religioso ed in campo laico. Nell’articolo «La preconciliazione», riportato nel volume: Su alcuni miei rapporti di Governo con la Santa Sede (Sabina, 1930) l’onorevole Orlando affermava: «Posso soltanto aggiungere come un chiarimento personale, che io ebbi allora la intuizione che una nuova fase era matura circa la maniera di essere dei rapporti fra la Chiesa e lo Stato in Italia». E uguale testimonianza ci ha dato l’onorevole Sforza nel suo volume: L’Italia come io la vidi dal 1900 al 1944.

Se dunque la coscienza italiana era matura e questa testimonianza veniva e viene da uomini, che pur vissero il travaglio del passato, e che pur sono sostenitori di idee diverse dalle nostre, vuole dire che nel 1929 si verificò quanto poteva e doveva verificarsi nel 1920. La democrazia riprende il suo cammino e non può rinnegare un fatto storico. Quel fatto storico, su cui ancora, come per riconoscimento unanime, deve poggiare la forza costruttiva del Paese, il potenziamento della unità degli italiani e della coscienza della italianità.

E diciamolo: è inutile fare giuochi politici su questo punto. La pace religiosa in Italia è garantita dai Patti lateranensi. Ogni attacco contro di essi è turbamento di questa pace ed è sopraffazione della realtà sociale. In nome della storia d’Italia e della coscienza del popolo respingiamo ogni attacco e diciamo: «la pace l’abbiamo: eccola. Sono i Patti lateranensi». Manteniamoli. Non turbiamo l’equilibrio che esiste e che è stata faticosa conquista di tanti anni. Se qualche modifica sarà ritenuta necessaria, lo Stato potrà proporla e l’accordo certamente sarà raggiunto con la Chiesa.

Per di più; se la democrazia è la forma necessaria della ragione politica, occorre razionalizzare il potere attraverso la maggiore affermazione dei diritti dell’individuo e cioè la maggiore affermazione dell’indirizzo democratico del diritto. Tutto il mondo, e l’Europa in ispecie, è intento a questa opera. La tutela del bisogno religioso dei popoli nelle Carte costituzionali risponde a questa profonda esigenza democratica. Il superamento dell’individualismo assoluto nelle Costituzioni moderne ed il senso sociale penetrato in esse ci pongono di fronte alla tutela diversa degli stessi diritti. Si è parlato in quest’aula, di libertà sociale, cioè della libertà individuale protetta e potenziata socialmente; ebbene, questo è un aspetto della democrazia nuova, per cui, anche nel campo di cui oggi ci occupiamo, occorre costituzionalmente stabilire e regolare non soltanto la libertà religiosa dei singoli, nei singoli e in rapporto allo Stato, ma anche delle e nelle organizzazioni religiose, che uniscono e trascendono i singoli, dal momento che divengono organismi viventi nello Stato e nella più grande società.

La religione, vista nel singolo, è libertà; riguardata nell’associazione, che affascia i singoli, è ancora e sempre libertà. Nei popoli ora si ha la organizzazione non soltanto giuridica, ma anche etica e religiosa; onde il problema religioso non è più ai margini o negli interstizi del diritto, ma si pone e s’impone come un problema centrale del diritto regolatore della vita associata. Una Costituzione non può ignorarlo: deve risolverlo.

La risoluzione non è in un richiamo generico alla libertà di coscienza del singolo. Se vi è la Chiesa, che è la organizzazione dei cattolici, questa non può essere ignorata dallo Stato; e lo Stato, ponendosi la Costituzione, deve necessariamente determinare il regolamento dei rapporti con la Chiesa. Non è, quindi, possibile in una nuova Costituzione ignorare il fatto religioso e tanto meno riguardarlo solo come espressione di mera libertà individuale, perché vi è un’altra ragione.

Lo Stato è l’organizzazione giuridica non solo degli individui, ma anche della Nazione. Nella Nazione l’elemento umano è contrassegnato da caratteri fisici e spirituali, nascenti da una civiltà tutta propria, creatrice di un tipo comune profondamente omogeneo; essa agisce sin dalla nascita, inavvertitamente ma continuamente, sulla persona, imprimendole quel complesso di elementi che le sono proprî: lingua, religione, spirito, tradizione. Lo Stato questi elementi prende e li organizza giuridicamente, onde riceve anche una fondamentale unità morale. Al centro dello Stato-nazione vi è una tradizione ed una religione: una tradizione in Italia, che è poggiata sul cristianesimo; una religione, che è quella cattolica.

Quando noi poniamo la Carta dei diritti individuali e sociali, non possiamo dimenticare questa realtà ancora una volta. Se volessimo dimenticarla, ci verrebbe immediatamente richiamata dalla storia, dalla letteratura, dall’arte italiana, che il primato conquistò nel mondo sull’ala del cristianesimo.

È qui, dunque, in questa tradizione che è la democrazia dei morti, la quale pur si pone come base della democrazia dei vivi; è qui, in questa entità naturale etica e morale, data dalla nazione, che troviamo gli argomenti per dire che nella Costituzione italiana i rapporti tra Stato e Chiesa cattolica devono trovare necessaria regolamentazione. È la struttura dello Stato stesso che lo impone. In alcune Costituzioni sud-americane (Argentina, Bolivia, Columbia, Paraguay, Perù, ecc.) la Chiesa Cattolica è dichiaratamente riconosciuta e, sia pure con formule diverse, la religione cattolica è espressamente richiamata. Nella Costituzione boliviana, per esempio, è detto: «Lo Stato riconosce e sostiene la religione cattolica apostolica romana». In altre costituzioni, invece, concordati con la Santa Sede le integrano; così per l’Equatore, il Guatemala, l’Honduras, il Salvador, il Venezuela, ecc. Nella Costituzione lituana interessante è l’articolo 84 che dice: «A tutte le organizzazioni confessionali esistenti in Lituania lo Stato riconosce un diritto eguale di amministrarsi conformemente ai propri canoni o statuti, con la libertà di professare pubblicamente la loro dottrina confessionale e di celebrare le cerimonie della loro religione, di fondare e dirigere gli edifici consacrati al loro culto, scuole ed istituti di educazione e di beneficenza, di fondare monasteri, associazioni confessionali ed associazioni fraterne, di imporre ai proprî membri tasse destinate a sovvenire i bisogni delle organizzazioni confessionali, di acquistare beni mobili ed immobili e di amministrarli. Gli ecclesiastici sono esenti da obblighi militari».

Come è evidente, tutto il contenuto sostanziale del concordato fra lo Stato italiano e la Chiesa è stato riportato.

Comunque, in tutte le Costituzioni europee più recenti (tra tutte è opportuno richiamare quella di Weimar, articoli 135-136) vi sono norme riflettenti la vita religiosa ed ecclesiastica e la libertà di coscienza è affermata non già in funzione di premesse indifferentistiche o laiche, ma in virtù del dovere esplicito dello Stato di contribuire, quale tutore del bene comune, allo sviluppo, come dell’arte e della scienza, anche della vita religiosa.

Solo in Italia dovremmo rinnegare la storia e la realtà sociale ed improntare la Costituzione a premesse agnostiche, per cui la religione sarebbe considerata come un fatto privato, quando addirittura non la si vorrebbe porre nella zona oscura del superato? La coscienza italiana a questo tentativo si ribella. Il fatto religioso non può essere ignorato nella Costituzione. La Chiesa cattolica, che fa di Roma anche la capitale del mondo, agendo sul territorio italiano in rapporto con cittadini italiani, dev’essere tenuta presente ed i suoi diritti non possono essere disconosciuti o rinnegati. Essa si pone ovunque di fronte allo Stato come una realtà sociale, evidentemente molto diversa da altri fenomeni religiosi, che si concretizzano in altre confessioni o associazioni religiose. Questa realtà, se altrove non è evidente, in Italia è evidente. Onde il richiamo espresso alla sovranità della Chiesa ed ai Patti lateranensi è necessario nella Costituzione Italiana. Ciò non significa che l’Italia non potrà concordatariamente regolare i suoi rapporti con altre confessioni; ove queste lo chiedessero e lo Stato lo ritenesse, nulla vi sarebbe in contrario. Significa soltanto riconoscere un fatto storico e una situazione giuridica, in piena aderenza ad una realtà sociale.

Invero non è creata una situazione di privilegio, lesiva della eguaglianza. Alle confessioni religiose è garantita la piena libertà; ed esse, quando venissero eventualmente a trovarsi nella stessa situazione della Chiesa cattolica, ben potrebbero venire in contatto con lo Stato attraverso un atto bilaterale.

La concretezza storica non può non guidarci e non guidare gli uomini politici. Gli stessi materialisti storici, se vogliono rimanere veramente alla concretezza, devono riconoscere il fatto e la sua importanza politica e sociale; ed in conseguenza concordare nel riflettere nella Costituzione la struttura reale della società italiana di oggi.

Ed a proposito è opportuno un rilievo. L’articolo 1 dello Statuto albertino non fu, come da più parti è stato affermato, tacitamente abrogato per desuetudine. Già la desuetudine non può invalidare una legge costituzionale; ma il cattolicesimo, in applicazione di quella norma, è stato sempre ritenuto come la religione della maggioranza del popolo italiano. Solo la scuola liberale ne sosteneva la inefficacia e l’apparenza di valore. La osservazione è inesatta, perché non soltanto l’articolo 1 stabiliva un orientamento della coscienza italiana, ma tutto un complesso di disposizioni di legge, come, in particolare, quelle relative ai tribunali ecclesiastici ed alla ammissione nelle carriere statali senza tener conto del requisito della confessione religiosa.

In conclusione, plaudiamo all’onorevole Togliatti quando afferma che la unità conquistata dev’essere mantenuta e difesa. Ma gli diciamo: «Vi è un bene che appartiene alla maggioranza degli italiani; questo è il cattolicesimo. In esso è la base della unità etica.

«Non lo attaccate; creereste la rottura e sareste i responsabili di questa frattura. L’unico mezzo per mantenere l’equilibrio è la riconferma dei Patti; e data la grande importanza di essi, nel momento della rinnovazione sostanziale della vita giuridica italiana, il loro richiamo nella Costituzione costituisce una necessità assoluta ed inderogabile. Questo richiamo è di garanzia che lo Stato domani non si allontani dalla volontà popolare e consideri la Chiesa come una qualunque società privata, invadendone il campo e perseguitandola».

Noi, costruttori di un domani democratico d’Italia (e crediamo che tali siano anche l’onorevole Marchesi e l’onorevole Nenni), non possiamo non volere la garanzia costituzionale delle libertà religiose con il richiamo al Concordato, che è fonte sicura di pace religiosa. La politica religiosa dello Stato Italiano dovrà essere ispirata alla leale realizzazione della Costituzione. Non avverrà, come avvenne in passato, e come è stato acutamente osservato dal professore Iemolo (Per la pace religiosa in Italia, «La nuova Italia», Firenze, pagine 6-7) che il paese legale sia diverso da quello reale, nel senso che si abbia la sopraffazione di una minoranza sulla maggioranza e nel senso che una minoranza ardita, impossessandosi del Governo, abbia a decidere dei destini della maggioranza.

Nel progetto sono stati affermati due principî sostanziali: a) la indipendenza e la sovranità della Chiesa; b) i Patti lateranensi come regolatori dei rapporti tra Stato e Chiesa. A dare la spiegazione della portata della norma e ad individuare l’esatto contenuto della norma stessa, basterebbe la meravigliosa sintesi fatta dall’onorevole Ruini nella relazione alla Presidenza dell’Assemblea e il discorso dallo stesso pronunciato in quest’aula. Pure è necessaria qualche precisazione.

È riconosciuta la sovranità, oltre l’indipendenza della Chiesa: è rinnegato, cioè, sia un giurisdizionalismo separatista, sia un separatismo giusnaturalista, mentre è affermata la originarietà dell’ordinamento giuridico della Chiesa. Questo principio è ormai pacifico, e non solo negli scrittori cattolici, in quanto non è stato affermato soltanto da Leone XIII, soprattutto nella Immortale Dei, ma anche in altri scrittori cattolici e non cattolici, tra cui Santi Romano (L’ordinamento giuridico, Sansoni, 1946), Gismondi (Il nuovo giurisdizionalismo italiano, Milano, Giuffrè, 1946), De Luca (Considerazioni sull’autonomia e la pubblicità della Chiesa nel diritto italiano, Giuffrè, 1946).

È opportuno ricordare soprattutto il pensiero lucidissimo di Santi Romano (pag. 98), per il quale la originarietà della Chiesa, quale ordinamento giuridico, diviene la base di un’altra concezione, quella della pluralità degli ordinamenti giuridici. Ed invero la differenza tra lo Stato e la Chiesa è che mentre il primo è una società, giuridicamente e politicamente organizzata su base territoriale, la seconda è una società giuridicamente ed eticamente organizzata su base non territoriale.

La originarietà dell’ordinamento giuridico della Chiesa significa che esso è a sé, distinto ed indipendente. La Chiesa ha una potestà normativa, che non le deriva dallo Stato, ma che è ad essa propria ed originaria, in quanto essa si presenta come una istituzione organizzata e che ha conseguita una giuridica unità, la quale oltrepassa i confini dello Stato. I caratteri della indipendenza e sovranità, fissati cumulativamente, indicano precisamente la originarietà di quell’ordinamento, cioè l’asseità, nel senso che esso è un ordinamento per sé stante, il cui fondamento non deriva dal riconoscimento di un altro ordinamento. La sovranità della Chiesa, che non è legata al territorio, ma è un dominio spirituale, e, perciò, supera ed abbraccia il territorio del singolo Stato, è una realtà storico-sociale, ormai non più disconoscibile. Rinnegarlo è assurdo; il non riconoscerlo è da politici ciechi. Non bastava, perciò, parlare d’indipendenza; era necessario precisare che si trattava anche di sovranità. E l’articolo 5 bene ha fatto a fissare l’uno e l’altro carattere.

Come bene ebbe ad osservare Iemolo, nelle sue lezioni: «Si può insegnare con assoluta tranquillità che il diritto della Chiesa va considerato dall’angolo visuale dello Stato italiano, così come lo considera la Chiesa, allorché lo ritiene diritto qualitativamente eguale a quello emanato dallo Stato, nel senso che entrambi i diritti emanano da istituzioni che sono fonti di ordinamenti giuridici indipendenti».

La formulazione della norma, quindi, risponde in pieno a principî giuridici ed agli orientamenti sociali.

Ma si osserva: occorreva proprio porre questo principio della sovranità nella Costituzione? E perché parlare anche della sovranità dello Stato?

Precisiamo subito che il richiamo alla sovranità dello Stato è posto soltanto in riferimento ed in coordinamento con la sovranità della Chiesa: è una specificazione particolare, posta soltanto sul piano logico, per individuare a contrario il contenuto della sovranità della Chiesa.

Comunque, Stato e Chiesa agiscono in rapporto agli stessi soggetti e sullo stesso territorio; onde questa reciproca sovranità è opportuno riconoscere e stabilire, ad evitare equivoche interpretazioni della volontà costituzionale. Si potrebbe forse nel richiamo cogliere anche un richiamo di ordine storico. La questione romana fu chiusa definitivamente, per quanto atteneva al territorio dello Stato italiano, con la istituzione della Città del Vaticano. Come italiano questa affermazione la interpreto anche in un senso storico, cioè come richiamo della rinunzia fatta dalla Chiesa ad ogni ulteriore rivendicazione territoriale. Né si dica che lo Stato fa un soliloquio; perché esso riconferma nella Costituzione un patto, bilateralmente definitivo, e quindi rinnova un colloquio con la Chiesa. Ed è opportuno il richiamo, perché, se dopo è detto che le modificazioni bilateralmente accettate non hanno bisogno di procedimento costituzionale, vuol dire che esse sono possibili, essendo previste dallo Stato italiano. Questo Stato, però, una sola modifica non prevede possibile: quella relativa al territorio. Potrà essere modificato il Concordato, ma questo punto dovrà rimanere fermo. Ecco la volontà dello Stato italiano; ecco la sovranità dello Stato, nel suo ordine, e quindi anche in rapporto al territorio, espressamente richiamata.

Ed è proprio l’argomento portato dall’onorevole Crispo, che ci convince della esattezza di questa osservazione. La prima parte del preambolo al Trattato e la interpretazione logica dell’articolo 26 ne danno conferma. Nell’articolo 26 del Trattato, alla fine della prima parte, è detto: «riconosce il Regno d’Italia sotto la dinastia di Casa Savoia con Roma capitale dello Stato italiano». E poi si soggiunge: «Alla sua volta l’Italia riconosce lo Stato della Città del Vaticano». La Repubblica deve riconfermare il suo riconoscimento, quando la Casa Savoia non c’è più, come la Chiesa ha riconosciuto la Repubblica. La soluzione della questione romana, rimane, nonostante che l’Italia sia repubblica e non regno. Così soltanto, come è detto nel surrichiamato prebambolo, «ogni ragione di dissidio fra loro esistente» scompare «con l’addivenire ad una sistemazione definitiva dei reciproci rapporti». Ma, qui, il potere temporale non c’entra più. C’entra la Città del Vaticano e c’entra prima di tutto e soprattutto la Chiesa, starei per dire esclusivamente la Chiesa.

Ed ecco il mio ragionamento, che dà la ragione giuridico-costituzionale dell’articolo 5.

Io appartengo allo Stato ed alla Chiesa. E desidero che lo Stato e la Chiesa siano d’accordo nel regolare la mia condotta, nel rispetto della mia libertà. Ho il diritto di conoscere, a mezzo della legge costituzionale, se la mia libertà religiosa di culto è garantita e se la mia attività religiosa, con l’accordo dello Stato, avrà a conseguire anche rilevanza giuridica nello Stato. Io come cattolico ho il diritto ed il dovere a contrarre matrimonio religioso, che per me è l’unica forma ammissibile. Che farà lo Stato di fronte a questo che io ritengo un diritto ed un dovere? Lo riconosce o lo nega? Ho il diritto di saperlo. Questa è tutela effettiva della mia libertà; e se è così, siamo nel campo strettamente costituzionale, quando viene riaffermata la sovranità della Chiesa e vengono richiamati i Patti lateranensi. Il riconoscimento della duplice sovranità è la base per il coordinamento delle azioni dei soggetti destinatari delle norme e per la precisazione dei limiti dei diritti dei cittadini credenti. Il riconoscimento è necessario, in quanto, a differenza dei trattati internazionali propriamente detti, che sono stipulati tra due organizzazioni statali, le quali agiscono su territori diversi e per lo più in rapporto a cittadini diversi; qui invece il territorio è lo stesso e i soggetti sono gli stessi, Non è fra la Città del Vaticano, come Stato, e lo Stato italiano che vennero stretti i Patti lateranensi; ma è tra la Chiesa e lo Stato. Però il Concordato, pur non essendo un rapporto internazionale in senso stretto, è un rapporto tra due diversi ordinamenti giuridici. Cioè, non siamo nel campo del diritto pubblico interno, ma invece sul terreno dei rapporti e del diritto esterno. È il rapporto, insomma, tra due società di ordine diverso, ma che in un certo senso rappresentano due cerchi concentrici, che hanno lo stesso volume: l’uomo; e la stessa superficie: il territorio.

Né si dimentichi che come lo Stato siamo noi, la Chiesa siamo noi; cioè noi uomini costituiamo lo Stato e la Chiesa che sono delle organizzazioni che devono servire al nostro fine, al conseguimento dei nostri scopi. Il loro regolamento concordatario è regolamento anche delle nostre attività. Incidendo, quindi, la questione sulle libertà e sui diritti dell’individuo, essa va risolta nella Costituzione. Se è stato reclamato da più parti il regolamento dell’attività dei partiti e dei sindacati – ed a me sembra giusto il regolare i rapporti fra lo Stato ed i partiti e lo Stato ed i sindacati – quanto più giusto è però che siano regolati costituzionalmente i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, cioè tra due ordinamenti sovrani!

La coesistenza, invero, di due ordinamenti giuridici sovrani presuppone necessariamente una regolamentazione, ad evitare il conflitto. Altrimenti il conflitto, come purtroppo si è verificato in qualche Stato anche in questi ultimi tempi, viene superato coll’accentramento da parte dell’entità sociale più potente, e cioè dello Stato.

Questo sarebbe un altro aspetto di un assolutismo statale che noi, per la tutela della nostra libertà, non possiamo volere. Forse poteva anche sostenersi l’agnosticismo dello Stato ai tempi del liberalismo, quando effettivamente lo Stato non intendeva entrare nei rapporti delle singole libertà; ma oggi, invece, quando lo Stato si pone anche come regolatore delle libertà economiche e sociali, questo agnosticismo sul terreno etico e religioso è incomprensibile. È strano davvero che in una teoria, la quale pone lo Stato come il creatore unico anche delle libertà individuali, le quali non sarebbero naturali ma troverebbero la loro origine nella concessione dello Stato, si possa sostenere uno Stato agnostico. È che sotto il concetto dell’agnosticismo e della laicità vi è un’altra tendenza ed un’altra realtà: ridurre la Chiesa e la religione a strumenti di governo; affermare la superiorità assoluta dello Stato. Noi questo non possiamo volerlo ed ecco perché ancora una volta diciamo che questi rapporti devono essere costituzionalmente garantiti. In sostanza vogliamo evitare ancora una volta che lo Stato abbia a ritenersi come valore assoluto ed abbia a porsi come negatore delle libertà dell’individuo, guardato non soltanto in sé come singolo, ma proiettato anche sul terreno sociale, e cioè sul terreno delle organizzazioni sociali, in cui egli entra, dalla famiglia alla Chiesa.

E giacché la norma concordataria, preesiste per la volontà dello Stato e della Chiesa, lo Stato, nel momento solenne in cui si dà una struttura costituzionale, non può che riconfermare questi Patti, ponendoli, come ha bene osservato l’onorevole Ruini, in un particolare e speciale rilievo.

Il richiamo espresso, quindi, ai Patti lateranensi, come il riconoscimento specifico della sovranità della Chiesa, rispondono a profonde esigenze di natura storica e giuridica.

Né questo richiamo contrasta, in linea di diritto o in linea di fatto, con il riconoscimento della libertà e della parità di culti, in quanto, come abbiamo più volte rilevato, essi potranno ben ricevere lo stesso regolamento concordato. Noi diciamo: elevate gli altri culti allo stesso trattamento della Chiesa cattolica, se volete, e quando ne sorgerà la opportunità politica in conseguenza della realtà sociale. Ma non abbassate oggi allo stesso piano degli altri culti la Chiesa cattolica, unicamente e solamente in vista della opportunità politica e della realtà sociale, che noi uomini politici non possiamo in nessun momento trascurare.

Una sola parola su alcune obiezioni particolari:

1°) È stato detto che non è opportuno il richiamo, perché il primo articolo del Trattato porterebbe in vita l’articolo 1 dello Statuto albertino. Noi abbiamo sempre parlato dei Patti lateranensi, cioè del Trattato e del Concordato. Ebbene, se non facciamo una questione di forma, ma una questione di sostanza, l’articolo 1 del Trattato bisogna integrarlo con l’articolo 1 del Concordato, che ne stabilisce il contenuto e la portata.

L’articolo 1 del Concordato dice: «L’Italia, ai sensi dell’articolo 1 del Trattato, assicura alla Chiesa cattolica il libero esercizio del potere spirituale, il libero e pubblico esercizio del culto, nonché della sua giurisdizione in materia ecclesiastica, in conformità alle norme del presente Concordato; ove occorra, accorda agli ecclesiastici, per gli atti del loro ministero spirituale, la difesa da parte delle sue autorità». La semplice lettura della norma dà la risposta alle osservazioni dell’onorevole Crispo. Come è evidente, non è uno Stato confessionale, sostanzialmente confessionale, che viene ad essere riaffermato, ma soltanto uno Stato che riconosce e regola i diritti della Chiesa, in rapporto ai propri diritti ed in rapporto alle libertà del cittadino. Questo regolamento è indispensabile e non significa riconoscimento di una sola religione, come l’unica religione dello Stato, anche se significa riconoscimento di una situazione di rilievo particolare alla religione della maggioranza degli italiani, come del resto è voluto dalle stesse norme sostanzialmente democratiche, le quali devono garantire i diritti della minoranza, ma non disconoscere quelli della maggioranza, né evitarne in pieno la realizzazione. Ed in verità, in nome della maggioranza dei cattolici, organizzati in tutti i partiti, in quanto tutti i partiti hanno dichiarato di prescindere dalla religione per la iscrizione, noi avremmo il diritto di porre nella Costituzione una dichiarazione espressa che la religione degli italiani è la religione cattolica.

2°) Dall’onorevole Bruni è stato presentato un emendamento, in cui vi è il richiamo alla aconfessionalità dello Stato ed al principio della uguaglianza dei diritti, fissato negli articoli 7, 14 e 15 del progetto.

L’onorevole Crispo ha presentato altro emendamento più generico: «sono regolati dai Patti lateranensi, in quanto non siano contrari alla presente Costituzione», e crede di trovare dei contrasti tra l’articolo 36 del Concordato relativo all’insegnamento religioso e l’articolo 27 del progetto relativo alla libertà dell’arte e della scienza, e tra l’articolo 34 del Concordato relativo alla giurisdizione ecclesiastica e l’articolo 94 del progetto, in cui è posta la giurisdizione unica dello Stato sul territorio.

Non ci fermiamo neppure sul rilievo fatto in rapporto alla giurisdizione penale nella Città del Vaticano. Se la Città del Vaticano è Stato, userà di quel Codice di procedura penale di cui si vorrà servire; di quello del 1889 o di quello del 1930. Se vogliamo cogliere un significato anche in questo, potremmo dire che usa di quello, perché certamente è più rispondente ai principî democratici.

A parte questa risposta, la osservazione dell’onorevole Crispo non è rilevante; come non rilevante quella relativa alla piazza aperta di S. Pietro. Sono le altre osservazioni, a cui dobbiamo rispondere e che concordano con quelle già fatte da Cevolotto, da Basso, da Togliatti, da Marchesi, da Calamandrei; che tutti si sono riferiti al caso Buonaiuti.

Diciamo subito che non vi è nei patti lateranensi nulla che contrasti con i principî di libertà e di uguaglianza dei cittadini. Quando noi concepiamo la libertà sul terreno positivo e nei termini della legalità, ne portiamo la immediata convinzione. L’articolo 7 del progetto dà il fondamento della dignità economica e sociale dell’uomo; ma quanto più è necessario – e dev’essere nella essenza integrale della Costituzione – proclamare la dignità etica e religiosa dell’uomo. Questa, se lo Stato non vuole potenziarla seguendo una specifica direzione, non può disconoscerla o misconoscerla. Se noi cattolici siamo convinti che il completo sviluppo della persona umana si ha sul piano morale e religioso per la conquista dell’al di là, nessuno ci può rinnegare il conseguimento di tale sviluppo. Questo concetto è indicato negli articoli 14 e 15 in rapporto ai credenti di tutte le fedi; e perciò questi articoli non sono in contrasto con il contenuto dell’articolo 5.

Né si può parlare di contrasto tra l’articolo 36 del Concordato ed il 27 del progetto. La libertà della scienza e dell’arte non è in contrasto con l’insegnamento religioso. Per di più gli emendamenti sono assurdi e da un punto di vista logico e da un punto di vista costituzionale. Nello stesso momento in cui noi costruiamo l’edificio, verremmo volontariamente a creare delle crepe nell’edificio stesso; in quanto verremmo a riconoscere che vi potrebbero essere delle contraddizioni tra le diverse norme. Questo è inammissibile; sarebbe uno sfuggire alla risoluzione, non dare la risoluzione.

Rimane il caso Buonaiuti. Studiando questo argomento, mi è capitato sotto gli occhi un articolo del professore Ezio Crisafulli, riportato in «Rinascita» (gennaio-febbraio 1947, pag. 15 e seguente). Egli in sostanza dice che il Concordato con l’Italia è più gravoso di quello con la Baviera, in quanto in quello per la Baviera è prevista solo la perdita dell’insegnamento di materie religiose e salvi i diritti del funzionario. Ma, dunque che insegnava il Buonaiuti, se non la Storia del cristianesimo? Ed allora perché scandalizzarsi tanto, quando anche nel concordato con la Baviera, richiamato a modello dal Crisafulli, questo principio è riconfermato?

Ma si noti che è nell’interesse dello Stato stesso che l’articolo 5 del Concordato trova la sua ragion d’essere. In esso non si parla di qualunque ufficio ed impiego; né è detto che i diritti del funzionario apostata o irretito da censura non vadano conservati. Si parla soltanto dell’impiego e dell’ufficio a contatto immediato con il pubblico, il che significa che si vuole evitare quella strana situazione di curiosità, che nasce nel popolo intorno al prete spretato, e si vuole evitare quel nocumento alla psicologia ed alla morale popolare, che fatalmente deriva dal contatto col prete apostata.

Dal punto di vista giuridico vi è di più. Chi va sacerdote, assume volontariamente una disciplina entrando a far parte di una organizzazione giuridica; assume cioè uno stato personale giuridico di fronte alla Chiesa, che ha e non può non avere riflessi anche in ogni altra collettività. Il prete non può essere membro del Governo, né Deputato, né magistrato, né ufficiale; né può divenire capo dello Stato da quando è stato sancito nel Concordato il divieto di iscriversi e militare nei partiti. È evidente che queste limitazioni, nascenti dallo stato particolare del sacerdote, hanno rilevanza soprattutto di fronte allo Stato; né esse offendono o limitano il diritto di nessuno.

Non vi è, quindi, limitazione di libertà, dal momento che quello stato personale, al quale erano connessi quei diritti e quei doveri e per il quale erano previste quelle determinate conseguenze, fu accettato liberamente; non vi è una situazione di privilegio per la Chiesa Cattolica, in quanto il principio può essere sancito per tutte le Chiese; vi è un interesse dello Stato, data la tradizione ed il sentimento religioso, e, vorrei dire anche, data la particolarissima conformazione psicologica del popolo italiano ad evitare nocumento alla morale popolare. In conclusione l’articolo 5 del Concordato non lede il diritto di eguaglianza di tutti i cittadini, non lede la sovranità dello Stato, dal momento che con il Concordato sono reciprocamente definiti i rapporti fra lo Stato e la Chiesa e indicati gli effetti di questo regolamento in rapporto alle libertà dei singoli; non lede la uguaglianza di tutte le confessioni di fronte allo Stato, dal momento che ogni confessione può trattare con lo Stato e concordare gli stessi effetti. Che anzi per i preti cattolici vi è una limitazione – e la Chiesa è stata lieta di concederla per evitare che la lotta politica potesse assumere particolare aspetto di lotta religiosa – in quanto essi non possono partecipare a determinati uffici dello Stato.

Ed io termino.

Nell’artitolo 34 e nell’articolo 36 sono espressamente richiamate le tradizioni cattoliche del popolo italiano, ed in nome ed in virtù di esse sono tratte le conseguenze in rapporto alla dignità religiosa del matrimonio ed all’insegnamento religioso nelle scuole.

Neghiamo queste tradizioni e questa storia dell’Italia?

A me pare che neppure l’onorevole Togliatti lo voglia. Egli tra l’altro ha detto: «I problemi già risolti nel passato non ci interessano più, ma cerchiamo che quelle posizioni che hanno conquistato i nostri padri, i nostri avi, attraverso lotte memorabili, e che hanno un valore permanente, in quanto rappresentano conquista della nostra coscienza, non vadano perdute».

Le conquiste dei nostri padri, e dei nostri avi costituiscono la essenza della tradizione e della civiltà italiana; questa è una conquista permanente della coscienza italiana e della coscienza dei singoli, in quanto, se il sentimento religioso è incancellabile dall’anima dei popoli, dall’anima del popolo italiano è incancellabile il suo sentimento religioso, che è quello cattolico.

In nome di questa anima del nostro popolo; in nome della pace interna e religiosa, che è bene, il quale non va distrutto per l’avvenire dell’Italia nostra, in nome di Dio che è rivelato da ogni pagina della nostra storia e da ogni pietra delle nostre città e dei nostri villaggi, noi sentiamo di aver il diritto di chiedere che l’articolo 5 del progetto sia approvato per il rispetto della volontà della maggioranza degli italiani.

Questo diritto vi chiediamo di rispettare e siamo convinti che tutti in questa Assemblea vorranno rispettarlo ed approvare l’articolo 5. (Vivi applausi al centro ed a destra Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 16.

La sedata termina alle 20.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. – Discussione del disegno di legge:

Partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods, New Hampshire, U.S.A., il 22 luglio 1944, dai rappresentanti delle Nazioni Unite, per la costituzione del Fondo monetario internazionale e della Banca internazionale per la ricostruzione e lo sviluppo. (6).

  1. – Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni: (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

MERCOLEDÌ 12 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LIX.

SEDUTA DI MERCOLEDÌ 12 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Lucifero                                                                                                           

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                    Presidente      

Calamandrei                                                                                                   

Lucifero                                                                                                           

D’Aragona                                                                                                       

Crispo                                                                                                               

Russo Perez                                                                                                     

La seduta comincia alle 15.30.

AMADEI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

LUCIFERO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Onorevoli colleghi, l’onorevole Togliatti ha voluto celebrale ieri, sia pure in senso negativo, la mia serata d’onore, perché mi ha nominato almeno una ventina di volte nel suo discorso. Devo però soltanto su tre punti richiamare la vostra attenzione.

Il primo punto è un fatto personale e si riferisce a quella invocazione a Dio che ho ritenuto di introdurre nel mio Preambolo; invocazione a Dio che non rappresenta niente di nuovo, perché c’è in altre Costituzioni. Per esempio, la Costituzione irlandese comincia con la Santissima Trinità. Ad ogni modo io non vi trattengo sulla frase in cui si scherza su questo Dio votato a maggioranza. Dio non ha bisogno di voti. Dio c’è, e quello che c’è non si vota.

Ma c’è una frase del discorso di Togliatti che mi ha fatto pensare; la frase è la seguente: «Quando ho sentito il nostro collega parlare di Dio col tono con cui i nostri oratori di comizio parlano alla fine quando si tratta di avere gli applausi degli elettori, mi sono ricordato del primo comandamento».

Ora, onorevoli colleghi, questa è un’osservazione grave; grave per un cristiano – ed io sono cristiano – e grave per un uomo politico. È grave per un cristiano, perché io avrei nominato il nome di Dio invano; è grave per un uomo politico, perché avrei portato in quest’aula – che deve ignorarla – un’oratoria da comizio, Capirete quindi che io ho fatto il mio esame di coscienza e l’esame di coscienza non poteva essere che quello di rileggere il testo di ciò che avevo detto. Le mie parole erano le seguenti: «Vi prego di notare che sarebbe l’unico punto della nostra Costituzione in cui Dio è invocato ad assisterci e ad aiutarci. Quel Dio che non è di questa o di quella Religione, ma di tutti gli uomini; quel Dio Ente supremo, Spirito superiore che anima l’umanità, e che da noi latini, nella nostra terra, che ha dato tanto fervore e tanto cuore alla Religione nostra attuale ed a quelle che l’hanno preceduta, non può essere dimenticato nella legge fondamentale che deve regolare la vita del nostro Paese».

Vi dico francamente che queste mie parole non hanno nulla di comiziesco e nulla per strappare l’applauso; io vedo in esse l’espressione di una profonda convinzione che è di molti altri italiani, anzi della stragrande maggioranza degli italiani. Non credo quindi di essere incorso nell’errore cui ha accennato l’onorevole Togliatti; anzi, caso mai, sono caduto nell’errore di eterodossia, tanto vero che l’onorevole Lussu, mi mandò un bigliettino con la scritta: «Rischi di finire scomunicato»; l’onorevole Lussu se lo ricorderà. Tengo perciò a dichiarare che non sono state parole comiziesche dette per strappare l’applauso, tanto più che, con il conformismo che vige ormai nella nostra Camera, è acquisito che gli applausi sono soltanto quelli dei compagni di gruppo; e io dichiaro che sarei pronto a ripetere integralmente quella frase, perché risponde alla mia profonda convinzione.

In secondo luogo, ho chiesto la parola per una rettifica. L’onorevole Togliatti ha detto, a proposito dell’ultimo capoverso dell’articolo primo del progetto di Costituzione queste parole:

«Ad esempio, all’articolo primo avevamo proposto la formula: la sovranità risiede nel popolo, i poteri emanano dal popolo». Ora, per esattezza storica ed anche per un significato politico, sono voluto andare ad illuminare la mia memoria e ho preso i resoconti sommari della prima Sottocommissione e della Commissione plenaria. Dal resoconto sommario della prima Sottocommissione risulta che la proposta che si modificasse l’articolo nel senso che la sovranità risiede nel popolo, già contenuta in certo qual modo nell’articolo originario del relatore onorevole Cevolotto e controbattuta nella relazione dell’onorevole Dossetti, fu da me fatta in questi termini; e l’onorevole Togliatti si associò alla tesi dell’onorevole Dossetti; la mia proposta fu respinta con due soli voti favorevoli, il mio e quello dell’onorevole De Vita.

Ugualmente, nell’Assemblea dei settantacinque del 22 gennaio, io riproposi la formula: «La sovranità risiede nel popolo». Essa fu nuovamente respinta ed ebbe tre soli voti favorevoli: quello dell’onorevole De Vita, quello dell’onorevole Nobile ed il mio.

Ad ogni modo, sono lieto, che l’onorevole Togliatti, che è uomo riflessivo, e ciò gli fa onore, si sia convertito all’esattezza della nostra tesi.

E visto che in questa sede ho ripresentato lo stesso emendamento, sarò lieto di votarlo con lui.

Infine uno schiarimento.

L’onorevole Togliatti, rivolgendosi a me ha detto: «Noi vogliamo non una Costituzione afascista, ma antifascista»; ed ha specificato che ciò voleva – ed aggiungo: vogliamo – «per assicurare che la tirannide fascista non possa mai rinascere».

Ora tengo, a chiarimento del mio pensiero che forse l’altra volta non espressi con sufficiente chiarezza, a specificare che dissi precisamente questo: «La Costituzione dovrà essere non antifascista soltanto, ma qualcosa di più: dovrà essere afascista». E questo trova la spiegazione proprio nella frase dell’onorevole Togliatti. L’onorevole Togliatti ha detto: «Noi non vogliamo che torni la tirannide fascista e quindi siamo antifascisti».

In questo siamo tutti antifascisti. Ma non basta. Si adombrano oggi nel mondo altre tirannidi. Quindi, non basta essere antifascisti soltanto; bisogna essere contrari a tutte le tirannidi, qualunque ne sia il nome e qualunque aspetto esse possano prendere.

Questo non è più l’antifascismo che si dirige contro il fascismo, ma è l’afascismo, cioè il superamento della concezione del fascismo in forma positiva ed in forma negativa. E ciò tanto più in un momento in cui abbiamo ascoltato dei discorsi preoccupanti, come quello dell’onorevole Nenni, e che stiamo discutendo una Costituzione che non io, ma un maestro insigne come l’onorevole Orlando, ha definito totalitaria. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Non essendovi altre osservazioni, il processo verbale s’intende approvato.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Onorevole Presidente, onorevoli colleghe e colleghi, credo che vi rendiate conto delle difficoltà della posizione in cui si trovano la Commissione per la Costituzione ed il suo Presidente.

La Commissione non è un blocco, non ha una voce sola; è l’ottavo dei membri dell’Assemblea, un’Assemblea in ottavo, con tutte le sue idee e le sue passioni. Ha lavorato fino ad oggi in silenzio, in sordina, all’ultimo piano di Montecitorio. Ora parla in pubblico, con l’eco formidabile della stampa.

Le difficoltà vengono in luce.

Può darsi che alcune delle tesi, che furono vinte e rimasero in minoranza nelle discussioni della Commissione, siano anche mie. È stato accennato che io avevo dapprima proposto un certo tipo, un certo svolgimento dei lavori, che non fu approvato. In democrazia, insegna Lincoln, il solo modo di guidare gli altri è di convincerli. Non si riesce sempre a convincere. Ma io voglio affermare molto fermamente che condivido e rivendico la responsabilità di tutto ciò che ha fatto la Commissione. Abbiamo potuto avere dei dissensi tra noi, inevitabili; abbiamo trovato qualche volta delle conciliazioni, qualche volta no. La solidarietà del lavoro condotto in comune è sentita da me come da tutti i membri della Commissione. Segno ad orgoglio di finire la mia modesta vita politica, qui, alla testa della Commissione che ha preparato la Costituzione italiana.

Vi sono state molte critiche, alle quali devo rispondere. Anche qui non è facile stabilire la mia posizione. Si vuol vedere in me un gerente responsabile, ed un difensore d’ufficio. Questo io so: che risponderò con molta serenità, obiettivamente, cercando di fare il notaio di ciò che è avvenuto nella Commissione.

Vi sono state critiche da parte degli stessi membri della Commissione. In altri Paesi non vennero fatte così. Avrei potuto desiderare che qualcuna fosse stata presentata davanti alla Commissione, prima che qui. Ma è un diritto legittimo e benefico. E poi sono venute altre critiche, autorevolissime, anche da chi non faceva parte della Commissione.

Vi sono state le critiche più diverse, difformi, contradittorie fra loro. Potrei osservare che le accuse di mancanza d’armonia, di ordine, di organicità, si rovesciano facilmente contro le critiche stesse. Potrei osservare che quando da una parte si dice una cosa e dall’altra la cosa diametralmente opposta, vi è una certa presunzione di trovarsi nel giusto mezzo.

Ho fatto l’elenco di queste contradizioni. Ne volete un esempio? Se si comincia all’inizio, dalla proclamazione della Repubblica e del suo fondamento sul lavoro, si è affermato che è reazionaria, perché non parla di «repubblica dei lavoratori», e che è rivoluzionaria perché parla di lavoratori e non di cittadini. Gli stessi opposti ritornelli quando si enunciano i diritti economici. E quando si va alla struttura istituzionale, si accusa la Costituzione di essere sovversiva e dittatoriale, e per contrappeso di essere conservatrice e retrograda. Potrei continuare, ma non mi trincererò dietro un comodo fine di non ricevere. Né invocherò il consiglio che un maestro della Camera antica, Luzzatti, dava ai suoi discepoli: dividere equamente il malcontento. II malcontento irrompe da tutte le parti, e non è stato, a quanto sembra, distribuito con equità.

Mi avete visto scrivere continuamente in questi giorni. Ho segnato ciò che è stato detto: poche lodi; qualche raddolcimento dopo le critiche: «quisquiglie» diceva l’onorevole Cevolotto; e più veemente verso di noi l’onorevole Rubilli, «cose poco rilevanti», tranne per il Senato e la Regione. Si sono lanciati fiori insieme alle critiche.

Un oratore di questa parte (Accenna a destra), l’onorevole Mastrojanni, mentre si preparava a colpire, disse: Costituzione coerente, meditata, miracolo conciliativo, che soddisfa tutte le tendenze! Ripeto le sue parole. Vi sono stati anche riconoscimenti di questo genere: vista la situazione dei partiti, visto il tempo che aveste per lavorare, non potevate fare di più. Le attenuanti diventano quasi una discriminante, un’assoluzione, come se si fosse agito per forza maggiore.

Non ci basta. Risponderemo. E proprio per mostrare la nostra consapevolezza e la nostra serenità, cominceremo col riferire tutto ciò che è stato detto sopra la Costituzione, presentandola come una galleria degli orrori. È uno zig zag per l’onorevole Cevolotto; una Costituzione bifronte per l’onorevole Della Seta; e poi la valanga delle accuse: genericità, oscurità, sottintesi, leggi truccate, sabotaggio della Costituzione, dice l’onorevole Calamandrei; faziosità, l’onorevole Benedettini; jattura, sconforto, mandato tradito, desta riso e pianto, non è un’amalgama, ma un orrido mostro, la chimera, per l’onorevole Capua.

Benvenute le critiche: non fanno paura. Vorrei solo manifestare una mia impressione: che le parole corrono da sole, qualche volta anche oltre le intenzioni di chi le ha pronunziate. All’amico Marchesi chiedo se sono esatto, ricordando che, nella commedia classica, vi sono due maschere dalle quali ci dovremmo tener lontani: il miles gloriosus o fanfarone e l’eautòntimorùmenos che trova gusto a dilaniare se stesso.

Noi italiani abbiamo qualche volta la tendenza a denigrare noi stessi, a giudicarci peggiori di quello che siamo. Le parole corrono; con tutto ciò che si è detto, il popolo grosso può essere tentato di credere ingiustamente che l’Assemblea, investita dall’onda scandalistica, sia un insieme di uomini non onesti, ed ora, per l’incapacità di fare la Costituzione, un insieme di inetti.

Il nostro progetto non è un capolavoro; è una cosa modesta. Non abbiamo cercato di fare cosa perfetta, perché la perfezione non è di questo mondo; e dopo tutto qualche maligno mi dice che, anche se fosse stata perfetta, le critiche vi sarebbero state ugualmente.

Non abbiamo nemmeno cercato di fare una Costituzione bella: i romanzi sono belli; nessuna delle attuali Costituzioni è bella; la Costituzione non può essere bella; deve essere convenevole, come ha detto l’onorevole Nitti, dandoci, con molta gentilezza, l’esempio di Solone e ricordando che era un uomo assai simpatico e di larghe idee. Io capisco che non posso aspirare a questo accostamento, perché il mio destino è quello di essere il Licurgo del confusionismo italico. (Si ride).

Saremmo molto contenti se la nostra Costituzione fosse la più convenevole possibile, o, almeno, la meno cattiva. Il tempo potrà portare un giudizio sereno. Qualche membro della Commissione ha già ricevuto giudizi dall’estero, che non sono così stroncatori. Vi è chi ha paragonato il nostro schema alla Costituzione tedesca di Weimar ed alla francese recentissima; e posto che nessuna è bella e soddisfa in pieno, ha osservato che fra la struttura pesante teutonica sociologizzante di Weimar e quella spumante, ma meno consistente di contenuto della Costituzione francese, la nostra non è la peggiore.

Devo parlare – è cercherò di farlo brevemente – delle critiche che l’onorevole Nitti, con la sua grande autorità, ha mosso al lavoro della Commissione. Troppi Soloni: 75. Io avevo proposto il numero di 45, che è un po’ di rito in queste materie, perché è il numero di coloro che scrissero un secolo e mezzo fa la più bella Costituzione del mondo, quella degli Stati Uniti americani, ed anche la recente Commissione per la Costituzione francese era di questo numero. Si è andati a settantacinque, perché i piccoli partiti chiesero di essere adeguatamente rappresentati. Se non lo fossero stati, che cosa si sarebbe detto?

Troppi incompetenti. Che cosa è la competenza in materia legislativa? L’ha spiegato Stuart Mill. Io, per conto mio, presto farò le nozze d’oro con la prima legge che ho preparato quando sono entrato nell’Amministrazione. Ma è proprio necessario che tutti siano competenti, nel senso tecnico della parola? L’onorevole Nitti, in un suo luminoso libro, ha lodato che i costituenti americani non fossero professori, sapienti, studiosi di materia costituzionale. Ad ogni modo, nella nostra Commissione i partiti hanno designato essi i loro membri; potevano scegliere; hanno scelto gli uomini che credevano adatti a questa bisogna. Nella Commissione vi erano i capi, i dirigenti di quasi tutti i partiti. Vi erano gli esponenti alla testa delle organizzazioni operaie; ed anche dell’associazione delle società per azioni; vi erano giuristi – il fiore dei costituzionalisti italiani – vi erano economisti; basta che ricordi il nome del maggiore economista italiano: Einaudi. Non era una Commissione di incompetenti.

Troppe pubblicazioni; perché stampare tanti processi verbali delle sedute? L’onorevole Nitti ha forse ragione; ma se non si fossero pubblicati i verbali, si sarebbe detto che la Commissione lavorava nelle tenebre.

Troppo tempo avete messo nel vostro lavoro! Sì; la dichiarazione dei diritti dell’uomo del 1789 fu stesa in dieci giorni; la presentò all’Assemblea Lafayette diritto, fermo, elegante; ma era un altro clima! Subito dopo occorse un tempo maggiore per le Costituzioni rivoluzionarie; ed ancor più per le successive, come per quella del 1875. Nell’altro dopoguerra occorsero cinque mesi per la Costituzione di Weimar. Si sale ad uno e due anni per altre Carte. In questo dopoguerra abbiamo sei mesi pel primo, tre per il secondo testo della Costituzione francese, ed è opinione diffusa che forse, se si fosse messo un po’ più di tempo, si sarebbe evitata la doppia vicenda.

Troppi articoli! È vero che vi sono tre Costituzioni che hanno meno di 50 articoli; la più bella Costituzione del mondo, che è quella americana, ne ha 7, ma in ogni articolo vi sono sezioni lunghe come titoli. La massima parte, ne ha da 120 a 160; e ve ne sono che vanno al di là dei 200. Ma basta col metro!

Il nostro modesto e faticoso lavoro si è svolto nei limiti della normalità.

Sono grato a chi ha messo in luce le grandi difficoltà obiettive, storiche, del lavoro che oggi l’Italia sta per compiere. È la prima volta, nella sua vita millennaria che l’Italia unita si dà liberamente una Costituzione. L’Inghilterra, la Svizzera risalgono al 1200; gli Stati Uniti, la Francia alla fine del 1700. Noi dobbiamo far tutto di nuovo. Non abbiamo dietro di noi che un ammonimento, un appello, al quale ci vogliamo idealmente ricondurre. «Dica l’Italia cosa vuole essere e sotto quali forme deve svolgersi la vita nazionale; sorga e si accolga in Roma, non una dieta, ma l’Assemblea Costituente italiana, eletta con una sola legge elettorale dall’universalità dei cittadini d’Italia!». È Mazzini; noi ci ricongiungiamo all’idea di Mazzini. (Approvazioni).

La seconda difficoltà è data dalla svolta storica nella quale viviamo. L’onorevole Orlando accennò un giorno, con alta ala, che noi ci troviamo un po’ fra due mondi costituzionali: il vecchio ed il nuovo, quello dell’800, che dura ancora, ma in gran parte modificato, e le forme nuove che sorgono sotto l’impulso dei grandi movimenti di massa. Abbiamo sentito qui Togliatti e La Pira esporre, con criteri diversi, lo stesso concetto di una grande trasformazione anche costituzionale. Si sente che ci troviamo ad un punto di sutura, ma non è facile fermare tutto ciò in una Carta.

Un’altra difficoltà ha chiarito l’onorevole Nitti: il momento tragico; la Costituzione che nasce all’ombra della disfatta. Ed ha colorito: nel disfacimento economico del Paese. Si ripromette di tornarvi su, in alcune parti niella Costituzione. Non è un intervento che divaga dal vasto tema; ed è patriottico il suo grido d’allarme. La Costituzione avrebbe dovuto esser inserita nella ricostruzione. Poteva nascere quando, compiuto un periodo di politica finanziaria ed economica di contingenza, si sarebbe potuto ancorare il nostro Paese all’economia internazionale. Purtroppo quello che era possibile fare, specialmente alla fine del 1945, ora non lo è più. Un’occasione perduta. La Costituzione nasce nel punto più disgraziato, quando, cessati gli aiuti dell’U.N.R.R.A., si manifesta, con l’assottigliamento dell’esportazione, il peso dei nostri costi di produzione, troppo alti. Non voglio entrare in particolari; ma la situazione è durissima e si riverbera nel nostro lavoro di costituenti.

Che cosa dobbiamo fare? Rinunziare alla nuova Costituzione? È nostro dovere guardare al di là delle macerie. Vi sono ancora forze di vitalità e speranze di ripresa per il nostro Paese. Se verrà spezzata la Germania, l’Italia sarà il paese di maggior popolazione dell’occidente europeo; il primo del continente dopo l’insulare Britannia e l’eurasiatica Russia. Non sono finite le nostre capacità di lavoro. Non ci dobbiamo lasciar abbattere; neppure in questo compito della Costituzione.

Si affacciano le idee più varie, e naturalmente contradittorie, fra gli stessi critici. Chi presagisce una Costituzione interlocutoria; chi consiglia una Costituzione provvisoria. Ma voi sapete che significato avrebbe questo espediente; proprio mentre l’Italia anela ad uscire dal provvisorio, in tutti i suoi ordini, e ad acquistare un volto definitivo. Una necessità implacabile ci spinge; e la dobbiamo seguire, perché è la nostra salvezza.

E allora? «Facciamo una Costituzione presbite» pensa l’onorevole Calamandrei; no: «una Costituzione che guardi al presente immediato» suggerisce l’onorevole Nitti. Non dice «miope». Ma in questa scala di diottrie non è facile orientarci. Io penso che non si debba aderire a quella forma che Caterina suggeriva a Voltaire: «Tenersi ai tre C: circostanze, combinazioni, congiunture». Meglio il monito di Goethe: «Piuttosto che giorno per giorno, vivere nello spirito dei millenni». Non è impossibile lavorare con concretezza, ed insieme con idealità. Bisogna essere realisti, cercare di costruire sul solido, tener conto delle nostre possibilità, ma se non ci anima un afflato, una ispirazione che ci porti a vedere al di là del momento presente, non credo che riusciremo a scuotere questo nostro Paese.

Il nostro Presidente ha posto magistralmente le direttive della discussione. Questa discussione preliminare ha due rotaie: la tecnica costituzionale, e le grandi linee, complessive, panoramiche dei partiti e delle correnti d’idee. Non posso rispondere a tutti in tutti i loro rilievi; non posso entrare nelle discussioni subgenerali dei titoli e degli articoli. Mi varrò soltanto, perché il discorso non resti in aria, di alcune critiche come di casi ed esempi.

Vi è stato l’onorevole Bozzi che ha segnato le disarmonie e gli squilibri. Molti hanno indicato le superfluità. Qualcuno, invece, le lacune; per esempio l’amico Calamandrei, che avrebbe in certe parti desiderato una Costituzione più ampia. Si sono poi fatte numerosissime osservazioni formali, che si riducono talora ad un aggettivo, ad un verbo, ad una variazione, dietro le quali non credo che vi sia da tragicizzare. Le vedremo a suo tempo.

Su linee più generali, abbiamo avuto le osservazioni che si riferiscono all’estetica, come dice Della Seta. È stato detto: manca lo stile. Può essere. Ma non è agevole accontentare, per lo stile. Avevo un amico, buon letterato, che faceva i temi per il suo figliolo a scuola e prendeva ordinariamente 2 o 3. (Si ride).

Lo stile della Costituzione è cosa specialissima. Dovrebbe essere semplice, solenne, lapidario. Alla Costituente francese si sono lamentati di non avere la penna di Robespierre, che è stato un magnifico scrittore di dichiarazioni costituzionali. Lo ha detto Herriot, e ne hanno convenuto rappresentanti del partito democratico cattolico. È lo stile che non s’improvvisa.

L’onorevole Croce ha lamentato che non vi sia stato un solo estensore; ma ciò che fu possibile nel 1848 non è più avvenuto nelle Carte nuove. Se vi fosse stato un solo estensore, l’Assemblea con le sue discussioni ne sconvolgerebbe l’opera, la forma, che – come Croce ci insegna, non si separa dal contenuto – ha la sua importanza nelle istituzioni. Seguiremo attentamente tutte le indicazioni al riguardo. Si è già cercato di fare qualche cosa. Si sono consultati alcuni colleghi dell’Assemblea, di provata valentia letteraria, ed anche scrittori fuori di qui. Si sono raccolti molti elementi per le migliorie di forma. In ultimo, quando sarà approvato e comunque modificato il testo della Costituzione, vi potrà essere un breve termine per compiere sistematicamente la revisione e la sintesi di forma (che cercheremo sia allora unitaria) e per sottoporla poi definitivamente all’Assemblea.

Altre osservazioni riguardano l’architettonica, così cara alla nobilissima anima di La Pira. L’architettonica. Vi sono state alcune proposte dell’onorevole Della Seta; piuttosto tenui: mettere prima dei rapporti economici quelli politici; che noi abbiamo messo dopo a ragione veduta, perché vi sia nei diritti come una scala, e si passi, poi, all’organizzazione politica dello Stato. L’onorevole Della Seta ha proposto che si raggruppino le norme sul referendum, sulle pene, sulle disposizioni internazionali; non è accettabile; ad ogni modo questi piccoli ritocchi non altererebbero affatto la linea dell’edificio.

Eccolo l’edificio, che abbiamo costruito; la casa comune, come la chiama La Pira. Vi è un atrio, che è quasi un preambolo con quattro colonne: le disposizioni generali sul carattere della Repubblica, sulla sua posizione internazionale, sui rapporti con la Chiesa, sui grandi principî di libertà e di giustizia che animano la Costituzione. Questo è l’atrio. Poi comincia la Costituzione vera e propria, divisa in due parti, la prima, dei diritti e doveri, è ripartita anch’essa in quattro parti: rapporti civili, rapporti etico-sociali, rapporti economici, rapporti politici. Si passa poi, ed è la parte più costituzionale della Costituzione, all’ordinamento istituzionale. Ecco i grandi organi dello Stato: il Parlamento, il Capo dello Stato, il Governo, la Magistratura. Vengono in seguito gli organi dell’autonomia locale. Ed infine le garanzie costituzionali.

Non è certo una architettonica da Michelangelo o da Bramante; è una cosa modesta. Ma io voglio rivolgere un invito cordiale ai valorosi colleghi della nostra Assemblea. Mi dicano una Costituzione straniera che abbia una struttura più logica, più quadrata, più semplice di questa che è nel testo che vi abbiamo presentato.

Ma vi è una critica principe, che investe tutta la Costituzione: troppa roba, deflazione, la zavorra a mare! L’onorevole Nitti mi ha rivolto, con generosa cortesia, l’invito di fare quello che ha fatto Giustiniano: togliere il troppo e il vano. Debbo confessare che nel mio piccolo ho cercato di farlo. Gli articoli proposti erano in origine più di quattrocento; ora sono ridotti a meno del terzo. Senza dubbio la crescente dilatazione è un male di tutte le Costituzioni. Né le recenti possono essere come quelle dell’800; piuttosto scarne e nude; la vita dello Stato si è svolta in senso più complesso e sociale. E poi vi è una tendenza; anche in Francia, dove si lamentavano che la Costituzione potesse diventare un Bottin, cioè una specie di Guida Monaci. D’oltre oceano Salvemini scriveva: «Non fatene un salsicciotto nel quale ci si mette la carne che si vuole». In realtà, onorevoli colleghi, vi è una infatuazione caratteristica; e non vi è istituto, non vi è ceto, non vi è categoria che non chieda di avere il suo articolo nella Costituzione, perché pensa così di acquistare rango. Qualche cosa ne sa la Commissione. Ora lo saprete voi, a cui tocca il compito di decidere.

La grande direttiva dovrebbe essere di sfrondare in alto ed in basso. Vi sono dei principî generali che non stanno bene nella Costituzione, perché non hanno un carattere di norma giuridica vera e propria e dovrebbero piuttosto essere rimandati ad un preambolo. D’altra parte, vi sono norme che, per la loro natura non costituzionale, stanno meglio in una legge ordinaria. Sfrondate sopra, sfrondate sotto – si dice – e la Costituzione diventerà una buona Costituzione.

D’accordo; ma quando ci si mette, l’operazione non è una cosa facile. La Costituzione non è una legge semplice. È una superlegge e vi sono elementi che non sono soltanto di strettissimo diritto, ma attengono a quel campo in cui la politica si congiunge alla morale. Sono norme che Croce ha chiamate etico-politiche; e chiedono di essere inserite nella Costituzione. L’optimum sarebbe quello che ha detto Mazzini: dapprima una dichiarazione di principî e poi una Costituzione di diritti veri e propri. È difficilissimo però raggiungere una distinzione netta e semplice.

È stato proposto il preambolo da molti colleghi: Lucifero, Calamandrei, Cevolotto, Laconi, altri. Il preambolo non è una pura e semplice soffitta. Anche i principî che stanno nel preambolo hanno un valore giuridico come direttiva e precetto al legislatore e criterio di interpretazione pel giudice; anzi sotto quest’ultimo aspetto possono costituire titolo a che una Corte costituzionale invalidi una legge che violi i principî collocati nel preambolo. Il vantaggio sarebbe di mettere nel testo i diritti azionabili, e nel preambolo quelli che non sono tali; questione diversa dall’impugnativa in Corte costituzionale.

Il preambolo non è una semplice soffitta, ma è molto grande la difficoltà di sceverare le norme. Vi è la resistenza delle correnti e dei partiti, che temono un indebolimento delle loro rivendicazioni se messe in un preambolo. La Commissione dei 75 ha esaminato il problema ed ha ritenuto che non si possa deciderlo senz’altro oggi. Siamo tutti d’accordo che un preambolo è opportuno, con carattere storico, introduttivo, esplicativo. Ma se e quali norme devono essere portate nel preambolo noi non lo potremo decidere, se non quando avremo esaminato e discusso la Costituzione, almeno nella prima parte che riguarda i diritti e doveri dei cittadini.

Quanto all’altro lato della tesi – che, mentre si debbono passare al preambolo i rami più alti, conviene mandare i più bassi alle leggi ordinarie – un risultato si è già ottenuto; basta guardare alle proposte dei relatori per l’ordinamento giudiziario. Si vedrà in cammino se si potrà fare di più, vincendo la resistenza a collocare le norme nel fastigio, nel fortilizio della Costituzione.

II problema del preambolo e del rinvio delle norme implica quello della rigidità della Costituzione. Se ne è parlato quasi nulla nella Commissione e nell’Assemblea; ma è stato tacitamente ed unanimemente risolto. Tutti suppongono e ritengono che la Costituzione deve essere rigida.

Nella vecchia Italia lo Statuto albertino era elastico, e si sviluppò democraticamente; gli uomini politici della democrazia vantavano la possibilità di trasformare e modificare continuamente lo Statuto. Uno solo che vedeva chiaro e lontano, perché era tessitore ed alpinista, Quintino Sella, espresse qualche timore e consigliò di tenersi piuttosto all’«arca santa» della Costituzione.

Che cosa significa la possibilità di variare senz’altro, semplicemente e inavvertitamente? Lo abbiamo visto durante il fascismo. Non si può dire che se ci fosse stata una Costituzione rigida, lo scempio si sarebbe evitato. La Costituzione rigida, evidentemente, non impedisce le grandi lacerazioni che la storia può produrre; ma può, per lo meno, frenare le violazioni minori. Rigidità non vuol dire che una Carta non possa esser modificata. Vuol dire che le leggi ordinarie non possono deviare dai principî e dalle norme della Carta, e se ne deviano sono annullabili e prive d’efficacia. Vuol dire che, quando si voglia modificare la Costituzione, occorre una più cauta e meditata procedura, prescritta dalla stessa Costituzione. Sopra questo punto credo che non vi possano essere contrasti fra noi.

Ed ecco, (i problemi si intrecciano) quello della gerarchia delle norme. Si è detto qui che vi sono delle norme al di sopra della Costituzione. L’onorevole Calamandrei si è proposto di darci un testo dal quale risulti che le libertà fondamentali non possono essere violate neppure da altre Costituzioni. E sia; sebbene non sarà facile una formulazione, che non sia troppo vaga.

Non è spento il grido di Antigone, che vi sono leggi superiori alle leggi della città. Lasciamo stare se sono leggi; sono principî e norme etico-politiche, gli immortali principî, in cui noi democratici abbiamo vissuto, e fra gli immortali principî, amico La Pira, vi era la fraternità; e quindi non erano così individualisti, anche se lo svolgimento ed il senso pieno della socialità venne storicamente dopo.

Non sarebbe stato possibile parlare di immortali principî prima del fascismo, quando i liberali deridevano le alcinesche seduzioni della dea giustizia, e della dea libertà; ma ormai anch’essi esaltano la religione della libertà, e tutti, tutti qui dentro, riconoscono questi valori ideali più alti; dai cattolici che giustamente reclamano alla loro religione la fonte eterna degli stessi principî, ai partiti che muovono dal Manifesto dei comunisti e, rivendicando di togliere il giogo della classe sulla classe, risalgono a quello dell’uomo sull’uomo e convergono ed affermano i diritti fondamentali dell’uomo, la carta dell’uomo, come ha detto l’amico Tupini. Il riconoscimento di questi principî è una cosa bella e non vana, non retorica, è un grido che erompe dopo l’eclissi funesta delle libertà che ha oscurato il nostro Paese. Vi sono dei diritti che lo Stato, nessuno Stato può violare anche con la sua Costituzione.

Vi sono poi le norme della Costituzione, che le leggi non possono modificare. Accanto alla Costituzione stanno leggi di tipo e valore costituzionale, ed altre e che per la loro approvazione richiedono un quorum speciale; infine le leggi ordinarie dello Stato. Per non sfigurare farò anch’io la critica della Costituzione; ma non vi riesco, perché è un rilievo che noi stessi abbiamo fatto, ed è un lavoro in corso: cerchiamo di rivedere e di precisare la natura delle varie norme e la loro gerarchia; per la maggior correttezza giuridica e per la difesa delle libertà.

Dalle questioni più tecniche, passiamo ora ad altre di tendenza e d’idea. Vi è una parola che ha aleggiato qui, ed è stata ripetuta come un ritornello: la parola «compromesso». Vi debbo confessare che nella mia relazione avevo messo un brano che trovavo molto bello, ma poi l’ho tolto per paura della parola. Un santo della politica, Ghandi, ha detto che, appunto perché credeva alla verità eterna delle idee, sentiva la necessità e la bellezza del compromesso. Non è un paradosso. Le grandi idee animatrici debbono accompagnarsi col senso della realtà, della concretezza, delle possibilità effettive. Ma la parola «compromesso» grava come un incubo e minaccia di avvelenare ogni linea d’azione. Che cosa significa in origine compromesso? Vuol dire nel suo etimo, che parecchi fanno promessa insieme, assumono un impegno, stipulano un patto; e non c’è nulla di male, ed è necessità elementare di vita. Vi è bensì un senso deteriore, una deformazione che l’onorevole Ghidini ha messo molto bene in luce, ed è il baratto, il mercato, la combinazione oscura di interessi, non d’idee. Per evitare l’equivoco, liberiamoci pure dalla parola. Cambiamola; parleremo di patto, parleremo di accordo, parleremo di convergenza di pensiero e di forze sovra punti determinati. Ve ne è l’assoluta necessità, lo hanno detto Tupini, Saragat, Nenni, Togliatti. La storia cammina così. Nell’altro dopo-guerra un alto giurista, Jellinek, si lamentò: come possiamo fare, ora che non vi è nessuna grande idea trascinante, nessun grande uomo di Stato demoniaco come Bismarck? Dio ci scampi da un uomo di Stato demoniaco! Se non vi è una sola idea trascinante, ma più concezioni in contrasto dobbiamo rinunciare alla Costituzione? L’onorevole Basso ha detto giustamente che una Costituzione non può essere di partito e di maggioranza che schiacci la minoranza. Se non si cercano le vie maestre dei patti e degli accordi, non si può accendere altro che il disordine e la guerra civile. Venga il compromesso nel senso buono; alla luce del sole; fra esponenti di partiti, meditato e consapevole nella sua sostanza. Se poi bisognerà trovare le formule, e se qualcuno, al di fuori dei partiti, e non interessato da motivi personali, riuscirà nella fatica, questo, onorevole Togliatti, non è un compromesso deteriore.

In realtà nella nostra Commissione non vi sono state trattative esplicite, ma accostamenti nella discussione. Né bisogna dimenticare che esistono compromessi di fatto, non negoziati che vanno al di sopra delle volontà, compromessi storici che si delineano da se stessi; e sarà così, io credo, anche della nostra Costituzione. Spero di metterlo in luce, con una scorsa rapida attraverso le varie parti del nostro progetto. Vedremo che, dopotutto, vi è una linea organica, ed una sostanza che può essere accettata.

Seguendo le disposizioni del nostro Presidente, non entrerò in particolari; mi varrò soltanto, ove occorre, di esempi per vedere quali sono i consensi, quali sono i dissensi, dove è possibile trovare l’idea unificatrice e conciliatrice. Cominciamo dal quasi preambolo, dall’atrio, dalle disposizioni generali.

La Repubblica. Due radici: la sovranità popolare, il fondamento del lavoro. Sulla prima vi è assoluto consenso, e non è senza significato. L’onorevole Lucifero vuole che invece di dire: la sovranità «emana» si dica: «risiede» nel popolo. Emana, risiede, appartiene, è del popolo; è questione di scegliere l’espressione più esatta. La nuova Costituzione francese ripete la frase di Lincoln sul campo di Gettysburg: sovranità del popolo, dal popolo, per il popolo.

Nell’affermare la sovranità popolare, il nostro progetto pone anche, inscindibilmente, il concetto dello Stato di diritto, in quanto ogni esplicazione di sovranità e di potere deve avvenire nelle forme della Costituzione e delle leggi. È il popolo stesso si dà Costituzione e leggi; non vi è dunque nello Stato di diritto alcuna menomazione della sovranità popolare.

Qualche dissenso nasce per l’altra base: il lavoro; tema che rimando ai diritti sociali ed economici.

Non vi potranno essere in definitiva gravi contrasti per la parte internazionale.

Vengo al roveto ardente, ai rapporti con la Chiesa Cattolica. Altro che compromesso!

Vi fosse l’accordo! Vivissimo sarà il dibattito, il primo a sorgere fra noi, quando tratteremo delle disposizioni generali.

L’Italia nel 1929 ha seppellito la questione romana, componendo un dissidio che durava dal Risorgimento; ed ha raggiunto la la pace religiosa – «pace religiosa» è la frase usata da tutte le parti di questa Camera – con un accordo fra lo Stato e la Chiesa Cattolica. La Repubblica si trova di fronte a tale situazione.

Vi esporrò alcuni termini, strettamente giuridici, necessaria premessa di ogni altra considerazione. Delle tre formule che sono state discusse: – 1a i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati da patti concordati; 2a dai patti concordati; 3a dai Patti lateranensi – anche la prima (da patti concordati) implica già un riconoscimento tacito dei Patti lateranensi che sono i patti concordati in vigore. Le altre due aggiungono di più. Lasciando stare la parola «lateranensi», dove stride il ricordo mussoliniano, ambedue, pur non inserendo veramente quei Patti nella Costituzione (ed è affermazione inesatta) danno ai patti stessi, come risulta dal codicillo suggerito dall’onorevole Lucifero, uno speciale valore costituzionale; nel senso che, se non vi è accordo bilaterale fra le parti, lo Stato non può denunciare i Patti se non con legge di valore costituzionale. È il punto tecnico che l’onorevole Orlando ha messo in luce. Si può aggiungere che, poiché la costituzione, anche con la più tenue delle formule proposte, adotta il regime concordatario, occorre, quando si denunci il patto e non se ne stipuli un altro, la revisione costituzionale.

Dietro le questioni tecniche stanno le differenze ideali: fra la democrazia laica e la democrazia cattolica; ciascuna delle quali ha tradizioni ed impostazioni proprie; ma il loro accordo è necessario per la Repubblica italiana. Tutti gli oratori dell’estrema sinistra hanno qui dichiarato che non pensano a denunziare i Patti lateranensi: ma a perfezionarli e migliorarli, d’accordo con la Chiesa, al momento opportuno. È chiaro che, se noi ridestiamo il contrasto religioso, non sono solo in pericolo, amico Nenni, le riforme sociali: v’è qualcosa di più in pericolo, lo stesso avvenire del Paese. E allora? È possibile un accordo, una formula che consenta alla Santa Sede il riconoscimento dei patti dalla Repubblica, ed allo Stato di non vincolare la propria posizione costituzionale? Lasciate che io mi unisca al voto ed all’appello dell’onorevole Orlando, che è stato ripetuto da Togliatti e da altri; si trovi la formula conciliatrice, che senza ferire il punto fondamentale delle due parti, eviti di riaccendere una guerra religiosa, esiziale per il nostro Paese.

Una voce. Siamo tutti d’accordo su questo. (Commenti).

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. È appunto per questo accordo che anch’io ho alzato il mio grido.

Nella prima parte della Costituzione campeggia il tema della libertà. Qui non troviamo compromesso, ma consenso, anzi troppo consenso, secondo alcuni. Tutti sono per la libertà. La libertà è una delle parole più difficili a definire, diceva Montesquieu. Così della democrazia. La democrazia che un tempo Marx, Proudhon, Sorel combattevano e disprezzavano, perché quella che vedevano non corrispondeva alle loro mete, è diventata la grande idea anche dei socialisti. E nessuno dei conservatori osa smentirla; anzi ne fa suo schermo.

Democrazia senza aggettivi dice l’onorevole Lucifero; democrazia con aggettivi dice l’onorevole Cevolotto. In sostanza sulla democrazia siamo, o sembriamo, tutti d’accordo. Che cosa fare? Vogliamo dire a qualcuno: non crediamo che voi siate per la libertà democratica? Vogliamo ammettere che vi sia fra noi un nuovo Veuillot che dica o pensi: io difendo la libertà perché voi siete al potere, la combatterò quando sarò al potere perché questo è il mio programma?

Si è riscontrato che nella nostra Costituzione ci sono due pregi. Il primo è quello, messo in luce da Saragat e da La Pira, che si è fatto capo ai diritti della personalità umana. Dopo l’epoca atroce che abbiamo passato, in cui la dignità della persona era spregiata e cancellata, vi è un grande anelito di libertà. L’onorevole Togliatti ha detto che la libertà personale è la mèta del programma comunista. Mi sembra logico che sia ancheil punto di partenza. Perché dobbiamo vedere un compromesso dove v’è il consenso di tutti?

Il secondo pregio è di formulazione tecnica. Nonostante gli attacchi alla Costituzione, essa non appare mal congegnata. Diverse ed opposte, come sempre, sono le critiche e suonano diversamente: «mettere poco o nulla nella Costituzione; rinviare alle leggi»; è una tesi; ed ecco l’altra: «mettere tutto nella Costituzione», anche a rischio di farne un codice. Proprio nello stesso giorno, ho letto le due tesi in articoli di giornali e riviste.

Quali vie abbiamo seguito noi della Commissione? Abbiamo rinviato spesso a leggi; il che non significa far cosa inutile e vana, vuol dire per lo meno questo: che il potere esecutivo non potrà commettere alcun arbitrio; e tutto dovrà essere regolato da leggi. Poi abbiamo cercato di mettere alcune norme e principî che siano per il legislatore una sicura direttiva ed un infrangibile limite. È il solo metodo che si deve seguire; sta a vedere se l’abbiamo applicato bene o male. Io credo che non sia stato applicato male, e che contenga anche qualche punto abbastanza originale.

Per quanto riguarda l’inviolabilità della persona e del domicilio, gli arresti, i fermi, le perquisizioni domiciliari, che nel regime tirannico erano così frequenti, abbiamo stabilito che vi deve essere una norma precisa di legge ed una decisione motivata del magistrato. Nei casi di assoluta urgenza non si può vietare – per la stessa difesa della vita e degli averi dei cittadini – che intervenga l’autorità di pubblica sicurezza. Si è voluto evitare che la polizia faccia una perquisizione e poi non ne parli più; trattenga uno per ventiquattro o per quarantotto ore in guardiola, in carcere, e poi lo lasci libero senza dir nulla. Si è stabilito che, qualunque cosa possa fare, per assoluta necessità, nei casi ammessi dalla legge, l’autorità di pubblica sicurezza debba riferire immediatamente al magistrato, e ciò – si noti – per ogni e qualunque restrizione di libertà personale e domiciliare; ed anche se il rilascio è avvenuto prima che scada il termine dell’obbligo di comunicazione al magistrato stesso. È un principio che non trova riscontro in alcun’altra Costituzione.

Un altro punto nuovo, per il diritto di associazione. Non si è ammesso soltanto in quei casi in cui la legge lo consente, come le altre Costituzioni. Si è stabilito che i diritti e le libertà che un singolo può far valere personalmente, secondo legge, può farli valere anche collettivamente.

Potrei continuare nell’esame dei diritti di libertà, ma il tempo incalza. Mi limito a fare un cordiale invito ai valorosi colleghi dell’Assemblea: mi dicano quale delle altre Costituzioni abbia delle norme sulle libertà civili ferme e chiare come quelle che abbiamo cercato di stabilire nel nostro progetto.

Passiamo ora ai rapporti economici; e notiamo anzitutto che, secondo una chiara affermazione accentuata dall’onorevole Saragat, i diritti di libertà che sono a base essenzialmente individuale devono rimanere ben fermi anche coi nuovi diritti sociali.

La Costituzione va incontro ai diritti del lavoro; apre la strada alle conquiste del lavoro. E lo fa in una forma che non deve spaventare; non è sovvertimento e rivoluzione social-comunista in atto, come ha detto qualcuno. Rivoluzione? Anch’io ne ho parlato nei miei libri, qualche volta; ma, da quando Mussolini ha imperversato con la rivoluzione in atto, io non posso più soffrire questa parola. Pregherei l’amico Saragat e l’amico Lussu di non usarla se non in un senso ben chiaro. La Costituzione sancisce i diritti del lavoro come orientazione democratica, non come programma rivoluzionario. È in sostanza la constatazione di una realtà che è già in cammino. Chi può dubitare che ci troviamo all’avvento di forme economiche nuove? Io le chiamo economia del lavoro. Quando tutti parlano di democrazia economica e sociale oltreché politica, e parlano con Roosevelt di liberazione dal bisogno, ammettono che vi sia una trasformazione dell’ordine economico.

Il maggiore degli economisti italiani viventi, il nostro Einaudi, ha scritto che il capitalismo storico è al tramonto. Se altri non vi è, sarò io a dire la grandezza del capitalismo, che ha preso in mano, un secolo fa, un’Europa di pochi milioni di uomini, e ne ha aumentato la popolazione con un ritmo sconosciuto al passato, ed ha diffuso la civiltà sugli altri continenti, ha conquistato i più grandi progressi della scienza e del progresso tecnico, ha creato la grande industria e l’agricoltura intensiva, ha portato il tenore di vita delle masse ad un livello non mai raggiunto, ha preparato le loro vittorie di domani, è stata l’epoca più prospera e gloriosa di tutta la storia. Ma noi non possiamo ancora vivere con le forme di quel tempo. Gli economisti – i migliori – riconoscono che il loro edificio teorico, la scienza creata dall’Ottocento, non regge più sul presupposto di una economia di mercato e di libera concorrenza, che è venuto meno, non soltanto per gli interventi dello Stato, ma in maggior scala per lo sviluppo di tendenze e di monopoli delle imprese private. Quando vedo i neo liberisti, Come l’amico Einaudi, proporre tale serie di interventi per assicurare la concorrenza, che qualche volta possono equivalere agli interventi di pianificazione, debbo pur ammettere che molto è mutato. Non pochi vanno affannosamente alla ricerca della terza strada. La troveranno? Non lo so. Questo so: che si avanza la forza storica del lavoro. Non potevamo rifiutarci a questa affermazione. Mazzini diceva che noi tutti un giorno saremo operai; i cattolici hanno il codice di Malines e quello di Camaldoli, dove sono stati stabiliti i principî d’una economia del lavoro. Ho sentito da questa parte (Accenna a destra) chi pur faceva vive critiche: «Se per socialismo si intende un rinnovamento sociale, anche noi siamo socialisti». Allora, perché avremmo dovuto rifiutarci a riconoscere che la nuova Costituzione è basata sul lavoro e sui lavoratori? Parlando di lavoratori, noi intendiamo questo termine nel senso più ampio, cioè comprendente il lavoratore intellettuale, il professionista, lo stesso imprenditore, in quanto è un lavoratore qualificato che organizza la produzione, e non vive, senza lavorare, di monopoli e di privilegi. Sono cieche le correnti degli imprenditori che non rivendicano – se sono ancora in tempo lo dirà la storia – la loro vera funzione ed il titolo glorioso di lavoratori. Perché dobbiamo avere paura del nome e dei diritti del lavoro?

Il diritto al lavoro: qui vi sono due opposizioni; una di forma, per il rinvio dell’affermazione al preambolo, ed un’altra che è contro il diritto al lavoro, perché ne ritiene impossibile la garanzia. Vorrei che anche la prima corrente chiarisse bene i suoi propositi, e se è favorevole al principio vedesse di sacrificare lo scrupolo alla sostanza.

Si è obbiettato: se proclamate il diritto al lavoro, e non potrete mantenere subito l’impegno, verrà l’esasperazione, per la tradita promessa. Ma l’esasperazione non c’è anche adesso con tutte le dimostrazioni di disoccupati al Viminale? La Costituzione non poteva tacere del diritto al lavoro, e lo ha formulato nel modo più cauto e con grande equilibrio, come vi ha detto l’onorevole Ghidini. Lo Stato riconosce il diritto e promuove le condizioni per attuarlo. Il principio è posto; e va realizzato nei termini concreti e graduali delle possibilità.

Dovere del lavoro: l’abbiamo pur qui inteso nel senso più ampio, anche del lavoro intellettuale, e di ogni attività e funzione che concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società. Non abbiamo creduto che in una Costituzione nuova come la nostra si potesse dimenticare il motto paolino, che è così cristiano, ma è scritto anche nella Costituzione di Stalin: «Chi non lavora non mangia». E che, si chiede, non si può oggi vivere di rendita? Sì, almeno per ora, ma nessuno può essere inerte redditiero; e deve farsi attivo e compiere qualche lavoro socialmente utile.

Vi è poi il diritto all’assistenza: l’onorevole Rubilli ha detto che non è neppur esso un vero e sicuro diritto. Vorrei ricordare quando egli era con noi all’avanguardia della democrazia radicale, in una seduta qui, in questa aula, io che ero allora Sottosegretario di Stato per il lavoro, nel Ministero Orlando, di cui era Ministro del tesoro Nitti, due uomini a cui va riverente la mia gratitudine; rispondevo a Bruno Buozzi, e mostravo gli sforzi, cui presiedevo, di organizzare la previdenza sociale e la sicurezza sociale in tutti i suoi aspetti, di malattia, di infortuni, di vecchiaia; mi pare di vedere ancora Buozzi, alzarsi lì, da quel posto, e dire: «Comincia la nuova fase nella vita sociale italiana». Perché ciò che abbiamo raggiunto non lo dobbiamo mettere nella nostra Costituzione? È un diritto concreto e non soltanto potenziale.

Nei rapporti economici hanno il loro posto le norme per l’impresa e la proprietà. Avete ascoltato l’onorevole Basso; anche le correnti estreme ammettono che nell’attuale momento economico si riconosca libertà ed iniziativa alla impresa ed alla proprietà privata. Perché non registrare il principio che non è un compromesso e risponde al fatto economico?

L’onorevole Bozzi ha osservato che non si può nello stesso tempo dire libere ed assoggettare a limiti l’impresa e l’iniziativa private. Ma non c’è mai stato un ordinamento di questo mondo dove tutto fosse liberista o tutto comunista. Anche in un regime economicamente libero vi sono dei limiti (e vi sono sempre stati) imposti per legge all’impresa ed alla proprietà privata. I più conservatori ed ortodossi non possono opporsi a quanto è stabilito anche in Costituzioni ormai vecchie.

Né han ragione di gridare contro ciò che riguarda il controllo ed il piano economico. Qui ho cercato di influire, perché si tolga una prima espressione che vi era nel progetto: e non penso che per questo io debba essere fucilato. Vi era nel progetto una espressione che diceva: «Ogni attività economica è soggetta a controllo periferico e centrale». La frase poteva essere interpretata in modo eccessivo. Abbiamo messo un articolo che consente di armonizzare e di coordinare le attività economiche, private e pubbliche, a scopi sociali. È in essere la pianificazione? Ma è ormai in atto in tutti i Paesi; e deve essere in base alla legge, e con criteri di elasticità, di guida e direzione più che di coazione totalitaria; lontani dai piani alla russa; e ciò risulta dallo stesso tenore della disposizione. Domando a voi cosa vi è in essa di rivoluzionario o di reazionario; lo domando specialmente ai colleghi che non si spaventano se un metropolitano, dirigendo la circolazione per la strada, ne assicura la vera libertà.

Sono lieto d’aver sentito la voce del più anziano fra noi, del più degno di noi, dell’onorevole Orlando, che, levandosi ad interprete della sua generazione, ha ammesso i diritti nuovi del lavoro…

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Li ho acclamati, non ammessi.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ciò ha un significato. Non bisogna che indugiamo più in incertezze. Noi vecchi della democrazia dobbiamo ammettere e far nostro un motto di Jaurès: «Il fiume non rinnega le origini quando vai alla foce».

Mi resta di parlare dell’ordinamento, la seconda ed ultima parte della Costituzione. Ne avevano parlato pochi; poi vennero grandi interventi e l’argomento salì alle vette.

Vi sodo due correnti. Una dice: «Quello che avete fatto è troppo spinto; è addirittura totalitario e rivoluzionario». Un’altra invece: «Siete retrogradi; volete attraversare con un assetto arcaico, di ostacoli e di remore, le vie alla nuova democrazia ed alle conquiste operaie». Potrei rannicchiarmi nel giusto mezzo, e tacere, ma desidero che vediamo insieme come stanno le cose.

Stanno da un lato gli istituti dell’800, dall’altro correnti nuove. Nel secolo scorso, prevalse e raggiunse il suo pieno svolgimento il sistema rappresentativo, parlamentare, di Gabinetto. Ne ho appreso dai libri di Orlando le caratteristiche essenziali. Ho poi visto come è sorto storicamente questo tipo di Governo di Gabinetto in Inghilterra, dove la Corona, che aveva ceduto al Parlamento pel potere legislativo, teneva ancora l’esecutivo; ma uno dei goffi e squilibrati re di Hannover, non sapendo l’inglese, non partecipò più al Consiglio dei Ministri, ed il Governo passò effettivamente a questo Consiglio, che venne designato dalla fiducia del Parlamento.

Se ben guardiamo, il Governo parlamentare è un arco lanciato fra due piloni; uno di questi è la sovranità popolare, l’altro era la sovranità regia: il re per grazia di Dio e per volontà della Nazione. Quando il sistema si trasportò nel continente, in Francia, e cadde con la monarchia uno dei piloni, vennero meno le linee del compromesso storico, e le cose cominciarono ad andare con minore semplicità. Poincaré, che in uno scritto assai noto constatava aver il Presidente della Repubblica francese in sua mano tutti i poteri occorrenti, dové poi, quando divenne Presidente, accorgersi che le cose non andavano così; e fu per pungere Poincaré che Clemenceau disse una delle sue boutades: vi sono due cose inutili al mondo, la prostata ed il Presidente della Repubblica francese. (Si ride). Insomma: caduto uno dei piloni, occorre adattare questo regime in clima di Repubblica e di democrazia.

Dall’altra parte vi sono correnti e forme nuove. Si erano manifestate dapprima contro il Parlamento con un sistema di sovieti o consigli a catena, che avevano in sé il triplice potere: legislativo, giudiziario, amministrativo. Venne in seguito accolto anche nella Costituzione russa il Parlamento, sia pure col nome di Consiglio, e con l’infrastruttura effettiva di un partito unico e di un potere concentrato in un capo. Nei paesi occidentali si delineano le forme nuove, nel senso che attingendo decisamente ed esclusivamente alle fonti della sovranità popolare, si fanno forti di essa e sostengono: la sovranità popolare è una e non può essere delegata che ad un solo organo: l’Assemblea. Tutti gli altri organi, Presidente della Repubblica, Governo, Magistratura, amministrazione, non sono che commessi ed agenti di esecuzione. Ogni mandato ed ogni delegazione è revocabile ad nutum. Questa la teoria estrema, che si è fatta avanti nei dibattiti della Costituente francese. Ne ho sentito qualche eco qui, specialmente nel discorso di un giovane che ha fatto un così brillante debutto: l’onorevole Laconi. Egli dichiara che non vi devono essere divisione di poteri né congegni di contrappesi e bilance; anzi si spinge molto in là e non vuole che vi sia nessun organo ausiliario e di controllo; mentre la teoria più raffinata di questa scuola ammette che vi siano corpi consultivi, Consigli legislativi, Consigli economici, controlli di amministrazione, a fianco dell’Assemblea, cui restano in ogni modo tutti i poteri, perché, se non è direttamente sovrana, è l’unica delegata della sovranità popolare. Si sostiene che in regime democratico non vi debbono essere checks and balances; ma esistono negli Stati Uniti d’America, in Isvizzera, e non possono essere abbandonati senz’altro, a cuor leggero.

Nella tempesta che noi attraversiamo non abbiamo creduto di abbandonare lo schermo del Governo parlamentare e di Gabinetto, che ha dato la libertà nell’800; ma abbiamo sentito la necessità di inserirlo nel quadro della Repubblica, di mettere meglio le sue radici nella sovranità popolare, senza avventurarci in forme di Governo d’Assemblea, che non hanno fatto buona prova, e non sono capaci di funzionare, come non può funzionare il Governo diretto di popolo. Se forme nuove potranno venire, sono per ora oscure. Intanto non si poteva fare altro che quello che la Commissione ha cercato di fare: ma abbiamo avuto un attacco veramente leonino da Orlando…

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Non lo avete fatto.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. All’onorevole Orlando è sfuggita la frase: Costituzione totalitaria.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Totalitaria vuoi dire con un solo organo sovrano.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Totalitaria vuol dire, nel linguaggio corrente, molte cose; ed è stata intesa in senso diverso dal suo. Certo è, ad ogni modo, che la sua tesi è il contrapposto dell’altra, che denuncia il nostro progetto come conservatore e retrogrado; siepe contro le forze operaie.

Giudizio dell’onorevole Orlando, accennato anche prima dall’onorevole Nitti, è che si danno troppi poteri all’Assemblea. Opinione degli onorevoli Nenni e Togliatti è che vi sono troppi diaframmi, troppe barriere e non si dà via libera all’Assemblea. Tratterò di questo argomento, affrontando con tutta riverenza gli argomenti di un Maestro come Orlando.

Ha parlato del Parlamento, del Capo dello Stato, della Corte costituzionale. Ha cominciato con due rilievi sul Parlamento, che egli stesso ha detto minori. Ci ha accusato di avere svalutato la iniziativa legislativa, dandola a 50.000 elettori. Ma anche negli ordinamenti passati la iniziativa legislativa la poteva avere un solo deputato. Ed allora perché non concederla a 50.000 elettori? La proposta di una legge non si identifica col referendum, ma si collega all’idea di risalire, non per le sole elezioni, alle forze vive ed originarie del popolo. Vi è nel referendum un filone della nostra Costituzione, un lato nuovo, che attinge alle fonti della sovranità popolare, e che contrasta con le sue stesse armi alla tesi dell’unico governo d’Assemblea. La novità non è certo pericolosa, nell’uso equilibrato che ne fa il progetto; e che prego l’onorevole Orlando di tener presente, per temperare il rilievo di totalitarismo.

Secondo rilievo dell’onorevole Orlando: avete impicciolito Parlamento e Ministri con un certo articolo che dice che questi possono presentarsi all’Assemblea e devono rispondere se interrogati. Ma ciò vi era anche nei vecchi ordinamenti dello Stato; e si riferisce espressamente al caso che i Ministri non siano Deputati; così che si tratta non di umiliarli, ma di ammetterli nella vita del Parlamento.

L’argomento più grave, l’onorevole Orlando lo ha detto in forma drastica: voi avete espulso il Capo dello Stato dal Parlamento. È la formula classica del re nel Parlamento che si dovrebbe applicare al Presidente della Repubblica. Conferirgli la sanzione, non la sola promulgazione della legge. L’onorevole Orlando non comprende una promulgazione senza sanzione. Per verità, se vediamo nel Presidente della Repubblica l’organo supremo che presiede al potere esecutivo e al potere legislativo, gli possiamo dare la promulgazione delle leggi come saldatura fra i due poteri. Resta la questione della sanzione, che si può discutere; ma non si può darle tanta importanza, anche perché è sempre stata una finzione anche nei regimi monarchici, tranne forse in un livido mattino in cui, non so se per consiglio dello stesso Facta, il re rifiutò la sua sanzione ad un decreto che avrebbe dovuto arrestare la marcia del fascismo. Noi non abbiamo creduto che la sanzione delle leggi sia necessario attributo del Presidente della Repubblica. Comunque, non è questo che possa formare il carattere totalitario di una Costituzione.

La critica sul Parlamento si è svolta soprattutto per la seconda Camera. L’onorevole Orlando è andato quasi d’accordo con gli estremisti: se la fate così è meglio che non vi sia che una sola Camera. Conclusione affine, partendo da criteri diametralmente opposti.

La Commissione, a maggioranza (ed io debbo essere qui interprete della maggioranza) ha ammesso la bicameralità, non perché ritenga che sia, come dicono certi maestri di diritto costituzionale, un assioma del diritto pubblico, ma perché in questo momento è parso necessario non abbandonarsi sul piano inclinato del Governo di una sola Assemblea o Convenzione.

Anche nella forma più o meno felice che è venuta fuori, la Camera dei Senatori non è un duplicato dell’altra. Oltre alla rappresentanza del Consiglio regionale, vi è una diversità di elettorato e di eleggibilità. La nostra disgraziata Commissione, dovete riconoscerlo, ha questo almeno di buono, che vi ha preparato in ogni campo, ed anche pel Senato, una serie di soluzioni fra le quali voi potete scegliere; indicate nella mia relazione ed in documenti che vi sono stati distribuiti. Le due Camere possono e non devono essere fatte con lo stesso stampo, pur avendo entrambe origine, diretta o indiretta, dal suffragio del popolo.

Non è stato toccato qui, ma venne discusso in Commissione, il problema della prevalenza di una Camera sull’altra. Vi confesso che personalmente ritenevo opportuno che una Camera avesse una certa prevalenza sull’altra, come è avvenuto in tutti i Paesi, anche nella vecchia Italia monarchica; e come ha stabilito per l’Inghilterra la legge del 1911. La prevalenza d’una Camera può essere collocata in una giusta inquadratura costituzionale. La maggioranza della Commissione ha invece ritenuto di ammettere piena parità di poteri; e ciò non mi sembra confermi l’interpretazione totalitaria dell’onorevole Orlando.

Ma egli vede il pericolo nell’Assemblea Nazionale, in cui le due Camere si riuniscono per dati compiti. L’onorevole Nenni l’ha chiamata un correttivo del bicameralismo; l’onorevole. Orlando ne ha visto addirittura una manifestazione totalitaria. L’Assemblea Nazionale è un istituto votato alla quasi unanimità dalla Commissione, che ha creduto di trovarvi un logico coronamento del sistema parlamentare, un modo di dare una certa stabilità al Governo, una possibilità di evitare meglio il totalitarismo, che di solito è di una Camera sola. Lo credo un buon istituto; nuovo fino ad un certo punto, perché lo hanno anche altri Paesi; noi lo abbiamo sviluppato, con misurate attribuzioni; e non farà cattiva prova.

Il Capo dello Stato, quale risulta dal progetto, non è il fannullone che sembra all’onorevole Orlando. L’elenco delle funzioni che gli abbiamo date non è scarso e lieve. Nello scorrerlo, l’onorevole Orlando ad un dato punto si è fermato ed ha avuto qualche esitazione per il comando delle forze armate, che gli abbi anno attribuito, in quanto non può essere dato ad un militare di professione, ma soltanto al Capo elettivo della Repubblica italiana. I poteri che avrà il nostro Presidente sono molto più ampi di quelli che ha il Presidente della Repubblica francese. Basta pensare alla facoltà di sciogliere le Camere, che è decisiva; né si dica che occorre la controfirma del capo del Governo. È uno dei casi in cui per correttezza costituzionale la controfirma non sarà rifiutata; io poi personalmente ritengo che potrà essere nominato un nuovo capo del Governo. Voglio ancora sottolineare che, al di sopra dei poteri, ben considerevoli, che gli abbiamo dati, il Presidente della Repubblica ha funzioni, meno definite, e perciò più ampie, di persuasione, di equilibrio, di supremo arbitrato; che possono essere utilissime al paese; ed hanno ora felice espressione nell’attuale Capo dello Stato. (Approvazioni).

Un altro problema è il modo di elezione del Presidente, che potrebbe esser eletto dal popolo.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Io lo preferisco.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Anche io lo preferisco. Si ristabilirebbe un po’, di fronte al Parlamento, l’altro pilone del regime di Gabinetto; non quello del re, che è definitivamente caduto, ma di un Capo dello Stato eletto allo stesso modo del Parlamento, con le sue radici egualmente nella sovranità popolare. Per tale designazione vi sono argomenti pro e contro. Vi è contro, lo ha detto un collega, lo spettro di Cesare, di Buonaparte, di Hitler, ed è una preoccupazione che in molti prevale su ogni altra. Ma, intendiamoci bene, non sarebbe mai il Capo del Governo e dell’esecutivo, come è in America col sistema presidenziale. Sarebbe soltanto il Capo dello Stato con determinati poteri, quali abbiamo tracciati noi.

L’onorevole Saragat, con molta lucidità, sente il bisogno che in un mondo così pluralistico per i partiti, dove non vi è una maggioranza solida e piena, ma un disordinato fluire, ed un eterno contrasto, esista qualcosa di solido e di fermo su cui condurre una politica durevole; ed a tal fine richiede l’elezione popolare del Capo dello Stato. L’onorevole Orlando aderisce, e così altri ed eminenti, ma pochi, uomini politici, ad una proposta che ha intenti tutt’altro che totalitari.

Il nostro maestro Orlando sembra vedere il totalitarismo, e qui ha pronunciato la parola, anche nelle norme sopra il Governo ed il Capo del Governo. Perché? Perché la maggioranza della Commissione ha dato al Capo del Governo una posizione non di primus inter pares, ma di Capo che abbia certi poteri di coordinamento; e l’ha fatto per dare a qualcuno, nel Governo, la bacchetta di direttore d’orchestra. Niente altro. Nessun potere eccezionale è attribuito a questo Capo del Governo. Si è, oltre a ciò, cercato di assicurare una certa stabilità ai Governi. Ai vecchi tempi che io ricordo i Governi cadevano talvolta sopra una buccia di limone; era sempre possibile un’imboscata parlamentare, un voto all’ultim’ora, proposto con insidiosa improvvisazione da qualche esperto manovratore. Noi non vogliamo che il Governo sia, secondo recenti concezioni, nominato per un periodo fisso dall’Assemblea; il Governo per noi non è il comitato esecutivo dell’Assemblea, come inclina a ritenere Kelsen; è nominato dal Capo dello Stato; e deve avere la fiducia del Parlamento; dove è la sua vera base e ragion d’essere. Ma è appunto perché fiducia e sfiducia siano espresse chiaramente e con senso di responsabilità, che si chiede una procedura di meditato intervento delle Camere riunite. Non vedo in ciò, tutt’altro, la via del totalitarismo. Caso mai, un tentativo di regolare il pluralismo dei partiti; che è anch’esso un male, dove non si formi una maggioranza sufficiente.

I partiti. Ne hanno parlato Saragat e Calamandrei, proponendo di dare ad essi una disciplina giuridica. La Commissione non si è spinta in questa via. Vi sono ritegni, anche nel mio pensiero, perché se è vero che i partiti sono una realtà necessaria, ed assorbono oggi non poco della vita dell’Assemblea, come ha detto con acuta diagnosi l’onorevole Saragat, il farne degli organi costituzionali toglierà anche di più e scuoterà più ancora il Parlamento. Si aggraverà quella che Croce chiamava partitomania. Si è parlato di controllo – Saragat vi ha accennato – sui loro fondi. Ma è proprio possibile, ed a chi affidarlo? Alla Corte costituzionale? Quanto al giudizio se un partito sia democratico e presenti la base sufficiente per essere riconosciuto, si aprono infinite vie di incertezze e di arbitrio. Ecco perché si deve andare a rilento nell’ammettere il riconoscimento giuridico dei partiti nell’edificio della Costituzione.

Viene ora la Corte costituzionale. Una bizzarria, dice l’onorevole Togliatti, mentre mi era apparso che la considerasse attuabile, in un certo senso, l’onorevole Laconi. Contrario all’istituto, almeno per ciò che riguarda il giudizio dei Ministri, è l’onorevole Orlando. Più radicalmente l’onorevole Nitti ha detto di non comprendere cosa sia questo congegno. Non possiamo aspettare che torni il collega Giannini, al quale fo l’augurio di rimettersi presto in salute, per spiegare che cosa è la Corte costituzionale che egli pone a fondamento del suo partito. Altri movimenti la rivendicano; ed ha una tradizione dottrinale anteriore e molto larga. Il ragionamento è, in ogni caso, abbastanza semplice. Se la Costituzione è rigida, vi deve essere qualche organo che accerti se le leggi sono conformi o no alla Costituzione. Questo compito bisogna darlo a qualcuno. Alla Magistratura ordinaria, dice l’onorevole Nitti; ma si tratta di un’altissima giurisdizione, che implica anche valutazioni politiche, e l’onorevole Orlando non sembra, per un certo aspetto, ritenere adatta la via della semplice Magistratura. Che cosa ha fatto la Commissione? Ha proposto un organo, un istituto nel quale – ecco un buon compromesso – vi sono insieme gli elementi competenti della Magistratura, del Foro, della cattedra e quelli designati dal Parlamento. Non so come si sarebbe potuto risolvere diversamente questo problema. Naturalmente la Corte costituzionale non potrà essere un’assicurazione contro ogni lacerazione e colpo di mano; ma darà un senso vigile e continuo di costituzionalità e di ordine legale.

Un altro compromesso, se vogliamo usare la brutta parola, è avvenuto per ciò che riguarda la Magistratura. Anche io sono un magistrato e credo alla necessità assoluta dell’indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo. Mi hanno commosso le nobilissime parole dette dall’onorevole Orlando per questi uomini che vivono in povertà, sono pagati meno di un capo-spazzino di Vaselli e soffrono dignitosamente ed adempiono con tanto valore le loro funzioni! Indipendenza sì, ma non si può farne un corpo chiuso, una corporazione, un. mandarinato, che nasce alle origini dal concorso e si svolge, nel suo autogoverno, senza alcuna influenza della sovranità popolare. Si è trovato anche qui un compromesso. Si è sottratta la Magistratura alla dipendenza dal potere esecutivo; il che non vuole dire che, come vorrebbe il collega Zuccarini, debba sparire il Ministro della giustizia. Vuol dire indipendenza in senso nobile e democratico; in quanto al governo della Magistratura ordinaria è dato un organo composto per metà di magistrati designati da essi stessi e per metà di membri del Parlamento. Credo che non sia un compromesso deteriore; è l’unico possibile in questa materia.

Insomma, onorevoli colleghi, per un giudizio complessivo, vi prego di tener presente il nostro progetto e la Costituzione francese, anche nel suo ultimo testo emendato ed oggi in vigore. Nella Costituzione francese vi è una Camera sola, ed a fianco un Consiglio, un organo puramente consultivo; noi abbiamo due Camere, con una piena parità, che in certe occasioni si riuniscono in Assemblea Nazionale. Abbiamo il Capo dello Stato, che può sciogliere il Parlamento; in Francia, no; soltanto quando vi sono state due crisi, ed è il Consiglio dei Ministri che può sciogliere la Camera. Abbiamo la Corte costituzionale. Abbiamo un insieme di garanzie. Non so come si possa far credere totalitaria e rivoluzionaria questa forma di Costituzione, che si propone all’Italia, e che, sono sicuro, finirà con l’essere riconosciuta liberale e democratica.

Desidero dirvi la sintesi del compromesso, quale si è venuto delineando spontaneamente, più che per negoziati, e potrà non avere l’approvazione di tutti, qui dentro, specialmente agli estremi; ma è il punto in cui ci possiamo incontrare ed ha i caratteri della necessità storica. Ecco la sintesi: aprire le vie al lavoro, in una forma che non è rivoluzionaria, ma graduale e democratica; basata istituzionalmente non su nuovi tipi oscuri ed avventurosi, ma sull’ordinamento democratico e parlamentare, ricostituito ed avvivato; innestato, ora che è caduto il pilone della monarchia, sulla base della Repubblica e della piena sovranità popolare. Questo il nostro progetto; ed una linea innegabilmente vi è.

Un’ultima parte, sopra cui non mi posso soffermare a lungo, è quella della regione. Argomento di grande e decisiva importanza, che lascia molti spiriti sospesi. Comprendo le aspirazioni fervide, come le apprensioni, che, in parte, condivido. Che cosa ha fatto la Commissione? Ha studiato faticosamente e pazientemente. Ha formulato strutture di autonomia, che anche nei casi più spinti non intaccano l’unità nazionale; perché, anche dove c’è la legislazione primaria, non concerne materie essenziali, è subordinata ai principî dell’ordinamento ed agli interessi dello Stato ed è sottoposta al giudizio della Corte costituzionale e del Parlamento nazionale. Accanto a questa, vi è un’altra tendenza, in cui non si ammette la legislazione primaria, ma soltanto una facoltà legislativa di integrazione e di attuazione, per adattare le norme generali della legislazione di Stato ai bisogni locali. Abbiamo preparato due binari e due soluzioni: a voi spetta scegliere.

In generale, per tutte le materie, avete davanti a voi, negli atti della Commissione, progetti concreti, fra cui sceglierete. Ormai la responsabilità è passata dalle nostre spalle alle vostre; noi saremo i vostri collaboratori, i servi fedeli del compito comune; lavoreremo con voi; in fervido sforzo di superare le difficoltà. Potrei finire con una invocazione… (Commenti).

Finisco invece con la maggiore semplicità, esprimendo il desiderio che la conoscenza di questo atto costituzionale sia diffusa non solo fra voi ma in tutto il Paese. Il Paese finora si è scarsamente interessato; si appassionerà, credo, domani, di più, e sentirà che questo è un atto fondamentale per la sua vita e per il suo avvenire. Mi rivolgo alle genti d’ogni regione; agli uomini d’ogni idea; anche ai nostri fratelli che l’ingiusta pace ha staccato da noi, perché questa è anche la loro Costituzione.

Onorevoli colleghi, siamo messi tutti alla prova. Noi della Commissione abbiamo lavorato con pazienza e devozione. Ci saremo sbagliati, avremo commesso errori. Ma tutte le vostre critiche le consideriamo lietamente ad un patto: che tutti insieme, sappiamo dare una Costituzione buona all’Italia. (Vivissimi generali applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, dopo il discorso dell’onorevole Ruini, così limpido e semplice, vorrei che mettessimo un punto fermo ai lavori di questa settimana.

Abbiamo finito quella che concordemente abbiamo chiamato la discussione preliminare, perché, senza entrare profondamente nel merito, ci siamo procurati una visione generale del testo costituzionale, quasi una visione dall’alto, ed essa ci serve, e ci servirà specialmente poi, nel momento in cui cominceremo ad occuparci dei vari particolari del progetto costituzionale.

Tutti dobbiamo chiederci in questo momento se essa non ci abbia posto dinanzi alcuni problemi concreti, da risolvere immediatamente, in via preliminare. Il primo di essi è quello che due nostri colleghi hanno posto, presentando due ordini del giorno, come conseguenza o premessa dei loro interventi in questa discussione. Si tratta degli ordini del giorno degli onorevoli Lucifero e Calamandrei, in ordine alla questione del preambolo.

L’onorevole Lucifero ha proposto il seguente ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente ritiene che il testo della Costituzione debba esser preceduto da un preambolo, del seguente tenore:

«Il popolo italiano, invocando l’assistenza di Dio, nel libero esercizio della propria sovranità, si è data la presente legge fondamentale, mediante la quale si costituisce e si ordina in Stato.

«La legge costituzionale dichiara con valore normativo assoluto i diritti inalienabili ed imprescrittibili della persona umana, come presupposto e limite legale permanente all’esercizio di ogni pubblico potere; stabilisce i poteri e gli organi della sovranità; determina i modi e le forme necessarie al sorgere di una volontà legale dello Stato.

«Il popolo italiano, consapevole che ogni associazione umana si realizza nell’esercizio della cooperazione e della solidarietà, intende che l’opera dello Stato sia diretta – nelle forme e nei limiti della presente Costituzione – a rendere possibili ed attive l’una e l’altra, per la sempre più felice e giusta convivenza civile».

A sua volta l’onorevole Calamandrei ha proposto questo ordine del giorno:

«L’Assemblea Costituente si dichiara convinta che nel testo della Costituzione, come suprema legge della Repubblica, debbano trovare posto non definizioni e proclamazioni di idealità etico-sociali, ma soltanto norme giuridiche aventi efficacia pratica, che siano fondamento immediato di poteri e di organi, e garanzia di diritti concretamente sanzionati; ed altresì norme che, se pure non riconoscono oggi diritti già perfetti e maturi, si prestano, per la loro concretezza e precisione, a dar vita nell’avvenire a veri diritti sanzionati con leggi, impegnando in tal senso il legislatore futuro;

«ritiene invece che, per ogni altra enunciazione generale di finalità etico-sociali, di cui si creda opportuno far cenno nella Costituzione, esigenze di chiarezza e di tecnica impongano di non confonderle con le vere norme giuridiche e di riservarle ad un sobrio e sintetico preambolo; e rimanda alla discussione degli articoli lo stabilire caso per caso quali di essi debbano essere trasferiti nella parte preliminare».

Penso che l’ordine del giorno Calamandrei, in quanto di portata più ampia, debba avere la precedenza nella votazione.

Ha chiesto di parlare l’onorevole Presidente della Commissione per la Costituzione. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Ho già accennato nel mio discorso a quelle che sono state le linee adottate dal Comitato di redazione. Noi riteniamo che sia opportuna una sospensiva alla proposta dell’onorevole Calamandrei. Dichiariamo subito che l’idea di un preambolo, nella sua forma storica, dichiarativa, è accolta da tutti noi. Non possiamo accettare senz’altro la formula, sia pure elegante, dell’onorevole Lucifero, perché il preambolo andrà molto meditato.

Per quanto riguarda la proposta contenuta nell’ordine del giorno dell’onorevole Calamandrei, di trasferire determinate formule nel preambolo, chiediamo una sospensiva, perché riteniamo opportuno che si decida se ciò convenga, quando avremo esaminato, non dico l’insieme della Costituzione, ma almeno la prima parte che riguarda i diritti e i doveri dei cittadini.

PRESIDENTE. Onorevole Calamandrei, dopo le dichiarazioni dell’onorevole Ruini desidererei che lei mi dicesse se mantiene l’ordine del giorno, chiedendone la votazione immediata, oppure se aderisce alla proposta di sospensiva.

CALAMANDREI, Aderisco, perché il preambolo è una specie di prefazione (Commenti) e tutti sanno che è bene che la prefazione sia la più breve possibile. È quindi opportuno precisare il contenuto di questo preambolo nel corso della discussione.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Lucifero. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Sono perfettamente d’accordo sul fatto che il testo definitivo del preambolo non si possa redigere che alla fine; soltanto mi è sembrato di non vedere una concordanza precisa fra quello che ha detto l’onorevole Ruini e quello che ha detto l’onorevole Calamandrei. Qui se ho ben compreso, l’onorevole Ruini pensa di rimandare a dopo la discussione, almeno della prima parte della Costituzione, la decisione se vi debba o no essere un preambolo; mentre l’onorevole Calamandrei penserebbe che si decidesse oggi che un preambolo vi sarà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Credo di essermi spiegato abbastanza chiaramente.

PRESIDENTE; Mi pare che l’onorevole Calamandrei abbia compreso ciò che ha detto l’onorevole Ruini e, poiché l’onorevole Calamandrei ha aderito alla sospensiva proposta dall’onorevole Ruini, ritengo che sia ora soltanto da vedere se altri colleghi desiderano fare delle proposte.

D’ARAGONA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Chiedo se l’approvazione della sospensiva significhi che si lascia impregiudicata la questione di avere o non avere il preambolo, o significhi l’accettazione generica di fare il preambolo.

PRESIDENTE. La sospensiva significa che la questione non è pregiudicata in nessun senso.

Perché non vi sia nessun dubbio e non possa eventualmente essere interpretata diversamente la nostra decisione in prosieguo di discussione, porrò in votazione la proposta dell’onorevole Ruini, accettata dall’onorevole Calamandrei, di sospendere ogni decisione sulla questione del preambolo.

L’onorevole Ruini nelle sue spiegazioni ha fatto ben comprendere che, venuto il momento, la Commissione non si opporrà, anzi concorderà nell’opportunità di avere il preambolo. (Commenti). L’onorevole Ruini, per la Commissione, può evidentemente avere questa opinione. Chi non è d’accordo, quando si metterà in votazione la proposta, voterà contro; ma in questo momento io non interpreto l’opinione dell’Assemblea, sibbene quella dell’onorevole Ruini.

Pongo pertanto in votazione la proposta di sospensiva sull’ordine del giorno Calamandrei.

approvata).

(La seduta, sospesa alle 17,45, è ripresa alle 18,10).

PRESIDENTE. Riprendiamo il nostro esame dei problemi che dobbiamo affrontare. Si è conclusa la discussione generale sul progetto di Costituzione e si sono accennate le linee di orientamento che si dovranno seguire. Prima di passare all’esame del contenuto concreto della Costituzione, bisognerebbe procedere ad una discussione generale su ogni titolo.

La parte prima del progetto è però preceduta dalle disposizioni generali che comprendono sette articoli non legati fra loro da un nesso organico e sistematico.

Ora, se cominciassimo una discussione generale su queste disposizioni generali, molto probabilmente essa non avrebbe quella unicità e quella organicità che invece noi desideriamo che abbia, appunto perché gli iscritti a parlare si soffermeranno sull’uno o sull’altro degli articoli, determinando una certa confusione di concetti.

Penso, quindi, che sia opportuno procedere alla discussione delle disposizioni generali in modo che gli oratori trattino le materie più affini contenute nei sette articoli.

Per questo ho pregato gli onorevoli colleghi che si sono iscritti a parlare di volermi indicare su quale articolo e su quale tema si sarebbero soffermati. Se questo criterio fosse accolto, si potrebbe dividere la materia in due gruppi. Il primo comprenderebbe l’articolo 1, che definisce la Repubblica; l’articolo 6, che afferma la tutela di principî inviolabili relativi alla persona, alla giustizia fra gli uomini; l’articolo 7 che afferma l’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.

Il secondo gruppo comprenderebbe gli articoli 3, 4 e 5, che sono stati trattati in forma coordinata in seno alla prima Sottocommissione e che alcuni colleghi mi hanno fatto presente che sarebbe opportuno tener uniti anche in questa discussione. Personalmente, credo che l’articolo 4 potrebbe stare a sé, e di fatti alcuni colleghi iscrivendosi a parlare hanno indicato come tema di trattazione appunto l’articolo 4; tuttavia penso che si possa accogliere l’invito che mi è stato rivolto.

Resta l’articolo 2 relativo alla bandiera che, senza dubbio, fa parte a sé e sul quale sono stati presentati emendamenti, ma che forse non formerà oggetto di larga discussione.

Mi sembra evidente che anche in questo raggruppamento di articoli vale il criterio di larga comprensione che abbiamo già accettato per la discussione generale, in cui talvolta problemi specifici sono stati profondamente trattati.

È chiaro che, dopo la discussione del tema generale che lega i gruppi di articoli, si passerà all’esame di ogni singolo articolo, e in quel momento saranno presi in considerazione gli emendamenti.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Vorrei osservare che, seguendosi questo schema di discussione, chi fosse iscritto a parlare sull’articolo 1 e sugli articoli 5 e 7 sarebbe obbligato a parlare due volte.

PRESIDENTE, In linea generale credo che dalle indicazioni che mi hanno fornito i colleghi per il raggruppamento di questa materia è molto probabile che non vi sarà una contrapposizione nello svolgimento naturale dei lavori. Ad ogni modo, questa mia indicazione può servire, al pari delle altre, come un orientamento nella discussione. Qui ritorna la nota molte volte dibattuta circa la iscrizione dei vari oratori in queste discussioni di carattere particolare. È un’iscrizione, direi, ordinata tra amici nell’interno d’una corrente politica e la distribuzione dei temi può, entro certi limiti, anche adeguarsi a questa particolare indicazione, salvo che, come spesso avviene, qualcuno abbia qualche cosa propria da dire su quel particolare problema al quale si è più particolarmente dedicato.

CRISPO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Il mio rilievo tendeva a realizzare l’economia della discussione. Per esempio, io mi sono iscritto a parlare sugli articoli 1, 4 e 5. Ora, secondo quella disposizione, sarei obbligato a parlare due volte, e ciò non conferisce né all’economia né alla organicità della discussione.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà:

RUSSO PEREZ. Il mio pensiero collima con quello dell’onorevole Crispo. Chiedo, cioè, che si ritorni al primitivo concetto di discutere su tutti i 7 articoli considerati nel loro complesso.

PRESIDENTE. Sta bene. Vuol dire che le considerazioni che ho fatto possono essere di ausilio per dare spontaneamente un certo ordine e una certa gradualità alla discussione.

Mi viene chiesto se non si ritenga opportuno di limitare, se non le iscrizioni, per lo meno la durata degli interventi nella discussione; ma penso che non sia il caso di prendere ora una decisione, che potrà, qualora apparisse necessaria, essere prospettata nel corso della discussione.

Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 15.

La seduta termina alle 18.25.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

La Pira                                                                                                              

Togliatti                                                                                                          

Croce                                                                                                                

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana precedente.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole La Pira. Ne ha facoltà.

LA PIRA. Onorevoli colleghi, io vi chiederò di meditare con me intorno ai problemi fondamentali che concernono la costruzione del nuovo edificio costituzionale, perché vorrei quasi dire che non parlo qui – se mi si permette – come uomo di parte, ma come studioso, come storico, il quale cerca, nell’interesse del proprio Paese e nell’interesse della civiltà cristiana e umana, le linee costruttive e solide di un edificio costituzionale che sia capace di superare l’attuale crisi costituzionale.

Vi dirò quale è stato l’itinerario mentale che ho seguito nella impostazione di questo problema costruttivo. Io mi sono detto: l’attuale crisi costituzionale non è senza una essenziale relazione con l’attuale crisi storica; crisi che investe tutti i rapporti umani, sia teoretici che sociali. Perciò, se vogliamo veramente ritrovare la linea solida di questa nuova architettura costituzionale, sarà necessario impostare, nella prospettiva della crisi che travaglia la civiltà contemporanea, l’attuale crisi costituzionale. Da qui i seguenti problemi:

1°) constatare l’esistenza di una crisi di ampio respiro, che involge tutti gli ordini teoretici e pratici della vita;

2°) definire esattamente – perché siamo un po’ architetti e quindi abbiamo bisogno di misurare i concetti, vorrei dire anche le parole – in che cosa consista una crisi costituzionale;

3°) vedere perché sono caduti in crisi alcuni tipi di Costituzioni precedenti;

4°) fare come l’architetto, il quale, quando ha fatto la diagnosi dell’edificio crollato, cerca di ricostruire, evitando le carenze dell’edificio che egli ha studiato.

Quindi sono questi i punti da meditare: la constatazione di una crisi vasta; la definizione del concetto di crisi costituzionale; il perché dell’intrinseca debolezza dei tipi caduti; come è stato costruito, secondo quale architettonica il nuovo edificio costituzionale; e finalmente se e in che misura il progetto presentato alla nostra meditazione risponde a questo tipo di Costituzione che dovrebbe aver salde fondamenta, sicuri muri maestri ed una vôlta ben costrutta, proporzionata ai muri e proporzionata alla base.

Questa è l’impostazione del mio tema che, rapidamente, come mi sarà possibile, cercherò di svolgere.

E comincio dal primo punto, cioè la constatazione di questa crisi vasta, la quale commuove, inquieta, la civiltà contemporanea. Faccio questa constatazione come l’architetto che vuol esser sicuro delle leggi costruttive, quindi in funzione della crisi costituzionale.

Ora io non devo, per constatare questa crisi, che aprire, per dir così, la geografia costituzionale del nostro tempo. Tutta la prassi e tutta la letteratura di diritto costituzionale che è fiorita in questi ultimi tempi ci indicano inequivocabilmente che una crisi costituzionale, legata ad una crisi più vasta che concerne lo spirito e la struttura di tutto il corpo sociale, esiste.

Non solo; ma se io interrogo la letteratura non più costituzionale, ma la letteratura più generica, la più attenta, quella sulla crisi in generale (mi riferisco qui non soltanto alle grandi correnti sociali sia di parte cattolica, sia di parte socialista, marxista e non marxista), dai libri di Spengler ai libri di Huitzinga, dal pensiero tedesco a quello francese ed italiano così vivo in quest’ultimo tempo, vedo che essi denunziano l’esistenza di questa crisi. Fra l’altro abbiamo qui presente il nostro illustre Benedetto Croce, e quindi potrei riferirmi anche a quel prezioso scritto – anche se in alcuni punti discutibile dal punto di vista cristiano – nel quale si afferma che esistono alcune acquisizioni di civiltà per cui gli uomini non potranno mai più non essere cristiani; vale a dire l’esistenza, nelle strutture sociali, di alcuni principî che sono ormai diventati connaturati all’umana natura e al corpo sociale.

La conclusione è questa: se esploro questo panorama storico, sia in relazione alla letteratura del diritto costituzionale, sia in relazione alle Costituzioni sorte nel primo dopoguerra e in quest’altro dopoguerra, e se poi mi riferisco a queste più vaste correnti di pensiero sociale cattolico e non cattolico di critica del mondo presente, di letteratura della crisi, la conclusione a cui si perviene è questa: esiste un commovimento sociale, che va alla ricerca di nuove formule giuridiche, nelle quali è necessario inquadrare, incanalare, incastonare – non so come dire – questa realtà in movimento.

Passo dopo questa sommaria valutazione – si capisce come è possibile – al secondo punto, cioè al punto più specifico. E mi domando: ma che cosa intendiamo esattamente per crisi costituzionale in questo sfondo generale della crisi? Vi do la risposta; potrei sbagliare. Io sono un osservatore e la risposta la desumo dai fatti, perché io osservo che dagli uomini, dagli studiosi, dai politici la stessa realtà, come da me, è stata osservata. Ora, quando io osservo una Costituzione e mi domando che cos’è, la risposta, se medito a fondo, è questa: è – come diceva Taine, in un libro che veramente mi ha colpito ed interessato – la veste giuridica del corpo sociale. La Costituzione è la maschera giuridica che si mette su questo corpo della società. Perché essa, infatti, che cosa concerne? Concerne tutti i rapporti sociali dal punto di vista del diritto; è il diritto che, come dicono i giuristi, giuridicizza questi rapporti sociali, crea la maschera del diritto, sia nella prima parte, quando definisce i rapporti dei singoli con lo Stato, ed i rapporti dei singoli fra di loro, sia nella seconda parte, quando, mediante la struttura dello Stato, esso dispone in modo che questi diritti abbiano la tutela ed abbiano le garanzie.

Pertanto, quando una Costituzione non è in crisi? È evidente: quando c’è proporzione fra l’assetto giuridico e l’assetto sociale ed umano. Vorrei qui richiamare quella lapidaria definizione di Dante, secondo cui il diritto è realis et personalis hominis ad hominem proportio.

Se voi avete un edificio costituzionale, cioè un assetto giuridico della società, che è proporzionato al corpo sociale, che è proporzionato ai rapporti umani, quella Costituzione è esatta. Ma se voi avete un assetto giuridico, una Costituzione, la quale è sproporzionata al corpo sociale, alla realtà sociale e quindi alla realtà umana, quella è una Costituzione in crisi.

A documento di queste dichiarazioni, potrei portare una serie di prove storiche e letterarie; ma voglio fare soltanto due esempi storici che mi paiono molto importanti; quello ricavato dalla Costituzione del 1789 e quello ricavato dalla Costituzione contrapposta, che è la Costituzione sovietica. E mi domando, e domando a voi: cosa fece l’Assemblea Costituente del 1789? I membri della Costituente fecero una cosa anzitutto: affermarono, bene o male – ma questa è un’altra questione – che la precedente Costituzione era in crisi, perché c’era una sproporzione fra la struttura del corpo sociale e i rapporti umani e l’assetto giuridico. Ed essendo in crisi la precedente, ne elaborarono un’altra, la quale avrebbe dovuto avere tali elementi strutturali da essere non più una Costituzione in crisi, ma una Costituzione solida per la sua intima solidità strutturale.

Secondo Taine, questo è provato: e, del resto, basta leggere tutti gli altri autori relativi al 1789, per vedere come i membri dell’Assemblea Costituente avevano in tasca il libro di Rousseau, e lo meditavano, per costruire sotto l’ispirazione di quel libro l’edificio della nuova Costituzione.

Vediamo la Costituzione contrapposta, che è quella sovietica. È lo stesso. Quando gli elaboratori della Costituzione sovietica hanno costruito il loro edificio costituzionale, cosa hanno fatto? Hanno detto: «C’è una crisi costituzionale, perché non c’è rispondenza fra la struttura giuridica e la struttura sociale: bisogna edificare una Costituzione che non sia in crisi e che abbia una solidità intrinseca». Quindi storicamente, dottrinalmente è osservabile che questo concetto è esatto. Una crisi costituzionale è appunto una sproporzione fra l’assetto giuridico e l’assetto sociale, e quindi tra i rapporti di diritto positivo e i rapporti, diciamo così, di diritto umano, di diritto naturale (se mi permettete questa espressione che è così significativa).

Ora vengo al problema. Tralascio varie cose, perché evidentemente bisogna far presto, anche per non perdere la prospettiva dell’insieme, e vengo ad una precisazione ulteriore di questo concetto di crisi costituzionale: è una sproporzione, siamo d’accordo. Perché? Vediamo quali sono gli elementi strutturali di una Costituzione, quegli elementi che ne definiscono il tipo, per cui si dice: «Quella Costituzione ha questa architettura, ed è in crisi, perché i suoi elementi architettonici a), b), c), sono sbagliati, sono sproporzionati».

E quali sono questi elementi strutturali di una Costituzione? Anche qui ho meditato, ho letto e poi, dopo, sono venuto a questa conclusione, che non è soltanto mia – sono i fatti che mi danno la prova, e le documentazioni storiche – cioè che ogni Costituzione ha tre elementi strutturali, indissociabili l’uno dall’altro, i quali – ora vedremo quali sono – si possono raffigurare per analogia – il pensiero si poggia con facilità sull’immagine – ad un edificio; il quale consta di una base, consta del corpo (dei muri maestri) e finalmente di una vôlta, che corona la base e il muro. Ebbene, questi tre elementi strutturali di ogni edificio io li ritrovo in ogni Costituzione; e la crisi di una Costituzione consiste, come vedremo, nel fatto che la sproporzione intacca il primo, il secondo e il terzo elemento, che sono: la base teoretica, la concezione sociale, l’assetto giuridico. Cominciamo dal vertice, e vi dico subito perché comincio dal vertice. Perché su questo vertice saremo tutti d’accordo: è l’assetto giuridico, il diritto positivo, e su questo non c’è discussione. Le due parti di una Costituzione ci offrono questo vertice giuridico; ma sotto questo vertice, sotto questa vôlta, c’è quel famoso corpo sociale, quei muri maestri a cui la vôlta – assetto giuridico – si riferisce. Forse su questo punto ci può essere qualche dissenso, ma vedremo; io faccio dell’anatomia costituzionale.

Terzo, la base: è teoretica, vale a dire la base porta ineliminabilmente una concezione teoretica dell’uomo, della natura dell’uomo e di conseguenza della natura e struttura del corpo sociale.

Quindi abbiamo i tre elementi: la base teoretica, il corpo sociale e l’assetto giuridico, e vi prego di darmi cinque minuti di riflessione sul primo punto, cioè la base, perché qualcuno potrebbe dirmi: ma qui siamo in sede costituzionale e voi introducete un principio metacostituzionale, metagiuridico, teoretico, ideologico. Io vi dico che è ineliminabile, perché il pensiero teoretico è direttivo del pensiero pratico, la idea dirige l’azione; io posso fingere di disancorare l’azione dall’idea, ma nella realtà è così.

Ora io qui richiamo proprio un esempio costituzionale. I due esempî costituzionali che ho portato contrapposti sono: la Costituzione del 1789 e la Costituzione sovietica: si capisce, noi riconosciamo a priori l’apporto prezioso, che l’una e l’altra hanno dato per la conquista della civiltà umana; ma altro è riconoscere gli apporti che in un sistema io trovo, perché prodotti dagli uomini, e quindi in ultima analisi capaci di frutti buoni, altro è se il sistema è intrinsecamente viziato.

Ora, quando vedo la Costituzione del 1789 e ne analizzo la base teoretica, trovo che nei membri dell’Assemblea Costituente c’era un’idea direttiva tratta dal libro di Gian Giacomo Rousseau Il Contratto sociale: questo libro fu il catechismo, la base sulla quale la Costituzione del 1789 fu edificata.

E così, se faccio riferimento alla Costituzione sovietica, trovo che anch’essa inevitabilmente ha alla base questa struttura teoretica, la quale consiste in una determinata concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con la società e lo Stato.

Ora che cosa dobbiamo fare?

Se questo è vero, se cioè è vero che ogni tipo costituzionale presenta questi tre elementi: la base teoretica, il corpo sociale e la volta giuridica, dobbiamo vedere perché in Italia si è avuta una crisi costituzionale, la quale concerne due tipi di Costituzione: una Costituzione è stata, se non scritta, tuttavia elaborata nelle sue parti essenziali dal regime fascista ed una Costituzione anteriore è quella di tipo individualista, derivata dal 1789.

Perché questi due tipi di Costituzione sono crollati e si esige un tipo nuovo di Costituzione?

Cominciamo dalla Costituzione di tipo, chiamiamolo così, hegeliano, statalista. Ora alla base di questa Costituzione, trovo una certa concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con la società e con lo Stato. Io trovo quella famosa proposizione hegeliana che ha una immensa importanza costituzionale e che dice così: «La persona umana non ha una anteriorità rispetto alla società e allo Stato, ma è elemento sostanzialmente unito al corpo sociale e più esattamente allo Stato». Lo Stato è una unità sostanziale e non una unità di relazione, distinzione d’importanza giuridica immensa.

Se è vera questa tesi, è vero il famoso adagio: tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato. Ma la conseguenza è questa: che dal punto di vista giuridico è inconcepibile l’esistenza di un diritto anteriore al diritto statuale, di un diritto naturale, chiamatelo come volete. Non esistono nella persona umana diritti che lo Stato sia soltanto chiamato a riconoscere e a proteggere e non anche a creare. Una concezione così fatta della persona, della società e dello Stato ha come sue ineluttabili conseguenze l’eliminazione in radice della libertà umana e della personalità umana e quindi la cancellazione dei diritti naturali dell’uomo. E, badate: il diritto positivo tedesco fu di una coerenza estrema, anche prima di Hitler, quando affermò che, siccome non esistono diritti naturali, ma soltanto un diritto positivo, i diritti dell’uomo sono delle concessioni statali che lo Stato può come dare, così, in qualunque momento, per i suoi fini, ritirare.

Dopo la base teoretica, la struttura sociale. Guardate che cosa sono, nella concezione hegeliana, che qui domina, gli enti sociali. Il problema è sempre giuridico, non è metafisico. Cosa sono gli enti sociali che non sono ancora lo Stato? Organi dello Stato. Come la persona non ha una finalità propria e quindi una propria libertà, così non hanno una finalità propria e una propria libertà, e quindi un proprio statuto giuridico, tutti gli enti che non sono ancora lo Stato, ma che sono organi dello Stato: quindi privi tanto di valore originario, quanto di diritto originario.

Ed ora la vôlta giuridica: basta richiamarci a tutta la struttura, sia economica, che politica, che culturale, che religiosa dello Stato concepito alla maniera fascista, cioè alla maniera hegeliana, per vedere come lo Stato è questo assoluto (diceva Hegel: Dio in terra), questo onnipotente, unico creatore del diritto; e quanto ai singoli, e quanto alle comunità, che i singoli creano, più non hanno una spontaneità propria. Hanno invece una derivazione: sono organi di questo unico organismo che è l’organismo statale.

Io vi dico: questa Costituzione è crollata; è crollata perché diceva Vico quella famosa frase, tanto bella che bisognerebbe scriverla sul frontone di tutte le assemblee politiche, culturali ed umane: «Le cose fuori dal loro stato di natura né vi si adagiano, né vi durano». Mi pare che queste siano delle verità.

Ora perché questo crollo? Perché c’è sproporzione fra la reale natura umana, la reale struttura del corpo sociale e la vôlta giuridica. C’è sproporzione e una Costituzione è in crisi perché ha errate le fondamenta ed i muri maestri. Ed allora voi dite: ritorniamo alla Costituzione del 1789; ed io vi rispondo: no, anch’essa è in crisi per ragioni inverse, ma che intaccano la base teoretica e i muri maestri e che intaccano l’assetto giuridico.

Ma dove sta questa crisi? Sta in questo: voi non potete negare quanto poc’anzi vi dicevo: se leggiamo i libri riguardanti la Rivoluzione francese (e mi è sempre piaciuto il Taine perché ha una profonda analisi storica e una grande vivacità di espressione), vi si dimostra che la Costituzione del 1789 è la trascrizione giuridica delle teorie di Rousseau. E qual è questo teorema di Rousseau? Qual è questo teorema, di cui appunto il Rousseau parla come del suo problema centrale, cioè del contratto sociale?

Egli dice: gli uomini non sono sociali (proposizione giuridica e politica, questa, di importanza immensa, da cui è derivata una quantità di gravi sproporzioni nel campo economico e politico); gli uomini, dunque, egli dice, non sono sociali. E questo è il primo punto.

Secondo punto: i rapporti fra gli uomini e lo Stato si definiscono così: «nello Stato gli uomini sono liberi nella misura in cui essi si assoggettano spontaneamente alla legge».

Fanno cioè il contratto, volenti o nolenti, perché Robinson Crosuè non esiste. Quindi, l’esigenza della libertà politica è l’unica esigenza sentita dal pensiero di Rousseau; e l’unico problema che fu risolto dalla Costituzione dal 1789 è questo: l’affermazione delle libertà politiche; il che significa partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, alla formazione della legge. Ma, guardate, l’errore sta alla base: gli uomini non sono sociali, quindi si accordano soltanto mediante contratto.

Le conseguenze? Scusate, dove sono tutti gli altri enti – perché gli uomini, che invece sono sociali (homo animai politicum), per le esigenze di sviluppo della loro personalità formano tali enti – dove è la famiglia? Dov’è la comunità religiosa? Esiste, perché la concretezza storica è quella che è. Ma dove sono le organizzazioni di classi, le comunità di lavoro, che pure esistono? Insomma, tutto questo mondo organico, in cui si articola il corpo sociale, nella concezione roussoviana è sparito, tanto è vero che la prima preoccupazione che voi trovate nelle dichiarazioni del 1789 e del 1791 è questa: scioglimento di tutte le corporazioni, non solo di quelle economiche nel senso medievale, ma di tutti gli organismi culturali, religiosi, ecc. E perché? Perché nella mente di Rousseau ed in quella dei costituenti del 1789 esistevano 20 milioni di francesi atomisticamente considerati, i quali formavano la comunità statuale.

Le conseguenze sono terrificanti, perché il giorno in cui voi disarticolate tutte queste società e lasciate una unica società, che è quella politica statuale, avete il crollo della vita associata: da qui la formazione del proletariato, la genesi della questione operaia; i problemi grandissimi di struttura economica hanno qui la loro radice, nella distruzione di questa articolazione del corpo sociale.

Tuttavia vi è qualche cosa di fruttuoso nella Costituzione del 1789, e cioè l’affermazione vigorosa dei diritti dell’uomo: ma è un’affermazione incompleta; è una carta monca, perché, quando avete affermato che l’uomo ha la libertà politica, cioè il diritto di partecipare, in piede di eguaglianza, al governo della cosa pubblica, ma non avete riconosciuti i diritti che sono connaturali con le altre comunità di cui egli fa parte, avete affermato un diritto incompleto. Avete la situazione drammatica che si creò dopo il 1789 e da cui è derivata la inquietudine di questo mondo in contrasto, che è il mondo contemporaneo.

La causa giuridica e politica, oltre che nel problema della borghesia, va proprio ricercata in questo sottile problema di architettonica costituzionale, che sembrerebbe un problema di natura metafisica, ma che è un problema di squisita natura politica, giuridica, economica, sociale, e quindi è un problema che profondamente ci interessa.

La conclusione è questa. Se io analizzo con l’occhio del giurista, ma del giurista completo, che vuole avere la visione integrale della realtà, la Costituzione del 1789, io la trovo in crisi; la stessa crisi, per diversi motivi, per contrapposti motivi, che trovo nella Costituzione statalista elaborata dal pensiero hegeliano e che si tentò di tradurre in Italia e in Germania; La crisi esiste.

Veniamo quindi al concetto da cui siamo partiti. Ho detto: dobbiamo vedere due cose. Primo: la prospettiva generale della crisi di questo mondo e di questa civiltà (che è una crisi documentabilissima). Secondo: la crisi costituzionale in funzione di questa prospettiva. Terzo: in che cosa consiste una sproporzione tra l’assetto giuridico e la realtà sociale. Cos’è questa sproporzione? Tre sono gli elementi indissociabili di ogni Costituzione: la base teoretica, che vi dice quale è la natura umana e come essa si rapporta con la società e con lo Stato; la struttura sociale, che vi dice che cosa sono, che natura hanno, che struttura hanno gli enti in cui si articola il corpo sociale e, finalmente, l’assetto giuridico. Quando questi tre punti, questi tre elementi sono invalidati da un errore – metafisico, metagiuridico, chiamatelo come volete – tutta la Costituzione ne risente, come dice quella famosa parabola del Vangelo:

«Se costruisco sulla sabbia, la casa, per quanto solida, crolla; se costruisco sulla pietra, la casa, per quanto non solida, riesce a superare le intemperie e le tempeste».

Non mi dilungherò molto; abbiate pazienza altri quindici minuti. (Commenti). Qui sorge il problema. Del resto, noi siamo qui – per riprendere una frase del vecchio Aristotile, pensatore immenso, che diceva: il costituente è un architetto – volenti o nolenti, siamo qui tutti degli architetti; siamo quindi responsabili come gli ingegneri. Se costruiamo una casa sbagliata, domani può essere intentata un’azione di indennizzo contro di noi. Saremo, allora in paradiso; sarà, insomma, quello che sarà. (Si ride).

Allora, dicevo: cerchiamo questo tipo nuovo che evita le carenze dei due tipi in crisi. Se è vera la tesi che il primo ed il secondo tipo sono sbagliati, evidentemente dobbiamo cercarne un altro. Ma come lo cercheremo, con quale criterio? Con un criterio semplice: la proporzione. Bisogna che l’assetto giuridico sia proporzionato a quello sociale e quello sociale abbia una base teoretica salda. Ora, vedete, non c’è dubbio che in questi ultimi 10 anni, l’esperienza fascista, con tutte le sue tragiche cose, ha avuto come contrapposto un risultato, ed è questo: io mi ricordo che tutti noi, gran parte di noi, quando si resisteva al fascismo sul terreno teorico, si resisteva sulla trincea della persona umana; ma non della persona umana considerata soltanto in astratto, come una questione di natura puramente celestiale ed eterea, ma come la pietra angolare dell’edificio politico; perché si diceva: noi non siamo individualisti, noi non siamo del mondo passato, noi crediamo – perché siamo osservatori, storici, studiosi, politici – che l’attuale mondo, sorto dar 1789 è un mondo che crolla, è una civiltà che si trasforma, che si integra, se volete; quindi la nostra posizione critica – tanto più poi da parte dei cattolici e delle correnti socialiste – era molto evidente. C’era questa critica di principio al mondo precedente.

Ma che cosa è questa persona umana, come si costruisce per poter essere il sostegno, la pietra angolare del nuovo edificio costituzionale? Vi dico subito che mi richiamerò ora alla concezione detta dai francesi, con parola molto efficace, la concezione pluralista; essa è legata essenzialmente alla concezione della persona umana. Avremo, dunque, una base teoretica – quella della persona umana – una struttura sociale pluralista e finalmente un assetto giuridico che è conforme a questo pluralismo sociale.

Base teoretica: la persona umana. Sentite: io, per la verità, amo immensamente San Tommaso d’Aquino, non solo perché è un santo, ma perché è un pensatore di proporzioni gigantesche e di una novità perenne. Tutte le verità sono sempre nuove. Ora, quando egli dice che la persona umana è quod est perfectissimum in tota natura, indica subito una gerarchia di valori secondo la quale la persona umana è costruita; una gerarchia di valori che ha una ripercussione immensa su tutto l’edificio economico, politico e sociale della società. E che cosa è questa gerarchia di valori che costituisce la persona umana? Ecco, vi dico subito: questa gerarchia parte dal piano, come si dice, vegetativo, dalla base economica e terrestre – piede a terra – e salendo a gradi arriva fino all’unione con Dio. Quindi, una concezione del valore trascendente ed interiore della persona umana. Badate che non ci ingolfiamo qui in una questione metafisica, per questa ragione: perché, se voi non concepite la persona umana come valore trascendente rispetto al corpo sociale, voi avete la conseguenza dello statalismo; perché i casi sono due: o la persona ha questo valore di interiorità rispetto al corpo sociale, ed allora essa ha uno statuto giuridico che è anteriore ad ogni costruzione statale; o non lo ha, ed allora essa è radicalmente subordinata al principio statale, membro sostanziale, come diceva Hegel, del corpo statale. Non si esce da questo dilemma: o voi accettate questa concezione del valore trascendente, e potete ancorare i diritti naturali e imprescrittibili della persona umana; o voi non accettate tale concezione, ed allora siete ineluttabilmente condotti alla concezione dei diritti riflessi. Questo il primo punto.

Secondo punto, che è importantissimo e lo integra: questa persona umana, che ha questa gerarchia di valori che si appunta in Dio, non è isolata; è in relazione reale, come dicevano gli scolastici – in relazione reale, non volontaria soltanto – con gli altri e si articola organicamente; si sviluppa, cioè, organicamente in una serie ordinata e crescente di entità sociali che vanno dalla famiglia alla comunità religiosa, dagli organismi di classe alle comunità del lavoro e che si coordinano nello Stato. Badate, questo è molto, importante: lo Stato non è tutta la società, ne è una delle forme sociali nelle quali si articola l’organismo sociale. C’è lo Stato, la società politica, ma c’è anche la società economica, c’è la società religiosa e familiare e così via. Lo Stato è l’assetto giuridico di tutta questa società, ma non l’assorbe: soltanto la dirige, la coordina, la integra e, dove è necessario, la sostituisce. Ma la funzione statale – in questa concezione – è rispettosa sia della realtà della persona, come creatura libera avente questo valore trascendente, sia della realtà di tutti questi enti, che questa creatura libera crea e che hanno perciò un loro originario statuto giuridico. Quindi una conseguenza di grandissimo valore: cioè, quella concezione statolatrica – che fu creata in gran parte dal diritto tedesco già prima del fascismo e del nazismo – che assume come principio il criterio della sovranità assoluta dello Stato e come diritto l’unico diritto statuale, è sbagliata; esiste una pluralità di ordini giuridici, che ieri sera ci ha ricamato il nostro illustre maestro, onorevole Orlando, una pluralità di ordinamenti. Tutte le correnti più vive del pensiero sociale contemporaneo, sia cattolico che socialista – la corrente che si inspira soprattutto al pensiero proudhoniano – partono da questa visione pluralistica del corpo sociale conforme alla persona umana. Mi ricordo una frase appunto di Proudhon che dice: «Tra l’individuo e lo Stato io vorrei costruire un mondo»; cioè una revisione integrale del diritto di proprietà, una revisione integrale della struttura economica e della struttura politica governata da questo principio, che è fondamentalmente rispettoso di questa espansione libera, ma coordinata, ma sorvegliata, della persona umana e degli enti nei quali essa si espande.

La conclusione è questa: se è vera la concezione della presente base teoretica che ho delineata, se è vera questa struttura pluralista del corpo sociale, la conseguenza è questa: l’assetto giuridico non può essere né individualista, né statalista; è un assetto giuridico conforme a questa visione, un assetto giuridico pluralista, che ha come conseguenza: che la Carta integrale dei diritti dell’uomo non è quella del 1789. Lì vi sono alcuni diritti dell’uomo, ma sono ignorati altri e fondamentali: i diritti sociali, cioè i diritti che sono collegati alla persona umana, non in quanto singolo, ma in quanto membro di queste collettività crescenti che vanno dalla famiglia allo Stato. Una Carta integrale dei diritti dell’uomo non può essere una carta dei diritti individuali, ma accanto ad essi deve porre questi diritti sociali, e quindi i diritti delle comunità e delle collettività di cui gli uomini fanno parte necessariamente per lo sviluppo della loro persona. Ecco, quindi, questa Carta costituzionale che vi appare come nuova, integrale, pluralista dei diritti.

Ora, se tutto questo è vero – e qui bisognerebbe fare dei saggi, come l’ingegnere saggia la resistenza dei materiali, ma evidentemente non è questa la sede – (ma è vero, perché questa è la realtà storica e posso riferirmi a tutta l’immensa letteratura costituzionale, politica, economica di questi ultimi tempi che dà la documentazione di questa tesi pluralista) – se questo, dunque, è vero, veniamo al nostro progetto costituzionale (Commenti). Faccio presto, faccio presto!

PRESIDENTE. Noi abbiamo ascoltato tanti discorsi, e non comprendo perché non dobbiamo ascoltare ora quello dell’onorevole La Pira.

LA PIRA. Poniamoci la domanda, perché così come siamo partiti, siamo tutti animati da buona volontà. Io ho visto nelle Commissioni, delle quali ho avuto l’onore di far parte, questa buona volontà di cercare i punti di contatto, i punti di passaggio, i punti di organizzazione. Vediamoli dunque con animo libero. Vediamo se nel nostro progetto c’è un’idea madre, una architettonica; anche se essa ha delle pecche, vi sono tuttavia delle pietre murate in conformità all’architettura. Dovrei riferirmi a tutte le osservazioni fatte dai vari oratori, a cominciare dal Calamandrei fino all’Orlando. Ma va benissimo: posso anche accedere alle critiche fatte. Però posso fare a mia volta questa domanda: volete criticare il modo come è stata messa la pietra in questa costruzione? Se è criticabile il fatto di aver messo una pietra in un certo tipo di costruzione, può darsi che questa pietra non sia criticabile se messa in un altro tipo. Si è detto per esempio: perché parlare, come si parla nell’articolo 5, dello Stato e della Chiesa, che si riconoscono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani? Perché parlare della famiglia definendola come società naturale? Perché parlare delle regioni, dei sindacati, delle comunità di lavoro, come risulta dagli articoli che tutti questi principî contengono? Si capisce che, se queste pietre le riferisco a un tipo di Costituzione di marca 1789, allora io considero soltanto i diritti individuali e l’uomo come membro dell’unica società statale. Ma se mi sposto e considero invece l’uomo come membro di una crescente moltitudine di organismi, allora mi sorge il problema per cui, se la Costituzione è un vestito, questo vestito deve essere adatto al corpo che deve andare a rivestire.

Vediamo quindi questo progetto rapidamente. Debbo dire, tra parentesi, che il tema di questo tipo nuovo di Costituzione fu largamente dibattuto nell’opinione pubblica francese. Molti notevolissimi movimenti puntarono sulla costituzione di questo tipo. Cominciamo proprio dall’articolo 6, che poi è, sotto un certo aspetto, l’articolo primo, perché è l’articolo primo del progetto della prima Sottocommissione, e leggiamolo sotto la luce di questo profilo. Che cosa dice? Per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e di dignità della persona e di umanità e di giustizia fra gli uomini, la Repubblica Italiana garantisce i diritti essenziali degli individui e delle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità.

Che cosa significa questo articolo? Vi prego di guardarlo nello sfondo di questo tipo pluralista di Costituzione: i diritti degli individui e delle formazioni sociali. Questo è l’articolo che governa l’architettonica di tutto l’edificio. Poi, se mi concedete questa visione pluralistica, subito vi domanderò: scusate, cosa viene immediatamente dopò la persona? Viene il primo, ente, il seminarium rei publicae: la famiglia. Concezione pluralistica: se la famiglia è un organismo naturale, allora è evidente che la Costituzione, veste del corpo sociale, deve parlare della famiglia. Quando infatti si dice organismo naturale, o società naturale, traducendo quel termine tecnico latino che è la societas naturalis, si vuole intendere un organismo di diritto naturale, si vuole affermare cioè che esiste una struttura fra i rapporti familiari, la quale è connaturata alla natura spirituale, libera, ma associata, dell’uomo.

La famiglia è quindi il primo organismo che ha un suo diritto, un suo statuto; e vedremo che lo Stato – quando giungeremo ad esso – deve fare una sola cosa: riconoscere questi diritti connaturati all’uomo e proteggerli. Sono diritti che rappresentano la costituzione della famiglia, perché rientrano in questa visione.

Passo poi all’articolo 5: la Chiesa. Non importa se siamo o non siamo credenti; è un problema subiettivo questo. Io guardo le cose dal punto di vista obiettivo e vi domando – osservate la storia umana; noi effettivamente non dobbiamo avere più quegli idola fori che erano caratteristici della mentalità illuministica; dobbiamo avere una visione storica, anche se non storicistica, delle cose – vi domando: «Esistono o no storicamente organismi nei quali, in concreto, gli uomini si associano religiosamente?». Esistono: è un fatto. Guardate in campagna; cosa vedete in un piccolo villaggio? C’è il campanile, la Chiesa, c’è il palazzo del comune; c’è la scuola, c’è la camera del lavoro, la casa del popolo; esistono tutte le varie forme di attività sociale. Esistono. Quindi una Costituzione pluralista, la quale è il vestito di questa realtà concreta, deve per forza tener conto di questa struttura sociale religiosa che è la Chiesa.

LUSSU. Le Chiese!

LA PIRA. Ho detto la Chiesa, per dire le Chiese.

CALOSSO. C’è il Cristianesimo, in questa Costituzione, non c’è l’Islam.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

LA PIRA. Vedete, dicevo, questa Costituzione deve per forza rispecchiare questa struttura associativa religiosa; ma siamo al solito punto: è frutto di libertà della personalità umana che si associa. Allora c’è uno statuto originario, un diritto originario; lo Stato non può che riconoscere; senza contare che, se poi volgiamo lo sguardo al panorama storico della Chiesa cattolica, questa originalità, questa struttura giuridica, indipendente, sovrana, internazionale, questa complessa struttura sociale è evidente. Ormai non esiste nessun giurista, nessun uomo di pensiero serio, che disconosca questa originarietà di ordinamento giuridico. Quindi, in conclusione, lo Stato e la Chiesa esistono; e se i due ordinamenti esistono come ordinamenti originari, è evidente che fra questi due ordinamenti, parimenti originari, i quali incorporano a diverso titolo la realtà umana, non può non esistere un rapporto; e questo rapporto, per definizione, è un rapporto bilaterale, è un rapporto concordato. Qui entriamo nella questione…

Io qui effettivamente non parlo come un cattolico; parlo obiettivamente, come lo storico, come il giurista, e dico: se abbandono la mentalità illuminista e mi trasferisco a questa mentalità storica, concreta e sociale, devo riconoscere che questa struttura esiste e debbo metterla, come la famiglia, nella Carta costituzionale.

E c’è la questione dei Patti lateranensi. Io ne parlerò pochissimi minuti. Badate, a proposito della struttura giuridica della Chiesa, io debbo richiamarmi ad una frase di De Victoria, che è veramente il fondatore del diritto internazionale. C’è poco da dire, è una cosa immensa. Ad un certo punto egli disegna la struttura giuridica della comunità internazionale, e la disegna, egli dice, ricalcando la struttura giuridica della Chiesa cattolica. Come la Chiesa cattolica fa del mondo una unica res publica religiosa, così esiste una res publica civile, che è la res publica Christianorum, che fa sì che totus mundus est quasi unica res publica, cioè tutto il mondo è coordinato come un’unica città. Ed io richiamo anche l’attenzione sugli articoli 3 e 4 del nostro progetto. L’articolo 3 dice: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», e l’articolo 4, con una maggiore audacia, dice, in sostanza, che la sovranità dello Stato va considerata nell’ambito della comunità internazionale.

Io vi chiedo: che cosa significa tutto questo? Significa che la nostra Costituzione intende ispirarsi alla concretezza dei rapporti di cui abbiamo parlato e riconosce che esiste una comunità internazionale – totus mundus est quasi unica res publica – e la rispecchia nel suo ordinamento e ne fa uno dei pilastri della Carta costituzionale.

La famiglia delle genti umane si modella sulla Chiesa cattolica. Io osservo i fatti. Poi, badate, devo fare un richiamo, perché a me la metafisica serve per indagare i problemi della politica e quindi quelli sociali.

RUSSO PEREZ. Ce ne siamo accorti.

LA PIRA. Penso a quanto dissero Hegel in ordine alla comunità internazionale e Kant e Rousseau prima di lui. Per Kant e per Rousseau, non essendoci il corpo sociale, non c’è un diritto internazionale anteriormente a quello statale e condizionante il diritto statale. E poi per Hegel la questione si pone in termini ancora più gravi, perché quando lo Stato è l’incarnazione totale della sovranità, è inconcepibile una comunità internazionale se non in termini dialettici, cioè di guerra. Del resto, ricordate quell’ultimo capitolo della filosofia del diritto? Un capitolo straordinario. Bastava pubblicarlo al tempo fascista per andare subito in prigione. Dice così: che cosa è la guerra? La guerra è, in parola elegante, la dialettica degli Stati perché, essendo lo Stato il valore assoluto e quindi sovrano, la sua vita non può manifestarsi che dialetticamente, cioè nel contrasto fra gli Stati. La pace è un armistizio; la guerra è, invece, lo stato normale, vitale e salutare delle nazioni.

Io non faccio una critica a questa concezione!

Ora, com’è che era venuta fuori questa concezione così inumana? È quella famosa visione metafisica; se voi vi riconducete alla visione pluralistica, avrete la comunità internazionale che precede lo Stato; se vi riconducete all’altra visione, avrete lo Stato assoluto il quale non è membro che provvisoriamente della comunità internazionale.

Quindi, passiamo oltre.

Visione pluralistica: vediamo le comunità territoriali o pluraliste: devono avere il vestito come il corpo. Io vi domando: c’è la famiglia? C’è la Chiesa? La comunità internazionale c’è? Esistono o non esistono le comunità territoriali che mediano il rapporto fra persona e Stato? Esistono. Date ad esse una sapiente, misurata autonomia: sarà il compito di questa Assemblea trovare questa misura.

Poi: sono un pluralista e vedo la realtà sociale. Vi domando: scusate, e il mondo del lavoro? Dov’è nelle Carte costituzionali del 1789 e seguenti, dov’è? Non esiste. Ma questo mondo del lavoro, cioè la società economica, esiste nella realtà umana, è fondamentale – nel senso tomista, «prius in tempore, non prius in dignitate» – quindi è la base. Com’è organizzato? Se amputate il corpo sociale, produrrete le conseguenze gravissime con la formazione del proletariato. Invece, queste organizzazioni esistono; se ne è visto il risultato. Cos’è il secolo passato dal punto di vista economico e strutturale del lavoro? Questo: è la formazione, la grande formazione della classe operaia; il movimento tradeunionista, la formazione dei sindacati, energica ricomposizione di questi arti che erano stati amputati, dimostrano che la realtà è quella che è, e che una Costituzione che sia veramente rispettosa della realtà non può prescindere da questi grandi ed essenziali organismi umani.

Quindi le organizzazioni di classe e quindi i sindacati, quindi la formazione delle grandi categorie di lavoro; non il corporativismo di Stato che è fallito per la ragione – si capisce – che veniva dall’alto, ma questa formazione che viene dal basso; la partecipazione attiva, democratica, di tutti quanti i lavoratori alla formazione dei loro organismi di classe e di lavoro.

Io avevo proposto un articolo, che poi fu bocciato, il quale diceva così: «Viene riconosciuto ad ogni lavoratore uno stato professionale che è fondamento di diritto». Perché non attribuire ai lavoratori una qualifica? Poiché la struttura sociale è pluralista, poiché la società economica si organizza con questi suoi congegni, perché non qualificare i lavoratori? Perché non dare un titolo di lavoro, fondamento di diritti, quasi proprietà di un titolo; una relazione tra i lavoratori e lo stato professionale al quale essi appartengono, e nel quale trova fondamento la loro vita economica, familiare, culturale e così via?

Ma questa è un’altra questione. Vi sono poi le comunità di lavoro: mi richiamo al 1789 e domando: ma scusate, quando la Costituzione del 1789 e le altre dicono che la proprietà è sacra ed inviolabile – io posso anche accettare questa definizione nel senso che essa, la proprietà privata, è un riflesso della mia personalità e quindi una garanzia della mia libertà – dove è il rapporto fra la proprietà e le comunità di lavoro? Intendiamoci bene: quando vedete gli uomini associati nel fatto produttivo, voi che cosa vedete? Vedete una convergenza di sforzi verso il bene comune, vedete diversità di funzioni; non una struttura meccanica, ma, come si dice, una struttura finalistica.

Da ciò una visione finalizzata della proprietà e dell’impresa.

C’è un libro molto importante del Renard, il quale dice così: l’impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest’unica comunità che trascende l’interesse dei singoli; quindi gli strumenti di produzione si proporzionano a questa concezione: e allora avete una concezione della proprietà, che pur essendo presidio della libertà umana, tuttavia diventa strumento di questa opera collettiva, quindi dà una dignità al lavoratore, che non è più un salariato, ma, come le Encicliche pontificie ricordano, deve tendere a diventare il consociato, il compartecipe di questa comunità di lavoro.

Quindi se guardiamo alla realtà economica e vediamo tutte queste imprese, e le vediamo in senso cooperativo – vedi i richiami agli articoli 42 e 43 – vediamo questa grande famiglia umana che nel campo produttivo crea queste cellule vive, attraverso le quali viene risolta la questione sociale: le comunità di lavoro. A questo proposito una osservazione relativa alla composizione del Senato, sempre in base a questo principio. Io, per temperamento, noi tutti anzi, siamo, in radice, contrari ad ogni forma di corporativismo. La sola parola ci dà fastidio; ma se voi ammettete l’esistenza di queste comunità di lavoro con struttura istituzionale, che potranno risolvere il problema sociale, e queste organizzazioni di classe da cui trae forza tutta la classe lavoratrice, perché non dovrebbe esserci una ripercussione costituzionale di esse nella composizione della seconda Camera? Io mi richiamo qui ad un magnifico lavoro che ho letto, di Ruffini, il quale circa trenta anni fa, non ricordo bene, a proposito della riforma del Senato che allora si agitava, fece una magnifica relazione in cui appunto prospettava il problema che questa seconda Camera, (siamo in epoca prefascista) fosse una Camera organicamente espressiva di questi interessi della classe operaia. È il mondo operaio, è la classe lavoratrice che accede organicamente al potere politico. Questa classe lavoratrice si impossessa, diciamo così, giustamente di questa seconda Camera e questo ha il suo valore.

Devo dare un ultimo accenno alle comunità politiche: vale a dire, noi non concepiamo in questa visione pluralista una democrazia atomisticamente considerata. Qui, nonostante che siano da riconoscere gli attuali difetti e le imperfezioni che esistono nella composizione dei partiti, la visione organica della società permette di vedere la struttura politica particolare nei partiti. Questo è il senso dell’articolo 47, che è suscettivo di una maggiore precisione. Ed infine il pluralismo culturale, il quale afferma quel principio della libertà di insegnamento e della libertà della scuola, e quindi quella gara nella costruzione del mondo culturale che è essenziale per la rinascita del nostro Paese.

Finisco; anzi devo dire ancora due o tre cose, e poi finisco. (Si ride).

Vediamo di raccogliere le fila.

Una crisi è constatata. La crisi costituzionale è una sproporzione. Un tipo di Costituzione ha tre elementi strutturali. Questi tre elementi sono sbagliati nel tipo statalistico e nel tipo individualistico. Abbiamo cercato gli elementi del tipo pluralistico. Ora resta una domanda. Mi richiamo anche a quanto è stato detto dall’onorevole Nenni, dall’onorevole Orlando e da altri che hanno parlato. La domanda è questa: ma scusi, ma lei ci dà forse un disegno di Costituzione democratica cristiana?

Badate, io lo premisi all’inizio: io non vi do un disegno di Costituzione democratica cristiana. Io vi do un disegno di Costituzione in base al principio della proporzionalità. Se è vero quello che ho detto della struttura della persona umana e della struttura del corpo sociale, è vero l’assetto costituzionale che si propone. Che questo poi sia di ispirazione cristiana, la questione è diversa, dipende da questo fatto…

Una voce a sinistra. Non lo è abbastanza.

LA PIRA. Io posso rispondere: è una Costituzione umana. Perché umana? Perché essa indaga obiettivamente le strutture dell’uomo. Ma l’uomo è fatto così, c’è poco da fare, perché Dio esiste, l’uomo esiste e la realtà del corpo sociale si articola in quella maniera: è così la realtà. La Costituzione si adatta a questa realtà strutturale, umana e sociale. Quindi, è umana. Ma posso anche dire che è cristiana. Perché, è cristiana? Mi richiamo a quanto ho detto poc’anzi, perché vi sono delle acquisizioni di ordine naturale, le quali sono dovute al cristianesimo, che ha doppia funzione: una funzione rivelatrice dell’ordine della grazia soprannaturale, una funzione rivelatrice dell’ordine della natura: gratia non destruit naturam. Quindi, il Vangelo ci rivela l’uomo nella grazia, ed anche l’uomo quale è nella sua natura. È per questo che la casa costruita secondo il principio cristiano, è una casa fatta per tutti gli uomini di buona volontà, credenti o non credenti, perché è fatta per l’uomo. (Interruzioni a sinistra Commenti).

Quindi, questa casa è umana, perché umana è la concezione della persona quale ho delineato, umana è la concezione del corpo sociale, umana la concezione del diritto che costituisce la vôlta di questo edificio. Però, ripeto, è umana, ma ha la sua radice in quella rivelazione dell’ordine naturale, di cui è stato detto che non possiamo più, in ordine a queste verità, non essere cristiani. Non c’è niente da fare: questa è la struttura delle cose, e su questa struttura delle cose si edifica la casa. (Applausi al centro).

Ora, rispondo con brevissimi accenni a quanto ha detto l’onorevole Nenni ieri sera. L’onorevole Nenni dice: «Lo Stato deve o non deve essere laico?». Vedete, la cosa mi ha impressionato. È vero che altre volte l’avevo letta, ma ieri sera mi ha colpito e mi sono chiesto: che significa Stato laico?

Stiamo sempre alla precisazione dei concetti. Stato laico? Perché, vedete, per quel famoso principio che esiste sempre una base teoretica di tutte le cose, anche inconsapevolmente (perché l’azione è sempre diretta dall’idea) non esiste uno Stato agnostico: come si concepisce la realtà umana, come si concepisce la società, così si costruisce la vôlta giuridica. Ora, se l’uomo ha questa orientazione intrinsecamente religiosa, senza una qualifica, ed allora, che significa Stato laico, se lo Stato è l’assetto giuridico della società? Se l’uomo ha questa intrinseca orientazione religiosa, se necessariamente questa intrinseca orientazione si esprime in comunità religiose, non esiste uno Stato laico. Esiste uno Stato rispettoso di questa orientazione religiosa e di queste formazioni religiose associate, in cui esso si esprime. Il termine è contradittorio: non c’è Stato laico, non c’è Stato agnostico: non dobbiamo fare uno Stato confessionale (Commenti), uno Stato, cioè, nel quale i diritti civili, politici ed economici derivino da una certa professione di fede; dobbiamo solo costruire uno Stato che rispetti questa intrinseca orientazione religiosa del singolo e della collettività e che ad essa conformi tutta la sua struttura giuridica e la sua struttura sociale. (Applausi al centro e a destra).

Finalmente, un ultimo cenno su quanto diceva ieri l’onorevole Nenni: faremo uno stato di lavoratori? Ma bisogna precisare. Pensiamo che se proprio la dimenticata nelle Costituzioni precedenti è stata la società economica e quindi la tutela dei lavoratori, questo volto produttivo e costruttivo dell’uomo, non può evidentemente non esser messo in rilievo in una Costituzione nuova: sarà questo un aspetto nuovo che assieme a quelli citati servirà a differenziare il tipo nuovo di Costituzione rispetto a quello di tipo individualista.

Io pensavo proprio, in questi ultimi giorni, leggendo un libro di un noto autore che fa in proposito delle preziose osservazioni, che se voi vi immaginate lo Stato come poc’anzi ve lo ho delineato – cioè come una società politica distinta da quella economica – voi non potete confondere i due titoli – politico ed economico – che qualificano l’uomo. Io, come uomo, come persona, indipendentemente dalla mia funzione produttiva, sono membro di questa collettività politica, perché sono portatore di una concezione della vita che trascende l’ordine economico e che faccio valere architettonicamente nella politica. Quindi questo volto dell’uomo membro della collettività politica bisogna metterlo in netto rilievo, distinguendolo da quello dell’uomo lavoratore: il quale, quando esplica questa funzione speciale e produttiva nelle sue varie forme, partecipa – deve, anzi, partecipare – democraticamente e quindi attivamente a tutte la comunità economiche attraverso le quali si organizza, dal basso all’alto, la società economica. Ma le due cose vanno nettamente differenziate in base a questo principio della personalità umana che è fatta a scala. C’è nella scala umana il gradino del lavoratore: ma sopra c’è il gradino dell’uomo politico e, al di sopra della economia e della politica, c’è il grado supremo dell’uomo in colloquio diretto e immediato con Dio. Quindi la nostra Costituzione deve avere questo volto del lavoratore, ma con questa precisazione che è di estrema importanza giuridica e sociale.

E ora brevemente due osservazioni relative ai Patti lateranensi. Sarò brevissimo. Poiché la questione è stata discussa e impostata così abbondantemente, permettetemi un cenno su di essa.

Vi dico: esistono o no in questa visione pluralista i due ordinamenti giuridici – Stato e Chiesa – indipendenti e sovrani? Esistono, e tutti siamo d’accordo nel riconoscere questa esistenza. Nella prima Sottocommissione ci fu unanimità su questo punto.

Se esistono, la conseguenza è logica: i due ordinamenti mantengono fra loro dei rapporti. Ora, questi rapporti concordati esistono. C’è un sistema di rapporti che è stato creato e sulla sostanza del quale tutti siamo d’accordo che non c’è proprio nulla da ridire. Sulla sostanza di questi rapporti siamo d’accordo; ché se la analizzassimo, essa risulterebbe conforme alla visione concreta della realtà. Non Stato confessionale, ripeto. Se esistono questi rapporti e se rispondono sostanzialmente ad una unanimità di consenso messa in rilievo da tutti i partiti, la conseguenza è ovvia: rispecchiarli nella Costituzione: e ciò anche se c’è qualche punto che potrebbe essere sottoposto a revisione bilaterale. La Chiesa è maestra in questa concretezza di adattamento alle varie situazioni storiche.

Ed a parte il principio di proporzionalità che esige questa trascrizione costituzionale, resta sempre la questione politica. Perché inferire un colpo alla Chiesa cattolica? Esistono delle delicatezze politiche, esistono delle sensibilità storiche che vanno osservate. (Si ride Commenti).

Ieri l’onorevole Nenni ha avuto un’osservazione felice. Diceva: «La Chiesa si è difesa nei confronti della tirannia e nei confronti del mondo illuminista». Mi ricordo che da ragazzo facevo l’anticlericale anch’io. (Si ride Commenti).

Ora, dico, la Chiesa si è difesa. Ma quando la Chiesa vede uno spirito democratico di sincerità, di realtà, di concretezza storica nei suoi confronti, essa allora viene incontro a tutte le legittime aspirazioni di questa democrazia: noi avremo in essa una preziosa collaboratrice. Perché devo ricordarvi una cosa che non possiamo dimenticare, che la Chiesa cattolica ha in Roma il centro mistico e giuridico di una comunità internazionale che si estende da un polo all’altro: essa ha nell’Italia, in Roma, il suo centro propulsore, destinato ad imprimere il moto al corpo mistico della Chiesa.

Perché non volete tener conto di questa condizione storica, ed avere questa sensibilità politica nei confronti della Chiesa cattolica? Credo ormai che una quantità di pregiudizi siano venuti meno. La Chiesa – che nella sua struttura interiore è la comunione dei santi, e che nella sua struttura esterna costituisce una magnifica e universale struttura giuridica – può fare e fa tanto bene, anche politicamente, pel nostro Paese (Vivi applausi al centro Interruzione dell’onorevole Lussu Proteste al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, non interrompa.

LA PIRA. Io tengo molto a dichiarare che vi parlo con tutta la sincerità del mio cuore e della mia mente: non ho la faccia di bronzo. (Applausi al centro Rumori a sinistra).

Ho finito davvero, chiedendovi scusa, se, purtroppo, l’ampiezza del problema mi ha costretto a perdere tanto tempo. Ma finisco come ho cominciato, con quella bella parabola «costituzionale» che è la parabola dell’Evangelo relativa al costruttore che costruì sopra la pietra e venne la tempesta e la casa non crollò. Questa è la nostra preoccupazione: di scavare questa pietra, di costruire questi muri maestri, di costruire questa vôlta e di fare in modo che vi sia una casa umana, fatta per fratelli, per uomini che cooperano per uno stesso fine, che è lo sviluppo della personalità umana sino ai vertici della sua vita religiosa. E che per questo ci assista la benedizione di Dio e della Vergine Immacolata. (Vivissimi applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevole Presidente, signore, onorevoli colleghi, non è per mio desiderio, né per merito o colpa mia, ma unicamente perché così ha voluto la sorte, che intervengo alla fine di questo dibattito. Debbo a questo fatto di avere potuto seguire tutta la discussione preliminare sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana che qui si è svolta, di averne potuto cogliere i diversi momenti, dagli interventi dei colleghi i quali si sono elevati veramente a un’altezza degna del tema che sta davanti a noi, degna del compito che ci siamo prefisso, sino a quelli dei colleghi che hanno preferito soffermarsi sovra punti particolari, talora anche di importanza secondaria.

In questo momento però, se faccio uno sforzo per rievocare l’assieme del dibattito, non riesco a sfuggire a un senso di perplessità, e sorge in me questa domanda: siamo noi veramente riusciti, non come singoli, ma come Assemblea – la prima grande Assemblea democratica italiana, eletta sulla scala nazionale per discutere la Costituzione da darsi al Paese – siamo noi effettivamente riusciti ad afferrare e a porre nel necessario rilievo la prima e principale questione che sta davanti a noi e che dibattiamo davanti al popolo? Quale sia questa questione ritengo sia chiaro per tutti. La domanda alla quale dobbiamo dare una risposta è questa: Quale Costituzione dobbiamo dare all’Italia? È evidente: quella di cui l’Italia, in questo momento particolare, determinato, concreto, della propria storia, ha bisogno. Ma di quale Costituzione ha bisogno oggi l’Italia? E qui la questione che ho posto è strettamente collegata con un’altra, la più profonda, a cui hanno cercato di dare risposta altri oratori prima di me. Perché facciamo noi una Costituzione nuova? Solo se avremo dato a questi interrogativi, che si pongono in questo momento, non soltanto a noi, ma a tutto il popolo, una risposta esatta e concreta, solo allora riusciremo a dare un orientamento giusto alle soluzioni che stiamo per prendere, tanto per quello che si riferisce ai problemi generali di ordine costituzionale, quanto per quello che si riferisce alle singole, concrete questioni che incontreremo nel corso della discussione di tutto il progetto.

L’onorevole Nitti, cercando di rispondere alla domanda ch’io mi pongo, ha detto che dobbiamo fare una Costituzione nuova perché siamo dei vinti, e tutti i popoli vinti sono costretti, quasi, per una legge della storia, a darsi Costituzioni nuove.

È vero; ma non è tutta la verità. Direi che non è la verità espressa in modo preciso, intiero, in modo che aderisca veramente alla situazione odierna del Paese. In realtà, il principio che le Costituzioni si debbano cambiare o si cambino dopo le sconfitte, non è valido in modo assoluto, né fu sempre valido nel passato. Gli esempi si potrebbero portare numerosissimi. Questo principio, però, si afferma in un periodo determinato della storia, e precisamente si afferma via via che si consolida, nella vita dei popoli il principio democratico, del governo del popolo, per il popolo, attraverso il popolo. Direi anzi che anche dopo l’affermazione del principio democratico come cardine dell’ordinamento degli Stati, vi sono casi, e precisamente in quei paesi che non hanno un ordinamento conseguentemente democratico, dove la sconfitta non lascia tracce profonde. Si potrebbe citare il caso dell’Impero austroungarico, che non fu tratto a catastrofe, ma forse uscì rafforzato dalla sconfitta del 1866. Ma quando il principio democratico si afferma e mette solide radici nella coscienza dei popoli e nella realtà della vita nazionale e internazionale, allora il principio richiamato dall’onorevole Nitti ha valore, e ha valore per un motivo molto semplice: perché si afferma in questo momento il principio della responsabilità dei popoli per la loro storia e il loro destino. Quanto più vivamente l’esigenza democratica è sentita, tanto più è sentita questa responsabilità, per cui accade alle volte ad una stessa generazione di essere spettatrice di un dramma storico ed esecutrice dei giudizi di condanna che ne derivano nella coscienza popolare. Allora veramente, secondo il profondo motto del filosofo e poeta, «die Weltgeschichte wird Weltgericht», la storia universale si fa giudizio universale; e si fa giudizio universale, proprio perché i popoli si sentono responsabili del proprio destino, verso se stessi e verso i proprî figli.

È vero quello che ha detto l’onorevole Nitti: noi siamo responsabili del futuro verso i nostri figli, verso i nostri nipoti. Per questo facciamo una nuova Costituzione, cioè vogliamo fondare un ordinamento costituzionale nuovo, tenendo conto di quello che è accaduto, cioè tirando le somme di un processo storico e politico che si è concluso con una catastrofe nazionale.

Questa catastrofe, signori, è stata in pari tempo il fallimento di una classe dirigente, e questa è dunque la vera questione, che sta davanti a noi e che ci deve orientare in tutto il dibattito costituzionale. Il popolo italiano infatti oggi non può a meno di chiedersi se questa sconfitta che abbiamo subito, questo disastro nel quale ci hanno gettato, era qualche cosa di inevitabile, legata a uno di quei cataclismi che travolgono popoli e regimi, come furono nel passato le invasioni barbariche, e li travolgono alle volte nonostante tutti gli sforzi che essi possano fare per salvarsi. La risposta non è dubbia. Questa sconfitta non era inevitabile. Non ci troviamo di fronte a uno di quei cataclismi. Ci troviamo di fronte a una catastrofe che non possiamo non considerare legata a una politica determinata e conseguenza di essa, e questa politica fu voluta da una classe dirigente, la quale non seppe né vedere, né prevedere, perché anche quando assisté alla distruzione di beni, e materiali e morali, cui è legata tutta la vita della nazione, oppure quando era in grado di prevedere che verso questa distruzione si precipitava in modo fatale, lasciò fare e fu complice, perché sopra gli interessi di tutti fece prevalere l’interesse proprio egoistico, di casta, di conservazione di determinate strutture politiche, economiche, sociali. La vecchia classe dirigente italiana, nel momento che compiva questo errore fatale, si rivelava come classe non più nazionale, perché nazionale è soltanto quella classe che quando difende le proprie posizioni e afferma se stessa, difende e afferma gli interessi di tutti gli uomini e, vorrei dire, di tutta l’umanità. È da questo fatto storicamente incontrovertibile che noi dobbiamo trarre, oggi, tutte le conseguenze che ne derivano.

Colleghi, io sento rispetto, e anche più che rispetto, per gli uomini che siedono in quest’aula e che appartengono ai gruppi che furono parte integrante di questa vecchia classe dirigente. Non ho nessun ritegno a rivolgere loro, per certi aspetti della loro attività, l’appellativo di maestri, sia con la «m» maiuscola o minuscola, non importa. Sono sempre disposto ad ascoltare i loro consigli; però non posso non sentire e non affermare che anche questi uomini portano una parte della responsabilità per la catastrofe che si è abbattuta sul popolo italiano. Perché voi avevate occhi e non avete visto. Quando si incendiavano le Camere del lavoro, quando si distruggevano le nostre organizzazioni, quando si spianavano al suolo le cooperative cattoliche, quando si assaltavano i municipii con le armi, o si faceva una folle predicazione nazionalistica, non dico che voi foste complici diretti, ma senza dubbio eravate in grado di dire quelle parole che avrebbero potuto dare una unità a tutto il popolo, animandolo a una resistenza efficace contro quella ondata di barbarie; voi non foste all’altezza di questo compito; e non è per un caso che non avete trovato gli accenti che allora era necessario trovare.

Avete pensato che si trattasse di problemi di secondaria importanza, di tollerabili «esuberanze», oppure di metodi che vi sembrava lecito fossero adoperati per ridurre alla ragione i «sovversivi». Ma chi sono i sovversivi? I sovversivi sono la nuova classe dirigente che avanza, che conquista le proprie posizioni, che afferma i propri ideali, che vuole il posto che le spetta nella direzione della vita pubblica e dello Stato, che vuole imprimere una vita nuova a tutta la nazione. È per arrestare la marcia in avanti della nuova classe dirigente, uscita dalle classi lavoratrici, che voi avete lasciato che il fascismo compisse la sua criminale opera di distruzione dei beni più preziosi della Nazione. Questa è la vostra responsabilità e noi non possiamo non sentirla. Forse, del resto, la sentite anche voi, e di qui deriva quella vena di amarezza che colgo nei vostri discorsi. Né io ho posto, né desidero approfondire questa questione a titolo di polemica personale, ma perché intendo che il problema della responsabilità di un regime e quindi di una classe dirigente sia posto, e domini tutto questo dibattito.

Per questo, quando ci si propose di tornare al precedente ordinamento costituzionale rispondemmo di no; per questo, onorevole Rubilli, abbiamo voluto la Costituente, e davanti alla Costituente sta ora nella sua interezza la questione più ardente e urgente della nostra vita nazionale, quella della responsabilità di tutto un ordinamento politico e sociale, a cominciare dai suoi aspetti costituzionali.

Per risolvere questa questione, che cosa abbiamo fatto sinora? Abbiamo, prima di tutto, abbattuto l’istituto monarchico e fondato un regime repubblicano. Guai se non lo avessimo fatto! Realmente, onorevole La Pira, in questo caso avremmo costruito sulla sabbia la nuova Costituzione, perché l’avremmo costruita sopra una menzogna. Qualunque Costituzione avessimo fatto, se fosse stata la Costituzione di quella monarchia che fu responsabile della nostra rovina, sarebbe stata una mostruosità morale, qualche cosa che non avrebbe potuto resistere in nessun modo, non dico alle critiche degli uomini, ma alla critica delle cose stesse.

Alcuni dei principali responsabili della nostra catastrofe sono stati duramente puniti. Sono scomparsi. Con altri abbiamo voluto essere magnanimi per non aprire lacerazioni troppo profonde nel corpo della Patria. La questione della responsabilità rimane però aperta per quello che si riferisce alla classe dirigente come tale. Rimane aperto il problema dell’avvento di una nuova classe dirigente alla testa di tutta la vita nazionale. La nuova Costituzione deve essere tale che per lo meno apra la via alla soluzione di questo problema.

Ma accanto alla questione della responsabilità si pone, immediatamente, quella delle garanzie per l’avvenire. Vogliamo che quello che è avvenuto una volta non possa più ripetersi. Non vogliamo più essere lo zimbello del giuoco, più o meno aperto, più o meno palese, di gruppi che vorrebbero manovrare a loro piacere la vita politica italiana perché concentrano nelle loro inani le ricchezze del Paese. Questo è avvenuto nel passato. Vogliamo evitare continui nell’avvenire. A questo scopo chiediamo anche delle garanzie costituzionali.

Per questo, onorevole Lucifero, vogliamo non una Costituzione afascista, ma antifascista. Quando diamo questo appellativo alla Costituzione che stiamo per fare, intendiamo precisamente dire che la Costituzione ci deve garantire, per il suo contenuto generale e per le sue norme concrete, che ciò che è accaduto una volta non possa più accadere, che gli ideali di libertà non possano più essere calpestati, che non possa più essere distrutto l’ordinamento giuridico e costituzionale democratico, di cui gettiamo qui le fondamenta. Ma la sola garanzia reale, seria, di questi, è che alla testa dello Stato avanzino e si affermino forze nuove, le quali siano democratiche e rinnovatrici per la loro stessa natura. Tali sono, o signori, le forze del lavoro!

Questa ritengo sia la sola impostazione concreta possibile che si possa dare al problema della nostra nuova Costituzione.

Questa impostazione, come vedete, lascia da parte le ideologie. Onorevole Lucifero, ella si è meravigliato che io abbia affermato, in una riunione della prima Sottocommissione, che desideravamo una Costituzione che mettesse da parte le ideologie.

LUCIFERO. Me ne sono compiaciuto, onorevole Togliatti.

TOGLIATTI. Bene; ma, veda, onorevole Lucifero, per noi questa è una cosa elementare. L’ideologia non è dello Stato, l’ideologia è dei singoli o, se ella vuole, è dei partiti, e anche non sempre, perché posso concepire un partito nel quale confluiscano differenti correnti ideologiche per l’attuazione di un unico programma. Non impostazione ideologica, dunque, ma impostazione politica concreta, derivante da una visione esatta della situazione in cui si trova oggi l’Italia.

Perciò noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi davanti alla Nazione italiana. Il compito che dobbiamo assolvere oggi non so se sia più facile o più difficile, certo è più vicino. Oggi si tratta di distruggere fino all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare che la tirannide fascista non possa mai più rinascere; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva, di una classe. dirigente la quale per la propria natura stessa ci dia una garanzia effettiva e reale, che mai più sarà il Paese spinto per la strada che lo ha portato alla catastrofe, alla distruzione.

In questa visuale debbonsi considerare e io considero tutte le questioni costituzionali che stanno davanti a noi e che dibatteremo nel corso dei prossimi mesi.

Lo sforzo che vorrei fare all’inizio, in questo dibattito che giustamente fu definito preliminare, è quello di individuare quali sono i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare al popolo italiano, beni dei quali non si può prescindere, se si vuole raggiungere quell’obiettivo fondamentale che ho cercato di fissare e che devono essere o instaurati, o restaurati. Credo che questi beni siano tre: il primo è la libertà e il rispetto della sovranità popolare; il secondo è l’unità politica e morale della Nazione; il terzo è il progresso sociale, legato all’avvento di una nuova classe dirigente. Se noi riusciremo a fare una Costituzione la quale garantisca alla Nazione questi tre beni, allora non avremo fatto, com’è stato detto, una Costituzione interlocutoria, ma una Costituzione che rimarrà effettivamente come il libro da porsi accanto all’arca del patto, una Costituzione che illuminerà e guiderà il popolo italiano per un lungo periodo della sua storia. Le esigenze che ho indicato non sono infatti qualcosa di transitorio, ma sono esigenze permanenti e concrete, corrispondenti alla situazione storica ben determinata che sta davanti a noi.

Né io ritengo sia necessario, per assolvere al compito da me indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli colleghi che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene, scartiamola pure. In realtà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori, per lo meno in quella parte della Costituzione alla cui elaborazione io ho cercato di partecipare attivamente. Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo e abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare. Ritengo questo sia il metodo che doveva e deve essere seguito se si vuol fare opera seria, e sono lieto che immediatamente prima di me abbia parlato l’onorevole La Pira, il cui discorso, nonostante le frequenti citazioni latine, io ho ascoltato con appassionato interesse, perché mi è parso che nella prima parte della sua esposizione l’onorevole La Pira abbia dato un contributo molto efficace per scoprire non solo quale è la via per la quale noi siamo arrivati a questo tipo di Costituzione e a determinate formulazioni concrete, ma anche quale è la via per la quale siamo arrivati a quella unità che ci ha permesso di dettare queste formulazioni.

Effettivamente c’è stata una confluenza di due grandi correnti: da parte nostra un solidarismo – scusate il termine barbaro – umano e sociale; dall’altra parte un solidarismo di ispirazione ideologica e di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi. Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà. Né poteva fare ostacolo a questo confluire di due correnti, le quali partono da punti ideologicamente non eguali, la concezione, pure affermata dall’onorevole La Pira, della dignità della persona umana come fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino. Perché questa concezione avrebbe dovuto fare ostacolo? Al contrario, vi era qui un altro punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, colla corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana: a quella piena valutazione della persona umana, che noi riteniamo non possa essere realizzata, se non quando saranno spezzati i vincoli della servitù economica, che oggi ancora opprimono e comprimono la grande maggioranza degli uomini, i lavoratori.

Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come «compromesso» fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione.

Non escludo che sia stato seguito in qualche caso anche un metodo diverso, il metodo che chiamerei del compromesso deteriore, di quel compromesso che consiste nel lavorare non più sulle idee e sui principî, o sulle loro deduzioni e conseguenze, ma nel lavorare esclusivamente sulle parole: nel togliere una parola e metterne un’altra, la quale direbbe approssimativamente lo stesso, ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in altro modo; nel sostituire così la confusione alla chiarezza. Questo metodo da altri è stato seguito; io ho cercato di non seguirlo mai. È certo che nella redazione definitiva del testo costituzionale in alcuni punti si sente l’influenza di questo metodo deteriore di compromesso; ed alcune affermazioni che nella redazione primitiva delle Sottocommissioni erano più chiare, più semplici, sono poi state direi lavate in modo tale, che hanno perduto quel rilievo che avrebbero dovuto avere.

Ad esempio, per l’articolo 1 avevamo proposto una formula secondo la quale si affermava che la sovranità risiede nel popolo ed i poteri emanano dal popolo. Non è giusto dire, come è detto nel testo definitivo, che la sovranità emana dal popolo: è il potere che emana dal popolo. È evidente che qui si è cercata una formula di compromesso deteriore, a scapito della chiarezza e della precisione. Lo stesso si è fatto in una serie di altre formulazioni. Non voglio tediarvi, ma avrei molti esempi da citare; li ricorderemo nel seguito della discussione. Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali sono stati rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale. Anche negli articoli relativi all’ordinamento regionale si trova un errore di questo genere. Mentre la Sottocommissione aveva giustamente proposto: «II territorio della repubblica è ripartito, ecc…»; il testo riveduto dice: «La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni». Questa formula non è conciliabile con quella secondo la quale la Repubblica è indivisibile. È evidente che anche vi è stato uno sforzo di compromesso in senso deteriore, ed io sarò d’accordo con tutti coloro che proporranno di ritornare, in tutti questi casi, a formule più precise, che abbiano maggiore rilievo, siano più incisive e dicano chiaramente quello che vogliono dire.

Oserei dire che nel nostro lavoro non ci hanno dato grande aiuto i giuristi. Non se l’abbiano a male i colleghi che esercitano questa nobile professione, che del resto avrebbe potuto anche essere la mia, se la politica non mi avesse traviato.

Molte formulazioni del progetto sono certamente deboli, perché giuridicamente non siamo stati bene orientati e effettivamente fu un errore non includere nella Commissione i rappresentanti della vecchia scuola costituzionalista italiana.

La realtà è però che negli ultimi venti o trenta anni la scienza giuridica si è staccata dai principî della nostra vecchia scuola costituzionale. In fondo quali erano questi principî? Erano da un lato i principî del diritto romano e dall’altro i grandi principî delle rivoluzioni borghesi, elaborati poi attraverso l’esperienza costituzionale dell’Ottocento. Negli ultimi venti o trenta anni invece sono affiorate e sono state accolte, soprattutto nel nostro Paese, dottrine diverse, quelle a cui accennava anche l’onorevole La Pira, che riconoscono e collocano la sovranità non nel popolo, ma soltanto nello Stato, e danno quindi ai diritti individuali soltanto un carattere riflesso. La scienza giuridica degli ultimi venti anni è stata permeata da queste nuove dottrine, e questo spiega perché, quando abbiamo dovuto scrivere una Costituzione democratica e abbiamo chiesto l’ausilio dei giuristi, essi non sono stati in grado di darci un aiuto efficace. Per darcelo, occorreva ch’essi cancellassero o dimenticassero qualche cosa; bisognava che ritornassero a qualche cosa che avevano dimenticato, e non erano sempre in grado di farlo. Questo è un motivo profondo delle debolezze e del carattere equivoco di molte tra le formulazioni del testo che sta davanti a noi.

Riconoscendo però questa debolezza, io non condivido la sostanza delle critiche che sono state fatte dall’onorevole Orlando. Alcune delle sue osservazioni sono giuste e ne terremo conto. Correggeremo, preciseremo i poteri dell’uno e dell’altro istituto, preciseremo le funzioni dell’uno o dell’altro potere. Però mi è parso, onorevole Orlando, che quando ella, partito da una definizione del regime parlamentare – e di definizioni del regime parlamentare se ne possono dare parecchie, perché le caratteristiche del regime parlamentare possono essere definite in modo diverso secondo le diverse dottrine e gli orientamenti diversi della teoria e della pratica – mi è parso che quando ella a un certo punto si è fermato e ha detto: «qui manca qualche cosa» (e non so che cosa ella cercasse: colui che mantiene l’equilibrio, colui che ha l’iniziativa, colui che sancisce), onorevole Orlando, io ho avuto l’impressione, e perdoni se sono maligno, che ella cercasse qualcosa che noi non abbiamo voluto mettere nella Costituzione: che ella cercasse il re. (Si ride Vivi commenti).

Noi abbiamo voluto fare una Costituzione conseguentemente repubblicana, cioè una Costituzione che fosse fondata su un riconoscimento completo della sovranità popolare e sul principio che tutti i poteri emanano dal popolo. Può darsi che non abbiamo ben definito l’uno o l’altro di questi poteri e che dobbiamo precisare qualcosa; però fondamentale rimane il principio che la sovranità risiede nel popolo e solo nel popolo, che è il vero principio repubblicano. La Repubblica non è soltanto il regime che ha cacciato i Savoia; la Repubblica è il regime nel quale il popolo è veramente sovrano e la sovranità popolare si manifesta in tutta la vita dello Stato.

Ho detto, onorevoli colleghi, che tre sono le esigenze fondamentali da soddisfare: esigenza della libertà; esigenza di unità politica e morale della Nazione; esigenza di progresso sociale e di rinnovamento della classe dirigente. Permettetemi di dedicare alcune parole a ciascuna di queste esigenze fondamentali.

Sarò breve sul primo punto, perché mi ha preceduto il collega onorevole Laconi, il quale ha chiaramente formulato le critiche che noi, sotto questo riguardo, facciamo al progetto che ci viene presentato. Siamo d’accordo sulla formulazione dei diritti politici del cittadino; non siamo invece completamente d’accordo sul modo come è stato disposto l’ordinamento costituzionale, cioè il sistema attraverso il quale si manifesta e si attua la sovranità popolare. Troviamo pesante e farraginoso, prima di tutto, il procedimento legislativo. Critichiamo, in secondo luogo, il bicameralismo spurio di questo progetto. In linea di principio, siamo contrari a un sistema bicamerale; abbiamo però detto sin dall’inizio che non avremmo fatto di questa nostra posizione motivo di conflitto. Vogliamo guardare non alla forma, ma alla sostanza: accettiamo quindi anche un bicameralismo, ma a condizione che, se vi saranno due Camere, esse siano entrambe emanazione della sovranità popolare e democraticamente espresse dal popolo. Per questo aspetto, non ci sembra accettabile l’articolo 56 che stabilisce le categorie degli eleggibili a senatore. Attraverso queste categorie vediamo ricomparire ancora una volta il sistema del censo. Abbiamo fatto un’inchiesta in una delle provincie italiane per determinare, sulla base dell’articolo 56, quanti eleggibili a Senatore potrebbe avere un partito il quale sia il partito delle classi possidenti e quanti ne potrebbe avere un partito, come il nostro, che sia il partito delle classi lavoratrici. Il rapporto è di uno a dieci, e credo che, in altre provincie, specie nel Meridione, sarebbe ancora più sfavorevole.

Discutibilissimo sembra a me anche l’articolo 88, col quale si è tentato di dare una soluzione all’annosa questione della stabilità del Governo. Qui vi è, secondo me, veramente una deviazione del puro regime democratico di tipo parlamentare. Si richiede, infatti, in questo articolo che la mozione di sfiducia al Governo, – quella mozione di sfiducia la cui presenza continua in qualsiasi dibattito e in qualsiasi situazione è essenziale per il parlamentarismo – sia presentata da un quarto almeno dei membri dell’Assemblea per poter essere messa in discussione. Il che vuol dire che il gruppo autonomista, per esempio, che ha dieci deputati, non potrà mai mettere in discussione una mozione di sfiducia, a meno che non voglia andare a battere alla porta di un partito di massa perché gli presti quelle cento o centocinquanta firme che gli abbisognano. Mi pare che qui effettivamente, proprio nel momento in cui tutti criticano il sistema dei grandi partiti che opprimerebbero la libertà delle assemblee parlamentari, si fa una concessione a questo sistema, e nel modo peggiore.

Perché si sono introdotte queste norme? E perché riscontriamo in questa stessa direzione tutta una serie di altre debolezze nell’ordinamento costituzionale che ci viene proposto? L’onorevole Nenni ha dato una risposta che a me sembra giusta. Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella bizzarria della Corte costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto. Ma badate, qui si commette un errore. Comprendo che vi siano gruppi sociali i quali possono vedere con preoccupazione l’avanzata di una nuova classe dirigente, in quanto temono per le posizioni che occupano oggi, e da cui dovranno sloggiare, e sono ostili a qualsiasi profonda trasformazione sociale. Comprendo che l’egoismo possa dettare a questi gruppi sociali la paura, e quindi spingerli a proporre norme costituzionali del genere di quelle che sto criticando; ma non comprendo che una condotta simile possa essere di preveggenti uomini politici. Preveggenti uomini politici, al punto in cui i problemi sono arrivati nello sviluppo della società italiana, debbono volere che tutte le trasformazioni sociali e tutte le questioni che saranno poste in relazione con queste trasformazioni vengano dibattute e risolte nell’Assemblea e dall’Assemblea, e possano esserlo con quella rapidità ed energia che sarà richiesta dalle masse lavoratrici e dal movimento stesso delle cose. Quando avrete posto una remora con tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali, ecc., quale sarà il risultato che avrete ottenuto? Avrete evocato l’azione diretta; cioè avrete scardinato l’istituto parlamentare, ponendo nella Costituzione un germe di conflitti sociali e politici profondi, il che noi crediamo che non si debba fare.

Coloro i quali vogliono per il nostro Paese un avvenire di progresso sociale, ma nella libertà e nella tranquillità politica, non debbano porre ostacoli all’affermazione e al trionfo della volontà popolare. Bisogna lasciare che la volontà popolare si possa esprimere attraverso gli istituti parlamentari, attraverso le istituzioni democratiche, sulla base costituzionale. Guai invece se la Costituzione fosse fatta in modo da opporre artificiosamente barriere a questa espressione.

In questa parte del progetto di Costituzione trovo però anche una mancanza di audacia e di spirito di conseguenza. Non si è avuto il coraggio di porre e risolvere due grandi questioni che devono essere invece affrontate con spirito democratico e risolte in modo nuovo: quella della Magistratura e quella dei poteri e degli organi di controllo.

Riguardo alla Magistratura, nella Commissione a stento siamo riusciti a far prevalere l’affermazione del ritorno alla giuria, e qui ho sentito un onorevole collega protestare dicendo che questa è cosa che riguarda gli avvocati penalisti. No, questa è una questione che riguarda tutti i cittadini. Il principio per cui, quando a un cittadino voi togliete dieci o venti o più anni della sua esistenza, o quando lo mandate a giudizio e lo condannate per delitto politico, egli ha diritto al giudizio dei suoi pari, è una delle più grandi conquiste della democrazia. Qui siamo senza dubbio in presenza di una di quelle tracce di spirito giuridico reazionario, che non siamo ancora riusciti a cancellare. La mia opinione è che nell’ordinamento della Magistratura avremmo dovuto affermare in modo molto più energico la tendenza alla elettività dai magistrati, il che ci avrebbe fatto fare un grande passo avanti per togliere il magistrato dalla situazione penosa in cui oggi si trova, di essere un sovrano senza corona e senza autorità. Soltanto quando sarà stabilito un contatto diretto tra il popolo, depositario della sovranità, e il magistrato, questi potrà sentirsi partecipe di un potere effettivo, e quindi godere della fiducia completa del popolo nella società democratica.

Un altro problema che non è stato non solo risolto, ma nemmeno affrontato, è quello dei controlli. Si è tutto rinviata alla legge, così per la Corte dei Conti, come per il Consiglio di Stato, come se si trattasse di argomento non costituzionale. Ma tutto questo sistema è vecchio. Tutti quelli di noi che sono passati attraverso un Ministero hanno visto che questo sistema non serve più. Una Corte dei Conti la quale serve per far sì che per liquidare una pensione occorrano due anni, mentre in altri Paesi civili occorrono due settimane; un organo di controllo che durante il ventennio della tirannide fascista non ha controllato niente, né impedito che venisse dilapidato il pubblico denaro, e ora pone ostacoli su ostacoli a indispensabili misure democratiche, è qualcosa che deve essere profondamente rinnovato. Opera costituente sarebbe di esaminare come possano organizzarsi nuovi istituti di controllo, in maniera che essi siano in un modo o nell’altro appoggiati dalla sovranità popolare e collegati col popolo. L’ordinamento autonomistico può forse aiutarci in questa direzione: in questa direzione è certo che bisogna muoversi, se si vuole fondare una democrazia moderna, respingendo istituti e formule che oggi sono superati e servono a ben poco.

In conclusione, a proposito dei problemi di libertà, il nostro partito seguirà una linea di condotta conseguentemente democratica, cioè lotterà in modo conseguente, perché la Costituzione sia una Costituzione popolare, perché il popolo sia riconosciuto come sovrano, e l’ordinamento costituzionale sia tale che permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a tutta la vita della Nazione.

E permettimi a questo punto, amico Lussu, di dirti che allorché, preoccupato della democrazia e delle sue sorti, ti sei rivolto da questa parte e hai domandato se qui siedono dei veri e sinceri democratici, hai sbagliato indirizzo. Non è questa la direzione, verso cui devi guardare per trovare i nemici della democrazia. Il movimento operaio italiano non ha mai rotto la legalità democratica e non ha mai minacciato la democrazia. O forse ci vuoi rimproverare di esserci armati per la guerra di liberazione, o tu vuoi unirti a coloro che ci rimproverano di aver liquidato sul campo i responsabili della tirannide fascista?

LUSSU. Anzi!

TOGLIATTI. Permettimi allora di manifestare il mio stupore, per aver notato in te quel caratteristico rovesciamento di fronte, che è fatale alla democrazia. Guai alla democrazia, quando essa non riesce più a capire da che parte sono i suoi nemici! (Interruzione dell’onorevole Lussu). Non credo che tu sia un buon democratico se non riesci a vedere da che parte sono i tuoi nemici.

LUSSU. Risponderò a suo tempo.

TOGLIATTI. È nel tuo diritto.

Vengo ora alla seconda delle esigenze fondamentali da me indicate: l’unità politica e morale della Nazione che è in parte da salvare, in gran parte da consolidare. Molto abbiamo già fatto per salvare l’unità politica e morale della Nazione e soprattutto molto abbiamo fatto noi, il partito più avanzato dei lavoratori; ma dobbiamo ancora consolidare quello che abbiamo salvato.

E qui trovo due questioni sulle quali chiedo che abbiate la pazienza di ascoltarmi: i rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il regionalismo.

Non condivido l’opinione di chi ha detto in quest’aula che la questione del mantenimento della pace religiosa non esiste. Non è vero: questa questione esiste. Tutti coloro che hanno fatto la campagna elettorale precedente al 2 giugno lo hanno sentito. È meglio dunque riconoscerlo e sapere che la pace religiosa del nostro Paese si mantiene attraverso l’azione meditata dei Governi e di quei partiti che hanno una responsabilità di Governo o, se non altro, una funzione di direzione della vita nazionale, in quanto partiti di massa.

L’onorevole Lucifero ci ha proposto l’invocazione a Dio. Questa è veramente una delle proposte che hanno suscitato in me i maggiori dubbi, perché effettivamente Dio votato a maggioranza in una Assemblea politica ed approvato con 20 e con 50 o anche con 200 voti di maggioranza, non lo capisco. (Si ride). Quando poi ho sentito il nostro collega parlare di Dio nel tono con cui i nostri oratori di comizio parlano alla fine dei loro discorsi, quando si tratta di avere gli applausi degli elettori riuniti, mi sono ricordato del primo e secondo comandamento. (Si ride).

Il problema della pace religiosa, in ogni modo, esiste e bisogna riconoscere che la pace religiosa è fondata su due colonne: il Trattato lateranense e il Concordato, uniti assieme nel modo che tutti sappiamo. Nessuno di noi aveva chiesto che venisse aperto il problema del Trattato e del Concordato; nessuno del nostro partito in particolare. Fin dall’anno scorso, in occasione del nostro V Congresso, noi facemmo un’affermazione precisa in questo senso. Ma quando voi ci avete chiesto l’inserimento del Trattato e del Concordato nella Costituzione, attraverso il richiamo dell’articolo 5, allora il problema si pone e siamo costretti a discutere.

E siamo costretti a discutere per parecchi motivi. Prima di tutto, onorevole Orlando, tengo a precisare che non è vero che io abbia detto di essere favorevole all’inserimento dei Patti lateranensi, attraverso il richiamo dell’articolo 5, nella Costituzione. Ho votato contro questo richiamo e anche qui, sino a che il problema sarà posto nel modo come adesso è posto, voteremo contro. Attraverso quel richiamo così esplicito, infatti, ritorniamo all’articolo primo dello Statuto. Ora non dimentichiamo che l’articolo primo dello Statuto, in tutte le discussioni che ebbero luogo prima nel Parlamento subalpino, dal 1849 in poi, e quindi nei successivi Parlamenti italiani, venne sempre considerato come qualche cosa di decaduto. Basti ricordare in proposito il discorso di Marco Minghetti nel dibattito sulla legge delle Guarentigie, dove egli dice la cosa apertamente, e aggiunge che l’articolo primo viene lasciato nello Statuto unicamente per non aprire un procedimento di revisione costituzionale. È soltanto nel Trattato lateranense che questo articolo viene riesumato e rimesso in circolazione, ed è principalmente per questo che l’inserimento dei Patti lateranensi nella nuova Costituzione non è da noi approvato. Quando volete farci tornare alla religione di Stato, ci volete fare tornare a qualche cosa che la nostra coscienza non può accettare.

Voi dite: si tratta della nostra libertà, cioè della libertà della Chiesa.

No, nessuno offende la vostra libertà; nessuno ha proposto e nessuno propone di ritornare a un regime giurisdizionalista, nessuno sogna in questa Assemblea di proporre una costituzione civile del clero: quindi la vostra libertà è salva.

Ma voi dovete riconoscere che nel Trattato e nel Concordato vi è qualche cosa che urta la nostra coscienza civile e che sarebbe bene – lo stesso onorevole La Pira accennava a questa possibilità – che venisse al momento opportuno eliminata. Perché dunque inserirli in modo così solenne nella Carta costituzionale?

Vorrei dire però che un’altra questione ci preoccupa. L’ho sollevata in un mio precedente discorso in questa Assemblea, parlando di un eventuale rinnovo dei Patti allo scopo di eliminare la firma del fascismo e introdurre i necessari ritocchi. Badate però che questo problema l’ho posto di riflesso: non l’avremmo probabilmente posto di nostra iniziativa, se non vi fosse stata la proposta di inserimento dei Patti nella Costituzione, o non lo porremmo con urgenza il giorno in cui fossimo riusciti a trovare, in sede costituzionale, quella soluzione, che l’onorevole Orlando si augurava ieri che noi trovassimo, e cioè una soluzione che raccolga l’unanimità dei suffragi dell’Assemblea.

E qui si inserisce una questione abbastanza grave e profonda, quella dei rapporti della Chiesa cattolica col regime democratico repubblicano. Il nuovo giuramento dei vescovi sta bene; ma Concordato e Trattato sono qualche cosa di più del giuramento, sono un impegno e un grande impegno.

Ora, in cerca di una documentazione sopra questo tema, mi è accaduto di sfogliare un testo autorevolissimo di Diritto delle Decretali, manuale d’insegnamento nella Pontificia Università Gregoriana in Roma, e a proposito dei concordati, delle condizioni e del momento in cui la Santa Sede li conclude ho trovato una affermazione assai sintomatica che mi permetterete di citare: «…Sedes Apostolica, ne evidenti ludibrio exponatur, conventiones in forma solemni inire non solet, nisi gubernium civile necessitate petendi consensus comitiorum publicorum non sit adstrictum…».

Una voce. Vuol tradurre? (Si ride).

TOGLIATTI. Per i colleghi che non sono democristiani posso anche fare la traduzione (Si ride), la quale suona così:

«La Sede Apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei governi i quali non sono costretti a chiedere l’approvazione di un corpo rappresentativo».

Onorevole Orlando, forse in questa formulazione autorevole vi è una spiegazione più pertinente di quella che cercava di dare lei, relativa al momento in cui i Patti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica vennero conclusi. È evidente che di fronte ad affermazioni simili, ci sentivamo dubbiosi.

Ad ogni modo, concludendo su questo punto, ripeto che il problema della pace religiosa esiste e che deve esser fatta qualche cosa di comune accordo in questa Assemblea e fuori di questa Assemblea per garantirne la soluzione, cioè per dare alla pace religiosa del popolo italiano un carattere solido e permanente. Noi vogliamo una Costituzione la quale guardi verso l’avvenire. I problemi già risolti nel passato non ci interessano più; cerchiamo però che quelle posizioni di libertà, che hanno conquistato i nostri padri e i nostri avi attraverso lotte memorabili, non vadano perdute. E voi, colleghi della Democrazia cristiana, credo che farete opera buona, favorevole al consolidamento dell’unità politica e morale della Nazione, se non porrete noi e altre parti importanti dell’Assemblea di fronte ad alternative troppo gravi e invece cercherete insieme con noi la forma o la formula migliore per risolvere questa questione col soddisfacimento di tutti e con la più larga maggioranza possibile.

E vengo al regionalismo. Il capitolo relativo suscita in noi molti dubbi, e come esso sta oggi non so se potremo votarlo nella sua integrità.

Ci troviamo di fronte a due partiti di differente peso e numero: il Partito repubblicano storico e il Partito democristiano, che si affermano decisamente regionalisti ed hanno fatto prevalere il loro punto di vista in questo testo costituzionale. Il Partito repubblicano storico rappresenta una nobile tradizione; il regionalismo però è soltanto parte della sua tradizione, ma forse la parte più interessante, certo la più progressiva. Il Partito democristiano rappresenta esso pure un complesso di dottrine e di posizioni politiche, tali per cui non sarebbe serio se trascurassimo le sue affermazioni, se prendessimo alla leggera le sue rivendicazioni. Occorre quindi discutere con spirito molto obiettivo, per veder di trovare assieme la strada giusta.

Nessuno può dire oggi se sia stato giusto organizzare l’Italia come è stata organizzata dopo il 1860. Il tipo di organizzazione centralizzata, che è stato dato allora all’Italia, è stato il risultato della unione di classi dirigenti diverse: lo volle la classe dirigente meridionale, lo volle la classe dirigente del Nord. Poteva essere presa un’altra strada? Non so. La storia è stata così e basta. Però è un fatto che camminando per quella strada abbiamo fatto del cammino, abbiamo raggiunto determinate posizioni, ed essenzialmente dobbiamo dire che l’unità nazionale, grazie a un ordinamento che aveva senza dubbio gravi e anche gravissimi difetti, è stata ad ogni modo mantenuta. Orbene, l’unità nazionale è un bene prezioso, soprattutto per un paese il quale la possiede da poco tempo. Da quanti anni siamo noi un Paese nazionalmente unito? Da 70 o 80 anni, non più, e per arrivare a conquistare questo risultato abbiamo impiegato secoli di lotta, di travaglio, di sofferenze, di sconfitte e di umiliazioni.

Ci sconfissero e umiliarono tutti o quasi tutti i popoli vicini perché non eravamo uniti, perché non avevamo un esercito e uno Stato unitari, mentre essi li possedevano da secoli. Dobbiamo stare attenti a non perderla ora, questa unità.

Parlo qui come rappresentante di un partito della classe operaia, e la classe operaia è stata sempre più unitaria della borghesia. La borghesia fu da noi unitaria, nelle sue differenti frazioni, solo per particolari suoi motivi egoistici, non sempre confessabili; mentre la classe operaia fu unitaria perché la sua missione non poteva adempiersi se non su una scala nazionale. Non per niente la classe operaia ha dato il primo italiano del Nord, Bruno Buozzi, organizzatore dei metallurgici torinesi, il quale sia stato eletto deputato in una grande città meridionale. In questo modo gli operai dimostravano di essere una classe progressiva. I metallurgici di Torino davano la prova di saper camminare sul solco aperto dal Conte Camillo Benso di Cavour, facendo proprie e portando avanti quelle conquiste che non devono essere toccate, anzi conservate e consolidate dalle nuove generazioni.

Pur essendo unitari, siamo però d’accordo per la concessione di un regime particolare di larga autonomia a determinate regioni, e cioè alla Sicilia, alla Sardegna e alle zone di lingue e nazionalità miste. Nelle grandi isole italiane mediterranee si sono creati infatti una situazione particolare economica e politica e un particolare clima psicologico che impongono quella soluzione. Qui deve quindi esser concessa l’autonomia più larga. A questo non facciamo nessuna obiezione in questo campo, anzi siamo all’avanguardia della lotta per la libertà dei popoli siciliano e sardo in un’Italia democratica. Quando però si tratta di tutto il resto del territorio nazionale, lasciateci riflettere e riflettiamo assieme. Misure di decentramento amministrativo, formazione di enti regionali che permettano, perché meglio e direttamente collegati col popolo, tanto un più ampio e sicuro sviluppo democratico, quanto la formazione di nuovi quadri dirigenti della Nazione su una scala locale: tutto questo è considerato da noi con simpatia e accettato. Ci preoccupano però due cose: da un lato una parte delle norme che avete scritto in questo progetto, dall’altro lo spirito e gli argomenti coi quali le presentate.

Risulta, infatti, dal progetto che è data facoltà legislativa primaria alle regioni, e non soltanto per la decisione di questioni interne dell’organizzazione regionale stessa, ma anche, con una riserva formale che non si comprende neanche bene cosa significhi, per argomenti e temi di importanza fondamentale, come l’agricoltura. Il problema agrario è uno dei più gravi fra quelli che la Repubblica deve affrontare e risolvere. Ma cosa faremo per risolvere le questioni agrarie, cioè che riforma agraria faremo seguendo la strada indicata da questo progetto? Faremo le fattorie collettive in Emilia e manterremo il latifondo in Sicilia e la grande proprietà terriera nel Salento? Questo può derivare da un’applicazione della Costituzione regionalista che ci viene presentata. (Interruzioni a destra). Ma no, non siete voi che dovete decidere, deve decidere tutta la Nazione. (Applausi a sinistra).

La verità è che il nostro Paese non è economicamente e socialmente tutto allo stesso grado di sviluppo. Una parte, forse, sarebbe già matura per trasformazioni di tipo socialista, mentre l’altra no, l’altra non ha ancora compiuto la rivoluzione antifeudale. È necessario quindi che le necessarie trasformazioni economiche e sociali si compiano tenendo conto di questo dato di fatto. E non vedete che questo è ciò che stiamo facendo noi, partito più avanzato della classe operaia, e delle masse lavoratrici, appunto per evitare che da questa situazione possa uscire una rottura della unità nazionale? Per questo indichiamo a una parte del fronte dei lavoratori la necessità di segnare il passo, allo scopo di poter fare avanzare tutto il fronte insieme, altrimenti corriamo il rischio di perdere un bene che è prezioso per tutti noi e deve essere la base di tutto il progresso politico e sociale del Paese: l’unità politica e morale della nazione. Questo è ciò che stiamo facendo noi, ma lo stesso metodo deve essere seguito da tutti, e non bisogna che ad esso possano fare ostacolo gli ordinamenti costituzionali.

Inoltre trovo che nelle disposizioni che avete scritto è lasciata in disparte la finanza. Grave lacuna, che rende oscuro o incerto l’assieme delle norme sull’ordinamento regionalistico. Marco Minghetti, quando presentò alla Camera, credo nel 1863 o 1864, un progetto il quale prevedeva determinate autonomie regionali sulla base di un libero consorzio di provincie, propose che se si dovesse accettare un sistema di autonomie locali, si prendesse come punto di partenza e pietra di paragone il bilancio dello Stato e si vedesse quali entrate e quali uscite dovevano essere attribuite al potere centrale, quali entrate e quali uscite agli enti decentrati. Questa dovrebbe essere la base di organizzazione di qualsiasi autonomia; invece nel vostro progetto proprio questo lato è lasciato interamente al buio. (Interruzioni Commenti).

FUSCHINI. C’è il rinvio alla legge.

TOGLIATTI. Precisamente, il rinvio alla legge è troppo poco. Ma se ciò che è stato scritto in questo progetto a proposito delle autonomie regionali, solleva in noi una serie di dubbi molto gravi; altri dubbi e non meno gravi sollevano in noi i commenti e lo spirito col quale abbiamo sentito che il tema viene discusso. Perché nelle discussioni, di che si è parlato? Si è parlato di mercati regionali, di sbocchi al mare, di hinterland, di porti regionali; sono stati adoperati concetti i quali servono unicamente per ragionare attorno a quella che è un’organizzazione di uno Stato federale. Ma vogliamo proprio fare dell’Italia uno Stato federale, creando tanti piccoli Staterelli che lotterebbero l’un contro l’altro per contendersi le scarse risorse del Paese? (Commenti Interruzioni).

Di questo orientamento, sostanzialmente federale, nella Costituzione è rimasta persino la traccia, perché è rimasta una norma che si giustificherebbe solo in una organizzazione prettamente federalistica, quella cioè per la quale una regione non può ostacolare il transito verso altre regioni. Una norma simile, ripeto, non si giustifica in uno Stato unitario, ma soltanto in uno Stato federale. (Commenti).

Del resto, la perplessità non è soltanto in noi, la perplessità è nel Paese. Guardate il Paese, interrogatelo. Su questo tema lo troverete perplesso e in alcune sue parti anche profondamente turbato.

Una voce a destra. Referendum. (Commenti).

TOGLIATTI. Il relatore sull’ordinamento regionale nella seconda Sottocommissione ha detto che anche la regione sarebbe un ente naturale. In realtà, se mai, è qualche cosa di più e di meno: è un ente storicamente determinato. Però, quando rifletto alla storia del nostro Paese, difficilmente trovo la regione come tale; trovo invece un’altra cosa, trovo invece la città.

Una voce al centro. Anche la provincia.

TOGLIATTI. È su per giù la stessa cosa, poiché la provincia non è, in sostanza, che l’organizzazione della vita civile attorno alla città. Il peso che le città hanno in questa organizzazione è caratteristico e impronta originale della nostra storia e del nostro Paese, tanto nel nord come nel sud. Orbene, oggi chi è perplessa, a proposito dei piani regionalistici, è proprio la città italiana, la quale nell’organizzazione provinciale ha trovato finora la soddisfazione dei suoi interessi materiali e delle sue aspirazioni ideali. La città italiana tipica, che è la città capoluogo di provincia, teme la costituzione dei nuovi grandi centri regionali, e quindi la creazione di un apparato nuovo il quale potrebbe diventare una nuova barriera tra la città, dove si risolvono tutte le questioni della provincia, e lo Stato. È quindi naturale la reazione. Cosa credete che siano tutte queste Tuscie, e Daunie, e Japigie, e Intemelie che spuntano da una parte e dall’altra e di cui non avevamo mai sentito parlare prima d’ora? Io non rido di queste cose. Questa è la forma che prende questo stato non ancora di ribellione, ma di timore, che è nelle popolazioni italiane, e particolarmente nelle popolazioni cittadine, che non vedono chiaro in quello che vogliamo fare riorganizzando lo Stato su base regionale. Vi è qui in embrione una specie di ribellione della vecchia struttura politica e civile italiana, come si è storicamente formata, rispetto a piani di organizzazione, i quali possono essere ideologicamente o dottrinariamente giustificati, ma che vanno contro qualche cosa che già esiste, che è solido e non si distrugge agevolmente.

Per concludere su questo punto, dico una cosa sola: colleghi democristiani, colleghi repubblicani, non risolvete, col colpo d’una maggioranza, che oggi avete, ma che domani potreste non avere più, una questione così grave di organizzazione dello Stato italiano. E soprattutto in questo momento – ha ragione l’onorevole Nitti – in cui già sono attive forze centrifughe, che non riusciamo a controllare oggi completamente e che forse non potremmo più controllare in nessun modo domani, se ci mettessimo su una strada sbagliata di organizzazione dello Stato. Stiamo attenti a quello che facciamo.

Vengo all’ultima delle esigenze, che ho detto dover stare alla base del nostro lavoro costituzionale: l’esigenza di progresso sociale e di rinnovamento delle classi dirigenti.

Qui si presentano differenti temi, e in particolare quello della formulazione dei nuovi cosiddetti diritti sociali.

Siamo d’accordo, in generale, sulle formulazioni date; abbiamo però parecchie osservazioni da fare. Questo è infatti il punto, dove quel tipo deteriore di compromesso, onorevole Ruini, di cui ho parlato all’inizio della mia esposizione, ha giocato ampiamente, sostituendosi una parola all’altra, attenuandosi questa o quella affermazione, in modo tale da far sparire del tutto lineamenti originali del progetto che la prima Sottocommissione aveva elaborato.

Nel corso della discussione in questa Assemblea, poi, a un certo momento si era stabilito un fronte quasi generale degli oratori contro l’inserimento nella Carta costituzionale della affermazione di questi diritti. Tutti – strano a dirsi – sembravano esser diventati staliniani. Se si trattasse d’una convinzione seria e sincera, non potrei che rallegrarmi; ma non è così: si trattava unicamente di trovare nella citazione di un testo corrispondente a una situazione ben diversa dalla nostra un argomento per respingere, oppure per togliere dal testo costituzionale vero e proprio l’affermazione dei nuovi diritti sociali, per inserirli soltanto – in modo ancora più limitato e modesto di quanto non sia oggi – in un preambolo. In modo molto espressivo diceva uno dei colleghi che mi hanno preceduto che si trattava di confinarla nel preambolo: il confino è infatti il luogo dove si mandano le persone non desiderate.

TUPINI. Come i Patti Lateranensi, non desiderati.

TOGLIATTI. In realtà noi vogliamo l’inserzione di questi nuovi diritti nella Costituzione per fare un testo che corrisponda alla situazione reale del nostro Paese, situazione di transizione, nella quale tali diritti noi non siamo riusciti ancora a tradurre in atto, ma forse ci saremmo riusciti se la situazione internazionale non fosse stata per noi così grave e dolorosa.

Oltre a questo, noi teniamo a che venga fatta un’affermazione precisa circa il carattere della Repubblica. Riproporremo qui che la Repubblica italiana venga denominata Repubblica italiana democratica di lavoratori, e con questo non intendiamo dare l’ostracismo a nessuno, non vogliamo escludere nessuno dall’esercizio dei diritti civili e politici, ma vogliamo affermare che la classe dirigente della Repubblica deve essere una nuova classe dirigente (Commenti a destra), direttamente legata alle classi lavoratrici.

Infine, avendo chiesto e chiedendo che venga inserita in modo preciso nel testo costituzionale l’affermazione del diritto al lavoro, del diritto al riposo, del diritto alla assicurazione sociale e all’assistenza e così via, dobbiamo dare una chiara risposta alla grave questione, che molti hanno sollevato, delle garanzie per l’attuazione e la realizzazione di questi diritti.

L’onorevole Saragat, trovatosi di fronte a questa questione, ha risposto che la garanzia di questi diritti sta nel senso sociale e nel senso di civismo degli italiani. No, questo non basta! Mi auguro che il senso sociale degli italiani sia sempre ricco, ricchissimo, e permetta di risolvere bene e a tempo e nell’interesse delle classi lavoratrici tutte le questioni di organizzazione economica e sociale che si presenteranno nel futuro.

Ma questo augurio è poca cosa, anzi, è cosa nettamente insufficiente. Occorre qualche cosa di più e di diverso; occorre cioè che, se anche non siamo in grado di scrivere quello che è scritto nella Costituzione staliniana, cioè i mezzi concreti con cui si garantiscono il lavoro, il riposo, le assicurazioni, l’istruzione di tutti i lavoratori, indichiamo però il metodo generale che deve essere seguito dal nuovo Stato democratico repubblicano per riuscire a garantire questi nuovi diritti.

E qui non ho che da rinviare alla relazione che presentai alla prima Sottocommissione, nella quale indicavo chiaramente che questo metodo generale deve consistere nei punti seguenti:

«a) la necessità di un piano economico, sulla base del quale sia consentito allo Stato di intervenire per il coordinamento e la direzione dell’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione;

«b) il riconoscimento costituzionale di forme di proprietà dei mezzi di produzione diverse da quella privata, e precisamente la proprietà cooperativa e quella di Stato. Il riconoscimento della proprietà cooperativa nella Costituzione stessa consentirà al legislatore di svincolare il movimento cooperativo dalle troppo ristrette pastoie dell’attuale legislazione civile e commerciale, e sarà utile premessa a un largo sviluppo della cooperazione, nel campo della produzione e del lavoro in modo particolare. Il riconoscimento costituzionale della proprietà di Stato di determinati mezzi di produzione servirà, d’altra parte, a dare una base costituzionale nuova al processo di nazionalizzazione di determinate branche industriali;

«c) la necessità che vengano nazionalizzate quelle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico oppure monopolistico debbono essere sottratte alla iniziativa privata, allo scopo precisamente di impedire che gruppi plutocratici, avendo queste imprese nelle loro mani, se ne servano per stabilire una loro egemonia su tutta la vita della Nazione;

«d) la necessità dell’organizzazione di Consigli di azienda come organi per l’esercizio di un controllo sulla produzione, da parte di tutte le categorie dei lavoratori, nell’interesse della collettività;

«e) la necessità che l’esercizio del diritto di proprietà, di cui d’altra parte si garantisce la tutela da parte della legge, sia limitato dall’interesse sociale; e infine,

«f) la necessità che la distribuzione della terra nel nostro Paese venga profondamente modificata in modo che sia limitata la grande proprietà terriera e vengano protette e difese la proprietà piccola e media, e in modo particolare l’azienda agricola del coltivatore diretto».

Di tutto questo che cosa dobbiamo scrivere nella Costituzione? Dobbiamo scrivere quel tanto che serva a tracciare la strada su cui dovranno muovere le Assemblee legislative nella loro opera di concreta organizzazione della vita economica e sociale. Anche questa Assemblea, pur essendo di sua natura costituente, avrebbe dovuto incominciare a muoversi per questa strada. Essa infatti è stata eletta dal popolo nella speranza che avrebbe preso le prime misure necessarie per introdurre, o almeno per iniziare, trasformazioni profonde nell’organismo economico della nazione, nell’interesse delle masse lavoratrici e di tutti i cittadini. Non siamo ancora riusciti a farlo: dobbiamo però farlo. Queste sono le opere che la Repubblica deve fare; soltanto affrontando queste opere, compiendo queste trasformazioni, si risolve radicalmente la questione della legittimità del regime repubblicano. Vi è una legittimità formale della Repubblica, che sta nel referendum e nella maggioranza che in esso si manifestò per il regime repubblicano. Ma vi è anche un problema di legittimità sostanziale. Tale legittimità sostanziale consiste nel fatto che la Repubblica affronti e risolva quei problemi di trasformazione economica e sociale che il popolo ritiene debbano essere risolti dal regime repubblicano e che sono maturi per una soluzione.

La nostra Costituzione, anche se non sarà essa il documento che ci darà la soluzione di tutti questi problemi, dovrà essere però un documento che tracci il cammino sul quale si muoveranno i politici e i partiti italiani. Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale. Ecco quello che noi vogliamo. Ecco perché chiediamo che la parte della Costituzione che tratta dei diritti sociali sia chiara, senza equivoci e questi diritti siano sostanzialmente garantiti.

Ho finito, onorevoli colleghi. Ho sentito da molti, e giustamente, dire che il compito che sta davanti a noi è grave, pesante: è vero, onorevole Calamandrei.

«Ma chi pensasse il ponderoso tema

E l’omero mortai che se ne carca

No ’l biasmerebbe se sott’esso trema».

Ma questo vale per noi come singoli; noi qui, però, non siamo come singoli.

Noi siamo qui, prima di tutto, noi della grande maggioranza dell’Assemblea, gli esponenti di un grande movimento nazionale liberatore, movimento il quale trae i succhi della propria esistenza dalle migliori tradizioni della vita e della storia del nostro Paese: le tradizioni liberali e democratiche. Queste tradizioni il fascismo ha voluto negarle, ha cercato di distruggerle; non vi è riuscito ed è crollato nel baratro, nel quale purtroppo ha trascinato anche noi.

Ma noi ci sentiamo qui, noi comunisti, voi socialisti e anche voi, colleghi della Democrazia cristiana, noi tutti dobbiamo sentirci qui anche gli esponenti di qualche altra cosa: gli esponenti di quelle masse lavoratrici, di operai, di braccianti, di contadini, di impiegati, di uomini del popolo, di uomini che vivono soltanto del proprio lavoro, e che da decenni sono attive nella lotta per la loro emancipazione. Queste masse si sono organizzate, hanno combattuto e combattono non soltanto per migliorare la loro esistenza giorno per giorno, attraverso le loro agitazioni e i movimenti loro economici e politici, ma anche e soprattutto per gettare le fondamenta di un nuovo ordinamento sociale, di una società nazionale rinnovata, governata dal lavoro secondo i propri interessi e secondo la propria profonda moralità, secondo quei principî di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale, che sono l’essenza dell’ideologia delle classi lavoratrici, in tutte le forme in cui essa può manifestarsi.

Onorevole Presidente! Onorevoli colleghi! Il nostro gruppo interverrà attivamente nel dibattito costituzionale, per sostenere che nella maggior misura possibile la nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana corrisponda a questi principî; corrisponda cioè a quelle che sono le aspirazioni della grande maggioranza del popolo italiano, aspirazioni che esprimono la più profonda, la più urgente esigenza della nostra vita nazionale in questo momento. (Vivissimi applausi. Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Croce. Ne ha facoltà.

CROCE. Dopo l’ampia discussione generale di questo disegno di Costituzione, dopo la critica di cui è stato oggetto – nella quale si direbbe che le censure hanno soverchiato i consensi – dopo che si è udita la parola di tanti esperti giuristi, permetterete a me che quando tento di sottrarmi al nome impopolare di filosofo mi rifugio in quello di letterato, di osservare che forse una delle cagioni per cui l’opera non è felicemente riuscita proviene dall’essere stata scritta da più persone in concorso. Né un libro, né una pagina si compone se non da una singola mente che sola compie la sintesi necessaria e, avvertendo e schivando anche le più piccole dissonanze, giunge alla scrupolosa logicità e all’armonia delle parti nell’unità. Veramente gli autori questa volta sono stati troppi; ma fossero stati, invece di 75, dieci, cinque o tre, sempre, avrebbero dovuto, naturalmente, dopo eseguito il loro lavoro specifico e fissate le conclusioni a cui erano pervenuti, dare mandato a uno solo di loro di rimeditarle e formularle, il quale poi le avrebbe ripresentate agli altri e, raccolte le loro osservazioni ed obiezioni, rinnovato tante volte quante bisognava il suo atto sintetico, correggendo le incoerenze e contraddizioni che gli fossero per caso sfuggite e raggiungendo parti integrative, e tutto ciò sempre sotto la sua responsabilità intellettuale, col suo diretto riesame e con la sua interiore approvazione e soddisfazione personale. Una scrittura diversamente condotta, per valenti che sieno i suoi molti e molteplici autori, lascia più o meno scontento ciascuno di essi; laddove, condotta a quel modo, ottiene il loro consenso, come ammiriamo e facciamo nostra una bella poesia senza essere intervenuti a scriverla. Tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere. In effetto, dello Statuto albertino del Regno di Sardegna lo scrittore fu il giurista Des Ambroìs, come la relazione ricorda, e di quello napoletano dello stesso anno l’avvocato e filosofo Bozzelli; e così sempre che si sia fatta o si voglia fare una cosa organica, perché in questo riguardo non v’è luogo a distinguere tra Statuto concesso e Statuto che il popolo chiede e approva.

Ma a questa prima cagione della mancanza di coerenza e di armonia del presente disegno si è aggiunta un’altra ben più grave: che i molti suoi autori non solo non potevano portarvi un’unica mente di scrittore, ma non vi perseguivano un medesimo fine pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il Governo, non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposizione di animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua ai suo mulino e tutti hanno fatto come nella classica novella spagnola del cieco e del ragazzo che gli serve da guida e compagno, della quale qui leggerei ad ammonimento qualche tratto se non temessi la giustificata accusa di troppa frivolezza o distrazione letteraria. Da tale procedere è noto quel che l’onorevole Relatore chiama eufemisticamente «carattere intermedio» della proposta o «diversità di accento», ossia i ben trasparenti negoziati accaduti tra i rappresentanti dei partiti che hanno messo capo ad un reciproco concedere ed ottenere, appagando alla meglio o alla peggio le richieste di ciascuno, ma giustificando le richieste oggettive dell’opera che si doveva eseguire. La quale opera era semplicemente e severamente questa: di dare al popolo italiano un complesso di norme giuridiche che garantissero a tutti i cittadini, di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale, la sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà, la quale porta con sé come logica sua conseguenza (e nobilmente ce lo ha rammentato l’onorevole Orlando), con la crescente civiltà la giustizia sociale che le si lega.

Un esempio, e insieme la diretta prova, del metodo tenuto è (e sebbene già altri parecchi ne abbiano altamente parlato, qui non posso tacerne neppure io) nella proposta di includere nella Costituzione i Patti lateranensi e l’impegno contro una possibile legge del divorzio. E che cosa c’è di comune tra una Costituzione statale e un trattato tra Stato e Stato, e come mai a questo trattato in sede di Costituzione si può aggiungere l’irrevocabilità, cioè l’obbligo di non mai denunciarlo o (che vale lo stesso) di modificarlo solo con l’accordo dell’altra parte, mentre l’una delle due, cioè l’altro Stato, non interviene e non può intervenire come contraente in quest’atto interno e quell’obbligo resta unilaterale, ossia appartiene a uno di quei monologhi che, come argutamente è stato osservato, nel testo presente si alternano coi dialoghi.

Parlai io solo in Senato, nel 1929, contro i Patti lateranensi; ma anche allora dichiarai nettamente che non combattevo l’idea delle conciliazioni tra Stato e Chiesa, desiderata e più volte tentata dai nostri uomini di Stato liberali, perché la mia ripugnanza e opposizione si riferiva a quel caso particolare di conciliazione effettuato non con una Italia libera, ma con un Italia serva e per mezzo dell’uomo che l’aveva asservita, e che, fuori di ogni spirito di religione come di pace, compieva quell’atto per trarne nuovo prestigio e rafforzare la sua tirannia. (Vivissimi applausi). Ma nelle presenti terribili difficoltà, nell’affannosa problematica di tutta la vita italiana, nessuno e neppure io penso a riaprire quella questione, né penso ad agitare l’altra del divorzio che non attecchì le altre volte in cui fu proposta, sicché si direbbe che il costume italiano non ne senta il bisogno e la convenienza, e d’altronde d’indissolubilità del matrimonio sta nel Codice civile. Si dirà che la strana inclusione nella Costituzione vuol essere una assicurazione verso l’avvenire; ma quando mai parole come quelle legano l’avvenire? Lo legano così poco quanto il famoso biglietto di impegno che Ninon De Lenclos fece a Le Chastre allorché partì per la guerra. E se mi consente l’onorevole Togliatti che più volte mi ha fatto segno dei suoi motti satirici, che lo ricambi col semplice motto scherzoso, io quasi sospetto che la parte di Ninon De Lenclos abbia in mente di farla questa volta lui coi comunisti, che un giorno sperano di poter dire ai loro colleghi democristiani, i quali invano punteranno il dito su un articolo qualsiasi della Costituzione da loro consentito: «Oh, le ben billet qu’a là Le Chastre!» E fin da ora si direbbe che egli abbia l’occhio a una particciuola di uscita, perché ammette l’indissolubilità del matrimonio fino a quando una nuova anima civile non si sarà formata in Italia; e dipende evidentemente da lui di accelerare questa formazione o di annunziare che è avvenuta; e allora poveri Patti lateranensi, povera indissolubilità matrimoniale e povera Costituzione! Dunque, se quella inclusione, che è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico, è troppo fragile o illusorio riparo verso l’avvenire, perché offendere il senso giuridico che è stato sempre così alto in Italia e che solo il fascismo ha osato calpestare?

Simili compromessi, sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti vaghi o contraddittori, abbondano, come s’è detto, nel disegno di Costituzione, e saranno opportunamente rilevati e discussi, quando si passerà all’esame dei titoli e degli articoli. Ma un altro di essi voglio qui accennare di volo, che sta a cuore a molti tra noi, di vari e diversi opposti partiti, liberali e socialisti o comunisti, dall’onorevole Nitti agli onorevoli Nenni e Togliatti: la tendenza a istituire le regioni, a moltiplicarne il numero ed armarle di poteri legislativi e di altri di varia sorte. L’idea delle regioni come organismi amministrativi apparve già nei primi anni dell’unità, con la quale erano state superate le concezioni federalistiche che non avevano avuto mai molto vigore in Italia, vagheggiate da solitari o da piccoli gruppi, o fugate dalla fulgida idea dell’unità che Giuseppe Mazzini accolse dal pensiero di Niccolò Machiavelli, dall’anelito secolare dell’Italia e dai concetti dei nostri patriotti delle repubbliche suscitate dalla Rivoluzione francese, tra i quali tenne uno dei primi posti un politico meridionale, dal Mazzini in gioventù studiato, Vincenzo Cuoco. Ma ora, dopo la parentesi fascistica e la guerra sciagurata al seguito della quale vecchi malanni si risvegliano, come in un organismo che ha sofferto una grave malattia, contrasti di Nord e di Sud, di Italia insulare e di Italia continentale, pretese e gelosie regionali e richieste di autonomie, si son fatti sentire, con gran dolore di chi, come noi, crede che il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento sia l’unità statale che dobbiamo mantenere saldissima se anche nel presente non ci dia altro conforto (ed è pure un conforto) che di soffrire in comune le comuni sventure. (Vivi applausi).

So bene che certe transazioni e concessioni di autonomie sono state introdotte e che, al giudizio o alla rassegnazione di molti, questo era inevitabile per stornare il peggio; ma il favoreggiamento e l’istigazione al regionalismo, l’avviamento che ora si è preso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e inisperimentate istituzioni regionali, è pauroso. Sembra che tutto si debba rifare a nuovo, che tutto sia da mutare o da distruggere della precedente Costituzione, alla quale si attribuisce la colpa di aver aperto la via al fascismo; laddove il vero è che la via fu aperta dall’inosservanza e violazione della Costituzione, che non era nemmeno più «octroyée», concessa da un re, perché sanzionata poi dai plebisciti. Lo Statuto del 1848 ha regolato e reso possibile lo splendido avanzamento dell’Italia in ogni campo di operosità per oltre settant’anni, e, non rigido come questo nuovo che ci vien proposto – di quella rigidezza che improvvisamente scoppia o invita a mandarla in pezzi – ma flessibile, consentì a grado a grado, col modificarsi dei pensieri, degli animi e dei costumi, il diritto di sciopero agli operai e l’allargamento del suffragio, fino al suffragio universale, tutte cose che abbiamo trovate già fatte e preparate per la nostra ulteriore costruzione, quando, abbattuto il fascismo, abbiamo riavuto il nostro vecchio Statuto. Si ode ora spesso faziosamente ingiuriare gli avversari politici col nome di fascisti; ma io ritrovo l’effettivo fascismo, tra gli altri cattivi segni, in questa imitazione del dispregio e del vituperio che i fascisti versarono sull’Italia quale fu dal 1848 al 1922. Di quell’età io mi sento figlio; nella benefica, nella santa sua libertà ho potuto educarmi e imparare; e mi si perdoni questa digressione, perché è dovere, io credo, che i figli difendano l’opera e l’onore dei padri. (Applausi).

Ma io odo sussurrare da più di uno che la discussione che ora si fa nell’Assemblea Costituente è piuttosto figurativa che effettiva, perché i grossi partiti hanno, come che sia, transatto tra loro e si sono accordati attraverso i loro rappresentanti nella Commissione di studio e di proposte. Avremo, dunque, anche all’interno una sorta di Diktat, come quello che tanto ci offende e ci ribella, impostoci dalle tre potenze nel cosiddetto trattato di pace, al quale l’Italia cobelligerante non ha partecipato e non vi ha veduto accolta nessuna delle richieste necessarie alla sua vita? Ma quel Diktat, venuto dal di fuori, se ci offende e ci danneggia, pure unisce tutti noi italiani nel proposito di scuoterlo da noi con tutte le forze del nostro pensiero e della nostra volontà, con tutte le virtù del nostro lavoro, col valerci delle occasioni favorevoli che non potranno non presentarsi nel mutevole corso della Storia; ma questo, invece, al quale ci piegheremmo oggi nel governo delle nostre cose interne, essendo opera e colpa nostra, ci disunirebbe o ci corromperebbe; e perciò non è da sopportare e bisogna provvedere affinché non eserciti la sua insidiosa prepotenza. In qual modo? si dirà. Il modo c’è e dipende da noi, né sta solo nel fatto che, oltre i grossi partiti ci sono gli altri, numericamente forse ma non idealmente inferiori, sebbene anche e soprattutto in ciò che i partiti sono utili strumenti di azione per certi fini contingenti e non sono il fine universale, non sono la legge del bene alla quale solamente si deve ubbidire, perché, come Montesquieu diceva di se stesso, egli prima che francese si sentiva europeo e prima che europeo si sentiva uomo.

La partitomania, che ingenuamente si esprime nella formula che fu già del fascismo ed è ora la tromba (ahi quanto diversa!) che il tassesco Rinaldo «udia dall’oriente», nella formula verbalmente assurda del «partito unico», vorrebbe invertire questa scala di valori e porre lo strumento di sopra allo spirito umano che deve adoprarlo e collocare ciò che è ultimo al posto di ciò che è primo. Contro cotesta distorsione della vera gerarchia bisogna stare in guardia e ad essa opporsi in modo assoluto e radicale. Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso. Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime:

«Veni, creator spiritus,

Mentes tuorum visita;

Accende lumen sensibus,

Infunde amorem cordibus!»

Soprattutto a questi: ai cuori. (Vivissimi applausi – Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15,30.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15,30:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Svolgimento):

Merlin, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia                                      

Bordon                                                                                                             

Presidente                                                                                                        

Bernini, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione                                  

Russo Perez                                                                                                     

De Filpo, Sottosegretario di Stato per l’agricoltura e foreste                                

Pastore Raffaele                                                                                            

Restagno, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici                                      

Persico                                                                                                             

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Pastore Giulio                                                                                                 

Musolino                                                                                                          

Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni:

Presidente                                                                                                        

Colitto                                                                                                             

Ghislandi                                                                                                         

Persico                                                                                                             

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Carpano Maglioli, Sottosegretario di Stato per l’interno                                   

Porzio                                                                                                               

Perugi                                                                                                               

Castelli Avolio                                                                                               

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana precedente.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Di Giovanni, Cannizzo e Salvatore.

(Sono concessi).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca le interrogazioni. La prima è quella dell’onorevole Bordon, al Ministro di grazia e giustizia, «per sapere se non ritenga di emettere, senza ulteriori dilazioni, i provvedimenti che vennero ripetutamente richiesti a favore dei partigiani, disponendo: a) che sia concesso, a coloro di essi che incorsero in reati anteriormente alla data del 22 giugno 1946, di beneficiare, anche per i reati comuni, del condono di cui all’articolo 9 del citato decreto, abrogando nei loro confronti le eccezioni di inapplicabilità del condono, di cui alla lettera c) dell’articolo 10 del decreto stesso; b) che, in. subordine, rispetto ai reati cui fosse negata l’applicabilità del condono, sia concesso a coloro che parteciparono alla guerra di liberazione, di avere almeno il beneficio della libertà condizionale, indipendentemente dal termine prescritto dalla legge per l’applicabilità di tale beneficio, ovverosia anche quando la pena scontata sia inferiore a tale termine; c) che, con apposito decreto, sia concessa la riabilitazione d’ufficio a coloro che, avendo riportato condanne anteriormente alla data dell’8 settembre 1943, si siano, colla loro partecipazione alla guerra di liberazione, resi meritevoli dell’invocato beneficio».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.

MERLIN, Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia. Il Governo è animato verso i partigiani, che hanno concorso a liberare il nostro Paese dal giogo nazi-fascista, da ogni migliore disposizione e lo ha dimostrato con le numerose provvidenze che furono emanate a loro vantaggio. Tuttavia non sembra al Governo conveniente allargare ancor più i benefici di una amnistia e di un indulto che da opposte parti vennero giudicati fin troppo generosi. Il decreto presidenziale 2 giugno 1946, n. 4, all’articolo 10 dichiara che non si applica il condono ai casi di peculato, concussione, falsificazione, omicidio, rapina, estorsione e ricatto. Basta fare l’elenco di questi delitti per misurarne la gravità, e quando poi si tenga presente che sempre tali delitti vennero esclusi dalle precedenti amnistie si comprenderà la giustificazione.

È da tener poi presente che l’articolo 10, n. 3, dopo avere escluso dall’indulto i sopra elencali reati, ha aggiunto le seguenti parole: «Salvo che siano stati commessi per scopi politici», della quale eccezione certamente molti partigiani avranno beneficiato.

Quanto alla liberazione condizionale, è chiaro che tale istituto verrebbe ad essere completamente alterato ove venisse applicato senza l’osservanza dei termini fissati nel Codice penale. Altrettanto è a dirsi per quanto concerne la riabilitazione, che va applicata con l’osservanza dei termini e delle modalità previste dal Codice. È chiaro però che l’avere partecipato alla guerra di liberazione sarà un ottimo titolo per poter ottenere il beneficio.

PRESIDENTE. L’onorevole Bordon ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

BORDON. Mi dichiaro insoddisfatto, anzi insoddisfattissimo, perché la risposta del Governo è completamente negativa. L’onorevole Sottosegretario di Stato per la grazia e giustizia osserva che sono state disposte numerose provvidenze per i partigiani. Ora, io desidero sapere quali e quando sono state emesse queste numerose provvidenze, perché noi abbiamo il decreto di amnistia del 22 giugno nel quale si parla genericamente di reati politici, ma non vi è nessun riferimento specifico ai partigiani, a coloro cioè che si sono resi meritevoli di particolari riguardi.

Se vi è una categoria che doveva beneficiare dell’amnistia, questa era proprio la categoria dei partigiani. Ora, il decreto di amnistia ha creato una profonda ingiustizia, cioè ha messo in libertà tutti i fascisti che dovevano rimanere in carcere a scontare i loro reati politici e non politici, ed al posto loro ha lasciato i partigiani, i quali aspettano ancora oggi una giusta riparazione. Evidentemente, questa riparazione si rende necessaria. Io ne ho fatto oggetto di richieste verbali al Ministero di grazia e giustizia e, siccome le risposte sono state negative, ho dovuto decidermi a fare questa interrogazione, la quale data non da oggi, anche se soltanto oggi viene in discussione.

Rilevo anche che delegazioni di partigiani sono venute a Roma per far presenti le loro legittime rivendicazioni, cui accenno nella mia interrogazione. Essi hanno avuto il più ampio affidamento che si sarebbe provveduto. Rilevo anche che nel convegno di Firenze si è chiesto ad alta voce che bisognava provvedere ad emanare i provvedimenti più volte richiesti. Tutto è rimasto lettera morta, come lo dimostra in questo momento la risposta del Governo. Bisogna provvedere a soddisfare le richieste di giustizia dei partigiani e delle loro famiglie. Vengo, in particolare, alla risposta data dal Sottosegretario.

PRESIDENTE. Onorevole Bordon, la invito a mantenersi nei termini di tempo prescritti dal Regolamento.

BORDON. Ho bisogno di svolgere l’argomento. Mi riservo di trasformare l’interrogazione in interpellanza.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Russo Perez al Ministro della pubblica istruzione, «per conoscere se, assecondando i desiderata espressi dai maestri elementari nell’ultimo Congresso di Palermo, il Ministero, prima che siano banditi nuovi concorsi per posti vacanti di maestri elementari nei vari comuni d’Italia, intenda, e fino all’esaurimento, avvalersi dei pochi concorrenti risultati idonei nell’ultimo concorso per titoli ed esami ultimatosi nell’anno 1942, e non assunti, disponendo conseguentemente per la loro nomina ai posti in atto vacanti o che si renderanno tali».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

BERNINI, Sottosegretario di Stato per la pubblica istruzione. Allo stato attuale della legislazione non è possibile immettere in ruolo gli insegnanti risultati idonei nei concorsi per titoli ed esami del 1942.

Un provvedimento legislativo in tal senso era stato adottato dal passato regime per il concorso per le scuole di Roma nel 1930; ma tale provvedimento recava considerevole danno alla stessa classe magistrale, in quanto toglieva la possibilità di bandire eventuali concorsi, avendo ipotecato i posti vacanti, per notevole numero di anni.

Questo precedente dimostra l’assoluta necessità di procedere con molta cautela nell’emanare disposizioni del genere. Ad ogni modo, assicuro l’onorevole interrogante che, in base ad un provvedimento in corso di preparazione, già annunziato dalla stampa, gli insegnanti in possesso delle idoneità potranno partecipare ad un concorso per titoli per metà dei posti vacanti.

PRESIDENTE. L’onorevole Russo Perez, ha facoltà di dichiarare so sia sodisfatto.

RUSSO PEREZ. Mi rendo conto delle ragioni esposte dal Sottosegretario per la pubblica istruzione: tanti giovani in possesso dei titoli necessari, reduci, i quali aspirano ad una occupazione, non potrebbero trovarla, se venisse accolta la richiesta contenuta nella mia interrogazione.

Ma io vorrei che il Ministero si rendesse conto delle ragioni di quella categoria di maestri, dei quali ho interpretato il desiderio; maestri che quasi hanno raggiunto i limiti di età, hanno partecipato al concorso nel 1942, hanno sopportato delle spese per poter parteciparvi, sono stati dichiarati idonei, e non sono stati chiamati in servizio.

Il Sottosegretario per la pubblica istruzione dice che un provvedimento simile a quello da me richiesto fu escogitato al tempo del Governo fascista, ma che poi, nella esecuzione pratica, si manifestarono degli inconvenienti, per cui il provvedimento dovette essere revocato.

Ma non è difficile immaginare un provvedimento democratico, che possa ad un tempo sodisfare i desideri di questa categoria di maestri e, nello stesso tempo, non dar luogo agli inconvenienti lamentati.

Siccome la verità non sta né a sinistra né a destra, e… non sta neanche al centro (Commenti al centro), ma sta un poco a sinistra ed un poco a destra, penso che il Ministero potrebbe escogitare un provvedimento, per cui una parte dei posti, che mano mano si rendono vacanti, venga occupata per concorso da coloro che non hanno partecipato a precedenti concorsi, ed una parte sia riservata ai maestri dichiarati idonei nel 1942.

In questo senso mi dichiaro parzialmente soddisfatto, nella speranza che il Ministero voglia presto studiare ed attuare il provvedimento da me invocato.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Pastore Raffaele, al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, «per sapere se, per combattere la disoccupazione, non creda opportuno applicare il decreto ministeriale 19 dicembre 1938, n. 12571, riflettente la trasformazione dell’agricoltura nel Tavoliere di Puglia ed estendendo lo stesso piano di trasformazione a tutta la fascia premurgiana».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’agricoltura e le foreste ha facoltà di rispondere.

DE FILPO, Sottosegretario di Stato per l’agricoltura e le foreste. Il piano delle nuove direttive della trasformazione dell’agricoltura, approvato con decreto ministeriale 18 dicembre 1938, n. 12571, non mancò di avere un principio di applicazione nel comprensorio del Consorzio generale per la bonifica della Capitanata.

Tale applicazione non poté, purtroppo, avere un notevole sviluppo in quanto, nelle more dell’allestimento dei vari progetti, sopravvennero noti eventi che in quella zona non consentirono uno sviluppo progressivo delle singole iniziative.

Ora che tali cause sono cessate, il Ministero dell’agricoltura si ripromette di riavviare in quel comprensorio la trasformazione agraria ed è allo studio il riesame delle direttive prestabilite.

Quanto poi alla richiesta, per la estensione del piano a tutta la fascia premurgiana, osservo che le norme della trasformazione vanno studiate ed applicate a seconda delle caratteristiche che ciascuna zona presenta e raramente riguardano interventi di natura talmente generica, da rendersi suscettibili di applicazione in qualsiasi territorio il quale debba essere fondiariamente ed agrariamente trasformato.

Ciò a prescindere dalla impossibilità giuridica di rendere un comprensorio di bonifica soggetto a norme studiate ed imposte per un comprensorio del tutto diverso.

Con questo però non deve intendersi esclusa la convenienza di adottare per la Fossa Premurgiana, o meglio, per quelle zone di essa che più delle altre ne appaiono suscettibili, provvedimenti inerenti alla trasformazione fondiaria analoghi a quelli già adottati per il comprensorio della Capitanata, adeguandoli, bene inteso, alle peculiari condizioni delle zone medesime.

In proposito è necessario chiarire che il territorio denominato Fossa Premurgiana è esteso per ettari 250.000, di cui 105.000 in provincia di Bari ed il restante nella Lucania. Dei sopraddetti ettari 105.000, ettari 62.000 costituiscono il comprensorio della bonifica del Locone e Basentello, e sono questi che appaiono particolarmente idonei, se mai, a formare oggetto del provvedimento invocato, se si tiene conto che quel comprensorio è stato sinora oggetto di importanti lavori di canalizzazione e di costruzione di strade, per un importo complessivo di lire 300 milioni circa.

I lavori di quella bonifica hanno avuto, specie in questi ultimi tempi, un ragguardevole sviluppo, in vista delle esigenze della occupazione della mano d’opera dei maggiori centri abitati del comprensorio. Dei 300 milioni sopra cennati, 200 risultano autorizzati infatti soltanto nell’ultimo anno.

L’ingente spesa sostenuta, per la maggior parte a carico totale dello Stato, rende quindi, più che altrove, indispensabile per quella zona l’esame di interventi di trasformazione fondiaria agraria da parte di proprietari, che debbono affiancare e valorizzare l’opera statale, migliorando ed intensificando le possibilità colturali dei terreni nell’interesse dell’economia generale del Paese.

Limitandosi quindi, per ora, al comprensorio del Locone e Basentello il provvedimento invocato dall’onorevole Pastore, dovrebbe quel Consorzio provvedere a redigere un apposito piano delle direttive della trasformazione dell’agricoltura nel comprensorio consorziale: piano che, sottoposto ad esame degli organi competenti e riconosciuto meritevole di approvazione, potrà poi formare oggetto di un apposito provvedimento ministeriale, come quello studiato per il suo comprensorio dal Consorzio della Capitanata che formò oggetto del menzionato decreto ministeriale 19 dicembre 1938, n. 12571.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PASTORE RAFFAELE. Non posso dichiararmi sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario per l’agricoltura. Mentre il Governo sta spendendo centinaia di milioni per provvedere alla disoccupazione nelle Puglie, non si attuano provvedimenti che potrebbero servire non soltanto ad eliminare la disoccupazione, ma ad intensificare la produzione.

L’onorevole Sottosegretario fa cenno agli eventi bellici che hanno impedito finora di applicare il piano studiato e approvato fin dal 1938; ma noi ci meravigliamo che, alla distanza di quattro anni da quando la guerra è passata nelle Puglie, il Governo non ha trovato ancora il modo di obbligare i proprietari ad attuare quel piano. Se è vero che qualche cosa si è fatta nel Tavoliere, si sono fatti solo i lavori a totale carico dello Stato. Invece quando si tratta di lavori a cui dovevano provvedere i proprietarî, nulla si è potuto fare. Il piano approvato con decreto ministeriale del 1938, che porta la firma di eminenti studiosi, prevede le abitazioni rurali. I nostri contadini sono invece costretti a dormire sulla paglia nelle stalle, non hanno neppure un cencio di materasso, né una coperta per coprirsi. Si coprono solo col mantello e, per potersi difendere dal freddo, devono dormire vestiti per 15 giorni quando sono costretti a rimanere in campagna.

Nel piano sono previste le costruzioni di case a carico dei proprietarî col sussidio dello Stato; lo stesso piano prevede il termine di due anni per essere attuato; ma i due anni devono decorrere dal giorno in cui il Consorzio di bonifica, che è nelle mani dei proprietarî, provvederà alla bonifica obbligatoria. Sicché i due anni non cominceranno mai finché i Consorzi, con quella forma antidemocratica che pare sia ancora oggi ammessa, saranno nelle mani dei proprietari.

I Consorzi di bonifica sono la negazione della democrazia, in quanto un ricco proprietario terriero ha in essi fino a mille voti, mentre un contadino non ha neppure un voto.

Perciò richiamiamo l’attenzione del Governo, che oggi ancora sta spendendo centinaia di milioni nella Puglia, perché agisca per mezzo di propri funzionari, estromettendo coloro che hanno interessi contrari, affinché il piano di trasformazione abbia quella estensione che è stata domandata.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Di Giovanni, al Ministro della pubblica istruzione, «sulla assurda disposizione, relativa alla compilazione delle graduatorie per il conferimento di incarichi e supplenze nelle cattedre delle scuole medie, per cui viene considerato a favore dei reduci, ai fini del punteggio, il servizio militare o il periodo di prigionia subìto posteriormente alla laurea e non anche quello anteriore a detta laurea, creando così una ingiusta disparità di trattamento verso coloro che furono costretti a ritardare la laurea per la chiamata alle armi e per l’impossibilità di conseguirla durante il tormentoso e difficile periodo della guerra. Per evidenti ragioni di giustizia si dovrebbero impartire disposizioni ai capi d’istituto tendenti ad equiparare, agli effetti del punteggio in graduatoria, tanto il servizio militare ed il periodo di prigionia sostenuto dopo il conseguimento della laurea, quanto quello anteriore».

Non essendo presente l’onorevole Di Giovanni, s’intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Angelucci, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dei lavori pubblici, del tesoro, dell’agricoltura e foreste e della pubblica istruzione «per sapere se non ritengano necessario, allo scopo di porre fine rapidamente alla tragica situazione in cui ancora vivono, dopo oltre due anni dalla cessazione delle ostilità, le popolazioni del Cassinate e paesi viciniori, di proporre una speciale ed efficace legislazione ed adeguati stanziamenti di fondi per la ricostruzione edilizia ed agricola di quella zona, che più di ogni altra ha subito i danni della guerra, nonché per il risanamento igienico e per la riattivazione delle scuole, considerato che la legislazione ordinaria in vigore ed i provvedimenti finora presi si sono dimostrati inefficaci».

Non essendo presente l’onorevole Angelucci, s’intende che vi abbia rinunziato.

Segue l’interrogazione dell’onorevole Persico, al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei lavori pubblici «per sapere quali provvedimenti intendano prendere per far cessare finalmente la condizione inumana e indecorosa in cui vivono ancora le martoriate popolazioni del Cassinate e di tutta la zona che va dalle Mainarde agli Aurunci».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici ha facoltà di rispondere.

RESTAGNO, Sottosegretario di Stato per i lavori pubblici. Il Ministero dei lavori pubblici ha eseguito nella zona, a cui si riferisce l’onorevole interrogante, lavori di demolizione e di sgombero, di riparazione di uffici pubblici, statali e di enti locali, di edifici di culto, riparazioni di opere stradali ed idrauliche, riparazioni di opere igieniche, smistamento di materiali, colmate di buche, costruzioni di case per i senza tetto e riparazioni di case private per un totale di 858 milioni, di cui 524 per la sola città di Cassino.

Sono stati inoltre già corrisposti contributi a privati per la riparazione di case per un totale di 207 milioni. Sono tuttora in corso nella detta zona lavori per un totale di 300 milioni.

Un ulteriore programma di lavori, che può considerarsi di prossima attuazione, compatibilmente coi fondi che ci saranno messi a disposizione dal Tesoro, prevede l’ulteriore spesa di 4 miliardi 355 milioni, di cui un miliardo e 700 milioni per il comune di Cassino.

Il Ministero dei lavori pubblici ha infine posto allo studio la possibilità dell’emanazione di un provvedimento legislativo che prevede speciali agevolezze per le zone supersinistrate, come quella di Cassino.

Io sono perfettamente d’accordo con l’onorevole interrogante e con altri colleghi che ci hanno interpellato in proposito, sulla gravità della situazione della zona cassinate, zona che ho avuto l’opportunità di visitare ripetutamente e nella quale ho dovuto constatare che si vive in una situazione così anormale, così grave, che non è più ulteriormente tollerabile.

Mentre nel complesso la ricostruzione nel nostro Paese si svolge con un ritmo abbastanza confortevole, nelle zone supersinistrate non si ottengono i risultati concreti che si attendono e i progressi che la situazione richiede.

Questa constatazione che ora faccio vuol significare appunto che si è d’accordo con l’onorevole interrogante sulla gravità del problema.

Abbiamo visto che città e paesi, specialmente sulle grandi arterie, dove il Governo ha potuto provvedere con larghezza di mezzi, sono rapidamente risorti; ma purtroppo, nei centri lontani dalle grandi vie di comunicazione, ci troviamo ancora in una situazione di quasi completo abbandono.

Il Ministero dei lavori pubblici intende perciò con prontezza porre riparo ed ovviare a questi gravissimi inconvenienti e intende, attraverso quella legge che è stata preannunciata dallo stesso Presidente del Consiglio nelle sue prime dichiarazioni del Governo, dare a queste zone supersinistrate un provvedimento agile, che consenta l’impiego dei fondi che saranno messi a disposizione del Ministero stesso a favore di queste zone che hanno tanto sofferto e che hanno giustamente il diritto di essere portate a un tenore di vita quale noi desideriamo e quale dobbiamo studiarci di realizzare al più presto.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PERSICO. Ringrazio il Sottosegretario di Stato, onorevole Restagno, per le sue cortesi parole e lo ringrazio anche per la comprensione che ha dimostrato di avere del problema; comprensione vivificata dal fatto che egli si è recato parecchie volte sul luogo e si è reso conto delle condizioni inumane di vita in cui versano quelle disgraziatissime popolazioni.

Non sono però sodisfatto della risposta, perché essa non fa che ripetere un vecchio ritornello. Ci vorrebbero dei provvedimenti eccezionali per le zone supersinistrate e questi provvedimenti non si sono ancora presi. Non per citare me stesso, ma, il 30 giugno del 1944, pochi giorni dopo la liberazione di Roma, ebbi a scrivere un articolo su un quotidiano politico nel quale spiegavo che occorrevano provvedimenti eccezionali per rendere abitabile la terra bruciata, e dicevo appunto che la zona che va dai monti Aurunci alle Mainarde e al mare, cioè la zona che si estende tra Cassino, Pontecorvo, Esperia, Formia, Gaeta, Castelforte, ecc., era in tali condizioni, per il passaggio ruinoso della guerra, per il ciclone della guerra che aveva raso al suolo ogni segno di vita civile, che occorrevano provvedimenti eccezionali. Ora, l’onorevole Sottosegretario mi dice che sono stati spesi 858 milioni, di cui 524 per Cassino: male spesi, onorevole Sottosegretario; malissimo spesi, perché si sono fatti dei fabbricati provvisorî che già sono in rovina. Ogni giorno infatti cadono pezzi degli edifici ricostruiti, e non si è avuto il concetto fondamentale di quello che occorre per ridar vita a un paese distrutto; non è facendo qua e là una casa dove dieci o dodici famiglie possono trovare rifugio, che rinasce la vita in un paese distrutto.

Bisogna creare il centro vitale della nuova città; quella che i greci chiamavano l’agorà, la piazza centrale, dove sia il municipio, dove sia la scuola, dove sia il mercato, dove siano tutti gli edifici di pubblico interesse, le case, le botteghe, per dar vita a nuovi paesi, a nuove città che risorgono; e allora l’iniziativa privata potrà esplicarsi. Allora potranno sorgere anche case fatte nell’interesse dei singoli, i quali troveranno il loro tornaconto nel costruire gli edifici, per dare l’alloggio ai senza tetto.

Ma se si seguita con il sistema di costruire una casa là, un’altra qua, senza evitare che, come è avvenuto a Cassino, le case vengano costruite nel pantano del Rapido, perché il Rapido aveva allagato la zona, onde sono sprofondate le fondamenta dopo pochi giorni che erano state fatte, buttando così centinaia di milioni, non si farà mai nulla. Occorrono, quindi, dei provvedimenti urgentissimi per rendere meno aspra la vita di quelle disgraziate popolazioni.

Io avevo presentato, l’11 dicembre dello scorso anno, una mozione, perché fosse provveduto ad un ente speciale, ad un Commissariato, il quale riunisse in sé tutte le attività governative, il quale accentrasse tutti i poteri, senza intralci di prefetture, tanto più che le prefetture sono tre: Frosinone, Latina, Caserta – e, quindi, difficoltà enormi; senza intralci di difficoltà burocratiche, dicevo; e speravo che questa mozione si potesse discutere. L’onorevole Macrelli. che rappresentava allora il Governo, mi disse che sarebbe stata fissata al più presto. Sono passati quattro mesi, e la mozione non è stata ancora svolta; tanto che le popolazioni di quella zona, non dico che ridono, ma piangono nel pensare che tutte queste iniziative si riducono soltanto a parole.

Il Sottosegretario ha accennato alla legge in formazione per l’alloggio dei rimasti senza tetto. In quella legge, per iniziativa mia e dell’onorevole Castelli-Avolio, abbiamo introdotto un articolo 95-bis, che spero il Governo vorrà mantenere, nel quale si prevede, allo scopo di accelerare la ricostruzione delle zone che hanno subìto distruzioni di eccezionale gravità, l’istituzione di Commissariati che dovranno essere costituiti dal Presidente del Consiglio dei Ministri, di concerto col Ministro dei lavori pubblici e degli altri Ministri interessati.

Voglio sperare che, appena questa legge sarà emanata – ed è questione di giorni – si possa immediatamente provvedere; non solo allo svolgimento della mia mozione, ma superarne addirittura lo svolgimento, col creare questo Ente o questo Commissariato – scegliete voi il termine, perché la parola è indifferente mentre quello che conta è la sostanza – onde queste popolazioni possano finalmente vedere un raggio di luce e riaccendere nel loro cuore la speranza di tornare ad essere popolazioni civili di uno Stato civile.

PRESIDENTE. Comunico che il Governo è pronto a rispondere alla seguente interrogazione, presentata con carattere d’urgenza nella seduta antimeridiana di venerdì 7 marzo, dall’onorevole Pastore Giulio ai Ministri del lavoro e previdenza sociale e degli affari esteri, per conoscere d’urgenza i motivi in base ai quali il Ministero del lavoro si oppone a che l’emigrazione in Francia avvenga in via normale mediante richieste o contratti individuali, ed insista nel dare assoluta preferenza al sistema dell’emigrazione collettiva, nonostante i gravi inconvenienti cui ha già dato luogo.

«L’interrogazione ha carattere di estrema urgenza, poiché la questione forma in questi giorni oggetto di esame da parte della Commissione mista italo-francese e si deve fra l’altro dare corso a migliaia di richieste da mesi giacenti al Ministero del lavoro».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale ha facoltà di rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Il Ministero del lavoro e della previdenza sociale, fin dal primo momento in cui venne avanzata da parte francese la domanda di avviare in quella Nazione lavoratori sulla base di richieste nominative, ha creduto di accoglierla, riservandosi di negare l’espatrio soltanto a quei lavoratori che risultassero appartenenti a categorie professionali il cui allontanamento fosse giudicato pregiudizievole ai fini della ricostruzione nazionale.

Delle 3831 richieste nominative pervenute da parte francese a tutto il 29 febbraio scorso, nessuna è stata respinta, né per questo, né per altri motivi che non fossero in diretta dipendenza della volontà e della idoneità dei singoli interessati. Infatti 652 domande hanno già avuto esito positivo, nel senso che i lavoratori interessati risultano da tempo a destinazione in Francia; 450 non hanno potuto avere seguito, perché gli operai interessati hanno rinunziato al lavoro loro offerto per vari motivi, fra cui principalmente l’insufficienza delle condizioni offerte. Di 67 lavoratori è stato temporaneamente sospeso l’avviamento alla sede di destinazione, su richiesta francese; 123 sono risultati reperibili agli indirizzi indicati nei contratti di lavoro inviati da parte francese; 72 sono risultati inidonei; 199 non hanno ancora manifestato la loro volontà di accettare o meno l’offerta ad essi rivolta. Le rimanenti 2268 domande che riguardano le provincie di Udine (1451), Belluno (181), Vicenza (296) e Varese (340), sono tuttora in corso di istruttoria, nel senso che si stanno approntando gli atti relativi all’espatrio da parte dei lavoratori interessati.

A questo riguardo bisogna tener presente che in tale sede, per i lavoratori richiesti nominativamente, si prescinde dalla selezione professionale, e che molto del tempo che intercorre tra la richiesta e l’espatrio è necessario per il rilascio dei passaporti da parte delle questure competenti in relazione allo adempimento previsto dalle normali indagini che precedono il rilascio di tale documento.

Posso aggiungere che il Ministero del lavoro interverrà anche presso il Ministero dell’interno, perché disponga che queste domande di rilascio di passaporto siano sodisfatte il più presto possibile.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PASTORE GIULIO. Ringrazio il Sottosegretario di Stato per la risposta datami, ma mi consenta di non dichiararmi sodisfatto. Egli ha annunciato che sono state accolte, sia pure soltanto in parte, le richieste di emigrazione individuale pervenute dalla Francia. Io potrei ricordare all’onorevole Sottosegretario di Stato e al Ministro del lavoro che sono ancora giacenti oltre 20.000 richieste di emigrazione individuale provenienti da operai italiani. Di queste domande, soltanto in seguito a pressioni fatte da alcuni membri della Commissione italo-francese, ne saranno esaminate una parte in questi giorni, anzi, se non erro, in una seduta che si terrà questa sera.

Ma, ciò che preoccupa, è l’orientamento e le direttive chiaramente espresse dal Ministero del lavoro, secondo le quali oltre a queste ventimila domande non ne saranno prese in esame altre se non in percentuale ridotta, ed è proprio questo particolare che mi ha indotto a portare qui il problema.

Il Presidente del Consiglio nelle sue dichiarazioni, ha annunciato alcuni provvedimenti nei confronti della emigrazione, che ci hanno fatto e ci fanno sperare in un regolamento di questo problema; però sarebbe necessario che, in relazione a questa promessa, i vari dicasteri interessati evitassero di assumere posizioni particolari soprattutto se investono questioni di principio.

Mettersi senz’altro sul terreno dell’emigrazione di massa significa, secondo noi, determinare il danno dei lavoratori. L’esperienza fatta in questi ultimi tempi lo dimostra. Sono noti i fatti di Modane, ed io potrei portare testimonianze dirette sul modo con cui i lavoratori sono trattati nei così detti campi di triage francesi, dove proprio per la indiscriminazione e per la mancata qualificazione ed i mancati contratti individuali, che assicurano al lavoratore l’immediato collocamento, i nostri operai sono trattenuti per un periodo durante il quale non fanno altro che subire mortificazioni di ogni sorta. Io vorrei che in questo senso il Ministero degli esteri di concerto con quello del lavoro svolgessero una indagine per rendersi conto di queste dolorose realtà. Le notizie che ho dal campo di Lione informano che i nostri lavoratori non hanno alcuna libertà di movimento: vi sono i gendarmi all’uscita dei campi, e, quindi, non sono campi di raccolta, ma campi di concentramento, e direi quasi di prigionia.

Noi riteniamo che, trasferendo l’emigrazione di massa sul piano dell’emigrazione individuale, questi inconvenienti non si verificherebbero, senza dire che si consentirebbe ai nostri lavoratori di entrare in rapporti diretti con le imprese francesi, mettendosi così nella condizione di far valere le loro qualità personali, i loro titoli e le loro capacità, ed è evidente che soltanto su questo piano i lavoratori nostri potrebbero domani rivendicare maggiori diritti di quanto non possano farlo in questo momento.

Per concludere, vorrei che l’Assemblea tenesse conto che qui stiamo ricalcando un indirizzo che ha imperversato per vent’anni. Il fascismo ha creduto di farsi un merito quando convogliando, anzi irregimentando i nostri emigranti verso l’estero, ha creduto di realizzare una maggiore difesa dei nostri lavoratori. Ora è strano che il regime democratico inauguri la sua politica emigratoria battendo la stessa strada che ha battuto il fascismo.

Anche per queste considerazioni devo insistere, perché il Governo porti sollecitamente a termine la proposta di costituzione del Consiglio dell’emigrazione.

Consentitemi di dire che il periodo bellico ha annullato tutte le convenzioni internazionali che tutelavano i nostri lavoratori. Il Consiglio dell’emigrazione potrebbe affrontare questo arduo argomento per promuovere la formazione di accordi e di intese internazionali che potrebbero garantire i nostri lavoratori, anche quando si presenteranno sul mercato estero con qualità e facoltà del tutto individuali e personali. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Ha chiesto di replicare l’onorevole Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Ne ha facoltà.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Ringrazio l’onorevole interrogante per le buone intenzioni della sua interrogazione e per l’apporto che ha inteso dare allo studio dei gravi problemi connessi all’emigrazione.

Il Ministero del lavoro è grato a tutti coloro i quali portano un contributo effettivo, perché sente tutta la grave responsabilità di questo problema che intende avviare, con la collaborazione del Ministero degli esteri, alla soluzione migliore, più umana e più giusta per i nostri lavoratori e per il nostro Paese.

Per quanto riguarda le osservazioni mosse alla risposta, dall’onorevole interrogante, egli mi consentirà che una ulteriore risposta circa la politica definitiva di emigrazione del Governo, ed in particolare del Ministero del lavoro, sia data quanto prima.

Per quanto si riferisce agli incidenti lamentati, posso confermare la notizia, già nota, che è in corso l’inchiesta, i cui risultati saranno resi di pubblico dominio.

PRESIDENTE. È così trascorso il tempo assegnato alle interrogazioni.

MUSOLINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne indichi il motivo.

MUSOLINO. Devo lamentare che una mia interrogazione presentata nell’agosto del 1946 all’allora Alto Commissario per la sanità e l’igiene non abbia avuto finora risposta. In questa interrogazione chiedevo un’indagine sul tubercolosario di Chiaravalle in quel di Catanzaro, dove i degenti sono maltrattati e non hanno la necessaria assistenza sanitaria. Mi pare che questo silenzio rivesta carattere di gravità e raccomando alla Presidenza che faccia un passo presso l’Alto Commissario, affinché provveda nel più breve tempo possibile.

PRESIDENTE. La Presidenza terrà conto della sua sollecitazione.

Seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni (2).

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 283, e successive modificazioni.

Avverto l’Assemblea che sono iscritti ben 16 oratori e che tre soltanto hanno finora parlato.

Vorrei fare osservare agli onorevoli colleghi che la discussione generale deve essere una vera e propria discussione generale e non una discussione su punti che possono essere illustrati durante la discussione degli articoli o in occasione di presentazione di emendamenti, che sono già moltissimi. Prego, quindi, gli onorevoli colleghi che prenderanno la parola, di attenersi a questa direttiva nel modo più rigoroso. Se vorranno rinunziarvi, per sviluppare i loro argomenti in sede di discussione degli articoli, evidentemente gioveranno alla speditezza dei nostri lavori.

È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. Onorevoli colleghi, oggetto principale del disegno di legge, che è sottoposto al nostro esame, è la modifica del sistema di controllo da parte dello Stato sugli enti autarchici territoriali locali (comune e provincia), cioè a dire degli enti, i quali hanno la potestà, la facoltà di autoamministrarsi, la facoltà di agire per la realizzazione di fini mediante lo svolgimento, ove occorra, di un’attività amministrativa, che ha la stessa natura e gli stessi effetti dell’attività amministrativa pubblica dello Stato.

Di queste due parole «enti autarchici» con una circolare dell’agosto 1939 il cessato regime vietò completamente l’uso, riaffermando che si trattava di enti completamente aventi interessi subordinati agli interessi superiori dello Stato. E così la parola autarchia, nel campo della pubblica nostra amministrazione, fu cancellata, perché dire autarchia significa dire autogoverno. Perché ci sia un principio autarchico, è necessario che ci si trovi di fronte ad un ente che, amministrato da organi speciali, abbia una propria sfera di azione, una competenza particolare in materie determinate e un’autonomia finanziaria; ma occorre soprattutto che gli amministratori siano liberamente eletti dalla popolazione interessata.

Ora è evidente che, soppressa dal fascismo coi decreti legge del 4 febbraio 1926, n. 237, e del 3 settembre 1926, n. 1910, e del 27 dicembre 1928, n. 2962, l’elettività nelle cariche nelle amministrazioni locali, per modo che i Comuni furono retti da podestà di nomina regia, assistiti da consulte di nomina prefettizia e le Provincie da amministratori di nomina governativa, venne – checché in contrario si sia durante il fascismo sostenuto – a mancare l’elemento fondamentale attraverso il quale il principio di autarchia si realizza.

Essendosi ora, col decreto legislativo luogotenenziale 7 gennaio 1946, n. 1, provveduto alla ricostituzione, su base elettiva, delle Amministrazioni comunali, riconoscendosi di nuovo ai cittadini il diritto di partecipare direttamente o indirettamente al Governo, il principio di autarchia venne riaffermato. Bisognava da ciò trarre le conseguenze. E bene ha fatto il Governo a cominciare a trarle con l’attuale disegno di legge. Merita perciò, a mio avviso, lode, anche perché il sistema, che col progetto si propone, rappresenta indubbiamente un progresso di fronte al sistema vigente prima delle riforme operate dal cessato regime.

Ente autarchico non significa già ente libero da qualsiasi controllo. Controllo sugli atti e controllo sugli organi degli enti autarchici sono esistiti in ogni tempo ed esistono pressoché in tutti gli Stati del mondo. Lo Stato non può disinteressarsi del modo come gli enti autarchici funzionano, donde una sua ingerenza diretta ad accertare, ed eventualmente a procurare, che la loro attività corrisponda ai proprî fini e sia la più adatta al loro conseguimento.

Prima delle riforme del fascismo, per particolari deliberazioni delle autorità locali, era preordinato il controllo amministrativo di merito, avente lo scopo di accertare che le deliberazioni fossero oltreché legittime, anche convenienti ed opportune, mentre le altre deliberazioni di Consigli e di Giunte erano soggette ad un vero controllo giuridico di legittimità, demandato al prefetto, diretto ad accertare se le deliberazioni fossero state prese con le forme prescritte dalle leggi e dai regolamenti, e fossero, per il contenuto, entro i limiti dalla legge segnati.

Dopo un regime intermedio che va dal 1926 al 1933, secondo cui si distingueva fra comuni maggiori e minori, il testo unico del 1934 adottò un sistema ben diverso e dispose che tutte le deliberazioni non soggette al controllo di merito, demandato alla Giunta amministrativa, che lo esercitava mediante atti di approvazione e di autorizzazione, fossero sottoposte ad un «visto di esecutività», demandato al prefetto, che poteva peraltro ricusarlo anche per ragioni di merito. Nel disegno di legge, che viene sottoposto all’esame dell’Assemblea, tale sistema viene abbandonato e si istituisce – abolita anche la legge 10 giugno 1937, n. 1402 – un controllo non più preventivo, quale era il visto di esecutività, ma un controllo successivo, già adottato – come esattamente rileva la relazione del Governo alla legge – in vari ordinamenti stranieri. Tutte le deliberazioni delle amministrazioni comunali e provinciali, che non siano soggette a speciali approvazioni, diventano immediatamente esecutive dopo la loro pubblicazione nell’albo pretorio e l’invio alla Prefettura, salvo il potere conferito al Prefetto di annullarle, per motivi di legittimità, entro 20 giorni dal ricevimento. La Giunta amministrativa, poi, continuerà ad esercitare il suo controllo preventivo di merito su deliberazioni aventi contenuto di particolare importanza.

Per completezza, aggiungo che tale modifica del sistema dei controlli, così come disposto dal testo unico del 1934, lascia inalterata sia la ordinaria vigilanza da parte del Governo centrale, di cui è parola nell’articolo 6, (lo ricorda espressamente l’articolo 17 del progetto) sia il controllo che dallo stesso testo unico del 1934 (articolo 332 e seguenti) venne disposto per i comuni e le provincie non in grado di assicurare ai propri bilanci il pareggio economico.

Mi si consenta, detto ciò, di fare qualche breve considerazione. Il progetto contiene aggiunte, alle norme del testo unico del 1934, e precisazioni che ritengo opportune.

Utilmente, ad esempio, è stata eliminata la disparità di trattamento esistente per le province nei confronti dei comuni, in relazione alla facoltà di provvedere, ove i contratti non eccedano una certa cifra, mediante trattativa privata, senza necessità di preventiva autorizzazione prefettizia. L’articolo 87 del testo unico del 1934 permetteva la trattativa privata alle amministrazioni comunali, mentre l’articolo 140 non ne parlava affatto a proposito delle amministrazioni provinciali. Questa disparità di trattamento non apparve mai spiegabile nel campo della dottrina, sicché vi fu anche chi, sottolineando questa concomitanza di tutte le condizioni riferibili egualmente ai contratti dei comuni e a quelli delle provincie, pensò proprio ad un errore puramente materiale. Bene il progetto ha corretto questo errore; comunque bene ha fatto a colmare la lacuna.

Egualmente con molta opportunità l’articolo 16 del disegno di legge ha precisato a quali limiti intende riferirsi, richiamando l’articolo 87, l’articolo 296 del testo unico del 1934.

L’articolo 87 contiene due ordini di limiti: limiti oltre i quali non è consentita la licitazione privata ed è obbligatoria l’asta e limiti oltre i quali non è consentita la trattativa privata. Ora, l’articolo 16, tenendo conto soprattutto della genesi dell’articolo 296, in conformità, del resto, alla più autorevole dottrina, ha opportunamente detto che i limiti, eccedendosi i quali i contratti non sono impegnativi per l’Ente nel senso che non si viene a completare il vinculum juris, senza il visto del prefetto, sono soltanto quelli stabiliti per la trattativa privata.

Altra aggiunta opportuna è quella che risulta dal numero 11 dell’articolo 5: non si parla più in esso soltanto di piani regolatori edilizi e di ampliamento, ma anche di piani di ricostruzione.

È stata d’altra parte operata qualche modifica di norma che non ritengo opportuna. Non ritengo, ad esempio, opportuna la modifica apportata dall’articolo 8 alla misura della pena che l’articolo 106 del testo unico del ’34 commina per le contravvenzioni alle disposizioni dei regolamenti comunali e alle ordinanze emesse dal Sindaco.

È questo un assai modesto rilievo, ma penso che da un’Assemblea di sottili e delicati giuristi, qual è quella, a cui ho l’onore di parlare, non potrà non essere considerato giusto.

La ragione è nel rilievo che già con l’articolo 3 del regio decreto legislativo 5 ottobre 1945, n. 679, le pene pecuniarie, comminate per tutte le infrazioni previste dal Codice penale e dalle leggi speciali, furono raddoppiate e non vi è alcuna ragione per operare nella specie una modifica della modifica, turbando quell’euritmia legislativa, che va sempre, a mio avviso, nel miglior modo curata.

Neppure mi rendo conto della eliminazione dall’elenco delle deliberazioni, che debbono essere sottoposte al controllo di merito della Giunta provinciale amministrativa, delle deliberazioni riguardanti i «cambiamenti nella classificazione delle strade ed i progetti per l’apertura e la costruzione delle medesime». Nella relazione della Commissione legislativa si legge che nessun particolare motivo induce a riservare tali deliberazioni alla competenza della Giunta.

Io penso, invece, che grande interesse sociale ha il sistema della viabilità, non potendo disconoscersi come dalla iscrizione di strade nell’elenco e dalla cancellazione da esso per iscrizione di altro elenco o per la sclassifica (soppressione dell’uso pubblico) derivino oneri di durata spesso indefinita. Non bisogna, poi, dimenticare che per l’articolo 17 della legge 20 marzo 1865 sui lavori pubblici la Giunta provinciale amministrativa, nel controllare l’atto, decide anche sui reclami presentati dagli interessati, donde la conseguenza che, ove fosse approvato il progetto così come si presenta, la Giunta provinciale amministrativa finirebbe sempre col doversi occupare delle strade a seguito e per effetto dei ricorsi dei singoli interessati.

Non vedo, d’altra parte, come alla materia in esame possa attribuirsi minore importanza di quella che è attribuita alla materia, ad esempio, dei piani regolatori edilizi, di ampliamento e di ricostruzione, che pure è materia, che, ove formi oggetto di deliberazione degli enti autarchici, non sfugge all’attività di controllo della Giunta.

Io sono, pertanto, di avviso che nell’elenco delle deliberazioni da sottoporre all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa siano da porre anche le deliberazioni di cui ho parlato.

Anche qualche altra aggiunta va fatta, perché il disegno di legge diventi più preciso e completo.

Sarebbe, ad esempio, opportuno riprodurre, per evitare equivoci circa la decorrenza del termine di venti giorni, il capoverso dell’articolo 211 e l’articolo 265 del testo unico della legge comunale e provinciale, approvato con regio-decreto 4 febbraio 1915, n. 148, secondo cui il prefetto aveva l’obbligo di mandare immediatamente all’amministrazione comunale ed a quella provinciale ricevuta del processo verbale delle deliberazioni dei Consigli.

Non occorre rilevare quanto gravi possano essere – ove il termine sia superato – le conseguenze di un ritardato, eppur legale, annullamento di una deliberazione già eseguita o in corso di esecuzione o, peggio, di deliberazioni, per le quali esistano prefissioni di termini a pena di decadenza.

Gli articoli 3 ed 11 del disegno di legge potrebbero essere completati, aggiungendovi al secondo capoverso dell’uno le parole «di cui dà immediato avviso all’amministrazione comunale», ed al secondo capoverso dell’altro le parole «di cui dà immediato avviso all’amministrazione provinciale».

Io aggiungerei anche, là dove, negli articoli 5, 6, 7 e 12 si parla di liti attive «o» (sarà bene scrivere sempre «o» e non a volte «o» ed a volte «e») passive e di transazioni di valore eccedente una certa somma, le liti e le transazioni di valore indeterminato. Così con la sua chiara parola – più aderente anche al dettato del Codice di rito civile – la legge interverrebbe ad eliminare i dubbi sorti o che potrebbero sorgere sia nella dottrina che nella giurisprudenza.

Occorrerà, poi, correggere qualche errore sfuggito alla diligenza del Ministro proponente e della Commissione. Va senza dubbio, ad esempio, modificato il capoverso dell’articolo 19, nella stessa maniera in cui appaiono modificati gli articoli 3 ed 11, sostituendo alle parole, che ora in esso si leggono, le parole sostituite nell’ultimo capoverso degli articoli 3 ed 11, non perché sia necessario, perché il potere – dovere può essere espresso sia con la parola «può» sia con le parole «è in facoltà», come risulta da numerose disposizioni di legge, ma unicamente, anche qui, per ragioni di euritmia legislativa.

Un altro piccolo errore io trovo nell’articolo 16, che apporta modifiche all’articolo 296 del testo unico del 1934.

Come risulta dalla parola di tale articolo e dalla relazione dell’onorevole Carboni, con l’articolo 296, 1° comma, si dava facoltà al prefetto di negare in ogni momento, con provvedimento definitivo, l’esecutorietà di alcuni contratti, quantunque riconosciuti regolari, per gravi motivi di interesse dell’ente o di interesse pubblico. Col progetto si è voluto eliminare tale controllo.

«Il presente disegno» ecco le parole della relazione «stabilisce che egli (il prefetto) deve soltanto accertarsi che siano state osservate le forme prescritte», si intende dalla legge nella stipulazione del contratto.

Intanto nell’articolo 16 si afferma che si modifica il primo comma dell’articolo 296. Resterebbe così in vita il 3° comma, ove appunto si parla del potere – dovere del prefetto, che si intende, invece, eliminare.

Bisognerà, quindi, dire nell’articolo 16 che si abroga non il primo comma dell’articolo 296, ma l’intero articolo.

Vi è bisogno, infine, in qualche punto di qualche precisazione.

Si considerano, ad esempio, gli articoli. 5, 6 e 7 del disegno di legge, corrispondenti agli articoli 99, 100 e 101 dal testo unico del 1934.

Gli articoli 99, 100 e 101 dispongono che vanno sottoposte all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa le deliberazioni riguardanti, tra l’altro, «le locazioni e conduzioni di immobili oltre i dodici anni».

Senonché col decreto legislativo luogotenenziale 17 novembre 1944, n. 426, col quale si provvide alla soppressione del Governatorato di Roma ed alla disciplina giuridica dell’amministrazione comunale della Capitale, si dispose (art. 3) che «sono sottoposte all’approvazione del Ministro per l’interno le deliberazioni riguardanti, fra l’altro, locazioni e conduzioni di immobili oltre i dodici anni», con l’aggiunta «quando l’importo annuo della locazione o conduzione superi la somma di lire 100.000», per modo che per l’approvazione dell’autorità tutoria occorre una duplice condizione: che la locazione oltrepassi i dodici anni e che l’importo superi una certa somma.

Nel disegno di legge che stiamo esaminando si usa una dizione diversa.

Si parla di «locazioni e conduzioni di immobili oltre i dodici anni o quando l’importo complessivo del contratto superi la somma di…» C’è un «o» che non è nel testo del 1934 e non è neppure, il che è più importante, nel decreto riguardante l’Amministrazione comunale di Roma. Nel silenzio ermetico, in proposito, della relazione, mi sono domandato: trattasi di un errore materiale o si è inteso proprio disporre per tal genere di contratti una disciplina per le varie amministrazioni comunali dello Stato diversa da quella disposta per Roma? Io sono di avviso che tale diverso trattamento non ha ragione di essere, per cui penso che nei tre articoli alla disgiuntiva proposta debba senz’altro sostituirsi una virgola. Un chiarimento, comunque, non sarebbe inopportuno.

Onorevoli colleghi, termino rilevando che opportunamente si tende, nel nuovo clima democratico, a far sì che gli enti locali possano muoversi, nell’ambito delle leggi, senza essere sottoposti a troppi e troppo frequenti richiami; ma insieme sento imperioso il dovere di dire che non bisogna esagerare, perché è vero che gli amministratori locali, se più liberi da vincoli, sentiranno di più, forse, il senso di responsabilità e del fondamento di ogni retta amministrazione; ma è vero pure che, riducendo al massimo i controlli, si corre il pericolo di lasciare a quegli enti la possibilità di svolgere attività, che potrebbero, eventualmente, risolversi in un danno per gli amministrati, ai cui interessi va, invece, sempre data la più concreta efficace protezione. Io mi auguro che il potere legislativo dello Stato saprà, in ogni momento, anche in questo campo, trovare la giusta via nel superiore interesse, economico e morale, della Nazione. L’avrà trovata soltanto quando avrà reso compatibili le autonomie comunali con quella unità di indirizzo politico che è base indispensabile di ogni sano ordinamento. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Ghislandi. Ne ha facoltà.

GHISLANDI. Onorevoli colleghi, parlo per incarico del gruppo parlamentare socialista e particolarmente dei sindaci e degli amministratori comunali che, pure essendo deputati, ne fanno parte. Però l’argomento che qui ci interessa, più che essere di portata relativa a un determinato gruppo o partito politico, è assai più vasto, assai più complesso, in quanto tocca gli interessi dell’intera nazione. Si tratta di un problema di interesse generale; di un problema, quindi, che si impone all’attenzione di tutti gli Italiani e di tutti i partiti che vogliano fare il bene dell’Italia. Io non mi perderò in dissertazioni teoriche né in sottili disquisizioni politiche o giuridiche; cercherò invece di portare qui una nota eminentemente pratica, fatta di conclusioni concrete, provenienti dall’esperienza e cioè dal fatto che, specialmente noi sindaci, ci troviamo ogni giorno al contatto della realtà viva della vita locale, che ogni giorno possiamo sentire e conoscere direttamente l’animo e i bisogni del popolo, assai più degli uomini stessi di Governo, ai quali ne giunge, spesse volte tardivamente, l’eco, quando non sia anche falsata da rapporti non corrispondenti alla verità delle cose o da interessi particolari tendenti a deviare la direttiva delle decisioni governative.

Occorre però premettere un principio di carattere generale, o, meglio, partire da una constatazione storica, che non va dimenticata da nessuno: né dal Governo, né da tutti coloro che si interessino della vita dei comuni, tanto più se intendano o debbano, come è il caso dell’attuale Assemblea Costituente, gettare le basi fondamentali e dettare le linee generali di una nuova vita locale e nazionale. E la constatazione storica è questa: che, attraverso i millenni della vita molteplice del nostro Paese, i comuni in particolare e gli enti locali in generale sono stati quasi sempre l’elemento più vivo e più efficace di tutta l’attività della Nazione. Non si tratta di parlarvi in senso municipalista – il municipalismo è morto e sepolto da tempo – e neanche in senso regionalista, quasi separatista. Avete sentito in quest’aula, dopo la presentazione del progetto di Costituzione, elevarsi critiche e dubbi in merito all’opportunità o meno di provvedimenti di carattere troppo ampio per le autonomie regionali. Io sono fra quelli che partecipano a questi dubbi senza che per questo io venga – o senta di dover venire – a conclusioni prettamente e decisamente negative sulla creazione delle Regioni.

Parlo piuttosto per quel senso particolare di fierezza e di amore, che ognuno di noi Italiani sente per la sua terra nativa; e perché – ripeto – sono convinto della verità storica che la vita dei comuni è sempre stata, come è tuttora, alla base della vita della stessa Nazione. Infatti, quando i Governi in Italia, sia dell’Italia unita, sia di altri tempi, hanno trascurato od oppresso le iniziative locali, dal più al meno abbiamo avuto sì e no brevi fulgori di vita, ma generalmente inerzia, decadenza e qualche volta anche la morte, politica, economica, civile.

Viceversa, quando i Governi hanno dato ai comuni ed alle organizzazioni locali la possibilità del massimo sviluppo, abbiamo avuto tutta una fioritura di grandezza e di prosperità e di bellezza, le cui testimonianze rimangono ancora fra i ricordi più fulgidi della nostra storia.

Quindi non bisogna trascurare i comuni, né tanto meno comprimerne la vita: bisogna invece lasciare che i comuni abbiano modo di vivere, di esplicare tutta la loro attività, e di dar corso a tutta la loro volontà di iniziativa. Ciò facendo, si fa non soltanto il bene degli enti locali, ma il bene stesso della collettività e di tutta la Nazione.

Del resto, anche se vogliamo riferirci ai tempi più recenti, troviamo che i comuni italiani, nello stesso periodo fascista, subirono la legge storica di cui vi ho accennato; perché, mentre in un primo tempo, quando per far vedere qualche cosa di grandioso si è cercato, da parte della dittatura, di favorire le iniziative locali, qualche cosa di discreto e di buono si è visto; quando, viceversa, il Governo accentratore non ha più sentito il bisogno di ricorrere a questi mezzi per poter avere la simpatia della popolazione e si è rivolto ad imprese che gli sembravano più vaste e gloriose, la vita dei comuni si è ridotta ad una vita di amministrazione ordinaria, e la stessa vita nazionale ne ha enormemente sofferto.

Del pari, non appena le prime aure della libertà hanno ripreso a spirare sulla vita della Penisola, che cosa abbiamo visto? Quando le ultime orde tedesche stavano abbandonando il nostro suolo, e il potere dello Stato non era ancora in grado di provvedere ai bisogni della vita locale, sono stati i municipi, sono state le organizzazioni locali, che, senza attendere altro tempo od altri aiuti, sono andati incontro a tutte le immense miserie lasciateci dalla guerra, dando inizio immediato ad un’opera di ricostruzione che dura tuttora ed è veramente grandiosa; diciamolo pure una volta, altamente e fieramente, anche qui, in quest’aula tante volte tediata dal piagnisteo di inguaribili Cassandre o di troppo facili Catoni; diciamo pure che il popolo italiano è ancora un popolo di brava gente, laboriosa e fondamentalmente sana, che saprà superare, con le sue stesse forze, le difficoltà del momento; esso ha già ritrovato la sua via e saprà percorrerla, come ha sempre saputo fare anche nei momenti più tragici della sua storia.

Però, i comuni italiani, se hanno provveduto e provvedono a risolvere i problemi più urgenti e più indispensabili della ripresa della loro vita locale, hanno nello stesso tempo bisogno di un aiuto veramente adeguato e di un concorso effettivo e costante da parte dello Stato; tanto più che a tutto oggi, l’organizzazione comunale, creata dal fascismo, rimaneva e rimane inalterata, ed il comune deve ancora pressoché interamente dipendere dalla volontà dello Stato e dalle sue autorità centrali e periferiche per ogni iniziativa o decisione di qualche importanza. Fin dai primi giorni della liberazione, fin dai primi momenti in cui i sindaci, specialmente delle città principali del Nord, hanno potuto radunarsi, per scambiarsi le idee e per esprimere i comuni desideri, è stato un solo grido concorde ed unanime: date la libertà ai comuni, date l’autonomia alla quale hanno diritto, per tradizioni gloriose e per necessità storiche anche attuali, imprescindibili. Ma il problema della vita comunale non consiste soltanto nella questione della autarchia o meno né di una autarchia più o meno vasta; esso si risolve anche nel dare ai comuni la possibilità di vivere finanziariamente, e nel dar loro assistenza là dove non possono coi loro soli mezzi provvedere ai bisogni generali del comune, i quali riflettono problemi generali di tutta la Nazione e interessano quindi anche il Governo e l’attività e le funzioni di quasi tutti i Ministeri.

Potrà sembrare che io divaghi in questa mia esposizione, mentre tutto quello che sto dicendo è ricollegato al valore o meno della riforma che oggi il Governo ci propone col suo progetto di legge.

Ora, i comuni italiani hanno fatto sentire dapprima la loro voce, per mezzo particolarmente dei sindaci delle principali città d’Italia; poi i sindaci dei capoluoghi di regione e dei capoluoghi di provincia si sono riuniti in Campidoglio, altamente riaffermando tutta la loro fede serena e forte nella ripresa della Nazione, ma nello stesso tempo formulando domande specifiche al Governo, solennemente presentate al Governo stesso, ricevendone solenni promesse; ma la conclusione è che, a tutt’oggi, ci si è ridotti semplicemente a questo piccolo modesto disegno di legge, limitato alla questione dell’autonomia.

I comuni avrebbero voluto, e si aspettavano, ben più; avrebbero voluto che non soltanto fosse data loro l’autonomia, ma fossero anche emanati provvedimenti per migliorare le loro condizioni economiche, o, quanto meno, per dare loro modo di potersi sistemare da sé. I comuni avrebbero voluto che lo Stato si fosse deciso a snellire, e a potenziare nello stesso tempo, particolarmente gli organismi che in questo momento presiedono ai lavori pubblici, che riguardano tanti bisogni ed interessi comunali e nazionali e che si reggono ancora con leggi antiquate, o non più adeguate alle impellenti necessità straordinarie attuali. In tema di lavori pubblici la legge fondamentale rimane sempre quella del 1865 e gli uffici del Genio civile e dei Provveditorati affogano e ci affogano di carte e prospetti di tutti i generi perché così vogliono la legge fondamentale e le relative norme della sua applicazione, legge e norme risalenti ad epoche in cui la vita italiana era molto più modesta e tranquilla e in cui non urgevano i tremendi ed urgentissimi problemi del momento attuale.

Avrebbero voluto i comuni italiani che fosse fatto un piano organico e sistematico, e veramente definitivo e completo, ed adeguatamente finanziato per le opere di ricostruzione, per le costruzioni di nuovi alloggi, per i lavori contro la disoccupazione, e non soltanto per il loro inizio, ma per la loro esecuzione fino a totale compimento.

Avrebbero voluto i comuni italiani che fosse risolto ben diversamente il problema dell’alimentazione.

Il Governo, ad un certo momento, consigliò e quasi impose ai comuni la creazione degli enti comunali di consumo, ma poi non si provvide mai ad un adeguato finanziamento; e per conseguenza questi enti si ridussero in parecchie località a un «nome vano senza soggetto» e praticamente non poterono in moltissimi casi funzionare.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Si provvede costantemente ad integrare e finanziare gli enti di consumo.

UBERTI. L’economia si doveva sviluppare da sé.

GHISLANDI. Per molti casi non mi risultano finanziamenti; e senza di essi non si può fare nulla di concreto e qualsiasi iniziativa resta inutile e inerte; comunque, e quanto meno, si potevano e si potrebbero almeno includere i rappresentanti dei comuni e delle provincie e delle Camere del Lavoro in quella organizzazione della S.E.P.R.A.L. la quale ancora oggi è una specie di turris davidica inaccessibile ed esclusiva dell’organizzazione di Stato.

Avremmo voluto poi che lo Stato si fosse meglio, e più a fondo, preoccupato dell’assistenza sociale e particolarmente dell’assistenza di guerra. Mentre nel campo dell’assistenza sociale stiamo vedendo dimidiare e ridursi al minimo il concorso dello Stato agli enti comunali di assistenza e gli ospedali si trovano davanti a passività enormi ed a crediti verso i comuni che non li possono pagare, per l’assistenza di guerra si era costituito un Ministero dell’assistenza postbellica il quale oggi è scomparso ed è stato frazionato in cinque o sei reparti in vari Ministeri; e prima che questi nuovi organismi possano provvedere passerà certamente parecchio tempo, mentre abbiamo i nostri mutilati, i nostri reduci, i nostri partigiani, i quali attendono ancora che le promesse fatte diventino qualche cosa di concreto; ed ogni giorno nei nostri uffici assistiamo alla sfilata dolorosa di gente che viene a invocare aiuto alla sua miseria ed alla sua disperazione e alla quale non possiamo rispondere altro che di attendere.

Di fronte a tutte queste richieste che cosa ha risposto, di fatto, il Governo? Notate: io ho dato, e do, la mia fiducia a questo Governo, perché ritengo che esso manterrà almeno le promesse che ha fatto e perché non è per fatti singoli che si possa addirittura investire la fiducia, in senso generale, nel Governo stesso. Però al Governo dobbiamo dire, e diciamo apertamente, che bisognava e bisogna venire incontro, in modo molto più completo ed adeguato, alle necessità dei comuni e che non bisogna perdere altro tempo ancora.

Ho sentito accennare, da altra parte dell’Assemblea, a possibilità di crisi nelle varie amministrazioni comunali. Ebbene io penso, che crisi non ne avverranno in generale, per questioni politiche. Al di fuori del piccolo terremoto di Milano, il quale si è già del resto sistemato, anche le ultime vicissitudini della vita politica, particolarmente dei partiti socialisti, non hanno prodotto un sensibile sconquasso della situazione e nella compagine delle amministrazioni dei comuni nostri, anche se elette col sistema della proporzionale. Non avverranno crisi politiche; ma, ad un certo momento, se il Governo non si deciderà a dare ai comuni quello che loro occorre o a permetterci di trovarlo da noi, le crisi purtroppo avverranno, ma per ragioni economiche, perché non si potrà più tirare avanti, e allora sarà una crisi generale che investirà la responsabilità dello stesso del Governo centrale, e specialmente di esso.

Questo disegno di legge, dunque, col quale il Governo risponde oggi alle tante e così impellenti e complesse domande dei comuni, ci dà l’impressione, pur rispettando gli uomini, del famoso parto della montagna: la montagna ministeriale ha partorito, dopo tante fatiche e tanta attesa, un povero topolino timido e pauroso; tanto la legge si limita alla sola questione dell’autonomia e non osa neanche ritornare completamente alle disposizioni un po’ più larghe della legge del 1915, in quanto mantiene ancora certi avanzi della riforma fascista, e non certo i più opportuni. La legge del 1934 creava addirittura una corazza, entro la quale i comuni soffocavano. Il Governo, col suo disegno di legge, non toglie questa corazza, ma ne allarga soltanto i bulloni, cosicché, da un momento all’altro, potrebbe avvenire che un altro Governo avesse nuovamente a serrarli. Questo i comuni non vogliono. Si era disposto, nella riforma fascista dei 1934, che la Giunta Provinciale Amministrativa (la quale, nella legge del 1915, era in maggioranza elettiva) fosse, d’allora in poi, di maggioranza governativa, di modo che anche quel controllo e quella difesa che potevano venire dalle autorità provinciali di elezione popolare, finivano per essere annullati e superati dal fatto della maggioranza governativa.

Ancora oggi questo assurdo è stato mantenuto. Del pari, è stato mantenuto quel famoso articolo 19, il quale attribuisce al prefetto poteri tali da permettergli addirittura l’arbitrio. Ora, siamo in momenti eccezionali e se un prefetto compisse qualcosa di irregolare, c’è modo oggi, nel regime attuale democratico, anche di alzare voci di protesta e di ottenere dal Governo anche una giusta riparazione. Però, bisogna che il Governo pensi seriamente a limitare questa facoltà di arbitrio, perché se in certe provincie essa ci risulta applicata con una certa saggezza pratica, in certe altre, invece, è attuata addirittura con sistemi di reminiscenza dittatoriale, e di quel tipo governatoriale che del «signor Prefetto» fa l’«Eccellenza il Prefetto».

La legge attuale mantiene anche un’altra particolarità istituita dal regime fascista. Questo, non fidandosi a sufficienza neanche dei podestà, sebbene di nomina governativa, pensò di mettere accanto agli amministratori comunali un rappresentante diretto – e, più che un rappresentante, un dipendente diretto – dell’amministrazione centrale, e cioè il segretario comunale. Si disse di volere con questo rendere il segretario comunale libero ed indipendente dagli arbitrî e dalle persecuzioni, di cui talvolta i funzionari potrebbero essere vittime da parte delle amministrazioni; e ancora oggi ci sono dei segretari i quali temono una tale eventualità e, di conseguenza, invocano il mantenimento della norma fascista suddetta. Ma noi, anche soltanto per una ragione generale di principio – essere cioè assurdo che si dia formalmente l’autonomia ai comuni e poi praticamente la si tolga mettendo, specialmente i piccoli comuni, alla mercé di funzionari nominati dal Governo centrale – non possiamo dare la nostra adesione perché sia mantenuto un tale provvedimento.

Ai segretari comunali però possiamo ricordare che essi non sono più in epoca fascista, e che se le amministrazioni locali avessero a commettere ingiustizie verso di loro, essi troverebbero oggi nell’ ordinamento sindacale della loro categoria, nello stesso intervento dello Stato e di tutte le forme democratiche di rappresentanza che oggi esistono ed hanno voce ed autorità nello Stato, la loro sicura ed efficace difesa.

Ma, d’altra parte, non è giusto continuare a mantenere nei comuni un funzionario, anzi il capo dei funzionari, pagato dal comune e viceversa nominato e magari imposto dal prefetto: rappresentante della volontà dello Stato.

Di fronte a tutte queste deficienze, ed a questi errori di omissioni e conferme, noi ci siamo trovati perplessi se approvare o meno il disegno di legge che oggi il Governo ci presenta. Siamo stati perplessi anche perché altre deficienze minori ci sono, le quali peraltro potrebbero essere modificate con semplici emendamenti, che abbiamo già visto proposti da altri colleghi dell’Assemblea, ed ai quali anche noi ci assoceremo senz’altro.

Anzitutto, emendamenti che permettano di elevare il minimo della cifra per l’autorizzazione a determinate opere pubbliche. La riforma non sarebbe gran cosa, anzi sarebbe addirittura una cosa poco seria, se si rendesse tuttora obbligatoria la preventiva approvazione del Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici soltanto in tutti i casi di progetti il cui importo superi i 5 milioni di lire. Chiunque sa che oggi con 5 milioni si fa poco o nulla; per conseguenza anche per i piccoli comuni un tal limite è insopportabile. Credo che tutti i colleghi dell’Assemblea consentiranno nella elevazione di questo limite, sia per i piccoli comuni, sia, in proporzione adeguata, anche per i comuni maggiori; perché se ciò non si facesse, non soltanto si commetterebbe un errore ed un’offesa anche, in via di applicazione pratica, al principio dell’autonomia; ma inoltre si metterebbe il Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici nella condizione di non poter più funzionare; i tavoli del Consiglio Superiore stesso si riempirebbero talmente di progetti su progetti che esso non avrebbe il tempo materiale di poterli approvare, oppure li approverebbe col solito sistema inevitabilmente ritardatario (anche se, dal punto di vista dello scrupolo, lodevole), per cui in Italia si dice – con tutta l’osservanza e il rispetto dovuto ai funzionari che fanno del loro meglio, ma sono già soffocati dalla mole del lavoro – che «Roma è eterna e la burocrazia dei Ministeri è il suo profeta».

A condizione, dunque, che si opportuno al disegno di legge almeno queste modifiche, noi voteremo a suo favore. Non ci convincono, né ci hanno convinto, le osservazioni fatte da altre parti dell’Assemblea per un eventuale rinvio, oggi eliminato, e che potrebbero esser fatte proprie da qualcuno che volesse prenderne pretesto per respingere senz’altro il progetto. Non ci convince la ragione di chi vorrebbe sperare nella riforma, rinnovata e completata, fra pochi mesi: tra pochi mesi la Costituente dovrà aver votato la Costituzione e provvedere anzitutto alla nuova legge elettorale; soltanto dopo potrebbe provvedere anche alla riforma comunale e provinciale; in caso contrario, dovrebbe provvedere l’Assemblea legislativa, quando questa sarà eletta dal suffragio degli elettori nuovamente convocati alle urne; il che, si dice, potrebbe avvenire nell’ottobre.

Data la tecnica dei lavori dell’Assemblea legislativa, che si distinguerà ben poco da quella di oggi, è certo che l’Assemblea eletta nell’ottobre dovrà convocarsi in novembre, eleggere le varie cariche, sentire e discutere le dichiarazioni del Governo; attendere che il Governo presenti nuovi disegni di legge, e che la Commissione riferisca; poi discutere e votare in entrambi i rami del Parlamento; di mese in mese, giungeremmo al marzo dell’anno venturo e saremmo sempre nella stessa condizione. Viceversa la situazione esige di affrontare il problema al più presto possibile, e, dato che il Governo è già consenziente almeno sul punto di vista essenziale dell’autonomia, anche se questa autonomia non è concessa in modo completo, si faccia per ora almeno questa: ci accontentiamo dell’uovo oggi, perché temiamo di dover troppo attendere la gallina di domani.

Noi voteremo, dunque, il progetto attuale di riforma, alla condizione che siano accolti gli emendamenti cui ho accennato e, aggiungo, anche alla condizione che il Governo si impegni formalmente (non è un’umiliazione per il Governo, ma un suo dovere, ed un dovere, anzi, il cui adempimento gli farà onore) a risolvere al più presto, in forma più completa e più concreta, il problema della vita e dello sviluppo degli enti locali.

Se il Governo ci verrà incontro, se si deciderà ad esaminare a fondo tutti gli altri problemi che investono la vita comunale, se darà ai comuni d’Italia non soltanto la libertà, ma anche possibilità di vivere e di finanziarsi, finalmente i comuni potranno riprendere o meglio continuare con alacrità maggiore e con più tranquillità e serena certezza, la via della ricostruzione e della prosperità: per loro stessi, e per tutto il nostro Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Come diceva l’onorevole Ghislandi, leggendo questo progetto è venuto a tutti noi un dubbio: se valesse la pena di discuterlo ed approvarlo oppure non farne nulla; perché esso è un timido tentativo di tagliare il nodo scorsoio dal fascismo messo alla gola degli amministratori degli enti locali.

È tutto un sistema che procede col rallentatore. Il 7 gennaio 1946 – se non erro – fu approvata la legge che ricostruiva le libere amministrazioni comunali.

Ebbene, dal 7 gennaio si va al 10 dicembre, perché il Governo presenti un disegno di legge, che avrebbe dovuto seguire immediatamente quello del 7 gennaio; poi si va all’11 gennaio 1947, perché la Commissione, la quale è stata molto diligente ed ha anche migliorato il testo del progetto, presenti la sua relazione; si arriva ad oggi, 11 marzo, dopo altri due mesi, e si inizia la discussione.

È un sistema che non va; non so se sia colpa del funzionamento dell’Assemblea Costituente, la quale ha così scarsi poteri legislativi, o colpa del Governo, che procede con tanta lentezza, attraverso crisi e rimpasti, svolgendo la sua lenta opera di adattamento delle condizioni del Paese alla situazione prefascista e soprattutto alla situazione postfascista.

Dunque, questo disegno di legge ha gravi difetti e gravi lacune: arriva tardi ed arriva imperfetto e insufficiente.

Non mi sono associato all’amico collega Lami Starnuti, che ne ha proposto la sospensiva, perché anche così com’è congegnato, con qualche emendamento, che spero il Governo vorrà accettare, noi avremo fatto un secondo passo avanti, perché il primo si è fatto colla legge del 7 gennaio.

Si tratta di smantellare tutta una costruzione, che il fascismo aveva fatta con grande abilità e con grande ricchezza di particolari, per imprigionare poco a poco in una gabbia di ferro tutte le autonomie locali: podestà, consulte, presidi, rettorati, segretari comunali di carriera; creando anche delle aspettative, che, purtroppo, noi dovremo deludere, perché è assurdo che i Consigli comunali non possano scegliere, attraverso libero concorso, l’uomo di fiducia dell’amministrazione comunale, il tecnico, attraverso cui passa tutta la vita del Comune; specialmente oggi che, con i partiti di massa, arrivano nei Consigli comunali uomini non ancora esperti nell’amministrazione della pubblica cosa, i quali dovranno necessariamente ricorrere al parere tecnico del segretario comunale. Quindi, i segretari comunali, per necessità, dovranno essere liberamente scelti dai Comuni. Perciò non mi sono associato alla proposta di sospensiva del collega ed amico Lami Starnuti.

Ma non basta tutto questo. Dobbiamo riflettere che è bene approfittare dell’occasione che ci offre il Governo, tardiva occasione – ma appunto per questo è necessario approfittarne – per aggiungere qualche altra riforma.

Io ho presentato parecchi emendamenti che mi riservo di svolgere al momento opportuno, ma dei quali è bene che io dica sin da ora qualche parola in termini generali.

Innanzitutto, nella legge nuova manca un istituto che rappresentava, direi quasi, un palladio di libertà: l’azione popolare. Oggi che la nuova Costituzione darà il diritto a 50.000 elettori ed elettrici, cioè ad un numero microscopico rispetto ai 25 o 26 milioni di elettori del popolo italiano, di presentare alle Camere un disegno di legge, abbiamo soppresso quell’azione popolare che figurava nel testo unico del 1908, come una conquista della democrazia di 40 anni fa. L’azione popolare deriva dal diritto romano: Reipublicae interest quam plurimos ad defendendam suam causam admittere. Interessa allo Stato che tutti i cittadini possano intervenire con la loro azione a difendere gli interessi della cosa pubblica, ovviando ai difetti e alle manchevolezze della pubblica amministrazione.

Noi sappiamo che, specialmente in regime fascista, abusi infiniti sono stati fatti, territori occupati, vie chiuse, espropriazioni forzate, pagamenti avvenuti, così, all’amichevole, fra privati e podestà, segretari comunali, consultori, presidi, ecc. Tutto questo non deve più avvenire. È un sistema le cui conseguenze si possono ancora correggere quando le azioni non siano prescritte, e allora è interessante che ciascun cittadino possa esercitare nuovamente quest’azione popolare, naturalmente con le garanzie che la legge del 1908 aveva stabilito e che io ho creduto di riprodurre nel mio articolo aggiuntivo.

Si è detto che l’azione popolare è circondata da grandi difficoltà, tali e tante difficoltà che solo un pazzo potrà esercitarla. Ma appunto perciò la legge garantisce che non sia un pazzo che l’eserciti, perché è a rischio e pericolo di chi l’esercita, e perché vuole che sia approvata dalla Giunta provinciale amministrativa, che deve sentire il Consiglio comunale, e vuole che intervenga in causa il Comune e partecipi all’azione stessa; di modo che non si tratta più di un pazzo, ma si tratta di un savio, il quale voglia rimettere sulla giusta via l’amministrazione del Comune.

Del resto, l’azione popolare è stata poco esercitata nel periodo in cui esisteva, perché alla vita del Comune prendevano parte poche persone. Oggi invece essa sarebbe un’arma efficace perché, con l’intervento dei grandi partiti di massa, specialmente nei piccoli comuni, sarà possibile, attraverso l’azione popolare, correggere quei difetti in cui eventualmente la Giunta o il Sindaco, rappresentanti di una parte soltanto della cittadinanza, stessero per incorrere.

Così pure ho ritenuto necessario proporre delle modifiche per quel che riguarda i poteri della Giunta comunale e del Presidente della Deputazione provinciale.

Spesso avviene che nell’intervallo fra una sessione e l’altra del Consiglio comunale, nell’intervallo da una riunione ad un’altra della Deputazione provinciale, si appalesino necessità alle quali conviene dar corso d’urgenza, e oggi non è possibile farlo perché, né la Giunta comunale può sostituirsi al Consiglio coi poteri d’urgenza, né il Presidente della Deputazione provinciale può sostituirsi alla Deputazione stessa. Ed anche per questo credo sia necessario integrare il testo del disegno di legge.

Ho aggiunto poi gli articoli che riguardano le pubblicazioni sull’albo Pretorio del Comune e della Provincia che – è doveroso dirlo – ho tratto dalla legge del 1934, perché era fatta bene su questo punto, e se una legge è stata fatta bene dal fascismo, noi dobbiamo adottarla coraggiosamente e lealmente.

Vi è poi un problema sul quale richiamo l’attenzione degli onorevoli colleghi ed è quello delle indennità agli amministratori dei Comuni, delle Provincie e degli Istituti di beneficenza. È vero che, nella legge del 7 gennaio 1946, all’articolo 3, ultimo capoverso, è detto che al sindaco e agli assessori può essere assegnata, compatibilmente con le condizioni finanziarie del Comune, un’indennità di carica; e che la deliberazione è sottoposta all’approvazione della Giunta provinciale amministrativa. Ma è anche vero che queste statuizioni sono rimaste in gran parte sulla carta.

Ricordo all’amico onorevole Corsi, qui presente, la discussione che ebbe luogo in quest’Aula su un’interrogazione dell’onorevole Terracini, il quale si lamentava appunto che una circolare telegrafica del Ministero dell’interno avesse reso quasi inefficiente questa disposizione di legge, e chiedeva che essa fosse invece resa attuabile e venisse integrata con altre norme. Ricordo che, alle vibratissime parole dell’onorevole Terracini, ebbe a rispondere l’allora Sottosegretario all’interno, onorevole Corsi, il quale concluse così la sua risposta: «Proprio fra giorni – eravamo agli ultimi del 1946: vedete bene come i giorni diventino mesi e i mesi diventino anni – dovrà essere esaminato un disegno di legge presentato dalla Presidenza del Consiglio per alcuni emendamenti alla legge comunale e provinciale. L’Assemblea potrà approvarli e noi daremo naturalmente corso a questa volontà sovrana».

Siede oggi a quel banco l’onorevole Carpano, il quale, credo, sottoscriverà le parole dell’onorevole Corsi: «noi daremo corso a questa volontà sovrana».

Noi vogliamo che gli amministratori dei Comuni e delle Provincie, oggi specialmente che sono tratti spesse volte dalle classi più popolari, dalle classi meno abbienti, dai contadini agli operai, ai piccoli artigiani, ai fabbri, ai muratori, ai calzolai, i quali sono eletti dal suffragio universale, dalla volontà del popolo, da migliaia e migliaia di voti, possano esercitare la loro funzione abbandonando solo in parte il loro normale lavoro, o abbandonandolo in modo che possano ugualmente continuare a mantenere la loro famiglia.

Non si tratta di un’elemosina, o di una elargizione; bisogna che la democrazia la smetta con l’idea della povertà francescana: onesti sì, ma non poveri. Bisogna che gli uomini che amministrano il Comune e la Provincia possano degnamente vivere, anche perché così potranno essere lontani da qualunque sospetto di corruzione. È un errore quello di ritenere che, chi dà la sua opera allo Stato debba farlo gratuitamente, nelle ore in cui non ha niente da fare. Oggi la vita politica è un magistero, è un sacerdozio, che comporta una quantità di cognizioni e un enorme dispendio di tempo e di attività.

Io ho avuto l’onore di fare, per un anno e più, il prefetto di Roma e vi dico che le ventiquattr’ore della giornata non erano sufficienti per tutto quello che dovevo fare.

Ho potuto fare questo grande sacrificio; ma non tutti sono in condizioni di poterlo fare. Bisogna che lo Stato provveda dignitosamente ai pubblici amministratori. E l’idea non è nuova, perché ho qui sott’occhio una proposta di legge presentata, il 5 agosto 1920, dall’onorevole Matteotti – è titolo d’onore ricordare in quest’Aula l’onorevole Matteotti come presentatore di un disegno di legge – che venne discussa, relatore Donati, e approvata il 10 agosto 1920. Doveva passare al Senato; ma venne la così detta marcia su Roma e non se ne fece più nulla. Quindi, introducendo nel disegno di legge l’obbligo delle indennità di carica per i consiglieri comunali, per le Deputazioni provinciali, per i consiglieri provinciali, per i presidenti, per i vicepresidenti, per i sindaci e per gli assessori, noi adempiamo ad un voto che un nostro collega, il cui nome resterà scolpito eternamente nei nostri cuori, aveva già sciolto ventisette anni fa, ed era riuscito a fare approvare dalla Camera perché diventasse legge dello Stato.

Noi così ci metteremo anche al passo con quella che è la situazione attuale: noi vogliamo che siano aperte le porte a tutti, che la possibilità sia data a tutti di assurgere alle più alte cariche dello Stato. Noi vogliamo che veramente nel popolo risieda l’autorità sovrana – non emani, come dice il disegno di legge sulla Costituzione, perché non è un odore che emana; è una potestà che risiede, che sta nel popolo e che dal popolo si espande attraverso tutti i rami della pubblica amministrazione, fino al Capo supremo dello Stato, fino al Presidente della Repubblica. Ma appunto per ciò dobbiamo rendere possibile questo esperimento, dobbiamo rendere possibile questo curriculum, che ogni uomo che vuol dedicarsi ai pubblici interessi deve fare attraverso le pubbliche amministrazioni. Si dovrà tornare al tempo in cui si cominciava verso i trent’anni ad entrare nel Consiglio comunale, verso i trentacinque nel Consiglio provinciale, verso i quaranta alla Camera dei Deputati. Non per amore di una gerontocrazia, che noi non vogliamo, perché è bene che i giovani entrino presto in quest’aula, ma è anche bene che abbiano un’adeguata esperienza, che portino il conforto di aver vissuto la vita amministrativa, perché non si improvvisano certe competenze: bisogna averle vissute fin dai primi gradini, e poi nei secondi, e poi nei terzi; e poi si potrà assurgere ai fastigi più alti della pubblica amministrazione. (Approvazioni).

Un altro punto, sul quale ho creduto opportuno presentare un emendamento, è quello che riguarda la necessità di coordinare in testo unico tutte le infinite disposizioni che oggi sono sparse in una quantità di leggi, che hanno ritoccato qua e là la legge comunale e provinciale. Bisogna coordinarle in un solo testo, subito dopo l’approvazione di questo disegno di legge. Ecco perché ho aggiunto un articolo che dà facoltà al Governo di proporre questo coordinamento e questo nuovo testo. Non solo, ma bisognerà rifare il Regolamento, perché – badate – noi ancora andiamo avanti col Regolamento del febbraio 1911. Siamo al 1947, è caduto un regime; cioè ha vissuto per vent’anni un regime ed è caduto; siamo tornati alla libertà, e ancora vige il Regolamento del 1911, l’anno famoso dell’esposizione di Roma nel ricordo dei nostri padri.

Quindi, onorevoli colleghi, ritengo che sarebbe inopportuno respingere questo disegno di legge. Noi lo accettiamo, lo accettiamo come primo passo; lo accettiamo come promessa; ma ci auguriamo che il Governo voglia, appena possibile, provvedere ad un nuovo testo della legge comunale e provinciale.

FUSCHINI. Dopo l’approvazione della Costituzione.

PERSICO. Anche prima, onorevole collega.

Questa Costituzione è fatta in un modo stranissimo. Ci sono argomenti nei quali i settantacinque nostri autorevolissimi colleghi si sono sbizzarriti a creare decine e dozzine di articoli, con capoversi, con commi lunghissimi che occupano mezza facciata e che poi non sapremmo come tradurre in leggi, perché molti sono già essi stessi una legge.

Basterebbe dire: «Abbiamo promulgato» o il «Presidente della Repubblica ha promulgato» e la legge sarebbe fatta; il che, però, non deve far parte di una Carta fondamentale, di una Carta costituzionale. E quindi dovremo togliere il troppo e il vano, come diceva l’altro giorno un nostro autorevolissimo collega. Viceversa, per l’autonomia comunale, neanche a farlo apposta, cercando col lanternino, si trova un solo modesto articolo, assai stremenzito, cioè l’articolo 121 che dice: «Il Comune è autonomo nell’ambito dei principî e delle leggi generali della Repubblica».

Per rispondere all’amico carissimo che mi diceva: ne parleremo dopo la Costituzione, io dico che possiamo parlarne anche prima, perché sul Comune e sulla Regione ci saranno ampi dibattiti, ma il Comune rimarrà sempre, perché è la cellula fondamentale dello Stato. Il Comune, la Provincia e lo Stato, questi sono i tre cerchi nei quali si svolgerà l’attività della Nazione italiana.

Io concludo, anche per essere obbediente al suo comando, onorevole Presidente, dicendo che noi approviamo questa legge, chiedendo però al Governo e alla Commissione che vogliano accettare gli emendamenti da noi proposti, dei quali ho dato un rapido cenno, e ciò per migliorare il progetto, perché nulla è perfetto, e ciascuno può portare il suo contributo al miglioramento di una legge. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta antimeridiana di venerdì 14 marzo alle ore 10.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di discussione urgente:

«Al Ministro dell’interno, per sapere le cause che hanno determinato i luttuosi incidenti di Messina e perché, sopravanzando le trattative in corso per l’equa composizione della vertenza, abbia avuto luogo la manifestazione che ha degenerato in atti violenti e se legittimo sia stato l’uso delle armi da parte della Forza pubblica.

«E quali provvedimenti intenda prendere per punire i responsabili, quali che essi siano, e per prevenire manifestazioni del genere che turbano l’ordine pubblico e l’opera di ricostruzione del Paese».

«Candela, Bonino, Bellavista».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere, in relazione ai luttuosi fatti di Messina, quali provvedimenti intenda prendere contro i responsabili spezzando, una buona volta, la tradizione mafiosa e di polizia, secondò la quale, in Sicilia, si può impunemente assassinare dei lavoratori».

«Fiore, Di Vittorio, Musolino».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti abbia adottato e si proponga di adottare in seguito ai gravissimi e luttuosi avvenimenti verificatisi in Messina il giorno 7 ultimo scorso, sia per l’accertamento delle cause e delle responsabilità e sia perché il popolo siciliano venga rassicurato autorevolmente per l’avvenire contro l’ormai abituale leggerezza con la quale la forza pubblica fa uso delle armi contro inermi cittadini che manifestano il loro disagio economico o la loro miseria. Tanto più che troppo vicina è la sconcertante assoluzione di tutti gli imputati dei luttuosi fatti di Palermo dell’ottobre 1944».

«Varvaro».

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per sapere se rispondano a verità le notizie date dai giornali sui luttuosi fatti di Messina, e per sapere se sono state assodate le responsabilità e quali provvedimenti sono stati disposti a carico di un ufficiale dei carabinieri che avrebbe caricato la folla al grido di «Avanti Savoia!».

«Natoli».

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per sapere quali provvedimenti intendano adottare contro i responsabili dei luttuosi fatti verificatisi nella giornata del 7 marzo decorso durante una pacifica dimostrazione di lavoratori dinanzi alla Prefettura di Messina, nonché contro il comandante la legione dei carabinieri di Messina e il capitano dei carabinieri, che in quel giorno comandava il servizio, responsabili l’uno indirettamente e l’altro direttamente di aver fatto sparare i carabinieri sul popolo al grido monarchico di: «Avanti Savoia!».

«Li Causi, Montalbano».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo risponderà a queste interrogazioni nella seduta antimeridiana di venerdì 14.

PRESIDENTE. Sono pervenute alla Presidenza le seguenti altre interrogazioni, con richiesta di svolgimento di urgenza:

«Al Governo, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere – dati i fatti di Napoli – per evitare il crollo della industria della pastificazione con la conseguente disoccupazione di alcune migliaia di operai. In particolare si chiede se il Governo intende intervenire con ogni urgenza per adottare i provvedimenti richiesti, e cioè:

  1. a) equa ripartizione del grano in modo da assicurare concrete ed eguali possibilità di lavoro alle industrie della Campania e delle altre zone;
  2. b) perequazione dei dati di molitura e di pastificazione ed unificazione del prezzo della pasta in tutto il Paese, avocando allo Stato le eventuali differenze per costituire una entrata alla Cassa integrazione salari;
  3. c) intervento della Cassa integrazione salari nei confronti dei lavoratori dell’arte bianca».

«Riccio Stefano».

«Al Governo, per conoscere i motivi per cui, dimentico del più elementare senso di giustizia sociale, abbia trascurato di risolvere il problema della Cassa integrazione salari, del dato unico di pastificazione nazionale, di una eguale ripartizione di lavoro, provocando così la inevitabile chiusura di tutti i pastifici della provincia di Napoli con gravissimo danno delle maestranze rimaste senza lavoro e della popolazione, creando una situazione di disagio, sfociata in tumulti e gravi incidenti la responsabilità dei quali, come di tutto l’accaduto, ricade indirettamente sul Governo per la sua insensibilità a risolvere i problemi del Sud.

«Mazza».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo risponderà anche a queste interrogazioni nella seduta antimeridiana di venerdì.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Porzio. Ne ha facoltà.

PORZIO. Chiedo che sia discussa d’urgenza la seguente interrogazione annunziata nella seduta del 6 febbraio:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere quali criteri intenda adottare per risolvere i gravi e urgenti problemi che assillano la città di Napoli».

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Anche a questa interrogazione sarà risposto venerdì.

PRESIDENTE. Infine sono pervenute alla Presidenza le seguenti altre interrogazioni per le quali è stato anche chiesto lo svolgimento di urgenza:

«Al Ministro dei trasporti, per sapere i motivi per i quali, con grave pregiudizio per la campagna agrumaria siciliana in corso e della economia nazionale e regionale, non si restituiscono al compartimento ferroviario di Palermo i carri merce usciti dalla Sicilia con destinazione Continente, attribuendoli a compartimenti che non hanno le attuali improrogabili necessità di esportazione e di deperibilità di prodotto; e per sapere, inoltre, perché vengano riservate soltanto ai diretti e direttissimi Roma-Milano le vetture di prima classe, totalmente assenti nel traffico ferroviario siciliano da e per il Continente.

«Si chiede l’urgenza ai sensi del Regolamento.

«Bellavista, Bonino».

«Ai Ministri dell’interno e della difesa, per sapere se ritengano opportuno – qualora motivi di ordine generale non lo rendano impossibile – concedere a tutti i militari di leva siciliani una breve licenza perché il 20 aprile, in occasione delle elezioni per l’Assemblea regionale siciliana, possano trovarsi nei rispettivi comuni di residenza ed esercitare, anch’essi, il loro diritto di voto.

«Li Causi, Montalbano, D’Amico».

«Al Governo, per sapere se risponde a verità la notizia secondo la quale sul colle della Farnesina, dominante in vista di San Pietro, fra Monte Mario e Ponte Milvio, in uno dei luoghi più suggestivi di Roma, e del mondo, entro la cinta urbana, colle destinato, infatti, a parco pubblico nel piano regolatore vigente, sarebbe stata concessa una immensa zona di terreno (circa 35.000 mq.) da destinare a cimitero di guerra francese, nel quale sarebbero, naturalmente, accolte anche salme di mussulmani di colore. E, nel caso affermativo, per sapere che cosa il Governo intenda fare per rimuovere l’intollerabile concessione che, rivelando l’assoluta insensibilità delle autorità responsabili, suona insulto, sotto troppi aspetti, alla cocente immeritata sventura della Nazione, e suona comunque soprattutto insulto alle altissime tradizioni civili e cristiane di Roma, alle quali deve pur rendere omaggio la Francia che, con noi, trae da quelle comune nobiltà di origine.

«Di Fausto».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si riserva di comunicare quando intende rispondere a queste interrogazioni.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Perugi. Ne ha facoltà.

PERUGI. Ricordo che ho presentato nella seduta del 6 marzo la seguente interrogazione, per la quale ho chiesto la discussione d’urgenza.

«Al Ministro della difesa, per conoscere:

1°) se risulti che, malgrado il disposto del decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 19, che prevede l’esecuzione del lavoro straordinario da parte dei dipendenti dello Stato – civili e militari – il Ministero della difesa – Esercito – abbia ancora giacenti numerose richieste di pagamento per lavoro effettuato sin dal mese di giugno 1946 da parte di impiegati civili degli enti periferici;

2°) le ragioni per le quali, malgrado le disposizioni generiche sopracitate, non sia stato ancora autorizzato l’inoltro al Ministero della difesa – Esercito – delle proposte di compenso per lavoro straordinario eseguito dai militari degli enti periferici;

3°) se risulti che non è stato ancora autorizzato il pagamento del lavoro straordinario effettuato dai militari e civili degli enti periferici nel 1946, mentre tutti gli ufficiali ed i civili del Ministero della difesa – Esercito – lo hanno da tempo riscosso, in base al lavoro svolto coi criteri fissati dal decreto legislativo presidenziale 27 giugno 1946, n. 19;

4°) se non sia indispensabile, per un complesso di ovvie ragioni, usare una maggiore cautela nel concedere benefici solo al personale delle Amministrazioni centrali, lasciando che quello addetto agli enti dipendenti raggiunga poi la parità dei diritti attraverso manifestazioni che contribuiscono a minare la disciplina dei dipendenti statali».

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo si riserva, anche per questa interrogazione, di comunicare quando intende rispondere.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Castelli Avolio. Ne ha facoltà.

CASTELLI AVOLIO. Vorrei chiedere quando potrà essere messo all’ordine del giorno lo svolgimento di una interrogazione ai Ministri delle finanze e del tesoro, presentata il 6 corrente, riguardante la esenzione dall’imposta di ricchezza mobile per gli opifici tecnicamente organizzati.

PRESIDENTE. Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CARPANO MAGLIOLI, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo potrà rispondere nella seduta antimeridiana di venerdì prossimo.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, sulle ragioni che hanno indotto l’Alto Commissariato per l’alimentazione a mutare le precedenti disposizioni circa lo scarico del frumento dal piroscafo «Assunzione», destinato al porto di Siracusa e successivamente scaricato altrove; tenuto conto che il mancato arrivo a Siracusa di tale piroscafo, già segnalato dall’Alto Commissario, ha aggravato la penosa condizione di disoccupazione delle maestranze portuali di Siracusa, danneggiate dal lungo abbandono del porto e dalla mancata soluzione dei problemi portuali, ripetutamente prospettati, ma inutilmente, a tutte le autorità centrali e locali.

«Poiché lo sciopero minacciato è stato sospeso per le assicurazioni dell’Ispettorato regionale dell’alimentazione circa la destinazione al porto di Siracusa di imminenti arrivi di piroscafi con carico di cereali, occorre affrettare tale destinazione e tener presente l’urgente necessità di provvedere a dar lavoro alle maestranze portuali di Siracusa, lungamente provate, avvertendo che lo sciopero, se attuato, potrebbe estendersi a tutte le altre categorie di lavoratori, direttamente ed indirettamente interessate al traffico portuale, con grave danno dell’economia locale e con pericolo per l’ordine pubblico.

«Di Giovanni».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere perché – con riferimento al decreto legislativo 23 novembre 1946, n. 463 – vuol disconoscere, agli effetti della revisione dei prezzi dei contratti di appalto dei lavori in corso, gli aumenti del costo della mano d’opera verificatisi, in conseguenza delle convenzioni sindacali, per i contratti stipulati durante il periodo delle discussioni e delle trattative delle convenzioni stesse, adducendo che debba presumersi che le imprese appaltatrici, per essere già informate della eventualità dei nuovi oneri, ne abbiano tenuto conto nel formulare le loro offerte in sede di gara.

«Gli interroganti chiedono, pertanto, se non sia oltremodo opportuno ed urgente che sia rimossa ogni eccezione al riguardo e sia ristabilita la fiducia e la tranquillità fra le imprese appaltatrici, dando a queste la possibilità di proseguire i lavori intrapresi con la regolarità e l’intensità, tanto necessarie in questo momento.

«Caccuri, Monterisi, Gabrieli, Recca».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per sapere quali provvedimenti siano stati disposti dai Ministri interessati per l’accertamento delle responsabilità relative alla dispersione o sottrazione del materiale di proprietà dello Stato, che alla data dell’8 settembre 1943 risultava regolarmente affidato a terzi in conto lavoro o deposito.

«In particolare si fa riferimento alle considerevoli partite di indumenti ad uso militare, spesso per valori rilevanti, di cui erano consegnatarie ditte o industrie per la lavorazione.

«Sono, infatti, noti e vivamente deplorati dall’opinione pubblica molti casi, in cui depositari del genere, con il pretesto degli avvenimenti dell’8 settembre, hanno liquidato e venduto per proprio conto ingenti partite, realizzando guadagni favolosi. Non consta che alcuno di tali depositari sia stato invitato a fare – dopo la liberazione – alcuna dichiarazione in ordine all’ammontare, all’impiego, alla distribuzione e al realizzo di dette partite e, d’altra parte, è da ritenersi che data la peculiarità delle circostanze, detti atti sfuggano agli accertamenti relativi ai profitti vuoi di guerra, vuoi di regime, vuoi di speculazione.

«Si deplora, pertanto, unanimamente che l’assenteismo dell’autorità in ordine a tali fatti valga a sanzionare delle situazioni profondamente immorali e a ratificare delle appropriazioni del patrimonio pubblico, aggravate oltre a tutto dal fatto di essere state effettuate proprio allorquando per la grande maggioranza del popolo italiano cominciava il periodo più duro e più travagliato della sua esistenza.

«Cappelletti, Segala».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere i motivi che determinarono l’arresto dei giovani Marsella Mario, Marsella Nicola, Scordari Aldo, Stafanio Salvatore, De Donno Vincenzo, Marrocco Donato, dirigenti del Fronte della gioventù di Maglie (Lecce), il loro deferimento al Tribunale, il procedimento per direttissima nei loro confronti e la loro condanna a 18 mesi di reclusione.

«Grieco, Corbi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, sui provvedimenti adottati e sui risultati ottenuti per combattere la disoccupazione nel quadro della politica di Governo e della ripresa nazionale del lavoro dopo il maggio del 1945 e fino ad oggi.

«L’interrogante chiede inoltre che venga manifestato un giudizio circa i probabili sviluppi della situazione nel prossimo futuro, per combattere accanitamente questa intollerabile malattia sociale.

«Roselli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non creda utile e necessario emanare norme integrative al decreto legislativo del 6 settembre 1946, n. 89, per far obbligo al proprietario della terra occupata, di pagare, alla fine della concessione, alla cooperativa occupante, le migliorie apportate al fondo, onde incoraggiare i metodi colturali più attivi ed intensivi previsti dall’articolo 1 di detto decreto.

«Pastore Raffaele».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere quali ragioni si oppongano alla istituzione di una corsa di automotrici (Battipaglia-Potenza) che permetta ai viaggiatori della Lucania di poter usufruire dei treni rapidi che provengono dalle Calabrie; e per conoscere che cosa intenda fare per migliorare le comunicazioni ferroviarie che permangono quasi nelle stesse disastrose condizioni, in cui si trovavano alla ripresa del traffico ferroviario dopo l’armistizio, essendo riservato alle poche linee che attraversano questa regione il materiale più scadente e gli orari più assurdi, che mortificano le popolazioni meridionali mantenendole in uno stato di costante, anzi di progressiva inferiorità di fronte a quelle delle altre regioni d’Italia.

«Pignatari, Marinaro, Mazzei, Reale Vito, De Mercurio, Zotta, Porzio, Ruggiero».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quali provvedimenti intenda emanare per ovviare all’esiguo trattamento economico di cui beneficiano attualmente gli ufficiali della riserva colpiti dalla legge d’avanzamento Baistrocchi (legge 7 giugno 1934, n. 899) e successive modificazioni, onde provvedere ad un livellamento delle indennità concesse dall’articolo 48 della legge 9 maggio 1940, n. 369, rimasta inalterata dalla sua istituzione, alle normali esigenze del costo della vita.

«Perugi».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se ritiene compatibile con il prestigio della giustizia e delle istituzioni democratiche la condanna inflitta dal pretore di Vitulano al sindaco di Foglianise (Benevento) in tale qualità, per pretesa omissione di atto del suo ufficio, così violandosi apertamente le guarentigie amministrative stabilite dagli articoli 8 e 157 del regio decreto 21 maggio 1908, n. 269 e 8 e 157 del regio decreto 4 febbraio 1915, n. 148.

«Perlingieri, Bosco Lucarelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni per le quali non è stata sin oggi effettuata a favore del personale subalterno provinciale la fornitura delle uniformi, di cui all’articolo 17 del regio decreto 30 dicembre 1923, n. 2960, ed al decreto legislativo luogotenenziale 23 novembre 1945, n. 756, pur trovandosi stanziati in bilancio 30 milioni.

«COLITTO».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali ostacoli di ordine burocratico si frappongano alla liquidazione:

1°) delle indennità di visita spettanti al personale ispettivo e direttivo della provincia di Brescia per il bimestre maggio-giugno 1946;

2°) delle indennità di presenza, per le quali al suddetto personale sono state corrisposte solamente lire 1800 in una sola volta, mentre queste indennità dovrebbero decorrere dal 1° aprile 1946 (gli impiegati degli altri Ministeri le riscuoterebbero mensilmente).

«L’interrogante chiede, altresì, al Ministro se non ritenga opportuno, per una più assidua e proficua vigilanza nelle scuole elementari, aumentare in modo congruo i fondi che il Ministero della pubblica istruzione annualmente mette, per tale scopo, a disposizione dei provveditori agli studi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tumminelli».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere se – dato che lo sfruttamento dei grandi giacimenti di bauxite di cui sono ricche le montagne di Lecce de Marsi (Aquila) ebbe termine nel 1929 perché, sembra con minor costo, la stessa veniva ricavata nell’Istria, ma che oggi sulle risorse di questa regione l’Italia non può più contare – non ravvisi la possibilità di riattivare quella industria estrattiva, utile tanto ai fini dell’economia nazionale, che agli interessi della popolazione locale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Corbi».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere quali misure intenda adottare allo scopo di assicurare una equa distribuzione di banda stagnata e di altre materie prime, occorrenti alle imprese che provvedono alla conservazione dei prodotti della pesca.

«E ciò perché sembra che anche per il corrente anno si intenda mantenere fermo il piano di assegnazione stabilito per gli anni 1940-41-42, con gravissimo danno per le imprese siciliane che allora, per i noti eventi bellici, non erano in grado di svolgere la loro normale attività, ed ora hanno invece incrementato notevolmente la loro produzione; mentre, d’altro canto, le imprese del versante adriatico, e specialmente quelle istriane, continuano ad ottenere le stesse preponderanti assegnazioni stabilite negli anni predetti, pur non avendo più la disponibilità di impianti che si trovano nella zona assegnata alla Jugoslavia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bellavista».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga equo ed opportuno estendere a tutti gli avventizi dipendenti dalla pubblica Amministrazione il beneficio del godimento degli scatti quadriennali, che godono attualmente altre categorie del personale non di ruolo, come i subalterni, mentre altri impiegati, pur ricoprenti funzioni dei gruppi A, B, C, non godono di tale beneficio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Bellavista, Bonino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere i motivi per i quali, pur avendo il Consiglio di Amministrazione della Corte dei conti concluse sin dal novembre 1946 le operazioni relative alle promozioni dei funzionari della Corte stessa ai gradi 5°, 6° e 7° della carriera di gruppo A, sino al punto che il Presidente di quel consesso aveva addirittura disposto la convocazione del Consiglio di Presidenza per la omologazione dei verbali, alla quale segue remissione dei decreti di promozione, improvvisamente le promozioni al predetto grado 7°, che pur conta nel suo seno molte vacanze, sono state sospese, facendosi luogo soltanto a quelle relative agli altri due gradi; e per conoscere inoltre se risponde al vero che, subito dopò ciò, è stato predisposto lo schema di un provvedimento legislativo per il quale il periodo di permanenza nel grado 8°, previsto dall’articolo 31 del regio decreto 12 ottobre 1933, n. 1364, subirebbe un’abbreviazione con susseguente vantaggio di funzionari oggi non scrutinabili ed inoltre entrati in carriera col sistema dei concorsi per titoli, a danno di altri funzionari viceversa già scrutinati. L’interrogante desidera dissipare i dubbi suscitati da quanto precede ed interessare in merito la Presidenza del Consiglio per il ripristino della normalità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere il risultato conclusivo dell’inchiesta intorno al noto episodio del detenuto Caroselli, di cui formò oggetto una precedente interrogazione discussa nella seduta del 17 ultimo scorso; e per sapere quanto vi sia di vero nel successivo episodio, pressoché analogo, del detenuto Domenico Bernardini, narrato da Risorgimento liberale del 2 corrente. Anche il Bernardini sarebbe stato oggetto di violenze nel carcere di Regina Coeli e tempestivamente allontanato da esso per evitare scandalo.

«Sembra all’interrogante che la necessità di una compiuta disciplina nel regime degli interrogatori e delle inchieste poliziesche e carcerarie si faccia sempre più pressantemente sentire con piena soddisfazione a riguardo della coscienza pubblica, che deplora al tempo stesso le violenze in danno dei detenuti e la facilità con la quale si verificano poi per converso le evasioni di molti di essi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non crede necessario ed urgente un provvedimento che regoli e faciliti la situazione dei giovani, laureati in scienze politiche. Costoro, per essere muniti di licenza dal liceo scientifico, non possono accedere alla facoltà di giurisprudenza e, per la svalutazione subita dal loro titolo accademico, hanno limitate possibilità di carriera. Per contro vi è grande affinità sia tra gli studi compiuti per conseguire la maturità scientifica e quelli per la maturità classica, sia tra gli studi e le materie delle due facoltà di scienze politiche e di giurisprudenza. In considerazione di ciò sembra imporsi un provvedimento legislativo che consenta ai predetti laureati in scienze politiche l’accesso alla facoltà di legge.

«In tali sensi l’interrogante insiste perché siano adottate e sollecitate disposizioni al fine di sollevare le condizioni materiali e morali di una parte della gioventù, che in fondo è stata posta nella difficile e lamentata situazione odierna non per colpa propria, ma dei tempi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere se e quando avrà luogo l’atteso inoltro alla competente Commissione legislativa dell’Assemblea Costituente del disegno di legge sulla sistemazione dei Consorzi agrari, della quale si parla ormai da molto tempo, ma che a tutt’oggi non ancora si profila e che, persistendo l’odierno ritardo e date le tappe che sono necessarie perché un disegno di legge si trasformi in legge, minaccia ulteriori dannose procrastinazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritiene di dovere urgentemente intervenire presso i competenti Uffici comunali affinché l’applicazione in corso dell’imposta di famiglia non avvenga nel modo caotico e vessatorio col quale va in genere procedendo, ma in maniera uniforme e razionale.

«In concreto si rileva che, mentre per l’imposizione suddetta dovrebbe prevalere il criterio analitico, che consente controlli precisi e una seria difesa dei reciproci diritti dei Comuni e dei contribuenti, si fa uso ed abuso di criteri induttivi, che di consueto prescindono dalla considerazione della realtà e degli altri notevoli oneri tributari presenti e futuri, gravanti e da gravare sui cittadini, e mettono capo ad accertamenti iperbolici, a fronte dei quali non è poi agevolata la conclusione di ragionevoli concordati.

«Al fine di rasserenare la generalità dei cittadini e le varie categorie economiche urge raccomandare la moderazione e una benevola disposizione da parte degli uffici a transigere senza vieti formalismi e con spirito di liberalità le controversie in considerazione soprattutto della fluidità della situazione economica attuale e dei sopracennati pesi fiscali in corso ed in fieri. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, sugli atteggiamenti di alcuni magistrati della Corte di appello e del Tribunale di Catanzaro in ordine all’ostinata ed inspiegabile opposizione alle richieste di libertà provvisoria del procuratore generale e del procuratore della Repubblica a favore degli operai di Crotone, per i quali era stata financo minorata l’originaria ed ingiusta imputazione.

«L’interrogante comprende che la concessione della libertà provvisoria è una facoltà discrezionale del giudice; ma la discrezione non può, né deve trasformarsi in arbitrio.

«Nel regime democratico e repubblicano la libertà personale è un diritto inviolabile e la limitazione deve essere considerata come un’eccezione, se si vuole intendere la Giustizia come un’etica e non come una reazione di classe, od una effimera opinione di giudice. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mancini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri delle finanze e tesoro e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere quali i provvedimenti che intendano d’urgenza attuare in accoglimento delle ripetute richieste dei pensionati tutti, che vivono in condizioni miserrime, costretti a vendere quanto di più caro possiedono per far fronte alle dure necessità della vita.

«Furono chiesti: immediati miglioramenti di pensione, specie per quanto riflette quelle della previdenza sociale, la concessione del premio della Repubblica, la gratifica natalizia, il caro viveri equiparandolo al costo odierno della vita, l’assistenza dell’U.N.R.R.A., ed altri provvedimenti.

«Urge l’accoglimento delle richieste: ogni differimento suonerebbe oltraggio a chi ha dato per tanti e tanti anni braccio e intelletto nell’interesse dell’avvenire del Paese. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Ferrarese, Pat, Marzarotto, Carbonari, Guariento, Bettiol, Valmarana, Lizier, Franceschini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se sia a conoscenza che dal 1933 al 1937 sarebbero stati rilasciati, a seguito di regolari esami, dall’Istituto magistrale di Rodi, dei diplomi di abilitazione magistrale con apposta una clausola di validità limitata all’insegnamento nelle scuole del solo possedimento dell’Egeo.

«Se ritenga legalmente fondata e valida una siffatta limitazione e – nel caso negativo – se non ritenga opportuno, a tutela dei diritti dei singoli abilitati, che non possono venire ridotti da disposizioni extra legge, confermare la piena validità ed efficacia a tutti gli effetti dei titoli conseguiti con prove sostenute sulla base del programma ministeriale e davanti Commissioni ufficiali. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Cappelletti, Valmarana».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se, dopo oltre 9 mesi dal referendum istituzionale, conclusosi con la netta affermazione repubblicana del popolo italiano, non ritenga opportuno promuovere dal Governo l’abolizione dei divieti, anche recentemente sanciti dal Ministero della pubblica istruzione, fatti alle Amministrazioni comunali, di cambiare denominazioni di strade e piazze intitolate a persone di Casa Savoia, viventi o non, compromesse col passato regime fascista. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Negarville».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Ministro della difesa, per conoscere quale destinazione intenda sia data ai numerosi edifici e vasti stabilimenti militari esistenti nella città di Udine, non appena saranno sgomberati dai reparti militari alleati e per sapere in ispecie quali di detti fabbricati, in considerazione dei minori apprestamenti militari consentiti dal trattato di pace, potrebbero essere messi a disposizione e, comunque, riservati all’Amministrazione comunale per le gravi esigenze che la premono per il completamento dell’edilizia ospedaliera e per il ricovero di numerosissimi senzatetto viventi in penosissime situazioni di disagio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cosattini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritiene che sia ormai giunto il tempo di assegnare i fondi necessari per mettere in grado il Magazzino provinciale del tessile di Varese, di curare il rimborso alle numerosissime ditte del Meridione d’Italia, e specie della Sicilia, del valore dei manufatti che, durante il periodo in cui il Sud rimase tagliato dal Nord, vennero dai depositi degli spedizionieri e dalle fabbriche requisiti e distribuiti fra le popolazioni dell’Alta Italia, ed il cui ricavato fu, al momento dell’occupazione alleata, bloccato e versato al Tesoro italiano, pur trattandosi di merce pagata e non ancora ritirata dai compratori.

«Ciò perché non devesi aumentare l’enorme danno che un siffatto provvedimento determinò agli interessati, protraendo un pagamento che avrebbe dovuto già da tempo effettuarsi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e dell’industria e commercio, per sapere se con riferimento agli articoli 5 e 6 della legge 5 dicembre 1941, n. 1572 – che accordano l’esenzione decennale dall’imposta di ricchezza mobile sui redditi industriali degli stabilimenti installati a norma dell’articolo 1 della legge stessa nelle provincie dell’Italia centrale, meridionale ed insulare, entro il 31 dicembre 1946 – ed in considerazione degli eventi bellici occorsi durante gli anni 1943-45 che hanno impedito ed impediscono od ostacolano tuttora il sorgere di nuovi stabilimenti industriali, non ritengano opportuno, al fine di affrettare l’auspicata rinascita industriale, specie della Sicilia, prorogare adeguatamente il detto termine del 31 dicembre 1946, già scaduto, semplificando nel contempo la procedura per le relative autorizzazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bonino».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere se e quali provvedimenti intenda assumere il Governo nei riguardi di quegli ufficiali della Marina italiana che, già appartenendo al «ruolo speciale di complemento», parteciparono ai concorsi per il passaggio nel «ruolo speciale in servizio permanente effettivo» indetti a norma dell’articolo 6 della legge 3 dicembre 1942, n. 1417, e tuttora attendono di conoscere l’esito dei concorsi stessi; ciò in relazione al diverso trattamento di quiescenza previsto per gli ufficiali in servizio permanente effettivo e per quelli del «ruolo speciale di complemento» dagli articoli 4 e seguenti del decreto legislativo 31 maggio 1946, n. 490. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bibolotti».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare i Ministri dell’industria e commercio e dei trasporti, per conoscere se e quando intendano costringere la Società Ferrovia Massa Marittima-Follonica a provvedere alla riattivazione della ferrovia stessa, tanto necessaria al mantenimento e incremento delle numerose attività industriali ivi esistenti, al sorgere di nuove industrie estrattive e laterizie, e allo spostamento delle popolazioni interessate, ed in caso di rifiuto alla esecuzione dei lavori di riattivazione, se intendano provvedere a togliere alla Società predetta la concessione per affidarla ad altra Società o Cooperativa, disposte ad eseguire i lavori necessari ed a ripristinare prontamente il servizio. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Monticelli, Magnani, Zannerini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e della difesa, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi per impedire il rinnovarsi di esplosioni di polveriere, come è avvenuto negli scorsi giorni nel comune di Barbania, frazione di Front. E per conoscere, inoltre, quali precauzioni erano state prese per assicurare l’incolumità del personale addetto allo svuotamento dei sacchetti di esplosivo e quali responsabilità sono state accertate circa la tragica fine delle quattro vittime addette a tale lavoro. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roveda».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non ritenga assolutamente indispensabile, per evitare serie conseguenze in caso d’incidente, la illuminazione delle gallerie ferroviarie meridionali, le quali sono finora sprovviste di questo mezzo precauzionale, e di cui sono invece dotate le gallerie settentrionali.

«L’interrogante fa rilevare che nell’ultimo incidente, avvenuto nella galleria d’Itri, il panico fra viaggiatori si accrebbe in modo preoccupante, appunto per il buio che rese più difficile il servizio d’ordine e di vigilanza agli agenti delle ferrovie e della polizia.

«D’altronde non si riesce a spiegare, perché le ferrovie meridionali non debbano avere le stesse misure precauzionali di quelle che hanno le ferrovie settentrionali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Musolino».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se, data la interpretazione soggettiva ed arbitraria, data da taluni uffici distrettuali delle imposte alle disposizioni di cui il decreto legislativo 27 maggio 1946, n. 436, relative agli utili di congiuntura, non ravvisi la opportunità di chiarire agli uffici dipendenti che gli accertamenti per utili di congiuntura non possono derogare al principio generale della certezza della imposta, e non possono, quindi, essere promossi indistintamente a carico di qualsiasi appartenente ad una determinata categoria, ma soltanto a carico di coloro per i quali esistano elementi concreti di imposizione.

«Nel caso particolare l’Ufficio distrettuale delle imposte di Benevento ha accertato utili di congiuntura a carico della categoria degli agricoltori, coltivatori diretti, per l’anno 1943, in base alla considerazione che il raccolto 1943 sarebbe stato migliore del raccolto 1942 e tuttavia sarebbe stato conferito agli ammassi un identico quantitativo di grano, omettendo di considerare che i conferimenti agli ammassi vengono eseguiti in base agli accertamenti degli Uffici competenti, e solo in ipotesi di violazione degli obblighi accertati può parlarsi di utili di speculazione. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Perlingieri, Bosco Lucarelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non intenda estendere ai pensionati della Previdenza sociale il beneficio del pacco viveri concesso mensilmente a quelli statali e parastatali, provvedendo con tale giusta equiparazione a porre i detti pensionati, che non hanno diritti inferiori ad alcuno, avendo profuso nel lavoro tutte le loro energie, in condizioni di poter ovviare alle sempre crescenti difficoltà della vita. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per conoscere:

1°) se non intenda provvedere, con una opportuna modifica delle disposizioni regolamentari relative, ad aumentare al 65° anno il minimo d’età per il collocamento in quiescenza del personale dipendente dall’Amministrazione delle Ferrovie, equiparandolo a tali fini a quello di tutte le altre Amministrazioni dello Stato;

2°) se in attesa di tale provvedimento di equiparazione non ritenga giusto sospendere la messa in quiescenza del personale ferroviario di età inferiore ai 65 anni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rodinò Mario».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga giusto ed opportuno dare disposizioni perché, in via eccezionale, vengano prese in considerazione le domande presentate dai danneggiati del comune di Barrea.

«Risulta, infatti, che l’Intendenza delle finanze dell’Aquila sta provvedendo al pagamento di acconti sulle domande di risarcimento per danni di guerra protocollate con numero inferiore a 10.000.

«Tale procedura danneggia la popolazione tutta del comune di Barrea, la quale, costretta a sfollare per ordine delle truppe germaniche (per otto mesi, con la conseguente perdita di ogni bene), si è trovata nell’impossibilità di inoltrare le richieste in tempo utile perché fossero tra le prime 10.000, ed avvantaggia quelle che meno hanno sofferto le conseguenze dell’occupazione tedesca. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Corbi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga equo ed opportuno che il prossimo testo unico delle disposizioni sul risarcimento dei danni di guerra sancisca la proroga al 22 aprile 1947 del termine utile per la presentazione delle denuncie di danni di guerra inerenti alla guerriglia partigiana; e ciò in relazione:

1°) col fatto che tali danni furono ammessi a risarcimento soltanto con il decreto legislativo 6 settembre 1946, n. 240, pubblicato il 22 ottobre, ed è quindi logico dare il margine di tempo di sei mesi dalla data di pubblicazione;

2°) con la circostanza che il testo del citato decreto non è ben chiaro, e perfino da Autorità statali (come l’Intendente di finanza e il Prefetto di Udine) venne divulgato interpretandolo nel senso suaccennato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Gortani».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 12.20.

LUNEDÌ 10 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LVI.

SEDUTA DI LUNEDÌ 10 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Bordon                                                                                                             

Presidente                                                                                                        

Per l’anniversario della morte di Giuseppe Mazzini:

Macrelli                                                                                                          

Sforza, Ministro degli affari esteri                                                                     

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

Orlando Vittorio Emanuele                                                                          

Nenni                                                                                                                

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

BORDON. Domando la parola sul processo verbale per quanto ha detto l’altro ieri l’onorevole Nitti relativamente alla concessione dell’autonomia alla Valle d’Aosta.

PRESIDENTE. Mi permetta, onorevole Bordon: il suo nome non è stato pronunciato e, quindi, non si tratta di un caso personale.

D’altra parte, poiché lei non ha parlato nella scorsa seduta, non ha necessità di precisare meglio un pensiero che non ha espresso.

Pertanto, ritengo che non vi sia ragione per lei di prendere la parola sul processo, verbale della seduta precedente. A proposito della Valle d’Aosta avrà largamente occasione di parlare, quando tratteremo della struttura del nuovo Stato repubblicano italiano.

Se non vi sono osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Per l’anniversario della morte di Giuseppe Mazzini.

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, ho chiesto la parola per ricordare all’Assemblea Costituente, eletta dai liberi suffragi del popolo italiano nella storica giornata del 2 giugno, che oggi ricorre il 75° anniversario della morte di Giuseppe Mazzini. (Il Presidente e tutta l’Assemblea si levano in piedi).

L’Uomo che innalzò la sua fede come una fiaccola ideale per illuminare le coscienze, per indicare agli uomini ed ai popoli le mete da raggiungere, l’uomo che visse lottando, soffrendo per l’Italia, per la libertà, per la Repubblica; l’uomo che dall’alto del Campidoglio, circa un secolo fa, ispirò della sua grande anima l’opera della Costituente romana, è, o dovrebbe essere almeno, in mezzo a noi, oggi.

Nell’ora solenne e decisiva per i destini della Patria è doveroso ricordare la figura gigantesca di Giuseppe Mazzini, genio universale come Dante Alighieri, e la dobbiamo ricordare oggi particolarmente, e specialmente noi, per fare opera degna della nostra storia, della nostra tradizione, ispirandoci alla passione, alla fede, al pensiero, all’azione di Giuseppe Mazzini, per l’avvenire d’Italia, per l’avvenire della Repubblica! (Vivi applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri, ne ha facoltà.

SFORZA. Ministro degli affari esteri. Il Governo della Repubblica si associa con entusiasmo alle parole dell’onorevole Macrelli e confida che per gli italiani tutti il giorno della morte dell’Esule Giuseppe Mazzini resterà per lunghe generazioni, per sempre, un giorno di dolore e di fede. (Applausi).

PRESIDENTE. Credo che nessuno di noi, qualunque sia la convinzione politica che ha nutrito e che nutre, non abbia fin dall’età più giovane, dovunque il nome e l’opera di Giuseppe Mazzini riuscissero a farsi luce e ad essere conosciuti – attraverso la scuola e l’educazione civile – non abbia, sia pure soltanto in parte, nutrito il proprio spirito dei suoi grandi insegnamenti.

Oggi la figura di Giuseppe Mazzini esce dal chiuso degli animi e giganteggia anche nelle forme esteriori della nostra vita. Ma nelle nostre città italiane pochi sono i monumenti che lo ricordano, fra gli innumerevoli che ricordano figure che meglio avremmo amato non avessero mai oscurato la storia del nostro Paese.

Ebbene, egregi colleghi, permettetemi di dire che il più grande e duraturo monumento che noi possiamo erigere in ricordo di Giuseppe Mazzini saranno le leggi che l’Assemblea Costituente e le prossime assemblee legislative daranno alla Repubblica italiana, se sapremo ispirarle ai concetti e alle idealità di quel nostro comune e grande Maestro. (Vivi applausi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Orlando Vittorio Emanuele. Ne ha facoltà. (Segni di viva attenzione).

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. (Segni di viva attenzione). Onorevoli colleghi, non avrei preso la parola in questa discussione per una ragione molto personale e molto caratteristica, che spiegherò subito: ma sono stato – per così dire – chiamato in causa più volte, ed in maniera così affettuosa e cortese, da impormi l’obbligo, non fosse altro, di esprimere un ringraziamento sia al relatore, onorevole Ruini, che, nella stia relazione, ha voluto citare il mio nome con parole così altamente lusinghiere, sia ai varî oratori, dall’onorevole Calamandrei all’onorevole Rubilli. E più volte sono stato chiamato maestro.

Ora, intervenire in una discussione come maestro, in un’Assemblea politica e sovrana, non è cosa agevole, poiché può generare l’impressione sgradita di un atteggiamento presuntuoso. Tanto peggio poi in quanto non posso negare di esserlo; beninteso, però, senza la M maiuscola, perché la presunzione può riscontrarsi in un maestro qualificato da quella maniera di scrivere la prima lettera. Ed io non posso negare di essere stato per lunghi anni un maestro, ma semplicemente con lettera minuscola.

La mia prima prolusione di diritto costituzionale è, infatti, vecchia di 62 anni, ed anche se si devono dedurre i 10 passati al servizio del mio Paese (intendo quelli al Governo) e quelli sottrattimi poi dal fascismo, che rese incompatibile la mia presenza su di una cattedra universitaria di diritto pubblico, resta pur sempre, fatte queste sottrazioni, un periodo ben lungo per aver diritto al massimo della pensione!

Ora, il maestro, così o comunque detto, in un’Assemblea sovrana, è assolutamente fuori posto. Io ricordo che quando venni alla Camera, come Deputato di prima legislatura, durante tutta la durata di essa cercai di nascondere tale mia qualità, perché sapevo che non riusciva simpatica. Il professore, cioè il puro teorico, non è amato e bisogna dire, non di rado, con ragione in un’Assemblea che deve tener sempre i contatti con la viva realtà.

Indubbiamente, io vengo qui come un tecnico che si sovrappone al politico; ed ecco la ragione di inibizione, alla quale alludevo.

Voi lo sapete bene, è una proposizione diffusa, ripetuta, questa: che il torto delle libere forme parlamentari è di non servirsi dei tecnici. Quante volte l’avete intesa dire! Il tecnico! Pare che i Parlamenti, le Assemblee escludano gelosamente i tecnici e si cita come un fatto paradossale l’avvocato, Ministro della marina; il medico, Ministro dei lavori pubblici, e così via.

Dateci dei tecnici al Governo: ecco l’invocazione imperativa dell’uomo della strada. Ora, signori, io ho sempre pensato e penso che in queste affermazioni ci sia un contenuto di errore, o meglio ci sia questo equivoco, che non si vuol comprendere: che il tecnico della politica è l’uomo politico! Vi è una tecnica della politica, la quale appartiene ad una categoria di tecnici che sono gli uomini politici. Il vero uomo di Stato, nelle questioni tecniche che deve affrontare, deve sapere servirsi degli esperti o dei tecnici, ma deve poi tradurre le loro conoscenze in un’azione di Governo e politica, per cui occorre ben altra vocazione, ben altra intuizione e ben altra esperienza.

Una grande cultura specifica non è necessaria; qualche volta può essere perfino un sovraccarico, un peso. Io ho conosciuto, nella mia lunga vita parlamentare, persone, che erano mediocrissime in fatto di scienza di diritto costituzionale, ma che pure erano uomini politici di assoluto prim’ordine.

In obbedienza, dunque, a questa mia convinzione, appunto perché sono un tecnico in materia costituzionale, dovrei mettermi da parte e lasciare, invece, manifestarsi liberamente quella vocazione politica che è nei miei colleghi, e non solo come individui, ma come collettività, come genio di moltitudini che sa avvertire i bisogni e le necessità del Paese, al di fuori di qualsiasi preconcetto di carattere tecnico. Il mio proposito sarebbe stato, dunque, di tacere; eppure, mio malgrado, non posso fare a meno d’intervenire nella discussione, perché – come ho detto – direttamente chiamato in causa. Il sottrarmi potrebbe apparire scontrosità ed allora, da buon maestro, entro senz’altro indugio in argomento; ed in rapporto al documento che esaminiamo, non solo esprimo approvazione, ma do anzi lode agli autori, mentre, nel tempo stesso, faccio su di esso le più ampie riserve.

Non vi è nessuna contraddizione fra questi due giudizi.

In un certo senso, la Commissione, nel suo insieme, e nei singoli membri e nel Presidente, ha fatto un vero miracolo.

Pensate attraverso quali e quanti esami, studi, indagini, una legge ordinaria arriva ad essere approvata! Vi è un Governo che la propone, e quindi un Ministro che la redige, o, qualche volta, un direttore generale, o, qualche altra volta, un funzionario di fiducia, in ogni caso sommamente specializzato. Ne viene già così un documento animato da uno spirito unico: qualità questa di prim’ordine, perché le leggi e le costituzioni hanno anche esse il bisogno di uno spirito che le individualizzi, che dia loro unità di sistema e di pensiero. Quella legge vien poi presentata alla Camera; la Camera, nomina una commissione, la commissione la studia; si distende una relazione, ha luogo una discussione, prima generale, poi sugli articoli. Dopo che è approvata, passa all’altra Camera, dove il ciclo si ripete: una nuova relazione del Governo, una nuova commissione della Camera, una nuova discussione, tutta una serie di crivelli e di vagli.

In questa circostanza, invece, per un documento, la cui importanza supera in misura incomparabile quella delle ordinarie leggi, si può dire che si sia cominciato dal nulla. Ecco, quindi, ripetersi il mio lamento, espresso incidentalmente in altre occasioni, di questa assenza del Governo. Per me, il Governo dev’essere sempre onnipresente in un’Assemblea. Non ho nessuna ripugnanza ad ammettere, anzi avrei trovato perfettamente naturale che un Gabinetto, in cui sono rappresentate tutte le tendenze dei partiti dominanti, fosse perfettamente in grado di presentare esso un progetto, magari affidandolo a pochi tecnici ai quali impartire i principî regolatori. Invece, si è dovuto assistere a questo sforzo di 75 persone, che collaboravano. E che cosa esse trovavano innanzi a loro? Nulla.

Ora, dato il modo con cui l’impresa è stata affrontata, l’opera della Commissione ben può dirsi sia stata un miracolo. Io ricordo le parole, veramente opportune, del nostro Presidente, allorché, inaugurando il presente dibattito che dovrebbe essere storico, disse: «Questa non è una discussione generale». Egli traduceva, in altra forma, il mio pensiero attuale. Questa non è una discussione generale, bensì una discussione semplicemente preliminare. Noi ci troviamo qui sotto la pressione di un’urgenza, che è stata un errore: errore, che io posso confessare, tanto più sinceramente, in quanto nell’origine donde esso deriva c’è una quota di torto mio, perché la legge che prescrisse questi termini, fu approvata su mia relazione. Essa, in verità, creava un’Assemblea, che proveniva da un’elezione solenne e che, appena eletta, si trovava, per l’angustia di quei termini, quasi immediatamente innanzi ad un’altra campagna elettorale, che stava per aprirsi. Ed allora, certamente, assai meglio sarebbe valso – ripeto, mi confesso alla maniera slava, in pubblico –, esaurita la grossa questione concernente il Capo dello Stato, direi ancora più grossa nel suo valore storico che non nei suoi immediati riflessi costituzionali, assai meglio, dico, sarebbe valso mantenere una tradizione, la quale era tradizione di libertà, tradizione di equilibrio di poteri. Si doveva necessariamente procedere alla nuova Costituzione, ma non sotto l’assillo di questa urgenza. Per concludere su questo primo punto, io qui vorrei che ci fosse il sistema inglese delle tre letture e considerare la presente soltanto come una prima lettura; ma occorrerebbe poi ricominciare daccapo l’esame e poi ricominciare una terza volta.

Ad ogni modo, vi è una osservazione da fare a proposito della deficiente preparazione di quest’atto; ed è un’osservazione, che in un certo senso conforta e in un certo senso sconforta: cioè, le costituzioni le fanno assai più il costume, assai più la maniera della loro attuazione, anziché la fredda redazione degli articoli. Ciò conforta, perché vuol dire che la soma si può accomodare per via. Dissi pure che ciò sconforta; ma sconforta soprattutto coloro i quali sono animati dall’orgoglio – ed in quest’Aula spero e credo che ce ne siano pochi – dall’orgoglio d’illudersi che basti la volontà dell’uomo per compiere l’atto creativo della maniera di essere, dell’ordinamento dello Stato di un popolo. Orgogliosa illusione! Non è qui il luogo di dissertare – e se lo facesse, davvero il maestro meriterebbe di essere soffocato dai rumori – sulla questione circa il concorso di queste due forze, per cui mentre il gruppo umano nella sua evoluzione obbedisce indubbiamente a delle leggi naturali, tuttavia la volontà dell’uomo, in una scelta che si presenta come libera, vi concorre; ed in quale misura? Problemi questi, in cui l’estremo limite della scienza del diritto pubblico generale confina con la speculazione metafisica. Una cosa, però, è sicura, e non è metafisica, ma realtà, che ognuno può osservare: cioè, che i modi e le forze con cui le Costituzioni si attuano e si fanno valere, sono determinate dal costume e dalle situazioni storiche piuttosto che da elaborazioni teoretiche. Tanto ciò è vero, che di una Costituzione scritta si può fare anche a meno. Perché qui non dobbiamo confondere la Costituzione come sostanza dell’ordinamento giuridico di un popolo, con la Costituzione come documento, in cui quell’ordinamento è scritto. È della prima che non si può fare a meno, giacché non c’è gruppo umano che non abbia la sua organizzazione, e, quindi, la sua Costituzione; ma che essa sia scritta in un documento, non e necessario, e basta citare due grandissimi popoli, i quali non hanno avuto Costituzione scritta: Roma, nei tempi antichi; l’Inghilterra, nella età moderna. Il senso giuridico-politico di Roma ebbe l’intuito preciso della Costituzione come sostanza e come nome che deriva etimologicamente dall’espressione: rem publicam constituere. Ma una Costituzione, nel senso di un complesso organico di disposizioni concernenti tutto quanto l’ordinamento dello Stato, Roma non la ebbe in alcun tempo. Del resto, anche là dove costituzioni iscritte ci sono state, l’evoluzione le ha a mano a mano integrate, determinate.

Si è citato lo Statuto albertino, il quale, indubbiamente, attuò una forma di Governo parlamentare; ma dove era il riscontro positivo nelle disposizioni di quello? Le voci che invocavano: «Torniamo allo Statuto», dirette contro l’istituto parlamentare, erano frequenti. E lo spirito di esse importava, dunque, che lo Statuto non ammettesse la forma parlamentare. Il che, per verità, non sarebbe del tutto esatto. Cercando bene in esso, la forma parlamentare vi si riconosce sotto forma di una responsabilità del Gabinetto, che non poteva intendersi se non verso il Parlamento. Non è che un rigo: «I Ministri sono responsabili» (articolo 67, mi par di ricordare); ma è quanto bastava, sia pure come un germe. Se mi si permette un paragone piuttosto bizzarro, sarebbe come in quelle figure di giuochi di società, in cui c’è da cercare – poniamo – un gatto attraverso o sotto le foglie di alberi, così nello Statuto la forma parlamentare poté restare celata, sebbene vi fosse; ma è nell’attuazione, nell’esecuzione di esso che si era venuta sempre più chiarendo ed affermando.

Sotto questo aspetto dunque, possiamo, confidare che, se ed in quanto delle deficienze si riscontrino nella Carta costituzionale che spetta a noi di redigere, l’esecuzione, col tempo, riesca a correggerle e ad integrale.

Detto ciò in via veramente preliminare, veniamo ad un esame più particolare del progetto di Costituzione, che c’è stato presentato. Esso è diviso in due parti fondamentali.

L’una riguarda la proclamazione dei principî, le definizioni, tutta quella che sarebbe la parte introduttiva dell’ordinamento; l’altra riguarda il vero e proprio ordinamento, cioè precisamente la Costruzione. Nella discussione avvenuta sinora in questa Assemblea, la tendenza degli oratori, in generale, è stata quella di riferirsi più alla prima parte che alla seconda. Io penso che per provvedere degnamente alle future sorti del Paese, sia quest’ultima che di gran lunga prevalga. Ad ogni modo, anche per ragioni di contrasto e per evitare di ripeter troppo cose già dette, io rovescerò l’ordine sistematico del progetto; e comincio dall’ordinamento.

Qual è l’ordinamento costituzionale, che lo Stato d’Italia, la Repubblica d’Italia, assumerebbe, se questa Costituzione fosse approvata? Come giustificheremmo la sua maniera di essa? In quale casella teoretica sarebbe assegnata per quelle forme di Governo, il cui elenco fu iniziato da Aristotele più di duemila anni fa?

A questa domanda risponde la stessa Commissione, la quale, fra le deliberazioni approvate, che contengono dichiarazioni di principio, di tendenza, di indirizzo, registra la seguente: «La seconda Sottocommissione, udite le relazioni degli onorevoli Mortati e Conti, ritenuto che né il tipo del Governo presidenziale, né quello del Governo direttoriale risponderebbero alle condizioni della società italiana, si pronunzia per l’adozione del sistema parlamentare, da disciplinarsi tuttavia con dispositivi costituzionali idonei a tutelare le esigenze di stabilità dell’azione di Governo e ad evitare le degenerazioni del parlamentarismo».

Dunque, non mi pare ci sia dubbio: la forma prescelta è quella di una Repubblica parlamentare. Non si può supporre che si sia, con questo qualificativo di «parlamentare», voluto alludere al fatto che ci sono due Assemblee rappresentative che insieme fanno le leggi: qui la contrapposizione è evidente, da un lato, alla Repubblica presidenziale, che ha pure un suo parlamento in quel senso generico, e, d’altro lato, alla Repubblica direttoriale, che ha il suo Parlamento anch’essa. E poi si accenna all’eccesso di parlamentarismo, che si vuole evitare. Insomma, è la forma parlamentare in senso proprio, che la Commissione ha inteso di stabilire: di stabilire e di correggere. Correggere che cosa? I difetti del sistema, relativi alla mancanza di stabilità nell’azione del Governo ed alle degenerazioni rimproverate sempre al sistema stesso.

E, per verità, la mancanza di stabilità si riferisce immediatamente al potere esecutivo. Le degenerazioni del parlamentarismo di cui tanto si è parlato, sappiamo che sono nel senso di una invadenza, diciamo, dell’elemento parlamentare, come Assemblee e come Deputati, sempre in danno del potere esecutivo. Dunque, si tratterebbe di una forma parlamentare, dove, però, sia rafforzata l’autorità del Governo. Così mi pare che vada interpretata quella enunciazione programmatica.

Ora, signori, o il tecnicismo che mi avete attribuito fallisce in pieno, o è giusto questo che devo dirvi, cioè che l’ordinamento che sorgerebbe da questa Costituzione, così come è scritta, non sarebbe una forma parlamentare. Quindi, l’intento non sarebbe raggiunto; meno che mai, poi, sarebbe rafforzato il potere esecutivo. Non è un governo parlamentare, è un’altra cosa. Vedremo che cosa può essere; ma, certo, è un’altra cosa.

Dovrei qui dare la definizione di Governo parlamentare. Vi assicuro che ciò mi mortifica, poiché sembrerebbe davvero ch’io mi dessi l’aria di un maestro, tanto più che una tale definizione è assai delicata, perché il Governo parlamentare è così collegato con la realtà della sua attuazione, che il voler estrarre un’espressione teoretica di esso, è veramente difficile.

Ma, ad ogni modo, quale ne è il carattere essenziale? Scusate, se fo un salto indietro, e mi riporto a quanto dicevo or ora. Poco può la volontà riflessa, consapevole, studiosa su quello che è lo sviluppo spontaneo delle istituzioni in rapporto alle necessità dei gradi di civiltà, che si traversano. Ne volete una prova? Una prova tangibile, materiale? Vi sono forme di Governo, che si sono sviluppate presso un popolo determinato, e che presso altri popoli, che pure sono di razza e di civiltà affini, sono state arrestate da forze comprimenti ed opprimenti. Ebbene, quando poi la ragione di quella oppressione viene a mancare, trovate che questi popoli assumono immediatamente la forma che avrebbero raggiunta, se lo sviluppo fosse avvenuto in maniera normale: è la simmetria dell’evoluzione di uno stesso istituto per le stesse cause presso popoli diversi.

Un caso curioso, ad esempio, è quello delle leggi decemvirali romane; le quali apparivano così simili alle greche, e propriamente alle ateniesi, che, in un periodo successivo, i Romani, per spiegarsi questa identità, che si giustifica – come ho accennato – con l’evoluzione simmetrica, inventarono la leggenda della missione mandata da Roma ad Atene per studiare. Voi pensate se, in quell’epoca, potesse accadere una cosa simile: una missione di studio all’estero!

Ora, qualche cosa di simile è avvenuto per il sistema parlamentare. Esso si svolge in Inghilterra, dove trova condizioni propizie alla sua formazione. Non si sviluppa negli Stati del continente, che sono sotto la compressione delle monarchie assolute; ma, quando finalmente questi ostacoli si rimuovono, voi vedete la Francia adottare l’istituto parlamentare, e non soltanto nella forma della monarchia di luglio del 1830, ma nella forma repubblicana del 1848, ma nella forma repubblicana del 1875. In Italia, ciò avvenne nel 1860: quel livello si raggiunse, dunque, spontaneamente: quindi, quella forma già l’abbiamo vissuta.

Io poi! Tutta la mia vita è stata in funzione di parlamentarità. Ora, dunque, qual è l’essenza del sistema parlamentare, del sistema parlamentare, che si può anche disvolere e che forse ha chiuso il suo ciclo? Badate: io non intendo qui sopravvalutarlo; è probabile che io muoia con esso; può darsi, anzi, che esso sia già finito, prima. Ma, ad ogni modo, io vi dico che il sistema, che voi volete instaurare, in Italia, non è un sistema parlamentare. Perché? Quali sono i caratteri dell’istituto parlamentare? Intanto, la famosa divisione di poteri. Lasciamo stare il potere giudiziario, per semplificare; giacché temo davvero, di annoiarvi troppo.

Voci. No! No!

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Lasciamo stare, dunque, il potere giudiziario, che qualcheduno vorrebbe fondere con l’esecutivo in un senso ampio. Abbiamo così i due poteri: legislativo ed esecutivo. Il sistema parlamentare li tiene distinti e li deve tener distinti come funzioni; ma non li assegna in maniera esclusiva ad organi sovrani contrastanti. Ed ognuno di questi partecipa ad ognuno di quelli. Come? Qui sta l’essenza bel problema.

Io non so perché, nel progetto, l’espressione «potere legislativo» non venga mai usata; si dice appena, in un articolo, «funzione legislativa», ma di sfuggita. Il potere esecutivo ora è il Capo dello Stato, ora il Governo; sfugge l’unità della funzione.

Infatti, queste attività, queste funzioni dell’ordine legislativo e dell’ordine esecutivo, distinte nella loro portata e nel loro contenuto, sono affidate ad organi sovrani. Sovrani vuol dire liberi da ogni gerarchia tra loro, equivalentisi, interferenti; ognuno partecipa dell’altro in maniera da determinare una collaborazione e da impedire la sopraffazione. È tutto un giuoco di equilibrio.

Ora, vediamo quale riscontro abbiano questi elementi propri – diciamo – della forma parlamentare nella Costituzione, che ci è proposta. Abbiamo il Titolo I, in cui è detto che «il Parlamento si compone della Camera dei Deputati e della Camera dei Senatori». Nella forma veramente originaria dell’istituto parlamentare, quale ci viene dall’Inghilterra, il Parlamento comprende anche il Capo dello Stato: «Il Re in parlamento». Debbo riconoscere che le costituzioni repubblicane non ripetono il principio inglese; ma, io non capisco questo sforzo, comune, del resto, in genere, alle repubbliche di altri Stati, nel senso di deprimere l’esecutivo repubblicano, di indebolire, di limitare i poteri del Capo dello Stato, di diffidarne, insomma. Invece, io riconosco perfettamente naturale – e ciò si collega con quell’ossequio, che si deve alla rappresentazione esteriore della sovranità – che il Capo dello Stato sia dichiarato parte del Parlamento. Qui voi l’espellete; ma è espulso nella forma, perché non lo si può eliminare ed ignorare, come vedremo, del tutto. Difatti, rientra, ma rientra dalla finestra; rientra male. Perché? Così, dunque, la tendenza di questa Costituzione sarebbe di escludere il Capo dello Stato dall’attività legislativa: il che è contro l’essenza dell’istituto parlamentare, che – come ho detto – è: «compartecipazione». Qualche cosa, nondimeno, vi resta; ma sempre circondata da questo sospetto, ma sempre dominata da questa tendenza ad imporre limiti.

L’iniziativa delle leggi viene riconosciuta al Governo; quindi, esso viene così a far parte del potere legislativo, perché per necessità non se ne può fare a meno, malgrado tutte le prevenzioni: perché è impossibile escludere il Governo, che ha l’immediato contatto con i bisogni del Paese, dal momento solenne della formazione della legge. Esso ha, dunque, l’iniziativa; ma è una iniziativa, che è svalutata per il fatto stesso di essere in comune con una quantità di altre fonti. Invece, in passato, sembrava che dovesse averne quasi il monopolio; e, difatti, l’iniziativa parlamentare, per quanto ammessa, era accompagnata da quella formalità della «presa in considerazione», che costituiva una condizione assai severa cui era subordinata l’esercizio della iniziativa da parte dei singoli Deputati. La percentuale delle leggi d’iniziativa parlamentare era assolutamente minima; l’iniziativa restava sempre nelle mani del Governo. Qui, al contrario, abbiamo l’articolo 68, che dice: «L’iniziativa delle leggi appartiene al Governo, a ciascun membro delle Camere ed agli organi ed enti cui sia conferita da legge costituzionale». Quindi, senza limiti di sorta. Io poi non capisco bene il punto relativo a questi enti od organi concorrenti nell’esercizio dell’iniziativa legislativa; almeno come una categoria. Sarà ignoranza mia…

Poi, al secondo comma dello stesso articolo, è detto: «il popolo ha sempre l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno cinquantamila elettori, di un disegno redatto in articoli».

Così, dunque, l’iniziativa dell’attività legislativa compete al Governo e a tutti i membri di tutt’e due le Camere; e saranno un migliaio di persone, e forse anche più. Si aggiunge l’iniziativa di tutti i cittadini, purché siano raccolte cinquantamila firme. Ora, che cosa sono cinquantamila firme?

Qual è la persona che si rispetta qua dentro, che non sia sicura di trovarne cinquantamila che corrispondono a meno di due quozienti? Anzi, il quoziente del Collegio nazionale superò da solo quella cifra. E poi i partiti organizzati; basta che essi chiedano centocinquanta firme ad ogni collegio! Anche una idea bizzarra potrà arrivare ad impegnare le due Camere in una discussione legislativa: abbiamo, infatti, l’articolo 69 che dice: «Ogni disegno di legge deve essere previamente esaminato da una Commissione di ciascuna Camera ecc.». Vedete voi da qui questo povero Parlamento futuro, assillato da una quantità di iniziative, che gli piovono da tutte le parti. Il Governo, poveretto, è tollerato anch’esso, mentre ogni Deputato proporrà le sue leggi, e così ogni gruppo di cinquantamila elettori. Voi capite!

Francamente, mi pare che sia questa una indiretta svalutazione dell’iniziativa parlamentare. In questo senso, voi indebolite il Governo, in quanto gli date, sì, una competenza che è di ordine superiore; ma la diffondete poi con tanta larghezza da ridurre a ben poco il contenuto di autorità che ne sarebbe il presupposto.

E quali sono i rapporti del Governo con questo Parlamento? Perché, badate, questo delicatissimo vitale rapporto fra organi dell’esecuzione ed organi della legislazione, questa compenetrazione reciproca, questo vivere insieme, collaborando e controllandosi, ha la sua espressione esterna, personificata, vivente. In che? Nel Gabinetto: il Gabinetto è il bilanciere di questo orologio, di questo cronometro, che è il sistema parlamentare, perché il Gabinetto, da un lato, è potere esecutivo, deriva dal Capo dello Stato, lo rappresenta, e d’altro lato, è Parlamento, ne fa parte, lo dirige, lo controlla, lo guida.

Ora, questo Gabinetto (qui è chiamato Governo), questi Ministri, quali rapporti hanno col Parlamento? Vediamo la formulazione dell’ultimo comma dell’articolo 61:

«I membri del Governo – intanto, qui non appare l’unità del Gabinetto, perché si parla di membri, considerati ad uno ad uno, – anche se non fanno parte delle Camere, hanno diritto e, se richiesti, obbligo di assistere alle sedute». Questa espressione fa quasi presumere che possano esservi tirati per i capelli. «Debbono essere intesi ogni volta che lo richiedono». Dov’è più quella collaborazione intima, continua, fra il Gabinetto, rappresentante dell’esecutivo, ed il legislativo? Sembra che ognuno se ne vada per la propria via e che debbano essere messi insieme quasi per effetto di un comando.

Il Capo dello Stato poi, non ha la sanzione. La Repubblica francese del 1875 gli dava, almeno, il veto sospensivo: qui il Capo dello Stato non è chiamato che per promulgare le leggi approvate dalle due Camere. Non si dica che sono scarsi i precedenti, in cui un Capo dello Stato, avente il diritto di sanzione, l’abbia negata. Ciò derivava appunto dalla intimità e continuità dei rapporti fra il Gabinetto e le Camere; ma a parte ciò, dico la verità, il fatto del Capo dello Stato, che promulga una legge ch’egli ha sanzionato, ben s’inquadra nell’alta nobiltà della sua funzione: sanziona e promulga. Ma questo Presidente di Repubblica, senz’aver preso alcuna parte all’approvazione della legge, è chiamato, quasi per sentirsi dire: «Per conto nostro, ordina», giacché la promulgazione è il momento dell’ordine. Io non intendo giudicare se ciò sia un bene o un male: affermo solo che non trovo che sia questo un Governo parlamentare. E dire che s’intenderebbe rafforzare l’esecutivo!

Consideriamo ora alquanto il Parlamento. A proposito del Parlamento, si presenta un caso veramente tipico di quel compromesso, di quel sistema di compromessi, che dicono abbia presieduto alla determinazione di molta parte della Costituzione; ma questo è il più caratteristico. Intendiamoci, non c’è niente di male, perché si vive di compromessi; ma quello cui sto per accennare, è sommamente interessante, perché è evidente che nella Commissione si verificò l’urto – quell’urto, che nella vicina Francia arrivò a contrasti così drammatici e diede luogo ad una rinnovazione dell’atto costituzionale – fra chi voleva una Camera unica e chi ne voleva due, unicameralismo e bicameralismo. Or su questa questione, veramente fondamentale, qui fra noi si venne, come ho detto, ad un compromesso, cioè si creò una terza specie, di cui può dirsi che «non è nero ancora e il bianco muore». Io non so tra chi si svolsero le trattative; ma so che uno dei due rimase ingannato, e rimase ingannato appunto colui che sosteneva il bicameralismo, e fu messo nel sacco da chi voleva una sola Camera. Perché? Perché accanto alle due Camere, si creò un tertium genus, cioè l’Assemblea nazionale costituita dalle due Camere.

Ma prima di trattare dell’Assemblea Nazionale, occorre dire qualche parola a proposito della formazione della seconda Camera. L’obiezione più grave, che si muove dai sostenitori dell’unica Camera ai sostenitori delle due Camere, è questa: ch’essa non è che una duplicazione, un doppione, un bis in idem; perciò, dunque, l’importante problema della Costituzione rispetto alla seconda Camera è quello d’istituirla in maniera da riuscire diversa dalla prima. Quanto più sarà diversa, tanto più efficace sarà il freno contro la temuta onnipotenza dell’altra.

Ora, le maniere di farla diversa sono molteplici. Non mi ci soffermo, perché sarebbe questo uno di quegli esami particolari, che il nostro Presidente così opportunamente ci ha invitati a non fare. Non mi soffermo su questo punto; ma è fuori di ogni contestazione che diversa debba esserne la costituzione, poiché se dovesse essere la stessa che quella della prima Camera, sarebbe allora inutile farne due. Ora, qui abbiamo questa seconda Camera eletta, per due terzi, da un corpo elettorale che è presso che lo stesso di quello della prima. Non ha importanza la differenza dell’età, che gli elettori abbiano superato o no i 25 anni. E nemmeno do soverchia importanza ai requisiti per la eleggibilità, a proposito dei quali osservo che fra le categorie degli eleggibili sono compresi i Presidenti della Repubblica e subito dopo i consiglieri comunali di ogni comune anche minuscolo! (Ilarità).

Fin qui non credo che le differenze siano rilevanti. Si aggiunge poi che l’elezione è fatta per due terzi a suffragio universale e diretto e per l’altro terzo dai Consigli regionali. Questa è l’unica innovazione; ma non è una differenza tale da determinare una efficiente differenza qualitativa. Dico la verità, che, in queste condizioni, io che sono un bicameralista convinto, quasi quasi… farei anche a meno di questa seconda Camera, dato il modo col quale essa è costituita. Giacché, come dicemmo e com’è noto, il bicameralismo a questo deve servire: a stabilire, cioè, quel sistema di equilibrio delicatissimo con la prima Camera per impedire che una Camera sola si attribuisca un potere senza limiti e senza contrappesi. Ed una delle cause del fallimento della Costituzione repubblicana francese del 1848, che finì male con Napoleone III, fu appunto perché quella Costituzione non aveva istituito che una Camera sola. Abbiamo proprio l’esempio pratico dell’errore, nella forma più manifesta e patente!

Io dico sempre ai Francesi, che ci rimproverano il nostro fascismo: Voi avete avuto il secondo Impero, ed il secondo Impero fu fascismo. È stato il fascismo francese, e – curiosa coincidenza! – vi si può perfino osservare la corrispondenza del periodo di 21 anni: dal 1851 al 1871. È un caso che impressiona e deve far pensare seriamente a molti dei lati del raffronto, anche per nostro insegnamento. Ma chiudiamo la parentesi.

Dunque, abbiamo due Camere che si rassomigliano, e di più c’è l’Assemblea Nazionale. Nel compromesso che fu fatto, quelli della doppia Camera ebbero la peggio, perché si creò questa Assemblea Nazionale dalla fusione delle due Camere, alla quale si è dato questo po’ po’ di poteri, cui ora accennerò. Curioso: sarà un caso, anche se qualche maligno possa affermare che sia del pudore; ma sarà, certo, un caso; non c’è un articolo, che enumeri tutte le attribuzioni della Assemblea Nazionale. Io ho dovuto cercarle, mettendo insieme faticosamente tutti gli articoli che vi si riferiscono. Ebbene, questa è la Camera che detiene veramente il potere, che ha le chiavi della cassaforte. Vedete infatti quali funzioni essa esercita: elegge il Capo dello Stato e lo supplisce per mezzo di un presidente, preso alternativamente da quelli delle due Camere. È stabilito che la Assemblea Nazionale si dà un proprio regolamento per tutte le funzioni che deve compiere, il che è giusto; ma, nel tempo stesso, attesta la permanenza e l’importanza dell’istituto. Quindi, avremo un ufficio di Presidenza permanente. È la vera unica Camera, dunque, che elegge, come dicevo, il Capo dello Stato e lo supplisce; è un caso in cui la scelta importa una certa subordinazione. Inoltre, decide: la mobilitazione e l’entrata in guerra, l’amnistia e l’indulto (questo argomento potevano forse lasciarlo alle Camere); poi mette in istato di accusa il Presidente della Repubblica e, forse, anche i Ministri.

Diciamo di passaggio che questo punto non è chiaro. Secondo me, credo che si voglia fare riferimento all’Assemblea Nazionale, perché nell’articolo 90 è detto: «Il Primo Ministro ed i Ministri possono essere messi in stato di accusa dalle due Camere». Ora, che cosa vuol qui significare: «le due Camere?». Con due deliberazioni distinte e separate? Questi Ministri dovrebbero perciò passare attraverso due stadi di giudizio; e non potrebbe allora verificarsi che una Camera li accusi e l’altra Camera li esalti? Quale potrà essere la soluzione giuridica fra due atti formalmente contraddittorî? Evidentemente, quando si dice due Camere, si deve voler significare che esse agiscono insieme. Poi sono inviati innanzi alla Corte costituzionale. Per fortuna, io non tornerò più a fare il Ministro; ma vi dico la verità che in tal caso mi sentirei molto indifeso.

Il Ministro ha bisogno di un giudice politico, se il suo reato è ministeriale. Che cos’è questa Corte composta per metà di magistrati, che saranno uomini insospettabili, colti ed esperti giuristi, ma appunto per ciò di una pericolosa incompetenza per giudicare politicamente un reato ministeriale? Io non so quanti reati abbia commessi, e non soltanto durante la guerra, quando dovevo rilasciare passaporti falsi e giunsi allora perfino ad organizzare il furto di una cassaforte! (Ilarità); ma anche prima. Ne serbo tuttora il ricordo. Allorché ero Ministro dell’istruzione, mi piombò addosso, un giorno, il sovrintendente alle arti e ai monumenti napoletani per informarmi che l’Arco Angioino, il famoso arco, prodigio di arte e di bellezza, stava per crollare per lesioni dovute alla gloriosa vetustà.

«Ebbene, puntellatelo! Mi pare che il provvedimento sia semplice!». Mi risponde: «Ci vogliono 10.000 lire, e non le abbiamo». Chiamo il ragioniere capo, il quale mi conferma: «Non le abbiamo; iL capitolo non ha disponibile quella somma di 10.000 lire». Allora, mi precipito dal Ministro del tesoro – era un personaggio illustre, degno di ogni rispetto – e gli dico: «Sta per crollare l’Arco Angioino, ed ho bisogno di 10.000 lire». «Tu non pensi che alla tua gloria» fu la risposta «ed io debbo pensare alla conversione della rendita»… Riuscii a trovare le 10.000 lire fuori il capitolo del bilancio. Commisi un reato? È probabile, ma vi domando: «Mi avreste condannato, se fossi stato mandato dinanzi a voi?».

Torniamo alla nostra Assemblea Nazionale. Essa mette in istato d’accusa il Presidente della Repubblica; dà un voto al nuovo Gabinetto, in una maniera formale che è più di nomina che di fiducia, come vedremo fra poco a proposito della totale esautorazione che si è fatta del Capo dello Stato. Questa esautorazione, per ora, possiamo non avvertirla, perché abbiamo un Capo qualificato da quell’antipatica aggiunta di «provvisorio», ma che di questa provvisorietà si giova in quanto sa e può continuare la tradizione di Capo di Stato in un regime veramente parlamentare, e perché personalmente uomo insigne, che ha la virtù dell’esperienza e dell’ingegno e che impone l’alta autorità e l’avvincente fascino della sua persona. Dicevamo che l’Assemblea Nazionale dà il voto al nuovo Gabinetto in maniera formale, ed in maniera formale gli esprime la sua sfiducia: cioè, parliamoci chiaro, è essa che lo nomina; è essa che lo manda via. Sono delicate distinzioni, ma sta in esse tutta l’essenza dell’istituto.

Nella genuina forma di Governo parlamentare, il Capo dello Stato, dopo la crisi che si determina, cerca di rendersi conto della situazione, d’interpretarla, di trovare la soluzione più idonea (donde la ben nota espressione di «consultazione») ed alla fine prende una decisione sotto la sua responsabilità, per quanto coperta dal nuovo Presidente del Consiglio. Comincia, allora, una nuova fase di attività politica.

Ma, col presente progetto di Costituzione, la cosa va ben altrimenti: qui è l’Assemblea che, pochi giorni dopo nominato il nuovo Ministero, lo collauda con la sua approvazione e gli conferisce autorità. Ed è parimenti l’Assemblea che decide della sfiducia nel Ministero; e, a questo riguardo, si prevede un procedimento piuttosto singolare, giacché non importa se un Ministero sia in minoranza in una delle due Camere: esso non si dimette. Se anche questo sia un modo di assicurare la stabilità dei Governo, lo creda pure chi vuole: quanto a me, lo ritengo, invece, come il mezzo più sicuro di deprimerlo e mortificarlo: soprattutto, questi mezzi meccanici ripugnano al sistema parlamentare. Ricordo un grande uomo di Stato e un grande parlamentare, una bella figura democratica: Gladstone, il quale si dimise, perché alle elezioni generali la sua maggioranza, che era di 100 voti, era caduta a 50; bastò quello perché si dimettesse. Qui, al contrario, possono esservi dei Ministeri, i quali, nonostante i ripetuti voti di sfiducia di una delle due Camere, continuano a governare fino a quando non intervenga l’Assemblea Nazionale a notificare loro formalmente che è l’ora di andarsene!

E finalmente poi è essa che nomina i membri della Corte costituzionale – di questa famosa Corte parleremo in seguito –, nonché la metà dei membri del Consiglio della Magistratura. Ora, ditemi: un organo, che assomma tutti questi poteri, è o non è il vero fulcro, il centro dell’esercizio della sovranità nella struttura costituzionale?

E il Capo dello Stato? Ma, il Capo dello Stato ha veramente la figura di un fainéant, di un fannullone, in questa prossima Costituzione. L’articolo 83 proclama, è vero, che il Presidente della Repubblica è il Capo dello Stato e rappresenta l’unità nazionale, onore, funzione, certamente altissima, ma puramente simbolica e, quindi, come azione, soltanto decorativa. Ora, l’autorità bisogna sentirla prima per poi rispettarla; ma rispettarla, senza sentirla efficiente come azione e come potenza, è cosa di una estrema difficoltà, specie presso le masse popolari.

Vediamo ora rapidamente quali ne siano le funzioni. Dice l’articolo 83: «Promulga le leggi (e di ciò abbiamo già parlato); emana i decreti legislativi e i regolamenti: attribuzioni e competenza importanti, ma che appartengono ad un ordine inferiore e subordinato come fonti del diritto; nomina ai gradi indicati dalla legge i funzionari dello Stato: attribuzione di amministrazione ordinaria, senza nessuna possibilità di libertà nella scelta. È bene che sia così; ma è così. Accredita e riceve i rappresentanti diplomatici; ratifica i trattati internazionali, previa, quando sia richiesta, l’autorizzazione delle Camere. Or, io non comprendo bene la portata di una ratifica come prerogativa per sé stante del Capo dello Stato; ma resto nel dubbio di essere io stesso in errore, se considero che nella Commissione era compreso qualche maestro autentico di diritto internazionale. La ratifica, come a me appare, avviene in un secondo momento, di cui anche il primo appartiene d’altronde al Capo dello Stato: la ratifica, per diritto internazionale, è la conclusione del negoziato che si inizia appunto da un plenipotenziario, che riceve le credenziali dal Capo dello Stato. La necessità di un’approvazione della Camera deriva da limiti imposti dal diritto pubblico interno; ma, nei rapporti con l’estero, la rappresentanza spetta, di regola, al Capo dello Stato. Vi sono eccezioni; ma in casi per l’appunto eccezionali.

Ha il comando delle forze armate, presiede il Consiglio supremo di difesa; dichiara la guerra deliberata dall’Assemblea Nazionale. Questa sì che è un’attribuzione essenziale e vitale. Il fascismo creò giuridicamente la dittatura e preparò il colpo di Stato (e mi duole che il decreto porti la controfirma di Armando Diaz e di Thaon de Revel; ma io avvertii subito la rovinosa gravità che entro lo Stato vi potessero essere forze armate che non dipendevano dal Capo di esso: questa fu la distruzione dell’ordinamento costituzionale esistente). Io non vedo oggidì alcun «brave général», alcun Boulanger, che possa aspirare alla Presidenza della Repubblica; però, badate bene, questo potere è tanto più pericoloso in quanto il futuro Capo di Stato, come potere effettivo, non ha altro che questo! La tentazione di abusarne sarebbe forte!

Presiede il Consiglio della Magistratura. Avrei qui qualche dubbio da esprimere sulla compatibilità delle due funzioni; ma questo è un punto particolare e posso non soffermarmi.

Può concedere grazia e commutare le pene, e con questo torna a partecipare al potere legislativo. Nell’articolo 85 giustamente si afferma che nessun atto del Presidente della Repubblica è valido, se non è controfirmato dal primo Ministro o dai Ministri competenti, che ne assumono la responsabilità. Dunque, qui il principio della irresponsabilità del Capo dello Stato è mantenuto, dal momento che di tutti questi atti nessuno dipende da una sua attività personale: tutto è sotto controfirma del Presidente o dei Ministri. Principio, senza dubbio, essenziale per la forma di Governo parlamentare; ma bisogna che concorra quest’altra condizione non meno essenziale: che il Gabinetto ripeta la sua autorità dal Capo dello Stato, pur dovendo, di regola, avere la fiducia del Parlamento. Ed è questa condizione che manca.

Si dichiara, dunque, che non è responsabile, tranne che per atto di alto tradimento o per violazione della Costituzione; in tale caso, può essere messo in stato di accusa dall’Assemblea Nazionale.

Non vedo che sia prevista espressamente la inviolabilità; o se si intenda compresa nella irresponsabilità. Si prevede l’ipotesi di un’azione penale, però solo in quanto dipendente da alto tradimento; ma restano i reati comuni. Senza offesa verso chi è rivestito di così alta autorità, si può supporre che un Presidente di Repubblica voglia guidare di persona l’automobile, e che metta sotto qualcuno. Questo non è un reato costituzionale: come sarà regolato? Potrebbe essere emesso contro di lui un mandato di cattura? Un giudice istruttore potrebbe disporre della persona del Capo dello Stato? Potrebbe darsi che un bello spirito – e ce ne sono – citi, in un giudizio civile, il Presidente della Repubblica, affermando di esser creditore, poniamo, di una cifra X, e gli deferisca l’interrogatorio, il giuramento. Vedete allora il Capo dello Stato andarsene al Palazzo di giustizia ed aspettare nell’anticamera d’un giudice, per essere ricevuto e sottoposto ad un esame, che può non essere rispettoso? Queste sono questioni che si pongono.

Concludendo: un Capo dello Stato, esautorato; un’Assemblea, sostanzialmente unica – come vi ho dimostrato – la quale detiene effettivamente tutti i poteri, dispone di tutte le leve. Dunque, totalitarismo di Assemblea, e cioè, quello precisamente che deve fare impressione su coloro che si preoccupano dell’Assemblea unica.

Ma le Assemblee agiscono sempre attraverso un individuo. Orbene, sapete chi io vedo quale vero detentore dell’autorità, secondo questa Costituzione? La figura del Primo Ministro. Perché è il Primo Ministro che ha tutti i poteri; quelli del Capo dello Stato, perché è lui che ne risponde; è lui che effettivamente comanda; e, come Ministro dell’interno, ha immediatamente a sua disposizione delle forze armate, quelle di polizia. Mediatamente, attraverso un comandante di Stato Maggiore, quella dell’esercito. E poiché ha la maggioranza nell’Assemblea, in quella Assemblea, in cui si concentra tutta la sovranità della legge, l’espressione suprema della volontà dello Stato, è veramente nel Primo Ministro che finisce col concentrarsi tutta l’autorità effettiva. Il resto è nominale.

Secondo me, se io dovessi qualificare questa Costituzione, direi che è una Costituzione totalitaria per l’Assemblea; ma l’autorità dell’Assemblea è trasferita necessariamente in un Capo, il quale Capo, se è capo d’un partito, che ha la maggioranza nell’Assemblea, è proprio un dittatore, potrà fare quello che vuole. Questa situazione è, però, difficile a presentarsi; mentre più probabile è che l’attuale sistema di una coalizione di partiti continui. Si governa attraverso accordi personali fra i capi dei partiti formanti la maggioranza. Il sistema attuale. Ed allora come lo si qualifica? È un Governo direttoriale; che suppone una pluralità di capi non fusi nell’unità direttiva, che deve esser propria dell’unità dello Stato. Più particolarmente insomma, la situazione attuale si può qualificare un triumvirato. Parlando francamente, senza vani eufemismi e con quella bonarietà, che è una delle belle caratteristiche nostre italiane, io vorrei prospettarvi una ipotesi, che non è inspirata da alcun senso di malignità, poiché io non voglio male a nessuno. Supponiamo, dunque, che si mettano d’accordo De Gasperi, Togliatti e Nenni; in tal caso, essi sono padroni di fare quello che vogliono. (Si ride).

Non è facile, ma può essere.

Di triumvirati la storia ne conosce tre. C’è quello del Consolato di Napoleone I; e lì non ci fu questione, perché egli, da padrone, assunse tutti i poteri e lasciò agli altri i pennacchi e le divise. Ma qui finora, fra i nostri tre, non c’è nessuno che abbia guadagnato la battaglia di Marengo (Si ride), e quindi, da questo lato, non c’è da temere.

Ma ci sono i due triumvirati romani, che si succedettero. Ora, meno una, quelle sei persone finirono male (Si ride); però, finì male anche la democrazia, e questo ci deve stare più a cuore.

Del primo triumvirato, composto di Cesare, Pompeo e Crasso, non solo Pompeo, ma anche Crasso, che era il finanziatore, morì ammazzato. (Si ride). E quindi si generò la dittatura. Il dittatore, che si chiamava Giulio Cesare, finì, come sapete, ucciso sotto la statua di Pompeo, che – secondo una tradizione – orna la sala del Consiglio presieduto dall’onorevole Ruini. (Si ride).

Quanto al secondo triumvirato, il terzo componente si chiamava Lepido e si ritirò: egli non morì di morte violenta, ma insomma non se ne parlò più. E quanto ad Antonio e ad Ottaviano, voi sapete che finirono in urto e venne fuori, finalmente, il Cesare: il Cesare dell’impero, e fu la fine della Repubblica, la fine della democrazia romana.

Io non so fra i nostri tre chi potrebbe aspirare ad esser dittatore. Sotto l’aspetto della medaglia, non andrebbe bene Nenni, perché è un brachicefalo (Si ride); mentre gli altri due sono dolicocefali. Ma De Gasperi ha un certo prognatismo, che non giova a un profilo di medaglia. L’unico che avrebbe una linea da medaglia, sarebbe Togliatti. (Si ride).

Ad ogni modo, non voglio dilungarmi sul pericolo di una dittatura. E vengo alla Corte costituzionale. È inutile farsi delle illusioni. L’autorità ad un istituto non viene da una definizione, da un conferimento astratto di poteri: deve avere radice nella istituzione stessa o per la forza politica che rappresenta o per la tradizione che si è venuta formando. Or, tali condizioni mancano totalmente in questa futura Corte, che avrà la formidabile competenza di giudicare della validità delle leggi, con questo po’ po’ di proclamazioni di principî generali che fate e che rappresentano un pericolo anche maggiore per il fatto che la Costituzione è rigida. Quindi, allorché verranno le leggi, con tutto il loro sistema di disposizioni particolari, e si troveranno di fronte ad un principio generale proclamato dalla Costituzione, potrà sempre esserci una parte, che andrà dinanzi alla Corte costituzionale per sostenere che è stato violato questo o quel principio.

Or questa Corte sarà per metà formata da magistrati. Io ho per i magistrati il più grande rispetto, la più grande ammirazione; ho vissuto e vivo la loro vita. Or bene, la mia lunga esperienza giudiziaria me li fa apparire circondati di un’aureola. Brave, egregie persone, che si incontrano per le vie, tanto semplici, che sembrano modeste se non umili; ma quando han rivestita la toga, si elevano ad una dignità augusta, quando si tratta del loro ufficio: essere adeguato presidio per la difesa di quello che è l’onore, la famiglia, il patrimonio di noi tutti. Mancherei però di sincerità, se non aggiungessi che le stesse garanzie io non riscontro, quando i magistrati sono di fronte alla Sovranità dello Stato. E non già per un sentimento, che li diminuisca. Io ho conosciuto magistrati di una perfezione assoluta nell’esercizio delle loro funzioni; ma, quando era in gioco lo Stato, avevano un istintivo movimento reverenziale che turbava il perfetto equilibrio del valutare la ragione ed il torto. E tutti i colleghi avvocati sanno come non mancano casi in cui la Cassazione abbia mutato addirittura giurisprudenza, tutte le volte che loro apparisse in gioco un grave interesse pubblico. Per ciò stesso, io non sarei eccessivamente severo nel giudicare casi di questo genere, come quando, ad esempio, un Ministro del tesoro venga a dire: Se non mutate la vostra giurisprudenza della ripetibilità di ciò che si dà ob turpem causam, tutte le banche falliscono. Così dopo l’altra guerra, allorché ci fu tutta quella speculazione sul marco; onde se le Banche avessero dovuto restituire le differenze, secondo la precedente giurisprudenza dello stesso Supremo Collegio, sarebbero fallite. Voi vedete che non è maldicenza o irriverenza il ritenere che si tratta di un ordine il quale, per la natura stessa dell’ufficio che riveste, ha una sensibilità, che in generale è per esso un pregio, in quanto lo tiene lontano dalla politica, ma non lo rende atto per questo nuovo ufficio in cui il diritto non si disgiunge dalla politica. E che dire poi delle altre categorie, che integrano l’altra metà? Io, per esempio, sarei eleggibile, ma sento che sarei un pessimo giudice.

Domando scusa, se non posso soffermarmi e vengo rapidamente all’altra parte. Quanto a questa che è la prima parte del progetto, sono stati pronunziati dei discorsi che, dal mio punto di vista, giudico definitivi, anche se per altri aspetti possano essere discutibili: e cioè, il discorso dell’onorevole Calamandrei e quello dell’onorevole Rubilli. E innanzi tutto: perché tante definizioni? A proposito di quanto dicevo in principio, un certo miglioramento si è ottenuto in confronto delle prime edizioni. In esse c’era, per esempio, la seguente scoperta: che ogni uomo è soggetto di diritto! Il che val quanto dire che un uomo non è una cosa. Però, anche qui, in questa lezione riveduta e purgata, frequenti sono le definizioni. Ebbene, omnis defìnitio periculosa, dicevano i Romani, che se ne intendevano. Badate poi che non è a delle definizioni che si presta obbedienza, perché quando sbagliano, sbagliano e non c’è potenza di Sovrano che possa renderle obbligatorie. Allorché Napoleone, ch’era un genio, ma ch’era pure ignorante di diritto, intese dai giuristi la definizione della donazione, chiese con maraviglia: La donazione, un contratto? Ma niente affatto; non c’è che il solo donante che si obbliga; mettete: «un atto». E quelli obbedirono: «la donazione è un atto». Eppure, malgrado la imposizione napoleonica, tutti i giuristi hanno sempre detto, da tutti è stato sempre riconosciuto che essa è un contratto. Non c’è rimedio; non si può – neanche da un legislatore – mutare la sostanza di una cosa.

Or, di definizioni, in questo progetto, ce n’è una quantità, ce ne sono tante. Non perdo tempo, e cito un esempio: «La famiglia è una società naturale». Ma che vuol dire? (Si ride). Perché naturale? Intanto, non sarà la famiglia una società sin dal principio; perché in due non si fa una società nel senso di gruppo sociale. Ma perché – ripeto – naturale? Volete dire, perché originaria? Beh!, ma in questo senso, tutto è naturale. Diceva una dama, in una graziosa commedia francese di parecchi decenni fa, ad un tale che osservava: «Il tale è un figlio naturale» – «Ma tutti i figli sono naturali!» (Ilarità). Naturale, adunque, originaria, forse perché deriva dall’unione sessuale? Che se si vuole, con questo, tornare alla definizione romana di quel diritto che natura omnibus animalibus docuit, si commette un errore, perché fra gli animali non vi è matrimonio e non vi è famiglia: il matrimonio, la famiglia sono istituzioni squisitamente, esclusivamente umane. Non c’è nulla di animale in queste forme sociali di vita. E ad ogni modo, se volete dire che è un’istituzione originaria – come si dice nelle scuole – cioè, che ha una ragione in se stessa, allora una grande città – Roma, per esempio – che è? È, forse, artificiale? È stata essa creata dalla legge comunale e provinciale? E le stesse regioni; in certi casi, l’appartenenza a taluna di esse – quella sicilianità, per cui io mi sento più profondamente italiano – ebbene, non è una espansione di quell’attaccamento naturale alla propria terra, al proprio sangue? Ma, per ciò, appunto, mi domando: «Che cosa può valere, in un testo legislativo, una definizione di questo genere?».

E passiamo a quest’altra definizione – qui mi avvicino ad una zona infiammabile: – «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani». Badate, questa definizione io l’accoglierei; però, non come deputato che fa una Costituzione, bensì come un cultore di diritto. Se con essa si vuol dire che ogni ordinamento giuridico, in quanto si costituisce, è per se stesso indipendente e sovrano, io vi dico di sì; ma la portata di tale riconoscimento è ben più ampia e generale. Dovunque c’è una forma di gruppo sociale, che arriva a darsi un ordinamento, ivi c’è una indipendenza, e, in un certo senso, una sovranità. Si può arrivare sino alle associazioni a delinquere: una banda di briganti si sente indipendente, sovrana – e come! – ed ha il suo diritto penale, ed ha il suo ministro del tesoro. Da un punto di vista, diciamo, di studio, di speculazioni teoriche, io mi accosto effettivamente a questa teoria. Ma perché metterla nella Costituzione, dando luogo ad equivoci, ad interpretazioni, che potrebbero essere false ed erronee per chi non si è, direi, specializzato in questo genere di studi? Si può essere una persona coltissima, eppure ignorare o non capire una qualche cosa. Io non ho mai capito la dottrina di Einstein, per quanto l’abbia studiata. E così via.

Dalle definizioni passando ora alle dichiarazioni di principio, enunciate nel progetto, io, a questo proposito, mi differenzio alquanto dai preopinanti, e me ne differenzio in questo senso: che la proclamazione di principî, che siano di guida alla legislazione dello Stato, di principî, che in certo senso si possono concepire superiori a noi, che precedono la nostra stessa Costituzione, che questa proclamazione si faccia, io lo credo utile ed opportuno. Quando siano messi in pericolo quelli che ironicamente eran chiamati i grandi principî, quando sia avversata l’osservanza di essi come affermazione dei diritti della personalità umana, si può e si deve proclamare che la Costituzione è offesa nelle sue parti più vitali. Si tratta di qualche cosa che è superiore a noi stessi, come Assemblea Costituente. Noi andremmo al di fuori della nostra competenza se solennemente non li affermassimo.

Tuttavia, anche di queste dichiarazioni io userei con maggiore parsimonia; dico la verità, mi atterrei alla proclamazione dei diritti veramente tradizionali – quelli di libertà, di eguaglianza, di fraternità.

E sotto questo aspetto, voto toto corde tutta quella parte nuova di proclamazione di diritti, che riguarda l’uomo non come individuo, ma l’uomo come membro di questa società, la quale non è vero, secondo la dottrina di Rousseau, secondo le paradossali sue pretese, che sia stata malefica. Anzitutto, benefica o malefica ch’essa sia, è una legge della evoluzione sociale, a cui non ci si sottrae; ma non è vero che sia stata malefica: contrariamente alle fantastiche costruzioni del «Contratto Sociale» l’uomo, allo stato di natura, era un bruto e tale sarebbe rimasto. L’uomo è assurto agli alti gradi della sua personalità attraverso la convivenza sociale; ma questa convivenza sociale – bisogna riconoscerlo – ha pure creato i mali sociali: dalla malattia alla disoccupazione del lavoratore; e così via via, l’indigenza, la miseria, lo stesso vizio, lo stesso delitto, sono mali sociali.

Che fra le proclamazioni dei diritti della personalità umana si aggiunga anche quella del dovere della società di provvedere a questi mali, che essa stessa determina e causa, io lo credo opportuno e utile. È una integrazione dei principî di libertà e di eguaglianza con quello della fraternità. (Vivi, generali applausi).

E così, precipitando, vengo alle ultime cose, che mi proponevo di dire. Qui il tecnico finisce, se Dio vuole. Qui sono l’uomo politico, e desidero trattare o meglio accennare a due argomenti; il primo di essi è la inclusione dei Patti lateranensi nella Costituzione.

Badate, io tengo a dichiarare è ad affermare – anche se ciò debba essermi rimproverato, come mi è stato da taluno rimproverato – che sono stato io l’autore o, dico meglio, colui che consentì al patto centrale dell’accordo e della pacificazione. Questo ormai è storico: quella che è la base degli Accordi lateranensi era stata definitivamente conclusa con me. Il mio non fu un tentativo, come tanti ne registra la storia: effettivamente a Parigi, nel giugno 1919, tra la fine di maggio e i primi di giugno, quegli accordi poteron dirsi conclusi.

Quando terminò il mio colloquio, che si collegava con altri colloqui, con Monsignor Cerretti – che diventò poi cardinale – mandato a Parigi da Benedetto XV con credenziali autografe di Gasparri messe a mia disposizione, alla fine del colloquio, scambiammo così il pensiero conclusivo. Egli mi chiese: «Siamo dunque d’accordo?». Io dissi: «Sì, assolutamente». «Allora, possiamo pubblicarlo?». «No. No, per una ragione, che non tocca l’accordo in se stesso, il quale per me è definitivo, bensì il tempo; fo una questione di quando, non di se». Desidero insistere su questo ricordo, perché è un tratto, che è proprio di tutta la generazione cui appartengo: allora non si subordinava tutto alla gloria. In quel momento potevo passare alla storia come colui che aveva raggiunto la pace, data la pace religiosa al suo Paese, e tuttavia dissi: non ancora, giacché avvertivo che non era sicura una condizione essenziale. Ancora non sapevo come finissero le cose a Parigi – o, meglio, già una situazione preoccupante si delineava – sebbene fosse tuttora in corso il compromesso Tardieu, quel compromesso, che io avevo accettato e che Wilson aveva accettato, e per il quale mi aveva abbracciato: quel compromesso, che ci dava su per giù quello che ci diede poi il Trattato di Rapallo, qualche cosa di più o qualche cosa di meno, ma c’era compenso fra quel più e quel meno.

E con tutta franchezza esposi il pensier mio a Monsignor Cerretti: «Vediamo come finiscono le cose qui, a Parigi. Se qui va bene, se posso tornare in Italia con una pace che il Paese accetta, ed accettabile è il compromesso Tardieu (io me ne ero assicurato in anticipazione), allora sarà un momento di euforia, di contento, la guerra vinta, la pace conclusa ed allora, questo provvedimento posso farlo approvare dal Parlamento (perché avevamo il Parlamento con cui fare i conti (Si ride): i dittatori vanno per le spicce). Ma, in caso contrario, no; perché, in caso contrario, se qui la pace non è conclusa, si avrà il Paese in agitazione (fui profeta, ma non era difficile), la irrequietudine dei partiti accentuata, inasprita, determinerà uno stato di stanchezza, di esasperazione, di rivolta. E volete che, in questo stato degli animi, noi presentiamo un progetto di tale gravità con un capo di Governo di un diminuito prestigio (come prevedevo, e come poi fu e come doveva essere)? In una tale situazione, chi vorrà combattere Orlando, combatterà il vostro progetto. Aspettate: non vi chiedo che un tempo breve». A proposito del famoso memoriale Cerretti, che fu poi stampato per iniziativa del Vaticano, il curioso è che Mussolini accennò a lungo, nel discorso che fece allora alla Camera, a quel mio accordo; ma non io gli avevo dato gli elementi; io non lo avevo detto mai a nessuno. Noi Siciliani non amiamo di parlare delle cose da noi fatte o dette: c’è, se volete, un certo fondo della cosiddetta omertà. E, difatti, non mi vedete mai interloquire, non pubblico memorie, ed avrei tante cose da dire anche contro certe accuse stolte, false, che mi sono state rivolte. Dunque, allora Mussolini le cose che disse non le seppe da me, perché non lo rividi mai dal 1925; da allora non l’ho incontrato mai più. Ci teneva, però, naturalmente la Santa Sede a far valere questa azione del rappresentante dello Stato precedente, legittimo.

Dopo tutta questa piuttosto diffusa premessa, potete ben figurarvi come io non abbia alcuna riserva da opporre circa il riferimento fatto dal progetto di Costituzione ai Patti lateranensi: quindi, qui il mio dubbio non è politico, è tecnico, perché l’includere qui una rinunzia al diritto sovrano di denunziare un trattato, mi sembra che costituisca un limite della sovranità. Questo, ripeto, è il punto di vista tecnico. Ma vi è il punto di vista politico, che in me prevale.

Ho letto in un giornale che avrei voluto portare; ma l’ho perduto, perché disgraziatamente sono disordinatissimo – se avessi conservato tutto, avrei un bell’archivio – ho letto, dicevo, una intervista dell’onorevole Togliatti. Recentissima. E l’onorevole Togliatti, parlando in via generale diceva: «Noi, come partito comunista, deprechiamo di aprire un periodo che interrompa o turbi la pace religiosa». Non so se quella intervista fosse esatta; essa, inoltre, aggiungeva: «Noi non assumeremo questa responsabilità, non lo desideriamo, non lo vogliamo».

Ora io, francamente, non posso aspirare alla possibilità audace di trovarmi più a sinistra dell’onorevole Togliatti! (Si ride). E quindi, non vorrei, anzi spero, invoco che non mi trovi di fronte alla necessità di dover sacrificare il mio tecnicismo ad una esigenza politica superiore. Mi auguro perciò che, nell’interesse delle cose, il quale deve stare molto al di sopra degli interessi dei partiti, si trovi quella formula che possa dirimere il dubbio tecnico e consentire una votazione d’accordo.

Il secondo argomento, sul quale debbo pur dire una parola da un punto di vista squisitamente politico, è quello concernente la questione delle regioni, cui alluse ieri il mio amico Nitti nel suo ammirevole discorso.

Anche qui io ho un ricordo. La esperienza ha fatto sorgere in me un dubbio: cioè, se i nostri antenati, nel momento della formazione dello Stato d’Italia, bene avessero fatto a non preferire la forma federale. Certo è che le forme federali han resistito meglio alla tormenta rivoluzionaria di questo periodo ultra-rivoluzionario. Federale è lo Stato americano, federale è la Repubblica sovietica, federale è la piccola eppur così grande Svizzera…

Una voce. La Germania.

ORLANDO VITTORIO EMANUELE. Ci venivo da me! (Si ride). La Germania! Ma la Germania fu solo formalmente uno Stato federale. Esso era nato col predominio della Prussia: un predominio, il quale cominciava con essere, per così dire, numerico e finiva con essere una sopraffazione politica. Era un falso Stato federale ed è naturale che quella forma fosse caduta; ma sì fatta caduta non fu certo a vantaggio della Germania, perché l’hitlerismo aggravò il kaiserismo.

Dunque, io non so se, in origine, non sarebbe stato preferibile mantenere il vincolo federale e costituire il nuovo Stato con questa forma. Ma il non averlo fatto allora crea ora una difficoltà, per se stessa insuperabile: come ricostruiamo queste regioni? In rapporto all’appartenenza ai pre-Stati, ci sarebbe stato allora un nesso, che oggi non c’è più. Ecco la difficoltà maggiore, che oggi avverto: da ciò; la conseguenza di dover usare molta cautela. Ma questo non vale per le isole, poiché le isole, per la loro configurazione geografica, per la mentalità speciale dell’isolano, trovano in natura l’origine della loro aspirazione all’autonomia.

C’è un legame tutto proprio che unisce coloro che sono nati sopra uno scoglio. Quindi, l’esperimento siciliano potrebbe costituire, direi, una maniera, un banco di prova. A proposito poi dei rapporti passati come presagio di quelli futuri, io non vorrei rispondere a quelle indicazioni di cifre fatte dal mio amico Nitti. Io, quando parlo in Sicilia, dico sempre ai miei conterranei che hanno torto o, almeno, che non sono abbastanza sereni nel valutare certe disparità di trattamento; ma quando parlo fuori della Sicilia, li difendo di fronte a quelli che dicono che abbiamo torto nei nostri lamenti.

Diciamo pure che certi conti sarebbe meglio non fare: la sola esistenza di un conto tra fratelli mortifica ed umilia. Il problema – poiché un problema c’è – va, secondo me, portato su altro campo, su un campo squisitamente politico; ma l’argomento è troppo grave e complesso per potervi qui neanche accennare. Mi ha, dunque, un po’ mortificato Ciccio Nitti quando mi ha fatto sapere che noi Siciliani graviamo passivamente sul bilancio d’Italia e che, dopo tutto, la nostra esportazione all’estero, in rapporto all’esportazione interna, entro l’Italia, non è poi così importante come si afferma che sia. Or bene, a parte la considerazione che il confronto fra le due esportazioni non ha solo differenze di quantità ma di qualità, io dirò, intanto, che all’esportazione manca, quasi interamente per ora, quello che era il nostro mercato principale (la Germania, l’Europa centrale) e mancano (ma già cominciano ad arrivare) le rimesse degli emigranti, che hanno avuto una così grande parte nella storia dell’equilibrio della nostra valuta.

E quanto alla superiorità del passivo – io non sono un esperto, sono soltanto un uomo della strada, in materia finanziaria – ma proprio nel periodo, cui si riferiva Nitti, trovo queste due cifre significative, nei cinque mesi dal luglio al novembre. 1946: imposte dirette, 12 miliardi – la vecchia imposta classica, l’imposta propria della sovranità, su cui tanto si è scritto, come affermazione del dominio eminente dello Stato su tutte le cose – 12 soli miliardi in confronto ai 20 miliardi del monopolio (come vedete, tutto si trasforma); tassa ed imposte sugli affari, 41 miliardi, di cui 30 miliardi soltanto di tasse di entrata! Da ciò, la conseguenza: che il passivo rilevato, per cui la Sicilia graverebbe sul bilancio generale, non deriverebbe da eccesso di spese, ma da deficienza di incassi. Sottile differenza, che indica la nostra povertà di fronte alla ricchezza dell’Italia del Nord, dovuta ad un’organizzazione industriale, in cui si affermano le altissime qualità di quei nostri fratelli del Nord, cui auguro di tutto cuore le maggiori fortune: industrie, però, che, in fondo, sono state industrie protette, e la cui protezione rappresenta, per la nostra economia, un considerevole aggravio senza corrispettivo.

Ma, dimentichiamo tutto ciò, perché, del resto, dalle allusioni fatte da Nitti quest’altra prova veniva pur fuori: che la Sicilia non può fare a meno dell’Italia e l’Italia non può fare a meno della Sicilia. Ed è precisamente ciò che io dissi al popolo di Palermo nel luglio del 1944, cioè appena tornato in libertà dalla mia reclusione ecclesiastica, da quella mia volontaria reclusione; e fu popolo acclamante, pur in quel momento in cui la paurosa catastrofe maggiormente pareva scuotesse la nostra unità di Stato. Ora mi piace di aggiungere qui che, in quest’ultima lotta elettorale, io ho girato tutta la Sicilia, ho parlato a masse imponenti e veramente mi pareva di risalire ai tempi dell’antica Ellade, alla democrazia diretta, nel contatto immediato fra l’uomo politico ed il suo popolo, che in quel momento sentivo mio così come io mi sentivo viva parte di esso. Da diecine e diecine di migliaia di persone a Messina, come a Catania, come a Siracusa, come a Noto, come a Caltanissetta, come a Girgenti, come a Palermo, insomma dovunque io fui, un solo grido proruppe, ed era grido fervente di devozione e d’amore, il grido di: «Viva l’Italia!». (Vivissimi, generali applausi Moltissime congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18.10, è ripresa alle 18.30).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nenni. Ne ha facoltà.

NENNI Onorevoli colleghi, l’Assemblea troverà naturale che le mie prime parole siano per ringraziare l’onorevole Ruini e l’onorevole professore Calamandrei, per l’apprezzamento che essi hanno dato, dei lavori delle Commissioni del Ministero per la Costituente, che hanno preparato il materiale di studio che l’Assemblea e le Commissioni hanno utilizzato nel corso dei loro lavori.

Desidero ricordare all’Assemblea i nomi dei presidenti delle tre principali Commissioni, perché penso che gli studi che essi hanno compiuto, così come hanno avuto una grande importanza per formare le opinioni nel corso di questa discussione, così avranno un’importanza eguale, e forse anche maggiore, nel prossimo avvenire, quando l’opinione pubblica, attratta dall’importanza delle nostre presenti discussioni, si interesserà ai fondamentali problemi costituzionali del Paese.

La Commissione economica è stata presieduta dal professor Giovanni De Maria, ed ha raccolto in 14 volumi i risultati dei suoi studi e delle sue relazioni. Non soltanto oggi, ma anche nell’avvenire, chiunque voglia studiare ed apprezzare la situazione economica del nostro Paese dovrà riferirsi ai lavori di questa Commissione.

La Commissione per la riorganizzazione dello Stato, presieduta dal professor Forti, ha chiuso i suoi lavori con tre volumi di relazioni delle quali il professor Calamandrei ha detto quale sia il grande valore scientifico.

La Commissione dei problemi del lavoro, presieduta dal collega professor Pesenti, ha raccolto, a sua volta, in quattro volumi i materiali di studio e di indagine da essa promosse sulla situazione ed i rapporti di lavoro.

Infine desidero di ricordare che una pubblicazione del Ministero della Costituente, il Bollettino di informazioni e di documentazione, diretto dal dottor Terenzio Marfori, ha certamente molto contribuito ad attirare l’attenzione degli studiosi, dei tecnici e degli uomini politici sui problemi costituzionali. Così pure credo sia doveroso rendere omaggio all’iniziativa di un editore privato, l’editore Sansoni, che, in accordo col Ministero della Costituente, ha promosso due collezioni: quella giuridica che si compone di 44 volumi e quella storica che si compone di 20 volumi, che hanno messo a disposizione di tutti gli studiosi un materiale prezioso di studio.

All’insieme di questo lavoro ha presieduto il giovane professore Massimo S. Giannini. Sono sicuro di essere l’interprete di tutta l’Assemblea rendendo a questi studiosi l’omaggio che essi meritano per avere contribuito col loro lavoro ed i loro studi a mettere tutta l’Assemblea in condizione di discutere i problemi Costituzionali, ed a mettere il Paese in condizioni di apprezzare i risultati delle nostre deliberazioni.

Questo detto, io intraprenderò l’esame del progetto di Costituzione, ponendomi dal punto di vista di quello che vorrei chiamare lo spirito del 2 giugno. Cercherò, cioè, di determinare in quale misura il progetto di Costituzione corrisponda alla volontà, alle speranze, ai desideri di quei 12 milioni di elettori repubblicani, che nel referendum del 2 giugno hanno col loro voto instaurato il regime repubblicano.

Credo di non forzare l’interpretazione dello spirito del 2 giugno, dicendo che lo possiamo riassumere in quattro principî generali: gli elettori repubblicani il 2 giugno volevano uno Stato unitario, volevano uno Stato democratico, volevano uno Stato laico e volevano uno Stato sociale. In questo modo essi traevano le conseguenze logiche e naturali delle lotte, che si sono svolte già nel lungo periodo della dominazione fascista e poi, in una forma molto più positiva e concreta, fra il luglio del 1943, l’aprile del 1945 ed il giugno del 1946.

Una grande volontà unitaria ha animato tutti i combattenti della libertà: i reparti della marina, dell’aviazione, del corpo volontari della libertà, che, sulla base della cobelligeranza, hanno partecipato a fianco degli alleati alla guerra contro il tedesco; la resistenza all’interno fino dai suoi primi episodi, che si sono prodotti nelle fabbriche con gli scioperi della primavera del 1943, e poi le formazioni partigiane. Il significato profondo di questa lotta è stato il desiderio e la volontà di salvaguardare l’unità e l’indipendenza del Paese, sia nei confronti dello straniero, sia nei confronti di movimenti interni, che avevano profondamente preoccupato l’avanguardia democratica, e che andavano dal separatismo approvato nella Val d’Aosta a quello della Sicilia.

L’unità e l’indipendenza del Paese è stato l’obiettivo primo e, in un certo senso, principale di tutto il movimento di liberazione. Che poi questo movimento, dalle giornate napoletane dell’ottobre 1943 fino alle giornate milanesi dell’aprile 1945, avesse come obiettivo la conquista di una democrazia repubblicana, ciò non ha bisogno di essere dimostrato.

L’esigenza che la democrazia in Italia fosse repubblicana non scaturiva soltanto dal fatto che dal 28 ottobre 1922 l’istituto monarchico si era costantemente compromesso con la dittatura fascista, che l’istituto monarchico portava, alla stessa stregua del fascismo, la responsabilità della guerra dichiarata il 10 giugno 1940, ma aveva origini più lontane. Il dissidio fra monarchia e democrazia non è nato il 28 ottobre 1922, ma esiste dal 1821, dal 1831, dal 1848, ed è uno dei dati permanenti della storia politica del nostro Paese.

In questo senso abbiamo sempre pensato che la democrazia non poteva nascere in Italia che come democrazia repubblicana.

Che ci fosse infine un’aspirazione laica nel sentimento e nella volontà dei dodici milioni di elettori repubblicani del 2 giugno, io lo deduco dalla convinzione profonda che il fondamento della pace religiosa è nella laicità dello Stato e nella laicità della scuola. Di ciò abbiamo avuto la prova negli anni più difficili per la vita politica e sociale del nostro Paese, quelli che per l’appunto vanno dal 1943 al 1945, e che non hanno visto affiorare nessun dissidio di carattere religioso.

Il movimento garibaldino era stato anticlericale; il movimento partigiano è stato laico, sulla base del rispetto dei cattolici e dei miscredenti, della libertà di pensiero e della libertà di coscienza.

Infine, che la volontà degli elettori repubblicani del 2 giugno fosse di dar vita ad uno stato sociale è nella prevalenza dei lavoratori sulla massa degli elettori repubblicani.

Il primo risorgimento era stato opera di una borghesia colta, intelligente, eroica, capace d’interpretare gli interessi collettivi della nazione italiana; quello che è stato chiamato il secondo risorgimento è stato l’opera della classe lavoratrice e dell’avanguardia della classe lavoratrice che è la classe operaia, che ha dimostrato, proprio in quella occasione, di avere ereditato le antiche virtù della borghesia, elevandosi ad interprete degli interessi di tutta la nazione. (Applausi a sinistra). Ecco che cosa significa per noi porre il lavoro come elemento dirigente della vita politica e sociale di un Paese; significa onorare nel lavoro l’elemento primo e decisivo di ogni valore etico e politico.

Ora, onorevoli colleghi, io vorrei ricercare in quale misura il progetto di Costituzione, che stiamo esaminando, corrisponda ai quattro principî che credo possono essere considerati come il fondamento dello spirito del 2 giugno.

Esaminiamo la Costituzione dal punto di vista dello stato unitario. L’articolo 106 del progetto afferma che la Repubblica italiana è una e indivisibile; che essa promuove le autonomie locali ed attua un ampio decentramento amministrativo. Questo articolo è certamente in perfetta armonia con quello che ho chiamato lo spirito del 2 giugno. Non direi però la stessa cosa di quella specie di federalismo regionale, balzato fuori dalle improvvisate deliberazioni della Commissione che ha studiato l’attuazione del principio del decentramento amministrativo. Altri, prima di me, hanno ravvisato in questo federalismo regionale un elemento pericoloso per l’unità dello Stato, per l’unità della nazione. Certo, si può discutere, come ha fatto l’onorevole Orlando alcuni istanti fa, quale sia stato il valore del federalismo nel Risorgimento. In questo caso bisogna però tener conto che, nel Risorgimento, ci sono state due concezioni, federalista e regionalista, che non sono mai andate d’accordo tra di loro. C’è stata una concezione federalista e regionalista moderata, la quale era in fondo una forma di resistenza all’unità nazionale, diciamo la verità, di sabotaggio dell’unità nazionale; c’è stato il federalismo di Cattaneo e di Ferrari che, giudicato dal punto di vista dei principî, rappresenta non già un elemento regressivo, ma un elemento progressivo nei confronti dell’unitarismo di Mazzini. Però, storicamente, aveva ragione Mazzini e l’Italia non poteva sorgere che come è sorta, cioè come stato unitario. Lo dimostrano le immense difficoltà che l’Italia ha incontrato dopo il 1860 ed anche dopo il 1870 per attuare lo stato unitario, giunto a maturazione soltanto attraverso le prove dure che la nostra generazione ha attraversato dal 1915 al 1918. Ciò dimostra che, quando si discute un problema di questa natura, non ci si può porre dal punto di vista di un principio astratto, ma bisogna considerare i principî in rapporto alla realtà politica e sociale. Per cui, citare gli Stati Uniti nei confronti dell’Italia, è come se citassimo la luna nei confronti della terra; delle entità che fra di loro non hanno una comune misura di confronto.

Per me è evidente che, come l’Italia non poteva formarsi se non attraverso lo Stato uno e indivisibile, così oggi sarebbe un errore politico e un errore economico voler attuare le autonomie locali e amministrative sotto forma di federalismo regionale. Sarebbe un errore politico, perché l’Italia è un Paese a formazione sociale, troppo diversa, perché una differenziazione legislativa nel campo regionale non metta la Regione in concorrenza con lo Stato. Non ci sarebbe nessuna difficoltà a ordinare l’Italia sulla base del federalismo regionale, se le condizioni della Calabria fossero identiche a quelle della Lombardia (Commenti al centro), se la Campania si trovasse allo stesso piano di sviluppo economico, e quindi di sviluppo politico, della Liguria o del Piemonte. Ma, in una Nazione dove all’antagonismo sociale fra poveri e ricchi si unisce il dislivello fra le regioni settentrionali e quelle meridionali, un simile esperimento non può essere tentato prima di aver operato una vasta riforma sociale. Si rischia in caso contrario di mettere in pericolo l’unità della Nazione. (Vivi applausi).

Il federalismo regionale è anche un errore economico. Non è serio dire alle popolazioni del Mezzogiorno che attraverso un sistema regionalista esse potranno meglio salvaguardare i loro interessi economici di quanto non lo abbiano fatto nel passato con lo Stato unitario. Le regioni meridionali hanno il diritto di contare sull’assistenza di quelle settentrionali, ciò, che è possibile soltanto sulla base di una legislazione unitaria.

Signori, è mia profonda convinzione che, se la Sicilia, la Sardegna o altre regioni meridionali sono economicamente in ritardo, non è per un eccesso di centralismo, ma perché il loro legame col restante del Paese non è abbastanza intenso. La soluzione del problema meridionale non la si trova nella separazione ma in una più intima fusione del Nord col Sud, in una politica di solidarietà delle regioni più ricche verso le più povere.

Per queste ragioni non posso che associarmi agli oratori che hanno messo in guardia l’Assemblea contro i rischi delle improvvisazioni. Il problema di oggi è quello delle autonomie locali e delle autonomie amministrative regionali. Stiamo al tema e aspettiamo di avere creato le condizioni economiche e sociali che ci consentiranno di fare un ulteriore passo innanzi. Quando il Governo discusse lo Statuto siciliano, io dissi, con una frase che fu commentata in vario modo, che non mi piacevano le diete italiane. Mi pare infatti che da una esperienza di diete il Paese non trarrebbe alcun elemento di progresso.

Ed eccomi, onorevoli colleghi, al secondo punto del mio discorso. In che misura il progetto di Costituzione si accorda con l’esigenza di dare al Paese uno Stato democratico?

Non c’è dubbio che il progetto è conforme, nelle sue linee generali, allo spirito democratico del 2 giugno.

L’articolo 1, affermando che la sovranità emana dal popolo, rende alla democrazia un riconoscimento definitivo.

L’articolo 4, statuendo che l’Italia rinuncia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli, e consente le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli, si ispira al principio democratico della soluzione di ogni conflitto fra i popoli senza il ricorso alle armi e alla guerra.

Gli articoli 6 e 7, che contemplano le garanzie dei diritti essenziali agli individui ed alle formazioni sociali, sono della più schietta e positiva origine democratica.

L’articolo 50, laddove si dice: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza alla oppressione è diritto e dovere del cittadino» è di natura schiettamente democratica, in quanto tende a dare all’insieme del popolo la coscienza che l’obbedienza alle autorità costituite ha il suo limite nel rispetto da parte delle stesse autorità della legalità, per cui quando un Governo si pone fuori della legge, l’insurrezione è un diritto e un dovere del popolo.

Di ispirazione democratica è poi il riconoscimento dei diritti del lavoro. Con ciò la nostra Costituzione fa un deciso passo avanti nei confronti delle Costituzioni ispirate ai principî dell’800, che consideravano sacra e inviolabile la libertà dei cittadini, ma negavano agli operai, come tali, il diritto di associarsi nella difesa dei loro interessi economici.

Non credo, però, che si possa considerare come conseguentemente democratico l’ordinamento della Repubblica, quale è previsto nel progetto in discussione. Si potrebbe dire che il vizio segreto di questa Costituzione è il medesimo che si ritrova ad ogni tappa della nostra storia, dal Risorgimento in poi: sfiducia nel popolo, paura del popolo e, qualche volta, terrore del popolo; necessità di frapporre fra l’espressione della volontà popolare e l’esecuzione della stessa volontà popolare quanto più ostacoli, quanto più diaframmi possibili. Si è detto molto autorevolmente in questa Assemblea che funzione di una Costituzione è difendere i diritti della minoranza.

Riconosco che una Costituzione, la quale non garantisse i diritti della minoranza, sarebbe una cattiva Costituzione; ma aggiungo che sarebbe una pessima Costituzione quella che non consentisse alla maggioranza di attuare il programma in base al quale essa è stata mandata al Parlamento, e che i diritti della minoranza non possono andare fino al punto da rendere impossibile l’esecuzione del programma della maggioranza.

Ora, signori, l’ordinamento della Repubblica, così come è previsto in questo progetto, sotto molti aspetti rappresenta una minaccia per la funzione legislativa e sembra abbia obbedito alla preoccupazione di bloccare qualsiasi legge.

Si è introdotto il concetto delle due Camere, correggendolo poi con l’Assemblea Nazionale, della quale l’onorevole Orlando ha fatto la critica, benché, a mio avviso essa sia il correttivo che rende accettabile per noi le due Camere, in quanto comporta il ritorno all’unicameralismo, quando si tratti di decisioni di somma importanza.

In questo campo sarei tentato di essere dell’opinione dell’onorevole Rubilli: se il Senato vi deve essere, sia il Senato. Nella nostra storia, nella storia dei parlamenti del secolo scorso, il Senato ha un suo significato inequivocabile. O è, come da noi, il Senato di nomina regia, destinato per definizione a frenare, sabotare, rendere impossibile l’attività legislativa di una Camera che si collochi a sinistra; oppure è, come in Francia, la Camera del censo, che interviene per limitare l’iniziativa della Camera del suffragio universale. Nell’un caso e nell’altro siamo di fronte ad una precauzione dei ceti o delle classi conservatrici nei confronti dei ceti e delle classi progressive. Così come è delineata nel progetto in discussione, la seconda Camera non è il Senato di nomina regia o di nomina governativa, non è la Camera del censo. È, quindi, un puro e semplice intralcio al lavoro legislativo, un espediente procedurale per imbrogliare la prima Camera. Se in questo punto il progetto dovesse essere approvato quale è, dato il correttivo dell’Assemblea nazionale, noi non solleveremo obiezioni fondamentali, tali da indurci a respingere l’insieme della Costituzione. Sembra però evidente che si è compiuto un errore tecnico, dando vita ad un organismo fittizio ed inutile. Meglio sarebbe stato considerare più attentamente il problema del Consiglio economico, anzi dei Consigli economici, ai quali il progetto accenna senza definirne la funzione, chiamandoli a collaborare con la Camera alla formulazione delle leggi di interesse economico e sociale, che sono poi tutte le leggi.

Evidente è anche, onorevoli colleghi, che ci si propone un vero e proprio abuso del diritto di referendum. Già l’onorevole Orlando e l’onorevole Nitti hanno sottolineato l’assurdità di poter mettere in mora una legge, in base alla richiesta di referendum formulata da appena 50.000 elettori ed elettrici.

Né spenderò altre parole dopo quelle che Sono state dette, per mettere alla berlina la Corte costituzionale. Sulla costituzionalità delle leggi non può deliberare che l’Assemblea nazionale, il Parlamento, non potendo accettarsi altro controllo che quello del popolo. La progettata Corte potrà essere formata degli uomini i più illustri, i più ferrati in materia di diritto costituzionale, ma per non essere essi gli eletti del popolo, non hanno diritto di giudicare gli atti del Parlamento.

Ritengo inoltre che si sia andati oltre nell’attribuzione dei diritti accordati al Presidente della Repubblica, nel che mi stacco dal pensiero espresso poco fa dall’onorevole Orlando. Io credo che nella vita moderna di uno Stato Repubblicano la figura del Presidente potrebbe essere eliminata senza nessun inconveniente. In ogni caso, c’è fra i poteri riconosciuti al Presidente quello dello scioglimento delle Camere, ed esso può determinare tali abusi e tali conflitti, come in Francia nei primi venticinque anni di esistenza della Terza Repubblica, per cui sarà prudente esaminare molto attentamente la questione e vedere se il diritto di scioglimento delle Camere non debba essere circondato da garanzie maggiori di quelle contemplate nel progetto.

Affronto ora, signori, il terzo argomento del mio discorso: in che misura il progetto di Costituzione si accorda con lo spirito laico che ha animato la lotta di liberazione del Paese, la lotta contro il fascismo prima, la lotta contro i tedeschi poi. Qui è giocoforza riconoscere che l’articolo 5 è in aperta violazione con questo spirito laico.

Signori, io vorrei premettere a questa parte del mio discorso una dichiarazione di carattere preliminare. Vorrei dire ai colleghi della Democrazia cristiana che noi siamo interessati certamente quanto loro, e probabilmente più di loro, a che la pace religiosa non sia turbata. Quando si desidera, come noi desideriamo, mettere all’ordine del giorno della Nazione la riforma agraria e la riforma industriale, non si vanno a cercare farfalle sotto l’Arco di Tito, non si vanno a resuscitare i vecchi fantasmi dell’anticlericalismo. Forse potrebbero essere interessati a un tale diversivo dei borghesi di formazione voltairiana, i quali volessero porre una pietra sepolcrale sulle più urgenti questioni sociali. Noi no. Noi non abbiamo a ciò nessun interesse, né soggettivo, né obiettivo, perché, ripeto, quando si vuole affrontare e risolvere una questione sociale di importanza capitale come la riforma agraria, non si va nelle campagne ad aizzare i contadini contro i preti, né si dà ai preti l’occasione di difendere gli interessi degli agrari, aizzando i contadini contro gli anticlericali. A questo proposito mi permetto di ricordare ciò che dissi al Congresso socialista di Firenze: «Nessuno di noi pensa di rimettere in discussione il Trattato del Laterano, né di promuovere la denuncia unilaterale del Concordato».

Signori, la più piccola delle riforme agrarie mi interessa, e ci interessa, più della revisione del Concordato, anche se questa ci apparisse utile.

Non vogliamo, quindi, promuovere una lotta di carattere religioso e di mettere in pericolo quella che l’onorevole Tupini ha chiamato la pace religiosa.

Senonché, signori, questa iniziativa l’avete presa voi, la state prendendo voi. È la Democrazia cristiana che chiede di introdurre nella Costituzione del Paese, con una specie di sotterfugio, i Patti Lateranensi. Siete voi, quindi, che ci obbligate a discutere la natura di questi patti, ciò che hanno significato nella storia del nostro Paese, la portata che avrebbe la loro inserzione nella Costituzione. Ora, come dico che non abbiamo l’intenzione di sollevare la questione dei Patti Lateranensi, così aggiungo che non possiamo accettare che, in aperta violazione con lo spirito laico, i Patti Lateranensi siano inseriti nella Costituzione. Se sarà necessario, discuteremo a fondo la questione, quando verrà in discussione l’articolo 5.

Penso che da parte democristiana, più ancora che da parte liberale, si commetterebbe un errore di valutazione storica e politica se si venisse meno ai due principî fondamentali del Risorgimento che hanno tanto concorso alla pace religiosa. Signori, la pace religiosa non si è fatta con gli accordi del Laterano; la pace religiosa esisteva in Italia da molto tempo; la pace religiosa si può dire che esisteva fino dal 1905, quando la Chiesa rinunciò al «non expedit», e quando, via via, si formarono i partiti cattolici che si posero sul piano del riconoscimento dello Stato. La pace religiosa è stata opera della vecchia borghesia liberale, da Cavour a Giolitti, e poggia su due principî ancora interamente validi: il principio di libertà applicato ai rapporti fra la Chiesa e lo Stato, ed invocato da Cavour nel suo discorso del 27 marzo 1861, ed il principio dell’agnosticismo del Governo costituzionale in tutti i problemi dello spirito e, specialmente, nel problema della fede.

Queste sono state le premesse della pace religiosa nel nostro Paese. Capisco che, in regime di dittatura fascista, Mussolini da una parte e la Chiesa dall’altra abbiano sentito il bisogno del Trattato e del Concordato. Ne hanno avuto bisogno proprio per le condizioni create dalla dittatura mussoliniana. Mussolini aveva bisogno del Trattato del Laterano e del Concordato per fare della Chiesa il suo «instrumentum regni», ne aveva bisogno perché, non essendo né cattolico né cristiano, intendeva però servirsi della Chiesa ai fini della sua dittatura e sbandierare la Conciliazione come la prova del suo accordo col Vaticano.

Anche la Chiesa, in regime di dittatura, può aver sentito il bisogno di cautelarsi col Trattato del Laterano e col Concordato. Si viveva un’epoca in cui si poteva temere che Mussolini o un qualsiasi Farinacci si alzassero una mattina di cattiva voglia meditando non si sa quali attentati contro il Vaticano e contro la Chiesa. Si viveva un’epoca nella quale i cattolici avendo perduto, come la collettività dei cittadini, i diritti politici, non avevano nessun mezzo per difendere la loro Chiesa e il prestigio della loro religione. Che, in una situazione di questo genere, la Chiesa abbia pensato di tutelarsi col Concordato, è comprensibile. Ma oggi, credete davvero, onorevoli colleghi, che per assicurare il prestigio della religione e del Vaticano sia necessario che il Sommo Pontefice sia sovrano sui 44 ettari di territorio che costituiscono lo Stato del Vaticano? O non si è avuta invece durante la guerra la dimostrazione di come avesse ragione Cavour, allorché, nel discorso del 1861, metteva in guardia il Vaticano contro la tentazione del potere temporale che serve a qualche cosa se poggia su una forza militare e non serve a niente se il sovrano deve chiedere l’aiuto straniero per poter resistere ad un attentato organizzato contro la sua sovranità? E, onorevoli colleghi di parte democratico-cristiana, credete davvero che la tutela dei valori cristiani, che costituiscono la ragione stessa della vostra vita, voi l’ottenete attraverso il Concordato? In verità è attraverso la vostra azione di Partito politico, è con le vostre associazioni culturali e religiose che, nell’ambito della Costituzione democratica, voi avete la possibilità di difendere la dignità della Chiesa e della religione.

Una voce al centro. E la scuola? (Commenti).

NENNI. Parlerò anche della scuola. Prima vorrei evocare quella che io ritengo una parola definitiva sulla questione della pacificazione e della conciliazione, la parola che, da uno di questi banchi, fu detta da Giovanni Bovio nella seduta del 10 giugno 1887. Eccola: «Che significherebbe dunque una legge di conciliazione? Se a far sapere ai cattolici che il Papa può liberamente pontificare nella sfera della religione dominante, non occorre legge; se a far sapere ai liberali che non darete mai un palmo di territorio nazionale, e questi vi risponderanno: «e neppure una linea dell’anima nazionale». Se infine a riaffermare e a riscaldare il sentimento cattolico, nessuna legge crea, riafferma e risuscita la religione, anzi tanto le religioni perdono di sacro, quanto acquistano di ufficiale e di politico».

Se fossi un cattolico, farei mia la tesi di Giovanni Bovio. (Commenti).

Signori, qualcuno mi ha chiesto: «E la scuola?» Da una concezione laica dello Stato deriva necessariamente una concezione laica della scuola. Anche nella scuola il laicismo è la condizione della pace religiosa, politica, sociale. Direi, anzi, che sovratutto nella scuola il laicismo garantisce la Nazione contro ogni lotta di carattere religioso.

Noi non crediamo che la questione della scuola si debba risolvere nella Costituzione. La risolveremo, quando dovremo dare uno statuto definitivo alla scuola italiana. E saremo saggi se allora ci ricorderemo che le scuole confessionali – parlo al plurale ma in Italia si potrebbe usare il singolare – dividono, mentre la scuola laica unisce, in quanto rispetta tutte le idee e tutte le credenze.

Alla scuola noi non domandiamo di essere socialista o marxista. Il socialismo ed il marxismo lo insegniamo coi mezzi molto modesti che sono a nostra disposizione. Il cattolicesimo insegnatelo voi, colleghi cattolici, coi mezzi immensi che sono a vostra disposizione. E lasciate la scuola dello Stato al di sopra d’ogni confessione e d’ogni partito. (Applausi a sinistra).

Io ho la coscienza, onorevoli colleghi, di tenere in questo momento un linguaggio utile a tutto il Paese; lascio ai cattolici di giudicare se utile anche a loro. Ad ogni modo, non si potrà far ricadere in nessuna guisa su di noi la responsabilità d’un dibattito o di una lotta, che si aprissero su questa questione. Per la Democrazia cristiana non è necessario che i Trattati del Laterano trovino la loro consacrazione nella Costituzione. Rinunziando a questo proposito, il centro compirà un atto di lealtà e di pacificazione verso l’insieme del popolo.

Ed eccomi, signori, al quarto ed ultimo punto: in che misura questo progetto di Costituzione è in armonia con l’aspirazione verso le Stato sociale, verso lo Stato dei lavoratori.

Dice il progetto che la Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro. Avremmo preferito si dicesse che la Repubblica italiana è una Repubblica democratica di lavoratori. Con ciò la nuova Costituzione sarebbe in completa e perfetta armonia non soltanto con la realtà sociale del nostro Paese, ma con la realtà sociale di tutta l’Europa e di tutto il mondo. Poiché, signori, ormai all’astratto «cittadino» si sostituisce da per tutto il concreto «lavoratore», coi suoi diritti, la sua funzione, la sua missione di civiltà.

Il concetto della solidarietà diventa concreto soltanto nella misura in cui si crea una società di lavoratori, una società che elimini nei rapporti sociali il vizio fondamentale della società borghese, un mostruoso egoismo di classe complicato da una mostruosa ipocrisia.

Sotto questo aspetto la formula della nostra Costituzione è in arretrato non soltanto sulla realtà sociale italiana, ma sulla realtà sociale europea e mondiale. Nella definizione che essa dà della proprietà ha il merito di superare il vecchio principio della dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789, che considerava la proprietà inviolabile e sacra. È stato, credo, l’onorevole Tupini che ha ripetuto in quest’Aula essere funzione di un Partito progressivo assicurare l’accesso di tutti alla proprietà. Fu questa l’idea generosa dei borghesi che fecero la rivoluzione del 1789, ma è un’idea che nel corso degli ultimi 150 anni si è avverata irrealizzabile. Ragione per cui non si tratta tanto di assicurare il libero accesso di tutti alla proprietà, quanto di sottoporre la proprietà alla legge comune attraverso il collettivismo.

Signori, se confrontiamo i termini del progetto in discussione coi testi delle Costituzioni di altri Paesi, siamo costretti a constatare che siamo in arretrato.

Siamo in arretrato sulla vecchia Costituzione di Weimar, della quale il relatore nota giustamente che aveva tendenze socializzanti; lo siamo sulla Costituzione repubblicana della Spagna del 1931. E naturalmente siamo in enorme ritardo in confronto della Costituzione sovietica (Commenti), dove l’idea del lavoro che assume la direzione della società è diventata un elemento positivo e concreto. Siamo in ritardo anche su costituzioni contemporanee alla nostra. Siamo in ritardo, per esempio, sulla Costituzione jugoslava (Commenti), che in questa materia ha affermato principî i quali in un avvenire più o meno lontano saranno adottati dalla società italiana. (Applausi a sinistra Commenti).

Siamo in ritardo anche sulla Costituzione francese, che è ancora una costituzione di tipo borghese e che, nell’articolo che contempla il diritto di proprietà, si è servita di una formulazione che mi augurerei di vedere introdotta nella Costituzione italiana. «Ogni bene, dice la Costituzione francese, ogni impresa il cui sfruttamento ha o acquista i caratteri di un servizio pubblico nazionale o di un monopolio di fatto deve – deve, dice la Costituzione francese – divenire proprietà della collettività». Noi dobbiamo servirci di una formula analoga, perché, se ancora non è venuta l’ora di porre il problema generale della proprietà socializzata, certo è venuta l’ora di nazionalizzare e socializzare la proprietà, ogni qualvolta essa assume i caratteri di un servizio pubblico o di un monopolio di fatto.

Se no, signori, voi vi illuderete di tenere nelle vostre mani il potere legislativo; si illuderà il Governo di esercitare il potere esecutivo al Viminale; ma in realtà potere legislativo e potere esecutivo saranno nelle mani di una dozzina di consigli d’amministrazione, più forti dell’Assemblea Costituente e più forti del Governo.

Noi, socialisti, pensiamo che lo sforzo di creazione di uno Stato democratico risulterebbe falsato alla base se, alle programmazioni, ai diritti teorici non si associasse la concreta volontà di procedere alla trasformazione degli attuali rapporti di classe e di proprietà. In ciò risiede la garanzia effettiva della democrazia, più che nel testo della Costituzione, più che nelle leggi. E qui mi urto all’obiezione che è, io credo, la più grave che sia stata fatta alla Costituzione: l’obiezione del giornalaio fiorentino di cui ci ha parlato il nostro amico onorevole Calamandrei. Voi ricordate, il giornalaio che annunciava a gran voce una grande vittoria militare e, sottovoce, soggiungeva: «Ma non è vero niente». Veniva il dubbio all’onorevole Calamandrei che, quando i contadini e gli operai avranno sotto gli occhi il testo della legge e leggeranno gli articoli concernenti i diritti del lavoro e del lavoratore, non commentino sottovoce o a voce alta: «Ma non è vero niente».

Ebbene, caro professor Calamandrei, noi siamo meno pessimisti di lei, perché mentre da un lato sappiamo che il nostro Paese non è ancora arrivato a quel grado di sviluppo politico e sociale nel quale una Costituzione non è più un programma per l’avvenire, ma la codificazione di uno stato di fatto, mentre sappiamo questo, sappiamo però anche che ci sono forze in Italia, ci sono partiti i quali hanno la funzione storica, politica e sociale di far sì che quello che è scritto nella Costituzione divenga realtà. Con ciò ho implicitamente risposto all’amico Lussu, il quale, pur avendo una dimestichezza per lo meno eguale alla mia coi testi classici del socialismo, mi ha chiesto cosa significa la formula «dal Governo al potere», uscita dalla deliberazione di un recente congresso. Vuol dire quello che sta scritto in tutti i testi socialisti, dalla prima Carta programmatica del congresso di Genova del 1892 fino all’ultima del nostro congresso di Roma; vuol dire che la classe lavoratrice, in quanto tale, vuole conquistare il potere, per fare in modo che i principî di giustizia sociale, che sono ancora parecchio astratti, divengano assolutamente concreti. «Dal Governo al potere» vuol dire convogliare la maggioranza delle elettrici e degli elettori in una battaglia che mandi al Parlamento nel prossimo autunno una maggioranza decisa a far sì che ognuna delle affermazioni teoriche contenute nella nuova Costituzione divenga positiva e concreta. (Interruzioni Commenti).

CRISPO. E se non bastassero i mezzi legali?

NENNI. Signor interruttore, dal 1848 fino ad oggi i mezzi non legali sono stati adoperati contro di noi. (Applausi a sinistra). Noi non abbiamo lasciato, e non lasceremo pesare nessun dubbio sul carattere legale della rivendicazione del potere, non per noi persone singole, neppure per i nostri singoli Partiti, ma per le classi lavoratrici.

Signori, ho esposto, spero con sufficiente chiarezza, le ragioni per cui questa parte della Costituzione, per noi fondamentale, ci dà per certi aspetti soddisfazione e ci causa per altri aspetti motivi di apprensione. In fondo, come per tante altre cose, dipenderà da chi avrà il mestolo in mano, dipenderà dalla volontà che il Paese esprimerà attraverso le elezioni.

La nostra funzione in tutto questo è molto meno oscura, drammatica, tenebrosa di quello che non appaia a chi non ha nessuna nozione del marxismo; questa funzione la definì Carlo Marx quando, all’incirca or sono settant’anni, scrisse che «la classe operaia non ha nessun ideale da realizzare, ma ha soltanto da liberare le forze della nuova società che maturano nella vecchia società borghese in dissoluzione». Così il mondò ha camminato; dal feudalesimo è nato il capitalismo moderno, (e la borghesia dovette servirsi del forcipe perché il neonato venisse alla luce); dalla società capitalista nascerà la società socialista (e speriamo che non ci sia bisogno di nessun forcipe).

Sono così arrivato alla fine dell’esame, in parte critico, del progetto di Carta costituzionale. Noi socialisti faremo tutto il possibile per migliorare il testo che ci è sottoposto, ma dichiarando che in esso ravvisiamo un elemento di progresso che ci consente di passare ad una fase più avanzata della lotta politica e sociale.

Siamo logicamente contrari al secondo referendum, di cui ha parlato il collega onorevole Lucifero, e che è una cosa inutile, e un perditempo destinato a prolungare il dibattito sulla indistruttibile realtà della Repubblica (Applausi a sinistra). Noi abbiamo fretta, onorevoli colleghi…

Una voce a destra. L’onorevole Togliatti ha detto che non ha premura.

NENNI. … abbiamo fretta che la Costituzione sia votata, abbiamo fretta che si indicano le nuove elezioni, abbiamo fretta che si dia al Paese il modo di esprimere una maggioranza capace di rendere concreti e positivi i principî della nuova Costituzione.

Una voce a destra. Lasciate al popolo questa possibilità.

NENNI. Il popolo ha già parlato. Se mai, onorevole Presidente della Costituente, vedrà lei se non sia opportuno, quando la Costituzione sia votata e ove sia, come spero, degna del 2 giugno e del movimento di liberazione, vedrà lei, signor Presidente, se non convenga fare quello che la Convenzione fece a Parigi il 10 agosto 1793, allorché chiamò tutto il popolo a celebrare la nuova Costituzione. Parigi vide allora sfilare i suoi borghesi, i suoi operai, i suoi sanculotti nelle vie della Capitale, e li vide prestare giuramento alla nuova Costituzione con un atto che non fu una caricatura di sovranità, giacché quegli stessi uomini, qualche mese dopo, irrompevano attraverso l’Europa, in guerra contro i nemici della libertà e i sostenitori della tirannia, sottoscrivendo col loro sangue il patto giurato con la libertà. Allora il Presidente della Convenzione francese poté dire che il 10 agosto 1793 non rassomigliava a nessun altro giorno, era il più bel giorno da quando il sole splendeva nella immensità dello spazio.

C’era forse un po’ di esagerazione, giacché la Francia ha avuto bisogno, dopo di allora, di altre 15 Costituzioni nel corso di 150 anni.

Ma voi della destra che sorridete, già vi siete dimenticati che quello fu il giorno della massima vostra gloria, il giorno in cui la borghesia fu l’interprete delle aspirazioni di tutta l’umanità.

Noi aspiriamo a fare del giorno in cui la nuova Costituzione sarà promulgata, uno dei più bei giorni della storia d’Italia, il giorno in cui le classi lavoratrici prendano definitivamente nelle loro mani la fiaccola della libertà abbandonata dalla borghesia assurgendo ad antesignane e artefici di una nuova civiltà! (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle ore 16.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

  1. – Interrogazioni.
  2. Seguito della discussione del disegno di legge:

Modifiche al testo unico della legge comunale e provinciale, approvate con regio decreto 5 marzo 1934, n. 383, e successive modificazioni. (2).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

SABATO 8 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LV.

SEDUTA DI SABATO 8 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Sul processo verbale:

Basso                                                                                                                

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Per la celebrazione della «Giornata della Donna»:

Gallico Spano Nadia                                                                                      

Conci Elisabetta                                                                                             

Jacometti                                                                                                         

Persico                                                                                                             

Bellusci                                                                                                           

Presidente                                                                                                        

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica Italiana:

Ghidini                                                                                                              

Nitti                                                                                                                  

Damiani                                                                                                            

Benedettini                                                                                                      

Presentazione di una relazione:

Presidente                                                                                                        

La Malfa                                                                                                          

La seduta comincia alle 15.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta precedente.

Sul processo verbale.

BASSO. Chiedo di parlare sul processo verbale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BASSO. Nel suo vivace discorso di ieri l’onorevole Lussu, riferendosi al discorso che io avevo tenuto qui il giorno precedente, ha dichiarato di approvare sostanzialmente le cose da me dette, ma che sia lui che altri colleghi, avrebbero desiderato che in questa occasione io avessi chiarito il mio punto di vista in ordine al problema della legalità, facendo riferimento ad un discorso che avrei tenuto in un’assemblea di Partito.

Immagino che l’onorevole Lussu si sia riferito a frasi attribuitemi in un discorso tenuto a Bologna tre settimane fa e che servì come pretesto ad una speculazione della stampa reazionaria, a cominciare dall’organo degli agrari di Bologna.

Ho risposto a questa campagna di stampa con un articolo sull’Avanti, e credevo che la polemica giornalista fosse finita.

Poiché l’onorevole Lussu ha toccato questo argomento, tengo a dichiarare che le cose da me dette a Bologna non hanno nulla di comune con quello che la stampa reazionaria mi ha attribuito.

In materia di democrazia, dissi le stesse cose che ripetei qui l’altro ieri, cioè che la democrazia è qualcosa di sostanziale e non si esaurisce nel semplice e formale rispetto della legge.

Questo è il passo che ha dato luogo alla campagna reazionaria.

Per spiegare meglio, esemplificando, questo concetto, ricordai in quel discorso che nella precedente direzione del nostro Partito, prima del nostro ultimo congresso, in occasione delle agitazioni dei contadini per l’occupazione delle terre incolte, c’erano stati dei dissidî; e precisai che, mentre io e alcuni miei compagni ritenevamo che il Partito dovesse assumere un netto atteggiamento in difesa delle rivendicazioni dei contadini, l’onorevole Corsi, allora Sottosegretario di Stato per l’interno, aveva preso posizione contro questo atteggiamento, sostenendo che, in occasione delle occupazioni delle terre, si erano verificate alcune illegalità, perché a quelle occupazioni avevano partecipato persone che non ne avevano diritto.

Io dissi che ritenevo molto più notevole l’apporto positivo che veniva dato alla democrazia, dal fatto che una classe oppressa da secoli ritrovava la strada per la rivendicazione dei suoi diritti, anche se era deplorevole che in questa occasione si verificassero alcuni atti di violazione della legge da parte di persone.

Aggiunsi pure, sempre a titolo di esemplificazione, che anche la lotta agraria, sostenuta dai contadini emiliani molti anni prima, aveva provocato l’accusa di illegalità, sempre mossa dalla stampa reazionaria, ma non vi era dubbio che in quella lotta si era formato un forte spirito democratico.

Questa la sostanza del discorso da me tenuto a Bologna.

Questo coincide perfettamente con l’atteggiamento da me assunto qui l’altro ieri, quando ho ripetuto che una vera democrazia nasce dalla partecipazione effettiva delle masse alla lotta democratica e non soltanto dalla proclamazione di principî sanciti dalla legge.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni, il processo verbale si intende approvato.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo i deputati: Arata e Falchi.

(Sono concessi).

Per la celebrazione della «Giornata della Donna».

GALLICO SPANO NADIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GALLICO SPANO NADIA. Oggi in tutte le città e in tutti i villaggi d’Italia si celebra la «Giornata della donna». Ed è doveroso che si ricordi questa data, anche qui, nell’Assemblea Costituente, nell’Assemblea democratica della Repubblica d’Italia, dove le donne, per la prima volta nella nostra storia, sono direttamente rappresentate. Esse si sono conquistate questo diritto partecipando con tutto il popolo alla grande battaglia della liberazione del nostro Paese, per l’avvenire e la felicità dell’Italia. Vi hanno partecipato con quello slancio, quell’entusiasmo, quello spirito di dedizione e di ardente amor patrio, che spinse le più nobili fra di esse fino ad affrontare con semplice e sublime serenità anche l’estremo sacrificio. Giovani e anziane, madri, spose e ragazze, intellettuali, operaie e contadine, esse sono le pure eroine del nostro Secondo Risorgimento; ed il loro nome sarà sempre luminosamente presente nel cuore delle donne d’Italia, che sperano e vogliono un avvenire di pace, di tranquillità, di lavoro e di benessere. Al di sopra della loro fede politica, esse si sono unite nel comune sacrificio, per lo stesso grande amore per il nostro sventurato paese: Anna Maria Enriquez, Vittoria Nenni, Irma Bandiera, Tina Lorenzini, Rosa Guarnieri, Norma Pratelli Parenti, Lina Vacchi e cento e cento altre, la prima Assemblea libera d’Italia s’inchina, riverente, di fronte a voi.

Ma in questa loro giornata che assume sempre più l’aspetto di una festa tradizionale, in tutta l’Italia, le donne si uniscono, attorniate dall’affetto, e dalla stima dei loro compagni di lavoro e di vita, per richiedere che sia ascoltata la loro voce. E forse qualcuno avrà potuto stupirsi dell’assenza delle nostre colleghe di questo settore. Esse sono tra le donne, le lavoratrici, le mamme, le ragazze per sentire dalla loro viva voce le loro aspirazioni, le loro richieste. Mi rammarico di non aver potuto seguire il loro esempio; ma penso di compiere un giusto dovere rendendomi interprete presso di voi, eletti dal popolo italiano, del profondo significato di questa giornata. E la mia voce, quindi, non è qui una voce isolata, ma è quella possente di tutte le donne italiane, le quali, conscie della loro funzione, richiedono i loro diritti.

Esse attendono da noi, in primo luogo, che gettiamo le basi di un regime solido, che voglia sinceramente la pace e la fratellanza con tutti gli altri popoli per scartare definitivamente dal nostro suolo ogni pericolo di guerra e di distruzione. Ed è per questo che esse si sentono unite a tutte le donne del mondo, le quali, nei loro rispettivi Paesi, celebrano questa stessa data. In ogni Parlamento libero e democratico, infatti, oggi una donna parla per chiedere che lo spirito di pace presieda alla ricostruzione di tutto ciò che la sanguinosa catastrofe che si è abbattuta sul mondo intero ha calpestato e distrutto, e per rivendicare alle donne gli stessi diritti che oggi noi chiediamo.

Non vi è spirito di rivincita nel cuore delle donne d’Italia, come non vi può essere spirito di vendetta nel cuore delle madri, delle spose d’Inghilterra e di Francia, dell’Unione Sovietica e della Jugoslavia, dell’America e di tutti i Paesi che hanno conosciuto gli orrori della guerra, le stragi dell’occupazione, nel cuore delle donne che hanno conosciuto le ansie delle partenze senza ritorno. In tutte vi è una eguale e intensa aspirazione alla pace, alla fratellanza, alla concordia. Ed anche noi che affannosamente ricerchiamo legami di solidarietà e di amicizia con gli altri popoli, sappiamo contribuire con una giusta politica al rafforzamento di questa aspirazione alla pace di tutte le donne del mondo, aspirazione che sarà certamente garanzia che domani i popoli dovranno cercare le soluzioni alle loro vertenze non attraverso inutili e sanguinosi conflitti, bensì in pacifiche trattative dirette.

Ma le donne italiane attendono ancora qualcosa da noi.

Nella lotta per l’indipendenza del nostro Paese, nell’azione per il rovesciamento del funesto regime fascista, esse si sono schierate a fianco degli uomini e vi hanno partecipato con l’entusiasmo che già abbiamo ricordato.

Nell’opera immane di rinascita e di ricostruzione del nostro Paese, esse rivendicano lo stesso posto, la stessa parte di responsabilità e di lavoro. Chiedono che sia eliminato dal nostro Paese ogni pericolo di ritorno del fascismo, individuando in esso la causa della catastrofe tremenda che ha travolto l’Italia, gettandola nel baratro dal quale faticosamente sta risorgendo, che ha sconvolto le famiglie distruggendone l’integrità, la saldezza, privandole spesso di un asilo sicuro, che ha gettato alla fame, alla miseria, alla disoccupazione e spesso alla demoralizzazione milioni di uomini che non possono oggi sostenere con il loro onesto lavoro le loro famiglie.

Esse chiedono che sia assicurato il lavoro a tutti, l’assistenza a chi ne ha bisogno, che sia protetta la maternità, che l’infanzia riceva le cure morali e materiali necessarie, che alla vecchiaia siano dati segni concreti di rispetto e di riconoscenza. Ed oltre a queste fondamentali rivendicazioni esse chiedono al Governo d’Italia che si inizi un’opera efficace per la soddisfazione delle più immediate esigenze delle donne e delle loro famiglie nel settore dell’alimentazione attraverso un tesseramento differenziato, parificando nel campo del lavoro a quella degli uomini l’indennità di contingenza percepita dalle lavoratrici, e nella riparazione delle conseguenze della guerra adeguando le pensioni al costo della vita, provvedendo effettivamente e rapidamente alla sistemazione degli orfani, sostenendo validamente le donne capo famiglia nel grave compito che esse debbono affrontare.

E per vigilare, affinché tutto ciò venga effettivamente realizzato, richiedono che sia loro riconosciuta in tutti i campi la piena parità di diritti, esse che hanno dimostrato di sapere sostenere la piena parità dei doveri.

E noi, che ci accingiamo a scrivere la Carta costituzionale della Repubblica d’Italia, noi che ci prepariamo a formulare l’ordinamento nuovo del nostro Paese, ordinamento che deve segnare la fine di ogni possibilità di oppressione e di soggiogamento del popolo italiano, ed aprire al popolo stesso la via della rinascita, del risorgimento, facciamo in questo documento largo posto alle donne d’Italia, permettiamo che le loro energie, le loro forze, il loro spirito di sacrificio, di dedizione, di attaccamento alla famiglia, la loro volontà di pace, di uguaglianza, di libertà, di benessere siano presenti e ci guidino nella nostra fatica.

Memori di quanto esse hanno già dato alla Patria, consci della grave mole di lavoro che ci attende, assicuriamo all’Italia, riconoscendo alle sue coraggiose donne il posto che si sono conquistato nella vita italiana, l’apporto e il contributo delle masse femminili, affinché l’Italia sia veramente democratica, perché il suo ordinamento guardi deciso all’avvenire e questo avvenire sia pacifico e sereno.

Contribuire alla rinascita del Paese, assicurarne la pace all’esterno, difendere la stabilità del regime liberamente scelto dal popolo, all’interno, costruire con le proprie mani un avvenire sereno ai propri figli, ecco il significato profondo della richiesta che oggi formulano le donne italiane rivendicando tutti i loro diritti. Ecco ciò che noi dobbiamo impegnarci a realizzare, sicuri di fare così un atto di giustizia e di servire gli interessi d’Italia che ha bisogno delle forze, del lavoro, del sacrificio, dell’entusiasmo di tutti i suoi figli per risorgere, per rinnovare tutta la sua vita, per incamminarsi spedita verso la democrazia, il progresso, la libertà, il benessere. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare la onorevole Conci Elisabetta. Ne ha facoltà.

CONCI ELISABETTA. La valorizzazione della donna si sta lentamente compiendo nella società moderna: e lo stesso Presidente del Consiglio, dando disposizione che tutte le donne di tutti i Ministeri fossero oggi lasciate libere, ha dimostrato la sua comprensione, la sua volontà di valorizzazione della donna. Noi però sappiamo che al giusto riconoscimento dei diritti della donna corrisponde in essa un più profondo senso del dovere.

Non dimentichiamo e non dimenticheremo mai che il primo compito nostro, il più sacro e il più alto, è la famiglia; che la maternità, così spaventosamente colpita dalla guerra è il nostro privilegio, e per questo abbiamo reclamato e reclamiamo dalla nuova Costituzione quelle nuove disposizioni di legge, come il salario familiare, come i limiti al lavoro delle donne, che le permettano di svolgere in pieno la sua funzione familiare.

Ma noi sentiamo oggi che una più vasta famiglia richiede il nostro sacrificio e la nostra dedizione: che tutto il popolo nostro è la nostra famiglia.

Noi ci proponiamo di lavorare con quello spirito che è cemento di ogni vita familiare, spirito di volontà, di fermezza nella difesa di ciò che è equo, di serenità, di comprensione, ma più di tutto di fraternità, quella fraternità che per noi è la sintesi del Cristianesimo, per portare questo spirito nella famiglia sociale; spirito che renderà veramente salda, duratura, efficace e benefica la giustizia sociale, a cui tendiamo con tutte le nostre forze.

Con questi sentimenti noi donne ci proponiamo di lavorare alla ricostruzione sociale e politica del nostro Paese ed al consolidamento della pace universale, che sarà tanto più duratura e tanto più salda quanto più profondamente costruita sui veri valori umani. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Jacometti. Ne ha facoltà.

JACOMETTI. A nome del gruppo socialista, mi associo alle nobili parole della collega onorevole Spano. Essa ha citato dei nomi, nomi di eroine. Io potrei aggiungerne altri, di italiane e di straniere. Preferisco non citarne alcuno, e di rendere omaggio alla donna nella figura della donna ignota, della donna senza nome, che tutte le rappresenta: donne contadine, donne operaie, donne scienziate, donne dei lavoratori, donne della casa, massaie, donne del mondo e donne d’Italia; ché, se noi abbiamo conosciuto delle grandi, delle meravigliose donne sia in Spagna che in Russia, sui campi di battaglia e nelle officine, altrettanto grandi donne abbiamo trovate in Italia. E chi ha avuto l’avventura in questi ultimi venticinque anni di lottare per la libertà, le ricorda sulle vie dell’esilio, in carcere, nella lotta partigiana: donne che ci spronavano, che ci davano il coraggio e la pazienza; e chi ha fatto la resistenza, si ricorda di tante donne che nelle città erano intente a cucire indumenti per i partigiani, a curare i feriti, a fare le staffette sulle strade, combattenti e partigiane sulle montagne. Meravigliose donne! Ebbene, noi crediamo che sia un bene, che sia giusto che nessun nome soverchi e schiacci gli altri, perché così noi possiamo rendere omaggio a tutte insieme, facendo di loro un’aiuola sola, un solo giardino, davanti al quale ci inchiniamo.

E allora, in queste condizioni, riconoscere i loro diritti, non è soltanto un atto di giustizia, ma un dovere. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Mi associo, a nome del gruppo socialista dei lavoratori italiani, alle nobili parole pronunciate in quest’Aula per commemorare l’odierna giornata della donna. Noi diamo la massima importanza alla femminilità, la quale non soltanto rappresenta la bellezza della vita, ma è il conforto dell’uomo nella battaglia che ogni giorno combatte per la causa della libertà.

Non possiamo parlare della donna senza ricordare le parole di Mazzini, che la disse, sorella, madre, sposa, profumo della casa, speranza dell’avvenire.

Con questi sentimenti vogliamo restare solidalmente a fianco di tutte le donne lavoratrici d’Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha chiesto di parlare l’onorevole Bellusci. Ne ha facoltà.

BELLUSCI. A nome del gruppo repubblicano aderisco alla celebrazione della festa in onore della donna.

In ogni tempo e presso ogni popolo la donna fu sempre, per i suoi pensieri e per la sua azione, degna di lode e di ammirazione.

Ma la donna del nostro tragico tempo è meritevole di maggior lode, di maggiore ammirazione e di maggiore devozione.

Quando la nefasta e funesta guerra, detestata dal popolo e dichiarata dalla monarchia tirannica, travolse nella catastrofe la nostra Nazione, le nostre donne, o madri, o spose, o sorelle, confortarono ogni nostro pensiero, rafforzarono ogni nostra azione e ci furono di aiuto nel sopportare la sventura e nel superare quel pauroso e tremendo momento della nostra vita.

E quando la furia devastatrice della guerra diroccò le nostre case, distrusse i nostri focolari, e fummo costretti a rifugiarci nelle campagne, fra i boschi e sui monti, nei momenti in cui era più barbara la distruzione della guerra e ci pareva che l’uomo si fosse allontanato dalle luci della civiltà e, indietreggiando nei secoli, fosse voluto rientrare nella primitiva caverna, la gentilezza delle donne, la loro squisita sensibilità, la loro fede, il loro sacrificio ci rassicurarono che l’umanità non era spenta e che l’uomo avrebbe ripreso il cammino della civiltà.

E quando il nostro suolo fu invaso e le nostre città furono inondate dagli eserciti di tutti i colori, le donne italiane custodirono l’onore delle nostre famiglie e salvarono l’onore nazionale.

Onorevoli colleghi, quando noi pronunciamo il nome di «mamma», le nostre labbra si baciano due volte: in quel bacio c’è l’anima della famiglia e l’anima della umanità. (Applausi).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, credo che nessuno si sarà stupito che nella giornata odierna la voce che esalta fra il nostro popolo le virtù, i diritti, i doveri della donna, abbia trovato un’eco anche in quest’Aula nella quale, inviate dal popolo italiano, seggono in ogni settore donne tanto degne e tanto capaci.

Io credo che a rinvigorire l’istituto parlamentare e a dargli maggior respiro democratico – il solo che può radicarlo nel futuro della nostra nazione – sia opportuno, sia, anzi, bene dare adito in forme serene e dignitose alle manifestazioni più immediate della vita della nostra Nazione.

Ora è vanto e gioia nostra poter dire a coloro che oggi fiduciose si rivolgono a noi col loro appello di giustizia e di libertà, che il progetto della Costituzione della Repubblica italiana è appunto la migliore risposta che possiamo dare alle donne, poiché in questo progetto le loro rivendicazioni politiche, sociali e civili sono fissate in termini che non danno luogo ad alcuna possibilità di equivoco. E, attraverso i prossimi voti della nostra Assemblea Costituente, queste disposizioni diverranno dei diritti imprescrittibili – io penso – in tutto il futuro della nostra Nazione.

Le donne italiane sorreggano, dunque, con ferma fiducia la nostra democrazia nuova; esse ritroveranno, nel quadro delle libertà garantite a tutti i cittadini, le loro specifiche libertà, che saranno certamente feconde di bene per tutta la Nazione italiana. (Vivi generali applausi).

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Ghidini. Ne ha facoltà.

GHIDINI. Onorevoli colleghi, io non ho certamente bisogno di dirvi che la mia esposizione, che toccherà solamente alcuni punti del progetto di Costituzione nelle sue linee generali, sarà sommamente modesta. Vi dico senz’altro, che non sono capace di elevarmi ad alte considerazioni di carattere filosofico. Sono meglio adatto a camminare più in basso e a considerare le cose da un punto di vista pratico. Perciò, nella mia illustrazione e nella confutazione delle critiche che vennero fatte al progetto, nonché in quelle che io stesso potrò fare, seguirò un diverso sistema, il sistema cioè della praticità.

Sono state fatte critiche varie sia per ciò che riguarda la forma letteraria, sia per ciò che attiene alla tecnica di questo progetto. In verità si tratta di cose che hanno un valore affatto secondario. Ciò che preme è la sostanza, soprattutto in una legge che ha un’importanza enorme per le conseguenze mediate ed immediate che ne potranno derivare. Ad ogni modo, anche perché, sia pure in piccola parte essa è frutto del mio lavoro, debbo dire una parola su ciascuna di queste critiche. Quando si parla, per esempio, di una Costituzione, nella quale è evidente la «eterogeneità, come fu detto, delle favelle», io non posso che associarmi ai colleghi, i quali hanno spiegato che la diversità dello stile dipende dalla partecipazione al lavoro di molte persone che vi hanno collaborato a gruppi, separatamente l’uno dall’altro.

Per quanto invece riguarda la pretesa improprietà del linguaggio, debbo dire che la Carta costituzionale doveva essere soprattutto accessibile e comprensibile al volgo. Io, per verità, non ho mai cercato la letteratura nelle leggi, ma se anche avessi avuto, per avventura, la manìa di esigere che la legge sia, sotto il profilo stilistico e letterario, una cosa perfetta, l’avrei senz’altro vinta e repressa di fronte alla necessità che la legge costituzionale sia veramente comprensibile e accessibile a tutti. Così giustifico le inesattezze di linguaggio che siano contenute nel progetto di Costituzione. Non per questo credo che esso meriti la vostra condanna.

A questo proposito ricordo che l’altro giorno, prima ancora che parlasse l’onorevole Calamandrei, un nostro eminente collega mi fece la stessa osservazione. L’onorevole Calamandrei non ha specificato quali siano le inesattezze e le imprecisioni che lamenta. Invece, questo collega mi faceva osservare come, ad esempio, in un certo articolo che ora non ho presente, si dica che il cittadino può «circolare» liberamente nel territorio nazionale.

Il collega diceva, arricciando il suo naso letterario, che non gli andava, perché gli ricordava il «circolate» dei vigili urbani quando vogliono sciogliere un assembramento. Ed è vero. Ma io ricordavo, nel medesimo tempo un episodio al quale fui testimone: Un contadino della montagna era giunto in città e, come sempre accade, si sentiva spaesato. Egli si dirigeva tutto confuso a un ufficio postale tenendo come doveva il lato sinistro della strada. Quando arrivò ad un punto dove c’era un piccolo assembramento, un vigile urbano, invece di dire «circolate» disse «transitate», e il povero contadino, sbalordito, attraversò la strada. Ma dall’altra parte c’era l’altro vigile che gli contestò il divieto di attraversare in quel punto elevandogli la contravvenzione. Così il contadino se ne tornò alla sua casa di montagna persuaso che i regolamenti di polizia urbana sono un caos e che i vigili non ne capiscono niente.

È per questo motivo che l’accusa di imprecisione letteraria poco ci tocca. Ad ogni modo, al momento opportuno, quando si dovrà pur compiere il lavoro di revisione finale, allora si potrà migliorare il progetto anche sotto questo profilo.

Questo, per quanto attiene alla forma. Non c’è da dire di più, perché il tema è tale che non merita una trattazione più ampia.

Per quanto riguarda la distribuzione del lavoro, mi soffermo brevemente sulla prima parte: le «Disposizioni generali». Mi sono chiesto se queste disposizioni generali devono rimanere come sono e dove sono, o se invece vi si debba apportare una modificazione, trasportandole in un preambolo.

Premetto, per quanto riguarda il preambolo, che vi sono dello stesso diverse nozioni; diversi modi di concepirlo. C’è chi lo concepisce come una pura e semplice enunciazione storica, come una introduzione alle disposizioni contenute nel testo. Vi sono invece preamboli dove sono raccolte disposizioni che hanno un vero e proprio carattere normativo. È ciò che accade, ad esempio, nell’ultima Costituzione francese; infatti nel primo progetto che è stato bocciato, le enunciazioni di libertà, le dichiarazioni dei diritti civili ed economici, i rapporti sociali ed etici, ecc., erano tutti inseriti nel testo della Costituzione. Dopo invece, in quella che diventò l’effettiva Costituzione del popolo francese, di questa parte dichiarativa «diritti e doveri» si fece un preambolo. Però nel preambolo sono enunciati come veri e propri diritti.

Al contrario, secondo il pensiero dell’onorevole Calamandrei, nel preambolo vanno collocate soltanto quelle enunciazioni generali che non hanno carattere normativo, ma rappresentano piuttosto un’aspirazione, un voto, una promessa. Ora, per mio conto, se è questa la nozione di preambolo che dobbiamo accettare secondo l’autorevole insegnamento del collega, io per mio conto concludo che le «Disposizioni generali» debbono rimanere così come sono e dove sono. Io non nego che vi siano in esse delle disposizioni che non hanno carattere normativo, ma avverto che sono sempre commiste con altre che invece lo hanno.

Non voglio leggervi gli articoli; ma quando, ad esempio, si dice che l’Italia è una Repubblica democratica, che l’Italia rinuncia alla guerra e così via, trovo che tali affermazioni non hanno carattere normativo, ma di ordine generale, mentre sono commiste nello stesso articolo ad altre che hanno carattere normativo e, come tali, devono entrare nelle disposizioni generali, o fondamentali che dir si voglia.

Solo un articolo, o almeno una parte di esso deve uscire dalle Disposizioni generali. Mi riferisco all’articolo 5, intorno al quale si è già ampiamente discusso. È un punto, onorevoli colleghi, che senza dubbio ci dovrà occupare intensamente.

Io non intendo entrare nel merito della disposizione; non la critico; e non commento affatto le disposizioni del Concordato con la Santa Sede che l’articolo 5 richiama. Mi limito ad alcune osservazioni di carattere generale che attengono alla sistematica ed alla tecnica legislativa.

L’articolo 5, al capoverso, dice che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati dai Patti Lateranensi e che qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale. Orbene; io penso che questa disposizione non abbia diritto di cittadinanza in seno alle Disposizioni generali. Secondo me, non può farne parte, perché è una disposizione specifica, e richiama un gruppo di disposizioni specifiche. Sono disposizioni specifiche quelle che esauriscono in sé stesse il loro oggetto. La disposizione dell’articolo 5 non ha carattere generale normativo; in altre parole, non è di quelle che sono come le matrici, o come un tronco dal quale si irradia un’ampia ramificazione legislativa. Sono disposizioni di carattere specifico che, ripeto, esauriscono in se stesse il loro oggetto. Come tali non possono essere incluse nelle «Disposizioni generali».

E neppure sono collocabili in un preambolo tale, secondo la definizione che abbiamo acquisito, perché hanno un evidente, chiaro, preciso, risoluto carattere normativo ed hanno una precisa rilevanza giuridica: sono comandi, sono ordini; non sono enunciazioni di carattere programmatico, non sono voti, non sono aspirazioni, ma affermazioni categoriche alle quali si deve adeguare o la condotta dei cittadini oppure la legge. Quindi, ecco perché non possono stare nel preambolo, come non possono stare nelle «Disposizioni generali» o fondamentali.

Ma io penso che non possano essere incluse neppure nel testo della Costituzione. Il loro posto sarebbe piuttosto nella parte dichiarativa dei diritti e più specialmente nel capitolo che parla dei rapporti «etico-sociali», ma non possono stare nel testo per una ragione di tecnica legislativa. Non voglio ripetere ciò che altri hanno detto. Mi limito a dire che nel Concordato con la Santa Sede vi sono articoli incompatibili col testo della nostra Costituzione. Ad esempio gli articoli 14, 16, 27, 48, ecc.

L’articolo 5 del Concordato, prescrive che «i sacerdoti apostati o irretiti da censura non potranno essere assunti né conservati in un insegnamento, in un ufficio o in un impiego nei quali siano a contatto immediato col pubblico». Ricordo che una delle accuse principali mosse al progetto è di essere il frutto di un compromesso. Orbene, secondo il mio modo di vedere, il compromesso può essere un bene o un male, tanto un vizio, come una virtù. Quando ad esempio, per addivenire ad una pattuizione le parti transigono e quando si voglia addivenire, come nel caso, alla formazione di un articolo di legge fra parti che hanno orientamenti politici diversi ed anche opposti, se queste parti rinunciano alle estreme conseguenze delle loro ideologie per trovare un punto di contatto, per costituire una piattaforma comune, in questo caso il compromesso è utile, il compromesso è un bene, non vi è eterogeneità di concetti nella disposizione che ne risulta, ma piuttosto una perfetta omogeneità. Per quanto siamo distanti gli uni dagli altri, seduti all’estrema destra o all’estrema sinistra, per quanto le nostre divergenze siano profonde, di dottrina e di metodo, c’è sempre anche un fondo comune ed è su questo fondo comune, che talora ci possiamo incontrare, se sia necessario formare una legge che possa servire alla ricostruzione del nostro infelice Paese. Avremo così fatto un’opera di bene, non un’opera di male. (Applausi).

Il compromesso invece è indubbiamente un vizio, quando si risolve in un baratto.

Quando una delle parti esige una dichiarazione che risponda al suo programma, consentendo in compenso all’altra una disposizione inspirata al programma opposto, allora il compromesso è un male, perché le due soluzioni sono informate a due ideologie contrastanti ed avverse. Avviene bensì fra le due parti un accordo, ma le due disposizioni, così consentite, si accampano l’una contro l’altra in atteggiamento di ostilità e di guerra. In questo caso il compromesso non è più un bene, perché inficia di contradizione insanabile il testo.

Ora, io dico che questo vizio si è verificato in pieno a proposito dell’articolo 5 delle «Disposizioni generali». L’articolo 5 rappresenta una netta vittoria della democrazia cristiana. Lo ha detto chiaramente l’onorevole Tupini svelando, secondo me, un vizio essenziale della Costituzione.

Questa netta vittoria, rappresentata dall’articolo 5, è in contrasto con gli articoli dianzi citati. Nel medesimo testo – i Patti Lateranensi sono richiamati come se fossero trascritti – non può essere lasciata una contradizione così flagrante. Bisognerà quindi ricorrere ad un intervento chirurgico, per togliere o l’una parte o l’altra, a seconda che la vittoria porterà le sue bandiere nel vostro campo o nel nostro; a meno che la Saggezza – dicono i maligni che sia una divinità che non soggiorni sovente nei consessi politici – non consigli (in questi mesi che ci avanzano prima dell’approvazione del progetto) modificazioni, non soltanto per sostituire alla firma d’un ministro usurpatore, che ha sottoscritto in nome di un re decaduto, la firma dei legittimi rappresentanti della Repubblica italiana, ma anche per cambiare profondamente quelle statuizioni che sono in contrasto con i principî unanimamente accolti dalla coscienza civile di tutti i popoli. (Applausi a sinistra).

E, sempre dando uno sguardo panoramico alla Costituzione, vado all’altro estremo del testo; cioè alle «Disposizioni finali e transitorie». Anzitutto, io direi soltanto «transitorie». Perché finali? Perché stanno alla fine?

Dunque, direi solo «transitorie» in quanto risolvono situazioni che non hanno carattere di immanenza, e servono ad attuare il passaggio da una legge all’altra.

In verità quasi tutte queste disposizioni obbediscono a tale concetto. Tutt’al più si potrebbe togliere da questa parte il primo comma dell’articolo I: «È proibita la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista» e l’articolo IV sul non riconoscimento dei titoli nobiliari, come, quelli che hanno carattere di temporaneità per collocarli – se resteranno – nel titolo «Dei diritti e dei doveri».

Ed ora brevemente sulla seconda parte del testo: «L’ordinamento politico dello Stato».

Scorrendo rapidamente il testo, ho notato che il principio dominante, al quale si sono ispirate, prima la seconda Sottocommissione, e dopo la Commissione Plenaria, è stato di trovare una linea di mezzo che potesse mettere d’accordo esigenze in contrasto tra loro. Ricordo in proposito, fra le più significative, la disposizione che regola il voto di sfiducia al Governo. È un articolo che tenta di conciliare le esigenze del regime parlamentare colla necessità di una maggiore stabilità del Governo. Si è così combinata uria procedura, in verità piuttosto complicata, forse troppo, ma che io non critico, anzi elogio, pel fine che si propone. Vedremo, al controllo della pratica, se la disposizione risulterà troppo pesante.

A questo medesimo fine sono ispirate anche le disposizioni che riflettono l’ordinamento giudiziario, colle quali si vuol conseguire lo scopo, da tanto tempo auspicato, di assicurare l’indipendenza piena della Magistratura, e nel contempo d’impedire che la stessa diventi una casta chiusa, insensibile alle esigenze sociali; estraniata, direi, dalla vita.

Devo a questo punto avvertire che l’indipendenza della Magistratura non si consegue soltanto con un congegno legislativo più o meno abile, più o meno complicato. La Magistratura potrà conseguire la sua piena indipendenza solo se il trattamento economico del quale soffre sia radicalmente mutato. Non vi è forse categoria di funzionari che sia così maltrattata, pure adempiendo al più alto ufficio. I vecchi magistrati sono legati inesorabilmente alla loro catena, ma i giovani, i più intelligenti e i più colti, abbandonano oggi la Magistratura per seguire altre carriere ed altre professioni, più lucrose, sebbene molto meno elevate per dignità e prestigio.

È forse in un solo caso che si è decampato da questa finalità: ed è a proposito delle due Camere, per le quali si è adottato il concetto estremista della parità assoluta. Non è questo il momento di discutere se il principio sia saggio oppure no; mi basta osservare che, portato agli estremi, ha condotto praticamente ad una vera e propria carenza legislativa. Infatti, leggendo l’articolo 70, si trova che, verificandosi il caso che una Camera non si pronunzi su un disegno di legge approvato dall’altra o lo rigetti, qualora il conflitto fra le due Camere permanga, il Presidente della Repubblica ha bensì facoltà di indire un referendum; ma siccome non si può mettere ad ogni momento in subbuglio il corpo elettorale, accadrà che molte leggi, oggetto del contrasto, cadranno nel vuoto. Si verificherà cioè una vera e propria carenza legislativa. Inconveniente al quale non si può rimediare che in due modi; o chiamando l’Assemblea nazionale a risolvere il conflitto, oppure dando la prevalenza alla Camera dei Deputati come quella che ripete il mandato direttamente dal corpo elettorale. Vengo ora alla parte che maggiormente interessa: quella dei «Diritti e dei doveri». Sono disposizioni di altissimo valore etico, sociale e politico e come tali devono essere incluse nel testo della legge e non contenute in un preambolo. L’obiezione che alle enunciazioni di questi principî si fanno seguire, delle determinazioni che logicamente dovrebbero trovare il loro collocamento piuttosto nei Codici e in leggi speciali, ha un fondamento di serietà. Ma la linea che abbiamo seguito ha pure una giustificazione.

È vero in linea di logica l’affermazione che, ad esempio, le disposizioni relative all’arresto hanno un sapore processuale che ripugna al concetto di legge costituzionale. Però debbo dire che non basta la logica. Essa non è sufficiente a guidare ed a governare gli uomini: se dovessimo seguire soltanto i precetti della logica fino agli estremi, correremmo i più gravi pericoli. È la ragione che li deve guidare! Fra i motivi che possono giustificare queste specificazioni vi è una considerazione di carattere storico che non ricorre per gli altri Paesi. Questi diritti civili e questi diritti politici, sono stati compressi, calpestati, annullati per un lungo ventennio; e quindi, c’era un bisogno quasi fisico, istintivo, di richiamarli, di riaffermarli, di gridarli ad altissima voce. Questi diritti si presentano a noi oggi in un aspetto del tutto speciale e singolare. Forse, se avessimo fatto la Costituzione 25 o 26 anni, fa, non vi avremmo incluse queste determinazioni. Ma oggi è diverso, le cose vecchie arrugginite quando siano tratte improvvisamente dal buio alla gloria del sole, acquistano la lucentezza delle cose nuove.

Rilevo inoltre che parecchie di queste disposizioni sono state criticate come se fossero soltanto dei voti, delle aspirazioni a finalità impossibili. Io dubito perfino di aver ben compreso, perché, se è vero che si è fatto riferimento agli articoli 26 e 28 che garantiscono la salute, l’igiene, l’accesso agli studi superiori, ecc., devo dire che si tratta di provvidenze già in atto e non quindi di semplici speranze o addirittura di «sermoni».

In meri lo poi ai «Rapporti etico-sociali», avverto che subito ci imbattiamo in una enunciazione che l’onorevole Rubilli ha definito «scialba». Non sono d’accordo con lui. Non è scialba; è pericolosa. L’onorevole Ruini che ci è stato guida tanto preziosa, ricorda indubbiamente che in sede di Commissione di coordinamento io ho combattuto questa enunciazione.

Perché si è voluto dire che «la famiglia è una società naturale»? Una definizione eguale non si pone nei confronti dello Stato. Lo scopo è chiaro, ed è quello di trarne una quantità di conseguenze che si riflettono sull’istituto della scuola, sul matrimonio, sul trattamento giuridico dei figli illegittimi e così via.

Con questa frase si afferma una priorità della famiglia nei confronti dello Stato; una priorità che diviene prevalenza e può in questo modo creare un’atmosfera di rivalità tra la famiglia e lo Stato.

Per quanto invece si riferisce ai rapporti politici, non ho niente da dire, perché sono principî e diritti consacrati da una lunga tradizione e dal consenso di tutti i popoli civili. È notevole soltanto la disposizione (attualissima oggi che si è celebrata la giornata della donna) che pone sul terreno di piena parità l’uomo e la donna, così nel campo economico, come in quello giuridico, politico e civile.

Ma la parte che forse maggiormente interessa è quella dei «Rapporti economici». Io ho per essi una tenerezza speciale, perché ho partecipato assiduamente alla loro formazione ed è, quindi, naturale che li difenda. Dirò di più: non riesco a vedere nessuno di quei difetti che i colleghi, nelle passate sedute, hanno creduto di porre in evidenza.

Premetto che, salvo alcune disposizioni votate a maggioranza, per molte vi è stato accordo fra i Commissari della terza, pure essendovi rappresentati tutti gli orientamenti politici di tutti i settori dell’Assemblea. Tutti i colleghi hanno fatto valere energicamente la propria opinione. Nessuno ha mai ripiegato la propria bandiera. Ad onta di questo, ci siamo trovati d’accordo anzitutto nella decisione di collocare queste disposizioni non già in un preambolo, ma nel testo, perché altrimenti toglieremmo al testo ciò che ha di più attuale, di più moderno, di più atteso dal popolo e di più caratteristico. Ciò che in sostanza gli conferisce una fisionomia particolare, è anche l’adempimento di un patto, al quale non ci dobbiamo e non ci possiamo assolutamente sottrarre, poiché l’abbiamo assunto davanti al corpo elettorale.

Questo è il primo punto d’accordo. Vi fu anche consenso pieno nell’assegnare al lavoro una dignità preminente su tutti gli altri coefficienti della vita nazionale.

Il lavoro è indubbiamente alla base dell’organizzazione, civile, politica e sociale del Paese e il testo lo afferma anche prima di scendere ai «Rapporti economici-sociali». Lo afferma nel primo articolo del Progetto di Costituzione: «La Repubblica italiana ha per fondamento il lavoro e la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Appunto in applicazione di questo principio noi abbiamo affermato il diritto al lavoro. Abbiamo affermato questo diritto e contemporaneamente il dovere del lavoro, non come un dovere personale, ma come un dovere soprattutto sociale, perché è in virtù del lavoro di tutti che la società può vivere e prosperare.

Ma a questo dovere corrisponde il diritto del lavoro. Intanto io adempio a questo dovere in quanto abbia effettivamente il diritto di lavorare; diritto e dovere, in questo caso, sono termini correlativi, uno si lega indissolubilmente all’altro.

Ma a questo punto è nato il dissenso, anche in seno alla Sottocommissione, sebbene la grande maggioranza abbia deciso nel senso di affermare il diritto al lavoro. È nato da una concezione diversa su ciò che deve formare il testo e ciò che deve formare il preambolo, partendo dalla distinzione fra diritti e aspirazioni.

Non voglio tediare l’Assemblea ritornando sopra quanto è stato già detto. Io, per mio conto, sono di questa opinione: che ci troviamo effettivamente di fronte a dei diritti.

L’obiezione che si muove sotto il profilo giuridico è questa, sostanzialmente: si tratta di una pretesa che non può avere immediato soddisfacimento, che non può essere classificata tra le esigenze e i bisogni esigibili da parte dei cittadini, e se non è esigibile, non è nemmeno azionabile e, quindi, sfugge alla nozione del «diritto». Per conto nostro, la nozione del diritto è diversa. Siamo in materia di diritto pubblico, dove penso che il rigore sia minore che nel diritto privato. In verità vi sono dei diritti, tali senza contestazione, che almeno in certi periodi della vita nazionale, nostra e anche degli altri Paesi, non sono garantiti. Per esempio il diritto alla vita, alla inviolabilità del domicilio, il diritto alla integrità personale, al patrimonio, ecc., sono indiscutibilmente diritti e nessuno li contesta. Sono diritti consacrati nelle leggi e sono muniti di sanzione. Sono, quindi, indubbiamente dei diritti, eppure vi sono dei periodi nei quali essi non sono completamente, totalmente, interamente, ma solo parzialmente e scarsamente attuati. È storia di ieri la insufficienza delle forze dello Stato per impedire l’aggressione al diritto alla vita, all’integrità personale, alla difesa del patrimonio; diritti che sono tali anche verso lo Stato, perché lo Stato ha tra i suoi fini di tutelare la vita, gli averi, ecc., dei suoi consociati.

Ma una ragione anche più grave mi persuade che l’argomentazione contraria è soltanto capziosa, di una verità apparente, non reale. È lo stesso onorevole Calamandrei che ci ha aperto la strada. In una seduta delle nostre adunanze plenarie, egli aveva sostenuto che nel testo si devono collocare solo diritti completi e sanzionati; ma in una riunione successiva – forse cedendo alle lusinghe dell’onorevole Togliatti, come disse – parmi che si sia ricreduto, se è suo, come risulta, un ordine del giorno nel quale dopo di avere ribadito il concetto suesposto aggiunge, derogando dal principio: «Riconosco che, come speciale categoria dei diritti, trovi posto fra gli articoli della Costituzione l’enunciazione di quelle essenziali esigenze individuali e collettive, nel campo economico e sociale, che, se anche non raggiungono oggi la maturità dei diritti perfetti e attuali, si prestano per la loro concretezza, a diventare veri diritti sanzionati con leggi, impegnando in tal senso il legislatore futuro».

Ora io mi domando: quale altra esigenza, quale altro bisogno è maggiormente sentito dalla coscienza universale ed ha assunto una maggiore concretezza, di questo diritto al lavoro che oggi si vuol degradare passandolo al preambolo? Per conto mio, ritengo che se anche non fosse esatto ciò che penso e fossi vittima di un’allucinazione intellettuale deformatrice della verità, anche in questo caso, la tesi che professo rimane pur sempre la più giusta; non potendosi negare la esigibilità del diritto al lavoro, almeno sotto il profilo negativo.

La Costituzione è affidata all’avvenire. Non si può negare in modo assoluto che un giorno le forze regressive possano avere la prevalenza. Noi abbiamo il dovere di immaginare anche il peggio, anzi le leggi son fatte in previsione del peggio, perché se le cose dovessero sempre andare nel migliore dei modi, sarebbe perfettamente inutile che ci fossero dei codici e si formassero delle leggi. Ora, fate l’ipotesi che la nostra rappresentanza fosse completamente eliminata e sedessero in questa Camera solo rappresentanti della Nazione aventi un orientamento politico regressivo, e volessero formare una legge la quale contrastasse questi diritti al lavoro, li limitasse, o li annullasse. La Corte costituzionale dovrebbe dichiarare l’incostituzionalità di questa legge.

Sotto il profilo, almeno negativo, mi pare indubbio trattarsi di un diritto azionabile.

Non solo, e tutto concedendo, se anche fosse vero, secondo la tesi estrema avversaria, che il diritto al lavoro non è attuabile nella sua forma principale, resterebbe però sempre alla base di diritti sussidiari, di diritti sostitutivi, i quali sono di immediata attuabilità. Voglio parlare dei diritti alla retribuzione adeguata del lavoro, al riposo retribuito, alla assistenza sociale, alla previdenza e alla organizzazione sindacale, che difende i diritti del lavoro attraverso lo sciopero, la formazione dei contratti collettivi e la partecipazione dei lavoratori alla vita delle aziende. Il diritto al lavoro, non è una trovata originale della Commissione dei 75, ma è una realtà obiettiva, una realtà del diritto, una realtà della coscienza universale. Buona parte delle Costituzioni degli altri Paesi hanno affermato il diritto al lavoro.

E finalmente, richiamo i colleghi a un argomento tratto dalla lettera della disposizione. È l’articolo 31. È bene leggerlo attentamente. Gli uomini di legge hanno fra le mani una bilancia per pesare le parole, una bilancia la quale ha una sensibilità che è ancora maggiore della famosa bilancia dell’orafo. L’articolo 31 dice che la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Non dice nemmeno «assicura», nemmeno «garantisce». La parola «riconosce» è stata il frutto di una lunga ed elaborata discussione svoltasi dinanzi alla Commissione. In altri testi si dice «riconosce od assicura». Invece, ripeto, il nostro articolo 31 dice: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Badate a quest’ultima parte dell’articolo, colla quale si volle significare che l’obbligo dello Stato è di promuovere le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro. Io credo che le censure che furono mosse siano più che altro il frutto di uno spirito accanitamente critico e anche di un certo pessimismo, perché se è vero che la legge costituzionale non è destinata soltanto a registrare le conquiste del passato, ma anche a segnare l’indirizzo per l’avvenire, è pessimistica la critica al «diritto del lavoro», fondata sulla pretesa impossibilità di assicurare in un domani più o meno prossimo il lavoro a tutti gli uomini di buona volontà.

Onorevoli colleghi, non dico altro per quanto riguarda il diritto al lavoro e passo ad esaminare il tema dei «Rapporti economici» Parlandone, sia pure genericamente devo dire che le critiche fatte…

PRESIDENTE. Onorevole Ghidini, vi era l’intesa che la trattazione generica sui nuovi istituti della Repubblica sarebbe stata fatta quando si fosse aperta la discussione sui titoli correlativi.

GHIDINI. È verissimo. Certo è difficile, discutendo, vedere i confini precisi che meglio scorge nella sua serenità il nostro Presidente. Ma stia certo che non scendo a particolari. Intendo solo enunciare concetti di ordine generale. Se mi dovessi indugiare, dovrei rilevare che non v’è accordo nei nostri critici: gli onorevoli Calamandrei, Rubilli e Capua, il quale ultimo ha affermato, per esempio, che si tratta di un progetto social-comunista, e si è domandato come mai essendo i social-comunisti minoranza nel Paese e nell’Assemblea abbiamo potuto ottenere di fare un progetto social-comunista. Rispondo che se egli avrà la pazienza di ascoltare i concetti generali ai quali si informa questa parte del testo, lo persuaderò che egli parte da un presupposto errato. L’onorevole Capua vede comunisti dovunque, anche dove non vi sono; ed è così dominato da questa preoccupazione che manifesta il proposito, prima di prendere il passaporto per l’Estero e dopo, addirittura di intraprendere un viaggio molto più… compromettente… per l’al di là, allo scopo di annunziare ai nostri morti che «La… Patria è vile».

Dirò ai colleghi che ci muovono l’accusa di compromesso che esso suppone l’incontro o lo scontro di opposte ideologie. Se così fosse, penso che discuteremmo ancora. Siamo invece partiti dalla constatazione della realtà economica obiettiva, attuale. Abbiamo constatato che certe forme appartengono al passato, ma sono vive e vitali. Abbiamo del pari constatato che ci sono forme in via di germinazione e in via di sviluppo, ed abbiamo considerato infine che ci sono forme e istituti che non sono ancora esistenti nella realtà della vita economica del Paese, ma che sono invece vivi e presenti nella coscienza comune, come spiriti erranti, ansiosi di trovare un organismo, un corpo entro il quale potere affermare il loro diritto alla vita.

Sotto questo profilo, adunque, considerando cioè le cose obiettivamente, noi abbiamo: 1°) Per quanto riguarda la prima categoria, quella degli istituti già esistenti che appartengono al passato, ma che sono ancora vitali (parlo dell’iniziativa privata, della cooperazione, ecc.), ne abbiamo dichiarato il riconoscimento, imprimendo però in essi i segni di una maggiore socialità. In tanto questi istituti valgono, in quanto non soltanto giovano a coloro che esercitano l’iniziativa privata, ma in quanto questa iniziativa sia svolta anche a vantaggio della collettività. La novità sta appunto in questo: di avere condizionato il riconoscimento e la tutela di questi diritti e istituti da parte dello Stato, alla loro «funzione sociale».

2°) Per quanto riguarda invece gli istituti, e le forme che sono attualmente in fase di germinazione e di sviluppo, la Costituzione intende dare agli stessi un più ampio respiro e un maggiore campo di applicazione. Mi riferisco alla espropriazione per interesse generale; all’assunzione di imprese da parte dello Stato, della Regione, di associazioni di produttori e utenti; alla loro coordinazione con piani di produzione e di distribuzione; al controllo del credito, ecc.

3°) Per quanto, infine, riguarda quegli altri istituti, che ho chiamato spiriti erranti (le grandi riforme strutturali: agraria, industriale, bancaria) non sono dichiarati nella Carta costituzionale, ma essa ne pone però i presupposti affinché il legislatore di domani possa avere il vanto e la gloria di attuare il grande sogno della Giustizia Sociale.

Si fanno altre obiezioni che ho raccolte dalla voce dell’onorevole Rubilli e di altri.

Si sostiene che i rapporti economici e sociali non hanno diritto di cittadinanza in una Carta costituzionale, dovendo questa limitarsi a fissare la struttura dello Stato, a configurarne gli organi definendone i limiti; a dichiarare i doveri e i diritti che ha il cittadino verso lo Stato; e basta. Lo Stato non dovrebbe intervenire nei rapporti sociali, ma rimanere neutrale ed agnostico. Ma questa nozione della funzione dello Stato, che rimonta allo Statuto Albertino, è da considerare ormai superata non solo da noi, ma anche da altri militanti nel campo liberale.

Qualche settimana fa ho ascoltato due conferenze nelle quali insigni studiosi di scienze sociali hanno bensì combattuto i principî da noi sanciti in materia di rapporti economici e sociali, ma con argomenti completamente diversi. Anche per essi lo Stato non può rimanere indifferente; anch’essi hanno riconosciuto che lo Statuto non deve essere – come scrisse in un giornale di Roma un professore di diritto costituzionale – una specie di Codice penale dello Stato.

LUCIFERO. C’è una differenza, onorevole Ghidini, fra il nostro pensiero ed il pensiero che piace di attribuirci.

GHIDINI. Lo so e l’ho detto che la vostra concezione dello Stato è completamente diversa. In quelle due conferenze indette da «Rinascita liberale», è stato riconosciuto che il Partito socialista in Italia ha grandemente contribuito alla elevazione della classe lavoratrice e al progresso civile del Popolo. Vi do atto di questo leale riconoscimento. La censura fu un’altra. Si diceva, ad esempio, che rassicurazione del diritto al lavoro suppone la pianificazione totale dell’investimento e della produzione.

Non la credo esatta. Anche una pianificazione parziale può bastare, come può bastare una seria politica di spesa e di lavori pubblici.

L’altra eccezione che fu sollevata è che con le disposizioni relative al lavoro, alle espropriazioni, ai limiti di estensione della proprietà, ecc., si rilascia una cambiale in bianco ai social-comunisti. Non è vero.

Sotto un certo aspetto la Costituzione è una cambiale in bianco, perché non vengono determinati i modi attraverso i quali saranno attuate le riforme. Ma questo, secondo me, non è un vizio, ma un pregio, è una virtù del testo, dovendosi rispettare non soltanto la nostra volontà, ma anche, democraticamente, la volontà del legislatore futuro. Il popolo è sovrano oggi, ma è sovrano anche domani, e quindi, non possiamo imbrigliare oggi per il domani la sua volontà.

Ciò che mi preme di dire soprattutto è che, se è cambiale in bianco, lo è non solo per quanto riguarda i limiti e le condizioni di certi istituti attuabili nell’avvenire; ma è in bianco anche pel nome del prenditore. Sono tutti creditori di questa cambiale, non soltanto i social-comunisti.

È appunto questo che imprime al testo un carattere di libertà, di profonda, di vera, di duratura democrazia; è questa la ragione per la quale io penso che questa Costituzione possa acquistare l’ambito vanto della longevità. Tutto quello, in sostanza che si dovrà fare, le trasformazioni che noi con tutta l’anima nostra auspichiamo come conquiste di una civiltà superiore sono rimesse alla Legge: le espropriazioni, i limiti della proprietà, i vincoli, le assunzioni di imprese, tutto è rimesso alla Legge.

In altre parole, l’ordine nuovo, quell’ordine nuovo che si è andato maturando faticosamente nella coscienza del popolo italiano nel ventennio del suo crudele martirio, si attuerà battendo la strada ampia, diritta e solatia del diritto e della Legge. Non concessioni pelose di governi paternalisti, non imposizioni violente di partiti, ma la libera e sovrana volontà popolare, protesa verso l’ideale altissimo della giustizia sociale, foggerà il nuovo destino della nostra Italia repubblicana. (Vivi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.

NITTI. Dopo le grandi guerre, cambiare le Costituzioni è nei tempi nostri destino dei popoli vinti. I vincitori non le cambiano. Con Costituzioni di natura estremamente diversa, i tre grandi vincitori, l’Inghilterra, l’America e la Russia, non hanno trovato nulla da cambiare: sono i vinti che sono costretti da necessità a mutare i loro ordinamenti.

La guerra del 1914-18 fu regicida: morirono tutti i sovrani di tutte le grandi monarchie d’Europa: i popoli soccombenti, Germania, Russia, Austria-Ungheria, Turchia i quali occupavano quasi i quattro quinti dell’Europa. continentale, videro cadere tutta la loro potenza, tutti i loro sovrani e tutte le forme politiche del passato.

La guerra attuale, dopo che gli ultimi due sovrani dei due Governi di media potenza, l’Italia e la Spagna, sono stati liquidati, non ha affrontato altre monarchie. È andata più in là: è diventata rivoluzionaria nelle forme economiche e sociali. La guerra ha preso un aspetto ormai ancor più terribile: non si limita più ad alcune distruzioni politiche. Questo aspetto ben divinava Marx, quando parlava degli asini dei congressi della pace e Proudhon, quando faceva l’apologia della guerra. Aveva ben compreso che la guerra, nei popoli moderni, è la grande sovvertitrice, è il grande fatto rivoluzionario. Se avessimo avuto un’Europa pacifica, probabilmente non avremmo avuto i grandi sovvertimenti che si sono verificati nell’ordine economico, nell’ordine sociale e nell’ordine politico.

I vinti hanno dovuto quindi per necessità seguire la generale tendenza che si è manifestata. Ora noi ci troviamo di fronte alla necessità di una nuova Costituzione nel momento peggiore, quando tutto da noi ha perduto il senso di equilibrio e le passioni più eccitate e gli interessi più opposti si agitano. Si son volute avere troppe illusioni e, soprattutto, ne abbiamo date; si è creduto che la guerra non dovesse finire per noi così tragicamente. Si son dette tante cose che non si sono verificate e la guerra, che l’Italia ha avuto il torto di dichiarare, è stata ed è terribile nelle sue conseguenze. Essa non ha avuto, quando è finita per la nostra partecipazione agli avvenimenti decisivi, il risultato che si attendeva. Nel linguaggio corrente della stampa, per amabile eufemismo, si parlava sempre degli «Alleati», quasi che noi fossimo nella unione dei vincitori, alleati fra loro ma non con noi. Si è data a torto la convinzione ai nostri concittadini che il cambiamento della forma politica avrebbe anche determinato un cambiamento nella situazione. Si è detto che la caduta della monarchia avrebbe non solo reso benevole le democrazie, ma che avrebbe cambiato il loro indirizzo a nostro riguardo. Nulla è invece cambiato. Noi scontiamo ancora le amare conseguenze della guerra, e per molti anni le risentiremo; ed è illusione credere o far credere che molto sarà mutato per il contegno amichevole di Stati che sono stati neutrali nella guerra.

Noi dobbiamo metterci coraggiosamente di fronte alla realtà. Troppo si è esagerato nella via degli errori. Quando si è detto nella propaganda (e si è detto per troppo tempo) che bastava mutare la nostra forma istituzionale per mutare la situazione, si è detto cosa falsa. Troppo si è detto che la Costituente avrebbe dato pane e lavoro al popolo. Non basta il cambiamento delle forme politiche. Sappiamo ora quale sia la situazione; e ora non possiamo assicurare né il pane né il lavoro in un momento in cui le ansie crescono sulla situazione economica di cui il popolo non sa nulla e non ancora ha la sensazione della vera realtà. Io avrò l’onore, nel seguito della discussione, quando si tratterà dei titoli e degli articoli in cui assumiamo impegni indefiniti per l’avvenire, di parlare come potrò, e nella misura in cui le mie forze lo consentiranno, un linguaggio di sincerità, senza retorica, e di illustrare quale è la situazione presente.

E parleremo di questi argomenti senza illusione e senza retorica.

Il più profondo poeta moderno della Francia, Paul Valéry, ha detto che la politica deve essere trattata come una formula algebrica, deve essere considerata freddamente senza alcuna emozione; altrimenti si divaga sempre nel campo dell’irreale. Noi vogliamo dire tutta la verità. Mai Costituzione fu preparata in condizioni più difficili delle nostre, mai Costituzione di popoli moderni è stata fatta in condizioni così gravi, quando la crisi degli animi è profonda, quando la mancanza delle risorse fondamentali è grande, quando – umiliazione assai più grave – non possiamo vivere senza la benevolenza e l’aiuto dei vincitori.

Questa, la triste situazione che non bisogna dissimularsi. Noi non abbiamo, io non ho preoccupazione della rivoluzione, ma della discrasìa. Tutti gli organi dello Stato si dissolvono; la situazione in ogni parte del Paese non è serena; i partiti stessi non solo si combattono fra di loro, ma oserei dire che si combattono all’interno, tanto l’aria è inquieta. È una conseguenza della guerra, conseguenza di tanti anni di tirannia, conseguenza di tutta la tragica situazione per cui non vi è nel Paese quella serenità spirituale che è necessaria per un’opera di costruzione come la formazione di un nuovo ordine, che deve esser reso possibile da una nuova Costituzione e più ancora dalla sua applicazione.

Io non voglio e non posso e non debbo fare alcuna critica ai settantacinque od ottanta colleghi che hanno preparato la Costituzione. Devo però dire che sono dolente di non essere stato tra loro.

Io credevo che l’onorevole Orlando ed io, se non altro per l’età e per l’esperienza, avremmo dovuto esserci, ma ci relegarono in quella Commissione dei trattati internazionali, in cui veramente non si sapeva che fare, perché ci convocavano quando le cose erano già avvenute e non si poteva utilmente né esprimere una idea, né fare alcuno sforzo di costruzione. Forse non sarebbe stata troppa concessione a questi due vecchi, quella di metterci, se si voleva, nella Commissione della Costituzione. Ma è parso forse fare troppo onore a noi. Io mi sono adattato volentieri a non essere tra i numerosi Soloni, ma mi riservo il diritto (che non mi potete negare) quando si tratteranno gli argomenti più gravi della Costituzione, di intervenire nella discussione.

Io suppongo benissimo che i nostri colleghi della Commissione dei settantacinque od ottanta non solo hanno fatto assai bene il loro dovere, ma che avevano intenzione di fare ancora di più, se non fossero stati fermati dalla stessa durata dei lavori. Infatti essi rimasero riuniti per tutto il tempo assegnato dalla esistenza della Costituente.

Non dissimulo nemmeno la loro difficoltà. Uomini di partito, essi agivano sotto la pressione e la passione che veniva dai vari partiti a cui appartenevano.

Non mi dissimulo l’imbarazzo in cui forse si sono trovati. Vi erano fra di loro persone esperte e colte, vi erano però anche persone, sia pure in minoranza, che per la prima volta udivano parlare di lavori legislativi, ed hanno dovuto fare uno sforzo ammirevole per mettersi al corrente delle loro grandi difficoltà.

Non solo, ma non avevano forse nemmeno la esatta conoscenza di ciò che è una Costituzione, ed allora hanno fatto ciò che hanno potuto. Inoltre, per loro uso o a loro vantaggio, vi è stata una massa enorme di pubblicazioni, una massa tale come non ne ho mai viste, una vera valanga di pubblicazioni per poterli addottrinare, ciò che è stato fatto con ammirabile diligenza. Non so se hanno avuto il tempo di legger tutto; essi hanno preso la loro funzione così seriamente che, per la prima volta, ho visto ciò che non avevo mai visto: quelli che si considerano dai giuristi atti interni e preparatori (interna corporis) sono stati pubblicati giorno per giorno. Ogni giorno si riunivano e non solo si facevano i verbali, ma se ne riassumevano tutti i discorsi; si riunivano con grande diligenza e si stampavano, ed anche adesso, che la Costituzione si direbbe fatta, continuano ad uscire i resoconti delle discussioni interne che vi furono nelle varie sezioni della Commissione dei settantacinque. Questa cosa che si è creduta importante, non ha un grande interesse né per il presente né per l’avvenire. Ogni discussione, su ogni argomento, veniva fatta forse senza preparazione sufficiente. Perciò questa enorme valanga di carte non sarà certo la curiosità dell’avvenire. Probabilmente parecchi (è questa una delle nostre malattie) hanno creduto di parlare non solo per illuminarsi scambievolmente, ma per gli elettori e ciò importava molto. Qui anche nell’aula si parla soprattutto per gli elettori.

In ogni discussione io ho guardato con curiosità che si prospettavano differenti visioni dell’avvenire. Ogni argomento che implicava interessi di masse o di ceti sociali, era considerato nei diversi punti di vista ed illustrato (ciò è naturale ed è legittimo), secondo i propri elettori o quelli che si spera saranno i propri elettori.

Vi era spesso evidente, ma non dichiarata, un’altra preoccupazione: la storia. Non pochi si prospettavano, di fronte alla storia: che cosa la storia dirà di noi?

Signori, la storia di noi non dirà niente. (Ilarità). Questi avvenimenti interni dell’Assemblea non mutano nulla, non interessano la storia, non hanno niente di drammatico, niente che preoccupi gli studiosi e nemmeno il pubblico. La storia non se ne interesserà. E così, da tante discussioni senza grandezza, è venuta fuori una Costituzione di cui mi permetterete di dire che, per quanto interessante, non si presenta come le Tavole della legge di Mosè, né come le 12 tavole dei Romani, che avevano carattere di eternità nell’idea dei loro autori, ed erano scolpite nel bronzo.

Queste nostre discussioni sono forse come le tavole della legge di Mosè, ma stampate su carta di giornali e non su tavole di bronzo. Quanto possono durare?

E poi, non pochi han veduto nella Costituzione un’occasione di introdurre e far adottare le aspirazioni e gl’interessi e le tendenze del proprio partito. Voi vedete nettamente nelle discussioni della Commissione come nella Costituente ci sia quel compromesso che è tra le due grandi correnti di sinistra e di destra; voi scorgete anche facilmente un compromesso continuo. È interessante vedere come le stesse cose sono considerate da una parte e dall’altra, secondo quelle che sono o si prevede saranno le esigenze dei partiti.

Stalin ha fatto una osservazione giusta, quando ha detto che bisogna ben distinguere tra un programma ed una Costituzione; una Costituzione è il consolidamento di ciò che già si è fatto, il programma non è che l’aspirazione di cose che si vogliono fare.

Ora, si è troppo confuso qui, per scambievole tolleranza, l’aspirazione delle cose da fare, cioè il programma, con la Costituzione, cioè con il consolidamento di una cosa già fatta. La Commissione, dunque, ha divagato spesso fra le cose più opposte tra un lontano avvicinamento con una dialettica materialista ed un continuo e reale avvicinamento a una politica cattolica ed alle leggi che sono fondamentali della nostra società conservatrice, ma anche i democristiani han parlato spesso per le masse assenti lo stesso linguaggio dei loro avversari.

In generale, le Costituzioni fatte in questo modo o in forma affine non hanno la probabilità di eternarsi. Nessuna di queste Costituzioni fatte nei nostri tempi, dopo l’ultima guerra, è durata; tutte sono cadute l’una dopo l’altra.

Che cosa avverrà della nostra Costituzione? È sperabile che noi possiamo fare una Costituzione saggia che potrebbe, se sarà logica, temperata e serena, durare almeno quegli anni che ci permetteranno di andare verso il nostro consolidamento.

Io non mi preoccupo di questa Costituzione che dobbiamo fare per il lontano avvenire. Mi preoccupo per il presente e per il prossimo avvenire. L’indirizzo che noi daremo, agirà sulla nostra situazione attuale e nella prossima e agirà in forma che noi stessi non sospettiamo. Quando noi avremo messo nella Costituzione nuovi oneri, saremo costretti a rispettarli, e se non potremo rispettarli, perderemo, da parte nostra, ogni rispettabilità. Ciò che si promette e si annunzia deve essere mantenuto.

Vi è qualche cosa che gli antichi filosofi e i vecchi pensatori idealisti chiamavano la visione de optimo statu, la tendenza di andare verso quello Stato che si crede migliore non solo, ma definitivo. È tendenza degli uomini, perché non andranno mai verso una Costituzione definitiva della società, e sarebbe sventura se vi andassero. Noi non sappiamo l’avvenire, ma possiamo prevedere soltanto il prossimo domani. Ora il prossimo domani ci preoccupa molto, in quanto riguarda noi stessi e i nostri figliuoli.

Non cerchiamo formule astruse, non creiamoci illusioni, né sogni di avvenire.

Solone… (si può citare senza far ridere?) Per il pubblico, Solone è un dotto e severo personaggio leggendario; era viceversa un uomo brillante, un artista ed un poeta, un filosofo e un uomo politico. Quando fece la Costituzione di Atene, richiestogli se avesse fatto la migliore Costituzione, rispose: «No, ma la più pratica, la più conveniente». Io faccio l’augurio che la Costituzione che ci è stata preparata, divenendo la Costituzione che faremo, sia la più pratica e la più conveniente. Sappiamo che siamo fra quelle nazioni che hanno il privilegio di illudersi facilmente. In materia di Costituzione nessuno si è illuso mai e ha mutato così spesso strada, come i Paesi latini.

I grandi Paesi latini, Francia, Spagna e, spero, non l’Italia, hanno avuto in materia di Costituzione le più deplorevoli mutabilità. La Francia ha cambiato, nello spazio di meno di 150 anni, 13 volte la sua Costituzione, la Spagna ancora di più. Io spero che l’Italia rompa con questo triste privilegio delle nazioni latine di fare in continuazione cambiamenti delle loro Costituzioni, come delle loro leggi. Nulla nuoce come la instabilità, non solo delle leggi.

Uno scrittore americano, il Bliss, racconta che, andando in Francia al tempo di Napoleone III, entrò da un libraio, e domandò: Avete un esemplare della Costituzione? II libraio rispose sorridendo: No, signore, noi non vendiamo pubblicazioni periodiche! (Si ride). Io mi auguro e spero che noi non apriremo la serie delle pubblicazioni periodiche, ma che faremo una Costituzione saggia, equilibrata, e veramente applicabile. É per questo che non deve essere basata su speranze o visioni di avvenire e che non si deve confondere la Costituzione con i programmi dei partiti. Così solo si può trovare il modo di fare, come direbbe Solone, una Costituzione «convenevole», cioè adatta al nostro Paese.

In poco tempo la Francia, dopo la rivoluzione del 1789, ha cominciato, dal 1791 fino alla Costituzione del 1875 col cambiare leggi costituzionali in permanenza. Soltanto la Costituzione del 1875, che è una Costituzione repubblicana fatta da monarchici ed in fondo una Costituzione conservatrice, è la sola che sia durata tanti anni, cioè dal 1875 ad ora.

I Paesi che hanno più cambiato la loro Costituzione, dunque, sono proprio i Paesi, non dirò della nostra razza, ma della nostra civiltà. Uno dei più grandi spropositi degli ignoranti è di parlare sempre di razze latine che non sono esistite e non esistono. Questa parola «razza» non ha nel caso nostro nessun significato. Noi e la Francia siamo due Paesi di civiltà latina, ma non di razza latina, e siamo i due Paesi di Europa che hanno più diversità di razze e, forse, da questo dipende anche la varietà del nostro genio nazionale.

Noi dobbiamo orientarci e dirigerci secondo le esigenze della nostra situazione e secondo le aspirazioni delle forze che abbiamo. Ora, nella Costituzione che ci è presentata io ho visto molte cose interessanti, ma per molte di esse mi è venuto il dubbio della loro utilità e per molte, più ancora, mi è venuto il dubbio della loro applicabilità.

Non voglio fare alcuna allusione poco riguardosa all’amico Ruini dicendogli che vi sono nello schema di Costituzione troppe cose che egli ha dovuto accettare e che non sono possibili nella realtà, né utili. Io mi auguro che egli possa fare opera di coordinazione, non solo, ma di semplificazione e di chiarificazione, ciò che Dante dice di Giustiniano, «che trasse dalle leggi il troppo e il vano». Io credo che da questo schema bisognerebbe proprio togliere il troppo e il vano, e che l’amico Ruini, quando saremo alla coordinazione, egli stesso possa aiutarci in questo lavoro.

Occorre rendersi conto che la Costituzione proposta contiene quasi il prolungamento della situazione attuale, di quel compromesso che è tra la parte socialista e comunista, e la parte democristiana. Nel non toccare alcuni argomenti, nel sorvolare su altri e soprattutto nell’ignorarne ancora altri, finiremo pure per doverci decidere. In questo schema di Costituzione vi sono molte cose utili, ve ne sono altre inutili, ve ne sono altre vane (come direbbe Dante), e ve ne sono infine altre dannose. In realtà, osservando la Costituzione, si trova che vi è una non dichiarata tendenza a prolungare la situazione di questa Assemblea, in cui c’è un Governo formato da parti opposte, che certamente è stato effetto di necessità, ma che deve contemperare le tendenze più opposte; si trovano insieme nel fondo il catechismo e la dialettica marxistica. Per necessità di convivenza, non si dicono tante cose e non si va mai a fondo di tante questioni.

Se voi guardate la Costituzione, notate una tendenza per cui tutto fa capo al Governo, ed il Governo è interamente l’Assemblea, perché il Governo non è formato che dall’Assemblea. Tutto passa attraverso il Governo e quindi attraverso l’Assemblea. Il Governo non è che la risultante dei tre partiti dell’Assemblea ed in una forma tale che non ha diretta manifestazione, ma solo i capi dei partiti di massa ne sono gli arbitri.

Osservando gli articoli ad uno ad uno (non entrerò nel dettaglio, ma lo farò quando parlerò dei titoli e degli articoli), io mostrerò che tutto deriva dall’Assemblea. Si dice nel testo della Costituzione che tutto deriva dal popolo. Supponendo che l’Assemblea sia il popolo (ma l’Assemblea non è tutto il popolo), tutto, è vero, passa traverso l’Assemblea, ma in realtà tutto è determinato dall’azione dei capi dei grandi partiti. Nel progetto della Costituzione si dice che tutto deriva dal popolo. Il popolo, si afferma, sono i lavoratori. Noi tutti siamo lavoratori, ma il progetto è indeterminato e non dice nulla di preciso. Nelle leggi inglesi, voi troverete sempre la definizione dei termini adoperati: «Lavoratore è colui, ecc.», e qui si definisce chi si intende per lavoratore.

L’Assemblea, secondo il testo dello schema proposto, è eletta dal popolo; la sovranità deriva dal popolo; ma, in realtà, poi, tutto è fatto dall’Assemblea e del popolo non si parla più. L’Assemblea nomina il Presidente della Repubblica, l’Assemblea nomina quella Corte Costituzionale che io, in verità, non ho capito cosa voglia essere e prego qualcuno di spiegarmelo, e di dirmi a che cosa serva, e chi e perché l’ha inventata. L’Assemblea dispone in fondo anche della Magistratura; l’Assemblea decide di tutto, senza che vi sia alcuna altra forma di intervento fuori e senza che il popolo c’entri per nulla.

L’Assemblea, nel momento attuale, in realtà è composta soltanto di due partiti. Erano prima sei partiti, poi, per diminuzione, si è andati a tre e mezzo. Ora, si è a due di fatto, perché gli altri sono fuori, e questa forma di Assemblea fa sì che nulla si possa fare al di fuori di questi partiti o gruppi di partiti. Voi sapete come anche le nostre discussioni siano superflue, quando i capi di questi movimenti hanno deciso quale deve essere la decisione. In realtà, nulla si muta, nulla si può mutare.

In Italia, uno dei mali più grandi e più diffusi è l’ottimismo. Noi non vogliamo vedere mai la verità come è e siamo disposti sempre ad una visione ottimistica.

Proprio ora si propongono doveri nuovi, che determinano non solo responsabilità enormi, ma spese enormi, superiori alle forze economiche dell’Italia e a cui si dovrà mancare dopo avere assunto impegni. Si promette tutto ciò che non si può mantenere, e, con ostentata leggerezza, si assumono impegni che si sa fin da ora non saranno mantenuti. Ma agli effetti del pubblico e degli elettori pare vantaggioso promettere. E poi?

Quando esamineremo gli articoli, vi farò vedere quali impegni andiamo a contrarre e quali viceversa sono le nostre possibili risorse, le risorse utilizzabili di questo povero grande Paese, cui la natura ha dato, dal punto di vista della ricchezza naturale, così poco; e che deve vivere soprattutto del suo sforzo e della sua tenace energia di lavoro. E quante istituzioni inutili e costose si propongono e anche tali che nessuno aveva mai sognato!

Non senza meraviglia, come ho detto, ho trovato la proposta della creazione d’una Corte costituzionale. In passato, non mi risulta che ci sia stata mai la preoccupazione della istituzione d’una Corte costituzionale. Come è nato questo fungo?

Dove esiste una Corte costituzionale, come quella che è stata ideata per l’Italia? Si confonde forse con la Corte suprema degli Stati Uniti d’America, con il Tribunale di Lipsia, col Tribunale svizzero di Losanna? E che cosa hanno di comune queste modeste e semplici e normali istituzioni con la strana creazione che si vuole adottare?

Una Corte suprema come quella di cui si parla in questa Costituzione io non l’ho veduta mai, in nessuno dei paesi in cui ho vissuto, in cui ho viaggiato.

Quando ero in America, visitai la Corte suprema con l’amico Guglielmo Marconi, che mi era legatissimo, che mi accompagnava ovunque andavo. (La nostra amicizia così intima finì solo quando egli divenne fascista). Ebbi l’onore di essere invitato dal Presidente della Corte suprema White, che tenne a farmi assistere a una seduta.

Una grande semplicità nelle forme, (in Italia, quando si parla di Corte Suprema, si suppone certo un palazzo più grande del Palazzo di giustizia, qualcosa di solenne, con numero enorme di personaggi e soprattutto di funzionari): lì non c’erano che sette giudici e vestivano tutti molto modestamente (in abito da mattino; tutti avevano aspetto sereno ed erano sotto la presidenza del vecchio White, che dirigeva col martello di legno la discussione).

Di che cosa si occupava quella Corte?

Gli Stati Uniti d’America costituiscono un Paese più grande di tutta l’Europa, tranne la Russia; qualcuno dei 48 Stati, come il Texas, è molto più grande dell’Italia ed anche della Francia e della Spagna, mentre l’Italia rappresenta solo i tre quinti del territorio degli altri due paesi latini.

Tutti i più grandi affari venivano davanti alla Corte suprema; non solo quelli che riguardavano la natura delle leggi, per stabilire se queste violassero la Costituzione, ma tutte le grandi questioni fra i 48 Stati (questioni di acque, di territorio ecc.).

La Corte suprema americana ha una funzione d’importanza senza pari. E da noi che farebbe questa caricatura di Corte costituzionale?

Si deve occupare delle piccole controversie, se non mi sbaglio, per quelle forme locali, le regioni, che sono state ideate e che mi hanno sbalordito per la loro strana e dannosa natura. Queste forme, che dovrebbero sostituire l’ordinamento attuale, si suppone pur da ora che se esistessero sarebbero numerosissime.

Si pensa dunque di sostituire alle attuali prefetture un nuovo ordinamento regionale che abbia carattere elettivo e natura del tutto diversa dall’ordinamento attuale. Queste nuove forme politiche e amministrative della regione possono venire in conflitto fra esse o con lo Stato. In fondo, quale sarebbe l’occupazione abituale di questa Corte Suprema, di cui nessuno sente il bisogno, che non esiste in nessun paese, e di cui nessuno sa le possibilità di esistenza e di sviluppo?

Io dunque vedo in questa nuova istituzione che entra tra le cose vane, non fra le cose dannose, non fra le cose dissolventi, io vedo un danno e una inutile illusione. Non è la Corte suprema che minaccia il disastro come la creazione delle regioni; non mi spaventa, ma ne vedo la inutilità e la grande spesa, l’equivoco e anche la goffaggine;

Una cosa che mi spaventa e che non devo tacere è, devo dirlo, tutto il titolo quinto della legge che riguarda il fatto nuovo, che non è stato mai finora visto né preveduto: quello delle regioni.

Su questo argomento non dirò ora che poche parole soltanto, ma spero di discuterne a fondo quando si discuterà a parte. Spero di poter esaminare parola per parola la parte che riguarda le cosiddette autonomie regionali, a cui si vogliono dare funzioni per cui scomparirebbe tutto quello che rappresenta il passato, e le regioni sarebbero il centro di tutta la vita locale italiana. Io ne ho paura; credo che esse sarebbero il dissolvimento di tutta la vita italiana.

Le regioni quali sono? Come costituite? Quali sono le loro origini? Chi ne ha trovata la ragione di esistenza? Quando ho letto l’elenco di quelle che dovrebbero essere le regioni, ho visto che per spiegarle si sono invocati tutti gli avvenimenti del passato, i Romani, i Sanniti, i Goti, i Normanni e siamo arrivati persino ai Dauni e alle fantasie più inverosimili. Si vuole inventare persino la regione Emiliana Lunense, che sarebbe piuttosto una cosa lunatica. (Si ride).

MICHELI. Lunense, da Luni.

NITTI. Sì, lo so. Ma lei aveva mai sentito parlare nella sua giovane vita di una regione Lunense?

MICHELI. Abbiamo sempre avuto questa aspirazione, giovani e vecchi della mia regione.

NITTI. Io lodo le aspirazioni. Sono utili a tutte le visioni, a tutti i sogni. Ma è proprio il momento di avere delle aspirazioni di questo genere? (Si ride).

MICHELI. Noi le abbiamo anche in questo momento.

NITTI. Credo che perfino la regione Daunia sorta nell’Italia meridionale abbia più fondamento che la regione Lunense.

Io ho fatto una raccolta. Mi hanno spedito una gran mole di documenti per le Regioni istituende. La regione pareva dovesse essere una cosa enorme e adesso vi ci andiamo riducendo a poco a poco. Prima le grandi regioni, poi le provincie che diventano regioni, poi avremo addirittura anche un solo circondario che vorrà diventare regione. Vi sono anche non delle provincie, ma delle zone di provincia che vogliono trasformarsi in regione.

Io vi preparerò un piccolo studio sulla spesa che porta questo cattivo scherzo delle regioni che può dissolvere la vita italiana. Io prevedo come l’unità d’Italia, che ha sofferto tante insidie, dovrebbe dissolversi ancora. Signori, l’Italia non sarà, l’Italia non vivrà, se non sarà unita. Voglio dire all’onorevole Togliatti che gli son grato di avere osato dire che l’Italia deve rimanere unita. Egli è comunista, ma dal punto di vista nazionale ha compreso che non bisogna lanciarsi in un’avventura di cui non possiamo immaginare la gravità. (Applausi).

PICCIONI. È tutto il contrario, semplicemente.

NITTI. In Italia dunque, si è avuta la cattiva idea di dividere il territorio nazionale per regione; la Francia l’ebbe, per un momento, ai tempi di Pétain e di Laval. Non furono i rivoluzionari a pensarci, furono i reazionari. Ma siccome lo spirito pubblico si opponeva, benché per la sua storia la Francia avesse più motivi di noi per avere delle regioni, vi dovette rinunziare. I Tedeschi occupando il territorio francese aiutavano il movimento per la costituzione della regione. La Francia fu contraria e mostrò il suo malcontento e allora Pétain si dovette limitare ad istituire dei prefetti regionali, riunendo due o tre provincie, che conservavano ciascuna la loro Prefettura e il loro prefetto, ma sotto un prefetto regionale: una cosa dunque completamente fatua e inutile.

Delle istituende regioni dobbiamo misurare non solo il danno politico, ma anche il danno economico, perché sarebbero una superstruttura che aumenterebbe enormemente le spese attuali. Su questo argomento, non debbo improvvisare fugacemente, ma ne discuterò largamente e serenamente, perché da questo dipende gran parte della situazione interna. Noi dobbiamo dunque, in questa materia, essere estremamente prudenti. La Francia ha avuto la sapienza di non mutare nulla per quanto riguarda il suo territorio e non ha ammesso su ciò nessuna discussione nella sua Assemblea Costituente. La Francia si è tenuta unita pur nelle sue difficoltà attuali, pur nel Governo dei tre partiti, come il nostro. Essa ha tenuto soprattutto alla sua integrità territoriale. Ora, noi abbiamo già troppo umiliato la nostra struttura territoriale. E non sono stati gli estremisti, ma siamo stati noi stessi dei partiti moderati, quando, con quella funesta separazione della valle d’Aosta, abbiamo dato il primo segno del disfacimento nazionale. Terribile umiliazione voluta da noi stessi: l’onorevole Saragat deve ricordarlo, non era da principio che un prete intrigante e poligamo che ai tempi dell’occupazione militare francese aveva cercato, per servizio ai francesi, di separare la Val d’Aosta. E di là è nata questa delittuosa separazione, perché quando si è data alla Val d’Aosta l’autonomia, come volete che si neghi alla Sicilia, alla Sardegna o ad altre zone italiane messe alla estremità del Continente? È stata aperta la triste serie degli errori, l’èra delle regioni più pazzesche e della disintegrazione.

Ma la Francia, che aveva ben più ragioni di dare delle autonomie, non le ha volute; la Francia ha non solo la Corsica – che pure è di lingua italiana e completamente separata dal continente, e che come isola vive della sua vita – alla quale non ha pensato un momento solo di dare l’autonomia; ma ha anche il Paese dei Baschi, grosso territorio, grossa zona, ricca agricola e industriale, in cui si parla una lingua ignota in Europa, la lingua dei Baschi, di origine ignota anche ai filologi. Questo paese dei Baschi ha dato molti tra i più grandi personaggi francesi e i più grandi capi militari, tra cui il Maresciallo Foch. Persino Barrère, che per tanti anni a Roma si è occupato (anche troppo) di politica italiana, era un Basco. Ebbene, se un paese poteva avere, secondo questi concetti, l’autonomia, era il paese dei Baschi. La Francia, per non rompere la sua unione, profonda unione unitaria, non l’ha voluto. È nessun partito francese l’ha chiesta. State sicuri che se noi stessi che facciamo politica non avessimo creato questo movimento, basato sull’equivoco e sull’errore, nessuno si sarebbe affrettato a chiedere autonomie. Noi discuteremo pacatamente di queste autonomie, perché riguardano la vita stessa dell’Italia.

Ma, signori, la Francia (di cui so tutti gli errori, tra cui quelli commessi verso di noi) ha un senso politico che spesso a noi manca. Io amo molto la Francia, benché spesso abbia combattuto il suo nazionalismo. Oltre metà della mia famiglia è francese per le vicende dolorose dell’esilio; io ho i miei amici più intimi – o molti di essi – in Francia. Ero stato in Francia trentacinque volte prima di andarvi per venti anni, in esilio. Io amo la Francia come il mio Paese; ma la Francia si è regolata molto male verso di noi ed ha rovinato il nostro confine occidentale dal punto di vista politico della difesa nazionale ancora più che dall’altra parte sia stato rovinato dalla violenza dei nemici il confine orientale. La Francia ha la colpa di aver seguito alcuni movimenti che non doveva, nel suo stesso interesse, seguire; è la Francia che ha tutto l’interesse ad essere unita con l’Italia. L’Italia che è un povero paese (non è che tre quinti del territorio della Francia, e assai meno della metà del territorio agrario), l’Italia che è povera, l’Italia che ha fatto la sua industria con uno sforzo tenace, l’Italia nella sua modestia, nella sua povertà è paese meraviglioso che ha creato l’industria senza i due diamanti neri della produzione: il ferro e il carbone. L’Italia ha creato la sua vita economica senza risorse. La Francia ha tutto, è il paese di Europa naturalmente più ricco, molto più della stessa Inghilterra, molto più della Germania, che all’infuori del carbone, delle ricchezze minerarie, è ben lontana dall’avere quanto ha la Francia.

La Francia ha interesse di fare l’unione con l’Italia, ed è soltanto da questo paese nostro che può ricevere, nella sua decadenza demografica, quei quattro o cinque milioni di uomini che sono necessari alla sua ricostruzione. Gl’italiani però non debbono andare in Francia come poveri emigranti, soggetti a tutti gli arbitri di ogni piccolo funzionario di polizia, ma debbono andare come ospiti desiderati, e debbono poter diventare in breve tempo cittadini francesi, nell’interesse stesso dell’Italia e della Francia. Non ospiti provvisori e considerati con diffidenza, ma cittadini francesi.

Ora, la Francia ha dei grandi torti verso di noi e noi abbiamo dei grandi torti verso di essa. Questa generale confessione dei torti è necessaria per la vera unione. Comunque, la Francia ha dato in questi ultimi tempi saggio di moderazione e speriamo dia prova di grande comprensione.

L’Italia ha perduto la guerra, ma la verità è che l’ha perduta anche la Francia, e soltanto per l’abilità politica dei suoi Capi, per l’energia di alcuni suoi uomini e per la volontà popolare, la Francia ha preso l’atteggiamento di paese vincitore, ma la Francia è stata vinta come noi e più di noi.

Non esiste in Europa nessun paese che abbia avuto come la Francia un così enorme numero di prigionieri in proporzioni senza precedenti. Non è stata una disfatta, ma uno sciopero militare, dovuto non a mancanza di spirito guerriero, ma ad un complesso di cause di ordine sociale e politico.

La Francia ne ha avuto un crudo dolore, perché essa è il più grande paese guerriero dell’Europa e con le più grandi tradizioni e ha dovuto subire una disfatta tale che nessuno poteva prevedere.

La Francia è paese dei più strani contrasti, che passa da un eccesso ad un altro, che prima ha inventato i Templari e poi li ha uccisi, che prima è stata la figliuola diletta della Chiesa, e poi si è messa contro la Chiesa.

La Francia è stata sempre inquieta e mutevole, e da questo deriva anche la sua azione spesso contradittoria, ma sempre tale da agire con il suo esempio sugli altri paesi.

La Francia, in questo momento, ci ha dato un insegnamento grande. Ha evitato, nel fare la nuova Costituzione (che non è del tutto felice, ma che rappresenta uno sforzo ammirevole), o almeno ha cercato di evitare le questioni più difficili e che avrebbero troppo a lungo divisi gli animi. Le sue divisioni interne, sono aspre soprattutto nel campo economico. Cattolici, socialisti, comunisti sono profondamente divisi e quindi, volendo coabitare nel governo, sono inefficienti. Ma evitano per quanto è possibile tutti i contrasti fuori del campo economico. Noi pretendiamo discutere e regolare anche le cose più pericolose e di difficile definizione. Quali saranno i rapporti nostri non solo nell’ordine sociale ed economico, ma anche nell’ordine religioso? Quali saranno i nostri atteggiamenti nella vita sociale?

In materia difficile la Francia ha trovato formule concilianti nella sua Costituzione.

La Francia, dopo le vicende del processo Dreyfus, è stata in lotta per molti anni con la Chiesa. Questa figliuola diletta della Chiesa, la Francia, sempre ribelle nei suoi atteggiamenti, ha avuto un lungo periodo di battaglie, in cui vi è stata la separazione della Chiesa dallo Stato. La separazione non ha rovinata, come si credeva, la Chiesa; le ha dato maggiore dignità e prestigio. Il clero francese è forse ora il clero più intelligente e più colto d’Europa. Io andavo a Parigi spesso nelle librerie cattoliche per vedere le loro pubblicazioni, non solo di ordina religioso, ma di ordine economico, giuridico, storico, ed avevo modo di constatare l’intelligenza e la dottrina di quel clero che, nel suo complesso, ha una più grande combattività di quello degli altri paesi. Ora, in Francia una cosa mi ha sorpreso in questi avvenimenti, ed è come sono state risolute nella Costituzione questioni spinose e che parevano insolubili. La Chiesa è in una completa separazione dallo Stato. Il clero ha dovuto finora vivere delle sue risorse, la Chiesa e i luoghi di culto e le istituzioni locali e religiose sono stati mantenuti dai fedeli.

La Francia ha il divorzio e la sua legislazione è impregnata di spirito laico. Dopo le elezioni i cattolici sono arrivati in gran numero alla Camera francese; tutti si aspettavano che cosa avrebbero fatto; se avessero voluto modificare la situazione e in quale misura avrebbero, con abili compromessi, potuto modificarla. Ma, di fronte alle cose che più turbano la Chiesa, come il divorzio, il clero non riceve aiuti dallo Stato. Ora, dunque, tutti si attendevamo che cosa avrebbero fatto i cattolici. Ebbene, la Francia ha risolto le cose nella forma più semplice. L’articolo primo della nuova Costituzione francese in poche parole riassume la situazione.

Questo è il foglio che fu dato a tutti gli elettori per votare per il referendum: l’articolo primo dice così:

«La France est une République indivisible, laique, démocratique et sociale» Dunque, il clero francese, con un senso di saggezza, riservandosi di risolvere le questioni più spinose del tempo, di risolverle con prudenza ed efficacia, per via di legge, ha riconosciuto in questo documento che la Francia è una repubblica indivisibile; dunque niente spezzettamento del territorio. La Francia non vuole le autonomie locali che possono dividere il territorio francese. Dunque, la Francia è non solo indivisibile, ma laica e democratica e sociale.

Ebbene, signori, con questo rigo soltanto i Francesi hanno definito una situazione difficile e l’han risoluta con abilità e prudenza. I cattolici hanno dato prova di saggezza ed hanno osato non volere nella Costituzione cose che non si potevano eliminare senza mettere in pericolo la pace sociale.

Che sarà in avvenire? Nessuno di noi sa; nessuno di noi può prevedere l’avvenire. La Francia deve risolvere il problema angosciante della sua popolazione: presenta il fenomeno terribile ed unico in Europa fra i grandi paesi, di una popolazione in cui le nascite diminuiscono e le morti aumentano. La Francia, che ha problemi difficili da risolvere, ha cercato di non complicarli ulteriormente. Ha avuto saggezza e l’hanno avuta soprattutto i cattolici.

E noi, cosa faremo? Potremo noi sorpassare questa ondata di malessere? Quando vedo gli impegni che assumiamo (vi leggerò le cifre della situazione, non oggi, ma quando parleremo su ognuno di questi punti) sono preso da tristezza. Vi citerò queste cifre senza alcun riguardo per le impressioni che potranno produrre. E perché dobbiamo aggiungere minacce di pericoli e danni come le cosiddette autonomie locali? I Francesi non le han forse respinte senza esitare? Una sola cosa devo aggiungere ed è che queste autonomie locali io le considero come la peggiore minaccia nell’ora presente. Dannose a tutti, sarebbero disastrose per l’Italia meridionale. Io ho l’impressione che, dividendosi le regioni, la situazione non solo non migliorerà, ma peggiorerà rapidamente. Il giorno in cui l’Italia fosse divisa, l’Italia meridionale sprofonderebbe ancora più in basso.

Una voce a destra. Nessuno la vuole dividere!

NITTI. Quando io pubblicai circa quarantacinque anni or sono la mia opera Nord e Sud che divise, allora, l’animo degli italiani, non avevo uno scopo di divisione, ma uno scopo di ricostruzione, affermavo solennemente, e con passione di fede, che bisogna sempre a ogni costo rimanere uniti.

È venuto poco tempo fa dall’America l’onorevole La Guardia, mio vecchio amico da venticinque anni, uomo di solido buon senso, non un dottrinario, ma persona di larghissime conoscenze pratiche e di solida competenza. In questo stesso palazzo, da uomo onesto, ci ha dato degli avvertimenti di cui dovremmo tener conto. Nessuno più di lui poteva meglio darli. La Guardia per le sue grandi attitudini e, cosa anche più ammirabile, per la sua grandissima onestà, è stato il sindaco di New York più volte rieletto e che ha più lungamente durato. New York è la più grande città del mondo. Essa sola ha due volte più abitanti e assai più che due volte di tutta la Sicilia. Ha bilancio superiore di molto a quello di tutta l’Italia e i poteri del sindaco sono immensi. La Guardia, che è figlio di padre italiano e meridionale, può bene comprenderci e ha tutta l’autorità per darci consiglio, come ci ha dato aiuto.

Il primo avvertimento che La Guardia ci ha dato è stato questo: signori, rimanete uniti, non cercate nemmeno con troppa fiducia i vostri compratori all’estero; prima di cercarli all’estero, cercateli nell’Italia stessa. Voi siete il vostro migliore mercato. Non vi illudete che le situazioni attuali create dalla guerra dureranno. Noi non compreremo più, dopo qualche tempo, molti vostri prodotti, nemmeno forse gli agrumi, nemmeno le cose che voi credete più facili da esportare. La situazione cambierà.

Persino gli agrumi, egli ha detto, noi li produrremo in abbondanza da noi, non abbiamo bisogno dei vostri.

Io vedo che in Sicilia (mi perdoneranno i miei amici siciliani di dire tutta la verità) vi è in alcuni, fortunatamente non in molti, l’illusione che l’isola distaccandosi economicamente starebbe meglio.

No, signori, starebbe assai peggio. La Sicilia sarebbe sterminata.

Io ho fatto un conto che non ho difficoltà di esporvi oggi solo in modo sommario. Ma continueremo a fare su questa via in un esame accurato e sereno. Voi sapete qual è la situazione della Sicilia? Si crede in Sicilia e nei paesi del Sud, che le regioni meridionali diano molto allo Stato, e ne ricevano poco. Lo Stato spenderebbe per loro meno di quanto riceve. Non è vero. Ciò era vero quando io scrissi 45 anni fa Nord e Sud. Ora la situazione è mutata. Se esaminate la situazione attuale, voi avrete la strana sorpresa di vedere che ormai in Sicilia lo Stato italiano, negli ultimi 6 mesi dell’anno scorso, luglio-dicembre, ha incassato 4.800 milioni ed ha speso 8 miliardi; che in Calabria ha incassato 1.240 milioni ed ha speso 2.162 milioni; che in Campania ha incassato 7.200 milioni ed ha speso 11.650 milioni; che in Toscana ha incassato 6.800 milioni ed ha speso 8.255 milioni.

Una voce al centro. Ci dia i dati dell’Alta Italia, quelli della Lombardia.

PRESIDENTE. A dei numeri si contrappongono dei numeri, non delle parole. Prosegua, onorevole Nitti.

NITTI. Ora, vi volevo dire soltanto che laddove più si grida, le cose che si dicono non sono vere, perché il rapporto che io feci 45 anni fa, ora è mutato. I paesi meridionali e la Sicilia hanno diritto ad una grande considerazione. Ma questa deve essere nota di realtà. L’Italia meridionale ha funzionato per molto tempo come una colonia di consumo, ha reso possibile e pagato con il suo sacrificio il protezionismo industriale che ha creato e reso vitale e solida l’industria nell’Italia del Nord.

Non per sua colpa il Mezzogiorno non ha potuto svilupparsi allo stesso modo. Ora invece la realtà è che noi non potremo fare la nostra trasformazione se non resteremo uniti. Quando si dice che i paesi meridionali, essendo produttori di merci che non costituiscono materia di concorrenza estera, staranno molto meglio allorché potranno vivere isolatamente, si dice cosa non vera. Io vi do una sola cifra che vi dice la situazione attuale. Nel bollettino del Banco di Sicilia avrete letto facilmente una cifra che è impressionante: nei primi nove mesi del 1946 le esportazioni dalla Sicilia in valore sono state verso l’estero di quattro miliardi e verso l’Italia di 16 miliardi e mezzo. Noi siamo il nostro mercato migliore e più grande.

Ora dunque noi dobbiamo essere uniti in tutto, e soprattutto nelle ore difficili. La Guardia ha detto: «Voi dovete essere prima di tutto vostri compratori». (Io vi parlo della Sicilia, ma altrove le cose sono anche più gravi. Quando vi parlo della Sicilia vi dico una cosa che posso estendere alle altre regioni). Noi dobbiamo basarci sulla realtà. La Sicilia, come l’Italia meridionale, tutta, non può distaccarsi, e l’Italia del Nord non può distaccarsi da noi senza a sua volta decadere e perire.

PICCIONI. Ma questo è un problema inesistente; perché nessuno pensa di distaccarle. (Commenti). È un problema immaginario.

NITTI. Io so che cosa significa autonomia e so che cosa significa separazione. Ma le autonomie come sono state concepite non solo portano al disordine interno, alla dissipazione, al rovesciamento di ogni ordine finanziario, ma a volte portano necessariamente alla divisione politica e, o prima o dopo, al separatismo. (Vivi applausi).

PICCIONI. Dimostreremo il contrario.

CONTI. Questa è la sua opinione. Vi sono altre opinioni autorevoli. (Commenti).

NITTI. Queste cose si discutono tecnicamente e con serenità di spirito. (Vivi applausi).

Signori, io avrei ancora troppe cose da dire. Se qualcuno troppo irrequieto dubita, io potrò dirgli come disse frate Tommaso Campanella al suo inquisitore: «Io ho consumato più olio della mia lampada a studiare che tu ne hai consumato di vino».

Io ho il diritto di parlare perché quello che dico è il risultato di lunghi studi e di sincera passione. Io ho una fede che sovrasta ogni altra passione: l’Italia. Signori, noi siamo tutti in pericolo, non vi illudete. Vi esporrò le cifre della situazione attuale. Noi abbiamo il torto di don voler vedere la realtà, che è preoccupante non a lunga distanza ma anche a brevissima: situazione industriale, situazione finanziaria, situazione economica, tutto è incerto e traballa. Noi produciamo già a costi troppo elevati. Che cosa sarà domani? Al risveglio di molte industrie, e soprattutto di alcune categorie di industrie, vediamo le nuvole che si addensano sull’avvenire. Dobbiamo affrontare con serietà e coraggio i problemi essenziali della nostra esistenza.

Altre volte ho detto in quest’aula che noi di ogni parte politica e di ogni ceto sociale siamo legati allo stesso destino, noi e i nostri avversari. Ci salveremo tutti, o periremo tutti. Ma per salvarci occorre una fede comune. Questa fede non può essere che l’Italia. Troppo la fazione è prevalsa, troppo prevale lo spirito di parte. A noi, divisi da ideali, e da interessi opposti, ma uniti dal pericolo comune, occorre riunire nello sforzo comune tutte le nostre energie.

Non voglio parlare un linguaggio che possa sembrare di vanità, né posso darmi il lusso di esporre alcuna idea di costruzione per l’avvenire. Questa discussione, nel mio concetto, dev’essere fatta, se non ora, appena sarà possibile, deve essere profondamente realista, ma avere di mira il grande ideale della resurrezione del Paese. Le forme politiche costituzionali che adotteremo dovranno essere non quelle che possano dissolvere, ma quelle che possano concorrere all’unione nazionale ed al rinnovamento della vita economica.

Permettete ora che aggiunga soltanto che tutto ciò che ho dettoò è poca cosa, ma che tutto ciò che vi dirò – e spero assai più efficace – è il frutto di una convinzione maturata da tanti anni di osservazioni e di studio, in cui non ho avuto presente che l’avvenire del mio Paese e non ho pensato mai come non penso mai, a me. Io so come si possa giungere alla concezione di una resurrezione dell’Italia, anche attraverso il sacrificio ed il dolore, e spero che la mia opera non sarà vana, in questo momento di preoccupazione e di ansia. Non posso chiudere le mie parole che auspicando un’Italia che risorga in un sacrificio comune ed in una volontà tenace di resurrezione. (Applausi vivissimi Congratulazioni).

(La seduta, sospesa alle 18,15, è ripresa alle 18,40).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Damiani. Ne ha facoltà.

DAMIANI. Confesso che sento un certo imbarazzo a prendere la parola dopo l’onorevole Nitti. Il suo discorso, così alto per dottrina e fede, è una grande luce, e dopo questa luce è logico che si debba vedere dell’ombra.

Ma dal nuovo spirito democratico che anima l’Italia trarrò il conforto necessario per compiere il mio dovere. Noi abbiamo una grande guida che è la voce della nostra coscienza, la quale voce non è certo opera nostra; È un mistero che cosa essa sia, è un mistero che cosa sia il nostro pensiero, e che cosa sia il nostro spirito. Sono questi, problemi che hanno affannato tutte le menti da secoli e secoli e ancora nessuno è riuscito a definirli. Ma, in ogni modo, il pensiero è una realtà, come è una realtà la voce della coscienza, e possiamo credere – e chi crede in Dio sente che così è – che questa voce della coscienza è anche, o forse è solo, la voce, di Dio, in quanto che essa ci fa sentire il giusto e l’ingiusto, il bene e il, male, ci fa sentire ciò che dobbiamo e non dobbiamo fare, ci fa provare piacere quando facciamo un’opera buona e dolore quando abbiamo compiuto un atto non degno di noi.

Noi, rappresentanti del popolo, abbiamo oggi un sacrosanto dovere: quello di operare e lavorare intensamente perché il popolo possa tenere quella Carta fondamentale da cui l’Italia, e forse anche il mondo, aspettano il trionfo della vera democrazia; di quella democrazia che è libero orientamento delle coscienze, che è tutela delle libertà fondamentali di pensiero, di parola, di associazione e di religione, che instilla nell’animo un senso di fraternità universale, di carità verso i bisognosi, di pietà anche verso i colpevoli.

Ed oggi noi ci troviamo di fronte a questo grande fenomeno storico del trionfo del principio della democrazia; e sentiamo così forte questo principio che esso pervade la nostra anima, e illumina la strada che dobbiamo percorrere, dopo l’oscuro e lunghissimo periodo di soffocamento subìto.

Oggi si respira aria pura.

Ebbene, quest’aria pura, che la democrazia ha fatto nascere, bisogna che si mantenga tale.

II problema nostro è di rafforzare la democrazia, di evitare qualsiasi coercizione per il futuro, di fare maturare nel popolo il senso democratico ed il senso della libertà.

Ora, il progetto di Costituzione, che noi esaminiamo, è un progetto complesso ed è frutto d’un lavoro appassionato e fervido.

Quando si parla da questo posto, non si parla solo agli onorevoli colleghi, ma anche a tutto il popolo italiano, e quindi si possono dire cose che potrebbero essere considerate superflue dai colleghi, ma non lo sono per il popolo.

Il popolo non sa; il popolo ha visto questa Assemblea chiusa per tanto tempo; sapeva che c’era una Commissione dei 75, che lavorava alacremente, ma non vedeva nulla; soltanto un accenno ogni tanto sui giornali.

Oggi sa che questo progetto viene qui analizzato punto per punto e che qui si lavora e si critica secondo la propria coscienza per fare il bene del popolo, perché questo è il nostro principale scopo.

L’onorevole Nitti ha detto che i vinti devono sempre rivedere le proprie Costituzioni, le devono cambiare, mentre i vincitori non cambiano nulla e godono il frutto della loro vittoria. Ebbene, io dico che era necessario un cambiamento ed è bene che questo cambiamento sia avvenuto, nonostante la grande disgrazia che ci ha colpiti, nonostante l’alto prezzo che l’Italia ha dovuto pagare.

Purtroppo niente si conquista senza sacrificio, senza lotta, senza dolori, lutti, sciagure, sangue di martiri. I martiri della libertà sono sempre esistiti e noi ne abbiamo avuti tanti, e il loro ricordo ci commuove, e deve sempre essere nel nostro cuore.

L’onorevole Calamandrei disse che l’opera nostra è poca cosa di fronte ai loro sacrifici.

Adempiamola, quest’opera, con illimitato spirito di dedizione. Questo progetto, come è logico – e bisogna dirlo francamente al popolo – non può essere un’opera perfetta, perché nessun uomo e nessun raggruppamento di uomini, anche i più dotti, può riuscire a fare una cosa perfetta, purtroppo. È uno dei tanti progetti che era possibile fare; inquantoché la vita, sia singola che collettiva, se la vogliamo definire con linguaggio matematico, è una funzione complessa di infinite variabili. Quindi, quanti sono gli elementi che mutano, che variano, che interferiscono, che si avvicendano, che convergono, che si allontanano dal centro di determinate questioni, dal nucleo della macchina che noi vogliamo costruire! E allora, considerati tutti gli elementi che hanno concorso a determinare questo fatto, l’opera deve risentire necessariamente di qualche disarmonia, di qualche stonatura. Occorre però sempre tendere a possedere la visione panoramica del tutto, in ogni lavoro, e cercare di percepire i rapporti esistenti fra le parti e il tutto e fra le parti tra loro.

Dobbiamo tener presente che i problemi di costruzione sono problemi di armonia, di economia e di logica. Bisogna costruire con la minore spesa possibile, con il minor numero di elementi costosi. E il costruire è anche un problema di bellezza, perché il bello nasce appunto dalla felice armonia degli elementi componenti un tutto.

Questo hanno cercato di fare i settantacinque che hanno lavorato con passione e con la preoccupazione costante di fare una costruzione solida. Ciò è appunto il fatto pregevole e positivo che deve essere messo in evidenza perché il popolo lo sappia. Enormi sono state le difficoltà che dovevano essere superate ed enormi quelle che dovranno esserlo ancora; in quantoché noi vogliamo regolare la vita del nostro paese non per dieci o venti anni, ma per un lunghissimo periodo, non diciamo per sempre. E allora è un problema veramente formidabile questo di stabilire le linee direttive generali che debbono costituire non solo la struttura dell’edificio nazionale, ma anche la funzionalità, proiettata nel futuro, degli elementi strutturali. Noi vogliamo creare un dinamismo statale che dia al popolo tutte le maggiori soddisfazioni possibili, e perciò una Costituzione in cui esso possa vedersi riflesso, rivelato, interpretato e tutelato.

Cittadino e Stato: ecco i grandi termini del problema. Il cittadino deve avere la certezza di poter esercitare dei reali diritti. Donde la necessità di determinare quali siano i diritti e i doveri fondamentali del cittadino, e quindi quali debbono essere le caratteristiche dello Stato perché quei diritti e doveri possano essere esercitati secondo determinate norme di giustizia, di libertà e di concordia.

Sono problemi fondamentali e formidabili. Ora, questa visione panoramica delle ragioni determinanti il lavoro porta alla seguente considerazione: quali erano le forze che lavoravano per la determinazione di questo progetto? Erano i rappresentanti dei partiti di massa, cioè quelli aventi il maggior peso nella vita politica. Quindi si può dire che questo progetto è la media ponderata dei partiti. Così doveva essere, né poteva essere diversamente.

Quindi ecco che questi articoli, che dovremo perfezionare, sono in fondo medie ponderate. Per fare queste inedie ponderate, si è commesso, naturalmente, qualche errore. L’Assemblea deve eliminarli; ognuno porterà il proprio contributo, secondo le proprie attitudini, capacità, ed esperienza. Ma principalmente si deve lavorare con fede, con passione, con animo sereno. Ognuno deve dire, senza alcun timore, quel che urge nella sua coscienza. La verità che si vuole esprimere può essere spiacevole per alcuni, può essere indifferente per altri, ma non ci si deve preoccupare di criticare questo progetto per far piacere a Tizio o dispiacere a Caio. Si deve giudicare spassionatamente, secondo il proprio animo, e quello che si dirà si ripercuoterà nel Paese, creerà dei centri di risonanza e chiamerà il popolo a partecipare al lavoro di perfezionamento.

Ora, esaminando i primi articoli del progetto, incontriamo subito un articolo di una importanza enorme e fondamentale, che caratterizza veramente la nuova epoca storica che si è iniziata. È un articolo che fa onore alla Costituzione italiana, al popolo italiano, e alla Commissione dei 75, che ha dimostrato una grande sensibilità politica, storica e morale. Con detto articolo il popolo italiano dimostra d’essere all’avanguardia dei popoli che lavorano per l’organizzazione di una pace internazionale. L’articolo 4 che afferma: «L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista», dice una cosa veramente solenne. La guerra, questa follia, questo crimine che sempre ha perseguitato nei secoli l’numanità, perché l’umanità è stata sempre lontana, ed è ancora lontana, da quella forma di civiltà che sia veramente degna dello spirito umano, noi vogliamo eliminarla per sempre, e quindi rinunziamo a questi mezzi di conquista, perché riconosciamo che tutti i contrasti, che qualsiasi contrasto, per quanto grave, per quanto aspro, può sempre essere risolto col ragionamento, poiché il ragionamento – dobbiamo riconoscerlo – rappresenta l’arma più poderosa dell’uomo.

Noi rinunziamo alla guerra; non vogliamo più sentirne parlare. Vogliamo lavorare pacificamente; non vogliamo più la violenza. E quest’odio alla violenza, questo odio alla guerra sarà appunto l’orientamento nuovo del popolo. Ci può essere il pugno nell’occhio; ma il pugno nell’occhio non fa onore a chi lo dà; e chi lo riceve potrà difendersi: allora è legittima la sua difesa. Però dobbiamo sostenere sempre la negazione dell’atto di violenza, bisogna sentire la ripugnanza più acuta per l’atto di violenza. E questo è il compito della nostra scuola: educare gli uomini alla concordia, facendo nascere e fiorire nel loro animo l’odio per qualsiasi forma di sopraffazione. Nelle scuole militari tedesche vi era prima di ogni altra cosa la cultura militare e s’insegnava che bisognava trovare tutti i mezzi per distruggere il nemico, per conquistare sempre nuovi territori. Ma lasciamo stare queste scemenze, che sono veramente indegne di un nuovo mondo civile.

Educhiamo nella scuola i giovani con l’amore per la vera cultura, per la scienza, per l’arte, per la tecnica del lavoro.

All’articolo 4 si dice anche che «l’Italia consente, a condizione di reciprocità e di uguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad una organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia fra i popoli».

Potrà effettuarsi subito questa organizzazione? Non si vedono i lineamenti, nel momento presente, di questa determinazione, come fatto immediato, ma si può essere certi che questa organizzazione internazionale avverrà, perché è logica, perché è nella logica delle cose, perché è nella evoluzione naturale degli eventi, perché o il mondo si organizza in modo da essere retto da un Governo mondiale o il mondo andrà incontro alla distruzione, in quanto, se ci sarà una nuova guerra mondiale, questa si farà con le terribili armi che purtroppo la scienza ha creato in questi ultimi tempi e che non ammettono difesa alcuna.

Noi dunque questa luminosa aspirazione l’abbiamo accolta, l’abbiamo interpretata, e l’abbiamo sintetizzata in un articolo e posta qui nella Costituzione come una gemma preziosa di questa legge fondamentale. È il fatto potenziale della nuova storia; Iddio voglia che presto diventi un fatto attuale.

L’articolo 5 tratta della materia religiosa, materia difficile a trattarsi, perché rappresenta un problema veramente complesso. Questo articolo 5 viene poi seguito dall’articolo 14 e questi articoli debbono ispirarsi ad un grande principio, che è quello della libertà di religione.

Ebbene, noi, credenti o non credenti, dobbiamo dire quello che sentiamo e quello che è logico che si senta. Secondo me, è giusto che in questo progetto non si debba parlare dei Patti Lateranensi, perché questi rappresentano un accordo fra lo Stato italiano e lo Stato del Vaticano, ed in ogni Costituzione mi pare che non siano stati mai inseriti accordi internazionali. Lo Stato italiano e lo Stato del Vaticano sono due Stati, che si accorderanno, ma in un rapporto che deve essere esterno alla Costituzione, che non deve influire sulla stessa. Quindi io non voglio criticare – me ne guarderei bene – il problema a fondo; mi limito, al riguardo, a questo solo rilievo, e dico, con tutta franchezza, la mia opinione, come è mio dovere di rappresentante del popolo. Devo parlare non per fare piacere a qualcuno, ma per dire semplicemente quello che penso. Quindi, libertà di religione, sostengo; quindi, rivediamo il problema, in modo che la libertà di religione possa finalmente affermarsi.

Questa libertà fa parte delle grandi libertà, di quelle quattro libertà basilari della Carta atlantica che sorse in un momento tragico della vita del mondo. La storia stessa, in convulsione, suggerì questa Carta e queste quattro libertà furono promesse al mondo: libertà di religione, libertà di parola, libertà dal timore, libertà dal bisogno.

L’articolo 4 rappresenta, realizza, si conforma al principio della libertà dal timore e l’articolo 5 deve conformarsi alla libertà di religione.

Gli articoli 13 e 16 io li scorro rapidamente per dire quello che rilevo in un primo momento…

PRESIDENTE. Onorevole Damiani, sarebbe forse più opportuno se questo esame particolare degli articoli lei lo facesse quando lo faremo tutti insieme.

DAMIANI. Tutti gli oratori che mi hanno preceduto hanno fatto delle osservazioni sui vari articoli. Mi permetto, quindi, di fare anch’io alcune osservazioni perché, in una discussione generale, in una trattazione panoramica, noi dobbiamo dire le nostre prime impressioni. Quindi, sono semplicemente impressioni. Correrò più rapidamente degli altri e cercherò di arrivare presto alla fine: esaminerò rapidamente pochissimi articoli.

Gli articoli. 13 e 16 riguardano la libertà di associazione e la libertà di stampa. Benissimo. Mi permetto semplicemente di dire che la libertà di stampa deve essere poi seguita da una legislazione ordinaria, la quale inquadri questa libertà, in modo tale da far diventare la stampa la funzione più importante, o, per lo meno, una delle preminenti della vita civile della società.

La stampa esercita una funzione importantissima: essa educa il popolo, dà idee al popolo, crea stati d’animo, sentimenti, opinioni e quindi deve essere retta da persone probe e incorrotte, che abbiano un alto senso di responsabilità, un alto senso del dovere e non si azzardino con la massima leggerezza a calunniare, per distruggere con la calunnia la personalità di cittadini onesti. La dignità della persona umana esige questa grande tutela, e un grande senso di responsabilità negli uomini preposti all’esercizio di questa nobile attività della stampa.

Quindi, la legislazione ordinaria deve far sì che la stampa, pane quotidiano dello spirito del popolo, nutrisca lo spirito, ma non lo avveleni.

L’articolo 20, relativo alla non retroattività della legge, afferma un principio che costituisce un altro pregio di questo progetto, che dobbiamo rilevare e far presente al popolo, in quanto che, purtroppo, nel ventennio passato molti hanno sofferto per la violazione di detto principio.

Articolo 21: «L’imputato non è considerato colpevole fino alla condanna definitiva».

È importantissimo anche questo; però io sarei del parere di togliere la qualifica di imputato, essa non dovrebbe essere usata se non dopo accertata la responsabilità. Basta una querela per essere registrato come imputato.

Una voce a destra. Come si dovrebbe chiamare allora, reo?, In tutti i trattati viene chiamato imputato.

DAMIANI. La parola imputato menoma la dignità della persona e non si deve ammettere nessuna menomazione, al riguardo, finché non è accertata la colpa.

PRESIDENTE. Onorevole Damiani, non raccolga le interruzioni.

DAMIANI. Io esprimo la mia opinione. Proseguo.

«Non è ammessa la pena di morte». Questa è una affermazione nobilissima, che esprime l’altezza della nostra civiltà.

La vita è sacra e nessuno può avere il diritto di spegnerla: nemmeno lo Stato. Anzi lo Stato, affermando il rispetto incondizionato di essa, indurrà tutti a rispettarla maggiormente e ad onorarla.

L’onorevole Calamandrei ha portato degli articoli relativi all’assistenza sanitaria, scolastica e sociale, ed ha esclamato: «Quante promesse fa questo Stato, che poi non è in condizione di poterle mantenere! Quindi è bene non farle».

No, è bene farle, perché se lo Stato non è in condizione di mantenerle ora, le manterrà in futuro. L’attuale periodo di carenza dovrà finire; passerà il rachitismo e verrà la floridezza. Per questo lottiamo. Se dovessimo pensare a vivere sempre in uno stato di disagio, la disperazione paralizzerebbe tutte le nostre energie.

Quindi lo Stato può basarsi anche su norme che pensa di applicare in avvenire.

E poi vi sarà la grande economia delle spese militari; sono miliardi che vanno al popolo e vanno per l’assistenza. Non si faranno più cannoni e bombe e nemmeno quelle atomiche e si utilizzerà questo denaro per le provvidenze necessarie. Con una corazzata che si risparmia, quanti derelitti possono essere sollevati dalla miseria! E se tutti quei miliardi che si sono buttati per conquiste varie, si fossero spesi per l’assistenza sociale e per l’agricoltura, l’Italia sarebbe un giardino. (Applausi).

Quanti comuni sono ancora senza luce, senza acqua e senza strade e con un servizio postale ridottissimo: è veramente doloroso, oltre che vergognoso…

PRESIDENTE. Onorevole Damiani, la prego di stare all’argomento.

DAMIANI. Mi sembra di starvi. Metto in rilievo i pregi del progetto.

«La Repubblica, è detto nell’articolo 30, provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro».

Va benissimo, il lavoro deve essere tutelato, certamente. Articolo 31: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività ed una funzione, che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Questi due articoli vorrei metterli in confronto con l’articolo 36, che dice: «Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero».

Ora, sempre per quella franchezza che ogni deputato deve avere, io dico la mia opinione: l’articolo 30 stabilisce la tutela del lavoro, quindi lo Stato tutela i lavoratori. L’articolo 36 dice che tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero e quindi di tutelare, da se stessi, il proprio diritto. Ed allora se da una parte lo Stato dice al lavoratore: «io tutelo i tuoi diritti»; e d’altra parte gli dice: «nel caso che non riuscissi a tutelarli, sciopera e provvedi tu»; mi pare che lo Stato si contraddica o presupponga e confessi la sua debolezza. Quindi il diritto di sciopero non lo metterei come diritto fondamentale, ma lo tratterei nella legislazione ordinaria. È questa una parte che va riesaminata con cura.

Bisogna poi definire un po’ anche la posizione di chi vive di rendita. Chi vive di rendita non esercita una attività, non esercita nemmeno una funzione, a meno che non si voglia intenderlo come amministratore dei propri beni. Però bisognerà pure pronunciarsi su queste precisazioni, per evitare definizioni generiche che possano generare gravi incertezze.

Articoli 53 e 57. Il primo dice: «La Camera dei Deputati è eletta a suffragio universale e diretto in ragione di un deputato per 80.000 abitanti o per frazione superiore a 40.000». L’articolo 57 dice: «Il numero dei membri da eleggere per ciascuna Camera è stabilito con legge in base all’ultimo censimento generale della popolazione».

Sono articoli che vanno benissimo; però io mi permetterei, e ne chiedo il permesso al signor Presidente, di fare una piccola osservazione fuori tema. Le Camere saranno elette in base al censimento del 1936. Dal 1936 al 1947 sono passati 11 anni, fra cui cinque anni di convulsioni sociali: anagrafi sconvolte dai bombardamenti, dagli abusi e dai falsi, esodi di popolazioni, lavori disordinati. Ciò ha gravemente perturbato tutto. Quindi quali sono i dati che ci serviranno per le elezioni di queste Camere? Saranno dati decrepiti, e noi formeremo due Camere nuove coi dati del 1936. Mi pare che si potrebbe fare questa spesa importantissima e fondamentalissima, la quale permetterebbe di rimettere a sesto le anagrafi, e di eliminare tutti gli abusi e i falsi, specialmente nel campo del tesseramento annonario, ecc., e di formare le Camere future su basi corrispondenti alla realtà di oggi e non alla realtà del 1936, che non è più una realtà, ma un sogno angoscioso.

L’onorevole Presidente del Consiglio disse, nella seduta del 25 febbraio, dopo aver letto il mio «ordine del giorno» sulla necessità di un nuovo censimento: «Accetto l’ordine del giorno dell’onorevole Damiani, perché ne riconosco l’importanza, ma devo fare i conti con il Ministro del tesoro».

Ebbene, l’onorevole Ministro del tesoro faccia questi conti e faccia fare questo censimento, che è indispensabile.

Articolo 75: «Spetta all’Assemblea deliberare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra». Va bene che decisioni così importanti siano prese dall’Assemblea Nazionale. Questo è un altro fatto di alto significato, che mette in maggior rilievo il grave crimine commesso nel 1940, quando l’intero popolo italiano fu trascinato alla rovina per decisione di un solo uomo. No, decisioni così importanti devono essere prese dai rappresentanti del popolo, e se ci saranno due Camere, da tutte e due le Camere. Però mi permetto fare osservare che mentre l’articolo 4 dice che l’Italia rinuncia alla guerra, qui si parla invece indiscriminatamente di guerra. Bisogna specificare che intendiamo parlare soltanto di guerra difensiva.

Pertanto, mi permetto proporre una locuzione di questo genere:

«Nel caso di aggressione nemica, spetta all’Assemblea Nazionale di proclamare la mobilitazione generale e l’entrata in guerra».

Noi non aggrediremo mai nessuno, ma se lo saremo ci difenderemo.

L’articolo 79 dice: «Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale, con la partecipazione dei Presidenti dei Consigli regionali e di un Consigliere designato da ciascuno dei Consigli stessi a maggioranza assoluta». Siccome posso esprimere la mia opinione, io dico che l’elezione del Presidente sia fatta dal popolo.

L’articolo 94 stabilisce che «i magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete». Ebbene, bisognerebbe aggiungere che non devono ricoprire posti di responsabilità ministeriale, cioè non devono diventare né capi di Gabinetto, né segretari di Ministri, né tanto meno far parte di istituti finanziari, economici, o di imprese private, ecc.

L’articolo 97 dichiara che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente». Io non desidero questa autonomia della Magistratura, perché gli uomini sono sempre portati a peccare di orgoglio, di superbia, di egoismo e di ambizione e quindi sono portati a fare i despoti quando lo possono fare. Occorre invece una remora, occorre un controllo. Questa norma, se dovesse rimanere così, sarebbe dannosa per lo Stato. Mi auguro, perciò, che sia ragionevolmente corretta.

Autonomie regionali. Quanto si è detto su questo problema! L’onorevole Zuccarini, ieri, fece una apologia infuocata, fervida, effervescente, delle autonomie regionali, e l’onorevole Nitti oggi ha fatto la contro apologia ovvero una serrata requisitoria al riguardo. Tra i due, chi ha ragione? Io penso che una riforma di tanta importanza debba essere ben ponderata e che non si possa agire ad impressione: si deve agire a calcolo. L’impressione raramente collima col calcolo, l’empirismo non è scienza esatta. L’unità nazionale non ha ancora cento anni di vita e questa benedetta unità nazionale, che è costata tanti sacrifici e tanti martiri, la dobbiamo difendere contro gli eventuali pericoli.

Si tratta di ragionare obiettivamente: un decentramento amministrativo moderato, va bene; ma un decentramento legislativo io non lo vedo. E poi, pensiamo anche alla passionalità degli italiani, che tutti i giorni danno prova di non esser guariti dalla piaga del campanilismo. (Commenti Interruzioni).

Non sarà un peccato grave pensare come l’onorevole Nitti. Un’altra osservazione e ho finito.

Nell’articolo 131, che è l’ultimo, si dice che: «La forma repubblicana è definitiva per l’Italia e non può essere oggetto di revisione costituzionale». Mi pare che questo sia pleonastico; se noi lavoriamo per una repubblica, lavoriamo per una repubblica stabile, non provvisoria. Dicendo che la forma repubblicana è definitiva sembra che si voglia manifestare la preoccupazione che essa possa essere fugace. Noi non dobbiamo vedere questo pericolo. La Repubblica è nata e deve vivere e vivrà per sempre. Questo lo sentiamo e non dobbiamo perciò mettere in dubbio che possa avere una vita effimera. Essendo quindi ciò pleonastico, non lo dobbiamo dire. Se per esempio un Tizio è morto, noi non diciamo che è morto definitivamente, perché non c’è niente di più definitivo della morte. (Interruzione dell’onorevole Bellavista).

D’altra parte, da un punto di vista filosofico, nessuna costruzione umana può essere considerata definitiva in senso assoluto. Noi possiamo anche pensare che Iddio che ha creato l’universo, non voglia mantenerlo per tutta l’eternità e potrà un giorno riprecipitarlo nel nulla per creare un nuovo universo. (Commenti).

Non possiamo quindi fare ipoteche sul futuro.

E adesso concludo. Il tempo per rivedere e perfezionare questo progetto è molto breve, ma l’impegno assunto da questa Assemblea sarà assolto con alto senso di responsabilità. «Dio e popolo», ecco le grandi luci che indussero Mazzini a primo artefice del Risorgimento e che devono indurre noi a servire il popolo nelle sue più alte aspirazioni.

«Noi tutti sulla terra – disse Mazzini – non siamo che una missione incarnata. Adempiamola, come se non esistessero che Dio e la nostra coscienza». (Applausi Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Benedettini. Ne ha facoltà.

BENEDETTINI; Onorevoli colleghi, le critiche mosse finora dai liberali ai social-comunisti, dai monarchici ai repubblicani, dai qualunquisti ai democristiani al progetto di Costituzione, sono, a mio avviso, così giuste ed opportune che mi dispensano dal rilevare ciò che da essi fu rilevato.

Si può affermare che le critiche mosse finora dall’Assemblea sono tali da far sentire la necessità non di correggere alcuni articoli, ma di rifare di sana pianta il progetto di Costituzione. (Commenti).

Il difetto di questa Costituzione è organico e direi costituzionale: essa volendo regolare tutto, non regola niente. Volendo essere il frutto dell’opinione di molti, non rappresenta e non interpreta nessuna opinione, e ciò, indubbiamente, perché risente del clima nel quale è stata concepita e formulata.

Riservandomi di prendere la parola allorquando si discuteranno i singoli articoli, mi limito oggi a sottolineare alcuni difetti essenziali di questo documento.

Innanzi tutto, sia nella prima parte riguardante i diritti e i doveri dei cittadini, e particolarmente nel titolo primo relativo ai rapporti civili, il progetto di Costituzione rimanda e subordina ad apposite leggi l’esercizio dei vari diritti.

Si accenni alla libertà personale o alla libertà e segretezza di corrispondenza, si tratti della condizione giuridica dello straniero o della libertà di circolare e soggiornare in qualsiasi parte del territorio italiano, ci si riferisca al diritto di associarsi liberamente, o alla libertà di pensiero e di parola, si parli dei dipendenti dello Stato o dei casi di ineleggibilità o incompatibilità con l’ufficio di Senatore o di Deputato, in questo progetto di Costituzione si ricorre sempre alla frase: «salvo i casi previsti dalla legge»

Ebbene, onorevoli colleghi, che cosa comporta questa frase che si ritrova ogni qualvolta si cerchi di definire le libertà dei cittadini? Comporta, al riguardo, l’inutilità della Costituzione stessa, in quanto le libertà da essa stabilite, dipendono, in effetti, non da essa, ma dalle leggi. Ne consegue che quale che sia la Costituzione che noi approviamo, se essa contiene questa clausola, per la quale in effetti tutto è stabilito dalla legge, in sostanza le libertà saranno quelle che vorranno dare i legislatori di domani e non quelle che la Costituzione ritiene di stabilire.

Non so se io abbia reso il mio pensiero con la dovuta chiarezza. Vengo ad un esempio.

La Costituzione precisa che la libertà personale è inviolabile, tranne i casi e i modi previsti dalla legge: ciò significa che se al Governo e nelle Camere vi sono membri con velleità dittatoriali che vogliano annullare totalmente quella libertà, essi non avranno bisogno di violare la Costituzione, in quanto sarà sufficiente che emanino delle apposite leggi.

E allora che valore ha la Costituzione? Devo pertanto ricordare che lo Statuto Albertino contemplava, anch’esso, dei casi ne’ quali – come nel progetto di Costituzione che andiamo esaminando – i particolari venivano precisati dalle leggi; ma dichiarava altresì che lo Statuto non entrava in vigore se non dopo l’approvazione e l’emanazione di quelle leggi che avevano formato un tutto unico con lo Statuto.

Noi dobbiamo evitare che la nuova Costituzione apra le porte ai più impensabili arbitrî. È necessario pertanto, specie per ciò che concerne i diritti e le libertà dei cittadini, che le leggi cui la Costituzione si riferisce, siano discusse, approvate da questa Assemblea unitamente alla Costituzione stessa.

Passo ora ad esaminare il secondo difetto organico del progetto di Costituzione. Esso risente eccessivamente del clima fazioso nel quale viviamo; risente in ogni sua parte del prepotere dei partiti di massa che, per la cieca disciplina di partito che li anima, portano a sacrificare la libertà e la dignità della persona umana al predominio della massa.

Questo è il motivo per il quale si riscontrano, in questo progetto di Costituzione, stridenti contradizioni, come quella, ad esempio, dell’articolo 13, che, mentre sancisce il diritto per tutti di riunirsi pacificamente e senz’armi, subito dopo questo diritto contrasta ed annulla, sentenziando che le autorità possono vietare quelle riunioni per motivi di sicurezza e incolumità pubblica. Ne deriva che la libertà non esiste, o per lo meno esiste quella che fa comodo al potere esecutivo.

Infatti, è proprio facendo appello a questi motivi di sicurezza e di incolumità pubblica che il Ministro Scelba ha giustificato il suo arbitrio a proposito della circolare telegrafica.

È per questo spirito fazioso che la Costituzione, mentre all’articolo 45 precisa che «non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto, se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale», poi limita questo diritto per responsabilità fasciste, e lo stesso dicasi per l’articolo 56 relativo al diritto di eleggibilità.

Ora, onorevoli colleghi, quando una Costituzione risente così fortemente del clima fazioso in cui nacque, essa non può durare a lungo, poiché l’esperienza e la storia insegnano che, mutato quel clima, come per amor di patria noi ci auguriamo che presto muti, il popolo sente subito il bisogno di darsi un’altra Costituzione. Quanto affermo è comprovato dalla storia della Francia che, dal 1789 ad oggi, cioè in circa 150 anni, si è data ben 16 Costituzioni, cioè, in media, una ogni 9 anni.

Un rilievo di massima io non posso tacere a proposito dell’ordinamento delle due Camere. La nuova Camera dei Senatori, in ultima analisi, nella sua composizione, don sarà diversa dal vecchio Senato, anche per le sue specifiche attribuzioni. Ora io non riesco a spiegarmi come e perché, mentre questa Costituzione risente in sommo grado dell’influsso dei partiti di sinistra per ciò che riguarda le affermazioni astratte dei diritti dei lavoratori, poi, quando si passi alle affermazioni concrete, questi influssi sembrano svanire, anzi svaniscono del tutto. Perché non si è dato vita ad una seconda Camera integralmente sindacale, alla quale i legittimi e diretti rappresentanti delle diverse categorie lavoratrici avrebbero potuto appartenere con pieno diritto? Onorevoli colleghi, se noi abbiamo veramente a cuore le sorti e l’emancipazione dei lavoratori, se vogliamo che essi non rappresentino una massa amorfa, ma delle personalità distinte, se auspichiamo che essi diventino parte viva, attiva, dirigente nella vita della Nazione e dello Stato, noi – rappresentanti del popolo – dobbiamo dare ad essi la possibilità di esprimersi direttamente, secondo le esigenze delle categorie cui appartengono, in una Camera, in un’Assemblea che sia il frutto di rappresentanze di categorie sindacali.

Né ci si dica che oggi i lavoratori sono già uniti in sindacati, in federazioni e, infine, in una Confederazione generale del lavoro, giacché questa, come l’onorevole Di Vittorio m’insegna, può, sì, difendere i diritti degli iscritti, ma, in fondo, l’arma più potente di cui dispone per la sua difesa è il diritto di sciopero, vale a dire un’attività negativa. Ma questa è l’ora, questo è il tempo in cui le masse lavoratrici, e dunque quel popolo che noi chiamiamo sovrano, deve assurgere a protagonista della storia. Ebbene, per apprestargli questo viatico, per spianargli la strada, per fare che esso si emancipi a fatti e non a parole, dobbiamo riconoscergli il diritto di esprimersi in un’Assemblea legislativa formata da autentici lavoratori manuali, oltre che da lavoratori dell’intelletto. Perciò io mi auguro che quest’Assemblea, nel riprendere l’esame particolare del progetto di Costituzione voglia tener presente questa mia osservazione e questa mia raccomandazione.

Questo io sostengo in quanto, come hanno rilevato alcuni colleghi dell’estrema sinistra, la nostra Costituzione deve esser tale da apprestare le giuste rivendicazioni, le opportune conquiste e l’attesa giustizia sociale che l’avvenire potrà dare al lavoro italiano.

Ora, concludendo, io penso che questa Costituzione debba esser tale da affrontare il domani, dev’esser tale da corrispondere alle reali esigenze del popolo italiano. Io, monarchico, che mi batto per il ritorno legale della monarchia, desidero e mi auguro che questa Assemblea possa elaborare una Costituzione viva, proiettata verso il domani, e rispondente alle necessità reali e ideali dell’Italia e degli italiani: una Costituzione che, sebbene redatta da una maggioranza repubblicana, possa nella sua sostanza restare agli italiani anche nell’eventuale ritorno della monarchia. (Rumori Commenti).

E ciò non sembri assurdo, se è vero, come è vero, che qui noi tutti, monarchici o repubblicani, abbiamo a cuore, innanzi tutto; l’Italia.

Ma proprio perché questa Costituzione noi prepariamo nell’interesse dell’Italia, e degli italiani, io ritengo che un tale documento, che deciderà per anni l’assetto politico e sociale del nostro popolo, non potrà essere promulgato, se non quando sia dal popolo approvato.

Questa Costituente è nata per dare agli italiani una nuova Costituzione, ma è chiaro che ciascuno di noi fu delegato per redigerla, discuterla e presentarla ad essi per riceverne la sanzione sovrana.

Ciò significa che io mi associo agli altri colleghi che, come me, hanno sentito e sentono la necessità di richiamare il popolo alle urne per il referendum costituzionale.

Proprio perché il popolo è sovrano, l’articolo 131 del progetto di Costituzione, sanzionando che «la forma repubblicana è definitiva per l’Italia è non può essere oggetto di revisione costituzionale», non fa che violare la sovranità del popolo stesso.

L’onorevole Pacciardi ritiene che la Repubblica è ormai permanente e definitiva per gli italiani; ma evidentemente in tutta la sua vita l’onorevole Pacciardi non è riuscito ad apprendere ed a convincersi che non vi è nulla di definitivo e di permanente nella storia dei popoli. Massime per ciò che concerne le forme istituzionali.

Ma, a parte queste opinioni personali, è certo che nessun Governo e nessuna Assemblea può arrogarsi il diritto di ipotecare l’avvenire, e quindi di impedire l’espressione della libera volontà del popolo.

Una voce a sinistra. Ma si è già espressa.

BENEDETTINI. Se il popolo italiano per dei secoli vorrà mantenere un regime repubblicano… «così sia». Ma se questo popolo fra breve tempo vorrà il ritorno della monarchia, nessuna Assemblea e nessuna Costituzione potranno impedirlo. (Commenti).

Ritengo pertanto che l’articolo 131 possa essere così emendato:

«La forma istituzionale dello Stato è subordinata alla volontà della nazione liberamente e democraticamente espressa».

Nessun membro della Costituente veramente democratico e rispettoso della volontà popolare può trovar nulla da opporre a questo emendamento che quella volontà rispetta ed afferma.

Non è la difesa della causa monarchica che io così sostengo, ma i principî democratici, e la libertà di tutti gli italiani. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a lunedì, alle 16.

Presentazione di una relazione.

PRESIDENTE. Invito l’onorevole La Malfa a recarsi alla tribuna per presentare una relazione.

LA MALFA. A nome anche dell’onorevole Lombardo Ivan Matteo, mi onoro di presentare all’Assemblea la relazione delle Commissioni riunite dei Trattati internazionali – Finanze e tesoro, sul disegno di legge relativo alla partecipazione dell’Italia agli Accordi firmati a Bretton Woods.

PRESIDENTE. Questa relazione sarà stampata e distribuita.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.