Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 MARZO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

LVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 MARZO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana:

La Pira                                                                                                              

Togliatti                                                                                                          

Croce                                                                                                                

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della seduta pomeridiana precedente.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole La Pira. Ne ha facoltà.

LA PIRA. Onorevoli colleghi, io vi chiederò di meditare con me intorno ai problemi fondamentali che concernono la costruzione del nuovo edificio costituzionale, perché vorrei quasi dire che non parlo qui – se mi si permette – come uomo di parte, ma come studioso, come storico, il quale cerca, nell’interesse del proprio Paese e nell’interesse della civiltà cristiana e umana, le linee costruttive e solide di un edificio costituzionale che sia capace di superare l’attuale crisi costituzionale.

Vi dirò quale è stato l’itinerario mentale che ho seguito nella impostazione di questo problema costruttivo. Io mi sono detto: l’attuale crisi costituzionale non è senza una essenziale relazione con l’attuale crisi storica; crisi che investe tutti i rapporti umani, sia teoretici che sociali. Perciò, se vogliamo veramente ritrovare la linea solida di questa nuova architettura costituzionale, sarà necessario impostare, nella prospettiva della crisi che travaglia la civiltà contemporanea, l’attuale crisi costituzionale. Da qui i seguenti problemi:

1°) constatare l’esistenza di una crisi di ampio respiro, che involge tutti gli ordini teoretici e pratici della vita;

2°) definire esattamente – perché siamo un po’ architetti e quindi abbiamo bisogno di misurare i concetti, vorrei dire anche le parole – in che cosa consista una crisi costituzionale;

3°) vedere perché sono caduti in crisi alcuni tipi di Costituzioni precedenti;

4°) fare come l’architetto, il quale, quando ha fatto la diagnosi dell’edificio crollato, cerca di ricostruire, evitando le carenze dell’edificio che egli ha studiato.

Quindi sono questi i punti da meditare: la constatazione di una crisi vasta; la definizione del concetto di crisi costituzionale; il perché dell’intrinseca debolezza dei tipi caduti; come è stato costruito, secondo quale architettonica il nuovo edificio costituzionale; e finalmente se e in che misura il progetto presentato alla nostra meditazione risponde a questo tipo di Costituzione che dovrebbe aver salde fondamenta, sicuri muri maestri ed una vôlta ben costrutta, proporzionata ai muri e proporzionata alla base.

Questa è l’impostazione del mio tema che, rapidamente, come mi sarà possibile, cercherò di svolgere.

E comincio dal primo punto, cioè la constatazione di questa crisi vasta, la quale commuove, inquieta, la civiltà contemporanea. Faccio questa constatazione come l’architetto che vuol esser sicuro delle leggi costruttive, quindi in funzione della crisi costituzionale.

Ora io non devo, per constatare questa crisi, che aprire, per dir così, la geografia costituzionale del nostro tempo. Tutta la prassi e tutta la letteratura di diritto costituzionale che è fiorita in questi ultimi tempi ci indicano inequivocabilmente che una crisi costituzionale, legata ad una crisi più vasta che concerne lo spirito e la struttura di tutto il corpo sociale, esiste.

Non solo; ma se io interrogo la letteratura non più costituzionale, ma la letteratura più generica, la più attenta, quella sulla crisi in generale (mi riferisco qui non soltanto alle grandi correnti sociali sia di parte cattolica, sia di parte socialista, marxista e non marxista), dai libri di Spengler ai libri di Huitzinga, dal pensiero tedesco a quello francese ed italiano così vivo in quest’ultimo tempo, vedo che essi denunziano l’esistenza di questa crisi. Fra l’altro abbiamo qui presente il nostro illustre Benedetto Croce, e quindi potrei riferirmi anche a quel prezioso scritto – anche se in alcuni punti discutibile dal punto di vista cristiano – nel quale si afferma che esistono alcune acquisizioni di civiltà per cui gli uomini non potranno mai più non essere cristiani; vale a dire l’esistenza, nelle strutture sociali, di alcuni principî che sono ormai diventati connaturati all’umana natura e al corpo sociale.

La conclusione è questa: se esploro questo panorama storico, sia in relazione alla letteratura del diritto costituzionale, sia in relazione alle Costituzioni sorte nel primo dopoguerra e in quest’altro dopoguerra, e se poi mi riferisco a queste più vaste correnti di pensiero sociale cattolico e non cattolico di critica del mondo presente, di letteratura della crisi, la conclusione a cui si perviene è questa: esiste un commovimento sociale, che va alla ricerca di nuove formule giuridiche, nelle quali è necessario inquadrare, incanalare, incastonare – non so come dire – questa realtà in movimento.

Passo dopo questa sommaria valutazione – si capisce come è possibile – al secondo punto, cioè al punto più specifico. E mi domando: ma che cosa intendiamo esattamente per crisi costituzionale in questo sfondo generale della crisi? Vi do la risposta; potrei sbagliare. Io sono un osservatore e la risposta la desumo dai fatti, perché io osservo che dagli uomini, dagli studiosi, dai politici la stessa realtà, come da me, è stata osservata. Ora, quando io osservo una Costituzione e mi domando che cos’è, la risposta, se medito a fondo, è questa: è – come diceva Taine, in un libro che veramente mi ha colpito ed interessato – la veste giuridica del corpo sociale. La Costituzione è la maschera giuridica che si mette su questo corpo della società. Perché essa, infatti, che cosa concerne? Concerne tutti i rapporti sociali dal punto di vista del diritto; è il diritto che, come dicono i giuristi, giuridicizza questi rapporti sociali, crea la maschera del diritto, sia nella prima parte, quando definisce i rapporti dei singoli con lo Stato, ed i rapporti dei singoli fra di loro, sia nella seconda parte, quando, mediante la struttura dello Stato, esso dispone in modo che questi diritti abbiano la tutela ed abbiano le garanzie.

Pertanto, quando una Costituzione non è in crisi? È evidente: quando c’è proporzione fra l’assetto giuridico e l’assetto sociale ed umano. Vorrei qui richiamare quella lapidaria definizione di Dante, secondo cui il diritto è realis et personalis hominis ad hominem proportio.

Se voi avete un edificio costituzionale, cioè un assetto giuridico della società, che è proporzionato al corpo sociale, che è proporzionato ai rapporti umani, quella Costituzione è esatta. Ma se voi avete un assetto giuridico, una Costituzione, la quale è sproporzionata al corpo sociale, alla realtà sociale e quindi alla realtà umana, quella è una Costituzione in crisi.

A documento di queste dichiarazioni, potrei portare una serie di prove storiche e letterarie; ma voglio fare soltanto due esempi storici che mi paiono molto importanti; quello ricavato dalla Costituzione del 1789 e quello ricavato dalla Costituzione contrapposta, che è la Costituzione sovietica. E mi domando, e domando a voi: cosa fece l’Assemblea Costituente del 1789? I membri della Costituente fecero una cosa anzitutto: affermarono, bene o male – ma questa è un’altra questione – che la precedente Costituzione era in crisi, perché c’era una sproporzione fra la struttura del corpo sociale e i rapporti umani e l’assetto giuridico. Ed essendo in crisi la precedente, ne elaborarono un’altra, la quale avrebbe dovuto avere tali elementi strutturali da essere non più una Costituzione in crisi, ma una Costituzione solida per la sua intima solidità strutturale.

Secondo Taine, questo è provato: e, del resto, basta leggere tutti gli altri autori relativi al 1789, per vedere come i membri dell’Assemblea Costituente avevano in tasca il libro di Rousseau, e lo meditavano, per costruire sotto l’ispirazione di quel libro l’edificio della nuova Costituzione.

Vediamo la Costituzione contrapposta, che è quella sovietica. È lo stesso. Quando gli elaboratori della Costituzione sovietica hanno costruito il loro edificio costituzionale, cosa hanno fatto? Hanno detto: «C’è una crisi costituzionale, perché non c’è rispondenza fra la struttura giuridica e la struttura sociale: bisogna edificare una Costituzione che non sia in crisi e che abbia una solidità intrinseca». Quindi storicamente, dottrinalmente è osservabile che questo concetto è esatto. Una crisi costituzionale è appunto una sproporzione fra l’assetto giuridico e l’assetto sociale, e quindi tra i rapporti di diritto positivo e i rapporti, diciamo così, di diritto umano, di diritto naturale (se mi permettete questa espressione che è così significativa).

Ora vengo al problema. Tralascio varie cose, perché evidentemente bisogna far presto, anche per non perdere la prospettiva dell’insieme, e vengo ad una precisazione ulteriore di questo concetto di crisi costituzionale: è una sproporzione, siamo d’accordo. Perché? Vediamo quali sono gli elementi strutturali di una Costituzione, quegli elementi che ne definiscono il tipo, per cui si dice: «Quella Costituzione ha questa architettura, ed è in crisi, perché i suoi elementi architettonici a), b), c), sono sbagliati, sono sproporzionati».

E quali sono questi elementi strutturali di una Costituzione? Anche qui ho meditato, ho letto e poi, dopo, sono venuto a questa conclusione, che non è soltanto mia – sono i fatti che mi danno la prova, e le documentazioni storiche – cioè che ogni Costituzione ha tre elementi strutturali, indissociabili l’uno dall’altro, i quali – ora vedremo quali sono – si possono raffigurare per analogia – il pensiero si poggia con facilità sull’immagine – ad un edificio; il quale consta di una base, consta del corpo (dei muri maestri) e finalmente di una vôlta, che corona la base e il muro. Ebbene, questi tre elementi strutturali di ogni edificio io li ritrovo in ogni Costituzione; e la crisi di una Costituzione consiste, come vedremo, nel fatto che la sproporzione intacca il primo, il secondo e il terzo elemento, che sono: la base teoretica, la concezione sociale, l’assetto giuridico. Cominciamo dal vertice, e vi dico subito perché comincio dal vertice. Perché su questo vertice saremo tutti d’accordo: è l’assetto giuridico, il diritto positivo, e su questo non c’è discussione. Le due parti di una Costituzione ci offrono questo vertice giuridico; ma sotto questo vertice, sotto questa vôlta, c’è quel famoso corpo sociale, quei muri maestri a cui la vôlta – assetto giuridico – si riferisce. Forse su questo punto ci può essere qualche dissenso, ma vedremo; io faccio dell’anatomia costituzionale.

Terzo, la base: è teoretica, vale a dire la base porta ineliminabilmente una concezione teoretica dell’uomo, della natura dell’uomo e di conseguenza della natura e struttura del corpo sociale.

Quindi abbiamo i tre elementi: la base teoretica, il corpo sociale e l’assetto giuridico, e vi prego di darmi cinque minuti di riflessione sul primo punto, cioè la base, perché qualcuno potrebbe dirmi: ma qui siamo in sede costituzionale e voi introducete un principio metacostituzionale, metagiuridico, teoretico, ideologico. Io vi dico che è ineliminabile, perché il pensiero teoretico è direttivo del pensiero pratico, la idea dirige l’azione; io posso fingere di disancorare l’azione dall’idea, ma nella realtà è così.

Ora io qui richiamo proprio un esempio costituzionale. I due esempî costituzionali che ho portato contrapposti sono: la Costituzione del 1789 e la Costituzione sovietica: si capisce, noi riconosciamo a priori l’apporto prezioso, che l’una e l’altra hanno dato per la conquista della civiltà umana; ma altro è riconoscere gli apporti che in un sistema io trovo, perché prodotti dagli uomini, e quindi in ultima analisi capaci di frutti buoni, altro è se il sistema è intrinsecamente viziato.

Ora, quando vedo la Costituzione del 1789 e ne analizzo la base teoretica, trovo che nei membri dell’Assemblea Costituente c’era un’idea direttiva tratta dal libro di Gian Giacomo Rousseau Il Contratto sociale: questo libro fu il catechismo, la base sulla quale la Costituzione del 1789 fu edificata.

E così, se faccio riferimento alla Costituzione sovietica, trovo che anch’essa inevitabilmente ha alla base questa struttura teoretica, la quale consiste in una determinata concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con la società e lo Stato.

Ora che cosa dobbiamo fare?

Se questo è vero, se cioè è vero che ogni tipo costituzionale presenta questi tre elementi: la base teoretica, il corpo sociale e la volta giuridica, dobbiamo vedere perché in Italia si è avuta una crisi costituzionale, la quale concerne due tipi di Costituzione: una Costituzione è stata, se non scritta, tuttavia elaborata nelle sue parti essenziali dal regime fascista ed una Costituzione anteriore è quella di tipo individualista, derivata dal 1789.

Perché questi due tipi di Costituzione sono crollati e si esige un tipo nuovo di Costituzione?

Cominciamo dalla Costituzione di tipo, chiamiamolo così, hegeliano, statalista. Ora alla base di questa Costituzione, trovo una certa concezione dell’uomo e dei suoi rapporti con la società e con lo Stato. Io trovo quella famosa proposizione hegeliana che ha una immensa importanza costituzionale e che dice così: «La persona umana non ha una anteriorità rispetto alla società e allo Stato, ma è elemento sostanzialmente unito al corpo sociale e più esattamente allo Stato». Lo Stato è una unità sostanziale e non una unità di relazione, distinzione d’importanza giuridica immensa.

Se è vera questa tesi, è vero il famoso adagio: tutto nello Stato, nulla fuori dello Stato. Ma la conseguenza è questa: che dal punto di vista giuridico è inconcepibile l’esistenza di un diritto anteriore al diritto statuale, di un diritto naturale, chiamatelo come volete. Non esistono nella persona umana diritti che lo Stato sia soltanto chiamato a riconoscere e a proteggere e non anche a creare. Una concezione così fatta della persona, della società e dello Stato ha come sue ineluttabili conseguenze l’eliminazione in radice della libertà umana e della personalità umana e quindi la cancellazione dei diritti naturali dell’uomo. E, badate: il diritto positivo tedesco fu di una coerenza estrema, anche prima di Hitler, quando affermò che, siccome non esistono diritti naturali, ma soltanto un diritto positivo, i diritti dell’uomo sono delle concessioni statali che lo Stato può come dare, così, in qualunque momento, per i suoi fini, ritirare.

Dopo la base teoretica, la struttura sociale. Guardate che cosa sono, nella concezione hegeliana, che qui domina, gli enti sociali. Il problema è sempre giuridico, non è metafisico. Cosa sono gli enti sociali che non sono ancora lo Stato? Organi dello Stato. Come la persona non ha una finalità propria e quindi una propria libertà, così non hanno una finalità propria e una propria libertà, e quindi un proprio statuto giuridico, tutti gli enti che non sono ancora lo Stato, ma che sono organi dello Stato: quindi privi tanto di valore originario, quanto di diritto originario.

Ed ora la vôlta giuridica: basta richiamarci a tutta la struttura, sia economica, che politica, che culturale, che religiosa dello Stato concepito alla maniera fascista, cioè alla maniera hegeliana, per vedere come lo Stato è questo assoluto (diceva Hegel: Dio in terra), questo onnipotente, unico creatore del diritto; e quanto ai singoli, e quanto alle comunità, che i singoli creano, più non hanno una spontaneità propria. Hanno invece una derivazione: sono organi di questo unico organismo che è l’organismo statale.

Io vi dico: questa Costituzione è crollata; è crollata perché diceva Vico quella famosa frase, tanto bella che bisognerebbe scriverla sul frontone di tutte le assemblee politiche, culturali ed umane: «Le cose fuori dal loro stato di natura né vi si adagiano, né vi durano». Mi pare che queste siano delle verità.

Ora perché questo crollo? Perché c’è sproporzione fra la reale natura umana, la reale struttura del corpo sociale e la vôlta giuridica. C’è sproporzione e una Costituzione è in crisi perché ha errate le fondamenta ed i muri maestri. Ed allora voi dite: ritorniamo alla Costituzione del 1789; ed io vi rispondo: no, anch’essa è in crisi per ragioni inverse, ma che intaccano la base teoretica e i muri maestri e che intaccano l’assetto giuridico.

Ma dove sta questa crisi? Sta in questo: voi non potete negare quanto poc’anzi vi dicevo: se leggiamo i libri riguardanti la Rivoluzione francese (e mi è sempre piaciuto il Taine perché ha una profonda analisi storica e una grande vivacità di espressione), vi si dimostra che la Costituzione del 1789 è la trascrizione giuridica delle teorie di Rousseau. E qual è questo teorema di Rousseau? Qual è questo teorema, di cui appunto il Rousseau parla come del suo problema centrale, cioè del contratto sociale?

Egli dice: gli uomini non sono sociali (proposizione giuridica e politica, questa, di importanza immensa, da cui è derivata una quantità di gravi sproporzioni nel campo economico e politico); gli uomini, dunque, egli dice, non sono sociali. E questo è il primo punto.

Secondo punto: i rapporti fra gli uomini e lo Stato si definiscono così: «nello Stato gli uomini sono liberi nella misura in cui essi si assoggettano spontaneamente alla legge».

Fanno cioè il contratto, volenti o nolenti, perché Robinson Crosuè non esiste. Quindi, l’esigenza della libertà politica è l’unica esigenza sentita dal pensiero di Rousseau; e l’unico problema che fu risolto dalla Costituzione dal 1789 è questo: l’affermazione delle libertà politiche; il che significa partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, alla formazione della legge. Ma, guardate, l’errore sta alla base: gli uomini non sono sociali, quindi si accordano soltanto mediante contratto.

Le conseguenze? Scusate, dove sono tutti gli altri enti – perché gli uomini, che invece sono sociali (homo animai politicum), per le esigenze di sviluppo della loro personalità formano tali enti – dove è la famiglia? Dov’è la comunità religiosa? Esiste, perché la concretezza storica è quella che è. Ma dove sono le organizzazioni di classi, le comunità di lavoro, che pure esistono? Insomma, tutto questo mondo organico, in cui si articola il corpo sociale, nella concezione roussoviana è sparito, tanto è vero che la prima preoccupazione che voi trovate nelle dichiarazioni del 1789 e del 1791 è questa: scioglimento di tutte le corporazioni, non solo di quelle economiche nel senso medievale, ma di tutti gli organismi culturali, religiosi, ecc. E perché? Perché nella mente di Rousseau ed in quella dei costituenti del 1789 esistevano 20 milioni di francesi atomisticamente considerati, i quali formavano la comunità statuale.

Le conseguenze sono terrificanti, perché il giorno in cui voi disarticolate tutte queste società e lasciate una unica società, che è quella politica statuale, avete il crollo della vita associata: da qui la formazione del proletariato, la genesi della questione operaia; i problemi grandissimi di struttura economica hanno qui la loro radice, nella distruzione di questa articolazione del corpo sociale.

Tuttavia vi è qualche cosa di fruttuoso nella Costituzione del 1789, e cioè l’affermazione vigorosa dei diritti dell’uomo: ma è un’affermazione incompleta; è una carta monca, perché, quando avete affermato che l’uomo ha la libertà politica, cioè il diritto di partecipare, in piede di eguaglianza, al governo della cosa pubblica, ma non avete riconosciuti i diritti che sono connaturali con le altre comunità di cui egli fa parte, avete affermato un diritto incompleto. Avete la situazione drammatica che si creò dopo il 1789 e da cui è derivata la inquietudine di questo mondo in contrasto, che è il mondo contemporaneo.

La causa giuridica e politica, oltre che nel problema della borghesia, va proprio ricercata in questo sottile problema di architettonica costituzionale, che sembrerebbe un problema di natura metafisica, ma che è un problema di squisita natura politica, giuridica, economica, sociale, e quindi è un problema che profondamente ci interessa.

La conclusione è questa. Se io analizzo con l’occhio del giurista, ma del giurista completo, che vuole avere la visione integrale della realtà, la Costituzione del 1789, io la trovo in crisi; la stessa crisi, per diversi motivi, per contrapposti motivi, che trovo nella Costituzione statalista elaborata dal pensiero hegeliano e che si tentò di tradurre in Italia e in Germania; La crisi esiste.

Veniamo quindi al concetto da cui siamo partiti. Ho detto: dobbiamo vedere due cose. Primo: la prospettiva generale della crisi di questo mondo e di questa civiltà (che è una crisi documentabilissima). Secondo: la crisi costituzionale in funzione di questa prospettiva. Terzo: in che cosa consiste una sproporzione tra l’assetto giuridico e la realtà sociale. Cos’è questa sproporzione? Tre sono gli elementi indissociabili di ogni Costituzione: la base teoretica, che vi dice quale è la natura umana e come essa si rapporta con la società e con lo Stato; la struttura sociale, che vi dice che cosa sono, che natura hanno, che struttura hanno gli enti in cui si articola il corpo sociale e, finalmente, l’assetto giuridico. Quando questi tre punti, questi tre elementi sono invalidati da un errore – metafisico, metagiuridico, chiamatelo come volete – tutta la Costituzione ne risente, come dice quella famosa parabola del Vangelo:

«Se costruisco sulla sabbia, la casa, per quanto solida, crolla; se costruisco sulla pietra, la casa, per quanto non solida, riesce a superare le intemperie e le tempeste».

Non mi dilungherò molto; abbiate pazienza altri quindici minuti. (Commenti). Qui sorge il problema. Del resto, noi siamo qui – per riprendere una frase del vecchio Aristotile, pensatore immenso, che diceva: il costituente è un architetto – volenti o nolenti, siamo qui tutti degli architetti; siamo quindi responsabili come gli ingegneri. Se costruiamo una casa sbagliata, domani può essere intentata un’azione di indennizzo contro di noi. Saremo, allora in paradiso; sarà, insomma, quello che sarà. (Si ride).

Allora, dicevo: cerchiamo questo tipo nuovo che evita le carenze dei due tipi in crisi. Se è vera la tesi che il primo ed il secondo tipo sono sbagliati, evidentemente dobbiamo cercarne un altro. Ma come lo cercheremo, con quale criterio? Con un criterio semplice: la proporzione. Bisogna che l’assetto giuridico sia proporzionato a quello sociale e quello sociale abbia una base teoretica salda. Ora, vedete, non c’è dubbio che in questi ultimi 10 anni, l’esperienza fascista, con tutte le sue tragiche cose, ha avuto come contrapposto un risultato, ed è questo: io mi ricordo che tutti noi, gran parte di noi, quando si resisteva al fascismo sul terreno teorico, si resisteva sulla trincea della persona umana; ma non della persona umana considerata soltanto in astratto, come una questione di natura puramente celestiale ed eterea, ma come la pietra angolare dell’edificio politico; perché si diceva: noi non siamo individualisti, noi non siamo del mondo passato, noi crediamo – perché siamo osservatori, storici, studiosi, politici – che l’attuale mondo, sorto dar 1789 è un mondo che crolla, è una civiltà che si trasforma, che si integra, se volete; quindi la nostra posizione critica – tanto più poi da parte dei cattolici e delle correnti socialiste – era molto evidente. C’era questa critica di principio al mondo precedente.

Ma che cosa è questa persona umana, come si costruisce per poter essere il sostegno, la pietra angolare del nuovo edificio costituzionale? Vi dico subito che mi richiamerò ora alla concezione detta dai francesi, con parola molto efficace, la concezione pluralista; essa è legata essenzialmente alla concezione della persona umana. Avremo, dunque, una base teoretica – quella della persona umana – una struttura sociale pluralista e finalmente un assetto giuridico che è conforme a questo pluralismo sociale.

Base teoretica: la persona umana. Sentite: io, per la verità, amo immensamente San Tommaso d’Aquino, non solo perché è un santo, ma perché è un pensatore di proporzioni gigantesche e di una novità perenne. Tutte le verità sono sempre nuove. Ora, quando egli dice che la persona umana è quod est perfectissimum in tota natura, indica subito una gerarchia di valori secondo la quale la persona umana è costruita; una gerarchia di valori che ha una ripercussione immensa su tutto l’edificio economico, politico e sociale della società. E che cosa è questa gerarchia di valori che costituisce la persona umana? Ecco, vi dico subito: questa gerarchia parte dal piano, come si dice, vegetativo, dalla base economica e terrestre – piede a terra – e salendo a gradi arriva fino all’unione con Dio. Quindi, una concezione del valore trascendente ed interiore della persona umana. Badate che non ci ingolfiamo qui in una questione metafisica, per questa ragione: perché, se voi non concepite la persona umana come valore trascendente rispetto al corpo sociale, voi avete la conseguenza dello statalismo; perché i casi sono due: o la persona ha questo valore di interiorità rispetto al corpo sociale, ed allora essa ha uno statuto giuridico che è anteriore ad ogni costruzione statale; o non lo ha, ed allora essa è radicalmente subordinata al principio statale, membro sostanziale, come diceva Hegel, del corpo statale. Non si esce da questo dilemma: o voi accettate questa concezione del valore trascendente, e potete ancorare i diritti naturali e imprescrittibili della persona umana; o voi non accettate tale concezione, ed allora siete ineluttabilmente condotti alla concezione dei diritti riflessi. Questo il primo punto.

Secondo punto, che è importantissimo e lo integra: questa persona umana, che ha questa gerarchia di valori che si appunta in Dio, non è isolata; è in relazione reale, come dicevano gli scolastici – in relazione reale, non volontaria soltanto – con gli altri e si articola organicamente; si sviluppa, cioè, organicamente in una serie ordinata e crescente di entità sociali che vanno dalla famiglia alla comunità religiosa, dagli organismi di classe alle comunità del lavoro e che si coordinano nello Stato. Badate, questo è molto, importante: lo Stato non è tutta la società, ne è una delle forme sociali nelle quali si articola l’organismo sociale. C’è lo Stato, la società politica, ma c’è anche la società economica, c’è la società religiosa e familiare e così via. Lo Stato è l’assetto giuridico di tutta questa società, ma non l’assorbe: soltanto la dirige, la coordina, la integra e, dove è necessario, la sostituisce. Ma la funzione statale – in questa concezione – è rispettosa sia della realtà della persona, come creatura libera avente questo valore trascendente, sia della realtà di tutti questi enti, che questa creatura libera crea e che hanno perciò un loro originario statuto giuridico. Quindi una conseguenza di grandissimo valore: cioè, quella concezione statolatrica – che fu creata in gran parte dal diritto tedesco già prima del fascismo e del nazismo – che assume come principio il criterio della sovranità assoluta dello Stato e come diritto l’unico diritto statuale, è sbagliata; esiste una pluralità di ordini giuridici, che ieri sera ci ha ricamato il nostro illustre maestro, onorevole Orlando, una pluralità di ordinamenti. Tutte le correnti più vive del pensiero sociale contemporaneo, sia cattolico che socialista – la corrente che si inspira soprattutto al pensiero proudhoniano – partono da questa visione pluralistica del corpo sociale conforme alla persona umana. Mi ricordo una frase appunto di Proudhon che dice: «Tra l’individuo e lo Stato io vorrei costruire un mondo»; cioè una revisione integrale del diritto di proprietà, una revisione integrale della struttura economica e della struttura politica governata da questo principio, che è fondamentalmente rispettoso di questa espansione libera, ma coordinata, ma sorvegliata, della persona umana e degli enti nei quali essa si espande.

La conclusione è questa: se è vera la concezione della presente base teoretica che ho delineata, se è vera questa struttura pluralista del corpo sociale, la conseguenza è questa: l’assetto giuridico non può essere né individualista, né statalista; è un assetto giuridico conforme a questa visione, un assetto giuridico pluralista, che ha come conseguenza: che la Carta integrale dei diritti dell’uomo non è quella del 1789. Lì vi sono alcuni diritti dell’uomo, ma sono ignorati altri e fondamentali: i diritti sociali, cioè i diritti che sono collegati alla persona umana, non in quanto singolo, ma in quanto membro di queste collettività crescenti che vanno dalla famiglia allo Stato. Una Carta integrale dei diritti dell’uomo non può essere una carta dei diritti individuali, ma accanto ad essi deve porre questi diritti sociali, e quindi i diritti delle comunità e delle collettività di cui gli uomini fanno parte necessariamente per lo sviluppo della loro persona. Ecco, quindi, questa Carta costituzionale che vi appare come nuova, integrale, pluralista dei diritti.

Ora, se tutto questo è vero – e qui bisognerebbe fare dei saggi, come l’ingegnere saggia la resistenza dei materiali, ma evidentemente non è questa la sede – (ma è vero, perché questa è la realtà storica e posso riferirmi a tutta l’immensa letteratura costituzionale, politica, economica di questi ultimi tempi che dà la documentazione di questa tesi pluralista) – se questo, dunque, è vero, veniamo al nostro progetto costituzionale (Commenti). Faccio presto, faccio presto!

PRESIDENTE. Noi abbiamo ascoltato tanti discorsi, e non comprendo perché non dobbiamo ascoltare ora quello dell’onorevole La Pira.

LA PIRA. Poniamoci la domanda, perché così come siamo partiti, siamo tutti animati da buona volontà. Io ho visto nelle Commissioni, delle quali ho avuto l’onore di far parte, questa buona volontà di cercare i punti di contatto, i punti di passaggio, i punti di organizzazione. Vediamoli dunque con animo libero. Vediamo se nel nostro progetto c’è un’idea madre, una architettonica; anche se essa ha delle pecche, vi sono tuttavia delle pietre murate in conformità all’architettura. Dovrei riferirmi a tutte le osservazioni fatte dai vari oratori, a cominciare dal Calamandrei fino all’Orlando. Ma va benissimo: posso anche accedere alle critiche fatte. Però posso fare a mia volta questa domanda: volete criticare il modo come è stata messa la pietra in questa costruzione? Se è criticabile il fatto di aver messo una pietra in un certo tipo di costruzione, può darsi che questa pietra non sia criticabile se messa in un altro tipo. Si è detto per esempio: perché parlare, come si parla nell’articolo 5, dello Stato e della Chiesa, che si riconoscono, ciascuno nel proprio ordine, indipendenti e sovrani? Perché parlare della famiglia definendola come società naturale? Perché parlare delle regioni, dei sindacati, delle comunità di lavoro, come risulta dagli articoli che tutti questi principî contengono? Si capisce che, se queste pietre le riferisco a un tipo di Costituzione di marca 1789, allora io considero soltanto i diritti individuali e l’uomo come membro dell’unica società statale. Ma se mi sposto e considero invece l’uomo come membro di una crescente moltitudine di organismi, allora mi sorge il problema per cui, se la Costituzione è un vestito, questo vestito deve essere adatto al corpo che deve andare a rivestire.

Vediamo quindi questo progetto rapidamente. Debbo dire, tra parentesi, che il tema di questo tipo nuovo di Costituzione fu largamente dibattuto nell’opinione pubblica francese. Molti notevolissimi movimenti puntarono sulla costituzione di questo tipo. Cominciamo proprio dall’articolo 6, che poi è, sotto un certo aspetto, l’articolo primo, perché è l’articolo primo del progetto della prima Sottocommissione, e leggiamolo sotto la luce di questo profilo. Che cosa dice? Per tutelare i principî inviolabili e sacri di autonomia e di dignità della persona e di umanità e di giustizia fra gli uomini, la Repubblica Italiana garantisce i diritti essenziali degli individui e delle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità.

Che cosa significa questo articolo? Vi prego di guardarlo nello sfondo di questo tipo pluralista di Costituzione: i diritti degli individui e delle formazioni sociali. Questo è l’articolo che governa l’architettonica di tutto l’edificio. Poi, se mi concedete questa visione pluralistica, subito vi domanderò: scusate, cosa viene immediatamente dopò la persona? Viene il primo, ente, il seminarium rei publicae: la famiglia. Concezione pluralistica: se la famiglia è un organismo naturale, allora è evidente che la Costituzione, veste del corpo sociale, deve parlare della famiglia. Quando infatti si dice organismo naturale, o società naturale, traducendo quel termine tecnico latino che è la societas naturalis, si vuole intendere un organismo di diritto naturale, si vuole affermare cioè che esiste una struttura fra i rapporti familiari, la quale è connaturata alla natura spirituale, libera, ma associata, dell’uomo.

La famiglia è quindi il primo organismo che ha un suo diritto, un suo statuto; e vedremo che lo Stato – quando giungeremo ad esso – deve fare una sola cosa: riconoscere questi diritti connaturati all’uomo e proteggerli. Sono diritti che rappresentano la costituzione della famiglia, perché rientrano in questa visione.

Passo poi all’articolo 5: la Chiesa. Non importa se siamo o non siamo credenti; è un problema subiettivo questo. Io guardo le cose dal punto di vista obiettivo e vi domando – osservate la storia umana; noi effettivamente non dobbiamo avere più quegli idola fori che erano caratteristici della mentalità illuministica; dobbiamo avere una visione storica, anche se non storicistica, delle cose – vi domando: «Esistono o no storicamente organismi nei quali, in concreto, gli uomini si associano religiosamente?». Esistono: è un fatto. Guardate in campagna; cosa vedete in un piccolo villaggio? C’è il campanile, la Chiesa, c’è il palazzo del comune; c’è la scuola, c’è la camera del lavoro, la casa del popolo; esistono tutte le varie forme di attività sociale. Esistono. Quindi una Costituzione pluralista, la quale è il vestito di questa realtà concreta, deve per forza tener conto di questa struttura sociale religiosa che è la Chiesa.

LUSSU. Le Chiese!

LA PIRA. Ho detto la Chiesa, per dire le Chiese.

CALOSSO. C’è il Cristianesimo, in questa Costituzione, non c’è l’Islam.

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

LA PIRA. Vedete, dicevo, questa Costituzione deve per forza rispecchiare questa struttura associativa religiosa; ma siamo al solito punto: è frutto di libertà della personalità umana che si associa. Allora c’è uno statuto originario, un diritto originario; lo Stato non può che riconoscere; senza contare che, se poi volgiamo lo sguardo al panorama storico della Chiesa cattolica, questa originalità, questa struttura giuridica, indipendente, sovrana, internazionale, questa complessa struttura sociale è evidente. Ormai non esiste nessun giurista, nessun uomo di pensiero serio, che disconosca questa originarietà di ordinamento giuridico. Quindi, in conclusione, lo Stato e la Chiesa esistono; e se i due ordinamenti esistono come ordinamenti originari, è evidente che fra questi due ordinamenti, parimenti originari, i quali incorporano a diverso titolo la realtà umana, non può non esistere un rapporto; e questo rapporto, per definizione, è un rapporto bilaterale, è un rapporto concordato. Qui entriamo nella questione…

Io qui effettivamente non parlo come un cattolico; parlo obiettivamente, come lo storico, come il giurista, e dico: se abbandono la mentalità illuminista e mi trasferisco a questa mentalità storica, concreta e sociale, devo riconoscere che questa struttura esiste e debbo metterla, come la famiglia, nella Carta costituzionale.

E c’è la questione dei Patti lateranensi. Io ne parlerò pochissimi minuti. Badate, a proposito della struttura giuridica della Chiesa, io debbo richiamarmi ad una frase di De Victoria, che è veramente il fondatore del diritto internazionale. C’è poco da dire, è una cosa immensa. Ad un certo punto egli disegna la struttura giuridica della comunità internazionale, e la disegna, egli dice, ricalcando la struttura giuridica della Chiesa cattolica. Come la Chiesa cattolica fa del mondo una unica res publica religiosa, così esiste una res publica civile, che è la res publica Christianorum, che fa sì che totus mundus est quasi unica res publica, cioè tutto il mondo è coordinato come un’unica città. Ed io richiamo anche l’attenzione sugli articoli 3 e 4 del nostro progetto. L’articolo 3 dice: «L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute», e l’articolo 4, con una maggiore audacia, dice, in sostanza, che la sovranità dello Stato va considerata nell’ambito della comunità internazionale.

Io vi chiedo: che cosa significa tutto questo? Significa che la nostra Costituzione intende ispirarsi alla concretezza dei rapporti di cui abbiamo parlato e riconosce che esiste una comunità internazionale – totus mundus est quasi unica res publica – e la rispecchia nel suo ordinamento e ne fa uno dei pilastri della Carta costituzionale.

La famiglia delle genti umane si modella sulla Chiesa cattolica. Io osservo i fatti. Poi, badate, devo fare un richiamo, perché a me la metafisica serve per indagare i problemi della politica e quindi quelli sociali.

RUSSO PEREZ. Ce ne siamo accorti.

LA PIRA. Penso a quanto dissero Hegel in ordine alla comunità internazionale e Kant e Rousseau prima di lui. Per Kant e per Rousseau, non essendoci il corpo sociale, non c’è un diritto internazionale anteriormente a quello statale e condizionante il diritto statale. E poi per Hegel la questione si pone in termini ancora più gravi, perché quando lo Stato è l’incarnazione totale della sovranità, è inconcepibile una comunità internazionale se non in termini dialettici, cioè di guerra. Del resto, ricordate quell’ultimo capitolo della filosofia del diritto? Un capitolo straordinario. Bastava pubblicarlo al tempo fascista per andare subito in prigione. Dice così: che cosa è la guerra? La guerra è, in parola elegante, la dialettica degli Stati perché, essendo lo Stato il valore assoluto e quindi sovrano, la sua vita non può manifestarsi che dialetticamente, cioè nel contrasto fra gli Stati. La pace è un armistizio; la guerra è, invece, lo stato normale, vitale e salutare delle nazioni.

Io non faccio una critica a questa concezione!

Ora, com’è che era venuta fuori questa concezione così inumana? È quella famosa visione metafisica; se voi vi riconducete alla visione pluralistica, avrete la comunità internazionale che precede lo Stato; se vi riconducete all’altra visione, avrete lo Stato assoluto il quale non è membro che provvisoriamente della comunità internazionale.

Quindi, passiamo oltre.

Visione pluralistica: vediamo le comunità territoriali o pluraliste: devono avere il vestito come il corpo. Io vi domando: c’è la famiglia? C’è la Chiesa? La comunità internazionale c’è? Esistono o non esistono le comunità territoriali che mediano il rapporto fra persona e Stato? Esistono. Date ad esse una sapiente, misurata autonomia: sarà il compito di questa Assemblea trovare questa misura.

Poi: sono un pluralista e vedo la realtà sociale. Vi domando: scusate, e il mondo del lavoro? Dov’è nelle Carte costituzionali del 1789 e seguenti, dov’è? Non esiste. Ma questo mondo del lavoro, cioè la società economica, esiste nella realtà umana, è fondamentale – nel senso tomista, «prius in tempore, non prius in dignitate» – quindi è la base. Com’è organizzato? Se amputate il corpo sociale, produrrete le conseguenze gravissime con la formazione del proletariato. Invece, queste organizzazioni esistono; se ne è visto il risultato. Cos’è il secolo passato dal punto di vista economico e strutturale del lavoro? Questo: è la formazione, la grande formazione della classe operaia; il movimento tradeunionista, la formazione dei sindacati, energica ricomposizione di questi arti che erano stati amputati, dimostrano che la realtà è quella che è, e che una Costituzione che sia veramente rispettosa della realtà non può prescindere da questi grandi ed essenziali organismi umani.

Quindi le organizzazioni di classe e quindi i sindacati, quindi la formazione delle grandi categorie di lavoro; non il corporativismo di Stato che è fallito per la ragione – si capisce – che veniva dall’alto, ma questa formazione che viene dal basso; la partecipazione attiva, democratica, di tutti quanti i lavoratori alla formazione dei loro organismi di classe e di lavoro.

Io avevo proposto un articolo, che poi fu bocciato, il quale diceva così: «Viene riconosciuto ad ogni lavoratore uno stato professionale che è fondamento di diritto». Perché non attribuire ai lavoratori una qualifica? Poiché la struttura sociale è pluralista, poiché la società economica si organizza con questi suoi congegni, perché non qualificare i lavoratori? Perché non dare un titolo di lavoro, fondamento di diritti, quasi proprietà di un titolo; una relazione tra i lavoratori e lo stato professionale al quale essi appartengono, e nel quale trova fondamento la loro vita economica, familiare, culturale e così via?

Ma questa è un’altra questione. Vi sono poi le comunità di lavoro: mi richiamo al 1789 e domando: ma scusate, quando la Costituzione del 1789 e le altre dicono che la proprietà è sacra ed inviolabile – io posso anche accettare questa definizione nel senso che essa, la proprietà privata, è un riflesso della mia personalità e quindi una garanzia della mia libertà – dove è il rapporto fra la proprietà e le comunità di lavoro? Intendiamoci bene: quando vedete gli uomini associati nel fatto produttivo, voi che cosa vedete? Vedete una convergenza di sforzi verso il bene comune, vedete diversità di funzioni; non una struttura meccanica, ma, come si dice, una struttura finalistica.

Da ciò una visione finalizzata della proprietà e dell’impresa.

C’è un libro molto importante del Renard, il quale dice così: l’impresa va concepita in maniera istituzionale, non secondo la categoria del contratto di diritto privato, ma secondo, invece, quella visione finalistica per cui tutti coloro, che collaborano ad una comunità di lavoro, sono membri, sia pure con diverse funzioni, di quest’unica comunità che trascende l’interesse dei singoli; quindi gli strumenti di produzione si proporzionano a questa concezione: e allora avete una concezione della proprietà, che pur essendo presidio della libertà umana, tuttavia diventa strumento di questa opera collettiva, quindi dà una dignità al lavoratore, che non è più un salariato, ma, come le Encicliche pontificie ricordano, deve tendere a diventare il consociato, il compartecipe di questa comunità di lavoro.

Quindi se guardiamo alla realtà economica e vediamo tutte queste imprese, e le vediamo in senso cooperativo – vedi i richiami agli articoli 42 e 43 – vediamo questa grande famiglia umana che nel campo produttivo crea queste cellule vive, attraverso le quali viene risolta la questione sociale: le comunità di lavoro. A questo proposito una osservazione relativa alla composizione del Senato, sempre in base a questo principio. Io, per temperamento, noi tutti anzi, siamo, in radice, contrari ad ogni forma di corporativismo. La sola parola ci dà fastidio; ma se voi ammettete l’esistenza di queste comunità di lavoro con struttura istituzionale, che potranno risolvere il problema sociale, e queste organizzazioni di classe da cui trae forza tutta la classe lavoratrice, perché non dovrebbe esserci una ripercussione costituzionale di esse nella composizione della seconda Camera? Io mi richiamo qui ad un magnifico lavoro che ho letto, di Ruffini, il quale circa trenta anni fa, non ricordo bene, a proposito della riforma del Senato che allora si agitava, fece una magnifica relazione in cui appunto prospettava il problema che questa seconda Camera, (siamo in epoca prefascista) fosse una Camera organicamente espressiva di questi interessi della classe operaia. È il mondo operaio, è la classe lavoratrice che accede organicamente al potere politico. Questa classe lavoratrice si impossessa, diciamo così, giustamente di questa seconda Camera e questo ha il suo valore.

Devo dare un ultimo accenno alle comunità politiche: vale a dire, noi non concepiamo in questa visione pluralista una democrazia atomisticamente considerata. Qui, nonostante che siano da riconoscere gli attuali difetti e le imperfezioni che esistono nella composizione dei partiti, la visione organica della società permette di vedere la struttura politica particolare nei partiti. Questo è il senso dell’articolo 47, che è suscettivo di una maggiore precisione. Ed infine il pluralismo culturale, il quale afferma quel principio della libertà di insegnamento e della libertà della scuola, e quindi quella gara nella costruzione del mondo culturale che è essenziale per la rinascita del nostro Paese.

Finisco; anzi devo dire ancora due o tre cose, e poi finisco. (Si ride).

Vediamo di raccogliere le fila.

Una crisi è constatata. La crisi costituzionale è una sproporzione. Un tipo di Costituzione ha tre elementi strutturali. Questi tre elementi sono sbagliati nel tipo statalistico e nel tipo individualistico. Abbiamo cercato gli elementi del tipo pluralistico. Ora resta una domanda. Mi richiamo anche a quanto è stato detto dall’onorevole Nenni, dall’onorevole Orlando e da altri che hanno parlato. La domanda è questa: ma scusi, ma lei ci dà forse un disegno di Costituzione democratica cristiana?

Badate, io lo premisi all’inizio: io non vi do un disegno di Costituzione democratica cristiana. Io vi do un disegno di Costituzione in base al principio della proporzionalità. Se è vero quello che ho detto della struttura della persona umana e della struttura del corpo sociale, è vero l’assetto costituzionale che si propone. Che questo poi sia di ispirazione cristiana, la questione è diversa, dipende da questo fatto…

Una voce a sinistra. Non lo è abbastanza.

LA PIRA. Io posso rispondere: è una Costituzione umana. Perché umana? Perché essa indaga obiettivamente le strutture dell’uomo. Ma l’uomo è fatto così, c’è poco da fare, perché Dio esiste, l’uomo esiste e la realtà del corpo sociale si articola in quella maniera: è così la realtà. La Costituzione si adatta a questa realtà strutturale, umana e sociale. Quindi, è umana. Ma posso anche dire che è cristiana. Perché, è cristiana? Mi richiamo a quanto ho detto poc’anzi, perché vi sono delle acquisizioni di ordine naturale, le quali sono dovute al cristianesimo, che ha doppia funzione: una funzione rivelatrice dell’ordine della grazia soprannaturale, una funzione rivelatrice dell’ordine della natura: gratia non destruit naturam. Quindi, il Vangelo ci rivela l’uomo nella grazia, ed anche l’uomo quale è nella sua natura. È per questo che la casa costruita secondo il principio cristiano, è una casa fatta per tutti gli uomini di buona volontà, credenti o non credenti, perché è fatta per l’uomo. (Interruzioni a sinistra Commenti).

Quindi, questa casa è umana, perché umana è la concezione della persona quale ho delineato, umana è la concezione del corpo sociale, umana la concezione del diritto che costituisce la vôlta di questo edificio. Però, ripeto, è umana, ma ha la sua radice in quella rivelazione dell’ordine naturale, di cui è stato detto che non possiamo più, in ordine a queste verità, non essere cristiani. Non c’è niente da fare: questa è la struttura delle cose, e su questa struttura delle cose si edifica la casa. (Applausi al centro).

Ora, rispondo con brevissimi accenni a quanto ha detto l’onorevole Nenni ieri sera. L’onorevole Nenni dice: «Lo Stato deve o non deve essere laico?». Vedete, la cosa mi ha impressionato. È vero che altre volte l’avevo letta, ma ieri sera mi ha colpito e mi sono chiesto: che significa Stato laico?

Stiamo sempre alla precisazione dei concetti. Stato laico? Perché, vedete, per quel famoso principio che esiste sempre una base teoretica di tutte le cose, anche inconsapevolmente (perché l’azione è sempre diretta dall’idea) non esiste uno Stato agnostico: come si concepisce la realtà umana, come si concepisce la società, così si costruisce la vôlta giuridica. Ora, se l’uomo ha questa orientazione intrinsecamente religiosa, senza una qualifica, ed allora, che significa Stato laico, se lo Stato è l’assetto giuridico della società? Se l’uomo ha questa intrinseca orientazione religiosa, se necessariamente questa intrinseca orientazione si esprime in comunità religiose, non esiste uno Stato laico. Esiste uno Stato rispettoso di questa orientazione religiosa e di queste formazioni religiose associate, in cui esso si esprime. Il termine è contradittorio: non c’è Stato laico, non c’è Stato agnostico: non dobbiamo fare uno Stato confessionale (Commenti), uno Stato, cioè, nel quale i diritti civili, politici ed economici derivino da una certa professione di fede; dobbiamo solo costruire uno Stato che rispetti questa intrinseca orientazione religiosa del singolo e della collettività e che ad essa conformi tutta la sua struttura giuridica e la sua struttura sociale. (Applausi al centro e a destra).

Finalmente, un ultimo cenno su quanto diceva ieri l’onorevole Nenni: faremo uno stato di lavoratori? Ma bisogna precisare. Pensiamo che se proprio la dimenticata nelle Costituzioni precedenti è stata la società economica e quindi la tutela dei lavoratori, questo volto produttivo e costruttivo dell’uomo, non può evidentemente non esser messo in rilievo in una Costituzione nuova: sarà questo un aspetto nuovo che assieme a quelli citati servirà a differenziare il tipo nuovo di Costituzione rispetto a quello di tipo individualista.

Io pensavo proprio, in questi ultimi giorni, leggendo un libro di un noto autore che fa in proposito delle preziose osservazioni, che se voi vi immaginate lo Stato come poc’anzi ve lo ho delineato – cioè come una società politica distinta da quella economica – voi non potete confondere i due titoli – politico ed economico – che qualificano l’uomo. Io, come uomo, come persona, indipendentemente dalla mia funzione produttiva, sono membro di questa collettività politica, perché sono portatore di una concezione della vita che trascende l’ordine economico e che faccio valere architettonicamente nella politica. Quindi questo volto dell’uomo membro della collettività politica bisogna metterlo in netto rilievo, distinguendolo da quello dell’uomo lavoratore: il quale, quando esplica questa funzione speciale e produttiva nelle sue varie forme, partecipa – deve, anzi, partecipare – democraticamente e quindi attivamente a tutte la comunità economiche attraverso le quali si organizza, dal basso all’alto, la società economica. Ma le due cose vanno nettamente differenziate in base a questo principio della personalità umana che è fatta a scala. C’è nella scala umana il gradino del lavoratore: ma sopra c’è il gradino dell’uomo politico e, al di sopra della economia e della politica, c’è il grado supremo dell’uomo in colloquio diretto e immediato con Dio. Quindi la nostra Costituzione deve avere questo volto del lavoratore, ma con questa precisazione che è di estrema importanza giuridica e sociale.

E ora brevemente due osservazioni relative ai Patti lateranensi. Sarò brevissimo. Poiché la questione è stata discussa e impostata così abbondantemente, permettetemi un cenno su di essa.

Vi dico: esistono o no in questa visione pluralista i due ordinamenti giuridici – Stato e Chiesa – indipendenti e sovrani? Esistono, e tutti siamo d’accordo nel riconoscere questa esistenza. Nella prima Sottocommissione ci fu unanimità su questo punto.

Se esistono, la conseguenza è logica: i due ordinamenti mantengono fra loro dei rapporti. Ora, questi rapporti concordati esistono. C’è un sistema di rapporti che è stato creato e sulla sostanza del quale tutti siamo d’accordo che non c’è proprio nulla da ridire. Sulla sostanza di questi rapporti siamo d’accordo; ché se la analizzassimo, essa risulterebbe conforme alla visione concreta della realtà. Non Stato confessionale, ripeto. Se esistono questi rapporti e se rispondono sostanzialmente ad una unanimità di consenso messa in rilievo da tutti i partiti, la conseguenza è ovvia: rispecchiarli nella Costituzione: e ciò anche se c’è qualche punto che potrebbe essere sottoposto a revisione bilaterale. La Chiesa è maestra in questa concretezza di adattamento alle varie situazioni storiche.

Ed a parte il principio di proporzionalità che esige questa trascrizione costituzionale, resta sempre la questione politica. Perché inferire un colpo alla Chiesa cattolica? Esistono delle delicatezze politiche, esistono delle sensibilità storiche che vanno osservate. (Si ride Commenti).

Ieri l’onorevole Nenni ha avuto un’osservazione felice. Diceva: «La Chiesa si è difesa nei confronti della tirannia e nei confronti del mondo illuminista». Mi ricordo che da ragazzo facevo l’anticlericale anch’io. (Si ride Commenti).

Ora, dico, la Chiesa si è difesa. Ma quando la Chiesa vede uno spirito democratico di sincerità, di realtà, di concretezza storica nei suoi confronti, essa allora viene incontro a tutte le legittime aspirazioni di questa democrazia: noi avremo in essa una preziosa collaboratrice. Perché devo ricordarvi una cosa che non possiamo dimenticare, che la Chiesa cattolica ha in Roma il centro mistico e giuridico di una comunità internazionale che si estende da un polo all’altro: essa ha nell’Italia, in Roma, il suo centro propulsore, destinato ad imprimere il moto al corpo mistico della Chiesa.

Perché non volete tener conto di questa condizione storica, ed avere questa sensibilità politica nei confronti della Chiesa cattolica? Credo ormai che una quantità di pregiudizi siano venuti meno. La Chiesa – che nella sua struttura interiore è la comunione dei santi, e che nella sua struttura esterna costituisce una magnifica e universale struttura giuridica – può fare e fa tanto bene, anche politicamente, pel nostro Paese (Vivi applausi al centro Interruzione dell’onorevole Lussu Proteste al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Lussu, non interrompa.

LA PIRA. Io tengo molto a dichiarare che vi parlo con tutta la sincerità del mio cuore e della mia mente: non ho la faccia di bronzo. (Applausi al centro Rumori a sinistra).

Ho finito davvero, chiedendovi scusa, se, purtroppo, l’ampiezza del problema mi ha costretto a perdere tanto tempo. Ma finisco come ho cominciato, con quella bella parabola «costituzionale» che è la parabola dell’Evangelo relativa al costruttore che costruì sopra la pietra e venne la tempesta e la casa non crollò. Questa è la nostra preoccupazione: di scavare questa pietra, di costruire questi muri maestri, di costruire questa vôlta e di fare in modo che vi sia una casa umana, fatta per fratelli, per uomini che cooperano per uno stesso fine, che è lo sviluppo della personalità umana sino ai vertici della sua vita religiosa. E che per questo ci assista la benedizione di Dio e della Vergine Immacolata. (Vivissimi applausi Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Togliatti. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Onorevole Presidente, signore, onorevoli colleghi, non è per mio desiderio, né per merito o colpa mia, ma unicamente perché così ha voluto la sorte, che intervengo alla fine di questo dibattito. Debbo a questo fatto di avere potuto seguire tutta la discussione preliminare sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana che qui si è svolta, di averne potuto cogliere i diversi momenti, dagli interventi dei colleghi i quali si sono elevati veramente a un’altezza degna del tema che sta davanti a noi, degna del compito che ci siamo prefisso, sino a quelli dei colleghi che hanno preferito soffermarsi sovra punti particolari, talora anche di importanza secondaria.

In questo momento però, se faccio uno sforzo per rievocare l’assieme del dibattito, non riesco a sfuggire a un senso di perplessità, e sorge in me questa domanda: siamo noi veramente riusciti, non come singoli, ma come Assemblea – la prima grande Assemblea democratica italiana, eletta sulla scala nazionale per discutere la Costituzione da darsi al Paese – siamo noi effettivamente riusciti ad afferrare e a porre nel necessario rilievo la prima e principale questione che sta davanti a noi e che dibattiamo davanti al popolo? Quale sia questa questione ritengo sia chiaro per tutti. La domanda alla quale dobbiamo dare una risposta è questa: Quale Costituzione dobbiamo dare all’Italia? È evidente: quella di cui l’Italia, in questo momento particolare, determinato, concreto, della propria storia, ha bisogno. Ma di quale Costituzione ha bisogno oggi l’Italia? E qui la questione che ho posto è strettamente collegata con un’altra, la più profonda, a cui hanno cercato di dare risposta altri oratori prima di me. Perché facciamo noi una Costituzione nuova? Solo se avremo dato a questi interrogativi, che si pongono in questo momento, non soltanto a noi, ma a tutto il popolo, una risposta esatta e concreta, solo allora riusciremo a dare un orientamento giusto alle soluzioni che stiamo per prendere, tanto per quello che si riferisce ai problemi generali di ordine costituzionale, quanto per quello che si riferisce alle singole, concrete questioni che incontreremo nel corso della discussione di tutto il progetto.

L’onorevole Nitti, cercando di rispondere alla domanda ch’io mi pongo, ha detto che dobbiamo fare una Costituzione nuova perché siamo dei vinti, e tutti i popoli vinti sono costretti, quasi, per una legge della storia, a darsi Costituzioni nuove.

È vero; ma non è tutta la verità. Direi che non è la verità espressa in modo preciso, intiero, in modo che aderisca veramente alla situazione odierna del Paese. In realtà, il principio che le Costituzioni si debbano cambiare o si cambino dopo le sconfitte, non è valido in modo assoluto, né fu sempre valido nel passato. Gli esempi si potrebbero portare numerosissimi. Questo principio, però, si afferma in un periodo determinato della storia, e precisamente si afferma via via che si consolida, nella vita dei popoli il principio democratico, del governo del popolo, per il popolo, attraverso il popolo. Direi anzi che anche dopo l’affermazione del principio democratico come cardine dell’ordinamento degli Stati, vi sono casi, e precisamente in quei paesi che non hanno un ordinamento conseguentemente democratico, dove la sconfitta non lascia tracce profonde. Si potrebbe citare il caso dell’Impero austroungarico, che non fu tratto a catastrofe, ma forse uscì rafforzato dalla sconfitta del 1866. Ma quando il principio democratico si afferma e mette solide radici nella coscienza dei popoli e nella realtà della vita nazionale e internazionale, allora il principio richiamato dall’onorevole Nitti ha valore, e ha valore per un motivo molto semplice: perché si afferma in questo momento il principio della responsabilità dei popoli per la loro storia e il loro destino. Quanto più vivamente l’esigenza democratica è sentita, tanto più è sentita questa responsabilità, per cui accade alle volte ad una stessa generazione di essere spettatrice di un dramma storico ed esecutrice dei giudizi di condanna che ne derivano nella coscienza popolare. Allora veramente, secondo il profondo motto del filosofo e poeta, «die Weltgeschichte wird Weltgericht», la storia universale si fa giudizio universale; e si fa giudizio universale, proprio perché i popoli si sentono responsabili del proprio destino, verso se stessi e verso i proprî figli.

È vero quello che ha detto l’onorevole Nitti: noi siamo responsabili del futuro verso i nostri figli, verso i nostri nipoti. Per questo facciamo una nuova Costituzione, cioè vogliamo fondare un ordinamento costituzionale nuovo, tenendo conto di quello che è accaduto, cioè tirando le somme di un processo storico e politico che si è concluso con una catastrofe nazionale.

Questa catastrofe, signori, è stata in pari tempo il fallimento di una classe dirigente, e questa è dunque la vera questione, che sta davanti a noi e che ci deve orientare in tutto il dibattito costituzionale. Il popolo italiano infatti oggi non può a meno di chiedersi se questa sconfitta che abbiamo subito, questo disastro nel quale ci hanno gettato, era qualche cosa di inevitabile, legata a uno di quei cataclismi che travolgono popoli e regimi, come furono nel passato le invasioni barbariche, e li travolgono alle volte nonostante tutti gli sforzi che essi possano fare per salvarsi. La risposta non è dubbia. Questa sconfitta non era inevitabile. Non ci troviamo di fronte a uno di quei cataclismi. Ci troviamo di fronte a una catastrofe che non possiamo non considerare legata a una politica determinata e conseguenza di essa, e questa politica fu voluta da una classe dirigente, la quale non seppe né vedere, né prevedere, perché anche quando assisté alla distruzione di beni, e materiali e morali, cui è legata tutta la vita della nazione, oppure quando era in grado di prevedere che verso questa distruzione si precipitava in modo fatale, lasciò fare e fu complice, perché sopra gli interessi di tutti fece prevalere l’interesse proprio egoistico, di casta, di conservazione di determinate strutture politiche, economiche, sociali. La vecchia classe dirigente italiana, nel momento che compiva questo errore fatale, si rivelava come classe non più nazionale, perché nazionale è soltanto quella classe che quando difende le proprie posizioni e afferma se stessa, difende e afferma gli interessi di tutti gli uomini e, vorrei dire, di tutta l’umanità. È da questo fatto storicamente incontrovertibile che noi dobbiamo trarre, oggi, tutte le conseguenze che ne derivano.

Colleghi, io sento rispetto, e anche più che rispetto, per gli uomini che siedono in quest’aula e che appartengono ai gruppi che furono parte integrante di questa vecchia classe dirigente. Non ho nessun ritegno a rivolgere loro, per certi aspetti della loro attività, l’appellativo di maestri, sia con la «m» maiuscola o minuscola, non importa. Sono sempre disposto ad ascoltare i loro consigli; però non posso non sentire e non affermare che anche questi uomini portano una parte della responsabilità per la catastrofe che si è abbattuta sul popolo italiano. Perché voi avevate occhi e non avete visto. Quando si incendiavano le Camere del lavoro, quando si distruggevano le nostre organizzazioni, quando si spianavano al suolo le cooperative cattoliche, quando si assaltavano i municipii con le armi, o si faceva una folle predicazione nazionalistica, non dico che voi foste complici diretti, ma senza dubbio eravate in grado di dire quelle parole che avrebbero potuto dare una unità a tutto il popolo, animandolo a una resistenza efficace contro quella ondata di barbarie; voi non foste all’altezza di questo compito; e non è per un caso che non avete trovato gli accenti che allora era necessario trovare.

Avete pensato che si trattasse di problemi di secondaria importanza, di tollerabili «esuberanze», oppure di metodi che vi sembrava lecito fossero adoperati per ridurre alla ragione i «sovversivi». Ma chi sono i sovversivi? I sovversivi sono la nuova classe dirigente che avanza, che conquista le proprie posizioni, che afferma i propri ideali, che vuole il posto che le spetta nella direzione della vita pubblica e dello Stato, che vuole imprimere una vita nuova a tutta la nazione. È per arrestare la marcia in avanti della nuova classe dirigente, uscita dalle classi lavoratrici, che voi avete lasciato che il fascismo compisse la sua criminale opera di distruzione dei beni più preziosi della Nazione. Questa è la vostra responsabilità e noi non possiamo non sentirla. Forse, del resto, la sentite anche voi, e di qui deriva quella vena di amarezza che colgo nei vostri discorsi. Né io ho posto, né desidero approfondire questa questione a titolo di polemica personale, ma perché intendo che il problema della responsabilità di un regime e quindi di una classe dirigente sia posto, e domini tutto questo dibattito.

Per questo, quando ci si propose di tornare al precedente ordinamento costituzionale rispondemmo di no; per questo, onorevole Rubilli, abbiamo voluto la Costituente, e davanti alla Costituente sta ora nella sua interezza la questione più ardente e urgente della nostra vita nazionale, quella della responsabilità di tutto un ordinamento politico e sociale, a cominciare dai suoi aspetti costituzionali.

Per risolvere questa questione, che cosa abbiamo fatto sinora? Abbiamo, prima di tutto, abbattuto l’istituto monarchico e fondato un regime repubblicano. Guai se non lo avessimo fatto! Realmente, onorevole La Pira, in questo caso avremmo costruito sulla sabbia la nuova Costituzione, perché l’avremmo costruita sopra una menzogna. Qualunque Costituzione avessimo fatto, se fosse stata la Costituzione di quella monarchia che fu responsabile della nostra rovina, sarebbe stata una mostruosità morale, qualche cosa che non avrebbe potuto resistere in nessun modo, non dico alle critiche degli uomini, ma alla critica delle cose stesse.

Alcuni dei principali responsabili della nostra catastrofe sono stati duramente puniti. Sono scomparsi. Con altri abbiamo voluto essere magnanimi per non aprire lacerazioni troppo profonde nel corpo della Patria. La questione della responsabilità rimane però aperta per quello che si riferisce alla classe dirigente come tale. Rimane aperto il problema dell’avvento di una nuova classe dirigente alla testa di tutta la vita nazionale. La nuova Costituzione deve essere tale che per lo meno apra la via alla soluzione di questo problema.

Ma accanto alla questione della responsabilità si pone, immediatamente, quella delle garanzie per l’avvenire. Vogliamo che quello che è avvenuto una volta non possa più ripetersi. Non vogliamo più essere lo zimbello del giuoco, più o meno aperto, più o meno palese, di gruppi che vorrebbero manovrare a loro piacere la vita politica italiana perché concentrano nelle loro inani le ricchezze del Paese. Questo è avvenuto nel passato. Vogliamo evitare continui nell’avvenire. A questo scopo chiediamo anche delle garanzie costituzionali.

Per questo, onorevole Lucifero, vogliamo non una Costituzione afascista, ma antifascista. Quando diamo questo appellativo alla Costituzione che stiamo per fare, intendiamo precisamente dire che la Costituzione ci deve garantire, per il suo contenuto generale e per le sue norme concrete, che ciò che è accaduto una volta non possa più accadere, che gli ideali di libertà non possano più essere calpestati, che non possa più essere distrutto l’ordinamento giuridico e costituzionale democratico, di cui gettiamo qui le fondamenta. Ma la sola garanzia reale, seria, di questi, è che alla testa dello Stato avanzino e si affermino forze nuove, le quali siano democratiche e rinnovatrici per la loro stessa natura. Tali sono, o signori, le forze del lavoro!

Questa ritengo sia la sola impostazione concreta possibile che si possa dare al problema della nostra nuova Costituzione.

Questa impostazione, come vedete, lascia da parte le ideologie. Onorevole Lucifero, ella si è meravigliato che io abbia affermato, in una riunione della prima Sottocommissione, che desideravamo una Costituzione che mettesse da parte le ideologie.

LUCIFERO. Me ne sono compiaciuto, onorevole Togliatti.

TOGLIATTI. Bene; ma, veda, onorevole Lucifero, per noi questa è una cosa elementare. L’ideologia non è dello Stato, l’ideologia è dei singoli o, se ella vuole, è dei partiti, e anche non sempre, perché posso concepire un partito nel quale confluiscano differenti correnti ideologiche per l’attuazione di un unico programma. Non impostazione ideologica, dunque, ma impostazione politica concreta, derivante da una visione esatta della situazione in cui si trova oggi l’Italia.

Perciò noi non rivendichiamo una Costituzione socialista. Sappiamo che la costruzione di uno Stato socialista non è il compito che sta oggi davanti alla Nazione italiana. Il compito che dobbiamo assolvere oggi non so se sia più facile o più difficile, certo è più vicino. Oggi si tratta di distruggere fino all’ultimo ogni residuo di ciò che è stato il regime della tirannide fascista; si tratta di assicurare che la tirannide fascista non possa mai più rinascere; si tratta di assicurare l’avvento di una classe dirigente nuova, democratica, rinnovatrice, progressiva, di una classe. dirigente la quale per la propria natura stessa ci dia una garanzia effettiva e reale, che mai più sarà il Paese spinto per la strada che lo ha portato alla catastrofe, alla distruzione.

In questa visuale debbonsi considerare e io considero tutte le questioni costituzionali che stanno davanti a noi e che dibatteremo nel corso dei prossimi mesi.

Lo sforzo che vorrei fare all’inizio, in questo dibattito che giustamente fu definito preliminare, è quello di individuare quali sono i beni sostanziali che la Costituzione deve assicurare al popolo italiano, beni dei quali non si può prescindere, se si vuole raggiungere quell’obiettivo fondamentale che ho cercato di fissare e che devono essere o instaurati, o restaurati. Credo che questi beni siano tre: il primo è la libertà e il rispetto della sovranità popolare; il secondo è l’unità politica e morale della Nazione; il terzo è il progresso sociale, legato all’avvento di una nuova classe dirigente. Se noi riusciremo a fare una Costituzione la quale garantisca alla Nazione questi tre beni, allora non avremo fatto, com’è stato detto, una Costituzione interlocutoria, ma una Costituzione che rimarrà effettivamente come il libro da porsi accanto all’arca del patto, una Costituzione che illuminerà e guiderà il popolo italiano per un lungo periodo della sua storia. Le esigenze che ho indicato non sono infatti qualcosa di transitorio, ma sono esigenze permanenti e concrete, corrispondenti alla situazione storica ben determinata che sta davanti a noi.

Né io ritengo sia necessario, per assolvere al compito da me indicato, fare quella che è stata chiamata una Costituzione di compromesso. Che cosa è un compromesso? Gli onorevoli colleghi che si sono serviti di questa espressione, probabilmente l’hanno fatto dando ad essa un senso deteriore. Questa parola non ha però in sé un senso deteriore; ma se voi attribuite ad essa questo senso, ebbene, scartiamola pure. In realtà, noi non abbiamo cercato un compromesso con mezzi deteriori, per lo meno in quella parte della Costituzione alla cui elaborazione io ho cercato di partecipare attivamente. Meglio sarebbe dire che abbiamo cercato di arrivare ad una unità, cioè di individuare quale poteva essere il terreno comune sul quale potevano confluire correnti ideologiche e politiche diverse, ma un terreno comune che fosse abbastanza solido perché si potesse costruire sopra di esso una Costituzione, cioè un regime nuovo, uno Stato nuovo e abbastanza ampio per andare al di là anche di quelli che possono essere gli accordi politici contingenti dei singoli partiti che costituiscono, o possono costituire, una maggioranza parlamentare. Ritengo questo sia il metodo che doveva e deve essere seguito se si vuol fare opera seria, e sono lieto che immediatamente prima di me abbia parlato l’onorevole La Pira, il cui discorso, nonostante le frequenti citazioni latine, io ho ascoltato con appassionato interesse, perché mi è parso che nella prima parte della sua esposizione l’onorevole La Pira abbia dato un contributo molto efficace per scoprire non solo quale è la via per la quale noi siamo arrivati a questo tipo di Costituzione e a determinate formulazioni concrete, ma anche quale è la via per la quale siamo arrivati a quella unità che ci ha permesso di dettare queste formulazioni.

Effettivamente c’è stata una confluenza di due grandi correnti: da parte nostra un solidarismo – scusate il termine barbaro – umano e sociale; dall’altra parte un solidarismo di ispirazione ideologica e di origine diversa, il quale però arrivava, nella impostazione e soluzione concreta di differenti aspetti del problema costituzionale, a risultati analoghi a quelli a cui arrivavamo noi. Questo è il caso dell’affermazione dei diritti del lavoro, dei cosiddetti diritti sociali; è il caso della nuova concezione del mondo economico, non individualistica né atomistica, ma fondata sul principio della solidarietà e del prevalere delle forze del lavoro; è il caso della nuova concezione e dei limiti del diritto di proprietà. Né poteva fare ostacolo a questo confluire di due correnti, le quali partono da punti ideologicamente non eguali, la concezione, pure affermata dall’onorevole La Pira, della dignità della persona umana come fondamento dei diritti dell’uomo e del cittadino. Perché questa concezione avrebbe dovuto fare ostacolo? Al contrario, vi era qui un altro punto di confluenza della nostra corrente, socialista e comunista, colla corrente solidaristica cristiana. Non dimenticate infatti che socialismo e comunismo tendono a una piena valutazione della persona umana: a quella piena valutazione della persona umana, che noi riteniamo non possa essere realizzata, se non quando saranno spezzati i vincoli della servitù economica, che oggi ancora opprimono e comprimono la grande maggioranza degli uomini, i lavoratori.

Signori, se questa confluenza di due diverse concezioni su un terreno ad esse comune volete qualificarla come «compromesso» fatelo pure. Per me si tratta, invece, di qualcosa di molto più nobile ed elevato, della ricerca di quella unità che è necessaria per poter fare la Costituzione non dell’uno o dell’altro partito, non dell’una o dell’altra ideologia, ma la Costituzione di tutti i lavoratori italiani e, quindi, di tutta la Nazione.

Non escludo che sia stato seguito in qualche caso anche un metodo diverso, il metodo che chiamerei del compromesso deteriore, di quel compromesso che consiste nel lavorare non più sulle idee e sui principî, o sulle loro deduzioni e conseguenze, ma nel lavorare esclusivamente sulle parole: nel togliere una parola e metterne un’altra, la quale direbbe approssimativamente lo stesso, ma fa meno paura, oppure può essere interpretata in altro modo; nel sostituire così la confusione alla chiarezza. Questo metodo da altri è stato seguito; io ho cercato di non seguirlo mai. È certo che nella redazione definitiva del testo costituzionale in alcuni punti si sente l’influenza di questo metodo deteriore di compromesso; ed alcune affermazioni che nella redazione primitiva delle Sottocommissioni erano più chiare, più semplici, sono poi state direi lavate in modo tale, che hanno perduto quel rilievo che avrebbero dovuto avere.

Ad esempio, per l’articolo 1 avevamo proposto una formula secondo la quale si affermava che la sovranità risiede nel popolo ed i poteri emanano dal popolo. Non è giusto dire, come è detto nel testo definitivo, che la sovranità emana dal popolo: è il potere che emana dal popolo. È evidente che qui si è cercata una formula di compromesso deteriore, a scapito della chiarezza e della precisione. Lo stesso si è fatto in una serie di altre formulazioni. Non voglio tediarvi, ma avrei molti esempi da citare; li ricorderemo nel seguito della discussione. Tutti gli articoli relativi ai diritti sociali sono stati rielaborati con questo deteriore spirito di compromesso verbale. Anche negli articoli relativi all’ordinamento regionale si trova un errore di questo genere. Mentre la Sottocommissione aveva giustamente proposto: «II territorio della repubblica è ripartito, ecc…»; il testo riveduto dice: «La Repubblica si riparte in Regioni e Comuni». Questa formula non è conciliabile con quella secondo la quale la Repubblica è indivisibile. È evidente che anche vi è stato uno sforzo di compromesso in senso deteriore, ed io sarò d’accordo con tutti coloro che proporranno di ritornare, in tutti questi casi, a formule più precise, che abbiano maggiore rilievo, siano più incisive e dicano chiaramente quello che vogliono dire.

Oserei dire che nel nostro lavoro non ci hanno dato grande aiuto i giuristi. Non se l’abbiano a male i colleghi che esercitano questa nobile professione, che del resto avrebbe potuto anche essere la mia, se la politica non mi avesse traviato.

Molte formulazioni del progetto sono certamente deboli, perché giuridicamente non siamo stati bene orientati e effettivamente fu un errore non includere nella Commissione i rappresentanti della vecchia scuola costituzionalista italiana.

La realtà è però che negli ultimi venti o trenta anni la scienza giuridica si è staccata dai principî della nostra vecchia scuola costituzionale. In fondo quali erano questi principî? Erano da un lato i principî del diritto romano e dall’altro i grandi principî delle rivoluzioni borghesi, elaborati poi attraverso l’esperienza costituzionale dell’Ottocento. Negli ultimi venti o trenta anni invece sono affiorate e sono state accolte, soprattutto nel nostro Paese, dottrine diverse, quelle a cui accennava anche l’onorevole La Pira, che riconoscono e collocano la sovranità non nel popolo, ma soltanto nello Stato, e danno quindi ai diritti individuali soltanto un carattere riflesso. La scienza giuridica degli ultimi venti anni è stata permeata da queste nuove dottrine, e questo spiega perché, quando abbiamo dovuto scrivere una Costituzione democratica e abbiamo chiesto l’ausilio dei giuristi, essi non sono stati in grado di darci un aiuto efficace. Per darcelo, occorreva ch’essi cancellassero o dimenticassero qualche cosa; bisognava che ritornassero a qualche cosa che avevano dimenticato, e non erano sempre in grado di farlo. Questo è un motivo profondo delle debolezze e del carattere equivoco di molte tra le formulazioni del testo che sta davanti a noi.

Riconoscendo però questa debolezza, io non condivido la sostanza delle critiche che sono state fatte dall’onorevole Orlando. Alcune delle sue osservazioni sono giuste e ne terremo conto. Correggeremo, preciseremo i poteri dell’uno e dell’altro istituto, preciseremo le funzioni dell’uno o dell’altro potere. Però mi è parso, onorevole Orlando, che quando ella, partito da una definizione del regime parlamentare – e di definizioni del regime parlamentare se ne possono dare parecchie, perché le caratteristiche del regime parlamentare possono essere definite in modo diverso secondo le diverse dottrine e gli orientamenti diversi della teoria e della pratica – mi è parso che quando ella a un certo punto si è fermato e ha detto: «qui manca qualche cosa» (e non so che cosa ella cercasse: colui che mantiene l’equilibrio, colui che ha l’iniziativa, colui che sancisce), onorevole Orlando, io ho avuto l’impressione, e perdoni se sono maligno, che ella cercasse qualcosa che noi non abbiamo voluto mettere nella Costituzione: che ella cercasse il re. (Si ride Vivi commenti).

Noi abbiamo voluto fare una Costituzione conseguentemente repubblicana, cioè una Costituzione che fosse fondata su un riconoscimento completo della sovranità popolare e sul principio che tutti i poteri emanano dal popolo. Può darsi che non abbiamo ben definito l’uno o l’altro di questi poteri e che dobbiamo precisare qualcosa; però fondamentale rimane il principio che la sovranità risiede nel popolo e solo nel popolo, che è il vero principio repubblicano. La Repubblica non è soltanto il regime che ha cacciato i Savoia; la Repubblica è il regime nel quale il popolo è veramente sovrano e la sovranità popolare si manifesta in tutta la vita dello Stato.

Ho detto, onorevoli colleghi, che tre sono le esigenze fondamentali da soddisfare: esigenza della libertà; esigenza di unità politica e morale della Nazione; esigenza di progresso sociale e di rinnovamento della classe dirigente. Permettetemi di dedicare alcune parole a ciascuna di queste esigenze fondamentali.

Sarò breve sul primo punto, perché mi ha preceduto il collega onorevole Laconi, il quale ha chiaramente formulato le critiche che noi, sotto questo riguardo, facciamo al progetto che ci viene presentato. Siamo d’accordo sulla formulazione dei diritti politici del cittadino; non siamo invece completamente d’accordo sul modo come è stato disposto l’ordinamento costituzionale, cioè il sistema attraverso il quale si manifesta e si attua la sovranità popolare. Troviamo pesante e farraginoso, prima di tutto, il procedimento legislativo. Critichiamo, in secondo luogo, il bicameralismo spurio di questo progetto. In linea di principio, siamo contrari a un sistema bicamerale; abbiamo però detto sin dall’inizio che non avremmo fatto di questa nostra posizione motivo di conflitto. Vogliamo guardare non alla forma, ma alla sostanza: accettiamo quindi anche un bicameralismo, ma a condizione che, se vi saranno due Camere, esse siano entrambe emanazione della sovranità popolare e democraticamente espresse dal popolo. Per questo aspetto, non ci sembra accettabile l’articolo 56 che stabilisce le categorie degli eleggibili a senatore. Attraverso queste categorie vediamo ricomparire ancora una volta il sistema del censo. Abbiamo fatto un’inchiesta in una delle provincie italiane per determinare, sulla base dell’articolo 56, quanti eleggibili a Senatore potrebbe avere un partito il quale sia il partito delle classi possidenti e quanti ne potrebbe avere un partito, come il nostro, che sia il partito delle classi lavoratrici. Il rapporto è di uno a dieci, e credo che, in altre provincie, specie nel Meridione, sarebbe ancora più sfavorevole.

Discutibilissimo sembra a me anche l’articolo 88, col quale si è tentato di dare una soluzione all’annosa questione della stabilità del Governo. Qui vi è, secondo me, veramente una deviazione del puro regime democratico di tipo parlamentare. Si richiede, infatti, in questo articolo che la mozione di sfiducia al Governo, – quella mozione di sfiducia la cui presenza continua in qualsiasi dibattito e in qualsiasi situazione è essenziale per il parlamentarismo – sia presentata da un quarto almeno dei membri dell’Assemblea per poter essere messa in discussione. Il che vuol dire che il gruppo autonomista, per esempio, che ha dieci deputati, non potrà mai mettere in discussione una mozione di sfiducia, a meno che non voglia andare a battere alla porta di un partito di massa perché gli presti quelle cento o centocinquanta firme che gli abbisognano. Mi pare che qui effettivamente, proprio nel momento in cui tutti criticano il sistema dei grandi partiti che opprimerebbero la libertà delle assemblee parlamentari, si fa una concessione a questo sistema, e nel modo peggiore.

Perché si sono introdotte queste norme? E perché riscontriamo in questa stessa direzione tutta una serie di altre debolezze nell’ordinamento costituzionale che ci viene proposto? L’onorevole Nenni ha dato una risposta che a me sembra giusta. Tutte queste norme sono state ispirate dal timore: si teme che domani vi possa essere una maggioranza, che sia espressione libera e diretta di quelle classi lavoratrici, le quali vogliono profondamente innovare la struttura politica, economica, sociale del Paese; e per questa eventualità si vogliono prendere garanzie, si vogliono mettere delle remore: di qui la pesantezza e lentezza nella elaborazione legislativa, e tutto il resto; e di qui anche quella bizzarria della Corte costituzionale, organo che non si sa che cosa sia e grazie alla istituzione del quale degli illustri cittadini verrebbero ad essere collocati al di sopra di tutte le Assemblee e di tutto il sistema del Parlamento e della democrazia, per esserne i giudici. Ma chi sono costoro? Da che parte trarrebbero essi il loro potere se il popolo non è chiamato a sceglierli? Tutto questo, ripeto, è dettato da quel timore che ho detto. Ma badate, qui si commette un errore. Comprendo che vi siano gruppi sociali i quali possono vedere con preoccupazione l’avanzata di una nuova classe dirigente, in quanto temono per le posizioni che occupano oggi, e da cui dovranno sloggiare, e sono ostili a qualsiasi profonda trasformazione sociale. Comprendo che l’egoismo possa dettare a questi gruppi sociali la paura, e quindi spingerli a proporre norme costituzionali del genere di quelle che sto criticando; ma non comprendo che una condotta simile possa essere di preveggenti uomini politici. Preveggenti uomini politici, al punto in cui i problemi sono arrivati nello sviluppo della società italiana, debbono volere che tutte le trasformazioni sociali e tutte le questioni che saranno poste in relazione con queste trasformazioni vengano dibattute e risolte nell’Assemblea e dall’Assemblea, e possano esserlo con quella rapidità ed energia che sarà richiesta dalle masse lavoratrici e dal movimento stesso delle cose. Quando avrete posto una remora con tutto questo sistema di inciampi, di impossibilità, di voti di fiducia, di seconde camere, di referendum a ripetizione, di Corti costituzionali, ecc., quale sarà il risultato che avrete ottenuto? Avrete evocato l’azione diretta; cioè avrete scardinato l’istituto parlamentare, ponendo nella Costituzione un germe di conflitti sociali e politici profondi, il che noi crediamo che non si debba fare.

Coloro i quali vogliono per il nostro Paese un avvenire di progresso sociale, ma nella libertà e nella tranquillità politica, non debbano porre ostacoli all’affermazione e al trionfo della volontà popolare. Bisogna lasciare che la volontà popolare si possa esprimere attraverso gli istituti parlamentari, attraverso le istituzioni democratiche, sulla base costituzionale. Guai invece se la Costituzione fosse fatta in modo da opporre artificiosamente barriere a questa espressione.

In questa parte del progetto di Costituzione trovo però anche una mancanza di audacia e di spirito di conseguenza. Non si è avuto il coraggio di porre e risolvere due grandi questioni che devono essere invece affrontate con spirito democratico e risolte in modo nuovo: quella della Magistratura e quella dei poteri e degli organi di controllo.

Riguardo alla Magistratura, nella Commissione a stento siamo riusciti a far prevalere l’affermazione del ritorno alla giuria, e qui ho sentito un onorevole collega protestare dicendo che questa è cosa che riguarda gli avvocati penalisti. No, questa è una questione che riguarda tutti i cittadini. Il principio per cui, quando a un cittadino voi togliete dieci o venti o più anni della sua esistenza, o quando lo mandate a giudizio e lo condannate per delitto politico, egli ha diritto al giudizio dei suoi pari, è una delle più grandi conquiste della democrazia. Qui siamo senza dubbio in presenza di una di quelle tracce di spirito giuridico reazionario, che non siamo ancora riusciti a cancellare. La mia opinione è che nell’ordinamento della Magistratura avremmo dovuto affermare in modo molto più energico la tendenza alla elettività dai magistrati, il che ci avrebbe fatto fare un grande passo avanti per togliere il magistrato dalla situazione penosa in cui oggi si trova, di essere un sovrano senza corona e senza autorità. Soltanto quando sarà stabilito un contatto diretto tra il popolo, depositario della sovranità, e il magistrato, questi potrà sentirsi partecipe di un potere effettivo, e quindi godere della fiducia completa del popolo nella società democratica.

Un altro problema che non è stato non solo risolto, ma nemmeno affrontato, è quello dei controlli. Si è tutto rinviata alla legge, così per la Corte dei Conti, come per il Consiglio di Stato, come se si trattasse di argomento non costituzionale. Ma tutto questo sistema è vecchio. Tutti quelli di noi che sono passati attraverso un Ministero hanno visto che questo sistema non serve più. Una Corte dei Conti la quale serve per far sì che per liquidare una pensione occorrano due anni, mentre in altri Paesi civili occorrono due settimane; un organo di controllo che durante il ventennio della tirannide fascista non ha controllato niente, né impedito che venisse dilapidato il pubblico denaro, e ora pone ostacoli su ostacoli a indispensabili misure democratiche, è qualcosa che deve essere profondamente rinnovato. Opera costituente sarebbe di esaminare come possano organizzarsi nuovi istituti di controllo, in maniera che essi siano in un modo o nell’altro appoggiati dalla sovranità popolare e collegati col popolo. L’ordinamento autonomistico può forse aiutarci in questa direzione: in questa direzione è certo che bisogna muoversi, se si vuole fondare una democrazia moderna, respingendo istituti e formule che oggi sono superati e servono a ben poco.

In conclusione, a proposito dei problemi di libertà, il nostro partito seguirà una linea di condotta conseguentemente democratica, cioè lotterà in modo conseguente, perché la Costituzione sia una Costituzione popolare, perché il popolo sia riconosciuto come sovrano, e l’ordinamento costituzionale sia tale che permetta alla sovranità popolare di manifestarsi e di dare la propria impronta a tutta la vita della Nazione.

E permettimi a questo punto, amico Lussu, di dirti che allorché, preoccupato della democrazia e delle sue sorti, ti sei rivolto da questa parte e hai domandato se qui siedono dei veri e sinceri democratici, hai sbagliato indirizzo. Non è questa la direzione, verso cui devi guardare per trovare i nemici della democrazia. Il movimento operaio italiano non ha mai rotto la legalità democratica e non ha mai minacciato la democrazia. O forse ci vuoi rimproverare di esserci armati per la guerra di liberazione, o tu vuoi unirti a coloro che ci rimproverano di aver liquidato sul campo i responsabili della tirannide fascista?

LUSSU. Anzi!

TOGLIATTI. Permettimi allora di manifestare il mio stupore, per aver notato in te quel caratteristico rovesciamento di fronte, che è fatale alla democrazia. Guai alla democrazia, quando essa non riesce più a capire da che parte sono i suoi nemici! (Interruzione dell’onorevole Lussu). Non credo che tu sia un buon democratico se non riesci a vedere da che parte sono i tuoi nemici.

LUSSU. Risponderò a suo tempo.

TOGLIATTI. È nel tuo diritto.

Vengo ora alla seconda delle esigenze fondamentali da me indicate: l’unità politica e morale della Nazione che è in parte da salvare, in gran parte da consolidare. Molto abbiamo già fatto per salvare l’unità politica e morale della Nazione e soprattutto molto abbiamo fatto noi, il partito più avanzato dei lavoratori; ma dobbiamo ancora consolidare quello che abbiamo salvato.

E qui trovo due questioni sulle quali chiedo che abbiate la pazienza di ascoltarmi: i rapporti fra lo Stato e la Chiesa e il regionalismo.

Non condivido l’opinione di chi ha detto in quest’aula che la questione del mantenimento della pace religiosa non esiste. Non è vero: questa questione esiste. Tutti coloro che hanno fatto la campagna elettorale precedente al 2 giugno lo hanno sentito. È meglio dunque riconoscerlo e sapere che la pace religiosa del nostro Paese si mantiene attraverso l’azione meditata dei Governi e di quei partiti che hanno una responsabilità di Governo o, se non altro, una funzione di direzione della vita nazionale, in quanto partiti di massa.

L’onorevole Lucifero ci ha proposto l’invocazione a Dio. Questa è veramente una delle proposte che hanno suscitato in me i maggiori dubbi, perché effettivamente Dio votato a maggioranza in una Assemblea politica ed approvato con 20 e con 50 o anche con 200 voti di maggioranza, non lo capisco. (Si ride). Quando poi ho sentito il nostro collega parlare di Dio nel tono con cui i nostri oratori di comizio parlano alla fine dei loro discorsi, quando si tratta di avere gli applausi degli elettori riuniti, mi sono ricordato del primo e secondo comandamento. (Si ride).

Il problema della pace religiosa, in ogni modo, esiste e bisogna riconoscere che la pace religiosa è fondata su due colonne: il Trattato lateranense e il Concordato, uniti assieme nel modo che tutti sappiamo. Nessuno di noi aveva chiesto che venisse aperto il problema del Trattato e del Concordato; nessuno del nostro partito in particolare. Fin dall’anno scorso, in occasione del nostro V Congresso, noi facemmo un’affermazione precisa in questo senso. Ma quando voi ci avete chiesto l’inserimento del Trattato e del Concordato nella Costituzione, attraverso il richiamo dell’articolo 5, allora il problema si pone e siamo costretti a discutere.

E siamo costretti a discutere per parecchi motivi. Prima di tutto, onorevole Orlando, tengo a precisare che non è vero che io abbia detto di essere favorevole all’inserimento dei Patti lateranensi, attraverso il richiamo dell’articolo 5, nella Costituzione. Ho votato contro questo richiamo e anche qui, sino a che il problema sarà posto nel modo come adesso è posto, voteremo contro. Attraverso quel richiamo così esplicito, infatti, ritorniamo all’articolo primo dello Statuto. Ora non dimentichiamo che l’articolo primo dello Statuto, in tutte le discussioni che ebbero luogo prima nel Parlamento subalpino, dal 1849 in poi, e quindi nei successivi Parlamenti italiani, venne sempre considerato come qualche cosa di decaduto. Basti ricordare in proposito il discorso di Marco Minghetti nel dibattito sulla legge delle Guarentigie, dove egli dice la cosa apertamente, e aggiunge che l’articolo primo viene lasciato nello Statuto unicamente per non aprire un procedimento di revisione costituzionale. È soltanto nel Trattato lateranense che questo articolo viene riesumato e rimesso in circolazione, ed è principalmente per questo che l’inserimento dei Patti lateranensi nella nuova Costituzione non è da noi approvato. Quando volete farci tornare alla religione di Stato, ci volete fare tornare a qualche cosa che la nostra coscienza non può accettare.

Voi dite: si tratta della nostra libertà, cioè della libertà della Chiesa.

No, nessuno offende la vostra libertà; nessuno ha proposto e nessuno propone di ritornare a un regime giurisdizionalista, nessuno sogna in questa Assemblea di proporre una costituzione civile del clero: quindi la vostra libertà è salva.

Ma voi dovete riconoscere che nel Trattato e nel Concordato vi è qualche cosa che urta la nostra coscienza civile e che sarebbe bene – lo stesso onorevole La Pira accennava a questa possibilità – che venisse al momento opportuno eliminata. Perché dunque inserirli in modo così solenne nella Carta costituzionale?

Vorrei dire però che un’altra questione ci preoccupa. L’ho sollevata in un mio precedente discorso in questa Assemblea, parlando di un eventuale rinnovo dei Patti allo scopo di eliminare la firma del fascismo e introdurre i necessari ritocchi. Badate però che questo problema l’ho posto di riflesso: non l’avremmo probabilmente posto di nostra iniziativa, se non vi fosse stata la proposta di inserimento dei Patti nella Costituzione, o non lo porremmo con urgenza il giorno in cui fossimo riusciti a trovare, in sede costituzionale, quella soluzione, che l’onorevole Orlando si augurava ieri che noi trovassimo, e cioè una soluzione che raccolga l’unanimità dei suffragi dell’Assemblea.

E qui si inserisce una questione abbastanza grave e profonda, quella dei rapporti della Chiesa cattolica col regime democratico repubblicano. Il nuovo giuramento dei vescovi sta bene; ma Concordato e Trattato sono qualche cosa di più del giuramento, sono un impegno e un grande impegno.

Ora, in cerca di una documentazione sopra questo tema, mi è accaduto di sfogliare un testo autorevolissimo di Diritto delle Decretali, manuale d’insegnamento nella Pontificia Università Gregoriana in Roma, e a proposito dei concordati, delle condizioni e del momento in cui la Santa Sede li conclude ho trovato una affermazione assai sintomatica che mi permetterete di citare: «…Sedes Apostolica, ne evidenti ludibrio exponatur, conventiones in forma solemni inire non solet, nisi gubernium civile necessitate petendi consensus comitiorum publicorum non sit adstrictum…».

Una voce. Vuol tradurre? (Si ride).

TOGLIATTI. Per i colleghi che non sono democristiani posso anche fare la traduzione (Si ride), la quale suona così:

«La Sede Apostolica, per non correre il rischio di gravi delusioni, di solito non stipula convenzioni solenni, se non con quei governi i quali non sono costretti a chiedere l’approvazione di un corpo rappresentativo».

Onorevole Orlando, forse in questa formulazione autorevole vi è una spiegazione più pertinente di quella che cercava di dare lei, relativa al momento in cui i Patti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica vennero conclusi. È evidente che di fronte ad affermazioni simili, ci sentivamo dubbiosi.

Ad ogni modo, concludendo su questo punto, ripeto che il problema della pace religiosa esiste e che deve esser fatta qualche cosa di comune accordo in questa Assemblea e fuori di questa Assemblea per garantirne la soluzione, cioè per dare alla pace religiosa del popolo italiano un carattere solido e permanente. Noi vogliamo una Costituzione la quale guardi verso l’avvenire. I problemi già risolti nel passato non ci interessano più; cerchiamo però che quelle posizioni di libertà, che hanno conquistato i nostri padri e i nostri avi attraverso lotte memorabili, non vadano perdute. E voi, colleghi della Democrazia cristiana, credo che farete opera buona, favorevole al consolidamento dell’unità politica e morale della Nazione, se non porrete noi e altre parti importanti dell’Assemblea di fronte ad alternative troppo gravi e invece cercherete insieme con noi la forma o la formula migliore per risolvere questa questione col soddisfacimento di tutti e con la più larga maggioranza possibile.

E vengo al regionalismo. Il capitolo relativo suscita in noi molti dubbi, e come esso sta oggi non so se potremo votarlo nella sua integrità.

Ci troviamo di fronte a due partiti di differente peso e numero: il Partito repubblicano storico e il Partito democristiano, che si affermano decisamente regionalisti ed hanno fatto prevalere il loro punto di vista in questo testo costituzionale. Il Partito repubblicano storico rappresenta una nobile tradizione; il regionalismo però è soltanto parte della sua tradizione, ma forse la parte più interessante, certo la più progressiva. Il Partito democristiano rappresenta esso pure un complesso di dottrine e di posizioni politiche, tali per cui non sarebbe serio se trascurassimo le sue affermazioni, se prendessimo alla leggera le sue rivendicazioni. Occorre quindi discutere con spirito molto obiettivo, per veder di trovare assieme la strada giusta.

Nessuno può dire oggi se sia stato giusto organizzare l’Italia come è stata organizzata dopo il 1860. Il tipo di organizzazione centralizzata, che è stato dato allora all’Italia, è stato il risultato della unione di classi dirigenti diverse: lo volle la classe dirigente meridionale, lo volle la classe dirigente del Nord. Poteva essere presa un’altra strada? Non so. La storia è stata così e basta. Però è un fatto che camminando per quella strada abbiamo fatto del cammino, abbiamo raggiunto determinate posizioni, ed essenzialmente dobbiamo dire che l’unità nazionale, grazie a un ordinamento che aveva senza dubbio gravi e anche gravissimi difetti, è stata ad ogni modo mantenuta. Orbene, l’unità nazionale è un bene prezioso, soprattutto per un paese il quale la possiede da poco tempo. Da quanti anni siamo noi un Paese nazionalmente unito? Da 70 o 80 anni, non più, e per arrivare a conquistare questo risultato abbiamo impiegato secoli di lotta, di travaglio, di sofferenze, di sconfitte e di umiliazioni.

Ci sconfissero e umiliarono tutti o quasi tutti i popoli vicini perché non eravamo uniti, perché non avevamo un esercito e uno Stato unitari, mentre essi li possedevano da secoli. Dobbiamo stare attenti a non perderla ora, questa unità.

Parlo qui come rappresentante di un partito della classe operaia, e la classe operaia è stata sempre più unitaria della borghesia. La borghesia fu da noi unitaria, nelle sue differenti frazioni, solo per particolari suoi motivi egoistici, non sempre confessabili; mentre la classe operaia fu unitaria perché la sua missione non poteva adempiersi se non su una scala nazionale. Non per niente la classe operaia ha dato il primo italiano del Nord, Bruno Buozzi, organizzatore dei metallurgici torinesi, il quale sia stato eletto deputato in una grande città meridionale. In questo modo gli operai dimostravano di essere una classe progressiva. I metallurgici di Torino davano la prova di saper camminare sul solco aperto dal Conte Camillo Benso di Cavour, facendo proprie e portando avanti quelle conquiste che non devono essere toccate, anzi conservate e consolidate dalle nuove generazioni.

Pur essendo unitari, siamo però d’accordo per la concessione di un regime particolare di larga autonomia a determinate regioni, e cioè alla Sicilia, alla Sardegna e alle zone di lingue e nazionalità miste. Nelle grandi isole italiane mediterranee si sono creati infatti una situazione particolare economica e politica e un particolare clima psicologico che impongono quella soluzione. Qui deve quindi esser concessa l’autonomia più larga. A questo non facciamo nessuna obiezione in questo campo, anzi siamo all’avanguardia della lotta per la libertà dei popoli siciliano e sardo in un’Italia democratica. Quando però si tratta di tutto il resto del territorio nazionale, lasciateci riflettere e riflettiamo assieme. Misure di decentramento amministrativo, formazione di enti regionali che permettano, perché meglio e direttamente collegati col popolo, tanto un più ampio e sicuro sviluppo democratico, quanto la formazione di nuovi quadri dirigenti della Nazione su una scala locale: tutto questo è considerato da noi con simpatia e accettato. Ci preoccupano però due cose: da un lato una parte delle norme che avete scritto in questo progetto, dall’altro lo spirito e gli argomenti coi quali le presentate.

Risulta, infatti, dal progetto che è data facoltà legislativa primaria alle regioni, e non soltanto per la decisione di questioni interne dell’organizzazione regionale stessa, ma anche, con una riserva formale che non si comprende neanche bene cosa significhi, per argomenti e temi di importanza fondamentale, come l’agricoltura. Il problema agrario è uno dei più gravi fra quelli che la Repubblica deve affrontare e risolvere. Ma cosa faremo per risolvere le questioni agrarie, cioè che riforma agraria faremo seguendo la strada indicata da questo progetto? Faremo le fattorie collettive in Emilia e manterremo il latifondo in Sicilia e la grande proprietà terriera nel Salento? Questo può derivare da un’applicazione della Costituzione regionalista che ci viene presentata. (Interruzioni a destra). Ma no, non siete voi che dovete decidere, deve decidere tutta la Nazione. (Applausi a sinistra).

La verità è che il nostro Paese non è economicamente e socialmente tutto allo stesso grado di sviluppo. Una parte, forse, sarebbe già matura per trasformazioni di tipo socialista, mentre l’altra no, l’altra non ha ancora compiuto la rivoluzione antifeudale. È necessario quindi che le necessarie trasformazioni economiche e sociali si compiano tenendo conto di questo dato di fatto. E non vedete che questo è ciò che stiamo facendo noi, partito più avanzato della classe operaia, e delle masse lavoratrici, appunto per evitare che da questa situazione possa uscire una rottura della unità nazionale? Per questo indichiamo a una parte del fronte dei lavoratori la necessità di segnare il passo, allo scopo di poter fare avanzare tutto il fronte insieme, altrimenti corriamo il rischio di perdere un bene che è prezioso per tutti noi e deve essere la base di tutto il progresso politico e sociale del Paese: l’unità politica e morale della nazione. Questo è ciò che stiamo facendo noi, ma lo stesso metodo deve essere seguito da tutti, e non bisogna che ad esso possano fare ostacolo gli ordinamenti costituzionali.

Inoltre trovo che nelle disposizioni che avete scritto è lasciata in disparte la finanza. Grave lacuna, che rende oscuro o incerto l’assieme delle norme sull’ordinamento regionalistico. Marco Minghetti, quando presentò alla Camera, credo nel 1863 o 1864, un progetto il quale prevedeva determinate autonomie regionali sulla base di un libero consorzio di provincie, propose che se si dovesse accettare un sistema di autonomie locali, si prendesse come punto di partenza e pietra di paragone il bilancio dello Stato e si vedesse quali entrate e quali uscite dovevano essere attribuite al potere centrale, quali entrate e quali uscite agli enti decentrati. Questa dovrebbe essere la base di organizzazione di qualsiasi autonomia; invece nel vostro progetto proprio questo lato è lasciato interamente al buio. (Interruzioni Commenti).

FUSCHINI. C’è il rinvio alla legge.

TOGLIATTI. Precisamente, il rinvio alla legge è troppo poco. Ma se ciò che è stato scritto in questo progetto a proposito delle autonomie regionali, solleva in noi una serie di dubbi molto gravi; altri dubbi e non meno gravi sollevano in noi i commenti e lo spirito col quale abbiamo sentito che il tema viene discusso. Perché nelle discussioni, di che si è parlato? Si è parlato di mercati regionali, di sbocchi al mare, di hinterland, di porti regionali; sono stati adoperati concetti i quali servono unicamente per ragionare attorno a quella che è un’organizzazione di uno Stato federale. Ma vogliamo proprio fare dell’Italia uno Stato federale, creando tanti piccoli Staterelli che lotterebbero l’un contro l’altro per contendersi le scarse risorse del Paese? (Commenti Interruzioni).

Di questo orientamento, sostanzialmente federale, nella Costituzione è rimasta persino la traccia, perché è rimasta una norma che si giustificherebbe solo in una organizzazione prettamente federalistica, quella cioè per la quale una regione non può ostacolare il transito verso altre regioni. Una norma simile, ripeto, non si giustifica in uno Stato unitario, ma soltanto in uno Stato federale. (Commenti).

Del resto, la perplessità non è soltanto in noi, la perplessità è nel Paese. Guardate il Paese, interrogatelo. Su questo tema lo troverete perplesso e in alcune sue parti anche profondamente turbato.

Una voce a destra. Referendum. (Commenti).

TOGLIATTI. Il relatore sull’ordinamento regionale nella seconda Sottocommissione ha detto che anche la regione sarebbe un ente naturale. In realtà, se mai, è qualche cosa di più e di meno: è un ente storicamente determinato. Però, quando rifletto alla storia del nostro Paese, difficilmente trovo la regione come tale; trovo invece un’altra cosa, trovo invece la città.

Una voce al centro. Anche la provincia.

TOGLIATTI. È su per giù la stessa cosa, poiché la provincia non è, in sostanza, che l’organizzazione della vita civile attorno alla città. Il peso che le città hanno in questa organizzazione è caratteristico e impronta originale della nostra storia e del nostro Paese, tanto nel nord come nel sud. Orbene, oggi chi è perplessa, a proposito dei piani regionalistici, è proprio la città italiana, la quale nell’organizzazione provinciale ha trovato finora la soddisfazione dei suoi interessi materiali e delle sue aspirazioni ideali. La città italiana tipica, che è la città capoluogo di provincia, teme la costituzione dei nuovi grandi centri regionali, e quindi la creazione di un apparato nuovo il quale potrebbe diventare una nuova barriera tra la città, dove si risolvono tutte le questioni della provincia, e lo Stato. È quindi naturale la reazione. Cosa credete che siano tutte queste Tuscie, e Daunie, e Japigie, e Intemelie che spuntano da una parte e dall’altra e di cui non avevamo mai sentito parlare prima d’ora? Io non rido di queste cose. Questa è la forma che prende questo stato non ancora di ribellione, ma di timore, che è nelle popolazioni italiane, e particolarmente nelle popolazioni cittadine, che non vedono chiaro in quello che vogliamo fare riorganizzando lo Stato su base regionale. Vi è qui in embrione una specie di ribellione della vecchia struttura politica e civile italiana, come si è storicamente formata, rispetto a piani di organizzazione, i quali possono essere ideologicamente o dottrinariamente giustificati, ma che vanno contro qualche cosa che già esiste, che è solido e non si distrugge agevolmente.

Per concludere su questo punto, dico una cosa sola: colleghi democristiani, colleghi repubblicani, non risolvete, col colpo d’una maggioranza, che oggi avete, ma che domani potreste non avere più, una questione così grave di organizzazione dello Stato italiano. E soprattutto in questo momento – ha ragione l’onorevole Nitti – in cui già sono attive forze centrifughe, che non riusciamo a controllare oggi completamente e che forse non potremmo più controllare in nessun modo domani, se ci mettessimo su una strada sbagliata di organizzazione dello Stato. Stiamo attenti a quello che facciamo.

Vengo all’ultima delle esigenze, che ho detto dover stare alla base del nostro lavoro costituzionale: l’esigenza di progresso sociale e di rinnovamento delle classi dirigenti.

Qui si presentano differenti temi, e in particolare quello della formulazione dei nuovi cosiddetti diritti sociali.

Siamo d’accordo, in generale, sulle formulazioni date; abbiamo però parecchie osservazioni da fare. Questo è infatti il punto, dove quel tipo deteriore di compromesso, onorevole Ruini, di cui ho parlato all’inizio della mia esposizione, ha giocato ampiamente, sostituendosi una parola all’altra, attenuandosi questa o quella affermazione, in modo tale da far sparire del tutto lineamenti originali del progetto che la prima Sottocommissione aveva elaborato.

Nel corso della discussione in questa Assemblea, poi, a un certo momento si era stabilito un fronte quasi generale degli oratori contro l’inserimento nella Carta costituzionale della affermazione di questi diritti. Tutti – strano a dirsi – sembravano esser diventati staliniani. Se si trattasse d’una convinzione seria e sincera, non potrei che rallegrarmi; ma non è così: si trattava unicamente di trovare nella citazione di un testo corrispondente a una situazione ben diversa dalla nostra un argomento per respingere, oppure per togliere dal testo costituzionale vero e proprio l’affermazione dei nuovi diritti sociali, per inserirli soltanto – in modo ancora più limitato e modesto di quanto non sia oggi – in un preambolo. In modo molto espressivo diceva uno dei colleghi che mi hanno preceduto che si trattava di confinarla nel preambolo: il confino è infatti il luogo dove si mandano le persone non desiderate.

TUPINI. Come i Patti Lateranensi, non desiderati.

TOGLIATTI. In realtà noi vogliamo l’inserzione di questi nuovi diritti nella Costituzione per fare un testo che corrisponda alla situazione reale del nostro Paese, situazione di transizione, nella quale tali diritti noi non siamo riusciti ancora a tradurre in atto, ma forse ci saremmo riusciti se la situazione internazionale non fosse stata per noi così grave e dolorosa.

Oltre a questo, noi teniamo a che venga fatta un’affermazione precisa circa il carattere della Repubblica. Riproporremo qui che la Repubblica italiana venga denominata Repubblica italiana democratica di lavoratori, e con questo non intendiamo dare l’ostracismo a nessuno, non vogliamo escludere nessuno dall’esercizio dei diritti civili e politici, ma vogliamo affermare che la classe dirigente della Repubblica deve essere una nuova classe dirigente (Commenti a destra), direttamente legata alle classi lavoratrici.

Infine, avendo chiesto e chiedendo che venga inserita in modo preciso nel testo costituzionale l’affermazione del diritto al lavoro, del diritto al riposo, del diritto alla assicurazione sociale e all’assistenza e così via, dobbiamo dare una chiara risposta alla grave questione, che molti hanno sollevato, delle garanzie per l’attuazione e la realizzazione di questi diritti.

L’onorevole Saragat, trovatosi di fronte a questa questione, ha risposto che la garanzia di questi diritti sta nel senso sociale e nel senso di civismo degli italiani. No, questo non basta! Mi auguro che il senso sociale degli italiani sia sempre ricco, ricchissimo, e permetta di risolvere bene e a tempo e nell’interesse delle classi lavoratrici tutte le questioni di organizzazione economica e sociale che si presenteranno nel futuro.

Ma questo augurio è poca cosa, anzi, è cosa nettamente insufficiente. Occorre qualche cosa di più e di diverso; occorre cioè che, se anche non siamo in grado di scrivere quello che è scritto nella Costituzione staliniana, cioè i mezzi concreti con cui si garantiscono il lavoro, il riposo, le assicurazioni, l’istruzione di tutti i lavoratori, indichiamo però il metodo generale che deve essere seguito dal nuovo Stato democratico repubblicano per riuscire a garantire questi nuovi diritti.

E qui non ho che da rinviare alla relazione che presentai alla prima Sottocommissione, nella quale indicavo chiaramente che questo metodo generale deve consistere nei punti seguenti:

«a) la necessità di un piano economico, sulla base del quale sia consentito allo Stato di intervenire per il coordinamento e la direzione dell’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione;

«b) il riconoscimento costituzionale di forme di proprietà dei mezzi di produzione diverse da quella privata, e precisamente la proprietà cooperativa e quella di Stato. Il riconoscimento della proprietà cooperativa nella Costituzione stessa consentirà al legislatore di svincolare il movimento cooperativo dalle troppo ristrette pastoie dell’attuale legislazione civile e commerciale, e sarà utile premessa a un largo sviluppo della cooperazione, nel campo della produzione e del lavoro in modo particolare. Il riconoscimento costituzionale della proprietà di Stato di determinati mezzi di produzione servirà, d’altra parte, a dare una base costituzionale nuova al processo di nazionalizzazione di determinate branche industriali;

«c) la necessità che vengano nazionalizzate quelle imprese che per il loro carattere di servizio pubblico oppure monopolistico debbono essere sottratte alla iniziativa privata, allo scopo precisamente di impedire che gruppi plutocratici, avendo queste imprese nelle loro mani, se ne servano per stabilire una loro egemonia su tutta la vita della Nazione;

«d) la necessità dell’organizzazione di Consigli di azienda come organi per l’esercizio di un controllo sulla produzione, da parte di tutte le categorie dei lavoratori, nell’interesse della collettività;

«e) la necessità che l’esercizio del diritto di proprietà, di cui d’altra parte si garantisce la tutela da parte della legge, sia limitato dall’interesse sociale; e infine,

«f) la necessità che la distribuzione della terra nel nostro Paese venga profondamente modificata in modo che sia limitata la grande proprietà terriera e vengano protette e difese la proprietà piccola e media, e in modo particolare l’azienda agricola del coltivatore diretto».

Di tutto questo che cosa dobbiamo scrivere nella Costituzione? Dobbiamo scrivere quel tanto che serva a tracciare la strada su cui dovranno muovere le Assemblee legislative nella loro opera di concreta organizzazione della vita economica e sociale. Anche questa Assemblea, pur essendo di sua natura costituente, avrebbe dovuto incominciare a muoversi per questa strada. Essa infatti è stata eletta dal popolo nella speranza che avrebbe preso le prime misure necessarie per introdurre, o almeno per iniziare, trasformazioni profonde nell’organismo economico della nazione, nell’interesse delle masse lavoratrici e di tutti i cittadini. Non siamo ancora riusciti a farlo: dobbiamo però farlo. Queste sono le opere che la Repubblica deve fare; soltanto affrontando queste opere, compiendo queste trasformazioni, si risolve radicalmente la questione della legittimità del regime repubblicano. Vi è una legittimità formale della Repubblica, che sta nel referendum e nella maggioranza che in esso si manifestò per il regime repubblicano. Ma vi è anche un problema di legittimità sostanziale. Tale legittimità sostanziale consiste nel fatto che la Repubblica affronti e risolva quei problemi di trasformazione economica e sociale che il popolo ritiene debbano essere risolti dal regime repubblicano e che sono maturi per una soluzione.

La nostra Costituzione, anche se non sarà essa il documento che ci darà la soluzione di tutti questi problemi, dovrà essere però un documento che tracci il cammino sul quale si muoveranno i politici e i partiti italiani. Tutti coloro che accettano questa Costituzione come fondamento della vita politica italiana devono essere impegnati a muoversi sulla via del rinnovamento economico e sociale. Ecco quello che noi vogliamo. Ecco perché chiediamo che la parte della Costituzione che tratta dei diritti sociali sia chiara, senza equivoci e questi diritti siano sostanzialmente garantiti.

Ho finito, onorevoli colleghi. Ho sentito da molti, e giustamente, dire che il compito che sta davanti a noi è grave, pesante: è vero, onorevole Calamandrei.

«Ma chi pensasse il ponderoso tema

E l’omero mortai che se ne carca

No ’l biasmerebbe se sott’esso trema».

Ma questo vale per noi come singoli; noi qui, però, non siamo come singoli.

Noi siamo qui, prima di tutto, noi della grande maggioranza dell’Assemblea, gli esponenti di un grande movimento nazionale liberatore, movimento il quale trae i succhi della propria esistenza dalle migliori tradizioni della vita e della storia del nostro Paese: le tradizioni liberali e democratiche. Queste tradizioni il fascismo ha voluto negarle, ha cercato di distruggerle; non vi è riuscito ed è crollato nel baratro, nel quale purtroppo ha trascinato anche noi.

Ma noi ci sentiamo qui, noi comunisti, voi socialisti e anche voi, colleghi della Democrazia cristiana, noi tutti dobbiamo sentirci qui anche gli esponenti di qualche altra cosa: gli esponenti di quelle masse lavoratrici, di operai, di braccianti, di contadini, di impiegati, di uomini del popolo, di uomini che vivono soltanto del proprio lavoro, e che da decenni sono attive nella lotta per la loro emancipazione. Queste masse si sono organizzate, hanno combattuto e combattono non soltanto per migliorare la loro esistenza giorno per giorno, attraverso le loro agitazioni e i movimenti loro economici e politici, ma anche e soprattutto per gettare le fondamenta di un nuovo ordinamento sociale, di una società nazionale rinnovata, governata dal lavoro secondo i propri interessi e secondo la propria profonda moralità, secondo quei principî di libertà, di uguaglianza, di giustizia sociale, che sono l’essenza dell’ideologia delle classi lavoratrici, in tutte le forme in cui essa può manifestarsi.

Onorevole Presidente! Onorevoli colleghi! Il nostro gruppo interverrà attivamente nel dibattito costituzionale, per sostenere che nella maggior misura possibile la nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana corrisponda a questi principî; corrisponda cioè a quelle che sono le aspirazioni della grande maggioranza del popolo italiano, aspirazioni che esprimono la più profonda, la più urgente esigenza della nostra vita nazionale in questo momento. (Vivissimi applausi. Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Croce. Ne ha facoltà.

CROCE. Dopo l’ampia discussione generale di questo disegno di Costituzione, dopo la critica di cui è stato oggetto – nella quale si direbbe che le censure hanno soverchiato i consensi – dopo che si è udita la parola di tanti esperti giuristi, permetterete a me che quando tento di sottrarmi al nome impopolare di filosofo mi rifugio in quello di letterato, di osservare che forse una delle cagioni per cui l’opera non è felicemente riuscita proviene dall’essere stata scritta da più persone in concorso. Né un libro, né una pagina si compone se non da una singola mente che sola compie la sintesi necessaria e, avvertendo e schivando anche le più piccole dissonanze, giunge alla scrupolosa logicità e all’armonia delle parti nell’unità. Veramente gli autori questa volta sono stati troppi; ma fossero stati, invece di 75, dieci, cinque o tre, sempre, avrebbero dovuto, naturalmente, dopo eseguito il loro lavoro specifico e fissate le conclusioni a cui erano pervenuti, dare mandato a uno solo di loro di rimeditarle e formularle, il quale poi le avrebbe ripresentate agli altri e, raccolte le loro osservazioni ed obiezioni, rinnovato tante volte quante bisognava il suo atto sintetico, correggendo le incoerenze e contraddizioni che gli fossero per caso sfuggite e raggiungendo parti integrative, e tutto ciò sempre sotto la sua responsabilità intellettuale, col suo diretto riesame e con la sua interiore approvazione e soddisfazione personale. Una scrittura diversamente condotta, per valenti che sieno i suoi molti e molteplici autori, lascia più o meno scontento ciascuno di essi; laddove, condotta a quel modo, ottiene il loro consenso, come ammiriamo e facciamo nostra una bella poesia senza essere intervenuti a scriverla. Tutto si potrà collettivizzare o sognar di collettivizzare, ma non certamente l’arte dello scrivere. In effetto, dello Statuto albertino del Regno di Sardegna lo scrittore fu il giurista Des Ambroìs, come la relazione ricorda, e di quello napoletano dello stesso anno l’avvocato e filosofo Bozzelli; e così sempre che si sia fatta o si voglia fare una cosa organica, perché in questo riguardo non v’è luogo a distinguere tra Statuto concesso e Statuto che il popolo chiede e approva.

Ma a questa prima cagione della mancanza di coerenza e di armonia del presente disegno si è aggiunta un’altra ben più grave: che i molti suoi autori non solo non potevano portarvi un’unica mente di scrittore, ma non vi perseguivano un medesimo fine pratico, perché ai tre partiti che ora tengono il Governo, non già in una benefica concordia discors, ma in una mirabile concordia di parole e discordia di fatti, ha corrisposto una commissione di studi e di proposte della stessa disposizione di animo, nella quale ciascuno di quei partiti ha tirato l’acqua ai suo mulino e tutti hanno fatto come nella classica novella spagnola del cieco e del ragazzo che gli serve da guida e compagno, della quale qui leggerei ad ammonimento qualche tratto se non temessi la giustificata accusa di troppa frivolezza o distrazione letteraria. Da tale procedere è noto quel che l’onorevole Relatore chiama eufemisticamente «carattere intermedio» della proposta o «diversità di accento», ossia i ben trasparenti negoziati accaduti tra i rappresentanti dei partiti che hanno messo capo ad un reciproco concedere ed ottenere, appagando alla meglio o alla peggio le richieste di ciascuno, ma giustificando le richieste oggettive dell’opera che si doveva eseguire. La quale opera era semplicemente e severamente questa: di dare al popolo italiano un complesso di norme giuridiche che garantissero a tutti i cittadini, di qualsiasi opinione politica, categoria economica e condizione sociale, la sicurezza del diritto e l’esercizio della libertà, la quale porta con sé come logica sua conseguenza (e nobilmente ce lo ha rammentato l’onorevole Orlando), con la crescente civiltà la giustizia sociale che le si lega.

Un esempio, e insieme la diretta prova, del metodo tenuto è (e sebbene già altri parecchi ne abbiano altamente parlato, qui non posso tacerne neppure io) nella proposta di includere nella Costituzione i Patti lateranensi e l’impegno contro una possibile legge del divorzio. E che cosa c’è di comune tra una Costituzione statale e un trattato tra Stato e Stato, e come mai a questo trattato in sede di Costituzione si può aggiungere l’irrevocabilità, cioè l’obbligo di non mai denunciarlo o (che vale lo stesso) di modificarlo solo con l’accordo dell’altra parte, mentre l’una delle due, cioè l’altro Stato, non interviene e non può intervenire come contraente in quest’atto interno e quell’obbligo resta unilaterale, ossia appartiene a uno di quei monologhi che, come argutamente è stato osservato, nel testo presente si alternano coi dialoghi.

Parlai io solo in Senato, nel 1929, contro i Patti lateranensi; ma anche allora dichiarai nettamente che non combattevo l’idea delle conciliazioni tra Stato e Chiesa, desiderata e più volte tentata dai nostri uomini di Stato liberali, perché la mia ripugnanza e opposizione si riferiva a quel caso particolare di conciliazione effettuato non con una Italia libera, ma con un Italia serva e per mezzo dell’uomo che l’aveva asservita, e che, fuori di ogni spirito di religione come di pace, compieva quell’atto per trarne nuovo prestigio e rafforzare la sua tirannia. (Vivissimi applausi). Ma nelle presenti terribili difficoltà, nell’affannosa problematica di tutta la vita italiana, nessuno e neppure io penso a riaprire quella questione, né penso ad agitare l’altra del divorzio che non attecchì le altre volte in cui fu proposta, sicché si direbbe che il costume italiano non ne senta il bisogno e la convenienza, e d’altronde d’indissolubilità del matrimonio sta nel Codice civile. Si dirà che la strana inclusione nella Costituzione vuol essere una assicurazione verso l’avvenire; ma quando mai parole come quelle legano l’avvenire? Lo legano così poco quanto il famoso biglietto di impegno che Ninon De Lenclos fece a Le Chastre allorché partì per la guerra. E se mi consente l’onorevole Togliatti che più volte mi ha fatto segno dei suoi motti satirici, che lo ricambi col semplice motto scherzoso, io quasi sospetto che la parte di Ninon De Lenclos abbia in mente di farla questa volta lui coi comunisti, che un giorno sperano di poter dire ai loro colleghi democristiani, i quali invano punteranno il dito su un articolo qualsiasi della Costituzione da loro consentito: «Oh, le ben billet qu’a là Le Chastre!» E fin da ora si direbbe che egli abbia l’occhio a una particciuola di uscita, perché ammette l’indissolubilità del matrimonio fino a quando una nuova anima civile non si sarà formata in Italia; e dipende evidentemente da lui di accelerare questa formazione o di annunziare che è avvenuta; e allora poveri Patti lateranensi, povera indissolubilità matrimoniale e povera Costituzione! Dunque, se quella inclusione, che è uno stridente errore logico e uno scandalo giuridico, è troppo fragile o illusorio riparo verso l’avvenire, perché offendere il senso giuridico che è stato sempre così alto in Italia e che solo il fascismo ha osato calpestare?

Simili compromessi, sterili, o fecondi solo di pericoli e concetti vaghi o contraddittori, abbondano, come s’è detto, nel disegno di Costituzione, e saranno opportunamente rilevati e discussi, quando si passerà all’esame dei titoli e degli articoli. Ma un altro di essi voglio qui accennare di volo, che sta a cuore a molti tra noi, di vari e diversi opposti partiti, liberali e socialisti o comunisti, dall’onorevole Nitti agli onorevoli Nenni e Togliatti: la tendenza a istituire le regioni, a moltiplicarne il numero ed armarle di poteri legislativi e di altri di varia sorte. L’idea delle regioni come organismi amministrativi apparve già nei primi anni dell’unità, con la quale erano state superate le concezioni federalistiche che non avevano avuto mai molto vigore in Italia, vagheggiate da solitari o da piccoli gruppi, o fugate dalla fulgida idea dell’unità che Giuseppe Mazzini accolse dal pensiero di Niccolò Machiavelli, dall’anelito secolare dell’Italia e dai concetti dei nostri patriotti delle repubbliche suscitate dalla Rivoluzione francese, tra i quali tenne uno dei primi posti un politico meridionale, dal Mazzini in gioventù studiato, Vincenzo Cuoco. Ma ora, dopo la parentesi fascistica e la guerra sciagurata al seguito della quale vecchi malanni si risvegliano, come in un organismo che ha sofferto una grave malattia, contrasti di Nord e di Sud, di Italia insulare e di Italia continentale, pretese e gelosie regionali e richieste di autonomie, si son fatti sentire, con gran dolore di chi, come noi, crede che il solo bene che ci resti intatto degli acquisti del Risorgimento sia l’unità statale che dobbiamo mantenere saldissima se anche nel presente non ci dia altro conforto (ed è pure un conforto) che di soffrire in comune le comuni sventure. (Vivi applausi).

So bene che certe transazioni e concessioni di autonomie sono state introdotte e che, al giudizio o alla rassegnazione di molti, questo era inevitabile per stornare il peggio; ma il favoreggiamento e l’istigazione al regionalismo, l’avviamento che ora si è preso verso un vertiginoso sconvolgimento del nostro ordinamento statale e amministrativo, andando incontro all’ignoto con complicate e inisperimentate istituzioni regionali, è pauroso. Sembra che tutto si debba rifare a nuovo, che tutto sia da mutare o da distruggere della precedente Costituzione, alla quale si attribuisce la colpa di aver aperto la via al fascismo; laddove il vero è che la via fu aperta dall’inosservanza e violazione della Costituzione, che non era nemmeno più «octroyée», concessa da un re, perché sanzionata poi dai plebisciti. Lo Statuto del 1848 ha regolato e reso possibile lo splendido avanzamento dell’Italia in ogni campo di operosità per oltre settant’anni, e, non rigido come questo nuovo che ci vien proposto – di quella rigidezza che improvvisamente scoppia o invita a mandarla in pezzi – ma flessibile, consentì a grado a grado, col modificarsi dei pensieri, degli animi e dei costumi, il diritto di sciopero agli operai e l’allargamento del suffragio, fino al suffragio universale, tutte cose che abbiamo trovate già fatte e preparate per la nostra ulteriore costruzione, quando, abbattuto il fascismo, abbiamo riavuto il nostro vecchio Statuto. Si ode ora spesso faziosamente ingiuriare gli avversari politici col nome di fascisti; ma io ritrovo l’effettivo fascismo, tra gli altri cattivi segni, in questa imitazione del dispregio e del vituperio che i fascisti versarono sull’Italia quale fu dal 1848 al 1922. Di quell’età io mi sento figlio; nella benefica, nella santa sua libertà ho potuto educarmi e imparare; e mi si perdoni questa digressione, perché è dovere, io credo, che i figli difendano l’opera e l’onore dei padri. (Applausi).

Ma io odo sussurrare da più di uno che la discussione che ora si fa nell’Assemblea Costituente è piuttosto figurativa che effettiva, perché i grossi partiti hanno, come che sia, transatto tra loro e si sono accordati attraverso i loro rappresentanti nella Commissione di studio e di proposte. Avremo, dunque, anche all’interno una sorta di Diktat, come quello che tanto ci offende e ci ribella, impostoci dalle tre potenze nel cosiddetto trattato di pace, al quale l’Italia cobelligerante non ha partecipato e non vi ha veduto accolta nessuna delle richieste necessarie alla sua vita? Ma quel Diktat, venuto dal di fuori, se ci offende e ci danneggia, pure unisce tutti noi italiani nel proposito di scuoterlo da noi con tutte le forze del nostro pensiero e della nostra volontà, con tutte le virtù del nostro lavoro, col valerci delle occasioni favorevoli che non potranno non presentarsi nel mutevole corso della Storia; ma questo, invece, al quale ci piegheremmo oggi nel governo delle nostre cose interne, essendo opera e colpa nostra, ci disunirebbe o ci corromperebbe; e perciò non è da sopportare e bisogna provvedere affinché non eserciti la sua insidiosa prepotenza. In qual modo? si dirà. Il modo c’è e dipende da noi, né sta solo nel fatto che, oltre i grossi partiti ci sono gli altri, numericamente forse ma non idealmente inferiori, sebbene anche e soprattutto in ciò che i partiti sono utili strumenti di azione per certi fini contingenti e non sono il fine universale, non sono la legge del bene alla quale solamente si deve ubbidire, perché, come Montesquieu diceva di se stesso, egli prima che francese si sentiva europeo e prima che europeo si sentiva uomo.

La partitomania, che ingenuamente si esprime nella formula che fu già del fascismo ed è ora la tromba (ahi quanto diversa!) che il tassesco Rinaldo «udia dall’oriente», nella formula verbalmente assurda del «partito unico», vorrebbe invertire questa scala di valori e porre lo strumento di sopra allo spirito umano che deve adoprarlo e collocare ciò che è ultimo al posto di ciò che è primo. Contro cotesta distorsione della vera gerarchia bisogna stare in guardia e ad essa opporsi in modo assoluto e radicale. Ciascuno di noi si ritiri nella sua profonda coscienza e procuri di non prepararsi, col suo voto poco meditato, un pungente e vergognoso rimorso. Io vorrei chiudere questo mio discorso, con licenza degli amici democristiani dei quali non intendo usurpare le parti, raccogliendo tutti quanti qui siamo a intonare le parole dell’inno sublime:

«Veni, creator spiritus,

Mentes tuorum visita;

Accende lumen sensibus,

Infunde amorem cordibus!»

Soprattutto a questi: ai cuori. (Vivissimi applausi – Moltissime congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 15,30.

La seduta termina alle 19.50.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15,30:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.