Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 13 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXIV.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 13 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Annunzio delle dimissioni del Governo:

De Gasperi, Presidente del Consiglio dei Ministri                                                

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Bosco Lucarelli                                                                                              

Corbino                                                                                                            

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                

Colitto                                                                                                             

Marina                                                                                                             

Dominedò                                                                                                         

Cortese                                                                                                            

Taviani                                                                                                             

einaudi                                                                                                             

Laconi                                                                                                              

Gortani                                                                                                            

Jacometti                                                                                                         

Rivera                                                                                                              

Gabrieli                                                                                                            

Badini Confalonieri                                                                                        

Monterisi                                                                                                         

Segni                                                                                                        Moro      

Perrone Capano                                                                                              

Meda                                                                                                                 

Scotti Alessandro                                                                                          

Di Vittorio                                                                                                       

Canevari                                                                                                          

Gronchi                                                                                                            

Camangi                                                                                                           

Ayroldi                                                                                                            

Piemonte                                                                                                          

Miccolis                                                                                                           

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                          

La seduta comincia alle 16.30.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Annunzio delle dimissioni del Governo.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Mi onoro di informare l’Assemblea che il Governo ha rassegnato le dimissioni nelle mani del Capo provvisorio dello Stato, il quale si è riservato di deliberare.

Il Governo resterà in carica per il disbrigo degli affari di ordinaria amministrazione. (Commenti prolungati).

(La seduta sospesa alle 16,40, è ripresa, alle 17,40.)

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Abbiamo esaurito l’esame dell’articolo 39, del progetto che è stato fuso con l’articolo 37, per cui passiamo senz’altro all’esame dell’articolo 40:

«Per coordinare le attività economiche la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed hanno carattere di preminente interesse generale».

A questo articolo sono stati presentati alcuni emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Colitto:

«Sostituirlo col seguente:

«Per soddisfare esigenze preminenti di servizi pubblici od utilizzare fonti di energia o rimuovere monopoli privati, non confacenti all’interesse generale, lo Stato e gli enti pubblici possono, in base a disposizioni di legge, assumere direttamente o indirettamente determinate imprese o categorie di imprese con trasferimenti di beni e complessi di beni, salvi gli espropri e gli indennizzi da stabilire con legge».

Esso è stato già svolto. L’onorevole Marina ha presentato ih seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato facilita colle sue leggi ogni attività economica e, occorrendo, ne coordina lo svolgimento».

Poiché l’onorevole Marina non è presente si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

Gli onorevoli Targetti, Carmagnola, Mariani, Merlin Angelina, hanno presentato il seguente emendamento.

«Sostituirlo col seguente:

«La legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali, o a fonti di energia, o a situazioni di monopolio, o che hanno carattere d’interesse generale».

Dato che nessuno dei presentatori è presente, si intende che essi abbiano rinunziato a svolgerlo.

Gli onorevoli Mazzei e La Malfa hanno presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere le parole: «Per coordinare le attività economiche».

Poiché nessuno dei presentatori è presente, si intende che abbiano rinunziato a svolgerlo.

Gli onorevoli Dominedò e Benvenuti hanno presentato il seguente emendamento già svolto:

«Dopo le parole: Per coordinare le attività economiche, aggiungere: allo scopo del bene comune».

«Alle parole: riserva e trasferisce, sostituire: può riservare e trasferire».

L’onorevole Cortese ha presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Sostituire alle parole: Per coordinare le attività economiche la legge riserva originariamente o trasferisce, le altre: Per tutelare gli interessi della collettività e del consumatore la legge può riservare originariamente o trasferire».

Gli onorevoli Bosco Lucarelli, Benvenuti e Cappi hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: riserva originariamente o trasferisce, sostituire le altre: può riservare originariamente o trasferire».

L’onorevole Bosco Lucarelli ha facoltà di svolgerlo.

BOSCO LUCARELLI. L’economia liberista oramai ha completato il suo ciclo storico. Il popolo italiano, attraverso il suo genio giuridico, le sue grandi generazioni mercantili, e sopratutto attraverso il suo senso di giustizia, troverà le forme nuove nelle quali i vari fattori della produzione si armonizzeranno fra loro, dando al lavoro la necessaria parte che esso merita. Per questa ragione noi non troviamo nessuna difficoltà che, per alcune aziende, nelle quali vi sono le condizioni stabilite dall’articolo 40 – che riguarda gli interessi generali e prevalenti della comunità – si possa avere una gestione diretta da parte dello Stato o di un Ente dallo Stato delegato. Ritengo però che questa affermazione non debba avere un carattere così rigido da esprimersi in un senso assolutamente indicativo ed obbligatorio, perché in questo momento di grave crisi economica dovrebbero molte imprese, che versano in stato fallimentare, bussare alla porta dello Stato, per vedersi asservite e si riverserebbero le loro passività sullo Stato medesimo.

Noi chiederemo (e questo è la ragione specifica del nostro emendamento) che all’affermazione ed al precetto, si sostituisca potenzialità e potere, ed ecco perché noi proponiamo che alle parole: «riserva originariamente o trasferisce», si debbano sostituire le altre: «può riservare originariamente o trasferire». Il concetto sostanzialmente resta lo stesso, ma in luogo del precetto, si afferma la facoltà. Pertanto mantengo il mio emendamento.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Quintieri Quinto, Bonino, Condorelli:

«Sopprimere le parole: od a comunità di lavoratori e di utenti».

Poiché nessuno dei presentatori è presente, si intende che abbiano rinunziato a svolgerlo.

CORBINO. Lo faccio mio.

PRESIDENTE. Intende svolgerlo?

CORBINO. Sì. Nell’emendamento si propone la soppressione della frase: «od a comunità di lavoratori e di utenti», perché, secondo noi, espropriare dei privati per dare ad altri privati non dovrebbe corrispondere allo spirito della disposizione contenuta nell’articolo 40.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione sugli emendamenti presentati.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Il primo emendamento all’articolo 40 è quello sostitutivo dell’onorevole Colitto, del seguente tenore:

«Per sodisfare esigenze preminenti di servizi pubblici od utilizzare fonti di energia o rimuovere monopoli privati, non confacenti all’interesse generale, lo Stato e gli enti pubblici possono, in base a disposizioni di legge, assumere direttamente o indirettamente determinate imprese o categorie di imprese con trasferimenti di beni e complessi di beni, salvi gli espropri e gli indennizzi da stabilire con legge».

Sono tre i punti di divergenza fra il testo della Commissione e l’emendamento proposto dall’onorevole Colitto. La prima divergenza sta nel fatto che, a differenza del testo della Commissione nel quale si dice che queste imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio dovranno avere carattere di preminente interesse generale, nell’emendamento vi si sostituisce la frase: «non confacenti all’interesse generale». Parve alla Commissione che una condizione come questa non fosse accoglibile, per due ragioni: 1°) perché l’interesse superiore della collettività può consigliare la socializzazione indipendentemente da qualsiasi altra particolare considerazione; 2°) per una ragione di carattere pratico, che cioè l’accertamento che una determinata impresa non è confacente all’interesse generale, richiede una indagine sempre difficile, talora impossibile. Una condizione come questa avrebbe avuto praticamente carattere proibitivo.

Altro punto interessante dell’emendamento è questo: «possono, in base a disposizioni di legge, assumere direttamente ecc.».

Avverto che questo potestativo si ripete in altri emendamenti: dell’onorevole Dominedò: «può riservare e trasferire», dell’onorevole Cortese: «la legge può riservare», dall’onorevole Bosco Lucarelli, testé illustrato: «può riservare».

Il testo invece dice: «La legge riserva… o trasferisce», né ci sembra doversi accogliere la modificazione proposta.

L’articolo 40 fa riferimento alla legge è quindi non è che tale riserva o trasferimento siano in ogni caso imposti. Saranno attuati quando il legislatore futuro lo riterrà conveniente e giusto nell’interesse superiore della Nazione.

L’ultima osservazione, sempre in merito all’emendamento dell’onorevole Colitto, riguarda il fatto che gli indennizzi dovrebbero essere «stabiliti per legge», mentre, a nostro parere, la legge dovrà stabilire soltanto i criteri in base ai quali si debba procedere alla determinazione degli indennizzi. Lo stabilire gli indennizzi sarà piuttosto compito o dell’autorità giudiziaria o dell’autorità amministrativa volta per volta.

Vengo all’onorevole Dominedò che ha proposto di aggiungere, dopo le parole: «Per coordinare le attività economiche», le altre: «allo scopo del bene comune».

A noi sembra superflua la dizione proposta e perciò la Commissione non l’accetta.

Vi è poi l’emendamento dell’onorevole Quintieri Quinto, fatto proprio dall’onorevole Corbino, tendente a sopprimere le parole: «od a comunità di lavoratori e di utenti».

Il progetto dice invece: «la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione, salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti».

L’emendamento non fa menzione delle comunità di lavoratori e di utenti le quali pertanto, non rientrando nel concetto di Stato e di Enti pubblici, sarebbero escluse dalla «riserva» e dal «trasferimento».

La Commissione invece è d’avviso che anche queste comunità possano fruire del provvedimento.

Qui si tratta di comunità, di associazioni, cioè, in sostanza, di qualche cosa che non è ancora un ente pubblico ed ha caratteri che lo possono anche per lo meno rendere simile agli enti pubblici. Certo è che gli interessi di una comunità sono interessi diversi da quelli di una singola persona privata.

Per queste ragioni il testo viene mantenuto dalla Commissione nella sua integrità.

PRESIDENTE. Chiedo agli onorevoli presentatori di emendamenti se intendono mantenerli.

Onorevole Colitto, lo mantiene?

COLITTO. Io avevo proposto il mio emendamento, perché convinto che lo Stato possa sì assumere delle imprese, rimuovendo monopoli, ma nel caso che questi non siano confacenti all’interesse generale. L’onorevole Ghidini, però, mi ha indicato delle ragioni, per cui è possibile anche ritenere che le mie preoccupazioni non siano completamente fondate. È perciò che non insisto sull’emendamento.

Vorrei, però, rivolgere alla Commissione una preghiera, cioè quella di cancellare dall’articolo 40 l’aggettivo «preminente», che accompagna le parole «interesse generale».

La ragione di questa preghiera è la seguente. Noi abbiamo approvato l’articolo 38, nel quale si parla di «interesse generale». Ora in che l’interesse generale, di cui si parla nell’articolo 40, si differenzia dall’interesse generale, di cui si parla nell’articolo 38? In che consiste – meglio – la preminenza dell’interesse generale, di cui al primo articolo, in confronto all’interesse generale dell’articolo 38?

Potrebbero sorgere, a mio modesto avviso, degli equivoci di interpretazione, che penso sia opportuno sin da questo momento evitare.

PRESIDENTE. L’onorevole Ghidini ha facoltà di esprimere il pensiero della Commissione al riguardo.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non ho la possibilità di interpellare la Commissione sopra il mantenimento della parola: «preminente».

Per verità, l’articolo 38, come osserva l’onorevole Colitto, parla solo di «interesse generale». Se è per una ragione di armonia, la Commissione non dovrebbe avere nulla in contrario. Esprimo tuttavia un parere di carattere personale perché, ripeto, non ho potuto interpellare la Commissione.

PRESIDENTE. Comunque, l’opinione sia pure parsonale del Presidente della terza Sottocommissione ha il suo valore.

Onorevole Marina, mantiene il suo emendamento?

MARINA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Non essendo presenti gli onorevoli Targetti, Carmagnola, Mariani, Merlin Angelina, l’emendamento da essi proposto si intende decaduto.

Parimenti decade l’emendamento proposto dagli onorevoli Mazzei e La Malfa.

Onorevole Dominedò, mantiene il suo emendamento?

DOMINEDÒ. Per quanto riguarda la prima parte del mio emendamento, essa si deve intendere sostituita da un nuovo emendamento presentato dagli onorevoli Taviani, Ermini ed altri, firmato anche da me, in cui si fa capo al concetto esplicito «ai fini della utilità generale». Per quanto riguarda la seconda parte, la conservo.

PRESIDENTE. Onorevole Cortese, mantiene il suo emendamento?

CORTESE. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Bosco Lucarelli, mantiene il suo emendamento?

BOSCO LUCARELLI. Il mio emendamento è identico a quello dell’onorevole Dominedò. Quindi aderisco al suo punto di vista.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, mantiene l’emendamento Quintieri che ha fatto suo?

CORBINO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Taviani, Dominedò, Ermini, Colonnetti, Benvenuti, Recca, Togni, Zaccagnini, Andreotti, Galati hanno proposto di sostituire all’espressione: «per coordinare le attività economiche» l’altra: «ai fini dell’utilità generale».

Invito l’onorevole Ghidini a esprimere il parere della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non vi sarebbe, per mio conto, nulla di male ad accogliere questo emendamento; ma osservo che l’articolo pone già la condizione dell’«interesse generale» e quindi la variante mi pare inutile.

PRESIDENTE. Passiamo ora alla votazione dell’articolo 40.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il gruppo democristiano voterà l’articolo nel suo complesso con l’emendamento Dominedò e quello testé da me presentato, con il quale noi chiediamo di sostituire allo scopo di «coordinare le attività economiche» quello dell’«utilità generale».

L’obiezione mossa dall’onorevole Ghidini, che si tratti cioè di una ripetizione, per quanto sia comprensibile dal punto di vista formale, non è invece esatta dal punto di vista sostanziale, perché il preminente interesse generale cui si riferisce la proposizione finale dell’articolo riguarda le imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio e non riguarda lo scopo dell’intervento dello Stato per la socializzazione.

Insistiamo sulla modificazione delle parole «riserva» e «trasferisce» con le altre «può riservare» e «trasferire».

EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Desidero solo dichiarare che io mi astengo da questa votazione, perché reputo che tanto l’una formula quanto l’altra non siano affatto tali da assicurarci di raggiungere quella che è stata chiamata da taluni proponenti l’utilità generale.

Non ho mai veduto, infatti, che ci sia uno il quale si voglia appropriare della cosa pubblica, che non abbia mai pretestato l’utilità generale e non sia riuscito a far prevalere la tesi che il fine suo privato coincide con l’utilità generale.

Considero, pertanto, ambedue le formulazioni equivoche e mi astengo di conseguenza dal votare.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Dichiaro che il gruppo comunista voterà l’articolo nella formulazione che esso ha nel progetto della Commissione. Il gruppo comunista non accetta quindi gli emendamenti che sono stati proposti dall’onorevole Dominedò e dall’onorevole Taviani ed altri; per quanto riguarda il primo, in quanto la formula «per coordinare le attività economiche» ha un diretto legame col contenuto già approvato dell’articolo 38; per quanto riguarda il secondo, cioè la sostituzione del «può riservare» in luogo di «riserva», in quanto la formulazione della Commissione è stata introdotta qui fra due formule contrapposte e tende ad indirizzare il legislatore senza specificare se si tratti di un dovere o di una facoltà per lo Stato.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Per le ragioni esposte dagli onorevoli Taviani e Dominedò e pur convenendo che la formula «ai fini dell’utilità generale» è piuttosto lata e si presta quindi alle preoccupazioni manifestate dall’onorevole Einaudi, noi voteremo per i due emendamenti.

CORTESE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORTESE. Dichiaro di ritirare il mio emendamento e di associarmi a quello Taviani-Dominedò.

PRESIDENTE. Sta bene. Procediamo alla votazione delle varie parti dell’articolo, per le quali sono stati presentati emendamenti.

Pongo in votazione l’emendamento proposto dall’onorevole Taviani, al quale ha aderito l’onorevole Cortese, che sostituisce le prime parole: «Per coordinare le attività economiche», con le seguenti: «Ai fini dell’utilità generale».

(Segue la votazione per alzata di mano).

Dato l’esito incerto della votazione, procediamo alla votazione per divisione.

(L’emendamento è approvato – Applausi al centro).

Passiamo alla seguente espressione del testo della Commissione: «la legge riserva originariamente o trasferisce con espropriazione».

L’onorevole Dominedò ha proposto di sostituirla con la seguente: «La legge può riservare originariamente o può trasferire con espropriazione».

Pongo in votazione questo emendamento.

(Dopo prova e controprova è approvato).

Passiamo alla seguente parte dell’articolo: «salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio». L’onorevole Corbino ha proposto di sopprimere le parole: «od a comunità di lavoratori e di utenti».

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il gruppo democristiano vota contro l’emendamento Corbino.

PRESIDENTE. Metto in votazione l’emendamento soppressivo dell’onorevole Corbino.

(Non è approvato).

Vi è, infine, l’ultima espressione dell’articolo: «ed hanno carattere di preminente interesse generale».

L’onorevole Colitto aveva proposto di sopprimere l’aggettivo «preminente» e l’onorevole Ghidini, almeno nella sua qualità di Presidente della terza Sottocommissione, aveva dichiarato di non aver nulla in contrario a questa soppressione.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi voteremo contro la soppressione dell’aggettivo «preminente».

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Dichiaro di rinunziare al mio emendamento relativo alla soppressione dell’aggettivo «preminente».

PRESIDENTE. Pongo in votazione il testo della Commissione ora letto.

(È approvato).

L’articolo 40 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Ai fini dell’utilità generale la legge può riservare originariamente o trasferire con espropriazione, salvo indennizzo, allo Stato, agli enti pubblici od a comunità di lavoratori e di utenti determinate imprese o categorie di imprese che si riferiscono a servizi pubblici essenziali o a fonti di energia o a situazioni di monopolio ed hanno carattere di preminente interesse generale».

Passiamo all’esame dell’articolo 41:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fissa i limiti di estensione ed abolisce il latifondo, promuove la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà».

A questo articolo sono stati presentati numerosi emendamenti. L’onorevole Colitto ha proposto di sopprimerlo ed ha già svolto l’emendamento.

Gli onorevoli Rivera, Montemartini, Gortani, Piemonte, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Perché l’industria agricola italiana serva più efficacemente alla sua funzione sociale ed offra una più ferace produzione, la legge può imporre:

  1. a) direttive tecniche e direttive economico-sociali ai possidenti ed ai lavoratori;
  2. b) limiti massimi e minimi alla proprietà terriera;
  3. c) associazioni o consorzi obbligatori per opere di bonifica o di irrigazione o per la difesa delle piante dalle cause nemiche, infestioni o malattie.

«È obbligo dello Stato la ricerca delle vie del progresso scientifico e tecnico dell’agricoltura italiana».

L’onorevole Gortani, che è il solo presente dei firmatari, ha facoltà di svolgerlo.

GORTANI. Rinuncio a svolgerlo.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Jacometti, Pieri, Fornara, Malagugini, Dugoni, De Michelis, Giua, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fissa i limiti di estensione, attua la trasformazione del latifondo e la sua assegnazione ai lavoratori e alle loro associazioni, promuove la bonifica delle terre, la ricostituzione delle unità produttive e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuta la piccola proprietà».

L’onorevole Jacometti ha facoltà di svolgerlo.

JACOMETTI. L’emendamento che abbiamo presentato ha quattro caratteristiche essenziali. La prima è quella di togliere al testo della Commissione le enunciazioni finalistiche: infatti è difficile rispondere alle domande: «quale è il razionale sfruttamento del suolo? e quali sono gli equi rapporti sociali?». D’altra parte, noi siamo in genere contrari a tutte le enunciazioni finalistiche. La seconda caratteristica è quella di mantenere invece la formula che impone obblighi e vincoli alla proprietà privata e ne fissa i limiti di estensione. Voi tutti avete ricevuto, molto probabilmente, un opuscolo della Confida che ha per titolo: «Conviene porre dei limiti al possesso della terra?» Ora, in questo opuscolo è sostenuto molto intelligentemente – noi riconosciamo l’intelligenza dei nostri avversari – che non conviene porre dei limiti al possesso della terra, e si fa questo ragionamento: «Ci sono delle grandi aziende industrializzate del nord; queste grandi aziende industrializzate formano molte volte una proprietà unica. È possibile romperle per farne delle piccole aziende?» Evidentemente la Confida risponde di no. Anche noi rispondiamo di no come impresa, ma pensiamo invece che sia possibile incidere sulla proprietà perché non necessariamente l’impresa deve coincidere con la proprietà. Noi pensiamo infatti che si debba aprire la strada a che la proprietà di queste grandi aziende industrializzate, che nessuno di noi intende spezzare, possa passare domani alle cooperative, alle comunità di lavoratori ecc. La terza caratteristica è questa: il testo della Commissione dice: «abolisce il latifondo»; a noi pare che questa dizione sia per lo meno curiosa. È come se si dicesse: «abolisce il cancro». Noi tutti sappiamo che il latifondo è un cancro nel corpo sociale italiano; ma non basta dire in una legge che il latifondo è abolito, perché lo sia effettivamente.

Noi proponiamo la formula: «attua la trasformazione del latifondo» La trasformazione del latifondo è una cosa molto difficile, molto complessa e deve essere promossa e attuata. Non basta spezzare il latifondo e darlo in coltura ai coltivatori; esso deve essere prima bonificato, il che significa togliere l’acqua dagli acquitrini, fare strade, portare acqua potabile, costruire case: un complesso enorme di lavori.

Quindi, la prima cosa da fare è la trasformazione del latifondo, cioè risolvere tutti questi problemi e fare sì che il latifondo sia abitabile e coltivabile. Errore grave sarebbe, dal punto di vista sociale ed economico, quello di passare, almeno in molti casi, il latifondo direttamente al coltivatore: questi sarebbe sovente costretto al fallimento.

È necessaria una legge che promuova la bonifica del latifondo; e poi l’assegnazione del latifondo ai coltivatori o alle associazioni di coltivatori. Noi non siamo, pregiudizialmente, per l’una o per l’altra tesi. Sappiamo che talune situazioni ambientali impongono le piccole colture; ma sappiamo anche che ci sono altre situazioni, che favoriscono lo svolgimento delle grandi colture industrializzate. In questi casi sceglieremo quest’ultime perché riteniamo che esse rappresentino l’apice del progresso.

Quindi, laddove è possibile, noi, bonificato il latifondo, vogliamo mantenerlo nei suoi limiti d’estensione attuali, e darlo alle cooperative di contadini o ad altre associazioni. Ecco perché noi abbiamo introdotto questo concetto dell’assegnazione.

La quarta caratteristica del nostro emendamento è questa: di pensare non soltanto alla grande estensione di terreno, ma anche alla piccolissima.

Noi abbiamo in Italia due fenomeni: il frazionamento della proprietà e la dispersione particellare.

Molte volte succede che una piccola coltura, che potrebbe servire ai bisogni ed all’assorbimento del lavoro d’una famiglia di contadini, attraverso l’eredità venga spezzettata; e succede, per esempio, se vi sono tre figli, che essa venga divisa non in tre parti, ma alle volte in 6 o 9 parti, perché si vuol dare a ciascun figlio un po’ di seminativo, un po’ di vigneto ecc.

A questo fenomeno si aggiunge poi quello della dispersione, che in Sardegna, per esempio, raggiunge limiti estremi.

Io ho avuto occasione di vedere la proprietà d’un contadino (pochissimi ettari) dispersa in sei comuni diversi.

Io credo che, per instaurare una agricoltura veramente razionale, sia necessario, attraverso la legge, favorire la permuta e quindi la costituzione dell’unità colturale o produttiva.

Leggi di questo genere ci sono già in altri Paesi.

In Svizzera, per esempio, c’è una legge, che impedisce il frazionamento per eredità della terra, oltre certi limiti.

Questo è essenzialmente il contenuto del nostro emendamento.

Noi siamo persuasi che, attraverso queste provvidenze, che la legge della Repubblica italiana dovrebbe attuare, potremmo arrivare ad aprire la strada ad una età di progresso e di civiltà superiore. (Applausi).

RIVERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RIVERA. Non ero presente, poco fa, quando è stato letto il mio emendamento. Chiedo che mi sia consentito ora di svolgerlo.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RIVERA. Onorevole signor Presidente, le devo innanzi tutto un vivo ringraziamento per la cortesia usatami di permettermi di svolgere con ritardo il mio emendamento al progetto dell’articolo 41.

Onorevoli colleghi, questo del nostro problema agrario è un argomento della più grande importanza e che ha vivamente preoccupato in questo ultimo cinquantennio un gran numero di persone che si occupano della sorte dei nostri campi. È questo un argomento, del quale occorre mettere in evidenza in questa Assemblea i lati meno discussi, perché il multiforme problema agrario italiano, particolarmente quello del Mezzogiorno d’Italia, completamente diverso dal problema agrario, per esempio, dell’Europa centrale, abbisogna di un apporto chiarificatore.

Io trovo, ad esempio che questo articolo 41 presta il fianco a più di una critica, come pure la dizione generica ed anche imprecisa «il razionale sfruttamento del suolo».

Ora agli agricoltori del centro e specialmente del sud Italia si faccia una domanda: credete voi che sia esatta questa dizione, che cioè il reddito dell’industria agricola sia solo legato alla qualità del suolo o al trattamento che noi possiamo fare al terreno?

Vi sentirete rispondere con un cenno verso l’alto: questo vi dice che il fattore dominante del rendimento agricolo del centro e specialmente del sud d’Italia è il clima.

Ora questa non è davvero una novità. Voi avrete letto nei libri latini che Annus fructificat, che cioè il clima, a prevalenza di qualunque altro fattore, determina le sorti buone o cattive dei raccolti nell’Italia centrale e meridionale. Questo aspetto del problema è misconosciuto nell’articolo 41, in quanto esso afferma cosa non precisa parlando di sfruttamento del suolo come unico fattore di produzione agricola.

Questo problema ebbe un chiaro accenno nella «Inchiesta agraria» e nei concetti espressi dall’onorevole Jacini. Da meridionalisti e da tecnici illustri esso fu sufficientemente illuminato nei suoi interrogativi, ma nel ventennio fascista questi problemi sono stati agitati al lume della politica contingente ed esigente di responsi obbligati.

Al momento di votare l’articolo 41 noi dobbiamo ricordarci di quella che è l’essenza del problema agrario italiano, e por mente a quelli che saranno, nel prossimo avvenire, i bisogni della nostra agricoltura.

Noi oggi siamo ad una svolta dell’agricoltura: si è parlato di pianificazione italiana e di pianificazione mondiale. Proprio ieri abbiamo approvato l’ammissione dell’Italia alla F.A.O., cioè alla disciplina internazionale della produzione agricola e della distribuzione dei prodotti alimentari. Questo vuol dire che anche l’Italia, come tutte le altre Nazioni ammesse alla F.A.O., ha rinunziato o si prepara a rinunziare a qualche parte dalla sua sovranità, per sottoporsi ad una superiore disciplina internazionale.

Ora pensate, onorevoli colleghi, quale sarebbe la situazione dell’agricoltura italiana e particolarmente di quella dell’Italia meridionale, quando ci si ponesse dinanzi un dilemma unicorne, un problema zoppo, cioè quello del collocamento presso di noi del grano, dei grassi, delle carni, che saranno fra poco esuberanti in alcuni Paesi dell’Europa e d’America, e che questi Paesi hanno interesse a collocare nei Paesi poveri, e non ci si concedesse la contropartita, cioè senza che il collocamento dei prodotti dei Paesi a clima mediterraneo fosse assicurato.

Questo problema fondamentale è stato prospettato da noi, come rappresentanti dell’Italia, alla conferenza F.A.O. di Copenaghen, dove richiamammo le delegazioni al riconoscimento degli interessi agricoli dei Paesi poveri del Mediterraneo. Devo dire che siamo stati intesi, giacché i delegati di ogni Paese ammisero che i prodotti del sud d’Italia (anche codesti prodotti sono da considerarsi alimentari, in quanto complementari degli altri) vino, frutta, ortaggi, abbiano lo stesso diritto alle predilezioni di collocamento che la F.A.O. mostra di avere per il grano, le carni ed i grassi, che da noi devono essere necessariamente acquistati all’estero.

Vogliamo pensare che questa persuasione porti presto all’invocata parità di diritti tra la produzione agricola di ogni paese.

Questo non è solo un problema di rendimento agricolo, ma diviene un problema di ricchezza per il nostro paese ed un problema di salvezza della nostra economia nazionale. Perciò questo articolo 41, il quale mostra evidente un non apprezzamento, anzi un misconoscimento di questi problemi, che sono al centro della nostra economia ed al centro delle nostre speranze venture, va corretto nel senso indicato nell’emendamento.

E veniamo al latifondo, problema spinoso.

La riforma agraria è intesa generalmente nel senso dell’attribuzione della proprietà della terra. Troppo poco, dicono quelli che qualche conoscenza hanno di questi problemi. Noi vorremmo che del problema della riforma agraria avesse diritto di precedenza quella parte che riguarda la produzione. Alcuni hanno parlato di progresso agricolo come di possibilità illimitate: se ci riferiamo all’Italia continentale, come a tutta la piana del Po, ed anche l’Italia centrale ordinata a mezzadria, uno spiccato progresso agricolo si è determinato in questo secolo. Se andiamo a paragonare infatti il reddito agrario globale attuale con quello delle stesse aziende agrarie di cento anni addietro, noi lo troviamo raddoppiato; troviamo, cioè, ad esempio, che la quantità di grano che oggi si produce è uguale e talora anche maggiore alla quantità che si produceva cento anni addietro, grano però oggi ottenuto sulla metà circa della estensione del terreno che prima era coltivato a grano. Questo risultato è ricchezza nazionale ed è ricchezza dei coltivatori: in queste aziende, infatti, da circa un secolo a questa parte è andata scomparendo la miseria è si è stabilito un notevole benessere. Questo progresso discende direttamente dalle ricerche scientifiche, perché ha potuto essere ottenuto principalmente attraverso la introduzione – fra le colture di grano e di granoturco – di coltivazioni di leguminose da foraggio, le quali sono enormemente miglioranti delle sorti delle colture successive. Ciò ha dunque giovato enormemente all’agricoltura del nord e del centro d’Italia.

Ma se domandate agli agronomi nostri se essi conoscono una ricetta per un progresso agricolo del sud Italia, che sia paragonabile a quello conquistato nel nord, essi si stringono nelle spalle e vi dichiarano che non vi sono ricette generali per la resurrezione agricola del sud Italia. Voi sapete che esiste una enorme regione – parecchie provincie del sud – che si sfibra dietro una misera esclusiva coltura granaria. È un male necessario, fu detto, giacché si giudica che le colture cereali, che sono colture della miseria per queste zone, perché a reddito basso o aleatorio, rappresentino l’unica utilizzazione possibile di quel territorio agricolo.

Di tutto questo disagio la causa principale è da ricercare, come si è già premesso, nella aleatorietà del clima, la cui severità aumenta con il diminuire della latitudine.

A questo proposito permettete una breve digressione.

Io ho un nipotino…

PRESIDENTE. Onorevole Rivera, noi ascoltiamo tutti volentieri le sue digressioni, ma sono già dieci minuti che lei parla, ed ha trattato soltanto il primo comma del suo emendamento, mentre ne ha presentati tre. Comunque, ci racconti pure del suo nipotino.

RIVERA. Grazie. Dunque dicevo, che questo ragazzino, quando entra in una casa nuova che non conosce e nella quale dovrà dimorare, domanda per prima cosa: chi comanda in questa casa? È una preoccupazione più che giustificata e che dovremmo avere un po’ tutti quando ci apprestiamo a proporre un nuovo metodo di lavoro in un ambiente inusitato. Quando voi del Settentrione andate nel Sud per rendervi conto del problema agricolo vi domandate chi comanda in quell’ambiente? Nel Nord, o amici settentrionali, le incostanze ed i capricci del clima sono indubbiamente più attenuati: infatti, ad esempio, da voi piove abbastanza regolarmente nel periodo primaverile-estivo, e, se si va poi nell’Europa Settentrionale, in periodi dell’anno di attiva vegetazione, piove quasi tutti i giorni e la temperatura non ha variazioni troppo brusche, sicché i fattori climatici non determinano, a quelle latitudini, quasi mai situazioni preoccupanti. Se invece coltivate grano o altre colture erbacee nelle zone aride e calde d’Italia, vi accorgerete che questa messe, fino ad un certo momento lussureggiante, è bersagliata dal clima, che diventa improvvisamente severo, al punto che dalle statistiche si rileva che nel foggiano si è raccolto in qualche anno per 18 e più quintali l’ettaro, mentre in certi anni si è scesi ad un reddito di poco più di 4 quintali!

Da queste disavventure agricole è mantenuto in piedi il latifondo arido.

La questione del latifondo è prediletta di quasi tutti i partiti ed «abolire il latifondo» è un programma amato po’ da tutti qui dentro e fuori. Certamente questa fame di terra, questa gioia di possedere, deve essere da noi riconosciuta nel più ampio modo verso chi lavora i terreni. Nessun partito, mi pare, ci sia che non soffra di questa passione e non voglia dare riconoscimento a questo desiderio così umano e giustificato. Ma io vi dico, onorevoli colleghi: vi sembra un bel servizio che faremmo agli agricoltori poveri, quando li immettessimo nel latifondo arido del Sud, esponendoli al rischio di un raccolto di pochi quintali l’ettaro, tanto peggio se essi si imbattano in due annate consecutive avverse?

Io mi limito ad accennare al latifondo arido e caldo, essendo pacifica la soluzione da dare al latifondo fresco e tanto più a quello irriguo, bisognoso di braccia, che va ripartito, specialmente se mal condotto, come in qualche caso evidente: sempre che si salvi l’efficienza degli impianti e della riorganizzazione.

Vi pare un servizio reso al progresso agricolo ed un gesto generoso verso i coltivatori diretti, privi in genere di capitali, di scorte e di riserve, immetterli in questa zona di fame e di rischio?

Abolire il latifondo è dunque un enunciato bellissimo, ma come tutti gli enunciati e gli assiomi politici, rischia di rimanere tale, se non si risolvono i lati inibitivi, che per secoli hanno impedito nel sud quella ripartizione terriera che si auspica. Sicché abolire il latifondo noi possiamo ben metterlo come programma e decisione di questa Costituente, ma esso rimarrà, o amici, all’enunciato, così come da 35 anni e più esso è programma e programma di parecchi partiti. Il mio partito – ed io vi combatto da 27 anni – per primo pose, tra i problemi politici italiani, l’abolizione del latifondo, più di 30 anni fa, e sino ad oggi non si trova la strada di una realizzazione. Noi siamo ancora al punto in cui in qualche opera lirica il coro ripete «partiam! partiam!», ma rimane sempre fermo sulla scena. Io vi dico oggi: guardatevi, onorevoli colleghi, dal fare una promessa siffatta, che non sarete in grado di mantenere; ché se un giorno volessimo immettere nelle aziende aride e calde del sud i nostri mirabili coltivatori di terra, perché creino da sé e per sé quella ricchezza di cui beneficeremmo tutti e li avviassimo, nelle aziende per loro preparate, col sacco pieno, ce li vedremmo ritornare dopo qualche anno scoraggiati, estenuati e col sacco vuoto. Questa è la sorte riservata ai coltivatori piccoli e piccolissimi di coltivazioni erbacee comuni nelle zone aride e calde del Sud!

DI VITTORIO. Si tratta di usare i fertilizzanti!

RIVERA. Se per fertilizzanti intendete forniture di concimi, non farete altro che esasperare gli effetti della siccità, ed otterrete, in annate siccitose, meno di quello che ottenevate quando non era dato il concime. Ma su questo punto voglio scivolare, perché una discussione su di esso assorbirebbe un tempo che non abbiamo: bene sarà se vorremo dedicarci in seguito ad una discussione particolare su questo tema.

Per oggi datemi credito: mi valgo di 18 anni di permanenza come professore di ruolo in una facoltà di agraria d’Italia, dove ho insegnato con fedeltà e vorrei dire anche con onore (Commenti), per potervi dichiarare che la soluzione del problema agrario del Sud non è conosciuta nei suoi più gelosi termini, che devono essere offerti dallo Stato a quegli agricoltori.

E salto immediatamente alla chiusa del mio emendamento, perché il tempo stringe. In questa Assemblea è stato fatto rimprovero, da parte di alcuni deputati del Sud Italia, a tutti i Governi, che in Italia si sono succeduti in questo settantennio, perché si sono mostrati restii o lenti a tracciare strade, a costruire ferrovie, o ad incoraggiare industrie. Ma io dico che la più grande colpa, che qui non ho sentito mentovare, è stata quella veramente grave ed imperdonabile, commessa dai Governi passati, di non aver provveduto a studiare e risolvere il problema agrario meridionale italiano, di non aver cioè tentato di risolvere il problema della miseria dell’agricoltura e della miseria degli agricoltori delle zone calde ed aride d’Italia.

Ecco perché alla fine del mio emendamento ho domandato che sia fatto obbligo formale allo Stato di provvedere allo studio delle vie del progresso dell’agricoltura italiana.

Noi abbiamo oggi ragioni gravi per tentare di uscire da questa specie di gabbia economica, che ci tiene in uno stato di inferiorità nei riguardi di altre parti del mondo, ed anche nei riguardi di altre parti d’Italia e per invocare che finalmente questo problema sia reso noto da ricerche e studi. Alcuni dati di questo problema sarebbero in verità risoluti, ma non sono risoluti in funzione dell’estero, in funzione dell’esportazione. Se infatti io dico all’agricoltore del Sud Italia: «Tu pianta la vigna, tu pianta l’olivo, tu metti il mandorlo, nel tuo terreno», io avrei risoluto, dal punto di vista agronomico, questo problema, in molte zone del Sud; ma voi sapete bene quale grave crisi ebbe a colpire circa 50 anni addietro la produzione dell’uva e del vino italiano e come la questione dei prezzi dell’olio si presenti preoccupante in periodi normali. Noi veniamo da un convegno di viticoltori, al quale sono stati invitati i diplomatici di tutte le parti del mondo qui accreditati, perché constatassero le squisite qualità di vini che l’Italia è capace di produrre e siamo oggi entusiasti assertori della loro bontà. (Interruzione dell’onorevole Micheli).

Siamo tutti dispiaciuti della sua assenza, onorevole Micheli, da quel convegno di intenditori o di amatori del buon vino.

PRESIDENTE. Onorevole Rivera, la prego di concludere.

RIVERA. Concluderò senz’altro. Se a questi viticoltori del Sud d’Italia si desse l’assicurazione che tutto il loro vino, che è veramente squisito, potesse essere collocato all’estero; se cioè, ritornando al concetto dal quale ho incominciato, al posto del grano, della carne, di cui abbiamo bisogno assoluto, venissero presi i nostri vini, la nostra frutta, i nostri ortaggi, noi non saremmo forse qui, onorevoli colleghi, ad angustiarci col problema della risoluzione del bilancio statale, del bilancio delle provincie, del bilancio dei comuni, e, certo, anche del bilancio dell’agricoltore, e noi potremmo, finalmente, in questa solidarietà europea, dire di aver sistemato l’agricoltura della nostra penisola, di aver messo l’Italia a posto anche economicamente.

Io arrivo, onorevoli colleghi, a conclusioni le quali trascendono completamente da quello che è il problema dell’articolo 41; ma posso assicurarvi che queste mie parole non sono un’esagerazione. Noi dobbiamo cercare di dare all’agricoltura del Sud. Italia, indipendentemente da quelle che sono le nostre passioni politiche, quella sistemazione la quale faccia raggiungere a quell’agricoltura dell’Italia del Sud l’altezza di quella dell’Italia continentale o della piana del Po, onde anche sopperire a tutti i pesi normali e straordinari, a quelli cioè che avevamo prima ed a quelli, tanto più onerosi, che la guerra disastrosa ci ha imposto di pagare all’esterno e all’interno e soddisfare finalmente questa fame, per la quale ho sentito lamenti acutissimi anche in quest’aula!

È questo il problema al quale vorrei che l’Assemblea dedicasse qualche ora, in una discussione che fosse magari un contradittorio, sicché potessimo finalmente concludere nella valutazione di quelli che sono i provvedimenti da prendere. Ma se non porremo, fin da oggi, il problema nel suo vero binario, faremo opera dannosa alla nostra agricoltura ed al nostro Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Cassiani ha già svolto il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fissa i limiti di estensione, promuove la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà.

«Il latifondo, comunque condotto e coltivato, ma suscettivo di utili trasformazioni fondiarie o di appoderamento, è abolito, La trasformazione o l’appoderamento sono obbligatori».

L’onorevole Gabrieli ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge può imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata e stabilirne il frazionamento, o limitarne l’estensione. Promuove le opere di bonifica, l’intensificazione delle colture, l’educazione professionale dei lavoratori. Aiuta la piccola e media proprietà».

Ha facoltà di svolgerlo.

GABRIELI. Siccome i concetti contenuti nel mio emendamento sono stati trasfusi in un emendamento Segni, più perfetto, aderisco all’emendamento Segni.

PRESIDENTE. L’onorevole Romano ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, promuove la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà».

Poiché non è presente, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

L’onorevole Perrone Capano ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge può imporre obblighi e vincoli alla proprietà terriera, e, promuovendo la bonifica, l’intensificazione delle colture, l’educazione professionale tecnica dei lavoratori, facilitare il frazionamento della proprietà ove ciò sia economicamente e socialmente utile. Lo Stato aiuta la piccola e media proprietà».

Poiché non è presente, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

L’onorevole Marina ha presentato il seguente emendamento.

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato promuove lo sfruttamento del sottosuolo, la bonifica delle terre e l’elevazione professionale dei lavoratori».

Ha facoltà di svolgerlo.

MARINA. Lo ritiro e mi associo a quello successivo dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Corbino, Quintieri Quinto, Crispo, Cifaldi, Badini Confalonieri, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera, promuove l’intensificazione delle colture e la bonifica delle terre, migliora l’educazione professionale tecnica dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà».

L’onorevole Corbino ha facoltà di svolgerlo.

CORBINO. Dopo il discorso del collega Rivera io mi limiterò a illustrare brevemente gli emendamenti all’articolo relativo alla proprietà.

Il mio emendamento consiste in questo: sopprimere la parola «privata» dal testo proposto dalla Commissione, perché io penso che qualsiasi limite e qualsiasi obbligo e vincolo debba considerarsi esteso anche alle proprietà demaniali o comunali; ciò che avrebbe molta importanza, in vista della autonomia che potrà essere concessa agli enti locali.

Se ci deve essere una politica agraria, essa deve valere per la proprietà terriera privata, e per la proprietà terriera degli enti pubblici. Poi c’è la proposta di soppressione del comma che fissa i limiti di estensione ed abolisce il latifondo. Cosa vuol dire «limiti di estensione»: si debbono riferire alla terra o al proprietario? Un limite alla terra potrebbe porre ostacoli gravissimi al progresso agrario; fissare poi dei limiti per il proprietario significherebbe fermare tutto il mercato della proprietà terriera, perché nessuno saprebbe più se vendendo a Tizio o a Caio si vende a persona che con quell’acquisto superi i limiti che sarebbero stabiliti dalla legge.  

In quanto alla questione del latifondo, mi associo alle considerazioni dell’onorevole Rivera: ché anche dal punto di vista statistico noi non sappiamo quanti latifondi ci sono; e poi si tratta di stabilire la estensione minima del complesso agrario al quale si dà il nome di latifondo.

D’altra parte non si può non considerare la circostanza che il latifondo è talvolta una unità agraria perfetta, e volerlo abolire significherebbe determinare un regresso. Che vi siano delle zone latifondistiche da trasformare non c’è dubbio, e che lo Stato quindi debba intervenire in questi casi lo possiamo accettare e lo accettiamo favorevolmente tutti; ma penso che a questo fine possa bastare stabilire dei vincoli e degli obblighi generali alla proprietà terriera. Occorre poi tener conto che la pressione fiscale, e specialmente le tasse sui trasferimenti a titolo gratuito, sono destinate ad esercitare una funzione riduttrice in questo campo.

Propongo pertanto che questa dizione sia sostituita dall’altra, che impone alla legge l’obbligo di promuovere «la intensificazione della coltura e la bonifica delle terre», comprendendo nella intensificazione e nella bonifica tutto ciò che lo Stato può fare non dirò per abolire, ma per lo meno per spezzare il latifondo. Per il resto il mio emendamento si attiene alla formula proposta dalla Commissione. (Approvazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Mortati ha presentato il seguente emendamento.

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera, e, promuovendo la bonifica, l’intensificazione delle colture, l’educazione professionale dei lavoratori, crea le condizioni necessarie per giungere all’abolizione del latifondo, alla riduzione della grande proprietà ed all’incremento di quella piccola e media».

Poiché l’onorevole Mortati non è presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.

L’onorevole Einaudi ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Allo scopo di conseguire un più elevato prodotto della terra ed una distribuzione socialmente equa di esso, la legge può imporre alla proprietà terriera privata e pubblica obblighi e vincoli, anche relativi alla estensione, appropriati alle varie regioni e zone agrarie italiane. La legge impone e promuove la bonifica delle terre e la trasformazione del latifondo ad incremento ed elevazione del ceto dei piccoli e medi proprietari».

Ha facoltà di svolgerlo.

EINAUDI. Onorevoli colleghi, spero che vorrete scusarmi anche questa volta se insisterò per un momento sulla necessità di porre norme statutarie le quali abbiano un significato preciso. Certamente a me non sembra che le parole: «allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo» abbiano questo significato preciso. Il significato proprio delle parole adoperate è che la terra deve essere coltivata così come ci insegnano alcuni professori i quali credono di sapere come si coltiva la terra. La razionalità nella coltivazione della terra è un qualcosa che non è razionale secondo un dettame della logica dottrinaria, ma varia secondo le circostanze di luogo e di tempo e può essere valutata soltanto in ragione del risultato economico. Per conseguenza, io propongo che alla formula, inesistente dal punto di vista economico, del «razionale sfruttamento del suolo», che potrebbe mettere gli agricoltori alla mercé di uomini che hanno studiato ma non praticato l’arte agraria, siano sostituite le parole: «allo scopo di conseguire un più elevato prodotto della terra». Cosa sia «un più elevato prodotto della terra» io suppongo possa invero essere facilmente comprensibile; non è comprensibile invece ciò che sia la «razionalità» nella coltivazione della terra.

Ho sempre avuto molta stima e molta ammirazione per coloro che erano i cattedratici ambulanti, che vivevano della vita dei campi e conoscevano ad uno ad uno gli agricoltori della loro regione. Costoro non hanno mai insegnato sfruttamenti razionali del suolo: hanno sempre cercato di vedere quelle che erano le colture del luogo, quelle che erano le consuetudini e le possibilità economiche del luogo ed hanno cercato di spingere i coltivatori a perfezionare i loro sistemi locali e consuetudinari. Quando, al posto dei cattedratici ambulanti, che vivevano la vita dei campi, ho visto sostituirsi gli ispettori dell’agricoltura che stavano nei capoluoghi di provincia o di regione, ho constatato che costoro distribuivano grandi prospetti, davano grandi consigli, inculcavano indirizzi, imponevano percentuali obbligatorie di coltura per ordine di governanti residenti a Roma ed operanti per il conseguimento di piani autarchici o non; ma non erano per nulla conosciuti dagli agricoltori e si sono resi promovitori di tutti quegli istituti che durante l’epoca fascista hanno oppresso l’agricoltura e si sono resi odiosi agli agricoltori.

Perciò alle parole «razionale sfruttamento» vorrei fossero sostituite le altre: «allo scopo di conseguire un più elevato prodotto della terra».

Osservo che, quando si mira ad ottenere un più elevato prodotto della terra è ragionevole iscrivere nella Costituzione che si tenda ad una «distribuzione socialmente equa di esso prodotto». So cosa è una distribuzione socialmente equa di un prodotto, o, almeno, ritengo che sia un concetto comprensibile. Ignoro cosa possa essere «stabilire equi rapporti sociali in relazione ad un razionale sfruttamento della terra».

Nell’emendamento che ho presentato escludo anche che si possa pensare all’abolizione del latifondo. Vedo con piacere che questa opinione è condivisa da uomini di diverse parti dell’Assemblea.

Vorrei aggiungere qualche considerazione. La trasformazione del latifondo è un concetto ragionevole; non è altrettanto ragionevole e non è possibile l’abolizione del latifondo. Sappiamo noi che cosa sia e quanto latifondo ci sia in Italia? Sino a ieri non abbiamo saputo quasi nulla di quella che è la distribuzione della proprietà fondiaria in Italia. Se oggi si sa qualche cifra, queste poche cifre che noi conosciamo intorno alla distribuzione del latifondo ci devono rendere persuasi della prudenza di non chiedere un’abolizione che sarebbe assurda e nociva e indurci a chiedere, invece, una trasformazione a seconda delle esigenze delle colture delle diverse zone agrarie. Per valutare l’importanza del problema del latifondo ricordiamo che soltanto il 13,55 per cento della superficie totale produttiva del Paese è composto di proprietà le quali superano i mille ettari e queste proprietà che superano i mille ettari fruttano soltanto il 3,51 per cento del reddito imponibile totale della proprietà agraria. La cifra del basso reddito fa presumere, così, in generale, che questa proprietà può essere trasformata e può essere conveniente sia trasformata, ma non dimostra per sé che essa debba essere abolita. Nulla ci dice che i proprietari abbiano mancato al loro dovere. Occorre sapere quali siano i luoghi e le circostanze in cui il latifondo esiste. Quali sono i luoghi dove esiste il latifondo in Italia? Le notizie che a questo riguardo si hanno – e sono notizie recenti – ci dicono che circa il 31 per cento della superficie totale delle proprietà superiori ai mille ettari è compreso nella zona alpina. Ora, in che senso è possibile trasformare questo latifondo? Ed è possibile abolire il latifondo alpino, costituendovi qualche tipo di proprietà piccola o media? L’abolizione del latifondo, nella montagna alpina che dà il 31 per cento della superficie totale delle proprietà che superano i mille ettari, sarebbe evidentemente un provvedimento irrazionale. Trasformiamo, perfezioniamo, sì, anche nelle Alpi, le forme di coltura, come già è stato raccomandato da alcuni colleghi: ma l’abolizione della coltivazione e dell’appoderamento in grandi nuclei sarebbe dannosa allo scopo dell’incremento della produzione agraria.

Un altro 15 per cento della superficie occupata da proprietà aventi superficie superiore ai mille ettari è compreso nella zona montagnosa appenninica; di modo che la zona montagnosa alpina e quella appenninica danno complessivamente il 46 per cento di tutte le proprietà che superano la estensione dei mille ettari nell’intera Italia. Se questo è latifondo, esso può essere trasformato, con lenta fatica e con impiego di capitali colossali; ma sarebbe strano dichiararne l’abolizione.

Le cifre addotte dimostrano che l’abolizione sarebbe un qualche cosa di antieconomico in quelle zone, un qualche cosa che riuscirebbe di danno all’incremento della produzione totale. Credo perciò che nella Costituzione si debbano inserire parole che si riferiscono alla trasformazione; non già quelle invece che vogliono l’abolizione generica del latifondo.

Del latifondo e dei suoi risultati buoni o cattivi sono sempre responsabili i proprietari privati? Le statistiche che stanno compilandosi in questi ultimi tempi fanno nascere, sotto questo riguardo, dubbi ragionati. La Sicilia, è noto, è una delle regioni indiziate come contenente la massima proporzione di latifondo. Ho qualche dubbio al riguardo. Escludendo la montagna, la massima quantità di proprietà che superano i mille ettari non è infatti situata nell’Italia meridionale né in quella insulare, sì invece nell’Italia centrale.

L’insieme delle proprietà che superano mille ettari di superficie interessano nel complesso dell’Italia circa 1,5 milioni di ettari; e di questi l’Italia settentrionale fornisce 169.492 ettari quasi tutti nell’Emilia e nel Veneto, l’Italia centrale 623.383, l’Italia meridionale 310.823 e la Sicilia 80.694 ettari, sempre nelle zone che non siano di montagna.

È un problema quindi quello delle proprietà che superano i mille ettari che non può considerarsi speciale dell’Italia meridionale e insulare. È un problema caso mai preminente, invece, nell’Italia centrale. Ma è nell’Italia centrale altresì che tra le proprietà superiori ai 1000 ettari, si noverano tutti i tipi di proprietà, da quelle organizzate splendidamente che dànno produzioni altissime e che non trovano alcun riscontro in nessuna regione del mondo, a quelle nelle quali invece la produzione è bassissima e nelle quali la trasformazione sarebbe utile.

Perciò non vorrei impegnare l’Assemblea con parole così rigide come quella dì «abolizione», ma consigliare invece che al suo posto se ne usi qualche altra, che renda possibile una politica economica e sociale davvero feconda.

E in Sicilia la responsabilità dell’esistenza dei latifondi, comunque si vogliano definire, è sempre soltanto dei privati? Io ho sotto gli occhi una statistica dalla quale risulta che in Sicilia le proprietà superiori, per estensione, ai mille ettari appartengono, per numero, a 198 proprietari privati; ma 23 appartengono allo Stato, alle provincie ed ai comuni e 7 ad altri enti. E per quello che riguarda la superficie, le proprietà superiori ai mille ettari in Sicilia spettano ai privati per 144.353 ettari; ma ne spettano allo Stato, alle provincie e ai comuni anche 75.190 ettari. 75.190 ettari sono una cifra inferiore a 144.353; ma è pur sempre una cifra imponente. E accanto a questi 75.190 ettari appartenenti allo Stato, alle provincie ed ai comuni vi sono altri 12.329 ettari i quali spettano ad altri enti. Tra Stato, provincie, comuni ed altri enti arriviamo così ad oltre 87 mila ettari di proprietà che superano i mille ettari.

Aboliamo anche questa proprietà ossia questa parte cospicua del latifondo siciliano? Tanto varrebbe dire che lo Stato può abolire la cosa sua. Possiamo invece dire logicamente che anche la proprietà pubblica, se è possibile e nei limiti del possibile, sia trasformata. Dire che il latifondo deve essere abolito, quando in così notevole parte spetta già allo Stato e ad altri enti pubblici, mi sembra dire cosa che non ha un significato preciso.

Un’altra modificazione da me proposta al testo della Commissione è quella dell’aiuto alla piccola e alla media proprietà. Io ho proposto che la bonifica della terra e la trasformazione del latifondo debba servire non ad aiutare la piccola e media proprietà, ma, usando un’altra terminologia, «ad incremento ed elevazione del ceto dei piccoli e medi proprietari». Noi non abbiamo affatto bisogno di aiutare i piccoli e medi proprietari ad aumentare di numero, perché se un fatto fondamentale vi è in questa materia è che in Italia forse il numero dei piccoli e medi proprietari è eccessivo.

Ricordiamo che il numero delle ditte proprietarie in Italia oggi è di 10.497.370; ricordiamo anche che il numero delle persone le quali hanno parte nella proprietà della terra giunge alla cifra enorme di circa 13 milioni; ossia vi è più di un proprietario per famiglia in Italia. Il numero delle famiglie proprietarie in Italia è probabilmente di 9 milioni. Ciò che risulta da queste cifre, le quali sono il risultato delle ultime rilevazioni del catasto fondiario e agrario, è che forse vi è un eccesso nel numero dei piccoli e medi proprietari. In certe zone agricole il numero dei proprietari è certamente eccessivo. Tipico è il caso della Sardegna, dove il male più importante non è quello della scarsa diffusione della proprietà ma invece quello della polverizzazione della proprietà, che rende la proprietà improduttiva e fa sì che essa non adempia a quegli scopi economici e sociali a cui dovrebbe tendere. E nella Sardegna medesima accade che vi siano (è una cifra che non avevo ancora ricordato) 445.000 ettari di proprietà le quali per superficie superano i 1.000 ettari. Ma che cosa sono questi 445.000 ettari? In gran parte sono pascoli cespugliati e boschi, mal coltivati perché soggetti – per tradizione secolare – ad usi civici. Trattasi dei famosi beni ademprivili: qui una cattiva forma di proprietà collettiva fa sì che il terreno sia malamente utilizzato. Quindi si impone non l’abolizione di non so che cosa, poiché trattasi di terreni che sono in gran parte di proprietà già collettiva, ma di trasformazione. Trasformazione del latifondo, quindi, non abolizione; ed adattamento delle dimensioni dell’impresa agricola alle mutabili condizioni diverse delle zone agricole italiane. Nel mio emendamento ho proposto perciò che gli eventuali limiti alla estensione della proprietà debbono essere appropriati alle varie regioni e zone agricole italiane. Ricordiamoci sempre che l’Italia è uno dei Paesi che presenta la più grande, la più meravigliosa varietà di forme di proprietà e di forme di coltivazione che forse si conoscano al mondo. Noi andiamo da forme di coltivazione estensive a forme di coltivazione le più intensive, le quali si dovrebbero addirittura chiamare costruzioni. Nella Liguria, vi sono invero proprietà che non sono coltivazioni, sono invece vere e proprie costruzioni, più costose delle costruzioni delle case. Bisogna vedere in Liguria e non solo in Liguria, ma nella Conca d’Oro, nei dirupi della Costa d’Amalfi, nella stretta cornice della Calabria e della Sicilia quali magnifiche coltivazioni intensive siano state create sulle rocce nude, senz’acqua e senza terra. L’uomo ha trasportato su queste rocce nude, senz’acqua e senza terra, gli elementi naturali necessari alla coltivazione; ha trasportato la terra a dorso, perché non erano approntati i muli a trasportare la terra in quei greppi, ed ha raccolto goccia a goccia l’acqua durante le piogge invernali e primaverili, l’ha conservata in cisterne costruite a gran dispendio e l’ha distribuita gelosamente a breve spazio di terra, divenuta così capitale fecondo. Talvolta è una ricchezza notevole, anche una proprietà estesa semplicemente su un ettaro. Su un ettaro a fiori vive una popolazione prospera laddove in altre condizioni morrebbe di stenti una persona sola.

Nulla può dunque essere affermato in modo generale intorno alla più economica dimensione dell’impresa agraria. Non possiamo condannare a priori la proprietà perché sia inferiore ad un solo ettaro, né possiamo condannarla solo perché essa sia superiore ai 1.000 ettari. La proprietà minima per superficie può dare redditi grandissimi e su un ettaro – come in Liguria – possono vivere anche 20 o 30 persone, e vivere più largamente di quanto non facciano coltivatori dispersi in ampie superfici di terra. Ma vi sono altresì in Italia proprietà le quali ai contemplatori delle nude statistiche possono apparire latifondistiche, proprietà le quali superano i 1.000 ettari, e anche i 2.000 e i 3.000, ed una di queste situata alle porte di Roma è oggi di proprietà dello Stato, e quelle proprietà costituiscono l’orgoglio dell’Italia e sarebbe un vero delitto abolirle.

Trasformare dunque il latifondo, non abolirlo! (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Bosco Lucarelli ha proposto di sopprimere le parole: «ne fissa i limiti di estensione».

Poiché non è presente, si intende che abbia rinunciato a svolgere l’emendamento.

Gli onorevoli Badini Confalonieri e Crispo hanno presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere le parole: ne fissa i limiti di estensione ed abolisce il latifondo, ed aggiungete in fine dell’articolo: trasforma il latifondo».

L’onorevole Badini Confalonieri ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

BADINI CONFALONIERI. L’emendamento proposto dall’onorevole Crispo e da me si compone di due parti, di cui la prima sopprime le parole: «ne fissa i limiti di estensione ed abolisce il latifondo». Le osservazioni fatte testé dall’onorevole Corbino mi esimono dal dare maggiori delucidazioni. Volevo solo ricordare che i limiti della proprietà sono stati già fissati nell’articolo 38, che abbiamo votato ed approvato, e certamente non vogliamo qui fare inutili ripetizioni.

Anziché dire «abolisce il latifondo», poi, noi con la seconda parte dell’emendamento vogliamo dire: «trasforma il latifondo», proprio per quel concetto che il mio maestro onorevole Einaudi ha testé illustrato.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Monterisi, Caccuri, Perrone Capano, Gabrieli hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: bonifica delle terre, aggiungere l’inciso: anche mediante opere di elettrificazione».

L’onorevole Monterisi ha facoltà di svolgerlo.

MONTERISI. L’emendamento riguardante le opere di elettrificazione delle campagne, che io sottopongo alla vostra benevola attenzione, onorevoli colleghi, è di tale importanza che investe molto da vicino il gravissimo problema della riforma agraria, anzi deve essere la base su cui deve erigersi la riforma stessa, sulla quale, in questo momento, converge l’attenzione di tutti i Gruppi parlamentari, a prescindere dalle ideologie che ne informano i rispettivi programmi.

Infatti, che cosa ci proponiamo noi di raggiungere con la riforma agraria? Noi tendiamo a tre obiettivi: aumento della produzione, impiego massimo della mano d’opera e spezzettamento della grande proprietà.

II primo obiettivo è quello del massimo aumento della produzione agricola, aumento che a noi necessita sia per ragioni interne, e cioè assicurare l’alimentazione dei cittadini, sia per ragioni valutarie, perché dobbiamo procurarci materie, o piuttosto prodotti esportabili.

Il secondo obiettivo che dobbiamo raggiungere è l’impiego massimo di mano d’opera. L’Italia, povera di materie prime e ricca soltanto di sole, deve rendere produttivo il suo scarso suolo, anche per impiegare il massimo numero di unità lavorative.

Il terzo obiettivo poi è lo spezzettamento della grande proprietà, spezzettamento del quale noi tutti, onorevoli colleghi, in questo momento tanto ci preoccupiamo.

E questi tre obiettivi, se veramente vogliamo fare opera ricostruttiva, dobbiamo raggiungerli nel più breve tempo possibile: noi dobbiamo, cioè, cercare la rapida realizzazione della riforma agraria.

Tutti questi scopi ai quali tende la suddetta riforma, si possono raggiungere facilmente, anzi principalmente attraverso l’irrigazione. L’irrigazione infatti aumenta la produzione agricola e non vi è certo bisogno di essere degli esperti agricoltori, e tanto meno dei professori di agricoltura, per conoscere che l’acqua è il principale alimento delle piante e che quindi l’irrigazione concorre a moltiplicare i prodotti del suolo, specialmente nelle annate di grande siccità, che purtroppo, in modo particolare nel Mezzogiorno d’Italia, sono tanto frequenti.

In secondo luogo l’irrigazione concorre anche a risolvere il problema della disoccupazione.

Le colture irrigue, infatti, da sole, hanno esigenze molto maggiori di quelle asciutte e di conseguenza richiedono maggior impiego di lavoro, per cure colturali, di raccolta, trasformazione, ecc.

Ma tanto maggiore è l’apporto di lavoro, quando si pensi che l’irrigazione allarga la possibilità e la convenienza delle consociazioni è di maggiori e più frequenti rotazioni annuali, nonché dell’introduzione di colture erbacee estive nel Mezzogiorno, finora pressoché impossibili nella generalità delle aziende del Sud.

È superfluo aggiungere che l’irrigazione apre la via alle foraggere e piante di rinnovo, a colture che costituiscono il fondamento di ogni azienda veramente produttrice.

Basta soffermarsi appena su queste considerazioni per comprendere quale potente contributo darebbe l’irrigazione per la risoluzione del preoccupante problema della disoccupazione.

L’irrigazione concorre inoltre a farci raggiungere il terzo scopo che si propone la riforma agraria, cioè lo spezzettamento della grande proprietà.

Irrigando i latifondi, il frazionamento avverrebbe naturalmente, senza, si può dire, alcuna coercizione, e ciò per varie ragioni.

Il latifondo, così come esiste oggi, non è in genere che una misera arida rotazione di cereali maggesi, rotazione che richiede pochissime cure amministrative e colturali, e logicamente determina una resa unitaria molto bassa.

Mediante l’irrigazione invece, la conduzione diventa un problema arduo e complicato, che esula completamente dalle possibilità della generalità dei grossi proprietari assenteisti, anche perché richiede, come abbiamo sopra dimostrato, un fortissimo aumento di unità lavorative. Aumentando, inoltre, il reddito unitario, si induce il proprietario a ridurre ragionevolmente la estensione del latifondo stesso, potendo ricavare da una superficie minore l’eguale profitto di prima.

Il concetto della proprietà moderna deve essere questo: «Possedere poca terra, ma sfruttarla nel modo più intenso e razionale possibile». Per questo sfruttamento è appunto indispensabile l’irrigazione. L’acqua contribuisce inoltre al frazionamento della proprietà, anche perché riduce la estensione necessaria al mantenimento della famiglia, poiché, come abbiamo già detto, a parità di superficie, rende di più quella che richiede maggior numero di giornate lavorative.

Un’altra considerazione dobbiamo anche tenere presente. In Italia abbiamo comuni in cui il problema sociale, dal punto di vista del frazionamento, si può considerare completamente risolto. Basta pensare, ad esempio, a comuni che con 12.000 ettari, hanno 14.000 ditte catastali, o su 6.000 ettari 8.000 ditte.

In questi casi, il problema che gli agricoltori vogliono che il Governo risolva, è quello dell’acqua. E per le ragioni suesposte bisogna affrontarlo e rapidamente.

L’acqua si può distribuire in due maniere: con la grande e con la piccola irrigazione. La grande irrigazione non è sempre possibile: lo è solo quando abbiano schienali di montagne che si prestino alla raccolta dell’acqua, i quali devono trovarsi in posizione favorevolissima ed in particolari condizioni geofisiche, in quanto si deve disporre a determinate quote di piani impermeabili che servano da fondo ai laghi artificiali. E queste condizioni non sono sempre realizzabili.

La grande irrigazione, inoltre, richiede studi, spese e tempo non indifferenti per la sua realizzazione. Essa è però indispensabile là dove non vi siano delle falde ricche di acqua e maggiormente ove le stesse manchino addirittura.

Invece, nei terreni con abbondanti falde freatiche, è sempre consigliabile e anzi si impone la piccola irrigazione, la cui soluzione può essere termica o elettrica.

Soluzione termica. Risolto termicamente, il problema presenta per noi, in Italia, un grave inconveniente e cioè l’importazione dall’estero dei combustibili. Basterebbe questa osservazione, per indurci a cercare altra soluzione.

I motori termici, inoltre, richiedono anche che gli agricoltori acquisiscano una competenza che, anche per condizioni ambientali, non è possibile formarsi in breve tempo.

Praticamente, se i nostri rurali non riescono a scegliere convenientemente le macchine, finiscono col non riuscire a tenere in funzione le loro motopompe e così l’irrigazione muore sul nascere.

Altro inconveniente cui àanno luogo le motopompe è rappresentato dal fatto che non offrono una confacente soluzione nel caso dei pozzi profondi.

Avendo detti motori bisogno di aria per la combustione, e dovendo d’altronde essere collocati a pelo d’acqua, sempre o quasi finiscono col viziare l’aria nel pozzo stesso, rendendo così impossibile l’accesso a chi deve sorvegliarli, e talvolta arrivando persino ad arrestare il proprio funzionamento.

Per tutte le ragioni suesposte, se vogliamo veramente risolvere il problema della piccola irrigazione, dobbiamo adottare la soluzione elettrica, che elimina tutti gli inconvenienti lamentati. Infatti, i motori elettrici non hanno bisogno di combustibile importato dall’estero. Anzi, sotto questo punto di vista, si ha da parte degli agricoltori un non indifferente risparmio, poiché, una volta costruiti gli impianti di produzione e di distribuzione, come adesso vedremo, l’unica spesa da sostenere è rappresentata da quella di esercizio degli impianti stessi, spesa che è abbastanza mite.

Le elettropompe sono inoltre di facile esercizio, poiché non richiedono l’opera di alcuno specialista ed in ogni caso la tecnica moderna ci offre dispositivi di sicurezza tali da eliminare praticamente qualsiasi impensabile guasto.

In quanto poi ai pozzi profondi, la soluzione ideale è rappresentata precisamente dalla elettropompa, che, non avendo bisogno di ossigeno per la combustione, può essere installata a qualsiasi profondità ed in qualsiasi pozzo, anche di diametro ristrettissimo. La soluzione elettrica ci offre inoltre altri vantaggi non disprezzabili.

Ci dà la possibilità di illuminare le case rurali, contribuendo in tal modo al popolamento delle campagne contro il fenomeno dell’urbanesimo, che tanto affligge l’Italia meridionale, e permette inoltre lo sviluppo di tutte quante le industrie sussidiarie all’agricoltura stessa.

PRESIDENTE. Onorevole Monterisi, mi pare che lei entri troppo in particolari. La sua esposizione sarebbe adatta alla discussione di un progetto di legge sulla elettrificazione.

MONTERISI. Sono appunto questi particolari, onorevole Presidente, che servono a dimostrare la necessità del mio emendamento e senza dei quali esso non sarebbe comprensibile, almeno da parte di chi non ha dimestichezza con i problemi agricoli.

Ad ogni modo, ancora poche parole e concludo.

Per la costruzione poi degli impianti di produzione e di distribuzione di energia, è assolutamente necessario costituire consorzi fra gli agricoltori e ciò per le seguenti considerazioni. L’industria privata tende a costruire linee corte con la massima utenza alle estremità. Le linee agricole, invece, sono esattamente il contrario, cioè molto lunghe con piccole utenze alle estremità, che, in annate ricche di pioggia, possono anche ridursi a cifre insignificanti. I consorzî dovrebbero essere finanziati dallo Stato, che potrebbe ricuperare gli anticipi in un certo numero di annualità e con quote caricate unitariamente sui terreni beneficiati dai singoli impianti.

Non vi potrebbe essere per lo Stato impiego più sicuro di capitali, poiché l’irrigazione, tutti sanno, col tempo rimborsa con assoluta certezza, dati i forti aumenti di produzione agricola cui essa dà luogo.

Dopo avere rimborsato lo Stato, gli agricoltori resterebbero padroni degli impianti, e la spesa per essi si ridurrebbe unicamente a quella di esercizio.

Per tutte queste ragioni, onorevoli colleghi, mi permetto di proporre l’inclusione di questo emendamento nell’articolo in discussione, e se per caso questo articolo non venisse approvato, così come la Commissione l’ha presentato, pregherei di includere l’emendamento in qualsiasi articolo sostitutivo dell’attuale; e se questo non fosse possibile mi impegnerei di presentarne il relativo testo, come articolo aggiuntivo, essendo evidente che la elettrificazione delle campagne concorre potentemente a risolvere il grave problema della riforma agraria, cui tutti siamo interessati, rendendo possibile a tutti gli agricoltori di realizzare il loro sogno: «irrigare le proprie colture».

PRESIDENTE. Gli onorevoli Gortani. Fantoni, Garlato, Del Curto, Micheli, Rivera, Schiratti, Valenti, Valmarana, Marconi, Balduzzi, Viale, Bubbio, Firrao, Bertola, Stella, Sullo Fiorentino, Pat, Salizzoni, Mannironi, Lizier, Murgia, Cappelletti, Conci Elisabetta, Bollato, Guariento, Franceschini, Carbonari, hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere in fine:

«Nel medesimo intento la legge dispone provvedimenti in favore delle zone montane».

L’onorevole Gortani ha facoltà di svolgerlo.

GORTANI. Onorevoli colleghi, vi è in Italia una regione che comprende un quinto della sua popolazione, che si estende per un terzo della sua superficie e in cui la vita di tutti i ceti e categorie si svolge in condizioni di particolare durezza, e di particolare disagio in confronto col rimanente del Paese.

Questa regione, che non ha contorni geografici ben definiti, ma si estende ampiamente nella cerchia alpina, si allunga sulle dorsali appenniniche e si ritrova nelle isole maggiori, risulta dall’insieme delle nostre zone montane.

È una regione abitata da gente laboriosa, parsimoniosa, paziente, tenace; che in silenzio lavora e in silenzio soffre tra avversità di suolo e di clima; che rifugge dal disordine, dai tumulti e dalle dimostrazioni di piazza, e ne è ripagata con l’abbandono sistematico da parte dello Stato. O meglio, della montagna e dei montanari lo Stato si ricorda, di regola, e si mostra presente, quando si tratta di imporre vincoli, di esigere tributi o di prelevare soldati.

Matrigna la natura, al nostro montanaro, e matrigna la patria; e tuttavia è pronto, così per la patria, come per la nativa montagna, a sacrificare, ove occorra, anche se stesso. Perché la montagna è la sua vita, e la sua patria è la sua ragione di vivere. E in lei non ha ancora perduto la sua fiducia. Facciamo che non la perda.

Ad ora ad ora voci si sono levate in favore della montagna, voci altruiste reclamanti giustizia, e voci utilitarie reclamanti la restaurazione montana come fonte di pubblico bene.

Ma le une e le altre sono cadute o nell’indifferenza o nell’oblio.

Ed intanto le selve si diradano, inselvatichiscono i pascoli, cadono le pendici in crescente sfacelo; le acque sregolate rodono i monti ed alluvionano ed inondano le pianure e le valli; intristiscono i villaggi a cui non giungono le strade né i conforti del vivere civile; la robustezza della stirpe cede all’eccesso delle fatiche e delle restrizioni, e la montagna si isterilisce e si spopola.

Ora è tempo che al montanaro si volga con amore questa Italia che si rinnova.

Noi chiediamo che nella nuova Carta costituzionale, dove tante sono le norme ispirate all’amore e alla giustizia, ci sia anche una parola per lui.

A tal fine abbiamo presentato questo comma aggiuntivo all’articolo 41: «Nel medesimo intento» (cioè di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e stabilire equi rapporti sociali) «la legge dispone provvedimenti in favore delle zone montane», (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Segni, Gronchi, Gortani, Monticelli, Dominedò, De Palma, Castelli Avolio, Zaccagnini, Meda Salvatore, hanno presentato il seguente emendamento:

Alle parole: abolisce il latifondo, promuove, sostituire le altre: promuove la trasformazione del latifondo, la bonifica delle terre, ecc.»

L’onorevole Segni ha facoltà di svolgerei il suo emendamento.

SEGNI. Darò brevemente conto della modifica da me proposta che è dettata da criteri di aderenza tecnica agli scopi che si vogliono raggiungere con l’articolo.

Il collega Jacometti aveva già osservato che la formula «abolisce il latifondo» è priva di contenuto, e siamo d’accordo. «La trasformazione del latifondo» può invece sostituire la precedente formula, aderendo a quello che era lo scopo dell’inserimento di quelle parole nell’articolo 41.

Devo osservare che parlando di abolizione del latifondo e di bonifica, si sono confusi i concetti, perché la trasformazione del latifondo non può avvenire altro che attraverso la bonifica, quindi vi è la necessità di unificare i due concetti.

In secondo luogo, la trasformazione del latifondo non può essere totale, in quanto vi saranno sempre delle superfici a coltura estensiva che non saranno suscettibili di trasformazione, perciò con la nostra formula noi rimaniamo strettamente aderenti alla realtà agricola d’Italia.

Colgo l’occasione per dire che sono favorevole anche ad una parte dell’ordine del giorno Einaudi, relativa al concetto di fissazione dei limiti di estensione della proprietà privata. Io accolgo dell’ordine del giorno Einaudi la formula «appropriati alle varie regioni e zone agrarie italiane», chiedendone l’inserimento dopo la parola «estensione», in modo che l’articolo, nella sua parte finale, suonerebbe così:

«Fissa i limiti all’estensione, appropriati alle varie regioni e zone agrarie, promuove la trasformazione del latifondo, la bonifica delle terre, favorisce la piccola e media proprietà».

Credo che la Commissione abbia anche proposto l’eliminazione da questo articolo delle parole «dei lavoratori» ecc., che passerebbero all’altro articolo, e sono d’accordo.

Quindi per i motivi esclusivamente tecnici ai quali ho accennato sostengo la formula contenuta nell’emendamento, con l’inserimento delle parole contenute nell’emendamento Einaudi, cioè «appropriati alle varie regioni e zone agrarie italiane». (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Moro, Laconi, Taviani, Dominedò, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sopprimere l’inciso: l’elevazione professionale dei lavoratori, e farne oggetto di un articolo autonomo (articolo 41-bis) del seguente tenore:

«La Repubblica promuove la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori».

L’onorevole Moro ha facoltà di svolgerlo.

MORO. Poche parole per illustrare questo emendamento, che è semplice e chiaro. Nell’articolo 41 vi è un accenno all’elevazione professionale dei lavoratori. Si è notato da parte mia, e da parte di altri amici, che è un accenno troppo limitato. Sembra opportuno che in un Titolo, che tratta dei rapporti economici e fa riferimento al lavoro agricolo ed anche a quello industriale, vi sia riferimento all’impegno che lo Stato naturalmente assume di preparare dal punto di vista professionale i lavoratori, tanto che il rendimento del loro lavoro sia il massimo possibile. Ricordo a questo proposito che varie proposte in questo senso furono presentate, in sede di rapporti etico-sociali, trattando del tema della scuola, da parte di amici del mio partito e di altri partiti. Furono presentati emendamenti tendenti ad ottenere il riconoscimento del compito che lo Stato assume per favorire la istruzione professionale. E furono questi emendamenti, in quella sede, rinviati per la loro trattazione in questa, nella quale sembrava più opportuno trattarne, in vista della materia del lavoro; di cui si occupa questo Titolo. Mi pare giunta l’ora di sciogliere quella riserva e di affermare che la Repubblica promuove la formazione professionale e l’elevazione dei lavoratori. Si è preferita la parola: «formazione» all’altra «istruzione», perché quest’ultima ha carattere ristretto, mentre qui si vuol mettere in rilievo che la Repubblica assume il compito, non solo di istruire in senso tecnico, ma anche di formare la mentalità e la tecnica per il lavoro professionale. Ciò soprattutto per i giovani, ma anche per gli anziani. Si aggiunge «l’elevazione professionale» come indicazione sintetica di un complesso di provvedimenti tendenti ad ottenere un livello più alto di vita professionale, culturale e tecnica dei lavoratori italiani. (Applausi).

PRESIDENTE. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti all’articolo 41. Prego l’onorevole Ghidini di esprimere il pensiero della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. L’onorevole Colitto propone la soppressione, completà dell’articolo 41, il che vorrebbe dire nessun intervento dello Stato, e abolizione implicita del Titolo III. L’onorevole Colitto è troppo intelligente per non capire che questo suo emendamento soppressivo è in assoluto contrasto coll’indirizzo adottato dalla Commissione. Per questa ragione l’emendamento non può essere accolto.

C’è poi l’emendamento degli onorevoli Rivera, Montemartini, Gortani e Piemonte. La sua prima parte: «Perché l’industria agricola italiana serva più effìcacemente alla sua funzione sociale ed offra una più ferace produzione…», corrisponde, con altre parole, alla prima parte del testo e non vedo ragione per darle la preferenza. E vengo al resto.

Prescindendo dall’accenno ai «limiti» della proprietà terriera, nel che siamo concordi, osservo che l’emendamento si scinde in una elencazione di provvedimenti vari. Leggo: «La legge può imporre: a) direttive tecniche e direttive economico-sociali ai possidenti ed ai lavoratori; b) associazioni o consorzi obbligatori per opere di bonifica o di irrigazione o per la difesa delle piante dalle cause nemiche, infestioni o malattie. È obbligo dello Stato la ricerca delle vie del progresso scientifico e tecnico dell’agricoltura italiana».

Questi provvedimenti sono tutti raccomandabili, ma a nostro parere, non hanno diritto di cittadinanza in una Carta costituzionale. Si tratta dei modi attraverso i quali si potrà attuare una più efficace produttività del terreno: materia che può essere oggetto di una legge ordinaria, non di una legge costituzionale, nella quale sono consacrati soltanto direttive e principî. Per questa ragione la Commissione non crede di dover accogliere l’emendamento Rivera.

Segue l’emendamento dell’onorevole Corbino. Sulla prima parte: «Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali», siamo d’accordo. È la dizione del testo. L’emendamento continua: «la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera». L’onorevole Corbino toglie la parola «privata», perché pensa che tali obblighi e vincoli debbano essere estesi anche alla proprietà pubblica. Avverto l’onorevole Corbino che ciò che manca nel suo articolo è la menzione dei «limiti», mentre la Commissione vi insiste, costituendo essi la parte più tipica e più caratteristica della disposizione. Inoltre, come ho detto, l’onorevole Corbino sopprime l’attributo «privata», volendo estendere obblighi e vincoli anche alla proprietà pubblica. La Commissione ritiene che non sia necessario. Il pericolo che si smarrisca il senso della «funzione sociale» riflette piuttosto la proprietà privata. È poi ovvio che non vengano fissati limiti alla proprietà pubblica. Per questi motivi si mantiene il testo.

L’emendamento Corbino aggiunge: «promuove l’intensificazione delle colture e la bonifica delle terre, migliora l’educazione professionale tecnica dei lavoratori, aiuta la piccola e la media proprietà». La formula è uguale nella sostanza al testo, salvo che omette di menzionare, oltre ai «limiti», quell’abolizione del «latifondo» che costituisce una delle premesse della nostra ripresa economica.

Questa la ragione per la quale, pur apprezzando il pensiero ed il commento dell’onorevole Corbino, sempre sapientissimo, riteniamo di dover mantenere il testo che abbiamo proposto alla Costituente.

Ci sono altri emendamenti del genere: l’onorevole Bosco Lucarelli propone di sopprimere le parole: «ne fissa i limiti di estensione». Ma, come ho già detto, l’inciso non può essere soppresso. Uguale proposta è fatta dagli onorevoli Badini Confalonieri e Crispo e valgono anche per essa le ragioni esposte a proposito dell’emendamento Corbino. Per quanto riguarda la «trasformazione» del latifondo, invece che la sua «sostituzione», dirò in appresso quando mi occuperò degli emendamenti Jacometti e Einaudi.

L’emendamento dell’onorevole Monterisi ha lo scopo di aggiungere alle parole: «bonifica delle terre», la frase: «anche mediante opere di elettrificazione». L’idea è certamente apprezzabile, ma è una specificazione, è la indicazione di un mezzo attraverso il quale si possa conseguire una più «alta produttività dei terreni». Senonché altri mezzi vi sono per conseguire l’intento e di essi si dovranno occupare, non la Costituzione, ma leggi ordinarie.

Uguale risposta devo dare agli onorevoli Gortani, Fantoni e altri a proposito delle zone montane. La loro proposta è degna della maggior considerazione ma la «Costituzione» non deve scendere ai particolari. Sarà la legislazione ordinaria che si dovrà interessare delle zone montane; e non solo di queste ma anche delle zone paludose e di tutte le altre per le quali si impongano provvidenze atte ad incrementare la produzione.

Passo ora agli emendamenti, più sostanziali, degli onorevoli Jacometti ed Einaudi. Il primo elimina la frase iniziale avente carattere finalistico. La Commissione invece ritiene di doverla conservare perché accentua la «funzione sociale» del diritto di proprietà.

È stata vivamente criticata la frase del testo: «abolisce il latifondo». L’onorevole Segni ha soggiunto che è priva di contenuto. Non lo crediamo. Non intendiamo peraltro farne una questione «di gabinetto» e siamo anche disposti ad accettare la parola «trasforma»; ma riteniamo che, nel caso, quando si dice «abolisce» si dice anche «trasforma» e viceversa.

Ad ogni modo, ripeto, poiché la parola «abolisce» ha dato luogo a perplessità e a contrasti, accettiamo la sua sostituzione colla parola «trasforma».

Dice l’onorevole Jacometti: «la legge… attua l’assegnazione del latifondo ai lavoratori e alle loro associazioni».

L’aggiunta è indubbiamente degna di considerazione; ma la Commissione pensa che, al modo come sarà regolata la trasformazione del latifondo, dovrà pensarci il legislatore futuro, adattandola alle condizioni economiche locali e ad altri elementi, che è difficile oggi prevedere con sicurezza.

L’emendamento aggiunge: «…promuove la bonifica delle terre, la ricostituzione delle unità produttive e l’elevazione professionale dei lavoratori».

A questo proposito devo anzitutto dichiarare che accettiamo la proposta degli onorevoli Moro, Laconi, Taviani e Dominedò, di formulare un articolo a parte che rifletta la elevazione professionale dei lavoratori, nei termini seguenti: «La Repubblica promuove la formazione e la elevazione professionale dei lavoratori». Accettiamo la proposta, perché, mentre nell’articolo 41 – testo nostro – era considerata l’elevazione professionale soltanto dei lavoratori della terra, l’emendamento estende il provvedimento a tutti i lavoratori; non soltanto ai lavoratori della terra, ma anche ai lavoratori dell’industria.

Possiamo anche inserire nell’articolo il concetto della «ricostituzione delle unità produttive», concetto espresso nell’emendamento Jacometti e del quale riconosciamo l’opportunità e la giustizia. Ne verrebbe così un articolo, diverso da quello che abbiamo proposto nei particolari, ma uguale nelle sue linee sostanziali:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, ne fissa i limiti di estensione, promuove la trasformazione del latifondo, la bonifica delle terre e la ricostituzione delle unità produttive, ed aiuta la piccola e media proprietà».

Anzi, piuttosto che dire «ne fissa i limiti di estensione», proporrei di dire «fissa limiti alla sua estensione».

Mi riallaccio a questo proposito ad una osservazione esattissima dell’onorevole Einaudi. Ho già detto che del suo emendamento accettiamo la sostituzione della parola «trasformazione» all’altra di «abolizione». Ma l’emendamento aggiunge che «gli obblighi, i vincoli e i limiti di estensione» dovranno essere «appropriati alle varie regioni e zone agrarie italiane». Concordiamo nel concetto che l’onorevole Einaudi esprime in quest’ultima frase; ma ci sembra che sia già espresso nella frase del testo: «ne fissa i limiti di estensione», frase che è più concisa e quindi più appropriata a un testo costituzionale. Però, siccome potrebbe nascere il dubbio che la Costituzione (come già si è verificato in altre Costituzioni, mi pare di Romania e di Jugoslavia) si proponga la fissazione a priori dei limiti di estensione della proprietà, al fine di rendere più chiaro il nostro concetto che è pur quello dell’onorevole Einaudi, proporrei di sostituire alla frase: «ne fissa i limiti di estensione», l’altra: «fissa limiti alla sua estensione». Mi pare che questa dizione renda ugualmente perspicuo il concetto che i «limiti» dovranno essere determinati in relazione anche «alle varie regioni e zone agrarie» secondo la constatata maggiore convenienza e opportunità. In sostanza si manterrebbe intatto il concetto suggerito dall’onorevole Einaudi e soltanto la forma sarebbe diversa ma più sintetica. Vedrà l’Assemblea quale dei due testi sia preferibile. Ad ogni modo, la Commissione mantiene il testo così modificato, persuasa che raggiunga le stesse finalità che si è proposto l’onorevole Einaudi. In sostanza si manterrebbe intatto il concetto che ci suggerisce l’onorevole Einaudi e si avrebbe un’espressione sintetica, che – secondo noi – giova di più in materia costituzionale. Vedrà l’Assemblea Costituente quale dei due testi sia preferibile. Tale è stato il voto della maggioranza della Commissione a questo proposito.

Con questo credo di aver esaurito l’esame degli emendamenti all’articolo 41. (Applausi).

PRESIDENTE. A seguito delle dichiarazioni dell’onorevole Ghidini, il testo accettato dalla Commissione risulta così formulato:

Art. 41.

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione, promuove la trasformazione del latifondo, la bonifica delle terre e la ricostituzione delle unità produttive ed aiuta la piccola e media proprietà».

Art. 41-bis.

«La Repubblica promuove la formazione e l’elevazione professionale dei lavoratori».

Invito i presentatori di emendamenti a dichiarare se vi insistono.

Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento soppressivo dell’articolo 41?

COLITTO. Dissi già, in sede di discussione generale, le ragioni, per le quali pensavo che questo articolo potesse essere soppresso; soffermandomi soprattutto sulla parte dell’articolo, in cui si parla dei limiti di estensione della proprietà e sulla parte in cui si parla della trasformazione del latifondo. E mi tenni allora proprio aderente a quella che è la realtà agricola italiana.

Ne chiesi la soppressione, non perché io disapprovassi in toto i propositi, di cui è parola nell’articolo, ma perché pensavo che quella parte del contenuto delle norme da me ritenuta esatta fosse compresa in sintesi nell’articolo da me proposto a proposito della proprietà in genere, che è naturalmente anche comprensiva della proprietà terriera. Ma, poiché le ragioni da me indicate sono state ripetute, con l’autorità che è loro propria, dagli onorevoli Corbino ed Einaudi, i quali, a conclusione dei loro rilievi, hanno proposto formali emendamenti all’articolo 41, chiarendone e precisandone il contenuto, così come io pensavo si dovesse chiarire e precisare, non insisto nel mio emendamento soppressivo e aderisco all’emendamento dell’onorevole Corbino, che, soprattutto per lo spirito informatore, è simile a quello dell’onorevole Einaudi.

Anche a proposito dell’elevazione professionale dei lavoratori, io ebbi a rilevare come di questa elevazione professionale non si potesse parlare soltanto a proposito dei lavoratori della terra. Adesso vedo con piacere che gli onorevoli Moro, Laconi, Taviani e Dominedò hanno proposto un articolo a parte, nel quale si parla di elevazione professionale non soltanto dei lavoratori della terra, ma di tutti i lavoratori.

Anche a questo articolo io aderisco.

PRESIDENTE. Onorevole Rivera, mantiene il suo emendamento?

RIVERA. Onorevole Presidente, io vorrei ritirare il mio emendamento affinché sia sostituito dall’emendamento successivo dell’onorevole Einaudi, il quale è forse più del mio preciso e completo. Esso, a mio giudizio, sostituisce bene l’emendamento proposto dalla Commissione, in quanto risponde alle obiezioni che io ho mosso qui, illustrando il mio emendamento, obiezioni di imprecisione e di cattiva rappresentazione di fatti naturali che si determinano in Italia.

Io vorrei quindi accettare l’emendamento dell’onorevole Einaudi con qualche modifica più che altro formale. E precisamente proporrei: «Allo scopo di conseguire una più elevata produzione» e non: «un più elevato prodotto della terra», per le ragioni indicate di già.

E poi un’altra modifica: «fissa limiti alla estensione». Questa modifica coincide perfettamente con la modifica che vorrebbe proporre il Ministro Segni, e che riproduce quanto io avevo proposto.

E poi un’altra modifica: «la legge può imporre e promuovere la bonifica delle terre». Ciò per le ragioni che sono state già dette.

Inoltre, terrei molto a che l’Assemblea Costituente mi permettesse di aggiungere all’emendamento dell’onorevole Einaudi la frase ultima: «È obbligo dello Stato la ricerca delle vie del progresso scientifico e tecnico dell’agricoltura italiana».

PRESIDENTE. Va bene, lo chiederemo all’Assemblea.

RIVERA. Allora, accetto l’emendamento dell’onorevole Einaudi con queste modifiche ed aggiunte.

PRESIDENTE. Onorevole Jacometti, mantiene il suo emendamento?

JACOMETTI. Io sono costretto a mantenere l’emendamento per questa ragione…

PRESIDENTE. Quando si conserva l’emendamento non si motiva; si può motivare la rinuncia.

JACOMETTI. Siccome avrei una proposta da fare, vorrei illustrarla.

Non mantengo l’emendamento per l’aggiunta delle definizioni, che non hanno grande importanza, e neppure per aver tolta l’ultima parte su cui non ho nulla da dire; ma desidero far notare che è stata sostituita la parola «abolisce» con la parola «trasforma». Ora, se la parola «abolisce» aveva un senso, questo era che andava al di là del trasformare. Nell’abolire c’è il significato di trapasso di proprietà, invece la Commissione ha levato la parola «abolisce» e non ha aggiunto quello che io avevo proposto: «l’assegnazione ai lavoratori o alle loro associazioni», di modo che il concetto non è stato ampliato ma rimpicciolito. Per questo io non posso accettare la formulazione della Commissione.

PRESIDENTE. La Commissione ha già risposto anche su questo punto.

Poiché l’onorevole Cassiani non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Poiché l’onorevole Romano non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Perrone Capano, mantiene il suo emendamento?

PERRONE CAPANO. Accetto l’emendamento dell’onorevole Corbino e ritiro il mio.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, ella mantiene l’emendamento?

CORBINO. Mantengo la soppressione della parola «privata» e la soppressione delle parole «fissa i limiti di estensione». Per il resto aderisco all’emendamento Segni, e ritiro la restante parte del mio emendamento.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Mortati non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Einaudi, mantiene l’emendamento?

EINAUDI. Lo mantengo, ma se l’Assemblea non lo voterà, sarò ben lieto di associarmi a quello dell’onorevole Rivera.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Bosco Lucarelli non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Badini Confalonieri, mantiene il suo emendamento?

BADINI CONFALONIERI. Mi associo all’emendamento presentato dall’onorevole Einaudi, e mantengo il mio soltanto qualora quello dell’onorevole Einaudi non sia approvato.

PRESIDENTE. Onorevole Monterisi, mantiene il suo emendamento?

MONTERISI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Gortani, ella mantiene il suo emendamento?

GORTANI. Lo mantengo e chiedo all’Assemblea di non respingere l’invocazione di 9 milioni d’italiani.

PRESIDENTE. Onorevole Segni, ella mantiene l’emendamento?

SEGNI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Moro, ella mantiene il suo emendamento?

MORO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Passiamo allora alla votazione dell’articolo nell’ultima formulazione proposta dalla Commissione.

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione, promuove la trasformazione del latifondo, la bonifica delle terre e la ricostituzione delle unità produttive ed aiuta la piccola e media proprietà».

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione: Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione: Mi dice in questo momento l’onorevole Laconi, membro del Comitato di revisione degli emendamenti, che non è d’accordo sull’accettazione di questo emendamento in virtù del quale alla parola «abolisce» viene sostituita la frase «promuove la trasformazione del latifondo». Devo dire che la mia dichiarazione fu determinata dal convincimento che tale fosse il parere della Commissione. Sarebbe in verità opportuno che gli emendamenti fossero presentati nel termine che si era stabilito per dare modo alla Commissione di esaminarli e di deciderli col necessario riposo; ma se per avventura la Commissione fosse di diverso parere non ho difficoltà a soggiungere che tale parere non è solo mio ma è condiviso ad esempio anche dall’onorevole Ruini.

PRESIDENTE. Avverto che gli onorevoli Meda Luigi, Burato, Rodinò Ugo, Zerbi, Ermini, Sullo, Colonnetti, Perlingieri, Monticelli, Cremaschi Carlo, Angelini, Clerici, Spataro, Balduzzi, Belotti, Vigorelli, Mattarella, hanno presentato una richiesta di votazione per appello nominale sull’articolo 41: Chiedo se la richiesta sia mantenuta.

MEDA. Avevamo presentato la domanda di appello nominale, quando non conoscevamo molte trasformazioni dell’articolo che sono poi avvenute; quindi la ritiriamo.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Propongo che sia mantenuta la espressione: «abolisce il latifondo», che figura nel testo originario della Commissione.

SCOTTI ALESSANDRO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCOTTI ALESSANDRO. Vorrei che si adottasse la formula: «aiuta la piccola e la media proprietà nella parte assicurativa».

PRESIDENTE. La invito a presentare un emendamento in tal senso.

Intanto procediamo alla votazione della prima proposizione dell’articolo: «Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e dì stabilire equi rapporti sociali».

L’onorevole Einaudi ha proposto la seguente formula:

«Allo scopo di conseguire un più elevato prodotto della terra ed una distribuzione socialmente equa di esso».

SEGNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI. A nome del gruppo democratico, dichiaro che voteremo a favore del testo proposto dalla Commissione.

RIVERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RIVERA. Avevo proposto una modifica al testo proposto dall’onorevole Einaudi, cioè «una più elevata produzione», sopprimendo le parole: «della terra».

PRESIDENTE. Onorevole Einaudi, aderisce alla modifica proposta dall’onorevole Rivera?

EINAUDI. Sì.

PRESIDENTE. Allora pongo in votazione la prima proposizione dell’articolo nella formulazione proposta dall’onorevole Einaudi e modificata dall’onorevole Rivera:

«Allo scopo di conseguire una più elevata produzione ed una distribuzione socialmente equa di essa».

(Non è approvata).

Pongo ai voti la formulazione proposta dalla Commissione:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali».

(È approvata).

Passiamo alla seconda proposizione dell’articolo: «la legge impone obblighi e vincoli».

L’onorevole Einaudi ha proposto la formula: «la legge può imporre».

La pongo in votazione.

SEGNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI. A nome del gruppo democristiano, dichiaro che noi voteremo favorevolmente al testo proposto dalla Commissione.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Anche il gruppo comunista vota a favore del testo proposto dalla Commissione.

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Mi pare che i concetti in cui vi è contrasto siano due. Il primo contrasto sta nella differenza fra «può imporre» ed «impone».

Un altro punto su cui vi è contrasto di vedute degno di essere rilevato è quello che sorge dalla mia proposta di aggiungere alle parole «proprietà terriera privata» anche le parole «e pubblica». Ritengo vi siano molte proprietà pubbliche coltivate non meno male di molte proprietà private corrispondenti, le quali meritano di essere ugualmente sottoposte ad obblighi e vincoli.

PRESIDENTE. Ho posto in votazione soltanto la formula: «può imporre», perché l’onorevole Corbino propone la soppressione dell’aggettivo «privata» ed è questa evidentemente la formula più radicale. Caduta eventualmente la proposta dell’onorevole Corbino, porrò in votazione la sua proposta.

(La proposta non è approvata).

Pongo in votazione la formula della Commissione: «La legge impone obblighi e vincoli».

(È approvata).

Passiamo alla formula della Commissione: «alla proprietà terriera privata». L’onorevole Corbino ha proposto la formula: «alla proprietà terriera».

La pongo in votazione.

(Non è approvata).

L’onorevole Einaudi ha proposto la formula: «privata e pubblica».

La pongo in votazione.

(Non è approvata).

Pongo in votazione la formula della Commissione: «alla proprietà terriera privata».

(È approvata).

Passiamo alla votazione della frase successiva del testo della Commissione: «fissa limiti alla sua estensione».

Avverto che è stata presentata richiesta di votazione per scrutinio segreto (Commenti) dagli onorevoli Cortese, Badini Confalonieri, Vicentini, Crispo, Fusco, Einaudi, Bonino, Lucifero, Cicerone, Miccolis, Rognoni, Corbino, Fabbri, Colonna, Quintieri Quinto, Cannizzo, Condorelli, Selvaggi, Vilardi, Rodinò Mario, De Caro Raffaele.

Votazione a scrutinio segreto.

PRESIDENTE. Si proceda alla votazione a scrutinio segreto.

(Segue la votazione).

Presidenza del Vicepresidente PECORARI

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta ed invito gli onorevoli segretari a procedere a numerare i voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione segreta:

Presenti e votanti       371

Maggioranza             186

Voti favorevoli            94

Voti contrari             277

(L’Assemblea non approva).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Alberti – Aldisio – Allegato – Amadei – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Ayroldi – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bassano – Bastianetto – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belotti – Bennani – Benvenuti – Bernabei – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bertini Giovanni – Bertola – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Bonino – Bonomelli – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Brusasca – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Caiati – Calamandrei – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Caso – Castelli Edgardo– Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cevolotto – Chiaramello – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Codignola – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppa Ezio – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsi – Corsini – Cortese – Cotellessa – Covelli – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo.

D’Amico Diego – D’Amico Michele – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Gloria Di Vittorio – Dominedò – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Faccio – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Firrao – Foresi – Fornara – Franceschini – Froggio – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Gatta – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Gullo Rocco.

Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – La Malfa – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Leone Giovanni – Li Causi – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longo – Lopardi – Lucifero – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Marazza – Mariani Francesco – Marina Mario – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Matteotti Carlo – Mazza – Meda Luigi – Medi Enrico – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minio – Molè – Momigliano – Montagnana Rita – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Moranino – Morelli Luigi – Morelli Renato – Morini – Moro – Moscatelli – Motolese – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Nicotra Maria – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Paolucci – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Penna Ottavia – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Pressinotti – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Ravagnan – Reale Eugenio – Recca – Rescigno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rodìnò Ugo – Rognoni – Rossi Giuseppe – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor.

Saccenti – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Secchia – Segni – Selvaggi – Sereni – Sicignano – Siles – Silipo – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Taddia – Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Tessitori – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Trulli – Tupini – Turco.

Uberti.

Valenti – Valmarana – Vanoni – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Villani – Vischioni – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zappelli – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Bargagna – Bernardi.

Carratelli – Costa.

Falchi.

Garlato.

La Pira – Lazzati – Lombardo Ivan Matteo.

Massini.

Pera.

Rapelli – Restagno – Rubilli.

Sardiello – Simonini.

Treves.

Vigna.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. La formula dell’onorevole Einaudi così prosegue: «anche relativi alla estensione, appropriati alle varie regioni e zone agrarie».

SEGNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI. Io dichiaro, anche a nome del mio gruppo, di essere favorevole a inserire la formula Einaudi, ma dopo l’espressione: «fissa i limiti alla sua estensione».

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Mi associo alla proposta dell’onorevole Segni.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula proposta dalla Commissione: «fissa limiti alla sua estensione».

(È approvata).

Segue l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Einaudi, così formulato: «appropriati alle varie regioni e zone agrarie».

SEGNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI. Dichiaro di votare a favore dell’emendamento Einaudi. Sostanzialmente i chiarimenti del Relatore della Commissione hanno detto questo: che i limiti di estensione non sono limiti di superficie, ma sono limiti tali da essere modificati da regione a regione; tuttavia ci pare che l’emendamento dell’onorevole Einaudi, che risponde agli stessi concetti espressi dal Relatore della Commissione, possa essere opportunamente introdotto nel testo di questo articolo.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Anche noi ci associamo all’emendamento proposto dall’onorevole Einaudi, perché precisa il significato tecnico della parola «estensione».

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Benché riteniamo superfluo l’emendamento dell’onorevole Einaudi, lo votiamo egualmente.

PRESIDENTE. Pongo allora in votazione la formula proposta dall’onorevole Einaudi: «appropriati alle varie Regioni e zone agrarie».

(È approvata).

Passiamo alla frase «promuove la trasformazione del latifondo». L’onorevole Laconi ha proposto che si mantenga l’originario testo della Commissione: «abolisce il latifondo».

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Dichiaro che il Gruppo comunista voterà il vecchio testo della Commissione, secondo la proposta dell’onorevole Laconi, e vorrei brevemente spiegarne le ragioni. Qui non discutiamo una questione tecnica o letteraria, ma una questione politica importantissima. Questo articolo sancisce, in fondo, il principio della riforma agraria. Alcuni colleghi hanno osservato che non vi è differenza sostanziale tra le parole «trasformare il latifondo» e le parole «abolire il latifondo». Noi riteniamo, invece, che vi sia una differenza sostanziale, poiché il latifondo non è soltanto concetto di estensione di terreno e non è soltanto concetto di terreno coltivato male o non coltivato affatto; esprime, invece, un sistema che rende possibile l’una e l’altra cosa, l’una dipendente dall’altra, cioè che questi terreni dei latifondi sono coltivati male e sono espressione di arretratezza della nostra agricoltura. Quindi bisogna rompere il sistema e creare nuovi rapporti sociali, nuovi rapporti di proprietà, come presupposto essenziale per la trasformazione fondiaria, per tutti i vantaggi che il Paese ne deve ritrarre.

Per questa ragione, insistiamo sul vecchio testo della Commissione e domandiamo così agli amici democristiani, come ai compagni socialisti di volersi associare a questa nostra proposta.

In più, se l’amico e compagno Jacometti insiste sul suo emendamento, nel quale si dice dell’assegnazione del latifondo ai lavoratori e alle loro associazioni, il Gruppo comunista voterà questo emendamento.

JACOMETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

JACOMETTI. L’espressione «abolizione del latifondo» non mi piace affatto; tuttavia, la voteremo, perché se fosse votata la formula: «promuove la trasformazione del latifondo» senza l’aggiunta che io propongo, il concetto verrebbe sminuito. Con l’abolizione si va un po’ più in là.

Per questa ragione, voteremo prima l’abolizione del latifondo, poi insisteremo sulla proposta riguardante l’assegnazione alle associazioni di lavoratori.

CANEVARI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Noi siamo favorevoli all’ultimo testo della Commissione; però riteniamo che sia opportuno chiarire che il latifondo può essere abolito senza essere trasformato. La trasformazione deve avvenire prevalentemente nelle colture, onde pensiamo che si potrebbe dire, e credo che l’onorevole Di Vittorio e i compagni comunisti possano accettare questa formula: «abolisce il latifondo e ne promuove la trasformazione».

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Ghidini di esprimere il parere della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Faccio una dichiarazione di carattere personale. Per mio conto dire «abolire il latifondo» o «trasformare il latifondo» è la medesima cosa. Sono distinzioni di una sottigliezza che sfugge. Il «latifondo» implica due concetti: grande estensione e cattiva coltivazione.

Se lo si trasforma, lo si abolisce perché perde o entrambi o almeno uno degli elementi che lo caratterizzano. Si dice ancora che il latifondo è tale in quanto appartiene a una sola persona. Ne dubito. Ad ogni modo ricordo che l’articolo 41 dispone anche le limitazioni all’estensione delle proprietà. Quindi, anche sotto questo punto di vista, mi pare che la sostituzione non importi un mutamento di sostanza.

Comunque, se per avventura l’uso di una parola piuttosto che di un’altra può cagionare perplessità, dichiaro che accetto la proposta dell’onorevole Canevari di usare tanto l’una che l’altra espressione, cioè: «abolisce e trasforma».

SEGNI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI. Mantengo allora l’emendamento già da me presentato all’articolo 41, che suona in questi precisi termini: «promuove la trasformazione del latifondo, la bonifica delle terre».

Credo che questa formula sia l’unica tecnicamente esatta, perché la formula: «abolisce il latifondo» è priva di significato reale. Se noi infatti vogliamo accennare alla limitazione di una proprietà a coltura estensiva, abbiamo già fissato e approvato nello stesso articolo il concetto relativo alla limitazione dell’estensione della proprietà, e il concetto di obbligo della trasformazione è già nella prima parte dell’articolo. (Applausi al centro e a destra).

PRESIDENTE. Abbiamo, dunque: l’ultimo testo della Commissione, che ha accettato la formula proposta dall’onorevole Canevari; la proposta dell’onorevole Laconi, che ha fatto proprio il testo primitivo della Commissione; la formulazione dell’onorevole Einaudi, che aggiunge all’ultima formulazione della Commissione il verbo «impone» e la formulazione dell’onorevole Segni.

Ritengo che debba esser posta in votazione la formulazione primitiva della Commissione la quale, fatta propria dall’onorevole Laconi, rappresenta un emendamento al testo attuale della Commissione.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. L’onorevole Canevari ha chiesto al presentatore di questo emendamento se avrebbe accettato la formula da lui proposta. Io sono disposto ad accettarla, e pertanto il mio emendamento suonerebbe così: «Abolisce il latifondo e ne promuove la trasformazione». (Commenti al centro).

Se mi consente, onorevole Presidente, dato che non ho svolto il mio emendamento, vorrei soltanto aggiungere qualcosa a chiarimento, per i colleghi che in questo momento evidentemente trovano ridondante la formulazione che ho testé accennata…

Una voce al centro. Contradittoria!

LACONI. Vorrei chiarire che le ragioni addotte dall’onorevole Segni a suffragio della sua formulazione non possono convincere. È evidente che l’onorevole Segni ha perfettamente ragione quando dice che la sua formulazione sotto l’aspetto tecnico è più precisa; ma egli si riferisce ad una particolare tecnica, alla tecnica dell’agricoltura, in cui si può parlare piuttosto di trasformazione che non di abolizione. Ma noi, quando parliamo di abolizione, vogliamo dire qualcosa di più, vogliamo riferirci a una particolare forma di proprietà che è storicamente superata. Ed è in questo senso che ha un significato preciso l’abolizione.

GRONCHI. Ma come l’abolisce?

LACONI. Vorrei da ultimo far rilevare all’onorevole Segni che nella formula da lui proposta la parola «promuova» è la più grave, direi, in quanto parla soltanto di una attività orientatrice piuttosto che di un intervento dello Stato in questo settore. Quindi l’emendamento dell’onorevole Segni, così com’è, non ha alcun senso e non introduce affatto per lo Stato un obbligo ed un impegno di intervenire nell’abolizione del latifondo nella distruzione di un tipo di proprietà che è un residuo feudale, e in una trasformazione non soltanto economica, ma anche sociale.

Per tutte queste ragioni, mantengo il mio emendamento, accettando la proposta dell’onorevole Canevari.

PRESIDENTE. Metto ai voti l’emendamento dell’onorevole Laconi completato dall’onorevole Canevari:

«abolisce il latifondo e ne promuove la trasformazione».

(Dopo prova e controprova non è approvato – Commenti a sinistra).

Passiamo alla formula proposta dall’onorevole Einaudi:

«impone e promuove la trasformazione del latifondo».

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. La ritiro, associandomi alla formula dell’onorevole Segni.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Faccio mia la proposta dell’onorevole Einaudi.

PRESIDENTE. Metto ai voti la formula, di cui ho dato testé lettura, dell’onorevole Einaudi, fatta propria dall’onorevole Di Vittorio.

(Dopo prova e controprova è approvata – Vivi applausi a sinistra – Commenti a destra).

Passiamo alla votazione dell’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Jacometti: «attua la sua assegnazione ai lavoratori e alle loro associazioni».

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Accade spesso che nelle nostre discussioni la vivacità dell’atteggiamento di parte e gli interessi elettorali prevalgano sulla posizione oggettiva che ciascuno sentirebbe di dover prendere. Questo è il caso dell’emendamento di cui discutiamo.

Se noi accettassimo la formulazione proposta dall’onorevole Jacometti, evidentemente non considereremmo tutte le possibilità attraverso le quali il latifondo può essere spezzettato e può essere distribuito e ridotto a miglior coltura. Nel qual caso non sono soltanto i lavoratori, né le loro associazioni, che possono esser presi in considerazione, ma possono considerarsi benissimo anche i piccoli e medi agricoltori, la cui collaborazione a questa opera di redenzione economica e sociale non può essere trascurata. Ecco la ragione per cui non crediamo di scendere a queste precisazioni che vincolerebbero una trasformazione già chiaramente indicata nell’emendamento precedente. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Jacometti: «attua la sua assegnazione ai lavoratori e alle loro associazioni».

(Segue la votazione per alzata di mano).

Poiché la votazione per alzata di mano è di esito incerto, procediamo alla votazione per divisione.

(L’emendamento non è approvato – Applausi a destra – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Passiamo alla espressione «promuove la bonifica delle terre».

CAMANGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Vorrei far notare che nell’emendamento Einaudi è agganciato strettamente alla trasformazione del latifondo il concetto «dell’incremento ed elevazione del ceto dei piccoli e medi proprietari». Credo che su questa formula potremo forse raggiungere l’accordo.

PRESIDENTE. Nell’emendamento dell’onorevole Einaudi questa formula è messa in connessione alla trasformazione del latifondo; ma l’onorevole Einaudi, nello svolgere il suo emendamento, l’ha contrapposta a quella che era la primitiva formula della Commissione, relativa alla «elevazione professionale dei lavoratori e all’aiuto alla piccola e media proprietà». Penso che nel momento in cui si passerà a votare su questo punto del testo della Commissione si debba prendere in esame la formula contrapposta dell’onorevole Einaudi.

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Mantengo la mia formulazione, poiché ritengo che la trasformazione del latifondo e la bonifica delle terre abbiano uno scopo di elevazione dei ceti proprietari e non abbiano invece quello di aiuto alla piccola e media proprietà. Non credo che entrambe le proprietà abbiano gran bisogno di aiuto: esse si aiutano da sé. Basta considerare che in Italia la proprietà fino ai 50 ettari comprende il 56 per cento della superficie totale produttiva, ma il 71 per cento del reddito fondiario imponibile. Il reddito imponibile fondiario della proprietà fino ai 50 ettari era in cifre antebelliche (1937-39) di 342 lire l’ettaro, laddove le altre categorie davano cifre decrescenti: 311 lire la proprietà fra 51 e 100 ettari; 205 quella fra 101 e 1000 ettari; e 70 quella oltre i 1000 ettari. Non è quindi di aiuto di cui esso ha bisogno. Ciò su cui volevo attirare l’attenzione era che la bonifica della terra e la trasformazione del latifondo devono servire all’incremento ed alla elevazione del ceto dei piccoli e medi proprietari. Poiché essi sono il nerbo della società, perché costituiscono la più salda garanzia di una società stabile, avevo proposto una formula la quale tenesse conto di una esigenza sociale fondamentale per una società stabile.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula della Commissione: «promuove la bonifica delle terre».

(È approvata).

Vi è ora l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Monterisi: «anche mediante opere di elettrificazione». (Commenti).

MONTERISI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Segue la formula della Commissione: «e la ricostituzione delle unità produttive».

La pongo in votazione.

(È approvata).

A questo punto occorre porre in votazione la formula dell’onorevole Einaudi: «ad incremento e ad elevazione del ceto dei piccoli e medi proprietari.

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Siamo contro la formula proposta dall’onorevole Einaudi, per le stesse ragioni per cui siamo stati contro quella proposta dall’onorevole Jacometti: in diverso senso, sono entrambe limitative. Si parla di piccola e media proprietà, mentre talvolta può essere utile servirsi della conduzione associata, il che naturalmente sarebbe escluso, se approvassimo l’emendamento Einaudi.

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. La mia proposta non mi pare che escluda affatto il concetto espresso dall’onorevole Gronchi; non vedo in essa nulla che impedisca al ceto dei piccoli e medi proprietari di associarsi, se lo reputino, per il conseguimento dei loro fini.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Noi voteremo a favore del testo proposto dalla Commissione e voteremo quindi contro l’emendamento Einaudi, non soltanto per le ragioni accennate dall’onorevole Gronchi, ma perché specificare che l’abolizione e la trasformazione del latifondo debbano giovare ad alcune determinate categorie di lavoratori della terra, ad esclusione di altre, ci sembra ingiusto. Vi sono, ad esempio, anche i braccianti agricoli che dovrebbero giovarsene.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula proposta dall’onorevole Einaudi.

(Non è approvata).

Pongo ai voti la formula della Commissione: «ed aiuta la piccola e media proprietà».

(È approvata).

Vi è, infine, l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Gortani:

«Nel medesimo intento la legge dispone provvedimenti a favore delle zone montane».

AYROLDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

AYROLDI. Propongo che si aggiunga: «e delle zone aride», la cui produzione dipende esclusivamente dalla pioggia.

SEGNI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SEGNI. Dichiaro a nome del mio Gruppo di votare a favore dell’emendamento Gortani che riconosce le benemerenze e le necessità delle regioni montane che sono state finora abbandonate.

JACOMETTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

JACOMETTI. Il mio Gruppo voterà a favore dell’emendamento Gortani.

CAMANGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Voteremo a favore dell’emendamento Gortani, perché riteniamo che questo problema della montagna è forse il più importante ed il più decisivo per la situazione economica dell’Italia.

PIEMONTE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PIEMONTE. A nome del mio Gruppo dichiaro d’accettare la formula Gortani.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Gortani.

«Nel medesimo intento la legge dispone provvedimenti in favore delle zone montane».

(È approvato).

Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Ayroldi: «e delle zone aride».

MICCOLIS. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MICCOLIS. La formula aggiuntiva dell’onorevole Ayroldi serve a richiamare la nostra attenzione sul problema della irrigazione e pertanto voterò a favore.

(L’emendamento non è approvato).

PRESIDENTE. L’onorevole Scotti Alessandro ha presentato il seguente emendamento aggiuntivo: «e favorisce le forme assicurative statali contro i danni atmosferici».

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi voteremo contro per il solo motivo che questo concetto è già incluso nell’aiuto alla media e piccola proprietà e nei provvedimenti a favore delle zone montane.

PRESIDENTE Pongo in votazione la proposta aggiuntiva dell’onorevole Scotti.

(Non è approvata).

L’articolo risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, la legge impone obblighi e vincoli alla proprietà terriera privata, fissa limiti alla sua estensione, appropriati alle varie regioni e zone agrarie, impone e promuove la trasformazione del latifondo, promuove la bonifica delle terre e la ricostituzione delle unità produttive, ed aiuta la piccola e media proprietà.

«Nel medesimo intento, la legge dispone provvedimenti in favore delle zone montane». (Applausi).

Ricordo che gli onorevoli Moro, Laconi, Taviani e Dominedò hanno proposto di fare dell’inciso contenuto nell’originario testo della Commissione: «promuove l’elevazione professionale dei lavoratori» un articolo 41-bis accettato dalla Commissione:

«La Repubblica promuove la formazione e la elevazione professionale dei lavoratori».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Il seguito della discussione è rinviato a domani alle 9.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge.

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se intenda – revocando il provvedimento già emanato – disporre il ripristino dell’ufficio di stato civile del rione Salice che, mentre non pregiudicherebbe per nulla le finanze dello Stato o del comune, porrebbe termine al diffuso, preoccupante giustificato malcontento di quella popolazione che non può spiegarsi come sugli undici rioni ex comuni, incorporati al capoluogo di Reggio Calabria solo il proprio sia privo di tale servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tripepi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per sapere quali provvedimenti sono in corso circa il trattamento economico e lo sfollamento dei sottufficiali dell’Esercito. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Di Gloria».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quali provvedimenti intende emanare per le Confraternite sinistrate di Napoli, che hanno avuta distrutta o danneggiata gravemente la Cappella sepolcrale nel Cimitero di Poggioreale e gli oratori esistenti in città, per cui molti resti mortali sono tuttora confusi con macerie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Riccio Stefano».

«I sottoscritti chiedono di interrogare i Ministri del commercio con l’estero, dell’industria e commercio e della pubblica istruzione, per conoscere se, in relazione alla situazione venuta a crearsi alle case editrici in genere ed alle case editrici di testi scolastici in particolare, nei riguardi dell’approvvigionamento della carta, non ritengano urgente prendere i provvedimenti necessari per assicurare, sia con l’acquisto all’estero, sia con l’assegnazione ad equo prezzo di carta nazionale, il fabbisogno per la produzione dei testi scolastici a prezzi di copertina accessibili agli alunni di tutte le classi sociali. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Cappelletti, Codignola».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e tesoro e della pubblica istruzione, per sapere se – in attesa che il Governo decida sulla futura sorte delle pensioni dei maestri e dei direttori didattici, in seguito all’esito del recente referendum – non creda doveroso e indilazionabile deliberare provvedimenti immediati per sollevarli dalla loro triste ed immeritata condizione economica. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Badini Confalonieri».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 22.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 9:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 13 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 13 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Per le popolazioni terremotate:

Musolino                                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Republica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

                                                                                                                          

Bozzi                                                                                                                 

Di Vittorio                                                                                                       

Ruini, Presidcente della Commissione per la Costituzione                                    

                                                                                                                          

Cingolani                                                                                                         

Corbino                                                                                                            

Colitto                                                                                                             

Mortati                                                                                                            

Arata                                                                                                               

Taviani                                                                                                             

Cortese                                                                                                            

Parri                                                                                                                 

Einaudi                                                                                                             

Lucifero                                                                                                           

Dominedò                                                                                                         

Marina                                                                                                             

Perlingieri                                                                                                       

Bibolotti                                                                                                          

Targetti                                                                                                           

Perrone Capano                                                                                              

Grassi                                      Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione      

Bruni                                                                                                                

Nobili Tito Oro                                                                                                

Cappi                                                                                                                 

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La sedata comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo l’onorevole Garlato.

(È concesso).

Per le popolazioni terremotate.

MUSOLINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Su che cosa?

MUSOLINO. Vorrei proporre che si inviasse un telegramma a Catanzaro esprimente la solidarietà dell’Assemblea verso quelle popolazioni terremotate; nello stesso tempo propongo all’Assemblea che sia disposto l’invio di soccorsi.

PRESIDENTE. Posso assicurare l’onorevole Musolino, che il Governo ha già provveduto in questo senso.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo l’esame del Titolo III.

Gli onorevoli Di Vittorio, Bitossi e Bibolotti, hanno proposto il seguente articolo 36-bis:

«Ai sindacati è riconosciuto il diritto di contribuire direttamente alla collaborazione di una legislazione sociale adeguata ai bisogni dei lavoratori e di controllarne l’applicazione mediante la costituzione di un Consiglio nazionale del lavoro elettivo, nel quale saranno rappresentati il Governo e le categorie produttrici in misura che tenga conto della loro efficienza numerica».

BOZZI. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BOZZI. Vorrei proporre che si esaminasse questo articolo quando si parlerà degli organi legislativi e degli eventuali organi ausiliari della funzione legislativa.

Ora non potremmo fare altro che una delibazione, la quale ci farebbe perdere del tempo; mentre questo problema si inquadra nel sistema degli organi legislativi ausiliari, fra i quali è previsto un Consiglio economico.

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, quale è il suo parere?

DI VITTORIO. Desidererei conoscere in proposito l’avviso della Commissione.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. La Commissione ha preso in esame la proposta dell’onorevole Di Vittorio, relativa alla costituzione di un Consiglio nazionale del lavoro, ed ha ritenuto che possa essere, in massima, accolta, ma debba essere esaminata e messa in rapporto con la questione dei consigli economici.

La proposta dell’onorevole Di Vittorio è infatti che del Consiglio del lavoro facciano parte tutte le categorie produttive; è lo stesso concetto su cui è basato il sistema del Consiglio economico; i due temi debbono dunque essere considerati unitariamente.

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, accede al criterio della Commissione?

DI VITTORIO. Ringrazio la Commissione di aver accolto il concetto che abbiamo espresso in quest’articolo aggiuntivo da noi proposto ed accolgo il suggerimento di rinviarne l’esame al momento in cui verrà decisa la questione dei consigli economici.

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Il mio Gruppo si associa alla dichiarazione del Presidente della Commissione onorevole Ruini e si riserva di approfondire il problema, che è molto più complesso di quanto non possa apparire alla prima enunciazione.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Condividiamo il punto di vista del Presidente della Commissione. Anche noi siamo convinti che il tema è di tale importanza e così strettamente collegato all’ordinamento costituzionale dello Stato che aderiamo all’idea di rimandarne l’esame in sede opportuna.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Mi associo, a nome del mio Gruppo, alla proposta di rinvio.

PRESIDENTE. Se non vi sono altre osservazioni rimane stabilito che l’esame e la decisione definitiva sull’articolo aggiuntivo presentato dall’onorevole Di Vittorio avranno luogo nel momento in cui si entrerà nel merito della discussione degli organi ausiliari del potere legislativo.

(Così rimane stabilito).

Passiamo all’esame dell’articolo 37:

«Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo.

«La legge determina le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali».

L’onorevole Gabrieli ha già svolto la sua proposta di sopprimere l’articolo.

L’onorevole Cortese, che ha pure proposto la soppressione dell’articolo 37, non è presente. S’intende quindi che abbia rinunciato a svolgere il suo emendamento.

Un emendamento soppressivo dell’intero articolo è stato pure presentato dagli onorevoli Marina, Colitto, Rodinò Mario e Puoti.

L’onorevole Colitto, secondo firmatario dell’emendamento, ha facoltà di svolgerlo.

COLITTO. Noi abbiamo chiesto, onorevoli colleghi, la soppressione dell’articolo 37 del progetto e insistiamo su questa nostra proposta.

L’articolo 37 è composto di due commi.

Il primo di essi dispone:

«Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo».

Tale affermazione sembra a noi del tutto pleonastica. Si parla in questo comma di attività privata e di attività pubblica. Ora, fattività privata trova la sua precisa disciplina nel successivo articolo 39, in cui si parla appunto dell’iniziativa economica privata, nei confronti della quale si afferma non soltanto che è libera, ma anche che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale. È fissato, quindi, secondo il nostro avviso, con molta precisione, il binario entro il quale l’attività privata è libera di muoversi. Non ci sembra, perciò, che vi sia altro da aggiungere. Qualunque cosa si aggiungesse, non gioverebbe – secondo noi – né alla torma, né alla sostanza. Non alla forma, perché in un articolo si parlerebbe di attività economica privata e nell’altro di iniziativa economica privata. Mi rendo conto che l’iniziativa è, per così dire, la volontà di fare, e la attività è la realizzazione di tale volontà. Ma non è opportuno, a mio avviso, in un testo costituzionale chiaro, semplice, preciso, parlare indifferentemente or dell’una or dell’altra cosa. Non alla sostanza, perché, ove si legga il primo comma dell’articolo 37, si riporta l’impressione che l’attività privata, dovendo muoversi in una determinata precisa direzione, non goda più della libertà, ed ove si legga l’articolo 39, si riporta l’impressione che quella volontà di fare, di cui ho parlato, possa realizzarsi liberamente senza tener conto del binario da noi indicato.

Quanto poi all’attività pubblica, è appena il caso di osservare essere evidentissimo che essa non può mai essere contraria all’interesse pubblico. È del tutto inutile, quindi, a nostro avviso, consacrare ciò in tavole statutarie. Non è nel desiderio di nessuno di fare di questa nostra Costituzione anche una discreta e poco simpatica collezione di formulazioni inutili. Ieri l’altro abbiamo approvato che l’arte e la scienza sono libere e ieri che l’assistenza privata è libera: non credo che sia proprio il caso di aggiungere che l’attività pubblica deve tendere all’interesse collettivo.

Il secondo comma dispone: «La legge determina le norme ed i controlli necessari, perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali».

Si pone anche, qui, con accenno molto discreto, senza una formale qualifica, il problema della pianificazione. In sede di terza Sottocommissione, l’onorevole Fanfani si espresse così a questo proposito: «È una novità della nostra Costituzione stabilire la creazione di un organo, che coordini le attività economiche, che pianifichi o programmizzi le attività economiche».

Ora, in proposito, a noi pare che l’Assemblea si sia già pronunciata, disapprovando l’emendamento proposto all’articolo 31, in cui si parlava appunto di intervento dello Stato diretto a coordinare, dirigere, armonizzare, orientare le attività economiche a fini sociali.

In quella occasione l’Assemblea disse di no, forse perché pensò che è molto difficile mantenere un controllo dell’attività economica negli schemi dell’attività politica.

Nessuna ragione vi è ora per essere di contrario avviso.

Insistiamo perciò per la soppressione dell’articolo.

PRESIDENTE. L’onorevole Mortati ha presentato un emendamento che propone di fondere l’articolo 37 nell’articolo 39, con la seguente dizione:

«L’iniziativa economica privata è libera.

«La legge pone le norme necessarie perché le attività economiche siano coordinate a fini sociali, non rechino danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, né contrastino altrimenti con l’utilità comune».

L’onorevole Mortati ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MORTATI. Quanto ha detto il collega che mi ha preceduto mi esime da troppe illustrazioni della prima parte del mio emendamento. Mi pare che si possa essere d’accordo nel chiedere che sia soppresso il primo comma dell’articolo 37, perché, per quanto riguarda l’attività pubblica, esso è evidentemente tautologico. Per l’attività privata poi è chiaro che l’unica ragion d’essere dell’articolo sta nell’attribuzione che esso vuol fare dal carattere funzionale della medesima, carattere che è messo bene in rilievo dagli articoli che seguono. Quindi non mi pare possa sorgere dubbio sulla necessità di questa soppressione.

Non sono d’accordo invece con l’onorevole Colitto per quanto riguarda la soppressione del secondo comma. Mi pare che il secondo comma debba essere conservato e coordinato con l’articolo 39. I due articoli hanno in comune l’obiettivo, che è quello di armonizzare l’attività economica privata con i fini pubblici. La differenza fra i due articoli è questa: mentre l’articolo 39 ha per oggetto un fine negativo, cioè impedire che l’attività economica privata possa recare danno all’utile pubblico, viceversa l’articolo 37 – secondo comma – ha per scopo di promuovere il coordinamento dell’attività privata con i fini pubblici: quindi ha una finalità positiva. A me pare che questo intervento dello Stato, onde coordinare l’attività economica verso un fine unitario, nella situazione attuale dell’economia non sia eliminabile. Esso è già in atto oggi, e non si può pensare che una Costituzione interventista in tantissimi campi dell’attività privata, come quella che risulta dalle disposizioni già approvate, possa prescindere dai controlli e dagli interventi a fini positivi di coordinamento, quali sono previsti dall’articolo in esame. Al fine però della semplificazione e della riduzione del numero degli articoli appare opportuno fonderlo con l’articolo 39. Per quanto riguarda la dizione da me proposta faccio osservare che la soppressione della parola «controlli» che si legge nel testo del progetto è stata effettuata non perché pensi che controlli non debbano esserci ma perché penso che il riferimento alle norme comprende tutti i vari provvedimenti (piani, programmi, controlli) che formano il contenuto possibile delle medesime. Mi pare che non sia il caso di limitare questo contenuto in via preventiva, e che sia meglio lasciare indeterminate tutte le possibili forme d’intervento a questo fine della coordinazione. Ho poi soppresso la parola «armonizzate», perché quando si dice «coordinate», si esprime lo stesso concetto ed essa appare quindi una ripetizione inutile. Insisto pertanto nell’accoglimento della mia proposta di emendamento.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Arata, Piemonte, Preti, Carboni, Persico, Segala, Cairo, Momigliano, Lami Starnuti, Ruggiero Carlo, Longhena, Fietta e Pignatari hanno presentato il seguente emendamento:

«Coordinare gli articoli 37 e 39 come segue:

«Trasferire il testo dell’articolo 39 nell’articolo 37, in sostituzione della sua prima parte, che rimane pertanto soppressa.

«Modificare, come segue, la seconda parte dell’articolo 37, la cui dizione completa viene ad essere la seguente:

«L’iniziativa economica privata è libera.

«Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale, o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

«La legge stabilisce le norme, i controlli e i piani opportuni perché le attività economiche pubbliche e private siano dirette e coordinate a fini di utilità sociale».

L’onorevole Arata ha facoltà di svolgerlo.

ARATA. Onorevoli colleghi, l’emendamento che ho l’onore di svolgere ha un primo fine comune con altri emendamenti: con quello ad esempio svolto dall’onorevole Mortati, il quale pure, in primo luogo, mira a sopprimere l’articolo 37. Come ha anche osservato l’oratore che mi ha preceduto, questo testo nel suo palese andamento tanto logico dà l’impressione di correr dietro alla propria coda. Esso, infatti, afferma che l’impiego di ogni attività economica, pubblica o privata, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali ed al benessere collettivo. Dire questo è come dire che ogni attività economica deve essere economica, perché il contenuto finale e fondamentale dell’economia è appunto quello di provvedere ai bisogni individuali ed a procurare il benessere collettivo.

Chiediamo anche noi la fusione dell’articolo 39 con la seconda parte dell’articolo 37. L’articolo 39 vuole regolare l’iniziativa economica privata e stabilisce norme che suonano un poco come altrettante obbligazioni di non fare. La seconda parte dell’articolo 37 riguarda l’attività economica in genere.

E allora è evidente che l’ambito contrattuale più largo della seconda parte dell’articolo 37 comprende in qualche modo anche il contenuto del testo dell’articolo 39, per cui i due testi possono essere fusi in un unico ambito giuridico, il che costituisce un vantaggio per la semplicità, o come diciamo noi avvocati, per l’economia della materia.

Vi è poi una terza modificazione importante che noi chiediamo di introdurre nel progetto, e cioè l’accenno ai piani. Noi infatti chiediamo che la legge stabilisca le norme, i controlli e i piani opportuni perché le attività economiche pubbliche e private siano dirette e coordinate a fini di utilità sociale.

Dico subito, onorevoli colleghi, che non volendo noi fare rientrare dalla finestra quello che è stato cacciato dalla porta, il che costituirebbe una sfida all’Assemblea e al buonsenso, siamo disposti, ove ci venisse qualche suggerimento, a modificare anche qualche termine del nostro emendamento, perché, se è nostra intenzione che sia salva la sostanza, non vogliamo neppure che si crei oggi l’atmosfera nella quale è stato emesso il voto di venerdì.

Premetto a questo proposito che se vi è un ambito giuridico, sociale e politico, nel quale deve essere inibita ogni pragmatistica avventatezza di formulazione, questo è l’ambito costituzionale, e se vi è una materia nella quale deve essere eliminata ogni avventurosa leggerezza, questa è proprio la materia economico-sociale.

Assicuro l’Assemblea che questi concetti erano chiari allo spirito di coloro che hanno redatto l’emendamento che ora sto svolgendo.

Diceva l’onorevole Ghidini che una Costituzione è come un ponte lanciato verso l’avvenire: immagine verissima ed esattissima.

Ma, appunto perché è un ponte, noi siamo profondamente convinti che esso non deve essere agganciato soltanto alla sponda di arrivo, perché in tal caso occorrerebbero voli per arrivarci, sempre pericolosi fuor che in poesia, ma deve essere agganciato anche alla sponda di partenza, e cioè a criteri radicati di serietà, di realtà e di praticità.

È verità, dunque, che noi non vogliamo lanciare nessuna sfida all’Assemblea, e non vogliamo fare rientrare dalla finestra quello che è stato espulso dalla porta, ma è anche verità, onorevoli colleghi, che, secondo noi, inesattamente, certa stampa si è precipitata a conclamare che l’Assemblea, col suo voto di venerdì, aveva sdegnosamente respinto ogni principio, ogni accenno alla pianificazione; inesattamente, diciamo, perché è vero che l’Assemblea ha respinto il concetto della pianificazione quale risultava dall’emendamento Montagnana, ma è anche vero che quel voto è stato formulato con una riserva: cioè con la clausola sic rebus stantibus. E quali fossero queste res stantes ce lo hanno spiegato, coi loro discorsi, gli onorevoli Einaudi, Corbino, Belotti e Labriola. Essi hanno dato la precisa impressione di voler sì respingere la rosa della pianificazione, ma soltanto per il timore di pungersi colle spine del suo gambo. Si sono, cioè, preoccupati, a nostro avviso, non tanto di eliminare dalla Costituzione ogni accenno alla pianificazione, quanto di impedire che la Costituzione potesse ospitare di straforo un principio, che essi ritenevano inammissibile: il principio del servizio obbligatorio del lavoro.

Disse, infatti, l’onorevole Corbino: «Piani, sì, finché se ne vuole; ma si vada adagio coi piani dell’onorevole Pajetta». Ora, quei piani, che gli onorevoli oppositori ritenevano che costituissero i presupposti e i sottintesi dell’emendamento Montagnana, non figurano e non possono figurare più nel nostro emendamento; figura ed emerge soltanto il concetto della possibilità e della legittimità di determinati piani economici, a seconda delle esigenze economiche e sociali che possano prospettarsi e giustificarne la formazione.

Onorevoli colleghi, portato il tema in questa sfera concettuale, mi sembra che, a voler troppo ragionarci sopra e a voler creare contrasti di indole puramente polemica e dottrinale, si dia l’impressione di chi vada compiendo grandi sforzi per tirare su, con una carrucola, una mosca morta.

E mi sembra anche che si pecchi di poca memoria, perché l’Assemblea vorrà pur ricordare che poche ore prima del suo voto sulla cosidetta pianificazione, aveva emesso un altro voto, concernente l’intervento dello Stato nell’industria cinematografica; voto che, a nostro parere, altro non è se non un esempio pratico di pianificazione.

È facile immaginare che si ritornerà ad opporre che ogni accenno, anche larvato, anche attenuato, alla pianificazione è inutile ed equivoco, in quanto, o si riferisce semplicemente allo intervento dello Stato nell’economia privata, con la limitata finalità di costituirne un indirizzo, un orientamento, una regola – ed in tale caso l’accenno è inutile, perché tutto questo è già nella prassi e nei metodi dell’economia capitalistica e dello Stato liberale – oppure si vuole arrivare più in là, cioè alla introduzione d’un vero socialismo di Stato entro l’economia liberale e l’attività economica privata, e cioè all’introduzione di una pianificazione integrale e centralizzata, con la sostituzione dell’imprenditore privato col burocrate di Stato – ed allora si obietta che ciò è inammissibile sia perché la sostituzione dell’impresa privata col burocrate ha costituito sempre un disastro economico, sia perché il concetto di pianificazione è un concetto irrazionale ed antitetico con la economia privata e capitalistica.

Onorevoli colleghi, io darò brevissime risposte a queste obiezioni, risposte che se non hanno la orgogliosa pretesa di persuadere persone di tanto superiori a me in questa materia, varranno almeno a dimostrare la buona fede e la sicurezza morale che ha ispirato i presentatori di questo emendamento.

Alla prima obiezione posso rispondere che lo scandalizzarsi per un accenno ad un concetto, a un metodo, ad una prassi, che hanno un legame così stretto con tutta la nostra vita economica, alla quale vogliono dare solo un orientamento, un indirizzo; lo scandalizzarsi per questo, mi pare che sia un fuor d’opera, dopo che purtroppo questa Assemblea ha già votato una serie di norme e di dichiarazioni ancora vaganti nel cielo incerto della astrattezza e del divenire, e che comunque con la Costituzione e con la materia costituzionale vera e propria non hanno, forse, neppure una lontana parentela.

Quanto invece alla obiezione più profonda e cioè che si voglia tendere ad introdurre nella nostra Costituzione un socialismo di Stato, e a sostituire l’impresa privata con una burocrazia centralizzata, e che si tenda a creare una forma integrale e massiccia di pianificazione, mi sembra che si vogliano creare dei fantasmi per prendersi il gusto di combatterli.

Mi si consenta di dire che il fatto che la nostra Costituzione consacri il principio che il regno beato del beatissimo e totalitario laisser faire è finito per sempre, mi sembra non soltanto costituzionalmente legittimo ed esatto, ma anche praticamente opportuno.

E in quanto agli altri eventuali sottintesi che dovrebbero essere alla base del nostro emendamento, voglio formalmente precisare che l’inserzione dell’accenno ai piani nel nostro emendamento non ha mai avuto e non avrà mai lo scopo di volere porre all’Assemblea una perentoria alternativa fra sistema liberale e socialista, fra iniziativa economica privata e coercizione burocratica di Stato, fra capitalismo nella sua forma pura e pianificazione integrale.

La portata del nostro emendamento ha un valore che supera questa alternativa (la quale dividerebbe, automaticamente, l’Assemblea in due settori, il che noi vogliamo evitare): esso invece vuol soltanto portare il tema sopra un piano di praticità, di realtà, di attualità e di attuabilità.

Vogliamo cioè portare il dibattito in quella sfera concettuale nella quale lo stesso Von Hayek, che da molti è rappresentato come il campione della antipianifìcazione, ammette delle forme parziali di pianificazione, là dove scrive, testualmente: «Una pianificazione parziale può essere razionale ove la si intenda come il prodotto di una permanente architettura giuridica, architettata in modo da fornire all’iniziativa privata gli incentivi necessari per compiere gli adattamenti richiesti da ogni variazione della vita economica e sociale».

Pertanto, e mi avvio alla fine, nessuna alternativa è posta all’Assemblea tra libertà economica e vincolismo esasperato di Stato, ma soltanto disciplina di quegli interventi od interventismi di Stato che oggi campeggiano in tutti i paesi, tanto da far dire allo stesso Von Hayek che il mondo è oggi un caos di interventismi.

Assumere quindi, onorevoli colleghi, il socialismo come lo spauracchio, o come un voluto sottinteso, contro o a favore della pianificazione, è inesatto. Ci può essere molta pianificazione e poco socialismo, come può darsi molto socialismo e poca pianificazione. Tutto consiste nel saper distinguere i fini cui si tende, ed i mezzi che sono stati proposti come necessari a raggiungere lo scopo. È sul piano dei fini (che nel socialismo sono fini etici) e dei mezzi posti alla base di ogni pianificazione, che si può stabilire un parallelo tra socialismo e pianificazione. Senza questo aspetto fondamentale, si ha soltanto un metodo, onorevoli colleghi, ed è precisamente un metodo che abbiamo voluto fissare col nostro emendamento. Un metodo che balza dalla stessa impostazione del problema fondamentale, che è uguale in tutti gli ambienti giuridici sociali, e cioè in tutte le parti del mondo odierno, e che si enuncia in questi termini: distribuire un complesso limitato di risorse tra i vari possibili impieghi, in modo che i bisogni degli individui siano soddisfatti nel miglior modo possibile. Sono i fatti, sono le esigenze nazionali ed internazionali, sono i bisogni, le privazioni, le sofferenze degli uomini e delle comunità organizzate, che hanno imposto questo metodo. Non è qui la sede per esaminare se tutto questo sia frutto della guerra o di quel tracollo della economia liberale di cui, con la sua riconosciuta e simpatica onestà scientifica, parlava l’onorevole Corbino, o forse di entrambi insieme. Certo è, onorevole Corbino, che il tracollo dell’economia liberale sovrasta come un’ombra questi nostri dibattiti sul Titolo terzo.

Può darsi che sulle rovine di questo tracollo già cominci a spuntare la nuova economia di domani, e non sarà un male se sarà la pianificazione a tenerla a battesimo.

PRESIDENTE. L’onorevole Parri ha già svolto il seguente emendamento:

«Dopo il primo comma aggiungere il seguente:

«Spetta alla Repubblica, a raggiungere questo fine pubblico, indirizzare e coordinare le attività economiche del Paese».

Sono stati così svolti tutti gli emendamenti. Avverto ora che all’emendamento dell’onorevole Arata è stato proposto dagli onorevoli Taviani, Dominedò, Moro, Ambrosini, Belotti, Cremaschi Carlo, Castelli Avolio, De Palma, Martinelli e Valenti il seguente emendamento:

«Sostituire alle parole: le norme, i controlli ed i piani, le altre: le norme ed i controlli; alla parola: dirette, l’altra: orientate; alle parole: a fini di utilità sociale, le altre: a fini sociali».

L’onorevole Taviani ha facoltà di svolgerlo.

TAVIANI. Dirò brevissime parole. Noi aderiamo all’iniziativa dell’onorevole Arata, di fondere l’articolo 39 col 37, non fosse altro per l’economia del progetto, come ha proposto anche l’onorevole Mortati. Ritengo che, oltre al primo e secondo comma dell’articolo 39 debba mantenersi il secondo, che diventa terzo, dell’articolo 37, in quanto esso prospetta un’azione positiva di orientamento da parte dello Stato nei riguardi dell’economia.

Quanto allo spostamento di parole, noi siamo per la parola «orientate» che ci sembra più esplicita che non quella «dirette», che può far pensare ad una economia integralmente diretta; siamo per l’espressione «fini sociali» anziché «fini di utilità sociale», sia per evitare la ripetizione già insita nel primo comma, sia perché l’espressione «fini sociali» è più comprensiva di quella «fini di utilità sociale». Infine, circa l’inserzione della parola «piani», noi aderiamo a molte delle cose che ha detto l’onorevole Arata. Effettivamente, non è concepibile una economia orientata socialmente senza un sia pur minimo indirizzo prestabilito; evidentemente, deve esserci una visione unitaria dell’intervento dello Stato nell’economia. Ma non vediamo per quali motivi questa parola «piani» debba essere inserita nel testo costituzionale dal momento che nell’espressione «le norme e i controlli» si prevede appunto un intervento dello Stato, e non è detto che questo intervento debba essere sempre fatalmente empirico.

PRESIDENTE. Onorevole Arata, la prego di dire se accetta la proposta Taviani.

ARATA. Mi riporto a quanto ho già dichiarato all’inizio. Poiché non vogliamo qui rifare la questione della pianificazione nei termini in cui è stata già fatta, svolta e decisa, e neppure creare l’atmosfera in cui fu emesso il voto, propongo un nuovo emendamento che spero potrà trovare questa volta – poiché la questione della parola «piani» dovrebbe trovare, penso, l’approvazione anche da parte del gruppo dell’onorevole Taviani – il consenso da parte di tutti.

Propongo, quindi, che si dica:

«La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica privata e pubblica possa essere indirizzata e coordinata a fini di utilità sociale».

PRESIDENTE. Onorevole Taviani, è d’accordo?

TAVIANI. Accettiamo la proposta Arata di parlare di programmi e di controlli, per quanto io insisterei ancora sull’espressione «fini sociali», anche per evitare la ripetizione.

PRESIDENTE. Onorevole Arata, accetta la formulazione: «a fini sociali»?

ARATA. Sì, accettiamo.

PRESIDENTE. L’articolo 37, coordinato con l’articolo 39, risulta, pertanto, del seguente tenore:

«L’iniziativa economica privata è libera.

«Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

«La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

Invito la Commissione a esprimere il suo parere.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. La Commissione si è occupata dei vari emendamenti che sono stati presentati sino ad ora.

Il primo è un emendamento soppressivo. Abbiamo ascoltato l’onorevole Colitto che ha dichiarato i motivi della sua proposta. La Commissione non può accoglierla, almeno integralmente.

L’articolo 37 si divide in due commi; il primo comma aveva questo intento: di chiarire che l’attività economica pubblica non deve perdere di vista anche gli interessi privati, e che ogni attività economica privata deve tendere anche all’interesse collettivo generale. Si raggiungono, per diversa via, le stesse mete. Il comma non era veramente ozioso; e poteva presentarsi come un atrio e come una prima introduzione alle norme costituzionali che riguardano la impresa e la proprietà. Ad ogni modo la Commissione non ha difficoltà a togliere questo comma perché non è assolutamente necessario, e potrebbe essere da taluno inteso come ovvio, pleonastico.

Il secondo comma invece è difeso dalla Commissione, che è concorde nel dargli un valore, che anche l’onorevole Colitto vorrà riconoscere. L’idea base è quella del coordinamento. È l’esigenza e l’aspirazione generale, con tanti germi di dissolvimento e discrasia nel momento che noi viviamo. Chi può negare che vi sia bisogno di coordinare le attività economiche pubbliche fra loro e quelle private con le pubbliche? Non vi possono essere a questo riguardo dubbi sopra nessun banco dell’Assemblea.

L’onorevole Corbino, qualche giorno fa, ha riconosciuto che nessuna economia può prescindere da attività dello Stato. Il comunismo puro ed il liberismo puro, sono due ipotesi e schemi astratti che non si riscontrano mai concretamente nella realtà. Si è avuto e si avrà sempre intervento dello Stato (anche nelle fasi più libere) e sfere di attività ed impresa privata (sia pure limitatissime, come in Russia). La realtà è sempre una sintesi, una risultante della vita economica e negarla è negare la vita stessa. Si possono spostare di qua e di là le linee d’incontro; ma vi saranno sempre.

Io qualche volta sono stato rimproverato di eclettismo perché ritengo appunto che il vero problema è di trovare la giusta linea di incontro fra due esigenze contrapposte.

La disposizione proposta risponde a questo concetto; e faccio notare ai pavidi d’ogni interventismo statale che è per essi una garanzia, nel senso che il coordinamento non potrà avvenire per semplice decisione o capriccio di autorità e di Governo, ma soltanto per legge.

Risorge, a proposito di questo comma, la questione dei piani. Vorrei osservare all’onorevole Colitto che quanto egli ha detto non è del tutto esatto: la votazione che avvenne qui qualche giorno fa, non ha compromesso assolutamente la questione dei piani. Vi sono state dichiarazioni esplicite di coloro che, come gli onorevoli Parri e Taviani, hanno votato contro la proposta di innestare l’idea di «piano» sopra il diritto al lavoro. È parso anche a me che questa impostazione fosse incompleta e facesse perdere al «piano» la sua generalità. È parso inoltre che l’inserimento particolare potesse prestarsi ad una diversa interpretazione, sostituendo al concetto dell’utilizzazione delle forze economiche di un paese quello di voler dare a tutti i costi del lavoro e di imporre, occorrendo, anche il lavoro obbligatorio. È stato un insieme di considerazioni che ha determinato quel voto. Però anche coloro che hanno votato contro hanno dichiarato che la questione del piano non veniva con ciò compromessa.

Veniamo alla sostanza. La parola «piano» è per alcuni un feticcio, per altri uno spauracchio. Non deve essere né l’uno né l’altro. Voler negare che vi siano niella vita economica piani è un assurdo. Leggevo questa mattina che gli incaricati della «Import Export Bank» che vengono in Italia chieggono un piano. Questo avviene tutti i giorni.

Piano non significa soltanto piano integrale, coattivo, alla russa, che sopprima l’iniziativa privata. Nella nostra Costituzione abbiamo messo che l’iniziativa economica privata è libera. Evidentemente un piano che sopprimesse l’iniziativa privata non è ammissibile. Perché allora vi deve essere una fobia a mettere nella Costituzione anche la parola «piano»? Sono possibili piani che consentano le iniziative private, che ne prevedano lo sviluppo, che diano direttive ed indirizzi? Un metropolitano che diriga l’attività privata (l’esempio è nei libri recenti di neoliberisti come l’Hayek) non compie niente che non sia liberale, anzi assicura la libertà della circolazione. Un piano, naturalmente, può e deve essere qualcosa di più che la bacchetta d’un metropolitano. Vi sono interventi ed attività economiche pubbliche inevitabili, lo ha ammesso anche l’onorevole Corbino; il piano sorge al loro punto di incontro e di coordinamento.

I piani vi saranno sempre anche se non si mette la parola nella Costituzione. Poiché questa riconosce la libertà dell’iniziativa privata, i piani non possono far paura nemmeno ai più sospettosi. Del resto, fra parentesi, vi sono neoliberisti che, per introdurre e garantire la libera concorrenza, compromessa dal suo stesso giuoco spontaneo che produce deviazioni e monopoli, propongono… piani di intervento statale… neoliberista più macchinosi di altri piani.

Rifiutare in ogni modo la parola piano mi sembra un errore, se non altro, perché si dà un significato di vittoria della tendenza antiliberale, se non comunista, ogni volta che si fa, e si deve fare un piano.

Credo che non vi dovrebbe essere difficoltà ad accogliere la proposta dell’onorevole Arata, nel testo concordato con l’onorevole Taviani, che per dissipare un’atmosfera di equivoci e di dubbi, anche se non giustificati, sostituisce alla parola «piano» quella di «programma».

Ed ecco un’altra e minore questione: la fusione dell’articolo 37 e dell’articolo 39 che è stata proposta dall’onorevole Mortati, ed anche dall’onorevole Arata. La proposta Mortati potrebbe essere accolta, ma ormai che siamo avviati con l’emendamento Arata-Taviani ad una formula di accordo, è meglio che l’onorevole Mortati non insista, anche perché nella sua formula il concetto di coordinamento e di piano è un po’ annacquato. Con il testo Arata-Taviani si ha una struttura ed un’espressione logica; affermata nel primo comma la libertà dell’iniziativa e dell’impresa privata, vengono in luce nel secondo comma i limiti, per così dire passivi, di principî e criteri che l’iniziativa deve rispettare, e nel terzo comma i limiti attivi, e cioè quelli che la legge può imporre ai fini del coordinamento e del piano.

Con l’emendamento da noi accettato si ottiene la diminuzione di un articolo, e cioè, sia pure in proporzione minima, quello snellimento della Costituzione, che è stato mio ardente desiderio, e che purtroppo non ottiene successo di solito, qui, con le aggiunte che si fanno.

PRESIDENTE. Chiederò ora ai presentatori di emendamenti se li mantengono.

Non essendo presente l’onorevole Gabrieli, il suo emendamento soppressivo si intende decaduto.

Onorevole Cortese, mantiene il suo emendamento soppressivo?

CORTESE. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento soppressivo?

COLITTO. Vorrei chiarire il mio pensiero.

PRESIDENTE. Chiarire, ritirando l’emendamento?

COLITTO. Sì. Sono perfettamente convinto che né lo Stato né gli enti né i singoli si possono muovere senza programma. Ed è per questo che io, occupandomi dell’articolo 39, avevo proposto all’Assemblea un articolo sostitutivo dello stesso, così redatto:

«La iniziativa e la impresa privata sono libere, nei limiti che lo Stato stabilisce per coordinare e dirigere le attività economiche ai fini di aumento della produzione e del benessere sociale».

Discutendo in sede generale, io dissi che, approvandosi l’articolo 39, sarebbe diventato del tutto inutile il secondo comma dell’articolo 37. Dissi allora, cioè, quello che, con maggiore autorità e chiarezza, ha detto questa mattina l’onorevole Mortati. Intanto questa mattina ho insistito sulla soppressione del capoverso dell’articolo 37, in quanto mi sembrava che l’Assemblea avesse già manifestato il suo pensiero in proposito, in una delle precedenti sedute, respingendo l’emendamento proposto all’articolo 31.

Ma, dati i lucidi chiarimenti che sono stati offerti all’Assemblea ed a me poco fa dall’onorevole Ruini, dichiaro di non insistere sull’emendamento soppressivo dell’articolo 37, tanto più che, in sostanza, sembra che sarà soppresso nella coordinazione che pare abbia luogo dello stesso con il successivo articolo 39.

PRESIDENTE. Onorevole Mortati, mantiene l’emendamento?

MORTATI. Poiché, nella sostanza, l’emendamento da me proposto coincide con quello degli onorevoli Arata e Taviani, lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Parri, mantiene l’emendamento?

PARRI. Lo ritiro, in quanto aderiamo all’emendamento concordato dell’onorevole Arata, con le precisazioni che egli ha esposto e che corrispondono alle nostre vedute.

PRESIDENTE. All’ultimo comma dell’emendamento concordato dell’onorevole Arata e Taviani l’onorevole Corbino propone di sopprimere la parola «controlli».

Restano ora soltanto da porre in votazione la proposta soppressiva dell’onorevole Cortese e poi la formulazione concordata dell’onorevole Arata, salvo la proposta modificativa dell’onorevole Corbino.

CORTESE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORTESE. Mettendo in votazione l’articolo secondo la proposta dell’onorevole Arata, si viene già a sopprimere l’articolo 37, trattandosi appunto di una fusione dell’articolo 37 con l’articolo 39.

PRESIDENTE. Onorevole. Cortese, la sua proposta è di sopprimere puramente e semplicemente l’articolo 37.

La pongo in votazione.

(Non è approvata).

Passiamo alla votazione dei primi due commi dell’emendamento concordato dell’onorevole Arata, salvo poi a porre in votazione il terzo comma con la proposta soppressiva dell’onorevole Corbino.

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Ricordo di aver proposto due emendamenti all’articolo 39, il quale verrebbe ora fuso con l’articolo 37. Tali emendamenti decadrebbero, senza che avessi avuto modo di svolgerli.

PRESIDENTE. Onorevole Einaudi, lei ha proposto due emendamenti all’articolo 39:

«Sopprimere le parole: in contrasto con l’utilità sociale o»;

«Aggiungere il seguente comma:

«La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta».

Ritengo che possano essere considerati come emendamenti al testo concordato dell’articolo 37 e quindi ha facoltà di svolgerli ora.

EINAUDI. Il primo emendamento all’articolo 39 da me presentato si limitava a togliere le parole: «in contrasto con l’utilità sociale o». Ma poiché vedo che l’Assemblea è propensa ad introdurre nei testi legislativi parole le quali non hanno un significato preciso e su cui i commentatori avranno in avvenire ampio campo a discutere, su questo punto preciso non insisto. Avevo già imparato che nelle Costituzioni di oggi si usano indicare principî ed additare indirizzi per l’azione successiva del legislatore. Apprendo ora che, oltre ad indicare principî ed indirizzi per il legislatore futuro, si formulano anche auguri, che in avvenire si riesca a scoprire il significato delle parole che oggi non si conosce.

E passo quindi all’emendamento, all’aggiunta che ho proposto. Questa aggiunta deriva dalla necessità, da me sentita, di cercare di scoprire cioè quale era il vero contenuto di tutte queste norme, sia dell’articolo 37 congiunto coll’articolo 39, sia dell’emendamento dell’onorevole Arata, accettato da tanta parte dell’Assemblea.

Le disposizioni contenute in quegli articoli non segnavano in realtà alcun indirizzo al legislatore; non dicevano al legislatore ciò che egli doveva fare; dicevano semplicemente che il legislatore in avvenire farà tante belle cose e darà tanti indirizzi, e stabilirà dei controlli e dei programmi e dei piani. Io credo che fra programmi e piani nel dizionario dei sinonimi del Tommaseo non vi sia alcuna differenza: le due parole esprimono lo stesso concetto.

MALAGUGINI. Una parola fa paura e l’altra no.

EINAUDI. Sono parole che esprimono il medesimo concetto. In nessuno di questi due articoli è espresso il concetto che principalmente il legislatore deve enunciare.

Ora, ciò che il legislatore principalmente deve dire e proporsi come scopo è la lotta contro quello che è il male più profondo della società presente: e il male più profondo della società presente non è la mancanza di programmi e di piani – ché ne abbiamo avuti fin troppi – ma è invece l’esistenza di monopoli. Cento anni fa Proudhon ha detto che «la propriété c’est un vol», proposizione gravemente erronea allora come adesso, e testimonianza della incompetenza in cui egli versava intorno alle conquiste della scienza di quel tempo. Dieci anni prima era infatti stato pubblicato da Agostino Cournot un libro fondamentale sui principî della scienza della ricchezza dove Proudhon avrebbe appreso che non è la proprietà un furto, ma è il monopolio il furto, è il monopolio il danno supremo dell’economia moderna. Noi, in questa Costituzione, del monopolio non ne parliamo affatto. Ne parliamo solo all’articolo 40 incidentalmente, per dire che lo Stato deve farsi seguitatore e quasi complice dei monopolisti nel senso dello assumere esso quei monopoli con cui i monopolisti privati riescono a fare il danno della collettività. È come se dinanzi al ladrone pubblico che svaligia i viandanti, noi si dicesse al carabiniere: tu non arresterai il ladrone, ma anzi ti convertirai in ladrone e a tua volta spoglierai coloro che camminano per le strade. Questo è in sostanza quello che abbiamo detto nell’articolo 40 a seguito dei principî posti negli articoli 37 e 39, trascurando la novità fondamentale dell’economia moderna, il frutto maggiore degli studi che in un secolo sono stati compiuti per vedere qual è l’origine dei mali sociali. L’origine più profonda e vera dei mali sociali è il monopolio e noi nel testo costituzionale non diciamo niente, non facciamo niente per combattere, per lottare contro il monopolio.

Chiedo perciò che nella Costituzione sia sancito il principio che la legge non deve creare il monopolio e che quando i monopoli esistono, questi monopoli devono essere controllati. La legge non deve istituire essa i monopoli, non deve farsi essa stessa strumento di creazione di monopoli.

Monopolio che cosa vuol dire? Monopolio vuol dire semplicemente rialzo, ad opera del monopolista, dei prezzi al di sopra di quelli che esisterebbero in regime di libera concorrenza, e se i prezzi sono alti i consumatori devono rinunziare ad una parte dei beni che altrimenti avrebbero consumato, mentre altri che avrebbero potuto essere invogliati a produrre quei beni non li possono, per la mancanza di domanda, produrre. Di qui la disoccupazione. L’origine più profonda della disoccupazione è nell’esistenza dei monopoli che riducono la quantità dei beni, che aumentano i prezzi del resto dei beni che ancona si producono, che aumentano i profitti dell’imprenditore al di sopra di quello che sarebbe dovuto quale compenso normale al capitale investito, al di sopra di quello che sarebbe il compenso normale dell’opera dell’imprenditore. Il monopolio crea quelle disuguaglianze sociali che in tanti articoli della Costituzione si vorrebbero eliminare, e noi non diciamo nulla, non stabiliamo neppure il principio che la legge non deve operare in modo che sorgano i monopoli, vera fonte della disuguaglianza, vera fonte della diminuzione dei beni prodotti, vera fonte della disoccupazione delle masse operaie. Non dicendo nulla creiamo una profonda lacuna del nostro sistema legislativo. Io non affermo che nello statuto fondamentale dello Stato si debbano indicare le norme con le quali la legge debba cessare dal creare dei monopoli, perché cadremmo nel vizio del legiferare senza adeguata meditazione. Affermo soltanto che è necessario che nella Costituzione sia stabilito il principio che la legge non deve creare i monopoli.

Purtroppo da noi la legge ha creato e sta creando monopoli. Li crea quando stabilisce un sistema di brevetti così congegnato da non attribuire soltanto il dovuto premio agli inventori, ma da non consentire alla collettività di utilizzare per un periodo di tempo indefinito e troppo lungo le invenzioni. Crea i monopoli, in quanto rende possibile la esistenza non solo delle società anonime che sono uno strumento utile, ma ne consente la degenerazione, quando esse si svolgono a catena. La legge, stabilendo limitazioni ai nuovi impianti industriali, crea monopoli a favore degli stabilimenti già esistenti. La legge, decretando protezione doganale, la quale non sia strettamente limitata nel tempo – e quasi nessuna protezione doganale è limitata nel tempo – crea i monopoli di coloro che non hanno più timore della concorrenza straniera, e sono liberi di taglieggiare congruamente i consumatori.

Noi dobbiamo perciò stabilire, per lo meno, il principio che la legge non debba essere essa stessa a creare dei monopoli. Quando poi i monopoli esistono, indipendentemente dall’opera della legge, noi dobbiamo chiedere che siano soppressi ed eliminati; quando esistono, noi dobbiamo affermare, in generale, che opportuni metodi siano adottati per controllare i monopoli medesimi.

Non è necessario che nella Costituzione siano stabilite le modalità precise del controllo. Nell’emendamento, dopo aver detto che la legge non è strumento di formazione di monopoli economici, si aggiunge che, ove questi esistano, essa li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazioni pubbliche delegate o dirette.

I mezzi per controllare i monopoli sono infiniti e vari. Non dobbiamo adesso stabilire quali devono essere, ma dobbiamo dire che vi debbono essere mezzi per controllare i monopoli. Il controllo deve effettuarsi sempre per via di una amministrazione pubblica ma il compito può essere anche delegato. Esempi numerosi ed antichi di delegazione si possono citare. Tutti i consorzi dei porti italiani non sono forse delegazioni a speciali enti pubblici per controllare una gestione che, se lasciata ai privati senza limiti, darebbe luogo al monopolio dell’esercizio di un determinato porto? Il legislatore italiano ha sottoposto alcuni principali porti a controllo unitario, ossia, secondo un piano o programma od ordinamento (quante parole per esprimere il medesimo concetto!), fin da un mezzo secolo, e l’esempio può essere continuato ed allargato. Quando noi abbiamo stabilito che l’istituto di emissione sia un ente pubblico e non vi debbano essere più azionisti privati, ma soltanto partecipanti pubblici, quando abbiamo detto che i dirigenti degli istituti di emissione devono essere nominati e graditi dal Governo, non abbiamo forse noi creato un’amministrazione pubblica e sottoposta al controllo da parte dello Stato?

Quando si creano dei consorzi di irrigazione, quando si regolano le casse di risparmio, in fin dei conti, noi costituiamo amministrazioni pubbliche delegate dallo Stato ad esercitare una funzione alla quale per il suo carattere eventualmente monopolistico o per altre ragioni noi attribuiamo carattere pubblicistico.

Può darsi sia conveniente usare anche altre forme e le abbiamo usate anche in Italia. Vi sono società anonime, il cui azionista, l’unico azionista, è lo Stato. Talvolta, lo Stato è solo un azionista preponderante. Che male c’è? Se ci sono delle brave persone le quali affidano il proprio capitale allo Stato sotto forma di sottoscrizione alle azioni di una società anonima e lasciano che lo Stato, che ha il pacchetto della maggioranza, regoli i criteri dell’amministrazione, distribuisca o non dividendi, abbiamo creato, con un costo bassissimo per lo Stato, una collaborazione, non certo dannosa alla cosa pubblica, fra risparmiatori privati e lo Stato.

Nella Costituzione non deve certamente essere affermato debba darsi la prevalenza all’uno o all’altro sistema concreto; può anche darsi si passi da un sistema all’altro. Le circostanze di ogni momento ed industria monopolistica consiglieranno la soluzione più opportuna.

In Italia il monopolio delle ferrovie, il monopolio che sino adesso è stato il più importante e perfetto che esistesse – ora non è più perfetto, perché contro il monopolio dei trasporti da parte delle ferrovie sono sorti i trasportatori privati con autocarri e automobili – ha dato luogo ai sistemi più diversi: dall’esercizio di Stato puro, siamo passati nel 1886 ad un sistema misto di tre società delegate private. Nel 1906 siamo tornati all’esercizio di un’amministrazione autonoma statale. Oggi siamo praticamente in regime d’amministrazione diretta di Stato delle ferrovie. I metodi di esercizio delle imprese monopolistiche pubbliche sono infiniti. Forse, fra i diversi metodi, quello dell’amministrazione delegata a un ente pubblico è preferibile a quello dell’amministrazione diretta. Ma in questa sede non dobbiamo dare soluzioni concrete; dobbiamo soltanto affermare il principio fondamentale che la legge non deve creare monopoli e quando questi monopoli esistono, essi devono essere controllati per via d’una amministrazione pubblica o privata. La mia aggiunta coincide con le norme che sono state proposte da altre parti dell’Assemblea. Specifico però e indico quale è in realtà il male fondamentale, la causa dei mali sociali odierni. Ove non ci si rendesse conto dell’importanza del problema noi mancheremmo al nostro dovere che è di combattere il fondamentale fra i mali sociali.

PRESIDENTE. Pongo in votazione i primi due commi dell’emendamento Arata-Taviani:

«L’iniziativa economica privata è libera».

«Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana».

(Sono approvati).

Passiamo alla votazione del terzo comma. Poiché l’onorevole Corbino ha proposto di sopprimere le parole: «ed i controlli» devo porre in votazione il comma nel seguente testo:

«La legge determina i programmi opportuni perché l’attività economica privata e pubblica possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. La votazione del testo senza la frase che l’onorevole Corbino propone di sopprimere mette in imbarazzo chi, come me, vorrebbe votare contro il testo, ma che, subordinatamente, voterebbe a favore dell’emendamento soppressivo dell’onorevole Corbino. Credo quindi che bisognerebbe porre in votazione la sola soppressione.

PRESIDENTE. Poiché ella è contrario al terzo comma, potrà votare contro le due formulazioni, sia con la soppressione Corbino, sia nel testo integrale.

LUCIFERO. Non insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il terzo comma emendato dall’onorevole Corbino.

(Non è approvato).

Pongo ai voti la formulazione concordata Arata-Taviani:

«La legge determina i programmi ed i controlli opportuni perché l’attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

(È approvata).

Passiamo alla votazione del comma aggiuntivo presentato dall’onorevole Einaudi:

«La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta».

CORTESE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORTESE. Avevo presentato e svolto il seguente emendamento aggiuntivo all’articolo 39, emendamento che voleva, appunto, orientare il legislatore futuro ad una legislazione antiprotezionista:

«La legge regola l’esercizio dell’attività economica al fine di tutelare gli interessi e la libertà del consumatore».

Aderisco, ora, all’emendamento Einaudi, ritirando il mio.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Devo dire rapidamente le ragioni per le quali, pur apprezzando l’emendamento presentato dall’onorevole Einaudi, non siamo favorevoli ad accoglierlo.

L’onorevole Einaudi ha qui, con un’interessante esposizione contro il monopolio, ribadito concetti che ha sempre sostenuto con grande nobiltà e dignità scientifica. Il suo atteggiamento contro il monopolio risponde ad una concezione profondamente liberale; ma non presuppone l’ipotesi di una libera concorrenza, che spontaneamente ed automaticamente divide ogni monopolio. Su quest’ipotesi è sorta – due secoli fa – la scienza allora nuova dell’economia politica. Tutta una fase del pensiero scientifico, in economia, riteneva che bastasse la libertà e la concorrenza, perché l’optimum si verificasse e non vi fossero monopoli. Si è constatato invece che questo non avviene; che la libera concorrenza fa sorgere deviazioni, approfìttamenti, monopoli, ed allora la corrente liberale o neoliberista, di cui l’onorevole Einaudi è autorevole campione, vuole che, per combattere il monopolio, si restauri la libera concorrenza, una libera concorrenza che sarebbe non dirò artificiale, ma non spontanea e naturale. Occorrono interventi dello Stato per ristabilire e mantenere la libera economia di mercato: ed io ho avuto occasione, poco fa, di accennare che in alcuni casi si richiederebbero interventi, a fine di libertà, macchinosi come gli interventi che spaventano i liberisti.

È una posizione legittima, ma non così semplice… Dopo aver premesso questo rilievo, con tutta riverenza per un maestro come l’onorevole Einaudi, osservo che la direzione al suo emendamento è molto accentuata, e può giungere appunto alle ingerenze che ho ricordato. Dice da un lato: «La legge non è strumento di formazione di monopoli economici»; ma non sembra probabile che una legge dichiari apertamente che vuol introdurre un monopolio a favore di privati; e non è facile colpire se lo fa indirettamente o nascostamente. L’emendamento sottopone poi a pubblico controllo i monopoli a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta. Ed è qui che si dispiega la macchina antiliberista dei controlli. Controlli di squisita essenza interventista, con uffici, organi, burocrazia di vigilanza.

Vi è infine un’altra osservazione che mi parrebbe decisiva. Il nostro progetto di Costituzione consente già armi sufficienti contro il monopolio. Nell’articolo che ora abbiamo votato, che ammette il coordinamento ed i controlli a fini sociali vi è la facoltà di impedire la formazione dei monopoli. Nell’articolo 40 si prevede che quando si sono formati i monopoli, si può intervenire per nazionalizzarli. Lo scopo dell’onorevole Einaudi può essere raggiunto senza una formula, che presuppone una concezione economica discutibile. Ad ogni modo, lo ripeto, c’è già nella Costituzione quanto basta per combattere i monopoli.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Noi siamo profondamente sensibili alla esigenza di aggredire il monopolio. Pensiamo che l’esistenza di monopoli, naturali o volontari, sia il maggiore ostacolo perché la democrazia economica irrompa negli schemi della democrazia politica.

Ma, ciò premesso, dobbiamo osservare, dopo le considerazioni del professore Einaudi, che il problema dei monopoli, materia centrale della Costituzione in sede sociale ed economica, risulta affrontato di proposito nell’articola 40, dove il sistema monopolistico, oggi in fatto operante, è affrontato sotto più aspetti ai fini della trasformazione dell’impresa monopolistica in impresa socializzata. Cosicché, si arriva quivi alla ipotesi estrema: l’avocazione, in forza della quale il monopolio privato passa allo Stato o alla collettività. Resta l’ipotesi minore, laddove eventualmente non si possa giungere alla tesi della trasformazione dell’impresa monopolistica privata in impresa socializzata pubblica.

Ora, per tale caso, opera pienamente l’articolo che abbiamo testé votato, il quale contempla la possibilità o la necessità dei controlli nei confronti di ogni formazione non rispondente ad utilità sociale, fra le quali in primo luogo sono da considerare quelle monopolistiche. Posto tale spirito di tutta la Carta costituzionale, la quale affronta il problema dei privilegi e dei monopoli giungendo sino alla loro socializzazione, appare evidente che resta così assorbita anche la prima parte dell’emendamento Einaudi, laddove si vorrebbe espressamente che la legge non possa creare sistemi monopolistici: a fortiori questa eventualità sarà normalmente preclusa, una volta che la Costituzione già si cura, nei confronti di quelli esistenti, di arrivare al loro controllo o addirittura alla loro soppressione.

Per tutto ciò noi, pur comprendendo e condividendo lo spirito al quale si informa l’emendamento Einaudi, siamo formalmente contrari al suo accoglimento, ritenendo che i criteri da esso espressi siano esplicitamente od implicitamente contenuti nello schema delle disposizioni votate o votande. (Approvazioni al centro).

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Volevo osservare soltanto che la configurazione storica che è stata posta innanzi dal Presidente della Commissione, che la concorrenza crei i monopoli, è una configurazione non conforme ai fatti. (Interruzione dell’onorevole Ruini).

Non occorre fare in questo momento valutazioni intorno all’importanza storica relativa delle varie cause dei monopoli. La importanza relativa dei monopoli creati dalla legge è minore di quella dei monopoli sorti da altre cause? Lasciamo la soluzione del problema storico agli storici dell’economia. Affermo soltanto che, laddove il monopolio è creato dalla legge, si debbono stabilire norme che facciano sì che l’indirizzo del legislatore sia quello di non creare nuovi monopoli. Quando poi i monopoli sono nati, bisogna affermare il diritto dello Stato ad esercitare controlli sui monopoli medesimi. L’inclusione, nell’articolo 40, della norma che i monopoli saranno nazionalizzati, non è sufficiente ed è simile, ripeto, a quella norma che stabilisse che il custode della pubblica sicurezza si faccia lui svaligiatore dei viandanti in luogo dei delinquenti. Se non vogliamo rendere lo Stato complice dei monopolisti, noi dobbiamo stabilire il principio che la legge non debba creare monopoli, e se questi sono creati, debba sottoporli a pubblici controlli. Se noi non stabiliremo questo principio fondamentale, noi non avremo adempiuto in questa materia al nostro ufficio essenziale.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il comma aggiuntivo proposto dall’onorevole Einaudi:

«La legge non è strumento di formazione di monopoli economici; ed ove questi esistano li sottopone a pubblico controllo a mezzo di amministrazione pubblica delegata o diretta».

(Non è approvato).

L’articolo 37 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«L’iniziativa economica privata è libera.

«Non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recar danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana.

«La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica, privata e pubblica, possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali».

Passiamo all’articolo 38:

«La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati.

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

«Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittimi e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità.

«La legge autorizza, per motivi d’interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo».

L’onorevole Bruni ha già svolto il seguente emendamento:

Sostituire gli articolo 38, 39, 40, 41, 42 e 43 coi tre seguenti:

I.

«II diritto di proprietà dei mezzi di produzione è esclusivamente esercitato dalla comunità nazionale, attraverso le sue strutture di democrazia decentrata e qualificata, e subordinatamente agli interessi della comunità internazionale.

«Lo Stato e gli altri Enti pubblici rientrano in questo esercizio limitatamente alla loro funzione di difesa e di coordinamento del bene comune».

II.

«I lavoratori di un determinato ciclo produttivo acquistano il diritto di gestire la loro azienda. A seconda dei settori economici esso viene esercitato col concorso, più o meno diretto, dello Stato, delle Regioni, dei Municipi, dei Sindacati o di altri Enti più direttamente interessati.

«Nell’ambito del bene comune le piccole gestioni a tipo individuale e familiare potranno assumere carattere vitalizio con diritto di successione».

III.

«La proprietà dei beni d’uso è assicurata dalla Repubblica a tutti i lavoratori, proporzionalmente alla quantità e qualità del lavoro di ciascuno, e con riguardo delle persone a carico».

L’onorevole Colitto ha già svolto il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La proprietà privata è garantita entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi che l’ordinamento giuridico stabilisce anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Può essere espropriata per motivi di interesse generale, dichiarati con legge, contro indennizzo».

L’onorevole Marina ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La proprietà è pubblica o privata.

«La legge autorizza, per motivi di interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata, salvo l’indennizzo».

Ha facoltà di svolgerlo.

MARINA. Il mio l’emendamento ha lo scopo di rendere più raccolto l’articolo 38 anche in relazione a quanto si è fatto per l’articolo 37, che riassume quanto è detto nell’articolo 39.

Dice l’articolo 38, nella seconda parte del primo comma, che «I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati». Se si ammette, come assioma, che la proprietà è pubblica o privata, a me sembra che sia, in un testo costituzionale, inutile specificare che i beni che costituiscono la sostanza della proprietà appartengano allo Stato, ad enti od a privati, e pertanto questa specificazione, a mio avviso, dovrà trovare posto nella legge che regolerà la proprietà.

È perciò altrettanto pleonastico, anzi oserei dire un rafforzativo inutile, il dire che la proprietà privata è riconosciuta e garantita, perché ammesso nella Costituzione che la proprietà, oltre che pubblica, è anche privata, è ovvio che questa sia riconosciuta e garantita.

Pare al proponente semplicemente assurdo il pensare che se si ammette la proprietà privata questa abbia ad essere garantita. Dire successivamente che la legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti, è pure inutile. Che la legge, parlando di proprietà privata, abbia a determinarne i modi di acquisto e di godimento, mi sembra ovvio, perché la legge non può non fare oggetto dell’esame e della specificazione di questi modi per cui il privato acquisisce e può godere questa proprietà.

Ma dove l’articolo in esame pone il principio del limite e della funzione sociale, per renderla accessibile a tutti, occorre fare alcune considerazioni. Si è detto, approvando l’articolo 37, quali dovrebbero essere le funzioni della proprietà privata. Ripeterlo nell’articolo 38 mi sembra pleonastico. Circa i limiti, quali possono essere? Essi possono essere di grandezza massima e di grandezza minima. Per la grandezza massima, a me pare che, poiché l’articolo 38 dice che «la legge autorizza, per motivi di interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo», una volta che il limite di grandezza sia tale per cui si abbia un danno alla collettività, si possa adoperare l’arma dell’espropriazione per limitare questa grandezza di proprietà. I limiti minimi possono essere, ad esempio, quelli della proprietà terriera, la quale può essere polverizzata da limiti troppo ristretti. D’altra parte, come possiamo noi stabilire oggi un limite alla proprietà terriera se questa proprietà non è operante, essendo troppo ristretta? Ecco perché col mio emendamento tolgo l’espressione: «i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti» perché l’espressione è troppo vaga.

Anche l’espressione: «Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità» mi sembra pleonastica, perché sarà la legge che dovrà stabilire norme al riguardo.

PRESIDENTE. L’onorevole Perlingieri ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati.

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge regola i modi di acquisto e l’esercizio del diritto in conformità alla sua funzione sociale ed allo scopo di favorirne la diffusione.

«La legge regola altresì la successione legittima e testamentaria.

«La legge autorizza, per motivi di interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata contro giusto indennizzo».

Ha facoltà di svolgerlo.

PERLINGIERI. Poche considerazioni, in forma breve. Sul primo comma: è quello del testo e non c’è nulla da aggiungere. C’è una proposta soppressiva dell’onorevole Mortati, alla quale io potrei prestare in anticipo la mia adesione, ma faccio considerare che noi abbiamo fino ad oggi scritto una Costituzione, che – sia detto senza irriverenza – è una specie di Divina Commedia alla quale «han posto mano e cielo e terra», e quindi nessuna difficoltà che venga inserita nel testo una dichiarazione che non è meno significativa di altre precedenti dichiarazioni inserite.

Sul secondo comma: questo è stato da me considerato in maniera particolare.

Dice il testo; «La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti». Si pone così una relazione fra la legge e la proprietà, nel mentre deve porsi fra la legge (ius agendi) e il diritto di proprietà (facultas agendi).

Giacché, se è vero che il «diritto di proprietà» è il diritto per eccellenza, assoluto, e, come tale, finisce per identificarsi con la cosa, è pur vero, sul terreno giuridico, sul quale noi muoviamo, che la «proprietà» non è altro che una relazione, che intercede fra la persona e la cosa, ossia un rapporto giuridico espresso esattamente dal termine «diritto». Ecco perché io propongo di sostituire la dizione del testo: «La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti», con quest’altra: «La legge regola i modi di acquisto e l’esercizio del diritto in conformità alla sua funzione sociale ed allo scopo di favorirne la diffusione».

Seconda osservazione: quando il testo demanda al futuro legislatore il compito di determinare il godimento della proprietà, a mio avviso demanda un compito impossibile, a cui non potrà assolversi.

Perché, se c’è un diritto il cui contenuto è indeterminato e indeterminabile, questo è appunto il diritto di proprietà; il quale per la sua caratteristica di «elasticità» può ridursi alla espressione minima, se compresso, ed espandersi nuovamente allo stato primiero di assolutezza, cessata la causa della compressione.

La legge, quindi, può statuire quello che il proprietario non può fare, non quello che il proprietario può fare, perché altrimenti si entrerebbe in una casistica innumerevole ed infinita, e come tale impossibile. D’altra parte, anche a voler considerare il contenuto del diritto di proprietà, non è possibile considerare un solo aspetto, ossia soltanto la facoltà di godimento perché attributi del diritto di proprietà sono e la facoltà di godimento ed il potere di disposizione. E poiché la legge tutela non soltanto la possibilità in astratto di godere e di disporre della cosa, ma anche l’effettivo godimento e l’effettiva possibilità di disposizione della cosa, nel che si concreta l’esercizio del diritto, a me pare che la dizione più esatta ed appropriata che prescinde anche da qualsiasi definizione del diritto di proprietà (che le fonti romane si guardarono bene dal tramandarci) sia quella da me proposta, nel senso che si debba sostituire alla dizione: «La legge determina i modi di acquisto, di godimento, ecc.» l’altra: «La legge regola i modi di acquisto e l’esercizio del diritto, ecc.».

Potrebbe preoccupare qualche collega la soppressione del termine «i limiti» racchiuso nel testo del progetto. È soppresso il termine, ma resta la sostanza.

I limiti sono impliciti: quando si parla di regolamento è implicita la limitazione. Infatti la legge regola l’esercizio concorrente del diritto, ponendo limiti e nell’interesse privato e nell’interesse pubblico. Altro limite si desume dalla funzione sociale che noi conferiamo al diritto di proprietà. La funzione sociale rappresenta appunto il limite estremo di applicabilità della tutela giuridica. Infatti, se il diritto viene esercitato in maniera antisociale, non riceve più tutela giuridica. Esistono dunque limiti che agiscono sulla sfera esterna del diritto e limiti inerenti al suo intimo contenuto. Nessuna preoccupazione dunque può derivare dalla soppressione della parola «limiti». A me pare inoltre che non si possa far luogo ad osservazioni di altro genere sulla parola «limiti». L’articolo 38 contempla infatti la proprietà in genere, mobiliare e immobiliare, e non può quindi trattarsi, puramente e semplicemente, che di limiti giuridici. I limiti di estensione alla proprietà terriera sono posti dal progetto all’articolo 41 e di essi sarà discusso nella sede opportuna.

Un’altra osservazione debbo fare a proposito di questo secondo comma. Nella formulazione del testo della Commissione troviamo affermato lo scopo di rendere la proprietà accessibile a tutti. Ora, a me pare che questa affermazione, in sostanza accettabile, sia troppo generosa e irreale. «La proprietà a tutti», «tutti proprietari» è uno slogan che non ritengo realizzabile.

E pertanto, pur accettando lo spirito del testo, vorrei adottare la formula più realistica: «allo scopo di favorirne la diffusione».

Sul terzo comma. Dice il testo:

«Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità».

Anche qui, nel mio emendamento, è soppressa la parola «limiti», ma anche qui sarebbe infondata qualsiasi preoccupazione di carattere sociale, essendo sempre nel campo giuridico. Valgono le considerazioni precedenti. Se la legge regola la successione, nel regolamento della legge è implicita la limitazione.

L’altra soppressione che ha luogo nella formulazione da me proposta riguarda l’espressione «e i diritti dello Stato sulle eredità». Che cosa significa questa espressione? Se la legge regola la successione legittima e testamentaria, è ovvio che essa la regolerà nei rapporti di tutti i soggetti aventi diritto alla successione e quindi anche del soggetto Stato.

Già dalla nostra legislazione vigente è riconosciuto allo Stato il diritto alla successione dopo un certo grado; nessuna preoccupazione quindi di tale genere.

Ma, se per diritti dello Stato sull’eredità si dovesse intendere il diritto da parte dello Stato di compiere un prelievo in natura sull’eredità, io debbo dichiarare francamente e chiaramente il mio aperto dissenso. Le conseguenze di una tale ingerenza dello Stato sarebbero infatti incalcolabili nel campo economico, in quanto le eredità, nel loro complesso omogeneo ed unitario, verrebbero ad essere frazionate, a tutto danno dell’economia.

Quale necessità avrebbe, d’altra parte, questo intervento? Lo Stato può intervenire altrimenti sul valore dell’eredità; attraverso l’imposta successoria, proporzionale o progressiva, con la quale si compie ugualmente un prelievo, sia pure non in natura, ma in denaro. E di denaro è il comune denominatore dei valori, è l’equivalente del bene, nel quale ogni bene si può commutare. Se quindi questa frase dovesse intendersi in tal senso, io manifesto apertamente il mio dissenso e la mia preoccupazione per le conseguenze economiche a cui una simile affermazione potrebbe condurre. Questa è la ragione del mio emendamento soppressivo del comma.

Ultimo comma:

«La legge autorizza, per motivi d’interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo», dice il testo. Io vorrei aggiungere e modificare: «contro giusto indennizzo». Faccio in proposito pochissime considerazioni. Leggendo i verbali della Commissione ho rilevato che si è proposto di abolire la parola «giusto», in quanto la proprietà dovrebbe essere indennizzata con moneta riportata al suo valore prebellico. Il che significherebbe che se si dovesse espropriare un bene del valore di 50 mila lire prebelliche, e attuale di un milione, l’indennizzo sarebbe determinato sulla base di 50 mila lire e non di un milione. In questo caso, potremmo dire più lealmente che la proprietà verrebbe espropriata senza indennizzo. Siamo sinceri! Se questa poi non fosse la ragione della proposta, è evidente che l’indennizzo deve essere commisurato al valore attuale del bene; al momento cioè in cui si compie il trasferimento coattivo, in cui si determina la stima, si fa cioè la commisurazione in denaro. Questa è la ragione del mio emendamento.

Se, d’altra parte, la Commissione potesse rassicurarmi che la soppressione della parola «giusto» non è dovuta alle considerazioni suesposte, ricavate dalla lettura dei verbali della Commissione stessa, non avrei nessuna difficoltà a ritirare l’emendamento.

Non ho altro da aggiungere. (Approvazioni al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Mortati ha proposto di sopprimere il primo comma. Non essendo presente, si intende che abbia rinunciato a svolgere il suo emendamento.

La stessa proposta è stata fatta dall’onorevole Mazzei, che, non essendo presente, s’intende abbia rinunciato a svolgerla.

Gli onorevoli Nobili Tito Oro e Tega hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La proprietà è pubblica, privata e di uso civico. (Diritti e usi civici, demani popolari, ademprivi, vagantivi, ecc.)».

Gli onorevoli Nobili Tito Oro e Tega hanno dichiarato di mantenere il loro emendamento, ma di rinunciare a svolgerlo.

Seguono gli emendamenti degli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, Costantini, De Michelis, Merlin Lina, Merighi:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«I beni economici possono essere di proprietà privata o collettiva».

«Al secondò comma sostituire la parola: garantita, con la parola: tutelata».

«Sostituire il terzo e quarto comma col seguente:

«Le successioni legittime e testamentarie e le espropriazioni per motivi di interesse generale sono regolate per legge».

L’onorevole Barbareschi ha dichiarato di ritirarli.

Gli onorevoli Corbino, Quintieri Quinto, Perrone Capano, Condorelli, Lucifero, Bonino hanno presentato i seguenti emendamenti:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«I beni economici appartengono allo Stato, ad enti ed a privati».

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto e ne regola i limiti dì godimento e di uso, anche allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla più facilmente accessibile a tutti».

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«La legge stabilisce le norme della successione legittima e testamentaria».

«Fare del quarto comma un articolo a sé».

L’onorevole Corbino ha facoltà di svolgerli.

CORBINO. Illustrerò molto brevemente gli emendamenti da me presentati congiuntamente ad altri onorevoli colleghi.

Il concetto del primo emendamento è in sostanza quello di sopprimere il primo periodo del primo comma, in cui viene data la classificazione della proprietà, in quanto dice che la proprietà è pubblica o privata. A mio avviso, è inutile un’affermazione di questo genere.

Il secondo ha un contenuto un po’ più importante, perché con esso si tende a spostare il significato della parola «limiti» che nel testo proposto dalla Commissione si vorrebbe riferire allo scopo di assicurare la funzione sociale della proprietà privata, mentre noi proporremmo che i limiti si riferissero al diritto di godimento e di uso oltre che allo scopo.

Il terzo concorda quasi con quello dell’onorevole Perlingieri, in quanto propone la soppressione della parte che concerne il diritto dello Stato, rimettendosi alla legge.

Col quarto emendamento, che concerne il quarto comma dell’articolo, per l’espropriazione per pubblica utilità, si propone di farne un articolo separato. Infatti è questa una materia così complessa che dovrebbe formare, a mio giudizio, un articolo a sé: si tratta quindi di un problema di collocamento.

Il fine animatore dei tre emendamenti è quello di togliere dalla Costituzione tutto ciò che può influire decisamente sulla formazione del risparmio come effetto di una situazione psicologica del risparmiatore. Non si tratta di risolvere qui il problema più generale dei limiti della proprietà privata, ma di affrontare invece il problema dell’interesse che ha la società a non ostacolare la formazione del risparmio. Evidentemente poi diventa un problema di tecnica finanziaria la scelta del punto in cui l’interesse privato si armonizza con l’interesse generale in materia di imposizione di tributi.

PRESIDENTE. L’onorevole Bibolotti ha facoltà di svolgere il suo emendamento, che è del seguente tenore:

«La proprietà è pubblica, cooperativa e privata. I beni economici possono appartenere allo Stato e agli Enti pubblici, alle cooperative, ai privati individualmente o collettivamente».

BIBOLOTTI. Onorevoli colleghi, noi stiamo prendendo in esame in sede costituzionale il problema dei vari tipi di proprietà.

Permettete che io mi soffermi un po’ e che richiami la vostra attenzione su un tipo di proprietà che nella situazione di fatto già da vari decenni è una realtà che nessuno contesta. Tuttavia è nei nostri occhi ancora, è nelle nostre menti il ricordo dell’accanimento col quale le prime azioni dello squadrismo fascista si abbatterono contro la proprietà cooperativa. Noi ricordiamo che le prime azioni di violenza, di saccheggio contro le istituzioni dei lavoratori presero come bersaglio precisamente le cooperative dei lavoratori, vale a dire un tipo di proprietà che era il frutto del risparmio, dell’iniziativa e dello spirito solidaristico dei mutualisti italiani, di quei mutualisti e cooperatori che inseguendo un loro sogno ideale avevano creduto che nell’Italia dei primi decenni di questo secolo fosse possibile avviarci verso una forma superiore di convivenza civile creando spontaneamente e con il loro sacrificio le istituzioni cooperative. Quella proprietà trovava la sua consacrazione giuridica in una legislazione ancora imprecisa ed imperfetta. Ma nessuno pensava allora di contrastare ai lavoratori italiani, operai, contadini, impiegati ed artigiani, questa magnifica realizzazione che faceva, ad esempio, di Torino, la culla della mutualità italiana, la culla dell’Alleanza Cooperativa Torinese; un fortilizio di emancipazione dei lavoratori. Vi erano grandi edifici, stabilimenti destinati alla produzione dei generi di consumo, dai medicinali al pastificio, al panificio, al laboratorio enologico. E poi ancora le cooperative della Venezia Giulia, le grandi cooperative operaie di Trieste e del Friuli, le grandi realizzazioni del molinellese, le grandi realizzazioni del reggiano! Tutta l’Italia al lavoro sulla via della cooperazione aveva quindi creato una realtà, la realtà di un tipo nuovo di proprietà, di una proprietà collettiva sui generis ma di una proprietà indivisibile, di una proprietà che i cooperatori classici affermavano essere ormai un patrimonio indivisibile di tutti i lavoratori ed artigiani. Era la consacrazione di un principio cooperativistico che anche in quest’Aula aveva avuto i suoi pionieri e i suoi assertori di grande valore: cito fra tutti il nome di Luigi Luzzatti. I cooperatori italiani videro allora abbattersi sui loro fortilizi e sulle loro istituzioni la furia fascista. Il fascismo divenuto Governo non lasciò la preda. Distrusse la cooperativa trasformandola in società anonima, in associazione puramente commerciale, dedita soltanto a fini di speculazione. Ora noi assistiamo al pullulare di molte iniziative nel campo della cooperazione. Purtroppo in questo campo – come da altri è stato posto in rilievo – si fa del nome cooperativa e cooperazione un uso indebito ed oggi possiamo affermare esservi una cattiva stampa sul nome della cooperazione e dei cooperatori, ma i veri cooperatori, quelli che videro appunto distrutte le loro organizzazioni nel 1920 e nel 1921, affermano la loro volontà di ridar vita a quelle libere istituzioni che segnano un notevole apprezzabile progresso nella via del lavoro sociale e nella via del lavoro cooperativo. È quindi, onorevoli colleghi, direi quasi una giustizia che noi rendiamo ai lavoratori italiani consacrando in un articolo della Costituzione come tipo di proprietà la proprietà cooperativa. Quando si discuterà l’articolo sulle funzioni delle cooperative, noi troveremo modo, onorevoli colleghi, e speriamo con largo consenso, di ben definire e precisare le funzioni della cooperativa e le sue attribuzioni. Ma intanto io invoco da parte dei colleghi di accettare questa nostra formulazione che vuole essere appunto la codificazione e la consacrazione in un articolo costituzionale di una realtà incontestabile e su scala nazionale e su scala internazionale. Questa proprietà cooperativistica che oggi risorge, che oggi deve avere restituiti i beni che le vennero violentemente e fraudolentemente sottratti dal fascismo, è una realtà che deve trovare la sua consacrazione in questo articolo e nell’emendamento che io presento alla vostra approvazione.

Io non mi diffondo di più perché so che in questa Aula vi sono molti amici della cooperazione in quanto il problema va al di là dei diversi settori e dei diversi partiti e penso quindi che questo emendamento, anche se patrocinato da questi banchi e da un deputato comunista, debba essere accolto come espressione di una volontà e di una aspirazione di tutti i lavoratori italiani che vedono nella cooperazione uno strumento della loro emancipazione e che vedono nella proprietà cooperativa una forma più avanzata della proprietà così come l’abbiamo conosciuta fino ad oggi. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Dominedò e Moro:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«I beni economici appartengono allo Stato, ad istituzioni, a privati».

L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgerlo.

DOMINEDÒ. Onorevoli colleghi, il mio emendamento concerne il primo comma dell’articolo, a proposito del quale ha già parlato l’onorevole Bibolotti, sottolineando l’opportunità che tra la proprietà privata e pubblica sia fatta menzione della proprietà cooperativa.

Ed in realtà, io ricordo dai lavori della terza Sottocommissione che nella stesura originale del progetto si contemplava appunto questo trinomio: proprietà privata, proprietà cooperativa, proprietà pubblica. In tal caso l’articolo avrebbe avuto un senso specifico, poiché la mera menzione «proprietà privata e pubblica» non pare la più confacente ad un testo costituzionale. Dice poco concretamente, quando rivanghi una distinzione secolare che ci viene dal diritto civile e romano; dice troppo genericamente, quando pretenda esprimere qualche cosa di nuovo.

Tuttavia, secondo me, oggi la proprietà cooperativa non è ancora raffigurabile giuridicamente come un vero e proprio «tertium genus», rispetto alle figure tradizionali di proprietà. Io penserei che la sede più opportuna per venire incontro a tali esigenze, giuridiche, sociali e politiche, sia quella dell’apposita disciplina del fenomeno della cooperazione: mi pare l’articolo 43. Se là si credesse di inserire un inciso, nel quale si parlasse dei caratteri e della struttura della proprietà cooperativa, domani raffigurabile come nuova figura di proprietà collettiva, la norma sarebbe costituzionalmente più appropriata e più aderente alle esigenze così della realtà speciale come della sistematica generale.

È questo il motivo per cui si propone di depennare dal progetto la prima parte del comma. Con il duplice vantaggio di eliminare ogni definizione, che in sede costituzionale mal si addice, e di superare l’ulteriore obiezione per cui, posta una menzione della proprietà privata e pubblica nel primo comma, non si spiegherebbe, o mal si spiegherebbe, come poi nel secondo si riconosca e si garantisca solamente la proprietà privata.

Per quanto riguarda la seconda parte del comma, siamo dinanzi ad una formulazione casistica e descrittiva che lascia perplessi: «i beni economici appartengono allo Stato, agli enti o ai privati». A tacere che gli enti possono essere anche privati e che i privati possono essere anche enti, come è dimostrato da tutta la gamma degli enti oggi concepibili, converrebbe forse adottare una terminologia più significativa. E si potrebbe scegliere fra due vie: o rinunciare del tutto alla prima parte del comma, ovvero sostituire all’espressione «enti» una formula che possa rappresentare un punto di partenza per l’evoluzione giuridica e politica della materia.

Se allora si parlasse di «istituzioni» anziché di enti, si otterrebbe il risultato di contemplare, dal punto di vista giuridico, ogni organizzazione sociale che abbia carattere superindividuale, costituendo una sfera a sé di diritto obiettivo. La dottrina della pluralità dell’ordinamento giuridico si ricollega infatti, col Romano, al concetto di istituzione.

Inoltre, dal punto di vista economico, se si consideri la forza espansiva dello stesso concetto di «istituzione», recentemente estesa dal Greco anche alla nozione di impresa, potremmo, sotto tale profilo, venire incontro alle nuove esigenze, ritenendo implicitamente inclusa nella menzione costituzionale la stessa ipotesi della impresa cooperativa. Ammessa la riconducibilità dell’impresa al concetto di istituzione, noi inseriremmo nella Costituzione un termine, che potrà essere il fulcro su cui lavorare nel futuro, allo scopo di inquadrare sistematicamente le nuove ipotesi che appare opportuno tener presenti, se si vuole che la nostra Costituzione, pur esprimendo la volontà comune, sia sanamente proiettata nell’avvenire, come da più parti sembra invocarsi.

Queste sono le ragioni ispiratrici dell’emendamento, che qui si sottopone al giudizio dell’Assemblea (Approvazioni al centro).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Gabrieli:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita.

«Essa è accessibile a tutti. La legge ne determina i modi di acquisto e ne assicura il godimento nei limiti compatibili con la sua funzione sociale».

Poiché l’onorevole Gabrieli non è presente, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

Segue l’emendamento degli onorevoli Targetti, De Michelis, Mancini:

«Al secondo comma, sopprimere le parole: «e di renderla accessibile a tutti».

L’onorevole Targetti ha facoltà di svolgerlo.

TARGETTI. Rinunzio all’emendamento.

PRESIDENTE. Seguono gli emendamenti dell’onorevole Perrone Capano:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«La legge stabilisce le norme per la successione legittima e testamentaria».

«Sostituire il quarto comma col seguente:

«La legge autorizza l’espropriazione della proprietà privata per motivi di pubblico interesse, contro giusto indennizzo».

L’onorevole Perrone Capano ha facoltà di svolgerli.

PERRONE CAPANO. Vi rinunzio, associandomi a quelli dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Nobili Tito Oro e Tega:

«Dopo il terzo comma, aggiungere il seguente:

«Ovunque il bisogno delle popolazioni rurali lo richieda, saranno ricostituite, nei modi da stabilire con legge speciale, le soppresse proprietà collettive destinate al soddisfacimento delle più essenziali necessità di vita e di lavoro nei naturali, sotto la disciplina di Dominî collettivi, Università, Comunanze, partecipazioni agrarie, nonché di Cooperative di lavoro ed agricole».

Non essendo presente l’onorevole Nobili, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

L’onorevole Grassi ha proposto di sopprimere il terzo comma.

L’onorevole Grassi ha facoltà di svolgere l’emendamento.

GRASSI. Se l’Assemblea permette io farei una proposta molto semplice: sopprimere il terzo comma dell’articolo 38, il quale si riferisce esclusivamente ad uno dei modi di acquisto della proprietà, ossia alla successione legittima e testamentaria, quella che tecnicamente si dice successione mortis causa. Non mi rendo conto in maniera sufficiente perché la Costituzione debba considerare in forma particolare questo modo di acquisto della proprietà, quando nel comma precedente è detto che la legge determina tutti i modi di acquisto e i limiti, allo scopo di assicurare la funzione sociale della proprietà privata.

Se fra le varie e molteplici forme d’acquisto che il diritto ha regolato e disciplinato nel Codice civile c’entra anche quella della successione mortis causa, bisogna considerare che ce ne entrano anche altre, e siccome la legge stabilirà i modi di acquisto della proprietà in tutte le varie forme, non si comprende la ragione, per la quale dobbiamo fare un precetto particolare per la successione legittima e testamentaria.

In questa forma di trasferimento della proprietà non è considerata un’altra forma, che non è a titolo oneroso, ma a titolo liberale, ma si avvicina nello scopo, ed è la donazione: perché le donazioni e le successioni formano un complesso, per cui in occasione della morte o per contratti tra vivi, vengono trasferiti i beni mobiliari e immobiliari.

Ora, non mi rendo conto della necessità che la Costituzione si occupi soltanto di una parte, ossia soltanto delle successioni legittime e testamentarie e non delle donazioni. Vi fo rilevare che nessuna Costituzione si è occupata di questa questione, all’infuori di due. Una – e questo è logico – la russa che con l’articolo 10 ha disposto che la successione è garantita: ma questa è una conseguenza del sistema economico, in quanto nel sistema economico russo non è consentita la proprietà privata se non nei limiti stabiliti dall’articolo 10. L’articolo 10 della Costituzione russa stabilisce la possibilità di un risparmio individuale in casi limitatissimi ed è logico che si occupi della successione di questo risparmio. Se n’è occupata anche la Costituzione di Weimar, quella Costituzione razionalista a cui spesso facciamo riferimento. Anch’essa si è trovata in una posizione tutta particolare. Ha stabilito di garantire il risparmio in un momento in cui poteva essere dubbio se il risparmio accumulato dall’individuo potesse essere trasferito, e quindi ha voluto affermare questo diritto, che non si sente il bisogno di affermare nelle Costituzioni che hanno come base il rispetto della proprietà privata. E nella Costituzione di Weimar è riconosciuto il diritto di successione, in quanto è affermato con l’articolo 154 il diritto dello Stato ad un prelievo sulle eredità.

L’onorevole Ghidini ha risposto a diverse preoccupazioni che ho visto manifestate da diversi settori dell’Assemblea. Gli emendamenti presentati da altri non sono soppressivi come il mio; essi stabiliscono che la legge deve occuparsi della successione legittima e testamentaria, togliendo la parte che si riferisce ai diritti dello Stato. Ora io dico che è meglio non parlare delle successioni, sopprimendo l’intero comma. Dal momento che l’onorevole Ghidini ha detto che non si intende che il diritto dello Stato consista in un prelievo, ma nel diritto di successione oltre il sesto grado e questo la legge civile prevede, non capisco perché la Costituzione debba parlarne in questa occasione. Né comprendo perché dobbiamo occuparci dei diritti fiscali dello Stato sulle eredità, quando lo Stato interviene in tutti i trasferimenti della proprietà. D’altra parte vi lascio considerare quale pericolo sarebbe se il fisco dovesse diventare coerede nelle successioni; noi faremmo entrare il fisco nei rapporti familiari più stretti. Non vi parlo delle grandi successioni, che sono statisticamente poco numerose, ma delle innumerevoli successioni di modesti patrimoni! Volete fare intervenire il fisco in questi rapporti familiari? Lo Stato si mantenga come terzo, richieda dei prelievi sul valore dell’asse ereditario; ma non come compartecipe: aumenteremmo i dissidi e le divergenze, in occasione delle successioni, e scompagineremmo l’unità della famiglia.

Penso sia molto più semplice sopprimere senz’altro il comma e lasciare al legislatore il compito di regolare le successioni ed i diritti fiscali dello Stato sulle eredità.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione, di esprimere il parere della Commissione per la Costituzione sugli emendamenti presentati all’articolo 38.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. L’onorevole Colitto col suo emendamento propone di sopprimere la prima parte dell’articolo 38. Inoltre l’onorevole Colitto propone:

«La proprietà privata è garantita entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi che l’ordinamento giuridico stabilisce anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale. Può essere espropriata per motivi di interesse generale, dichiarati con legge, contro indennizzo».

L’espressione: «anche allo scopo di assicurarne la funzione sociale» ha uno scopo. Mentre nel testo la funzione sociale della proprietà ha un posto di primo piano ed è l’obiettivo principale, invece stando all’emendamento l’interesse privato appare preminente sopra la funzione sociale. In ciò non siamo d’accordo, perché tutte lo spirito del testo è informato a diverso concetto: che cioè l’interesse sociale è o alla pari o preminente sull’interesse individuale e particolare. L’emendamento dice inoltre: «La proprietà privata è garantita entro i limiti e con l’osservanza degli obblighi che l’ordinamento giuridico stabilisce».

In esso, come in altri di cui dirò dopo, il concetto di limite è riferito agli obblighi che la legge impone, mentre nel testo della Commissione il concetto di limite è riferito alla proprietà. La cosa è profondamente diversa e non è necessario che lo dimostri. Quindi si tratta di una modificazione di carattere sostanziale, in contrasto col concetto informatore del testo accettato, salvo rare eccezioni, dalla Commissione dei settantacinque indipendentemente dai particolari orientamenti politici dei suoi componenti.

Per questa ragione la Commissione è del parere che non debba essere accolto l’emendamento Colitto.

Viene successivamente l’emendamento dell’onorevole Marina: «La proprietà è pubblica o privata». E qui si sopprime l’inciso: «I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti od a privati».

Il che può essere un male o un bene; ma di questo diremo dopo.

«La legge autorizza, per motivi di interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata, salvo l’indennizzo».

L’emendamento non parla di modi di acquisto, né di modi di godimento; ma sopratutto non parla di «limiti», abolendo in tal guisa ciò che l’articolo aveva di caratteristico; abolendo anzi la ragione stessa della sua esistenza. Rimane soltanto l’ultimo inciso, quello che si riferisce alla «espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo per motivi di interesse generale», che lascia immutata la situazione legislativa esistente la quale consente, colla legge del 1865 e successive, l’espropriazione per ragione di pubblica utilità.

Vi è poi un emendamento che per verità precede ma che avevo dimenticato. È l’emendamento sostitutivo degli articoli 38, 39, 40, 41, 42 e 43, presentato dall’onorevole Bruni.

Sono tre articoli costituenti un unico emendamento. Mi limito a leggere solamente il primo:

«Il diritto di proprietà dei mezzi di produzione è esclusivamente esercitato dalla comunità nazionale, attraverso le sue strutture di democrazia decentrata e qualificata, e subordinatamente agli interessi della comunità internazionale».

Ci troviamo di fronte alla proposta di una rivoluzione completa dell’ordinamento economico del nostro Paese. Non è il comunismo statale, che vi si propone, ma il comunismo delle associazioni, il comunismo delle collettività.

Io non voglio dire che il pensiero dell’onorevole Bruni non sia un pensiero elevato e non possa in un domani, più o meno prossimo, diventare una realtà, ma devo dire che noi non abbiamo inteso col progetto di Costituzione di mutare essenzialmente il sistema economico vigente.

Diamo atto che l’attuale è una situazione di transizione, ma non è tale da consentire una rivoluzione così profonda, come questa che egli ha suggerito nel suo emendamento.

È per questa ragione di acronisticità che la Commissione non ritiene di potere accogliere l’emendamento dell’onorevole Bruni.

C’è un emendamento dell’onorevole Perlingieri, del seguente tenore: «La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad Enti od a privati».

E questo lascia intatto il primo comma del testo. L’emendamento continua: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita. «La legge regola»… (invece che «determina», che secondo noi è dizione più esatta) «…i modi di acquisto e l’esercizio del diritto in conformità alla sua funzione sociale ed allo scopo di favorirne la diffusione». Secondo l’onorevole Perlingieri la frase che propone è più propria ed accenna a qualcosa che praticamente si può meglio raggiungere. Io penso che si tratta di una modificazione di carattere formale e ritengo che il testo della Commissione sia migliore anche dal punto di vista letterario. La proposta di Perlingieri è manchevole inoltre perché esclude i «limiti» mentre è proprio questo il punto centrale, caratteristico e innovativo della disposizione. Per questo credo non potersi accogliere l’emendamento. 

«La legge regola altresì la successione legittima e testamentaria». E questo rientra nell’ambito di altri simili emendamenti di cui parleremo dopo. «La legge autorizza, per motivi di interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata contro giusto indennizzo». Abbiamo eliminato l’aggettivo «giusto». C’è stata su questo attributo «giusto», prima in seno alla terza Sottocommissione e dopo in sede di coordinamento e poi di Commissione plenaria, una lunga discussione. Abbiamo eliminato l’aggettivo «giusto» perché il concetto di giusto è implicito nel concetto di indennizzo. Anche la più recente giurisprudenza è di questo avviso: l’indennizzo, perché sia tale, non può essere ingiusto. Siamo d’accordo che la Costituzione non è un telegramma per doversi risparmiare le parole; ma il superfluo lo dobbiamo eliminare.

C’è poi l’emendamento degli onorevoli Mortati e Mazzei che propongono di sopprimere il primo comma. L’onorevole Mortati, mi dice il signor Presidente, non era presente al momento di svolgerlo. Ad ogni modo la Commissione mantiene il testo. Personalmente potrei avere una qualche simpatia per questa soppressione, ma qui non debbo esprimere opinioni personali.

C’è poi un emendamento degli onorevoli Nobili Tito Oro e Tega: sostituire il primo comma col seguente: «La proprietà è pubblica, privata e di uso civico». Osservo che non ci sembra utile l’aggiunta «e di uso civico» perché non si tratta di una specie particolare di proprietà ma di una forma di godimento o di uso della proprietà pubblica. Ritengo cioè che con «il diritto di proprietà pubblica e privata» si esaurisce tutto quello che può essere detto in proposito.

C’è poi un emendamento dell’onorevole Corbino: «I beni economici appartengono allo Stato, ad enti ed a privati», sopprimendo la prima parte del secondo comma. La Commissione mantiene il testo perché ritiene utile l’enunciazione, sia pure di carattere elementare, che la proprietà è pubblica o privata. Non sarà necessaria, ma neppure nuoce, e può giovare in quanto porge un addentellato ai commi che seguono.

Segue l’emendamento dell’onorevole Bibolotti che dice: «La proprietà è pubblica, collettiva e privata».

Nel testo abbiamo detto che la proprietà è pubblica o privata, non «collettiva», perché la parola, dal punto di vista giuridico, ci sembra impropria. Con l’espressione «collettiva» si coglie l’aspetto economico dell’istituto della proprietà, piuttosto che l’aspetto giuridico. E poiché noi facciamo un testo giuridico ci sembra più esatto il dire soltanto che la proprietà è «pubblica o privata».

Dice ancora l’onorevole Bibolotti che «I beni economici possono appartenere allo Stato e agli Enti pubblici, alle cooperative, ai privati individualmente o collettivamente». La dizione proposta non ci sembra tecnicamente esatta. Come giustamente osservava l’onorevole Dominedò, non si può ancora dire che la cooperativa rappresenti un tertium genus nel campo del diritto di proprietà. È bensì un qualche cosa di intermedio fra la proprietà pubblica e quella privata sotto il profilo economico, ma non sotto il profilo giuridico. Indiscutibilmente la cooperativa è di diritto privato. Ad ogni modo, siccome la cooperazione ha una funzione importantissima, tanto importante che noi abbiamo dettato per essa un apposito articolo, vuol dire che potremo tornare allora sull’argomento. Non credo che l’onorevole Bibolotti possa avere ragioni per non aderire a questa proposta. Quindi, la Commissione si riserva di prendere in esame la proposta dell’onorevole Bibolotti, per quanto attiene al diritto di proprietà nei riguardi delle cooperative, quando si discuterà dell’articolo 42.

L’onorevole Gabrieli si è associato all’emendamento dell’onorevole Corbino, che così dice:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto e ne regola i limiti di godimento e di uso, anche allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla più facilmente accessibile a tutti».

Qui ricordo le osservazioni che ho fatto dianzi, a proposito dell’emendamento Colitto. In questi emendamenti il concetto di «limite» è riferito in modo chiaro, espresso e preciso all’uso e al godimento, mentre invece il testo lo riferisce alla proprietà. La cosa è diversa, e noi non possiamo accogliere l’emendamento che è in contrasto con lo spirito del testo come è stato elaborato e approvato dalla Commissione.

Vi è poi l’emendamento Barbareschi, del tenore seguente:

«Al secondo comma sostituire la parola: garantita, con la parola: tutelata».

Osservo che la tutela è qualcosa di più della garanzia. E se di tutela si può parlare nel caso della piccola e media proprietà (come è già detto nell’articolo 41) non ci sembra che sia il caso di parlarne a proposito di quella che eccede i limiti della media. Anche per questa ragione noi manteniamo il testo con la parola «garantita» invece che «tutelata».

L’onorevole Corbino propone di sostituire il terzo comma col seguente:

«La legge stabilisce le norme della successione legittima e testamentaria».

Nello stesso ordine di idee vi è un successivo emendamento a firma dell’onorevole Barbareschi ed altri così formulato:

«Le successioni legittime e testamentarie e le espropriazioni per motivi di interesse generale sono regolate per legge».

Tutti questi emendamenti hanno di comune che parlano di successioni legittime e testamentarie, senza far cenno ai diritti dello Stato.

L’onorevole Grassi a sua volta chiede la soppressione completa del terzo comma.

Io debbo rispondere a tutti che la ritenzione del diritto successorio è stata fatta per volontà e desiderio espresso di coloro che volevano fosse messo l’accento sul diritto di proprietà privata appunto perché tale diritto trova la sua espressione più caratteristica nel diritto successorio.

Ma dove l’opposizione è più generale è per quanto riguarda i diritti dello Stato. A questo riguardo debbo dire che è verissimo che nella legislazione civile attuale, come in quella precedente, il concetto era contemplato in duplice forma: sotto la forma dello Stato legittimario (nel caso che non vi siano parenti sino al 6° grado), come sotto il profilo della tassa di successione (che non è una vera e propria tassa ma è piuttosto un prelievo sul capitale).

Con questa disposizione, che potrebbe apparire ultronea, la Commissione ha voluto lasciare adito alla possibilità di innovazioni anche nel campo del diritto successorio, specialmente per quanto riguarda lo Stato. La Commissione non ignora che vi è una tendenza diretta ad aumentare i diritti dello Stato sulle eredità ed il meno che potevamo fare era di lasciare aperta la strada ad eventuali innovazioni.

Resta ancora l’emendamento degli onorevoli Dominedò e Moro, i quali hanno proposto di sostituire il primo comma col seguente: «I beni economici appartengono allo Stato, ad istituzioni, a privati».

Io ricordo – e lo ricorderanno certamente anche gli onorevoli Dominedò e Moro – che, a proposito della parola «istituzioni», vi è stata una vivace discussione, prima in seno alla prima Sottocommissione e poi in sede di commissione di coordinamento; discussione alla quale ho partecipato io stesso da un lato e colleghi democristiani dall’altro.

Che con la parola «istituzioni» si possa significare tutto quello che ha dianzi spiegato l’onorevole Dominedò, nessun dubbio. Ma le parole non hanno soltanto il significato che si legge nel dizionario; esse hanno anche un significato che si desume dalle intenzioni che animano coloro che le usano.

Qual è infatti lo spirito e lo scopo di questa modificazione? Non vi è bisogno di possedere un particolare spirito di penetrazione per capirlo. Mi basta ricordare le discussioni che avvennero prima davanti alla prima Sottocommissione fra gli onorevoli Moro e Dossetti da un lato e l’onorevole Togliatti dall’altro, e dopo fra me e l’onorevole Dossetti in sede di coordinamento.

Con la parola «istituzioni» si è voluto affermare il diritto di proprietà delle congregazioni religiose. Ci fu chi ha parlato (l’onorevole Togliatti se non m’inganno) di manomorta. Intervenne allora, per placare gli animi, l’onorevole Tupini e dobbiamo a lui se alla parola «istituzioni» fu sostituita la parola «enti».

A me pare insomma che questa parola «istituzioni», secondo lo scopo che si propone l’emendamento, rappresenti una pretesa eccessiva.

Io vorrei pertanto suggerire ai democristiani di abbandonarla. Abbiamo già in questa Carta costituzionale molto che possa soddisfare il loro amor proprio di parte: vorrei dire, anche troppo!

Con questo ho inteso d’esprimere la mia opinione personale, persuaso che sia conforme a quella della maggioranza della Commissione.

PRESIDENTE. Chiederò ai presentatori di emendamenti se, dopo le dichiarazioni della Commissione, intendano mantenerli. L’onorevole Bruni ha presentato un nuovo testo integrale che dovrebbe sostituire sei articoli del testo. Intende mantenere, onorevole Bruni, la sua proposta?

BRUNI. La mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?

COLITTO. Non lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Marina?

MARINA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Perlingieri?

PERLINGIERI. Ritiro il mio emendamento relativo al quarto comma, perché mi dichiaro soddisfatto delle dichiarazioni del Presidente della terza Sottocommissione.

Per quanto riguarda l’emendamento relativo al secondo e al terzo comma, insisto, e ne chiedo la votazione.

PRESIDENTE. Poiché gli onorevoli Mortati e Mazzei non sono presenti, i loro emendamenti si intendono decaduti.

Onorevole Nobili Tito Oro, mantiene i suoi emendamenti?

NOBILI TITO ORO. Li ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, mantiene i suoi emendamenti?

CORBINO. Li mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Bibolotti, mantiene il suo emendamento?

BIBOLOTTI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Dominedò mantiene il suo emendamento?

DOMINEDÒ. Non avrei difficoltà a rinunciare alla formulazione proposta, a patto di tener fermo e di porre nella dovuta evidenza che il concetto ispiratore dell’emendamento non poteva né doveva ricondursi – mi consenta il Presidente Ghidini – a quegli schemi circoscritti e impropri, da lui richiamati con interpretazione affatto personale.

Ciò è comprovato, se occorresse, anche dal fatto che le discussioni sorte nella prima Sottocommissione e nel Comitato di coordinamento in relazione agli aspetti richiamati dall’onorevole Ghidini, riguardavano non tanto questo testo, quanto quello dell’articolo 15 della Costituzione.

Riaffermando così la vera portata dell’emendamento, nella latitudine del suo significato giuridico e sociale, non insisto in una formulazione che pur ritengo teoricamente e praticamente ineccepibile.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Devo fare una breve e semplice dichiarazione. L’onorevole Ghidini ha riferito sugli sviluppi di una discussione che si è svolta in seno ad una Sottocommissione esattamente nel senso che egli ha detto. Aggiungo – e sono certo di concordare col suo pensiero – che l’atteggiamento della Commissione in questo momento di fronte all’emendamento dell’onorevole Dominedò, che, accogliendo la nostra preghiera, egli ha ritirato, prescinde dalle considerazioni svolte allora, e si basa soprattutto sul criterio di non entrare in specificazioni particolari che, qualunque caso si prevedesse, sarebbero sempre incomplete e non esatte.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Ho già dichiarato che ho inteso di esprimere il mio pensiero, nella fiducia che sia tale anche il pensiero della Commissione.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Gabrieli, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Grassi, mantiene il suo emendamento?

GRASSI. Per le ragioni che ho esposto, dovrei mantenerlo, ma se si intende che, con le dichiarazioni fatte dal Relatore, quelle preoccupazioni non hanno più ragione di sussistere, posso anche ritirarlo, associandomi a quello proposto dall’onorevole Perlingieri ed altri.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Bruni:

«Sostituire gli articoli 38, 39, 40, 41, 42, e 43 coi tre seguenti:

I.

Il diritto di proprietà dei mezzi di produzione è esclusivamente esercitato dalla comunità nazionale, attraverso le sue strutture di democrazia decentrata e qualificata, e subordinatamente agli interessi della comunità internazionale.

Lo Stato e gli altri Enti pubblici rientrano in questo esercizio limitatamente alla loro funzione di difesa e di coordinamento del bene comune.

II.

I lavoratori di un determinato ciclo produttivo acquistano il diritto di gestire la loro azienda. A seconda dei settori economici esso viene esercitato col concorso, più o meno diretto, dello Stato, delle Regioni, dei Municipi, dei Sindacati o di altri Enti più direttamente interessati.

Nell’ambito del bene comune le piccole gestioni a tipo individuale e familiare potranno assumere carattere vitalizio con diritto di successione.

III.

La proprietà dei beni d’uso è assicurata dalla Repubblica a tutti i lavoratori, proporzionalmente alla quantità e qualità del lavoro di ciascuno, e con riguardo delle persone a carico».

Questi articoli rappresentano un complesso che non è possibile suddividere in parti corrispondenti alle disposizioni dell’articolo 38.

Occorre perciò che io chieda all’Assemblea se accetta di assumere i tre articoli proposti dall’onorevole Bruni come eventuale base di una discussione sui problemi che abbiamo esaminato in quest’ultima ora e su quelli che dovremo esaminare prima di concludere l’esame del Titolo III. Pongo pertanto ai voti questa questione generale di principio.

Nel caso che la proposta fosse accettata dall’Assemblea, dovremmo esaminare nel loro complesso tutte le disposizioni dei sei articoli considerati dall’onorevole Bruni; altrimenti riprenderemo la strada che abbiamo percorsa fino ad ora.

(Non è approvata).

Pongo in votazione il primo periodo del primo comma dell’articolo 38, che è soppresso nel primo emendamento Corbino:

«La proprietà è pubblica o privata».

(È approvato).

Pongo in votazione il secondo periodo del primo comma che è identico al primo emendamento Corbino:

«I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti».

Per questo secondo comma è stato mantenuto l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Perlingieri, del seguente tenore:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge regola i modi di acquisto e l’esercizio del diritto in conformità alla sua funzione sociale ed allo scopo di favorirne la diffusione».

È stato anche mantenuto l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Corbino:

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto e ne regola i limiti di godimento e di uso, anche allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla più facilmente accessibile a tutti».

La prima proposizione è uguale al testo della Commissione: «La proprietà privata è riconosciuta e garantita». La pongo in votazione.

(È approvata).

Dei due emendamenti ritengo che si allontani maggiormente dal testo della Commissione quello dell’onorevole Corbino, per l’espressione: «anche allo scopo».

Pongo in votazione la prima parte del secondo periodo dell’emendamento dell’onorevole Corbino poiché la seconda parte si discosta meno dell’emendamento Perlingieri dal testo della Commissione:

«La legge ne determina i modi di acquisto e ne regola i limiti di godimento e di uso, anche allo scopo di assicurare la sua funzione sociale».

(Non è approvata).

Pongo in votazione la prima parte del secondo periodo dell’emendamento Perlingieri:

«La legge regola i modi di acquisto e l’esercizio del diritto in conformità alla sua funzione sociale».

(Non è approvata).

Pongo in votazione la prima parte del secondo periodo nel testo della Commissione:

«La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale».

(È approvata).

Pongo in votazione la seconda parte del secondo periodo dell’emendamento Perlingieri: «ed allo scopo di favorirne la diffusione».

(Non è approvata).

Metto in votazione la seconda parte del secondo periodo dell’emendamento Corbino: «e di renderla più facilmente accessibile a tutti».

(Non è approvata).

Metto ai voti la seconda parte del secondo periodo del testo della Commissione: «e di renderla accessibile a tutti».

(È approvata).

Passiamo al terzo comma:

«Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria e i diritti dello Stato sulle eredità».

Vi sono due emendamenti sostitutivi. Il primo, dell’onorevole Perlingieri, è del seguente tenore:

«La legge regola altresì la successione legittima e testamentaria».

Il secondo, dell’onorevole Corbino, dice:

«La legge stabilisce le norme della successione legittima e testamentaria».

Ritengo che sia da votare in precedenza l’emendamento Perlingieri.

CAPPI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPI. Parlo a nome strettamente personale. Voterò l’emendamento Perlingieri soppressivo della frase «ed i diritti dello Stato sulle eredità».

Non ripeto le ragioni già esposte da altri. E, contro facili accuse che sono state mosse, mi conforta il pensiero che anche da parte socialista era stato proposto questo emendamento soppressivo delle parole «ed i diritti dello Stato sulle eredità».

Ai colleghi del mio Partito ricordo che nel congresso del partito popolare di Napoli del 1920 un uomo che non può essere certo accusato di conservatorismo, Don Luigi Sturzo, insorgendo contro un ordine del giorno estremista proposto da due persone, una delle quali finì gerarca fascista (questi movimenti pendolari non sono rarissimi), Don Luigi Sturzo dichiarò che, sia pure nei limiti della funzione sociale, il diritto di proprietà e il diritto di trasmissione ereditaria dovevano intendersi essenziali alla dottrina sociale cristiana. Fermo il diritto dello Stato di succedere oltre un certo grado di parentela e il diritto dell’imposta di successione, il di più sarebbe un esproprio senza indennità.

Per queste ragioni io dichiaro che voterò l’emendamento soppressivo dell’onorevole Perlingieri.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. La maggioranza del Gruppo democristiano ha aderito al testo della Commissione proposto da commissari democristiani come espressione del pensiero cristiano sociale.

Certo, vi possono essere delle differenze di interpretazione che, a parer mio, riguardano dei particolari tecnici e punti di vista di dettaglio.

Nel complesso non si può mettere in dubbio che con questo terzo comma, mentre si stabilisce chiaramente il diritto naturale all’eredità sia nella successione legittima sia in quella testamentaria, si stabilisce anche che quella parte, che lo Stato preleva sotto forma di imposta di successione, ha uno scopo sociale oltre che fiscale. Un pensiero di questo genere è sancito dal Codice sociale di Camaldoli che dichiara esplicitamente:

«Nei casi in cui motivi di giustizia sociale esigano di correggere la ripartizione dei beni privati, una conciliazione di interessi di ogni singolo proprietario con l’interesse sociale può essere ottenuta rinviando tale correzione al momento in cui la proprietà dei beni si trasferisce per successione o donazione. Molteplici elementi legittimano quindi il trasferimento alla comunità di una parte dei beni che sono oggetto di trapasso a titolo gratuito».

Per questi motivi noi riteniamo, votando il terzo comma dell’articolo 38, di essere sulla linea integrale del pensiero sociale cristiano.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Rinunzio al mio emendamento per associarmi a quello Perlingieri.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formulazione proposta dall’onorevole Perlingeri alla quale l’onorevole Corbino ha dato la sua adesione:

«La legge regola altresì la successione legittima e testamentaria».

(Non è approvata).

Pongo in votazione il testo della Commissione:

«Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità».

(È approvato).

Sull’ultimo comma vi è la proposta dell’onorevole Corbino di farne un articolo a sé.

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Trasformo la mia proposta in raccomandazione perché se ne tenga conto in sede di coordinamento.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione il quarto comma nel testo della Commissione:

«La legge autorizza, per motivi d’interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo».

(È approvato).

L’articolo 38 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti od a privati.

«La proprietà privata è riconosciuta e garantita. La legge ne determina i modi di acquisto, di godimento ed i limiti allo scopo di assicurare la sua funzione sociale e di renderla accessibile a tutti.

«Sono per legge stabilite le norme ed i limiti della successione legittima e testamentaria ed i diritti dello Stato sulle eredità.

«La legge autorizza, per motivi d’interesse generale, l’espropriazione della proprietà privata salvo indennizzo».

Il seguito della discussione, se l’Assemblea consente, è rinviato alla seduta pomeridiana.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta d’urgenza:

«Ai Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, chiede se di fronte alle notizie sempre più preoccupanti sulla gravità dei danni provocati dal terremoto di Calabria il Governo non creda di rassicurare l’Assemblea Costituente sulla organicità, efficienza e sufficienza dell’opera di soccorso.

«Parri».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, e al Ministro dei lavori pubblici, per sapere quali provvedimenti intendano prendere a favore delle popolazioni calabresi, gravemente colpite dai recenti terremoti.

«Musolino, Silipo».

Chiederò ai Ministri competenti quando intendano rispondere a queste interrogazioni.

La seduta termina alle 13.10.

POMERIDIANA DI LUNEDÌ 12 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXII.

SEDUTA POMERIDIANA DI LUNEDÌ 12 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

 

INDICE

Risposte scritte ad interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Chiusura della votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Risultato della votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Damiani                                                                                                            

Rodi                                                                                                                  

Caccuri                                                                                                            

Zotta                                                                                                                

Quintieri Quinto                                                                                              

Tumminelli                                                                                                       

Gabrieli                                                                                                            

Caristia                                                                                                            

Merlin Umberto                                                                                              

Romano                                                                                                            

Perrone Capano                                                                                              

Giannini                                                                                                            

Mazzei                                                                                                              

Foa                                                                                                                    

Clerici                                                                                                              

Caroleo                                                                                                           

Marina                                                                                                             

Grassi                                                                                                               

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                 

Colitto                                                                                                             

Corbino                                                                                                            

Belotti                                                                                                             

Cortese                                                                                                            

Russo Perez                                                                                                      

Di Vittorio                                                                                                       

Cingolani                                                                                                         

Crispo                                                                                                               

D’Aragona                                                                                                       

Bellavista                                                                                                       

Camangi                                                                                                           

Mariani                                                                                                            

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Annunzio di risposte scritte ad interrogazioni.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le risposte scritte a numerose interrogazioni. Saranno pubblicate in allegato al resoconto stenografico della seduta di oggi (1).

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Passiamo adesso alla votazione a scrutinio segreto dei seguenti disegni di legge già approvati nei singoli articoli nella seduta antimeridiana:

1°) Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto;

2°) Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945.

Si proceda alla votazione segreta.

(Segue la votazione).

PRESIDENTE. Lasceremo le urne aperte per continuare nello svolgimento dell’ordine del giorno.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Dobbiamo esaminare l’articolo 36:

«Tutti i lavoratori hanno diritto di sciopero».

A questo articolo sono stati presentati numerosi emendamenti.

L’onorevole Damiani ha proposto di sopprimerlo.

Ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

DAMIANI. L’articolo 1 della Costituzione dichiara solennemente: «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro». Il lavoro quindi diventa la base granitica della nuova democrazia repubblicana italiana: il lavoro, che è potenza, progresso, conforto, valorizzazione razionale d’ogni energia, è anche pace, educazione, vita e gioia. Il lavoro è il sangue della nazione e del mondo: deve esso rigenerare tutti i tessuti distrutti e lacerati dalla guerra. All’articolo 1 si ricollega il Titolo III del progetto di Costituzione, che è tutto una esaltazione del lavoro e direi che può considerarsi l’apoteosi stessa del lavoro. In questo Titolo si dichiara: Lo Stato tutela il lavoro; lo Stato afferma il principio della solidarietà internazionale del lavoro; celebra il lavoro come diritto e come sacro dovere; difende ed eleva la dignità del lavoratore; assicura l’assistenza sociale per gli inabili e per il lavoratore colpito da infortunio, da malattia, da invalidità, da vecchiaia e da disoccupazione; sancisce la libertà delle organizzazioni sindacali; stabilisce il controllo del lavoro, della proprietà e di ogni altra fonte di ricchezza e di produzione, come pure coordina tutte le attività economiche; favorisce la cooperazione e i consigli di gestione. Quindi, con questo complesso di provvidenze noi vogliamo creare un moto di organizzazione economica e di benessere sociale tale da garantire ai lavoratori una vita conforme alla dignità umana.

Ora noi ci dobbiamo domandare: tutte queste promesse, tutte queste provvidenze lo Stato le realizzerà? Dobbiamo avere fiducia in tutti questi articoli?

Certo noi non possiamo da una parte creare un complesso di norme che suscitano, che generano fiducia e ottimismo, e da un’altra mettere in dubbio, che ciò che si promette possa essere realizzato. Mentre tutti gli altri articoli sono esaltativi, costruttivi, incoraggianti e tranquillizzanti, mentre tutto serve a creare una situazione di piena soddisfazione per i lavoratori, non possiamo inserire, in questo insieme di norme positive, una norma depressiva che rappresenta un voto di sfiducia a tutto il resto. Quindi l’articolo 36, che parla del diritto di sciopero, non dovrebbe figurare nella Costituzione, perché lo sciopero non ha più ragione di essere se vengono realizzate tutte le provvidenze previste e promesse. Da tali provvidenze, infatti, deriverà un positivo stato di cose che farà cessare le cause che possono determinare il malcontento e quindi lo sciopero. L’articolo 30 dice: «Lo Stato tutela il lavoro», quindi tutela gli interessi dei lavoratori. Questa affermazione è in evidente e stridente contrasto con quella dell’articolo 36 che, in sostanza, dice: «I lavoratori devono tutelare da loro stessi i propri diritti».

In Russia, disse l’onorevole Di Vittorio, non c’è più lo sciopero, perché ne mancano le cause (Commenti). E allora perché noi, costituendo questo complesso di norme destinate a regolare il lavoro come fonte prima della vita della Nazione, come base granitica della Repubblica democratica, dobbiamo dire che, nonostante tutto, persisteranno le cause che determineranno gli scioperi, mentre in Russia non esistono più? (Commenti – Interruzioni). Il diritto di sciopero io lo riconosco, non lo nego affatto: il diritto di sciopero deve essere mantenuto. Ma dico che esso non mi sembra di carattere costituzionale e penso che dovrebbe essere trasferito alla legislazione ordinaria, che può adattarlo alla situazione contingente che man mano si andrà creando, in modo che i lavoratori siano sempre tutelati, oltre che dai sindacati e dallo Stato, anche dall’esercizio di questo diritto.

Ma, dice l’onorevole Tonello, esiste una classe borghese, una classe che potrebbe tendere a non applicare le leggi dello Stato, così da creare ingiuste condizioni di trattamento, uno stato di disagio delle classi lavoratrici. Allora esse non hanno altra arma che lo sciopero. Se il diritto di sciopero viene sancito nella legislazione ordinaria, è una garanzia sufficiente perché il lavoratore se ne possa servire.

Noi non vogliamo creare una società, in cui quello stato di disagio permanga, ma vogliamo lavorare e cooperare, perché siano assicurate ai lavoratori le migliori possibilità di elevazione materiale e morale.

Trasferiamo, dunque, l’articolo 36 alla legislazione ordinaria e la Costituzione guadagnerà in limpidezza, in forza e in armonia.

PRESIDENTE. Anche l’onorevole Rodi, assieme all’onorevole Colitto, ha proposto la soppressione dell’articolo.

L’onorevole Rodi ha facoltà di svolgere l’emendamento.

RODI. La singolare situazione politica, in cui ci ha messo il dopoguerra, ha fatto sì che lo sciopero sia diventato in Italia un fatto estremamente importante. Ed è importante, soprattutto, nei riflessi della definizione teorica dello sciopero. Poiché sappiamo che lo sciopero è un’arma nelle mani del lavoratore per la tutela dei suoi interessi e della sua dignità, ove il datore di lavoro manifesti il proprio egoismo e contravvenga agli impegni assunti. Ma questa definizione – e l’esperienza lo insegna – si è tradotta in pratica in maniera molto diversa: cioè, in pratica, lo sciopero non è stato e non è un fatto economico e un fatto sociale, ma un fatto politico. Ed oggi, specialmente, possono esservi delle correnti che sottolineano la necessità dello sciopero per fini politici. La nostra epoca è caratterizzata da una spiccata lotta di carattere sociale, nella quale sono contendenti la borghesia e il proletariato; e questa lotta sociale si spinge anche nel campo economico, poiché in questo campo i due contendenti sono il capitale e il lavoro, che sono in corrispondenza della borghesia e del proletariato. Se non che abbiamo avuto una crisi nel vecchio sistema liberale e per quanto questa crisi sia di carattere evoluzionistico, per quanto essa tenda ad adeguare l’economia liberale ai tempi, specialmente perché questi nostri tempi hanno scontato due grandi guerre, in questa crisi evoluzionistica si è introdotta una nuova ideologia politica, quella comunista, la quale tende a sostituirsi integralmente al vecchio regime liberale.

Senza dubbio, signori, l’idea comunista, se è guardata da un punto di vista ideale, è anch’essa un’idea morale, poiché sappiamo che questa corrente politica si propone la felicità degli uomini attraverso l’abolizione della proprietà e attraverso l’uguaglianza economica. Però questa felicità è pensata dal comunismo materialisticamente e quindi l’idea politica di questo partito è racchiusa tutta in un angusto angolo, che è appunto il presupposto economico.

Questa particolare veduta, questa particolare posizione occupata dal partito comunista, ha fatto sì che esso si trovasse di fronte ad ostacoli insormontabili, ostacoli che sono rappresentati da tutte le forze spirituali che il comunismo non riconosce. E quindi di fronte a questi ostacoli il comunismo ha creduto di poter adoperare la forza, cioè tutte quelle forme atte ad imporre in un modo o nell’altro una determinata ideologia.

Una voce a sinistra. Vi sbagliate in pieno.

RODI. Può anche darsi che mi sbagli, ma non comprendo come si possa sbagliare, quando queste idee sono state ampiamente diffuse dagli stessi comunisti. (Interruzioni a sinistra).

Se il comunismo non fosse materialista, noi non capiremmo perché in Italia c’è una lotta fra destra e sinistra. (Interruzioni degli onorevoli Gavina e Tonello).

Comunque, ho voluto sottolineare che l’estrema sinistra, essendosi trovata di fronte ad ostacoli di varia natura, ha creduto opportuno ricorrere alla forza per imporre la sua ideologia. (Rumori a sinistra).

FARINA. È il fascismo che ricorre alla forza.

RODI. Qualunque partito che si prefigga di istaurare una dittatura, ricorre sempre alla violenza. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano. L’onorevole Rodi espone il suo pensiero e ha diritto di proseguire nello svolgimento dell’emendamento.

RODI. Siccome ho proposto la soppressione dell’articolo 36, volevo spiegare le ragioni che mi hanno portato a questa conclusione.

Dunque, dicevo, da questo modo di vedere la lotta politica si traggono due conseguenze importanti: la prima è che il Partito comunista ha sentito, naturalmente, la necessità di piantare le sue tende tra le cosidette masse lavoratrici, arrogandosi il diritto… (Rumori a sinistra)

Una voce a sinistra. Sono le masse lavoratrici che cercano noi! (Commenti).

GIANNINI. E noi che cosa siamo, non siamo lavoratori?

RODI. Io credo che se facciamo dei confronti, si accerterà che da questa parte siamo tutti indistintamente lavoratori, mentre dall’altra non so se si possa dire lo stesso. (Rumori a sinistra).

Qui tutti abbiamo un mestiere, una professione, che abbiamo esercitato e che continueremo ad esercitare. Non so se molti di loro possono dire lo stesso. (Rumori a sinistra Interruzioni).

PRESIDENTE. Onorevole Rodi, la prego di stare nel tema. Non siamo intenti a fare una inchiesta statistica delle professioni dei deputati.

Prego gli onorevoli colleghi di non interrompere.

RODI. È strano che si debba sospettare che qualcuno di noi non abbia una professione o che non l’abbia sempre esercitata. E non capisco perché, soltanto un partito si debba arrogare il diritto di essere il protettore delle masse lavoratrici. È facile capire che oggi nessuno può andare contro gli interessi delle masse lavoratrici. È possibile che voi non comprendiate che tutto il sistema economico, la vita politica stessa del giorno esige che tutti siano amici e tutori di queste masse lavoratrici? (Rumori a sinistra).

Il Medioevo è trascorso da tanto tempo. Nessuno può arrogarsi il diritto di dire che le masse lavoratrici oggi abbiano un nemico, nessuno può arrogarsi il diritto di dire che queste masse oggi abbiano un padrone, poiché i congegni economici contemporanei, il progresso scientifico, il progresso del popolo stesso, ci ha messo nelle condizioni di formare ormai una classe unica tutta destinata a tutelare l’economia della Nazione. E quando voi dall’estrema sinistra sostenete che in Italia vi sono due classi e sostenete che queste classi sono in lotta fra loro, ebbene, signori, voi siete in errore. In Italia c’è una perfetta collaborazione di classi e siete voi che create l’ambiente e l’atmosfera per la lotta. (Applausi a destra Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Rodi, forse è giunto il momento che lei ci parli dell’articolo di cui propone la soppressione. Son già passati dieci minuti.

RODI. Chiedo scusa. Ad ogni modo avrei già finito se non fossi stato interrotto.

Dunque la seconda conseguenza è questa: che il Partito comunista sente la necessità di avere una supremazia nelle organizzazioni sindacali, appunto perché… (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, lascino parlare l’onorevole Rodi. Sino a quando non lo lasceranno parlare egli non potrà esporre il suo punto di vista.

RODI. Dicevo che è quello il partito che ha la necessità di avere la supremazia nell’organizzazione sindacale per imporre alla Nazione determinati movimenti, uno dei quali, uno dei più importanti, è lo sciopero che, come ho già detto prima, non è né di natura sociale, né di natura economica, ma di datura strettamente politica. E del resto l’esperienza insegna che dopo il dissolvimento del sistema medioevale, cioè da molti secoli, queste forme di ribellione hanno avuto carattere politico. Ormai è comprovato che ogni fatto economico è, prima di tutto, fatto politico, ed è chiaro quindi che, attraverso lo sciopero, cui si vuol dare carattere particolare di rivendicazione economica, si deve raggiungere un determinato fine politico, in modo che il partito che si occupa e si preoccupa della costante organizzazione degli scioperi, evidentemente si propone un fine politico; e poiché in Italia questo partito organizzatore di scioperi è esattamente il partito comunista…

ROVEDA. Questo è falso; e si deve smetterla! Siete speculatori della fame dei lavoratori!

PRESIDENTE. Prosegua, onorevole Rodi.

RODI. Col permesso del suo partito, onorevole Presidente. (Si ride).

PRESIDENTE. Lei chiama troppo in causa il partito comunista!

Una voce a sinistra. Sono i lavoratori che scioperano e non il partito che li fa scioperare.

RODI. Comunque io torno ad asserire che il partito comunista è l’unico partito che organizzi gli scioperi, e sono i comunisti i maggiori sostenitori dello sciopero!

PASTORE RAFFAELE. Ma sono i lavoratori stessi!

PRESIDENTE. Prosegua onorevole Rodi!

ROVEDA. Approfittate di tutte le occasioni per speculare e poi venite qui a fare i padri Zappata!

RODI. Nessuno può negare che il partito comunista organizzi in Italia gli scioperi! (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Rodi, ciascuno può motivare, nel modo che ritiene più opportuno le proprie tesi, ma tuttavia occorre restare sempre nell’ambito del tema generale da svolgere. Sinora, per quanto lei a un certo momento abbia nominato lo sciopero, le assicuro che non ho compreso in qual modo volgerà a conclusione questa sua esposizione. Ci parli dello sciopero e non del partito comunista, che avrà anche tutte le colpe che a lei piace addebitargli, ma non è ora in discussione.

RODI. Per me la questione dello sciopero è importante, perché se voi proponete l’instaurazione di una dittatura la quale… (Interruzione dell’onorevole Fedeli Armando).

PRESIDENTE. Onorevole Fedeli, la prego non interrompa. Onorevole Rodi, prosegua.

RODI. Ad ogni modo, lo sciopero non è certamente di natura costituzionale ed io non vedo la ragione per la quale debba entrare nella Costituzione. Io suppongo che lo sciopero ormai non riguardi più i rapporti di lavoro, ma sia soltanto un mezzo ed un espediente politico. Ed in un Paese civile, quale è il nostro, i rapporti ed i conflitti di lavoro devono essere regolati dalla legge.

Per tutte queste ragioni, propongo la soppressione dell’articolo 36. (Applausi a destra Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Caccuri ha presentato i seguenti emendamenti:

«Sopprimerlo.

«Qualora la soppressione non sia approvata, sostituirlo col seguente:

«Tutti i lavoratori hanno, per motivi economici, diritto di sciopero, nei limiti stabiliti dalla legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

CACCURI. Onorevoli colleghi, con il mio emendamento non intendo contestare in modo assoluto il diritto di sciopero, anche perché mi rendo conto che un divieto penale sarebbe incompatibile con il rinnovato clima di libertà a cui è pervenuto il nostro Paese. È innegabile, però, che il diritto di sciopero, così come è stato formulato nel breve, direi drastico articolo 36, che nella sua formulazione generica non consente alcuna limitazione né per quanto riguarda le condizioni di esercizio di tale diritto, né per quanto riguarda i settori di attività in cui può esercitarsi, non può essere accettato. È necessaria, cioè, una precisa regolamentazione, sia nei casi di sopruso, sia per conciliare il rispetto della libertà del cittadino, in materia del lavoro, con le legittime preoccupazioni del danno che da questa lotta profonda può venire.

Non bisogna dimenticare, onorevoli colleghi, che se in passato lo sciopero è stato un efficace strumento di rivendicazioni economiche, attraverso cui i lavoratori hanno progredito nelle loro condizioni di lavoro migliorandole, di fronte ad un regime capitalistico insensibile alle loro esigenze e ad uno Stato addirittura agnostico in materia di lavoro, spesso però è stato adoperato come un’arma politica, di notevole influenza sugli organi direttivi dello Stato. Ora, è evidente che in questa forma lo sciopero non assume più quella sua funzione economico-sociale, e non può trovare per conseguenza alcuna legittimazione. A mio avviso, non va in nessun caso consentito lo sciopero politico, poiché è evidente che in una società democratica, in cui tutte le rappresentanze già possono esprimere, attraverso gli organi costituzionali, la propria volontà, tale forma di sciopero esula dalla natura e dai compiti dell’azione sindacale. E ritengo altresì che non vadano neppure legittimate quelle altre forme degeneri del conflitto collettivo, che siano dirette a conseguire scopi affatto estranei ai patti del lavoro: gli scioperi, ad esempio, per impedire il licenziamento legittimo di un compagno o per imporre il licenziamento illegittimo di un capo non gradito; i cosiddetti scioperi cioè di solidarietà e di protesta.

Ma anche lo sciopero economico va regolato.

È risaputo, invero, che innanzi tutto lo sciopero, anche per soli motivi economici, può riguardare l’interpretazione di clausole o la modificazione di contratti in vigore; ed è evidente che quando il dibattito dalle condizioni di lavoro si inserisce nel corso di rapporti già in atto, e le parti, per sostenerlo, ricorrono alla astensione collettiva delle prestazioni, questa astensione non si può qualificare che come una grave forma d’inadempimento, che rende lo sciopero indubbiamente illegittimo.

Sostenere in questo caso il diritto illimitato di sciopero significherebbe sconvolgere ed abbattere l’edificio del diritto delle obbligazioni, significherebbe legittimare una scissione unilaterale dei contratti di lavoro e la violazione aperta della legge.

L’astensione dalla prestazione, dunque, può essere giuridicamente legittima soltanto se avviene durante il dibattito contrattuale per una nuova regolamentazione collettiva, per fissare cioè nuove condizioni di lavoro.

Senonché, anche in questo caso, non bisogna dimenticare il danno che deriva ai terzi da questa forma di coazione contrattuale; non bisogna dimenticare il turbamento causato dallo sciopero sul ciclo produttivo. E questo è senza dubbio il lato più grave della questione, poiché è innegabile che l’arresto dell’attività produttiva non avviene mai senza che ne soffrano non solo i datori di lavoro, non solo e non tanto i produttori, quanto la Nazione intera:

Ora, è evidente, onorevoli colleghi, che di fronte alla gravità del danno che dallo sciopero può derivare alla collettività, bisogna esperimentare, prima, tutte le vie possibili per un accomodamento pacifico. E fra le soluzioni più idonee, per comporre i contrasti tra i fattori della produzione, è indubbiamente l’azione del pubblico potere, che non può starsene spettatore indifferente tra i conflitti del lavoro, e deve apprestare la formulazione giuridica dei rimedî nella elaborazione della legislazione, rimedî che tanto più vengono ad aumentare e a perfezionarsi, in modo da conferire allo sciopero il carattere di mezzo veramente eccezionale, quando si riconosce costituzionalmente – così come si è riconosciuto – l’importante funzione delle associazioni sindacali e si inserisce il contratto collettivo, con sostanza di norma giuridica, nell’ordinamento dello Stato.

Non si tratta pertanto, onorevoli colleghi, di negare il diritto di sciopero, ma di inquadrarlo nella realtà sociale e disciplinarlo secondo un criterio di solidarietà che deve impedire il sovrapporsi dell’interesse personale o di categoria a quello della collettività, secondo i principî fondamentali, affermati dallo stesso progetto in ordine al lavoro.

Non si tratta, ripeto, di negare il diritto di sciopero, né si tratta di paternalismo, come ha detto l’onorevole Di Vittorio, ma si tratta di far sì che, come bene è stato osservato, lo sciopero cessi dal costituire una esplosione violenta di forza per diventare l’esercizio legittimo di una facoltà disciplinata dall’ordinamento giuridico.

Né la regolamentazione del diritto di sciopero può suonare sfiducia verso la classe operaia, o costituire menomazione della libertà dei lavoratori, e non so proprio comprendere la diffidenza manifestata da alcuni verso l’intervento dello Stato nei rapporti sociali, dello Stato che detta norme in tutti rapporti e che evidentemente non può e non deve rinunziare, come bene ebbe a rilevare l’onorevole Fanfani, alla sua funzione di coordinamento e di armonizzazione di tutti i fenomeni economici contraddittori.

Ritengo, perciò, che o non si debba far menzione nella Carta costituzionale del diritto di sciopero, così come si è praticato dalla maggior parte delle Costituzioni, e non si debba farne menzione anche per evitare che la disposizione possa essere interpretata come rinunzia della Repubblica a rendere giustizia a tutti in materia di lavoro; o se tale diritto di sciopero si vuol proclamare, sia stabilito almeno il rinvio esplicito ad una legge che ne regoli l’esercizio, perché, evidentemente, non può aversi una precisa regolamentazione nella Costituzione.

Si è detto, al riguardo, che fosse necessario inserire nella Costituzione il diritto di sciopero, perché, dopo un periodo ventennale, durante il quale lo sciopero è stato vietato con gravi sanzioni, ne appariva opportuna l’esplicita affermazione per sottolineare il ritorno all’antico diritto.

Ora, onorevoli colleghi, che sia opportuno non considerare lo sciopero come reato, possiamo essere tutti o quasi tutti d’accordo, ma tale esclusione ben si raggiunge con una norma che dica: «Lo sciopero non costituisce reato», e non con una affermazione del diritto di sciopero in sede costituzionale, che avrebbe un significato ben più vasto della semplice esclusione del reato nello sciopero stesso, poiché si verrebbe ad attribuire a tutti i lavoratori un diritto soggettivo, con rilevanti conseguenze giuridiche anche di diritto privato; un diritto che non potrebbe essere comunque limitato o sospeso, senza rendere il provvedimento incostituzionale, neppure se imposto da future situazioni impreviste, o da gravi contingenze particolari; un diritto che non solo renderebbe illecita qualsiasi convenzione individuale o collettiva che cercasse di limitarlo o di prevenirlo, ma che verrebbe a porre fuori della legge quelle varie forme di arbitrato per le controversie di lavoro, che vanno sempre più facendosi strada in tutti gli ordinamenti progrediti.

In una parola, onorevoli colleghi, l’astensione collettiva dal lavoro può costituire un diritto dell’individuo, nel senso cioè che il fatto non sia vietato da disposizioni di legge.

PRESIDENTE. Onorevole Caccuri, la prego: è trascorso il quarto d’ora regolamentare della lettura.

CACCURI. Ho finito, onorevole Presidente. Sembra però eccessiva l’inclusione di esso fra le norme giuridiche fondamentali dello Stato; fra quelle norme cioè che lo Stato pone a base del suo ordinamento e delle quali deve perseguire la realizzazione ed assicurare la rigorosa, tutela.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Zotta:

«Sopprimerlo.

«Subordinatamente, sostituirlo col seguente:

«L’esercizio del diritto di sciopero è subordinato all’esperimento dei mezzi di conciliazione o di arbitrato, che saranno stabiliti dalla legge.

«È vietato lo sciopero dei pubblici impiegati e degli addetti a pubblici servizi.

«Il diritto di sciopero potrà essere limitato quando sia necessario nel superiore interesse della collettività».

L’onorevole Zotta ha facoltà di svolgerlo.

ZOTTA. Ho chiesto in via principale la soppressione dell’articolo 36. Mi affretto a precisare che la soppressione non può significare per me l’abolizione, ma solo il rinvio alla legislazione ordinaria. La verità è che io vorrei trovare una formula la quale da una parte garantisca integralmente la tutela dei diritti del lavoro che oggi si affida allo sciopero, cioè ad un mezzo di autodifesa; dall’altra renda possibile la conservazione della pace sociale, alla quale naturalmente mira ogni convivenza civile.

Io vedrei distinta in tre fasi l’evoluzione dei diritti del lavoro.

Nella prima, il lavoratore si trova da solo a competere col datore di lavoro sul piano della libertà contrattuale, in condizioni cioè di inferiorità per la indiscussa preponderanza dell’altro contraente il quale, essendo l’unico detentore del capitale, finisce col diventare l’arbitro del rapporto contrattuale, con quelle sole variazioni che possono essere suggerite dalla legge economica relativa ai rapporti tra la domanda e l’offerta di lavoro.

È la fase questa della servitù del lavoro, ridotto a motivo di avvilimento e di degradazione. L’uomo è considerato come una macchina di consumo e di produzione, un complesso di muscoli e di nervi, da cui scaturisce una energia economicamente valutabile, una merce, che, come tutte le merci, è sottoposta soltanto alla legge della domanda e dell’offerta.

Oggi noi siamo invece alla seconda fase, alla fase cioè dell’organizzazione del lavoro in categorie, alla fase della tutela dei diritti del lavoro ma, nel medesimo tempo, della lotta sociale. E il rapporto di forze adesso, di fronte alla prima fase, è indubbiamente mutato perché, in contrapposto alla potenza del capitale, vi è la potenza del numero, valorizzata attraverso la categoria e la possibilità di stipulazione del contratto collettivo. Sotto questo aspetto il diritto di sciopero rappresenta, come è stato osservato, un mezzo efficace di integrazione della dignità umana. Il lavoratore è persona umana, essere intelligente libero che ha tutta una vita spirituale accanto a quella materiale. Il lavoro è una forza, che procede essenzialmente dall’ordine morale. E poiché noi riteniamo che le cose umane, e quindi anche lo Stato, siano ordinate a vantaggio della persona, noi consideriamo questa evoluzione del concetto del lavoro, come la più idonea per l’affermazione della personalità umana nell’ordine voluto da Dio.

Sotto questo aspetto, abolire il diritto di sciopero costituisce una lesione della integrità della persona umana, un ritorno alla servitù del lavoro.

Ma, onorevoli colleghi, se questa seconda fase rappresenta indubbiamente una conquista nel campo del lavoro e della civiltà, non bisogna considerarla sub specie aeternitatis, come una posizione insuperabile, un progresso insuscettibile di miglioramenti.

Lo sciopero resta sempre un mezzo di autodifesa. Come ogni imposizione unilaterale e soggettiva di pretesa, specialmente quando è accompagnata, come suole avvenire nel nostro caso, da un apparato di forza e di coercizione, rappresenta un attentato alla sicurezza e all’ordine pubblico; e, se legittimata nell’ordinamento giuridico, un pericolo permanente per la tranquilla convivenza sociale.

Il diritto penale considera l’esercizio arbitrario delle proprie ragioni come un reato. Nel campo del diritto privato, il passaggio dallo stato di barbarie a quello di civiltà è segnato precisamente dall’adizione obbligatoria del giudice.

Qui la questione si pone in questi termini: è possibile avere un giudice per codesti conflitti? Ma v’è un’altra domanda più importante, la cui risposta, se affermativa, può giovare ad eliminare molte perplessità. Possiamo cioè noi, per la composizione del collegio, rispecchiare – e questa è la nostra preoccupazione – fedelmente il rapporto attuale di forze tra l’elemento capitale e l’elemento lavoro, in maniera che vi sia quella dovuta rappresentanza nel collegio stesso che deve risultare quando si tiene presente che l’ordinamento giuridico che noi andiamo costituendo si fonda sul principio cardinale che la Repubblica è fondata sul lavoro?

A me sembra che possa rispondersi affermativamente all’una e all’altra domanda.

Onorevoli colleghi, nei primi articoli della nostra Costituzione noi abbiamo approvato un precetto elevatissimo: abbiamo detto che non vogliamo più far guerre con nessuno. Indubbiamente allora abbiamo pensato di risolvere ogni possibile conflitto in via conciliativa o a mezzo di arbitrati, e non con l’uso delle armi. E quando abbiamo detto questo, non l’abbiamo fatto soltanto in un momento di stanchezza, per un bisogno momentaneo di sosta dopo il lungo travaglio della guerra, ma per rispondere all’anelito insopprimibile del nostro popolo il quale, attratto da una luce superiore di amore e di pace, condanna le forme della violenza, lo spirito dell’odio e della lotta come forme deteriori, come espressione di inciviltà e di barbarie.

Ora, com’è che noi giungiamo a questa forma di perfezione massima da concepire la possibilità di dirimere ogni contesa internazionale, mentre legittimiamo nell’interno la lotta tra cittadini dello stesso Stato? Bandita la guerra fra i popoli, riconosciuta quella fra gli uomini? (Rumori a sinistra Applausi al centro).

E allora, pace fuori e guerra in casa? Non è possibile, onorevoli colleghi, trovare un giudice, un tribunale del lavoro costituito (io l’ho messo come premessa, questo) costituito in maniera da dare la dovuta rappresentanza a quei rapporti attuali di forza fra l’elemento capitale e l’elemento lavoro, e cioè come espressione genuina di un ordinamento giuridico, che si fonda sul lavoro? Noi che abbiamo avuto fiducia in un giudice internazionale, la cui figura si confonde nella evanescenza di un sogno, non vogliamo avere fiducia in un giudice creato dalla realtà della nostra vita sociale giuridicamente organizzata e disciplinata?

PRESIDENTE. Onorevole Zotta, mi permetta di osservarle che ha trattato finora soltanto il primo punto del suo articolo sostitutivo ed ha tuttavia già superato il tempo regolamentare.

ZOTTA. Indubbiamente l’argomento è tale che richiederebbe molto sviluppo ed io mi accorgo di essere ancora sulla soglia.

PRESIDENTE. Veda di superarla. (Commenti).

ZOTTA. Intendevo superare questa soglia e un’altra ancora, onorevole Presidente. Comunque, io dicevo questo, onorevoli colleghi: io credo che si possa raggiungere l’accordo, dato il medesimo anelito che noi e voi abbiamo. Forse i tempi non sono ancora maturi. Ma non neghiamo questa possibilità di evoluzione per l’avvenire. Ecco perché io proponevo in linea principale che dello sciopero si parlasse nella legge ordinaria e non nella Costituzione, appunto per non cristallizzare un momento particolare, transeunte, direi patologico, in un documento che è destinato ad aver vita per decenni.

È questa la terza fase dell’evoluzione dei diritti del lavoro, la quale si concilia, armonizzandosi, con la pace sociale.

Mi affretto a spiegare i motivi dell’emendamento sostitutivo che io presento in forma subordinata ed accenno soltanto al primo comma rimettendomi per gli altri due a quello che dirà il mio amico, onorevole Gabrieli. Esso suona così: «L’esercizio del diritto di sciopero è subordinato all’esperimento dei mezzi di conciliazione o di arbitrato, che saranno stabiliti dalla legge».

Il raffronto con gli istituti giuridici internazionali, per noi che attendiamo al perfezionamento di un ordinamento costituzionale, ci può essere di guida, come lo è sempre lo studio del diritto internazionale nel campo della dottrina generale, del diritto.

Noi siamo alla seconda fase: quella della lotta sociale. Come gli Stati nei rapporti internazionali; forse in un grado inferiore. Il diritto internazionale generale e particolare contempla mezzi di conciliazione e di arbitrato per evitare, che i conflitti tra gli Stati abbiano a culminare nella lotta bellica. E quando, nonostante tutto, la guerra è scoppiata, circonda il conflitto con un complesso di norme giuridiche, le quali valgono e fra i belligeranti e fra i belligeranti e coloro che alla guerra non hanno aderito, cioè i neutrali.

Sotto questo aspetto si è detto che la guerra, per le cause che possono determinarla o per i rapporti che implica, è un istituto giuridico. Non si può dire altrettanto dello sciopero. Nessuna legge prevede una procedura di conciliazione e di arbitrato, disciplina lo svolgimento del conflitto, garantisce la libertà e la pace di coloro che non intendono partecipare alla lotta.

Quasi tutte le legislazioni si sono orientate sul principio che il diritto di sciopero e di serrata è sospeso per tutto il tempo che un conflitto collettivo del lavoro è sottoposto all’arbitrato o alla decisione di un tribunale del lavoro.

In questo senso dispongono le leggi: germanica, austriaca, boliviana, cilena, colombiana, cubana, danese, spagnola, finlandese, inglese, greca, ungherese, lettone, norvegese, neozelandese, polacca, romena, svedese, venezuelana.

Si è detto che noi stiamo formando la Costituzione del lavoro. Io direi che noi abbiamo dato mano alla Costituzione del lavoro e della pace. Noi abbiamo condannato la guerra in uno dei primi articoli della Costituzione per un bisogno di pace, di tranquillità, di ordine. Solo quando gli uomini si abituano ad una vita di reciproca comprensione e di pacifica convivenza nella propria casa, possono portare nei rapporti con le altre case il medesimo spirito di serenità e di amore. Ma se nell’interno la lotta si erige a sistema, si perpetuano per l’ordine interno e per i rapporti internazionali le cause psicologiche per nuovi squilibri e sconvolgimenti. È nella coscienza stessa di ogni convivenza sociale l’aspirazione alla pace. Tutti gli istituti, creati da qualunque ordinamento giuridico, mirano ad un fine: ne cives ad arma veniant. Vogliamo la pace? Eccola, nelle parole di S. Tommaso: «Tranquilla convivenza nell’ordine».

Convivenza nell’ordine, convivenza nella tranquillità.

Perché sia un ordinamento giuridico, che segni progresso e civiltà, questa deve essere effettivamente la Costituzione del lavoro e della pace. (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Quintieri Quinto e Corbino hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero e di serrata è riconosciuto e disciplinato dalla legge».

L’onorevole Quintieri ha facoltà di svolgere l’emendamento.

QUINTIERI QUINTO. Questo emendamento ha un duplice scopo: il primo si potrebbe definire di equilibrio, oserei quasi dire di eleganza giuridica, perché non sembra giusto che quando si concede un diritto ad una delle parti contraenti all’altro contraente questi stessi diritti si neghino. Datore di lavoro e prestatore d’opera, per noi, sono due contraenti da mettere su piede di assoluta parità; sono per noi due lavoratori egualmente necessari alla produzione che vanno messi in condizione di svolgere nel modo migliore i loro compiti. Se l’uno di essi ha per legge il diritto di sospendere la prestazione liberamente pattuita, di sciogliersi dall’obbligo assunto, ci sembra non soltanto equo, ma anche conveniente nell’interesse collettivo, che l’altro pure in linea di massima abbia la stessa facoltà. Ammettiamo subito che le due posizioni, quella del datore di lavoro e del lavoratore, non sono uguali e riconosciamo egualmente che un diritto di serrata, interpretato così in astratto ed in forma indeterminata e generica non potrebbe assolutamente reggere. Perciò ci siamo riferiti ad una legge che disciplini con le modalità più opportune sia il diritto di sciopero che quello di serrata. C’è poi un secondo motivo che ci ha consigliato di proporre questo emendamento all’articolo 36. Infatti le condizioni di maggiore o minore vantaggio che si fanno ad una qualsiasi categoria di persone hanno immediatamente ed automaticamente, per noi, il loro correttivo economico. Se si peggiora sotto un dato aspetto la condizione del datore di lavoro, questi, almeno fino a quando si resta nel campo dell’iniziativa privata, si sforzerà di ricuperare da qualche altro lato lo svantaggio che gli si è arrecato. C’è un certo livello minimo il quale comprende tutto il complesso di risultati materiali e morali che il datore di lavoro può sperare dalla sua azione ed al disotto di questo minimo l’iniziativa privata si ferma e non funziona più.

Se si toglie all’imprenditore, al datore di lavoro, all’industriale, un mezzo di difesa, se lo si espone ad un rischio, occorre che egli trovi compenso a questo svantaggio in altri fattori di sicurezza o con utili maggiori. L’iniziativa privata per agire efficacemente, per sviluppare l’attività economica, ha bisogno di un insieme di allettamenti e di sicurezza. La condizione del prestatore d’opera, dell’operaio, del bracciante, dell’impiegato, sarà veramente buona quando ci saranno più offerte di impiego che lavoratori in cerca di occupazione: è ciò che in questo momento si sta verificando in molti paesi d’Europa ed è purtroppo, una condizione che da oltre un ventennio – quasi dal ’27 – i nostri lavoratori hanno dimenticato. Sono sempre in due a bussare ad un’unica porta. Questa è la disgrazia maggiore che possa capitare a chi domanda di lavorare, non solo per la umiliante e triste necessità di tentare tutte le strade al fine di trovare una occupazione, ma perché sarà sempre il lavoro di uno che dovrà dare da mangiare a due: e questo sarà inevitabile con qualunque sistema ed organizzazione economica. Tutto ciò che può incoraggiare, sviluppare la produzione ed assorbire queste forze di lavoro, da noi ancora così incompletamente utilizzate, ci pare sia di una importanza massima. Non riteniamo dunque che si possa impedire, con una disposizione di massima, la facoltà di sciopero da parte del lavoratore, né quella di serrata da parte dell’imprenditore, ma siamo convinti che queste facoltà vanno disciplinate, limitate e corrette dalla legge per evitare le conseguenze antisociali di tutti gli eccessi e di tutti gli abusi, eccessi ed abusi che finirebbero col discreditare agli occhi del paese il diritto stesso che si vuole tutelare. In questo senso abbiamo cercato di portare un correttivo alla formula troppo ampia ed indeterminata proposta dalla Commissione.

A noi pare che non sarebbe vantaggioso per la classe lavoratrice il mettere nella Costituzione un insieme di clausole, il cui valore dovesse mostrarsi, nell’avvenire, del tutto teorico e privo di valore pratico, ma che intanto, in un primo momento, possano costituire causa di arresto o di depressione dell’attività produttiva e della organizzazione del lavoro. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Tumminelli ha proposto di sostituire l’articolo 36 col seguente:

«Il diritto di sciopero e di serrata è subordinato all’arbitrato di una Commissione paritetica presieduta da un magistrato».

L’onorevole Tumminelli ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

TUMMINELLI. Io voglio pensare per assurdo che veramente lo sciopero possa non essere un’arma politica. Voglio considerare lo sciopero esclusivamente come strumento di lotta tra capitale e lavoro. Vediamo quali cause possono determinare lo sciopero e quali le conseguenze.

È ovvio che lo sciopero costituisce l’ultimo momento del conflitto tra le parti in contesa ed ha conseguenze economiche che si ripercuotono non solo sulle classi lavoratrici, ma, in talune circostanze o contingenze (quando lo sciopero, come è accaduto molto spesso, è generale), su tutta la nazione.

Ed allora, se lo sciopero ha lo scopo di giungere all’appagamento d’una nuova esigenza del lavoro (in una determinata crisi della società o in un determinato momento, in cui il carovita o altri elementi possano determinare un mutamento delle condizioni precedentemente accettate), è ovvio che esso, quando non abbia prima sperimentato l’arbitrato, costituisce un danno reale ed è metodo in antitesi all’obiettivo che si propone. Per questo, prima di giungere alla frattura del rapporto di lavoro ed alla interruzione del lavoro, e quindi della produzione, che è fine ultimo e definitivo tanto del capitale che del lavoro, prima di giungere ad un trauma, che investe non soltanto la categoria diciamo, padronale, ma la stessa categoria operaia, bisogna ricorrere all’arbitrato; arbitrato costituito dai rappresentanti delle parti, sotto la presidenza d’un magistrato, o di un tribunale deliberatamente creato a questo scopo.

Ora, non si vede la ragione di rinunziare a quest’arma pacifica, che, peraltro, costituisce una tutela perenne della categoria lavoratrice, in quanto, in qualsiasi momento, ad ogni svolta del progresso, e quindi non soltanto nella contingenza d’una crisi occasionale, ma in tutte le fasi del progresso, è strumento vigile per l’aggiornamento delle condizioni economiche e del rapporto di lavoro.

Orbene, non soltanto per questo un tribunale arbitrale è utile, ma anche per il fatto che praticamente lo sciopero è arma d’una esclusiva categoria di lavoratori. Gli impiegati, i funzionari, i lavoratori del pensiero, soffrono gravi disagi economici e respingono lo sciopero, in quanto ripugna non soltanto alla loro educazione, ma anche alla loro forma mentale. Queste categorie di lavoratori intellettuali verrebbero veramente tutelati e difesi se i loro problemi potessero essere risoluti tempestivamente in sede di arbitrato.

Questa nostra Carta costituzionale si fonda su premesse implicite pessimistiche; di qui i vincoli, le limitazioni, le costrizioni. Nel caso dell’articolo 36 è prevista come prassi normale del rapporto di lavoro la violenza, mentre dovremmo preoccuparci di costruire qualche cosa di solido sull’amore.

L’arbitrato è conciliazione, appaga interamente le esigenze di tutela del lavoratore, tanto del braccio come del pensiero e, ad un tempo, evita alla Nazione disordini e speculazioni politiche.

Orbene, ammesso che questo arbitrato possa ad un certo punto fallire, ammessa anche questa ipotesi, allora si ricorrerà all’arma dello sciopero, e lo sciopero sarà giustificato e ammesso. Ma prima di ricorrere allo sciopero, prima di interrompere il lavoro, prima di venire ad una conclusione drastica del conflitto, si corrano tutte le strade della conciliazione che sono proprie dell’arbitrato. Ammesso infine che il diritto di sciopero debba essere sancito nella Carta costituzionale, non si vede la ragione perché non si debba sancire il diritto di serrata. I termini sono due. Quindi non si può accettare il diritto da una parte e negare il diritto dall’altra. Sono di avviso che questo articolo possa essere soppresso ed affidato il suo contenuto alla legislazione ordinaria. Così come è stato formulato esso può essere pregiudizievole ai futuri rapporti fra capitale e lavoro. Per questo, qualora venga respinta la soppressione dell’articolo, come è proposto da altri emendamenti, insisterò perché il mio emendamento sia posto in votazione.

Chiusura della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

L’onorevole Gabrieli ha presentato il seguente emendamento.

«Sostituirlo col seguente:

«I lavoratori hanno diritto di sciopero nelle forme e nei limiti stabiliti dalla legge. Lo sciopero è vietato al personale addetto ai pubblici servizi».

Ha facoltà di svolgerlo.

GABRIELI. Onorevoli colleghi, brevemente dirò che la posizione del problema, dello sciopero si riassume in tre termini: 1°) la Costituente deve decidere se in questa sede va dichiarato il diritto di sciopero; 2°) ammesso anche che il diritto di sciopero, come io ritengo, debba essere dichiarato in sede costituzionale, se deve essere rinviata alla futura legislazione la disciplina di esso; 3°) se tale diritto deve essere esteso a tutte le categorie dei cittadini, qualunque sia la loro funzione, oppure deve essere limitato per talune categorie che siano in rapporta diretti con lo Stato.

Signor Presidente, poiché i colleghi hanno già portato la loro esperienza sulla questione, cercherò brevemente di rispondere a questi quesiti.

Secondo me, il diritto di sciopero va dichiarato in sede di Costituzione. Questa Costituzione che sorge dopo due guerre sanguinose, che viene dopo un secolo che fu detto il secolo del lavoro – e da un grande scrittore, il secolo dello sciopero – non può passare sotto silenzio quell’arma di lotta attraverso la quale i lavoratori, e gli operai specialmente, hanno acquistato la coscienza della loro forza contro la classe padronale, che ha cessato di considerarli come merce e come macchine da lavoro. E le classi padronali si sono finalmente assise ad un comune tavolo per negoziare con loro in piena libertà e parità. Queste sono conquiste di indole morale, oltreché d’indole materiale, che non vanno taciute in una Costituzione, la quale, mentre dichiara che la Repubblica è fondata sul lavoro, mentre dichiara che il lavoro è la prima forza sociale, non deve tacere quale fu l’arma che portò il lavoratore a questo grado di civiltà e di emancipazione sociale.

Ed allora, o signori, se questo è, se lo sciopero, secondo la comune accezione giuridica e sociale, non è che la sospensione collettiva concertata del lavoro, ossia non è che l’esercizio di un diritto di libertà, noi, secondo questi postulati, siamo favorevoli, poiché sono favorevoli la morale cattolica e la morale cristiana. È di ieri lo scritto di un autorevole rappresentante della civiltà cattolica, il quale si afferma nettamente favorevole allo sciopero così concepito, come estrinsecazione, cioè, di un diritto sano del lavoro nelle forme civili.

Ed allora deve essere affermato il diritto di sciopero. Ma se deve essere affermato, onorevoli colleghi, deve essere lasciato in questa formula vaga, indeterminata, nella Costituzione, oppure si deve provvedere alla sua regolamentazione? Io ritengo che la futura regolamentazione dello sciopero debba essere prevista e rimandata al futuro legislatore, perché – onorevole Di Vittorio, non si scandalizzi – il legislatore ha sentito il diritto ed il dovere di regolare con delle norme nel Codice penale la legittima difesa, ossia l’azione di colui che respinge un ingiusto aggressore deve essere motivata in modo che possa prodursi la completa discriminazione davanti al diritto e davanti alla morale. Se questo è, se il diritto più sacro della persona, il diritto più naturale è soggetto ad una regolamentazione, qual è quella che riguarda la legittima difesa, anche il diritto di sciopero, inteso nel senso che ho chiarito, va rimandato al futuro legislatore per essere disciplinato.

E perché, o signori, deve essere fatto questo? Per tutelare la libertà del lavoro, di cui lo sciopero è una manifestazione morale, oltre che giuridica, di quelli che non vogliono aderire allo sciopero dei loro compagni. Così fu sancito nella tradizione e nella letteratura giuridica francese, inglese, italiana. La categoria dei lavoratori che non volesse aderire e partecipare allo sciopero che gli altri compagni hanno proclamato, ha diritto di veder rispettata questa autonomia. È quindi la libertà dei lavoratori che va garantita anche nei confronti delle classi padronali, perché il diritto del lavoratore si deve esprimere in forme pacifiche ed ordinate e non si deve permettere che la minaccia, la violenza morale, in occasione ed in vista dello sciopero, si possa esercitare a danno di chi non vuole scioperare.

Per queste ragioni dobbiamo preoccuparci sin d’ora degli sviluppi futuri dello sciopero, rimandando al futuro legislatore la legislazione e la disciplina di questa materia, perché sia regolata la libertà di lavoro degli altri lavoratori, che allo sciopero non vogliono partecipare.

Ed allora, possiamo dire che la libertà del lavoratore e il diritto di sciopero erano implicitamente riconosciuti, onorevoli colleghi, dalla legislazione che ci ha governato fino al 1922, cioè fino all’arrivo del fascismo. Io vorrei ricordare le parole del più grande criminalista italiano, Francesco Carrara, che proclamava, nel suo immortale «Programma», che era un merito del Codice Toscano aver abolito, tra gli altri delitti, quello dello sciopero; e quando il marchese di San Giuliano, nel 1884, per incarico del Governo, redasse una relazione che presentò alla Camera dei Deputati, per illustrare la cancellazione del delitto di sciopero, Francesco Carrara poteva proclamare che questa relazione era già stata anticipata dal Codice Toscano che egli in quelle pagine immortali ha in maniera così sublime commentato ed illustrato per tutti gli studiosi del mondo.

Il diritto di sciopero era quindi già implicitamente contenuto, amici dell’estrema destra, nella nostra legislazione e l’averlo oggi richiamato ha un significato morale, perché ratifica la conquista del lavoro italiano.

Un’ultima parola, signor Presidente, ed ho finito. Hanno, i pubblici impiegati, diritto di sciopero? Io ritengo di poter rispondere con serena coscienza che non hanno questo diritto.

LACONI. Non sono lavoratori anche quelli?

GABRIELI. Ipocrisie! I pubblici impiegati sono lo Stato stesso, così come fu detto alla Camera francese quando venne in discussione questa questione. Sono lo Stato e si identificano con esso: riproducono e detengono l’autorità dello Stato, e quindi se gli ordinamenti giudiziari e i pubblici poteri – prefetti e questori – dovessero scioperare, per dannata ipotesi, lo Stato, sciopererebbe contro se stesso; suicidio morale oltre che giuridico. L’onorevole Di Vittorio ha detto: in Russia non c’è lo sciopero. Perché? Per ragioni giuridiche ovvie. I lavoratori sono lo Stato, disse, e lo Stato non può scioperare contro se stesso. Se domani non vi fossero più né dominatori, né dominati, non ci sarebbe più ragione di sciopero, perché i lavoratori si metterebbero in contrasto con se stessi. Questa tesi giuridica vale anche per gli impiegati dello Stato, perché scioperando contro lo Stato sciopererebbero contro se stessi.

E poi, i pubblici impiegati, non hanno di fronte un padrone o un’azienda che fa valere i suoi interessi di indole particolare, ma hanno di fronte uno Stato che agisce in nome collettivo e nell’interesse di tutti. Quindi, per questa ragione, chiedo che lo sciopero sia vietato nei pubblici servizi, anche per il danno sociale che ne deriverebbe, ove per un momento si arrestasse la vita della compagine sociale.

Ho finito. Se è vero che la democrazia non è una forma politica fissa e immutabile, ma è la possibilità concreta per le forze sociali di progredire verso elevazioni e perfezionamenti cui con moto incessante tende lo spirito umano, lo sciopero va riconosciuto in quella forma in cui ho detto e proclamato, perché è mezzo, speranza e divisa della nuova democrazia italiana. (Applausi).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione segreta sul disegno di legge: «Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto»:

Presenti                   392

Astenuti                   82

Votanti                    310

Maggioranza           156

Voti favorevoli        277

Voti contrari             33

(L’Assemblea approva).

Comunico, inoltre, il risultato della votazione segreta sul disegno di legge: «Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945»:

Presenti e votanti     392

Maggioranza           197

Voti favorevoli        377

Voti contrari             15

(L’Assemblea approva).

Sono risultati presenti nella votazione:

Adonnino – Alberti – Allegato – Andreotti – Angelini – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Ayroldi – Azzi.

Badini Confalonieri – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Bellavista – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benvenuti – Bergamini – Bernabei – Bernamonti – Bertola – Bettiol – Biagioni – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Bolognesi – Bonino – Bonomelli – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Bordon – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Bulloni Pietro – Burato.

Caccuri – Caiati – Cairo – Calosso – Camangi – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Cappugi – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavallari – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cifaldi – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Codacci Pisanelli – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Condorelli – Conti – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Cortese – Cremaschi Carlo – Cremaschi Olindo – Crispo – Cuomo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Falco – De Filpo – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Giovanni – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Faccio – Fanfani – Fantoni – Fantuzzi – Faralli – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrari Giacomo – Ferrario Celestino – Fietta – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Firrao – Flecchia – Foa – Foresi – Fornara – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini – Fusco.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gavina – Germano – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giordani – Gonella – Gorreri – Gortani – Grassi – Grazi Enrico – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Guidi Cingolani Angela.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jervolino.

Laconi – La Malfa – Lami Starnuti – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Leone Giovanni – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Carlo – Lombardi Riccardo – Longo – Lozza – Lucifero – Luisetti – Lussu.

Macrelli – Maffi – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mannironi – Marazza –  Marconi – Mariani Francesco – Marina Mario – Marinaro – Martino Enrico – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastino Pietro – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Mazza – Mazzei – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molè – Molinelli – Momigliano – Montalbano – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Natoli Lamantea – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pallastrelli – Paratore – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pecorari – Pella – Pellegrini – Penna Ottavia – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Persico – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pieri Gino – Pignatari – Pignedoli – Platone – Ponti – Porzio – Pratolongo – Preziosi – Priolo – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Ravagnan – Reale Eugenio – Reale Vito – Recca – Rescigno, – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Ugo – Rognoni – Romano – Rossi Maria Maddalena – Roveda – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Saccenti – Saggin – Salerno – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sartor – Scalfaro – Scarpa – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Secchia – Segala – Segni – Selvaggi – Sforza – Sicignano – Siles – Silipo – Silone – Spallicci – Spana – Spataro – Stampacchia – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Tambroni Armaroli – Targetti – Taviani – Tega – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togliatti – Togni – Tonello – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Tremelloni – Trimarchi – Trulli – Tumminelli.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vallone – Valmarana – Varvaro – Vernocchi – Veroni – Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Villani – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zotta – Zuccarini.

Si sono astenuti:

Allegato – Assennato.

Baldassari – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bei Adele – Bernamonti – Bianchi Bruno – Bibolotti – Bitossi – Bolognesi – Bucci.

Caprani – Cavallari – Cavallotti – Cerreti – Colombo Arturo – Corbi – Cremaschi Olindo.

De Filpo – Di Vittorio – D’Onofrio.

Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fiore – Flecchia.

Gallico Spano Nadia – Gavina – Ghidetti – Giolitti – Gorreri – Grieco – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Laconi – Landi – La Rocca – Leone Francesco – Li Causi – Lombardi Carlo – Longo – Lozza.

Maffi – Magnani – Maltagliati – Massini – Massola – Mattei Teresa – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Montalbano – Moscatelli – Musolino.

Nobile Umberto – Noce Teresa.

Pajetta Gian Carlo – Pajetta Giuliano – Pastore Raffaele – Pellegrini – Pesenti – Platone – Pratolongo.

Ravagnan – Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Rossi Maria Maddalena – Roveda – Ruggeri Luigi.

Saccenti – Scarpa – Scoccimarro – Secchia – Sicignano – Silipo.

Togliatti.

Sono in congedo:

Bargagna – Bernardi – Bertone.

Carratelli – Cartia – Caso – Chiostergi – Costa.

Falchi – Ferreri.

La Pira – Lazzati – Lombardo Ivan Matteo.

Paris – Pera.

Rapelli – Restagno – Rubilli.

Sardiello – Simonini.

Treves.

Vigna.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’onorevole Caristia ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero tendente a risolvere le controversie economiche fra imprenditori e lavoratori è riconosciuto nei limiti consentiti dalla legge.

«Non è riconosciuto ai dipendenti dell’Amministrazione diretta o indiretta dello Stato (statali o parastatali). Le loro controversie verranno risolte da apposite Commissioni arbitrali, di cui essi saranno chiamati a far parte nelle proporzioni dalla legge indicate».

Ha facoltà di svolgerlo.

CARISTIA. Ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Belotti:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto ai lavoratori nelle forme consentite e nei limiti stabiliti dalla legge.

«In ogni caso, l’astensione collettiva dal lavoro sarà decisa in base a votazione libera e segreta degli iscritti ai sindacati di categoria regolarmente registrati, a maggioranza di due terzi dei votanti, dopo l’esperimento di almeno un tentativo di conciliazione.

«Non è ammesso lo sciopero generale politico, né quello dei pubblici impiegati e degli addetti a pubblici servizi, le cui vertenze saranno sottoposte ad arbitrato obbligatorio».

Segue l’emendamento dell’onorevole Merlin Umberto:

«Sostituirlo col seguente:

«II diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

Ha facoltà di svolgerlo.

MERLIN UMBERTO. Forse mi illudo, ma penso che il mio emendamento potrebbe evitare una grossa questione e soddisfare le varie correnti di pensiero politico-sociale, che si sono manifestate in questa Assemblea.

Col mio emendamento, l’articolo 36 verrebbe così formulato: «Il diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

Questo articolo non l’ho inventato io: esso è la copia della dichiarazione che si legge come preambolo nella Costituzione che il popolo francese si è già data il 27 ottobre 1946.

L’articolo accoglie il principio che lo sciopero da parte dei lavoratori è un diritto e su questo punto non ho sentito voci discordi nemmeno in questa Assemblea. Infatti non può essere contestato che, come è lecito al singolo negare la sua opera, se non gli viene corrisposta la retribuzione richiesta, altrettanto sia lecito organizzare questa astensione nel sindacato per farla diventare da individuale collettiva.

Su questo punto nulla da dire secondo me nemmeno dal punto di vista della morale più stretta, onde è giusto che la Carta costituzionale riconosca il diritto di sciopero anche per dare un frego a quegli articoli dal 502 al 507 del Codice penale Rocco che costituivano un anacronismo storico ed un ritorno a tempi superati.

La nostra Costituzione deve essere la Costituzione della libertà e perciò antifascista. Quindi è giusto che essa definisca diritto quello che il fascismo definiva a torto delitto.

Ma una volta riconosciuto ampiamente il diritto dei lavoratori, bisognerà pure che l’Assemblea si preoccupi di segnare i diritti di questo Stato democratico che stiamo con tanta cura costruendo.

Non sarebbe giusto che noi pensassimo a tutto ed a tutti e non ci preoccupassimo mai dello Stato, che è la casa comune, la casa di tutti, non la casa di un partito o di una classe. Ora, dar fondamenta solide a questa casa è un dovere ed una necessità per tutti.

Lo Stato è l’organizzazione giuridica della società e deve provvedere al bene comune.

Si potrà discutere sul contenuto di questa formula, che venne perfino definita fatale, ma a parte la sua ampiezza tutte le correnti politiche sono d’accordo che lo Stato, comunque organizzato, deve mirare alla utilità dei cittadini.

Ma, per provvedere a tale utilità, deve provvedere a determinate funzioni ed indispensabili servizî.

Anche qui le nostre concezioni potranno divergere, ma nessuno potrà negare una universalità di consensi, almeno su un minimo di tali funzioni (ordine pubblico – giustizia – sicurezza – finanze).

Tali funzioni sono senza eccezione funzioni pubbliche. Vi potrà essere disparità di pareri per altri servizi (come ad esempio i trasporti, le poste ecc.) perché in teoria questi servizî potrebbero essere esercitati anche da privati.

Ma quelle funzioni essenziali, pubbliche per antonomasia, sono tali perché nessun altro fuorché lo Stato può esercitarle. Ora io esorto anche coloro che si fanno fautori della più ampia libertà di sciopero a rispondere a questa mia domanda: ammettete lo sciopero anche degli agenti di polizia, dei carcerieri, dei magistrati, degli agenti delle imposte, con i quali lo Stato assicura le funzioni essenziali?

Se rispondete affermativamente, allora voi volete non lo Stato, ma l’harakiri dello Stato; perché, mentre voi volete dare allo Stato la dovuta forza ed il dovuto prestigio, nello stesso tempo ne favorite il suicidio con le vostre stesse mani.

Voi fate le leggi e i magistrati non le applicano, voi comminate le pene e non potete farle espiare, voi votate le imposte e i funzionari non ve le riscuotono.

I funzionari delle imposte domandano aumenti di stipendio e contemporaneamente chiudono gli sportelli ed i cittadini gongolanti non vanno a pagare le tasse che sono necessarie per pagare gli stipendi.

Tanto è sentita questa contraddittorietà e questo contrasto che noi abbiamo ascoltato con molta attenzione il discorso dell’onorevole Di Vittorio, così misurato e prudente, col quale in sostanza si controbatte:

l°) che noi forziamo le situazioni portandole all’eccezionale ed al fantastico;

2°) che a moderare gli eccessi pensano gli stessi lavoratori.

Che noi non tendiamo ad esagerare i pericoli è dimostrato dalla dura realtà quotidiana. Mai in Italia si erano avuti scioperi dei magistrati ed invece oggi se ne è già avuto un primo assaggio e se ne sta tentando un secondo. Io do atto all’onorevole Di Vittorio dell’opera saggia che in molti casi anche recenti ha compiuto la C.G.I.L. e lo dico con piena soddisfazione, ma devo anche rilevare che gli scioperi si moltiplicano in modo impressionante e che in alcuni casi si sono dichiarati scioperi che la Confederazione non aveva affatto autorizzati.

Riconosco anche che per esempio, nel recente sciopero politico per i dolorosi fatti di Palermo, si è provveduto ad attenuarne le conseguenze, escludendo dallo sciopero gli addetti ai pubblici servizi; tutto ciò riconosco, ma è altrettanto vero che la Carta, che deve segnare i diritti e doveri dei cittadini, la deve dare l’Assemblea Costituente.

Questa Carta diventerà il Codice anche morale che deve regolare i rapporti fra i cittadini. Ora votare l’articolo che la Commissione propone noi assolutamente non possiamo.

La sua formulazione è così ampia che si corre il pericolo di lasciar via libera ai meno riflessivi, portando lo Stato a rovina.

L’onorevole Di Vittorio ha detto: abbiate fiducia nei lavoratori e noi rispondiamo: la abbiamo. Ma replichiamo anche ai lavoratori ed in particolare agli statali: abbiate fiducia nello Stato che è cosa vostra e del quale voi siete la spina dorsale.

V’è una presunzione assoluta che questo Stato non voglia sfruttarvi. Esso vi retribuisce come meglio può.

Ad ogni modo discuteremo di questo argomento con calma e libertà e regoleremo la materia con legge particolare.

Una regolamentazione ci vuole; non per limitare il diritto di nessuno, non per venire in nessuna maniera a togliere questo sacrosanto diritto di incrociare le braccia, quando le condizioni di lavoro non siano consentanee ai diritti dei lavoratori, ma unicamente perché questo Stato possa vivere bisogna che un regolamento avvenga e, se deve avvenire, facciamolo d’accordo con tranquillità e meditato studio.

Facciamolo con una legge separata in altra sede ed evitiamo, nell’affrettata regolamentazione di questo momento, che avvengano delle omissioni o delle norme poco chiare ed incomplete. Noi vogliamo sia riconosciuto il diritto sacrosanto dei lavoratori, ma vogliamo anche che sia riconosciuta la forza dello Stato e ne sia garantita in pieno la autorità. (Applausi al centro – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento già svolto dell’onorevole Cortese:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto nell’ambito delle leggi che lo disciplinano».

Segue l’emendamento dell’onorevole Romano:

«Sostituirlo col seguente:

«I conflitti nascenti da contratti collettivi di lavoro sono regolati da arbitrati obbligatori emessi, previo il tentativo di conciliazione, da collegi composti da magistrati e rappresentanti delle categorie interessate in conformità a quanto sarà stabilito dalla legge».

L’onorevole Romano ha facoltà di svolgerlo.

ROMANO. Onorevoli colleghi, onorevole Presidente, lo scopo dell’emendamento da me proposto è quello di sostituire a un istituto, per me alquanto preoccupante, altro che ha già dato buona prova nel nostro ordinamento giuridico, intendo alludere all’arbitrato obbligatorio.

E che questo istituto abbia dato buona prova trova conferma anche nel giudizio di cultori di economia, i quali hanno sempre affermato come assioma indiscutibile l’inefficacia e, più ancora, il danno dello sciopero.

Adamo Smith, nel suo libro «Ricerche sulla natura e causa della ricchezza delle nazioni», così scriveva: «Gli operai assai di rado ricevono qualche vantaggio dalla violenza di quelle tumultuose combinazioni, le quali in generale non finiscono che con la punizione o la rovina dei capi, sia per l’intervento del magistrato, sia perché, il più delle volte, il maggior numero degli operai è costretto a sottomettersi per provvedere alla sussistenza sua e della propria famiglia».

Altri, come Carlo Regnault, ebbe a dire che gli scioperi non valgono a nulla e che bisogna con ogni mezzo eliminare questa fonte di mali.

Altri, pur deplorando i danni non trascurabili dell’arma dello sciopero, riconoscono in essa dei vantaggi per le classi operaie.

Distinguendo il duplice aspetto del problema economico dello sciopero, deve rilevarsi che, sotto un punto di vista, lo sciopero è una sottrazione di ricchezza, un lucrum cessans e conseguentemente una passività, che può talora assurgere a cifre incalcolabili. Sotto un altro punto di vista, nessuno può mettere in dubbio che lo sciopero è stato spesso utile agli operai per la tutela dei loro diritti e della loro dignità, difendendoli dalle piccole tirannie.

È opportuno in ogni modo tener presenti alcuni dati statistici: in base ad elementi raccolti presso la Direzione Generale di Statistica si ha che in media il 27,6 per cento degli scioperi è stato pienamente favorevole agli operai; il 33,4 per cento parzialmente favorevole; il 39 per cento sfavorevole.

Quanto alle cause, si hanno queste percentuali: 47,61 per cento per aumento di salario; 6,74 per cento per riduzione delle ore di lavoro; 12,31 per cento per reazione alla riduzione dei salari ed altri per motivi diversi.

Prima domanda: il diritto di sciopero costituisce materia da inserirsi nella Carta costituzionale? A questa domanda risposero negativamente anche i membri della terza Sottocommissione.

Invero non tranquillizza per nulla l’inserire nella Carta costituzionale un diritto con il cui esercizio non solo si possono violare clausole contrattuali, anche liberamente stipulate, ma arrestare anche lo svolgimento delle attività più essenziali della vita dei cittadini.

Che il comprendere il diritto di sciopero nella Carta costituzionale abbia preoccupato anche altri Paesi lo si vede da un latto recente.

In Francia l’articolo 32 del primo progetto così diceva: Il diritto di sciopero è riconosciuto a tutti nell’ambito delle leggi che lo regolano. Il progetto fu respinto dal referendum del 5 maggio 1946 e la Costituzione approvata accolse il seguente principio: «Il diritto di sciopero viene esercitato nel quadro delle leggi che lo regolano». Con questa modifica non si volle affermare in modo assoluto il riconoscimento del diritto di sciopero. Anche in Inghilterra il Governo ha sentito il bisogno di prorogare le leggi di guerra fino al 1950, per quanto riguarda l’esercizio del diritto di sciopero.

Ora, fissati questi concetti, e leggendo il Titolo III, si domanda: questo diritto di sciopero è compatibile con tutte le altre norme comprese nel titolo stesso? In proposito rammento che Pasquale Stanislao Mancini, il quale, oltre ad essere un grande giurista, era anche musicista, ebbe a dire in un salotto berlinese che anche la norma giuridica ha la sua armonia.

Chi legge le norme comprese sotto il titolo terzo che precedono e seguono l’articolo 36, ha l’impressione di una larga tutela del lavoro sia sotto il profilo sociale, sia sotto il profilo economico: infatti la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 30, comma 1°); riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto (art. 31); il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla qualità e alla quantità del lavoro ed in ogni caso adeguata alla necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia (articolo 32); il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite (art. 32, comma 2°); ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed alla assistenza sociale (articolo 34, comma 1°); i lavoratori in ragione del lavoro che prestano, hanno dritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità, vecchiaia o disoccupazione involontaria (art. 34, comma 2°); i lavoratori hanno diritto di partecipare nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera (art. 33).

In mezzo a tutte queste disposizioni improntate alla giustizia ed alla dignità personale, nonché alla pace sociale, è lanciata come una miccia la norma contemplante il riconoscimento del diritto di sciopero.

Tutto questo fa pensare che con l’articolo 36 si sia voluto andare incontro esclusivamente ad esigenze politiche.

Quello che deve rilevarsi è che con l’articolo 36 si è tolto allo sciopero ogni limite di fatto e di diritto ed è rimasta invece in vita la illegittimità della serrata. In tal modo si è distrutta ogni parità di trattamento fra le parti contraenti, cioè fra prestatori d’opera e datori di lavoro, che per ragioni di giustizia dovrebbero tenersi su un unico piano di uguaglianza. In tal modo si accresce enormemente la forza del venditore di lavoro e si riduce quasi all’impotenza l’acquirente, che, di fronte alle eccessive richieste, non ha neppure la possibilità di salvare l’azienda con la serrata, dovendo rassegnarsi al fallimento.

Arbitrato obbligatorio. Io penso che per risolvere i contrasti tra gli agenti della produzione bisogna fare ricorso all’azione del pubblico potere.

Lo Stato non può tra i conflitti del lavoro starsene spettatore accidioso per lavarsene le mani in questioni così gravide di conseguenze.

Lo Stato rinunzierebbe alla sua ragione di essere, cesserebbe di essere custode dell’ordine e vindice di giustizia se non mirasse sia per via indiretta che con azione diretta ad essere artefice di pace tra i vari gruppi economici.

Bisogna prevenire il male con l’autorità delle leggi, rimuovendo a tempo le cause da cui si prevede possa nascere il contrasto.

A questi principî si uniformava la legge sui contratti collettivi del 1926, che dichiarava bensì reati lo sciopero e la serrata ma costruiva un sistema giuridico abbastanza bene congegnato in sostituzione dello sciopero e della serrata.

Le due figure principali di quella formulazione erano la conciliazione e l’arbitrato.

Con la conciliazione le parti o da se stesse o per via di rappresentanti o di mediatori dichiarano le condizioni per le quali rinunzierebbero alla lotta; col secondo le parti devolvono ogni potere di deliberazione ad un terzo individuo o gruppo che gode la loro piena fiducia. L’idea dell’arbitrato obbligatorio è l’unico sistema veramente concludente che possa evitare, con l’utilità di tutti, molti scioperi.

I contrasti spesso scaturiscono dall’ignoranza dell’un contraente sulle condizioni e possibilità dell’altro. In questi casi l’opera dell’arbitrato è risolutiva.

Bisogna infine rilevare che, il più delle volte, lo sciopero è fomentato da agitatori i quali se ne servono come strumento intimidatorio nella loro azione politica.

L’istituto dello sciopero, così come è inserito nella Carta costituzionale, può passare facilmente dal campo economico a quello politico. Ed ogni Governo si trova in uno stato di inferiorità di fronte a qualsiasi confederazione del lavoro che ad un certo momento, per motivi esclusivamente politici, può arrestare la vita della Nazione e far cadere nel nulla l’autorità del Governo. (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Perrone Capano e Bellavista hanno presentato il seguente emendamento:

«Il diritto all’autodifesa sindacale è riconosciuto. Esso è regolato dalla legge».

L’onorevole Perrone Capano ha facoltà dì svolgerlo.

PERRONE CAPANO. Onorevoli colleghi, il mio emendamento, molto breve, si ispira alla finalità di permettere che il diritto di sciopero, anziché subire nella Costituzione – nel caso che l’articolo 36 vi sia mantenuto – una regolamentazione generica o unilaterale o tendenziosa come si propone col testo del progetto e con gli altri emendamenti, si possa al più presto inquadrare in un sano ed organico sistema di legislazione sindacale.

Come è noto a tutti, il diritto di sciopero – come mezzo estremo di difesa da parte dei lavoratori delle loro ragioni economiche – è una conquista che ai lavoratori stessi ha assicurato la legislazione liberale. Senonché, come è ugualmente noto a tutti, per la dottrina liberale la libertà di sciopero costituisce una manifestazione particolare della libertà civile in genere ed è concepibile solo in un quadro nel quale altre libertà non meno essenziali, come la libertà di lavoro in coincidenza di sciopero e la libertà di serrata, siano ugualmente tutelate.

Ora, sembra a me che l’articolo 36 del progetto di Costituzione, nella sua laconicità, sia troppo lato ed equivoco. Esso va addirittura oltre (come è stato già osservato) il testo adottato al riguardo con molta chiarezza dalla Costituzione francese, la quale, nel preambolo, ha in poche parole sancito che «le droit de grève s’exerce dans le cadre des lois qui le réglementent».

In tal modo, vari problemi derivano dall’articolo in esame, così come esso è concepito. Innanzi tutto sorge il problema relativo alla definizione dell’espressione «lavoratore». Chi sono i lavoratori? Se è vero che l’articolo 1 della Costituzione afferma, come afferma, che la Repubblica è fondata sul lavoro, e se è vero altresì che l’articolo 31 definisce il lavoro «l’attività e la funzione che concorre allo sviluppo materiale e morale della società conformemente alle possibilità e alla scelta» di ciascuno, deve necessariamente e logicamente considerarsi lavoro anche l’attività produttiva, anche l’attività commerciale, anche l’attività professionale ecc.; e quindi in base al testo dell’articolo in oggetto si deve riconoscere che il diritto di sciopero dovrà essere ammesso anche a favore dei produttori, anche a favore dei commercianti, dei professionisti. Di conseguenza si dovrebbe considerare ammessa la serrata; e così anche lo sciopero dei militari, dei medici, degli ingegneri, delle levatrici, dei pubblici funzionari ecc.

La seconda questione che sorge dalla formulazione del testo dell’articolo 36 è questa: lo sciopero deve essere limitato al campo economico o deve considerarsi esteso anche al campo politico? L’articolo 36 tace intorno a ciò, e col suo silenzio lascia intendere che la Costituzione ammetta senz’altro lo sciopero politico. In sostanza, mentre il progetto di Costituzione nel campo economico si limita a fissare i principî generali o a gettare, come è stato detto, un seme, lasciando al futuro legislatore il compito di disciplinare in concreto gli istituti con adeguata latitudine, qui, a proposito del diritto di sciopero, sembra invece che con l’articolo 36 abbia risolto con un sol tratto di penna e in un determinato senso molto ampio e caotico tutti i problemi che al diritto di sciopero si ricollegano.

Questo evidentemente è alquanto eccessivo, e non può essere accettato, perché sono da respingere molte delle conseguenze che ho indicate poco prima, e perché vi sono principî ed istituti nel campo sindacale che si sono fatti una sicura strada fra le moderne legislazioni ed ai quali non può non farsi riferimento anche dalla nostra.

Non ho certamente l’intenzione di dilungarmi nella illustrazione di questo aspetto del problema. Ma non nuocerà ricordare, ad esempio, che l’Inghilterra ha prorogato fino al 1950 – e l’Inghilterra è retta da un governo laburista – il regime eccezionale di guerra. Come non sarà inutile ricordare che così l’Inghilterra, come gli Stati Uniti rendono le organizzazioni operaie civilmente responsabili dei danni arrecati dai loro iscritti quando essi, scioperando, abbiano violato i contratti di lavoro o commesso atti contrari all’altrui libertà di lavoro.

Il procedimento di ingiunzione che si applica negli Stati Uniti conferisce all’autorità giudiziaria in quel civilissimo paese il diritto di ordinare a chiunque di astenersi da qualsiasi atto che possa rappresentare un pericolo per l’interesse pubblico sotto pena di sanzioni pecuniarie per le organizzazioni e di pene restrittive della libertà per gli autori di quegli atti.

Oggi, non se ne dolgano i colleghi dell’estrema sinistra, si usa e si abusa dello sciopero. Se ne abusa innanzi tutto adoperandolo troppo frequentemente per fini esclusivamente politici, e in qualsiasi anche minima occasione di contrasti economici, con grave danno della comunità nazionale e anzitutto delle classi lavoratrici. Perché lo sciopero è un arresto di produzione e ogni arresto di produzione è una perdita di ricchezza. Nei giorni di sciopero non si produce e quando non si produce la somma integrale del reddito nazionale e tutti i cespiti che da esso derivano diminuiscono in proporzione. E la produzione diminuisce anche quando lo sciopero colpisce le cosiddette attività improduttive, come i telefoni, i trasporti ecc. perché dalla inattività dei telefoni o dei trasporti possono dipendere molteplici cause di svantaggio per la produzione e la pubblica economia. Vi ha di più: sono messi, con questa scioperomania, a rischio la vita stessa dello Stato e il fondamento della società nazionale che riposa appunto sulla produzione e sull’ordine pubblico.

È evidente che da ciò non deve derivare il divieto assoluto dello sciopero, ma scaturisce la necessità di attuare un civile e moderno sistema di risoluzione delle vertenze del lavoro che eviti il danno dei lavoratori, conflitti violenti e fastidi ai consumatori. È giusto che lo sciopero politico non sia consentito; e abbiamo visto che l’articolo 36 non solo non lo vieta, ma sembra esplicitamente autorizzarlo. L’onorevole Di Vittorio diceva l’altro ieri che molte vittorie della libertà sono state conseguite attraverso pronti e disciplinati scioperi. Non lo nego, ma bisogna riconoscere del pari che non a mezzo dello sciopero, bensì mediante la formazione di una salda coscienza politica e di un profondo attaccamento alla libertà, la società nazionale in genere e la classe lavoratrice in ispecie si devono premunire in sede politica contro i ritorni della tirannia. Lo sciopero economico deve essere subordinato sempre al dovere dell’esperimento della conciliazione e quindi all’arbitrato di una magistratura speciale o dello Stato e deve essere vietato per i pubblici funzionari ed i pubblici servizi, nei riguardi dei quali devono valere soltanto i mezzi ordinari che ho indicato or ora per la composizione delle vertenze sindacali. Ora, non potendo tutto questo risultare dalla Costituzione, e la dizione del progetto risultando equivoca, mi sembra che la formula idonea da adottarsi, per non pregiudicare e per perfezionare anzi le conquiste realizzate in questo campo, sia racchiusa nell’emendamento da me proposto secondo cui è senz’altro riconosciuta l’autodifesa sindacale ed è poi riservato alla successiva legislazione il compito di determinare le modalità ed i termini in base ai quali tale autodifesa dovrà esercitarsi. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Giannini ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, devo premettere la mia, la nostra protesta contro l’abbondanza dei temi che si trattano nella discussione del progetto di Costituzione. Gli onorevoli colleghi mi scuseranno se mi dimostro altrettanto insistente e seccatore quale fu un altro nostro onorevole collega che ci precedette in un Parlamento dell’antica a Roma e che ripeteva continuamente il suo concetto: delenda Carthago. Noi ripeteremo continuamente il nostro concetto: che nel progetto di Costituzione si discutono argomenti i quali non hanno nulla a che fare con il progetto di Costituzione.

Signor Presidente, non tema che io vada in lungo: sarò brevissimo. Nel Titolo III, secondo noi, ci sono 15 articoli di cui sono utili solamente parte del primo che è articolo 30, parte del 33, parte del 34, parte del 37 e il 39. Gli articoli 31, 32, 34, 35, 36, 39, 40, 41, 42, 43, 44, sono undici articoli perfettamente inutili e che avrebbero potuto benissimo far parte di una legge speciale sul lavoro da far discutere alla Camera dei Deputati che saia regolarmente eletta a suo tempo.

Ciò premesso, vengo all’articolo 36. Secondo noi, un concetto rivoluzionario (badate, noi non siamo contrari alle rivoluzioni) non può scivolare per emendamento in una Costituzione. Alcuni anche della nostra parte si sono chiesti perché non è riconosciuta anche la libertà di serrata; noi respingiamo l’uno e l’altro concetto di libertà, perché non le riteniamo libertà. E così respingiamo anche il concetto di cercare una preventiva conciliazione prima di dichiarare lo sciopero; perché, per quanto avversarî noi possiamo essere dei partiti di sinistra, non possiamo non ammettere che tutti gli scioperi seguono precisamente ad un tentativo di conciliazione, che è fallito; nessuno sciopero è dichiarato così per capriccio e senza una ragione, a meno che non si tratti di sciopero politico.

Noi riteniamo che non possa esistere la libertà di recare danno a terzi.

L’onorevole Di Vittorio ci ha spiegato che in Russia non c’è libertà di sciopero, perché gli operai in quel Paese sanno di non essere sfruttati.

Non credo che conti ciò che si sa, onorevole Di Vittorio, perché spesso si sa l’errore. Una volta si sapeva che la terra non era sferica e non si sapeva, per esempio, che la somma dei quadrati costruiti sui cateti è equivalente al quadrato costruito sull’ipotenusa (Si ride). Non si tratta di ciò che si sa. Il fatto è un altro.

Noi non ci perdiamo ad indagare perché è vietato; noi constatiamo che c’è il divieto. Perché è vietato?

Di VITTORIO. Non è vero; non è vietato, esiste.

GIANNINI. È vietato, perché nel comunismo si pensa, e giustissimamente, che la collettività non deve essere danneggiata da un contrasto, anche giusto, tra interessi singoli.

Ed a questo punto, io forse farò stupire gli onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, domandando: «Ma il comunismo c’è solamente in Russia?».

Io credo che il comunismo ci sia in tutte le società borghesi. Perché il comunismo non consiste unicamente in quel sogno, che la povera gente crede; il comunismo è una concezione statale, è un’idea di governo, è una idea economica, è un modo di mandare avanti quella grande azienda, che è un Paese. Ora, in qualunque convivenza, in una grande città, c’è necessariamente il comunismo, di moltissimi servizi: c’è il comunismo dei tram; non è possibile che ognuno abbia un tram per conto proprio.

DI VITTORIO. Non è comunismo, è comunalismo.

GIANNINI. C’è il comunismo dei fornai: non sarebbe possibile a Roma che ciascuno avesse un forno per cuocere il suo pane. Quindi il comunismo è nella organizzazione della società moderna (Si ride). Io sono molto lieto della vostra ilarità; vuol dire che le mie osservazioni vi mettono in allegria.

Ma, badate che sono osservazioni serie (Commenti). Non è la prima volta che si ride delle cose serie. Si è riso del Galilei, si può ridere anche di me. (Ilarità).

Il certo è questo: che tutti i servizi pubblici, in una convivenza moderna, sono basati sul concetto comunistico.

Ora, noi riteniamo che una determinata categoria non abbia il diritto di privare la società della quota di lavoro che essa deve, perché sfrutta tutti gli altri servizi e vantaggi, semplicemente per difendere il proprio interesse particolare.

Solamente Robinson sulla sua isola ha questi diritti, perché insieme a questi diritti ha anche tutti i vantaggi e tutte le libertà, anche quella di fare il proprio pane, ma deve cominciare lui a seminare il proprio grano, a raccoglierlo, molirlo, quindi fare il pane e infornarlo. Prima di mangiare ha dovuto compiere tutta una serie di operazioni necessarie per quella che è la fabbricazione di un pezzo di pane.

Ora, è chiaro che lo sciopero, come la serrata, vulnerano l’interesse generale.

Io non sto qui a difendere una categoria o un’altra; sto qui a difendere l’Uomo qualunque. Noi abbiamo l’Uomo qualunque, il quale vive nella grande città. Perché è venuto nella grande città? Vi è venuto perché gli hanno detto: tu potrai abitare alla periferia, dalla periferia avrai un tram che ti porterà al centro; nel centro compirai il tuo lavoro.

Un giorno, per una ragione assolutamente estranea a lui, egli è privato del tram ed è costretto a fare due ore di cammino a piedi per recarsi a lavorare. Che cosa importa all’Uomo qualunque la differenza di opinione tra il tranviere e l’azienda tranviaria?

Una voce a sinistra. Vi è il tranviere qualunque. Il vero Uomo qualunque è solidale coi tranvieri.

GIANNINI. Lei prende uno dei più grandi equivoci della sua carriera politica. Non è affatto solidale, tanto è vero che sono qui. L’Uomo qualunque non è solamente il tranviere, è anche il tranviere, ma non c’è ragione per cui lo sciopero del tranviere debba bloccare l’avvocato, il marmista, l’impresario di pompe funebri.

Una voce a sinistra. Che mestiere fa l’Uomo qualunque?

GIANNINI. Che cosa importa a noi che ci sia un determinato conflitto fra due categorie ed un urto di interessi privati per cui la società non ha nessun dovere di intervenire e principalmente non ha nessun dovere di subirne le conseguenze? È chiaro dunque che noi giustifichiamo con questi argomenti, che sono argomenti del buonsenso (Si ride), la nostra avversione.

Onorevoli colleghi, di quella e di altre parti dell’Assemblea, mi onoro di dirvi che in materia di sfottetti, di interruzioni e di scherzi, posso tenere cattedra ai maestri dei vostri maestri.

Una voce a sinistra. Lo ha detto diverse volte. E noi le possiamo dare lezioni di politica.

GIANNINI. Quindi, se ci vogliamo mettere sul terreno dello sfottette, basta che il Presidente me lo dica ed io comincio, ma non so dove arriveremo. Fino adesso non ho perduto mai terreno.

È logico che per queste ragioni di buonsenso noi siamo contro l’una e l’altra forma di sopraffazione particolare. Si dirà: ma come volete dirimere i conflitti di lavoro, i conflitti che pure ci sono? Avevo paura di dirvelo, credevo non lo dicesse nessuno, ma molti, prima di me, hanno parlato di tribunali del lavoro e bisognerà tornare…

Una voce a sinistra. Voi volete i tribunali speciali.

GIANNINI. Lei, al solito dice una cosa errata ed offende in me una persona che ha portato molto equilibro in questa Assemblea e mi meraviglia che lei non se ne renda conto. La brutta figura la fa lei e non io. (Approvazione a destra).

Comunque, a noi non preoccupa il precedente fascista della Magistratura del Lavoro, come non preoccupa il precedente fascista dell’IRI, come non preoccupano tanti precedenti fascisti, come non ha preoccupato il precedente fascista della legge sulla cinematografia, dove noi e voi abbiamo combattuto insieme.

Quindi noi sosteniamo che bisogna vietare sia lo sciopero, sia la serrata, opponendosi alla violenza da qualunque parte venga, sia da parte padronale, sia da parte proletaria, e ci opponiamo perché la libertà di sciopero ammessa nella Costituzione, sancirebbe, sotto il mendace nome di libertà, la difesa violenta di un interesse particolare.

Ho finito, e adesso potete anche ridere. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Mazzei ha proposto di sostituire l’articolo col seguente:

«Il diritto di sciopero è riconosciuto ed è disciplinato dalla legge».

Ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MAZZEI. Onorevoli colleghi, avevo presentato un emendamento che, come avete udito, suonava così: «Il diritto di sciopero è riconosciuto ed è disciplinato dalla legge».

Dalle discussioni avute con amici del mio Gruppo è risultato che sarebbe stato meglio chiarire questa formula con un’altra che ora ho presentato in sostituzione della prima; la nuova formula da noi proposta dice: «Il diritto di sciopero è riconosciuto. La legge ne regolerà l’esercizio al fine di assicurare le funzioni essenziali della vita dello Stato».

Quale è la ragione della sostituzione dell’emendamento? Abbiamo voluto chiarire il criterio secondo il quale si potrà dal legislatore futuro stabilire dei limiti al diritto di sciopero.

Ma prima di parlare dei limiti del diritto di sciopero occorre innanzitutto intendersi bene su che cosa è il diritto di sciopero e il fenomeno stesso dello sciopero. Ho sentito poco fa dal collega onorevole Gabrieli che il diritto di sciopero sarebbe fondato sulla libertà del lavoro. Secondo questa concezione, il diritto di sciopero sarebbe, né più né meno, che la facoltà data a tutti di abbandonare il lavoro. Se così fosse, si avrebbe, a tacer d’altre, questa conseguenza: che il crumiraggio, a sciopero avvenuto, sarebbe altrettanto legittimo e sacrosanto – non solo da un punto di vista giuridico, ma anche da un punto di vista morale – quanto lo sciopero stesso. Poiché è chiaro che anche colui che invece di abbandonare il lavoro vuole continuare a lavorare, esercita il suo diritto di libertà del lavoro. La conseguenza assurda rende evidente che il diritto di sciopero ha ben altro fondamento.

Il diritto di sciopero non è un vero diritto di assentarsi dal lavoro. E non è neppure il diritto di rompere il contratto di lavoro legalmente stipulato. Ché, se fosse semplicemente questo, non si capirebbe perché mai in passato il diritto di sciopero sia stato tante volte vietato. Si tratta dunque di altro. La verità è che lo sciopero è un atto di violenza: la qualcosa peraltro non implica che lo sciopero non possa essere legittimo, come è legittima la violenza quando è fondata su giuste ragioni.

Che sia un atto di violenza, è chiaro dal fatto che in realtà uno sciopero tende a costringere l’altra parte contraente a modificare le condizioni di lavoro in modo favorevole a coloro che scioperano. Questa è la sostanza dello sciopero come fenomeno sociale e da qui bisogna partire ber individuare il fondamento del diritto di sciopero. Si potrebbe domandare: se lo sciopero è una violenza, come mai può divenire diritto ed essere considerato persino, in certi casi, come un dovere sociale dei lavoratori? Il quesito è di estrema importanza e si capisce perché. Ci deve essere un presupposto da cui si parte nel giuridicizzare questo fenomeno, nel farne una libertà garantita, ossia un diritto. Il presupposto è la «diseguaglianza» dei contraenti nel contratto di lavoro, è il fatto che le categorie lavoratrici ritengono di essere e sono in condizioni di inferiorità rispetto all’altro contraente, rispetto alle categorie padronali.

Quando lo Stato riconosce il diritto di sciopero, ammette implicitamente che il contratto di lavoro, realizzato a tenore di Codice civile, non è di per se stesso fatalmente e necessariamente giusto. Se il contratto di lavoro fosse sempre giusto, per il fatto di essere liberamente consentito, è chiaro che a nessuna delle parti potrebbe essere data facoltà di servirsi di mezzi di pressione sociale per costringere l’altra a modificare le condizioni contrattualmente stabilite. Questo è il fondamento del diritto di sciopero, e non già la libertà del lavoro.

Così stando le cose, dalla stessa natura, dalla stessa funzionalità sociale del diritto di sciopero derivano limiti al diritto di sciopero. Non vi è nessun diritto che non incontri limiti. Tutti i diritti incontrano alcuni limiti; quanto meno incontrano i limiti che sono connaturati con la ragione per cui questi diritti esistono e vengono positivamente riconosciuti e sanciti. Ogni diritto ha una sua funzionalità sociale, ha dei presupposti sociali, per i quali nasce e si afferma come diritto. I limiti vengono dal fatto che questo diritto non può essere esercitato contro quella funzione sociale alla quale esso risponde.

Se la natura e il fondamento del diritto di sciopero son quelli da me avanti chiariti, ne discende logicamente che il diritto di sciopero non può competere a quelle categorie di lavoratori che non si trovano nella condizione di avere di fronte un datore di lavoro che ha interessi privati diametralmente opposti. Il contratto di lavoro è il risultato di uno sforzo che l’imprenditore da una parte e il salariato dall’altra parte fanno per ottenere ciascuno di più, per aver retribuito meglio il contributo che portano all’opera comune: la produzione. Questo accade nei contratti di lavoro fra operai ed imprese private, ma non può accadere o per lo meno non può accadere nei medesimi termini, fra lo Stato e i suoi dipendenti.

Non può accadere perché lo Stato non è che l’espressione autoritaria della collettività e se costituito, come Governo e come rappresentanza nazionale democraticamente, è evidentemente l’espressione della volontà generale. I lavoratori dipendenti dallo Stato e, in particolare, come vedremo appresso, quelli di loro che sono depositari e gestori del pubblico potere, non possono avere, in linea di massima, alcun motivo valido su cui fondare uno sciopero, se è vero che lo sciopero è legittimo in quanto salutare correttivo alla disparità iniziale dei contraenti nel contratto di lavoro.

Non ha senso, in un moderno Stato sociale, lo sciopero contro lo Stato. Lo Stato è un complesso di istituzioni e di organi che vengono espressi dalla collettività nazionale, ed è chiaro che la collettività nazionale, se organizzata democraticamente mediante rappresentanze scelte liberamente, le quali sono esse stesse la volontà generale, non può permettere che la volontà particolare di un gruppo o di una categoria tenti di esercitare pressioni e si contrapponga alla volontà generale. È bensì vero che questo ragionamento, in astratto ineccepibile, si scontra, nella realtà, con situazioni pratiche che possono smentire la validità del principio.

Vi sono infatti casi in cui lo Stato, non ancora pienamente democratizzato non tutela adeguatamente tutte le categorie, e vi sono anche casi in cui lo Stato, per ragioni di squilibrio finanziario e di scarsezza di mezzi, finisce per sacrificare determinate categorie di suoi funzionari. Ma sono sempre casi di eccezione, perché lo Stato ha tutto l’interasse di pagar bene i suoi dipendenti.

Ci rendiamo peraltro conto che in Italia i dipendenti dello Stato da decenni stringono la cinghia e perciò non giungiamo alla conseguenza che a rigor di logica si dovrebbe trarre dai presupposti da cui sono partito: la punizione, come fatto illecito, dello sciopero dei dipendenti dallo Stato o da Enti gestori di pubblici servizi. Noi non diciamo di vietare l’atto dello sciopero e meno ancora punirlo penalmente: tanto meno punirlo, perché ritengo che la democrazia repubblicana non è ancora così perfettamente organizzata da creare in tutte le categorie quel senso unanime di pubblica fiducia nell’equo e costante rispetto delle esigenze sociali fondamentali di tutte le categorie di lavoratori.

Diciamo però che lo sciopero è assolutamente assurdo quando si tratta di detentori del pubblico potere. È chiaro che è assurdo lo sciopero dei carabinieri, come è assurdo lo sciopero delle guardie municipali, come è assurdo anche lo sciopero dei magistrati, come sarebbe assurdo lo sciopero dei prefetti, e voi lo vedete subito che è assurdo. Perché un depositario del pubblico potere che sciopera, sciopera in sostanza contro il potere legislativo, perché è il legislativo che regola, in una corretta democrazia repubblicana, le condizioni di lavoro delle predette categorie.

Per le altre categorie di dipendenti dello Stato e degli Enti pubblici o esercenti pubblici servizi, per le categorie di statali che sono – come dicono i francesi – agents de gestion e non già agents d’auctorité, basterà stabilire l’arbitrato obbligatorio, che se affidato ad organi politicamente e tecnicamente efficienti garantirà efficacemente i diritti e gli interessi di dette categorie.

Ed allora, mi paiono chiariti i concetti essenziali che noi affermiamo. Il diritto di sciopero lo riconosciamo come un valido strumento di giustizia sociale perché il riconoscimento di esso ha avuto ed ha tanta parte nel progresso sociale moderno. Ma, affermando questo principio, noi diciamo che nello stesso diritto di sciopero, nella natura stessa del diritto di sciopero, risiedono limiti che vanno rispettati, se non si vuole che esso diventi un pericoloso privilegio e un fomite di disordine anziché di ordine giusto nella società del nostro tempo.

Non siamo noi a porre, arbitrariamente, limiti al diritto di sciopero; esso li pone da sé appena che sia riconosciuta la sua natura di mezzo di auto-tutela delle categorie. È tutta qui la ragione dello sciopero; è la categoria che si auto-tutela, e questa auto-tutela viene riconosciuta e ritenuta utile dallo Stato. Perché? Perché lo Stato ha la funzione d’armonizzare, e non già di soffocare, i contrasti sociali legittimi, ha la funzione di ordinare e ridurre ad unità di opere la vita sociale e non già di comprimerla e raggelarla in un immobile, sterile automatismo burocratico.

Nel comma secondo del nostro emendamento si chiarisce che il criterio essenziale dei limiti che il legislatore futuro positivamente fisserà all’esercizio del diritto di sciopero, deve essere quello di far sì che dall’esercizio di una libertà, non venga un danno alla vita democratica dello Stato repubblicano, creando una carenza nei suoi organi ed attività fondamentali, come accadrebbe per esempio se scioperassero coloro che sono preposti all’ordine pubblico. Se, per esempio, scioperassero i secondini di un carcere, tutti qui protesterebbero, anche i più accesi sostenitori dello sciopero.

Stabilito questo criterio, per le norme di dettaglio si rinvia alla legge che risolverà anche altri problemi particolari che si pongono in materia di diritto di sciopero, come, ad esempio, la questione dell’opportunità o meno di stabilire dei termini di preavviso anche nei casi di sciopero che non siano quelli dei pubblici funzionari; come l’opportunità o meno di distinguere nella determinazione dei limiti all’esercizio del diritto, fra i detentori del potere pubblico e gli altri esercenti di pubbliche funzioni, di pubblici servizi, ecc. Tutte questioni che saranno trattate e risolte quando si verrà a regolare questa complessa materia, che è una materia fondamentale per lo Stato repubblicano, materia nella quale bisogna procedere con molta attenzione, perché ha una sua profonda drammaticità sociale. Infatti, molte volte, nell’esercizio del diritto di sciopero, si rischia di vedere menomata la libertàdel lavoro in cittadini che si vedono costretti dal sindacato a scioperare, anche se non ravvisano tutti i motivi per arrivare allo sciopero. C’è una profonda drammaticità, che fu già notata da Pier Giuseppe Proudhon, quando rilevò l’antinomia che si prospetta, in materia di sciopero, tra l’esigenza della libertà del lavoro e l’altra non meno sacra e feconda della solidarietà operaia.

Per ora basti aver chiarito e fissato il fondamento e i limiti del diritto di sciopero, limiti – ripeto – non da noi arbitrariamente posti, ma connaturali all’essenza stessa della libertà di sciopero, alla sua funzionalità sociale. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Foa ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«La legge potrà regolare il diritto di sciopero dei dipendenti degli enti pubblici, unicamente in rapporto ai termini di preavviso ed alle procedure di consenso da parte della rappresentanza unitaria sindacale di tutti i lavoratori».

Ha facoltà di svolgerlo.

FOA. Pochissime parole basteranno per illustrare il mio emendamento che fu proposto nella ipotesi che questa Assemblea voglia rinviare alla legge la disciplina dello sciopero.

Io veramente ho timore che, se nell’atto in cui si afferma il diritto di sciopero, si rinvia genericamente la sua disciplina alla legge, si disciplina senza precisare l’orientamento ed i limiti dell’attività legislativa in questa materia, si venga a svuotare questo diritto non nei fatti, poiché esso è affidato alla coscienza democratica del paese, ma nella sua portata costituzionale. Io temo cioè che se si riconosce un diritto e, nell’atto stesso in cui lo si riconosce, si dice puramente e semplicemente che esso sarà disciplinato dalla legge, ciò equivalga a dire poco più di questo: che esiste un potere legislativo che potrà occuparsi di questa materia.

In realtà, quando noi, Assemblea Costituente, abbiamo dovuto regolare le libertà e i diritti in tema di rapporti civili e in tema di rapporti etico-sociali, mai ci siamo limitati a rinviare alla legge la disciplina della libertà o del diritto che noi affermavamo, ma precisavamo dei dettagli, precisavamo quali sarebbero stati i limiti e i vincoli di questa attività legislativa. Quando abbiamo fatto questo, non è stato per invadere la sfera di competenza dell’attività legislativa, ma è stato solamente per cautelarci contro lo svuotamento di un diritto, riconosciuto nella Costituzione, attraverso l’attività legislativa.

Noi abbiamo fatto tutti un’amara esperienza del modo come sono state conculcate, svuotate e compresse, attraverso l’attività legislativa, le libertà democratiche, pur restando esse formalmente ancora legate ad una Costituzione.

Io ritengo, perciò, che se la Costituzione deve rinviare, vuole rinviare alla legge la disciplina del diritto di sciopero, deve precisare entro quali limiti la legge lo regolerà, altrimenti credo veramente che sia più coerente la tesi sostenuta dall’onorevole Giannini, il quale dice: Noi vogliamo vietare lo sciopero. Ma se si vuole affermare il diritto di sciopero, dobbiamo preoccuparci che questo diritto non venga svuotato attraverso l’attività legislativa. In questa ipotesi, io mi domando se non sarebbe preferibile omettere del tutto la menzione di questo diritto nel testo costituzionale.

Ma qualora si voglia addivenire al rinvio alla legge, su questo punto l’emendamento che ho proposto implica una direttiva: in quale modo, con quali limiti la legge potrà regolare, disciplinare il diritto di sciopero? Io credo che la legge non deve interrompere quel processo di accrescimento di responsabilità delle classi lavoratrici, di cui si è parlato in quest’aula molto autorevolmente anche da parte dell’onorevole Merlin, perché questa esperienza di responsabilità è presente in tutti noi. Io credo che, se si vuole legare in qualche modo a delle procedure speciali, a delle garanzie speciali l’esercizio e la disciplina del diritto di sciopero, queste garanzie, queste cautele devono essere trovate nell’ambito e con il pieno rispetto della determinazione autonoma da parte dei lavoratori o degli organismi da essi espressi.

In altri termini, non penso che si possa e si debba sovrapporre una autorità esterna, fosse pure l’autorità statale, alla volontà ed alla determinazione responsabile dei lavoratori, quando noi abbiamo piena coscienza, dalla nostra esperienza politica e morale degli ultimi anni, di quale progressivo senso di responsabilità investa le classi lavoratrici nella loro condotta economica. Perciò penso che non si debba porre alcun limite, neppure per quello che riguarda i dipendenti degli enti pubblici o gli addetti ai servizi pubblici. Quando si è parlato di questa materia e si è accennato ai pericoli che ne possono derivare per l’arresto della produzione – che può danneggiare anche tutte le categorie lavoratrici – si è detta una cosa che può anche essere vera; ma penso che, appunto per questo, le classi lavoratrici sono le meglio qualificate, le organizzazioni sindacali sono le meglio qualificate a giudicare quando uno sciopero di dipendenti pubblici o di addetti a pubblici servizi danneggi loro stessi nella posizione di consumatori, di utenti di pubblici servizi, di produttori e associati al processo produttivo.

Io credo perciò che anche per i dipendenti dagli enti pubblici e per gli addetti a pubblici servizi, se la legge vorrà regolare il diritto di sciopero, vi sia una sola forma legittima di regolazione: quella di stabilire le forme di consenso necessarie per affermare la liceità degli scioperi di queste categorie, forme di consenso che debbono promanare democraticamente dalle rappresentanze unitarie di tutti i lavoratori.

Io sconsiglierei l’Assemblea Costituente di cercare altri elementi che non siano quelli fuori del mondo del lavoro stesso. È stato detto da parte dell’onorevole Zotta, a torto, per mio conto, che qui si vuole adottare nel sistema costituzionale la lotta e la guerra. Credo che questo sia inesatto.

Io credo che qui, nel sistema costituzionale, si voglia riconoscere il senso di responsabilità dei lavoratori; e che la coscienza democratica nel Paese sia abbastanza matura perché ci si possa affidare a questo senso di responsabilità, senza timori per l’avvenire. (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Clerici, Viale, Andreotti, Scoca, Ermini, Castelli Edgardo, Avanzini, Codacci Pisanelli, Bovetti, Bertone, Caccuri, Cotellessa, Schiratti, Coppi, Benvenuti, Notarianni, hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere i seguenti commi:

«La legge ne regola le modalità di esercizio per quanto attiene:

  1. a) alla democratica e libera procedura di proclamazione;
  2. b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
  3. c) al mantenimento dei servizi essenziali alla vita collettiva.

«L’assunzione di qualsiasi funzione pubblica implica rinunzia al diritto di sciopero. La legge istituisce Commissioni arbitrali che garantiscano l’equa risoluzione delle controversie professionali relative a tali funzionari».

L’onorevole Clerici ha facoltà di svolgerlo.

CLERICI. Onorevoli colleghi, il mio emendamento è piuttosto complesso; ma siccome le discussioni si fanno per trovare una formula che corrisponda a quella che è la volontà della totalità, od almeno della più alta maggioranza possibile, io non insisto sulla prima parte del mio emendamento; la quale, in forma analitica, dice in sostanza quello che già, in forma sintetica, è detto dall’emendamento del collega ed amico onorevole Merlin.

Quella che a me pare sia invece una formula essenziale del mio emendamento e che dovrebbe per ciò passare nella legge è il punto in cui è detto: «L’assunzione di qualsiasi funzione pubblica implica rinunzia al diritto di sciopero». Io ritengo che una simile formula possa essere tranquillamente votata, vorrei dire all’unanimità, dall’Assemblea, cioè anche dalle estreme sinistre. Ad esse e particolarmente ai comunisti perciò mi rivolgo.

Che cosa vuol dire, infatti, la mia proposizione, la quale, del resto, è suscettibile di qualsiasi eventuale modificazione formale? Che cos’è una funzione pubblica? Secondo il nostro diritto pubblico, è portatore di una funzione pubblica colui che è incaricato di formare, o di concorrere a formare, con la sua volontà, manifestata in una data forma, sotto date condizioni e in una sfera determinata di competenza, la volontà di un ente pubblico diretta al conseguimento di un fine pubblico, o che rappresenta l’ente nell’esecuzione di tale volontà.

Chi dunque esercita una funzione pubblica è solamente – nella schiera enorme dei vari impiegati e funzionarî pubblici – colui il quale esercita un diritto di sovranità, un ius imperii, colui il quale, rispetto al cittadino semplice, è, in quel momento, lo Stato.

Colui che può arrestarmi, colui che può detenermi nel carcere, colui che giudica che quell’arresto e quella detenzione sono legittimi – secondo quanto abbiamo noi stessi stabilito in questa Costituzione negli articoli sulla libertà individuale – colui che emette un mandato di cattura ed eroga una pena, o giudica, in materia civile, in modo che io, cittadino, resti obbligato dalla sentenza; colui che può decidere non solo relativamente ai miei interessi economici, ma anche delle cose più gelose della mia persona, colui che può dichiararmi fallito, che può dichiararmi inabilitato o interdetto, che può togliermi i diritti sui miei figli e su mia moglie, colui che esercita queste funzioni supreme dello Stato, è lo Stato; e come tale, la persona fisica che ha così tremendo e formidabile potere – a mio giudizio – deve essere considerata in modo particolare. Non può assolutamente essere considerata altrimenti.

Quindi la mia formula non pregiudica affatto ciò che il legislatore potrà stabilire nell’applicazione dell’altro principio, che rientra invece nella disciplina di cui parla l’emendamento dell’onorevole Merlin, circa la grande categoria dei funzionari e degli impiegati statali. Per essi potrà il legislatore stabilire se e chi eserciti funzioni essenziali alla vita della collettività. La legge futura esaminerà le diverse categorie, anche di coloro che appartengono alle gestioni dello Stato, ferrovieri, postelegrafonici e via dicendo, giù giù fino agli operai dei monopoli tabacchi (ed io capisco che coloro che fabbricano le sigarette sono un esempio di quelle categorie che possono anche tranquillamente scioperare come qualsiasi operaio privato). E con costoro si esamineranno tutte le grandi categorie dei pubblici impiegati senza pubblica funzione. Ma – sia ben chiaro – di tutti costoro il mio emendamento non si occupa affatto, perché nessuno di costoro esercita una funzione pubblica. Ora vediamo perché ho detto che il mio emendamento è accettabile dalle estreme, anche da quella comunista. Io mi metto – perché mi pare giustizia mettersi, e mi pare anche un buonsenso (con la «b» minuscola) – nei panni di coloro i quali la pensano diversamente da me. Per ciò capisco benissimo certe posizioni dei comunisti. Io non partecipo affatto all’opinione di coloro che hanno opposto ai comunisti ed ai marxisti in genere il fatto che nei Codici sovietici vi sia il divieto di sciopero per quelli che sono in Russia addetti agli uffici statali e alle imprese statali, mentre invece esso è libero per quelli che appartengono alle imprese private – alle poche imprese private – che vi sono. Io comprendo benissimo il punto di vista dei comunisti e dei socialisti: quello Stato, avendo, secondo quanto essi credono, abolito e distrutto antagonismo fra capitale e lavoro, e distrutto la lotta di classe, rappresenta un tale imperativo per il quale è logica l’obbedienza anche la più rigorosa. È un punto di vista che io e il mio gruppo certo non possiamo condividere, ma io comprendo benissimo la posizione dei comunisti in questo senso. Mi sia permesso dire che ciò ha qualche analogia con quello che dice un nostro grande e santo teologo: nel Paradiso non vi sarà più la fede, perché essa sarà trasformata in visione; non vi sarà più la speranza, perché essa sarà attuata; rimarranno solo l’amore, la carità. Così secondo voi nel regime bolscevico russo, avete esaudita ogni speranza, avete la certezza della perfezione; non vi è più che la vostra carità, il vostro ordine nuovo.

E così io capisco anche l’altra posizione delle estreme sinistre – e non solo delle estreme sinistre – in condizioni storiche completamente diverse, quella cioè dello sciopero sistematico, dello sciopero senza regola, e senza possibilità di accordo con uno Stato che sia capitalistico e borghese al punto da rappresentare costantemente un nemico inconciliabile con le aspirazioni e le necessità delle classi proletarie. Io capisco che in queste condizioni lo sciopero, tutti gli scioperi, e direi lo sciopero politico più degli altri, siano logici e coerenti. Ma, mi permetta l’onorevole Di Vittorio, siamo o non siamo noi in questo momento in uno Stato, che non è certamente il vostro Stato bolscevico, e non è neanche lo Stato marxista, ma non è neppure più quello Stato capitalista, quello Stato borghese, che fatalmente è – secondo le vostre dottrine – il nemico di ogni classe proletaria e contro il quale è giuocoforza, è necessità cozzare sempre e con qualsiasi mezzo? Siamo invece – non potete non riconoscerlo – in un regime intermedio, siamo in uno stadio di «democrazia progressiva» (dite voi); tanto è vero che voi collaborate a questo Stato, alle sue leggi, al Governo; e potete anche collaborarvi, come fate in questo momento in Francia, stando alla opposizione, praticando quella tipica collaborazione democratica e parlamentare che è la collaborazione di Sua Maestà britannica. È rispetto a questo Stato repubblicano, democratico, progressista, che dovete considerare se sia lecito lo sciopero del funzionario pubblico, del magistrato, dell’agente della sicurezza pubblica, della finanza e via dicendo. E voi avete detto tante volte e tornerete a dire, allorquando si verrà a parlare di un Senato, che rappresenti in tutto o in parte le categorie, gli interessi, le corporazioni, chiamatele pure come volete: noi non vogliamo simile istituto, perché contro o oltre le categorie e le classi sta la totalità politica. Durare a voi sia a cuore più che ad ogni altro lo Stato. Quello Stato in cui si concreta la volontà popolare, democraticamente espressa – attraverso le lezioni – la volontà del popolo, che è il vero sovrano, e produce una Camera, che è la sovranità riflessa. Ora, proprio contro questo Stato, proprio contro questo Governo, proprio contro questo Parlamento, è assurdo che i pubblici funzionari, cioè coloro che sono altrettanti rappresentanti dello Stato, possano ribellarsi.

Né si dica che si tratta di una questione ipotetica; né ci obietti l’onorevole Di Vittorio che ciò non avverrà. Perché invece ciò è realtà, siamo proprio nel bel mezzo di un fatto enorme, lo sciopero dei magistrati. Io sono avvocato, ma non esito, criticando un’enormità, ad incorrere nel corruccio di qualche magistrato. Lo sciopero dei magistrali è sfuggito al controllo di qualsiasi sindacato e della stessa. C.G.I.L., ed è stato fatto – a mio giudizio – da una piccola parte dei magistrati, contro la quale sta la grande maggioranza della nostra magistratura. Ma questo sciopero ha un significato gravissimo, come sintomo della dissoluzione dello Stato, della decadenza dello spirito civico, mentre riconosco che le classi proletarie, hanno avuto un contegno molte volte (non sempre, ma molte volte) riguardoso per la nostra situazione politica ed economica speciale. E mi spiace dire che è sfuggita, a coloro che hanno promosso e mantenuto questo disgraziato sciopero l’enormità della cosa, sentita dal popolo, che avverte istintivamente che colui che manda in galera non può contemporaneamente diventare scioperante.

DI VITTORIO. Bisognerebbe metterli in condizioni di non ricorrere a questo mezzo.

CLERICI. Io comprendo pienamente, onorevole Di Vittorio, le giuste, le sacrosante ragioni dei magistrati, e più volte ho detto ed ora ripeto che il Governo deve riconoscere e soddisfare codeste legittime pretese. Di più comprendo, onorevole Di Vittorio, che siamo in un periodo di transizione e insieme di rivoluzione, in un periodo di formazione della Repubblica; e mentre si stanno costruendo e nuove istituzioni democratiche e repubblicane il terreno è ancora tutto ingombro dei ruderi, dei brutti ruderi, dell’antico regime.

Ed in questo stadio di transizione io comprendo ed anche giustifico e legittimo, in mancanza di leggi e di istituti specifici, questo sciopero della magistratura. Ma noi dobbiamo legiferare per l’avvenire, ed allora mi pare assurdo lo sciopero del magistrato, del pubblico ufficiale. Vediamo la legge considerare reato il rifiuto del pubblico ufficiale a compiere atti del suo ufficio, il fatto del giudice che nel caso singolo non renda la sentenza; dirò di più: il fatto del cittadino privato (di colui che occasionalmente riveste il carattere di esercente una funzione pubblica), che si rifiuta di dare man forte alla forza pubblica, nel trarre in arresto un furfante in fuga o si rifiuta di prestare soccorso a chi versa in pericolo. E allora come mai il carabiniere, il soldato, l’agente di pubblica sicurezza, il magistrato, queste poche categorie che esercitano una così alta funzione pubblica, possono scioperare? Lo Stato può e deve trovare i mezzi, attraverso commissioni paritetiche, commissioni arbitrali, deve trovare le forme per soddisfare i legittimi desideri dei suoi funzionari, i quali, malgrado le funzioni pubbliche, sono uomini ed hanno bisogni e diritti. Soltanto i ministri ed i parlamentari hanno il privilegio e la caratteristica di risolvere da loro stessi le proprie difficoltà, giacché essi stabiliscono da loro stessi i propri emolumenti. Gli altri pubblici funzionari, che pure esercitano importanti funzioni nello Stato, non godono di un simile privilegio inerente alla sovranità. E allora bisognerà nel futuro stabilire delle commissioni arbitrali che diano a costoro delle garanzie, tutte le garanzie possibili: ma, a mio avviso, devo essere stabilito chiaramente il principio che gli organi dello Stato non possono andare contro lo Stato. E faccio osservare ai colleghi delle sinistre che non ammettere questo principio può essere pericoloso, particolarmente pericoloso per loro. Se ammettete che la magistratura, la polizia possano far sciopero, voi non solo venite ad infirmare la volontà del popolo sovrano che risiede, attraverso le votazioni, nel Parlamento; ma vi togliete, nell’eventualità della vostra famosa ascesa al potere, il diritto di contrastare a ipotetiche ma non impossibili resistenze proprio a codesto vostro governo futuro.

E spiego perché ho usato la frase «rinunzia al diritto di sciopero»: perché io faccio omaggio con ciò stesso al diritto di sciopero, che giustamente la Costituzione ammette e proclama. Ma le rinunzie ad un diritto garantito dalla legge sono ammesse e tutt’altro che rare. I Ministri e i Sottosegretari non rinunziano forse, in considerazione della loro carica, allo esercizio di qualsiasi arte, professione, commercio, industria, a qualsiasi funzione direttiva e amministrativa in società anonime e simili? Analogamente per i Deputati vi sono le incompatibilità parlamentari, per le quali i Deputati devono rinunziare a cariche, uffici; ed a questo proposito io dichiaro che vorrei che ci fossero maggiori incompatibilità in confronto del passato; che talune professioni, cominciando dalla mia, quella di avvocato, trovassero nella legge limitazioni più precise.

E veniamo ad altre rinunzie. Non abbiamo noi stabilito il diritto per qualsiasi cittadino di andare ovunque, e di porre ovunque egli creda il proprio domicilio e la propria residenza? Eppure quasi la metà dei cittadini italiani, tutte le donne sposate, rinunziano a questo diritto in forza dell’atto stesso del matrimonio, perché per norma di diritto civile la moglie deve seguire il marito ovunque egli stabilisca la sua residenza.

Dunque le rinunzie ad un diritto concreto sono possibili. Quindi mi pare che la rinunzia al diritto di sciopero possa essere tranquillamente accolta; ed in questo senso raccomando ai colleghi l’accettazione del mio emendamento. Esso, eventualmente, per la forma può essere coordinato con quello dell’onorevole Merlin e degli altri onorevoli colleghi che hanno fatto proposte analoghe. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Caroleo ha facoltà di svolgere il seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente comma:

«Questo è inteso come facoltà del prestatore di opera di astenersi in qualunque tempo del lavoro, e non si estende al personale addetto ai servizi essenziali per lo Stato, secondo le specificazioni della legge».

CAROLEO. Poco resta da dire dopo quanto autorevolmente hanno esposto gli altri colleghi a proposito di questo tema che per me non ha tutta la delicatezza, che in esso si vorrebbe vedere. Avrei preferito che al posto del diritto di sciopero si dicesse che lo sciopero rientra nei diritti di libertà del lavoratore, perché anche la facoltà di incrociare le braccia, di fronte al datore di lavoro che non comprende, dovrebbe essere soltanto un aspetto di quella libertà del lavoratore, che in diversi articoli della nostra Costituzione è riconosciuta.

Dissento in questo dal collega Mazzei, il quale non fonderebbe lo sciopero sulla libertà del lavoro, ma lo farebbe consistere in un legittimo atto di violenza, che veramente io non so bene intendere perché mi pare che diritto e violenza siano termini inconciliabili.

La formulazione da me proposta ammette così, senza limitazione alcuna, il diritto del lavoratore di astenersi dalla prestazione d’opera in qualunque tempo nei confronti della classe padronale, senza ricercare per quale motivo questa astensione dal lavoro si determini. È troppo delicata la funzione del lavoratore – dell’uomo che si pone alle dipendenze della persona altrui – perché non si garantiscano tutte le manifestazioni dell’attività che all’altrui servizio viene prestata. E non può riconoscersi in via compensativa un uguale diritto ai datori di lavoro, perché non siamo sullo stesso piano di realtà giuridica. Se i datori di lavoro chiudono i propri stabilimenti, possono recare pregiudizio al proprio portafoglio limitando i profitti e recando anche danno alla collettività nazionale; ma quando gli stabilimenti chiudono in faccia a quelli che prestano l’opera loro, in sostanza, non fanno che avvalersi di quel tale strumento ricattatorio della fame, che non può essere consentito in uno Stato libero e democratico come si prepara ad essere l’Italia. C’è una limitazione nella mia formulazione, una limitazione che corrisponde su per giù a quella che è stata inserita in diversi emendamenti, con questo di differente, che per me non è nemmeno possibile ipotizzare lo sciopero degli impiegati dello Stato per tutte le ragioni che sono state dette da molti colleghi e molto autorevolmente dall’onorevole Merlin. I funzionari si identificano con lo Stato; i funzionari sono compartecipi della sovranità: quindi non possiamo fare l’ipotesi di reazione dello Stato a se stesso. Nei confronti di tutti i lavoratori, lo Stato ha un diritto e un dovere di difesa per i casi di conflitto tra l’interesse pubblico e l’interesse privato. Indubbiamente in ogni contrasto fra questi due interessi deve prevalere, perché è preminente, l’interesse dello Stato a tutela della collettività stessa. Ed è per questo che nel mio emendamento si afferma che lo sciopero non si estende al personale addetto ai servizi essenziali per lo Stato. Non si distingue qui tra servizi privati o pubblici perché può accadere nella pratica che un servizio privato diventi, in un determinato momento, essenziale per lo Stato e che quindi tutti i dipendenti, nello svolgimento di questo servizio privato, non possano da un momento all’altro allontanarsi dal lavoro.

Mi spiego con un esempio. Se c’è una ferrovia privata, che soddisfa alle esigenze d’una società industriale, e in un determinato, momento si arresta, per il tronco di quella ferrovia privata, il corrispondente servizio pubblico statale, ecco che si verifica la necessità essenziale per lo Stato di fare ricorso ai dipendenti di quella società privata, che appunto perché in quel momento finiscono di servire interessi privati e vengono chiamati ad adempiere servizi di interesse pubblico, devono eccezionalmente rinunziare, in omaggio al dovere di solidarietà collettiva, a quello che è un diritto, che nella Costituzione è giusto sia riconosciuto.

Si dice che scioperano anche i magistrati, in questo delicato momento della vita del nostro Paese. E nessuno può essere toccato da così mortificante spettacolo come chi vive vicino a questa veramente egregia e benemerita categoria di funzionari dello Stato. Si tratta, per lo più, di vecchi, uomini di legge, che hanno sacrificato tutto quello che avevano, per mantenere intatta e pura la propria coscienza; si tratta della categoria che è rimasta ed è al disopra di tutto l’illecito commercio e l’illecito baratto della coscienza, che si fa da parecchi membri della collettività nazionale. Ma hanno scioperato; e la ragione è stata esattamente rilevata da molti oratori e, mi pare, anche in una interruzione di qualche istante fa dell’onorevole Di Vittorio. Si tratta di momenti eccezionali: non possono andare oltre il limite, cui sono arrivati, questi eroici primi servitori dello Stato. E la ragione è nel fatto che non funziona quel tale potere legislativo, da cui tutti i funzionari d’ogni grado attendono il riconoscimento dei loro diritti. Non ha colpa nessuno o, perlomeno, è colpa di nessuno e di tutti, se l’Italia non può attualmente avere un potere legislativo, che liberamente si esprima. E assistiamo alla indifferenza del Governo segnalata anche con parole elevate ed accorate, qualche giorno addietro, dall’illustre onorevole Presidente, di fronte ad interpellanze, interrogazioni, e perfino mozioni, che da tutti i settori dell’Assemblea si sono presentate pure per quei tali pensionati, che rappresentano oggi in Italia lo spettacolo più avvilente della vita nazionale; perché c’è gente che, dopo aver servito lo Stato, muore di fame, mentre noi fondiamo la Repubblica sul lavoro ed assicuriamo tutto quello che andiamo assicurando ai lavoratori italiani.

Ma è momento eccezionale questo, durante il quale non si può nemmeno esercitare il controllo normale sulla vita governativa nazionale.

Noi dobbiamo augurarci che questo periodo venga presto a cessare e che lo stato giuridico dei funzionari pubblici, che deve provenire e proviene unicamente dalla legge, non possa essere considerato alla stregua dei contratti privati, dei contratti della classe padronale, che può pensare di sfruttare chi la serve, mentre lo Stato italiano è uno Stato democratico e a chi presta servizio alle sue dipendenze deve, con le proprie leggi, assicurare il diritto alla vita. (Applausi).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Marina, Mazza, Tumminelli, Penna Ottavia, De Falco, Rognoni, Vilardi, Cicerone, Puoti, Trulli hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge.

«Nell’interesse superiore della collettività lo sciopero e la serrata sono proibiti».

«Se questo testo fosse respinto, sostituirlo col seguente:

«I conflitti del lavoro devono essere sempre sottoposti all’arbitrato obbligatorio.

«Lo sciopero e la serrata sono riconosciuti e disciplinati dalla legge».

L’onorevole Marina ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MARINA. Aggiungerò brevi parole a quanto i precedenti oratori hanno già detto e saranno parole che scaturiscono dalla pratica del lavoro quotidiano, perché io dal 1920 a oggi, mi sono sempre interessato di questioni sindacali, poiché ho diretto aziende e dirigo tuttora aziende industriali. Ho visto nella mia pratica che, in effetti, con lo sciopero noi non riusciamo quasi mai a risolvere vantaggiosamente il problema che lo sciopero stesso propone e che in definitiva questo si risolve troppo spesso a danno dei prestatori d’opera.

Una volta che lo sciopero viene impostato, dobbiamo per risolverlo ritrovarci al tavolo della discussione e definire ancora amichevolmente attraverso un compromesso quel problema che con lo sciopero una delle parti intendeva risolvere colla forza. Cosicché abbiamo sempre sentito fin dai passati anni e ancora più di questi ultimi scorci di tempo, in cui gli scioperi sono all’ordine del giorno, la necessità di avere un organismo che intervenga come arbitro conciliatore nelle varie discussioni fra datori, di lavoro e prestatori d’opera.

Anche ultimamente è stata posta sul tavolo delle controversie sindacali una discussione di una categoria industriale senza raggiungere l’accordo, cosicché abbiamo sentito e sentiamo la necessità che intervenga qualcuno a metterci d’accordo e pertanto ci rivolgiamo in questo momento al Ministero del lavoro. Il che dimostra che questa necessità dell’arbitrato è sentitissima; nella pratica corrente anziché arrivare allo sciopero si desidera, tanto dall’una che dall’altra parte, ottenere una conciliazione preventiva. Non si deve dimenticare che esiste anche il diritto di chi vuol lavorare, pur se alcuni compagni hanno dichiarato lo sciopero, e che deve esistere anche il diritto di serrata per i datori di lavoro per difendersi da alcune aberrazioni dello sciopero. Queste considerazioni spiegano l’emendamento da me proposto che è in parte modificativo ed in parte aggiuntivo all’emendamento proposto dall’onorevole Merlin, che sta riscuotendo la generalità dei consensi, perché i conflitti del lavoro, e non il solo sciopero, debbono essere regolati e sottoposti all’arbitrato obbligatorio e riconosciuti e disciplinati dalla legge. Ritengo che con una legge fatta d’accordo fra le parti dell’Assemblea, ben studiata e ben compulsata, si potrebbe risolvere interamente e praticamente il problema, perché i conflitti del lavoro non regolati dalle parti interessate non si esasperino e portino un danno alla produzione, che è bene comune e che rappresenta l’interesse generale ed il benessere della Nazione.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Grassi, Bozzi, Vallone, Crispo, Fusco, Reale Vito, Nitti, Bergamini, Cifaldi, Molè, Paratore hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il diritto di sciopero è regolato dalla legge».

L’onorevole Grassi ha facoltà di svolgerlo.

GRASSI. Egregi colleghi, dirò brevissime parole. Voglio ricordare all’Assemblea che la prima Sottocommissione, nell’affermare il diritto di sciopero, ha rilevato che un Paese libero non può non riconoscere tale diritto, fra tutti i diritti che accompagnano le organizzazioni dei lavoratori. Come abbiamo riconosciuto le libertà individuali e la libertà di organizzazione, dobbiamo anche riconoscere quelli che sono i diritti delle organizzazioni e quindi il diritto di sciopero. Soltanto il regime totalitario non ammette il diritto di sciopero, ma noi che vogliamo fondare in piena libertà il nostro ordinamento costituzionale non possiamo non riconoscere il diritto di sciopero. Su questo mi pare che siamo tutti d’accordo.

La prima Sottocommissione stabilì però alcuni limiti; e specialmente per quello che riguardava il preannuncio dello sciopero, in maniera che lo sciopero non venisse come una sorpresa per la collettività, dato che una categoria, anche se ha dei diritti, non può sopraffare e tanto meno andar contro gli interessi della collettività. E parlando della collettività, non parlo soltanto della collettività nazionale, perché abbiamo assistito durante l’ultimo sciopero americano ai gravi danni che detto sciopero, svoltosi in America, venne a produrre anche nel nostro continente. Quindi il preannuncio dello sciopero noi io ritenemmo nella prima Sottocommissione come necessario; e stabilimmo anche il principio del tentativo di conciliazione, nel senso che questa questione deve essere regolata dalla legge.

È sempre opportuno esaminare la possibilità di evitare gli scioperi, che sono sempre un turbamento della vita sociale. Se è possibile contenerli e risolvere le controversie con accorgimenti previsti e regolati dalle leggi, si compie opera utile per la collettività.

Quindi il tentativo di conciliazione è uno degli altri elementi che la prima Sottocommissione stabilì come limite al diritto di sciopero.

Infine la prima Sottocommissione stabilì anche il principio che la legge doveva assicurare il funzionamento dei pubblici servizi.

Io non insisto su questi principî e non voglio fermare l’attenzione dell’Assemblea in questo momento su queste questioni di dettaglio.

Mi associo a tutte le idee ed a tutti i propositi che l’onorevole Merlin ha portato nello svolgimento del suo emendamento che, in fondo, non fa che riprodurre integralmente il testo francese, che oggi è nel preambolo di quella Costituzione e all’emendamento dell’onorevole Cortese che sostanzialmente afferma la stessa cosa. Quindi noi potremmo aderire, come pare che le altre parti dell’Assemblea vogliano aderire, all’ordine del giorno Merlin Umberto, però vorremmo pregare l’onorevole Merlin e tutti gli altri presentatori dell’emendamento di considerare l’opportunità, dal punto di vista tecnico-giuridico, di una maggiore esattezza di espressione, perché col dire che il diritto di sciopero si esercita nell’ambito della legge che lo regola, non si fa che riprodurre testualmente la dizione francese. E preferibile, invece delle parole: «nell’ambito delle leggi che lo regolano», dire: «il diruto di sciopero è regolato dalla legge», perché nella legge c’è la regola. Quindi mi pare che possiamo esprimere con una formulazione più esatta gli stessi concetti e gli stessi propositi che hanno animato l’onorevole Merlin, e sui quali pare che tutta l’Assemblea voglia votare. Chiedo quindi che sia approvata una forma più chiara che dica che «il diritto di sciopero è regolato dalla legge».

Non ho altro da aggiungere e mi rimetto al voto dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti all’articolo 36.

(La seduta, sospesa alle 20, è ripresa alle 21.15).

PRESIDENTE. Invito l’onorevole Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione, ad esprimere il suo avviso sugli emendamenti, proposti.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Onorevoli colleghi, io veramente ho poca volontà di parlare, come voi di ascoltarmi, e, quindi, pur dovendo interloquire su ben 22 emendamenti ed altrettante illustrazioni, confido di poter contenere il mio discorso nel giro di quattro o cinque minuti.

Gli emendamenti si possono suddividere in due categorie: vi sono emendamenti soppressivi e vi sono emendamenti modificativi della formula che è stata presentata dalla Commissione.

Per quanto riguarda gli emendamenti soppressivi, la tesi generalmente sostenuta è che il tema dello sciopero vada rimesso alla legislazione ordinaria. Invece la Commissione si è, fin dall’inizio, orientata nel senso che il tema debba essere incluso nella Carta costituzionale. La ragione di questa decisione ha carattere storico. Infatti, se è vero che lo sciopero è ormai penetrato nella coscienza civile di tutti i popoli, ed anche del popolo italiano, è anche vero che nei vent’anni del fascismo lo sciopero è stato negato, perseguitato e punito. Ciò non può essere dimenticato. Si tratta di un diritto fondamentale della classe lavoratrice, protagonista della nuova storia d’Italia, e quindi si è ritenuto opportuno consacrare questo diritto nella Costituzione. Ma, fra gli emendamenti soppressivi, ve n’è pure qualcuno che intende negare il diritto di sciopero.

Non mi soffermo a discutere minutamente le argomentazioni esposte a sostegno della tesi. Se avessi maggior tempo a disposizione e potessi abusare dello spirito di sopportazione dell’Assemblea, potrei dire all’onorevole Damiani non essere esatto che vi sia contrasto irrimediabile fra l’articolo 36, che sancisce il diritto di sciopero, e gli articoli che vanno dal 30 al 35, dove si enumerano gli istituti e le forme attraverso i quali si attua la tutela del lavoro da parte dello Stato, perché se è vero che lo Stato è chiamato a tutelare il lavoro, con ciò non si esclude che anche la classe lavoratrice possa tutelare essa pure direttamente il lavoro.

In sostanza una tutela si può accomunare all’altra, senza che l’una sia dall’altra esclusa o menomata.

Potrei osservare all’onorevole Rodi, firmatario di un altro emendamento soppressivo, non essere esatto che lo sciopero sia sempre un fatto politico. Ad esempio, lo sciopero inteso a regolare il salario ha carattere essenzialmente economico e non lo perde anche se per avventura vi si intrecciano elementi di natura politica.

All’onorevole Zotta, che accusa l’articolo 36 di autorizzare la guerra civile tra uomo e uomo, potrei rispondere che egli esagera e che non vi è nulla di incivile in un contrasto che tende a risolversi nella affermazione di un diritto. Non è vero che la lotta sia sempre un male; è anzi dalla lotta che si genera la vita ed è il contrasto che determina il progresso.

Debbo poi contestare un concetto espresso da diversi oratori che ravvisano nello sciopero un atto di violenza. Lo sciopero non è un atto di violenza. La resistenza non è violenza. Per violenza si deve intendere una attività positiva, non un’attività negativa. Il fatto puro e semplice della astensione dal lavoro potrà costituire bensì la rottura di un vincolo contrattuale o la sua sospensione; ma non in questo consiste la «violenza».

Pel Codice penale Zanardelli lo sciopero non era punito come tale, ma solo in quanto venisse esercitato mediante violenze o minacce. In altre parole, non considerava reato lo sciopero, ma la violenza o la minaccia: circostanze di fatto a quello estranee e contingenti. Dunque lo sciopero non è un atto di violenza.

Ed ora vengo a parlare degli emendamenti di carattere modificativo. Il primo è dell’onorevole Giannini, il quale propone, ponendoli sul medesimo piano, che siano vietati tanto lo sciopero che la serrata. Ma una distinzione si dovrà fare. Intanto mi limito ad una osservazione. L’emendamento dice: «Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

Dunque, se lo sciopero e la serrata sono vietati, dovranno essere anche puniti, perché, se fossero semplicemente vietati e non puniti, ci troveremmo davanti ad uno di quei sermoni dei quali ha parlato, criticando la Costituzione, l’onorevole Calamandrei. Non credo che a tanto voglia giungere l’onorevole Giannini.

L’onorevole Giannini ha affermato che molti degli articoli del titolo terzo sono inutili, e che inutile è anche l’articolo 36. Mi dispiace che non sia presente l’onorevole collega; ma se fosse presente gli vorrei dire che, se è inutile, doveva semplicemente proporne la soppressione non la sostituzione con altro: solamente così egli sarebbe stato logicamente coerente con se stesso.

Quale fondamento del suo emendamento che vieta lo sciopero, come la serrata, egli dice che non si può ammettere la libertà di recar danno agli altri. Ma l’onorevole Giannini non si accorge, che, negando il diritto di sciopero, si ammette la libertà di far subire ad altri il danno ingiusto di condizioni di lavoro inique.

Del resto, l’onorevole Giannini è isolato in questa pretesa, perché tutti gli altri riconoscono o il diritto di serrata e il diritto di sciopero insieme, oppure il solo diritto di sciopero, sia pure condizionato.

Non mi occupo della serrata, perché mi indugerei troppo a lungo e perché so che il pensiero e il sentimento dell’Assemblea sono tali da rendere superfluo esporre le ragioni per le quali sia la Commissione plenaria come le Sottocommissioni hanno, se non all’unanimità, con una maggioranza strabocchevole ritenuto che mentre si deve parlare del diritto di sciopero non si debba invece parlare anche di un diritto di serrata.

Se ci mettiamo su un piano filosofico, se consideriamo il diritto di serrata e il diritto di sciopero come attributi della libertà della persona, forse potrebbe permanere un dubbio, un’esitanza al riguardo. Ma se, invece, consideriamo le cose dal lato pratico, cioè dal lato della realtà, allora ci avvediamo che i due fenomeni esigono una valutazione assolutamente diversa. In generale la serrata è un atto di rappresaglia. Inoltre lo sciopero trova in se stesso le ragioni della sua limitazione. Il fatto che dei lavoratori si astengano dal lavoro e quindi dal percepire il salario che è l’unica fonte di vita per loro e per le loro famiglie, è già un motivo fortissimo perché lo sciopero non duri molto. Invece, data la condizione economica dell’industriale, la serrata si può anche protrarre a lungo.

Mentre lo sciopero non può avere – salvo il caso di sciopero politico – che il fine di migliorare il contratto di lavoro, invece le serrte possono avere finalità economiche che sono al difuori del regolamento dei rapporti di lavoro e degli stessi rapporti fra capitale e lavoro. Infatti l’industriale può ricorrere alla serrata come ad una manovra per limitare la produzione, per rialzare i prezzi e così via.

Per tutte queste ragioni e per altre ancora che è inutile enumerare, la Commissione ha ritenuto potersi parlare del diritto di sciopero e non del diritto di serrata.

Quindi, limitando la disposizione al diritto di sciopero, avverto che gli emendamenti, sostanzialmente, si possono dividere così: in quelli che ammettono il diritto di sciopero, puramente e semplicemente, e in quelli che, ammettendolo a favore degli altri lavoratori, chiedono che sia vietato ai pubblici impiegati e in genere agli esercenti pubbliche funzioni e addetti a pubblici servizi. Particolarmente l’onorevole Clerici ha insistito perché il diritto di sciopero sia accompagnato da queste ed altre limitazioni.

Avverto subito, esprimendo il pensiero della Commissione, che queste limitazioni sono in pratica estremamente difficili. Infatti, quando parliamo di pubblici ufficiali o di funzionari pubblici, parliamo di un elemento che è estremamente fluido, cioè estremamente mutevole ed instabile. E ciò non soltanto perché le nozioni di pubblico ufficiale e di pubblica funzione sono molto varie in giurisprudenza e in dottrina, ma soprattutto perché andiamo creando uno Stato che accentra in sé una quantità di interventi, entrando, si può dire, in tutti i rapporti sociali, onde avviene che aumentano continuamente le pubbliche funzioni e i pubblici servizi. E anche nel caso che si volesse limitare il divieto a coloro che detengono una parte del potere sovrano, vi sarebbe pur sempre motivo di perplessità perché, fra l’altro, il potere sovrano del pubblico ufficiale non appartiene soltanto ai dipendenti dello Stato e degli enti parastatali, ma anche a dipendenti di privati, come è, ad esempio, il caso dei messi esattoriali che dipendono da ditte appaltatrici private. Almeno nei confronti di costoro che sono abbandonati, per quanto riguarda il contratto di lavoro, all’iniziativa del privato speculatore, avremmo rimorso se li dovessimo lasciare completamente indifesi.

Per quanto poi riguarda i pubblici servizi, essenziali o meno, anche qui vi è motivo di incertezza, perché anche questa è materia mutevole e fluida. Si tratta adunque di limitazioni pericolose. Altri invece vorrebbe limitare il diritto di sciopero, subordinandolo ai mezzi di conciliazione, fra i quali annoverano anche l’arbitrato preventivo, non obbligatorio. Questa forma di arbitrato rappresenta, sì, un mezzo di conciliazione, ma si è giustamente osservato che è inutile inserire questi mezzi nella Carta costituzionale, per l’ovvia ragione che i lavoratori non scioperano per capriccio, o per il gusto di affamare se stessi e i loro figliuoli, ma perché versano in istato di necessità e quindi i mezzi di conciliazione sono sempre impiegati, senza bisogno di renderli obbligatori colla Costituzione.

Altri hanno aggiunto l’arbitrato obbligatorio, vale a dire l’arbitrato vincolativo che, come tale, è la negazione della libertà di sciopero.

Posso anche aggiungere che in questi arbitrati ho poca fiducia, perché sarebbero costituiti – né può essere diversamente – in modo paritetico da datori e da prestatori di lavoro, sotto la presidenza di un Magistrato.

Ora, i giudici lavoratori e i giudici datori di lavoro sono troppo pregiudicati in partenza perché i loro personali interessi si identificano con quelli delle parti in contesa.

E nemmeno ho fiducia nel magistrato; non già perché dubiti della sua intelligenza o della sua rettitudine, ché anzi io professo una grandissima stima per il magistrato in genere, ma perché non credo nella sua capacità specifica. Perché egli possa decidere se abbiano ragione i lavoratori o non piuttosto i datori di lavoro, dovrebbe soprattutto conoscere non solo le condizioni di quel particolare ramo dell’industria ma anche di quella speciale azienda cui la vertenza si riferisce. Se queste condizioni sono ingiuste, anche il suo giudizio peccherà di astrattezza e potrà quindi essere ingiusto con danno delle parti e della stessa produzione. In sostanza, io credo che i giudici migliori siano gli stessi lavoratori, e tanto più lo saranno quanto più largamente saranno attuati i provvedimenti consacrati nella Costituzione. Ad esempio, una grande remora alla proclamazione dello sciopero deriverà da una più generalizzata stipulazione dei contratti collettivi mediante i quali saranno stipulate condizioni di lavoro più umane e più giuste; e mercé i consigli di gestione i lavoratori potranno conoscere le reali condizioni dell’azienda e quindi meglio ad esse adeguare le loro pretese. Oggi, troppe volte, gli scioperi sono fatti alla cieca.

È per questi motivi che riteniamo non accettabili le limitazioni che furono proposte.

Restano ancora pochi emendamenti, e avrò così finito. Ricordo quello dell’onorevole Caccuri, che vuole lo sciopero limitato ai motivi economici. Verrebbero in questa maniera esclusi gli scioperi di solidarietà e di protesta, sebbene tanto gli uni che gli altri possano avere la loro ragion d’essere in un motivo di carattere economico. Ma certamente sarebbe escluso lo sciopero politico.

Non voglio dissertare, tanto più che ho promesso di essere breve.

Indipendentemente dalla considerazione che lo sciopero politico è un atto rivoluzionario e che le rivoluzioni non si codificano, mi limito ad osservare che stiamo elaborando il Titolo III intitolato: «Dei rapporti economici». Ne consegue che il tema che dobbiamo trattare è solamente lo sciopero «economico». Delle altre specie non ci occupiamo e restano abbandonate al costume, alle condizioni, alle necessità dell’avvenire. Lo sciopero politico potrà essere un male o un bene, secondo i casi. Un certo sciopero, ricordato dall’onorevole Di Vittorio, fu un tempo la salvezza della Germania. Io ricordo, come altamente benemeriti della civiltà, gli scioperi di Genova e di Milano che affrettarono l’alba tanto auspicata della nostra liberazione.

Restano gli ordini del giorno Merlin, Cortese, Grassi e Foa che più si avvicinano al testo. Io qui sono soltanto l’interprete del pensiero della maggioranza della Commissione. L’onorevole Ruini dice che ne sono il notaio. Come tale dichiaro che la Commissione mantiene il suo testo. E lo mantiene per le ragioni che ho già detto, cioè per l’impossibilità, o la estrema difficoltà di fissare oggi per l’avvenire limiti e condizioni. Lo mantiene anche per una ragione storica, per noi importante: lo sciopero è stato per lunghi anni negato, perseguitato e punito. Ci sono cinque articoli nel Codice penale di Mussolini del 1930 che colpiscono lo sciopero. Bisognava rivendicare nel modo più solenne e lapidario questo diritto fondamentale del lavoratore. A base del diritto di sciopero stanno ragioni varie e diverse: lo stato di necessità; il vizio del consenso da parte del lavoratore che è in condizione deteriore di fronte al datore di lavoro ecc. Ma la ragione più vera, nella quale tutti consentiamo, è che la condizione economica e morale del lavoratore è troppo al disotto di quello che impongono l’equità e la giustizia. È questa la ragione fondamentale!

Né va dimenticata un’altra ragione. Il fatto che si enunci il diritto di sciopero puramente e semplicemente non vuol dire che tale diritto non possa essere Regolato. Il diritto è limite. Non si può concepire un diritto senza un limite. Lo potrà quindi fissare, occorrendo, il legislatore futuro. Non vi è dunque motivo per cambiare il testo.

E vi è un’ultima ragione che induce la Commissione a non decampare dal testo ed è che la questione dello sciopero è stata lungamente e fortemente dibattuta prima nelle due Sottocommissioni e poi in seduta plenaria alla Commissione dei settantacinque dove sono stati discussi precisamente questi medesimi emendamenti.

Non disconosco che gli emendamenti degli onorevoli Foa, Merlin, Cortese e Grassi sono quelli che si avvicinano maggiormente al testo. Vedrà l’Assemblea nella sua alta coscienza se siano da preferire. Ma la Commissione ritiene suo dovere di mantenere il suo testo inalterato. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Chiederò agli onorevoli presentatori degli emendamenti se vi insistono. Onorevole Damiani, mantiene l’emendamento?

DAMIANI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, mantiene l’emendamento?

COLITTO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Caccuri, mantiene gli emendamenti?

CACCURI. Mantengo l’emendamento soppressivo e subordinatamente aderisco a quello sostitutivo dell’onorevole Merlin Umberto.

PRESIDENTE. Lei ha firmato anche l’emendamento Clerici.

CACCURI. Ritiro la mia firma.

PRESIDENTE. Onorevole Zotta, mantiene i suoi emendamenti?

ZOTTA. Mantengo l’emendamento soppressivo, mentre ritiro quello formulato in via subordinata, aderendo alla formula dell’onorevole Merlin Umberto, nella fiducia che il legislatore ordinario abbia a circoscrivere e disciplinare l’esercizio del diritto di sciopero con norme giuridiche che ne facciano uno strumento di elevazione e non un mezzo di lotta sociale e politica.

PRESIDENTE. Onorevole Corbino, mantiene l’emendamento presentato con l’onorevole Quintieri Quinto?

CORBINO. Ritiriamo l’emendamento perché nella sua parte essenziale corrisponde agli emendamenti degli onorevoli Merlin Umberto e Cortese. C’è solo una differenza: non abbiamo voluto dare nessun significato classista alla nostra proposta. A nostro giudizio, nella funzione dell’imprenditore c’è anche quella di coordinare i propri costi con quelli dei concorrenti all’interno e all’esterno. Se togliamo la possibilità di fare la coordinazione, potremo correre il rischio che l’imprenditore che fallisce, perché non avrà potuto fare la serrata, si rivolgerà allo Stato per avere il risarcimento degli oneri del fallimento.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Tumminelli non è presente, l’emendamento s’intende decaduto.

Onorevole Gabrieli mantiene il suo emendamento?

GABRIELI. Lo mantengo limitatamente al primo periodo.

PRESIDENTE. Onorevole Belotti, mantiene il suo emendamento?

BELOTTI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Merlin, mantiene il suo emendamento?

CORTESE. Poiché il mio emendamento è sostanzialmente uguale a quello dell’onorevole Merlin Umberto, per economia di tempo vi aderisco.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Romano è assente, l’emendamento si intende decaduto.

Onorevole Perrone Capano, mantiene il suo emendamento?

PERRONE CAPANO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Giannini.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Dichiaro di far mio l’emendamento Giannini, che in questo momento non è nell’aula.

PRESIDENTE. Sta bene. Poiché l’onorevole Mazzei non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Foa, mantiene il suo emendamento?

FOA. Lo mantengo.

PRESIDENTE. L’onorevole Clerici ha presentato una seconda formulazione del suo emendamento, firmata anche dagli onorevoli Belotti, Dominedò, Benvenuti, Chatrian, Castelli Avolio, Biagioni, Cremaschi Carlo, Tosi, Balduzzi, Mortati, Bonomi Paolo:

«II diritto di sciopero, si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano.

«L’assunzione di qualsiasi funzione pubblica implica la rinunzia all’esercizio  di tale diritto».

Quale delle due formulazioni mantiene?

CLERICI. Rinunzio alla prima e mantengo la seconda.

PRESIDENTE. Onorevole Caroleo, mantiene il suo emendamento?

CAROLEO. Aderisco all’emendamento dell’onorevole Merlin Umberto.

PRESIDENTE. Onorevole Marina, mantiene i suoi emendamenti?

MARINA. Ritiro il primo e mantengo quello subordinato.

PRESIDENTE. Onorevole Grassi, mantiene il suo emendamento?

GRASSI. Ringrazio l’onorevole Relatore di aver riconosciuto che la formula mia e dei miei colleghi è più semplice e più italiana; ma poiché l’onorevole Merlin Umberto mantiene il suo testo, che nella sostanza coincide con il nostro, vi aderisco.

PRESIDENTE. Passiamo ora alla votazione degli emendamenti. Fra di essi, si allontana di più dal testo della Commissione quello sostitutivo dell’onorevole Giannini fatto proprio dall’onorevole Russo Perez, del seguente tenore:

«Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

Dovrò quindi mettere in votazione per primo questo emendamento.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. A nome del gruppo comunista dichiaro che voteremo contro l’emendamento dell’onorevole Giannini e contro gli emendamenti soppressivi presentati dal settore di destra dell’Assemblea. Per spiegare questo atteggiamento desidero richiamare l’attenzione dell’Assemblea sull’enorme importanza del voto che stiamo per dare e sulla grande aspettativa che vi è nel Paese per questo voto, non soltanto da parte della classe operaia, ma anche da parte di tutti gli strati dei lavoratori intellettuali, che sono enormemente interessati alla questione e verso i quali si appuntano le maggiori critiche e le maggiori riserve per quanto attiene al diritto di sciopero.

Alcuni colleghi hanno voluto drammatizzare lo sciopero paragonandolo ad uno stato di guerra; alcuni altri hanno parlato addirittura della «legge della foresta»; altri ancora hanno parlato della possibilità di una rottura permanente fra i lavoratori e lo Stato: una specie di rivolta permanente dei lavoratori contro lo Stato, contro la collettività, contro la società nazionale. Non vi è nulla di così drammatico. Lo sciopero, signori, è un prodotto della civiltà moderna. Quegli storici i quali si dilettano a ricercare nella storia antica degli esempi di sciopero, perdono il loro tempo, poiché lo sciopero moderno è un prodotto della civiltà capitalistica e dello sviluppo dell’industria.

Una voce. Menenio Agrippa!

DI VITTORIO. So anch’io del successo di curiosità che ha avuto il celebre apologo, il quale paragonava i diversi strati della società al corpo umano; si sarebbe potuto chiedere a quale strato della società corrispondessero quegli organi, di cui nessuno desidera ricevere l’attributo come un soprannome. (Si ride).

Lo sciopero, dunque, è un prodotto della civiltà moderna; e, lungi dall’essere la guerra permanente, la rottura di tutti i rapporti sociali, il cannibalismo, è stato obiettivamente nella storia d’Italia e di tutti i popoli d’Europa e d’America uno stimolo al progresso industriale ed al progresso economico, in generale.

Noi abbiamo avuto in Italia dei liberali, come l’onorevole Einaudi, che, a più riprese, in numerosi scritti, hanno riconosciuto che lo sciopero in Italia, come tutta l’azione del movimento sindacale italiano, dal suo inizio, è stato uno strumento di stimolo allo sviluppo, ha impedito ad alcuni industriali di adagiarsi sul profitto, che si poteva guadagnare mediante i bassi salari, mediante lo sfruttamento intenso dei lavoratori, mantenendo un’attrezzatura tecnica arretrata o superata.

Al momento della crisi, lo sciopero esprime una situazione di disagio, una rottura di equilibrio, determinatasi in un settore dell’attività economica e produttiva. Bisogna allora ristabilire un nuovo equilibrio. E qual è stato finora il fattore per ristabilire il nuovo equilibrio?

Poiché non era possibile adagiarsi su uno sfruttamento intenso dei lavoratori, poiché era necessario migliorare le loro condizioni di vita, sia aumentando i salari, sia diminuendo le ore di lavoro, bisognava ricorrere ad altro mezzo.

In via generale, questo mezzo era la modernizzazione degli impianti, una più razionale organizzazione del lavoro; e questo ha costituito lo stimolo al progresso.

In fondo, nella storia economica del nostro Paese, tutto il progresso industriale, che abbiamo avuto dal 1880 sino allo scoppio della prima guerra, è stato accompagnato dallo sviluppo del movimento della classe operaia italiana e dallo sviluppo e dalla intensità degli scioperi.

Quindi, non strumento di guerra, o di guerra civile, o di rottura di tutti frapporti sociali, o di caos, ma strumento obiettivo di progresso.

Qui devo deplorare che un settore di questa Assemblea abbia sentito il bisogno, per mezzo dell’onorevole Giannini, di presentare un emendamento, col quale si chiede di vietare lo sciopero.

GIANNINI. Ed anche la serrata.

DI VITTORIO. L’onorevole Giannini in un tempo recente ha creduto opportuno di aggiungere al nome del partito dei senza partito l’attributo di liberale ed anche di democratico.

L’onorevole Giannini può anche aggiungere altri nomi al fronte dell’«Uomo Qualunque», però con questo emendamento presentato, l’onorevole Giannini è obiettivamente portatore di una mentalità e di una concezione puramente fascista. (Commenti a destra).

Badate che in Italia il diritto di sciopero è stato conquistato dalle masse lavoratrici e riconosciuto da un Governo liberale presieduto dall’onorevole Giolitti. E da allora non vi è stato nessun liberale e meno ancora nessun democratico in Italia che abbia chiesto la soppressione del diritto di sciopero. Il divieto del diritto di sciopero è venuto in Italia col fascismo; è stato abolito questo divieto coll’abbattimento del fascismo.

Una voce a destra. In Russia?

DI VITTORIO. Il diritto di sciopero è venuto in Italia con la democrazia e con essa il diritto di sciopero era morto in Italia. Oggi, la democrazia risorta deve riconoscere il diritto di sciopero come la espressione più ampia della sua rinascita contro la concezione fascista, di cui si è reso portatore l’onorevole Giannini col proporre di vietare il diritto di sciopero. (Applausi a sinistra – Interruzioni a destra).

Anche altri oratori della destra si sono intrattenuti molto sui danni gravi che lo sciopero recherebbe alla società nazionale, alla collettività, ad altri lavoratori; ma da quel settore, nessuno si è preoccupato del danno vero e grave che porta alla società il superprofitto speculativo dei monopoli economici e dei grandi trust capitalistici. (Applausi a sinistra).

Contro questi, voi non domandate nessuna misura; domandate invece le misure contro un diritto naturale. Ripeto la bella frase dell’onorevole Merlin: «Il diritto naturale del lavoratore a lavorare o a non lavorare a seconda della propria libera determinazione», a seconda cioè che siano riconosciuti o siano misconosciuti i proprî diritti.

È vero che lo sciopero in determinate circostanze e per determinati servizi può recare danno alla società, o almeno a numerosi cittadini estranei alla contesa; ma questo fatto non è ignoto alle masse lavoratrici, le quali hanno dimostrato di avere un senso civico abbastanza elevato per evitare in tutti i limiti possibili che si ricorra allo sciopero nei servizi pubblici. Il fatto di riconoscere il diritto di sciopero che cosa implica? Implica che non soltanto i lavoratori debbono preoccuparsi di non creare difficoltà alla collettività nazionale, ma anche i dirigenti dei servizi pubblici e gli appaltatori, il Governo ed anche i singoli Ministri. La preoccupazione vi deve essere da ambo le parti e quando vi è da ambo le parti, si può giungere a concludere l’accordo. (Rumori a destra).

Onorevole Presidente, potrei fare, secondo il regolamento, una dichiarazione per ogni emendamento…

PRESIDENTE. Per ogni votazione, prego, onorevole Di Vittorio, non per ogni emendamento!

DI VITTORIO. Vorrei dimostrare agli onorevoli che hanno parlato contro lo sciopero, come essi si siano preoccupati dello sciopero dei funzionari che esercitano una autorità nello Stato, ma non hanno considerato con solidarietà ed umanità i lavoratori. Essi dimenticano che noi non perseguiamo lo scopo di scardinare lo Stato democratico e repubblicano (Commenti a destra). Noi abbiamo organizzato e diretto e condotto degli scioperi sotto il regime tedesco e sotto il regime fascista a rischio della nostra vita (Commenti); ma noi oggi cerchiamo di evitare al massimo, nella misura del possibile, degli scioperi in regime democratico e repubblicano, perché noi desideriamo concorrere, con tutte le nostre forze, a consolidare ed a sviluppare lo Stato democratico e repubblicano. (Rumori). Però bisogna che siano riconosciuti ai pubblici impiegati ed ai pubblici funzionarî quei diritti minimi all’esistenza che sono indispensabili. Per esempio, si è molto deplorato in questa Assemblea la minaccia di sciopero da parte dei magistrati. Ebbene, l’Associazione nazionale dei magistrati, che non è aderente, fino ad oggi, alla Confederazione generale italiana del lavoro ed è quindi assolutamente indipendente, si è rivolta alla Costituente per il riconoscimento dei propri diritti ed è stata ricevuta da una Commissione della nostra Assemblea. Questa Commissione ha riconosciuto fondate le rivendicazioni dei magistrali italiani e, malgrado questo riconoscimento dell’Assemblea Costituente, i signori magistrati non hanno ottenuto l’accoglimento delle rivendicazioni minime che sono indispensabili per assicurare non solo un tenore di vita tollerabile, ma anche per preservare la dignità della loro funzione. (Applausi a sinistra – Rumori e commenti al centro e a destra).

Noi quindi siamo favorevoli al diritto di sciopero senza limitazioni. (Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Di Vittorio, la prego di concludere. Invito, d’altra parte, gli onorevoli colleghi ad ascoltare in silenzio le dichiarazioni di voto.

DI VITTORIO. Concludo rapidamente. Noi siamo favorevoli al diritto di sciopero senza limitazioni per tutti i lavoratori, all’articolo cioè formulato nel progetto di Costituzione ed approvato dalla Commissione dei settantacinque; però non vogliamo chiuderci in una intransigenza assoluta e cieca. Noi, come in tante altre occasioni e su tanti altri punti del progetto di Costituzione, ricerchiamo l’accordo con altri gruppi che rappresentano non soltanto larghi strati del popolo, ma le grandi correnti sindacali che sono unite nella Confederazione generale italiana del lavoro, per cercare di votare d’accordo un emendamento sostitutivo che possa essere approvato dalla grande maggioranza dell’Assemblea e che possa esercitare una funzione di unificazione di larghi strati del popolo intorno a quest’articolo. Perciò noi, se gli altri gruppi sono d’accordo, voteremo, con le spiegazioni che ho dato, l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Merlin Umberto.

CINGOLANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Vorrei dapprima chiedere un consiglio ed esprimere un mio modesto parere. Per evitare che gli onorevoli colleghi chiedano di parlare per dichiarazione di voto sui singoli emendamenti, non sarebbe forse opportuno, come per esempio nel mio caso, che brevissimamente si dichiarasse il modo come il Gruppo, che si ha l’onore di rappresentare, voterà di fronte ai singoli emendamenti?

Naturalmente, incomincio subito col dichiarare che voteremo contro l’emendamento presentato dall’onorevole Giannini.

GIANNINI. Ah, ah, cattivo! (Si ride).

CINGOLANI. Non riesco ad entrare nelle grazie dell’onorevole Giannini, e ne sono desolatissimo. La verità è che lei, onorevole Giannini, mi pare che sia un po’ fuori tempo e fuori storia. Amerei vederla un po’ atteggiato nei vestiti romantici del nostro antico e saggio romanticismo, che chi sa quante volte lei avrà raffigurato nelle sue commedie e nei suoi film. Ma, come si fa a dire che si deve proibire lo sciopero? Come si fa oggi a negare la realtà? Mi pare di sentire, così lontani, i raccontini della nonna che ci narrava come agli inizi del risveglio della classe lavoratrice questa, quando tentava di incrociare le braccia, era accusata di aver commesso un delitto contro lo Stato e contro la legge. Tutto questo è codificato.

PRIOLO. Il Codice Rocco lo ha codificato.

JERVOLINO. Un questore interrompe: quis custodiet custodes? (Si ride).

CINGOLANI. Votando quindi contro l’emendamento Giannini noi affermiamo che non vogliamo, in nessun modo, ritornare ad un tempo ormai superato, alla durezza delle antiche lotte sociali. Chi fra di noi era allora in battaglia potrà ricordare le lotte della Lunigiana e della Sicilia.

Questa non è storia, perché storia è una parola troppo solenne: è cronaca di un tempo tormentoso e sanguinoso, per sempre tramontato in Italia. Per quanto riguarda gli emendamenti soppressivi, onorevoli colleghi (e sia detto senza ironia verso di voi), ho avuto un po’ l’impressione dello struzzo che nasconde la testa sotto la sabbia: ma credete voi che, non nominando affatto il fenomeno sciopero (che è un fenomeno sociale ed economico con proiezioni politiche), voi in qualche modo contribuite sul serio al riequilibrio delle forze sociali dando un senso di una più ampia giustizia di quella che non sia oggi realizzata nei rapporti fra gli uomini? Ma no! È talmente imponente il fenomeno sciopero, nella storia ultima del Paese nostro (e non parlo della preistoria, ma dei tempi della giovinezza nostra, della nostra maturità, ed anche della vecchiaia, per qualcuno di noi, e ci sono barbe bianche solenni che mi possono dare ragione), che io non posso non riconoscere come questo sia un fenomeno che ha riempito di sé la vita politica italiana.

Ma io non posso concordare in tutto con l’onorevole Di Vittorio, quando afferma che soltanto lo sciopero sia stato quello che abbia determinato la spinta e il progresso della produzione e della classe lavoratrice italiana. Ha contribuito certamente, ha rappresentato la sua parte di utilità nel campo anche della produzione, ha eccitato l’attività produttiva italiana ed è pure servito come mezzo educativo delle masse lavoratrici italiane. Chiunque di noi, che sia stato un po’ mescolato da ragazzo, o che abbia sentito parlare degli scioperi come per esempio di quello di Ranica, nel Bergamasco, quando le nostre tessitrici e filatrici hanno combattuto una meravigliosa battaglia per il riconoscimento della libertà e del diritto di organizzazione, sa come ci sia stata tutta una evoluzione in meglio da allora ad oggi. Ci sono stati anche molti episodi che ci ammoniscono però come sia stata una cosa grave talvolta e delicata quest’arma in mano al proletariato, perché questa è un’arma di guerra, non possiamo nascondercelo, tanto è vero che quando possiamo impedire uno sciopero, quando sappiamo di avere impedito uno sciopero, ne siamo lieti, ed io mi vanto di avere, come Ministro dell’aeronautica, composto uno sciopero in Alta Italia, raccogliendo attorno al mio tavolino i rappresentanti delle categorie in contrasto e riuscendo, in tal modo a comporre il conflitto; il che dimostra che quando noi possiamo evitare uno sciopero ce ne vantiamo, come di una vittoria civile.

Ma non possiamo trattare un problema, così importante con faciloneria; e ciò senza mancanza di rispetto per gli onorevoli colleghi della Commissione. Una dizione così semplice, che rischia di essere semplicistica, come quella che la Commissione ha adoperato, non può ottenere i nostri suffragi. Tutti i diritti che abbiamo affermato, li abbiamo fatti tutti sboccare in una codificazione di legge per il domani. Noi abbiamo fissato dei cardini, dei punti fondamentali, abbiamo illuminato delle verità, abbiamo fatto non un lavoro inutile che non dobbiamo denigrare; abbiamo affermato nella nostra Costituzione alcune idee centrali e dei principî fondamentali. Toccherà poi all’Assemblea legislativa, anche in questa materia, di legiferare su quello che è il grandioso fenomeno dello sciopero anche perché (ed ho ancora all’orecchio il discorso dell’onorevole Della Seta) uomini non sospetti possono temere qualche inquinamento politico, qualche volta possibile anche negli scioperi schiettamente economici. Per tutto questo sarà bene che la legge parli. Ecco perché aderiamo all’emendamento dell’onorevole Merlin, perché riteniamo che nell’emendamento Merlin sieno contenute tutte le possibilità di sviluppo legislativo, le regolamentazioni legislative dello sciopero. Questo lo dico anche per il mio caro collega e amico fraterno, onorevole Clerici, la cui passione democratica non metto in dubbio perché lo conosco da moltissimi anni e so con quale e con quanto ardore si sia sempre dedicato alla elevazione del proletariato. D’altra parte io vorrei pregarlo di unirsi a questa che mi auguro possa essere una manifestazione unanime dell’Assemblea. Questa affermazione, così come è stata presentata dall’onorevole Merlin, ed alla quale ha aderito l’onorevole Di Vittorio, ha certamente una grande funzione disciplinatrice di questo importantissimo e grave fenomeno sociale ed economico e tende appunto ad inquadrarlo in manifestazioni di carattere puramente economico e sociale, evitando quegli scogli politici che tutti dobbiamo superare perché non vogliamo che il regime democratico repubblicano possa diventare il regime della violenza e del mitra. In regime democratico e repubblicano è la legge la sovrana che regola l’attività delle organizzazioni e dei cittadini singoli.

Per questi motivi, voteremo l’emendamento Merlin, invitando i colleghi a ritirare i loro emendamenti, e pregando anche l’amico Clerici di rinunziare al suo. Finisco dichiarando che votando per questo emendamento e respingendo tutti gli altri, ci auguriamo che il proletariato italiano prosegua ancora la sua marcia ascensionale nella tranquillità, nell’ordine, nella giustizia per arrivare ad un regime nel quale possa trionfare una superiore più umana fraternità. (Vivi applausi al centro).

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente e onorevoli colleghi, io potrei parlare per vari motivi e, innanzitutto, per fatto personale; ma me ne astengo. A che serve? Parlerò quindi per una breve dichiarazione di voto e mi affretto a dirvi subito che voterò a favore dell’ordine del giorno del mio amico intimo Giannini, con il quale non posso non andare d’accordo. (Si ride).

In ogni modo, desidero ringraziare l’onorevole Di Vittorio che, nel suo discorso, non si è mai servito dell’espressione «classe lavoratrice», bensì dell’espressione «classe operaia». Su questa espressione noi possiamo concordare perfettamente, perché effettivamente esiste una classe operaia; non possiamo concordare con l’espressione «classe lavoratrice» perché noi neghiamo, e la realtà nega con noi, che il lavoro sia la pena riservata ad una sola classe.

LA ROCCA. Onorevole Giannini, non esiste una classe lavoratrice, esistono le classi lavoratrici.

GIANNINI. Perché m’interrompe? Io prego sempre i miei amici di non interrompermi. Perché vogliamo trasformare la nostra discussione in alterco? È inutile, non avremo un voto di più.

L’espressione «classe lavoratrice» – adoperata, ad onor del vero, non soltanto dal settore comunista, ma da tanti altri settori che, spesso, mi stupiscono per le loro formulazioni – è un errore; è un errore, collega Di Vittorio. Tutti lavorano: lavora il bambino non ancora nato, nel ventre della mamma. (Commenti – Ilarità). Va bene, voi ridete. A Napoli si dice: «Fatemi quattro soldi di risate». Io cerco di insegnarvi qualche cosa, se volete starmi a sentire. (Ilarità a sinistra). Lavora il bambino nel ventre della madre, perché, quando non è ancora nato, quando c’è solamente presunzione della sua prossima futura nascita, già egli fornisce la sua quantità di lavoro che è necessaria per i corredini, la culla, il medico, la levatrice e le altre piccole spese che si fanno. (Commenti – Ilarità a sinistra). Non è vero che non mi capite: non siete stupidi, avete capito.

Fornisce la sua parte di lavoro anche l’uomo che è morto. (Commenti – Ilarità a sinistra). Voi volete che si allunghi la mia dichiarazione di voto, voi volete che si perda del tempo: ma che ci guadagniamo?

L’uomo che è morto fornisce infatti, con la sua, morte, lavoro a tutti coloro che fanno il mestiere di occuparsi dei morti. Quindi una vera e propria classe lavoratrice, ossia una categoria di gente che lavora, in confronto ad una categoria di gente che non lavora, non esiste. (Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, lascino parlare l’oratore.

GIANNINI. Ma perché? Ho offeso qualcuno di voi? Qualcuno di voi forse fa il becchino? Dopo di che, desidero dire all’onorevole Di Vittorio e ai suoi amici che noi non crediamo, perché non riteniamo vero, che lo sciopero o la serrata – intendiamoci, perché noi non dividiamo un fenomeno dall’altro e li condanniamo tutti e due – possano in alcun modo modificare, accelerare o ritardare quella che è la marcia del progresso.

Il progresso, onorevoli colleghi, è di origine divina: non si arresta mai. Il progresso procede per intima forza. (Commenti a sinistra). Non c’è sciopero, non c’è serrata, che possano sbarrargli il passo: non c’è che il genio umano, il quale ne carpisce i segreti e ne fa dono a tutta l’umanità.

Ci si accusa di fascismo, e non posso non rilevare la cortesia formale dell’onorevole Di Vittorio, il quale ha detto che io, svolgendo il mio emendamento, ho sostenuto dei criteri fascisti. Io credo che molti dei deputati dell’estrema sinistra e di altri settori conoscano la mia posizione politica: in ogni modo, non sono qui per me e non me ne importa assolutamente niente.

Voglio dire soltanto che questa accusa di fascismo è facile, come è facile dire che tutti gli avvocati, sono imbroglioni, che tutti i medici sono degli assassini, che tutti i parlamentari sono degli ipocriti. Vorrei che non si ricorresse a questi mezzi polemici, onorevole Di Vittorio, che non cavano un ragno dal buco.

In realtà, nel sostenere che sia lo sciopero, sia la serrata, che sono entrambi attentati al diritto della collettività di essere servita dai singoli, non debbono essere combattuti, non è il caso di tirare in ballo questo argomento del fascismo. Lei ha molti altri argomenti molto più fondati, onorevole Di Vittorio.

DI VITTORIO. Permetta, onorevole Giannini…

PRESIDENTE. No, onorevole Di Vittorio: l’onorevole Giannini non ha niente da permettere, ed in quanto a lei, la prego di tacere.

GIANNINI. Io spero che lei non avrà da lagnarsi della mia cortesia nei suoi confronti. Posso dire che noi partiamo da un principio modernissimo, in quanto riteniamo che la società moderna sia un blocco nel quale non c’è nessuna attività che non sia necessaria.

È in base a questa convinzione che intendiamo vietare a qualcuno dei membri di questa società di esercitare il suo pur giusto diritto a danno della collettività e contro la collettività. Ed ecco la ragione per cui reclamiamo la creazione di istituti che possano riconoscere questo diritto, difenderlo, proteggerlo. Se la topografia dell’Assemblea in regime di proporzionale significasse ancora qualche cosa, onorevole Di Vittorio, io dovrei farmi costruire un settore a destra del suo per molte cose.

Ed ecco la ragione per cui noi voteremo l’emendamento che sinceramente e in piena coscienza e con la sicurezza di servire il Paese, abbiamo presentato all’articolo 36. (Applausi a destra).

CRISPO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CRISPO. Dichiariamo anche noi di votare contro l’emendamento Giannini, soprattutto perché noi rivendichiamo l’affermazione del diritto di sciopero delle classi lavoratrici a quel movimento liberale che, in intima connessione col movimento operaio, comprese e cercò di realizzare le esigenze tutte della giustizia sociale; che fu non soltanto, come è stato ricordato dall’onorevole Di Vittorio – del che gli rendiamo grazie – un’affermazione ideale, ma bensì, fin dal 1889, una realizzazione legislativa. Opportunamente l’onorevole Priolo ha ricordato il Codice Rocco. Il Codice Rocco fu la negazione dei principî liberali ai quali era stato informato il Codice penale del 1889, nel quale era già il riconoscimento del diritto di sciopero dei lavoratori. (Commenti – Interruzioni).

Quel diritto fu, dunque, rivendicato da uomini di fede liberale, dapprima in quel Codice Zanardelli che fu gloria della civiltà liberale italiana e più tardi nella legislazione sociale propugnata da Giovanni Giolitti. (Applausi).

Mi preme avvertire, per altro, che, riconoscendo il diritto di sciopero, noi lo intendiamo come uso legittimo d’un potere, e non come abuso di esso, come un mezzo di difesa e di rivendicazione economica, e non come un’arma di lotta e di oppressione politica.

In questo senso voteremo a favore dell’emendamento Merlin.

D’ARAGONA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Onorevoli colleghi, permettete ad un uomo il quale ha partecipato alle lotte per la conquista del diritto di sciopero di esprimere il proprio pensiero.

Lo sciopero è una conquista che è costata sangue e galera alle classi lavoratrici italiane. Mi dispiace di dare questo dispiacere al collega Giannini, ma io non accetto la sua filosofia e continuo a considerare l’esistenza delle classi lavoratrici.

Abbiamo lottato per molti anni prima di poter avere onestamente il diritto di sciopero. È vero: la legge Zanardelli ha codificato il diritto di sciopero, ma il diritto vero, di fatto, noi lo abbiamo conquistato nel 1900. Nel 1886 i contadini del Mantovano hanno fatto uno sciopero durato parecchi mesi, che ebbe come conseguenza un grande processo svoltosi a Venezia, dove molti di quei contadini, che per la prima volta si permettevano di agitarsi per uscire dallo stato di miseria in cui si trovavano, vennero condannati ad anni ed anni di galera, ma influirono a convincere i legislatori di allora a codificare il diritto di sciopero.

Questo diritto è stato conquistato quindi con lo sforzo, la fatica, il sacrificio della classe lavoratrice e questa non può perderlo! Se voi votaste un emendamento il quale arrivasse a vietare lo sciopero, determinereste in Italia una lotta accanita fra la classe lavoratrice e lo Stato. La classe lavoratrice non può rinunciare a questo mezzo di battaglia e di lotta, perché è effettivamente un mezzo di battaglia e di lotta; è uno strumento che la classe lavoratrice ha bisogno di avere per poter difendere e tutelare i propri interessi. Del resto, proibite voi ai negozianti e agli industriali di vendere o di non vendere la propria merce? Perché lo dovete proibire alla classe lavoratrice, la quale non ha altro da vendere che la forza del proprio lavoro? (Applausi a sinistra).

Si parla di limitare. Ma quali limiti potete porre? Stabilirete delle sanzioni? Quali sanzioni? Il giorno che gli operai, i ferrovieri, i tranvieri, gli addetti ai servizi pubblici, faranno uno sciopero, quale sanzione voi applicherete a questi lavoratori? Li metterete in galera? Ma voi avrete arrestato il servizio pubblico all’infinito! Applicherete delle multe? Ma voi determinerete una nuova agitazione per non pagare la multa!

Se voi volete sul serio limitare il numero degli scioperi, bisogna arrivare ad ottenere due cose: in primo luogo una maggiore comprensione da parte dei datori di lavoro dei diritti della classe lavoratrice. Non crediate che gli operai e i lavoratori in genere facciano lo sciopero per il gusto di fare lo sciopero. Gli operai ed i lavoratori in genere sanno che lo sciopero è un sacrificio ed un pericolo e prima di usare questa arma pensano quali possono essere le conseguenze; ma sono obbligati molte volte…

GIANNINI. Lo so, sono obbligati. Ma chi li obbliga?

D’ARAGONA. …perché non hanno altro mezzo! Io sono passato in Italia per essere l’uomo che cercava di impedire le agitazioni e gli scioperi, il pompiere. È vero. Finché è stato possibile ho cercato di richiamare i lavoratori a limitare al massimo l’uso dello sciopero.

Ma molte volte i lavoratori sono obbligati a fare lo sciopero perché si trovano di fronte a resistenze che non hanno nessuna ragion d’essere, nessuna giustificazione. E allora che cosa deve fare il lavoratore? Quale strumento deve adoperare?

Ecco perché, dico, bisogna che i datori di lavoro tengano conto, più di quello che non facciano, dei bisogni della classe lavoratrice.

Non si possono in questa materia ottenere risultati con delle imposizioni. Bisogna correggere il costume, bisogna creare gli organi che possano impedire gli scioperi. Ma questi organi devono sorgere per necessità direttamente sentita da parte della classe lavoratrice. Ne volete un esempio? Quando in Italia si costituirono le commissioni per l’equo trattamento che dovevano risolvere le vertenze dei ferrotranvieri, dei telefonici, ecc., ebbene, questi strumenti, che non furono imposti dalla legge, che non furono imposti dallo Stato, ma che scaturirono dalla volontà della classe lavoratrice, effettivamente diminuirono il numero degli scioperi; e ancor oggi avete quelle categorie che reclamano quegli organi perché essi rispondevano allora e possono ancora rispondere alle esigenze della loro battaglia, perché in essi avevano trovato la possibilità di ottenere i propri miglioramenti, un avvenire meno disastroso, senza il bisogno di ricorrere allo sciopero.

Bisogna che a poco a poco sorgano questi strumenti. Ma bisogna che ci sia un costume, un’educazione, che si lavori per ottenerli: bisogna che ci sia la convinzione da parte di tutti che questi strumenti possono essere efficaci per la tutela degli interessi della classe lavoratrice.

Soltanto così potrete arrivare a diminuire il numero degli scioperi.

Ma, del resto, qual è il Paese dove lo sciopero è proibito?

In nessun Paese del mondo. Soltanto nell’Australia si sono creati degli strumenti per volontà delle organizzazioni sindacali, e soltanto per ciò essi hanno efficacia e valore. Perché, se invece di essere sorti per volontà delle organizzazioni sindacali, fossero stati imposti obbligatoriamente, quegli strumenti non avrebbero servito. Così si può arrivare alla soluzione del problema.

D’altro canto ho sentito accennare agli scioperi politici o non politici. Ricorderò ai colleghi che l’Italia deve ad uno sciopero il cambiamento della propria politica. Chi non ricorda lo sciopero generale del 1900? Fu quello a contribuire a determinare il cambiamento della politica del nostro Paese. Si abbandonò allora la politica dei Pelloux e simili, per cominciare a dare al nostro Paese la vera politica democratica. (Vivi applausi a sinistra).

Cosa vuol dire questo? Indubbiamente lo sciopero generale può essere uno strumento rivoluzionario. Si, è vero. Ma se è uno strumento rivoluzionario come potete voi proibirlo? Se domani c’è una situazione politica che sente il bisogno di una trasformazione, di un cambiamento; se la classe lavoratrice ha la convinzione che in quel momento un atto suo può determinare un mutamento nella politica del nostro Paese, come potete impedire che ciò si verifichi? L’abbiamo visto. Quando gli operai del Nord hanno fatto il loro sciopero, hanno incominciato l’azione rivoluzionaria che ha sbarazzato il nostro Paese dal regime fascista. E quello è stato un altro gesto meritorio per l’Italia.

Lei, onorevole Giannini, prega il Signore, mi pare. Ma se lei fosse informato saprebbe che nelle città del Nord il primo gesto che ha risvegliato l’opinione pubblica, perché sentisse la nausea del regime fascista, è stato proprio lo sciopero dei lavoratori.

GIANNINI. Le posso dare la mia parola d’onore che non ho mai promosso quello sciopero.

D’ARAGONA. Chi ha la direzione del movimento sindacale deve avere il senso della responsabilità e non abusare di questi strumenti e di questi mezzi. È necessario che questi ultimi, che sono veramente una grande forza, non siano sciupati attraversò una serie di scioperi, qualche volta inutili e dannosi; ma, quando è necessario, sono strumenti santi che servono non solo per la difesa della classe lavoratrice ma anche per consentire uno sbalzo in avanti alla civiltà del nostro Paese. (Applausi).

BELLAVISTA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Dichiaro che voterò sia contro gli emendamenti soppressivi, dell’articolo 36, sia contro quelli modificativi di detto articolo, nel senso che vietino, implicitamente o esplicitamente, il diritto di sciopero; ma voterò anche contro l’emendamento Merlin per i medesimi motivi. Non è il caso di ritornare, dopo l’esaltazione che con bel garbo ha fatto l’onorevole Di Vittorio, su quelli che sono i motivi intrinsecamente liberali di questa irrinunciabile conquista, che è lo sciopero, ma devo far rilevare e all’onorevole Merlin e alla Commissione che si è espressa così bene per bocca dell’onorevole Ghidini, che il progetto di Costituzione, in fatto di liberalismo, è rimasto a mezza strada, perché del liberalismo ha ignorato il canone dei canoni, che è il principio della dialettica dei contrari, ammettendo il diritto di sciopero e negando il diritto di serrata. Ora, il principio della dialettica dei contrari non si ha soltanto nel campo politico, ma anche nel campo economico. E come si può far ricorso a Giolitti e ai santi principî del liberalismo quando in questa battaglia si offre a una parte lo sciopero, che dalla parola così competente e autorevole dell’onorevole D’Aragona è stato riconosciuto come efficace strumento di lotta, e si pone uno degli avversari in condizioni di offendere e travolgere l’altro completamente disarmato? Io so bene che si dice che anche l’altro è armato. Ma di che cosa è armato? Dell’indifferenza legislativa e del piccolissimo numero dei suoi componenti che lo condanna à soggiacere di fronte alla strapotenza delle forze organizzate del lavoro? (Commenti).

Nessun paese al mondo del resto vieta lo sciopero. La nostra legislazione, lo ha ricordato il Presidente, si macchiò del delitto di codificare un diritto come reato. Ma qui si è dimenticato che questa vituperata legislazione si macchiò dello stesso delitto nei confronti della serrata. Gli articoli del Codice penale parlano dell’uno e dell’altra e per fini economici e per fini politici. Io mi domando ancora in quale Paese del mondo si vieti la serrata, ammettendo il diritto di sciopero?

In quali Paesi democratici e liberali del mondo la serrata, come strumento di battaglia del capitale, è stata mai vietata nella lotta fatale e costante col lavoro? (Interruzioni – Commenti).

Io    penso, perciò, che se si vuole essere aderenti alla disciplina ed all’insegnamento liberale non bisogna fermarsi a mezza strada ma arrivare alle estreme conseguenze, riconoscendo la libertà di tutti e di ognuno.

CAMANGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Per noi repubblicani il diritto di sciopero era ed è, naturalmente, fuori discussione, come tutti i diritti di libertà.

Per ragioni, che ritengo superfluo ripetere, bastando il richiamo ai nostri precedenti, alla storia ed alla tradizione del nostro partito, che nacque praticamente dalle gloriose società operaie affratellate, dichiaro che con la presentazione dell’emendamento del collega Mazzei noi avevamo voluto soltanto esprimere la nostra preoccupazione circa la salvaguardia del regolare funzionamento dell’attività dello Stato repubblicano, il quale è aperto, peraltro, a tutte le conquiste sociali.

L’emendamento Merlin tranquillizza la nostra preoccupazione ed è per questo che noi voteremo favorevolmente.

MARIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARIANI. Il gruppo parlamentare del Partito socialista italiano dichiara che voterà l’articolo 36, respingendo tutti gli emendamenti.

FOA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. A nome dei miei colleghi di Gruppo dichiaro che noi, naturalmente, voteremo contro gli emendamenti soppressivi dell’articolo 36 e contro gli emendamenti che tendono a vietare lo sciopero e la serrata.

Noi voteremo, invece, pur con qualche preoccupazione e con qualche titubanza, l’emendamento Merlin, rinunziando all’emendamento da me presentato e che più si avvicinava al testo della Commissione.

Le ragioni di questa preoccupazione e titubanza sono quelle da me dette precedentemente, cioè che l’emendamento Merlin, col richiamo alla legge, non prevede alcuna limitazione, alcun orientamento, alcun indirizzo sul modo come la legislazione ordinaria dovrà regolare e disciplinare il diritto di sciopero.

Pur tuttavia le dichiarazioni, così degne, dell’onorevole Merlin, al quale si sono associati quasi tutti gli altri settori dell’Assemblea, hanno toccato il nostro animo; e noi pensiamo che l’impronta, con la quale il diritto di sciopero rinasce nella legislazione italiana, dopo tanti anni di divieto, la solennità colla quale rinasce è tale, il senso di misura ed il senso di fiducia, risultati da questa discussione, sono tali, che noi possiamo augurarci che questo senso di misura e di fiducia presiedano all’esercizio del diritto di sciopero negli anni futuri.

Con questo spirito e con questa fiducia noi voteremo l’emendamento Merlin.

PRESIDENTE. Pongo in votazione per primo l’emendamento sostitutivo presentato dall’onorevole Giannini:

«Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro sono regolati dalla legge».

(Non è approvato).

Pongo adesso in votazione, le proposte soppressive dell’articolo 36, fatte dagli onorevoli Damiani, Rodi e Colitto, Caccuri, Zotta. Per questa votazione è stato chiesto lo scrutinio segreto dagli onorevoli Damiani, Colitto, Puoti, Rodi, Abozzi, De Falco, Cannizzo, Rodinò Mario, Monterisi, Mastrojanni, Cicerone, Corbino, Perugi, De Maria, Caccuri, Gabrieli, Recca, Vilardi, Arcaini, Firrao, Russo Perez, Capua, Ayroldi, Miccolis, Selvaggi, Siles, Tumminelli, Condorelli, Fabbri, Perrone Capano, Colonna, Quintieri Quinto, Bonino, Giannini, Mazza, Bencivenga.

Chiedo ai sottoscrittori di questa richiesta se la mantengono.

GIANNINI. Per quanto riguarda i firmatari del nostro Gruppo, rinunziamo. (Applausi).

CORBINO. Anche noi rinunziamo.

PRESIDENTE. Pongo allora in votazione per alzata e seduta la soppressione dell’articolo 36.

(Non è approvata).

Pongo adesso in votazione l’emendamento dell’onorevole Merlin Umberto, il quale fa il richiamo più generico alla legge senza entrare in particolari che sono invece contenuti in tutte le altre proposte sostitutive. L’emendamento è del seguente tenore:

«II diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

Ricordo che la Commissione si è rimessa all’Assemblea ed altri colleghi, che avevano presentato emendamenti dello stesso contenuto, per quanto di forma diversa, hanno dichiarato di aderire all’emendamento Merlin.

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, dopo il suffragio ottenuto dai nostri emendamenti, noi dovremmo votare logicamente contro questo emendamento; però volendo fare insieme un gesto di solidarietà ed anche un atto di rispetto, noi voteremo in favore dello stesso. (Ilarità).

Una voce a sinistra. Di rispetto o di dispetto?

(L’emendamento è approvato).

PRESIDENTE. Restano così assorbiti gli emendamenti degli onorevoli Gabrieli, Perrone Capano, Foa, Clerici, Marina.

L’articolo 36 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«II diritto di sciopero si esercita nell’ambito delle leggi che lo regolano».

Il seguito della discussione è rinviato, a domani alle 10. Avverto che la seduta pomeridiana avrà inizio alle 16.30.

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se non ritiene urgente provvedere alla riorganizzazione del servizio pensioni di guerra e infortunati civili, riunendo le varie sezioni – oggi disseminate in quattro edifici lontani l’uno dall’altro – in un unico edificio, in modo di poter coordinare le varie branche ed attività ed iniziare un sollecito lavoro di espletamento delle 550.000 pratiche che attendono la definizione, ponendo fine in tal modo ad inconvenienti gravissimi, quali quelli di mucchi di pratiche e di documenti accatastati e dell’esistenza, in via Stampatori 8, del casellario dei fascicoli di via Flaminia n. 388.

«Morini».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere i motivi che ostano alla pubblicazione della legge sulla ricostruzione a modifica di quella dei rimasti senza tetto del 9 giugno 1945, già da tempo approvata dalla Commissione legislativa e dal Consiglio dei Ministri, legge che, procrastinata, ha ridotto la già ridotta attività edilizia nazionale enormemente danneggiando i sinistrati di guerra bisognosi di un tetto.

«De Mercurio».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se sia suo intendimento favorire lo sviluppo e le attività delle cooperative edilizie operanti senza fini di lucro e se intende agevolare finanziariamente in misura maggiore che ogni altra del genere le cooperative edilizie tra statali e impiegati di Enti pubblici sinistrati di guerra.

«De Mercurio».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere come si intenda provvedere alle urgenti, improrogabili necessità degli Ospedali di Napoli, le cui condizioni sono tali da non consentire alcuna possibilità di funzionamento, con grave danno della loro funzione assistenziale.

«Mazza».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se sia esatto quanto ha pubblicato un noto settimanale circa una compravendita di paracadute effettuata dal cessato Ministero dell’assistenza post-bellica e, in ogni caso, se non si creda di disporre adeguati accertamenti.

«Mazza».

«Al Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere i motivi per i quali non è stato disposto che la distribuzione dei tessili U.N.R.R.A. sia estesa anche alla categoria dei sinistrati di guerra, cioè a coloro che, per rappresentare quelli che maggiormente sono stati danneggiati dalla guerra, ne hanno maggiore bisogno e diritto.

«Per conoscere, inoltre, se intenda allargare la composizione dei Comitati di distribuzione dei detti tessili, includendovi un rappresentante della categoria inquadrata nella Unione nazionale sinistrati di guerra.

«Puoti».

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere i motivi per i quali non ancora si è provveduto allo sblocco dell’olio di oliva per le provincie in cui si è ottenuto il conferimento, secondo i quantitativi previsti nel piano di contingentamento.

«Mantenere – anche dopo il perfetto adempimento degli obblighi assunti da parte dei produttori – il regime vincolistico, costituisce, oltreché un atto di slealtà nei loro confronti, perpetuare una politica nefasta di oppressione e di coartazione della libera iniziativa, allontanando sempre più la normalizzazione del mercato.

«La questione, di eccezionale importanza, nel campo nazionale, ne acquista una particolarissima per la provincia di Salerno in cui –   di fronte ai 4000 quintali di olio previsti nel caso di ammasso obbligatorio totalitario – se ne sono conferiti, con il sistema di contingentamento, 5500.

«La delusione ed il rammarico delle categorie interessate ed il disappunto di tutti i consumatori, i quali attendono ansiosamente dallo sblocco una diminuzione del prezzo, che oggi sono costretti a pagare per integrare la razione, sono esasperati dal fatto che già corre voce che si vorrebbe – come per l’anno scorso –  affidare ad alcune ditte, in monopolio, un cosiddetto reperimento presso i produttori, con le conseguenze morali, economiche e politiche già deplorate e con gli illeciti e favolosi arricchimenti nella campagna scorsa verificatisi a vantaggio delle ditte preferite.

«De Falco».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri ed al Ministro della difesa, per sapere se è a loro conoscenza che un sottufficiale di marina – Vitiello Salvatore – di stanza a Venezia, è stato denunciato ed arrestato per ordine dell’autorità giudiziaria militare per avere protestato sopra un quotidiano locale contro il persistere d’una mentalità antidemocratica ed antirepubblicana in determinati ambienti della Marina, e per conoscere il loro avviso in merito.

«Ravagnan, Ghidetti, Pellegrini».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non ritiene urgente:

  1. a) riorganizzare tutta la materia del risarcimento danni ai nostri connazionali in Africa Orientale Italiana, eliminando il formalismo burocratico (specie la documentazione ingombrante ed inutile), che intralcia ed esaspera senza alcun costrutto pratico ed introducendo, invece, nuovi criteri deduttivi, che permetterebbero un lavoro sollecito e sbrigativo, e soluzioni rispondenti, almeno in parte, alla realtà dei danni subìti;
  2. b) dotare gli uffici di locali che permetteranno all’unica divisione (la quarta) – che attualmente lavora faticosamente con funzionari ottimi e fattivi e con un capo valoroso e preparato – di sviluppare la propria attività, eliminando l’inconveniente di dover lavorare, pigiati, in stanze insufficienti, con pacchi di pratiche sotto i tavoli, nonché di essere affiancata dalle altre tre divisioni, oggi praticamente ferme per mancanza di locali, in modo di poter far fronte alla necessità d’espletamento delle pratiche attualmente ammontanti ad oltre 70.000: pratiche che aumentano di 150 al giorno e che vengono smaltite con una media giornaliera di 15-20 di modo che, continuando con tale ritmo, si giungerà alla liquidazione totale fra 20 anni.

«Morini».

«Al Ministro dei trasporti, per conoscere se non ritiene urgente giungere alla sistemazione dei ferrovieri colpiti dalle leggi fasciste e se non ritiene che unica via per impedire che la trafila burocratica trasformi un atto di giustizia e di solidarietà in una procedura esasperata ed esasperante del caso per caso stia nel capovolgere la situazione giuridica, ritenendo licenziati per ragioni politiche tutti i ferrovieri colpiti dai provvedimenti fascisti del 1922 e del 1923, salvo il diritto dell’Amministrazione ferroviaria di impugnare singolarmente le riammissioni dei ferrovieri, che essa ritenga esser stati allontanati dal servizio per motivi diversi da quelli politici; se non ritiene conforme a giustizia estendere le disposizioni di riammissione, prese o da prendere, anche ai ferrovieri avventizi nonché ai ferrovieri licenziati dal Ministero Facta a seguito dello sciopero agosto 1922; se infine – nel caso che non credesse di poter accettare il principio della inversione della presunzione – non ritiene indispensabile – per una più sollecita definizione delle pratiche – eliminare, con chiara disposizione legislativa, la disposizione aberrante, in forza della quale, per la riammissione definitiva in servizio, occorre esaminare l’atteggiamento politico dell’agente, anche nel periodo che va dalla marcia su Roma al giorno del licenziamento.

«Morini».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se corrisponda al vero la notizia pubblicata il 12 maggio nel n. 78 de L’Italia d’oggi, che «l’amministrazione straordinaria del Senato retta dal Commissario Montagna ha stanziato la somma di 80 milioni di lire per restauri da apportare a Palazzo Madama, in vista soprattutto della nuova sistemazione che si deve dare alla Camera Alta secondo la Costituzione»; e in caso affermativo per chiedere se, nelle presenti condizioni dell’erario, tale ingente spesa si debba proprio considerare indispensabile e urgente.

«Gortani, Bubbio, Alberti, Franceschini».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per avere notizie circa l’entità dei danni provocati dal terremoto in Calabria e circa i provvedimenti adottati dal Governo.

«Malagugini, Piemonte».

Mi riservo di chiedere al Governo quando intenda rispondere a queste interrogazioni.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e delle finanze e tesoro, per sapere:

1°) se sia intenzione del Governo di fondare, in separata sede, un istituto autonomo di assistenza per quegli impiegati dell’ex-Accademia d’Italia, che non possono essere riassunti dalla ricostituita Accademia dei Lincei, perché di gran lunga esuberanti alle sue esigenze;

2°) se sia intenzione del Governo di dare istruzioni, affinché la Commissione incaricata di apprestare il nuovo organico-regolamento del personale dell’Accademia dei Lincei presenti sollecitamente le sue definitive conclusioni e sia possibile dare, dopo imparziale scrutinio, sistemazione al personale che l’Accademia stessa sarà costretta a mantenere;

3°) e poiché le notizie ufficiose che si hanno in proposito fanno presumere che il nuovo organico degli impiegati dell’Accademia dei Lincei, per quanto ridotto in confronto alla elefantiasi grottesca dell’Accademia d’Italia, assorbirà, per i suoi necessari e giusti emolumenti e pur tenendo conto degli affidamenti ricevuti rispetto all’aumento della dotazione governativa, tutte le entrate dell’Accademia ed in breve ora le supererà, quali provvedimenti si intendano prendere affinché l’Accademia dei Lincei possa adempiere ancora al suo ufficio proprio, che non è quello di pagare stipendi ad un numero più o meno grande di impiegati, ma è invece quello di stampare e diffondere nel mondo note e memorie di soci e di studiosi, testimonianza del loro contributo al progresso scientifico e strumento necessario per consentire ad essi, grazie agli opportuni scambi con le consorelle d’altri paesi, la conoscenza dei contributi dati dagli stranieri al progresso medesimo.

«Einaudi».

«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se è stato mantenuto od abrogato il decreto, emanato a suo tempo dal Governo di Salò, col quale erano aboliti, nel territorio della Repubblica sociale, i nomi delle scuole ricordanti gli appartenenti, vivi e defunti, alla casa Savoia, e l’attributo «regio» a tutti gli istituti. E per conoscere se analoghe disposizioni siano state date dal Ministero, estensibili ai ricordi del regime fascista, e se siano state osservate.

«E poiché risulta all’interrogante che in Roma, all’angolo via Tacito via Gioacchino Belli, spicca la scritta «regia scuola elementare Umberto I», chiede se quella sola od altre ancora, ad un anno dalla conquista repubblicana del popolo italiano, ostentino i segni del passato regime. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merlin Angelina».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se e quali provvedimenti intenda adottare per eliminare il grave disservizio del tribunale di Frosinone, determinato:

  1. a) dall’insufficienza della magistratura giudicante, che, già inadeguata al bisogno per vacanze nei posti di organico, ha subìto ulteriore riduzione a seguito del distacco di un giudice all’ufficio del pubblico ministero in funzioni di sostituto procuratore della Repubblica, e che, se non verrà integrata urgentemente, dovrà sospendere quasi totalmente la propria attività nel ramo civile, già gravato da enorme arretrato;
  2. b) dall’insufficienza del personale di cancelleria;
  3. c) dal disordine dell’archivio, in conseguenza della semi-distruzione degli antichi locali, nei quali giacciono ancora i fascicoli di numerosissime procedure fallimentari e di espropriazione, che perciò non possono essere proseguite. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Carboni, De Palma».

«Il sottoscritto, chiede di interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per richiamare la sua attenzione su quanto segue: nella notte dal 14 al 15 aprile 1947, a causa del gelo, i contadini di numerosi comuni della provincia di Aquila (Sulmona, Pratola Peligna, Corfinio, Raiano e Vittorito) hanno subìto danni ingentissimi. Una Commissione, composta di funzionari dell’Ispettorato agrario e della Confederterra, recatasi in loco, ha accertato che i danni subìti dai vigneti, piante da frutto, patate e fave, ascendono all’80-90 per cento. In seguito a questa grave perdita, che annulla il lavoro e i sacrifici di un anno, le popolazioni dei comuni danneggiati chiedono:

1°) riduzione del canone di fitto da parte dei proprietari in rapporto ai danni subìti;

2°) sgravio di tasse;

3°) un sussidio da parte del Governo, come altra volta concesso in favore dei contadini della provincia di Foggia, danneggiati dalle cavallette e dalla siccità, con decreto legislativo presidenziale 28 giugno 1946, n. 46.

«L’interrogante desidera conoscere il parere del Ministro. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Corbi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 23.10.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16.30:

Comunicazioni del Governo sulla situazione finanziaria ed economica.

ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 12 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXXI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 12 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

 

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Disegni di legge (Discussione):

Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17)    

Presidente                                                                                                        

Russo Perez                                                                                                     

Montini                                                                                                            

Pajetta Giancarlo                                                                                          

Martino Enrico                                                                                               

Cianca                                                                                                              

Bonomi Ivanoe, Presidente della Commissione per i trattati internazionali          

Persico, Relatore                                                                                               

Sforza, Ministro degli affari esteri                                                                     

Corbino                                                                                                            

Gronchi                                                                                                            

Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945. (8)                                                                                          

Presidente                                                                                                        

Montini                                                                                                            

Rivera                                                                                                              

Canepa                                                                                                              

Cingolani                                                                                                         

Macrelli                                                                                                          

Colitto                                                                                                             

Quintieri Quinto                                                                                             

Tonello                                                                                                            

Scoccimarro                                                                                                    

Bonomi Ivanoe, Presidente della Commissione per i trattati internazionali          

Assennato, Sottosegretario di Stato per il commercio estero                               

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Longhena                                                                                                         

La seduta comincia alle 10.

CICERONE, Il Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Carratelli, Costa, Massini e Pera.

(Sono concessi).

Discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17).

Dichiaro aperta la discussione generale.

È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Molto onorevoli, per quanto poco numerosi colleghi, si è discusso di questo Accordo coll’Egitto in seno alla Commissione per i Trattati internazionali. Io ho ritenuto che questo Accordo non debba avere la ratifica da parte dell’Assemblea Costituente; e mi sono trovato d’accordo con parecchi colleghi, tra i quali l’onorevole Togliatti. Questo fatto, di essere d’accordo con lui, mi ha insospettito un poco, mi ha fatto pensare che potessi avere torto; però, avendo esaminato ancora più a fondo la questione, mi sono convinto che questa volta entrambi abbiamo ragione, sia pure partendo da punti di vista diversi.

In base a questo Accordo, che io qualifico poco chiaro, anzi oscuro, nelle sue origini, nel suo sviluppo e nelle sue conclusioni, noi dovremmo pagare all’Egitto – che, ricordate, non è stato Nazione belligerante – la modesta cifra di sei milioni e mezzo di lire egiziane, che corrispondono a circa 15 miliardi di lire italiane.

Pensate, dunque, che tra l’Italia e l’Egitto non ci fu dichiarazione di guerra; ma l’Egitto il 10 giugno 1940 ruppe le relazioni diplomatiche con noi e procedette al sequestro dei beni dei cittadini italiani, che vivevano colà.

E che questa misura fosse giuridicamente poco fondata, lo riconosce la stessa relazione al disegno di legge, dove si dice: «Gli argomenti giuridici a sostegno della tesi egiziana erano discutibili, però in via di fatto un mancato accordo e una non sollecita definizione delle trattative o una sospensione avrebbero causato (vi prego di ascoltare: cosa credete che si dica qui? – un danno enorme per la nazione italiana? – no) un protrarsi per un tempo imprecisabile del sequestro, provvedimento che colpiva dei cittadini italiani, fra i quali parecchi molto ricchi, che vivevano in Egitto.

Giuridicamente, in base alle leggi ed agli usi internazionali, questo provvedimento non si regge.

Pensate che è stato discusso perfino nei riguardi delle nazioni con cui siamo stati in guerra. Pensate ancora che vi sono alcune di queste, fra cui l’Inghilterra, che, o hanno già rinunziato, o stanno per rinunziare al sequestro. È chiaro che le analoghe misure prese dall’Egitto si giustificavano ancora meno.

Si parla dei danni che avrebbe subito quel paese: «par suite d’opérations militaires sur son territoire».

La frase mi appare volutamente equivoca: «a causa di operazioni militari» non svolte da noi, ma anche dagli inglesi o dai tedeschi, «sul suo territorio». Di fatto, noi abbiamo arrecato all’Egitto pochissimi danni.

Esso ce ne ha arrecato immensi, offrendo il suo territorio come piattaforma di manovra e di battaglia per le forze inglesi che erano in guerra con noi.

Quindi era legittimo ricercare il nemico su quel territorio e cercare di batterlo.

Comunque, i danni di un bombardamento sul porto di Alessandria e sul Canale sono insignificanti. I danni maggiori consistono, credo, nei datteri mangiati dai soldati italiani nell’oasi di Siwa.

È vero che l’Egitto cominciò col domandare una somma enorme; credo cento milioni in lire egiziane. Ma sappiamo tutti che queste sono abitudini orientali, per cui si domanda cento quando si vuole ottenere due. Difatti, i nostri negoziatori si dichiararono soddisfatti quando da cento si scese a dieci, in un primo tempo e, in un secondo tempo, a sei e mezzo, ivi comprese quelle somme che possono considerarsi restituzione di somme spese dal Governo egiziano per soccorsi ai nostri cittadini durante la guerra, per l’ammontare di due milioni e mezzo di lire egiziane.

Con questi precedenti, non capisco come si possa reggere l’affermazione della relazione al disegno di legge, in cui è detto «si poneva pertanto, in termini improrogabili, la necessità di arrivare al più presto ad un miglioramento della situazione nei riguardi del sequestro», sequestro che, come ho detto, feriva interessi di cittadini italiani, interessi rispettabili, d’accordo, ma interessi di singoli, non dell’intera Nazione.

Tanti cittadini italiani viventi in paesi stranieri hanno subito dei danni. Cittadini italiani che vivevano, per esempio, in Brasile, cittadini italiani che vivevano in Tunisia; i quali ultimi sono stati più danneggiati degli altri, essi che furono cacciati via dalla loro terra «come can tignosi», come direbbe Giosuè Carducci, e non hanno ricevuto alcun indennizzo; cittadini italiani viventi nella metropoli, che hanno avuto distrutti palazzi e beni mobili e non hanno ancora ricevuto neanche un soldo! E noi dobbiamo preoccuparci unicamente di quei cittadini italiani che vivevano in Egitto e che dovrebbero essere i soli ad essere indennizzati d’ogni danno da loro subito!

Come vedete, non c’entra per nulla il nostro rispetto verso la nobilissima nazione egiziana ed il nostro vivo e indiscutibile e generale desiderio di tornare con essa ai vecchi amichevoli rapporti; non c’è niente nel nostro atteggiamento, che possa ledere la dignità di questa nazione amica e offendere i popoli del Medio Oriente; non c’è niente che possa sollevare un attrito fra noi e loro.

Ho detto che l’accordo è oscuro per le sue origini e per il modo come furono condotte le trattative. Onorevoli colleghi, le trattative non avvennero per le normali vie diplomatiche, ma furono condotte dal signor Cerulli, non so di preciso quale titolo abbia, che era stato governatore in colonia, in Africa Orientale. Più tardi da Roma fu inviato all’onorevole Ivanoe Bonomi, che si trovava a Parigi, un telegramma invitante alla firma; e sapete in che data? La data è quella stessa del giorno della firma! E l’onorevole Bonomi firmò. Poi si viene da noi e si dice: cosa fatta capo ha. Ma l’Assemblea ha i suoi diritti e ad essa è devoluta l’approvazione dei trattati; e se l’Assemblea crede che il trattato non debba essere approvato, essa non deve avere preoccupazioni di alcun genere nei riguardi della nazione contraente, che noi, come ho detto, non abbiamo alcuna volontà di offendere negli interessi o ferire nella dignità. Pensate ancora, onorevole colleghi, che, ove approviate questo trattato, il male che si vorrebbe evitare non sarebbe evitato del tutto, perché il sequestro continuerebbe anche dopo il pagamento del primo milione di lire egiziane. Il sequestro non verrebbe tolto ai beni dei cittadini italiani residenti in Egitto se non nella misura dei pagamenti fatti e continuerebbe, quindi, parzialmente sino alla totale estinzione del debito, che dovrebbe – udite – essere estinto con valuta o merci o, peggio, con la partecipazione egiziana ad imprese industriali e commerciali italiane in Egitto! Comprendete il pericolo enorme di questa clausola, per cui fiorenti aziende di italiani residenti in Egitto possono domani diventare in tutto o in parte egiziane. Ci si dice che la firma è parsa non solo improrogabile, ma anche urgente; e difatti il disegno di legge è stato portato con procedimento di urgenza all’esame dell’Assemblea Costituente. Ma come mai, oggi, la firma è apparsa improrogabilmente necessaria, quando, dal 10 settembre ad oggi si sono fatti passare otto mesi nella più completa inerzia? C’era tutto il tempo di discutere, di portare allora, sei, sette mesi fa, questo progetto dinanzi alla Commissione dei trattati. Se è urgente, ed improrogabile soltanto ora, è evidente che non era urgente ed improrogabile allora. (Commenti).

Io dico che è venuta la volta di finirla col sistema della «cosa fatta capo ha». L’onorevole Persico, verso il quale professo grande stima e – questo è chiaro – difende disinteressatamente gli interessi di queste nostre collettività in Egitto, vi dirà che noi faremmo cattiva figura se non firmassimo, che i nostri rapporti con l’Egitto sarebbero turbati e si scaverebbe un abisso fra noi e loro. Ma perché questo? Non c’è nessuna ragione. Innanzitutto, il Governo Egiziano ha a sua disposizione i beni degli italiani in Egitto. Ci sono dei miliardari tra costoro. Perché il Governo italiano non dice loro: «Noi intendiamo risolvere la questione col vantaggio di entrambe le parti contraenti, ma è giusto che voi, italiani ricchi, in Egitto, sopportiate una larga parte di quell’onere, che, con questo accordo, si vuole addossare per intero allo Stato italiano». Non c’è nessuna ragione che noi, tanto poveri, paghiamo per loro, dal momento in cui delle Nazioni, che sono state in guerra con noi, rinunciano alle riparazioni ed al sequestro dei beni. E, badate, l’argomento non è soltanto mio, ma anche dell’onorevole Togliatti e di altri autorevoli parlamentari. A Parigi questo accordo fu portato alla firma dell’onorevole Bonomi proprio nel momento in cui si discuteva del diritto delle Nazioni che ci hanno battuto ad ottenere da noi riparazioni. Da un canto, in punto di diritto ed in punto di fatto, si sosteneva da noi che le riparazioni non erano dovute e che, comunque, non eravamo in condizione di pagarle. Dall’altro si cominciava ad offrire ben quindici miliardi a una Nazione che non era stata in guerra con noi! Torniamo alle antiche costumanze del Parlamento italiano, per cui gli interessi dei privati o di gruppi di cittadini sono passati sempre in seconda linea di fronte agli interessi della Nazione! Propongo, quindi, che l’Assemblea neghi la sua ratifica all’accordo del 10 settembre 1946.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Montini. Ne ha facoltà.

MONTINI. I motivi di opposizione illustrati or ora dall’onorevole Russo-Perez e le osservazioni stesse con le quali la Relazione presenta questo progetto, pongono la questione su una base molto realistica e semplice. Prendiamo atto invero che l’Accordo presenta lati criticabili, esso non è certo optimum; ma la domanda è questa: se non si approva quale situazione si creerà per il nostro Paese? Nel momento nel quale il disegno è presentato all’Assemblea, la situazione nei confronti dei nostri connazionali in Egitto e il complesso dei nostri interessi interni e internazionali ci portano ripeto sul piano molto semplice e realistico che consiste nel risolvere positivamente il quesito, giudicando che i motivi contrari non concludono a sufficienza per dire che non si debba accordare l’approvazione. Neppure si può negare tale approvazione perché l’Accordo ci viene presentato come cosa fatta e si vuol protestare di fronte al «fatto compiuto», proponendo così una specie di punizione a noi stessi se in qualche modo il Governo ha tutelato meno diligentemente i nostri interessi. Oggi di fronte allo stato estero col quale la Convenzione è stata già trattata, di fronte alla situazione internazionale, che vantaggio è che andiamo noi stessi a cercare le punizioni delle nostre eventuali deficienze?

Triplice è la motivazione per la quale si può sostenere l’approvazione dell’Accordo: anzitutto concludere e transigere su rapporti controversi. Si tratta di concludere. Una magra transazione val più di una troppo elaborata sentenza. Noi siamo di fronte ad una situazione complessa, non risolta in modo perfetto, la quale però richiede che si tenga conto del vantaggio che si ha nel concludere una questione la quale costituisce una indispensabile premessa per le presenti e future relazioni fra noi e l’Egitto. Noi siamo un Paese che ha bisogno di avere materie prime dall’Occidente, trasformarle in beni e portarle in Oriente dopo avervi impresso il valore del nostro lavoro. Noi abbiamo un interesse quindi economico e sociale perché questa porta verso l’Oriente, rappresentata dall’Egitto, non rimanga più a lungo chiusa.

In secondo luogo si tratta di considerare quelli che sono gli interessi dei nostri connazionali in Egitto. Tutti i loro beni sono sotto sequestro e ogni azienda o attività è in mano ad un amministratore che vive non solo sui proventi dell’attività economica sequestrata ma incidendo il patrimonio in modo sempre più considerevole. Noi sappiamo che due son le categorie di persone e di interessi a cui questo Accordo può giovare: anzitutto la gente povera o comunque artigiani non ricchi che vedono in questo Accordo la possibilità di riprendere la propria attività e d’altra parte la categoria rappresentante più ampi interessi che può ritornare alla gestione del proprio patrimonio.

Vi sono degli oneri finanziari che con questo Accordo si assumono, ma che indirettamente colpirebbero pur sempre lo Stato. Con questo Accordo non si pregiudicano eventuali soluzioni che facciano ricadere sulla parte più ricca dei nostri connazionali il peso effettivo degli oneri considerati. L’importante è che non siano compromessi definitivamente gli interessi nel loro complesso perché questi costituiranno sempre il mezzo per ripagarci dei sacrifici incontrati.

Infine, dice opportunamente la Relazione: «l’evidente opportunità di addivenire ad una piena pacificazione dei rapporti italo-egiziani, di cui è superfluo sottolineare la importanza delle nostre future relazioni con i Paesi dell’Oriente Mediterraneo, non può d’altra parte far trascurare le considerazioni di equità e di giustizia sociale, le quali hanno motivato e giustificano la richiesta di recente fatta pervenire dal Governo del Cairo».

È proprio così: dietro l’Egitto c’è tutto il mondo arabo e vi è tutta la situazione dei rapporti internazionali con l’Oriente, a cui bisogna guardare. Perciò non bisogna sopravalutare le critiche a questo Accordo: è più logico considerarlo un meno peggio per arrivare ad un maggior bene.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pajetta Gian Carlo. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIAN CARLO. Se la notizia della conclusione del trattato con l’Egitto è quasi sfuggita in un primo momento in cui si è provveduto all’accordo in questione, oggi l’opinione pubblica non può non accogliere con preoccupazione la notizia della discussione in Parlamento, né può sfuggirle quello che rappresenta il voto del Parlamento italiano. Esaminando oggi il modo nel quale questo particolare problema è stato affrontato e come si è cercato di risolverlo non si possono trascurare le critiche che già più di uno fece sin da allora, né si possono trascurare i dubbi che furono già affacciati per quanto riguardava tutte le nostre trattative condotte a Parigi e sui risultati che certi metodi diedero al nostro Paese.

Che cos’è avvenuto allora per quello che riguarda il problema delle nostre trattative con gli Egiziani? Si era determinata per noi, in quel momento, una situazione particolare; pareva che ognuno avesse qualche cosa da chiedere al nostro Paese; non vi era alcuno che non avesse il suo problema per cui noi avremmo dovuto intervenire, per cui noi avremmo dovuto pagare, per dirla in parole povere.

E si era, d’altra parte, diffusa la sensazione che il nostro Governo non avesse altro da fare che chiedere qualche voto, magari da comprare con qualche milione di sterline o di lire egiziane. Si pensava infattibile si sarebbe, in qualche maniera, mutato così lo schieramento delle nazioni che avrebbe dovuto avvenire nello stesso modo come avviene nella pratica parlamentare, o che accadesse qualche cosa di simile a quello che accade alle elezioni amministrative o politiche.

Si pensava forse che avrebbero votato per noi le piccole nazioni. Ci sentimmo dire allora che avremmo avuto la maggioranza, ci sentimmo dire che i voti degli Stati arabi sarebbero stati quasi tutti per noi. Ma poi, al momento opportuno, è apparso evidente invece che gli Stati votano secondo il proprio interesse, che votano secondo suggerimenti che non sono purtroppo quelli che possiamo aver dato noi, anche pagando con sei milioni di lire egiziane.

È sembrato ai nostri negoziatori che l’arrivare gradatamente a sei milioni di lire costituisse un affare, l’affare cioè di risparmiare qualche centinaio di milioni in più che ci era stato chiesto. Ma il problema era un altro; perché dovevamo pagare? Noi non dovevamo pagare proprio nulla allo stato egiziano.

Ci è stato detto che dovevamo pagare perché altrimenti la situazione dei nostri connazionali sarebbe stata resa più difficile; perché il sequestro dei beni italiani avrebbe continuato a metterci in una situazione insostenibile. Io direi che era proprio questo un argomento che dimostrava che noi non dovevamo pagare, perché già avevamo pagato giorno per giorno, perché già avevano pagato i nostri connazionali, perché noi avevamo subìto e continuavamo a subire un danno da parte del governo egiziano il quale continuava, con questo sequestro dei beni, a render difficile l’attività economica dei nostri connazionali in quel paese.

Si noti che si tratta di un governo di uno Stato, che non ha subito danni dalla guerra; perché, se dovessimo fare dei conti, in questa guerra che ha travagliato tutti, ci convinceremmo facilmente che non sono certamente gli egiziani coloro che hanno subito davvero delle perdite; in questo conflitto che ha trascinato tutti i popoli e che ha lasciato, nonostante qualche preoccupazione che essi possono avere avuto, gli egiziani presso che indenni.

Se dunque una giustificazione c’era, se una giustificazione poteva essere accettata, questa doveva tutt’al più riguardare i due milioni di lire che si dicono date alle collettività italiane, e non certo i danni di guerra.

Si poneva, d’altra parte, il problema di chi avrebbe dovuto pagare. Qui si è parlato di necessità di intervento a favore di quegli italiani diseredati che svolgono la loro attività economica in Egitto; ma in un primo tempo era sembrato che un milione di sterline dovesse essere preso proprio a spese di coloro che avevano visto i loro fondi sequestrati nelle banche in Egitto, il che avrebbe significato che avrebbero dovuto pagare una parte di questi sei milioni proprio i più diseredati, mentre, i più ricchi, che avrebbero tratto un vantaggio immediato dal miglioramento dei rapporti diplomatici, sarebbero stati esenti; sarebbero stati esenti cioè proprio coloro che si sarebbero trovati in condizioni più favorevoli.

Ed oggi infatti la cosa è stata riconosciuta; e il Governo ha deciso di sostituirsi e di pagare anche per questo milione.

Ci troviamo di fronte ad un trattato ingiustificato per il modo col quale è stato formulato, per il tempo in cui è stato affrettatamente firmato, prima che fossero considerati tutti i motivi che potevano determinare queste trattative è anche tutti gli argomenti che potevano portarci ad una conclusione che fosse più favorevole per di nostro Paese.

Noi dichiariamo qui esplicitamente che nella nostra critica non c’è nulla contro il Ministro degli esteri, che pensiamo abbia dovuto trovarsi anzi in un certo imbarazzo, non soltanto per continuare e perfezionare le trattative, ma perché la sua azione diplomatica nei confronti di altri Stati, deve avere incontrato difficoltà, proprio perché questo trattato costituiva già un fatto compiuto.

Così non abbiamo delle critiche particolari da rivolgere al Presidente della Commissione per i Trattati internazionali, onorevole Bonomi, che pure ha firmato questo trattato, perché ci rendiamo conto del modo come le trattative si sono svolte e del significato che ha avuto in quel particolare momento quella firma, che sembrava sollecitata, direi quasi imposta – se non sembrasse troppo – da Roma, dove pareva che le cose avessero dovuto essere conosciute, mentre pare invece non lo fossero.

Ma quello che ci preoccupa e che ci ha preoccupati fin da allora, è il momento nel quale questa firma è stata posta. Allora si dibatteva la questione delle riparazioni in generale per il nostro Paese, e qualcuno ha creduto di facilitare la nostra azione diplomatica, proponendoci di pagare delle riparazioni a chi non aveva subito alcun danno. Noi, che pure avevamo inferto dei danni ad altri paesi, cercavamo di non pagare o di pagare il meno possibile. Io penso che in quel momento qualcuno ha creduto che la firma fatta con tanta precipitazione e con la comunicazione alla stampa del trattato potesse avere riflessi favorevoli sulla nostra situazione in campo internazionale. Forse qualcuno avrà pensato che il dire che ci eravamo messi d’accordo con l’Egitto, potesse migliorare la nostra situazione, potesse far sì che altri pensassero che eravamo qualche cosa, che contavamo ancora nel campo diplomatico.

Se noi consideriamo la realtà, vediamo che essa è ben diversa. Non appena divulgata la notizia di questo accordo, sia la Grecia che la Jugoslavia, che in quel momento chiedevano riparazioni, fecero presente il loro stupore, e considerarono un argomento valido per sostenere le loro pretese l’accordo da noi stipulato con l’Egitto. Questa sarebbe stata la favorevole impressione che questo trattato ha dato; questo sarebbe stato il risultato che noi volevamo ottenere con la pubblicazione affrettata?

Si è parlato del sequestro dei beni: questa è un’arma che gli egiziani possedevano contro di noi, una specie di ricatto che essi hanno potuto tentare, e che in un certo senso potrebbero ripetere se non accettassimo il trattato. Quella del sequestro dei beni italiani all’estero non è questione particolare, specifica dello stato egiziano; in altri paesi, che hanno fatto la guerra contro di noi, questo sequestro esisteva, e noi abbiamo trattato e abbiamo visto che nei paesi nei quali il sequestro era stato mantenuto, in epoca relativamente recente, si è venuti nella decisione di liberare i nostri beni. Perché questo non poteva essere ottenuto anche con l’Egitto? Perché si doveva trattare in un modo diverso? Forse avevamo dei particolari debiti, anche morali, con questo Paese? Mi pare che così non fosse. Se questo ricatto, se questa pressione è stata esercitata, direi che questo è pienamente normale, naturale per il Governo egiziano. Mi pare che sia meno naturale, meno avveduto, meno accorto da parte del nostro Governo, di trattare, e di trattare soltanto come qualcuno che discuta di fronte ad una rivoltella puntata, del numero dei colpi che gli dovranno essere sparati contro.

È questo l’aspetto particolare di questo Trattato: la questione particolare del momento in cui questo Trattato è stato preparato e firmato.

Però noi vorremmo a questo proposito dire qualche cosa che va più in là di questo problema specifico è che si riferisce al metodo della nostra diplomazia, si riferisce al modo col quale il nostro Paese, la nostra nuova democrazia, può seguire i problemi internazionali, può intervenire e dimostrare la forza di un paese democratico che è qualche cosa di più che la forza di un paese dove la diplomazia è trattata senza che nessuno ne sappia niente e dove l’intrigo sostituisce, qualche volta e non sempre molto chiaramente, quella che è la trattativa politica di un paese libero. Chi è che ha trattato?

Noi avevamo a Parigi una delegazione che non poteva essere più autorevole, una delegazione che doveva discutere con i rappresentanti di tutte le nazioni, composta di uomini politici e di tecnici: ambasciatori, direttori generali dei nostri ministeri ecc. A quanto mi risulta questa delegazione è stata tenuta completamente all’oscuro delle trattative e mi pare che lo stesso Presidente della Costituente di allora, l’onorevole Saragat, non abbia saputo di esse che a firma avvenuta. E certo questo è per lo meno un po’ strano, un po’ fuori dell’ordinario, anche nella diplomazia di un paese che non abbia parlamento, nella diplomazia che ignori una Commissione per i trattati internazionali.

Da Roma furono dati i pieni poteri e si dice che furono dati perché questo è nella prassi diplomatica quando una delegazione è particolarmente autorevole, quando si ha fiducia in questa delegazione. Da Roma si dichiarò che non c’era la necessità di conoscere preventivamente il trattato.

Ma il fatto è questo; questa delegazione tanto autorevole, composta di tecnici e di competenti, che poteva fare senza mostrare la bozza del trattato a Roma, non ha considerato essa stessa la bozza di questo trattato. Non ha potuto; e in fondo, se noi dovessimo ricercare più in là, come si è chiesto giustamente nella Commissione dei trattati, ci accorgeremmo che un funzionario – che forse non è neanche del Ministero degli esteri – un esperto coloniale, è quello che ha definito questo trattato e lo ha preparato. E così noi oggi dovremmo vedere oggetto di una ratifica dell’Assemblea Costituente un documento non rispondente agli interessi generali italiani e che non risponde oggi forse nemmeno a pieno agli interessi specifici della colonia italiana in Egitto. Noi abbiamo visto convocare la Commissione dei trattati alla vigilia della partenza per Parigi della Delegazione. Nessuno ha saputo non solo i termini delle trattative con l’Egitto, ma nemmeno che queste trattative potessero essere allora intraprese.

Ecco perché noi oggi non soltanto muoviamo le nostre critiche, non soltanto esprimiamo le nostre preoccupazioni per quanto riguarda il Trattato italo-egiziano, ma vogliamo rinnovare la critica – che abbiamo già fatto più di una volta qui dentro, sulla stampa e in dichiarazioni ufficiali – ad un metodo diplomatico, ad un metodo di direzione della nostra politica estera che non può essere considerato il migliore e che ha dato fino ad oggi risultati che lasciano dubitare di questo metodo, e che autorizzano a rinnovare le critiche. Che cosa ci proponiamo adesso, che cosa diciamo di fronte al voto che ci si richiede? Noi ci rendiamo conto della necessità di normalizzare le nostre relazioni internazionali, ci rendiamo anche conto della necessità di avviare verso una situazione normale l’attività produttiva degli italiani in Egitto e non vorremmo in nessun modo che la nostra critica fosse considerata come una offesa a questo Stato, a questo Governo, e che i nostri rapporti che stanno per riprendere potessero essere nuovamente interrotti o divenire più freddi che al presente. Però questo non annulla le nostre preoccupazioni, né ci impedisce di considerare giustificata la nostra critica. Pertanto, mentre non consideriamo di dovere votare contro, non possiamo accettare il trattato come ci è proposto. Ecco perché noi ci asterremo dal voto, dando a questa astensione il significato di sottolineare la nostra critica.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Martino Enrico. Ne ha facoltà.

MARTINO ENRICO. Onorevoli colleghi. Posso condividere tutte le critiche dell’onorevole Pajetta ed una parte, almeno, delle critiche dell’onorevole Russo Perez. Non posso però accettare una distinzione che ha fatto l’onorevole Russo Perez fra gli interessi dello Stato e gli interessi delle collettività italiane. Mi pare, questa, un’affermazione pericolosa che attiene a certe dottrine passate. Lo Stato, per noi, si identifica in tutti i suoi cittadini, si identifica in tutta la sua collettività, così come il patrimonio dello Stato si identifica nel patrimonio di tutti i suoi cittadini; soprattutto noi dobbiamo tener presente la importanza delle collettività italiane all’estero e anche dai nostri banchi dovrebbe venire oggi una voce per la difesa di queste collettività che saranno ancora una volta il migliore veicolo della civiltà italiana.

È stato forse un pessimo affare che noi abbiamo fatto: ma abbiamo, almeno, una consolazione: che di tante pesanti firme che dobbiamo vergare in questi tempi, questa non diminuisce né il decoro, né la dignità, né l’onore, né il territorio italiano. È soltanto un cattivo affare che è stato concluso: una somma che si deve pagare, che forse, si poteva, anche, in tutto o in parte risparmiare.

Ma allora il nostro giudizio si deve ridurre alla considerazione del danno e considerare soprattutto se è opportuno, per respingere questo danno immediato, andare incontro a un danno assai maggiore.

E quando vi parlo di danno prossimo, non vi parlo del pregiudizio sulle relazioni che noi dobbiamo pur avere con tutti gli Stati, e quindi anche con l’Egitto, ma di un danno economico. L’amministrazione di questi beni sequestrati ci costa, se sono bene informato, il 10 per cento per ogni movimento di denaro. Quindi potete ben comprendere il costo per ogni giorno di sequestro. Le nostre imprese che sono in Egitto apparterranno a capitalisti, ma sono pur sempre imprese italiane e sono oggi ferme perché per poter lavorare occorre avere il capitale disponibile; il capitale è sequestrato: bisognerebbe ricorrere alle banche, ma, naturalmente, la banca non dà alcuna fidejussione finché è incerta la sorte dei beni italiani in Egitto.

Quindi penso che se noi consideriamo quello che costa il sequestro, quello che perdono le nostre collettività non lavorando, respingere oggi questo trattato significa aggravare e moltiplicare quello che è il danno del pagamento di una cifra.

Si è detto, e qui forse in forma demagogica dall’onorevole Russo Perez, che si proteggono i capitalisti…

RUSSO PEREZ. Quando si parla degli interessi della Nazione non c’è demagogia; c’è difesa degli interessi nazionali. Lasci ad altri l’uso di questa frase!

MARTINO ENRICO. Debbo rilevare che fra i capitalisti c’è la società dei fosfati che appartiene all’I.R.I., che ha proprietà del valore dagli 8 ai 10 milioni di lire egiziane ma che sono state valutate dagli egiziani per 800.000 lire egiziane, sicché se si dovesse addivenire, per ipotesi, ad una liquidazione forzata da parte egiziana di questi nostri beni, queste nostre importantissime proprietà rischierebbero di passare in altre mani per un valore irrisorio.

Ma poi non ci sono soltanto i ricchi laggiù: ci sono anche i poveri, ci sono tutti i nostri operai, tutti i nostri impiegati. E che essi abbiano bisogno di assistenza lo dimostra il fatto che abbiamo riconosciuto giusto il prelievo di due milioni e mezzo circa di lire egiziane per sovvenire, per aiutare tutte le nostre opere di assistenza laggiù, e singolarmente i nostri operai ed impiegati.

Dobbiamo tener presente che questa assistenza è cessata, che il Governo egiziano non provvede più ad assistere nessuno, e che, secondo gli accordi di Montreux, l’Egitto è autorizzato ad espellere dal proprio territorio le persone indesiderabili; e purtroppo nessuno c’è di più indesiderabile del miserabile.

Penso che queste considerazioni debbano far riflettere.

Ma poi, se non si ratifica questo accordo, qual è la soluzione del domani? Iniziamo delle nuove trattative? Ma iniziando delle nuove trattative, credete seriamente che i nostri contraenti partiranno da una somma inferiore ai quattro milioni e mezzo, o addirittura, disconosceranno di aver diritti nei nostri confronti?

Ammettiamo che sia stato un brutto affare. Lasciatelo dire ad un genovese. Ma un genovese che si preoccupa, da buon genovese, di cancellare un cattivo affare, vi dice che in questa situazione non ratificare il trattato significherebbe aumentare il nostro danno futuro; significherebbe fare invece di un cattivo affare, addirittura un pessimo affare.

E allora chiudiamo questa partita dolorosa, questo errore – se volete – diplomatico, che è stato fatto; chiudiamo questo cattivo affare economico e pensiamo che chiudendolo noi restituiamo attività e lavoro a molti italiani all’estero, a molti operai, a molti impiegati che sono stati licenziati da tutte le aziende egiziane nelle quali lavoravano. Abbiamo la possibilità di riaprire il commercio, le relazioni con l’Egitto, e in questo modo credo che in poco tempo, in un tempo forse minore di quello in cui si deve pagare questo debito, le nostre collettività potranno lavorare è produrre in misura forse superiore al debito che lo Stato si impegna a pagare.

Diceva bene il mio collega, salvo errore, democristiano: non è vero che alla collettività italiana non si possa chiedere un concorso; questo debito che si deve pagare in cinque anni potrà essere pagato più rapidamente e si potrà a questo effetto chiamare a concorso proprio i maggiori interessati, in modo da eliminare al più presto il debito. Ma questo argomento non può condurre alla non ratifica di questo accordo. Se siamo giunti al punto di potere rinnovare relazioni amichevoli con un altro Stato, se abbiamo la possibilità di far lavorare gli italiani ed abbiamo la possibilità di commerciare, in questo momento, dimenticando le recriminazioni di una firma mal posta, dobbiamo guardare verso il futuro e ratificare un trattato che servirà a elevare moralmente e materialmente i nostri fratelli che vivono all’estero.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cianca. Ne ha facoltà.

CIANCA. Dinanzi al dibattito che si è svolto intorno a questo accordo nell’Assemblea, penso che ciascuno debba assumere anche in questa sede, la responsabilità che ha preso in altra sede: cioè, nella Commissione per i trattati. Ho seguito con grande attenzione tutti i discorsi degli oratori che mi hanno preceduto. Questi discorsi arrivano concordemente ad una conclusione che nel merito è negativa per quanto riguarda l’esame critico dell’accordo. È stato definito un errore, una pagina dolorosa, un cattivo affare. È evidente che noi dobbiamo preoccuparci delle conseguenze di carattere internazionale che deriverebbero dal ripudiare l’accordo. D’altronde, io sono molto sensibile agli argomenti che sono stati addotti in quest’aula circa l’importanza della ripresa dei nostri rapporti con il mondo orientale: argomenti a cui fece appello il Ministro Sforza in sede di Commissione dei trattati. Credo convenga, in realtà, chiudere questa pagina dolorosa come ha detto il collega Martino; ma penso che, prima di chiuderla, noi, Assemblea politica, dobbiamo precisare il nostro atteggiamento anche per quel che riguarda la procedura, il metodo, che ha condotto alla preparazione affrettata di questo accordo ed alla sua conclusione. Sta di fatto che l’accordo venne firmato alla vigilia del giorno nel quale i nostri delegati dovevano svolgere, di fronte alla conferenza della Pace, nel suo complesso il problema delle riparazioni. Questo accordo risolveva in modo particolare, in forma ridotta, il problema delle riparazioni. Io penso che sia non soltanto nostro diritto, ma nostro dovere preoccuparci, più che per il passato per l’avvenire, del modo come si è arrivati all’accordo. Non mi dilungo su questo punto che è molto delicato; attendo però dalla parola del Ministro Sforza dei chiarimenti che ci possano confortare e assicurare per il futuro.

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bonomi, Presidente della Commissione per i trattati internazionali. Ne ha facoltà.

BONOMI IVANOE, Presidente della Commissione per i trattati internazionali: Io desidero dire alcune parole, non tanto come Presidente della Commissione dei trattati, ma come artefice principale di questo trattato cui ho posto la mia firma. In verità, l’opera mia personale è stata messa fuori causa tanto dall’onorevole Pajetta quanto dall’onorevole Russo Perez. In ogni modo, poiché io ho firmato il trattato (esso infatti porta la mia firma) a nome del Governo, io desidero precisare qui quali sono le critiche mosse al trattato e quali sono le possibili difese.

Tre critiche sono statue mosse al trattato. Si è detto: primo, inconsistenza delle ragioni giuridiche sulle quali l’Egitto fonda la sua richiesta di riparazioni; secondo, eccessiva condiscendenza dell’Italia ad acconsentire, in un momento a noi non favorevole e per una cifra che si dice esagerata alla conclusione dell’accordo ormai stipulato; terzo, inconvenienti derivanti da clausole non felici che hanno dovuto essere modificate.

Primo punto: aveva l’Egitto diritto a chiedere riparazioni per danni di guerra?

La questione è meramente giuridica e la sua soluzione è molta dubbia.

L’Italia non era in guerra con l’Egitto, l’Egitto non era in guerra con l’Italia. Però, di fatto, una guerra ci fu.

Bisogna riferirsi a casi analoghi, che si sono verificati alla Conferenza di Parigi. Anche alla Conferenza di Parigi si è constatato che alcune delle Nazioni Unite, che si elevavano a giudici dell’Italia, non erano state comunque in guerra con l’Italia: non avevano ricevuto dichiarazione di guerra da parte nostra, né esse avevano dichiarato guerra all’Italia. E per risolvere queste questioni che nel preambolo del Trattato di Pace le Nazioni Unite hanno dichiarato:

«L’Italia ha intrapreso una guerra di aggressione e questo fatto ha provocato uno stato di guerra con tutte le potenze alleate ed associate e con le altre Nazioni Unite e pertanto essa porta la sua parte di responsabilità nella guerra».

Perciò, anche se non c’è dichiarazione di guerra, il fatto solo che siamo stati provocatori di una guerra di aggressione, ci mette in uno stato di conflitto con l’Egitto.

Quindi, non si può rifiutare all’Egitto il carattere di potenza che chiede riparazione all’Italia.

Ma c’è di più; le riparazioni chieste dall’Egitto non sono le classiche riparazioni che si trovano nell’articolo 69 del Trattato di Pace e che sono riparazioni chieste globalmente da alcuni Paesi come la Russia, la Jugoslavia, la Grecia; alle quali si sono poi aggiunte, a New-York, l’Albania e l’Etiopia. Tali riparazioni determinate sono espresse in cifre precise nello stesso Trattato di Pace.

Qui no; se leggete il testo dell’Accordo italo-egiziano, vedete che si tratta di risarcimenti di danni.

L’Italia – si dice – ha apportato dei danni al territorio egiziano; li deve quindi risarcire.

Ora, che atti di guerra ci siano stati da parte nostra, non si può negare. L’aviazione italo-germanica ha bombardato Alessandria e la zona del canale. È difficile determinare quante delle bombe cadute erano italiane quante tedesche. Ad ogni modo, danni ci sono stati; invasione del territorio c’è stata: siamo penetrati fino ad El Alamein, cioè nel cuore del deserto egiziano.

Ha detto testé l’onorevole Perez: i danni delle nostre truppe si sono limitati ai pochi datteri dell’oasi di Siwa. Può essere, ma comunque il territorio fu invaso.

Per tutti questi fatti, non è possibile mettere in dubbio che l’Egitto possa chiedere risarcimento dei danni subiti.

Del resto questo principio del doveroso risarcimento dei danni noi l’abbiamo accettato; il principio è stato ammesso dal Ministero degli Affari esteri. A tutti i Paesi, cui abbiamo arrecato danni, noi abbiamo dichiarato di essere pronte a risarcire.

Secondo ordine di critiche: si dice: «avete avuto troppa fretta, avete pagato troppo». In una parola: voi avete fatto un cattivo affare, come ha detto testé l’onorevole Martino.

Signori, teniamo conto di un fatto passato sotto silenzio.

L’Egitto, anticipando quella disposizione del famigerato articolo 79 del Trattato di Pace, ha confiscato tutti i beni degli italiani, che si trovano in Egitto.

Questa nostra colonia era tra le più floride colonie italiane, anzi la più florida, che aveva accumulato in mezzo secolo di lavoro molta ricchezza di carattere collettivo (ospedali, scuole, istituti d’ogni genere); ora questa enorme ricchezza è stata messa sotto sequestro, colla minaccia di essere liquidata a vantaggio dell’Erario egiziano.

Non c’era dunque possibilità di rinviare sine die questa questione; bisognava affrontarla, secondo le direttive stabilite unanimemente da tutti i delegati italiani e dal Governo del tempo; cioè occorreva accordarsi con l’Egitto per risarcire con particolari pattuizioni i danni di guerra.

Si dice che il momento non è stato il più felice; posso anche riconoscerlo. Io stesso ebbi dei dubbi se convenisse in quei giorni firmare o attendere qualche settimana, in modo che si discutessero prima le questioni delle riparazioni dei danni all’Assemblea del Lussemburgo.

Ma questa questione del tempo può essere un argomento di critica, ma non infirma il trattato. Si può anche dire, forse col senno di poi, che nell’atmosfera che si è determinata attualmente nel mondo, di fronte all’esempio di alcuni grandi Paesi, come l’America e l’Inghilterra, che hanno rinunziato al sequestro di beni italiani, forse si poteva trovare nel clima nuovo del mondo qualche cosa che potesse temperare le pretese dell’Egitto. Questo può anche darsi. A ogni modo, è una ipotesi, ma non è una realtà.

Quanto alla misura, io non posso dire se è stata eccessiva o è stata perfettamente consona alla entità del danno. Intanto i danni sono difficilmente valutabili. Ripeto quello che ho detto prima: molte bombe cadute sul Canale erano bombe italiane e bombe tedesche. Quale parte spetta al danno arrecato da bombe italiane e quale parte spetta al danno arrecato dalle bombe tedesche? Di più difficile determinare esattamente il valore attuale di questi danni. Ma c’è un fatto particolare: la misura deve essere tratta non dal danno, ma dalla situazione creata dal fatto del sequestro dei beni italiani.

Noi avevamo questo stato di fatto: l’Egitto aveva confiscato una quantità di beni dei cittadini italiani. Ora bisognava valutare quale era l’entità di questa massa di ricchezza, sequestrata e questa entità è parsa ai nostri esperti veramente notevole. Si è parlato di 100 milioni di lire egiziane, alcuni hanno valutato anche a cifre superiori la ricchezza italiana nell’Egitto. E allora è su questa entità di ricchezza che doveva essere commisurato il risarcimento. Si è cominciata la trattativa e non per opera della Delegazione italiana, ma per iniziativa del Ministero degli esteri prima della conferenza di Parigi. Nelle trattative svoltesi a Londra si era cominciato a stabilire quale era la pretesa dell’Egitto e si era constatato con stupore che l’Egitto richiedeva un centinaio di milioni di sterline. Solo più tardi, quando siamo arrivati a Parigi, l’Egitto ha chiesto 10 milioni di lire egiziane per il risarcimento dei danni patiti. Cosicché, quando il nostro rappresentante poté ottenere la riduzione a 4 milioni di lire egiziane, parve già un successo. Ad ogni modo, da Parigi si interpellò il Comitato economico che risiedeva a Roma e si ebbe un telegramma di adesione a questa cifra di 4 milioni.

Cosicché parve, in quel momento, che l’accordo fosse il migliore degli affari possibili.

Io, ripeto, non ho qui gli elementi per dire: la cifra comunque è eccessiva e poteva essere ridotta. La delegazione italiana ha seguito il parere degli esperti e non poteva fare diversamente.

Terzo punto: nell’accordo di Parigi c’erano alcune clausole non felici. Lo riconosco.

Nel nostro accordo di Parigi c’è l’autorizzazione al Governo egiziano di prelevare un milione di lire egiziane dai fondi liquidi sequestrati per un primo indennizzo al Governo egiziano.

Ora, questo ha suscitato grandi critiche, perché si è detto localmente: ma i denari depositati nelle Banche rappresentano, sì, anche la ricchezza dei maggiori, ma rappresentano pure il piccolo risparmio, la ricchezza della povera gente.

Ora, con questa disposizione è la povera gente che viene a pagare, mentre coloro che hanno proprietà immobiliari sono esonerati dal carico. La critica è parsa giustissima. Ed è per questo che il Ministero degli esteri, d’accordo con noi, ha visto l’incongruenza di questa clausola ed ha operato in maniera che nel presente disegno di legge, e precisamente con l’articolo 2, si metta a carico dello Stato questo milione che non si preleva più dai fondi sequestrati.

Ma voi direte, noi spendiamo una formidabile somma, naturalmente onerosissima, specialmente in questi tempi di gravi angustie finanziarie. In realtà, signori, è la prima volta che ci troviamo a pagare riparazioni, e quindi comprendo tutta la riluttanza, e la perplessità dell’Assemblea. Ma teniamo conto di questo: questi beni confiscati dalle Nazioni che si ritengono danneggiate dall’Italia, qualora noi li lasciassimo alla Nazione che li ha confiscati, non ci esonererebbero da un carico formidabile.

Leggiamo l’articolo 79 del trattato di pace, n. 3. Esso dice testualmente che il Governo italiano si impegna ad indennizzare ai cittadini italiani i beni che saranno stati confiscati in virtù del presente articolo. Quindi, se noi non ratifichiamo questo trattato e l’Egitto prende tutti i beni degli italiani, cioè circa cento milioni di lire egiziane, lo Stato italiano sarà impegnato di fronte ai cittadini italiani danneggiati a rimborsare loro il valore dei beni confiscati. Quindi vedete che l’affare non è cattivo, se con quattro milioni evitiamo la minaccia di pagarne cento.

Ed allora io concludo dicendo: questo trattato, con tutte le sue ombre e con tutte le sue penombre, va ratificato, perché corrisponde anche a due grandi interessi nazionali. Il primo e più grande interesse è quello di salvare la collettività italiana in Egitto. Badate, abbiamo una colonia floridissima fatta dal lavoro di mezzo secolo dei nostri italiani i quali hanno portato laggiù il loro lavoro, la loro tenacia, la loro cultura, hanno fatto sentire la voce italiana anche negli Atenei ed hanno creato istituti che sono esempio di civiltà in quel Paese. Orbene, questa lunga opera non deve essere distrutta. Noi la distruggeremmo se questo trattato non fosse ratificato e si determinasse un urto con lo Stato egiziano. Ma c’è di più. Badate che questo Accordo italo-egiziano può essere il fondamento della nuova politica italiana nel Mediterraneo. Ormai il vecchio colonialismo è finito, è morto ed è ben morto. Non si entra in questi paesi, non si entra nel Mediterraneo con le bandiere e con la concezione imperialista di un tempo. Bisogna mettersi d’accordo con la popolazione indigena, cioè con l’elemento arabo che ora si riaffaccia alla vita e alla storia. Bisogna creare in collaborazione con questo elemento la nuova civiltà del Mediterraneo. Ora, signori, non si entra nel mondo arabo se non attraverso l’Egitto. Tutte le vie che arrivano nel mondo arabo passano per l’Egitto e l’alleanza e l’amicizia con l’Egitto è il passaporto se vogliamo creare questa feconda collaborazione di popoli sulle rive africane.

È con questi sentimenti che io ho firmato il trattato con l’Egitto ed è con questo animo che chiedo ai colleghi di volerlo ratificare. (Applausi).

PRESIDENTE. Non essendovi altri oratori iscritti, dichiaro chiusa la discussione generale.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.

PERSICO, Relatore. Dopo le eloquenti parole del Presidente della Commissione, nonché firmatario del trattato a Parigi, poco avrei da dire. Però credo doveroso replicare all’amico, onorevole Russo Perez, su quello che è stato il nucleo delle sue argomentazioni. Evidentemente egli è caduto in un grosso equivoco, perché ha confuso i danni che l’Egitto richiede all’Italia per le operazioni di guerra delle nostre truppe e dei nostri aviatori sul territorio egiziano, con il sequestro dei beni italiani. Sono due cose assolutamente diverse. I danni sono la conseguenza delle operazioni di guerra. Si dice: ci sono stati, o non ci sono stati? Il dire che non ci sono stati è assurdo. Si potrà discutere della misura in cui ci sono stati, e su questo si è svolta una complessa trattativa durata lunghi mesi a Londra e a Parigi per arrivare a stabilirne la misura. La richiesta iniziale era enorme. Poi si è scesi ad una cifra che il Governo italiano, nei suoi organi responsabili, ha ritenuto accettabile. Io ho qui un documento – e credo di non violare nessun segreto – cioè un telegramma che fu spedito da Roma a Parigi il 2 settembre, otto giorni prima della firma nel quale si dice: «A patto che l’Egitto rinunzi assolutamente all’applicazione dell’articolo 69 (cioè dell’attuale articolo 79), la Commissione è favorevole alle trattative».

Così si addivenne alle trattative amichevoli, cioè a vere e proprie trattative di pace, perché questo in fondo è il primo trattato di pace che stipuliamo direttamente con una Nazione con cui siamo stati in guerra, se non di diritto, certo di fatto. La domanda egiziana fu sottoposta all’onorevole Paratore, nome dinanzi al quale tutti ci inchiniamo per la competenza specifica in materia finanziaria, ed il suo parere fu che conveniva iniziare le trattative a Parigi tenendo presente: a) la possibilità di poter addivenire alla riduzione della richiesta di 10 milioni di lire egiziane, con la stipulazione di un compromesso immediato; b) l’opportunità di dare immediatamente notizia dell’accordo (qui mi rivolgo sopra tutto all’onorevole Pajetta) raggiunto, per influenzare insieme il problema delle riparazioni di guerra.

Il Governo italiano ritenne utile tutto questo, che è in fondo una questione di metodo, onorevole Pajetta. Ci può essere stato errore tecnico o di diplomazia, io non lo so, perché non sono uno specialista, ma lo scopo quale era? Lo scopo era quello di influenzare in tal modo favorevolmente il problema delle riparazioni. C’è un caso precedente in materia, ed è costituito dall’accordo che l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli esteri dell’epoca, onorevole De Gasperi, ritenne opportuno stipulare direttamente col Governo austriaco per dirimere ogni questione territoriale e per poter concludere un accordo pacifico con l’Austria.

PAJETTA GIANCARLO. Anche quello fu un cattivo affare!

PERSICO, Relatore. Può essere che non sia stato un buon affare, ma il punto sul quale io insisto è che degno di rilievo fu il concetto cui ci si volle ispirare allora, allo scopo di influire in senso benevolo sul problema delle riparazioni dei danni di guerra. In sostanza, noi siamo nel campo della teoria dei pacta sunt servanda. Ha firmato Bonomi con Ghali Pacha dopo un regolare scambio di accordi…

RUSSO PEREZ. Ma noi non dobbiamo dire questo. Dirlo è come ammettere che, per il fatto che De Gasperi ha firmato il Trattato di pace, noi vi dobbiamo tener fede!

PERSICO, Relatore. Ma quello è un Trattato di pace e questo è un accordo a sfondo economico. Non siamo quindi vincolati rispetto alla somma pattuita, il che in definitiva serve per ristabilire gli amichevoli rapporti tra i due Paesi, come dice Ghali Pacha, in uno spirito di collaborazione, allo scopo di ristabilire quei legami di amicizia che una volta univano l’Italia all’Egitto. Lo stesso onorevole Bonomi riconosce questa che è la vera sostanza ed il fondo del Trattato, quando dice nella sua lettera del 10 settembre: «II Governo italiano apprezza l’attitudine amichevole dell’Egitto verso l’Italia, e considera come un fine essenziale della sua politica il ristabilimento delle relazioni tradizionali d’amicizia italo-egiziane». Per questo io ripeto che in fondo a tutto questo c’è una cosa assai importante, cioè ristabilire al più presto i nostri rapporti cordiali con l’Egitto e con tutto il Medio-Oriente. Ricordate che l’Egitto presiede la Lega Araba, vale a dire sette grandi Nazioni che si estendono in tutto l’Oriente arabo, fino al Golfo Persico. La lingua italiana è ancora parlata in Egitto (Commenti), la cultura italiana è ancora ritenuta la migliore delle culture mediterranee, le scuole italiane sono frequentate dai giovani dalle migliori famiglie egiziane. Perché rompere tutti questi vincoli che potranno riuscire assai utili in un prossimo avvenire?

I punti di critica sono stati tre: 1°) quello del momento, su cui non posso entrare, perché non posso discutere se il momento in cui fu firmato l’accordo fu scelto bene o male; 2°) la gravità degli oneri. Su questa gravità non abbiamo elementi per giudicare. Siamo arrivati ad una cifra inferiore di gran lunga a quella richiesta; 3°) la rapidità con cui le trattative sono state svolte. Rapidità che attraverso i documenti, non mi sembra così grave come si è detto, perché al telegramma del 2 succede un telegramma del 7, in cui l’Ambasciatore Lupi di Soragna da Parigi risponde: «La questione delle riparazioni dei beni italiani è stata nuovamente discussa da Cerulli, con la delegazione egiziana. È stata proposta un’ulteriore riduzione delle richieste egiziane, da dieci a sei milioni, ivi inclusi i due milioni spesi per i nostri connazionali. Il testo dell’accordo proposto è stato poi preso in esame». Un ulteriore telegramma del 9, antecedente alla firma, diceva: «Questa sera è stato concluso accordo italo-egiziano per riparazioni e beni italiani in Egitto. Si richiede autorizzazione onorevole Bonomi per poter firmare».

Anche questa fretta non è stata eccessiva, perché il Trattato è stato valutato, soppesato, esaminato sotto i suoi profili, economici, giuridici e morali. È stato un bruto affare, come dice l’orrevole Martino? È possibile che si potesse ottenere anche di più; ma in quel momento urgeva arrivare ad una soluzione, e dare la sensazione ad altri Stati che l’Italia era in grado di trattare direttamente come Stato libero, sovrano e indipendente. E questo scopo fu pienamente raggiunto. Che cosa si vorrebbe oggi? Negare la ratifica? Non mi pare passibile: del resto lo stesso onorevole Pajetta non ha proposto questo. Egli e i suoi amici si asterranno, ma non propongono in sostanza la reiezione del Trattato, perché il Trattato firmato il 10 settembre sarebbe dovuto entrare in vigore subito ed invece sono passati già otto mesi inutilmente. Attendono i nostri poveri operai, commercianti, piccoli artigiani, i quali hanno visto sequestrate le loro piccole aziende, che nell’intervallo sono sparite perché il milione sequestrato è ridotto oggi a duecentomila lire, e se tardiamo sarà ridotto ancora fino a zero. Senza contare che da parte del Governo egiziano si è detto, non ufficialmente, ma officiosamente, che per gli altri tre milioni e mezzo che dovranno essere pagati in seguito e per i quali c’è un lungo termine di cinque anni, si potranno aprire nuove trattative che sono previste nell’accordo, e che saranno accolte con spirito conciliante, per migliorare le condizioni ora stabilite. Questo il Governo egiziano, non l’ha detto in linea ufficiale, ma ci sono interviste autorevoli pubblicate sui giornali del Cairo, in cui si dice che, entrato in vigore il Trattato, pagato il primo milione, e levato il sequestro a questi piccoli commercianti, operai e professionisti, che si vedono rovinati perché non possono fare più nulla, che da sette anni hanno i loro beni sotto sequestro, si potrà poi studiare la questione dei tre milioni e mezzo e trovare una soluzione più conveniente.

Io credo che l’Assemblea Costituente farà opera saggia approvando il Trattato e chiudendo una controversia, che si agita da troppo tempo, e che ha fatto del danno al nostro buon nome nel Medio Oriente. Se l’Assemblea approverà il Trattato, potrà dare la precisa sensazione che noi vogliamo veramente ristabilire rapporti amichevoli con le nazioni del Medio Oriente e con gli Stati arabi, rapporti che sono necessari alla nostra espansione commerciale, economica e culturale in tutta la zona mediterranea. Quindi, io confido che, per tutte queste ragioni, l’Assemblea vorrà dare il suo voto favorevole al Trattato, che segnerà un primo notevole passo verso il necessario ritorno dell’Italia nella sfera dei rapporti internazionali. (Applausi).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri.

SFORZA. Ministro degli affari esteri. Gli oratori che mi hanno preceduto hanno sviscerato ogni lato di questo problema. Tutto è stato detto e sarebbe inutile che io perdessi del tempo a ripetere all’Assemblea quanto ha già udito. Dirò solo per paradossale che sembri, e convinto come sono che il Trattato deve essere approvato, che sono quasi più grato agli oratori che hanno espresso vivaci critiche, come l’onorevole Russo Perez e l’onorevole Pajetta, perché, pur sentendo – lo confesso – il valore e la portata di certe loro affermazioni, essi mi hanno ancora più convinto che il nostro interesse, malgrado tutto, è di approvare il trattato.

Voi sapete che, come Ministro degli esteri che ha semplicemente ereditato questo strumento, io ho personalmente la più grande obiettività. Voglio dirvi solo le ragioni per me essenzialissime, che vi dovrebbero decidere ad approvare il Trattato. Esse sono due: una relativamente piccola ed una di grande importanza. La relativamente piccola è questa: che una inchiesta fatta dal Ministero degli esteri, anche attraverso organi estranei ai nostri agenti diplomatici e consolari, mi ha dato la prova che la unanimità degli italiani residenti in Egitto auspica, aspetta, implora il voto di questo Trattato, perché «noi dobbiamo ricominciare – dicono essi – a lavorare, ad affermarci, ad arricchirci, a prosperare». L’onorevole Russo Perez ha detto che è pericoloso seguire sempre la formula «cosa fatta capo ha»; ma in politica estera, più che in ogni altro campo, vi è una continuità costante fra gli errori e le loro correzioni, fra le attività e le perdite; la politica estera è una catena che noi non possiamo sciogliere. Ed è per questo che la politica estera è così complessa e difficile; in politica estera gli errori che commettiamo li teniamo incatenati al piede per lunghi anni; e tutti noi oggi lo apprendiamo con lacrime di sangue. Ovunque, del resto, gli italiani, sia nell’America latina, sia nel Sud Africa, sia in Cina, sia nei paesi dell’Oriente malesiano, ovunque ci gridano: pace, pace, pace. E il loro grido significa: «Noi abbiamo la forza di ristabilire tutto ciò che è stato guastato, noi ci sentiamo il coraggio di ricominciare ma purché si cominci da pari a pari». È per questo che ogni trattato, buono o cattivo che sia (è voi sapete a quale trattato io penso), è aspettato dagli italiani con ansietà in un mondo che essi son pronti a affrontare di nuovo colla loro pertinacia; si direbbe quasi che gli italiani, eredi di una storia tanto gloriosa quanto tormentosa, tanto piena di alti e bassi, si sentano quasi più in casa loro fra i disastri che non nella prosperità, tanto questi italiani sanno che sono pronti a ricominciare; ma purché, si dia loro la possibilità di ricominciare e lavorare. Ed è perciò, che sarebbe danneggiare profondamente la collettività italiana di Egitto, che è una delle più ricche e prospere di questo nostro Mediterraneo, il tardare la ratifica di questo Trattato.

Ma c’è anche una ragione ancor più grave, vi ho detto. Ad essa hanno accennato l’onorevole Bonomi e altri oratori. La ragione è questa: noi dobbiamo ricominciare una politica mediterranea ed africana completamente nuova; noi dobbiamo renderci conto che il pensare con formule del passato, perfino il dire fra virgolette la parola «colonie», è forse spiegabile da un punto di vista sentimentale, ma è nocivo per i nostri interessi futuri.

Noi dobbiamo certo accentuare di più in più il nostro bisogno e il nostro diritto di tutelare i nostri interessi emigratori, industriali, agricoli, in Africa. Ma appunto per far questo noi dobbiamo renderci conto della realtà: e la realtà è che questi anni hanno significato un secolo; noi siamo di fronte ad un fatto formidabile che è vano negare: il risveglio del mondo arabo.

Il risveglio del mondo arabo è una fatalità, come era nel 1821, nel 1831, nel 1848 una fatalità evidente per tutti, fuori che per i ciechi, il risveglio per la libertà e l’unità d’Italia. E poiché tale è la realtà, poiché è soltanto tenendoci mano per mano noi italiani e gli arabi che potremo creare una nuova politica di influenze e di sviluppo italiano in Africa – una nuova politica completamente diversa dal passato – sarebbe follia il compromettere prospettive che noi dobbiamo sperare grandiose e che io personalmente ritengo ricche di un grande avvenire per il nostro Paese. Sarebbe un gravissimo errore che noi incominciassimo proprio oggi a ferire – a ragione o no, perché la nostra ragione non è mai sentita dall’avversario – a ferire lo Stato che è l’anello, che è il centro della Lega araba. E questo Stato è l’Egitto.

Quelli fra i colleghi che erano presenti all’ultima seduta della Commissione dei Trattati ricorderanno come vi sia stata un’adesione quasi generale, quando, osservai che occorreva formulare la domanda di entrare all’O.N.U., ora che tutti gli Stati dell’America, e con particolare fervore gli Stati dell’America Latina, erano favorevoli a noi, e che fra questi Stati e gli Stati arabi vi era un segreto ma strettissimo contatto, il che ci permetteva di contare su una maggioranza notevole nell’Assemblea dell’O.N.U. favorevole al nostro ingresso nell’Assemblea stessa.

Non si può volere e disvolere nello stesso momento; il Governo, esprimendo tutto il suo pensiero per mia bocca alla Commissione dei Trattati, volle che il Parlamento, traverso di essa, fosse informato della situazione che era davanti a noi, pure asserendo che la responsabilità delle decisioni spettava a noi Governo, e che noi non desideriamo affatto nasconderci o garantirci dietro un voto della Commissione dei Trattati.

Ma poiché i nostri autorevoli colleghi della Commissione dei Trattati sentirono l’opportunità di accentuare questa politica di ingresso nell’O.N.U., che dipende anche dagli Stati arabi, e poiché tutto si tiene in politica, noi non possiamo negare oggi il nostro voto a questo Trattato.

Può darsi che ci si possa trovare perplessi di fronte alle ragioni giuridiche sollevate dall’onorevole Pajetta, o dinanzi a certi dubbi sul passato espressi dall’onorevole Cianca e da altri oratori. Ciò potrebbe spiegare delle esitazioni: ma qui si tratta di guardare verso l’avvenire, di tenere in mano tutte le nostre carte per creare quel risorgimento dell’Italia nel Mediterraneo che, se noi sapremo fare, potrà costituire il primo passo per la risurrezione del nostro prestigio nel mondo intero.

Noi non possiamo dunque non votare questo Trattato; esso è forse una delle chiavi verso una nuova affermazione solenne dell’Italia nel Mediterraneo. (Applausi).

PRESIDENTE. Passiamo all’esame degli articoli.

Art. 1.

Piena ed intera esecuzione è data all’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto.

RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare?

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUSSO PEREZ. Onorevoli scolleghi, di proposito non ho risposto alle critiche che mi sono state mosse, per non portare la particolare sensibilità del fatto personale in una discussione di così alto interesse nazionale e internazionale. Il mio voto contrario significa questo mio preciso pensiero: i rapporti amichevoli con l’Egitto devono essere, e subito, ristabiliti; la quistione deve avere una soluzione che sia di pieno gradimento del Governo egiziano, ma, negata la ratifica e riprese subito le trattative, una parte dell’onere derivante dall’accordo – possibilmente da maggiore – deve essere sopportata dalla collettività degli italiani abbienti in Egitto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 1 testé letto.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 2:

«L’onere del primo versamento di un milione di lire egiziane, previsto dagli scambi di note effettuati a Parigi in occasione della firma dell’accordo è assunto direttamente dallo Stato».

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io credo che, non come modificazione del contenuto dell’articolo 2, ma come raccomandazione al Governo per il seguito dei pagamenti che dovranno essere effettuati fino all’ammontare indicato nell’accordo, l’Assemblea dovrebbe esprimere la speranza che questo onere – non indifferente – non debba ricadere interamente sullo Stato, e che passi adeguati siano compiuti, con la calma che sarà suggerita dalle circostanze, al fine di chiamare a concorso quella parte più ricca della colonia dell’Egitto, che altrimenti verrebbe ad uscire dalla guerra completamente indenne.

Ripeto, non intendo che sia considerato questa mia proposta come un formale emendamento all’articolo 2, ma come una raccomandazione da fare al Governo.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SFORZA, Ministro degli affari esteri. Desidero assicurare l’onorevole Corbino che a me personalmente, e giudicandola sul momento, la sua raccomandazione sembra di grande interesse, e la seguiremo con la più profonda attenzione.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Dichiaro di associarmi, anche a nome del nostro Gruppo, alla raccomandazione dell’onorevole Corbino.

PRESIDENTE. Metto in votazione l’articolo 2, testé letto.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 3:

«Il Ministro per le finanze e per il tesoro è autorizzato ad iscrivere in bilancio la spesa occorrente per l’esecuzione dell’accordo».

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 4:

«La presente legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale».

(È approvato).

Se non vi sono opposizioni, questo disegno di legge sarà votato a scrutinio segreto nella seduta pomeridiana.

(Così rimane stabilito).

Discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945. (8)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945 (8).

Dichiaro aperta la discussione generale.

È iscritto a parlare l’onorevole Montini. Ne ha facoltà.

MONTINI. La costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – la F.A.O. – è un ulteriore passo verso l’articolazione della vita internazionale la quale è rappresentata nel suo complesso dall’O.N.U., sebbene l’O.N.U. sia nel tempo venuta dopo la F.A.O., giacché questa venne istituita a Quebec fino dal 1945.

Noi siamo di massima favorevoli a queste varie organizzazioni che vanno sorgendo, come siamo in principio favorevoli a tutta l’organizzazione internazionale della pace, che si compone appunto di vari elementi di collaborazione concreta fra le Nazioni.

Per parte nostra, il Gruppo voterà quindi a favore di questo disegno di legge e motivi specifici verranno ulteriormente addotti dal collega del mio Gruppo onorevole Rivera.

A me interessa specialmente un aspetto di carattere sociale e connesso con la situazione particolarmente grave della vita alimentare del nostro Paese. Lo stato attuale dei bisogni alimentari è ben noto a chiunque e perciò mi esimo dall’illustrarlo. Ricordo solamente come a questi bisogni e alla necessita di organizzare l’alimentazione nel campo internazionale fu provveduto, nell’immediato dopoguerra, dal Combined Food Board, un ufficio che aveva il compito di amministrare le risorse alimentari per assegnarle alle Nazioni, per la parte che potessero acquistare, o mandarle alle altre attraverso, la U.N.R.R.A. che ha assistito alimentarmente anche il nostro Paese.

È succeduta a questa Organizzazione un’altra, nel momento nel quale si supponeva che organizzazioni per questi bisogni venissero a cedere ormai alla organizzazione naturale dello scambio dei prodotti anche alimentari. Si è infatti avvertito che, col cessar della guerra, non ritornavano invero automaticamente le condizioni normali; che la crisi era sempre pressante e che lo era a tal segno che non si poteva, per certe zone, avere alimenti neppure per quelle pochissime calorie che si potrebbero chiamare del regime di fame. Per cui in questo momento funziona tutt’ora, dopo due anni dalla guerra, una organizzazione di emergenza – International Emergency Food Council – che venne, costituita dopo il Combined Food Board per regolare e disciplinare la distribuzione dei generi alimentari e particolarmente dei cereali nei vari Paesi.

In confronto con questi organismi, l’Italia – che ha dovuto avere come avvocato naturale l’UNRRA, poiché essa ne era la principale fornitrice assistenziale – ha cercato di farsi determinare le assegnazioni (allocations) necessarie specialmente per quanto riguarda i cereali, campo nel quale sono note le nostre difficoltà, perché l’Italia vive, in quanto a cereali, sul 61 per cento di essi nella combinazione della sua alimentazione, mentre le altre Nazioni arrivano al massimo al 31 per cento. Questa che può sembrare una situazione di privilegio nel campo dei cereali va messa in relazione con la povertà della nostra alimentazione, essendo presso di noi deficienti gli altri coefficienti nutritivi: da noi si mangia prevalentemente pane, solo pane.

Comunque, per venire al nostro argomento nei confronti del disegno di legge che ci è presentato, notiamo che la FAO viene a costituire un organo a lato, e quasi staccato da questa necessità impellente, sociale, mondiale di intervenire nei confronti dei bisogni e della loro indispensabile regolamentazione sia in tema agricolo sia in tema più strettamente alimentare. La FAO si limita infatti ad uno scopo puramente informativo e di studio. Dice l’articolo 1 dello Statuto: «L’Organizzazione raccoglierà, analizzerà, interpreterà e diffonderà notizie relative alla nutrizione, ai generi alimentari ed alla agricoltura. E tutt’al più promuoverà o raccomanderà un’azione per queste ricerche o per un’assistenza tecnica in proposito. Si tratta pertanto sempre di ricerche scientifiche o indicazioni teoriche per l’adozione di determinate linee di condotta, ma la FAO si astiene per il momento da contatti diretti, immediati con i centri e le organizzazioni che provvedono alla vera necessità che è quella di ottenere gli alimenti.

Essendo di massima favorevoli a questo Accordo in esame, noi facciamo voti perché si entri nel momento attuale in una via di realizzazione completa e non ci si fermi soltanto alle costruzioni accademiche. Noi intendiamo che, prendendo l’argomento dalle necessità impellenti, si trovi la maniera di raggiungere una forma di intervento e di attività maggiormente connessa con i bisogni immediati delle popolazioni. È innegabile che la FAO dovrebbe e potrebbe collegarsi strettamente con gli Organismi di distribuzione e di assegnazione, anche se questa sua finzione dovesse avere un carattere semplicemente transeunte.

Per parte nostra desidereremmo fare anche una seconda osservazione, sebbene estranea all’immediatezza del provvedimento, ma che sottolinea la maggiore necessità di organizzazione operante anziché di organizzazione semplicemente di studio. È osservazione di carattere nazionale quella che, mentre si è voluto sopprimere l’Istituto Internazionale di Agricoltura, si è provveduto alla costituzione della FAO, la quale non ha in fondo altri e diversi scopi e quindi non risponde per sé a particolari bisogni, nati, o connessi con l’attuale guerra. Non si comprende perché si debba sopprimere un Istituto Internazionale di Agricoltura che aveva le stesse funzioni ed inoltre una esperienza ed una attrezzatura ben solide e universalmente apprezzate. Solo se la FAO, riuscirà a potenziare il proprio intervento ed un’utile disciplina nella pratica questione della alimentazione e della produzione potrà giustificare questo suo nuovo ingresso nella vita internazionale.

Perciò mentre constatiamo che le origini della FAO risalgono a quando era necessario provvedere (anche contro di noi allora in guerra o forzatamente assenti) alla Organizzazione internazionale dell’alimentazione, oggi noi auspichiamo due cose:

l°) che la FAO si inserisca totalmente nel campo ove si regolano i bisogni attuali, specialmente del nostro Paese, in rapporto alla scarsità dei mezzi alimentari del mondo;

2°) che il nostro (dico nostro per sede e tradizioni) Istituto Internazionale di Agricoltura divenga per lo meno una sezione regionale della FAO come sede del centro europeo di questa Organizzazione.

In questo senso riteniamo che aderendo a questo Organismo internazionale si dia luogo non già ad una attività particolaristica e ristretta, ma ad una più ampia sfera di collaborazione; e che il sacrificio dell’Istituto che aveva sede in Italia sia giustificato da un più ampio respiro della vita internazionale. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rivera. Ne ha facoltà.

RIVERA. Una gentile menzione a mio riguardo è stata fatta dal relatore di questa legge a proposito della dissoluzione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, dissoluzione che ha toccato vivamente il sentimento degli italiani, come ha addolorato buona parte di quegli stranieri che avevano avuto occasione di conoscere e di apprezzare questa istituzione internazionale. Essendo stato nominato delegato dell’Italia presso l’Istituto Internazionale di Agricoltura di Roma nel 1945, mi credo in dovere di venire ad offrire all’Assemblea qualche dettaglio di questa pagina dolorosa del nostro dopoguerra, ricordando quanto il Ministero degli esteri ed i delegati dell’Italia presso l’istituto e presso la FAO hanno fatto, in Italia ed all’estero, perché qualche cosa di questo Istituto, di questa opera, ideata da un americano ed applicata in Italia, rimanga ancora ad operare per il bene dell’umanità. David Lubin, 40 anni fa circa, bussò a parecchie porte perché la sua idea di pace sociale tra gli agricoltori avesse una realizzazione. Tutte rimasero chiuse: si aprirono solo le porte dell’Italia, di un popolo povero, ma nel quale il sentimento di solidarietà internazionale non si è mai spento e non sta per spegnersi.

L’Italia offrì subito a codesto apostolo e pellegrino di solidarietà umana la più larga ospitalità che poté, lo assisté passo passo nella organizzazione, che prese a sé e che poi affidò alle Nazioni firmatarie della Convenzione internazionale del 7 giugno 1905. Fu con questa creato quell’Istituto, il quale rappresenta il primo esempio di una organizzazione di diritto pubblico fra gli Stati per lo studio di problemi tecnici e per raggiungere scopi economici comuni.

È questo il primo esempio di organizzazione di un Ente internazionale dotato di un potere autonomo di iniziativa. Questo carattere giuridico consisteva essenzialmente nella facoltà di convocare Conferenze diplomatiche, che concludevano in Convenzioni internazionali, riferentisi a problemi tangibili, economici ed agricoli; ed è oggi veramente interessante rilevare per quali vie l’Istituto Internazionale di Agricoltura ha perseguito tali nobilissimi scopi, e quanto poco possano differire da queste, già felicemente sperimentate, quelle vie che si propone di battere la FAO, organizzazione internazionale nata dalla guerra per cercare di lenire danni di guerra e sopratutto di meglio organizzare l’economia agricola mondiale.

L’Istituto Internazionale di Agricoltura in questo quarantennio ha mirabilmente adempiuto ai primitivi propositi, con queste attività: studiare e presentare all’approvazione dei vari Governi le misure miranti all’interesse comune degli agricoltori e ad elevare le loro condizioni; raccogliere e pubblicare più rapidamente possibile le notizie relative alla produzione animale e vegetale, al prezzo, al commercio della produzione agricola ed anche alle malattie e ai nemici dei vegetali; studiare in monografie speciali, in ricerche originali, tutti gli aspetti del problema agricolo, utilizzando la documentazione raccolta su queste questioni; seguire ed illustrare il movimento tecnico, economico, sociale e legislativo dell’agricoltura. Questi compiti sono stati esplicati in una maniera che è stata dichiarata magnifica anche dall’ultimo Presidente dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, di nazionalità americana. Sicché ancor oggi potremmo domandarci perché uccidere questo Istituto, prima almeno che non sia nato il suo successore.

Questa Istituzione ha contribuito egregiamente per 40 anni ad organizzare il mondo economico, coi suoi dati numerosi, coi suoi studi e servirebbe egregiamente anche oggi ad organizzare la pace.

Io credo che, se non avessimo avuto a nostra disposizione i dati ed i risultati quarantennali dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, noi oggi saremmo ciechi per più d’un fatto economico, specialmente per quanto riguarda la produzione agricola mondiale.

Al momento che gli operai, nella Villa Borghese, qui a Roma, stavano per iniziare lo scavo per le fondamenta di quel magnifico palazzo, che poi l’Italia ha fabbricato a sue spese e posto a disposizione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, David Lubin mandò loro un regalo in denaro, con l’ammonimento che essi non si apprestavano ad un’opera profana, ma invece ad un lavoro religioso, perché fatto per la giustizia. Essi infatti gettavano le basi d’una collaborazione tra tutti gli uomini di buona volontà del mondo e tra le nazioni, perché fosse sollevata l’agricoltura, per il bene degli agricoltori e dei consumatori.

Nel momento in cui si sacrificavano i pini secolari di Villa Borghese per la creazione d’una fondazione, che rimarrà documento perenne e ponderoso, nelle sue magnifiche pubblicazioni di uno slancio di solidarietà umana, dall’ideatore dell’opera fu data di essa una suggestiva definizione.

Con lo stesso spirito generoso fu successivamente da noi edificato un secondo palazzo, in vicinanza del primo, per ospitare la grandiosa biblioteca, la più bella e la più ricca del mondo intiero, specializzata su questioni agricole.

Eppure oggi con tristezza noi dobbiamo assistere alla inconsiderata chiusura dei battenti di questo Istituto, battenti che però l’Italia ha chiesto che immediatamente fossero riaperti, offrendo questi palazzi, perché essi continuassero a servire un’idea poco dissimile attraverso la F.A.O.

Onorevoli colleghi, non è stata senza travaglio la conclusione alla quale siamo oggi arrivati. L’Istituto, durante la guerra, è passato attraverso periodi penosi, quando una parte dei funzionari si è dovuta allontanare e la parte che è rimasta ha seguitato a lavorare tenacemente, accanitamente, pur con i pochi dati che in un certo momento venivano da fuori. Un Consiglio interinale presiedeva alle sorti dell’Istituto, durante le due guerre coi tedeschi e contro i tedeschi. Questo Consiglio, composto di personalità argentine, spagnole, rumene, dei Paesi Bassi e dell’Italia, ha tirato avanti faticosamente per tutti quegli anni questo carro attraverso crisi economiche gravissime, essendo venuti a cessare i contributi degli Stati, i cui delegati si erano allontanati. Ed anche in questa circostanza l’Italia si è ricordata di essere la depositaria della Convenzione Internazionale ed ha sovvenuto l’Istituto, per quel che occorreva, dando quattro milioni di lire, che a quell’epoca rappresentavano una somma discreta, in aggiunta al contributo ordinano.

Ma finita la guerra, non prima del novembre 1945, abbiamo avuto l’amarezza di sapere che, nel frattempo, l’Istituto Internazionale di Agricoltura era stato accusato, attraverso un memoriate distribuito ampiamente, nel giugno 1944, agli organi responsabili delle Nazioni Unite, nel quale era fatto carico a funzionari dell’Istituto di atteggiamenti politici contro le Nazioni Unite.

Noi abbiamo appreso per circostanze fortuite questa notizia, quando oramai erano avvenuti il primo incontro di Hot Springs e la Conferenza di Quebec ed era quindi già deliberata la «dissoluzione» dell’Istituto Internazionale di Agricoltura.

PRESIDENTE. Mi scusi. Noi stiamo discutendo un disegno di legge che non ha niente a che vedere con questo.

RIVERA. Io credo che l’Assemblea desideri sapere quello che è avvenuto in questo tempo dell’Istituto Internazionale, di cui votiamo la soppressione, essendo questo un argomento importante, oltreché sentimentale e doloroso! Un Istituto quarantennale glorioso si spegne oggi per nostra deliberazione: se ciò non interessa al Presidente o ai colleghi, io posso rinunziare alla parola.

PRESIDENTE. No, io dicevo che si tratta di approvare questo disegno di legge.

RIVERA. Ma vedo che l’Assemblea si interessa invece a questa vicenda. Quando si è avuto notizia di questo memoriate, il Consiglio interinale ha subito risposto con una documentazione, che ha demolito tutte le asserzioni del memoriale, che sono risultate effettivamente inesatte, infondate e false; esse del resto erano state raccolte attraverso «si dice» e lettere private di funzionari non commendevoli, senza che l’Istituto venisse minimamente interpellato nei suoi dirigenti responsabili.

Io ho citato questo fatto non per dire che anche tale giudizio si è fatto in ignoranza dell’imputato, come qualche altro grave giudizio si è fatto in questo triste dopoguerra, anche da noi, all’oscuro degli imputati, ma per dire che successivamente è stata riconosciuta la grande correttezza, anche politica, dei dirigenti e dei funzionari dell’Istituto nei periodi di guerra e di occupazione tedesca, anche cioè anteriormente al mandato di chi vi parla.

Dimodoché, se questa decisione della soppressione, della dissoluzione dell’Istituto, è stata presa in considerazione di questo memoriale Hartmann, questa decisione è bacata all’inizio da informazioni che sono risultate errate.

Ma su questo oramai noi dobbiamo scivolare, perché è storia, ma è storia che va precisata.

Quando gli Alleati si sono presentati a Roma ed hanno fatto immediatamente una visita all’Istituto Internazionale di Agricoltura, la loro meraviglia è stata grandissima, perché hanno trovato ancora in vita l’Istituto, che funzionava in pieno, sebbene con disagio finanziario grandissimo, e seguitava a dare quel contributo di lavoro, o poco meno, di prima della guerra. Eravamo ancora vivi, e, quando al posto del Comitato interinale, si è ricostituita una normale rappresentanza delle Nazioni presso l’Istituto, alla riunione del Consiglio Direttivo dell’Istituto sono intervenuti 44 Stati. Noi abbiamo allora avuto la gioia di presentare ancora funzionante in pieno questo Istituto e di poter offrire alle Nazioni qui riunite una messe immensa di dati freschi, preziosi per la soluzione di tanti problemi che riguardano l’organizzazione della pace. Ma in quella prima riunione del Comitato direttivo, onorevoli colleghi, fu subito avanzata la proposta di approvazione del protocollo, che prevedeva la dissoluzione dell’Istituto ed il trasferimento delle funzioni e degli averi di questo alla F.A.O. Apparve allora ben chiaro quale strada era stata prescelta per eseguire con rapidità il dettato di Hot Springs e di Quebec.

Una «dissoluzione» dell’Istituto non poteva essere patrocinata ed una discussione del genere non poteva essere presieduta da un italiano. Tutti i presidenti dell’Istituto sono stati italiani fin dalla fondazione; essi hanno condotto questo Istituto ad un grado di vegetazione florida e perciò parve opportuno che una persona di altra nazionalità provvedesse e presiedesse a questa dissoluzione. Al delegato italiano, che era chi ha l’onore di parlarvi, non convenne dunque accettare l’offerta fattagli della nomina a presidente dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura in questa ultima fase di vita dell’Ente, in conseguenza di che fu nominato presidente il delegato americano. Fin dalla prima riunione del ricostituito Comitato permanente fu dunque posta la questione se accettare o non accettare codesto invito alla dissoluzione.

Non mancammo di esporre il punto di vista del diritto, che avevamo il dovere di prospettare, anche in considerazione del fatto che l’Italia era depositaria della Convenzione. In una organizzazione internazionale come questa, è fondamentale l’autonomia di decisione. Questo organo internazionale aveva avuto origine da una convenzione internazionale (questo fu il punto di attrito fra i proponenti della dissoluzione e alcuni delegati) che non può essere spenta per volontà di una delle parti o di alcune parti, in assenza o in dissenso di altre; anzi un patto internazionale non può essere annullato, se non sono presenti ed accettanti tutti coloro che hanno preso parte alla conclusione di esso. La discussione fu lunghissima, ma fu chiarificatrice ed obbligò gli iniziatori della dissoluzione a costituire una situazione di forza, perché, quando fummo alla votazione, 37 Nazioni con 92 voti si pronunciarono per la dissoluzione dell’Istituto, mentre l’Italia dichiarò di astenersi e con lei si astennero altre 12 Nazioni con 30 voti. Si preparava così l’Assemblea generale che avrebbe dovuto votare la dissoluzione.

Questa che noi oggi votiamo è l’accettazione del risultato dell’Assemblea, svoltasi tre mesi dopo, l’8 e 9 luglio 1946, che suggellò la dissoluzione dell’Istituto. Tra l’una e l’altra riunione ci preoccupammo della linea d’azione da prendere, d’accordo con quelle Nazioni che avevano voluto fare, con la loro astensione, una dichiarazione di affetto e di stima per l’Istituto ed anche con quelle, che, senza alcuna soddisfazione, avevano votato la dissoluzione. Sembrò opportuno che si dovesse venire ad una specie di patteggiamento, perché qui a Roma, in un modo o nell’altro, questa istituzione, realizzante un’idea di solidarietà economica mondiale, potesse continuare a vivere. Il risultato fu che, nell’Assemblea generale, indetta dall’Istituto Internazionale d’Agricoltura, fu accettato all’unanimità il progetto di dissoluzione dell’Istituto ed immediatamente dopo fu adottato un voto, con 52 nazioni su 52 presenti, per cui l’Italia, e Roma, rimanessero come sede europea della FAO.

Onorevoli colleghi, qui si tratta di due deliberazioni differenti, delle quali l’una decide, l’altra fa un voto, ma la volontà degli Stati che hanno votato l’una e l’altra deliberazione è indiscutibile. Essi hanno domandato che continuasse qui a Roma quella attività che per 40 anni aveva reso celebre l’opera dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Oggi questo non è deciso. Oggi a Roma c’è bensì la sede europea della F.A.O., ma essa è provvisoria, perché si deve decidere prima quale sarà la sede centrale della F.A.O., per poter stabilire se ci sarà una sede europea e se questa sede europea potrà essere Roma.

Ma, da quanto a Kopenaghen nella Conferenza F.A.O., dove sono stato inviato quale delegato italiano per l’Agricoltura, spiegando ai delegati di ogni paese intervenuti la situazione dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura, ho potuto dedurre, abbiamo per questa tesi una stragrande maggioranza delle Nazioni Aderenti alla F.A.O.. Io credo che una notevole pressione morale, per tale decisione, sia esercitata dalla persuasione del valore immenso dell’opera dell’Istituto, ciò che vincerà il punto morto delle residue dubbiosità e potremo trasformare la sede provvisoria europea della F.A.O., qual è ora a Roma, l’antico Istituto Internazionale di Agricoltura, in sede definitiva.

Onorevoli colleghi, nella discussione che si è tenuta all’Assemblea generale dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura, si legge il rilievo: «non uccidete l’organismo vivente prima di formare il nuovo! Non si cambiano i cavalli in mezzo al guado! Oggi che dovete organizzare la pace, questo perfetto organismo, che tale è stato riconosciuto, deve funzionare per la pace». Se riusciremo ad avere, onorevoli colleghi, ancora a Villa Borghese qualcosa che ci ricordi l’antica organizzazione dell’agricoltura fra i vari Paesi, cioè la sede europea della F.A.O., potremo dire che noi abbiamo quel che abbiamo donato. Ma se ciò non sarà, l’Italia non si rammarichi. Essa ha donato nel passato al mondo sempre largamente e generosamente i frutti del pensiero della sua gente. La gioia del donare non può spegnersi neppure oggi che siamo caduti in miseria, giacché attraverso la sofferenza ed il dolore si ravviva l’amore.

Il Governo sappia trar profitto dal lavoro proficuo sino ad oggi svolto, tesorizzando questo ed il fascino di Roma, perché tale eccelsa forma di solidarietà effettiva tra gli uomini continui qui in Italia. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Canepa. Ne ha facoltà.

CANEPA. Superfluo è dire che il Partito specialista dei lavoratori italiani darà, con vivissimo compiacimento, voto favorevole a questo disegno di legge il quale approva l’accordo internazionale per la costituzione dell’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura.

È un passo sulla via, sia pur lenta, sia pur faticosa, che conduce verso il nuovo mondo, il mondo universale che si viene creando al di sopra delle nazioni, mondo destinato a sicuro avvenire (a meno che l’umanità non voglia votarsi alla miseria, anzi al suicidio) in cui noi abbiamo fermissima fede. Io ho chiesta la parola soltanto per sottolineare, pienamente approvando, l’ultima parte della relazione del collega Iacini, là dove ricorda che la Organizzazione creata a Quebec presenta per il nostro Paese aspetto particolare, in quanto implica l’assorbimento dell’istituto internazionale dell’agricoltura di Roma, e fa voti che questo nostro Istituto divenga la sezione europea dell’Istituto, che ora è stato fondato della Organizzazione delle Nazioni Unite. Mi ricordo che, quando fu fondato l’Istituto internazionale di Roma, le speranze che ha suscitato furono molte, speranze che in parte sono state realizzate perché del bene ne è stato fatto e fu quello uno dei primi tentativi nella via internazionale. Ora raccomando al Governo di insistere vivamente perché davvero questo nostro Istituto, seppure viene assorbito in quello nuovo, sia quanto meno destinato ad essere la sezione, o se si vuol dire la filiale europea, di questa grande organizzazione mondiale.

E vorrei ricordare che c’è già un precedente. Autorevolissimi giornali svizzeri, Le Journal de Genève, per esempio, la Zürick Zeitung, ed altri, danno per certo che l’United Nations Organisation costituirà a Ginevra, nella splendida sede dell’antica Società delle Nazioni, la filiale europea, nel senso politico, di quella che comunemente si chiama ONU. Ebbene, se questo è, se la Svizzera diventerà la sezione europea politica dell’organizzazione generale, a maggior ragione Roma deve diventare la sezione europea dell’organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura. Quello che abbiamo fatto, l’iniziativa che abbiamo presa, i sacrifici che abbiamo sostenuto per fondare e alimentare questo Istituto, credo che ce ne diano qualche diritto.

E la via in cui si è messo il Governo, la domanda che pochi giorni fa l’onorevole Sforza ha fatto per la nostra ammissione nell’United, rientrano appunto in questa concezione per la quale noi, dopo tante disavventure, dopo tante disgrazie che abbiamo sofferto, dopo di essere caduti purtroppo così in basso, ci andiamo rialzando e rientriamo nella vita universale. La partecipazione ad essa sarà, se noi lo vorremo, se saremo tutti quanti uniti, sarà degna, onorevoli colleghi, a del nostro glorioso passato.

Questo è il voto che io faccio ed al quale voglio sperare, anzi sono certo, che tutti vi assocerete. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cingolani. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Mi associo, toto corde, a quanto ha detto l’onorevole Canepa, anche per questo: a nome della Delegazione italiana, allorché fu invitata nell’ottobre 1945 a rientrare nell’organizzazione internazionale del lavoro, io ebbi nell’Assemblea plenaria della Conferenza internazionale ad esprimere proprio questo voto. Si era già allora manifestato il disegno di creare una sezione alimentare ed agricola dell’O.N.U., e quindi si capiva che c’era già nell’aria una condanna a morte del nostro Istituto d’Agricoltura. Emisi, a nome della Delegazione, il voto che almeno per la sezione europea venisse mantenuto il nostro gloriosissimo Istituto internazionale, e ricordai quello che è stato il rilievo statistico internazionale, preziosissimo, fatto dal nostro Istituto che è unico al mondo ed ancora serve agli studiosi di agricoltura, anche per quanto riguarda la storia del passato, e che è sempre fonte di previsioni utilissime per l’avvenire. Il voto fu approvato dai rappresentanti di 57 Stati.

Quindi, faccio formale proposta al Governo di ricordare, nell’atto fin cui entreremo nell’O.N. U., che il voto nostro fu accettato dai rappresentanti di 57 Stati a Parigi, nell’ottobre del 1945. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. A nome dei miei colleghi di gruppo mi associo, toto corde, alle espressioni venute dal banco in cui siede l’onorevole Canepa e dal banco in cui si trova l’onorevole Cingolani. Non può essere diverso il sentimento che ci ispira in questo, momento. Noi attraversiamo un periodo difficile per la storia e per la vita del nostro Paese. Queste affermazioni devono trovare, in mezzo a tutti noi, senza distinzione di parte, pieno assenso morale, materiale, politico. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLETTO. La realtà economica, nella quale l’Italia coi suoi problemi alimentari vive, ci spinge a dare senz’altro, e con compiacimento, la nostra adesione al progetto di legge. L’Italia ha, d’altra parte, urgente bisogno di compiere i più solleciti passi in avanti verso il ritorno alla normalità dei rapporti internazionali. Ora il disegno di legge in esame consente senza dubbio di fare molti di tali passi e non poco importanti. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Quintieri Quinto. Ne ha facoltà.

QU1NTIERI QUINTO. A nome del mio gruppo devo dichiarare che noi ci associamo a quanto è stato detto nell’Assemblea; cioè che diamo la maggiore importanza alla conservazione all’Italia dell’Istituto Internazionale di Agricoltura. Tutte le quistioni che si riferiscono agli studi di agraria, alla efficienza della produzione della terra, hanno per noi una importanza immensa; l’importanza cioè di assicurare il pane al nostro popolo e l’indipendenza al nostro Paese. (Approvazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tonello. Ne ha facoltà.

TONELLO. Il partito socialista italiano non può che vedere con gioia la creazione di quegli istituti che fanno uscire il nostro Paese dal buio di quella che era l’autarchia fascista.

Perciò noi vediamo in questo dilagarsi dell’Italia in tutto il mondo civile una speranza per l’avvenire del nostro Paese.

Pertanto il partito socialista voterà in favore del progetto di legge. (Approvazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.

SCOCCIMARRO. Dichiaro che il Partito comunista approverà il disegno di legge.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.

In assenza del Relatore, ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente della Commissione per i Trattati internazionali.

BONOMI IVANOE, Presidente della Commissione per i Trattati internazionali. In assenza del Relatore io non debbo che dire pochissime parole: raccomando all’Assemblea l’approvazione di questo disegno di legge e faccio notare ai molti oratori che hanno parlato che la preoccupazione nostra per l’Istituto Internazionale di Agricoltura è stata già raccolta, esposta ed illustrata nella relazione dell’onorevole Jacini.

La Commissione per i Trattati internazionali vigilerà affinché il Governo faccia tutti i passi possibili perché le aspirazioni esposte siano prese nella massima considerazione.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero.

ASSENNATO, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero. Dichiaro che il Governo si ripromette di compiere tutto quanto è nelle sue possibilità perché sia accolto il voto unanime espresso dall’Assemblea.

PRESIDENTE. Passiamo all’esame degli articoli.

Art. 1.

Piena ed intera esecuzione è data all’Accordo concluso a Quebec il 16 ottobre 1945 per la «Costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura», nella quale l’Italia è stata ammessa il 10 settembre 1946.

(È approvato).

Art. 2.

Il Ministro per le finanze e tesoro è autorizzato ad iscrivere in bilancio la spesa occorrente per la partecipazione dell’Italia alla suddetta Organizzazione.

(È approvato).

Art. 3.

La presente legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ed ha effetto dal 10 settembre 1946.

(È approvato).

Se non vi sonò osservazioni, la votazione a scrutinio segreto di questo disegno, di legge avrà luogo nella seduta pomeridiana.

(Così rimane stabilito).

RIVERA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RIVERA. Onorevole Presidente, noi stiamo per approvare questa adesione dell’Italia alla FAO. Ora, io pongo una questione di carattere giuridico: l’Italia, quando ha firmato la risoluzione riguardante l’assorbimento dell’Istituto Internazionale di Agricoltura da parte della F.A.O. ha fatto esplicita riserva scritta in calce alla firma apposta, di ratifica da parte dell’Assemblea. Questa ratifica della Costituente è dunque necessaria perché l’adesione dell’Italia alla dissoluzione dell’Istituto abbia valore ed efficacia?

La votazione di approvazione della partecipazione italiana alla F.A.O., che oggi ha luogo, rappresenta implicitamente anche la ratifica da parte dell’Assemblea della convenzione sulla dissoluzione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura o si giudica necessario che l’Assemblea debba pronunciarsi a parte con una particolare votazione di ratifica? Io raccomando all’attenzione della Presidenza e del Governo tale quesito perché prendano le deliberazioni del caso.

PRESIDENTE. Il quesito sarà fatto presente al Governo e alla Commissione per i Trattati internazionali.

Interrogazione con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. L’onorevole Longhena ha presentato la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Ministro dell’interno, sulla situazione finanziaria delle Amministrazioni ospedaliere. L’interrogante ricorda di avere otto mesi or sono chiesto al Ministro dell’interno se non credesse opportuno, per sovvenire alle disagiate finanze delle Amministrazioni ospedaliere, riapplicare il decreto 2 febbraio 1922, n. 114, e avendo avuto risposta non sodisfacente, di aver presentato nel dicembre scorso una interpellanza, alla quale non si è creduto neppure di rispondere. Il Congresso delle Amministrazioni ospedaliere, radunate nel marzo a Torino, ha riconfermato il voto avanzato dall’interrogante. Nuovamente ha fatto seguito il silenzio. Alle invocazioni di aiuto, ai telegrammi disperati, si è opposta una tranquilla indifferenza. Ora si verifica ciò che era facile prevedere: gli ospedali non possono più pagare medici, impiegati, personale di assistenza.

«L’interrogante chiede che cosa pensi l’onorevole Ministro dell’interno e se reputi le dimissioni di tutti gli amministratori degli ospedali risposta all’indifferenza onde fin qui furono circondati i loro appelli insistenti».

Chiederò al Ministro dell’interno quando intenda rispondere a questa interrogazione.

LONGHENA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LONGHENA. Rilevo la particolare urgenza dell’interrogazione. Se non interverranno opportune provvidenze, a metà del corrente mese si dovranno chiudere gli ospedali. E la responsabilità di questo fatto non ricadrà certo sugli amministratori degli ospedali.

PRESIDENTE. Assicuro che farò presente al Governo questo stato di cose.

La seduta termina alle 12.30

POMERIDIANA DI SABATO 10 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cxx.

SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 10 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Camangi                                                                                                           

De Maria                                                                                                          

Zuccarini                                                                                                         

Rodinò Mario                                                                                                   

Mazzei                                                                                                              

Condorelli                                                                                                      

Cappelletti                                                                                                      

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                 

Medi                                                                                                                  

Colitto                                                                                                             

Merighi                                                                                                             

Dominedò                                                                                                         

Arata                                                                                                               

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Laconi                                                                                                              

Di Vittorio                                                                                                       

Corbino                                                                                                            

D’Aragona                                                                                                       

Cingolani                                                                                                         

Gabrieli                                                                                                            

Mortati                                                                                           Benvenuti      

Storchi                                                                                                             

Fabbri                                                                                                               

Cortese                                                                                                            

tega                                                                                                                  

Einaudi                                                                                                             

Interrogazione con richiesta d’urgenza:

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri             

Togni, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale                      

Sui lavori dell’Assemblea:

Presidente                                                                                                        

Perrone Capano                                                                                              

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri             

Tonello                                                                                                            

Lussu                                                                                                                

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La sedata comincia alle 16.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Lucifero.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Si riprende l’esame degli emendamenti proposti all’articolo 34, la cui formulazione nel testo della Commissione è la seguente:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato».

L’onorevole Colitto ha presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Sostituirlo col seguente:

«Chiunque si trovi senza sua colpa – per età, malattia, condizioni fisiche o mentali, congiunture economiche generali – nella incapacità di lavorare, ha diritto di avere assicurati dalla collettività mezzi di sussistenza».

Gli onorevoli Merighi, Carmagnola, Barbareschi, Mariani, Vischioni, Fornara, Merlin Angelina, De Michelis, Costantini hanno presentato il seguente emendamento, già svolto:

«Sostituirlo col seguente:

«Il lavoratore ha diritto ad avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie per sé e per la famiglia nei casi di malattia, disoccupazione involontaria, infortunio, invalidità e vecchiaia ed in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione.

«Per raggiungere tali scopi la Repubblica potrà istituire l’assicurazione generale contro le malattie.

«I cittadini i quali per infermità congenita o acquisita sono inabili al lavoro ma possono, con una rieducazione professionale adatta, essere resi idonei ad un particolare lavoro, hanno diritto a tale rieducazione e successiva immissione al lavoro.

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato e coordinati dal lato tecnico, assieme agli altri Enti sanitari e statali, da un unico organo autonomo e indipendente».

L’onorevole Camangi ha proposto di sostituire l’articolo con il seguente:

«La Repubblica promuove la previdenza obbligatoria per i lavoratori come strumento per assicurare i mezzi necessari alla vita loro e delle loro famiglie quando non abbiano la possibilità di procurarli con il loro lavoro.

«A tale previdenza provvedono, con l’eventuale concorso dello Stato, organi ed istituti gestiti o controllati dai lavoratori interessati.

«Alla vita dei cittadini che, inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi, non possono far ricorso ai benefìci della previdenza, provvede lo Stato con l’assistenza sociale».

L’onorevole Camangi ha facoltà di svolgere l’emendamento.

CAMANGI. Io ritengo, onorevoli colleghi, che l’argomento cui si riferisce l’articolo 34 sia di estrema importanza, sotto vari aspetti, che naturalmente non intendo sviluppare, ma ai quali accennerò soltanto.

È importante sotto l’aspetto sociale. Si tratta evidentemente della tranquillità – non foss’altro – di milioni di famiglie, si tratta di dare una dignità al lavoro e ai lavoratori, una dignità concreta; si tratta di eliminare certe storture e disparità sociali che purtroppo ancora sussistono.

È importante sotto l’aspetto economico, perché è un problema che ha un’incidenza rilevante su quelli che sono i costi di produzione e sull’economia del Paese, sulla scioltezza del meccanismo produttivo della Nazione. Ed ha aspetti economici anche riguardo agli squilibri di carattere economico che possono derivare dall’applicazione, più o meno integrale, delle norme che si riferiscono alla previdenza in genere.

È importante sotto l’aspetto morale per gli effetti, direi, educativi che la questione ha nei confronti dei lavoratori; educativi o diseducativi, perché si può ottenere un effetto o l’altro a seconda che sia organizzata, applicata e realizzata in un modo o in un altro. È importante sotto tutti questi aspetti e sotto moltissimi altri, ma mi limito soltanto a segnalarvi, per darvi una misura dell’importanza del problema, un dato di fatto, un dato numerico, un ordine di grandezza: basta pensare che gli istituti attualmente esistenti e che dovrebbero provvedere alla realizzazione del principio della previdenza, gestiscono somme così rilevanti da avere complessivamente un bilancio che, almeno per quanto riguarda le entrate – le quali costituiscono la parte più importante di un bilancio – se non supera, è addirittura dello stesso ordine di grandezza del bilancio dello Stato.

Tutto questo per sottolineare l’importanza del problema.

Ora, nella Costituzione si doveva parlare di questo problema? Si doveva non parlarne? Penso che se ne doveva forse parlare, ma affermando soltanto un principio di carattere molto generale. Si è invece, attraverso la formulazione del progetto, all’articolo 34, scesi addirittura al dettaglio nella maniera più spicciola; si è arrivati addirittura a stabilire una elencazione di casi che, oltre tutto, a mio avviso, è incompleta.

Ed allora io dico che, se dobbiamo occuparcene, dobbiamo occuparcene con una certa consapevolezza. Si tratta di un problema dibattutissimo e sentito dalla Nazione ed in particolare dalle masse lavoratrici e dobbiamo quindi occuparcene con molto senso di responsabilità e con molta attenzione.

Non farò, in sede di illustrazione di un emendamento, anche per la ristrettezza del tempo concesso, una disquisizione ed un esame approfondito del problema. Mi limiterò soltanto a segnalarne di sfuggita gli aspetti principali.

Ho avuto l’impressione che, con la formulazione dell’articolo 34, in definitiva, si cristallizzi un poco la situazione attuale, si pensi di restare sulla strada sulla quale si è camminato finora, con tutti i guai, gl’inconvenienti e le storture che chiunque ormai conosce, e su cui ritengo superfluo soffermarmi. Mi basti accennare a due aspetti fondamentali dell’attuale ordinamento della materia: quello che si riferisce alla complessità della organizzazione, del meccanismo della previdenza e quello che si riferisce alla insufficienza dell’attuale ordinamento.

Circa la complessità non c’è da spendere molte parole. Io credo che pochi fra noi siano assolutamente all’oscuro del problema e quindi penso che ognuno abbia avuto, bene o male, occasione di rendersi conto della questione e di fare questa prima constatazione circa la complessità farraginosa dell’ordinamento. Basta pensare al sistema delle marche, delle denunzie, delle controdenunzie, dei libri paga, ecc., per cui ad un certo momento non si capisce più che cosa bisogna fare e dove si vuole arrivare, per cui ad un certo momento lo stesso lavoratore finisce per avere la sensazione che non si tratti di qualche cosa che lo riguardi, ma che sia una delle tante imposizioni, una specie di sfruttamento al quale egli deve sottostare. Paga e basta. Una riprova di questa mia affermazione, la troviamo nella mole enorme di evasioni che sono la dimostrazione del difetto del sistema, evasioni che, (non è azzardato dirlo) il più delle volte avvengono purtroppo colla complicità che si stabilisce tra il datore di lavoro e lo stesso lavoratore, che finisce per diventare alleato del datore di lavoro inadempiente. Questa è la dimostrazione, a mio avviso, più evidente e più chiara dell’affermazione che ho fatta e della assoluta inefficienza del sistema. Per quel che riguarda l’insufficienza, l’altro aspetto importante a cui accennavo, basterebbe dare una scorsa rapidissima ai vari settori della previdenza in genere e cominciare a guardare quello degli infortunî: esso è ancora il settore che copre tecnicamente gli infortuni soltanto avvenuti sul lavoro: per cui l’operaio che si rompe le gambe andando a lavorare in bicicletta trova le porte dell’Istituto chiuse e non è, naturalmente, indennizzato. Basta pensare, per esempio – non voglio dilungarmi, in questa elencazione – alla questione dell’invalidità, di pertinenza dell’Istituto della previdenza sociale, congegnata in modo tale per cui l’indennizzo è commisurato ai contributi versati e per cui si arriva a questo paradosso: l’operaio che nei primi anni diventi invalido, finisce per avere una pensione irrisoria proprio nel caso in cui, per la sua giovane età, avrebbe invece bisogno di essere maggiormente e più sostanziosamente assistito. Basta pensare alle pensioni di vecchiaia che grondano lacrime: sappiamo che cosa sono queste pensioni: sappiamo le cifre irrisorie, ridicole, oltraggiose per i nostri operai, delle pensioni di vecchiaia che, nel migliore dei casi, quando tutto quel meccanismo di marche e marchette funziona, si realizzano a 60 anni, quando, purtroppo, l’operaio è sulla via della tomba. Perché la vecchiaia dell’operaio è, purtroppo, assai breve.

Basta pensare al famoso istituto delle malattie: vi erano le casse mutue; poi si è avuto un istituto, un ente mastodontico con mille limitazioni, mille restrizioni, mille complicazioni burocratiche. Basti pensare, a conclusione di questa rapidissima scorsa critica, che, per esempio, non vi è ancora per i nostri lavoratori l’assicurazione sulla vita; il caso di morte rientra soltanto in quei particolari casi in cui la morte avviene in conseguenza di determinate condizioni di lavoro. Condizioni dunque di assoluta insufficienza.

Se vogliamo occuparci del problema, dobbiamo pensare, desiderare e volere che si faccia qualche cosa di più concreto dal punto di vista sociale e dal punto di vista umano.

Quindi necessità di riforma. Quale sarà la riforma? C’è una Commissione che da anni sta studiando. Non so a che punto sia arrivata. Ci sarà una riforma, ma l’importante è che, se dobbiamo parlarne nella Costituzione, dobbiamo soltanto fissare alcune linee direttive della riforma. Non possiamo codificare nella Costituzione le norme particolari di questo problema e della soluzione che vogliamo trovare.

A me pare che l’articolo 34, in un certo senso, chiuda le porte a questa riforma che è ormai auspicata da tutti.

Bisogna invece trovare un sistema più sciolto, più snodato, più rispondente, soprattutto di più pronto intervento.

È inutile che ci sia la possibilità di avere un soccorso, un indennizzo, quando questo indennizzo, per di più insufficiente, arriva dopo mesi o anni, quando cioè non serve più a nulla.

Ci saranno molti problemi da risolvere: la disoccupazione involontaria dovrà essere guardata da un punto di vista assicurativo o da un punto di vista assistenziale? La tubercolosi dovrà essere guardata sotto il profilo assicurativo o sotto il profilo assistenziale?

Da questa rapida e disordinata esposizione vedete che il problema è complesso e grave. Ma quello che vediamo, con certezza, è questo: bisogna rifare tutto o quasi tutto daccapo. Bisogna sburocratizzare questa enorme, mastodontica macchina che si è creata; per cui in Italia, ove già godevamo la delizia di una pesante burocrazia, ne abbiamo ora certamente due delle stesse dimensioni.

Potremo arrivare a mille soluzioni. Nessuno vieta che si pensi per esempio ad una polizza personale. Io non sono un competente in materia assicurativa attuariale, ma ho parlato con i competenti, i quali non hanno escluso questa possibilità.

Potremo pensare ad una polizza che copra tutti i rischi: quello dell’infortunio sul lavoro e fuori del lavoro, della malattia, della invalidità e vecchiaia; una polizza del tipo misto per cui il lavoratore a 45-50 anni possa disporre di un suo gruzzolo per farsi una diversa vita, per lavorare in maniera diversa, data l’età cui è arrivato.

Potremo arrivare a mille soluzioni. E allora ecco la ragione del mio emendamento. Ho voluto soltanto allargare le possibilità, affermare il principio senza scendere eccessivamente al dettaglio, senza porre dei binari troppi rigidi per la materia. Lasciamo la possibilità di studiare e di fare qualche cosa di diverso da quello che è senza cristallizzare l’attuale situazione, come ho l’impressione che si faccia nell’articolo 34.

Il mio emendamento, quindi, è semplicissimo ed è ispirato a questo desiderio ed a questo concetto. Mi sembra poi che sia un poco più organico, più armonico dell’articolo che tende a sostituire. Nel mio emendamento ho pensato che fosse più logico parlare prima della previdenza in genere, che deve essere obbligatoria. Sarebbe ideale poter escludere questa obbligatorietà, ma essa purtroppo è necessaria, per lo meno, fino al giorno in cui la coscienza previdenziale sarà talmente entrata nello spirito dei lavoratori e dei cittadini che l’obbligatorietà non sarà più necessaria.

Quindi, affermazione iniziale di questa necessità della previdenza, intesa nel senso più largo, più ampio. Successivamente, al secondo comma, la previdenza si realizza attraverso certe determinate forme, organi ed istituti; al terzo – ecco perché ho messo al terzo quello che nel progetto è al primo – direi per esclusione si arriva a quei cittadini impossibilitati a lavorare e a procurare i mezzi di sussistenza per sé e per la famiglia, che non possono fare ricorso ai benefici della previdenza e per i quali quindi vi è l’obbligo di intervento da parte dello Stato attraverso l’assistenza.

Al secondo comma ho voluto esplicitamente e tassativamente affermare il principio che questi istituti, di qualunque tipo essi siano, devono essere considerati proprietà dei lavoratori e devono essere da loro direttamente gestiti; non escludendo, naturalmente, l’intervento dello Stato, ma sotto forma di concorso.

Mi permetto di richiamare l’attenzione dell’Assemblea su questa affermazione importante del mio emendamento.

Essa tende anche ad un fine educativo, demolendo la mentalità paternalistica, per cui il lavoratore deve essere sempre protetto e guidato.

Egli invece deve poter provvedere a sé stesso. Lo Stato deve soltanto apprestare i mezzi e garantire la libertà per cui il lavoratore possa accudire a se stesso, senza essere considerato sempre un minorenne posto sotto tutela.

Non bisogna perdere di vista questo fine educativo e sociale, onorevoli colleghi, per cui la redenzione dei lavoratori deve essere soprattutto opera dei lavoratori stessi. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Laconi ha svolto nella seduta di stamane l’emendamento sostitutivo dell’articolo, che ha ora così modificato:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale.

«Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera».

L’onorevole Merighi ha svolto il suo emendamento tendente a trasferire all’articolo 31 il primo comma.

Anche l’onorevole Medi ha svolto la proposta di sopprimere il primo comma, in relazione all’emendamento aggiuntivo proposto come articolo 33-bis.

Gli onorevoli Caso, Coppa e De Maria hanno proposto i seguenti emendamenti:

«Sopprimere il primo comma».

«Al secondo comma, dopo la parola: malattia, aggiungere: generica o professionale».

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«La previdenza e l’assistenza sanitaria sono un obbligo dello Stato, il quale vi provvede con istituti ed organi appositi e col concorso dei contributi dei produttori: l’assistenza sanitaria si baserà, nella scelta del personale e dei liberi esercenti l’arte sanitaria, sul rapporto di merito e di fiducia fra Enti ed assistiti».

Chi dei firmatari intende svolgerli?

DE MARIA. Li svolgerò io.

Riguardo al primo comma, ne chiediamo la soppressione, poiché l’assistenza agli indigenti viene già garantita dall’articolo 26.

Al secondo comma, ove si parla dell’obbligo della società di dare mezzi adeguati per vivere a tutti i lavoratori in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria, proponiamo una specificazione per ciò che riguarda la malattia, aggiungendo le parole «generica o professionale».

L’affermazione di malattia è troppo estensiva in confronto a quella di infortunio, di invalidità, di vecchiaia, di disoccupazione, eventi questi ultimi che hanno configurazione giuridica ben delimitata. È risaputo infatti che l’infortunio è un evento dannoso in rapporto con la violenza ed intensità del trauma derivato a causa del lavoro, l’invalidità è uno stato cronico patologico dell’organismo o la conseguenza di un infortunio che riduce la capacità al lavoro e fa perfino escludere l’individuo dal lavoro stesso, la disoccupazione è uno stato di carenza del lavoro e la vecchiaia è quella che è: potremmo definirla in diversi modi: l’ultimo stadio dello sviluppo fisiologico dell’organismo, la carenza del potere vitale dei suoi organi, delle stesse sue cellule, ecc.

La malattia però (senza una specificazione) potrebbe prestarsi alle più ampie o alle più ristrette applicazioni assicurative tanto più che essa, così come è enunciata al secondo comma, riguarderebbe tutti gli individui sotto l’influenza di un rischio generico.

Noi riteniamo giusto non precludere alcuna possibilità di applicazione, nel campo sociale e della tutela del lavoro, al futuro legislatore e proprio per questo desideriamo indicargli nel campo della medicina assicurativa una duplice via, una che riguarderà le malattie comuni nelle quali sono comprese anche quelle che colpiscono i lavoratori durante il loro lavoro, ma non in modo specifico, e l’altra che comprenderà le malattie professionali, quelle cioè che sono strettamente legate alla quantità, al materiale, al genere e all’ambiente di lavoro. È intuitivo, fin da ora, in base all’esperienza della legge sulle assicurazioni sociali, in quest’ultimo ventennio studiata comparativamente in tutte le nazioni, che il trattamento con indennizzo e con le cure dirette è, e dovrà essere, ben differente per un lavoratore affetto da malattia professionale (cioè colpito per un rischio specifico) da un altro affetto invece da malattia comune, cioè colpito per un rischio generico al quale soggiacciono tutti gli individui indipendentemente dal loro lavoro.

Questa distinzione s’impone, oltre tutto, per cercare anche di tenere, in avvenire, ben distinte le assicurazioni contro le malattie professionali (strettamente connesse alle norme di tutela integrale del lavoro) da un’eventuale e molto discutibile assicurazione obbligatoria contro tutte le malattie.

La onorevole Federici ha accennato anche questa mattina al rischio della donna lavoratrice, particolarmente in funzione alla maternità, in rapporto alle malattie professionali e quanto ha esposto la collega concorda perfettamente con ciò che stiamo esponendo noi.

Al terzo comma abbiamo proposto la seguente formulazione: «La previdenza e l’assistenza sanitaria sono un obbligo dello Stato, il quale vi provvede con istituti ed organi appositi e col concorso prevalente dei contributi dei produttori: l’assistenza sanitaria si baserà, nella scelta del personale e dei liberi esercenti l’arte sanitaria, sul rapporto di merito e di fiducia fra Enti ed assistiti».

Con la prima parte del comma intendiamo voler attribuire il compito assistenziale allo Stato, ma senza gravarlo dell’onere complessivo delle assicurazioni; il quale deve, invece, essere in prevalenza messo a carico dei produttori. È infatti ormai noto ed accettato che l’assistenza fa parte del salario e, quindi, del costo di produzione. Per non rendere, a volte, insopportabile il peso dei costi ai fini della concorrenza, si stabilirà allora la quota integrativa da parte dello Stato.

Con la seconda parte del comma da noi proposta intendiamo ovviare alle gravi deficienze che sono state costantemente lamentate, in tema di assicurazione e di mutualità sanitaria in Italia, ritenendo opportuno di indicare al futuro legislatore la necessità che gli organismi assistenziali sanitari, a parte le garanzie della medicina ficcale, procedano alla scelta del personale in rapporto al merito e alla fiducia, ciò che ha sempre costituito la base granitica del progresso sia della scienza che della pratica della medicina.

Tutti i professionisti sentono vivo il bisogno di godere la fiducia diretta e consapevole degli Enti e degli individui da loro assistiti, come, del pari, gli Enti e gli assicurati sentono il bisogno di scegliere i professionisti in base al merito. Sicché la scelta fatta sul rapporto di merito e di fiducia fra Enti ed assistiti, mentre nulla toglie al prestigio e alla forza organizzativa degli istituti, che si impegnano ad assicurare la previdenza e l’assistenza sociale, aggiunge ad esse quel soffio animatore della solidarietà fra le parti interessate che è una potente leva di progresso spontaneo. Chi ha pratica dell’attività sanitaria mutualistica può confermare, con sicura coscienza, quanta profonda tristezza colpisca l’animo del medico nel sentirsi oggetto di diffidenza e di disprezzo nel momento stesso in cui compie la sua alta opera di umanità.

Per ovviare agli inconvenienti lamentati si impone, dunque, l’obbligo di conciliare le esigenze organizzative su una materia così delicata e complessa quale è l’assistenza sociale, con quelle che riguardano la funzione e il compito medesimo dei medici e della medicina. Perciò proponiamo la nostra formulazione, la quale mira appunto al duplice scopo di consolidare gli istituti di assistenza e di dare al benemerito Corpo sanitario quella fiducia che merita e per cui, esplicando sempre meglio la sua altissima funzione umanitaria, contribuirà forse più di qualsiasi altra classe al miglioramento delle condizioni fisiche e morali del nostro popolo.

PRESIDENTE, L’onorevole Zuccarini ha presentato i seguenti emendamenti:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«L’assistenza nella disoccupazione e nella invalidità del lavoro è un dovere sociale e come tale assolto dalla Repubblica; l’assicurazione sociale è però dovere e diritto di ogni cittadino».

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«All’assistenza e alla previdenza provvedono Istituti promossi e integrati dallo Stato, che costituiranno Enti autonomi democraticamente organizzati. I loro patrimoni contribuiscono a formare un Fondo nazionale destinato alla emancipazione del lavoro».

Ha facoltà di svolgerli.

ZUCCARINI. I due emendamenti all’articolo 34, da me presentati sono strettamente connessi. Noi repubblicani – e ad ogni modo io e moltissimi dei miei amici – abbiamo dell’emancipazione sociale una concezione volontaristica. La società – la Repubblica, se volete – deve in tutti i modi, in tutto ciò che può dipendere da lei, aprire ai lavoratori la via per la loro emancipazione. Ma l’emancipazione dei lavoratori, secondo noi, nelle sue varie tappe, in quella che è la realtà dell’emancipazione stessa, cioè dell’ascensione delle classi lavoratrici, al livello delle classi che oggi son più in alto, deve essere fatta di volontà, di perfezionamento continuato, di sforzo di redenzione, e di capacità, anche, di redenzione. Alla società il lavoratore ha diritto di chiedere tutto, di chiedere cioè che essa gli apra la strada. Ma il lavoratore deve anche sapere che a raggiungere la sua emancipazione egli deve positivamente concorrere; che essa deve essere cioè il risultato di un suo sforzo, di un suo contributo positivo, di una sua partecipazione effettiva. L’opera di elevazione sociale deve essere sopratutto sua.

Ora, a me sembra invece che noi andiamo capovolgendo il concetto stesso dell’emancipazione operaia. Ne stiamo parlando come di una possibilità offerta al potere e agli organi esecutivi dello Stato; creiamo – e credo che in questo si faccia male – una assoluta e illusoria fiducia nello Stato e nelle possibilità dello Stato. E in questo modo creiamo non già una nuova consapevolezza del movimento operaio il quale veda nel suo sviluppo, nel suo perfezionamento, nel suo completamento, il fatto stesso della sua redenzione, ma un’aspettativa da parte dei lavoratori nei miracoli dello Stato, nella provvidenza dello Stato: un diritto nuovo, che, però, è il diritto all’elemosina, non il diritto di chi si sente sullo stesso piano e che vuole quindi sullo stesso piano godere degli stessi diritti. (Applausi a sinistra).

E allora io dico: sì, la società provvede all’assistenza sociale; la società apre all’assistenza sociale tutte le vie; ma il lavoratore deve su questa strada compiere anche lui il suo sforzo, e deve sapere di compierlo.

Purtroppo, che cosa sta avvenendo?

Io guardo la realtà pratica. E quello che ho osservato io stesso, e che possono osservare tutti, è che si è venuto creando e stabilizzando un criterio secondo me pericoloso che è quello della esenzione, anche in materia di assicurazione sociale. È un sistema che ha inaugurato il fascismo con Mussolini, ma è un sistema che si va continuando, e sviluppando, io credo, a detrimento della capacità e della consapevolezza operaia. Questo criterio è – ripeto – quello della esenzione da tutti i tributi. Questa esenzione è una finzione, perché riversando sul datore di lavoro il contributo, in fondo lo si toglie sempre al salario, solo che l’operaio a motivo di tale esenzione, che tuttavia è parte della sua retribuzione effettiva, non ha più la sensazione, e non sente più di contribuire esso stesso al suo miglioramento sociale. (Commenti). Questo è, secondo me, danno gravissimo, per cui dico che si deve tornare ai contributi diretti del lavoratore. Vuol dire che di essi si potrà tener conto nel salario. È in materia di salario che tutte le rivendicazioni sono possibili; e per questa parte quanto mai possibili, giacché il costo per i datori di lavoro è lo stesso. Il lavoratore saprà però anche che è una parte del proprio salario che passa in quegli istituti di beneficenza sociale e che questi non sono organismi di beneficenza dello Stato, ma per il lavoratore costituiscono organismi che hanno vita e possibilità di vita dal suo stesso sforzo e sacrificio. In tal modo si contribuirà al perfezionamento della capacità operaia. La comprensione, da parte degli operai, che la loro emancipazione se la devono costruire da sé, e che sono essi stessi che debbono realizzarla ogni giorno, ponendosi allo stesso grado delle altre classi sociali, è una cosa che non si raggiungerà, se non useremo anche per questo problema il sistema che io suggerisco. Non avremo mai altrimenti una coscienza operaia ed una assoluta parità di classi e categorie. Avremo sempre invece classi differenziate, con uno Stato-provvidenza e di tipo quasi fascista. Creeremo, sì, un capitalismo di Stato, e anche un salariato di Stato. Ma l’emancipazione operaia non ci sarà mai.

Questa mancanza di partecipazione operaia, cioè di non partecipazione dello sforzo operaio al sistema delle assicurazioni, questa mancanza di consapevolezza che si determina nel lavoratore, nel senso che egli non sa e non comprende che lui stesso partecipa coi propri contributi al proprio miglioramento ed alla propria assistenza, determina un’altra situazione, pure essa deplorevole e pregiudizievole alla vita degli istituti che noi andiamo creando per l’assistenza e per l’assicurazione sociale. Si determina verso quegli istituti una strana idea del lavoratore, che non li considera quasi affatto come cosa sua, al cui buon andamento egli sia particolarmente interessato. È inutile quasi che io lo illustri. Essi considerano ora quegli Istituti come cosa che essendo di tutti, tutti abbiano diritto a manomettere. Questo è un dato dell’esperienza. Infatti nelle istituzioni sociali di assistenza o di assicurazione si verificano numerose quelle evasioni che lamentava il mio amico Camangi pochi minuti fa. Ma si determina anche qualche altra cosa: oltre all’evasione anche la falsificazione.

Io partecipo alquanto alla vita operaia ed anche alla vita delle aziende industriali, e potrei dire qualche cosa a questo proposito. Gli operai ignorano in genere che, danneggiando l’istituto, danneggiano anche se stessi, tanto considerano l’istituto come separato da loro. Essi pensano che l’istituto è un Ente a sé, a cui deve pensare lo Stato o che ci sarà sempre. Anche per questo, anzi soprattutto per questo, si determinano duplicazioni e falsificazioni, relative ad alcune forme di assistenza, che qui non starò a indicare, ma che tutti sappiamo e che sanno soprattutto gli operai (i quali molte volte se ne servono) ed i datori di lavoro, che lasciano correre appunto perché in fondo anche essi pensano che la materia non li riguardi eccessivamente.

Ecco la ragione per la quale ho proposto quel mio primo emendamento. Il principio che in esso si afferma, quando, dopo che si è detto che «l’assistenza nella disoccupazione e nella invalidità del lavoro è un dovere sociale e come tale assolto gialla Repubblica», si aggiunge che «l’assicurazione sociale è però dovere e diritto di ogni cittadino», è un principio, che deve essere esteso, secondo me, oltre che per quel che si riferisce ai contributi alle istituzioni sociali, anche a tutti i contributi e agli oneri dello Stato. Bisogna abbandonare il criterio che vi possano essere dei cittadini esenti da contributi verso lo Stato, e quindi verso la società e le istituzioni della società, ciò è profondamente ingiusto. Infatti, laddove si creano le esenzioni, ad esempio, per le imposte dirette e si tolgono queste ultime, si moltiplicano poi quelle indirette, che cadono, in ragione proporzionale inversa, sui lavoratori! Bisogna quindi ritornare alla precisazione delle cose. Se vogliamo veramente un proletariato il quale si interessi ai problemi dell’assistenza sociale ed anche a tutti i problemi dello Stato, credo che si debba ristabilire questo concetto, che è fondamentale per la democrazia, cioè che tutti i cittadini partecipano, in misura maggiore o minore, ma partecipano tutti, ai contributi per la vita dello Stato e delle istituzioni dello Stato. Solo in tal modo il lavoratore, sapendo che egli pure partecipa a quelle spese, si sentirà parte effettiva della società e interessato direttamente al suo buon andamento e noi creeremo nella società un proletariato cosciente. Avremo cioè cittadini i quali non guarderanno più allo Stato come ad un distributore di beni, sempre capace di una maggiore distribuzione, ma come ad un organismo che appartiene loro, e che pertanto deve da tutti essere curato nel migliore dei modi.

Questo per quanto riguarda la prima parte del mio emendamento. Ritengo che il principio contenuto in questa parte abbia una grande importanza nella Costituzione, e sia, anzi, un principio costituzionale che deve essere affermato. Purtroppo, invece di preoccuparci di affermare principî costituzionali, che dopo il legislatore dovrà sviluppare, ci preoccupiamo di stabilire qui la legislazione da fare, prima ancora di averne affermati i principî. È in questo modo che facciamo qua dentro tante discussioni che sarebbero perfettamente inutili. Questo è detto semplicemente per incidenza.

Passo al secondo emendamento da me presentato all’articolo 34. Il mio emendamento propone di sostituire il terzo comma dell’articolo del progetto con il seguente:

«All’assistenza e alla previdenza provvedono Istituti promossi e integrati dallo Stato, che costituiranno enti autonomi democraticamente organizzati. I loro patrimoni contribuiscono a formare un fondo nazionale destinato alla emancipazione del lavoro».

Desidero che i colleghi prestino la dovuta attenzione a questo secondo emendamento, che introduce nella Costituzione un altro principio, che ha grande importanza e che si riallaccia alle considerazioni che ho fatto nei riguardi della prima parte. Gli Istituti di previdenza attualmente lasciano molto a desiderare. Essi vennero, se non iniziati, certamente sviluppati con questa preoccupazione: che, più che all’assistenza dei lavoratori, servissero allo Stato. Questo è avvenuto anche per l’Istituto Nazionale delle Assicurazioni. Quando l’onorevole Nitti se ne fece un propugnatore, egli non si proponeva affatto, come disse tempo addietro, di iniziare una nuova era nella legislazione sociale, ma lo fece unicamente per una preoccupazione finanziaria, nei riguardi dello Stato. Questi Istituti furono infatti potenziati, sviluppati e burocratizzati dal fascismo, specialmente allo scopo di mettere a disposizione dello Stato una maggiore quantità di capitali. Ed ebbero questa sorte: che, mentre attraverso i contributi erano riusciti a formare dei capitali imponenti che, se fossero stati utilizzati bene, avrebbero oggi rappresentato qualche cosa, la loro capitalizzazione fu fatta in titoli di Stato, e così a un certo momento l’immenso capitale, che sarebbe dovuto restare di proprietà dei lavoratori, è andato in fumo.

Gli Istituti previdenziali in Italia sono oggi tutti in una situazione fallimentare. Gli immensi capitali che potevano restare mantenuti ai valori attuali ove si fossero investiti in beni reali, sono stati completamente annullati. Oggi la previdenza deve fare conto su sé stessa, vivere giorno per giorno sui contributi diretti, perché non ha riserve né ha – per ora almeno – la possibilità di costituirle. Ad ogni modo sono diventati organi straordinariamente burocratici, come disse già l’amico Camangi. Io non voglio entrare nel dettaglio, perché queste cose sono oramai a conoscenza di tutti; comunque questi Istituti costano dieci volte più di ciò che rendono: alcuni consumano tra personale, carte, servizi tecnici, ecc. la parte maggiore delle loro entrate e soltanto una piccola parte, sì e no la decima, va per l’assistenza. Vi sono stati, localmente, casi in cui i lavoratori stessi sono insorti di fronte alle deficienze del servizio di assistenza, specialmente in caso di malattia, ed hanno preferito di costituire la loro mutua autonoma che funziona magnificamente ed ha realizzato in poco tempo diverse centinaia di migliaia di lire, dimostrando di saper fare da loro e che l’iniziativa privata in certi casi sa fare quello che non sa fare l’iniziativa di Stato. (Applausi). Ciò serva di ammonimento per i molti ammiratori fanatici della ingerenza dello Stato in tutte le faccende. Non c’è un caso solo, nella storia presente e lontana, in cui lo Stato abbia saputo compiere utilmente per la società la propria funzione; e perciò nelle pianificazioni sostenute con tanto calore dagli amici di sinistra, io penso che ci siano due vie da seguire…

PRESIDENTE. Onorevole Zuccarini, questo argomento è stato già largamente illustrato.

ZUCCARINI. Onorevole Presidente, io non ho nessuna intenzione di ripetere discussioni già fatte; è stato solo un inciso che si riferiva appunto al funzionamento di questi enti, i quali, in quanto vivono dei contributi dei lavoratori, anche se oggi apparentemente sono contributi dei datori di lavoro – ma che io vorrei ritornassero contributi dei lavoratori, anzi, aperti ad una partecipazione ancora più larga dei lavoratori – potranno dare sì un minimo di assistenza, ma potranno darne uno assai maggiore se i lavoratori sentiranno lo stimolo di aumentare volontariamente il loro sforzo di assicurazione sociale (Commenti a sinistra), per ottenere da quegli stessi istituti un maggiore e più consistente numero di benefici.

Bisognerà poi – e questa pure è una necessità urgente – consacrare il principio che questi istituti debbono essere sganciati dalla politica economica dello Stato, la quale può essere anche disastrosa: non possiamo infatti legare le sorti dei lavoratori ad una politica che può essere quella che stiamo vedendo e che è dannosa e, in ogni modo, deficitaria. Occorre che questi istituti si governino autonomamente, e conservino i loro capitali fuori dello Stato e senza soggiacere alle imposizioni dello Stato. I loro capitali non devono servire allo Stato, ma ai lavoratori stessi e – lasciatemi dire un’altra cosa – le istituzioni devono essere decentrate e governate dagli interessati stessi. Vogliamo cioè che questi enti si governino in modo, autonomo e che coloro che ne ricevono i benefici possano controllarne e dirigerne tutta l’attività.

Solamente in tal modo noi avremo creato istituzioni sociali veramente utili alla Nazione ed avremo veramente contribuito all’emancipazione del lavoro. Sì, perché questi enti devono essere anche strumenti di emancipazione del lavoro. Io li vedo così. Vedo uno sforzo del lavoratore che paga per la sua assistenza, e con questo compie anche uno sforzo per la sua emancipazione. Quei capitali dovranno servire non già per sanare le deficienze del servizio di cassa dello Stato o per aumentarne le disponibilità liquide, ma devono servire per i lavoratori stessi e costituire (ecco un’altra idea che sembrerà peregrina e forse strana, ma che rappresenta, onorevole Maffi, una idea di realizzazione sociale) se non per la totalità, per una parte, un fondo del lavoro destinato al lavoro, cioè all’emancipazione del lavoro.

Dobbiamo mettere in mano dei lavoratori le organizzazioni del lavoro, non solamente per l’assistenza, ma anche per la cooperazione, per la produzione, per l’emancipazione del lavoro. Dobbiamo mettere a disposizione dei lavoratori i mezzi necessari, e in parte essi possono trovarli proprio in quel fondo che, pur dando agli istituti d’assistenza la possibilità di provvedere alla propria capitalizzazione, potrà altresì servire per la costruzione di edifici operai per le classi lavoratrici, potrà servire ad alimentare il capitale azionario di determinate aziende dove i lavoratori vogliono partecipare alla gestione delle aziende stesse; divenire insomma, in varie forme e modi d’investimento, uno strumento di emancipazione.

Ed è in questo senso, richiamandomi a una idea che fu di Giuseppe Mazzini, che io auspico la costituzione di un Fondo nazionale del lavoro destinato al lavoro e che dovrebbe essere alimentato dallo sforzo e dalla capacità di risparmio dei lavoratori. Anche la previdenza e l’assicurazione sociale sono una forma di risparmio operaio e possono contribuire a questo scopo. Dal momento che noi siamo già molto innanzi nel campo delle previdenze e delle assistenze sociali, dico: approfittiamo di questo orientamento della vita economica e della vita sociale; approfittiamo di quelle che sono le nuove tendenze e le nuove realizzazioni, di quello spirito di iniziativa che i partiti hanno già saputo stimolare, mettendo così, a vantaggio delle realizzazioni più lontane, lo sforzo, la capacità, le possibilità attuali del lavoro, per la creazione di un fondo che serva ai lavoratori per andare innanzi verso quella emancipazione sociale che è nei desiderî e nelle aspirazioni di tutti. Soltanto l’emancipazione operaia sarà la libertà vera dei cittadini. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Rodinò Mario, Valenti, Colitto:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica si assume la educazione e rieducazione professionale dei cittadini non abbienti, inabili e minorati, proteggendo con speciali leggi il loro diritto al lavoro, e provvede al mantenimento ed all’assistenza sociale di quelli di essi che risultano colpiti da incapacità assoluta fisica e mentale».

L’onorevole Rodinò Mario ha facoltà di svolgerlo.

RODINÒ MARIO. Onorevoli colleghi, il primo comma dell’articolo 34, nel testo proposto dalla Commissione, stabilisce che:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale».

Il nostro emendamento mira a sostituire a questo primo comma una dizione diversa:

«La Repubblica si assume la educazione e rieducazione professionale dei cittadini non abbienti, inabili e minorati, proteggendo con speciali leggi il loro diritto al lavoro, e provvede al mantenimento ed all’assistenza sociale di quelli di essi che risultano colpiti da incapacità assoluta fisica o mentale».

Non mi dilungherò ad illustrare questo emendamento perché mi sembra che esso, nella sua enunciazione, debba già parlare al cuore e al senno dell’Assemblea. Nessuno di noi ignora infatti quale massa rilevante e preoccupante costituiscano gli inabili, gli invalidi, i ciechi, i minorati per causa di guerra o per altre cause; e nessuno di noi ignora l’ansia e l’aspirazione di questa massa tormentata e dolorante, alla quale l’emendamento stesso mira a fornire qualche cosa di più e qualche cosa di meglio di quello che non si proponga il testo dell’articolo della Commissione.

Il primo comma dell’articolo 34 si limita, infatti, ad assicurare a questa massa di infelici il diritto di non morire di inedia: il nostro emendamento mira ad assicurare loro il diritto di vivere e, nonostante le loro minori possibilità, di amare ancora la vita.

Il decidere se lo Stato debba assumersi o meno l’obbligo e il compito di provvedere alla rieducazione professionale e all’istruzione e all’avviamento di tutti i cittadini minorati inabili che risultino non abbienti e rieducabili, provvedendo altresì alla loro utilizzazione in posti idonei alle loro capacità di lavoro, non è soltanto un problema sociale, un problema di solidarietà e di fratellanza umana, ma è anche un problema economico.

È, infatti, evidente il vantaggio economico dello Stato, di trasformare, attraverso cure sanitarie, forniture di apparecchi di protesi e speciali corsi di istruzione e rieducazione, in energie produttive una parte di quei pesi morti di cui l’articolo 34 intende senz’altro assumersi l’onere; recuperando, così, nell’interesse della società, tanti sventurati ad una funzione attiva e proficua, e ad una forma di vita più consona e più soddisfacente alla loro dignità e al loro legittimo desiderio di sentirsi ancora utili e producenti.

Anche in relazione alla lettera ed allo spirito dell’articolo 31, che abbiamo già approvato e che prescrive che ogni cittadino debba svolgere conformemente alle proprie possibilità un’attività ed una funzione che concorra allo sviluppo materiale e spirituale della società, è giusto che il primo comma dell’articolo 34 proposto dalla Commissione debba intendersi limitato soltanto a quei cittadini che risultano per totale incapacità fisica o mentale, definitivamente inabili al lavoro.

L’Italia, in questo campo, ha già dato prova di essere all’avanguardia e la legge del marzo 1917, istitutiva dell’Opera nazionale invalidi, e la legge del 1921 per il collocamento obbligatorio degli invalidi di guerra, dovuta all’eminente collega Labriola, che allora era Ministro del lavoro, già hanno stabilito che lo Stato, in caso di inabilità, provvede, in linea di principio, a rieducare l’inabile e a garantirgli il lavoro, e solo in linea subordinata ed integrativa, a fornirgli la pensione e gli assegni necessari.

Questi provvedimenti presi al termine della guerra 1915-18 permisero il rientro nel circolo produttivo di mutilati, di ciechi di guerra ed invalidi, ottenendo altresì il risultato di rendere enormemente più basso l’onere delle pensioni di guerra in Italia, in confronto a quello di altri Paesi, come per esempio la Francia, e di procurare alla Nazione l’apporto del lavoro di decine di migliaia di mutilati e infortunati, cioè l’apporto di molte centinaia di milioni all’anno, in ogni caso largamente compensativi delle spese occorse alla loro riabilitazione.

In dipendenza di quanto ho brevemente esposto, mi auguro che l’Assemblea voglia dar prova di comprensione verso l’infelicità di tanti nostri fratelli e voglia votare l’emendamento che, con i colleghi Valenti e Colitto, mi sono onorato di proporre. (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Mazzei e La Malfa:

«Al primo comma, sopprimere le parole: al mantenimento ed».

L’onorevole Mazzei ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

MAZZEI. Onorevoli colleghi, poche osservazioni rapidissime.

L’articolo 34 dice: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita, ha diritto al mantenimento ed alla assistenza sociale».

Io ho proposto che siano tolte le parole «al mantenimento ed». Se si ipotizza un diritto all’assistenza sociale e lo si afferma nella Costituzione, evidentemente si intende che tutti i cittadini abbiano diritto al complesso delle provvidenze che lo Stato pone in azione per venire incontro a tutte le varie forme di carenza della capacità lavorativa degli individui per invalidità, vecchiaia, infortuni, ecc. È chiaro allora che la formula «diritto all’assistenza sociale» include tutte le possibili provvidenze assistenziali. Se, viceversa si afferma un «diritto al mantenimento», come separato dal diritto all’assistenza ed aggiunto ad esso, sembrerebbe che lo Stato volesse assumere rispetto ai cittadini un impegno aggiuntivo oltre agli impegni già presi con il complesso degli oneri assistenziali, del resto già in atto, come risulta dalla vasta legislazione in materia.

D’altra parte, il mantenimento dei cittadini inabili al lavoro per invalidità, vecchiaia od altro, evidentemente – come vero e proprio mantenimento – non può che andare a carico della famiglia, non già dello Stato. Sono i parenti, i prossimi congiunti del cittadino inabile che devono provvedere a mantenerlo. Lo Stato ha il dovere dell’assistenza e l’assistenza ha una serie di gradi. Può essere più o meno intensa a seconda dei casi e solo in qualche caso giunge a quella intensità per cui si può dire che lo Stato mantiene gli inabili al lavoro. Ma – capirete – formulare sic et simpliciter un «diritto ad essere mantenuti dallo Stato», mi sembra veramente un po’ troppo. Ciò non è possibile, sia per ragioni formali di tecnica giuridica, sia perché in sostanza il mantenere gl’individui inabili non si saprebbe poi dove precisamente si fermi e quale onere importi per lo Stato, che di oneri ne ha fin troppi.

Noi riteniamo invece che lo Stato repubblicano (questo Stato repubblicano ancora gracile) debba assumere solo gli impegni che può effettivamente mantenere; e poiché gli organismi assistenziali e previdenziali italiani sono sufficientemente sviluppati e (con le opportune correzioni e modifiche nel senso che ha or ora indicato l’onorevole Zuccarini) potrebbero efficacemente provvedere ad andare incontro ai bisogni dei cittadini inabili è evidente che noi non abbiamo bisogno di mettere a carico dello Stato ancora un altro diritto del cittadino. Che, oltre tutto, sarebbe uno stranissimo diritto, il diritto ad essere mantenuti dallo Stato!

Per queste ragioni ritengo che debbano essere abolite la parola «al mantenimento ed» e debba essere limitata l’espressione alla corretta formula del «diritto all’assistenza» che include tutto il complesso delle provvidenze assistenziali in senso stretto e previdenziali.

PRESIDENTE. L’onorevole Puoti ha già svolto, nella seduta antimeridiana, due emendamenti soppressivi del secondo e del terzo comma, mantenendo soltanto quest’ultimo.

L’onorevole Foa ha dichiarato nella seduta di stamane di ritirare i due emendamenti proposti al secondo e al terzo comma.

L’onorevole Gabrieli ha proposto di sostituire il terzo comma col seguente: «All’assistenza e previdenza provvedono, con integrazione dello Stato, istituti ed organi regolati dalla legge».

Questo emendamento verrà svolto, per l’onorevole Gabrieli, dall’onorevole Condorelli. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Onorevoli colleghi, questo emendamento soccorre alle esigenze che ha messo in evidenza con tanta chiarezza l’onorevole Zuccarini nel suo intervento di pochi minuti fa.

In verità, ormai una lunga esperienza ci ha dimostrato come tutto questo apparato dell’assistenza e della previdenza sia indubbiamente gravosissimo.

È un dovere sociale sul quale siamo tutti d’accordo. Alla luce del secolo XX, evidentemente, non c’è nessuno che non intenda la necessità di una organizzazione sempre migliore dell’assistenza e della previdenza. Ma proprio perché si vuole una organizzazione sempre migliore non si vorrebbe cristallizzare in una formula statutaria l’organizzazione attuale che certamente – stando ai risultati – non pare che sia la migliore. Infatti, essa è costosa per lo Stato, e per le classi lavoratrici, preme sulla produzione accrescendone i costi e non pare che soccorra sufficientemente i lavoratori. Si sono fatti i calcoli approssimativi: pare che il 52 per cento (altri dicono il 58 per cento) della mercede dei lavoratori si spenda per queste forme di assistenza. Ci sarebbe da domandarsi se i lavoratori, economizzando questo 58 per cento, alla fine della loro carriera di lavoro non si troverebbero probabilmente con un patrimonio che avrebbe potuto anche trasformare la loro posizione economica.

Intanto la verità è proprio questa: il 58 per cento di quello che percepisce oggi un lavoratore va per queste forme di assistenza e di previdenza, dalle quali non sappiamo se il lavoratore trae un adeguato vantaggio.

Peraltro esse sono costosissime e le ragioni dell’altezza del costo dipendono proprio dall’organizzazione statale o parastatale.

Non sono stati pubblicati da molti anni i bilanci dell’Istituto di previdenza sociale e di quello delle malattie, ma si dice da tutti coloro che se ne intendono che la situazione non è tranquillizzante. Si conoscono invece i bilanci dell’Istituto infortuni. Sono stati pubblicati quelli del 1945. Il costo di gestione è del 30 per cento, il che vuol dire che se si danno 100 lire ad un operaio, 30 lire si perdono in carte, inchiostro, spese di uffici ecc. Ma se in Italia è questa la situazione non pare che in altre Nazioni la situazione sia di gran lunga diversa. Questi costi si aggirano in Francia, in Svizzera ed in Russia sul 20 per cento.

La situazione è tale che il nostro legislatore si è preoccupato, e so che è in corso di pubblicazione un provvedimento legislativo col quale si demanda ad una Commissione lo studio del riordinamento o addirittura della riforma di questa impalcatura assistenziale e previdenziale, al duplice scopo, evidentemente, di renderla meno costosa, nell’interesse prima di tutto dei lavoratori, che è giusto che traggano il maggior vantaggio da tutto quello che si trattiene direttamente o indirettamente dal loro lavoro, e di trovare delle forme più economiche che incidano meno sul costo di produzione. Invero, quando noi constatiamo che il costo di produzione, il costo del lavoro, viene aumentato di oltre un terzo, dobbiamo pensare che questa bardatura ci pone in una situazione di inferiorità nei confronti degli altri Paesi nel campo delle esportazioni e delle competizioni commerciali internazionali.

È un problema assai grave e noi, al solito, lo decidiamo con una norma della Costituzione che dovrebbe fissare questo sistema che certamente non è l’ideale e non è quello che noi pensiamo di regalare per tutti i tempi ai nostri lavoratori ed alla nostra politica economica.

Ma allora facciamo quello che si fa in una Costituzione: parliamone in generale. Noi non sappiamo che cosa risponderà la nominanda Commissione di studio o che cosa potranno trovare fra poco tempo i nostri economisti e i nostri legislatori. Ma davvero dobbiamo rinunziare per sempre all’idea, per esempio, di una mutualità operaia? Oppure all’attribuire ai sindacati stessi l’esercizio dell’assistenza e della previdenza, senza creare di questi carrozzoni burocratici che con la organizzazione esauriscono gran parte dei fondi destinati all’assistenza?

Certamente in questa discussione noi non possiamo dire quali saranno le soluzioni avvenire, ma se ne prospettano molte: la mutualità, i contratti normali di assicurazione potrebbero essere anche più economici e vantaggiosi, come pure l’attribuzione agli stessi sindacati di questa funzione. Tutte queste ragioni, proprio nell’interesse delle classi lavoratrici e nell’interesse della produzione, devono renderci molto cauti. Invece di imprimere nella nostra Costituzione una norma che stabilisca la perpetuazione del sistema attuale, usiamo una formula più vasta che renda possibile le migliori formule future.

PRESIDENTE. L’onorevole Terranova ha già svolto il seguente emendamento:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti od integrati dallo Stato, il quale peraltro favorisce le sane iniziative della privata beneficenza».

È stato anche svolto l’emendamento degli onorevoli Medi e Federici Maria tendente a sostituire il terzo comma col seguente:

«Lo Stato promuove e favorisce l’assistenza e la previdenza sociale».

L’onorevole Cappelletti, unitamente all’onorevole Rumor, ha presentato il seguente emendamento:

«Al terzo comma, alle parole: predisposti ed integrati, sostituire: predisposti od integrati».

Ha facoltà di svolgerlo.

CAPPELLETTI. Siccome l’emendamento da noi proposto è stato accolto dall’emendamento Laconi, noi ritiriamo senz’altro il nostro emendamento.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Mazzei e La Malfa hanno proposto di sopprimere, al terzo comma, le parole: «ed integrati».

L’onorevole Mazzei ha facoltà di svolgere l’emendamento.

MAZZEI. Rinunzio a svolgerlo.

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto ha già svolto il seguente emendamento:

«Aggiungere i seguenti due commi:

«La Repubblica assume la educazione, rieducazione e l’avviamento professionale dei cittadini inabili e minorati, proteggendo con speciali leggi il loro diritto e collocamento al lavoro.

«Provvede al mantenimento ed all’assistenza sociale di quelli di essi che risultano colpiti da incapacità assoluta e permanente fisica o mentale».

Sono stati così svolti tutti gli emendamenti. Prego l’onorevole Ghidini di esprimere su di essi il parere della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non vorrei apparire poco deferente verso gli onorevoli colleghi che hanno così degnamente illustrato i loro emendamenti, ma sarò molto breve nel rispondere. Trovo che le discussioni di questo pomeriggio sull’articolo 34 sono state interessanti e qua e là costellate di considerazioni alle quali possiamo aderire. Ma penso altresì che siamo almeno pel 90 per cento al di fuori del tema preciso che ci è proposto e oltre le esigenze di una Carta costituzionale. È questa la ragione per cui non risponderò in modo particolare a tutti coloro che hanno illustrato i loro emendamenti, ma globalmente a molti di essi. Mi soffermerò in modo particolare su quegli emendamenti che importano una innovazione sostanziale all’articolo 34, com’è proposto dalla Commissione.

A mio parere gli emendamenti che modificano nella sostanza il testo della Commissione si riducono a tre. C’è il 33-bis dell’onorevole Medi che dovrebbe ora sostituire l’articolo 34. Suona così: «Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza». Questo 33-bis dell’onorevole Medi, che da aggiuntivo viene trasformato in emendamento sostitutivo dell’articolo 34, ha di particolare che parla di «ogni cittadino» mentre l’articolo 34 proposto dalla Commissione parla di «ogni cittadino inabile al lavoro». C’è una differenza: è più ampio. Ma questa maggiore ampiezza è in contrasto collo spirito e coll’oggetto della disposizione. Il Titolo III è il titolo «Lavoro».

Quindi, se è vero che dobbiamo rimanere nel tema, non possiamo accettare la modificazione proposta dall’onorevole Medi. Essa è tale da cagionare fin d’ora delle incertezze di interpretazione, che avrebbero delle ripercussioni inevitabili nella legislazione ordinaria che dovrà inspirarsi alla Costituzione.

Un altro emendamento, che incide nella sostanza, è quello dell’onorevole Colitto.

La formulazione da lui proposta in sostituzione del testo, fondendo in unico articolo l’assistenza e la previdenza, per ciò solo merita, secondo noi, di non essere accolta:

Egli propone: «Chiunque si trovi, senza sua colpa – per età, malattia, condizioni fisiche e mentali, congiunture economiche generali – nella incapacità di lavorare, ha diritto di avere assicurati dalla collettività i mezzi di sussistenza».

Non so immaginare, come l’età si colleghi al concetto di colpa; le malattie, raramente; come pure le condizioni fisiche e mentali.

Ad ogni modo, questo inciso «senza sua colpa» è inaccettabile. Basti pensare alla indagine, spesso diabolica, che si dovrebbe compiere ogni volta per stabilire se ci sia stata o non ci sia stata una colpa. Ma, a parte questa considerazione, anche quando il lavoratore venga a trovarsi, per sua colpa, in condizione di incapacità al lavoro, non per questo egli perde il diritto alla vita.

Ci può essere stata colpa, anche solo nel senso d’imprudenza, negligenza, errore di calcolo ecc.; e non per questo credo che sia nell’animo gentile e umano del valoroso collega onorevole Colitto l’intendimento di gettare sul lastrico il lavoratore, che si venga a trovare nelle condizioni di invalidità.

Basterebbe, per me, questo rilievo per concludere che l’emendamento deve essere respinto.

Anche l’emendamento Mazzei tocca la sostanza del testo; propone di togliere la parola «mantenimento».

Veramente, al primo momento, avevo compreso che egli ritenesse che il «mantenimento» fosse già incluso nel concetto di assistenza e, se così fosse, non ci sarebbe una ragione seria per eliminare la parola «mantenimento». Infatti, se è vero che più volte la Commissione ha sostenuto l’inutilità di ripetere un concetto già compreso in una dizione più ampia, è anche vero che, quando si tratta d’una specificazione che attiene ad un diritto così fondamentale, come il diritto alla vita, è bene evitare qualunque possibilità di interpretazioni eccessivamente restrittive.

Questa sarebbe stata la risposta che avrei dato all’onorevole Mazzei, se dopo non mi fossi dovuto ricredere quando, nell’ultima parte del suo discorso, ha fatto comprendere com’egli intenda sottrarre lo Stato al più grave contributo del «mantenimento».

La Commissione, invece, ha creduto di porre questo obbligo del mantenimento (il quale potrà essere ridotto, anche al puro necessario), appunto perché si tratta del diritto alla vita, del diritto fondamentale, di un bisogno insopprimibile.

Per questa ragione la Commissione conferma il testo. L’ultimo degli emendamenti che tocca la sostanza, è stato proposto dagli onorevoli Rodinò, Valenti e Colitto. Si tratta di sostituire il primo comma (quello cioè che riguarda l’assistenza), colla seguente formulazione: «La Repubblica si assume la educazione e rieducazione professionale dei cittadini non abbienti, inabili e minorati, proteggendo con speciali leggi il loro diritto al lavoro, e provvede al mantenimento ed all’assistenza sociale di quelli di essi che risultano colpiti da incapacità assoluta fisica o mentale».

Sono due le parti che costituiscono questo articolo complesso. Osservo che l’ultima parte possiamo già ritenerla compresa nella prima parte dell’articolo 34. Invece per la prima parte noi accediamo all’emendamento Laconi e altri, che esprime, con parole diverse, lo stesso concetto dell’emendamento proposto dagli onorevoli Rodinò, Valenti e Colitto.

Queste sono le osservazioni che la Commissione mi dà incarico di esporre all’Assemblea.

Noi intendiamo, con la formulazione dell’articolo 34, di mettere in luce la differenza che corre fra «assistenza» e «previdenza», nonché di stabilire il campo entro il quale si debbano attuare le due provvidenze.

Vogliamo anche stabilire chi siano i titolari sia del diritto all’assistenza e alla previdenza, che dell’obbligo correlativo.

Abbiamo poi completato l’articolo perché effettivamente vi era una deficienza. Lo abbiamo anche modificato aderendo così all’emendamento che aveva presentato l’onorevole Foa, richiedendo la soppressione dell’inciso: «in ragione del lavoro che prestano». Così modificato, con la soppressione parziale, richiesta dall’onorevole Foa, e con la integrazione suggerita dagli emendamenti proposti dagli onorevoli Laconi, Cevolotto ed altri e dagli onorevoli Rodinò, Valenti e Colitto crediamo di avere composto un articolo che risponde in modo completo al principio di giustizia che si è voluto fissare nella Carta costituzionale.

In merito agli altri emendamenti proposti dagli onorevoli Zuccarini, Caso, Merighi, Carmagnola ecc. rispondo in blocco osservando che gli stessi mirano a stabilire le modalità o la procedura attraverso le quali si dovranno attuare l’assistenza e la previdenza. La Commissione non contesta la serietà delle proposte contenute in tali emendamenti, ma nega che possano essere incluse nella Costituzione. Questa si deve limitare alla consacrazione dei principî fondamentali che dovranno inspirare la legislazione ordinaria; le modalità e la procedura saranno invece regolate da leggi speciali.

È vero che l’Assemblea ha già approvato disposizioni che derogano a questa concezione della Costituzione come nel caso dell’articolo 8, che include disposti del Codice di procedura penale e degli articoli 10, 11 ecc. che richiamano precetti della legge di pubblica sicurezza; ma la deroga era autorizzata dalla speciale importanza di tali precetti. Se poi tali deroghe fossero state un errore, come pensa taluno, l’insistervi sarebbe imperdonabile.

Concludendo, il testo dell’articolo 34 sarebbe, accettando la formulazione degli onorevoli Laconì ed altri, il seguente:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera».

Un collega ha mosso all’articolo l’appunto che il secondo comma contiene una elencazione che può non comprendere tutti i casi in cui sia necessario il soccorso della previdenza.

Non sono di questo parere, perché, se anche fosse possibile considerare incompleta la casistica rappresentata dalle parole «infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia», l’ultima frase «disoccupazione involontaria» è così ampia da comprendere tutti i casi immaginabili.

Sull’aggiunta tratta dall’emendamento Laconi: «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale», rilevo che abbiamo tolto la parola «rieducazione», perché nel concetto di educazione rientra necessariamente anche quello della rieducazione. L’emendamento dice ancora: «Ai compiti provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera». E questa formulazione l’abbiamo accolta perché non pensiamo che lo Stato debba avere dell’assistenza un monopolio.

Per queste ragioni la Commissione sostanzialmente mantiene l’articolo 34, accettando la nuova formulazione proposta dagli onorevoli Laconi, Cevolotto, Targetti, Moro, Taviani.

PRESIDENTE. Prego gli onorevoli colleghi che hanno presentato emendamenti di dichiarare se intendono mantenerli.

Onorevole Medi, ella ha proposto, in relazione all’emendamento aggiuntivo proposto come articolo 33-bis di sopprimere il primo comma. Mantiene il suo emendamento?

MEDI. Lo mantengo, perché esprime gli stessi concetti esposti dalla Commissione, ma è maggiormente comprensivo di tutte le categorie che rappresentano un mondo di dolore e di miseria, al quale intendiamo andare incontro con senso di cristiana fraternità.

PRESIDENTE. Onorevole Colitto, ella ha proposto di sostituire l’articolo 34 col seguente:

«Chiunque si trovi senza sua colpa – per età, malattia, condizioni fisiche o mentali, congiunture economiche generali – nella incapacità di lavorare, ha diritto di avere assicurati dalla collettività mezzi di sussistenza».

Mantiene l’emendamento?

COLITTO. Aderisco all’emendamento dell’onorevole Laconi, meno che per l’ultima parte dell’ultimo comma, per cui mi riservo di chiedere la votazione per separazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Merighi ha presentato con altri il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Il lavoratore ha diritto ad avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie per sé e per la famiglia nei casi di malattia, disoccupazione involontaria, infortunio, invalidità e vecchiaia ed in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione.

«Per raggiungere tali scopi la Repubblica potrà istituire l’assicurazione generale contro le malattie.

«I cittadini i quali per infermità congenita o acquisita sono inabili al lavoro ma possono, con una rieducazione professionale adatta, essere resi idonei ad un particolare lavoro, hanno diritto a tale rieducazione e successiva immissione al lavoro.

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato e coordinati, dal lato tecnico, assieme agli altri Enti sanitari e statali, da un unico organo autonomo e indipendente».

Lo mantiene?

MERIGHI. Debbo mantenere il mio emendamento in cui sono contenuti concetti che non erano espressi nella formula della Commissione, sopratutto perché ritengo che debba essere contemplato il concetto della pensione, eventualmente reversibile. Inoltre penso che la Costituzione potrà promuovere l’assicurazione generale contro le malattie. Questo è un problema che investe gran parte del nostro ordinamento sociale e potrebbe costituire, una volta stabilito, la risoluzione di problemi sui quali oggi autorevoli colleghi hanno discusso, portando critiche anche giustificate. Per questa ragione lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Camangj, ella ha proposto di sostituire l’articolo col seguente:

«La Repubblica promuove la previdenza obbligatoria per i lavoratori come strumento per assicurare i mezzi necessari alla vita loro e delle loro famiglie quando non abbiano la possibilità di procurarli con loro lavoro.

«A tale previdenza provvedono, con l’eventuale concorso dello Stato, organi ed istituti gestiti e controllati dai lavoratori interessati.

«Alla vita dei cittadini che, inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi, non possono far ricorso ai benefici della previdenza, provvede lo Stato con l’assistenza sociale».

Intende mantenere l’emendamento?

CAMANGI. Sono costretto a mantenere il mio emendamento, perché nel testo accettato dalla Commissione non trovo il concetto di previdenza, né la partecipazione dei lavoratori alla gestione degli istituti a ciò creati.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Merighi e Fornara hanno proposto di trasferire all’articolo 31 il primo comma.

L’onorevole Merighi, mantiene l’emendamento?

MERIGHI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole De Maria ha svolto i seguenti emendamenti, presentati con gli onorevoli Coppa e Caso:

«Sopprimere il primo comma».

Al secondo comma, dopo la parola: malattia, aggiungere: generica o professionale».

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«La previdenza e l’assistenza sanitaria sono un obbligo dello Stato, il quale vi provvede con istituti ed organi appositi e col concorso dei contributi dei produttori: l’assistenza sanitaria si baserà, nella scelta del personale e dei liberi esercenti l’arte sanitaria, sul rapporto di merito e di fiducia fra Enti ed assistiti».

Intende mantenerli?

DE MARIA. Ritiro il primo emendamento, perché è compreso nell’emendamento Laconi. Circa il secondo emendamento, terrei a che fosse specificato, dopo la parola «malattia», «generica o professionale». Il terzo emendamento lo ritiro.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. La nostra formulazione, con la semplice parola «malattia», è ampia e comprende tutti i casi, sia le malattie generiche che quelle professionali. Ritengo che non sia necessario l’emendamento proposto dagli onorevoli Caso, Coppa e De Maria.

DE MARIA. A noi era sembrato più opportuno specificare. Comunque, se lei dà alla parola un significato molto ampio, ritiro anche questo emendamento.

PRESIDENTE. Seguono gli emendamenti dell’onorevole Zuccarini:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«L’assistenza nella disoccupazione e nella invalidità del lavoro è un dovere sociale e come tale assolto dalla Repubblica: l’assicurazione sociale è però dovere e diritto di ogni cittadino».

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«All’assistenza e alla previdenza provvedono Istituti promossi e integrati dallo Stato, che costituiranno Enti autonomi democraticamente organizzati. I loro patrimoni contribuiscono a formare un Fondo nazionale destinato alla emancipazione del lavoro».

Onorevole Zuccarini, li mantiene?

ZUCCARINI. Mantengo i miei emendamenti, perché non vedo nel testo della Commissione niente che si avvicini al concetto che ho inteso affermare ed illustrare.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Rodinò Mario, Valenti e Colitto:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica si assume la educazione e rieducazione professionale dei cittadini non abbienti, inabili e minorati, proteggendo con speciali leggi il loro diritto al lavoro, e provvede al mantenimento ed all’assistenza sociale di quelli di essi che risultano colpiti da incapacità assoluta fisica o mentale».

Lo mantiene?

RODINÒ MARIO. Rinunzierei all’emendamento qualora al terzo comma dell’emendamento Laconi, accettato dalla Commissione, si aggiungessero le parole: «proteggendo con speciali leggi il loro diritto al lavoro».

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Mazzei e La Malfa:

«Al primo comma sopprimere le parole: al mantenimento ed».

Lo mantiene?

MAZZEI. Mantengo l’emendamento, perché si tratta di sopprimere una parola che permane nell’emendamento Laconi.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Gabrieli, svolto dall’onorevole Condorelli:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«All’assistenza e previdenza provvedono, con integrazione dello Stato, istituti ed organi regolati dalla legge».

Onorevole Condorelli, lo mantiene?

CONDORELLI. Per quanto l’emendamento Laconi si avvicini al principio, a me pare di dover insistere, a meno che non si trovi il mezzo di trasfondere nell’emendamento Laconi l’idea fondamentale del nostro emendamento. In sostanza noi crediamo che non si debba affermare a priori che all’assistenza e previdenza debbano provvedere necessariamente istituti ed organi predisposti o integrati dallo Stato. Perché dobbiamo mettere questo nella Costituzione? Credo che sarebbe meglio mettere «istituti ed organi regolati dalla legge». Non è detto che dobbiamo necessariamente continuare sulla strada di istituti statali o parastatali. È vero che successivamente è detto che l’assistenza privata è libera, ma questa assistenza potrebbe essere un di più, un’integrazione dell’opera che, principaliter, dovrebbe restare allo Stato.

Io non dico che lo Stato debba abbandonare questo scopo, ma non voglio nemmeno precludere la via a che si esamini, come si sta esaminando da una Commissione nominata dal Ministero del lavoro, la possibilità di altre soluzioni. Se è possibile, quindi, di trovare altre vie più economiche e più vantaggiose per i lavoratori, sarà opportuno, e per queste ragioni io preferisco l’emendamento che ho svolto.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Terranova:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituiti e organi predisposti od integrati dallo Stato, il quale per altro favorisce le sane iniziative della privata beneficenza».

Non essendo l’onorevole Terranova presente, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento degli onorevoli Medi e Federici Maria:

«Sostituire il terzo comma col seguente:

«Lo Stato promuove e favorisce l’assistenza e la previdenza sociale».

Onorevole Medi, lo mantiene?

MEDI. Poiché vi è l’emendamento proposto dall’onorevole Laconi, mi pare che possa essere ritirato il mio.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Mazzei e La Malfa:

«Al terzo comma, sopprimere le parole: ed integrati».

Onorevole Mazzei, lo mantiene?

MAZZEI. Vi rinuncio, perché la variazione apportata con l’emendamento Laconi è soddisfacente.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Colitto:

«Aggiungere i seguenti due commi:

«La Repubblica assume la educazione, rieducazione e l’avviamento professionale dei cittadini inabili e minorati, proteggendo con speciali leggi il loro diritto e collocamento al lavoro.

«Provvede al mantenimento ed all’assistenza sociale di quelli di essi che risultano colpiti da incapacità assoluta e permanente fisica o mentale».

Chiedo all’onorevole Colitto se lo mantiene.

COLITTO. Io aderisco all’emendamento presentato dall’onorevole Rodinò, che porta anche la mia firma. Pertanto il mio emendamento non ha più ragione di essere.

PRESIDENTE. Passiamo ora alla votazione degli emendamenti.

Avverto che, avendo la Commissione accettato il nuovo testo proposto dagli onorevoli Laconi, Cevolotto, Targetti, Moro, Taviani, questo costituirà la base delle votazioni:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale.

«Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato.

«L’assistenza privata è libera».

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. A nome degli amici del mio gruppo dichiaro che voteremo in favore dell’emendamento a firma degli onorevoli Laconi, Targetti, Moro ed altri, fatto proprio dalla Commissione, votando, quindi, contro tutti gli altri emendamenti di carattere sostitutivo.

PRESIDENTE. L’onorevole Medi ha proposto di sostituire il primo comma col seguente, già proposto come articolo 33-bis:

«Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza, conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza».

MEDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MEDI. Chiedo alla Commissione se ritiene opportuno di includere nel testo accettato le parole: «conforme alla dignità umana» dopo le parole «dei mezzi necessari alla vita». In tal caso rinunzio al mio emendamento.

PRESIDENTE. Chiedo il parere della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Mi pare di aver già detto all’onorevole Medi che la frase «conforme alla dignità umana» è di un significato un po’ incerto e di contenuto indeterminato.

Mi pare che non sia il caso di accettarla, tanto più che, accogliendo la formulazione proposta dall’onorevole Laconi ed altri, implicitamente vengono a cadere tutte le altre formulazioni.

ARATA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ARATA. A nome del Gruppo del Partito socialista dei lavoratori dichiaro di votare a favore del testo Laconi.

PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Medi mantiene il suo emendamento, pongo in votazione la formulazione del primo comma da lui proposta:

«Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza, conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza».

(Non è approvata).

Pongo in votazione il terzo comma dell’emendamento Camangi, sostitutivo del primo comma del testo accettato dalla Commissione:

«Alla vita dei cittadini che, inabili al lavoro e sprovvisti di mezzi, non possono far ricorso ai benefici della previdenza, provvede lo Stato con l’assistenza sociale».

(Non è approvato).

Pongo in votazione l’emendamento degli onorevoli Mazzei e La Malfa, soppressivo al primo comma delle parole: «al mantenimento ed»

(Non è approvato).

Pongo in votazione il primo comma dell’emendamento presentato dagli onorevoli Laconi, Cevolotto, Targetti, Moro e Taviani, accettato dalla Commissione:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale».

(È approvato).

ZUCCARINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZUCCARINI. Vorrei osservare che il mio emendamento sostitutivo del primo comma costituisce una premessa e quindi chiedo che sia posto in votazione.

PRESIDENTE. Onorevole Zuccarini, il suo emendamento al primo comma in realtà non corrisponde alla materia del primo comma, ma alla materia del secondo comma, nella formulazione proposta ed accettata dalla Commissione. Infatti il testo della Commissione parla di disoccupazione ed invalidità nel secondo comma e non nel primo, che si riferisce alla inabilità al lavoro ed alla mancanza dei mezzi necessari alla vita.

Porrò quindi in votazione l’emendamento in sede di secondo comma.

Pongo in votazione il seguente inciso dell’emendamento presentato dall’onorevole Rodinò Mario:

«proteggendo con speciali leggi il loro diritto al lavoro».

Il punto nel quale possa essere inserito, sarà eventualmente esaminato in sede di coordinamento.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Mi pare che l’emendamento dell’onorevole Rodinò si riferisca piuttosto al terzo comma dell’emendamento dell’onorevole Laconi, in cui si parla degli inabili e dei minorati. La Commissione mantiene, ad ogni modo, il suo punto di vista e non lo accetta.

PRESIDENTE. La collocazione potrà comunque essere stabilita in sede di coordinamento.

(L’inciso non è approvato).

Passiamo allora al secondo comma del testo accettato dalla Commissione:

«I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati i mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

MERIGHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERIGHI. Mi pare che al secondo comma dell’emendamento dell’onorevole Laconi si possa riferire l’espressione contenuta nel nostro emendamento: «e in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».

PRESIDENTE. Porrò prima in votazione il comma nella formulazione proposta dall’onorevole Laconi e, successivamente, come emendamento aggiuntivo, la parte finale del primo comma del suo emendamento sostitutivo.

Pongo in votazione il secondo comma dell’emendamento accettato dalla Commissione, testé letto.

(È approvato).

Passiamo all’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Merighi: «e in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Avrei dichiarato, se ella, onorevole Presidente, me lo avesse chiesto, di non accettare questo emendamento, per quanto io concordi con lo spirito che lo ha dettato, solo perché ritengo che non sia materia di Costituzione. (Commenti).

ARATA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ARATA. Noi dichiariamo di accettare questo emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo: «e in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».

(Non è approvato).

Pongo ora in votazione la seconda proposizione dell’emendamento dell’onorevole Zuccarini, sopprimendo la parola: «però»:

«L’assicurazione sociale è dovere e diritto di ogni cittadino».

CONDORELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Mi sembra che il difetto sia nel modo con cui procediamo nelle nostre votazioni. Bisognerebbe vedere più concretamente questo problema e non mettere una disposizione nella Costituzione una formula generica.

PRESIDENTE. Onorevole Condorelli, l’onorevole Zuccarini ha largamente svolto questo concetto. In questo momento si tratta di accettare o di respingere la formulazione dell’onorevole Zuccarini.

CONDORELLI. Comunque, questa è la ragione del mio voto contrario.

PRESIDENTE. Se mai, il difetto è nel fatto che le nostre discussioni sono state spinte troppo al particolare. Se andassimo ancora al di là, non faremmo un testo costituzionale, ma un testo legislativo.

(L’emendamento non è approvato).

Pongo in votazione il terzo comma del testo accettato dalla Commissione: «Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale».

(È approvato).

Resta l’ultimo comma del testo predetto così formulato:

«Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera».

Per questo comma vi sono emendamenti. L’onorevole Condorelli ha fatto proprio il seguente emendamento dell’onorevole Gabrieli: «All’assistenza e previdenza provvedono, con integrazione dello Stato, istituti ed organi regolati dalla legge».

L’onorevole Zuccarini ha proposto la seguente formulazione:

«All’assistenza e alla previdenza provvedono Istituti promossi e integrati dallo Stato, che costituiranno Enti autonomi democraticamente organizzati. I loro patrimoni contribuiscono a formare un Fondo nazionale destinato alla emancipazione del lavoro».

La formula dell’onorevole Condorelli è più ampia e pertanto sarà per prima posta in votazione.

MERIGHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MERIGHI. Penso che al comma proposto dall’onorevole Condorelli possa essere aggiunto il seguente comma del mio emendamento:

«Per raggiungere tali scopi la Repubblica potrà istituire l’assicurazione generale contro le malattie».

PRESIDENTE. Ritengo opportuno porre in votazione prima la proposta dell’onorevole Condorelli che non fa riferimento a nessun modo specifico per risolvere il problema dell’assistenza e della previdenza e si rimette alla legge.

CAMANGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAMANGI. Sarebbe forse opportuno, nella votazione, dividere in due proposizioni l’ultimo comma dell’emendamento Laconi accettato dalla Commissione.

La prima proposizione: «Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato» può essere messa a raffronto con il secondo comma dell’emendamento da me presentato e con le formulazioni dell’onorevole Condorelli e dell’onorevole Zuccarini, mentre la seconda proposizione: «L’assistenza privata è libera» può essere votata a parte.

PRESIDENTE. Infatti porrò in votazione gli emendamenti sostitutivi della prima parte dell’ultimo comma. Fra di essi quello dell’onorevole Condorelli, che afferma il principio rimettendosi alla legge, ha la precedenza.

Pongo pertanto in votazione la formula proposta dall’onorevole Condorelli:

«All’assistenza e previdenza provvedono, con integrazione dello Stato, istituti ed organi regolati dalla legge».

(Non è approvato).

Segue la formula proposta dall’onorevole Camangi, che è del seguente tenore:

«A tale previdenza provvedono, con l’eventuale concorso dello Stato, organi ed istituti gestiti o controllati dai lavoratori interessati».

La proposta dell’onorevole Camangi richiama la partecipazione dei lavoratori interessati alla gestione o al controllo di quegli organi ed istituti i quali provvedono col concorso dello Stato alla previdenza. L’onorevole Camangi è il solo che richiami questo dato.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. L’emendamento dell’onorevole Camangi suona simpaticamente ai lavoratori, ma non possiamo approvarlo per due ragioni essenziali: la prima è che l’onorevole Camangi richiama un concetto privatistico di assicurazione e noi invece vogliamo che si attui in questo campo un concetto di Stato, perché il concetto di previdenza non può essere disgiunto dal concetto di solidarietà fra tutti i lavoratori del Paese e a questa previdenza solidale in favore di tutti i lavoratori può provvedere solamente lo Stato.

In secondo luogo desideriamo affermare che, attraverso la previdenza statale, la collettività nazionale adempie un suo dovere verso i lavoratori che si trovano in condizioni di non potersi guadagnare la vita.

Tuttavia facciamo nostro il concetto della gestione da parte dei lavoratori, poiché alcune critiche che sono state fatte, per esempio, dall’onorevole Condorelli, alla gestione costosa dei servizi di previdenza sociale oggi sono fondate; ma il costo della gestione non deriva dal fatto che la previdenza sia statale e nazionale, bensì dal fatto che gli istituti di previdenza sono stati diretti burocraticamente ed autocraticamente, se si vuole, cioè non sono stati gestiti democraticamente dai lavoratori, che sono interessati ad avere le migliori prestazioni e quindi a far costare il meno possibile il servizio.

Votando l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Laconi, dell’onorevole Moro e di altri colleghi, noi intendiamo affermare il principio che alla gestione dei servizi di assistenza e previdenza sociale partecipino i lavoratori direttamente, con rappresentanti eletti democraticamente.

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro che non possiamo votare l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Camangi, in parte per le ragioni espresse dall’onorevole Di Vittorio, ma soprattutto perché ci troviamo di fronte a cifre dell’ordine di grandezza tale, che non si può ammettere che lo Stato si debba disinteressare di questa gestione.

Evidentemente, qualcuno non ha idea della entità delle cifre che sono in gioco con la previdenza sociale. Se tutti pagassero, come stabilito dalla legge, i contributi supererebbero i 300 miliardi di lire all’anno, cioè sarebbero superiori alle entrate dello Stato in questo momento.

Ora è evidente che lo Stato non può lasciare a chicchessia l’amministrazione di fondi di questa entità e, del resto, noi abbiamo affermato il concetto di una estensione delle provvidenze assicurative a tutti i lavoratori, e questo concetto non potrà avere applicazione se non affidando allo Stato integralmente, e con le forme più economiche e democratiche, la gestione delle spese corrispondenti. (Approvazioni a destra).

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Dichiaro, anche a nome dei colleghi di gruppo, che votando il testo della Commissione, e quindi respingendo l’emendamento Camangi, intendiamo che la formula costituzionale lasci aperta, in sede di futuro sviluppo legislativo, la disciplina di una possibile partecipazione dei lavoratori secondo la migliore valutazione della materia, in aderenza alle esigenze della realtà.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la formula proposta dall’onorevole Camangi:

«A tale previdenza provvedono, con l’eventuale concorso dello Stato, organi ed istituti gestiti o controllati dai lavoratori interessati».

(Non è approvata).

Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Zuccarini:

«All’assistenza e alla previdenza provvedono istituti promossi e integrati dallo Stato, che costituiranno Enti autonomi democraticamente organizzati. I loro patrimoni contribuiscono a formare un Fondo nazionale destinato alla emancipazione del lavoro».

(Non è approvato).

Vi è infine la formula proposta dall’onorevole Merighi, la quale tuttavia si riferisce soltanto ad una parte dell’assistenza generale prevista nei commi già votati, cioè alle malattie.

La formula dell’onorevole Merighi dice, infatti:

«Per raggiungere tali scopi la Repubblica potrà istituire l’assicurazione generale contro le malattie».

Bisognerebbe, pertanto, sopprimere le parole: «contro le malattie».

MERIGHI. Concordo con l’onorevole Presidente. La formula definitiva rimarrebbe la seguente:

«Per raggiungere tali scopi la Repubblica potrà istituire un’assicurazione generale».

PRESIDENTE. La pongo in votazione.

(Non è approvata).

Pongo in votazione la prima proposizione del quarto comma accettato dalla Commissione:

«Ai compiti previsti in questo articolo, provvedono organi ed istituti predisposti o integrati dallo Stato».

(È approvata).

Rimane l’ultima proposizione di tale comma:

«L’assistenza privata è libera».

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Non ho anzitutto ben compreso per quali ragioni in questo comma si dovrebbe parlare soltanto dell’assistenza privata e non anche della previdenza. Noi voteremo contro. Perché, a parte il rilievo di cui innanzi, l’affermazione che «l’assistenza e la previdenza private sono libere» è una affermazione il cui contenuto mi sembra intuitivo, e che non occorre sia inserita in un testo costituzionale.

D’ARAGONA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Qui si parla di assistenza privata; ma io domando: la previdenza non può essere privata? Se domani una società di mutuo soccorso, che è una organizzazione privata, vuole distribuire dei sussidi di malattia, non può farlo? Mi pare perciò che si dovrebbe dire: «l’assistenza e la previdenza possono anche essere private».

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Noi riteniamo che nella parola «assistenza» è compreso quanto giustamente ha ricordato l’onorevole D’Aragona. La formula: «l’assistenza privata» ha in sé anche il concetto di previdenza. Essa lascia campo libero a tutte le forme di solidarietà umana che, specialmente in Italia, fioriscono mirabilmente. In questo senso votiamo questo emendamento.

LACONI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Ho chiesto la parola per dare all’onorevole Colitto un chiarimento. Per quanto non vi sia dubbio che in questo articolo si parli anche della previdenza, di fatto la formula non contiene alcun riferimento esplicito ad essa. Quando si vuole parlare dell’assicurazione, si dice soltanto che i lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati i mezzi adeguati per vivere. Non si parla di previdenza nel senso proprio della parola. Per questo noi riteniamo che la parola assistenza, come giustamente ha rilevato l’onorevole collega, si riferisca, in questo caso ed in questa particolare formulazione dell’articolo, a tutte le diverse attività assistenziali e previdenziali, che possono rientrare nella sua formulazione complessiva.

COLITTO. È possibile che non sia libera l’assistenza privata?

LACONI. Sono d’accordo; ritengo che, anche se non fosse detto, sarebbe implicito.

Ma, dato che da qualche parte questa esigenza è stata sollevata, io personalmente ed il mio gruppo voteremo favorevolmente.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’ultima proposizione del quarto comma: «L’assistenza privata è libera».

(È approvata).

L’articolo 34 risulta nel suo complesso così approvato:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale.

«Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera».

Passiamo all’esame dell’articolo 35:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge.

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica.

«Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

L’onorevole Gabrieli ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«L’organizzazione sindacale è libera. I sindacati hanno l’obbligo della registrazione presso uffici locali e centrali secondo le norme di legge.

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Le modalità per la stipulazione e limiti di efficacia dei contratti collettivi sono stabilite dalla legge».

Ha facoltà di svolgerlo.

GABRIELI. Il mio emendamento si limita a chiedere il rinvio delle modalità di stipulazione dei contratti collettivi di lavoro al futuro legislatore, riservandone a lui la disciplina del contenuto e della efficacia. La libertà sindacale affermata in questo articolo potrà determinare la formazione, in seno alla stessa categoria di lavoratori o di datori di lavoro, di più sindacati, forniti, ciascuno, di personalità giuridica, e eventualmente anche in concorrenza fra di loro, in considerazione di una nuova realtà sociale e politica di cui non è facile prevedere gli sviluppi. Sembra opportuno rinviare al legislatore futuro la disciplina dei contratti collettivi di lavoro che avranno forza di legge presso le categorie interessate. Solo il futuro legislatore con la più esatta conoscenza della vita sindacale, potrà sottoporli ad una adeguata regolamentazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Colitto ha già svolto il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La organizzazione sindacale è libera.

«Rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, i sindacati possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie, cui il contratto si riferisce».

L’onorevole Cortese ha già svolto il seguente emendamento:

Sostituirlo col seguente:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«I sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce.

«A questo fine i sindacati dovranno essere registrati presso uffici locali e centrali.

«L’iscrizione in un sindacato non è condizione per l’esercizio dei diritti del lavoratore».

PRESIDENTE. Gli onorevoli Dominedò, Montini e Medi hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Le associazioni sindacali, registrate a termini di legge, hanno personalità giuridica.

«Le rappresentanze unitarie delle associazioni registrate, costituite in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro vincolanti nei confronti di tutti gli altri appartenenti alla categoria».

L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgerlo.

DOMINEDÒ. L’emendamento, del quale ho rapidamente fatto cenno nel mio intervento nella discussione sul Titolo III, contiene due innovazioni rispetto al testo della Commissione.

La prima innovazione sta nel concentrare nel requisito della registrazione le formalità necessarie perché le associazioni sindacali conseguano la personalità giuridica. Nella formula proposta: «Le associazioni sindacali, registrate a termini di legge, hanno personalità giuridica», resta infatti incluso il concetto che l’onere della registrazione è circostanza necessaria e sufficiente per il conseguimento della personalità giuridica.

Sotto questo aspetto il secondo e terzo comma del testo della Commissione potrebbero essere unificati nel solo comma dell’emendamento proposto con la formula più breve possibile.

La seconda innovazione, sempre seguendo la trafila del testo della Commissione, è la seguente: posta la formazione delle libere associazioni sindacali sottostanti, le quali conseguono la personalità giuridica attraverso la registrazione, sorge il problema di dettar le norme nei confronti di tutti gli appartenenti alla categoria, anche se non iscritti al sindacato. È evidente che questo potere normativo, il quale porta seco una potestà di imperio, e si ricollega quindi all’acquisto di una personalità giuridica di diritto pubblico, non possa essere esercitato se non dalle rappresentanze unitarie di tutti i liberi sindacati sottostanti, registrati a termine di legge.

Ora, la differenza fra l’emendamento e il testo della Commissione sta semplicemente in ciò: che mentre la formula del progetto sembra conferire direttamente il potere normativo ai sindacati sottostanti, appare invece evidente che, a rigore di diritto, questa podestà normativa spetta precisamente alla rappresentanza unitaria dei sindacati sottostanti. È infatti l’organo rappresentativo quello da cui promana la dichiarazione di volontà giuridicamente rilevante.

Sotto questo aspetto si spiega la redazione del terzo comma dell’emendamento proposto.

PRESIDENTE. L’onorevole Tega ha già svolto il seguente emendamento:

«Sopprimere il secondo, il terzo e il quarto comma».

L’onorevole Mazzei ha facoltà di svolgere il seguente emendamento:

«Sostituire i commi secondo, terzo e quarto con un solo comma del seguente tenore:

«La legge regola il riconoscimento giuridico dei Sindacati e determina le condizioni necessarie perché i contratti collettivi di lavoro abbiano efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti stessi si riferiscono».

MAZZEI. Onorevoli colleghi, la ragione del mio emendamento attiene a tutto il mio modo particolare di vedere l’organizzazione sindacale.

Io credo che l’organizzazione sindacale si debba avviare a diventare veramente una organizzazione sindacale unitaria, che si debba, in altri termini, arrivare effettivamente al sindacato unico giuridicamente riconosciuto.

Le espressioni usate dall’articolo 35 del progetto non mi soddisfano, in quanto sono ispirate al concetto di una organizzazione sindacale di tipo privatistico, a sindacati concorrenti.

Ora, o noi istituiamo un sistema di sindacati concorrenti, quindi un regime, come si dice, di piena libertà sindacale – un regime, in altri termini, in cui i sindacati concorrono l’uno con l’altro secondo un principio rigorosamente liberistico – oppure noi tendiamo a creare un’organizzazione giuridica unitaria dei sindacati, e allora dobbiamo ispirarci a concetti diversi da quelli cui è ispirato l’articolo 35. Infatti, il concetto di rappresentanza unitaria, cui si accenna nel terzo comma, è assolutamente inconsistente. Che cosa significa rappresentanza unitaria? Come si può dare a questa rappresentanza unitaria di sindacati che siano separati gli uni dagli altri, che siano giuridicamente ognuno dotato di propria personalità giuridica, un’unità che essa non ha? Come è possibile, in altri termini, creare questa unità di sindacati che sono, viceversa, in fatto diversi e che sono già configurati dalla legge stessa come distinti, autonomi e potenzialmente contrapposti?

Per questo avrei voluto trovare una formula che lasciasse un po’ più aperta la via ad una regolamentazione del problema sindacale, nel senso di giungere al sindacato unico riconosciuto. Aggiungo che io personalmente non mi scandalizzerei affatto della costituzione del sindacato obbligatorio, secondo quella che era la vecchia tesi sostenuta dalla tradizione del sindacalismo riformista e perfettamente rispondente ad un moderno sindacalismo critico. Io credo che solo il sindacato obbligatorio creerebbe la possibilità di spoliticizzare veramente l’organizzazione sindacale (la quale cosa viceversa inutilmente si tenta, in regime di pluralità di sindacati) costituendo un ente giuridico in cui tutte le varie forze sindacali, come che siano politicamente qualificate, possono, per così dire, circolare liberamente.

Allo scopo, quindi, di non limitare e di non vincolare il legislatore ad una direttiva, che poi esso dovrebbe necessariamente seguire, ho scelto la via del rinvio alla legge sindacale. Un rinvio, però, non puro e semplice, ma nel quale è già affermato il principio che i contratti collettivi di lavoro, per essere obbligatori, devono rispondere a certi requisiti. È evidente che non si può conferire obbligatorietà a contratti collettivi posti in essere da sindacati che, poniamo, non rappresentino nemmeno la centesima parte della categoria cui i contratti si riferiscono. Non si può attribuire efficacia erga omnes, che è come dire valore di legge, a contratti posti in essere da sindacati troppo esigui. E, d’altra parte, con il sistema previsto dal progetto – il sistema della registrazione che poi dovrebbe essere regolata dalla legge, ma per la quale la legge evidentemente, in base allo spirito dell’articolo 35, non potrebbe richiedere particolari garanzie – non può essere imposto altro obbligo ai sindacati che quello della registrazione. In altri termini lo Stato si limiterebbe ad un semplice accertamento dell’esistenza dei sindacati, creerebbe, per così dire, uno stato civile dei sindacati. Lo Stato si limiterebbe a rendersi conto di quali sono i gruppi sindacali costituiti che circolano nella vita dello Stato stesso; ma non andrebbe oltre. Si rimane quindi nell’orbita di un eccessivo, anzi assoluto, liberismo sindacale.

Per me l’ordinamento sindacale si dovrebbe avviare all’unità giuridica, e, per far questo, si dovrebbe lasciare aperta la porta ad un ordinamento sindacale che regoli meglio la materia e possa costituire il sindacato come un ente giuridico professionale, in cui tutte le attuali correnti sindacali, che partecipano ora alla Confederazione, venissero a creare un unico organismo con personalità propria e che non sia l’effetto della riunione direi contingente, anzi senz’altro contingente, di questi sindacati, a titolo pseudo-federativo. Poiché questo e nulla più è la tanto vantata unità sindacale attuale, e quella che si avrebbe – a tenore del progetto – quando allo scopo di realizzare un contratto collettivo di lavoro si riuniscono i rappresentanti sindacali dei vari colori. Nessun vincolo reale sorge, in questo caso, tra questi sindacati. La rappresentanza unitaria che si stabilisce tra loro è più che altro una rappresentanza di associati per motivi puramente contingenti e limitati, e non vi è nessuna reale organicità in questa unità. Cosa si può fare per ovviare a questa situazione? Con la legge sindacale che io invoco, si può cercare di stabilire norme che garantiscano l’effettiva democrazia interna nelle organizzazioni sindacali. E con ciò non voglio dire che le organizzazioni sindacali attualmente esistenti non si sforzino di realizzare questa vita democratica, ma la loro costituzione iniziale, qual è nata dalla storia di questo sindacalismo italiano recente, è così fatta che rende impossibile quell’organizzazione unitaria che si dovrebbe raggiungere. I sindacati sono nati da formazioni clandestine e dall’accostamento di correnti che camminavano ognuna per la propria strada e che poi confluirono per esigenze di politica contingente. L’unità sindacale delle masse lavoratrici, ordinata al fine di raggiungere il grande ideale dell’emancipazione integrale di tutti i lavoratori, è indubbiamente il metodo migliore per raggiungere questo ideale perché è evidente che i lavoratori divisi hanno minori possibilità di influire efficacemente sulla determinazione delle condizioni di lavoro e di contrastare adeguatamente la spontanea solidarietà delle forze padronali. Ciò posto, è necessario dare all’organizzazione dei lavoratori una stabile struttura unitaria, ma è evidente che questa materia non può entrare nella Costituzione.

DI VITTORIO. È compito dei lavoratori stessi!

MAZZEI. Non si discute, ma se noi creiamo, attraverso principî fissati nella Costituzione, un sistema di sindacati ispirato al principio della libera concorrenza sindacale, non arriveremo mai all’unità sindacale giuridica che si può realizzare solo col sistema del sindacato giuridico unico riconosciuto. Per questo presento il mio emendamento, anche se mi rendo conto della difficoltà che l’Assemblea, quasi tutta orientata in altro senso, trova a prendere in esame un problema di fondo quale è quello da me posto.

È un problema di fondo, perché da una diversa soluzione del problema sindacale deriva tutta una diversa struttura della vita democratica dello Stato. La costruzione di una nuova democrazia – da noi auspicata – non viene comunque fuori dall’attuale Carta costituzionale, come vedremo meglio quando tratteremo dei successivi titoli riguardanti l’ordinamento dello Stato, e si vedrà che in sostanza non avremo fatto neppure quel poco che da noi si poteva legittimamente aspettare, cioè a dire, di dare al Paese per lo meno un regime parlamentare rettificato.

Mi pare che questo punto sia fondamentale. Ho voluto, più che altro, direi, per scrupolo di coscienza e per obbligo di persona, affezionata a questi studi ed a questa materia, esprimere le idee di cui sopra, perché eventualmente i colleghi riflettano su di esse o quanto meno portino su di esse la loro attenzione. E mi piace ricordare, prima di chiudere, che la formulazione da me proposta è abbastanza vicina all’emendamento che ora svolgerà l’illustre collega Mortati, che, in fondo, mi pare, si ispira a questo stesso criterio, di lasciare aperta la strada ad una organizzazione dei sindacati basata sul principio dell’unità giuridica effettiva, e non già su una unità di mero fatto e di mera contingenza, su una giustapposizione compromissoria camuffata da unità.

PRESIDENTE. L’onorevole Mortati ha presentato due emendamenti:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«I sindacati, per poter partecipare a funzioni di carattere pubblico, devono essere ordinati in modo democratico ed ottenere la registrazione presso Uffici locali o centrali a norma di legge».

«Collocare il terzo comma alla fine dell’articolo e modificarne la dizione nel modo seguente:

«I sindacati registrati e l’organo di rappresentanza unitaria hanno personalità giuridica».

Ha facoltà di svolgerli.

MORTATI. Il primo emendamento si propone due scopi. Anzitutto quello di eliminare eventuali dubbi di interpretazione circa la libertà di organizzazione professionale e di mettere in armonia questo articolo 35 col principio affermato nell’articolo 13 sulla libertà di associazione, indipendentemente da qualsiasi autorizzazione preventiva. A tenore dell’articolo 35, quale proposto dalla Commissione, sembrerebbe che tutti i sindacati debbano essere sottoposti alla formalità della registrazione. Io osservo che vi possono essere sindacati e associazioni professionali le quali, rinunciando ad intervenire in quelle funzioni che sono previste nell’articolo 35 stesso od a quelle altre che venissero attribuite in un secondo momento ai sindacati stessi, possono anche sottrarsi all’obbligo della registrazione. Si è obiettato che il dubbio non sorge perché la parola «sindacato» costituisce un nomen iuris ben definito ed ha un suo significato specifico in quanto riguarda quelle associazioni che hanno lo scopo di difendere e tutelare gli interessi degli operai attraverso la partecipazione ai contratti collettivi di lavoro. Io penso che ci possono essere associazioni sindacali che, pur proponendosi scopi di tutela e difesa degli operai, rinuncino tuttavia ad assumere la titolarità della contrattazione collettiva, nel quel caso non dovrebbe ricorrere la necessità della registrazione. L’inciso da me proposto: «in quanto partecipino a funzioni di carattere pubblico» tende precisamente ad eliminare l’obbligo della registrazione per quelle associazioni professionali che non intendono partecipare alla funzione, indubbiamente pubblicistica, qual è la stipulazione dei contratti collettivi di lavoro o ad altre della stessa natura: per esempio di intervento nella formazione di corpi di rappresentanza professionale, o di apertura di uffici di collocamento, che potrebbero essere assegnate ai sindacati.

La seconda parte di questo emendamento poi tende a imporre l’obbligo di una organizzazione interna democratica. Quest’obbligo di una organizzazione interna democratica, ed il corrispondente diritto dello Stato di pretendere che l’associazione assuma una siffatta forma di struttura, è stato affermato dal relatore della terza Sottocommissione, onorevole Di Vittorio, il quale ha espressamente detto che debba richiedersi dai sindacati un ordinamento interno democratico, con l’elezione mediante voto segreto e diretto dei loro dirigenti e con l’obbligo di sottoporre all’approvazione dell’assemblea dei soci i bilanci preventivi e consuntivi. La necessità prospettata trova una duplice giustificazione in quanto, da una parte, tende ad assicurare il buon funzionamento dell’ente sindacale, dall’altra, crea le condizioni per la consapevole partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato democratico. Dal punto di vista della prima giustificazione, mi pare ovvio che il sindacato il quale sia chiamato a partecipare alla formazione della volontà costitutiva dei contratti collettivi, i quali hanno efficacia normativa nei confronti di tutti coloro che sono compresi nella categoria, anche se non fanno parte del sindacato, operi attraverso l’intervento libero e consapevole di tutti i suoi appartenenti. Tanto più che costoro assumono la responsabilità dell’adempimento delle disposizioni di cui al contratto collettivo, e non sarebbe giusto addossare loro obblighi che derivassero da una volontà, che essi non hanno contribuito a formare.

Anche dal punto di vista del buon funzionamento dello Stato democratico, mi pare che sia necessario di pretendere questa organizzazione democratica dei sindacati. Infatti lo Stato moderno, che chiama alla vita politica masse ingenti di cittadini, ha bisogno di educare tali masse alla esatta valutazione degli interessi collettivi, e quindi non può non giovarsi dell’opera che in tal senso possono svolgere gli organismi minori, di carattere pubblicistico.

Potrebbe sorgere un dubbio, che attraverso la richiesta di un’organizzazione democratica si consenta un intervento da parte degli organi dello Stato nella vita interna dell’organizzazione sindacale con l’effetto di limitarne l’autonomia. Ma io osservo che quando si esige la registrazione, questa non può avvenire automaticamente, presupponendo l’accertamento di quelle che sono le forme organizzative dell’associazione sindacale. Non è infatti possibile che la registrazione avvenga se non siano depositati gli statuti e gli elenchi dei soci. Quindi, dato l’obbligo della registrazione, l’autorità che deve effettuarla ha tutti gli elementi per poter giudicare del carattere democratico della organizzazione, senza uopo di altri accertamenti. La vera garanzia all’autonomia della organizzazione sta nella scelta dell’organo che deve procedere a questo accertamento, e mi pare che giustamente il relatore della terza Sottocommissione abbia sostenuto che agli stessi appartenenti alla organizzazione sindacale, attraverso la creazione di organi, che da essi derivano, come il Consiglio nazionale del lavoro, debba competere l’accertamento dell’esistenza di queste condizioni di organizzazione democratica.

Si potrebbe anche pensare ad un appello contro il giudizio in sede di registrazione da parte del Consiglio Nazionale del Lavoro, di fronte alla Corte delle garanzie costituzionali che potrebbe mettere al riparo da possibili abusi.

La conseguenza dell’obbligo della organizzazione democratica sarebbe di creare un diritto a favore degli associati, di pretendere il rispetto dell’organizzazione democratica; quindi la possibilità anche di una azione giudiziaria di difesa dell’interesse legittimo, di fronte agli organi chiamati a tutelare questo interesse, contro possibili eliminazioni o limitazioni dei principî che debbono essere consacrati negli statuti.

L’ultimo punto che potrebbe essere oggetto di dubbio è questo: deve questo principio essere inserito nella Costituzione? Ha una rilevanza costituzionale? A me pare che non debba esser dubbia la risposta affermativa. Infatti in uno Stato moderno, come il nostro, che voglia porsi dei compiti interventisti nel campo dell’economia, i sindacati assumono una funzione essenziale sul funzionamento dello Stato, essendo elementi costitutivi della struttura dello Stato stesso. Ne consegue la rilevanza costituzionale di questi organismi e la necessità di una inserzione nella Costituzione dei principî fondamentali che servono a delineare l’organizzazione di questi enti.

Questo per quanto riguarda il primo emendamento.

Sul secondo emendamento debbo dichiarare di averlo presentato perché mi è sembrato che la formulazione proposta dal Comitato relativamente alla «rappresentanza unitaria dei sindacati riconosciuti» si presti a molti equivoci e faccia sorgere molti dubbi circa i modi e le condizioni necessarie per la formazione della volontà unitaria che è a base della stipulazione del contratto collettivo.

In ogni modo, per motivi di opportunità, dichiaro di ritirare questo emendamento e di associarmi a quello proposto dall’onorevole Dominedò.

PRESIDENTE. L’onorevole Benvenuti ha facoltà di svolgere due emendamenti presentati:

«Al secondo comma, dopo le parole: non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che, aggiungere le parole: il deposito degli statuti e».

«Dopo il terzo comma, aggiungere:

«È condizione per la registrazione dei Sindacati che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento interno democratico fondato sulla libera scelta e sull’elezione diretta e segreta di tutti i dirigenti, nonché sulla approvazione, da parte dei soci, delle deliberazioni e dei bilanci».

BENVENUTI. La formulazione del mio secondo emendamento riproduce sostanzialmente il testo di un passo della relazione dell’onorevole Di Vittorio.

Il problema si pone in questo senso: se norme di questo genere possano rivestire carattere costituzionale. Dichiaro di non nutrire in proposito dubbi di alcun genere, in quanto mi sembra che sia appunto compito specifico del testo costituzionale di sbarrare la strada a quel legislatore futuro che ritenesse di poter emanare leggi sindacali inconciliabili coi principî democratici.

Ora, me lo consenta l’Assemblea, io penso che la nostra Costituzione debba in certo senso prendersi una rivalsa storica, direi una vendetta storica rispetto alla legge del 3 aprile 1926 che sanciva esattamente il principio opposto.

Difatti, all’articolo 5 della legge fondamentale del cosiddetto sindacalismo fascista (di cui l’onorevole Orlando metteva, un giorno, argutamente in rilievo il carattere essenziale, quello di avere soppresso tutti i sindacati, sostituendoli con organismi di nomina statale), all’articolo 5 di tale legge, da cui è scaturita tutta la legislazione sindacale liberticida del fascismo, si legge:

«I soci regolarmente iscritti partecipano all’attività delle associazioni ed alla elezione o ad altra forma di nomina, ecc.».

L’articolo 7 recitava:

«Il presidente o segretario dell’associazione è nominato o eletto con le norme stabilite dallo statuto». Ossia, la legislazione fascista stabiliva e prevedeva due mezzi di designazione, la elezione democratica e un altro mezzo di nomina non elettivo.

Ora, a me sembra che dobbiamo marciare contro vapore e proclamare espressamente nella nostra Costituzione che qualsiasi legge sindacale che non sancisse il principio della elettività di tutte le cariche non sarebbe una legge costituzionale.

Questo, onorevoli colleghi, è un criterio che mi permetterò di suggerire anche in occasioni successive, quando dovremo esaminare tutto il sistema dei nostri diritti, quale risulterà dalla parte 1a della Costituzione. Se la nostra Costituzione lasciasse delle brecce aperte alla legislazione fascista, cosicché se tale legislazione fosse oggi instaurata, sarebbe «costituzionale» in base alle nuove norme del nostro diritto pubblico repubblicano, ciò rivelerebbe gravissime lacune nella nostra opera di Costituente democratica.

Bisogna stabilire espressamente nella Costituzione – concordando eventualmente il testo dell’emendamento con l’onorevole Mortati – il principio della democraticità, ossia della elettività di tutte le cariche sindacali.

Io non sono un operaio, sono un modesto professionista; ma durante venti anni, come tutti i miei colleghi, ho subito l’umiliazione di vedere i nostri Consigli professionali soppressi e sostituiti da pseudo-sindacati posti sotto l’egida del Ministero di grazia e giustizia o del Governo.

Vorrei che ciò non dovesse succedere più e che comunque ciò non avvenga coll’avallo del nostro voto ad un articolo il quale, fra le sue troppo larghe maglie, lascerebbe passare tutto quanto noi per venti anni abbiamo subito e detestato. Occorre quindi affermare come minimo, il concetto di democrazia dell’ordinamento sindacale nel senso di elettività di tutte le cariche.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Storchi:

«Al quarto comma, alle parole: Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, sostituire le seguenti: Rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti possono, secondo le modalità stabilite dalla legge».

L’onorevole Storchi ha facoltà di svolgerlo.

STORCHI. Il mio emendamento consiste nell’inserzione delle parole «secondo le modalità stabilite dalla legge» in questo quarto comma dell’articolo 35.

È evidente l’importanza che assume questo ultimo comma, in quanto in esso si afferma la rappresentanza unitaria agli effetti del contratto collettivo di lavoro. E questo è certamente uno dei lati più importanti che presenta questo articolo, il quale prevede una struttura sindacale libera, che è certamente una conquista della nostra Costituzione.

Esso però lascia aperta la porta a diversi problemi: a quello, per esempio, del modo come si forma questa rappresentanza unitaria, del modo cioè come si possa accertare l’efficienza numerica dei singoli sindacati che si iscrivono. Questo per evitare, come giustamente è stato rilevato in Commissione, che vi siano dei sindacati falsi, i quali non abbiano cioè un’effettiva aderenza.

È evidente che bisogna premunirsi contro questo pericolo, per dare ad ogni sindacato il peso corrispondente al numero effettivo dei lavoratori che rappresenta.

Vi sono poi anche formalità cui assolvere, allo scopo di ottenere questa efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti ad una determinata categoria, come anche allo scopo di ottenere determinate garanzie per quanto riguarda la sua applicazione.

Ritengo pertanto che sia necessario che questo articolo, il quale afferma un principio tanto importante e sul quale penso saremo unitariamente concordi, trovi la sua applicazione in una legge. Sono queste dunque le considerazioni che mi hanno indotto ad aggiungere l’inciso: «secondo le modalità stabilite dalla legge», in quanto ritengo necessario che sia una legge ad affermare questa possibilità e le condizioni nelle quali essa si attui.

PRESIDENTE. Essendo stati svolti tutti gli emendamenti all’articolo 35, chiedo all’onorevole Ghidini di esprimere il parere della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Il primo emendamento è quello sostitutivo dell’onorevole Gabrieli, il cui primo comma è del seguente tenore:

«L’organizzazione sindacale è libera. I sindacati hanno l’obbligo della registrazione presso uffici locali e centrali secondo le norme di legge».

Mi pare che questa prima parte dell’emendamento dell’onorevole Gabrieli sia nella sostanza uguale ai due primi commi del testo. Anche il secondo comma dell’emendamento dell’onorevole Gabrieli: «I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Le modalità per la stipulazione e limiti di efficacia dei contratti collettivi sono stabilite dalla legge», mi pare conforme al testo, salvo che si vorrebbe con esso affidare alla legislazione ordinaria il regolamento delle modalità di stipulazione e dei limiti di efficacia dei contratti collettivi di lavoro. La Commissione invece ritiene opportuno che sia la Costituzione a fissarli fin d’ora affinché siano garantite le finalità di altissima importanza sociale che si propongono questi contratti.

L’onorevole Colitto domanda la sostituzione dell’intero articolo colla seguente formulazione:

«La organizzazione sindacale è libera»: questo, è il primo comma; Poi dice: «Rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, i sindacati possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie cui il contratto si riferisce».

In sostanza, questa sostituzione di tutto l’articolo è caratterizzata dall’eliminazione del secondo e del terzo comma perché il primo e l’ultimo comma sono eguali. Invece la Commissione è d’avviso che anche il secondo e terzo comma debbano essere conservati. Il secondo comma nel testo della Commissione suona così: «Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge».

Ci si è attenuti a questa dizione in forma negativa perché si vuole che il sindacato sia completamente immune da qualsiasi influenza statale. Abbiamo voluto costituire un sindacato che fosse l’opposto del sindacato qual era nel regime passato. Per questo motivo si è detto che l’unico vincolo del sindacato verso lo Stato è la «registrazione».

Il testo aggiunge: «I sindacati registrati hanno personalità giuridica», la qual cosa era necessaria al fine di stipulare validamente i contratti.

I sindacati registrati hanno personalità giuridica, cioè il fatto stesso della registrazione fa assumere al sindacato la qualità di persona giuridica, precisamente come accade per le società anonime cui la iscrizione nel registro conferisce tale personalità.

L’onorevole Dominedò domanda un mutamento che ha carattere formale – secondo noi – e appunto perché ha carattere formale, per quanto apprezzi le ragioni da lui esposte, non mi pare che valga la pena di abbandonare il testo che la Commissione ha proposto.

Si comincia col dire che l’organizzazione sindacale è libera, come nel testo. E poi: «Le associazioni registrate a termine di legge hanno personalità giuridica». Si tratterebbe quindi di fondere insieme il primo e il secondo capoverso; ma la sostanza non muta. È forse più incisiva la nostra formulazione. Inoltre: mentre il testo esclude chiaramente qualunque intervento da parte dello Stato, la formulazione dell’onorevole Dominedò non lo esclude affatto.

L’ultima modificazione ha valore formale in quanto pone come soggetto della stipulazione del contratto di lavoro la rappresentanza al posto del sindacato. Ma la realtà è che chi stipula è pur sempre il sindacato, attraverso la rappresentanza, sua mandataria.

È una differenza che non tocca la sostanza e la Commissione mantiene il testo. Ripeto, questo spirito di conservazione non può esserci imputato come una colpa. La nostra è un’opera che non sarà forse eccellente, ma che abbiamo coscienziosamente meditata, ed anche l’onorevole Dominedò, che ha partecipato così attivamente ai lavori della nostra Commissione, ne può essere testimone.

C’è poi un emendamento dell’onorevole Cortese che dice: «L’organizzazione sindacale è libera. I sindacati, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, possono stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

Fin qui l’onorevole Cortese è d’accordo perfettamente con il testo originale della Commissione. Ma il cambiamento è nei due commi successivi: «a questo fine i sindacati dovranno essere registrati presso uffici locali e centrali». Io non capisco bene perché egli abbia aggiunto: «a questo fine». Mi sembra che la frase stia a segnalare una sua diffidenza: cioè che l’assunzione della personalità giuridica possa servire ad altri fini, a fini ignorati, inconfessati, che costituiscano un qualche pericolo. Ma siccome i pericoli che l’onorevole collega possa paventare non sono reali ma fantasmi della sua mente, penso che non si debba dare corpo a questi fantasmi. La Commissione mantiene quindi ferma la formulazione del testo secondo la quale la registrazione non ha altro scopo che di attribuire la personalità giuridica ai sindacati, precisamente come accade per le anonime.

Inutile è anche l’aggiunta che «l’iscrizione ad un sindacato non è condizione per l’esercizio del diritto dei lavoratori», perché il testo non dice che il lavoratore perda l’esercizio del suo diritto se non si iscrive, una volta che la organizzazione è libera; certo che per quanto riguarda la formulazione e la stipulazione dei contratti collettivi del lavoro, se il lavoratore non è iscritto nel sindacato non può concorrere attivamente alla loro formazione, perché non può procedere alla nomina delle rappresentanze. Questo è il solo limite, che è necessariamente, del resto, nella realtà delle cose e che, come tale, è insopprimibile.

L’onorevole Tega ha rinunziato al suo emendamento.

C’è l’emendamento dell’onorevole Mazzei del seguente tenore:

«Sostituire i commi secondo, terzo e quarto con un solo comma del seguente tenore:

«La legge regola il riconoscimento giuridico dei Sindacati e determina le condizioni necessarie perché i contratti collettivi di lavoro abbiano efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti stessi si riferiscono».

Egli dunque vorrebbe sopprimere il concetto che la organizzazione sindacale è libera. E invece questo è uno dei punti cardinali della nostra concezione.

Per quanto riguarda il regolamento del riconoscimento giuridico, lo abbiamo stabilito in un atto solo, che è la iscrizione nel registro dei sindacati e quindi non occorre che la legge faccia altro. Se diciamo che la legge possa fare di più, lasciamo adito a quegli interventi ulteriori dello Stato che proprio si sono voluti evitare.

Nello stesso emendamento è detto: «Determina le condizioni necessarie perché i contratti collettivi di lavoro abbiano efficacia obbligatoria».

Qui si tratta di entrare nel merito della regolamentazione dei contratti collettivi di lavoro. È certo che non abbiamo voluto fare una regolamentazione particolareggiata; ed è noto anche che il codice civile attuale contiene venti o trenta articoli che regolano il contratto collettivo di lavoro. Non dico che in una riforma che si attuerà nel Codice civile tale regolamentazione debba rimanere immutata; essa cambierà perché è inspirata ai principî della Carta del lavoro. È certo che una regolamentazione vi sarà ma non potrà essere fin d’ora affacciata dalla Carta Costituzionale.

Per questa ragione riteniamo che si debba mantenere il testo della Commissione.

Vi sono poi due emendamenti presentati dall’onorevole Mortati. Il secondo è stato ritirato, mentre il primo è del seguente tenore:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«I sindacati, per potere partecipare a funzioni di carattere pubblico, devono essere ordinati in modo democratico ed ottenere la registrazione presso Uffici locali o centrali a norma di legge».

Il concetto che i sindacati, per potere partecipare a funzioni di carattere pubblico, debbano essere ordinati in modo democratico, risponde al sentimento democratico dell’intera Assemblea, e su questo non vi è dubbio; ma penso che tutto ciò che riguarda la struttura di questo organismo sindacale e della sua rappresentanza debba essere regolato dalla legge speciale e non debba formare oggetto della Carta Costituzionale. La nostra enunciazione risponde quindi meglio, di quella dell’onorevole Mortati, alle esigenze parsimoniose di una Carta Costituzionale.

L’onorevole Benvenuti ha presentato un emendamento del seguente tenore:

«Dopo il terzo comma, aggiungere:

«È condizione per la registrazione dei sindacati che essi sanciscano nei loro statuti e garantiscano in fatto un ordinamento interno democratico, fondato fra l’altro sulle elezioni con voto diretto e segreto dei dirigenti, e sulla approvazione da parte dei soci delle decisioni e dei bilanci».

Credo di avere risposto all’onorevole Benvenuti quando ho risposto agli altri, dicendo che la struttura del sindacato, il modo del suo funzionamento, le elezioni, ecc. appartengono alla legislazione ordinaria; altrimenti la legislazione ordinaria verrebbe ad essere assorbita quasi completamente dalla Costituzione.

L’emendamento, infine, dell’onorevole Storchi è del seguente tenore:

«Al quarto comma, alle parole: Possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, sostituire le seguenti: Rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti possono, secondo le modalità stabilite dalla legge».

L’articolo non può esaurire tutta la disciplina del contratto di lavoro e delle rappresentanze chiamate a concluderlo. Se ne dovrà occupare la legislazione ordinaria. Ma la cosa è tanto ovvia che ci sembra inutile l’aggiunta «secondo le modalità stabilite dalla legge». È per questa ragione che proponiamo all’Assemblea l’approvazione dell’articolo 35 nel testo da noi presentato.

PRESIDENTE. Chiederò ora ai presentatori di emendamenti se intendono mantenerli.

Onorevole Gabrieli, mantiene il suo emendamento?

GABRIELI. Dopo le dichiarazioni esaurienti dell’onorevole Ghidini, ritiro il mio emendamento.

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Dichiaro di far mio l’emendamento dell’onorevole Gabrieli.

PRESIDENTE. Sta bene. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?

COLITTO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Cortese, mantiene il suo emendamento?

CORTESE. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Dominedò, mantiene il suo emendamento?

DOMINEDÒ. Dopo i chiarimenti forniti dal Presidente, ritengo sia stato posto sufficientemente in evidenza lo spirito del mio emendamento e non ho motivo formale per insistervi.

PRESIDENTE. Onorevole Tega, mantiene l’emendamento?

TEGA. Rinuncio alla proposta di soppressione per il comma secondo, terzo e quarto e do in poche parole le ragioni di questa mia rinunzia. Innanzi tutto dichiaro che la mia è una vox clamantis in deserto, in quanto non ha avuto nessuna risonanza, con mio vivo dispiacere. Ciò però non m’impedisce di rinnovare i miei dubbi e le mie preoccupazioni, perché noi ci avviamo verso una situazione pericolosa, secondo me, ponendo sotto la tutela dello Stato i liberi sindacati operai.

In 50 anni di sindacato libero e di socialismo democratico noi siamo riusciti a destare nei lavoratori il senso della dignità, lo spirito di iniziativa, l’orgoglio del loro lavoro.

Dalla nostra organizzazione sono usciti gli uomini che hanno debellato la malaria e la pellagra e hanno portato la vita e la fecondità in terre, che da tempo erano abbandonate alla desolazione ed alla morte. Da noi sono usciti i contadini, gli operai, i minatori, che in tutte le parti del mondo hanno tenuto alto il nome del lavoro italiano. Da noi è uscita quella generazione, che, pur intimamente repubblicana e rivoluzionaria, ha dato il proprio sangue, contribuendo eroicamente alla difesa della Patria sul Piave e sul Grappa.

Voi vi avviate verso altra strada, verso la strada del sindacalismo governativo, verso la strada del riconoscimento giuridico.

Ed io mi auguro che non spegniate lo spirito di iniziativa e la coscienza della propria responsabilità nell’animo delle masse operaie e non creiate un altro esercito di funzionari. E rivolgo allo Stato democratico l’augurio di essere all’altezza di questa grave complessa funzione, che si accinge ad assumere, e, sovratutto, di dimostrare, con una azione diuturna e consapevole, di voler fare dimenticare il primo infelice esperimento degli Uffici del lavoro, i quali, abbandonati a se stessi, sono oggi oggetto d’una concorrenza sleale, che ne diminuisce l’autorità e il prestigio, all’interno ed all’estero, del nostro Paese. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Mazzei, mantiene il suo emendamento?

MAZZEI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. È stato ora presentato il seguente emendamento concordato dagli onorevoli Benvenuti, Di Vittorio, Taviani, Canevari, Bitossi, Mortati, Moro, Laconi, Mariani Francesco, Arata, Carboni, Veroni:

«Dopo il secondo comma dell’articolo 35 aggiungere:

«È condizione per la registrazione che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento interno democratico».

Onorevole Mortati, mantiene i due emendamenti?

MORTATI. Accetto il testo concordato, che riconosce la sostanza dei miei emendamenti.

PRESIDENTE. Onorevole Benvenuti, mantiene i due emendamenti?

BENVENUTI. Accetto il testo concordato e li ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Storchi, mantiene l’emendamento?

STORCHI. Non insisto.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione del testo e degli emendamenti.

Il primo comma dell’articolo 35 è conservato in tutti gli emendamenti sostitutivi presentati:

«L’organizzazione sindacale è libera».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Segue il secondo comma:

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge».

Questa disposizione non ha riscontro nell’emendamento dell’onorevole Colitto: è implicita quindi la sua soppressione.

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Non insisto nell’emendamento, dopo la presentazione di quello concordato.

PRESIDENTE. Nell’emendamento dell’onorevole Cortese è espresso, in forma positiva, lo stesso concetto contenuto nel comma in esame; così pure nell’emendamento Gabrieli, fatto proprio dall’onorevole Fabbri.

Pongo quindi in votazione il secondo comma dell’articolo nel testo della Commissione:

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso uffici locali e centrali, secondo le norme di legge».

(È approvato).

Pongo in votazione il comma aggiuntivo dopo il secondo, concordato dagli onorevoli Benvenuti, Di Vittorio, Taviani, Canevari, Bitossi, Mortati, Moro, Laconi, Mariani Francesco, Arata, Carboni, Veroni:

«È condizione per la registrazione che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento interno democratico».

(È approvato).

Passiamo al terzo comma: «I sindacati hanno personalità giuridica».

DI VITTORIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. È stato concordato fra deputati di vari gruppi di fondere il terzo e quarto comma di questo articolo con una «e» di congiunzione per migliorarne la stesura letteraria.

PRESIDENTE. Se non vi sono osservazioni, così rimane stabilito.

(Così rimane stabilito).

Il terzo comma risulta pertanto così formulato:

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

Debbo porre prima in votazione il secondo comma dell’emendamento Gabrieli, fatto proprio dall’onorevole Fabbri:

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Le modalità per la stipulazione e i limiti di efficacia dei contratti collettivi sono stabilite dalla legge».

FABBRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FABBRI. Voterò la formulazione Gabrieli e voterò contro il testo della Commissione principalmente per queste due ragioni: la prima è che la formula Gabrieli parla genericamente di contratti collettivi, non soltanto di contratto collettivo di lavoro. E mi pare una esigenza della vita moderna che il contratto collettivo non abbia per oggetto esclusivamente il contratto di lavoro. Oramai le organizzazioni sindacali nel mercato del lavoro e nel campo della produzione hanno anche un oggetto più vasto. Vi sono i contratti di partecipazione agricola, di mezzadria, ed anche intese economiche fra categorie varie, sicché il contratto collettivo di lavoro non è che la fattispecie più importante di un genere più vasto. Mi pare quindi che la formulazione dell’onorevole Gabrieli sia meno limitativa di quella della Commissione e pertanto, a mio sommesso giudizio, senza dubbio preferibile.

Voterò poi, ed è la seconda ragione, la parte dell’emendamento Gabrieli in cui viene fatto un rinvio alla legge relativamente alle modalità per la stipulazione e i limiti di efficacia dei contratti collettivi, perché il testo presentato dalla Commissione mi pare straordinariamente equivoco, e mi pare anche che si risolva in una implicita contradizione, se non addirittura in un bisticcio di parole.

In sostanza, questi sindacati a cui si riconoscono in teoria personalità giuridica e capacità per la stipulazione di contratti collettivi, perdono poi in concreto la loro autonomia ad un certo punto, quando si dice che devono essere rappresentati unitariamente, in proporzione degli iscritti. I vari sindacati, in sostanza, devono ridursi all’unità attraverso la rappresentanza delegata in modo proporzionale dagli iscritti nei vari sindacati e allora mi pare che il concetto di personalità giuridica vada completamente in congedo, nel momento preliminare alla stipulazione del contratto, e mi pare soprattutto che, se i limiti di estensione territoriale del contratto collettivo non sono indicati, un determinato sindacato, che può essere in una determinata regione anche prevalentissimo e avere una efficacia preponderante rispetto ad altri come maggioranza di iscritti, si troverà ad essere succube di una diversa rappresentanza proporzionale unitaria che sia stata eventualmente determinata dal centro con un preteso contratto nazionale o con un contratto valido per una minor estensione di territorio, ma pur sempre determinata da un insieme di altre Regioni.

Sono questi problemi di un’importanza così eminente e concernono tutto l’ordinamento sindacale e la questione importantissima della pluralità dei sindacati o del sindacato unico di categoria, che non mi pare che in questo momento l’Assemblea sia matura per aderire ad una formula così straordinariamente equivoca e inconcludente quale quella proposta dalla Commissione; si tratta di una formula che, secondo il solito, rappresenta un compromesso fra il concetto del sindacato unico e il concetto della pluralità dei sindacati.

Se noi non diciamo quali sono i limiti di validità territoriale del contratto collettivo concluso da questi sindacati che si dichiarano liberi, ed eventualmente molteplici, se noi non diciamo che un sindacato che raggiunga un certo numero di iscritti ha diritto di concludere un accordo collettivo senza rivolgersi ad altri sindacati di quella categoria che esistano in quella località o in altre di estensione territoriale più o meno vasta, noi disconosciamo completamente sia il principio della associazione sindacale libera, sia il concetto, a mio credere, della personalità giuridica e della capacità contrattuale del singolo sindacato. La formula dell’onorevole Gabrieli, la quale dice: «Le modalità per la stipulazione e i limiti di efficacia dei contratti collettivi sono stabilite dalla legge», supera la contradizione che mi sono permesso di esporre e lascia completamente impregiudicato il problema sostanziale in materia che ha avuto, secondo me, una soluzione del tutto arbitraria e che non risponde ad esigenze di libertà e di libera associazione sindacale.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. L’emendamento fatto proprio dall’onorevole Fabbri contiene una parte nei confronti della quale nulla c’è da eccepire, là dove dice che la materia normativa dell’associazione sindacale può eccedere gli scopi del contratto collettivo di lavoro strettamente detto, essendo riferibile anche agli accordi economici. Nessuna difficoltà sotto questo aspetto; ma ritengo che, tenendo presente che la norma centrale è il contratto collettivo di lavoro, resta perfettamente aperta anche la via ad ulteriori ipotesi di accordi di categoria, qual è ad esempio raccordo economico.

Per quanto riguarda invece la seconda parte dell’emendamento, che è di fondamentale importanza, mi si permetta di rispondere che è bene affermare la libertà sottostante di tutte le associazioni sindacali registrate e quindi con personalità giuridica, libertà di dettare norme di categoria nei confronti dei propri rappresentati…

FABBRI. Se un sindacato è veramente libero e ha piena capacità di stipulare un contratto collettivo di lavoro, ma si stabilisce che questo contratto è vincolante per tutti gli appartenenti alla categoria, quando si ha pluralità di sindacati o nella stessa regione, o in un’altra regione, come si può parlare di rappresentanza unitaria in proporzione degli iscritti? Questo concetto di proporzionalità è evidentemente riferito alla pluralità dei sindacati che debbono essere ridotti forzatamente ad unità attraverso questa rappresentanza unitaria! (Commenti).

DOMINEDÒ. Onorevole Fabbri, io la ho ascoltata con molta attenzione, per poterle rispondere giustamente. Se Ella avesse avuto la compiacenza di attendere, forse dalle mie successive parole avrebbe potuto ricevere una risposta.

Dicevo che resta ferma nello spirito della norma la possibilità che la libera associazione sindacale possa dettare norme nei confronti dei propri iscritti. Ma, quando sorge il problema di dettare norme di categoria anche agli appartenenti non iscritti, è evidente che si debba allora risolvere, al di sopra del problema della libertà sindacale, quello della formazione di un organo normativo, che potrebbe essere o il sindacato considerato come maggioritario (con l’eventualità di ricadere in formulazioni analoghe a quella della legge 3 aprile 1926), ovvero un organismo riconosciuto dalla legge, idoneo a costituire la rappresentanza di tutte le libere e sottostanti associazioni registrate, ma ad un tempo posto in condizioni – proprio attraverso la rappresentanza unitaria – di formare quello che in sostanza può essere il sindacato di secondo grado, il sindacato giuridico di diritto pubblico (Commenti a sinistra), e che il progetto si limita a configurare attraverso i sindacati rappresentati unitariamente. Questa è infatti l’espressione del testo cui anche io ho aderito solamente per non insistere su differenziazioni di formula.

In questo secondo caso resta ben fermo il concetto, in base al quale si deve configurare un organismo idoneo a dettare norme nei confronti degli appartenenti anche se non iscritti e capace domani di risolvere pacificamente i conflitti del lavoro. È pertanto nel divario tra norme agli iscritti e norme agli appartenenti che sta la soluzione del grande problema della libertà sindacale, che noi crediamo di affermare, risalendo allo spirito della norma, attraverso il principio della libertà nell’unità o della pluralità nell’unità. Per questo voteremo a favore del testo. (Approvazioni al centro).

COLITTO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Voterò a favore del testo della Commissione per due ragioni. La rappresentanza giuridica dei sindacati non ha a che vedere con la rappresentanza unitaria, di cui si parla nel testo. La rappresentanza giuridica del sindacato è una cosa distinta e separata dalla rappresentanza ai fini della stipulazione dei contratti collettivi di lavoro. Si vedrà dopo come si arriverà alla determinazione di questa rappresentanza unitaria; ma è evidente che questa rappresentanza unitaria resta separata e distinta dalla rappresentanza giuridica di ogni sindacato. La seconda ragione è questa. Noi siamo in materia di lavoro. È evidente, quindi, che l’articolo 35 non poteva occuparsi che di contratti collettivi di lavoro. Gli accordi collettivi economici investono un’altra materia, molto grave e lata e delicata. L’articolo 35 restando nel campo del lavoro, non poteva che disciplinare i contratti collettivi di lavoro.

MAZZEI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZEI. Vorrei pregarla di prendere in considerazione il mio emendamento, che era sostitutivo del secondo, terzo e quarto comma. Poiché non è stato messo in votazione, potrebbe ora utilmente essere inserito come sostitutivo dell’ultimo comma, formulandolo però così: «La legge determina le condizioni necessarie perché i contratti collettivi di lavoro abbiano efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti stessi si riferiscono». Se l’onorevole Presidente consente, potrebbe essere messo in votazione in questi termini.

PRESIDENTE. Onorevole Mazzei, qualora non fosse approvata la formulazione, che adesso chiamerò Fabbri, che è più ampia della sua appunto, perché non si riferisce soltanto ai contratti collettivi di lavoro, ma ai contratti collettivi in genere, porrò in votazione la sua.

DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Dichiaro, a nome del nostro gruppo, che voteremo esclusivamente il testo dell’articolo approvato dalla Commissione. Respingiamo, quindi, non soltanto l’emendamento in discussione, ma tutti gli altri emendamenti. Noi crediamo che il testo della Commissione, per quanto non si possa dire che sia letterariamente perfetto, risolva alcune questioni di principio, che possono largamente soddisfare l’Assemblea.

In primo luogo, risolve il principio della libertà sindacale, il quale è collegato alla possibilità della molteplicità dei sindacati. Non è ammissibile, in regime di libertà sindacale, istituire un sindacato unico che sia obbligatorio per tutti i lavoratori. Il sindacato obbligatorio è, per sua natura, un sindacato burocratico, un sindacato di tipo fascista. Infatti, in Europa i sindacati obbligatori sono stati istituiti soltanto nei Paesi fascisti ed in quelli che hanno voluto in qualche modo imitare il fascismo. In nessun Paese democratico si è mai parlato di un sindacato unico obbligatorio, né vi è una corrente democratica qualsiasi che sostenga il sindacato obbligatorio. Del resto, è ovvio che l’obbligatorietà è il contrario della libertà. Il lavoratore deve essere completamente libero, il che non vuol dire che si debba vulnerare il principio dell’unità sindacale; ma l’unità è cosa seria, profonda, efficiente soltanto nella misura che è volontaria, che è prodotto della libera determinazione dei lavoratori. Perciò, l’ammissione della molteplicità dei sindacati non è affatto in contrasto all’unità. Oggi in Italia vi è, infatti, la libertà sindacale: chiunque ha il diritto di costituire un sindacato, ma tutti gli italiani sanno che esiste l’unità sindacale volontariamente voluta dai lavoratori delle varie correnti e di nessuna corrente. I piccoli tentativi di costituzione di sindacati scissionisti, fino ad oggi, in Italia, non hanno nessun valore e nessun rilievo, in nessuna provincia italiana. Ma io vorrei dire qualcosa che possa convincere i dubbi che ha avuto l’onorevole Tega. Io dichiaro che se il riconoscimento della personalità giuridica ai sindacati dovesse implicare, in qualche modo, che il sindacato divenga una organizzazione di carattere governativo, e quindi burocratico, io e tutti i miei compagni saremmo recisamente contrari al riconoscimento della personalità giuridica.

PRESIDENTE. Tenga presente, onorevole Di Vittorio, che i primi due commi sono già stati approvati.

DI VITTORIO. Desidero soltanto dare una spiegazione: dicevo che il comma che abbiamo già votato esclude qualsiasi ingerenza dello Stato nei sindacati. Perciò il sindacato, così come è definito dall’articolo del progetto, è libero, autonomo, indipendente; e la personalità giuridica del sindacato serve soltanto per conferire al sindacato stesso la possibilità di stipulare dei contratti collettivi di lavoro, che siano obbligatori per tutti gli appartenenti alla categoria a cui i contratti si riferiscono; e non può essere imposto al sindacato altro obbligo che quello della pura e semplice iscrizione. Per queste ragioni noi votiamo l’articolo 35 così come è stato formulato dalla Commissione e votiamo contro tutti gli altri emendamenti.

EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Dichiaro che ho votato in favore soltanto del primo comma e ho votato contro gli altri, e seguiterò a votare contro gli altri per le medesime considerazioni che hanno mosso l’onorevole Tega, alle quali mi associo completamente. Io credo che con questi altri commi i liberi sindacati operai rinunciano al loro diritto di primogenitura ed a quanto ha fatto in passato la loro grandezza ed il loro contributo alla elevazione delle classi operaie nell’economia italiana.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento sostitutivo fatto proprio dall’onorevole Fabbri:

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Le modalità per la stipulazione ed i limiti di efficacia dei contratti collettivi sono stabiliti dalla legge».

(Non è approvato).

Pongo in votazione la formulazione proposta dall’onorevole Mazzei:

«La legge determina le condizioni necessarie perché i contratti collettivi di lavoro abbiano efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti stessi si riferiscono».

(Non è approvata).

Pongo ora in votazione il terzo comma proposto dalla Commissione:

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente, in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro, con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce».

(È approvato).

Infine vi è un emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Cortese così formulato:

«L’iscrizione in un sindacato non è condizione per l’esercizio dei diritti del lavoratore».

Lo pongo in votazione.

(Non è approvato).

Il testo dell’articolo 35 risulta, pertanto, nel suo complesso, così approvato:

«L’organizzazione sindacale è libera.

«Non può essere imposto ai sindacati altro obbligo che la registrazione presso gli uffici locali e centrali, secondo le norme di legge.

«È condizione per la registrazione che essi sanciscano nei loro statuti un ordinamento a carattere democratico.

«I sindacati registrati hanno personalità giuridica e possono, rappresentati unitariamente, in proporzione dei loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali i contratti si riferiscono».

Il seguito della discussione è rinviato alla seduta pomeridiana di lunedì 12.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Sono state presentate due interrogazioni con richiesta di urgenza. La prima è degli onorevoli De Martino e Preziosi:

«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere se e quando intenda sistemare il Comando generale della Guardia di finanza. Le notizie delle continue esportazioni clandestine di tonnellate di grano e di migliaia di capi di bestiame e di altro, nonché il continuo dilagare del contrabbando del tabacco consiglierebbero invero un provvedimento di urgenza».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Interesserò il Ministro competente affinché comunichi quando potrà rispondere.

PRESIDENTE. La seconda interrogazione è dell’onorevole Gortani:

Al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, intorno alla gravità della inesplicabile e improvvisa decisione presa dal Ministero di sospendere l’emigrazione in Austria, quando migliaia di nostri operai disoccupati vi anelano, e quando già erano stati stipulati gli accordi per trasferire in Italia 250 tonnellate di cemento, onde coprire le rimesse di un primo gruppo di operai».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

TOGNI, Sottosegretario di Stato per il lavoro e la previdenza sociale. Il Governo è pronto a rispondere nella prima seduta dedicata alle interrogazioni.

Sui lavori dell’Assemblea.

PRESIDENTE. Lunedì si terranno due sedute: al mattino alle 10 e nel pomeriggio alle 16.

La seduta pomeridiana si prolungherà fino ad ora molto inoltrata.

Nell’ultima riunione tenuta in forma amichevole con tutti i rappresentanti dei gruppi, allo scopo di dare un ordine ai lavori dell’Assemblea Costituente, è stato espresso unanimemente l’avviso che si soprassieda a fissare sedute per la discussione di interrogazioni, fino a quando non sia meglio chiarita la questione della continuazione dei poteri della nostra Assemblea. Ritengo pertanto, dopo questo unanime avviso, che non possiamo impegnare nostre sedute per la discussione di interrogazioni. (Commenti).

In questa materia, ci troviamo di fronte ad una situazione spiacevole. Sin dall’inizio della nostra Assemblea lo svolgimento delle interrogazioni ha lasciato molto a desiderare. Abbiamo un fascicolo di molte pagine di interrogazioni presentate e non svolte. Questo dipende in gran parte dal fatto che per lungo tempo l’Assemblea non si è riunita e, successivamente, la sua attività è stata assorbita dai lavori per la redazione del progetto costituzionale.

A questo proposito aggiungo che io stesso avevo consigliato ai colleghi di presentare interrogazioni con richiesta di risposta scritta, nella speranza che il Governo avvertisse non solo l’opportunità, ma – mi permetto di dire – il dovere di rispondervi, a norma del Regolamento.

Di fronte a una certa carenza del Governo, mi sono interessato personalmente presso i singoli Ministri perché si ponesse termine al sistema di lentezza eccessiva col quale si dava corso alle risposte. La Presidenza del Consiglio a sua volta, in seguito a queste mie sollecitazioni, ha diramato una circolare a tutti i Ministri.

Ora, io mi attendevo che, dopo di ciò, le risposte dovessero affluire. Invece non si è raggiunto alcun effetto, tanto che, a tutt’oggi, vi sono 275 interrogazioni con risposta scritta presentate con ultima scadenza al 18 aprile, le quali non hanno avuto ancora alcuna risposta, sebbene il Regolamento stabilisca che la risposta debba darsi entro sei giorni da quello in cui l’interrogazione è stata presentata.

Vi sono dei Ministeri che hanno interrogazioni con richiesta di risposta scritta, le quali risalgono persino al luglio 1946, e non hanno ancora risposto.

E perché il Governo abbia una chiara visione dell’importanza della questione, preciserò il numero esatto delle interrogazioni che attendono risposta, per ogni Ministero:

Presidenza del Consiglio, 46; Ministero degli esteri, 4; Ministero dell’interno, 27; Ministero di grazia e giustizia, 22; Ministero delle finanze e del tesoro, 71; Ministero della difesa, 20; Ministero della pubblica istruzione, 54; Ministero dei lavori pubblici, 43; Ministero dell’agricoltura e foreste, 21; Ministero dei trasporti, 6; Ministero dell’industria e commercio, 5; Ministero del lavoro e della previdenza sociale, 8; Ministero del commercio estero, 4; Ministero dell’Africa italiana, 2; Ministero della marina mercantile, 5; Alto Commissariato per l’alimentazione, 3; Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica, 3; Ministero dell’assistenza post-bellica, 9.

A questo inconveniente si deve porre rimedio. Soggiungerò anzi che, se si continuasse così, data l’impossibilità materiale, nel corso dei nostri lavori, di poter discutere le interrogazioni orali, verrebbe praticamente meno il controllo dell’Assemblea nei confronti dei Ministeri. Vorrei augurarmi che veramente i Ministri si affrettino a porre riparo a questo stato di cose. (Applausi).

PERRONE CAPANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERRONE CAPANO. Era stato deciso, onorevole Presidente, che almeno un giorno per settimana dovesse essere dedicato alla risposta alle interrogazioni di maggiore urgenza e di maggiore importanza.

PRESIDENTE. Onorevole Perrone Capano, ciò è stato fatto fino a pochi giorni fa; ma i capi dei Gruppi si sono trovati concordi sulla utilità di sospendere, per intanto, lo svolgimento delle interrogazioni.

Se tuttavia i membri del Governo si convinceranno che le norme del Regolamento sono obbligatorie anche per essi e che devono entro sei giorni rispondere alle interrogazioni che richiedono risposta scritta, noi potremo, in parte, superare la mancanza del tempo per lo svolgimento delle interrogazioni. Se il Regolamento dice che sono sufficienti sei giorni per dare risposta scritta alle interrogazioni, ciò significa che l’esperienza ha dimostrato che in sei giorni si può rispondervi e non ritengo sia valida la giustificazione dell’impossibilità materiale di ottenere dagli uffici competenti le informazioni necessarie alla risposta. In molti Ministeri vi è abbondanza di funzionari e credo che i membri del Governo possano delegare alcuni dei loro funzionari a questo compito.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Può darsi che molti Ministeri, sotto la pressione della molteplicità degli impegni, i più assillanti, non abbiano avuto la possibilità di rispondere all’interrogazione. Comunque faccio osservare che se alcuni Dicasteri hanno mancato all’osservanza del Regolamento, vi ha anche mancato la Presidenza dell’Assemblea, perché se la Presidenza si attenesse alle norme del Regolamento che fissano in cinque minuti la replica alla risposta del Governo, molte interrogazioni si sarebbero potute svolgere. Tuttavia la Presidenza ha rinnovato a tutti i Ministeri l’invito a rispondere.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Vorrei far presente che fra tante cose urgenti ce n’è una urgentissima; i nostri poveri morti non sono stati ancora sepolti per incuria del Governo. Mi pare che questa sia una macchia che colpisce tutto il nostro Paese ed il Governo deve dire subito se ha provveduto o non ha provveduto, perché è una cosa che desta veramente orrore. (Applausi).

PERRONE CAPANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERRONE CAPANO. Desidero fare una proposta concreta: che ogni settimana una seduta antimeridiana sia dedicata allo svolgimento delle interrogazioni giudicate di maggiore urgenza.

PRESIDENTE. Non ho che da rimettermi all’Assemblea; ma vorrei anche che i colleghi consentissero in sede di interrogazione a parlare effettivamente cinque minuti soltanto, e non di più. Questa è una norma che tutti conosciamo, ma che nessuno mette in atto.

LUSSU. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUSSU. Siccome vi sono interrogazioni con richiesta di risposta scritta che interessano molti di noi, eccezionalmente – dato che è impossibile rispondere a tutte le interrogazioni orali – propongo che, ogni volta che c’è una seduta per le interrogazioni, l’onorevole Presidente voglia comunicare all’Assemblea l’elenco di quei Ministri che non hanno risposto alle interrogazioni loro presentate.

PRESIDENTE. Innanzi tutto credo che possiamo accedere alla proposta del collega Perrone Capano, dedicando, a cominciare dalla prossima settimana, una seduta mattutina alle interrogazioni.

In secondo luogo – ed è questa una considerazione mia personale – penso che se l’Assemblea lamenta oggi in forma severa il ritardo nelle risposte scritte alle interrogazioni, ciò sia sufficiente anche senza aderire alla proposta dell’onorevole Lussu. Si tratta, infatti, di riaffermare i poteri di controllo dell’Assemblea sull’azione del Governo. Comunque l’avvertenza è fatta, e spero che i membri del Governo ora presenti se ne faranno portavoce presso i loro colleghi, in modo che da lunedì le risposte scritte comincino ad affluire regolarmente.

Per concludere: se l’Assemblea consente, a cominciare dalla prossima settimana avremo una seduta mattutina dedicata alle interrogazioni, avvertendo che, a norma del Regolamento, gli interroganti non potranno parlare più di cinque minuti.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se il Governo, anche in omaggio ai principî proclamati in questi giorni dall’Assemblea Costituente coll’approvazione degli articoli del progetto di Costituzione riflettenti l’assistenza sociale, intende sollecitamente accogliere le istanze dell’Unione italiana dei ciechi, riassunte nella mozione approvata dal Consiglio ligure di detta Unione nella seduta del 2 maggio corrente, mozione che gli è stata presentata. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Canepa, Pera».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere le ragioni per le quali non sono state iniziate finora le opere relative all’acquedotto dei comuni nolani, già deliberate, e approvate dal Consiglio superiore dei lavori pubblici. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Crispo, Rodinò Mario, Mazza, Riccio Stefano».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno, nella prossima ordinanza per il conferimento dei posti provvisori ai maestri, tenere in particolare conto quegli insegnanti che hanno superato il 40° anno di età ed il 10° anno di anzianità di servizio.

«Pare all’interrogante che una buona soluzione potrebbe essere quella di riservare ogni anno il 10 per cento dei posti provvisori agli insegnanti che si trovino nelle predette condizioni, oppure riconoscere ad essi le stesse prerogative dei reduci, combattenti e similari.

«Fa presente che le nuove disposizioni per i reduci pongono tali insegnanti, che pure hanno dato ormai alla scuola la miglior parte della loro vita e che ormai sono in possesso di una esperienza didattica veramente preziosa, nel grave pericolo di vedersi completamente esclusi dalla scuola.

«Confida che il Ministro troverà il modo per non essere privato del loro prezioso contributo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bertola».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.

Ordine del giorno per le sedute di lunedì 12 maggio 1947.

Alle ore 10:

  1. Discussione dei seguenti disegni di legge:

Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17).

Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945. (8).

  1. – Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 10 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXIX.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 10 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

 

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Presentazione di disegni di legge:

Scelba, Ministro dell’interno                                                                             

Presidente                                                                                                        

Gullo, Ministro di grazia e giustizia                                                                   

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Colitto                                                                                                             

Gabrieli                                                                                                            

Foa                                                                                                                    

Bibolotti                                                                                                          

Meda                                                                                                                 

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                 

Morelli Luigi                                                                                                   

Persico                                                                                                             

Puoti                                                                                                                 

Corbino                                                                                                            

Taviani                                                                                                             

Perrone Capano                                                                                              

Gronchi                                                                                                            

Corbi                                                                                                                

Cingolani                                                                                                         

Federici Maria                                                                                                 

Bubbio                                                                                                              

Merlin Angelina                                                                                             

Cortese                                                                                                            

Barbareschi                                                                                                     

Moro                                                                                                                

Condorelli                                                                                                      

Mattei Teresa                                                                                                  

Medi                                                                                                                  

Andreotti                                                                                                        

Laconi                                                                                                              

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Bertone, Castelli Avolio, Di Giovanni, Ferreri, Restagno, Rubini.

(Sono concessi).

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Mi onoro di presentare all’Assemblea Costituente il disegno di legge: «Elezione dei membri della Camera dei deputati».

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro dell’interno della presentazione di questo disegno di legge. Sarà trasmesso alla Commissione competente.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione del progetto con l’esame dell’articolo 32:

«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia.

«Il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite».

L’onorevole Nitti ha già svolto un emendamento soppressivo dell’intero articolo.

L’onorevole Colitto ha proposto di sostituire l’articolo col seguente:

«La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro, adeguati ad un dignitoso tenore di vita ed alle possibilità dell’economia nazionale».

L’onorevole Colitto ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

COLITTO. L’emendamenti da me proposto mira a dare all’articolo 32 del progetto di Costituzione – lasciando immutata la sua sostanza – una formulazione che a me sembra più precisa ed anche più snella.

Nel mio emendamento si parla infatti ancora di retribuzione proporzionale alla quantità e alla qualità del lavoro, così come se ne parlava nella Costituzione tedesca del 1919 (articolo 163), in quella spagnola del 1931 (articolo 46) e in quella russa del 1936 (articolo 118). Non è forse inopportuno affermare che la determinazione della retribuzione dovrà aver luogo per categoria, senza discriminazioni fra lavoratori che prestano lo stesso lavoro, pur non escludendo che possano essere stabiliti premi per lavoratori più solerti degli altri ed anche per stimolare l’emulazione.

Si afferma anche, nell’emendamento da me proposto, che deve la retribuzione essere adeguata alle necessità di un dignitoso tenore di vita, con la quale frase, naturalmente, si esprime per lo meno una grande ansia di progressivo, continuo superamento delle condizioni di vita della classe lavoratrice in un determinato periodo.

Parmi, invece, piuttosto vago ed incerto, e sopratutto, pleonastico, parlare di retribuzione adeguata alle necessità di un’esistenza libera, perché mi sembra evidente che, se la retribuzione deve assicurare un tenore dignitoso di vita, terrà implicitamente conto, come si dice nel progetto, delle necessità di un’esistenza libera.

Non mi sembra, poi, che sia il caso di stabilire che la retribuzione debba essere commisurata alle esigenze oltre che del lavoratore, anche della sua famiglia, perché una norma siffatta imporrebbe di certo discriminazioni fra lavoratori, che pure prestano lavoro della stessa qualità e nella stessa quantità, il che mi sembra sia da escludere. E poiché anche in una affermazione programmatica non si può prescindere da quella che in ogni momento è la realtà della situazione economica della nazione, io ho parlato nell’emendamento anche di retribuzione che comunque deve essere adeguata «alle possibilità dell’economia nazionale». Ove l’Assemblea fosse di contrario avviso, porrebbe, secondo me, le basi di una economia ab initio tarata, con grave danno degli stessi lavoratori.

Mi sembra, infine, che possa essere soppresso il secondo comma dell’articolo. Si parla, in esso, di riposo settimanale e di ferie. Ora, a me sembra che tale materia meglio costituisca il contenuto di contratti collettivi di lavoro e di una legge sul lavoro, anziché di una norma costituzionale, sebbene non manchino Costituzioni, come quelle della Jugoslavia, della Lituania, del Nicaragua, dell’Uruguay e del Venezuela, che se ne occupano. Sono, in ogni caso, da eliminare le due parole «non rinunciabile», non perché io intenda propugnare che il diritto alle ferie debba considerarsi un diritto cui si possa rinunciare, ma perché una simile affermazione non è stata fatta per la retribuzione e non vorrei che in avvenire si potesse sostenere che il lavoratore alle ferie non può rinunciare, ma può ben rinunciare, ad esempio, ad un aumento di salario. Io penso che irrinunciabile sia non soltanto il diritto alle ferie, ma anche, e a maggior ragione, il diritto alla retribuzione. Ora l’affermazione di tale irrinunciabilità fatta soltanto per le ferie e non per la retribuzione, potrebbe far sorgere dubbi, che è opportuno fin da questo momento eliminare.

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente: «La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro fornito e adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa».

L’onorevole Gabrieli ha facoltà di svolgerlo.

GABRIELI. Onorevoli colleghi, il mio emendamento non ha lo scopo di modificare la sostanza dell’articolo. Appartiene alla tradizione della dottrina sociale cristiana l’affermazione del salario familiare: ebbe la sua prima affermazione nell’enciclica di Leone XIII «Rerum novarum», e parte anche dal Codice di Manin. Quindi noi della Democrazia cristiana intendiamo affermare che il lavoratore debba avere una retribuzione proporzionata alle esigenze sue e della sua famiglia. L’emendamento che propongo attiene ad una maggiore precisazione tecnica dell’articolo. Quando si dice che il lavoratore deve avere una retribuzione adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa, s’intende affermare che la retribuzione debba essere adeguata alle necessità della famiglia. Se la retribuzione non pone il lavoratore nella condizione di far fronte alle necessità della famiglia, viene meno la condizione che la retribuzione possa essere adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa. Ritengo quindi che la formula da me proposta, per una maggiore sintesi, per un maggior tecnicismo giuridico, sia da preferirsi a quella della Commissione.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Cappugi, Pastore Giulio, Morelli Luigi:

«Al primo comma, dopo la parola: lavoro, inserire le parole: capace di coprire gli oneri previdenziali ed assistenziali».

Non essendo presenti l’onorevole Cappugi e gli altri firmatari s’intende che abbiano rinunziato a svolgerlo.

Segue l’emendamento degli onorevoli Persico, Cairo, Tremelloni, Caporali:

«Al primo comma, alle parole: e in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e la famiglia, sostituire le altre: in ogni caso adeguata alle necessità personali e familiari».

Non essendo presenti l’onorevole Persico e gli altri firmatari s’intende che abbiano rinunziato a svolgerlo.

Segue l’emendamento dell’onorevole Foa:

«Al primo comma, sopprimere l’inciso: per sé e per la famiglia».

L’onorevole Foa ha facoltà di svolgerlo.

FOA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Seguono due emendamenti dell’onorevole Puoti, del seguente tenore:

«Aggiungere alle ultime parole del primo comma le seguenti: anche in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

«Al primo comma, aggiungere il seguente:

«Sempre che sia possibile e nelle forme e limiti stabiliti dalla legge, la retribuzione tenderà ad attuare la forma della partecipazione agli utili».

Non essendo presente l’onorevole Puoti, si intende che abbia rinunziato a svolgerli.

Segue l’emendamento degli onorevoli Bibolotti e Bitossi:

«Al primo comma aggiungere il seguente: «Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge».

L’onorevole Bibolotti ha facoltà di svolgerlo.

BIBOLOTTI. All’articolo 32, là dove dice: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia», io propongo il seguente emendamento aggiuntivo: «Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge». Questa mia proposta tende a rendere sempre più effettive le norme della nuova vita democratica del nostro Paese. Il concetto di salario minimo è estensivo, indubbiamente, al concetto di assistenza al lavoratore. Per quanto noi oggi pensiamo all’assistenza con criteri non più elemosinieri, ma partendo da un punto di vista di giustizia e di diritto sociale, tuttavia il salario minimo individuale e familiare viene a costituire oggi nella società moderna la garanzia dell’eliminazione, nel campo del lavoro, del pauperismo, della miseria nera, viene cioè a sancire un principio nuovo e moderno, secondo il quale non è lecito ad alcuno di sfruttare l’opera del lavoratore senza assicurargli un minimo di retribuzione, retribuzione che non deve essere lasciata all’arbitrio dell’assuntore d’opera, ma che appunto propongo sia stabilita dalla legge.

Risponde tale mia proposta allo stesso criterio che ispira il legislatore là dove esso sancisce la durata massima del lavoro. La lotta del lavoratore, attraverso decenni e decenni per la conquista delle otto ore, è oggi consacrata dalle regole, dalle consuetudini e dalle leggi; ma è bene che nella Costituzione della nuova Repubblica italiana tanto il principio del salario minimo, quanto quello della limitazione della giornata lavorativa, trovino consacrazione in una affermazione di principio.

E d’altra parte, riferendosi a disposizioni da inserirsi nella legge, esse non cristallizzano questa richiesta, non costituiscono dei punti di impedimento al legislatore, ma gli danno, come vuol ogni buona norma costituzionale, un’indicazione abbastanza precisa, pur senza costituire, come appunto dicevo, un impedimento o una cristallizzazione.

Io propongo quindi che al primo comma sia aggiunta la seguente dizione:

«Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge».

Io spero che questa mia proposta venga accettata da tutti coloro che si sono schierati per l’inserimento nella nostra Costituzione repubblicana di quelle garanzie di ordine sociale che costituiscono la fondamentale caratteristica del nostro progetto di Costituzione, cioè i diritti del lavoro.

Ora, a me pare, onorevoli colleghi, che appunto questo inserimento nell’articolo 32 conferisca all’articolo stesso una consistenza ed una concretezza tali da tranquillizzare le famiglie dei lavoratori, nel senso che, compiuto il loro dovere sociale di partecipare al processo della produzione, essi non potranno essere mai più oggetto di quello sfruttamento inumano e senza limiti che oggi, in determinate circostanze e in determinati rapporti di forze, sarebbe ancora giuridicamente possibile.

Dobbiamo soprattutto impedire che ciò possa accadere a proposito della mano d’opera infantile e femminile.

Lo spirito del mio emendamento è pertanto questo: che non sia commesso all’arbitrio del privato lo stabilire sia la durata del lavoro, sia la retribuzione del lavoro stesso.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Meda Luigi, Cappugi, Codacci Pisanelli, Malvestiti, Clerici, Zerbi, Giordani, Belotti, Colonnetti, Carbonari, Bosco Lucarelli, Martinelli, Bubbio, Micheli, Montini, Perlingieri, Merlin Umberto, Balduzzi, Guerrieri Filippo, Cavalli, Benvenuti, Togni, Manzini Raimondo, Fuschini, Mortati, Cappi, Andreotti, Cremaschi Carlo, hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Lo Stato riconosce e garantisce ai lavoratori il diritto al riposo festivo».

L’onorevole Meda ha facoltà di svolgerlo.

MEDA. L’emendamento proposto da me e da altri deputati al primo capoverso dell’articolo 32 non presenta carattere di eccezionalità, ma mira soltanto a ricondurre ad una esatta formulazione l’affermazione del principio del riposo settimanale che, per i lavoratori italiani, non può che identificarsi col riposo festivo.

In realtà, quando, alla fine del secolo scorso, si iniziò il movimento per ottenere il riposo settimanale ai lavoratori, tutti furono d’accordo che questa giornata di riposo dovesse essere la giornata di festa, e precisamente per i paesi latini di culto, di fede religiosa cattolica, la domenica.

Nel 1897, al primo congresso per le difese degli operai, indetto dall’Arbeiterbund a Zurigo, si affermò questo principio, sostenuto da un grande sociologo cristiano, Padre Beck, e che ebbe anche il conforto di tutti i rappresentanti degli altri congressisti e particolarmente dei socialisti, i quali ritennero che per ragioni sociali, ed anche per ragioni igieniche, la giornata di riposo non avrebbe potuto ottenere la sua completa efficacia se non fosse stata disposta nel giorno di festa. Per ragioni di carattere sociale; perché giustamente si diceva che, per raggiungere la sua efficacia, il riposo deve essere pubblico, cioè non deve essere soltanto degli individui, ma della società, perché non facendosi così si ingenererebbe il più stridente pericoloso contrasto. Infatti nulla concorre di più a far sentire all’operaio la inferiorità della sua situazione quanto quello di dovere egli andare la domenica, in abito di fatica, al lavoro, quando i cittadini delle classi più agiate si recano con gli abiti di festa alle manifestazioni di carattere religioso oppure al passeggio. C’è uno stridente contrasto che si deve togliere, che non si deve permettere.

Vi sono poi le ragioni igieniche: il bisogno che il giorno di riposo sia giorno di tranquillità, di serenità, il che evidentemente non avviene quando l’operaio riposa in giornata nella quale gli altri lavorano, oppure lavora in giornata nella quale gli altri riposano.

La legislazione italiana a questo proposito ha seguito la corrente assunta al Congresso di Zurigo dai sociologhi e l’onorevole Cabrini, nel 1902, presentò una proposta di legge tendente appunto alla codificazione del riposo festivo. Il progetto Cabrini portò ad una lunga ed interessante discussione: si approvarono gli articoli, ma poi, alla votazione segreta, avvenne (anche allora il segreto delle urne talvolta riservava delle sorprese), che la legge risultasse bocciata, perché le destre si schierarono contro, pur avendo nella discussione degli articoli favorito ed appoggiato la proposta Cabrini.

Ma, ripeto, il problema era vivo. Nel 1906 – secondo quanto riportano le cronache parlamentari – Filippo Turati chiese al Governo che fosse ripresa in esame la legge del riposo festivo. Il Governo promise di mantenere l’impegno che si era assunto e nel 1907 venne presentato un disegno di legge che portò alla legge del 7 luglio 1907 che codifica e regolamenta il riposo domenicale.

Questa legge è ancora vigente, perché le trasformazioni avvenute con la legge del ’36 non hanno mutato sostanzialmente lo spirito e la sostanza della legge del 1907. Infatti anche nella legge del ’36 si specifica e si precisa che il giorno di riposo settimanale deve coincidere con la domenica.

Anche nel campo internazionale il principio del riposo festivo venne propugnato nel 1921; infatti in occasione della terza sessione della Conferenza internazionale del lavoro tenutasi a Ginevra fu proposto un quesito a tutti gli Stati che avevano aderito alla Conferenza stessa circa l’opportunità che il giorno di riposo coincidesse colla domenica.

Le risposte furono affermative da parte degli Stati cattolici e negative da parte degli Stati non cattolici.

Ma, in definitiva, anche queste ultime risposte sostenevano la tesi del riposo festivo, in quanto che – cito l’India ed alcuni Paesi protestanti – chiedevano che la giornata di riposo coincidesse colla giornata festiva delle particolari religioni: così le comunità ebraiche avevano domandato che la giornata festiva coincidesse col sabato. In relazione a tale indagine il Bureau international du Trovail predispose un progetto di convenzione nel quale, al secondo capoverso dell’articolo 1, si stabiliva il principio che il giorno di riposo settimanale dovesse essere la giornata consacrata festiva dalla tradizione o dagli usi dello stato e della regione.

In Italia la tradizione religiosa è cattolica e quindi noi non possiamo concepire che la Costituzione abbia ad affermare il principio del riposo settimanale, senza precisare che questo riposo deve coincidere colla domenica.

Né, onorevoli colleghi, si pensi che io sia qui a chiedere che si costringano tutti i cittadini a compiere alla domenica atti di culto; certo però è che tutti i cittadini debbono essere garantiti nel libero esercizio della loro religione. Un grande sociologo, che voi certamente ricordate, Windthorst, diceva: «Io non voglio introdurre a forza l’operaio in chiesa, ma voglio che egli abbia la possibilità di andarci, se lo vuole».

Orbene, onorevoli colleghi, il tollerare il lavoro domenicale che altro non è se non impedire all’operaio di adempiere ai suoi doveri religiosi? Perché – intendiamoci bene – la libertà di coscienza e di culto non può venire interpretata nel senso di libertà di essere irreligiosi, ma deve essere libertà di avere convinzioni religiose e di uniformarvi i propri atti.

Ora, vi è un comandamento di Dio che impone la «santificazione della festa».

Ed il padrone o lo Stato, che obblighino o tollerino che l’operaio lavori anche in questi giorni, violano la coscienza cristiana ed offendono la libertà religiosa.

Una voce. Per gli ebrei è il sabato.

MEDA. In Italia, la stragrande maggioranza dei lavoratori è cattolica. In uno Stato, dove la maggioranza fosse costituita da ebrei, il riposo coinciderebbe col sabato.

Oggi la situazione italiana è quella che vi ho esposta. (Interruzioni Commenti a sinistra).

In ogni modo, onorevoli colleghi della sinistra, non capisco le vostre meraviglie, specie quando l’atteggiamento dei vostri uomini migliori del passato è stato favorevole al riposo festivo. (Interruzioni a sinistra).

Oltre Cabrini e Turati, potrei ricordarvi Vandervelde.

TONELLO. In Italia la libertà religiosa esiste.

MEDA. Onorevole Tonello, lei dichiara di essere d’accordo sull’esistenza della libertà religiosa. Benissimo. Evidentemente lei come me ricorda che tutti i partiti proprio in questa aula hanno dichiarato, si sono anzi solennemente impegnati, a rispettare la libertà religiosa convinti evidentemente che là dove non vi è libertà religiosi non esiste democrazia.

PRESIDENTE. Sono stati così svolti tutti gli emendamenti presentati. Prego l’onorevole Ghidini di esprimere l’avviso della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. C’è innanzi tutto un emendamento Nitti per la soppressione dell’articolo 32. Noi riteniamo che la questione della retribuzione sia fondamentale per quanto attiene al diritto al lavoro e quindi non crediamo che l’articolo possa essere soppresso.

L’onorevole Colitto, a sua volta, ha proposto di sostituire l’articolo col seguente:

«La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro, adeguata ad un dignitoso tenore di vita ed alle possibilità dell’economia nazionale».

L’emendamento è sostitutivo di tutto l’articolo 32, ma richiama solo il contenuto del primo comma. La sua prima parte: «La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro», è conforme al testo proposto dalla Commissione.

La differenza è nel periodo successivo: «adeguata ad un dignitoso tenore di vita».

La Commissione propone: «ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia».

È più breve «dignitoso tenore di vita». Ma la differenza è che si riferisce soltanto alla vita del lavoratore e non anche alle sue necessità familiari.

Ho già detto, in sede di discussione generale, le ragioni per le quali riteniamo necessario che il salario corrisponda, oltre che alle esigenze personali del lavoratore, anche alle sue esigenze familiari.

Non è possibile che sia considerato soltanto il bisogno suo se lui solo lavora; bisogna che siano considerati anche i bisogni della famiglia.

La Commissione mantiene il suo criterio e ritiene che alla giusta retribuzione possano concorrere anche gli assegni familiari che appunto servono ad adeguare alle necessità della famiglia il salario base.

L’emendamento aggiunge: «ed alle possibilità della economia nazionale». L’aggiunta è nuova nel senso che non ha precedenti, sebbene sia tale che potrebbe condizionare espressamente tutti i diritti di cui al progetto, essendo chiaro che tutte le esigenze sono subordinate alla possibilità di attuarle. Ma appunto per questo motivo l’aggiunta è inutile.

Osservo ancora che la retribuzione da corrispondere al lavoratore deve essere considerata più specialmente in rapporto alle condizioni del datore di lavoro, che alle possibilità nazionali.

Infine, l’emendamento Colitto tende ad eliminare il capoverso dell’articolo: «Il lavoratore ha diritto non rinunziabile al riposo settimanale ed a ferie retribuite».

Se ho ben compreso, l’onorevole collega non è contrario, in sostanza, al concetto espresso nel testo, ma ha piuttosto una preoccupazione: che cioè la facoltà di rinunzia, espressa unicamente in rapporto alle ferie annuali, sia interpretabile nel senso che invece al salario si possa rinunziare. In verità non credo che questa possibilità esista, per quanto nel campo del possibile tutto si possa immaginare quando si dispone di una fantasia così viva come quella del collega onorevole Colitto; ma credo che sia tanto remota da potersi senz’altro escludere una interpretazione come quella che paventa il collega.

Per queste ragioni la Commissione ritiene doversi mantenere nella sua integrità l’articolo 32.

Poi c’è l’emendamento dell’onorevole Gabrieli:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro fornito e adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa».

La parola «fornito» rappresenta un mutamento di carattere soltanto formale; invece avrebbe valore sostanziale quest’ultimo inciso: «adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa». Se ho ben capito l’illustrazione che egli ha fatto di questo secondo inciso del suo emendamento, saremmo d’accordo. L’onorevole Gabrieli è invece in disaccordo coll’onorevole Colitto perché ritiene che nell’esistenza libera e dignitosa si comprendano non soltanto le esigenze del lavoratore, ma anche della famiglia. Ma allora il non dirlo diventa pericoloso, tanto è vero che l’onorevole Colitto intende precisamente di limitare la portata di questo nostro articolo escludendo la considerazione del bisogno famigliare. Se avessi l’autorità di dare un consiglio all’onorevole Gabrieli gli direi di rinunziare all’emendamento.

Gli emendamenti degli onorevoli Cappugi, Persico, Puoti non sono stati svolti; quello dell’onorevole Foa è stato ritirato: non mi soffermo su di essi.

Veniamo ora all’emendamento degli onorevoli Bibolotti e Bitossi i quali propongono di aggiungere al primo comma il seguente:

«Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge».

A questo proposito devo osservare che prima le due Sottocommissioni (1a e 3a) e poi la Commissione dei settantacinque hanno ritenuto indispensabile, quando è stato redatto l’articolo, di fissare i due criteri fondamentali che stanno alla base della determinazione del compenso al lavoratore: la quantità e la qualità del lavoro e le necessità personali e familiari. La Commissione non è andata oltre, cioè non ha ritenuto che fosse necessaria una determinazione maggiore. Oggi per verità, di fronte all’emendamento, la Commissione non ha preso una decisione specifica; ma, dalle rapide intese corse fra noi, sono in condizione di dire che i concetti espressi nell’emendamento ci appaiono giusti. Resta a vedere se sia opportuno e necessario che tali concetti vengano inclusi nella legge costituzionale, o se invece la loro sede migliore non sia nella legislazione speciale, come del resto accennava lo stesso onorevole Bibolotti quando, illustrando l’emendamento, spiegava che leggi speciali avrebbero determinato tutti i minimi di salario. Comunque, come ho detto dianzi, la Commissione si rimette alla decisione dell’Assemblea.

C’è poi l’emendamento dell’onorevole Meda: «Lo Stato riconosce e garantisce ai lavoratori il diritto al riposo festivo».

Mi consenta, onorevole Meda, che non entri in merito alla sua discussione. Io qui rappresento l’intera Commissione, e non volendo entrare nel merito mi limito ad una enunciazione di carattere generale. La frase: «riposo settimanale», è consacrata dall’uso più ancora dell’altra «riposo festivo», quantunque quest’ultima abbia avuto i sostenitori ai quali Ella ha dianzi accennato.

Del resto la frase non potrà modificare ciò che di fatto avviene, che cioè – salvo eccezioni – il riposo settimanale coincide coi giorni di festa. Ed ora vorrei fare qualche rilievo sugli emendamenti dell’onorevole Puoti, che vedo presente.

Si tratterebbe, secondo il primo emendamento, di aggiungere alle ultime parole del primo comma le seguenti: «anche in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

Avverto l’onorevole Puoti che questo inciso che vorrebbe aggiunto a coronamento del 1° comma dell’articolo 32, fa già parte dell’articolo 34.

PUOTI. Lo volevo spostare all’articolo 32, dove si parla di retribuzione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. A noi pare molto più armonico lasciarlo all’articolo 34, perché ivi sono considerati tutti i casi nei quali lo Stato sovviene ai bisogni del cittadino e del lavoratore sotto le forme dell’assistenza e della previdenza, Quindi, staccando dall’articolo 34 una sua parte essenziale, ne sarebbe sconvolta l’armonia della disposizione. Credo pertanto che la Commissione sia contraria al trasferimento che propone l’onorevole Puoti.

Il secondo emendamento Puoti è del seguente tenore:

«Al primo comma, aggiungere il seguente:

«Sempre che sia possibile e nelle forme e limiti stabiliti dalla legge, la retribuzione tenderà ad attuare la forma della partecipazione agli utili».

«Sempre che sia possibile», e su questo possiamo essere d’accordo.

«La retribuzione tenderà ad attuare la forma della partecipazione agli utili». È la determinazione di una speciale modalità che potrebbe assumere la «retribuzione» ma che noi non possiamo oggi prevedere. Non è conveniente che queste modalità eventuali siano fissate a priori nella Carta costituzionale.

Pertanto, ritengo che la Commissione sia dell’avviso di mantenere integro il testo che ha proposto.

PRESIDENTE. Chiederò ora ai presentatori di emendamenti se li conservano.

L’onorevole Nitti ha presentato un emendamento per la soppressione dell’articolo 32. Poiché l’onorevole Nitti non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.

L’onorevole Colitto ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità ed alla qualità del lavoro, adeguata ad un dignitoso tenore di vita ed alle possibilità dell’economia nazionale».

Lo conserva?

COLITTO. Dopo i chiarimenti, dati brillantemente dall’onorevole Ghidini, non insisto sul mio emendamento. Mi riservo, però, in occasione della votazione sul secondo comma, di chiedere la votazione per divisione.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Gabrieli:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La retribuzione del lavoratore deve essere proporzionata alla quantità e qualità del lavoro fornito e adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa».

Onorevole Gabrieli, lo conserva?

GABRIELI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Cappugi, Pastore Giulio, Morelli Luigi:

«Al primo comma, dopo la parola: lavoro, inserire le parole: capace di coprire gli oneri previdenziali ed assistenziali».

MORELLI LUIGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORELLI LUIGI. Dichiaro che mantengo l’emendamento, di cui sono firmatario, perché ritengo necessario, nello stabilire la retribuzione, di garantire gli oneri previdenziali e assistenziali.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Persico, Cairo, Tremelloni, Caporali:

«Al primo comma, alle parole: e in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e la famiglia, sostituire le altre: in ogni caso adeguata alle necessità personali e familiari».

Onorevole Persico, lo mantiene?

PERSICO. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Seguono due emendamenti dell’onorevole Puoti:

«Aggiungere alle ultime parole del primo comma le seguenti: anche in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

«Al primo comma aggiungere il seguente:

«Sempre che sia possibile e nelle forme e limiti stabiliti dalla legge, la retribuzione tenderà ad attuare la forma della partecipazione agli utili».

Onorevole Puoti, li mantiene?

PUOTI. Ritiro il primo e mantengo il secondo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Bibolotti e Bitossi:

«Al primo comma aggiungere il seguente:

«Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge».

Onorevole Bibolotti, lo mantiene?

BIBOLOTTI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Meda Luigi, Cappugi, Codacci Pisanelli e altri:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Lo Stato riconosce e garantisce ai lavoratori il diritto al riposo festivo».

Onorevole Meda, lo mantiene?

MEDA. Pur non essendo convinto dei chiarimenti dati dall’onorevole Ghidini, non insisto.

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione dell’articolo 32. Pongo in votazione la prima parte dell’articolo:

«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro».

(È approvata).

Passiamo alla votazione dell’emendamento Cappugi, Pastore Giulio e Morelli Luigi:

«Al primo comma, dopo la parola: lavoro, inserire le parole: capace di coprire gli oneri previdenziali ed assistenziali».

CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Dichiaro che voterò contro questo emendamento perché penso che gli oneri della previdenza ed assistenza debbano essere interamente affrontati dallo Stato con le imposte normali.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Giustissimo.

MORELLI LUIGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORELLI LUIGI. Non insisto nell’emendamento Cappugi di cui sono firmatario.

PRESIDENTE. Pongo allora in votazione la prima parte del primo comma dell’articolo nel testo della Commissione: «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro».

(È approvata).

Passiamo alla seconda parte del comma:

«ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia».

Su questa seconda parte del primo comma è stato presentato dagli onorevoli Persico, Cairo, Tremelloni, Caporali, il seguente emendamento:

«Al primo comma, alle parole: e in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e la famiglia, sostituire le altre: in ogni caso adeguata alle necessità personali e familiari».

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Vuol dichiarare pure come voterà per il suo emendamento? (Si ride).

PERSICO. Non posso più svolgere l’emendamento e non intendo svolgerlo, ma desidero dire le ragioni per le quali mi sono indotto a presentarlo.

PRESIDENTE. Questo equivale a svolgerlo e lei in questo momento non può svolgerlo. Soltanto se lo ritirasse, potrebbe motivare le ragioni del suo ritiro.

PERSICO. Dichiaro di ritirarlo.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la seconda parte del primo comma nel testo proposto dalla Commissione:

«ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia».

(È approvata).

Vi è ora l’emendamento dell’onorevole Puoti:

«Al primo comma, aggiungere il seguente:

«Sempre che sia possibile e nelle forme e limiti stabiliti dalla legge, la retribuzione tenderà ad attuare la forma della partecipazione agli utili».

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Noi votiamo contro, perché riteniamo che eventualmente questo argomento debba essere affrontato in sede di articolo 43.

PERRONE CAPANO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERRONE CAPANO. Dichiaro che voterò contro per la stessa ragione esposta dall’onorevole Taviani.

PRESIDENTE. Onorevole Puoti, mantiene il suo emendamento?

PUOTI. Lo ritiro, riserbandomi di ripresentarlo in sede di articolo 43.

PRESIDENTE. Sta bene. Segue ora l’emendamento aggiuntivo degli onorevoli Bibolotti e Bitossi:

«Al primo comma aggiungere il seguente: «Il salario minimo individuale e familiare e la durata della giornata lavorativa sono stabiliti dalla legge».

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. A noi pare, nel merito, che il salario minimo individuale e familiare non possa essere stabilito dalla legge. Mi pare che praticamente si miri, in tal modo, a disciplinare una materia estremamente varia e diversa a seconda dei settori produttivi. È un compito contrattuale questo, che è difficile ridurre a compito legislativo.

PRESIDENTE. Onorevole Bibolotti, insiste sul suo emendamento?

BIBOLOTTI. Insisto perché si voti l’emendamento; non si tratta, infatti, qui di stabilire oggi il minimo del salario, ma di dare una norma al legislatore di domani perché sia sempre garantito ai lavoratori questo minimo. (Commenti).

Oggi già i contratti collettivi stabiliscono in modo differente questi minimi: si tratta di proteggere il bambino e la donna, sopratutto, che non sempre sono protetti dai contratti collettivi. Bisogna che la legge provveda. È un’affermazione di carattere sociale. Mi pare che anche secondo la vostra dottrina sociale, onorevole Gronchi, questo concetto possa essere affermato nella Costituzione.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Trovo che se si tratta di stabilire una linea di principio, il primo comma è sufficientemente largo per comprendere anche questo, perché dice: «…una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa».

Osservo, peraltro, che volendo introdurre nella Costituzione dei concetti prevalentemente particolari, ne snaturiamo il carattere che deve essere normativo. Non vi è contrarietà da parte nostra; ma riteniamo superfluo l’emendamento.

BIBOLOTTI. Chiedo che l’emendamento sia votato per divisione.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione la seguente proposizione: «Il salario minimo individuale e familiare è stabilito dalla legge».

GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Preferiamo astenerci, perché noi non possiamo votare contro un concetto che è anche nostro.

(Non è approvata).

PRESIDENTE. Pongo in votazione la seconda proposizione:

«La durata della giornata lavorativa è stabilita dalla legge».

(È approvata).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione del secondo comma dell’articolo 32: «II lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite».

COLITTO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COLITTO. Mi sono riservato di chiedere la votazione per divisione, non perché il diritto alle ferie sia da me ritenuto un diritto cui si possa rinunciare, ma perché, essendosi approvato il primo comma, in cui si parla di diritto alla retribuzione, senza che lo si sia qualificato «non rinunziabile», potrebbe sorgere il dubbio che il diritto al riposo ed alle ferie non sia rinunciabile e, per esempio, il diritto ad un eventuale aumento di salario sia rinunciabile.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il comma senza l’inciso: «non rinunciabile»:

«Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite».

(È approvato).

Pongo in votazione l’inciso: «non rinunciabile».

(È approvato).

L’articolo 52 risulta, nel suo complesso, così approvato:

«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia.

«La durata della giornata lavorativa è stabilita dalla legge.

«Il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite».

Gli onorevoli Corbi, Pajetta Giuliano, Mattai Teresa e Bitossi hanno proposto il seguente articolo 32-bis:

«È proibito il lavoro salariato dei minori di anni 16. La Repubblica tutela il lavoro dei minori di anni 21 con speciali norme di legge e garantisce loro, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione».

L’onorevole Corbi ha facoltà di svolgerlo.

CORBI. Onorevoli colleghi, desidero richiamare la vostra attenzione su una lacuna, a parer mio grave, che si riscontra in questo progetto di Costituzione che altri colleghi hanno invece criticato perché ad essi sembrava che esso troppo indulgente fosse stato nell’accogliere questioni di dettaglio, sicché questo progetto – più che una Carta costituzionale – parrebbe una raccolta di leggi ordinarie.

Infatti questo progetto di Costituzione, non si occupa in nessun modo dei giovani lavoratori. È vero che dei giovani si è parlato quando si è trattato della scuola, ma si sa che non tutti i giovani in Italia hanno la possibilità e la fortuna di essere studenti – anche quando lo vorrebbero – e che vi sono in Italia su sei milioni di iscritti ai sindacati, circa un milione e mezzo di giovani lavoratori. Di qui l’urgenza, la necessità, di disciplinare e di garantire il lavoro dei giovani così come si è fatto per gli adulti, così come si è fatto per le donne.

Il problema dei giovani – si sa – non è un problema di oggi, non è un problema solo di questo dopo guerra, poiché è noto come il capitalismo nella sua ascesa sia passato su milioni di corpi tutto proteso verso il profitto egoistico che non conosce scrupoli e che non conosce ostacoli anche quando questi ostacoli siano costituiti da giovani vite. Basta rifarsi, per rendersi conto di ciò, alla letteratura, abbondante in materia, italiana e straniera. È certo che i giovani lavoratori, insieme alle donne, hanno sempre costituito quella riserva da cui il capitalismo…

VERONI. C’è la legge sul lavoro dei minori!

PRESIDENTE. Onorevole Veroni, non interrompa. È da supporre che l’onorevole Corbi conosca l’esistenza di quella legge.

CORBI. …da cui il capitalismo attingeva per aumentare i suoi profitti e per fiaccare la resistenza del fronte dei lavoratori.

Orbene, io credo che se ai giovani non vengono riconosciuti certi diritti, gli stessi diritti che sono stati riconosciuti alle donne lavoratrici diverrebbero inefficaci, perché gli imprenditori troverebbero il modo di utilizzare i lavoratori giovani, anziché sottomettersi a quelle disposizioni che garantiscono il lavoro delle donne.

Quindi è necessario rendere giustizia ai giovani lavoratori. Esiste una legge che protegge il lavoro dei giovani, ed è la legge del 26 aprile 1934, ma chi osa negare che essa è la più arretrata fra quelle esistenti in tutti i paesi capitalistici? E purtroppo questa legge, nonostante tutte le sue imperfezioni, non viene neppure rispettata. Basta andare nelle nostre campagne, e sopratutto nel Mezzogiorno, dove più acuto è il problema, per rendersene conto. Guardate i salari che si pagano in Italia. Oggi gli spazzini di Bari hanno 11 lire al giorno; i dipendenti del commercio hanno 55 lire al giorno, più 76 di contingenza. I giovani lavoratori delle miniere, che compiono un lavoro faticosissimo e pericolosissimo, un lavoro che distrugge la loro vita fin dai primi anni, nel periodo dai 16 ai 18 anni di età hanno un salario di 55 lire. Così avviene per i chimici e per altre numerosissime categorie di giovani che lavorano nelle risaie, nelle campagne e nelle fabbriche.

Bisogna migliorare le condizioni di lavoro e di vita che vengono fatte a questi lavoratori, anche per salvarli dalla tubercolosi. Pensate che il 72 per cento dei giovani tubercolotici, dalle recenti statistiche, risulta appartenere a giovani lavoratori. È un fatto doloroso, triste, ed è un’altra delle eredità lasciate dal fascismo. Ma non solo, badate, questa è conseguenza del fascismo; è la conseguenza di un sistema sociale, che dobbiamo mutare non solo nell’interesse di tante giovani vite, ma nell’interesse nazionale, perché questi giovani sono i futuri lavoratori, i futuri dirigenti del nostro paese. E potrei fare un lungo elenco di dolori, di miserie e di ingiustizie, riferendomi per esempio ai braccianti di Andria, di Minervino, di Cerignola. Giovani che mai si accorgeranno di essere stati tali, che hanno disimparato a sorridere a nove, a dieci anni di età; giovani che restano per ore intere accosciati lungo le strade, nell’attesa e nella ricerca del lavoro; nella speranza che un padrone venga a «comprarli». Strumenti di lavoro, considerati come animali, come bestie da soma. Così accade anche nelle fabbriche, così accade ad esempio nelle vetrerie, nelle acciaierie della Terni, nella Borsalino. In tutte le fabbriche questi giovani lavoratori sacrificano non soltanto quanto ad essi compete per il lavoro che compiono, ma anche la possibilità di vivere come cittadini; sacrificano la loro gioia, la loro gioventù, il loro diritto alla vita. Dobbiamo affrontare questo problema e dobbiamo risolverlo, per tutti: per i giovani operai, per i contadini e per le mondariso che non conoscono condizioni di vita degne di una società civile, moderna. So che solo in seguito sarà possibile fare leggi apposite per disciplinare la materia; aprire numerose scuole professionali per dare a questi giovani un mestiere e farne cittadini e lavoratori rispettati. Ma io credo che per ora noi possiamo accontentarci di questo articolo aggiuntivo che io, assieme ad altri colleghi, ho proposto; e che vuole essere un impegno, un dovere per i legislatori che dovranno rendere giustizia, non soltanto ai giovani, ma alla nostra, alla loro propria coscienza. Questo deve essere, io credo, il compito dei costituenti di oggi. Il fascismo ha usato per lunghi anni uno slogan, che diceva: «largo ai giovani»; ma abbiamo visto come questo largo intendeva farglielo nelle trincee d’Africa e d’Europa, nei cimiteri, nei tubercolosari. Noi dobbiamo dimostrare con i fatti che la Repubblica vuole aprire ai giovani le vie della fabbrica, della scuola, della vita. Per questo, o colleghi, mi auguro che questo articolo aggiuntivo non raccolga soltanto l’adesione di una parte dell’Assemblea, ma raccolga l’adesione entusiasta della totalità dei deputati. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. All’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Corbi è stato presentato il seguente emendamento dagli onorevoli Cingolani, Taviani, Moro, Medi, Dominedò, Valenti, Colonnetti, Jacini, Ferrarese, Rescigno:

«1°) Trasferire l’articolo 32-bis proposto dagli onorevoli Corbi, Pajetta Giuliano, Mattei Teresa e Bitossi all’articolo 33 come secondo comma;

«2°) Sostituire all’espressione: «È proibito il lavoro salariato dei minori di anni 16» la seguente: «La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato».

L’onorevole Cingolani ha facoltà di svolgere il suo emendamento.

CINGOLANI. Onorevoli colleghi, veramente sono un po’ titubante a prendere la parola per un motivo di carattere generale. Io vedo con molto dolore rotta una consuetudine di correttezza parlamentare e giornalistica per la quale nel passato quelle che erano le nostre deliberazioni qui dentro e le impostazioni che davamo alle nostre discussioni venivano dalla stampa riprodotte, grosso modo, fedelmente, pur con la intonazione politica differenziata di ciascun gruppo politico. Dopo la discussione di ieri, l’eco di alcuni organi della stampa è stata tale da trasformare quello che è stato qui dentro un conflitto ideologico e pratico insieme. Ma nessuno dei votanti, pro o contro l’ultima mozione Pajetta-Montagnana, ha inteso negare quelli che sono i diritti del lavoro, come è stato affermato in alcuni giornali, mentre l’Assemblea tutta è stata unanime nell’affermare a suo tempo i diritti del lavoro. E dico ciò perché anche in questo argomento noi, che dissentiamo dall’onorevole Corbi nel dettaglio del suo emendamento, non vogliamo che domani si dica che siamo stati contro la regolamentazione del lavoro dei minori. Tutti invece qui dentro abbiamo inteso il patos che ha riscaldato la parola dell’onorevole Corbi.

Non possiamo dimenticare che l’inizio della legislazione sociale in tutto il mondo si è avuto proprio per questo grido di dolore, che veniva da tutti quei luoghi di produzione, nei quali era occupata la mano d’opera minorile e femminile.

Il lavoro della donna e del fanciullo è stato il primo oggetto delle cure e delle premure di quanti si sono dedicati alla redenzione del popolo lavoratore.

Fin dalla fine del secolo XIX sempre si sono uniti insieme il tentativo di tutelare il lavoro delle donne e quello di tutelare il lavoro del fanciullo.

Chi di noi ha partecipato, sia pure come pubblico plaudente e fremente, alla propaganda per una legislazione sociale nel nostro Paese, sente ancora gli echi nella propria coscienza, prima che nell’orecchio, della terrificante rievocazione di quanto accadeva nelle grandi vetrerie della Francia e del Belgio, dove bambini di 7-8 anni venivano a consumarsi, prima che il vetro potesse essere plasmato dalla fiamma divoratrice della loro salute e della loro innocenza. Tutti abbiamo sentito e sentiamo il grido di dolore del famoso «canto della camicia», fin dall’inizio della legislazione sociale per la protezione della donna; esso ha pervaso di sentimento tutta l’attività sociale degli uomini politici e degli organizzatori sindacali. Quindi, siamo, lo dico subito, toto corde colle preoccupazioni espresse dall’onorevole Corbi.

Noi abbiamo presentato la proposta di trasferire l’articolo 32-bis proposto, come comma aggiuntivo, all’articolo 33. Siccome sempre si è parlato, in modo univoco, della protezione della donna e del fanciullo, crediamo che sarebbe bene parlare del lavoro dei minorenni in coda all’articolo 33, che vuole tutelare il lavoro della donna. Per quanto riguarda l’emendamento all’articolo 32-bis, proponiamo di non precisare l’età, proprio nell’interesse dei giovani lavoratori.

Chi conosce come si è composta – è la parola esatta – la legislazione della protezione del fanciullo dalla prima espressione fino a la legge del 1934, sa che è bene non precisare l’età.

Ci sono grandi industrie a fuoco continuo, nelle quali 16 anni rappresentano un’età ancora pericolosa, non matura per i giovani lavoratori. Io vengo dall’industria, come modesto chimico. Ho vissuto in fabbriche di acido solforico, di zucchero e di concimi, nelle quali, in determinate fasi, non dovrebbero essere adibiti al lavoro ragazzi di 16 anni. In altre attività, per esempio artigianali o agricole, quello di 16 anni si può considerare una età limite da potersi abbassare.

D’altra parte, c’è un principio molto interessante che va diffondendosi in tutto il campo della istruzione professionale.

Proprio ieri ho avuto occasione di visitare insieme con l’onorevole Gasparotto una scuola operaia a Città di Castello, fondata da un vostro antico compagno, Pierangeli, 30 anni fa. In quella scuola è stato introdotto il sistema della fabbrica: gli allievi hanno la medaglietta di presenza, hanno la retribuzione in funzione del lavoro compiuto.

Il concetto di unire le scuole alla fabbrica, con la fruttificazione del lavoro, pervade tutta questa attività.

Quindi fissare l’età in un campo, in cui sarà bene stabilire delle differenze con una serie di provvedimenti appassionatamente studiati e discussi, mi pare che non sia il caso.

Questo è lo spirito, onorevole Corbi, della mia osservazione, della mia proposta di modificazione.

Per quanto riguarda poi la seconda parte dell’articolo 32-bis, cioè la garanzia «a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione» sono d’accordo.

Io veramente avevo proposto ai miei amici di mettere la vecchia frase che era uno slogan del mio buon tempo antico. I miei amici anziani si ricorderanno di quando si iniziò la legislazione sociale alla Camera italiana.

Lo slogan era questo: «a uguale lavoro, con uguale rendimento, retribuzione uguale», per impedire che si speculasse; per escludere le donne e i fanciulli dalla attività lavorativa, sull’eventuale minore rendimento, preso anche a pretesto per escludere da una forma di attività una parte così cospicua – le cifre dell’onorevole Corbi sono esatte – del nostro nascente piccolo mondo operaio.

Ad ogni modo però mi hanno assicurato i colleghi che è ormai una prassi accettata quella che, quando si parla di parità di lavoro, si intende parlare anche di parità di produzione. Quindi non insisto sul ritorno alla vecchia formula del tempo della mia giovinezza.

Comunque, il nostro atteggiamento, per riassumere, è questo: siamo favorevolissimi alla regolamentazione del lavoro dei fanciulli. Non riteniamo che sia opportuno fissare la età, perché in alcune forme di attività produttiva questa deve essere anche inferiore ai 16 anni per riguardo allo sviluppo biofisiopsichico del fanciullo.

Quindi pregherei l’onorevole Corbi di accettare il nostro emendamento ed accettare anche di porre l’articolo 32-bis in coda all’articolo 33. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, accetta la proposta dell’onorevole Cingolani?

CORBI. Accetto la formula dell’onorevole Cingolani e prego di porla in votazione ora, con la riserva di trasferirla all’articolo 33.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. La Commissione non si oppone.

PERSICO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERSICO. Nell’articolo aggiuntivo proposto dall’onorevole Corbi invece che: «a parità di lavoro» preferirei che si dicesse: «a parità di opera lavorativa».

PRESIDENTE. L’onorevole Persico preferirebbe questa nuova formala. È accettata dall’onorevole Corbi?

CORBI. Non credo che sia necessario apportare altre modifiche, perché l’onorevole Cingolani ha già precisato bene il comune pensiero.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Corbi con la modificazione proposta dall’onorevole Cingolani, restando inteso che, in caso di approvazione, esso verrà trasferito alla fine dell’articolo 33:

«La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

«La Repubblica tutela il lavoro dei minori di anni 21 con speciali norme di legge e garantisce loro, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione».

(È approvato).

Presentazione di un disegno di legge.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GULLO, Ministro di grazia e giustizia. Mi onoro di presentare all’Assemblea Costituente il seguente disegno di legge a nome del Presidente del Consiglio dei Ministri: «Revoca dall’impiego per mancata fede al prestato giuramento».

PRESIDENTE. Do atto all’onorevole Ministro di grazia e giustizia della presentazione di questo disegno di legge. Sarà inviato alla Commissione competente.

Si riprende la discussione del progetto di costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Riprendiamo la discussione del progetto di Costituzione.

Passiamo all’articolo 33:

«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare».

A questo articolo sono stati presentati diversi emendamenti. L’onorevole Colitto ha già svolto il suo, del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«Quanto al lavoro, la donna ha gli stessi diritti dell’uomo. La madre ed il bambino hanno diritto ad una speciale protezione».

Segue l’emendamento degli onorevoli Federici Maria e Medi:

«Sostituirlo col seguente:

«La donna ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore.

«Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna».

La onorevole Federici ha presentato anche il seguente emendamento:

«Al secondo periodo, dopo le parole: funzione familiare, aggiungere le parole: e il sano svolgimento della maternità».

L’onorevole Federici Maria ha facoltà di svolgere i due emendamenti.

FEDERICI MARIA. Onorevoli colleghi, l’articolo 33 riguarda la donna lavoratrice e certi suoi particolari problemi. Questo articolo è un riflesso vivo delle gravi ingiustizie che ancora si registrano nella vita italiana. Da qui a pochi anni, noi dovremo perfino meravigliarci di aver introdotto questo articolo nel testo costituzionale; non perché esso non riguardi materia puramente costituzionale – da questo punto di vista dovremmo meravigliarci d’aver introdotto troppi articoli del genere – ma piuttosto per aver dovuto sancire nella Carta costituzionale che a due lavoratori di diverso sesso, ma che compiono lo stesso lavoro, spetta un’uguale retribuzione. Così pure ci dovremo meravigliare di aver dovuto stabilire come norma costituzionale che le condizioni di lavoro, per quanto riguarda la donna, debbano consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e – io aggiungo – materna. Cioè dovremo meravigliarci di aver dovuto introdurre una norma così naturale ed umana. Eppure, se tanto dobbiamo fare, lo dobbiamo fare per le ragioni che permangono, che regolano e che influenzano il lavoro femminile. Ragioni che hanno anche il loro peso, che risalgono non solo alla domanda del lavoro, ma anche all’offerta del lavoro. Molto spesso è la stessa donna lavoratrice a svalutare in qualche modo il suo lavoro. C’è una tendenza all’autosvalutazione, perché la donna ritiene secondario, semplicemente integrante, il lavoro suo e quindi il guadagno che le spetta, di fronte al salario del marito o del capo famiglia. Da parte della domanda di lavoro c’è la giustificazione che il salario più basso stabilito per la donna si ripercuote naturalmente sui costi e quindi sulle vendite, influenzando il mercato e favorendo, in ultima analisi, una maggiore produzione. C’è quindi una giustificazione economica. Non è questa la sede per esaminare sino a che punto rispetto all’offerta e alla domanda di lavoro, sia ingiusta questa situazione. Pensiamo che tutto ciò sia ormai acquisito dalla coscienza ma non dalla pratica. (In questi giorni stiamo faticosamente cercando di ottenere che alle donne sia riconosciuto il diritto di fruire di uguale indennità di contingenza, nei confronti dell’uomo lavoratore). Dunque, non dalla pratica, ma dalla coscienza comune, è oggi acquisito che il compenso spettante all’uomo lavoratore – intendo dire non il vero e proprio salario, ma anche tutti i benefici e le provvidenze che al salario siano eventualmente connesse – non debba essere superiore al compenso stabilito, per pari lavoro, alla donna lavoratrice.

L’emendamento da me presentato tende dunque a rendere umane le condizioni di vita alla lavoratrice, considerando due gruppi di interessi distinti, ma ugualmente importanti: uno che si riferisce alla funzione familiare della lavoratrice, l’altro alla funzione materna. Noi crediamo che il figlio della donna lavoratrice abbia diritto alle insostituibili cure materne, come tutti gli altri bambini. Noi affermiamo che questo bambino ha bisogno di cure non solo materiali, ma anche morali. Infatti il sano allevamento di un bambino non consiste tutto e solamente in possibilità di ordine materiale. La madre è insostituibile presso il bambino, per quanto riguarda la sua formazione interiore, la sua crescita spirituale, il formarsi del suo mondo morale.

Qui si riaffaccia la nostra esigenza particolare; esigenza che è ormai consacrata nell’articolo che abbiamo testé approvato, e cioè che veramente il salario sia tale per cui il lavoratore possa, col provento del suo lavoro, vivere non solo dignitosamente, ma anche dignitosamente formare, allevare, educare, mantenere una famiglia.

Tuttavia noi crediamo che non si possa arrivare presto a godere i benefici di una tale riforma legislativa, che non si giungerà tanto facilmente al salario familiare ed allora chiediamo almeno che le disposizioni generali, gli orari, la durata del lavoro, i permessi ed i congedi, tengano presente che la donna lavoratrice, oltre al suo lavoro, dinanzi alla macchina, dinanzi allo scrittoio, o in qualsiasi altra occupazione di carattere materiale o intellettuale, ha anche una grande funzione da svolgere: quella di formare, di allevare, di educare la famiglia. Funzione «essenziale». Non mi pare sia presente l’onorevole Calosso, il quale vorrebbe sopprimere col suo emendamento la parola «essenziale». Io avrei voluto pregare l’onorevole Calosso, almeno nello spazio di tempo che gli è concesso, prima di svolgere il suo emendamento, di riflettere ancora se non sia veramente essenziale, non dico per la famiglia, ma per la società intera, il lavoro della donna nella famiglia. Essenziale sì, la funzione familiare della donna. Io credo che appartenga alla esperienza di tutti, e quindi non solamente a quella dell’onorevole Calosso, che la donna dispieghi nella famiglia un complesso grandioso di attività, il cui valore è notevolissimo anche dal punto di vista economico.

L’aggiunta della parola «materna» all’articolo 33, cioè l’aggiunta che farebbe leggere il secondo comma in questo modo: «Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna», si ispira ai principî che ho esposto. Avevo proposto prima un altro emendamento che figura sul fascicolo successivo, che però rimane soppresso da questo che sto svolgendo ora, e che aggiungeva le parole «e il sano svolgimento della maternità» alla fine dell’articolo. È parso a taluni miei colleghi ed a me stessa, che la formulazione fosse forse un po’ forzata e che nella parola «materna» si potesse intendere benissimo «il sano svolgimento della maternità». Comunque, con l’aggiunta «materna» io mi riferisco – (perciò si tratta di un altro gruppo di interessi ben distinto da quello che riguarda la funzione familiare) – alla tutela igienico-profilattica della donna gestante, puerpera e nutrice. Come si può ottenere questo? Evidentemente con due procedimenti: uno di carattere negativo ed uno di carattere positivo.

Quello negativo riguarda evidentemente il divieto dei lavori che incidono sull’attività e sulla funzione della maternità, e quindi, sulla integrità della prole. Ed allora ci riferiamo al divieto dei lavori pesanti, del trasporto dei pesi ecc. Quello positivo è ricchissimo di intenzioni e di possibilità: per esempio, migliorare le condizioni ambientali, allontanando i fattori di nocività connessi con l’occupazione, intensificando la tutela igienica con un numero maggiore di visite mediche, soprattutto per le lavorazioni a rischio tossico o infettante, per i materiali che contengono piombo, mercurio o benzolo.

È necessario modificare tecnicamente gli impianti, specialmente laddove le stesse lavorazioni portano ad eccessivi sbalzi di temperatura, oppure sprigionano polvere o vapori tossici. Bisogna valutare la grande portata dell’atteggiamento coatto del lavoro, specialmente nei confronti della donna gestante o puerpera, per esempio, per determinate lavorazioni come la monda o il trapianto del riso e la raccolta delle ulive. Le statistiche ci dicono che gli aborti per queste forme coatte di lavoro femminile sono elevatissimi. Poiché per la donna, specialmente in particolari condizioni fisiche, taluni lavori si dimostrano particolarmente nocivi, sarà necessario ampliare e perfezionare i limiti della tutela igienica e sanitaria oggi ristretti solo alle cause di insalubrità.

Le sale di allattamento, i nidi e gli asili per i piccoli ospiti delle fabbriche siano cosa reale ed efficiente ovunque e non simbolica come accade ora.

È necessario, infine, promuovere tutte quelle provvidenze e quelle forme di assistenza che hanno una base ed un valore economico, elevando da sei a dieci settimane il riposo della donna prima e dopo il parto, facendo sì che questo riposo sia totalmente pagato. Altrimenti la donna, che non può rinunziare alla retribuzione corrisposta per intero, molto spesso si ripresenta alla fabbrica, dicendo che è in condizioni di poter riprendere il lavoro, e rinuncia così al riposo, per avere la corresponsione intera del suo lavoro. Ora noi dobbiamo evitare che la legge possa essere frodata dalla stessa persona interessata a essere protetta. Io arrivo a pensare col mio emendamento non soltanto alla madre lavoratrice, ma anche alla tutela delle giovanette che attraverso lavori faticosi vedono molto spesso sfiorire ed appassire la speranza della maternità, perché il lavoro incide profondamente e nefastamente sul loro fisico.

Vi è un emendamento, a proposito di questo stesso articolo, quello dell’onorevole Colitto, che dice che la madre ed il bambino hanno bisogno di una speciale protezione. Ora, questo non è sufficiente, perché già nell’articolo 25 abbiamo detto che l’infanzia e la maternità debbono essere protette. Ma qui sono le condizioni del lavoro che debbono garantire la protezione della madre. Si tratta di una cosa ben diversa.

Onorevoli colleghi! Facciamo sì che siano rese umane le condizioni di vita della donna lavoratrice, e meditiamo che la civiltà non è frutto solamente di fatiche, ma purtroppo anche di sofferenze nascoste e crudeli che spesso logorano la vita. In molti paesi ancora e specialmente nelle campagne la donna è assoggettata a lavori esageratamente gravosi. Un peso eccessivo, in qualche posto, è chiamato peso da donna. Di qui sofferenze lunghe e nascoste, di qui la vecchiaia precoce, il deperimento continuo, ed infine la morte. Togliamo al lavoro femminile questo velo funesto, tuteliamo la donna con leggi costituzionali, cioè con leggi solenni e definitive che debbono apportare un miglioramento decisivo alle condizioni di vita della madre lavoratrice e della sua prole! (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Gabrieli:

«Sostituire il primo periodo col seguente:

«La donna, nei rapporti di lavoro, ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro e di rendimento, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore».

L’onorevole Gabrieli ha facoltà dì svolgerlo.

GABRIELI. Mi riferisco all’inciso: «a parità di rendimento» e dichiaro che il significato letterale e logico di questa frase ne valorizza l’interpretazione. Siccome la Costituzione deve essere fatta anche per coloro che verranno dopo di noi e deve trovare nelle parole l’unico mezzo per l’interpretazione migliore del pensiero che si esprime, io insisto perché questo inciso: «a parità di rendimento» sia aggiunto nel testo dell’articolo che stiamo esaminando.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Romano:

«Sostituire il primo periodo col seguente:

«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro sia per qualità che per quantità, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore».

Non essendo presente l’onorevole Romano, si intende che abbia rinunziato a svolgerlo.

Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Cortese:

«Dopo le parole: a parità di lavoro, aggiungere le altre: e di rendimento».

Segue l’emendamento dell’onorevole Bubbio:

«Alla fine del secondo periodo, sostituire alle parole: adempimento della sua essenziale funzione familiare, le seguenti: adempimento delle sue essenziali funzioni materne e familiari».

L’onorevole Bubbio ha facoltà di svolgerlo.

BUBBIO. Onorevoli colleghi, il mio emendamento coincide perfettamente con quello che, con tanta eloquenza, è stato testé sviluppato e sostenuto dalla onorevole collega Federici alle cui argomentazioni e considerazioni, io debbo ovviamente e completamente associarmi. Mi permetto soltanto di ricordare che il richiamo contenuto nel mio emendamento alla funzione della madre, va considerato non soltanto sotto un profilo unicamente naturale e fisiologico, ma sotto un profilo etico-sociale, in rapporto cioè ai diritti e più ai doveri che una madre ha verso la propria creatura e che riguardano anche, e, diremo, soprattutto, il campo dell’educazione dell’infanzia e della gioventù, in cui la missione della madre sarà sempre insostituibile.

È soltanto con questa piccola chiosa che io mi associo a quanto ha detto la onorevole Federici. E così anche il problema della madre ed il suo santo nome saranno ricordati nella Costituzione. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Le onorevoli Gallico Spano Nadia, Noce Longo Teresa, Mattei Teresa, Pollastrini Elettra, Montagnana Togliatti Rita, Merlin Angelina, Rossi Maria Maddalena, Bei Adele, Iotti Leonilde, Minella Angiola, hanno presentato il seguente emendamento:

«Dopo le parole: funzione familiare, aggiungere: ed assicurare alla madre ed al fanciullo una speciale, adeguata protezione».

In assenza delle altre firmatarie, ha facoltà di svolgerlo l’onorevole Merlin Angelina, la quale, insieme con gli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, De Michelis, Costantini, Merighi, ha anche proposto di sopprimere, alla seconda proposizione dell’articolo, la parola: «essenziale».

MERLIN ANGELINA. Abbiamo chiesto la soppressione della parola «essenziale» per una duplice considerazione.

Se i redattori dell’articolo proposto non hanno voluto dare alla parola un significato particolare, si sopprima come uno dei tanti pleonasmi che infiorano la nostra Costituzione. E si sopprima pure, se i redattori hanno voluto usare quel termine con il significato limitativo che noi gli attribuiamo e che consacrerebbe un principio tradizionale, ormai superato dalla realtà economica e sociale, il quale circoscrive l’attività della donna nell’ambito della famiglia.

Tanto più pericoloso è adottare questa formula, quanto più oscuro è il primo comma: «La donna ha tutti i diritti».

Tutti, ma quali? Ed in rapporto a chi ed a che cosa?

Continua l’articolo: «e a parità di lavoro, ecc.».

Il lavoro non può essere sempre pari, tanto più che le diversità fisiologiche, specie nel campo dell’attività manuale, fanno sì che la donna sia più atta a certi lavori e meno a certi altri.

«A parità di rendimento» sarebbe stata l’espressione più propria, perché la valutazione del rendimento può essere pari, pur se il lavoro si esplica in campi diversi, campi ai quali la donna può accedere e deve accedere, nell’interesse della collettività, anche se la natura l’ha consacrata ad essere madre; il che non esaurisce, né circoscrive la sua attività. Se si voleva, nella nostra Costituzione, porre l’accento sulla funzione della maternità, la Commissione di coordinamento avrebbe dovuto accettare la formula proposta dalla terza Sottocommissione, cioè l’articolo corrispondente a quello che oggi si discute.

«La Repubblica riconosce che è interesse sociale la protezione della maternità e dell’infanzia. In particolare le condizioni di lavoro devono consentire più completo adempimento delle funzioni e dei doveri della maternità».

L’articolo fu redatto dopo ampia ed appassionata discussione, e non fu il frutto di un compromesso, ma di un accordo pieno e completo.

Dinanzi all’augusta funzione della maternità, tacquero le divisioni di parte e sentimmo tutti che, se la Costituzione deve essere quell’atto fondamentale e solenne per cui si traducono in norme i rapporti fra le esigenze etiche, sociali, economiche e gli ordinamenti giuridici, non potevamo che dar valore di legge ad una rivoluzione già compiuta nella nostra coscienza di donne. Noi sentiamo che la maternità, cioè la nostra funzione naturale, non è una condanna, ma una benedizione e deve essere protetta dalle leggi dello Stato senza che si circoscriva e si limiti il nostro diritto a dare quanto più sappiamo e vogliamo in tutti i campi della vita nazionale e sociale, certe, come siamo, di continuare e completare liberamente la nostra maternità.

Nell’articolo proposto dalla terza Sottocommissione si proponeva: «Istituzioni previdenziali, assistenziali e scolastiche, predisposte o integrate dallo Stato, devono tutelare ogni madre e la vita e lo sviluppo di ogni fanciullo».

Questa parte fu soppressa dalla Commissione di coordinamento. Perciò, insieme a molte altre colleghe, abbiamo chiesto di aggiungere all’articolo in discussione: «ed assicurare alla madre ed al fanciullo una speciale, adeguata protezione».

Pensate alle condizioni nelle quali si svolge la vita della donna madre, che, non da capriccio, ma dallo sviluppo delle forme di produzione, è stata tratta fuori della casa.

La onorevole Federici vi ha ampiamente descritto quali pericoli insidino la salute e la vita della donna e quella della sua creatura nei diversi e gravosi lavori extra-domestici, e quanto sia necessario articolare, su norme stabilite dalla presente Costituzione, leggi protettive. Ma la onorevole Federici non ha detto che anche nella casa, in troppe case, la funzione della maternità si svolge contemporaneamente al lavoro ed in condizioni inumane.

Non soltanto nella Sicilia, nell’Italia meridionale e centrale ma anche nelle progredite regioni dell’Italia settentrionale, vi sono case nelle quali le donne svolgono un lavoro senza avere per sé e per i loro bambini una speciale, adeguata protezione. Nessuna assistenza sanitaria viene loro prodigata nel periodo delicato ed importante della maternità, né vi sono nidi, scuole, istituti sanitari per i bimbi, per sorvegliarli ed accoglierli nel tempo in cui la madre è impegnata nel suo lavoro.

Io penso che la Costituzione, assicurando una adeguata protezione alla madre ed al bimbo, avrebbe garantito la difesa alla società tutta intiera e si sarebbe data un suggello di nobiltà, includendo la parola più bella e più santa nella quale si compendia la vita, la parola: «Madre».

PRESIDENTE. L’onorevole Calosso ha proposto di sopprimere la parola «essenziale» nell’ultima riga dell’articolo 33.

Non essendo egli presente, si intende che abbia rinunziato a svolgere l’emendamento.

Gli onorevoli Persico, Cairo, Tremelloni, Caporali, hanno presentato il seguente emendamento:

«Dopo le parole: funzione familiare, aggiungere le altre: e dei suoi doveri di madre».

L’onorevole Persico ha facoltà di svolgere l’emendamento.

PERSICO. Onorevoli colleghi, dirò brevissime parole perché gran parte di quello che avrei voluto dire è stato già detto dalle colleghe Federici e Merlin. Il mio emendamento ha lo scopo di distinguere l’adempimento della essenziale funzione familiare dall’adempimento dei doveri di madre. Potrebbe sembrarvi la stessa cosa, ma non è. Ed ecco perché non aderisco alla proposta della onorevole Federici di aggiungere la parola «materna» a «familiare». Sono due specie di attività diverse. L’attività, la funzione familiare può essere infatti esercitata sia dalla moglie senza figliuoli, sia dalla sorella. Non dimentichiamo quante volte in una famiglia la sorella maggiore è la vera madre, la vera direttrice della casa e non sono d’accordo sulla abolizione della parola «essenziale» proposta dalla onorevole Federici, perché «essenziale» non vuol dire esclusiva; vuol dire precipua, vuol dire funzione che è insita nella vita familiare; vuol dire che la donna è la regina della casa, colei che tiene in pugno l’unità familiare: la madre, la sorella, la donna della famiglia.

Il dovere della madre è invece insito nella maternità: è nel periodo della gestazione, dell’allattamento, nel periodo dell’infanzia del bambino, nel periodo della prima educazione del fanciullo, quando non è ancora possibile mandarlo né a scuola, né all’asilo. Quindi è bene distinguere la funzione di madre da quella familiare. Ecco in brevi parole le ragioni del mio emendamento.

PRESIDENTE. Prego la Commissione di esprimere il suo avviso.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Il primo emendamento è dell’onorevole Colitto e dice: «Quanto al lavoro, la donna ha gli stessi diritti dell’uomo». Sono cambiate le parole ma la sostanza della prima parte dell’articolo 33 resta immutata.

L’emendamento continua:

«La madre ed il bambino hanno diritto ad una speciale protezione».

Ritengo che anche la seconda parte dell’emendamento Colitto voglia rappresentare, nel suo pensiero, un cambiamento solamente formale, direi un’abbreviazione della disposizione per darle quel carattere lapidario che si vuole debbano avere le Costituzioni.

Devo però osservare che l’enunciazione dell’onorevole Colitto: «La madre ed il bambino hanno diritto ad una speciale protezione» non fa riferimento alle condizioni di lavoro. Noi abbiamo voluto che in questo articolo 33 il lavoro della donna sia garantito in modo da non compromettere la sua funzione essenziale specialmente in riguardo alla maternità. La condizione di madre richiede che il lavoro sia disposto in modo che non ne debba soffrire nell’adempimento del suo altissimo ufficio. Riteniamo che possa essere mantenuta la forma che abbiamo adoperato, solo per questo motivo e non perché vi sia una differenza sostanziale.

Vengo agli altri emendamenti: a quello degli onorevoli Federici Maria e Medi, e agli altri che sul medesimo tema rappresentano lievi variazioni dello stesso concetto. Sono gli emendamenti dell’onorevole Bubbio, della stessa onorevole Federici Maria, dell’onorevole Calosso, dell’onorevole Barbareschi ed altri e degli onorevoli Persico, Cairo ed altri. C’è finalmente un emendamento che raccoglie le firme di altre nostre valorose colleghe.

Direi che l’Assemblea si potrebbe fermare ad uno solo di questi emendamenti, come quello che è più ampio degli altri pur risolvendo la questione nel medesimo senso.

Non si tratta di un emendamento sostitutivo, ma semplicemente aggiuntivo. È l’emendamento Gallico Spano, Noce, Mattei, Pollastrini, Merlin Angelina e di altre, in base al quale sarebbe anzitutto mantenuto il testo nella sua integrità nella parte che detta: «La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione famigliare». L’aggiunta è questa: «ed assicurare alla madre ed al fanciullo una speciale adeguata protezione».

Veramente io preferirei sostituire alla parola «fanciullo» la parola «bambino», perché trattandosi di regolare le condizioni del lavoro, non se ne può parlare in relazione al «fanciullo», mentre la cura del bambino rientra immediatamente nella funzione della maternità.

Per queste ragioni mi pare che tanto l’emendamento della signora Federici Maria come anche l’emendamento dell’onorevole Bubbio, e l’emendamento dell’onorevole Persico, possano tutti essere ritirati, nel senso di riconoscere che sono tutti inclusi in quello della onorevole Gallico Spano Nadia, che raccoglie le firme di una diecina di altre colleghe. Questa è stata la decisione della Commissione.

C’è una parola che dovrebbe essere tolta secondo gli emendamenti dell’onorevole Calosso e Barbareschi. Sarebbe la parola «essenziale». Su questo ha insistito anche la nostra egregia collega Merlin Angelina. La Commissione è del parere che debba essere mantenuta. Se ne è discusso largamente, anche nella prima Sottocommissione, e ve ne è traccia nei verbali. Si era proposto, invece della parola «essenziale», un altro aggettivo: «speciale». In sostanza si vuol dire questo: la funzione familiare che si deve proteggere è la funzione familiare intesa nel senso che non tutto quello che deve fare la donna debba condizionare il lavoro cui essa adempie, ma solo quello che è veramente importante e caratteristico. Se così non fosse, rientrerebbero nel concetto di «funzione familiare» tutte le faccende domestiche che incombono alle nostre massaie. È questa la ragione per cui fu mantenuta la parola «essenziale». La Commissione è del parere che l’articolo debba essere approvato nella sua integrità, salvo aggiungere la frase «ed assicurare alla madre ed al bambino una speciale adeguata protezione». Se le proponenti credono di poter sostituire alla parola «fanciullo» la parola «bambino», la Commissione accetta l’emendamento.

Debbo, da ultimo, dire una parola sugli emendamenti degli onorevoli Gabrieli e Cortese, coi quali si propone di aggiungere alla frase «a parità di lavoro» le parole «e di rendimento». La Commissione ha deciso di mantenere l’articolo come nel testo. Infatti ci sembra che la frase «a parità di lavoro» sia così lata e comprensiva da rendere inutile qualunque specificazione.

PRESIDENTE. Chiederò ora ai presentatori degli emendamenti se intendono mantenerli.

Onorevole Colitto, mantiene l’emendamento?

COLITTO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Onorevole Federici, mantiene i due emendamenti?

FEDERICI MARIA. Mantengo il primo, considerando assorbito il secondo.

PRESIDENTE. Onorevole Gabrieli?

GABRIELI. Dopo le dichiarazioni della Commissione, non insisto.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Romano, l’emendamento si intende decaduto.

Onorevole Cortese, mantiene l’emendamento?

CORTESE. Insisto.

PRESIDENTE. Onorevole Bubbio?

BUBBIO. Lo ritiro, in quanto coincide con quello dell’onorevole Federici Maria.

PRESIDENTE. L’emendamento dell’onorevole Gallico Spano Nadia, Noce Longo Teresa e di altre, svolto dall’onorevole Merlin Angelina, è accettato dalla Commissione, con la sostituzione della parola: «bambino» alla parola: «fanciullo».

Onorevole Merlin Angelina, accetta tale sostituzione?

MERLIN ANGELINA. L’accetto.

PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Calosso, il suo emendamento si intende decaduto.

Onorevole Barbareschi, mantiene l’emendamento?

BARBARESCHI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Onorevole Persico, mantiene l’emendamento?

PERSICO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte dell’articolo 33:

«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore».

(È approvata).

L’onorevole Cortese ha proposto di aggiungere, dopo le parole «a parità di lavoro» le parole «e di rendimento».

Pongo ai voti questa proposta.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il nostro gruppo voterà contro la proposta aggiuntiva presentata dall’onorevole Cortese per le ragioni dichiarate dall’onorevole Cingolani ed ammesse esplicitamente dal relatore della Commissione; e cioè, che «la parità di rendimento» si intende implicita nel concetto «parità di lavoro».

CORTESE. Dopo questo chiarimento, ritiro l’emendamento.

PRESIDENTE. Passiamo alla seconda parte dell’articolo:

«Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare».

L’onorevole Barbareschi ha presentato un emendamento che è stato svolto dalla onorevole Merlin Angelina, per la soppressione della parola «essenziale».

Lo pongo in votazione.

MORO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE: Ne ha facoltà.

MORO. Voteremo contro la soppressione della parola «essenziale». A noi sembra importante che nell’atto, nel quale si garantiscono alla donna idonee condizioni nel lavoro, si ricordi la funzione familiare e materna che essa assolve, e che è ad essa connaturata. Ci sembra che questo riferimento alla «essenzialità» della missione familiare della donna sia un avviamento necessario ed un chiarimento per il futuro legislatore, perché esso, nel disciplinare l’attività della donna nell’ambito della vita sociale del lavoro, tenga presenti i compiti che ne caratterizzano in modo peculiare la vita.

(L’emendamento non è approvato).

PRESIDENTE. Pongo ora in votazione la seconda parte dell’articolo nel testo della Commissione:

«Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare».

(È approvata).

Le onorevoli Gallico Spano Nadia, Noce Longo Teresa, Mattei Teresa, Pollastrini Elettra, Montagnana Rita, Merlin Angelina, Rossi Maria Maddalena, Bei Adele, Iotti Leonilde, Minella Angela hanno proposto alla fine dell’articolo 33 le parole: «ed assicurare alla madre ed al fanciullo una speciale, adeguata protezione».

La Commissione ha accettato l’emendamento, sostituendo la parola: «fanciullo» con l’altra: «bambino».

Pongo in votazione l’emendamento con questa sostituzione.

FEDERICI MARIA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FEDERICI MARIA. Io mi trovo nella strana situazione di dover votare contro questa formulazione mentre il contenuto era stato concordato insieme con le colleghe dell’altro settore. Intanto, ci eravamo trovate d’accordo su questo fatto: che nell’articolo dovesse essere ben chiara una espressione che volesse suonare protezione alla madre ed al bambino, considerando specialmente che qui il bambino, molto spesso, segue la madre nella fabbrica, nelle sale d’allattamento, oppure nei nidi e negli asili. Però la formulazione presentata dalle onorevoli colleghe non mi pare che abbia anche, vorrei dire, una forma grammaticale esatta, in quanto che qui si parla di condizioni di lavoro che devono consentire l’adempimento di qualche cosa. Di che cosa? Della funzione materna, esempio: allattamento e cura del bambino. Non possono le condizioni di lavoro di per sé stesse svolgere una funzione protettiva del bambino. Questa mi pare sia una ragione non sostanziale, ma abbastanza importante per quanto riguarda la formulazione dell’articolo.

Per quanto riguarda poi il contenuto, la protezione del bambino è già stata oggetto di un articolo e come tale noi abbiamo già riconosciuto la necessità che a tutta la maternità, a tutta l’infanzia si debbano particolari cure protettive.

Ora le cure protettive saranno uguali per tutti i bambini, in quanto all’alimentazione, pulizia, igiene ecc. Qui invece le condizioni particolari che si auspicano riguardano la madre come tale. Non possono di per sé essere queste condizioni protettive del bambino, in quanto che sono condizioni di lavoro.

Però riconfermo il principio: siamo stati d’accordo sin dal primo momento nella Sottocommissione, nella Commissione plenaria e siamo d’accordo anche qui con le colleghe degli altri settori, che noi intendiamo di affermare che le condizioni di lavoro siano favorevoli per la lavoratrice madre e quindi anche per il suo bambino. Per questi motivi io non posso votare l’emendamento delle colleghe, ma era necessario che esprimessi questo chiarimento, ché altrimenti si potrebbe generare un equivoco che non c’è stato in nessun momento.

CONDORELLI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CONDORELLI. Su questo problema, io voterò gli emendamenti più larghi, perché ritengo che sia indispensabile affermare nella nostra Costituzione la più ampia protezione della donna, non soltanto nelle sue espressioni essenziali, familiari, non soltanto nella maternità, ma anche nella sua femminilità, che deve essere preservata nelle condizioni di lavoro.

La mia civilissima Sicilia ha atavicamente provveduto a ciò col costume creando alla donna una situazione di vera e propria preminenza nella casa e proteggendola nel santuario di essa da tutti i pericoli che le potessero venire dall’esterno. (Commenti Applausi).

MATTEI TERESA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MATTEI TERESA. Noi insistiamo sull’emendamento che abbiamo presentato e che è stato accettato dalla Commissione. Insistiamo perché pensiamo che questo è il terzo Titolo che riguarda i rapporti economici, e in questa sede appunto deve essere affermato il dovere di protezione della madre lavoratrice e del figlio della lavoratrice. È una cosa ben diversa della protezione che lo Stato deve assicurare indistintamente a tutte le madri e a tutti i fanciulli, che è stata già considerata nel Titolo II. Se noi vogliamo assicurare qui questa forma protettiva alle madri lavoratrici ed ai loro fanciulli, dobbiamo esplicitamente dichiararlo; e non comprendo perché vi sia qualcuno che sollevi eccezioni di forma quando sia d’accordo nella sostanza. Non mi pare poi che sia in contradizione con la formula della onorevole Federici e con altre proposte di emendamento a questo articolo; anzi, credo che lo completi e sia la forma migliore, più concreta, affinché questo sentimento, questo desiderio che è in tutti noi di assicurare le migliori condizioni di lavoro e di vita alle donne lavoratrici e ai bambini, sia veramente attuato.

(L’emendamento aggiuntivo è approvato Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Ritengo che, con la votazione avvenuta, anche il primo emendamento della onorevole Federici Maria possa considerarsi assorbito nella formulazione approvata.

FEDERICI MARIA. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. L’articolo 33 risulta, pertanto, nel suo complesso, così approvato:

«La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro debbono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre ed al bambino una speciale, adeguata protezione».

Ricordo che, per decisione in sede di esame dell’articolo 32-bis, occorre aggiungere all’articolo 33 i seguenti commi:

«La legge stabilisce il limite minimo di età per il lavoro salariato.

«La Repubblica tutela il lavoro dei minori di anni 21 con speciali norme di legge e garantisce loro, a parità di lavoro, il diritto alla parità di retribuzione».

L’onorevole Medi ha proposto e già svolto il seguente emendamento tendente ad aggiungere un articolo 33-bis:

«Ogni cittadino che non abbia la possibilità di provvedere alla propria esistenza, conforme alla dignità umana, ha diritto ad adeguate forme di assistenza».

MEDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Onorevole Medi, ella ha già svolto l’emendamento. Può dichiarare se lo mantiene o lo ritira.

MEDI. Perfettamente; intendo chiarire che l’articolo può essere considerato come sostitutivo del primo comma dell’articolo 34.

PRESIDENTE. Passiamo, allora, all’esame dell’articolo 34:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato».

ANDREOTTI. Chiedo di parlare per una mozione di ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. Vorrei chiedere, onorevole Presidente, di sospendere la seduta perché il nostro gruppo avrebbe necessità di riunirsi per una discussione non collegata al progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Vorrei immediatamente aderire alla sua richiesta, ma, dato che all’articolo 34 sono stati presentati numerosissimi emendamenti, credo che i colleghi del suo gruppo potrebbero anche assentarsi, con la certezza che non si procederà a votazione prima del termine della seduta antimeridiana. Per loro tranquillità, disporrò che gli emendamenti proposti da appartenenti al gruppo, qualora venissero di turno, non siano dichiarati decaduti. Credo che così potremo conciliare le varie esigenze.

Potrebbe, intanto, l’onorevole Laconi svolgere il seguente emendamento presentato insieme con gli onorevoli Cevolotto, Targetti, Moro, Taviani:

«Sostituirlo col seguente:

«Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale.

«I lavoratori hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

«Gli inabili ed i minorati hanno diritto all’educazione ed all’avviamento professionale. A tali compiti provvedono organi ed istituti predisposti od integrati dallo Stato. L’assistenza privata è libera».

LACONI. Accedo al desiderio manifestato dal Presidente, di poter continuare i lavori fino all’ora regolamentare svolgendo il mio emendamento; ma di fatto, avrei potuto anche astenermi dallo svolgere questo emendamento, sia per le firme che esso raccoglie, e che fanno supporre un consenso quasi generale o sufficientemente vasto dei diversi Gruppi politici, sia per il fatto che le modificazioni contenute in questo emendamento sostitutivo non incidono in questioni sostanziali.

Desidero innanzi tutto fare osservare ai colleghi che noi abbiamo creduto di sopprimere nel primo comma dell’articolo in questione un inciso che testualmente diceva: «in ragione del lavoro che prestano». Abbiamo creduto di dover sopprimere questa parte in quanto essa avrebbe supposto che la legislazione in materia di previdenza e assicurazione sociale, domani, dovesse orientarsi in un determinato senso, senso in cui attualmente è diretta e indirizzata, e ciò avrebbe fatto supporre un riferimento a quei criteri di assistenza mutualistica che oggi sono in vigore. Noi desideriamo invece che il legislatore futuro abbia una libertà più ampia e possa adottare i criteri che gli appariranno più adatti alla situazione e più efficaci.

Un’altra modificazione consiste nell’introduzione, dopo il secondo comma, di una parte riguardante gli inabili ed i minorati. I colleghi ricorderanno che di questa questione si è fatto già cenno in altro momento di questa discussione. La richiesta è venuta particolarmente da determinate categorie di invalidi, di inabili e di minorati, come i ciechi, che si trovano in una situazione particolarmente difficile e penosa e che chiedono alla Repubblica democratica una particolare assistenza.

Noi abbiamo creduto di dover accogliere questa richiesta che riscuoteva, d’altra parte, in forma diversa, il consenso dei più diversi settori dell’Assemblea. Ricordo che anche l’onorevole Colitto presentò una richiesta in questo senso e che già colleghi di altri settori vi avevano acceduto. Per questa ragione noi abbiamo introdotto questa parte. Crediamo di averla introdotta con una precisione maggiore in quanto abbiamo fatto riferimento non soltanto agli inabili ma anche ai minorati, ed abbiamo fatto cenno dell’educazione e dell’avviamento professionale invece che della semplice rieducazione. È indubbio che nell’accezione comune la parola «rieducazione» ha un suo preciso significato, ma questo significato non avrebbe probabilmente la parola inserita in questo articolo. E penso che sia più semplice e chiaro il parlare di educazione e di avviamento professionale.

Finalmente, per quanto riguarda l’ultima parte, io vorrei accedere a una proposta di modifica all’emendamento, che mi è stata suggerita da qualche parte. Si è notato che dicendo: «A tali compiti provvedono ecc.» e lasciando l’attuale formulazione, lasciando cioè che la frase continui senza punto e a capo si può essere indotti in confusione, cioè si può ritenere che per «tali compiti» si intendano solo quelli di cui si fa cenno nel terzo comma. Dato che questo non è il nostro pensiero, perché noi riteniamo che per «tali compiti» si devono intendere quelli di cui si fa menzione in tutti e tre i commi, io pregherei il Presidente di voler intendere l’emendamento modificato in modo che con le parole «A tali compiti ecc.» si vada a capo.

PRESIDENTE. Allora, i commi sarebbero quattro.

LACONI. Esatto. Inoltre, invece che «A tali compiti», si dica «Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ecc.».

Ultima modificazione è quella che riguarda la libertà dell’assistenza privata. Fra gli stessi presentatori dell’emendamento, non tutti erano convinti della necessità di questa affermazione, in quanto si poteva ritenere che già nella formulazione dell’articolo fosse implicitamente ammessa la libertà dell’assistenza privata. Lo spirito dell’articolo pare a noi che sia un altro, sia quello di garantire le affermazioni contenute nei suoi primi tre commi attraverso l’intervento dello Stato che ha il dovere di provvedere con i suoi enti, organi ed istituti. Indubbiamente però una qualche sfumatura di dubbio poteva rimanere. Quindi noi abbiamo accettato l’aggiunta: «L’assistenza privata è libera».

Si è osservato che non si garantisce la libertà della previdenza privata. Ciò dipende dal fatto che il termine «previdenza» non ricorre neanche nelle altre parti dell’articolo. L’articolo così formulato noi pensiamo risponda alle esigenze che sono state prospettate da tutte le parti della Camera e quindi ne raccomandiamo l’accettazione.

PRESIDENTE. L’onorevole Foa ha presentato i seguenti emendamenti:

«Al secondo comma, sopprimere l’inciso: in ragione del lavoro che prestano».

«Al terzo comma, sopprimere le parole: ed integrati».

Ha facoltà di svolgerli.

FOA. Ritengo che gli emendamenti siano ormai assorbiti dall’emendamento concordato di cui ha parlato l’onorevole Laconi, con la formulazione adottata nell’emendamento concordato è venuta a cadere la mia preoccupazione che si potesse determinare costituzionalmente un impegno misto di assistenza. Dichiaro quindi di ritirare entrambi gli emendamenti da me proposti per associarmi all’emendamento proposto dall’onorevole Laconi.

PRESIDENTE; L’onorevole Puoti ha proposto due emendamenti soppressivi del secondo e del terzo comma. Ha facoltà di svolgerli.

PUOTI. Dichiaro di ritirare l’emendamento soppressivo del secondo comma. Quanto alla proposta di sopprimere il terzo comma, la mantengo, riservandomi di ritirarla qualora la ritenga superflua dopo lo svolgimento degli altri emendamenti.,

PRESIDENTE. Il seguito della discussione e rinviato alla seduta pomeridiana.

Interrogazione con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. È stata presentata la seguente interrogazione con richiesta di urgenza:

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere quale criterio ha seguito nello stanziare 90 milioni di lire per una strada che dovrà servire un paese di 400 abitanti, trascurando tuttora l’esecuzione di opere importantissime e indispensabili, specialmente sotto il profilo igienico, tra le quali il progettato acquedotto di Castelnuovo di Conza (Salerno), che dovrebbe dar da bere a diverse migliaia di persone, che nella prossima estate saranno ancora costrette ad «abbeverarsi» in acque stagnanti, distanti dall’abitato alcuni chilometri; acquedotto la cui spesa è prevista in 15 milioni di lire.

«De Martino».

Domanderò al Ministro competente quando intende rispondere.

La seduta termina alle 12.55.

POMERIDIANA DI VENERDÌ 9 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXVIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 9 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

 

INDICE

Comunicazioni del Presidente:

Presidente                                                                                                        

Votazione segreta:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Pajetta Giancarlo                                                                                          

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                

Einaudi                                                                                                             

Foa                                                                                                                    

Belotti                                                                                                             

Corbino                                                                                                            

Taviani                                                                                                             

Giannini                                                                                                            

D’Aragona                                                                                                       

Mazzei                                                                                                              

Malagugini                                                                                                      

Parri                                                                                                                 

Labriola                                                                                                          

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

Presidente                                                                                                        

Interrogazione (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che la Commissione incaricata dell’esame delle leggi elettorali si è riunita stamane ed ha proceduto alla propria costituzione, nominando Presidente l’onorevole Micheli, Vicepresidente l’onorevole Scoccimarro e Segretario l’onorevole Nasi.

La Commissione tornerà a riunirsi mercoledì 14 corrente, alle ore 8.30.

Votazione segreta.

PRESIDENTE. Procediamo alla votazione segreta sul disegno di legge: «Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale» di cui è stata esaurita la discussione nella seduta antimeridiana.

(Segue la votazione).

Le urne resteranno aperte, e intanto si procederà nello svolgimento dell’ordine del giorno.

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Ricordo che nella seduta di ieri furono approvati i primi due commi dell’articolo 31 e che la Commissione si riservò di esprimere il suo giudizio sul seguente comma aggiuntivo, da introdurre dopo il secondo comma, proposto dagli onorevoli Montagnana Mario, Foa, Pajetta Giancarlo, Pesenti, Grieco, Laconi:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva, secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività».

PAJETTA GIAN CARLO. Desidero illustrare alcune modificazioni da apportare all’emendamento e chiedo pertanto di poter fare alcune precisazioni.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIAN CARLO. Non è senza un senso di stupore che questa mattina ho percorso la stampa quotidiana, e credo che la stessa meraviglia abbiano provato molti colleghi. In alcuni giornali, si è parlato di colpi di mano e persino di atmosfera di sbigottimento.

Un certo Erasmo che su un giornale di Roma preferisce tessere l’elogio del liberalismo, considerando forse che oggi sarebbe assai meno originale tessere quello della pazzia, ci racconta come quattro deputati comunisti hanno tentato, alla vigilia della chiusura della discussione, un colpo di mano, intendendo introdurre in Italia i principî dell’economia totalitaria. E un altro giornale ci invita a giocare finalmente a carte scoperte. Persino Buonsenso dell’onorevole Giannini si domanda che cosa si nasconda dietro questa sorpresa dell’ultim’ora, aggiungendo che lo stesso senso di sorpresa avrebbe invaso una parte dei colleghi della democrazia cristiana. La sorpresa ci pare fuori luogo, come è fuori luogo ogni allarmismo.

Un altro colpo di scena dei comunisti? Credo che forse qualche giornalista possa pensare questo, ma i nostri egregi colleghi che hanno seguito i dibattiti della Commissione dei settantacinque, che hanno certamente letto la relazione, sanno che già in quella sede era stato presentato un articolo che, con le stesse parole, proponeva lo stesso problema. Difatti, alla relazione dell’onorevole Togliatti erano allegate proposte per parecchi articoli, una delle quali era così formulata: «Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, secondo un piano di massimo rendimento per la collettività». Sono le stesse parole che hanno destato tanta sorpresa e che hanno indotto la Commissione a chiedere una riflessione di ventiquattro ore. Ed era proprio l’onorevole Togliatti, che, nella discussione su questo articolo e su altri, dichiarava che si stava scrivendo una Costituzione, che non è una Costituzione socialista, ma è una Costituzione corrispondente ad un periodo transitorio di lotta per un regime economico di coesistenza di differenti forze economiche che tendono a soverchiarsi a vicenda.

Colpo di scena non direi: abbiamo ripresentato la proposta che avevamo presentato in Commissione. La nostra linea in materia costituzionale è chiarissima. L’abbiamo esposta nel nostro Comitato centrale, nel nostro Congresso, ogni volta pubblicamente, come forse nessun partito ha fatto. Pensiamo di dover riproporre quelli che sono gli elementi fondamentali della nostra linea, salvo a concordare la nostra azione con gli altri Gruppi, nella misura in cui può essere trovata una soluzione che abbia l’appoggio non solo del nostro, ma anche degli altri partiti dell’Assemblea.

Sorpresa no, e, tanto meno, motivo di allarmismo. Crediamo di aver dato più di una prova che consideriamo la Costituzione come una cosa seria. Crediamo che nessuno dubiti, qua dentro, che consideriamo come una cosa sena anche il socialismo. E nessuno dei comunisti crede che il socialismo si possa istituire o introdurre di soppiatto attraverso un emendamento nella Costituzione italiana. La questione è molto più semplice.

Noi abbiamo ieri insieme deciso che questa nuova Repubblica deve garantire il diritto al lavoro. Ebbene, abbiamo voluto che si precisasse, che si dicesse che c’era soltanto l’intenzione, ma che ci fosse una indicazione sul modo come può essere garantito il diritto al lavoro. C’è il problema dell’intervento dello Stato, che ha spaventato tanta parte della nostra stampa e che pare abbia spaventato qualche collega. Ma non è una cosa nuova: se ne parla anche in altri articoli. E a questo proposito non vale certo dire che la Costituzione non è un programma perché l’intervento dello Stato nella vita economica è la prassi di ogni giorno. È la prassi italiana e di altri Paesi, dove l’intervento è più efficace, più coordinato, più diretto. E questo non è solo dei paesi socialisti, ma di tutti i Paesi democratici che hanno sentito e sentono il bisogno di realizzare una politica economica con gli strumenti che sono a disposizione dello Stato, e di non farla giorno per giorno, ma di farla secondo un programma, secondo un piano. Forse questa parola può spaventare, ma quando un liberale inglese ha proposto un piano perché fosse data ai lavoratori una assistenza sociale, c’è stato chi si è opposto ed ha votato contro; ma nessuno si è scandalizzato del fatto che nel Parlamento inglese un liberale presentasse un piano, e lo chiamasse piano. In quasi tutti i Paesi ci sono piani di ricostruzione, piani periodici di coordinamento, di attività. Noi dovremmo augurarci di seguire i paesi che hanno questi piani e che coordinano le loro azioni economiche, piuttosto che spaventarcene.

La posizione dell’onorevole Corbino è spiegabile: è quella di un romantico del liberismo, è l’ultimo dei «mohicani» (Interruzione dell’onorevole Corbino). Ma non vedrei, per altri banchi dove questi principî di intervento e regolamentazione sono accettati, che cosa possa esserci, che faccia paura ai colleghi, in questa nostra richiesta che non nasconde nessuna intenzione socialista.

Perché vogliamo allora questo emendamento? Vogliamo specificare e sottolineare che su un problema essenziale come questo noi intendiamo andare più in là di una semplice affermazione e vogliamo dimostrare al meno la nostra decisa volontà che sia realizzato ciò che proponiamo. Non è un emendamento socialista, o comunista il nostro, non è un emendamento di partito, e perciò preghiamo l’Assemblea di accettare e comprendere lo spirito con il quale lo abbiamo formulato. Poiché la dizione stessa dell’emendamento ha sollevato qualche obiezione, dichiaro che là dove si parla di coordinare e dirigere l’attività produttiva, noi proponiamo che alla parola «dirigere» si sostituisca la parola «orientare»; e dove nella conclusione si parla di un piano che dia il massimo rendimento per la collettività, proponiamo che si dica: «un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

Con queste modificazioni noi presentiamo il nostro emendamento e ci auguriamo che i colleghi lo accettino.

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ghidini.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Prima di esporre sistematicamente il pensiero della maggioranza, debbo dare atto all’onorevole Pajetta che effettivamente questo suo emendamento non può avere il carattere della sorpresa. Non lo ha in linea generica (perché effettivamente, tutte le disposizioni del Titolo III sono impostate sul principio dell’intervento dello Stato sotto la forma del controllo e del coordinamento per quanto riguarda le private iniziative) e non l’ha in modo specifico perché effettivamente, come egli ha detto, l’onorevole Togliatti, davanti alla prima Sottocommissione, ha presentato un articolo il quale, in sostanza, corrisponde esattamente, persino nelle parole, all’emendamento proposto ieri.

La ragione per la quale la Commissione, per bocca mia ha chiesto di prorogare ad oggi la sua risposta, non deriva dal fatto che si sia trovata di fronte ad una sorpresa. La ragione è che, siccome questo emendamento è molto importante, doveva essere preso in esame e studiato dalla Commissione. Non potevo io infatti esprimere una mia opinione personale, che se mai può essere effettivamente questa: che io sono favorevole ai piani, perché il piano rientra nel programma stesso del mio partito. Ma io qui, come persona, scompaio e sono soltanto la voce della Commissione. È questa la ragione per la quale ieri sera ho ritenuto doveroso di chiedere all’Assemblea che venisse sospesa la discussione per dare modo alla Commissione di studiare, di esaminare, e di decidere intorno a tale emendamento. È stata una richiesta provvida e onesta, perché una decisione di questo genere non può essere presa se non meditatamente.

Do così atto all’onorevole Pajetta che non v’è stata sorpresa in modo assoluto. Vengo ora alla opinione espressa dalla maggioranza della Commissione.

Essa ha ritenuto che la proposta di emendamento consista in una specificazione. Si specifica cioè il modo attraverso il quale si possa conseguire la certezza del lavoro per tutti i cittadini: voto che è nell’animo di tutta l’Assemblea. Ma si obietta: noi abbiamo votato la prima parte dell’articolo 31 che resta nei termini seguenti:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

In questa espressione «promuove le condizioni, ecc.» la Commissione pensa che sia già inclusa la speciale provvidenza in cui si sostanzia l’emendamento proposto dall’onorevole Pajetta, onde non sia necessario discendere ad una qualsiasi maggiore specificazione. Tanto più che il tema del piano fu già considerato dalla Commissione dei settantacinque, come lo era stato in precedenza dalla prima e dalla terza Sottocommissione, le quali ebbero presenti i piani economici come mezzi opportuni per assicurare non solo il maggiore impiego della mano d’opera, ma anche e specialmente la ricostruzione economica del Paese.

È appunto per questa ragione che fu scritto il capoverso dell’articolo 37 del progetto di Costituzione: tanto che, se fosse approvato, l’emendamento troverebbe sede più opportuna nell’articolo 37, dove il piano ha un’applicazione più ampia di quella del testo Pajetta.

Ad ogni modo, ripeto, il concetto del piano economico è già compreso nell’articolo 37.

Dopo tale constatazione, (è questa la domanda che si è posta la Commissione) giova ripeterlo espressamente, o invece è meglio lasciare le cose come sono, nel senso e pel riflesso che tutte le determinazioni possono diventare un limite, un vincolo, un legame, un impegno che potrebbe domani trovare resistenza nelle condizioni obiettive del Paese? Non è meglio attendere, per adattare il provvedimento alle contingenze del domani? La Carta costituzionale lo consente, mentre l’emendamento ne impone senz’altro l’applicazione. Gli articoli 31 e 37 aprono ugualmente le porte all’attuazione di queste misure. Meglio quindi lasciare al legislatore futuro di deliberare secondo le necessità e le possibilità del tempo.

Sono queste le ragioni per le quali la maggioranza della Commissione non accetta l’emendamento.

PRESIDENTE. Sull’emendamento in esame è stata chiesta la votazione per appello nominale.

Prima di provvedere alla votazione, consentirò agli onorevoli deputati che chiederanno di parlare di fare una dichiarazione di voto, con quella larghezza che l’importanza del tema consente.

EINAUDI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Nel dare un giudizio sull’emendamento proposto dall’onorevole Montagnana, mi sono trovato di fronte a due difficoltà. La prima è quella che non sono riuscito e non potevo riuscire a formarmi un’idea precisa di quello che potesse essere il significato delle parole «un piano il quale dia il massimo rendimento per la collettività». Suppongo che gli onorevoli proponenti, si siano trovati di fronte alla medesima difficoltà, in quanto ho udito ora che essi l’hanno mutato nel senso di proporre un piano che dia la massima utilità sociale.

Essi hanno definito così quale sia lo scopo di un piano che dia il massimo rendimento per la collettività: il piano deve dare il massimo di utilità sociale.

C’è una difficoltà per intendere il significato da dare al fine che il piano dovrebbe proporsi: ed è una difficoltà non nuova. Intorno ad essa si discute da almeno centocinquant’anni, dal giorno in cui, per primo, il filosofo inglese Bentham ha esposto i concetti di utilità individuale e di utilità sociale ed ha fondato tutto il suo sistema economico sui principî medesimi.

La difficoltà intorno a cui invano si sono finora travagliate generazioni intere di studiosi è costituita da quello che, in linguaggio abbreviato, si dice essere il ponte fra l’utilità di un individuo e quella di ogni altro individuo.

Ebbene, questo ponte non si è ancora trovato. Noi possiamo apprezzare quale sia l’utilità che ogni singolo individuo conferisce al fine che vuole conseguire, ad ogni cosa di cui si vuole appropriare, ma nessuno di noi è riuscito a sapere quale sia il significato che una collettività, anche di sole due persone, può dare all’utilità non dei singoli, ma dell’insieme dei due. Non è possibile fare la somma, né aritmetica, né algebrica, né organica, né di qualsiasi altra maniera, delle utilità di due individui realmente diversi. È questa una difficoltà intorno alla quale si sono travagliate generazioni di studiosi, di uomini di prim’ordine. Ma ancora essa persiste. È una delle tante difficoltà che esistono nello studio della scienza dell’economia politica.

Tale difficoltà esistendo, io non riesco a comprendere quale possa essere il significato di un piano il quale sia indirizzato a dare il massimo di utilità sociale.

Saranno i legislatori i quali diranno a noi quale sia questo piano che dia il massimo di utilità sociale. Ma io credo che sia pericoloso, ed anche un po’ senza contenuto preciso, scrivere nella legislazione una massima della quale nessuno finora, ripeto, in 150 anni di ricerche, sia mai riuscito a trovare il significato preciso.

Una norma la quale non ha significato è una norma per definizione anticostituzionale ad arbitraria. Qualunque interpretazione darà il legislatore futuro alla norma, essa sarà valida. Nessuna Corte giudiziaria potrà negarle validità, perché tutte le leggi di interpretazione saranno conformi a ciò che non esiste.

Ma passo oltre a questa difficoltà, la quale potrebbe non sembrare conclusiva a uomini politici. I politici potrebbero dire: affermiamo un principio, anche se questo è senza senso, in quanto penseranno i legislatori del futuro a dare quel senso che ad essi piacerà meglio.

Ma ciò dicendo, noi lasciamo questo principio, come dicevo prima, all’arbitrio del legislatore futuro.

C’è però un’altra difficoltà alla quale io mi sono trovato di fronte nell’esaminare il principio stabilito nell’emendamento: ed è che esso soffre della medesima interpretazione limitatamente benevola che si deve dare a tutti gli sforzi di coloro che vogliono conciliare l’inconciliabile.

Se i colleghi mi permettono, vorrei ricordare quella che è l’esperienza quasi semisecolare di insegnante di una facoltà giuridica.

La maggior parte degli scolari diligenti, quando apprestano le tesi di laurea, si trovano di fronte alla difficoltà delle opinioni diverse delle fonti studiate. C’è l’illustre autore A il quale ha un’opinione (tutti i professori sono illustri o sono chiarissimi, a seconda di una certa gerarchia che si forma fra di essi, e comunque non sono mai meno di egregi) mentre ci sono altri egregi uomini i quali sostengono una opinione B. Ed allora lo scolaro diligente cerca di trovare una conciliazione, quella cioè, che si chiama la via di mezzo fra le diverse opinioni divergenti. Ed allora, per lo più, le commissioni di laurea, le quali apprezzano la diligenza e non vogliono far sì che essa non sia compensata, si spingono fino agli estremi a cui possono arrivare, ossia fino al 98 che è il gradino inferiore ai pieni voti legali, ma non arrivano ai pieni voti legali, in quanto questi ultimi suppongono una sintesi, vale a dire un’opinione personale.

Orbene, questo emendamento, unito con i primi due commi dell’articolo 31, che noi abbiamo già approvato, mi ha l’aria di integrare un componimento diligente da parte di uomini egregi e studiosi i quali cercano di trovare una conciliazione fra principî che sono fra loro fondamentalmente contraddittori. Noi abbiamo, nel comma secondo, già approvato, stabilito alcune parole le quali contraddicono ad una parte del medesimo comma, ma contraddicono ancora più apertamente all’emendamento che ci è presentato.

Abbiamo dichiarato infatti che ogni cittadino ha il dovere di svolgere una attività od una funzione ecc. ecc. «conformemente alla propria scelta».

Queste parole «alla propria scelta», già da noi approvate, rendono logicamente impossibile di approvare altre parole le quali dicono che la scelta deve esser fatta da qualcun altro, che è lo Stato. C’è una contradizione insanabile fra un piano che procede dall’alto, come quello insito nell’emendamento presentato al nostro esame, e le parole già da noi approvate, «alla propria scelta».

Lo Stato fa un piano: questo stabilisce che quella data industria in quella data località dovrebbe impiegare 50.000 operai, ma gli operai per propria scelta non sarebbero 50.000 ma solo 10, 15, 20 mila. Quindi il piano che è formulato dall’alto è di impossibile applicazione. Non può essere applicato poiché, se noi lasciamo alla libera scelta dell’individuo – come abbiamo già stabilito – la scelta della professione o del mestiere o comunque dell’attività di questo individuo, non possiamo poi affidarci al puro caso allorché abbiamo bisogno di impiegare in una industria 50.000 operai e di investirvi per esempio i 50 od i 100 milioni od il miliardo di lire di capitale che sarebbero necessari per realizzare il piano stabilito. Nella maggior parte dei casi tali elementi non coincideranno affatto e il piano sarà di impossibile applicazione.

Il che vuol dire che se un determinato piano deve essere imposto dall’alto, se questo piano è imposto dallo Stato ed investe l’intera economia del paese, il piano non può logicamente e di fatto consentire la libera scelta della professione, del mestiere o dell’arte da parte dell’individuo.

Quindi, adottando l’emendamento, noi verremmo implicitamente a negare il principio, che noi stessi abbiamo già ieri affermato della «libera scelta».

Dovremmo ritornare su quel principio e stabilire invece il principio opposto: quello del lavoro coatto, degli eserciti del lavoro, che ho sentito ieri che era stato proposto da qualche collega. Fra il principio, da noi respinto, del lavoro coatto, degli eserciti del lavoro, e l’emendamento che è stato a noi presentato c’è logica connessione, ma la stessa logica connessione non esiste fra il principio della libera scelta, da noi già approvato, e il principio del piano deliberato dall’alto per raggiungere – come ho detto prima – un fine che è di impossibile ed illogica definizione e che, se sarà definito, lo sarà dall’arbitrio del legislatore.

Io mi chiedo poi se valga la pena di stabilire un principio di piano «generale» quando il principio dei piani è antico quanto il mondo ed è stato sempre usato: sempre, in tutte le epoche storiche e in tutte le forme di economia, si sono fatti dei piani. Il piano lo fa il padre di famiglia quando deve coordinare l’insieme delle sue entrate e delle sue spese e deve distribuire le sue spese a seconda delle esigenze familiari. Anche questo è un piano. Un piano lo presenteranno da qui a pochi giorni gli uomini del governo col bilancio preventivo per il 1947-48. Anche questo è un piano. Nessuno si è mai meravigliato che lo Stato facesse per le cose sue dei piani. In tutte le forme dell’economia si son fatti dei piani e sempre coloro che li hanno fatti hanno avuto maggiore o minor successo a seconda della abilità con cui essi questi piani avevano congegnalo.

Sono contrario al principio generale dei piani complessivi da formularsi dallo Stato. Non vediamo noi forse, non abbiamo forse sotto i nostri occhi i risultati, tutt’altro che piccoli, degli innumerevoli piani i quali sono stati attuati in concorrenza ed in collaborazione da individui privati e dallo Stato attraverso i secoli e anche negli ultimi tempi?

Io non so se molti di voi ricordano, come ricordo io, le condizioni agricole in cui si trovava l’Italia nel tratto da Pisa a Roma. Nel 1891 feci il primo viaggio da Torino a Roma traversando la Maremma e poi la campagna romana. Lo spettacolo che si apriva dinanzi agli occhi era allora davvero desolante. Adesso chi compie il medesimo viaggio si trova di fronte ad una situazione ben diversa, frutto di innumerevoli piani di lavoro che sono stati compiuti da individui, da enti pubblici, dallo Stato, e che hanno trasformato completamente la faccia esteriore di quel territorio. Invece delle lande deserte che si stendevano sino alle porte di Roma noi possiamo oggi contemplare aziende rurali private e pubbliche, che io credo siano non solo tra le prime, ma le prime del mondo. Non esiste infatti in nessun paese del mondo un complesso di aziende così grandemente perfezionato che dia altrettanta produttività economica: in nessuna parte del mondo si ritrova un complesso di aziende che possa sostenere il paragone con quello che vediamo alle porte di Roma.

Tutta l’Italia, del resto, è cosparsa di aziende rurali che sono il frutto di piani sapienti condotti fin dall’antichità; non piani ordinati dall’alto, ma adattati caso per caso alle esigenze delle località.

Esiste in qualche paese del mondo una zona che possa stare al paragone della Lombardia per perfezione di agricoltura, per ricchezza di prodotti, per ricchezza di strumenti tecnici? Esiste al mondo una regione nella quale gli investimenti di capitali siano stati nei secoli così intensi e trasformatori da eccedere persino il valore presente della terra? Eppure la Lombardia per ben due volte nella sua storia fu tratta dal nulla economico alla floridezza. La prima volta quando Annibale si affacciò dalla cerchia delle Alpi; e la seconda volta verso il 1000 quando la barbarie medioevale stese il suo velo funereo su tutta l’Europa. La Lombardia era diventata tutta una palude, cosparsa qua e là di foreste. E se una prima e di nuovo una seconda volta la Lombardia è tornata ad essere quella che oggi è, ossia il giardino d’Europa e forse il giardino del mondo, ciò si deve all’iniziativa individuale entro la cornice di una appropriata legislazione. Quale fu la legislazione che consentì agli agricoltori di trasformare la faccia della terra da un complesso di paludi miasmatiche all’intenso rigoglio di terre stupendamente coltivate? Il risultato, per quanto ha tratto all’intervento statale, si deve a due leggi, a due piccole leggi. Una si chiama la legge dell’acquedotto che esisteva già nel diritto romano e fu ripresa negli statuti dei liberi comuni lombardi. Per essa il proprietario di una sorgente d’acqua che si trovi lontana dai suoi terreni ha il diritto di portare l’acqua passando attraverso il terreno altrui, purché paghi l’indennizzo per il terreno che occupa per portare l’acqua, e ciò anche senza il consenso dei proprietari dei terreni che sono attraversati.

In virtù di questa semplice norma legislativa, che costituì la cornice entro la quale si poté sviluppare l’opera del proprietario, la irrigazione in Lombardia ebbe uno stupendo sviluppo; e quei terreni non furono più campi inquinati di acque nelle quali si seminava di quando in quando il riso con scarsissimi prodotti, ma terreni pianeggianti, così profondamente diversi da quelli precedenti da non avere con essi alcun rapporto.

Un’altra legge cornice, entro la quale si sviluppò l’attività privata che trasformò la Lombardia, fu dovuta ad alcuni economisti italiani del 18° secolo; essa sanciva che coloro i quali avessero migliorato i loro terreni potevano godere il frutto dell’incremento di reddito senza pagare un sovrappiù d’imposta. È questa la legge che Carlo Cattaneo definì legge civile in confronto alle barbare leggi che in altri paesi colpivano il reddito appena colto, e fu quella che incoraggiò la trasformazione e il miglioramento dei terreni.

Noi non abbiamo bisogno di piani complicati imposti dall’alto e di assurda applicazione, in quanto almeno uno dei fattori produttivi si comporterà sempre in modo diverso dal previsto; senza contare che, finché è sancita la libertà di scelta delle professioni, almeno uno dei fattori sarà disponibile in quantità diversa da quella decretata dai piani. Le leggi di cornice che stabiliscono limiti all’iniziativa privata favoriscono sempre l’iniziativa individuale e fanno sì che questa possa svolgersi completamente; i piani generali dall’alto la mortificano.

Debbo chiedere venia ai colleghi di diverse opinioni politiche se forse non rendo eccessivo omaggio alla novità del sistema dei piani che vengono dall’alto, che essi auspicano. I piani dall’alto non sono una novità ma una cosa antica quanto il mondo e in tutte le carte di tutti i principî (non dell’epoca illuministica, perché allora incominciava la critica) dell’epoca di decadenza, che venne dopo quella la quale spinse l’economia italiana nel 1200 e 1300 a fastigi mai prima raggiunti, essi diventarono comuni: e furono allora e saranno di nuovo in avvenire – se essi saranno nuovamente applicati – non uno strumento di elevazione sociale ed economica, ma uno strumento di oppressione politica.

Fu durante i secoli dalla fine del ’500 alla metà del ’700 che quei piani di riorganizzazione economica provenienti dall’alto si fecero più frequenti, e non un editto si può leggere di quell’epoca nel quale non sia detto che i principî volevano recare benefici ai sudditi e volevano promuovere l’economia restringendola entro vincoli che allora si chiamavano corporazioni d’arti e mestieri: illegittime eredi, queste, delle vere corporazioni libere che esistevano nel 1200 e nel 1300.

PRESIDENTE. Onorevole Einaudi, ascoltiamo volentieri queste sue considerazioni; ma la sua, come dichiarazione di voto, mi sembra troppo ampia.

EINAUDI. Concludo: i piani imposti dall’alto sono sempre stati, nei secoli scorsi, antesignani di servitù politica e di schiavitù economica.

Ho sentito ricordare con accento di critica la legge Chapelier, che meglio si dovrebbe far risalire a Turgot, la quale aboliva le corporazioni di arti e mestieri.

Tengo a dichiarare che quella legge, sopprimeva piani che avevano arrecato il maggior danno all’economia pubblica ed avevano tenuto basso il tenore di vita delle classi lavoratrici. La legge abolitrice delle corporazioni dopo del piano generale non era diretta contro le classi lavoratrici; anzi era antesignana della libertà di coalizione, della libertà di sindacato, della libertà di sciopero.

Io che sono favorevole alla libertà di scelta ed alla libertà di sindacato, non da oggi, ma da quando ho cominciato a scrivere in questa materia, dal 1898, dico che dobbiamo continuare a salutare storicamente con plauso quella legge abolitrice delle corporazioni di arti e mestieri, perché essa sopprimeva la schiavitù ed iniziava un nuovo periodo di libertà nel mondo e di elevazione delle classi lavoratrici.

Noi, che vogliamo l’elevazione delle classi lavoratrici, vogliamo conservare il principio della libertà di scelta e siamo contrari all’emendamento, che questa libertà di scelta logicamente e necessariamente nega. (Applausi).

FOA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. A nome dei miei colleghi di gruppo dichiaro che noi voteremo a favore dell’emendamento in discussione.

Colgo l’occasione di questa dichiarazione di voto per dichiarare all’Assemblea, come firmatario dell’emendamento in discussione ed essendo, in certo senso, responsabile di aver dato inizio a questo dibattito col mio emendamento di ieri, di essere grato all’onorevole Einaudi e all’onorevole Pajetta, per avere essi contribuito a spostare questa discussione da quell’atmosfera di drammaticità, che sembrava dovesse assumere all’inizio della seduta, a giudicare dai commenti della stampa di stamane, e per avere elevato il dibattito in una sfera serena.

Effettivamente non vi è stata, da parte mia, nessuna intenzione di insinuare nella Costituzione un elemento che risolvesse a pro dell’una o dell’altra parte un dibattito ideologico o programmatico essenziale, che pensasse, cioè, di risolvere il problema fondamentale che angustia molti di noi, quello della libera iniziativa e dell’intervento statale.

Mi richiamo a quanto dissi ieri e che suppongo possa avere trovato risonanza nel fondo dell’animo vostro. Vi è oggi un problema centrale: vi sono delle necessità di intervento, che qualunque persona responsabile, a qualunque partito appartenga, non può disconoscere.

Ma noi sappiamo quanto questi interventi siano caotici ed empirici ed esposti alla pressione di interessi particolari ed oligarchici.

Noi pensiamo, che si debba dare ordine a quel tanto di intervento pubblico che è necessario nell’economia moderna.

Sono grato all’onorevole Einaudi di aver chiarito un punto importante. Egli ha detto: il bilancio è un piano finanziario. Esatto. Io ricordo che lo Statuto Albertino ed in genere gli statuti e i patti costituzionali moderni prevedevano l’impegno statale di fare il piano finanziario, perché la materia dell’intervento statale in campo finanziario era talmente delicata, che si richiedeva la sua pianificazione, come una garanzia democratica.

Questa è stata una conquista dello Stato democratico moderno: la formazione del bilancio prevista dalla Costituzione.

A distanza di cent’anni da allora, le necessità dell’intervento pubblico dello Stato, in materia economica, si sono talmente accresciute – e tutti noi sentiamo l’acuto disagio del disordine, del caos che presiede alla condotta economica degli enti pubblici – che l’esigenza di piani in questa materia non è una questione ideologica ma è una esigenza di ordine e, direi anche, di giustizia. Bisogna legare questo intervento ad una destinazione sociale affinché esso non sia più manovrato da interessi particolari.

Questo è lo scopo principale dell’emendamento presentato e per cui abbiamo, successivamente, aderito all’emendamento del collega Montagnana e degli altri firmatari, connettendo la richiesta di questa pianificazione, cioè di questo ordine nell’intervento al diritto al lavoro.

Io sono anche grato all’onorevole Einaudi per aver ricordato alcuni principî di scienza economica e per avermi dato modo di constatare, in questo caso, che la scienza non è in contrasto con la mia coscienza. Devo dire che quando l’onorevole Einaudi ci ha ricordato la formula del massimo rendimento, i suoi dubbi erano da me condivisi. Ma sul punto della massima utilità sociale, circa la incomparabilità delle sensazioni dei vari soggetti economici, il senatore Einaudi stesso ci ha insegnato che quella formula, che gli economisti inglesi esprimevano sinteticamente colla frase «no bridge», ha un valore puramente teorico. Queste disquisizioni teoriche, gli stessi economisti che le facevano, ammonivano di non farle sul piano pratico, perché qualunque legislatore, qualunque amministratore avesse voluto portare sul terreno pratico la formula del «no bridge» sarebbe rimasto paralizzato nella sua azione economica.

E quando vediamo la necessità anche nel campo internazionale di distribuire le scarse risorse che abbiamo secondo una graduatoria, di importanza e di urgenza, che cosa sono queste graduatorie se non graduatorie obiettive di bisogni?

E in un paese talmente arretrato in fatto di consumi, come è l’Italia, io mi domando se la coscienza pubblica non riconosce che esistono dei bisogni che si possono valutare obiettivamente e che nessuna scala di valutazioni soggettive sul libero mercato potrebbe esprimere, perché vi sono delle categorie di consumatori che non possono, per mancanza di mezzi e per mancanza di possibilità di consumo, esprimere i loro bisogni particolari sul mercato. Per cui l’esigenza di questi bisogni non può essere che oggettiva, cioè sottoposta a un piano di graduatoria, sottoposta ad una valutazione sociale.

Questa deve essere la coscienza del Paese quando si tratta di sollevare delle zone depresse o delle categorie depresse. In questo caso non c’entra più il problema della non comunicabilità fra la psiche di un soggetto e quella di un altro. Noi sappiamo che quei bisogni ci sono e la coscienza pubblica riconosce che devono essere soddisfatti. Questo è il problema del piano come noi lo poniamo. Non è un contrasto fra il piano e l’iniziativa, è una necessità per mettere ordine e giustizia in queste materie vitali. Questo bisogno è veramente diffuso dappertutto.

Non so se l’emendamento sarà approvato, ma ho speranza che nel fondo delle preoccupazioni da me espresse vi sia qualcosa che può essere comune a tutti i partiti, soprattutto a quei grandi partiti maggiormente responsabili perché esponenti delle grandi masse popolari. Se questo fondo comune esiste, io mi auguro sinceramente che un punto d’accordo possa essere trovato, in prosieguo: la Costituzione italiana deve portare traccia di questa esigenza, che è di tecnica moderna e di giustizia sociale. (Applausi a sinistra).

BELOTTI. Chiedo, di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BELOTTI. Sarò brevissimo, in quanto intendo limitarmi a completare quello che ha detto l’onorevole Pajetta nel suo intervento chiarificatore. Egli non è stato completo. Forse ha letto solo la relazione dell’onorevole Togliatti, ma non ha letto un’altra relazione apparsa negli Atti della Commissione per la Costituzione.

A pagina 109 del volume secondo si legge, nella relazione presentata alla terza Sottocommissione dallo stesso suo compagno di partito, onorevole Antonio Pesenti:

«Da un punto di vista di fatto è chiaro che soltanto un’organizzazione sociale basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione e su di un piano economico dell’investimento e della produzione può assicurare la realizzazione del diritto al lavoro, intese appunto non come affermazione morale, ma come obbligo giuridico dello Stato a procurare lavoro».

Da questo deriva, forse, che tale principio non debba essere sancito in una Carta costituzionale moderna di uno Stato basato sulla proprietà privata? Mi pare di no. Io penso che tale principio debba essere sancito anche nella Carta costituzionale nostra. Il principio del diritto al lavoro in una società in cui sia ammessa la libertà di investimento dei mezzi di produzione diventa un obbligo generico, una indicazione in favore di una politica di piena occupazione e di spesa pubblica, cioè di intervento dello Stato nella vita economica, con varie forme tendenti, nel loro complesso, al raggiungimento di tale meta, per quanto essa sia possibile nel sistema capitalistico di produzione e ciò in netto contrasto con i criteri informatori della politica economica della società capitalistica di concorrenza che hanno ovunque prevalso nel passato. Questo principio, qualora venisse sancito nella Costituzione, oltre a costituire una precisa indicazione di politica economica e affermare una esigenza della coscienza popolare moderna, avrebbe inoltre conseguenze giuridiche importanti. Da esso, e non da altri, può derivare il principio del diritto al riposo retribuito ed alla protezione sociale, intesa non come organizzazione assicurativa mutualistica di carattere privato – sia pure con riconoscimento e controllo statale – ma come preciso obbligo della società di garantire un minimo di vita e di difesa sociale a chi, per colpa non sua o per inabilità, non ha il lavoro a cui avrebbe diritto. Ecco perché anche nella nostra società è bene affermare il diritto al lavoro. Se esso, nella sua forma principale, non è immediatamente attuabile, sta tuttavia alla base di diritti sussidiari, sostitutivi, che possono essere immediatamente realizzati».

Questa tesi, e non quella dell’onorevole Togliatti (evidentemente ispirata al paradigma sovietico), era prevalsa in seno alla Commissione plenaria. L’articolo 37 (secondo comma) del progetto di Costituzione detta appunto: «La legge determina le norme e i controlli necessarî perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate a fini sociali».

Condivido le eccezioni che sono state mosse all’emendamento aggiuntivo proposto dagli onorevoli Montagnana ed altri, soprattutto per quanto riguarda la sua conciliabilità col secondo comma (già approvato) dello stesso articolo 31, il quale sancisce il dovere per ogni cittadino di svolgere un’attività o una funzione «conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta». Indubbiamente, il governo di uno Stato totalitario può garantire lavoro ai proletari disoccupati, imponendo ad essi l’esecuzione di opere utili alla collettività, ma che, dal momento che esse implicherebbero troppo gravi sacrifici per i singoli, nessuno accetterebbe di compiere in regime di libertà. Un Governo può far costruire ferrovie e canali in «tundre» desolate e flagellate da tempeste di neve, o in terreni paludosi, valorizzando sì regioni ricche di materie prime, ma con enorme spreco di vite umane. Una pianificazione integrale imposta dall’alto postula una elefantiasi burocratica che può essere spinta fino al soffocamento della libera scelta del lavoro e della libera iniziativa, molle del progresso sociale. Nella Russia Sovietica, ad esempio, com’è noto e documentato dal Codice Sovietico del lavoro, la distribuzione del lavoro non è riservata alla spontanea scelta individuale: è una funzione sociale, è una prerogativa esclusiva dello Stato imprenditore. Noi non abbiamo paura delle parole, ma siamo avversi a una pianificazione integrale ispirata a quel «produttivismo» che è nettamente in contrasto con la nostra concezione umana e cristiana dei diritti naturali e fondamentali della persona.

Come guarentigia del diritto di tutti i cittadini al lavoro, oltre al già citato secondo comma dell’articolo 37 del progetto di Costituzione, pare a me come all’onorevole Pesenti che possa bastare il primo comma (già approvato) dello stesso articolo 31, il quale detta:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Per queste ragioni dichiaro che voterò contro l’emendamento Montagnana. (Approvazioni al centro – Commenti a sinistra).

CORBINO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBINO. Io credo che mai come oggi noi abbiamo motivo di rallegrarci di far parte di un’Assemblea di uomini liberi, in cui una questione, che avrebbe potuto presentarsi con caratteri di una notevole gravità è stata, si può dire, immediatamente e lealmente svelenita della sua portata preoccupante dalle dichiarazioni che, all’inizio di questa discussione, ha fatto uno dei presentatori dell’emendamento sul quale discutiamo. Perché l’onorevole Pajetta dovrà convenire con me che, nella forma e nel contenuto, le modificazioni che egli propone sono veramente rilevanti rispetto all’emendamento proposto ieri, emendamento che ripete una proposta fatta dall’onorevole Togliatti in sede di Sottocommissione.

La preoccupazione sorta in taluni, che si fosse voluto tentare, diciamo così di straforo, di introdurre il socialismo e il collettivismo nella nostra Costituzione, nasceva un po’ dal contenuto dell’emendamento inizialmente presentato, ma soprattutto dal fatto che essa era stato presentato; dirò quasi, non all’ultimo momento, ma all’ultimo giorno della discussione. Io penso che appunto perché questa proposta aveva avuto l’autorevole battesimo da parte dell’onorevole Togliatti, in seno alla seconda Sottocommissione, avrebbe dovuto, dai colleghi di quei banchi, essere presentata prima. Certamente essa non avrebbe destato la sorpresa e l’imbarazzo che sono derivati esclusivamente dall’ora relativamente tarda di presentazione. Questo desidero dire perché ci si renda conto che, quando noi dichiariamo di essere contrari all’emendamento in parola, non vogliamo escludere le ragioni umane che questo emendamento possono aver suggerito, e vogliamo soltanto collegarci all’interpretazione della Commissione che cioè, nel contenuto degli articoli 31, nella parte già approvata, e 37, nel testo proposto dalla Commissione, la parte sostanziale dell’emendamento si deve considerare come già implicitamente affermata. Non è, badate bene, una questione di liberismo o di intervento integrale dello Stato. Non c’è una differenza così grave tra liberismo e non liberismo od interventismo che non possa, sul terreno della libertà politica, trovare volta per volta la sua soluzione di compromesso, perché voi non potete concepire una società organizzata a Stato, in cui lo Stato sia interamente liberista perché altrimenti esso cesserebbe di essere Stato.

Non si può concepire un’organizzazione sociale in cui lo Stato voglia fare tutto, anche nell’ipotesi illimitata, perché non si potrà mai togliere ai cittadini il diritto di uccidersi (Commenti), il che manderebbe a monte il diritto dello Stato di mantenere dei vincoli ad ogni costo. Ecco perché il problema dell’intervento e della libertà sul terreno economico, quando se ne parla in quest’aula, non è problema di economia politica ma è problema di politica in senso stretto e può benissimo accadere, onorevole Pajetta, che l’onorevole Corbino, liberista, in determinate circostanze, possa andare anche al di là di quanto non possa andare l’onorevole Pajetta che ha l’intervento puro come principio, come prassi.

Quel che ci aveva un po’ preoccupati era la forma originaria: «lo Stato interviene per coordinare e dirigere secondo un piano». Coordinare e dirigere secondo un piano significava sottoporre allo Stato il controllo completo della vita economica e politica, collettivamente e singolarmente intesa, della Nazione. Nella forma attenuata con cui l’emendamento è presentato oggi, esso fa sorgere un solo problema, quello della definizione del massimo di utilità sociale, problema che, come l’onorevole Einaudi ha luminosamente dimostrato, è teoricamente irresolubile, e praticamente si risolve col trionfo di una parte politica sull’altra. Infatti volete voi che qualcuno chieda l’intervento dello Stato per dire: «Vogliamo che lo Stato intervenga perché questo è il nostro interesse»? Ma non troverete nessuno che farà questo, nessuno che domanderà dei milioni o dei miliardi perché apertamente vadano a beneficio di portafogli privati. No. Tutte le richieste allo Stato sono sempre poggiate sul presupposto che, accedendo a esse, si fa l’interesse collettivo. Se voi leggete tutti gli atti parlamentari, tutti i documenti che pervengono per richieste di dazi doganali, o di intervento di qualsiasi genere, troverete sempre la frase: «È nell’interesse della Nazione che questo si faccia». È così che i cotonieri nel 1887 chiesero e ottennero protezioni doganali superiori a quelle che sarebbero state logicamente necessarie in quel momento, e che la siderurgia pesa da 60 anni sull’economia italiana, nel nome dell’interesse generale, e tante e tante altre forme di parassitismo, o di parassitismo non solo…

DI VITTORIO. Tutto ciò si è fatto in Italia senza piani.

CORBINO. Onorevole Di Vittorio, le posso dire che non è così, perché se lei vede tutti gli atti delle Commissioni parlamentari che hanno portato alla concessione dei dazi doganali nel 1883, nel 1887, nel 1892, nel 1903, non troverà la parola piano adoperata nel significato moderno della parola, ma ci troverà il contenuto di un piano, perché lì si parla di sviluppi di industrie collaterali e coordinate a necessità di carattere militare, di industrie da fare sviluppare perché vi sono delle maestranze da impiegare, di intervento che lo Stato deve assicurare per garantire determinate situazioni locali, e non già di piano nella forma organica con cui se ne parla oggi (il piano quinquennale, il piano quadriennale). Ma, come ha detto l’onorevole Einaudi, questi piani non sono mai realizzabili al punto in cui sarebbe desiderabile che lo fossero, anche rispetto a coloro che li propongono, perché il mutare dei tempi in politica ed in economia, è così rapido che le ipotesi inizialmente poste, perché il piano si svolga in tutta la sua interezza, si mutano strada facendo. Quella dello Stato quando vuol fare i piani, è un po’ la posizione di quel cacciatore di cui si dice che, essendo distratto, andava a caccia dimenticando sempre qualcosa; un giorno le cartucce, un giorno la borraccia, un giorno la colazione, un giorno il fucile, ma tornava sempre con la cacciagione. Una volta sola aveva portato con sé tutto, ma rientrò senza caccia per il solo fatto che avendo dimenticato il portafoglio, non poté comprare la cacciagione che abitualmente portava come risultato delle sue avventure.

Ed allora io richiamo la vostra attenzione sugli effetti politici ed economici che derivano dall’impiego della parola «piano» nella nostra Costituzione, rispetto al significato che a questa parola si dà in altri paesi. Voi sapete meglio di me quale è la situazione economica italiana di carattere transitorio e quale è quella di carattere permanente; cioè sapete meglio di me che l’economia italiana è stata sempre strettamente collegata all’economia internazionale. Questo collegamento, nel periodo anteriore alla prima guerra mondiale, si manifestava, nei nostri riguardi, nei due aspetti differenti del collegamento fra l’Italia e l’estero, per gli stranieri che venivano in Italia, e per gli italiani che andavano all’estero. Si trattava di un movimento di nazionali e di stranieri, che aveva questo solo effetto: ne derivava a nostro vantaggio una somma di ben 1200 milioni di lire del 1913, cioè a dire un qualche cosa che corrisponde a circa 350 milioni di dollari attuali, cioè 240 milioni di dollari del 1914. Ora, con questi 1200 milioni l’Italia pagava quello che non riusciva a comperare con le esportazioni delle sue merci. Fino a quando noi non riusciremo a riattivare queste due correnti di mezzi di pagamento, fino a quando noi non riusciremo a equilibrare meglio le nostre necessità di importazione con le possibilità di esportazione, noi dovremo sostituire queste fonti con le possibilità determinate dal mercato finanziario internazionale. Ora io non mi preoccupo di sapere da quale parte possano venire questi mezzi, non guardo né alla provenienza, né al tipo o alle caratteristiche dei prestiti che si potranno avere; parlo soltanto della struttura economica che noi vorremmo preparare, dato che, fino al giorno in cui non potremo essere autonomi sul problema dei rapporti internazionali, avremo bisogno di questi aiuti. Credete pure che oggi la parola «piano» intesa nel senso con cui era stata considerata nella prima ipotesi, è una parola che spaventa.

LOMBARDI RICCARDO. È l’America che chiede dei piani.

CORBINO. Siamo d’accordo, onorevole Lombardi, ma i piani che chiede l’America – me lo consenta l’amico Lombardi – non sono quelli che chiedeva l’amico Pajetta con il suo emendamento (Si ride – Applausi al centro e a destra).

C’è una notevole differenza; io dico e affermo sostanzialmente con voi che è assurdo pretendere che lo Stato, nelle condizioni attuali, si possa disinteressare dello svolgimento della vita economica; sarebbe illogico, perché allora lo Stato non sarebbe più lo Stato. Questo stato con la s minuscola che se ne vuole andare noi lo facciamo andare, e gli sostituiremo un altro Stato con la S maiuscola, che si deve occupare della vita economica e sociale del Paese. E io sarò il primo a sostenere questa tesi con voi.

Ma, se sostanzialmente siamo d’accordo, cioè se tutti ammettiamo che l’attività dello Stato debba essere diretta al fine di ottenere, non dirò il massimo di utilità sociale in senso assoluto – che non esiste – ma quel massimo di utilità sociale che dalla classe dominante è volta per volta riconosciuto corrispondente alla definizione che dovremmo dare nella Costituzione, perché dobbiamo mettere nella Costituzione delle cose che ci potrebbero, in un certo senso, danneggiare e non ci gioverebbero proprio a nulla? Questa è la preoccupazione che ho nell’animo mio; perché, credete pure, noi liberali non vogliamo ostacolare la marcia del socialismo.

Non è questo un problema soltanto italiano; è un problema che travaglia tutti i popoli. È un problema in cui noi camminiamo come cammina una delle stelle della costellazione dell’Orsa Maggiore, insieme alle altre sei. Siamo in un’epoca nella quale noi abbiamo distrutto il fondo delle teorie liberali in materia economica – lo riconoscete anche voi questo – il liberalismo economico è stato distrutto, non esiste più. Sono contento che si faccia questa constatazione, perché vuol dire che il fallimento al quale assistiamo in questi giorni non è il fallimento dell’economia liberale, è il fallimento di un’altra economia. (Rumori e commenti a sinistra. Applausi a destra). Comunque, noi non abbiamo ancora sostituito alla vecchia economia liberale un’altra economia a basi salde; stiamo cercando, stiamo brancolando nel buio; speriamo che o il sole dell’avvenire, o la luna piena del presente ci consentano di uscir presto da questa situazione.

Ma se partiamo dal presupposto che l’interesse che tutti vogliamo tutelare, anche se non apparteniamo a determinati banchi dell’Assemblea, è l’interesse delle classi lavoratrici che, credete pure, stanno a cuore a noi come a voi; (Commenti a sinistra) credetelo pure, posso dirlo perché sono uno dei vostri, perché per provenienza appartengo a quelle classi lavoratrici che voi affermate di voler difendere e, se volessi passare all’altra classe, rinunziando allo scanno di deputato, lo potrei fare da domattina in avanti: se sono qui, ci sono per difendere con voi, sia pure da un altro punto di vista, l’interesse delle classi lavoratrici, con identità di buona fede, e sono convinto che nel vostro intimo, anche se apparentemente rumoreggiate un po’ alle mie affermazioni, voi che tutti mi conoscete dovete ammettere che io ho ragione. Dunque, dicevo, se questo è l’intendimento di tutti – noi cerchiamo di fare una Costituzione che valga non per l’eternità, ma per lungo tempo – non vincoliamo l’azione dei governi futuri alla necessità di piani, nel significato odierno della parola: atteniamoci a quello che la Commissione, con l’articolo 31 e con l’articolo 37, propone ed eventualmente concordiamo pure un’integrazione dell’articolo 37 nel senso che è compatibile e conciliabile con tutti i punti di vista.

E facciamo che su un argomento che sta a cuore di tutti non si proceda a una votazione che ci divida: noi non dobbiamo dividerci sul terreno dell’amore alle classi lavoratrici, perché qui tutti abbiamo il diritto di pretendere che l’interesse di queste classi sia da tutti difeso in purità di fede. (Vivi applausi).

Risultato della votazione segreta.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione segreta sul disegno di legge: «Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale» e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti. (Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico il risultato della votazione a scrutinio segreto:

Presenti e votanti     395

Maggioranza           198

Voti favorevoli        265

Voti contrari             130

(L’Assemblea approva il disegno di legge).

Hanno preso parte alla votazione:

Abozzi – Adonnino – Allegato – Amadei – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Arata – Arcaini – Arcangeli – Assennato – Avanzini – Ayroldi – Azzi.

Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Basile – Bassano – Basso – Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Belotti – Bencivenga – Benedettini – Benvenuti – Bernamonti – Bertini Giovanni – Bertola – Bertone – Bianchi Bruno – Bianchi Costantino – Bianchini Laura – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Boldrini – Bolognesi – Bonino – Bonomi Ivanoe – Bonomi Paolo – Bordon – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Bruni – Brusasca – Bubbio – Bucci – Buffoni Francesco – Burato.

Caccuri – Caiati – Cairo – Calamandrei – Caldera – Calosso – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Canepa – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Carpano Maglioli – Carratelli – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Cevolotto – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cicerone – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsi – Cortese – Costa – Costantini – Cotellessa – Crispo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Amico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Di Gloria – Di Vittorio – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti.

Einaudi – Errnini.

Fabbri – Fabriani – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Fietta – Filippini – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gatta – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidini – Ghislandi – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giordani – Giua – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela – Gullo Fausto.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino.

Labriola – Laconi – Lagravinese Pasquale – Lami Starnuti – Landi – Leone Francesco – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lozza – Lucifero – Luisetti.

Macrelli – Maffi – Maffioli – Magnani – Magrini – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Marazza – Marconi – Mariani Enrico – Mariani Francesco – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mattei Teresa – Mazzei – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Angelina – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angioli – Minio – Molinelli – Momigliano – Montagnana Rita – Moltalbano – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Renato – Morini – Moro – Mortati – Moscatelli – Motolese – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Natoli Lamantea – Nicotra Maria – Nitti – Nobile Umberto – Nobili Tito Oro – Noce Teresa – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo.

Pacciardi – Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Parri – Pastore Raffaele – Pat – Parissi – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Persico – Pertini Sandro – Perugi – Pesenti – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignatari – Pistoia – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Porzio – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Ravagnan – Reale Vito – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Romano – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Roveda – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Saccenti – Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Saragat – Scalfaro – Schiavetti – Schiratti – Scoca – Scoccimarro – Scotti Alessandro – Scotti Francesco – Secchia – Segni – Siles – Silipo – Silone – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Targetti – Taviani – Tega – Titomanlio Vittoria – Togni – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Trulli – Tupini.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vallone – Valmarana – Varvaro – Vernocchi – Veroni –Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Villani – Volpe.

Zaccagnini – Zagari – Zanardi – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Bargagna – Bernardi – Bettiol – Bulloni.

Cartia – Caso – Chiostergi – Cifaldi.

Falchi – Fanfani.

La Pira – Lazzati – Lombardo Ivan Matteo – Lussu.

Mannironi – Marina – Mastino Pietro.

Paris – Penna Ottavia.

Rapelli.

Sardiello – Simonini.

Tambroni Armaroli – Tremelloni – Treves – Turco.

Vigna.

Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. Si riprende la discussione del progetto di Costituzione della Repubblica Italiana.

TAVIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il gruppo democristiano voterà contro l’emendamento proposto dall’onorevole Montagnana. (Commenti a sinistra). Il nostro voto sarebbe sufficientemente motivato ove noi ci limitassimo a dire che l’emendamento stesso avrebbe dovuto essere presentato come sostitutivo della seconda parte del primo comma dell’articolo 31.

Infatti, dopo aver riconosciuto il diritto al lavoro a tutti i cittadini, il testo dice: «La Repubblica promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Ora, in luogo di questa dizione, si sarebbe potuto adottare quella proposta dall’onorevole Montagnana. Qui sta la sorpresa della procedura adottata nella presentazione dell’emendamento. Devo infatti rendere atto all’onorevole Laconi che egli mi aveva privatamente avvertito che i comunisti avevano già predisposto un emendamento a questo articolo. Ma l’emendamento avrebbe dovuto essere sostitutivo del primo comma dell’articolo. Accettarlo ora, che il primo comma è già stato votato, significherebbe adottare due formule diverse per affrontare, risolvere, inquadrare costituzionalmente un identico problema.

Peraltro, noi non vogliamo trincerarci dietro ad una questione di forma e di procedura; e dichiariamo apertamente che la questione sollevata dall’emendamento presentato dagli onorevoli Montagnana e Pajetta coinvolge una sostanziale divergenza fra la concezione comunista dell’economia e la nostra concezione.

È per questa ragione che la mia dichiarazione sarà lunga, assai più lunga delle mie precedenti, che sono state tutte brevissime.

L’effettiva realizzazione del pieno impiego può implicare la necessità di un’integrale pianificazione dell’economia? Deve implicare l’accentramento di tutte le iniziative economiche sotto un’unica direzione che organizzi la produzione, ordini la distribuzione, determini ed imponga i bisogni anche individuali, elimini qualsiasi proprietà privata, qualsiasi libertà di iniziativa, tutto riducendo alla burocrazia di un complesso congegno collettivo?

Una voce a sinistra. Chi dice questo?

TAVIANI. Lo dico io. Effettivamente, l’attuazione, in senso assoluto, della politica del pieno impiego può implicare anche questo. Per una garanzia assoluta del pieno impiego, una politica economica di questo genere può essere necessaria. Necessaria, ma non sufficiente. Infatti, quand’anche una politica di questo genere dovesse ritenersi necessaria, non sarebbe sufficiente in un paese povero e sovrapopolato come il nostro, per il quale sarebbe più che giustificato dubitare che non sia possibile assicurare un pieno impiego se non si ricorra anche ad una forte e ordinata emigrazione. Tuttavia, anche quando un’integrale pianificazione dell’economia risultasse sufficiente, noi non riteniamo che in alcun caso ad essa si debba ricorrere e ciò per due motivi fondamentali: 1°) perché un’economia integralmente pianificata, e quindi collettivizzata, per quanto la si voglia e possa idealmente proiettare allo scopo del benessere collettivo e quindi anche del pieno impiego, lascia troppo facilmente la possibilità di cedere alla tentazione di indirizzarla ad altri scopi, come egemonie imperialistiche o privilegio di ristrette cerchie classistiche o ideologiche; 2°) perché un’economia integralmente pianificata sacrifica di necessità altri diritti della persona, altrettanto naturali ed originari quanto il diritto al lavoro, e, per esempio, il diritto all’appropriazione personale, al quale, con calorose parole, si richiamava ieri l’onorevole Zuccarini.

Ed è stato proprio nel discorso dell’onorevole Zuccarini di ieri che è stato citato Giuseppe Ferrari. Orbene, questo scrittore, pensatore, filosofo, economista del secolo scorso, perché è attuale ancora oggi? Non certo per il suo radicale anticattolicesimo; è ancora oggi attuale perché nella sua «Filosofia della rivoluzione», egli ha dimostrato l’impossibilità di conciliare l’assoluto principio della libertà con l’assoluto principio dell’eguaglianza.

Il principio della libertà, applicato in senso assolutistico, porta fatalmente a distruggere l’eguaglianza, come viceversa il principio dell’eguaglianza applicato in senso assolutistico porta a distruggere la libertà.

Questo ha dimostrato Giuseppe Ferrari, ed è effettivamente così.

Qualche cosa di simile si può dire di una politica economica che sia esclusivamente, e insisto su questo esclusivamente, orientata allo scopo di far lavorare tutti i cittadini.

Come si potrebbe realizzare tale scopo, se non attuando alcuni dei principî citati dall’onorevole Einaudi e per esempio: deportare masse di lavoratori da un luogo all’altro dello Stato?

Si dirà allora: perché avete votato il diritto al lavoro? Avete fatto un’affermazione platonica?

No, il riconoscimento di un diritto naturale dell’uomo al lavoro implica innanzi tutto per noi il diritto di lavorare (quel diritto che il regime hitleriano ha negato agli ebrei) ed implica l’impegno dello Stato a promuovere tutte quelle condizioni (si intende compatibilmente ed in armonia col rispetto degli altri diritti naturali dei cittadini) affinché sia assicurato ad essi il lavoro e quindi l’esistenza. Questo è uno degli scopi, se si vuole anche il primo scopo, ma non l’unico scopo, non l’unico fra i fini sociali, di cui parla l’articolo 37.

Si è parlato qui di piani che sono graditi all’onorevole Corbino e di piani che riuscirebbero graditi all’onorevole Pajetta. Noi non siamo contrari a ritenere che siano necessari anche dei piani economici formulati dagli organi pubblici, qualche cosa di più e di diverso dal piano economico individuale, a cui ha fatto riferimento esplicito l’onorevole Einaudi.

Noi non siamo affatto contrari, anzi desideriamo dei piani del tipo di quello Beveridge, ricordato stamattina dal collega Grieco; ma saremmo, per esempio, contrari a piani del tipo di quello quadriennale nazista, che cominciava proprio con questa affermazione: «il cittadino tedesco ha il diritto di pretendere che l’organizzazione statale del popolo trovi i mezzi e le vie per procurare lavoro al popolo».

Anche questo è stato un piano teso, almeno teoricamente, a soddisfare il diritto al lavoro, ed a questo non siamo favorevoli.

L’onorevole Nitti ha detto ieri che spesso falce e martello e aspersorio, si son trovati d’accordo, alludendo ancora una volta a pretesi compromessi che sarebbero stati alla base del Titolo III.

Ora è bene ribadire che, se nella strada che intendiamo seguire c’incontriamo con altri che partono da punti diversi e che in un domani, forse non immediato, hanno mete diverse dalle nostre, noi non ci preoccupiamo e tanto meno ci dogliamo se possiamo insieme compiere qualche cosa di concreto o votare insieme una norma di legge. Ma, quando sulla nostra strada l’incontro non avviene, serenamente cerchiamo con azione democratica di far prevalere il nostro punto di vista. Ed è per questo che, dopo aver votato ieri, anzi dopo aver promosso assieme ai comunisti e ai socialisti l’affermazione del diritto al lavoro e l’impegno della Repubblica a renderlo effettivo, votiamo oggi contro l’emendamento Montagnana che, pur non affermandolo esplicitamente, apre la strada alla pianificazione integrale dell’economia. (Applausi al centro).

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, noi dobbiamo essere e siamo molto grati sia ai presentatori dell’emendamento, sia agli altri onorevoli colleghi che hanno parlato, perché essi hanno aiutato e rafforzato la nostra tesi, cioè che in sede costituzionale non si può discutere una legge sul lavoro, e confermata la giustezza della nostra idea che di questo passo noi non arriveremo mai a finire i nostri lavori di costituenti entro il 24 giugno.

Ciò premesso, desidero rassicurare l’onorevole Pajetta: noi non siamo affatto sorpresi dell’emendamento che è stato presentato dal partito comunista. Se siamo sorpresi di qualche cosa è che solamente adesso è venuto il primo di quella serie di emendamenti che aspettavamo; e così pensiamo che i colleghi dell’estrema sinistra non saranno affatto sorpresi apprendendo che noi voteremo contro. (Commenti a sinistra).

I problemi concreti sono una cosa e qui si tratta di problemi di principio. Ma, colpo di scena o no, sta di fatto, onorevoli colleghi dell’estrema sinistra, che una rivoluzione sociale dell’imponenza di quella che non solamente voi volete fare, non si può fare per emendamento. Il vostro emendamento discende da una concezione dell’economia diametralmente opposta a quella nostra. Non ce ne possiamo sbrigare con la disinvoltura con cui si sbrigano quasi tutti gli emendamenti. È perciò che forse l’onorevole Pajetta ha dato all’onorevole Corbino un titolo ingiusto quando l’ha chiamato l’ultimo dei «mohicani» (se mai sarà il penultimo, perché l’ultimo sarò io!). (Commenti).

Noi pensiamo che i piani ci sono sempre, come ha detto l’onorevole Einaudi e come ci ha precisato l’onorevole Corbino. Noi non siamo contro i piani; siamo contro lo Stato pianificatore, non abbiamo fiducia nello Stato commerciante, nello Stato industriale, nello Stato direttore. È una crisi di fiducia, miei cari colleghi! Noi vorremmo che lo Stato non ci vendesse nemmeno le sigarette e il tabacco, perché li troviamo a miglior prezzo e a migliori condizioni nella borsa nera che almeno, per quanto riguarda i tabacchi, è una cosa più seria del monopolio di Stato. (Commenti).

In queste condizioni di sfiducia, come potremmo affidare a questo povero Stato nientemeno che tutta la direzione della vita pubblica italiana? Sarebbe un assurdo. Noi siamo contro lo Stato pianificatore e riconfermiamo ancora una volta il nostro dissenso dottrinale, anche se su un terreno pratico e tecnico, nell’interesse dei lavoratori – perché siamo tutti lavoratori, pur negando noi l’esistenza di una classe lavoratrice – qualche volta abbiamo il piacere di trovarci d’accordo coi colleghi del partito comunista. (Applausi a destra).

D’ARAGONA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Ho ascoltato con molta attenzione quanto è stato detto.

Tutti hanno affermato l’opportunità, la convenienza dei piani, ma quasi tutti hanno concluso col dichiarare che non voteranno questo emendamento.

lo penso che gli oratori che mi hanno preceduto e che si sono dichiarati contrari suppongano che questo emendamento nasconda delle cose molto gravi è pericolose.

Io questi pericoli non li vedo affatto.

L’onorevole Giannini dice: io non credo alla capacità dello Stato pianificatore. Ma l’onorevole Giannini deve però constatare che l’economia moderna va gradatamente diventando economia statale. È lo Stato che giorno per giorno acquisisce a sé nuove attribuzioni che sono di carattere economico. Noi in Italia siamo già proprietari, come Stato, di parecchie delle attività economiche del nostro Paese. Non può dunque negarsi che l’economia vada verso lo Stato, e coloro che si vogliono opporre a questa nuova forma di economia saranno travolti, perché l’economia si evolve nel senso di andare verso forme collettive e non verso forme individualistiche.

Tutta l’economia moderna va verso la pianificazione: tutti i Paesi del mondo sentono il bisogno di una pianificazione. Io ho la convinzione che se il nostro Paese, invece di aver perso due anni, avesse cominciato due anni fa ad avere il suo piano economico, probabilmente non sarebbe oggi nella condizione di dolore in cui si trova. (Applausi).

Cosa vuol dire questa pianificazione? Si devono fare delle ferrovie o delle strade? Si deve sviluppare l’industria cinematografica o l’industria turistica? L’industria della siderurgia o della tessitura? Quale di queste industrie, di queste attività economiche deve avere la precedenza? Questa è la pianificazione che deve fare lo Stato: è lo Stato che ha la visione generale del Paese, non la può avere il singolo individuo, perché ognuno vede il proprio egoismo e non vede l’interesse della collettività. Se voi domandate agli industriali tessili, essi vi diranno che l’industria più importante è quella tessile; ma se vi rivolgete ai siderurgici, vi diranno che è la siderurgia. Ma è lo Stato che deve avere la nozione esatta di quello che conviene alla collettività, cioè allo Stato; e deve quindi chiarificare quella che è la sua attività, il suo concorso ed il suo incoraggiamento per sviluppare una industria piuttosto che un’altra. Dovremo sviluppare per esempio le industrie dei beni di produzione o le industrie dei beni di consumo? È un problema che deve essere esaminato dallo Stato, non dai singoli individui. Ecco perché l’economia liberale individualistica va verso la morte. Ha ragione l’onorevole Corbino quando dice che l’economia liberale non c’è. Non c’è più perché è fallita, ed è fallita perché ha provocato una serie di guerre che hanno ridotto l’economia mondiale nelle condizioni in cui si trova (Applausi a sinistra). Ora vogliamo lasciare queste forme di pianificazione al capitalista monopolista? Il capitalista ha la sua pianificazione. Se domandate alla Montecatini, essa ha la sua pianificazione. Ma dobbiamo lasciare nelle mani dei privati, di elementi incontrollati, al capitalista monopolista la pianificazione in modo che essa sia diretta verso soluzioni di difesa dei loro particolari interessi, o deve invece intervenire lo Stato per chiarificare, per indirizzare questa pianificazione verso un risultato rivolto all’interesse dello Stato? Questa è la domanda che ci dobbiamo fare. Ripeto, noi non vediamo in questo emendamento quell’enorme pericolo che vi si vuol vedere. Tutti affermano la necessità della pianificazione; però, quando si arriva alla conclusione, si dice: «noi voteremo contro; è necessario non includerla nella Costituzione». Ma ci sono tante altre proposte che sono state incluse nella costituzione e che sono di carattere generale. Qui si afferma un principio: lo Stato ha il dovere, nell’interesse della collettività, di tendere a garantire ai lavoratori il diritto e la sicurezza di lavorare facendo la pianificazione. Questo mi pare di vedere nell’emendamento. Perché dobbiamo essere contrari? Ho sentito una obiezione fatta dall’onorevole Einaudi: «Ma noi abbiamo votato l’altro giorno la libera scelta: come è possibile conciliare la libera scelta, lasciata al lavoratore, con la pianificazione?» Io sinceramente non vedo il conflitto esistente fra la libera scelta e la pianificazione. Lo Stato (e noi abbiamo votato la libera scelta per questo) deve rispettare il diritto di libera scelta del lavoratore. Però lo Stato può indicare al lavoratore dove egli può trovare il lavoro e dove ha la possibilità di avere la garanzia del lavoro. È nella libertà e nella libera scelta del lavoratore di rinunziare a quelle garanzie; ma quando avrà rinunziato di sua iniziativa la colpa sarà sua.

EINAUDI. Non è un piano, ma una statistica.

D’ARAGONA. Anche la statistica è un piano, perché senza la statistica non si fanno i piani. Quindi la statistica è un presupposto del piano. Ecco perché non riesco a comprendere questa enorme opposizione. La pianificazione economica in clima di democrazia parlamentare, è quanto di meglio si possa desiderare. Dando all’emendamento questo significato e questa portata, il mio gruppo voterà favorevolmente all’emendamento in discussione. (Applausi).

MAZZEI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAZZEI. Il gruppo repubblicano voterà contro l’emendamento Montagnana.

C’è una precisa tradizione dottrinaria nel nostro partito, alla quale noi cerchiamo sempre, per quanto possibile, di attenerci scrupolosamente.

Le parole che si usano in un testo costituzionale devono essere usate in quella che è l’accezione corrente. Ora, il problema di questo emendamento è proprio nel senso che si dà alla parola «piano».

Noi repubblicani non siamo pregiudizialmente contrari all’intervento statale (Interruzioni – Commenti), anche perché gli stessi teorici liberali hanno dimostrato ad usura che lo stesso liberalismo non esclude l’intervento statale: è questione di grado e di misura.

Si tratta, dunque, di vedere di quali «piani» si tratta: se si tratta d’una pianificazione generale e totale, la quale fa sì che lo Stato investa con la sua azione tutto il movimento economico-sociale; a questo, evidentemente, noi siamo contrari, perché non solo il pensiero repubblicano italiano, ma il pensiero repubblicano di tutta Europa è contrario a questa tesi.

Giustamente, Ortèga, il grande repubblicano spagnuolo, dice che uno dei maggiori pericoli, cui va incontro l’età contemporanea, è quello della «statizzazione della vita».

Noi non vogliamo statizzare la vita.

Ciò non significa che noi non sentiamo le preoccupazioni e le esigenze sociali che mirano a rendere il diritto al lavoro effettivo per tutti. Che anzi, questo è tradizionale della scuola repubblicana italiana, di quella scuola che ha iniziato il movimento operaio in Italia e alla quale, quindi, nessuno può in buona fede rimproverare di non curare l’interesse degli operai, nemmeno i colleghi comunisti, i quali si associano alle tesi che loro fanno più comodo, in tante circostanze, e non vogliono permettere che noi appoggiamo una tesi perfettamente coerente con la nostra tradizione dottrinale. (Commenti a sinistra).

In particolare, io devo precisare: l’emendamento parla di garantire il diritto al lavoro.

Nei dibattiti svoltisi in seno alla Commissione dei settantacinque il diritto al lavoro è stato unanimemente concepito e voluto come un diritto potenziale, vale a dire come una esigenza etico-giuridica, che lo Stato riconosce valida, e che noi repubblicani siamo ben lungi dal non ritenere tale. Ragione per cui abbiamo votato con tutta tranquillità per il diritto al lavoro e per tutte le misure che lo Stato dovrà adottare, per renderlo più che possibile concreto e reale. Questa è una posizione. Quella, cioè, del diritto al lavoro come diritto potenziale. Altra posizione è quella del diritto al lavoro inteso come diritto positivo al quale si attribuisce una immediata e concreta garanzia, quale quella d’un piano economico, che, in questo caso, non può non essere inteso nel senso di quella pianificazione totale, che non possiamo accettare perché non siamo marxisti.

Ma c’è di più. C’è il fatto, per esempio, che l’articolo 37 ha un capoverso in cui, dopo l’affermazione: «Ogni attività economica privata o pubblica deve tendere alla utilità sociale», si aggiunge: «La legge determina le norme ed i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate ai fini sociali».

Con questa norma dell’articolo 37 (che noi esamineremo e che noi repubblicani voteremo senz’altro) è assicurata la possibilità che lo Stato adotti tutti quei provvedimenti e quelle forme di programmazione economica che possono avere carattere sostanziale di piani, per fini determinati e contingenti. E che ciò sia effettivamente implicito nella predetta disposizione sta a testimoniarlo la esplicita dichiarazione dell’onorevole Ghidini, quale esponente della Commissione, il quale ha categoricamente affermato che il secondo comma dell’articolo 37 contiene un accenno chiaro alla possibilità di piani. Questo lo accettiamo di buon grado. Ma non si vede perché noi dovremmo inserire nella Costituzione un’ulteriore disposizione, che, fra l’altro, contraddice il comma immediatamente precedente dello stesso articolo 31, non solo per la possibilità di scelta del lavoro da parte dei cittadini, che potrebbe risultare pregiudicata, ma anche per la generale impostazione data al diritto al lavoro, come «diritto potenziale», e non già come «diritto positivo perfetto», come è ottimamente chiarito nella relazione dell’onorevole Pesenti, di cui l’onorevole Bellotti ha letto il passo principale.

Debbo dire, infine – e con questo chiudo – che gli argomenti svolti dal collega ed amico onorevole Foa, che pure è uno dei firmatari dell’emendamento, rispondono ad esigenze che sono anche le nostre.

L’onorevole Foa, se non vado errato, ha detto: badate, quando ho aperto questa discussione, quando ho dato adito a questa interessantissima e brillante discussione, non ho voluto risolvere il problema del rapporto tra iniziativa economica privata ed iniziativa economica dello Stato. Non ho voluto risolvere questo problema; ho voluto semplicemente affermare l’esigenza che certi interventi statali che oggi sono disordinati ed episodici possano essere coordinati in un piano organico in modo tale che l’intervento statale, anziché essere rimedio a dei mali, non si traduca in un ulteriore aggravamento di questi mali.

Ebbene, questa esigenza è perfettamente assolta dal capoverso dell’articolo 37 che noi voteremo. Viceversa, se noi votassimo questo articolo, così come vorrebbero altri, daremmo la possibilità di un equivoco per via della parola «piano», di cui è nota l’accezione corrente. Sarebbe un equivoco del genere di quello che si sarebbe avuto se fosse passato senza emendamento quel primo capoverso dell’articolo 28 («La scuola è aperta al popolo»), in cui la parola popolo aveva un palese significato classista, del tutto differente dall’accezione in cui la parola «popolo» è presa nell’articolo 1 della Costituzione («La sovranità risiede nel popolo»).

Noi non vogliamo equivoci, perché vogliamo che i vari articoli della Costituzione siano ben chiari e fra loro coerenti e che i termini siano interpretati così come sono interpretati secondo il senso che ad essi dà la coscienza comune.

Per queste ragioni noi voteremo contro l’emendamento Montagnana. (Commenti).

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Il collega onorevole Foa si è detto lieto che gli interventi dell’onorevole Pajetta e dell’onorevole Einaudi siano valsi a sottrarre il dibattito a quella atmosfera di drammaticità dalla quale, a dar retta a certa stampa, avrebbe dovuto essere avvolto. Io preciserei che le parole del collega Pajetta sono state indirizzate a questo scopo, e l’hanno raggiunto, mentre – e sia detto con tutto rispetto e con tutta la venerazione dovuta all’insigne maestro – il discorso dell’onorevole Einaudi non ha certo contribuito a sdrammatizzare, mi si passi la locuzione, il problema; in quanto, pur essendo, come sempre, denso di citazioni, di esempi, di fatti, non ha sempre serbato quella serenità di giudizio e quella esattezza di riferimento che sono le doti più preclare dell’illustre economista.

Rileggiamo un po’, se i colleghi lo permettono, l’emendamento proposto:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare ed orientare l’attività produttiva, secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

Mi pare sia questo l’emendamento nella sua ultima redazione.

Ora l’onorevole Einaudi, partendo dal presupposto – dal quale del resto è partito anche l’onorevole Corbino – che determinare il massimo di utilità sociale sia impossibile, è arrivato a questa conclusione: che noi lasciamo – ripeto le sue parole, e se ho annotato inesattamente lo prego di correggermi – «che noi lasciamo all’arbitrio del legislatore futuro di dare un senso alla frase». Ma perché, onorevole Einaudi, dobbiamo parlare di arbitrio del legislatore futuro? Mi scusi, il legislatore futuro chi sarà? Sarà il Parlamento, sarà l’Assemblea nominata dal popolo italiano in libere elezioni. Non sarà quindi un arbitrio il suo, ma bensì l’interpretazione della volontà del popolo italiano in quel determinato momento.

Non mi indugerò su quanto ha osservato l’onorevole Einaudi circa una presente contraddizione insanabile tra l’emendamento proposto e le parole del secondo comma «a propria scelta». A questo proposito ha già risposto il collega onorevole D’Aragona e io non ho l’abitudine di ripetere quello che altri hanno detto e che mi trova consenziente. Anche il collega onorevole Foa, del resto, mi pare abbia eliminato ogni dubbio al riguardo.

Voglio piuttosto soffermarmi su un punto, sul quale l’onorevole Einaudi ha insistito senza preoccuparsi se per amor di tesi usava violenza alla storia. Dopo aver proclamato che non c’è bisogno di piani e che basta favorire l’iniziativa individuale, ha soggiunto: «Piani provenienti dall’alto sono venuti in tempi di decadenza, antesignani di servitù politica e di schiavitù economica». Mi pare, se non ho capito male, che accennando a questi periodi storici, egli si sia riferito al Cinquecento, al secolo XVI, che fu secolo di servitù politica, perché gran parte dell’Italia era dominata dalla Spagna e fu secolo di schiavitù economica perché la Spagna considerava l’Italia come una terra di sfruttamento.

EINAUDI. Dal Cinquecento alla metà del Settecento.

MALAGUGINI. Precisamente. Siamo sempre nel periodo storico del predominio spagnolo. Ma non mi risulta affatto, perdoni l’onorevole Einaudi, che durante il periodo del predominio spagnolo in Italia vi siano Stati dei «piani» da parte dello Stato, a meno che non vogliamo considerare un piano il proposito della Spagna di sfruttare in tutti i modi l’Italia come terra di conquista. Non mi sembra possibile appellarsi a un precedente di questo genere per svalutare la politica dei piani.

EINAUDI. Tutti i domini sono piani.

MALAGUGINI. Onorevole Einaudi, se vogliamo torcere il significato delle parole, possiamo far dire loro tutto quello che crediamo…

Noi socialisti abbiamo preso atto con piacere di alcune affermazioni dell’onorevole Corbino. Anzitutto «che uno Stato interamente liberista cessa di essere uno Stato». Onorevole Corbino, badi che la sua affermazione è stata sottolineata e sarà consegnata, se non alla storia, almeno alla cronaca della nostra vita politica: può darsi che venga il momento in cui debba esserle ricordata.

CORBINO. L’ho detto da 25 anni e lo ripeto!

MALAGUGINI. Lo ripeta ad alcuni, a molti forse, dei suoi amici e vedrà che non saranno della sua opinione: con tutto il rispetto che le debbo, non credo che lei solo costituisca e rappresenti tutto il liberalismo italiano.

L’onorevole Corbino nel suo discorso ha fatto un’altra affermazione di carattere generale, che va rilevata, perché queste nostre discussioni possono avere un valore trascendente anche lo scopo immediato di dettare articoli di Costituzione…

PRESIDENTE. La prego però di non dimenticare lo scopo immediato!

MALAGUGINI. Onorevole Presidente, a me difficilmente potrà fare rimprovero di superare il tempo fissato dal regolamento. E d’altra parte non mi pare di uscire dal tema. Dicevo dunque che c’è stata un’altra affermazione dell’onorevole Corbino, strana, ermetica quasi: «non si può parlare di fallimento dell’economia liberale, ma caso mai di fallimento del liberismo o liberalismo economico». (Interruzione dell’onorevole Corbino). Ho segnato queste parole mentre lei le pronunciava, onorevole Corbino, e le dichiaro che non sono riuscito ad interpretarle, a capire cioè la differenza tra economia liberale e liberismo economico. Sarei proprio lieto di avere un chiarimento in proposito.

E vengo all’intervento dell’onorevole Giannini. L’onorevole Giannini si è dichiarato contro tutti i piani, perché è sempre e in tutto contro lo Stato. Orbene, se volessimo fare dello spirito e compiacerci di coglierlo in contradizione, potremmo ricordargli che egli non è contro lo Stato finanziatore di determinale categorie. Lo Stato non bisogna considerarlo solo per il contributo che può dare a favore di determinati interessi, per quanto legittimi; soprattutto non si può continuare a proclamare, come egli fa ogniqualvolta gliene capita l’occasione, una assoluta sfiducia nello Stato come regolatore e coordinatore della vita nazionale. Battute di questo genere, se potrebbero essere tollerabili durante la discussione di progetti di legge di importanza relativa, come quello sulla cinematografia, non mi pare siano ammissibili quando si tratta di cose serie come il problema di cui stiamo discutendo. Che dire poi dell’altra sua dichiarazione con cui ha negato l’esistenza di una classe lavoratrice? Sono motti di spirito, di gusto molto discutibile, che possono trovar posto in un giornale umoristico ma che non dovrebbero essere pronunciati in una Assemblea Costituente.

Concludendo, il gruppo socialista, a nome del quale io parlo, dà la sua completa e cosciente adesione e darà quindi il suo voto all’emendamento Montagnana, Foa ed altri. In sostanza nessuno o quasi nessuno degli oratori precedenti ha contestato l’utilità dei piani nella economia nazionale, anche se taluno, spaventato della parola, ha tentato di giustificare il suo voto negativo con l’affermare che il concetto è già espresso nel primo comma dell’articolo in discussione e sarà ripreso nel secondo comma dell’articolo 37. Con l’aggiunta proposta noi vorremmo che il principio fosse più chiaramente, direi quasi solennemente, affermato nella Carta costituzionale; non per ipotecare l’avvenire, ma per lasciare aperta la via alle più ardite innovazioni che in questa materia il legislatore futuro intendesse introdurre. (Applausi).

PARRI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PARRI. Io sento il bisogno di aggiungere qualche parola, soprattutto indirizzandomi ai colleghi del settore di sinistra, per spiegare le ragioni della contrarietà nostra all’emendamento presentato dagli onorevoli Pajetta e Foa; contrarietà, direi anzi piuttosto disagio, fra la diffidenza antistatalista che è forte non solo nella nostra corrente, ma in tutto il Paese, ed è ben giustificata in uno Stato che ha forti tradizioni solo in senso burocratico, in cui i partiti si presentano ancora come provvisori, le classi politiche quasi ancora improvvisate, e mancano il freno ed il contrappeso fondamentale all’oppressione statalista, cioè tradizione, esperienza e capacità di autogoverno: disagio, dicevo, fra questa tendenza e la coscienza dei compiti sociali che allo Stato spettano. Fortissima coscienza, tanto che anche per noi sono i fini sociali che comandano, e ad essi la politica economica dello Stato deve essere subordinata. Ciò evidentemente, se questa subordinazione si deve tradurre in una politica concreta, implica dei piani economici.

Noi stessi ci proponiamo, appena sia superata questa fase acuta di crisi economica, di presentare qualcosa che per l’Italia abbia il carattere e la portata che il piano Beveridge ebbe per l’Inghilterra.

Questa nostra posizione, se vogliamo andare più a fondo, trova la sua radice nella nostra concezione generale della società italiana per la quale, nella fase storica che essa attraversa, è capace di assicurare l’optimum sociale ed è storicamente congrua una politica che riesca a contemperare la convivenza dell’impresa capitalistica privata, caratterizzata dalla libertà della scelta e dal rischio, con un’azione ed un intervento dello stato necessari e sufficienti a realizzare i suoi fini sociali.

Ora, noi avevamo ritenuto che questa esigenza fosse già sodisfatta dalla dizione del primo capoverso dell’articolo 31, che io avevo trovato ardito e sodisfacente. In esso si dice che si riconosce il diritto al lavoro e che questo diritto al lavoro implica che lo Stato promuova le condizioni per renderlo effettivo. Che cosa può significare questo in un Paese di 46 milioni di abitanti, con il ridotto territorio agrario e la scarsità di materie prime che esso ha? Significa evidentemente una politica capace di sviluppare quelle attività industriali che abbiano maggiori capacità di assorbimento di mano d’opera, d’incorporamento di lavoro nel prodotto, e che l’economia agraria sia la più adatta allo stesso fine. Questa politica implica di per sé un piano, e per questo, amico Foa, ritengo superfluo il vostro emendamento.

Lo ritengo anche pericoloso per l’impressione che esso può dare all’opinione pubblica giustamente diffidente: lo statalismo è implicito nella parola «piano». Aggiungo che la stessa formulazione del vostro emendamento è impropria ed equivoca. Voi parlate di «attività produttiva»: quale ragione vi è di trascurare l’attività di scambio, e soprattutto la politica del credito? Voi sapete bene che in un paese come il nostro, in fondo, il solo controllo degli investimenti è necessario e sufficiente ad orientare la politica economica secondo il massimo di convenienza.

Voi parlate di «utilità sociale», e questo – è stato già detto – introduce un criterio soggettivo di scelta, pericolosamente esposto all’arbitrio di variabili maggioranze politiche. Voi avete parlato prima di «massimo rendimento» che, collegato all’attività produttiva che voi volete pianificare, introduce un criterio grezzamente produttivistico che può essere contradditorio con il criterio dell’utilità sociale.

Se, per esempio, nell’agricoltura doveste adottare il criterio produttivistico, evidentemente otterreste un aumento della disoccupazione con conseguenze sociali evidenti.

Ci sono evidentemente possibilità di contraddizione ed incertezza nel criterio che voi volete assumere, mentre un semplice criterio generico non può essere definito. Ciò ci mette seriamente in imbarazzo di fronte al vostro emendamento, e siccome d’altra parte dispiace a gente come noi, nella nostra posizione, di sembrar contrari all’affermazione di un indirizzo dell’attività pubblica diretto ad accrescere il benessere del popolo, vi domandiamo: non potreste rinunciare all’emendamento, così come è stato formulato?

E poiché è ormai impossibile modificare il capoverso primo dell’articolo 31, vi domando se non vi contentereste di rinunciare all’emendamento attuale – ciò che vi consentirebbe di avere il grande vantaggio politico di ottenere la unanimità dell’Assemblea nella affermazione di questa moderna necessità dell’attività dello Stato – modificando la dizione dell’articolo 37, nel quale tra il primo ed il secondo comma, si potrebbe inserire un comma che dicesse: «A raggiungere questo fine pubblico, spetta alla Repubblica di indirizzare e coordinare le attività economiche del Paese».

Con questo direi che la nostra coscienza e questa nostra preoccupazione particolare potrebbero essere soddisfatte, e credo che potrebbe essere soddisfatta anche la vostra esigenza di affermare nella Carta costituzionale questa preminenza del fine sociale nell’attività dello Stato. (Applausi).

LABRIOLA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Io mi trovo nella ben strana situazione, per la prima volta da che faccio parte di una Assemblea elettiva, di dovermi astenere dal voto.

Se interpretassi i miei sentimenti di economista, voterei con i colleghi che stanno alla mia destra, cioè con l’Estrema Sinistra. Ma il professore Einaudi, insegnante di economia e mio maestro come di molti altri, ha detto cose per le quali dovrei votare con lui e con i suoi amici.

Non sapendo come uscire da questa incertezza, mi asterrò dal voto (Applausi a sinistra) e, aggiungo, mi astengo dal voto soprattutto per il modo come è formulato l’emendamento che ci è stato proposto.

Questo emendamento dice testualmente così:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e orientare l’attività produttiva, secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

Cosicché, se per caso noi non avessimo riconosciuto il diritto al lavoro, noi non stabiliremmo il principio della pianificazione. E questo mi sembra bizzarro. Delle due, l’una: o il principio della pianificazione è giusto, è da noi riconosciuto, si ammette che risponda ad una ideologia determinata di una parte, almeno, di questa Assemblea, ed allora non bisogna parlare di diritto al lavoro che è un’altra faccenda; oppure si pensa che soltanto in quanto viene inserito il diritto al lavoro nella Costituzione dobbiamo ammettere la necessità della pianificazione, ed allora entriamo in un altro ordine di idee.

Se non volessi scandalizzare l’Assemblea, direi che si sarebbe dovuto fare la stessa cosa quando si è parlato del diritto al lavoro. Io avevo appreso che i socialisti non reclamano il diritto al lavoro, ma il diritto all’ozio. Il Lafargue, proprio il genero di Marx, aveva insegnato ai socialisti suoi contemporanei che non di assicurare il lavoro agli operai bisognava occuparsi, ma piuttosto della maniera di assicurare ad essi la maggiore libertà possibile dall’officina. Lo stesso Marx, nel terzo volume del «Capitale» aveva detto – mi si perdonino queste curiose citazioni – che la libertà del lavoratore non comincia se non quando egli lascia la fabbrica. Ecco perché il Lafargue opinava che la tesi socialista non è il diritto al lavoro, ma il diritto all’ozio dei lavoratori.

Ad ogni modo, parlando di diritto al lavoro, occorreva, forse, aggiungere «diritto al lavoro compensato» perché, se si tratta di puro e semplice lavoro, è chiaro che esso si può soddisfare anche con lo sport, o con i lavori forzati. Volendosi reclamare un lavoro che sia compensato, evidentemente bisogna introdurre quelle trasformazioni strutturali e tecniche dell’ordinamento sociale che rendano possibile l’attuazione del principio. E ciò non ha a che vedere con la pianificazione.

Socializzazione non è pianificazione: è la messa in comune di mezzi di produzione e produzione gestita direttamente dagli interessati. Il socialismo, col concetto di pianificazione universale non ha nulla a che vedere. La pianificazione può essere tanto socialista quanto capitalistica. Quella socialista suppone un rapporto diretto fra lavoratori e prodotto.

Volendosi introdurre la pianificazione economica, bisognerebbe introdurre il concetto di servizio pubblico, da applicare ad ogni specie di economia.

Il servizio pubblico, di sua natura, è cosa la quale reclama l’intervento dello Stato; e perciò tutto quello che è servizio pubblico impone una pianificazione, nei limiti in cui, appunto, si parla di servizio pubblico. Il servizio pubblico implica un consumo generalizzato nel tempo e nello spazio, un consumo che riguarda anche le generazioni future, e quindi l’azione dello Stato che può prendere in considerazione anche i bisogni futuri.

Perciò, è perfettamente naturale, allorché si tratta di servizio pubblico, che si parli di pianificazione e di standardizzazione.

La conseguenza a cui si giunge è che non si può invocare a nome del socialismo la pianificazione, come anche non si può, in nome del socialismo, respingere il concetto di pianificazione e si è piuttosto indotti a considerare la pianificazione come un equivalente di burocratizzazione. Si tratta di questioni tecniche risolubili col criterio del maggior rendimento.

Un’impresa pianificata non solo infatti è un’industria che si trova sotto il controllo dello Stato, ma è un’industria che si esplica per mezzo dei funzionarî dello Stato. Ora, sul conto dei funzionarî di Stato, non mi faccio in materia economica grandi illusioni e divido i sospetti che in questa materia si sono manifestati da varie parti.

Per conto mio, sono talmente sicuro che almeno in Italia una generalizzata pianificazione vorrebbe dire la sottomissione dell’industria, né più né meno, ai funzionarî, che, contro questa idea, mi iscrivo senza difficoltà. Non abbiate paura di rimaner senza piani. Un’industria senza piani è inconcepibile. Se fortunatamente non c’è quello dei funzionari ci sarà quello del privato imprenditore, che, del resto, ci è stato sempre.

Il piano dell’imprenditore è la interpretazione del desiderio dei consumatori. L’abilità dell’imprenditore consiste appunto nel comprendere che cosa i consumatori vogliono ed in quale misura. Egli riuscirà o non riuscirà nella sua impresa nello stesso rapporto in cui avrà saputo interpretare e comprendere i loro desideri. Un’impresa socialista, da questo punto di vista, si troverà nelle medesime condizioni di una impresa capitalistica.

Si è esposto il dubbio che la pianificazione sia una tesi socialista. Altri, invece, hanno mosso obiezioni in nome di un principio individualistico, in nome di un principio liberale. Orbene, io credo che errino gli uni e gli altri e perciò son condotto ad astenermi. Mi dicono che l’onorevole Parri – il cui discorso mi duole non aver potuto ascoltare per ragioni di acustica – abbia suggerito di riportare questo emendamento in sede di discussione dell’articolo 37 del progetto di Costituzione che stiamo studiando.

Mi parrebbe una proposta giusta e ragionevole. Io non so se questa sia, nei suoi termini concreti, la proposta dell’onorevole Parri: ma se questa è, io voterò per essa; altrimenti esprimerò un voto di astensione.

PRESIDENTE. L’onorevole Parri ha proposto il seguente emendamento:

«All’articolo 37, inserire tra il primo e il secondo, il seguente comma:

«Spetta alla Repubblica, per raggiungere questo fine pubblico, indirizzare e coordinare le attività economiche del Paese».

Questo emendamento dovrà essere esaminato in sede di articolo 37.

(Così rimane stabilito).

Pongo ora in votazione l’emendamento presentato dagli onorevoli: Montagnana Mario, Foa, Pajetta Giancarlo, Laconi, Grieco, Minio, Ravagnan, Barontini Ilio, Leone Francesco, D’Onofrio, Colombi Arturo:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini, lo Stato interverrà per coordinare e orientare l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione secondo un piano che assicuri il massimo di utilità sociale».

È stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Andreotti, Jervolino, Restagno, Cappa, Delli Castelli Filomena, Taviani, Cotellessa, Dominedò, Federici Maria, Cimenti, Medi, Uberti, Tosi, Volpe, Ambrosini, Balduzzi, Zaccagnini, Numeroso, Camposarcuno, De Caro Gerardo, Gronchi, Moro, Bubbio.

Estraggo a sorte il nome del deputato dal quale comincerà l’appello.

(Segue il sorteggio).

Comincerà dal deputato Grieco.

Presidenza del Vice Presidente PECORARI

PRESIDENTE. Si faccia la chiama.

SCHIRATTI, Segretario, fa la chiama.

Hanno risposto sì:

Allegato – Amadei – Amendola – Arata – Assennato.

Baldassari – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito – Barontini Ilio – Bei Adele – Bennani – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Bianchi Bianca – Bianchi Brume – Bianchi Costantino – Bibolotti – Binni – Bitossi – Bocconi – Bolognesi – Bonomelli – Bordon – Bucci – Buffoni Francesco.

Cacciatore – Cairo – Calamandrei – Caldera – Calosso – Canepa – Canevari – Caporali – Caprani – Carboni – Carmagnola – Caroleo – Carpano Maglioli – Cavallotti – Cerretti – Cevolotto – Cianca – Colombi Arturo – Corbi – Corsi – Costa – Costantini – Cremaschi Olindo.

D’Amico Michele – D’Aragona – De Filpo – De Michelis Paolo – Di Vittorio – D’Onofrio.

Faccio – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Ferrari Giacomo – Fietta – Filippini – Finocchiaro Aprile – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Fornara.

Gallico Spano Nadia – Gavina – Gervasi – Ghidetti – Ghidini – Ghislandi – Giolitti – Gorreri – Grazi Enrico – Grazia Verenin – Grieco – Grilli – Gullo Fausto.

Imperiale – lotti Nilde.

Jacometti.

Lami Starnuti – Landi – Leone Francesco – Li Causi – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lozza – Luisetti.

Maffi – Maffioli – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Mancini – Mariani Enrico – Mariani Francesco – Massini – Massola – Mattei Teresa – Merighi – Merlin Angelina – Mezzadra – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Momigliano – Montagnana Rita – Montalbano – Montemartini – Morandi – Morini – Moscatelli – Musolino – Musotto.

Nasi – Nobili Tito Oro – Noce Teresa.

Pajetta Gian Carlo – Pastore Raffaele – Pellegrini – Pera – Persico – Pertini Sandro – Pesenti – Piemonte – Pignatari – Platone – Pollastrini Elettra – Pratolongo – Preti – Preziosi – Priolo – Pucci.

Ravagnan Reale Eugenio – Ricci Giuseppe – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Roveda – Ruggeri Luigi – Ruggiero Carlo.

Saccenti – Sansone – Saragat – Scarpa – Schiavetti – Scoccimarro – Scotti Francesco – Secchia – Sereni – Silipo – Silone – Stampacchia.

Targetti – Tega – Tonello – Tonetti.

Valiani – Varvaro – Vernocchi – Veroni – Villani – Vinciguerra.

Zagari – Zanardi.

Hanno risposto no:

Abozzi – Adonnino – Alberti – Ambrosini – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Ayroldi – Azzi.

Balduzzi – Baracco – Bastianetto – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Benedetti – Benedettini – Benvenuti – Bertini Giovanni – Bertola – Bianchini Laura – Bonino – Bonomi Paolo – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Braschi – Brusasca – Bubbio – Burato.

Caccuri – Caiati – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Cannizzo – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Capua – Carbonari – Caristia – Caronia – Carratelli – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavalli – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Ciccolungo – Cicerone – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Colitto – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta – Condorelli – Conti – Coppi Alessandro – Corbino – Corsanego – Corsini – Cortese – Cotellessa – Crispo.

Damiani – D’Amico Diego – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – De Gasperi – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Dominedò – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Fantoni – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Ferreri – Firrao – Foresi – Franceschini – Fresa – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Garlato – Gatta – Germano – Geuna – Giacchero – Giannini – Giordani – Gonella – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Jacini – Jervolino.

Lagravinese Pasquale – Lettieri – Lizier – Lucifero.

Macrelli – Maffioli – Malvestiti – Marazza – Marconi – Marinaro – Martinelli – Martino Enrico – Marzarotto – Mastino Gesumino – Mastrojanni – Mattarella – Mazza – Mazzei – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merlin Umberto – Miccolis – Micheli – Monterisi – Monticelli – Montini – Morelli Luigi – Morelli Renato – Moro – Murdaca – Murgia.

Nicotra Maria – Nitti – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pallastrelli – Paolucci – Paratore – Parri – Pastore Giulio – Pat – Pecorari – Pella – Perassi – Perlingieri – Perrone Capano – Perugi – Petrilli – Piccioni – Pignedoli – Ponti – Proia – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Reale Vito – Recca – Rescigno – Restagno – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Rubilli – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Scalfaro – Scelba – Schiratti – Scoca – Segni – Selvaggi – Siles – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Taviani – Terranova – Tieri Vincenzo – Titomanlio Vittoria – Togni – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Trulli – Tupini.

Uberti.

Valenti – Vallone – Valmarana – Vanoni – Viale – Vicentini – Vigo – Vilardi – Volpe.

Zaccagnini – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Bargagna – Bernardi – Bettiol – Bulloni.

Cartia – Caso – Chiostergi – Cifaldi.

Falchi – Fanfani.

La Pira – Lazzati – Lombardo Ivan Matteo – Lussu.

Mannironi – Marina – Mastino Pietro.

Paris – Penna Ottavia.

Rapelli.

Sardiello – Simonini.

Tambroni Armaroli – Tremelloni – Treves – Turco.

Vigna.

PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere al computo dei voti.

(Gli onorevoli Segretari computano i voti).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE. Comunico il risultato della votazione nominale:

Presenti e votanti     418

Maggioranza           210

Hanno risposto     174

Hanno risposto no    244

(L’Assemblea non approva l’emendamento).

Passiamo ora all’ultimo comma dell’articolo 31.

«L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

Gli onorevoli Gabrieli; Bosco Lucarelli; Cappi; Cappugi; Zotta Cassiani; Benvenuti; Dominedò; Foa; Cortese; Caso; Coppa, De Maria; Nitti; hanno proposto, in emendamenti separati, la soppressione del terzo comma dell’articolo 31.

Su questa proposta è stata chiesta la votazione per scrutinio segreto dall’onorevole Cortese e altri.

Si proceda alla votazione segreta.

(Segue la votazione).

Dichiaro chiusa la votazione e invito gli onorevoli Segretari a procedere alla numerazione dei voti.

(Gli onorevoli Segretari numerano i voti).

Comunico il risultato della votazione segreta.

Presenti e votanti     355

Maggioranza           178

Voti favorevoli        235

Voti contrari             120

(L’emendamento soppressivo del terzo comma è approvato).

Hanno preso parte alla votazione:

Adonnino – Allegato – Amadei – Ambrosini – Amendola – Andreotti – Angelini – Angelucci – Arata – Arcaini – Arcangeli – Avanzini – Ayroldi – Azzi.

Bastianetto – Bei Adele – Bellato – Bellusci – Belotti – Bencivenga – Bennani – Benvenuti – Bernamonti – Bernini Ferdinando – Baldassari – Balduzzi – Baracco – Barbareschi – Bardini – Barontini Anelito –Bertini Giovanni – Bertola – Bianchi Bianca – Bianchi Bruno – Bianchini Laura – Bibolotti – Bitossi – Bocconi – Bolognesi – Bonino – Bonomi Paolo – Bordon – Bosco Lucarelli – Bovetti – Bozzi – Brusasca – Bucci – Buffoni Francesco – Burato.

Caccuri – Cairo – Caldera – Camangi – Campilli – Camposarcuno – Canevari – Cannizzo – Caporali – Cappa Paolo – Cappelletti – Cappi Giuseppe – Caprani – Capua – Carbonari – Carboni – Caristia – Carmagnola – Caroleo – Caronia – Carpano Maglioli – Carratelli – Cassiani – Castelli Edgardo – Castelli Avolio – Castiglia – Cavalli – Cavallotti – Cerreti – Chatrian – Chieffi – Ciampitti – Cianca – Ciccolungo – Cimenti – Cingolani Mario – Clerici – Coccia – Colitto – Colombi Arturo – Colombo Emilio – Colonna di Paliano – Colonnetti – Conci Elisabetta –Condorelli – Conti – Coppi Alessandro – Corbi – Corbino – Corsanego – Corsini – Cortese – Costa – Cremaschi Olindo.

Damiani – D’Amico Diego – D’Antico Michele – D’Aragona – De Caro Gerardo – De Caro Raffaele – De Falco – Del Curto – Della Seta – Delli Castelli Filomena – De Maria – De Martino – De Mercurio – De Michele Luigi – De Michelis Paolo – De Palma – De Unterrichter Maria – De Vita – Di Fausto – Dominedò – D’Onofrio – Dossetti.

Einaudi – Ermini.

Fabbri – Fabriani – Facchinetti – Faccio – Fantoni – Fantuzzi – Farina Giovanni – Farini Carlo – Fedeli Aldo – Fedeli Armando – Federici Maria – Ferrarese – Ferrario Celestino – Fietta – Filippini – Fiore – Fiorentino – Fioritto – Firrao – Flecchia – Foa – Fogagnolo – Foresi – Fornara – Franceschini – Froggio – Fuschini.

Gabrieli – Galati – Gallico Spano Nadia – Garlato – Gasparotto – Gatta – Gavina – Gervasi – Geuna – Ghidetti – Ghidini – Giacchero – Giannini – Giolitti – Giordani – Gonella – Gorreri – Gortani – Gotelli Angela – Grassi – Grazi Enrico –Grazia Verenin – Grieco – Gronchi – Guariento – Guerrieri Emanuele – Guerrieri Filippo – Gui – Guidi Cingolani Angela.

Imperiale – Iotti Leonilde.

Jacini – Jacometti – Jervolino,

Lami Starnuti – Landi – Lettieri – Li Causi – Lizier – Lombardi Riccardo – Longhena – Longo – Lozza – Lucifero – Luisetti.

Matti – Maffioli – Magnani – Malagugini – Maltagliati – Malvestiti – Mancini – Marazza – Mariani Francesco – Marinaro – Martinelli – Marzarotto – Massini – Massola – Mastino Gesumino – Mattarella – Mattei Teresa – Mazza – Meda Luigi – Medi Enrico – Mentasti – Merighi – Merlin Umberto – Mezzadra – Miccolis – Micheli – Minella Angiola – Minio – Molinelli – Momigliano – Montalbano – Montemartini – Monterisi – Monticelli – Montini – Morandi – Morelli Luigi – Morelli Renato – Merini – Moro – Mùrdaca – Murgia – Musolino – Musotto.

Nasi – Nicotra Maria – Nitti – Nobili Oro – Noce Teresa – Notarianni – Numeroso.

Orlando Camillo – Orlando Vittorio Emanuele.

Pajetta Gian Carlo – Pallastrelli – Paolucci – Parri – Pastore Giulio – Pastore Raffaele – Pat – Pecorari – Pella – Pellegrini – Pera – Penassi – Perlingieri – Perrone Capano – Pertini Sandro – Perugi – Petrilli – Piccioni – Piemonte – Pignedoli – Platone – Pollastrini Elettra – Ponti – Porzio – Pratolongo – Preziosi – Priolo – Proia – Pucci – Puoti.

Quarello – Quintieri Adolfo – Quintieri Quinto.

Raimondi – Ravagnan – Reale Eugenio – Reale Vito – Rocca – Rescigno – Restagno – Ricci Giuseppe – Riccio Stefano – Rivera – Rodi – Rodinò Mario – Romita – Rossi Maria Maddalena – Rossi Paolo – Roveda – Rubilli – Ruggeri Luigi – Ruini – Rumor – Russo Perez.

Salizzoni – Salvatore – Sampietro – Sansone – Scalfaro – Scarpa – Scelba – Schiavetti – Schiratti – Scoccimarro – Scotti Francesco – Segni – Sereni – Silipo – Spallicci – Spataro – Stella – Storchi – Sullo Fiorentino.

Targetti – Taviani – Tega – Terranova – Titomanlio Vittoria – Togni – Tonello – Tonetti – Tosato – Tosi – Tozzi Condivi – Trimarchi – Trulli – Tupini.

Uberti.

Valenti – Valiani – Vallone – Valmarana – Vanoni – Viale – Vicentini – Vigo – Villani – Volpe.

Zaccagnini – Zanardi – Zerbi – Zotta – Zuccarini.

Sono in congedo:

Bargagna – Bernardi – Bettiol – Bulloni.

Cartia – Caso – Chiostergi – Cifaldi.

Falchi – Fanfani.

La Pira – Lazzati – Lombardo Ivan Matteo – Lussu.

Mannironi – Marina – Mastino Pietro.

Paris – Penna Ottavia.

Rapelli.

Sardiello – Simonini.

Tambroni Armaroli – Tremelloni – Treves – Turco.

Vigna.

In conseguenza dell’esito della votazione sono decaduti i seguenti emendamenti:

«Rinviare la discussione dell’ultimo comma al momento dell’esame dell’articolo 45, col terzo comma del quale è in netta contraddizione.

«Mortati».

«Al terzo comma, tra la parola: dovere, e le parole: è condizione, inserire: salvo i casi di provata impossibilità.

«Ruggiero Carlo».

«Aggiungere all’ultimo comma:

«Tale condizione non è applicabile agli uomini che hanno compiuto il cinquantesimo anno di età, a quelli che godono di pensione, né alle donne qualunque sia la loro età.

«Bubbio».

L’articolo 31 risulta pertanto, nel suo complesso, così, approvato:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto.

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività, od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Avverto che domani si terranno due sedute, il mattino alle 10 e nel pomeriggio alle 16 per la continuazione della discussione sul progetto di Costituzione. La seduta pomeridiana sarà prolungata fino a tarda ora.

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se non creda necessario democratizzare i Consorzi di bonifica, modificandone gli statuti, riguardo al diritto di voto, in maniera che ogni consorziato, indipendentemente dell’estensione dei terreni posseduti, abbia diritto ad un solo voto. Ciò per sottrarre gli enti all’opera deleteria dei grandi proprietari terrieri.

«Pastore Raffaele, Silipo, Musolino, Allegato, Imperiale».

«Al Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali provvedimenti abbia già preso o intenda prendere, per combattere l’invasione delle cavallette, verificatasi in alcune località della campagna romana, che minaccia la distruzione delle colture del prossimo raccolto.

«De Palma».

«Al Ministro della pubblica istruzione, per conoscere i motivi che lo hanno indotto a sostituire, nell’ufficio di Provveditore agli studi di Padova, il professor Adolfo Zamboni, eroico cospiratore mai iscritto nel partito fascista, con l’ex squadrista Paolo Baffin.

«Schiavetti, Saragat, Bianchi Bianca, Cianca, Zuccarini, Foa, Calosso, Lombardi Riccardo, Calamandrei, Bennani, Cevolotto, Binni, Valiani, Macrelli, Corbi».

Mi riservo di chiedere ai Ministri competenti quando intendono rispondere a queste interrogazioni.

Interrogazione.

PRESIDENTE. Si dia lettura di una interrogazione pervenuta alla Presidenza.

AMADEI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per sapere quale provvedimento intende prendere perché l’annunciata assunzione del 2 per cento di lavoratori invalidi del lavoro diventi effettiva.

«Si tratta di una categoria in condizioni estremamente difficili, con pensioni del tutto inadeguate e che ha sul lavoro perduto parte della capacità lavorativa ed ha quindi diritto a particolare interessamento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Roveda».

PRESIDENTE. L’interrogazione testé letta sarà trasmessa al Ministro competente.

La seduta termina alle 21.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 9 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXVII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 9 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

 

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Fogagnolo                                                                                                       

Giannini                                                                                                            

Corbi                                                                                                                

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri             

Vernocchi, Relatore                                                                                          

Andreotti                                                                                                        

Malagugini                                                                                                      

Balduzzi                                                                                                           

Proia                                                                                                                   

Siles                                                                                                                  

Nobile                                                                                                               

Macrelli                                                                                                          

Meda                                                                                                                 

Tonello                                                                                                            

Preziosi                                                                                                            

Bubbio                                                                                                              

Molinelli                                                                                                         

Cimenti                                                                                                               

Scalfaro                                                                                                            

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Cappa, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri             

Angelini                                                                                                           

Camposarcuno                                                                                                 

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana del 7 maggio.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati: Cifaldi, Paris, Bargagna, Marina e Fanfani.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale. (12)

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca il seguito della discussione del disegno di legge: Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale.

Ricordo che nella precedente seduta antimeridiana è stato approvato l’articolo 6. Passiamo ora all’esame dell’articolo 7:

«A decorrere dal 1° gennaio 1947, gli esercenti di sale cinematografiche debbono riservare 15 giorni per ciascun trimestre alla proiezione, in tutti gli spettacoli giornalieri, di film riconosciuti nazionali ai sensi dell’articolo 3 della presente legge e di lunghezza superiore ai 2000 metri. Detto periodo deve comprendere, per i cinematografi ad attività continuativa, due domeniche. Per i locali ad attività saltuaria il numero delle giornate di spettacolo riservate alla proiezione di film nazionali viene proporzionalmente ridotto.

«Eguale trattamento viene riservato ai film nazionali documentari o di attualità che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articolo 5.

«L’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico di cui al seguente articolo 13, escluderà dal beneficio di cui al presente articolo i film sforniti dei requisiti minimi di idoneità tecnica, artistica e commerciale».

A questo articolo sono stati proposti vari emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Fogagnolo del seguente tenore:

«Sostituirlo col seguente:

«A decorrere dalla entrata in vigore della presente legge, gli esercenti di sale cinematografiche debbono riservare 20 giorni per ciascun trimestre alla proiezione, in tutti gli spettacoli giornalieri, di film nazionali, cioè di film prodotti interamente in Italia e di lunghezza superiore ai 2000 metri. Per i locali ad attività saltuaria, il numero delle giornate di spettacolo riservate alla proiezione, di film nazionali viene proporzionalmente ridotto.

«Sono esclusi dal beneficio di cui alla presente legge i film sprovvisti dei requisiti minimi di valore tecnico, artistico e commerciale.

«Apposita Commissione sarà nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri per provvedere a tale esclusione».

Onorevole Fogagnolo, lo mantiene?

FOGAGNOLO. Lo ritiro, poiché vi è la proposta, da parte di altri colleghi, di elevare il termine da quindici a venti giorni, proposta alla quale mi associo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, degli onorevoli Giannini, Maffioli, Russo Perez, Rodinò Mario, Coppa, Mazza, Puoti, Sampietro, Fuschini, Proia, Leone Giovanni:

«Al primo comma, alle parole: 15 giorni, sostituire: 20 giorni».

Chiedo all’onorevole Giannini se intende svolgere il suo emendamento.

GIANNINI. L’onorevole Bibolotti ha presentato un emendamento nello stesso senso, il Relatore ha accettato di elevare il termine da quindici a venti giorni; quindi ritengo che sia inutile di svolgerlo.

PRESIDENTE. Anche gli onorevoli Corbi e Bibolotti hanno proposto di sostituire al primo comma alle parole: «15 giorni» le parole: «20 giorni». Onorevole Corbi, mantiene l’emendamento?

CORBI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. In realtà questa legge era un tutto organico con lo scopo di favorire la ripresa della produzione nazionale. Riconosco che, con la riduzione dal 12 al 10 per cento del contributo alla produzione dei film nazionali, l’incoraggiamento che si pensava di dare alla ripresa dell’industria cinematografica è stato in buona parte affievolito; credo che ciò sia stato un errore.

Questo contributo, nella misura che era stata fissata dopo studi, previsioni e considerazioni, era collegato con la programmazione obbligatoria dei film nazionali nelle sale cinematografiche italiane. Vi era quindi una connessione: da un lato si elevava dal 10 al 12 per cento il contributo e dall’altro si sosteneva la produzione nazionale obbligando gli esercenti di sale cinematografiche, restii a programmare film italiani, a proiettare film nazionali per un determinato numero di giorni, quindici al trimestre. Ora riconosco che, essendosi mantenuta la misura del contributo alla produzione nei limiti attuali del 10 per cento, questa legge viene in parte a mancare allo scopo che si prefiggeva.

L’emendamento presentato dagli onorevoli Giannini ed altri propone di elevare a venti il numero dei giorni di programmazione obbligatoria trimestrale dei film italiani. I proponenti hanno presso di me insistito perché io lo accettassi in quanto che si verrebbe in tal modo a compensare l’industria nazionale della mancata maggiorazione del contributo.

Io debbo però, onorevoli colleghi, essere coerente e logico. Quando si è trattato, nella discussione generale, della «programmazione obbligatoria», ho obiettato che la produzione nazionale non è ancora in grado di dare film così numerosi e di così buona qualità da poter occupare più di 60 giorni all’anno.

GIANNINI. No, no!

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Sarò in errore. Io mi sono quindi opposto in passato all’obbligatorietà per un periodo superiore ai sessanta giorni. Per quanto infatti io sia convinto che abbia costituito un errore negare l’aumento del 2 per cento al contributo alla produzione, ritengo però non sia il caso di compensare questo mancato aumento con una obbligatorietà di programmazione dei film italiani, in quanto un protezionismo di questo genere indurrebbe i produttori italiani ad adagiarsi nella comoda situazione e a non migliorare la loro produzione.

Io mantengo quindi fermo, per mio conto, il testo del decreto, rimango fermo cioè sui quindici giorni per trimestre: l’Assemblea deciderà.

Accetto invece la proposta presentata dall’onorevole Giannini e da altri colleghi di aggiungere dopo il primo comma il seguente:

«Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere della Commissione consultiva, potrà essere variato, di anno in anno, il numero delle giornate da riservare ai film nazionali, in relazione alla variazione della quantità e qualità della produzione cinematografica nazionale dell’anno».

Se pertanto la produzione se ne renderà meritevole, sarà possibile e giustificato allora l’aumento del periodo di tempo stabilito per l’obbligatorietà della programmazione e il Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere della Commissione consultiva, potrà aumentare il numero dei giorni di programmazione riservati ai film italiani.

Prego quindi l’Assemblea di voler accedere a questo mio punto di vista che ritengo ispirato all’interesse della produzione nazionale.

PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha udito, il Governo ha espresso il suo giudizio anche sull’altro emendamento presentato dall’onorevole Giannini, che reca le firme degli onorevoli Maffioli, Russo Perez, Rodinò Mario, Cappa, Marazza, Puoti, Sampietro, Fuschini, Proia e Leone Giovanni e di cui ha già dato lettura lo stesso onorevole Sottosegretario Cappa. Invito pertanto la Commissione ad esprimere il suo avviso.

VERNOCCHI, Relatore. Ho già espresso il mio parere in merito; vorrei, comunque, pregare l’onorevole Cappa di accogliere anche il primo emendamento, perché il secondo emendamento Giannini, che stabilisce la revisione annuale, dà la possibilità di accertare l’esistenza delle condizioni pregiudiziali per la programmazione obbligatoria di venti giorni ogni trimestre. Io mi sono informato ed ho avuto assicurazione che in questo momento la produzione nazionale potrebbe anche sostenere il peso di 94 giorni all’anno, perché vi sono parecchi film già fatti ed altri in preparazione. Quindi il film italiano potrà assorbire il periodo in modo veramente completo.

E giacché abbiamo revocato le maggiori provvidenze che la Commissione aveva a suo tempo ritenuto necessarie, è opportuno dare la dimostrazione che oggi vogliamo effettivamente stabilire, nei confronti della produzione straniera, una possibilità concreta per il film italiano.

Quindi accetterei il primo e il secondo emendamento dell’onorevole Giannini appunto perché il primo stabilisce venti giorni al trimestre, mentre in un primo tempo la Commissione aveva chiesto 94 giorni l’anno, e il secondo perché stabilisce la revisione per stabilire annualmente la efficienza della nostra produzione ai fini delle provvidenze Contenute nella legge.

PRESIDENTE. Onorevole Cappa, ella mantiene il suo parere contrario al primo emendamento?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non ne faccio una questione di Gabinetto, ma confermo il mio punto di vista.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. In merito a questi cinque giorni in più, io avevo quasi rinunciato a parlare perché credevo che fossimo tutti d’accordo, anche l’onorevole Cappa. Le ragioni per cui chiediamo questi cinque giorni sono state esposte brevemente, ma con precisione, dall’onorevole Vernocchi: essi non costituiscono né un danno, né un pericolo per l’esercizio cinematografico, in quanto l’emendamento che abbiamo presentato sulla discrezionalità del Presidente del Consiglio dei Ministri, che può modificare e aumentare e può anche ridurre (sebbene questo non sia espresso), consente comunque di variare in più o in meno. Ora qui si tratta di dare un contributo industriale alla fabbricazione dei film. Si è parlato in questa Aula di cinematografia fatta molto spesso per incoraggiare le ambizioni e i desideri senili di persone che fanno la cinematografia unicamente per compiacere delle donnette. Ora, è precisamente questa cinematografia che non vogliamo più, questa cinematografia di rischio, che è fatta unicamente per appagare una donna, mentre invece – con una sicurezza maggiore, come quella dei cinque giorni che domandiamo – noi incoraggiamo una cinematografia industriale, cioè poggiata sul criterio di produrre un film e guadagnar denaro, ma non al solo scopo di piacere a una donna.

Quindi noi insistiamo nel nostro emendamento.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Mi dichiaro favorevole all’emendamento anche per un’altra ragione che non è stata detta: e cioè che in questo momento noi abbiamo il mercato cinematografico letteralmente invaso dal film americano e se noi non portiamo il termine a 20 giorni, metteremo in difficoltà coloro che hanno buone iniziative nel film nazionale.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Faccio osservare, onorevoli colleghi, che il secondo emendamento Giannini, che io ho accolto, non impedisce affatto che la Commissione consultiva proceda di anno in anno all’esame della situazione. Siamo attualmente nel primo anno. Se la Commissione consultiva ritenesse che la produzione nazionale è in grado di assolvere a questa esigenza, allora non sarebbe necessario attendere l’anno prossimo. Quindi, non è vero che occorra aspettare un anno.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento dell’onorevole Giannini – identico a quello dell’onorevole Corbi – accettato dalla Commissione e non dal Governo:

«Al primo comma, alle parole: 15 giorni, sostituire: 20 giorni.

(È approvato).

Pertanto il primo comma dell’articolo 7 risulta così modificato:

«A decorrere dal 1° gennaio 1947, gli esercenti di sale cinematografiche debbono riservare 20 giorni per ciascun trimestre alla proiezione, in tutti gli spettacoli giornalieri, di film riconosciuti nazionali ai sensi dell’articolo 3 della presente legge e di lunghezza superiore ai 2000 metri. Detto periodo deve comprendere, per i cinematografi ad attività continuativa, due domeniche. Per i locali ad attività saltuaria il numero delle giornate di spettacolo riservate alla proiezione di film nazionali viene proporzionalmente ridotto».

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Chiedo che si proceda alla votazione per divisione, e precisamente che si voti la prima proposizione dell’articolo fino alle parole «duemila metri».

Osservo che nel secondo comma è detto: «Detto periodo deve comprendere, per i cinematografi ad attività continuativa, due domeniche»; sta bene due domeniche trattandosi di 15 giorni, ma se si tratta di 20 giorni bisogna elevare a tre domeniche. Se sono 20 giorni non rientriamo nel termine di due domeniche.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Non mi pare che la richiesta dell’onorevole Corbi sia fondata. Due domeniche sono già molte.

PRESIDENTE. Onorevole Corbi, insiste nella richiesta?

CORBI. Non insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 7 testé letto.

(È approvato).

Pongo in votazione il comma aggiuntivo, presentato dagli onorevoli Giannini, Maffioli ed altri, accettato dalla Commissione e dal Governo, per il quale si dovrà poi fissare, dopo l’approvazione degli altri commi, la collocazione:

«Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere della Commissione consultiva, potrà essere variato, di anno in anno, il numero delle giornate da riservare ai film nazionali, in relazione alla variazione della quantità e qualità della produzione cinematografica nazionale dell’anno».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma del testo della Commissione:

«Eguale trattamento viene riservato ai film nazionali documentari o di attualità che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articolo 5».

L’onorevole Andreotti ha proposto di sostituirlo col seguente:

«Eguale trattamento viene riservato ai film nazionali documentari che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articolo 5, mentre per i cortometraggi nazionali di attualità la programmazione deve accompagnare sempre, completandolo, lo spettacolo cinematografico».

L’onorevole Andreotti ha facoltà di svolgere l’emendamento.

ANDREOTTI. Credo inutile illustrarlo.

PRESIDENTE. Chiedo il parere dell’onorevole Relatore.

VERNOCCHI, Relatore. Faccio notare all’onorevole Andreotti che c’è l’articolo 8 che stabilisce quanto è richiesto dal suo emendamento. L’articolo 8 dice: «Il programma di ciascun spettacolo dovrà comprendere la proiezione di almeno un film a cortometraggio (documentario o attualità)». Non bisogna, del resto, esagerare nel richiedere agli esercenti di mettere documentario e attualità nello stesso programma. Gli esercenti possono accettare di proiettare il documentario e l’attualità insieme secondo l’ampiezza e la importanza del cinema, secondo l’ubicazione del locale e secondo la intenzione o la esigenza ambientale di fare, nella giornata, uno spettacolo di più.

Non possiamo vincolare in questo modo l’esercizio, perché allora si verrebbe veramente a iugulare l’esercizio che ha il diritto, a mio avviso, di avere la sua indipendenza in materia; è sufficiente che si programmi o un documentario o un giornale di attualità che sia veramente di produzione nazionale. Io prego l’onorevole Andreotti di non insistere nel suo emendamento. Peraltro c’è la proposta di aggiungere all’articolo 8 le parole: «di produzione nazionale».

PRESIDENTE. Devo ricordare che l’onorevole Andreotti ha proposto di sopprimere l’articolo 8.

ANDREOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. Si potrebbe fare una subordinata: aumentare per i documentari e le attualità la programmazione obbligatoria a quaranta giorni.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Si potrebbe conciliare il testo dell’emendamento dell’onorevole Andreotti con quello che ha detto l’onorevole Relatore. Il collega Andreotti domanda che le attualità siano sempre passate allo schermo contemporaneamente al film spettacolare. Ora non dobbiamo dimenticare che vi sono dei cinema d’importanza infima che sono nei paesi o nei quartieri periferici, dove le attualità arriverebbero con enorme ritardo e quindi cesserebbero di essere tali. Prego l’onorevole Andreotti, perché ritengo che sarebbe utile, di apportare delle modifiche, e rendere effettivo il passaggio delle attualità ai cinema di prima, seconda e terza visione. Si raggiungerebbe così lo scopo del film di attualità. Ma, se in un cinema di secondaria importanza venisse immessa una attualità di due mesi prima, non si raggiungerebbe lo scopo.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Credo che questa opportuna correzione proposta dall’onorevole Andreotti nasca da una preoccupazione che anch’io condivido. Nell’ultima seduta abbiamo commesso un errore, che avrà delle gravi conseguenze industriali, accettando una proposta dell’onorevole Bertone, soprattutto per la stima che abbiamo per lui. Ritenevamo che sarebbe stato ben fatto accogliere il suo consiglio; e cioè, abbiamo ridotto dal 4 per cento al 2 per cento il contributo a certi speciali film di attualità. Confesso che c’è anche un po’ di colpa mia. Non mi sono opposto, perché non ho riflettuto abbastanza sulla proposta. Di più, s’era stabilita una atmosfera un po’ tesa, diciamo quasi di sospetto, che investiva tutti coloro che si occupavano di cinematografia; e si è pensato allora piuttosto a difendersi da questi sospetti, anziché a difendere l’industria come sarebbe stato nostro dovere. Praticamente, riducendo dal 4 al 2 per cento il contributo a queste attualità, abbiamo effettivamente distrutto un’attività, perché altro è il film a cortometraggio, altro è il film di attualità. Si può benissimo fare un film a cortometraggio, che rappresenti, per esempio, la chiesa di San Pietro (le colonne, la cupola, l’interno, l’esterno); questo film può essere proiettato, dieci anni dopo che è stato girato. Ma il film d’attualità, appunto perché di attualità, non può andare oltre certi limiti ed ha bisogno di avere rapidamente ed in misura maggiore un contributo.

Ora stiamo cercando di riparare all’errore commesso. Questa è la sola ragione dell’emendamento Andreotti.

Spero che nella giornata di oggi potremo esaurire la discussione e votare la legge. Vedremo se sarà possibile inserire in altro punto, se non in questo, l’emendamento che potremo concordare, per riparare all’imperdonabile errore.

Però l’errore maggiore lo hanno commesso gli interessati. Se essi fossero intervenuti alla riunione tenuta al «Quattro Fontane» e si fossero fatti vivi prima della nostra votazione, come hanno fatto le altre categorie, questo errore non sarebbe stato commesso.

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Nella seduta scorsa ho tentato di difendere il contributo del 4 per cento o, almeno, quello del 3 per cento previsto nella legge del 1945; poi, per l’atmosfera di eccitazione e di intolleranza creatasi, non abbiamo portato a fondo la discussione.

Facevo notare ai colleghi, che sedevano vicino, che il film di attualità ha un costo notevole e che prima di prendere determinati provvedimenti, occorreva che l’Assemblea fosse veramente informata delle ragioni che hanno determinato, in un primo tempo, la Commissione, compilatrice della legge, ad elevare al 4 per cento il contributo.

Per riparare oggi non c’è che un mezzo: elevare il numero dei giorni di programmazione obbligatoria; altrimenti, non potremmo né tornare indietro, né trovare altra soluzione.

Quindi accedo alla proposta Andreotti.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. All’osservazione fatta dall’onorevole Giannini, a proposito del contributo del 4 per cento da noi ridotto al 2, in seguito all’intervento dell’onorevole Bertone, per il film di attualità, voglio aggiungere questo: più che commettere un errore abbiamo leso quello che gli interessati potevano in certo modo ritenere un diritto acquisito; in quanto il decreto del 5 ottobre 1945, n. 678, assicurava loro il 3 per cento. Non è giusto rimproverar loro, come ha fatto l’onorevole Giannini, di non essersi preoccupati a tempo della cosa. Essi non potevano mai supporre che la percentuale fosse ridotta al 2 per cento; se mai, pensavano, qualora il 4 per cento proposto non sia accettato, si manterrà il 3 per cento consacrato nel decreto del 1945.

La verità è che siamo arrivati al 2 per cento per ragioni psicologiche lasciandoci influenzare dall’atmosfera di dubbio e di sospetto creata dall’autorevole intervento dell’onorevole Bertone, il quale aveva proposto addirittura l’1 per cento, preoccupandosi esclusivamente dell’interesse dell’Erario.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’onorevole Bertone non aveva letto l’articolo 17 del progetto e quindi ha determinato nell’Assemblea quella stessa atmosfera di sospetto, del tutto giustificata, che si era prodotta quando l’onorevole collega ha fatto introdurre anche l’altro emendamento per la limitazione del contributo al 50 per cento, nei casi in cui al film nazionale si unisca nella stessa rappresentazione un altro film nazionale. Egli non ha tenuto conto di un’altra disposizione che stabilisce appunto questa limitazione e che è contenuta nel decreto dell’ottobre 1945, la quale resterà valida anche con questa nuova legge, il cui articolo 17 statuisce: «Restano in vigore le norme del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 678, in quanto non contrastino con quelle contenute nella presente legge».

Oramai l’errore è stato commesso; l’ingiustizia, come ha detto l’onorevole Malagugini, nei riguardi del film breve è stata approvata, perché la legge passata stabiliva il contributo del 3 per cento e noi, che volevamo incoraggiarne la produzione, abbiamo ridotto questo contributo al 2 per cento.

Non vorrei ora che commettessimo un altro errore nell’intento di riparare a quello precedente.

Ritengo che la obbligatorietà della programmazione di 80 giorni all’anno dei film nazionali sia stata un errore; ora ne stiamo commettendo un altro. Si propone di imporre i film di attualità per un numero di giorni superiore a quello stabilito. È un errore, perché questi film di attualità comparirebbero dopo 7 o 8 mesi, ed il pubblico si annoierebbe e non andrebbe al cinema quando si rappresentassero questi cortometraggi vecchi di mesi.

Vediamo, invece, come ha suggerito l’onorevole Giannini, se c’è un modo efficace per rimediare all’errore commesso.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Vorrei far osservare al collega Andreotti che egli giustificatamente si è preoccupato dei film di attualità, mentre per i documentari si è rimasti soltanto a quelle disposizioni valevoli per tutti gli altri film normali.

Qualora fosse accettato l’emendamento del collega Andreotti, non sarebbe più tutelato il documentario, e credo che i documentari devono essere particolarmente incoraggiati, forse più dei film di attualità per la semplice ragione che i documentari hanno uno scopo educativo; sono quelli che insegnano come funziona un opificio, quale è la vita che si conduce nei campi, nelle fabbriche, nei gabinetti scientifici. Ritengo, quindi, che questi documentari, debbano essere incoraggiati più dei film di attualità i quali non fanno che solleticare la vanità di alcuni uomini, e certe manifestazioni che si ritrovano anche sui giornali e nelle riviste e la cui utilità perciò è meno grande di quella dei documentari.

Per queste ragioni vorrei invitare l’onorevole Andreotti ad esaminare come meglio si possa tutelare anche il documentario. Probabilmente si potrebbe raggiungere l’accordo se il Presidente volesse essere tanto gentile da concedere una sospensione di dieci minuti per decidere. Un emendamento potrebbe essere il seguente: «Per i film nazionali documentari che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articoli 5 è obbligatoria la proiezione per almeno 45 giorni per trimestre».

Non vi insisto, peraltro, perché si può trovare, d’accordo con altri colleghi, una forma più precisa. Però insisto nel richiamare l’attenzione dei colleghi sull’importanza dell’argomento.

PRESIDENTE. Ritengo opportuno sospendere la seduta per dieci minuti.

(La seduta, sospesa alle 10.40, è ripresa alle 10.50).

ANDREOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. In seguito a un accordo raggiunto, ritiro il mio emendamento, riservandomi di proporre l’aggiunta di una disposizione transitoria.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il secondo comma nel testo della Commissione:

«Eguale trattamento viene riservato ai film nazionali documentari o di attualità che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articolo 5».

(È approvato).

Pongo in votazione il terzo comma nel testo della Commissione:

«L’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico di cui al seguente articolo 13, escluderà dal beneficio di cui al presente articolo i film sforniti dei requisiti minimi di idoneità tecnica, artistica e commerciale».

(È approvato).

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Propongo che il comma aggiuntivo proposto dall’onorevole Giannini e già approvato, sia inserito dopo il secondo comma dell’articolo 7, anziché dopo il primo.

PRESIDENTE. Concordo con la proposta. Se non vi sono osservazioni, rimane così stabilito.

(Così rimane stabilito).

L’articolo 7 resta pertanto, nel suo complesso, così approvato:

«A decorrere dal 1° gennaio 1947, gli esercenti di sale cinematografiche debbono riservare 20 giorni per ciascun trimestre alla proiezione, in tutti gli spettacoli giornalieri, di film riconosciuti nazionali ai sensi dell’articolo 3 della presente legge e di lunghezza superiore ai 2000 metri. Detto periodo deve comprendere, per i cinematografi ad attività continuativa, due domeniche. Per i locali ad attività saltuaria il numero delle giornate di spettacolo riservate alla proiezione di film nazionali viene proporzionalmente ridotto.

«Eguale trattamento viene riservato ai film nazionali documentari o di attualità che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articolo 5.

«Con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri, sentito il parere della Commissione consultiva, potrà essere variato, di anno in anno, il numero delle giornate da riservare ai film nazionali, in relazione alla variazione della quantità e qualità della produzione cinematografica nazionale dell’anno.

«L’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico di cui al seguente articolo 13, escluderà dal beneficio di cui al presente articolo i film sforniti dei requisiti minimi di idoneità tecnica, artistica e commerciale».

Passiamo all’articolo 8.

«Il programma di ciascun spettacolo dovrà comprendere la proiezione di almeno un film a cortometraggio (documentario o attualità)».

L’onorevole Fogagnolo ha proposto di sopprimere l’articolo.

Chiedo se vi insiste.

FOGAGNOLO. Non vi insisto, ma propongo che alla fine dell’articolo siano aggiuntele parole: «di produzione nazionale».

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Mi associo alla proposta dell’onorevole Fogagnolo.

PRESIDENTE. Chiedo alla Commissione e al Governo di esprimere il loro parere.

VERNOCCHI, Relatore. Accetto l’emendamento.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Accetto anche io.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 8 che, con l’aggiunta proposta dall’onorevole Fogagnolo e accettata dalla Commissione e dal Governo, risulta così formulato:

«Il programma di ciascun spettacolo dovrà comprendere la protezione di almeno un film a cortometraggio (documentario o attualità) di produzione nazionale».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 9:

«Gli esercenti di sale cinematografiche debbono tenere un registro delle programmazioni, debitamente vistato dalla locale autorità di pubblica sicurezza, con l’indicazione in ordine cronologico dei film proiettati e della rispettiva nazionalità».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 10:

«La Presidenza del Consiglio dei Ministri esercita la vigilanza per l’applicazione delle disposizioni di cui alla presente legge.

«Per la infrazione alle norme contenute negli articoli 7, 8 e 9, si applica l’ammenda da lire 10.000 a lire 100.000 in relazione alla gravità dell’infrazione ed all’importanza del locale. Nei casi di recidiva, potrà altresì essere disposta la chiusura del locale per un periodo non inferiore a 5 e non superiore a 10 giorni, salvo l’obbligo da parte dell’esercente di reintegrare nei trimestri successivi le giornate complessive di spettacolo stabilite per la proiezione dei film nazionali.

«Durante il periodo di chiusura l’esercente è tenuto a corrispondere le normali retribuzioni al personale addetto alle sale».

L’onorevole Fogagnolo ha proposto di sopprimerlo.

Chiedo se vi insiste.

FOGAGNOLO. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 10 testé letto.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 11:

«La partecipazione del Tesoro dello Stato al fondo di dotazione della Sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca nazionale del lavoro è aumentata di ulteriori 150 milioni di lire, da versarsi in tre rate annuali di lire 50 milioni ciascuna, a decorrere dall’esercizio finanziario 1946-1947.

«La Banca nazionale del lavoro, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’Istituto nazionale delle assicurazioni sono autorizzati ad aumentare, anche in deroga ai propri statuti, la quota di partecipazione al fondo di dotazione della Sezione autonoma per il credito cinematografico nella misura di 50 milioni per ciascuno, da versarsi in tre rate eguali annuali, a decorrere dallo stesso esercizio finanziario 1946-1947.

«La Sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca nazionale del lavoro è autorizzata a concedere mutui per l’impianto di sale cinematografiche per la proiezione di film a passo ridotto nelle località sprovviste di cinematografi».

L’onorevole Fogagnolo ha proposto di sopprimere l’articolo.

Chiedo se vi insiste.

FOGAGNOLO. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Al primo comma di questo articolo gli onorevoli Giannini, Lagravinese Pasquale, Bencivenga, Russo Perez, Marinaro, Abozzi, Venditti, Presti, Cicerone e Corsini hanno proposto il seguente emendamento:

«Al primo comma, alle parole: 150 milioni di lire, da versarsi in tre rate annuali di lire 50 milioni, sostituire le parole: 600 milioni, da versarsi in tre rate di lire 200 milioni».

L’onorevole Giannini ha facoltà di svolgerlo.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, questa partecipazione del Tesoro dello Stato non è fatta a fondo perduto. C’è stato un nostro egregio collega il quale ha dimostrato che è stata, in passato, una partecipazione fruttifera, in quanto praticamente si tratta di aumentare un fondo che serve al finanziamento dell’industria cinematografica. Non è un onere, non è un contributo, è un prestito, che in sostanza è garantito, perché viene compensato appunto dalla riversibilità di questa tassa, in quanto gli industriali, e specialmente i piccoli industriali che fanno dei film, impegnano in anticipo il reddito presunto della tassa, e su di esso ottengono dei finanziamenti.

Se non che, la somma di 150 milioni, oggi, non per colpa mia, è diventata direi quasi ridicola in cinematografia, perché con 150 milioni oggi si potrebbero fare, al massimo, due discreti film, e non più. Quindi, la partecipazione del Tesoro, data l’inflazione, limitata a 150 milioni di lire, è assolutamente insufficiente.

Ecco le ragioni per cui ho proposto che la misura di questo contributo sia elevata; ma che sia ben chiaro e si tenga ben presente che non si tratta né di un esborso da parte dello Stato, perché, comunque, questo denaro ritorna allo Stato.

Un collega della Democrazia cristiana ha potuto dimostrare a questo riguardo che il fondo così costituito presso la Banca del lavoro ha rappresentato un ottimo investimento dal punto di vista finanziario ed industriale. Ecco le ragioni per cui insisto sul mio emendamento.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Noi non sappiamo quale sia attualmente il fondo.

VERNOCCHI, Relatore. Quello che esiste è di 150 milioni.

FOGAGNOLO. Allora, si tratterebbe, con questo provvedimento, di portarlo a 300.

Nello stabilire i prezzi dei film, ho sentito parlare dal Relatore di un prezzo medio di 30 milioni. Io non ho competenza, perché da 16 anni sono fuori da questo campo, ma non so se sia giusto quello che ha detto il Relatore, come pure quello che ha detto l’onorevole Giannini. Comunque, avevo sentito dire che questo fondo dovrebbe essere integrato anche da una certa disponibilità, che un produttore potrebbe avere per mettersi a fare un film, altrimenti si correrebbe questo rischio: che se il finanziamento viene eseguito al 100 per cento dalla Banca del lavoro e se poi il film non ha successo e non si incassa una somma pari a quella finanziata, la persona che riceve il denaro a prestito per fare un film si troverebbe nella impossibilità di restituire il denaro. C’è stato un collega il quale ha illustrato molto bene quello che è avvenuto alla Banca del lavoro, che non ha mai perso un centesimo in questi finanziamenti.

Ora, siccome noi sappiamo che in circolazione sono venuti e verranno ancora dei film che non riusciranno a pagarsi il prezzo del costo, se la Banca del lavoro non ha perduto, vuol dire che non ha dato il 100 per cento del capitale, ma soltanto una parte.

Io non conosco le condizioni del Tesoro e le possibilità che in questo momento ci sono; quindi ritengo che sia necessario di sentire il parere della Commissione di finanza a questo riguardo. Non sono contrario alla proposta dell’onorevole Giannini, ma se si vuole veramente aiutare questa attività, bisogna che non vi siano aggravi per il Tesoro. Se il Tesoro ha la possibilità di anticipare il capitale necessario, non vedo la ragione per cui noi possiamo rifiutarlo.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Sono del parere che la proposta dell’onorevole Giannini sia accettabile, soprattutto per una conseguenza logica di quanto si è stabilito precedentemente: se aumenta la produzione dei film nazionali, aumenta anche il credito che si fa ai produttori. Debbo chiarire però qualche cosa in merito a quanto ha detto l’onorevole Fogagnolo. Egli ha detto che, perché si possa fare della produzione cinematografica, è necessario di avere una consistenza finanziaria, altrimenti non ci si può mettere in questa attività. Voglio fare osservare che se c’è qualcuno che ha bisogno del credito in questa materia, sono proprio i produttori isolati e le cooperative che si varino costituendo (come quella che ha prodotto il film Il sole sorge ancora) e non sono quindi i grandi produttori, perché questi non hanno bisogno di andare a raccogliere queste briciole.

Proprio per aiutare una maggiore produzione, e soprattutto quelle iniziative le quali sono animate da molta buona volontà e che, pur avendo capacità tecnica ed artistica, non trovano quasi mai i fondi necessari, chiediamo che la Banca possa stanziare ulteriori fondi.

Ecco perché siamo favorevoli alla proposta dell’onorevole Giannini e non abbiamo la stessa preoccupazione dell’onorevole Fogagnolo.

BALDUZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BALDUZZI. L’onorevole Fogagnolo diceva poc’anzi che non poteva precisare l’ammontare attuale del fondo di dotazione. Sono in grado di chiarire che tale fondo è di lire 146.853.000.

In relazione a quanto ho esposto l’ultima volta che ebbi l’onore di parlare a questa Assemblea, comunico che, a mio parere, se l’emendamento dell’onorevole Giannini venisse accettato, l’industria cinematografica nazionale avrebbe tutto da guadagnare, in quanto la Sezione autonoma per il credito cinematografico avrebbe la possibilità di rinunciare ad ulteriori appoggi finanziari con conseguente risparmio di interessi passivi, così da poter assicurare alla gestione un utile maggiore.

Nell’interesse quindi dell’industria cinematografica, mi auguro che l’emendamento presentato dall’onorevole Giannini venga approvato, convinto che la Banca nazionale del lavoro continuerà ad amministrare il Fondo di dotazione con la stessa oculatezza fin qui dimostrata.

PRESIDENTE. Il Relatore ha facoltà di esprimere il parere della Commissione.

VERNOCCHI, Relatore. Desidero far notare che non è il Tesoro che sborsa queste somme; esse sono messe invece a disposizione per un terzo, dalla Banca del lavoro; per un terzo, dall’Istituto nazionale delle assicurazioni; per un terzo, dall’Istituto della previdenza sociale. Il Tesoro dà evidentemente la garanzia, ma non mette fuori neanche un soldo.

Occorre, quindi, fare i conti un po’ con questi Istituti per sapere se essi hanno la possibilità di fare erogazioni in tale misura. Bisogna tenere presente, infatti, che tali enti nel momento attuale sono notevolmente impegnati dal Governo per la ricostruzione nazionale, come costruzione di case, prestiti a municipi, ospedali, e così via. Avranno essi la possibilità di impegnare somme notevoli, come quelle indicate nella legge, a favore dell’industria cinematografica italiana?

Ecco il problema: né noi, come Assemblea, possiamo imporre a questi Istituti di diritto pubblico di impegnare i loro bilanci in tal maniera. Ora, io penso che, siccome i contributi che la Banca del lavoro erogherà equivarranno sempre a un terzo del costo del film, perché vi sono le case di noleggio che danno il minimo garantito, è evidente che il produttore quando inizia la sua produzione deve avere già a sua disposizione un minimo di capitale.

Se ci sono, invece, cooperative che sorgono tra artisti, registi, scenografi, doppiatori, operai, è evidente che noi dobbiamo aiutare in misura maggiore lo sforzo di queste cooperative; ma quando un signor produttore che ha già dei capitali, si presenta per avere una sovvenzione notevole dalla Banca del lavoro, allora bisogna esser cauti.

A me pare che siano sufficienti i 300 milioni previsti nella legge. Non mi sento di imporre a questi Istituti di diritto pubblico che sostengono già oneri notevoli, uno sforzo che non so se essi siano in grado di sopportare.

PRESIDENTE. L’onorevole Cappa ha facoltà di esprimere il suo parere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Mi associo a quanto ha detto l’onorevole Relatore. La questione è stata oggetto di contestazione in Consiglio dei Ministri.

Non mi pare che nelle difficoltà attuali del Tesoro e anche bancarie, sia il caso di aumentare gli oneri che si riversano sullo Stato. Prego quindi il collega Giannini di ritirare il suo emendamento. Comunque a nome del Governo mi dichiaro decisamente contrario al suo emendamento.

PRESIDENTE. Onorevole Giannini, ella insiste nel suo emendamento?

GIANNINI. Insisto, ma, tenendo conto dei rilievi del Relatore, e cioè che non si debba creare un fondo allo scopo di finanziare i grandi industriali, aggiungerei, all’emendamento che la Banca del lavoro debba sovvenzionare i produttori isolati e le cooperative cinematografiche.

BALDUZZI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BALDUZZI. Tenuto presente quanto il Relatore ha fatto rilevare, io, che pure mi ero espresso favorevolmente alla proposta dell’onorevole Giannini, dichiaro che voterò contro, perché trovo giusto quanto ha osservato il Relatore, cioè che l’ulteriore apporto di capitali va fatto, sentita la Banca nazionale del lavoro, nonché gli altri Enti partecipanti.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di ritirare il disegno di legge qualora l’emendamento Giannini fosse approvato.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Dopo la dichiarazione dell’onorevole Cappa, ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 11 nel testo della Commissione:

«La partecipazione del Tesoro dello Stato al fondo di dotazione della Sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca nazionale del lavoro è aumentata di ulteriori 150 milioni di lire, da versarsi in tre rate annuali di lire 50 milioni ciascuna, a decorrere dall’esercizio finanziario 1946-47».

(È approvato).

Passiamo al secondo comma:

«La Banca nazionale del lavoro, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’Istituto nazionale delle assicurazioni sono autorizzati ad aumentare, anche in deroga ai propri statuti, la quota di partecipazione al fondo di dotazione della Sezione autonoma per il credito cinematografico nella misura di 50 milioni per ciascuno, da versarsi in tre rate eguali annuali, a decorrere dallo stesso esercizio finanziario 1946-1947».

A questo comma gli onorevoli Giannini, Lagravinese Pasquale, Bencivenga, Russo Perez, Marinaro, Abozzi, Venditti, Presti, Cicerone e Corsini hanno presentato il seguente emendamento.

«Al secondo comma, alle parole: 50 milioni per ciascuno, sostituire le parole: 200 milioni per ciascuno».

Onorevole Giannini, lo mantiene?

GIANNINI. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il secondo comma testé letto.

(È approvato).

Pongo in votazione il terzo comma:

«La Sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca nazionale del lavoro è autorizzata a concedere mutui per l’impianto di sale cinematografiche per la proiezione di film a passo ridotto nelle località sprovviste di cinematografi».

(È approvato).

L’articolo 11 resta pertanto approvato nel testo della Commissione:

«La partecipazione del Tesoro dello Stato al fondo di dotazione della Sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca nazionale del lavoro è aumentata di ulteriori 150 milioni di lire, da versarsi in tre rate annuali di lire 50 milioni ciascuna, a decorrere dall’esercizio finanziario 1946-1947.

«La Banca nazionale del lavoro, l’Istituto nazionale della previdenza sociale e l’Istituto nazionale delle assicurazioni sono autorizzati ad aumentare, anche in deroga ai propri statuti, la quota di partecipazione al fondo di dotazione della Sezione autonoma per il credito cinematografico nella misura di 50 milioni per ciascuno, da versarsi in tre rate eguali annuali, a decorrere dallo stesso esercizio finanziario 1946-1947.

«La sezione autonoma per il credito cinematografico della Banca nazionale del lavoro è autorizzata a concedere mutui per l’impianto di sale cinematografiche per la proiezione di film a passo ridotto nelle località sprovviste di cinematografi».

Passiamo all’articolo 12:

«Per l’esame dei problemi di carattere generale interessanti la cinematografia è istituita presso l’Ufficio centrale per la cinematografia una Commissione consultiva nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composta:

1°) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, presidente;

2°) dal capo dell’Ufficio centrale per la cinematografia;

3°) da tre rappresentanti degli industriali cinematografici designati dalle rispettive organizzazioni sindacali, uno per ciascuna delle seguenti categorie: produzione di film, noleggio, esercizio di sale cinematografiche;

4°) da tre rappresentanti dei lavoratori della cinematografia designati dalla relativa organizzazione sindacale.

«Un impiegato di gruppo A di grado non inferiore al IX eserciterà le funzioni di segretario».

L’onorevole Fogagnolo ha proposto di sopprimerlo.

Chiedo se vi insiste.

FOGAGNOLO. Non vi insisto.

PRESIDENTE. L’onorevole Proia ha proposto di aggiungere il seguente numero 5°:

«5°) da un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero».

Chiedo se vi insiste.

PROIA. Vi insisto. Ho già illustrato le ragioni del mio emendamento: è per evitare che il rappresentante del Ministero del commercio con l’estero faccia parte del Comitato di cui all’articolo 13.

GIANNINI. L’aggiunta mi sembra inutile.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Noi votiamo a favore dell’emendamento Proia, perché in questa Commissione consultiva, di cui vengono specificati i compiti, trovo giusto che un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero faccia sentire la sua voce, poiché è quel Dicastero che deve sorvegliare l’importazione dei film.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Relatore di esprimere il suo parere.

VERNOCCHI, Relatore. Sono favorevole all’emendamento Proia perché effettivamente è stato commesso un errore. Le parole «rappresentante del Ministero del commercio con l’estero» sono state inserite all’articolo 13. Invece il rappresentante di quel Ministero, doveva essere compreso nella Commissione consultiva di cui all’articolo 12.

PRESIDENTE. Chiedo il parere del Governo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il rilievo dell’onorevole Relatore è esattissimo; quindi il Governo accetta l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Proia. Vuol dire che dall’articolo 13 stralceremo le parole: «da un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero».

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Proia.

(È approvato).

Pongo in votazione l’articolo 12 così modificato:

«Per l’esame dei problemi di carattere generale interessanti la cinematografia è istituita presso l’Ufficio centrale per la cinematografia una Commissione consultiva nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composta:

1°) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, presidente;

2°) dal capo dell’Ufficio centrale per la cinematografia;

3°) da tre rappresentanti degli industriali cinematografici designati dalle rispettive organizzazioni sindacali, uno per ciascuna delle seguenti categorie: produzione di film, noleggio, esercizio di sale cinematografiche;

4°) da tre rappresentanti dei lavoratori della cinematografia designati dalla relativa organizzazione sindacale;

5°) da un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero.

«Un impiegato di gruppo A di grado non inferiore al IX eserciterà le funzioni di segretario».

(È approvato).

Passiamo all’articolo 13:

«Ai fini dell’applicazione delle disposizioni contenute nei precedenti articoli 4, 5 e 7 è istituito un Comitato tecnico nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composto:

1°) dal capo dell’Ufficio centrale per la cinematografia, presidente;

2°) da un rappresentante del Ministero delle finanze e del tesoro;

3°) da un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione;

4°) da un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero;

5°) da un rappresentante dei lavoratori del cinema designato dalla relativa organizzazione sindacale;

6°) da un rappresentante degli industriali cinematografici designato dall’organizzazione sindacale dei produttori di film».

A questo articolo sono stati presentati vari emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Fogagnolo, già svolto:

«Sostituirlo col seguente:

«La Commissione di cui all’articolo precedente sarà composta:

1°) da un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione (Belle arti);

2°) da un rappresentante dei lavoratori del cinema;

3°) da un rappresentante dei noleggiatori di pellicole;

4°) da un rappresentante degli industriali cinematografici;

5°) da un rappresentante del Ministero dell’industria e commercio».

Chiedo all’onorevole Fogagnolo se vi insiste.

FOGAGNOLO. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Seguono i seguenti altri emendamenti già svolti:

«Sostituire gli attuali numeri 4°, 5° e 6° con i seguenti:

4°) da due rappresentanti dei lavoratori del cinema, designati dalla relativa organizzazione sindacale;

5°) da due rappresentanti degli industriali cinematografici designati dall’organizzazione sindacale dei produttori film;

6°) da un rappresentante dei gestori di sale cinematografiche designato dalla relativa associazione sindacale».

Proia.

«Al numero 5°, alle parole: da un rappresentante dei lavoratori del cinema, sostituire le parole: da due rappresentanti dei lavoratori del cinema».

«Al numero 6°, alle parole: da un rappresentante degli industriali cinematografici, sostituire: da due rappresentanti degli industriali cinematografici».

«Aggiungere il seguente numero 7°:

7°) da un rappresentante dei gestori di sale cinematografiche designato dalla relativa associazione sindacale».

Giannini, Maffioli, Russo Perez, Coppa, Rodinò Mario, Mazza, Puoti, Leone Giovanni, Sampietro, Proia.

Prego l’onorevole Relatore di esprimere il suo parere.

VERNOCCHI, Relatore. Aderisco a questi emendamenti nella loro sostanza, salvo coordinamento.

PRESIDENTE. Prego il Governo di esprimere ili suo parere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non vedo la ragione di creare una Commissione tanto pletorica: la categoria dei lavoratori del cinema è già rappresentata, e non vedo perché invece di un rappresentante se ne debbano mettere due. Ciò significherebbe gonfiare inutilmente il numero dei commissari, con i relativi inconvenienti, non escluso il maggior esborso per medaglie di presenza.

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Osservo che è opportuno che la Commissione non sia troppo limitata e troppo ristretta. Onorevole Sottosegretario, la ragione è di carattere essenzialmente morale. Se una Commissione, di questo genere è composta di poche persone si lascia adito al sospetto nei confronti di coloro che, facendone parte, sono incaricati di stabilire cose delicatissime, cioè le qualità artistiche, in base alle quali viene assegnato il premio del 6 per cento. Occorre che non possa mai sorgere alcun sospetto su questa Commissione. Io penso che se la Commissione sarà numerosa, sarà più difficile che su di essa possa esercitare la sua triste influenza quella corruzione che, purtroppo, nel mondo cinematografico esiste in modo particolare.

Mi sembra, poi, che nella Commissione figurino troppi rappresentanti di Ministeri tecnici. Occorrono invece elementi qualificati in quelle speciali capacità che, un direttore generale di un Ministero pur con tutti i suoi meriti di cultura, difficilmente potrà avere. In questa materia è necessaria una competenza specifica, non solo artistica, ma particolarmente sulla realizzazione tecnica dei film. Ecco perché è bene che sia composta di meno rappresentanti dei Ministeri, ma di più rappresentanti di lavoratori e di tecnici del cinema.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, questo emendamento Proia, che in sostanza è anche mio perché io dico la stessa cosa, ha un’altra ragione, oltre quella accennata dall’onorevole Vernocchi, per chiedere che siano due i rappresentanti dei lavoratori del cinema. E la ragione è che i lavoratori del cinema si dividono in una categoria di tecnici e in una categoria di operai. Ci sono dei registi, dei fonici, dei lavoratori del cinema i quali hanno una funzione propria, direttiva, creativa nel film: i montatori, per esempio. Hanno cioè una funzione che si affianca a quella dell’autore, ed è giusto che due rappresentanti dei lavoratori stiano a difendere la produzione.

Non voglio lanciare alcun sospetto sul Comitato, ma in questo Comitato è molto facile al grande produttore aver sempre ragione. Noi vogliamo un maggior numero di rappresentanti dell’elemento direttivo cinematografico appunto per garantirci da eventuali sopraffazioni del grande industriale cinematografico, che finisce sempre per vincere la sua battaglia. Ecco le ragioni per cui aderisco, in sostanza, all’emendamento Proia, ritirando il mio.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Previdenza del Consiglio dei Ministri. Penso che la mia opposizione possa non aver esito; ma dichiaro ugualmente che sono contrario a questo emendamento. Faccio osservare che l’asserita pletorica rappresentanza dei Ministeri non sussiste, in quanto si tratta solo di quattro rappresentanti: uno dell’Ufficio centrale della cinematografia, particolarmente competente; uno delle Finanze e del Tesoro, il Ministero cioè che eroga i fondi; uno del Ministero della pubblica istruzione, che si dovrebbe ritenere particolarmente competente, e il rappresentante del Ministero del commercio con l’estero che dovrà essere tolto, in quanto è stato incluso nella Commissione prevista dall’articolo 12. Quindi i rappresentanti del Governo restano appena tre. Nel testo del disegno di legge vi è poi un rappresentante dei lavoratori del cinema designato dalle organizzazioni sindacali e un rappresentante degli industriali cinematografici, anch’esso designato. Quindi, rappresentanti della produzione, lavoratori e industriali, in questo Comitato ve ne sono; e possono dire la loro parola e far valere le loro ragioni. Ma è giusto che il giudizio decisivo sulla produzione non sia dato da coloro che questa produzione hanno effettuato, ma dallo Stato che deve pagare i premi. Con questo emendamento non solo si gonfierebbe il Comitato secondo l’andazzo vigente, che è veramente deplorevole, ma la maggioranza – e quindi il giudizio definitivo – sarebbe di coloro che hanno effettuato la produzione e devono ricevere il contributo in denaro. Mi pare non sia una procedura retta, e quindi mi attengo al testo della Commissione e invoco che l’Assemblea giudichi con serenità e serietà. Non possiamo dare a coloro che devono essere giudicati, il diritto di giudicare la loro opera. Che facciano valere le loro ragioni è giusto, ma che siano essi a stabilire i premi non mi pare opportuno.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Desidererei un chiarimento dall’onorevole Cappa in merito alla portata del numero 6°): «da un rappresentante degli industriali cinematografici designato dall’organizzazione sindacale dei produttori di film».

A mio parere vi è esclusione assoluta degli esercenti.

Nell’emendamento Proia-Giannini è fatta menzione di due rappresentanti dei lavoratori del film al solo scopo di elevare anche il numero dei rappresentanti degli industriali per far posto anche al rappresentante della categoria degli esercenti.

Domando all’onorevole Cappa se gli sembra equo che di un Comitato che deve decidere la proiezione coattiva di un film, non facciano parte gli esercenti che devono proiettare questo film. Quindi non mi sembra che il nostro emendamento sia eccessivo.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. La proposta Giannini raddoppia però il numero dei rappresentanti dei lavoratori.

GIANNINI. Li raddoppia per una sola ragione: perché raddoppiamo il numero dei rappresentanti degli industriali.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. A questo mi sono opposto.

GIANNINI. Se noi portiamo nel Comitato, come è giusto, un rappresentante degli esercenti, allora noi contro due industriali abbiamo soltanto un operaio.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Soppresso il n. 4°) relativo al rappresentante del Ministero del commercio con l’estero, che è stato incluso nell’articolo 12, propongo di lasciare un rappresentante dei lavoratori cinematografici, un rappresentante degli industriali e, accettando, il n. 6°) dell’emendamento Proia, un rappresentante dei gestori di sale cinematografiche.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Ritengo che bisognerebbe considerare i due emendamenti successivi. Noi stiamo correndo il rischio di attribuire il giudizio sui film nazionali, anche ai fini del premio del 6 per cento, ad un Comitato, dal quale si escludono le persone più competenti, e, particolarmente i rappresentanti dei critici cinematografici.

È giusto quello che ha detto l’onorevole Cappa: il rappresentante del Ministero delle finanze ci vuole, perché è quello che paga. Ma sarà competente a giudicare se il film merita o no il premio?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si supponi che il Ministro delle finanze designerà un competente.

FOGAGNOLO. Questo funzionario dovrebbe avere un determinato senso artistico.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non è detto «un funzionario» ma «un rappresentante».

FOGAGNOLO. Ad ogni modo c’è l’emendamento Fuschini, che propone di includere un rappresentante della categoria dei critici cinematografici.

PRESIDENTE. È un’altra questione che considereremo a parte.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Sono d’accordo circa la soppressione del rappresentante del Ministero del commercio con l’estero. Però, per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori e degli industriali in questo Comitato tecnico, dobbiamo fare osservare che potremo accettare le proposte del Governo, ma non potremo votare a favore di quegli emendamenti che tendono a spostare le proporzioni.

L’onorevole Cappa ha proposto: un rappresentante per i lavoratori, uno per gli industriali, uno per gli esercenti.

Non siamo d’accordo sulla inclusione di un rappresentante degli esercenti in questo Comitato, perché costoro hanno una funzione puramente speculativa e non una vera e propria funzione produttiva.

Ad ogni modo, se si ritiene necessario far partecipare anche questa categoria, noi saremmo favorevoli a questa proporzione: due rappresentanti dei lavoratori (intendendo un operaio ed un tecnico), uno degli industriali produttori, uno degli esercenti sale cinematografiche.

PRESIDENTE. In sostanza l’onorevole Corbi aderirebbe alla proposta dell’onorevole Cappa, elevando a due il numero dei rappresentanti dei lavoratori.

CORBI. Esattamente.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Poiché la preoccupazione espressa dall’onorevole Cappa mi pare che meriti di essere presa in considerazione, si potrebbe ovviare all’inconveniente da lui lamentato – e cioè che secondo la proposta degli onorevoli Giannini e Proia si darebbe alle rappresentanze interessate, industriali, gestori, operai e tecnici, una preponderanza nei riguardi delle rappresentanze ministeriali – aumentando la rappresentanza ministeriale. Siccome il Ministero più direttamente interessato dal punto di vista finanziario è quello delle finanze, si potrebbero dare due rappresentanti al Ministero delle finanze, oppure aumentare a due i rappresentanti del Ministero della pubblica istruzione.

Rimarrà poi l’inconveniente del numero pari al quale bisognerà trovare il modo di ovviare.

PRESIDENTE. Onorevole Cappa, quale è il suo parere sulla proposta dell’onorevole Malagugini?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Accettando la proposta dell’onorevole Malagugini si verrebbe a fare un Comitato pletorico. Si tratta di un Comitato che deve visionare i film e deve quindi impiegare intere giornate tenendo impegnata molta gente.

Io vorrei evitare questo inconveniente.

MALAGUGINI. La mia proposta tendeva anche a venire incontro ad una preoccupazione dell’onorevole Cappa il quale non fa mistero di avere tanta gente da mettere a posto per smobilitare l’ex Ministero delia cultura popolare.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’onorevole Giannini insiste sul rappresentante delle sale cinematografiche? Lo chiedo in quanto ove non vi insistesse si potrebbe lasciare benissimo il testo della Commissione solo sopprimendo il rappresentante dei Ministero del commercio estero.

GIANNINI. Chiedo di parlare?

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Posso non insistere sul rappresentante delle sale cinematografiche; devo insistere però sull’inclusione di un rappresentante tecnico della cinematografia.

In questa Commissione può essere condannato a morte il film prodotto da un produttore isolato. Che ne so io se tutti si mettono d’accordo contro un film prodotto da una cooperativa, anche se buono?

La ragione per cui abbiamo chiesto l’inclusione di un rappresentante delle categorie degli operai e dei tecnici è precisamente questa: difendere il produttore isolato, perché questa è la nostra unica preoccupazione.

Degli esercenti se ne può fare a meno, ma insistiamo che siano rappresentati i produttori isolati, da un secondo rappresentante dei lavoratori del film, per controbilanciare l’eccesiva influenza degli elementi industriali e non tecnici.

In base all’articolo 13 si può decidere la morte civile di un film. Questi sono episodi avvenuti varie volte, anche per errore.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. E avverranno sempre.

SILES. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SILES. Io chiedo che sia addirittura abolito questo premio, perché se un film riesce, l’utile verrà dal successo stesso. (Commenti Rumori).

PRESIDENTE. Non è questo l’argomento in discussione, onorevole Siles.

SILES. Comunque, penso che il Governo debba avere la maggioranza in questa Commissione.

PRESIDENTE. Dalle varie proposte fatte ritengo che si possa riassumere la situazione in questi termini: aumentare di uno la rappresentanza dei lavoratori; portare a due i rappresentanti degli industriali, di cui un produttore e un gestore.

Siccome queste modificazioni porterebbero uno squilibrio nei confronti dei rappresentanti dei Ministeri interessati (Presidenza del Consiglio dei Ministri, finanze e tesoro e pubblica istruzione) l’onorevole Malagugini proporrebbe che i rappresentanti del Governo fossero elevati da tre a quattro.

Si avrebbe, così, un Comitato composto di otto membri: vi sarebbe, quindi, la parità.

A questo proposito richiamo l’attenzione dell’Assemblea sui seguenti altri due emendamenti:

«Aggiungere il seguente n. 7:

7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici della stampa quotidiana designato dalla Federazione italiana della stampa».

Fuschini.

«Aggiungere il seguente n. 7:

7°) da due rappresentanti dei critici cinematografici della stampa quotidiana designati mediante elezione dalla Federazione italiana della stampa».

Nobile.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Elevando a quattro i rappresentanti dei Ministeri, il numero dispari dei componenti la Commissione è assicurato dal presidente, di cui al n. 1°) dell’articolo 13, che è il capo dell’Ufficio centrale della cinematografia.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Desidero sentire l’ultimo avviso del collega Vernocchi. Per quel che riguarda il numero pari, la questione si potrebbe risolvere dando al Presidente il voto prevalente; ma qui, oltre a questo problema, c’è quello imposto dagli altri emendamenti e potremmo tornare indietro e modificare il testo. Inoltre mi sembra che qui si voglia fare una Commissione troppo grande: c’è un rappresentante della categoria dei critici…

Una voce. E gli spettatori?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. e gli spettatori avrebbero pure diritto a dire la loro parola! (Si ride). L’onorevole Nobile vuole addirittura due rappresentanti dei critici: così facciamo addirittura un parlamento e la Commissione non potrà funzionare. Vorrei che gli onorevoli colleghi tenessero conto di queste difficoltà. Dopo di che potremo accettare la proposta di ammettere due rappresentanti dei lavoratori del cinema. Ma raggiunto questo, saremo da capo perché uno, due rappresentanti dei critici cinematografici, e magari un rappresentante del pubblico fanno sì che il Governo non ha più la maggioranza che deve avere, perché il Governo deve avere la possibilità di governare e cioè di decidere.

Bisognerebbe che formulassimo un articolo, concordandolo, che tenesse conto di queste considerazioni.

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Non vedo alcuna ragione perché facciano parte del Comitato tanti rappresentanti di Ministeri. Particolarmente mi domando che cosa vi stiano a fare i rappresentanti dei Ministeri delle finanze e del tesoro, i quali se dovranno esercitare il loro controllo tecnico lo faranno direttamente a mezzo dei propri uffici. Ma una rappresentanza di questi Ministeri in un Comitato che, secondo me, dovrebbe avere carattere esclusivamente tecnico e sindacale, dovendo fra l’altro giudicare delle qualità artistiche dei film, mi sembra veramente superfluo.

Mi sembra, invece utile, anzi necessaria, la presenza di un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione, mentre trovo che sia fuor di posto far intervenire nel Comitato anche un rappresentante del Ministero del commercio con l’estero.

Ritengo poi (e certamente sarà d’accordo con me anche l’onorevole Fuschini, assente) che i critici qui abbiano una funzione importante, anzi essenziale, trattandosi di giudicare se un film abbia o pure no valore artistico. Chi è che può dare questo giudizio? Gli spettatori senza dubbio, ma non è facile interpellarli. Bisogna, quindi, rimettersi ai critici cinematografici, dei quali ve ne sono di valentissimi. Ho proposto che essi siano designati dalla Federazione della Stampa mediante elezione. Ma qui preciso, a modificazione del mio emendamento, che la designazione dovrebbe essere fatta annualmente. A differenza dell’onorevole Fuschini, che si contenta di un sol critico, mi è sembrato opportuno che essi siano almeno due. L’esperienza quotidiana ci insegna che i giudizi dei critici cinematografici spesso non concordano; il giudizio di due dà perciò più affidamento di quello di uno solo.

Concludo affermando che in un Comitato che deve giudicare del valore artistico dei film, la presenza di critici cinematografici è assolutamente indispensabile.

PRESIDENTE. Al punto in cui è giunta la discussione penso che le proposte possano così riassumersi:

1°) che sia portato a quattro il numero dei rappresentanti dei Ministeri;

2°) che sia portato a due il numero dei rappresentanti dei lavoratori;

3°) che sia portato a due il numero dei rappresentanti, per intenderci, dei datori di lavoro, di cui uno rappresentante degli industriali e l’altro rappresentante dei gestori di sale.

Circa la questione relativa al numero pari dei componenti il Comitato si è fatto rilevare che poiché il Capo dell’ufficio centrale per la cinematografia, previsto nello stesso articolo 13, è presidente, potrebbe determinare col suo voto la decisione.

Ora, lasciando impregiudicati gli emendamenti aggiuntivi degli onorevoli Fuschini e Nobile, si potrebbe passare alla votazione delle proposte.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. L’onorevole Presidente ha accennato a quattro rappresentanti dei Ministeri. Di questi noi intendiamo che due rappresentanti siano designati dal Ministero della pubblica istruzione.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Io avrei preferito di attribuirne due al Ministero delle finanze e del tesoro. Comunque non intendo andare contro la proposta dell’onorevole Macrelli.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte dell’articolo 13:

«Ai fini dell’applicazione delle disposizioni contenute nei precedenti articoli 4, 5 e 7 è istituito un Comitato tecnico nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composto:

(È approvata).

Pongo in votazione il punto 1°):

«1°) dal capo dell’Ufficio centrale per la cinematografia, presidente»;

(È approvato).

Passiamo all’emendamento dell’onorevole Cappa di assegnare due rappresentanti al Ministero delle finanze e del tesoro, modificando in tal senso il punto 2°).

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Sono contrario alla proposta, mentre sono favorevole alla designazione di due rappresentanti da parte del Ministero della pubblica istruzione.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Sottosegretario di Stato di esprimere il suo parere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Non insisto.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Malagugini se insiste nella sua proposta di elevare a quattro i rappresentanti dei Ministeri.

MALAGUGINI. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Pongo allora in votazione il punto 2°) dell’articolo:

«2°) da un rappresentante del Ministero delle finanze e del tesoro».

(È approvato).

Pongo in votazione il punto 3°) che, con la modificazione che eleva da uno a due i rappresentanti del Ministero della pubblica istruzione proposta dall’onorevole Macrelli, risulta così formulato:

3°) da due rappresentanti del Ministero della pubblica istruzione;

(È approvato).

Avverto che il punto 4°), secondo quanto implicitamente ammesso in sede di discussione dell’articolo 12, va soppresso, in quanto il rappresentante del Ministero del commercio con l’estero è stato incluso nella Commissione prevista dallo stesso articolo 12. Se non vi sono osservazioni rimane così stabilito.

(Così rimane stabilito).

Al punto 5°), che diventa 4°), è stato proposto un emendamento sostituivo dagli onorevoli Proia e Giannini, cui ha aderito l’onorevole Corbi, e che è stato accettato dalla Commissione ma non dal Governo. L’emendamento è del seguente tenore:

«4°) da due rappresentanti dei lavoratori del cinema, designati dalla relativa organizzazione sindacale».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Al punto 6°), che diventa 5°), v’è l’emendamento Proia-Giannini che eleva a due i rappresentanti degli industriali. Poiché i proponenti mi hanno comunicato che non vi insistono, pongo in votazione il testo del progetto:

«5°) da un rappresentante degli industriali cinematografici designato dall’organizzazione sindacale dei produttori di film».

(È approvato).

Segue ancora un emendamento degli onorevoli Giannini e Proia del seguente tenore:

«6°) da un rappresentante dei gestori di sale cinematografiche designato dalla relativa organizzazione sindacale».

Lo pongo ai voti.

(È approvato).

Segue l’emendamento già svolto dell’onorevole Nobile, di aggiungere il seguente punto 7°), che lo stesso proponente ha così modificato:

«7°) da due rappresentanti dei critici cinematografici della stampa quotidiana designati annualmente mediante elezione dalla Federazione italiana della stampa».

Vi sarebbe anche l’emendamento dell’onorevole Fuschini che si aggiunga il seguente punto 7°):

«7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici della stampa quotidiana designato dalla Federazione italiana della stampa».

Poiché l’onorevole Fuschini è assente, la sua proposta di emendamento s’intende decaduta.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Dichiaro di far mia la proposta dell’onorevole Fuschini, assente, e rinunzio a illustrarla.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Sono contrario all’accoglimento di questi emendamenti, benché giornalista e critico cinematografico. Avevo deciso veramente di votare a favore degli emendamenti degli onorevoli Nobile e Fuschini; se non che i motivi dall’onorevole Nobile a favore esposti mi hanno fatto comprendere che l’inserimento dei rappresentanti della stampa nella Commissione dovrebbe dar luogo ad un esame artistico, il che costituisce un fondamentale errore. Io nego infatti a costoro la competenza di giudicare intorno all’arte di un film.

Posso, a mio disdoro – io che sono uno dei più vecchi, in questo campo – ricordare che mi rifiutai, a suo tempo, di fare la riduzione del film «Angeli senza paradiso», perché ritenevo che non avrebbe avuto alcun successo. Lo ebbe invece grandissimo: eppure io sono di quelli che, in fatto di critica cinematografica, sbagliano ben di rado. (Si ride).

Ho ragione, pertanto, di dire che quello che si propone è pericolosissimo, perché i critici appartengono ad una scuola e non c’è nessuno più settario di quelli che appartengono ad una scuola. Ma, a parte ciò, questo Comitato tecnico non deve dare un giudizio artistico, ma deve dare un giudizio sull’efficienza tecnica del film. In che cosa consiste questo giudizio? In primo luogo, nell’accertare se, ammesso che questo film abbia avuto, poniamo, un finanziamento di trenta, quaranta, cinquanta milioni, questi sono stati veramente spesi: e questo è il primo punto. Il secondo è di vedere se il film risponda o meno a quei requisiti elementari che ne garantiscano la dignità artistica.

Ma non può un Comitato sottrarre al pubblico il giudizio in materia artistica. Vi sono stati, a questo riguardo, degli errori storici formidabili nella cinematografia; citerò soltanto l’errore di Pirandello, il quale ebbe a dichiarare che la cinematografia parlata non avrebbe potuto avere mai fortuna. V’è stata, prima che i tedeschi e gli anglo-americani arrivassero a Roma, la fissazione del grande teatro di posa, senza del quale non si sarebbe mai potuti arrivare a fare un film e si sarebbe bocciato un film fatto tutto di esterni o fatto di interni, i quali poi hanno invece avuto un grande successo.

Noi non possiamo affidarci al criterio necessariamente settario di giornalisti i quali, per seguire una scuola, possono influire sul giudizio definitivo di un film, perché noi di questo Comitato, che è tecnico e che deve rimanere tecnico, non dobbiamo fare un tribunale estetico, un tribunale artistico, soprattutto perché questo tribunale noi lo respingiamo non solamente per l’arte del cinematografo, ma per tutte le arti.

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Mi rendo conto delle preoccupazioni manifestate dall’onorevole Giannini. Tuttavia l’articolo 7, che abbiamo approvato, stabilisce che il Comitato tecnico di cui si parla deve accertare se i film presentati abbiano oppure no i requisiti minimi di idoneità artistica. Chi è che giudica di questa idoneità? Certamente deve essere un intenditore di cinematografia, anzi di critica cinematografica. Tale non mi pare possa ritenersi il rappresentante delle Finanze. Se si stabilisse che il Ministero della pubblica istruzione debba scegliere i propri rappresentanti tra persone esperte di cinematografia, non avrei difficoltà a ritirare l’emendamento; ma se questa precisazione non si farà, lo manterrò; o tutto al più, in via subordinata, accederò all’emendamento Fuschini, aggiungendovi solo che l’unico rappresentante dei critici, di cui egli parla, debba essere annualmente designato mediante elezione dalla Federazione della Stampa.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Ritengo che debba essere approvato l’emendamento, perché si tratta non solo di stabilire quel famoso sei per cento di premio ai film più meritevoli, ma anche di stabilire le esclusioni, in base all’articolo 7, già approvato, che dice: «L’Ufficio centrale per la cinematografia, sentito il parere del Comitato tecnico di cui al seguente articolo 13, escluderà dal beneficio di cui al presente articolo i film sforniti dei requisiti minimi di idoneità tecnica, artistica e commerciale».

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Per abbreviare la discussione, accetto l’emendamento Fuschini, al quale si è associato l’onorevole Nobile, a condizione che il parere del critico cinematografico sia di carattere consultivo.

NOBILE. Accetto.

FOGAGNOLO. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Relatore?

VERNOCCHI, Relatore. Sono d’accordo.

PRESIDENTE. E del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo concorda.

MEDA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MEDA. Chiedo che si voti per divisione, lasciando ad una seconda votazione la questione del voto consultivo.

PRESIDENTE. L’emendamento Fuschini, fatto proprio dall’onorevole Fogagnolo, al quale ha aderito l’onorevole Nobile ritirando il suo, accettato dalla Commissione e dal Governo, dovrebbe essere del seguente tenore:

«7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici della stampa quotidiana designato annualmente mediante elezione dalla Federazione italiana della stampa, con voto consultivo».

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Toglierei le parole «della stampa quotidiana», perché vi sono ottimi critici che non appartengono alla stampa quotidiana. Direi pertanto: «Da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici designato annualmente dalla Federazione italiana della stampa con voto consultivo».

NOBILE. In luogo di: «designato», direi: «eletto».

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Osservo che il Comitato direttivo della Federazione della stampa non può eleggere, ma soltanto designare il proprio rappresentante.

NOBILE. Non insisto. Accetto però la proposta dell’onorevole Giannini di togliere le parole «della stampa quotidiana».

PRESIDENTE. Chiedo al Relatore e al Governo se accettano la proposta Giannini.

VERNOCCHI, Relatore. Accetto.

CAPPA, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Accetto anch’io.

PRESIDENTE. La formula sarebbe, in sostanza, la seguente:

«7°) da un rappresentante, con voto consultivo, della categoria dei critici cinematografici designato annualmente dalla Federazione italiana della stampa».

Si potrebbe anche, senza turbare l’euritmia dell’articolo, esprimere a parte, il concetto del voto consultivo, dicendo:

«7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici designato annualmente dalla Federazione italiana della stampa.

«Quest’ultimo avrà voto consultivo».

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Ritengo che conferire il voto semplicemente consultivo al rappresentante della stampa significa attribuire maggiore importanza a questo voto, in quanto il rappresentante della stampa ha una responsabilità maggiore, che può essere tenuta in conto dagli altri componenti del Comitato.

Il critico resti libero nel suo voto e vedrete che darà un giudizio, secondo me, molto più sereno. Avremo così una specie di controllo interno nel Comitato.

NOBILE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Mi associo alle considerazioni dell’onorevole Tonello.

PREZIOSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PREZIOSI. Non riesco a spiegarmi il ragionamento dell’onorevole Tonello, il quale afferma che il rappresentante della stampa deve avere voto consultivo. In effetti, vi è un Comitato composto di vari rappresentanti, ognuno dei quali, oserei dire, ha un interesse da affermare in senso buono. È indubbio, però, che ognuno dei rappresentanti deve affermare un certo punto di vista che, naturalmente, sarà dibattuto. È pertanto necessario che il rappresentante della stampa abbia voto deliberativo e non consultivo poiché, nel contrasto degli interessi, il rappresentante della stampa è forse l’unica voce libera e disinteressata. È proprio il rappresentante di quella larga corrente di opinione pubblica che viene a sostenere un certo punto di vista che deve essere affermato. Per questa ragione, a me pare che il rappresentante della stampa debba senz’altro avere voto deliberativo.

PRESIDENTE. Dobbiamo ora passare alla votazione dell’emendamento aggiuntivo che risulta del seguente tenore:

«7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici, designato annualmente dalla Federazione italiana della stampa.

«Quest’ultimo ha voto consultivo».

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. L’aggiunta «con voto consultivo», il cui fine io comprendo, non può essere votata da me per una ragione di carattere personale, che impegna me esclusivamente. Io sono il Presidente della Commissione unica nazionale per la tenuta dell’albo dei giornalisti e sono componente del Consiglio nazionale della Federazione della stampa. Non posso limitare la funzione dei giornalisti alla semplice consultazione. Voterò, quindi, contro.

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Dichiaro che voterò contro l’inciso «con voto consultivo». Ritengo che il rappresentante della stampa abbia, invece, il diritto di intervenire con voto deliberativo e il dovere di assumere quindi una responsabilità insieme ai rappresentanti delle varie organizzazioni o dei vari enti indicati all’articolo 13. Penso che il rappresentante vero, qualificato, per emettere un voto in materia sarebbe il rappresentante del pubblico italiano, di quello che paga, che va al cinema, di quello che sopporta i buoni e i cattivi film e che sovvenziona a mezzo dello Stato. Purtroppo però il pubblico non è rappresentato in queste Commissioni, ed allora, almeno attraverso i rappresentanti della stampa, si sappia che c’è qualcuno che porta la voce del gran pubblico italiano. Quindi io ritengo che il rappresentante dei critici debba avere non voto consultivo ma un voto deliberativo.

MEDA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MEDA. Ho proposto la votazione per divisione, in quanto ritengo che il rappresentante dei giornalisti debba essere parificata agli altri rappresentanti.

E dichiaro che voterò contro la proposta del «voto consultivo», perché un’affermazione di questo genere sarebbe offensiva alla dignità professionale dei giornalisti.

GIANNINI. Protesto, non è vero.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte dell’emendamento:

«7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici, designato annualmente dalla Federazione italiana della stampa».

(È approvata).

Passiamo alla seconda parte:

«Quest’ultimo ha voto consultivo».

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Non v’è nessuna offesa ai giornalisti nella proposta del voto consultivo, perché, come benissimo ha detto l’onorevole Tonello, il giornalista deve esprimere un giudizio sul film, sulla costruzione tecnica, sul contenuto artistico, sul soggetto, sulla sceneggiatura.

Dal momento in cui questo giornalista ha dato al Comitato il suo giudizio, egli è vincolato, non ha più la possibilità di poterlo correggere, perché la funzione del critico cinematografico, come quella del critico drammatico, non è la funzione del critico letterario o del critico d’arte, il quale legge da solo un romanzo ed esprime il suo parere.

Il critico drammatico o il critico cinematografico dà il suo giudizio influenzato dal pubblico (Interruzioni Commenti); ma sì, il pubblico completa lo spettacolo. L’opera d’arte rappresentativa, finché è scritta, è teoria. Difatti, noi leggiamo la produzione teatrale di Alessandro Manzoni, gloria italiana; leggendo, sentiamo che è cosa stupenda.

Ebbene, dieci volte si è messo in scena l’«Adelchi», dieci volte è caduto.

Di fronte all’opera d’arte, teatrale o cinematografica, finché è scritta e vista nell’intimità, nella prova, nella sala riservata ad un pubblico ristretto, il critico ha una funzione relativa, perché il suo giudizio è completamente personale. In questo caso non si differenzia affatto dal giudizio del rappresentante delle Belle arti o dell’operaio, dell’industriale, dell’esercente.

Il critico pronunzia un giudizio completo, sommando tutte le reazioni del pubblico, in mezzo al quale ha visto l’opera d’arte. Alle volte egli si pone contro la maggioranza di questo pubblico, qualora vi sia deviazione verso il cattivo gusto. Insomma, egli esprime il suo giudizio sull’opera rappresentata.

Il film passa a questo ufficio tecnico semplicemente per avere una consacrazione industriale.

ANDREOTTI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI. Voterò a favore del «voto consultivo», pur non intendendo affatto recare offesa o scortesia ai colleghi critici cinematografici.

PROIA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PROIA. Mi associo alla dichiarazione dell’onorevole Andreotti.

NOBILE. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILE. Voterò per il «voto consultivo», intendendo che con ciò in nessun modo si diminuisce il prestigio del rappresentante dei critici. Anzi il voto di questi, non confondendosi con quello degli altri, e rimanendo da essi isolato e distaccato, viene messo maggiormente in rilievo. E sarà ben difficile che, senza motivazioni serie, il Comitato non ne tenga il debito conto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la seconda parte dell’emendamento:

«Quest’ultimo ha voto consultivo».

(È approvata).

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Bisogna determinare la durata in carica di questo Comitato; quindi presento un emendamento del seguente tenore: «Il Comitato sarà rinnovato annualmente». Potrebbe essere rinnovato anche ogni biennio. Occorre comunque la fissazione di un termine, non potendosi supporre la durata della nomina a tempo indeterminato.

PRESIDENTE. Chiedo il parere del Relatore.

VERNOCCHI, Relatore. Sono d’accordo. La rinnovazione dovrebbe avvenire per lo meno ogni due anni.

TONELLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TONELLO. Propongo che la rinnovazione abbia luogo ogni cinque anni.

BUBBIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. Mi associo al Relatore nel chiedere che il Comitato sia rinnovato ogni due anni.

PRESIDENTE. Onorevole Tonello, insiste nella sua proposta?

TONELLO. Non insisto.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. In seguito alle proposte approvate, il Comitato tecnico risulta di un numero pari di componenti, ossia di otto, a cui bisogna aggiungere il rappresentante dei critici, che ha soltanto voto consultivo. Bisogna, pertanto, aggiungere che in caso di parità di voto, avrà la prevalenza quello del Presidente.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Mi associo alla proposta dell’onorevole Sottosegretario Cappa.

MOLINELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MOLINELLI. Propongo la seguente formula:

«Il Comitato tecnico decide a maggioranza di voti. In caso di parità prevale il voto del Presidente.

«Il Comitato dura in carica due anni».

PRESIDENTE. Chiedo al Relatore e al Governo se accettano questa formula.

VERNOCCHI, Relatore. La Commissione accetta la proposta.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. II Governo è d’accordo.

PRESIDENTE. La pongo in votazione.

(È approvata).

L’articolo 13 resta, pertanto, nel suo complesso, così approvato:

«Ai fini dell’applicazione delle disposizioni contenute nei precedenti articoli 4, 5 e 7, è istituito un Comitato tecnico nominato dal Presidente del Consiglio dei Ministri, e composto:

1°) dal capo dell’ufficio centrale per la cinematografia, presidente;

2°) da un rappresentante del Ministero delle finanze e del tesoro;

3°) da due rappresentanti del Ministero della pubblica istruzione;

4°) da due rappresentanti dei lavoratori del cinema designati dalla relativa organizzazione sindacale;

5°) da un rappresentante degli industriali cinematografici designato dall’organizzazione sindacale dei produttori di film;

6°) da un rappresentante dei gestori di sale cinematografiche designato dalla relativa associazione sindacale;

7°) da un rappresentante della categoria dei critici cinematografici designato annualmente dalla Federazione italiana della stampa.

«Quest’ultimo ha voto consultivo.

«Il Comitato tecnico decide a maggioranza di voti. In caso di parità, prevale il voto del Presidente.

Il Comitato dura in carica due anni».

Passiamo all’articolo 14:

«Il nulla osta per la proiezione in pubblico dei film e per l’esportazione è concesso dall’Ufficio centrale per la cinematografia, previa revisione dei film stessi da parte di speciali Commissioni di primo e secondo grado, secondo le norme del regolamento annesso al regio decreto 24 settembre 1923, n. 3287.

«È in facoltà del produttore di sottoporre la sceneggiatura alla preventiva approvazione dell’ufficio centrale per la cinematografia.

«Le Commissioni di primo grado per la revisione cinematografica sono così composte:

  1. a) da un funzionario dell’Ufficio centrale per la cinematografia, presidente;
  2. b) da un magistrato dell’Ordine giudiziario;
  3. c) da un rappresentante del Ministero dell’interno.

«La Commissione di revisione cinematografica di secondo grado è composta:

  1. a) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, o, per sua delega, dal capo dell’ufficio centrale per la cinematografia, presidente;
  2. b) da un magistrato dell’Ordine giudiziario;
  3. c) da un rappresentante del Ministero dell’interno.

«Le Commissioni suddette sono nominate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri».

Chiedo all’onorevole Fogagnolo, che ha proposto di sopprimere l’intero articolo, se vi insiste.

FOGAGNOLO. Non vi insisto.

PRESIDENTE. Pongo in votazione i primi due commi, per i quali non sono stati presentati emendamenti:

«Il nulla osta per la proiezione in pubblico dei film e per l’esportazione è concesso dall’Ufficio centrale per la cinematografia, previa revisione dei film stessi da parte di speciali Commissioni di primo e secondo grado, secondo le norme del regolamento annesso al regio decreto 24 settembre 1923, n. 3287.

«È in facoltà del produttore di sottoporre la sceneggiatura alla preventiva approvazione dell’Ufficio centrale per la cinematografia».

(Sono approvati).

PRESIDENTE. Al terzo comma gli onorevoli Macrelli, Avanzini, Nasi, Bernini, Lussu, Sardiello, Cianca, Bocconi, Giua e Balduzzi hanno presentato il seguente emendamento:

«Alle parole: Le Commissioni di primo grado per la revisione cinematografica sono così composte, sostituire: La Commissione di primo grado per la revisione cinematografica è così composta».

MACRELLI. Dopo le spiegazioni date dal Relatore lo ritiro.

PRESIDENTE. L’onorevole Di Vittorio ha presentato il seguente emendamento:

«Dopo la lettera c) aggiungere:

  1. d) da un rappresentante dell’organizzazione sindacale dei lavoratori».

Non essendo presente, si intende che vi abbia rinunciato.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Faccio mio l’emendamento Di Vittorio, assente, ma poiché v’è un altro emendamento, proposto dagli onorevoli Macrelli, Avanzini ed altri, rinunzierei se il collega Macrelli accettasse,che al posto del rappresentante di associazioni culturali, che egli propone, venisse invece incluso il rappresentante dell’organizzazione sindacale dei lavoratori.

PROIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PROIA. Io debbo dire che, se l’Assemblea accetterà l’emendamento Di Vittorio, io proporrò che sia incluso anche un rappresentante degli industriali del cinema e dello spettacolo.

PRESIDENTE. L’emendamento presentato dagli onorevoli Macrelli, Avanzini, Nasi, Bernini, Lussu, Sardiello, Cianca, Bocconi, Giua e Balduzzi, cui ha fatto cenno l’onorevole Corbi, è del seguente tenore:

«Dopo la lettera c) del terzo comma, aggiungere le seguenti:

  1. d) da un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione (Direzione delle Belle arti);
  2. e) da un rappresentante di associazioni culturali».

MACRELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Ho sentito quanto ha detto l’onorevole Corbi. Avrei già per conto mio ritirato l’emendamento riguardante la lettera e), perché è difficile poter stabilire quali associazioni abbiano diritto ad una rappresentanza. Accetto, pertanto, la proposta dell’onorevole Corbi, nel senso di sostituire al rappresentante di associazioni culturali il rappresentante dell’organizzazione sindacale dei lavoratori.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Debbo pregare, insistentemente, i presentatori di emendamenti all’articolo 14, di ritirarli, perché l’articolo 14 è perfetto così com’è formulato. I presentatori di emendamenti sono in errore, in quante credono che le Commissioni di censura debbano pronunciare un giudizio estetico. Ma questo giudizio estetico è stato già pronunciato dal Comitato tecnico, che ammette o no il film. (Approvazioni). È inutile ed assurdo che tali Commissioni si pronuncino in questo campo, perché esse devono esaminare il film soltanto alla stregua delle vigenti norme di polizia. Così noi aboliremo la terribile censura fascista che era estetica ed intellettuale, per cui si poteva proibire un film soltanto perché in esso si parlava di qualcosa di non gradito a qualcuno. Ricordo che in tal modo il grande film tedesco Metropolis fu proibito per ragioni estetiche, perché il tribunale della censura fascista ravvisò nel film idee che in Italia non dovevano circolare. Con lo stesso criterio fu proibito anche Rien de nouveau à l’ouest che era pure un gran film. Non dobbiamo ricadere in questi errori. Abbiamo già un Comitato tecnico con rappresentanti di tutte le categorie, degli esercenti, degli industriali, dei lavoratori e della stampa cinematografica.

Per queste ragioni la censura si deve limitare a fare la censura, affinché il film non passi sotto varî tribunali estetici, ciò che speravamo che fosse una buona volta finito. Quindi prego gli onorevoli colleghi di non insistere negli emendamenti, perché la formulazione del progetto è veramente perfetta.

PRESIDENTE. L’onorevole Relatore ha facoltà di esprimere il sito parere.

VERNOCCHI, Relatore. Io sono d’accordo con l’onorevole Giannini. Quando, in sede di Sottocommissione, abbiamo studiato quest’articolo 14 abbiamo dato un significato a queste Commissioni di censura esclusivamente ai fini di una legge di pubblica sicurezza e del Codice penale, e niente altro; non ai fini artistici.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Governo?

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Osservo che le Commissioni per la revisione cinematografica hanno molto da lavorare. Accogliendo l’emendamento, aumenteremmo il numero dei loro componenti, rendendo più difficile il loro compito. Mi associo, pertanto, alle considerazioni dell’onorevole Giannini e dell’onorevole Relatore.

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, ella insiste nel suo emendamento?

MACRELLI. Mi permetto di osservare, per una questione di principio, che è strano come proprio dagli onorevoli Giannini e Vernocchi siano venute simili osservazioni. Dal banco del Relatore anzi è venuto un riferimento al Codice penale ed alla legge di pubblica sicurezza. È proprio perché si tratta di Codice penale e di legge di pubblica sicurezza che noi vogliamo delle garanzie sicure e precise, altrimenti potremmo mettere anche degli avvocati, che sono i più qualificati, mi pare, per decidere se vi sia una violazione di norme penali. Invece, si tratta di una norma superiore, starei per dire, anche a quella penale. Se dovessimo fare la storia dell’arte trascinata davanti al magistrato, potremmo parlare e discutere a lungo. Si è fatta della polemica, anche in questi giorni – questo non è tema di cui ci dobbiamo occupare oggi – ma voi avete sentito, se non erro, che proprio recentemente si sono sequestrati dei volumi che costituiscono una gloria per la letteratura italiana e per la letteratura straniera e tutto ciò in omaggio al Codice penale ed alla legge di pubblica sicurezza. Ora, si potrebbero ripetere gli stessi errori anche per i film. È proprio per questa ragione di principio che mantengo il mio emendamento.

GIANNINI. Non è esatto, è il tribunale estetico che ci fa proibire «Madame Bovary», la questura non fa che eseguire.

PROIA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PROIA. Desidero ricordare che in caso di accettazione dell’emendamento Macrelli, con la inclusione di un rappresentante dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, proporrò che sia incluso anche un rappresentante degli industriali cinematografici,

CIMENTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CIMENTI. Poiché questa Commissione ha una funzione soltanto di revisione, io mi domando: la funzione del rappresentante della classe operaia e del rappresentante della classe industriale quale sarebbe? Se mai, chi può avere interesse perché questi film non abbiano a creare uno scandalo, sono i genitori: è il padre ed è la madre di famiglia che debbono tutelare questo principio.

CORBI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CORBI. Insisto nella proposta, accettata dall’onorevole Macrelli, di includere nelle Commissioni di revisione un rappresentante dell’organizzazione sindacale dei lavoratori, in modo da stabilire un criterio di rappresentanza democratica, proprio là dove se ne avverte una necessità; e ciò sia in considerazione delle vicende passate, che recenti.

Non siamo, peraltro, contrari alla proposta, dell’onorevole Proia.

PRESIDENTE. Passiamo allora alla votazione dell’emendamento degli onorevoli Macrelli, Avanzini e altri, così modificato dopo le proposte degli onorevoli Corbi e Proia:

«Dopo la lettera c) del terzo comma, aggiungere le seguenti:

  1. d) da un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione (Direzione delle Belle arti);
  2. e) da un rappresentante della organizzazione sindacale dei lavoratori;
  3. f) da un rappresentante della organizzazione degli industriali».

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Dichiaro che voterò a favore, in quanto, se fosse respinto questo emendamento, potremmo correre il rischio che il Comitato tecnico fissi i premi e la Commissione di revisione possa trovare dei membri che respingono un film già premiato dal Comitato tecnico. Quindi ritengo doveroso ed indispensabile che questo emendamento sia approvato.

Noi dobbiamo avere, in seno alla Commissione di revisione, un rappresentante dei lavoratori e un rappresentante degli industriali, per evitare che questa Commissione possa, con un colpo di maggioranza, togliere il visto della censura ad un film che è stato già approvato dal Comitato tecnico.

VERNOCCHI, Relatore. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VERNOCCHI, Relatore. Io credevo che l’amico Fogagnolo, dopo il suo ragionamento, sarebbe pervenuto precisamente alle conclusioni opposte, perché altrimenti noi, istituendo le Commissioni di censura cogli stessi elementi delle altre Commissioni, corriamo il rischio di ripetere il giudizio già dato dal Comitato previsto dall’articolo 13 e allora potremmo avere delle sorprese: potremmo avere, cioè, un giudizio modificatore od annullatore di quello espresso dalla sola Commissione competente che è quella istituita dall’articolo 13. Occorre invece limitare la Commissione a questi tre funzionari dello Stato che hanno un compito preciso molto chiaro che è solo di censura.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento al terzo comma testé letto.

(Non è approvato).

Pongo in votazione il terzo comma nel testo della Commissione:

«Le Commissioni di primo grado per la revisione cinematografica sono così composte:

  1. a) da un funzionario dell’Ufficio centrale per la cinematografia, presidente;
  2. b) da un magistrato dell’Ordine giudiziario;
  3. c) da un rappresentante del Ministero dell’interno».

(È approvato).

Passiamo al quarto comma:

«La Commissione di revisione cinematografica di secondo grado è composta:

  1. a) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri, o, per sua delega, dal capo dell’ufficio centrale per la cinematografia, presidente;
  2. b) da un magistrato dell’Ordine giudiziario;
  3. c) da un rappresentante del Ministero dell’interno».

Gli onorevoli Macrelli, Lussu, Bernini, Nasi, Bocconi, Avanzini, Balduzzi, Giua, Sardiello e Cianca hanno proposto il seguente emendamento:

«Dopo la lettera c) del quarto comma, aggiungere le seguenti:

  1. d) da un rappresentante del Ministero della pubblica istruzione (Direzione delle Belle arti);
  2. e) da un rappresentante di associazioni culturali».

Onorevole Macrelli, lo mantiene?

MACRELLI. Lo mantengo, avvertendo che al rappresentante di associazioni culturali deve sostituirsi il rappresentante dell’organizzazione sindacale dei lavoratori.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento così modificato.

(Non è approvato).

Pongo in votazione il quarto comma nel testo della Commissione.

(È approvato).

Pongo in votazione il quinto comma:

«Le Commissioni suddette sono nominate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri».

(È approvato).

L’articolo 14 risulta, pertanto, approvato nel testo della Commissione:

«Il nulla osta per la proiezione in pubblico dei film e per l’esportazione è concesso dall’ufficio centrale per la cinematografia, previa revisione dei film stessi da parte di speciali Commissioni di primo e secondo grado, secondo le norme del regolamento annesso al regio decreto 24 settembre 1923, n. 3287.

«È in facoltà del produttore di sottoporre la sceneggiatura alla preventiva approvazione dell’ufficio centrale per la cinematografia.

«Le Commissioni di primo grado per la revisione cinematografica sono così composte:

  1. a) da un funzionario dell’ufficio centrale per la cinematografia, presidente;
  2. b) da un magistrato dell’Ordine giudiziario;
  3. c) da un rappresentante del Ministero dell’interno.

«La Commissione di revisione cinematografica di secondo grado è composta:

  1. a) dal Sottosegretario di Stato alla Presidenza dei Consiglio dei Ministri, o, per sua delega, dal capo dell’Ufficio centrale per la cinematografia, presidente;
  2. b) da un magistrato dell’Ordine giudiziario;
  3. e) da un rappresentante del Ministero dell’interno.

«Le Commissioni suddette sono nominate con decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

Passiamo all’articolo 15:

«Il Ministro delle finanze e del tesoro è autorizzato ad apportare con propri decreti le variazioni di bilancio occorrenti per l’attuazione della presente legge».

Onorevole Fogagnolo, ella mantiene la proposta di sopprimerlo?

FOGAGNOLO. Rinunzio, come pure rinunzio alla proposta di soppressione degli articoli 16 e 17.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 15.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 16:

«Con successivo decreto saranno stabilite le norme relative al personale dell’Ufficio centrale per la cinematografia».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Passiamo all’articolo 17:

«Restano in vigore le norme del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 678, in quanto non contrastino con quelle contenute nella presente legge.

«Per l’attuazione di quanto previsto nell’articolo 6, comma secondo, del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 678, valgono le norme della presente legge».

Lo pongo in votazione.

(È approvato).

Gli onorevoli Malagugini, Corbi, Andreotti, Balduzzi, Giannini, Siles, Proia hanno proposto la seguente disposizione transitoria:

«Fino al 30 giugno 1948 i film nazionali di attualità continueranno ad avere il contributo pari al tre per cento dell’introito lordo degli spettacoli nei quali i film, suddetti saranno stati proiettati per un periodo di non oltre sei mesi dalla prima proiezione un pubblico, a norma del decreto legislativo luogotenenziale 5 ottobre 1945, n. 678.

SCALFARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCALFARO. Mi permetto di osservare che questa proposta è antigiuridica, perché non si può parlare di vacanza della legge, in quanto che la vacanza della legge deve essere identica per tutti gli articoli e non per uno solo. Ma non si può parlare nemmeno di norma transitoria, perché le norme transitorie sono fatte per una disposizione precedente, e vengono ad adeguarsi ad una situazione successiva secondo le disposizioni di legge. Non possiamo, modificando l’articolo 5, stabilire una percentuale del 3 percento. In sostanza l’Assemblea intende modificare la precedente disposizione, cioè abrogarla temporaneamente. La disposizione transitoria diventa in questo caso abrogazione, la quale è contraria al concetto stesso della disposizione transitoria.

PRESIDENTE. Onorevole Scalfaro, la disposizione transitoria proposta, a mio parere, non ha quel valore sostitutivo e quindi contraddittorio al quale ella si è richiamata, ma ha soltanto un valore di coordinamento per poter andare, senza fratture, all’applicazione dal vecchio al nuovo.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Il quesito prospettato dall’onorevole Scalfaro risponde ad un dubbio che si è affacciato anche a me e per il quale ho fatto appello ai giuristi. Essi mi hanno tranquillizzato assicurandomi che la contraddizione non esiste e che Comunque è sanata dalla temporaneità della disposizione.

SCALFARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCALFARO. Io so quali sono le ragioni per cui tutti i settori si son fatti carico di poter arrivare ad una disposizione che cerchi d’impedire quello che è stato chiamato un errore. Ma non si può giungere ad un aggiustamento attraverso una formula, per me, antigiuridica. E credo che questo parere non sia solo il mio.

PRESIDENTE. L’Assemblea ha appreso le ragioni addotte dall’onorevole Scalfaro, che sono di ordine tecnico-giuridico, contro la disposizione transitoria. La deliberazione che l’Assemblea prende deve avere un contenuto di grande serietà. È stata detta ex adverso la ragione per la quale l’obiezione dell’onorevole Scalfaro può essere superata: cioè il carattere di temporaneità a cui risponde questa disposizione transitoria.

FOGAGNOLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOGAGNOLO. Credo che possiamo votare tranquillamente questa aggiunta, perché la disposizione non fa altro che ritardare fino al 30 giugno 1948 la legge che abbiamo approvata e mantiene in vigore transitoriamente la legge precedente fino al 30 giugno 1948.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la disposizione transitoria testé letta, che diventa articolo 18.

(Dopo prova, e controprova, è approvata).

L’onorevole Fogagnolo ha proposto il seguente articolo aggiuntivo:

«Con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri sarà nominato un Comitato parlamentare cui sia affidato l’esame di tutto il problema cinematografico italiano, in relazione anche alle attività svolte da Enti cui sono legati interessi patrimoniali dello Stato. Detto Comitato presenterà all’Assemblea Costituente le sue proposte di un provvedimento legislativo dell’ordinamento dell’industria cinematografica nazionale».

Onorevole Fogagnolo, lo mantiene?

FOGAGNOLO. Lo ritiro.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Richiamo l’attenzione dei colleghi, specialmente di quelli che se ne sono particolarmente occupati, su una incongruenza nella quale siamo incorsi. All’articolo 8 abbiamo detto: «Il programma di ciascun spettacolo dovrà comprendere la proiezione di almeno un film a cortometraggio (documentario o attualità) di produzione nazionale». Il programma di ciascuno spettacolo: cioè in tutti i 365 giorni dell’anno. Ma questo è in contrasto col secondo comma dell’articolo 7 che dice: «Eguale trattamento viene riservato ai film nazionali documentari o di attualità che siano stati ammessi al beneficio di cui al precedente articolo 5». In base a questo comma la proiezione del cortometraggio di produzione italiana è resa obbligatoria. La contraddizione mi pare evidente.

PRESIDENTE. Quale è il parere del Relatore?

VERNOCCHI, Relatore. La disposizione dell’articolo 8 è in relazione all’articolo 7: non vi è contrasto.

PRESIDENTE. Onorevole. Malagugini, lei insiste?

MALAGUGINI. Ho creduto semplicemente far presenti questi miei dubbi, per scrupolo di coscienza.

PRESIDENTE. L’onorevole Bubbio ha presentato il seguente ordine del giorno, già svolto:

«L’Assemblea,

ritenuto che, ad evitare centralizzazioni, fonte di spese e di ritardi, sia opportuno demandare a speciali Commissioni regionali tecniche l’esame delle domande di costruzione e di apertura di nuove sale cinematografiche, di cui alla legge 30 novembre 1939, n. 2100, fa voti perché il Governo provveda alla soppressione della Commissione tecnica centrale ed alla istituzione di Commissioni di carattere regionale».

Onorevole Bubbio, ella insiste nel suo ordine del giorno?

BUBBIO. Devo insistere per una ragione che ritengo essenziale. Si sono create diverse Commissioni che sono certamente importanti dal profilo artistico, censorio, ecc. Ma occorre ricordare che esiste ancora un’altra Commissione che deve decidere sull’apertura o meno delle sale cinematografiche. Questa disposizione è contenuta nel decreto 29 novembre 1939, n. 2100, e prevede una Commissione composta dal direttore generale della cinematografia, da un funzionario del gruppo A, da tre tecnici designati dal Ministero dei lavori pubblici, e da un rappresentante dell’Associazione nazionale dei lavoratori industriali. Tutto questo per poter fare aprire nel più piccolo comune un cinematografo. Si può comprendere la necessità che esistano delle disposizioni generali che determinano le condizioni cui devono rispondere le sale cinematografiche per ottenere il permesso di apertura, ma non mi sembra che occorra l’intervento di questo pletorico organismo, di volta in volta, quando si tratti di una parrocchia o della Camera del lavoro, od anche di un privato che chieda di aprire un cinematografo in un piccolo comune. È per questo motivo che chiedo che una volta che il Ministero ha determinato in linea tecnica, e cioè in linea di edilizia, di igiene, di polizia, ecc., i requisiti cui devono rispondere le sale cinematografiche, l’applicazione pratica in rapporto alle domande di apertura debba essere fatta da una piccola Commissione di carattere regionale o provinciale che possa decidere sull’approvazione o meno della domanda presentata. Ho sentito che il Relatore nell’ultima seduta si opponeva all’accoglimento della richiesta inquantoché riteneva che essa comportasse un aggravio di spesa. Non è questo il caso, perché la Commissione centrale costa in quanto deve pronunziarsi su tutte quante le domande dei comuni d’Italia, mentre invece la Commissione di carattere locale non avrebbe compiti così vasti e complessi e potrebbe anzi non importare alcuna spesa perché sarebbe sufficiente che di essa facessero parte i rappresentanti del Genio civile e della Prefettura e di qualche altro organismo economico. Verrebbero quindi ad essere superate le difficoltà di carattere finanziario.

C’è un ultimo elemento che voglio aggiungere ed è questo: l’onorevole Relatore ha sentito il dovere di dire che temeva che questa Commissione potesse nei singoli centri essere influenzata da ragioni di parte. Ma anche al centro può capitare lo stesso fatto; e d’altronde queste Commissioni locali sono obbligate a seguire le direttive centrali, e se non le applicano, il privato ha il diritto di ricorrere alla superiore autorità gerarchica ed anche in sede giurisdizionale, con sicura garanzia politica e giuridica che queste influenze non possano esplicarsi contrariamente al diritto od al legittimo interesse del richiedente.

Vi è infine ancora un’altra ragione: tutti i giorni diciamo qui e fuori che la burocrazia ci soffoca, che c’è un eccesso di impiegati, che le pratiche non vanno avanti. Bisogna decentrare. Cominciamo quindi da questo caso!

PRESIDENTE. Chiedo alla Commissione e al Governo di esprimere il rispettivo parere su questo ordine del giorno.

VERNOCCHI, Relatore. L’accetto come raccomandazione; però insisto nel riaffermare quanto ho precedentemente detto.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Mi pare inutile osservare che invece di una Commissione se ne avrebbero novanta. Comunque la questione sarà studiata e, quindi, accetto l’ordine del giorno come raccomandazione.

PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Bubbio se accetta di trasformare il suo ordine del giorno in raccomandazione.

BUBBIO Accetto.

PRESIDENTE. Sta bene. Data l’ora tarda ritengo opportuno rinviare la votazione segreta sul complesso del disegno di legge alla seduta pomeridiana. Se non vi sono osservazioni rimarrà così stabilito.

(Così rimane stabilito).

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate alcune interrogazioni con richiesta di risposta urgente. La prima è quella dell’onorevole Angelini:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro della difesa. Il 12 agosto 1944 i tedeschi trucidarono in Sant’Anna di Versilia 580 persone le cui salme giacciono ancora insepolte nelle vie e nelle piazzette deserte del villaggio. Il 19 agosto successivo un altro eccidio si abbatté su San Terenzio Monti, ed altre 165 persone vennero ivi trucidate. Anche queste salme non hanno trovato ancora sepoltura. Malgrado ogni richiesta ed ogni sollecitazione non è stato possibile, a tre anni di distanza da tanto martirio, realizzare il doveroso intervento dello Stato per dare alle salme degna ed onorata sepoltura. I trucidati erano quasi tutti innocenti donne e bambini: i loro parroci, subirono lo stesso, comune sacrificio! Chiedo quali urgentissimi provvedimenti il Governo intenda finalmente adottare per un deciso immediato intervento che serva a dare riposo ed onoranze alle salme delle vittime».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di fare esaminare l’interrogazione da competenti uffici e di precisare quindi quando potrà esservi data risposta.

ANGELINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANGELINI. Insisto perché la cosa sia portata all’Assemblea. Si tratta di risolvere un problema che è stato già risolto a Roma per i trucidati dello Fosse Ardeatine.

A Sant’Anna di Versilia 580 trucidati, di cui il 50 per cento donne e il 35 per cento bambini non hanno avuto ancora onorata sepoltura. A San Terenzio Monti vi sono 165 trucidati e non si è fatto niente per dare degne sepolture e onoranze. Si è promesso di dare denaro e nulla è stato dato. Quale cosa più urgente vi può essere? Io insisto perché si prenda una posizione precisa. Il paese di Sant’Anna è deserto, nessuno può tornarvi fino a che questo grave problema non sia risolto.

PRESIDENTE. Assicuro l’interessamento della Presidenza dell’Assemblea per ottenere una sollecita risposta dal Governo, da darsi possibilmente nella seduta di lunedì mattina, che sarà dedicata alle interrogazioni urgenti.

Comunico il testo di un’altra interrogazione presentata con richiesta di urgenza:

«Ai Ministri degli affari esteri e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere con quali criteri siano stati scelti i primi contingenti di emigranti da inviarsi in Argentina, quando risulta che tra quelli per cui si è disposto il rilascio dei passaporti – per quanto riguarda particolarmente la regione emiliana – nessuno figura iscritto agli Uffici di collocamento delle Camere del lavoro e agli stessi Uffici provinciali del lavoro. È noto, invece, che per le condizioni di grave disagio, dalla forte disoccupazione create in Emilia, decine di migliaia di lavoratori disoccupati hanno chiesto e attendono di emigrare in Argentina. «Poiché è evidente che il metodo seguito nel reclutamento della mano d’opera, per il quale non si è tenuto conto degli accordi intervenuti tra il Governo argentino e il nostro Governo, provoca viva esasperazione tra tutti coloro che aspirano ad emigrare e crea sfiducia negli stessi organi prescelti dai due Stati per il reclutamento dei lavoratori, gli interroganti chiedono quali provvedimenti intendano prendere i due Ministeri interessati, ad evitare che il procedimento ora seguito determini sfiducia e provochi agitazioni tra le masse dei disoccupati.

«Verenin Grazia, Carmagnola, Mariani Francesco».

Chiedo al Governo di comunicare quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di precisare quando potrà rispondere a questa interrogazione.

CAMPOSARCUNO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà,

CAMPOSARCUNO. Vorrei sollecitare una risposta ad una mia interrogazione urgente, presentata circa un mese fa riguardante il fiume Biferno. Si tratta di un problema che interessa un’intera regione.

PRESIDENTE. Assicuro l’onorevole Camposarcuno che la Presidenza dell’Assemblea solleciterà la risposta.

È stata infine presentata la seguente altra interrogazione con richiesta di urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e all’Alto Commissario per l’alimentazione, in ordine alla recente scoperta di ingentissimi contrabbandi di grano e riso a favore di uno Stato straniero.

«Meda Luigi, Castelli Edgardo, Scalfaro».

Chiedo al Governo di comunicare quando intenda rispondere.

CAPPA, Sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo si riserva di precisare quando potrà rispondere a questa interrogazione.

La seduta termina alle 13.30.

GIOVEDÌ 8 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CXVI.

SEDUTA DI GIOVEDÌ 8 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

 

INDICE

Congedi:

Presidente                                                                                                        

Comunicazioni al Presidente:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Taviani                                                                                                             

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                       

Zotta                                                                                                                

Gabrieli                                                                                                            

Foa                                                                                                                    

Medi                                                                                                                  

Nobili Tito Oro                                                                                                

Dominedò                                                                                                         

Lucifero                                                                                                           

Zuccarini                                                                                                         

Villani                                                                                                             

Romano                                                                                                              

Nobile                                                                                                               

Morini                                                                                                              

Federici Maria                                                                                                 

De Maria                                                                                                          

Bosco Lucarelli                                                                                              

Benvenuti                                                                                                        

Mortati                                                                                                            

Nitti                                                                                                                  

Ruggiero Carlo                                                                                               

Bubbio                                                                                                              

Cortese                                                                                                            

Fanfani                                                                                                             

Giannini                                                                                                            

Musolino                                                                                                          

Einaudi                                                                                                             

Canevari                                                                                                          

Cappa                                                                                                                

Laconi                                                                                                              

D’Aragona                                                                                                       

Codacci Pisanelli                                                                                            

Ruini, Presidente della Commissione per la Costituzione                                      

Martino Gaetano                                                                                            

Maffi                                                                                                                

Malagugini                                                                                                      

Cingolani                                                                                                         

Togliatti                                                                                                          

Gronchi                                                                                                            

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 15.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Hanno chiesto congedo gli onorevoli Caso, Tremelloni e Lazzati.

(Sono concessi).

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Giolitti, dimissionario, ho chiamato a far parte della seconda Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge l’onorevole Di Vittorio.

Risposta dell’Assemblea Costituente cecoslovacca al messaggio della Costituente italiana.

PRESIDENTE. Il Presidente dell’Assemblea Costituente cecoslovacca, onorevole Giuseppe David, ha risposto al messaggio che gli ho indirizzato a nome della nostra Assemblea «augurando al popolo italiano, dopo tanti anni di dolori e di sofferenze causati dalla guerra, una rapida rinascita e la gioia di vivere in pace, consacrando i suoi sforzi alla ricostruzione del bel paese d’Italia». «Io vi assicuro – conclude il Presidente David – che l’Assemblea nazionale costituente cecoslovacca e in particolare le sue Commissioni competenti seguiranno con tutta la loro attenzione e la più grande simpatia lo slancio e il destino del popolo italiano». (Vivissimi, generali applausi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Ieri l’onorevole Cairo ha svolto il seguente articolo aggiuntivo proposto insieme con l’onorevole Tremelloni:

«Premettere all’articolo 30 il seguente:

«Allo Stato compete la rilevazione costante e tempestiva dei dati riferentisi alla vita economica della Repubblica. Esso provvede a diffonderne la conoscenza».

Debbo ora porlo in votazione.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il gruppo democristiano vota contro questo articolo, non perché sia contrario alla sostanza di esso, ma perché non ritiene opportuno che sia inserito nella legge costituzionale.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Presidente della terza Sottocommissione di esprimere il suo parere.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. La Commissione, pur riconoscendo che l’articolo è indubbiamente utile, ritiene che la sua sede più opportuna sia la legislazione ordinaria e pertanto non crede di accettarlo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo aggiuntivo testé letto.

(Dopo prova e controprova non è approvato).

Passiamo all’esame dell’articolo 30:

«La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

«Promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro».

A questo articolo 30 sono stati presentati vari emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Zotta, che ne propone la soppressione.

L’onorevole Zotta ha facoltà di svolgerlo.

ZOTTA. È per una ragione di forma che io chiedo la soppressione dell’articolo 30, il quale, così come è concepito, appare a me superfluo. Il primo comma dice che la Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni, ed esprime perciò un concetto il quale è già contenuto nel primo articolo delle disposizioni generali della Costituzione, ove noi abbiamo detto che la Repubblica democratica è fondata sul lavoro.

Il medesimo concetto poi, è stato ribadito nell’articolo 3, quando si è garantita la partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, politica e giuridica del Paese.

Quando si afferma che una formazione sociale è fondata sul lavoro, si vuole precisamente esprimere il concetto che i singoli consociati sono dei lavoratori, e che l’organismo collettivo che risulta dalla loro riunione ha per fine la tutela del lavoro, dato che ogni collettività persegue fini che sono propri dei membri che la costituiscono.

Il concetto, dicevo, è ribadito anche nell’articolo 3 che abbiamo approvato, quando si è enunciato il principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. Si è fissato allora il principio della partecipazione di tutti i lavoratori alla vita organizzativa del Paese, dalla quale precedentemente alcune categorie per circostanze storiche, sociali, economiche, sono state tenute lontane. Si è inteso valorizzare il lavoro, mettendolo a fondamento della società e rendendo così operativa l’eguaglianza di diritto, che finora appariva soltanto come una vaga aspirazione nella precedente Carta costituzionale. A raggiungere l’intento è stato assegnato alla Repubblica il compito di rimuovere tutti gli ostacoli di ordine economico e sociale. Perché ora si deve affidare ad un nuovo articolo la ripetizione dello stesso concetto?

Opportunamente l’affermazione di principio è stata fatta nei primi articoli delle Disposizioni generali della Costituzione. Nel secolare contrasto tra capitale e lavoro, quest’ultimo ha raggiunto un alto livello nella valutazione sociale degli elementi della produzione, sì da abbattere quella preminenza che finora era toccata al capitale, preminenza economica e sociale, e quindi politica e giuridica. Oggi il lavoro si pone come un problema costituzionale. Questo hanno inteso esprimere l’articolo 1 e l’articolo 3, i quali hanno solennemente dichiarato che il lavoro, fondamento della Repubblica, costituisce l’elemento essenziale della organizzazione sociale del popolo italiano.

Dopo queste ampie assicurazioni, che superano ancora la mera contingenza del rapporto giuridico di lavoro, estrinsecantesi in una disciplina a carattere strettamente economico, e si elevano in un campo superiore ove concorrono elementi economici, etici, sociali e politici, ritornare qui a parlare di tutela del lavoro in una visione ristretta, significa, a parer mio, non tanto cadere in una ripetizione inutile ed ingombrante, quanto rimpicciolire il fenomeno, togliere alle parole il valore, ai principî la serietà, come quando, con insistenze querule e fastidiose, si promette l’azione statale ora in più vasto campo ora in più ristretto, dando l’impressione della fiacchezza dei propositi e del poco convincimento di attuarli.

Il secondo comma potrebbe essere eliminato per la medesima ragione di forma. La Repubblica «promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro».

Come si può ipotizzare una vita di relazioni con altri Stati quando si prescinde dalla cura di ciò che costituisce l’oggetto, l’essenza della unità organica del Paese, la caratteristica e il fondamento del suo assetto sociale?

Quando noi diciamo «La Repubblica è fondata sul lavoro», mi sembra si sia fatta l’affermazione più solenne, si siano tracciate le linee della politica interna e di quella internazionale, polarizzandole verso il potenziamento dei diritti del lavoro, la emancipazione e l’elevazione dei lavoratori a qualunque categoria appartengano.

È questione, onorevoli colleghi, di aver fiducia di noi stessi, delle parole che pronunciamo, dei propositi che coltiviamo, senza cadere in una specie di inflazione verbale che ci obbliga ad usare cento parole nel campo delle relazioni politiche e giuridiche mentre sarebbe preferibile l’affermazione di un solo concetto sicuro. È un’inflazione più pericolosa dell’inflazione monetaria, perché scuote le fondamenta stesse della vita sociale, togliendo all’ordinamento giuridico, che in esso si concreta, carattere di fermezza e di serietà. (Applausi al centro).

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Colitto:

«Sostituirlo col seguente e collocarlo dopo l’articolo 37:

«Lo Stato favorisce gli accordi internazionali per la regolamentazione del lavoro italiano all’estero».

Segue l’emendamento dogli onorevoli Bozzi e Grassi:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme».

Non essendo presenti i proponenti, l’emendamento si intende decaduto. Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Medi:

«Al primo comma, dopo le parole: con le sue leggi, aggiungere: mediante l’assistenza e la previdenza».

Segue l’emendamento dell’onorevole Gabrieli:

«Al primo comma, alla parola: lavoro, aggiungere le parole: e del risparmio».

L’onorevole Gabrieli ha facoltà di svolgerlo.

GABRIELI. Avevo presentato l’emendamento diretto a fare inserire la parola «risparmio» accanto alla parola «lavoro», ritenendo che il risparmio è il frutto diretto del lavoro, specificatamente nelle sue forme più umili. Ma questo concetto che ho voluto inserire all’articolo 30 è già espresso in maniera chiara e precisa nell’articolo 44, onde non insisto.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento, già svolto, della onorevole Guidi Cingolani Angela:

«Al secondo comma, dopo la parola: accordi, aggiungere: ed organizzazioni».

Gli onorevoli Foa, Mazzei, Valiani e Tremelloni hanno presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere al secondo comma le parole: e il diritto alla libera circolazione internazionale dei lavoratori.

«Aggiungere come terzo comma:

«Tutela il lavoro italiano all’estero».

L’onorevole Foa ha facoltà di svolgerlo.

FOA. Ho presentato questo emendamento, perché ritengo opportuno che la Costituzione italiana contenga, oltre l’impegno per la Repubblica di favorire e promuovere accordi internazionali nel campo del lavoro, una esplicita menzione per quello che riguarda la libera circolazione dei lavoratori. Vorrei spiegare molto brevemente le ragioni di carattere economico che suggeriscono, soprattutto in questa fase storica, una esplicita menzione di questo argomento, non solo come impegno e garanzia di carattere interno per l’emigrazione, ma anche come impegno di carattere internazionale.

Sono noti a tutti i colleghi i tentativi di accordi economici internazionali che si vanno facendo in tutto il mondo, soprattutto ad iniziativa degli Stati Uniti d’America. Sono tentativi orientati a dare alla società economica internazionale un carattere diverso da quello che essa ha avuto finora, in modo da arrivare non tanto attraverso forme di libertà assoluta, quanto attraverso forme concordate e graduate nel tempo, ad una abolizione progressiva del restrizionismo in materia di movimento di merci e in materia di movimento di capitali.

Gli Stati Uniti perseguono questa politica con vari mezzi, attraverso organizzazioni internazionali, per esempio la W.T.O., l’organizzazione commerciale internazionale, attraverso la Conferenza internazionale del commercio ed occupazione, attraverso gli istituti internazionali monetari e creditizi ed anche attraverso pressioni politiche dirette, cioè collegando i prestiti concessi, ad esempio alla Gran Bretagna e alla Francia, con impegni politici di abolizione delle restrizioni. Ora vi è un fatto significativo e inquietante ed è questo: che questi indirizzi economici di iniziativa americana sono pericolosamente unilaterali e mentre prevedono nettamente, apertamente, una politica di abolizione di controlli e di vincoli per il movimento di capitali e per il movimento di merci, essi non prevedono abolizioni di vincoli per il movimento del lavoro.

Dirò qualcosa di più: nei progetti elaborati dagli Stati Uniti e dalla Gran Bretagna per una organizzazione economica del commercio internazionale ed una conferenza del commercio ed occupazione, non soltanto non si parla di emigrazione, ma si stabilisce una clausola che impegna i singoli Stati aderenti alla organizzazione ad attuare una politica di piena occupazione nell’ambito della economia statale, cioè fissando implicitamente un criterio di immobilizzazione della mano d’opera.

Ora credo sia chiaro a chiunque, che, in queste condizioni, se questi piani fossero attuati alla lettera, i paesi in cui è più bassa la concentrazione industriale e più basso il rendimento del lavoro sarebbero gravemente danneggiati perché l’immobilizzazione del lavoro si tradurrebbe in un momento di rigidezza economica interna tale da esporre questi paesi passivamente al dominio dei paesi i quali sono possessori di capitali o hanno un diverso ritmo di concentrazione industriale. Per questo, mi pare essenziale che lo Stato italiano, che si trova in questa sfavorevole situazione, esprima pubblicamente questo impegno ed affronti il problema economico nella sua unità.

Vorrei ricordare che un nostro collega, l’onorevole Tremelloni, quando era membro del Governo, sostenne in sede internazionale questo principio. Ma questa iniziativa, che era buonissima, rimase – come succede a quasi tutte le buone iniziative – quasi clandestina in mezzo a noi.

Io credo che questa sia materia costituzionale, come credo pure che, non dovendoci fare illusioni sulla pratica, immediata attuazione di un comma di questo genere, debba essere consentito ai rappresentanti della Repubblica italiana, quando si recheranno alle conferenze internazionali e si sentiranno dire tante bellissime frasi, tante belle parole sulla cooperazione economica internazionale, sull’obbligo di abbattere queste o quelle barriere, di presentare i problemi nella loro concretezza ed unità, e non semplicemente lasciar prospettare quei problemi che fanno comodo agli altri e non avvantaggiano noi.

Come dico, non dobbiamo farci grandi illusioni, perché in questo momento questa materia, internazionalmente, presenta prospettive poco favorevoli: da una parte assistiamo ai trasferimenti coattivi di intere popolazioni, e dall’altro al chiuso isolazionismo demografico e ai divieti di immigrazione. Credo però che noi non dobbiamo disperare, ma dire apertamente il nostro pensiero, fondando sulle iniziative che, a mio giudizio, potranno venire solo da parte delle classi lavoratrici, anche di quelle classi lavoratrici che oggi sono ancora inclini ad una politica di chiusura e di protezionismo operaio. Vediamo in tanti altri campi, per esempio nell’organizzazione internazionale del lavoro, le classi lavoratrici andar via via ampliando la sfera del loro interessamento dal campo sindacale a quello produttivo – sorgono in campo internazionale apposite sezioni per la risoluzione di problemi della produzione – e sono convinto che in questa materia verrà il momento in cui le classi lavoratrici, portandosi sul terreno della responsabilità internazionale, prospetteranno questo problema del movimento internazionale dei lavoratori in una luce concreta che sia favorevole anche ai popoli poveri.

Per queste ragioni prego l’Assemblea di accettare questo emendamento. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Gli onorevoli Tremelloni e Cairo hanno presentato il Seguente emendamento:

«Aggiungere il seguente terzo comma:

«La Repubblica riconosce i principî affermati dalla «Dichiarazione di Filadelfia» dell’Organizzazione internazionale del lavoro».

Non essendo presenti, l’emendamento si intende decaduto.

Segue l’emendamento, già svolto, dell’onorevole Dominedò.

«Al secondo comma dell’articolo 10 del Titolo I, da inserire nel Titolo III, eventualmente come terzo comma all’articolo 30, sostituire:

«L’emigrazione è libera, salvi gli obblighi stabiliti dalla legge per motivi di interesse generale».

Con ciò abbiamo esaminato tutti gli emendamenti proposti all’articolo 30. Pregherei pertanto l’onorevole Ghidini di esprimere l’avviso della Commissione sugli emendamenti stessi.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Per quanto riguarda l’emendamento soppressivo proposto dall’onorevole Zotta, la Commissione nella sua maggioranza dichiara che non lo accetta. È esatto il richiamo che egli fa agli articoli 1 e 3 delle Disposizioni generali, ma questo non toglie che una specifica disposizione del progetto non sia opportuna.

La prima parte dell’articolo 30 dice: «La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni».

Per quanto riguarda le «applicazioni», c’era un emendamento soppressivo della parola; ma è decaduto e non se ne deve più parlare. Quindi l’articolo resta come proposto. Esso è una dichiarazione di principio o di ordine generale che non costituisce una vana ripetizione – come sostiene l’onorevole Zotta – dell’articolo 1, ove è detto che la Repubblica ha per fondamento il lavoro. Il concetto è indubbiamente diverso. Qui si tratta di provvedere a dare al lavoro quel posto di sicura preminenza che gli compete nell’assetto sociale. Sta di fatto che nel testo, agli articoli 32, 33, 34, 35, 36 e 43, sono consacrati gli istituti e le forme attraverso i quali si attua la tutela del lavoro; ma non sono tassativi e nessuno può escludere che domani sorga l’opportunità, o addirittura la necessità di altri istituti e di altre forme. Per questa ragione, una disposizione di carattere generale, che consenta al legislatore di domani altre forme di tutela, non ci sembra inutile o superflua. Né va trascurato il fatto che la disposizione è in armonia anche formale con tutto il resto della Costituzione perché ad ogni titolo è sempre premessa una disposizione di carattere generale. Per quanto poi riguarda la seconda parte: «Promuove e favorisce gli accordi internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro», devo dire che essa non costituisce affatto la ripetizione che lamenta l’onorevole Zotta, trattandosi di una specificazione importantissima nel campo della tutela del lavoro.

Per queste ragioni la Commissione non accetta l’emendamento proposto dall’onorevole Zotta né l’altro consimile (limitatamente alla prima parte dell’articolo) dell’onorevole Colitto. Questi, per la seconda, parte, suggerisce invece una modificazione nei termini seguenti: «Lo Stato favorisce gli accordi internazionali per la regolamentazione del lavoro italiano all’estero».

L’emendamento ha due difetti: il primo è che si riferisce alla regolamentazione del lavoro italiano all’estero mentre la disposizione ha per oggetto tutto il lavoro, in generale. A questo proposito è stato perspicuo il discorso della onorevole collega Guidi Cingolani per dimostrare l’interdipendenza del lavoro italiano ed estero. Il secondo vizio dell’emendamento Colitto è che limita l’attività dello Stato a favorire ed a regolare gli accordi internazionali; mentre è nostro proposito che lo Stato, promovendo gli accordi, ne assuma anche l’iniziativa.

Per queste ragioni la Commissione ha opinato che non si debbano accogliere né l’uno né l’altro emendamento.

C’è poi l’emendamento della signora Guidi Cingolani, che chiede si aggiunga alla parola «accordi» anche quella «organizzazioni». Per quanto si possa pensare, che nel concetto di «accordi» sia implicito quello di «organizzazioni», la Commissione accetta l’emendamento.

Del terzo emendamento Bozzi-Grassi che propone la dizione: «La Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme» non parlo perché è decaduto.

L’onorevole Medi propone di aggiungere alle parole «con le sue leggi» le altre «mediante l’assistenza e la previdenza». Osservo che questa è una determinazione e, come tutte le determinazioni, limita il concetto espresso nel testo: concetto che noi vogliamo possa avere un campo di applicazione il più largo possibile.

MEDI. Rinuncio, perché viene compreso nell’emendamento da me presentato, unitamente alla onorevole Federici, all’articolo 34.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Sta bene. Ora vi sarebbe l’emendamento Gabrieli ma il collega non vi insiste e quindi non ne parlo.

Vi è poi l’emendamento Foa. La Commissione apprezza le ragioni in base alle quali l’onorevole Foa l’ha proposto ma vi oppone le seguenti considerazioni: il diritto alla libera circolazione internazionale dei lavoratori si può dire che rientri nella disposizione generica dell’articolo 30: «La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni». È una determinazione, questa dell’onorevole Foa, che non restringe la portata dell’articolo, ma non è necessaria.

FOA. Allora, anche l’ultima parte dell’articolo 10, che tratta del diritto di emigrare, come norma interna, era inutile perché era stata compresa nel diritto del lavoro.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Onorevole Foa, io le riferisco le ragioni in base alle quali la Commissione, in maggioranza, non accetta il suo emendamento. Se lei lo vorrà riproporre all’Assemblea, la Commissione non ha altro da dire.

Ma vi è un altro emendamento Foa: «Tutela il lavoro italiano all’estero», che la Commissione accoglie. Benché sia questa una determinazione che lascerebbe pensare che nella prima parte non fosse considerato il lavoro italiano all’estero, ad ogni modo, la Commissione dichiara che lo accetta, come accetta anche, nella sua sostanza, l’emendamento dell’onorevole Dominedò: «L’emigrazione è libera, salvi gli obblighi stabiliti dalla legge per motivi di interesse generale».

La Commissione proporrebbe di formulare tutto l’articolo in questo modo:

«La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

«Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro.

«Riconosce la libertà di emigrazione, salvi gli obblighi generali di legge e tutela il lavoro italiano all’estero».

NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

NOBILI TITO ORO. Al primo comma dell’articolo 31 ho presentato il seguente emendamento aggiuntivo cui si è associato poi, con inserzione di altro emendamento, il collega Condorelli:

«Trasferire l’ultimo comma dell’articolo 10 al primo comma, che avrà in tal modo la formulazione seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuove le condizioni per rendere effettivo l’esercizio e tutela il lavoro italiano all’estero».

PRESIDENTE. Onorevole Nobili, siamo all’articolo 30.

NOBILI TITO ORO: Onorevole Presidente, voglia scusarmi. L’emendamento riguarda la tutela del lavoro italiano all’estero. Io desidero far presente all’onorevole Relatore la opportunità di esaminare in questa sede tale emendamento e di riferire il pensiero della Commissione su di esso insieme con quello relativo all’analogo emendamento Tremelloni all’articolo 30. Ritenendo che il principio della tutela del lavoro italiano all’estero vada inserito in aggiunta al riconoscimento del diritto di tutti i cittadini al lavoro e all’impegno che assume la Repubblica di promuovere le condizioni per renderne effettivo l’esercizio, vorrei che la onorevole commissione si pronunciasse su questa opportunità prima che essa sia pregiudicata dall’eventuale accoglimento dell’emendamento Tremelloni che la stessa inserzione propone invece all’ultimo comma dell’articolo 30. L’Assemblea è stata già concorde nel ritenere che questa necessità della tutela del lavoro italiano all’estero passasse dal Titolo I (rapporti civili) al Titolo oggi in esame (rapporti economici). Su questo c’è già l’accordo. Si tratta ora di vedere in quale articolo del Titolo III detto principio debba inserirsi. E pertanto i due emendamenti vanno, per la evidente connessione, esaminati contemporaneamente, salvo il provvedimento che l’onorevole Presidente, nella sempre saggia interpretazione del regolamento, riterrà di dover adottare in ordine alla votazione.

PRESIDENTE. Onorevole Nobili, in casi analoghi l’Assemblea ha giudicato che questo è un problema non essenziale, che potrà essere risolto alla fine, in sede di ordinamento e successione degli articoli. Per ora restiamo alla proposta di merito; poi esamineremo, all’articolo 31, se sia necessario ed opportuno inserire nell’articolo 30 il suo emendamento.

Chiedo ora agli onorevoli presentatori di emendamenti se, dopo le dichiarazioni dell’onorevole Ghidini, li mantengono, tenendo presente che l’onorevole Ghidini ne ha accettato qualcuno a nome della Commissione.

Onorevole Zotta, mantiene l’emendamento soppressivo dell’articolo?

ZOTTA. Lo ritiro, rimettendomi al parere della Commissione.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Colitto:

«Sostituirlo col seguente e collocarlo dopo l’articolo 37:

«Lo Stato favorisce gli accordi internazionali per la regolamentazione del lavoro italiano all’estero».

Non essendo presente il proponente, l’emendamento s’intende decaduto.

L’onorevole Medi ha dichiarato di rinunziare al seguente emendamento:

«Al primo comma, dopo le parole: con le sue leggi, aggiungere: mediante l’assistenza e la previdenza».

L’onorevole Gabrieli ha dichiarato di non insistere sul seguente emendamento:

«Al primo comma, alla parola: lavoro, aggiungere le parole: e del risparmio».

L’emendamento della onorevole Guidi Cingolani Angela è stato accettato dalla Commissione:

«Al secondo comma, dopo la parola: accordi, aggiungere: ed organizzazioni»,

Segue l’emendamento degli onorevoli Foa, Mazzei, Valiani e Tremelloni:

«Aggiungere al secondo comma le parole: e il diritto alla libera circolazione internazionale dei lavoratori».

Onorevole Foa, lo mantiene?

FOA. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Segue un altro emendamento degli onorevoli Foa, Mazzei, Valiani, Tremelloni, accettato dalla Commissione:

«Aggiungere come terzo comma:

«Tutela il lavoro italiano all’estero».

Segue l’emendamento dell’onorevole Dominedò, che la Commissione ha dichiarato di accettare nella sua sostanza:

«Al secondo comma dell’articolo 10 del Titolo I, da inserire nel Titolo III, eventualmente come terzo comma dell’articolo 30, sostituire:

«L’emigrazione è libera, salvi gli obblighi stabiliti dalla legge per motivi di interesse generale».

Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 30 nel testo proposto dalla Commissione, poiché i vari emendamenti presentati sono stati ritirati, o sono decaduti:

«La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni».

TAVIANI. Chiedo se non sia possibile sopprimere le parole «ed applicazioni» perché, a mio parere, superflue.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non posso aderire.

(Il primo comma è approvato).

Pongo in votazione il secondo comma con l’aggiunta delle parole: «ed organizzazioni» proposte dall’onorevole Guidi Cingolani Angela e accettate dalla Commissione:

«Promuove e favorisce gli accordi ed organizzazioni internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro».

(È approvato).

Pongo in votazione il primo emendamento degli onorevoli Foa, Mazzei, Valiani, Tremelloni, non accettato dalla Commissione:

«Aggiungere al secondo comma le parole: e il diritto alla libera circolazione internazionale dei lavoratori».

(Non è approvato).

La Commissione ha poi proposto la formulazione di un terzo comma, comprensivo del secondo emendamento Foa e dell’emendamento Dominedò:

«Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi generali di legge, e tutela il lavoro italiano all’estero».

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Lo scopo del mio emendamento – che, per la verità, non è stato ancora svolto, in quanto fu presentato in sede di discussione sul Titolo dei rapporti civili per essere poi rinviato al Titolo dei rapporti sociali – lo scopo del mio emendamento, dicevo, era quello di far sì che fosse pienamente riconosciuta nella Costituzione la libertà di emigrazione, senza condizionarla alla eventualità di deroghe illimitate da parte della legge.

Difatti, il testo originario, con formula costituzionalmente poco significativa, diceva che l’emigrazione è libera, salvo gli obblighi posti dalla legge.

Lo spirito della mia proposta, quindi, è quello di circoscrivere l’incondizionata possibilità da parte della legge di limitare l’esercizio di questo diritto. Di qui la nuova formula: «L’emigrazione è libera, salvi gli obblighi stabiliti dalla legge per motivi di interesse generale».

Con un espresso riferimento all’interesse della generalità dei consociati, e cioè al bene comune, s’intende delimitare la potestà legislativa e porre in evidenza il significato eccezionale delle deroghe che possono essere introdotte in stretta aderenza a quell’interesse. Chi ricordi le gravi ferite portate al diritto di emigrare, per ragioni militariste, nazionaliste o razziste, vorrà riconoscere la necessità che domani sia preservato da altri pericoli il diritto dell’uomo alla piena espansione della propria personalità e quindi il diritto di partecipare alla vita della comunità dei popoli da parte di chi, per dirla con Mazzini, può amare tutte le patrie appunto perché ama veramente la propria.

PRESIDENTE. Quale è il parere della Commissione?

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non abbiamo nessuna difficoltà ad accettare l’emendamento dell’onorevole Dominedò. La formulazione da noi proposta è diversa nella forma, ma, sostanzialmente, la Commissione intendeva accogliere l’emendamento.

PRESIDENTE. Allora, la formulazione potrebbe essere questa:

«Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge per motivi di interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero».

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. D’accordo.

Devo, peraltro, ricordare che il secondo comma dell’articolo 10, già approvato, è del seguente tenore: «Ogni cittadino è libero di uscire dal territorio della Repubblica e di rientrarvi, salvo gli obblighi di legge». Ora la formulazione in esame non può considerarsi, a mio parere, interamente sostitutiva del concetto contenuto nel secondo comma dell’articolo 10, perché una cosa è l’emigrazione in quanto forma di espatrio o di uscita dalle frontiere condizionata a certi elementi, e un’altra cosa è quella di cui si tratta nell’articolo 10, il quale fissa le norme, in forma generale ed ampia, per l’entrata e l’uscita dei cittadini dal territorio nazionale.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Avrei anch’io voluto fare, onorevole Presidente, l’osservazione che ha fatto lei; inoltre mi sembra che il diritto di emigrazione si debba considerare come già contenuto nel secondo comma dell’articolo 10, perché, fra i vari motivi per cui un cittadino può uscire dal territorio, c’è anche quello di emigrare.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. È un’altra cosa!

PRESIDENTE. Io penso, come opinione mia personale, che, poiché il Titolo terzo è dedicato ai problemi specifici del lavoro e l’emigrazione è invece un fenomeno legato al fatto generale del lavoro, la specificazione proposta dall’onorevole Dominedò potrebbe essere inserita nell’articolo 30, senza con ciò che vi sia la possibilità di considerarla come una ripetizione del secondo comma dell’articolo 10.

Comunque, così facendo, non si compromette niente; l’Assemblea potrà sempre, infatti, in sede di approvazione del testo definitivo, ove essa debba constatare che vi è ripetizione, annullare questo comma aggiuntivo.

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Debbo spiegare il mio voto contrario, il quale trae giustificazione dalla preoccupazione che questo definire in modo particolare l’emigrazione nel Titolo che si riferisce al lavoro possa costituire, per il legislatore di domani, un motivo di limitazioni speciali per l’emigrazione: proprio l’opposto quindi di quello che si propone l’onorevole Dominedò col suo emendamento.

PRESIDENTE. Sta bene. Pongo in votazione il comma aggiuntivo nella formulazione accettata dalla Commissione:

«Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi stabiliti dalla legge per motivi di interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero».

(È approvato).

L’articolo 30 risulta pertanto, nel suo complesso, così approvato:

«La Repubblica provvede con le sue leggi alla tutela del lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni.

Promuove e favorisce gli accordi e le organizzazioni internazionali per affermare e regolare i diritti del lavoro.

Riconosce la libertà di emigrazione, salvo gli obblighi sanciti dalla legge per motivi di interesse generale, e tutela il lavoro italiano all’estero».

Passiamo ora all’articolo 31:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto.

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

«L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

A questo articolo 31 sono stati proposti numerosi emendamenti. L’onorevole Cortese ha già svolto il suo emendamento soppressivo dell’articolo. Anche l’onorevole Colitto ha svolto il seguente emendamento:

«Sostituirlo col seguente:

«Lo Stato promuove lo sviluppo economico del Paese, e predispone le condizioni generali per assicurare più che possibile ai cittadini l’esercizio del loro diritto al lavoro».

Segue l’emendamento dell’onorevole Zuccarini:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto alla proprietà come condizione essenziale di libertà, e promuove i modi e le forme per renderlo possibile ed effettivo».

L’onorevole Zuccarini ha facoltà di svolgerlo.

ZUCCARINI. Questo emendamento da me presentato era in relazione all’intervento che mi proponevo e non ho potuto effettuare sulla discussione del Titolo, e si riallacciava a tutta un’impostazione generale del Titolo stesso. L’illustrazione dell’emendamento, fatta ora in dieci o anche in più minuti, non permette l’ampiezza e la illustrazione necessarie per l’impostazione che io intendevo dare all’argomento.

Il Titolo terzo ha lo scopo di assicurare quelle libertà di carattere sociale senza le quali la libertà politica verrebbe a mancare o per lo meno subirebbe certe menomazioni. Ora, è in relazione a ciò che mi proponevo di discutere e di fare la proposta del mio emendamento. Ciò non essendo possibile per la limitazione di tempo imposta in sede di emendamento, mi limiterò ad osservare che la mia modifica all’articolo 31 si riferiva ad una constatazione: o il diritto che si riconosce a tutti i lavoratori è un diritto formale, destinato a restare senza seguito nella nostra Costituzione, ed allora può capitare quello che è capitato in Germania, con la Costituzione di Weimar, ove, nonostante che lo stesso diritto fosse costituzionalmente affermato, sei milioni e più di lavoratori si sono trovati disoccupati; o vuole invece essere un diritto effettivo, ed allora impone allo Stato un investimento tale di capitali ed anche un tale sviluppo del proprio personale burocratico, destinato allo scopo, per cui c’è da domandarsi se l’esercizio di questo diritto non possa meglio effettuarsi attraverso una assegnazione a ciascun individuo di un minimo di disponibilità che permetta di crearsi una propria attività economica e sociale. Noi assistiamo oggi ad un’infinità di progetti sul pieno impiego. Anche questa nostra Costituzione è ispirata all’occupazione totale dell’individuo ed all’assicurazione di essa durante tutta la vita. L’impiego di un capitale per tale assicurazione diverrà quindi imponente. E non è da domandare: perché questo capitale, invece di assicurare il cittadino per il secondo periodo della vita, non potrebbe assicurare il cittadino fin dall’inizio della propria vita? Allora solamente si assicurerebbe al cittadino non solo l’esistenza, e cioè la possibilità di vivere, ma gli si darebbe anche la possibilità di svolgere l’attività che vuole, nel campo che vuole, in piena indipendenza, si otterrebbe cioè un risultato che dal punto di vista sociale e produttivo, mentre corrisponde alle esigenze di libertà che tutti sentiamo, corrisponde anche alle esigenze della società che sono quelle di una più attiva e intensa produzione.

È dunque una impostazione tutta diversa che io mi proponevo di sottoporre, non dico all’approvazione dell’Assemblea, ma almeno alla sua meditazione per gli ulteriori sviluppi, e cioè per considerare se quell’assicurazione del lavoro che noi vogliamo dare all’uomo al fine di tutelarlo nel secondo periodo della sua vita non debba invece diventare effettiva e operante fin dall’inizio della sua vita. Dal momento che in questi stessi rapporti economici noi, in alcune parti, ci preoccupiamo del diritto di proprietà non solo per il suo mantenimento ma anche per l’estensione dei diritti di proprietà, della diffusione cioè della proprietà, è da domandare se nella nostra Costituzione piuttosto di garantire la proprietà esistente, e cioè quella che proviene dalle disuguaglianze sociali e dai rapporti economici del passato, non dobbiamo invece assicurare un diritto di proprietà a ciascun individuo affinché ciascuno, nell’impiego della propria attività manuale, intellettuale, ecc., possa operare liberamente, in posizioni di partenza uguali con tutti gli altri individui, in modo che il suo avvenire e l’impiego della sua attività debbano dipendere esclusivamente da lui.

Si tratta quindi di un principio di libertà. È un po’ difficile – ripeto – illustrare tutto questo in dieci minuti e mettere la questione in relazione agli altri problemi, che interessano particolarmente le classi lavoratrici. Abbiamo in Italia istituti di previdenza e di assicurazioni sociali i quali costituiscono già di per se stessi, o almeno costituivano prima del fascismo, dei capitali abbastanza imponenti destinati ad assicurare agli operai determinati periodi di pensione. Ricordo che fra i tanti progetti più o meno fantasiosi che si vedono molto spesso fare in questo momento sulle riforme sociali (naturalmente progetti discutibili sotto tanti rapporti e condannabili anche per certi tentativi di realizzazioni poco pratiche) ne vidi uno nel quale si prevedeva di istituire sull’assicurazione sociale dei lavoratori un sistema destinato a mettere a disposizione del lavoratore un capitale capace di assicurargli addirittura la proprietà non già di un appartamento ma di una casa intera, e con tutti gli annessi. Ora, se queste possibilità sono oggi concepibili, data la estensione che si pensa di dare all’assicurazione sociale in genere, io mi domando se non sia anche possibile estendere un po’ la nostra visione e vedere se addirittura l’assicurazione non possa essere data in partenza. Allora sì, quando a ciò si arrivasse, noi avremmo assicurato al cittadino quella piena disponibilità di se stesso che è piena garanzia di libertà! Ciò che è mancato sempre e che abbiamo rimproverato alle vecchie Costituzioni è proprio questo: che i cittadini, in partenza, non si trovano nelle stesse posizioni e che, di fronte all’esercizio della libertà, il salariato, chiunque non disponga di altro che della propria capacità di lavoro, non è veramente libero, e non è veramente libero appunto per la sua dipendenza economica, per lo stato d’inferiorità in cui si trova fin dalla nascita. Ricordo che in un voluminoso scritto sulla «Filosofia della Rivoluzione», Giuseppe Ferrari rimproverava appunto alla rivoluzione francese di avere, sì, assicurato i diritti del cittadino, ma di non aver assicurato il diritto alla proprietà che è il primo mezzo per cui quei diritti potevano essere esercitati. È – ripeto – in questo senso che si può risolvere un problema e giungere ad una realizzazione di libertà assai più efficace del diritto al lavoro; perciò ho presentato il mio emendamento. Naturalmente non vi insisto, perché la discussione su questo punto non sarebbe ora passibile e la votazione non sarebbe conclusiva e non rappresenterebbe un meditato pensiero. Ho voluto tuttavia farne un accenno in questa sede; ma è certo che, se avessi potuto farlo riallacciando la questione a tutti gli articoli di questo Titolo e a quella impostazione generale – che secondo me avrebbe dovuto darsi al problema della libertà nei rapporti economici – la mia proposta avrebbe forse ottenuto maggior numero di consensi e maggiore comprensione. Per ciò – e solamente per ciò – ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Foa ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto ed assicura l’apprestamento dei piani economici per la difesa dei consumatori e per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei minimi bisogni vitali».

L’onorevole Foa ha facoltà di svolgerlo.

FOA. Mi limiterò a trattare brevemente gli aspetti economici che hanno ispirato la proposta di questo emendamento, lasciando da parte tutte le critiche al testo proposto dalla Commissione. Vorrei sottolineare l’assoluta insufficienza della formulazione adottata nel testo del progetto: «promuove le condizioni per rendere effettivo il diritto al lavoro». Questa espressione (se noi vogliamo che le espressioni abbiano un significato tecnico e non siano parole che possano essere interpretate mutevolmente), questa espressione ha un significato nella valutazione economica odierna e cioè: la Repubblica promuove una politica di occupazione. Ora, all’infuori dell’ipotesi di una società socialista – ipotesi non attuale – e all’infuori di altre ipotesi, scomparse fortunatamente, di una mostruosa irreggimentazione del lavoro con la quale si pensava di poter risolvere il problema della disoccupazione, è chiaro che la politica di occupazione ha un significato tecnico nel mondo occidentale e particolarmente anglo-sassone. Questo significa: manovra del credito allo scopo di facilitare, attraverso una politica di lavori pubblici, l’assorbimento del risparmio disponibile e in conseguenza, di mettere in movimento la macchina produttiva. Credo sia noto a tutti i colleghi che conoscono il problema che quelle posizioni programmatiche che potevano avere la loro validità in America od in Inghilterra durante l’anteguerra, non possono avere validità oggi nell’Europa continentale e neppure in Inghilterra.

Il problema, per noi, non è un problema di mobilitazione del risparmio disponibile; è un problema di moltiplicare la produzione, gli strumenti di produzione ed i mezzi ai quali è associato il lavoro per aumentarne la produttività.

In sede di esame del Progetto, la discussione si è polarizzata fra la concezione dell’intervento economico e quella della libertà: discussione che non aveva ragion d’essere perché effettivamente vi sono alcuni dati obbligati della realtà odierna che sono dati di intervento, ed altri che sono dati di iniziativa. Ma il problema che è comune oggi a tutte le forze democratiche ed è comune alla coscienza di larghissimi strati di quest’Assemblea ed a tutti quei grandi partiti che si fondano sulle masse lavoratrici è un altro: dove il Governo non può rinunziare all’intervento, bisogna fare in modo che questa manovra del potere economico non sia esposta all’arbitrio di gruppi privilegiati, ma sia condotta nell’interesse delle masse popolari.

Questo è il punto centrale, per cui non si mette in discussione l’intervento o il non intervento, ma si parte dal dato di fatto preciso che certi interventi sono ineliminabili e si studia il modo di farli funzionare. Ritengo che il democristiano ministro Gronchi non si sia posto il problema in forma diversa dal ministro socialista Morandi: entrambi sapevano che alcuni vincoli dovevano essere aboliti, altri mantenuti, ma sottratti a quelle forze che, non soltanto nel campo agricolo, ma anche in quello industriale, e soprattutto finanziario, oggi dominano nel nostro Paese.

Quando si parla d’un problema di pianificazione, non si intende fare la scelta fra piano e libertà, ma si intende controllare democraticamente quel tanto di potere economico dello Stato che è necessario e farlo operare a vantaggio della collettività.

Questo è il significato moderno della pianificazione.

Credo che sotto questo punto di vista potrà servire per la Costituzione solo un criterio obiettivo, per dare una traccia positiva all’opera dell’amministrazione economica pubblica: è il criterio del lavoro sotto l’aspetto del consumo, cioè del benessere dei cittadini.

Per queste ragioni credo che un impegno politico, come quello contenuto nella prima parte dell’articolo 31 – «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto» – se non vuole risolversi (volendo dare un significato tecnico alle parole) in un aumento dei segni monetari in circolazione, abbia il significato preciso di aumentare i mezzi di produzione nelle regioni con scarse risorse disponibili, in modo da assicurare un miglior tenore di vita alle classi popolari, intese non in senso strettamente marxista, ma nel senso comune a tutti i grandi partiti di questa Assemblea.

Questo è il senso dell’emendamento proposto: è un richiamo alla realtà di oggi, in cui non vi è più l’alternativa drammatica: intervento o non intervento? Vi è cioè un problema più urgente e drammatico: sapere come si interviene, posto che nessuno più oggi, quando abbia senso di responsabilità, può rinunziare ad intervenire.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Villani e Cairo hanno presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Promuove e disciplina le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

L’onorevole Villani ha facoltà di svolgerlo.

VILLANI. Noi troviamo nel primo comma dell’articolo 31 un’affermazione precisa ed impegnativa:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Io ritengo che sia il caso di dover rilevare l’importanza di questa affermazione nel suo duplice aspetto.

Credo che lo Stato, in sostanza, venga ad assumere due impegni altrettanto importanti, altrettanto rilevanti nei confronti di tutti coloro che hanno diritto al lavoro, cioè di tutti i cittadini in condizione di esercitare il lavoro.

In primo luogo lo Stato viene ad assumere l’impegno di creare delle nuove possibilità di lavoro, delle nuove occasioni di lavoro, per coloro i quali non hanno possibilità di crearsele da sé.

In secondo luogo, ritengo che lo Stato venga anche ad assumer altro impegno: distribuire equamente il lavoro, che esso, come conseguenza del primo impegno, dovrà cercare di produrre.

Da questa constatazione credo si debba trarre qualche conclusione. Se lo Stato assume questo duplice impegno, è evidente che esso deve porsi in condizione di sodisfarlo; ed è evidente anche che deve disporre degli organi che possano sodisfarlo.

In altri termini, bisogna che, ponendosi lo Stato in condizione di studiare un piano di lavoro, come brillantemente ha detto testé l’onorevole Foa, crei degli organi che comunque siano in condizioni di controllare e intervenire nella gestione degli enti distributori di lavoro. Se facesse soltanto una di queste due cose ritengo che lo Stato farebbe solo in parte il suo dovere e quindi verrebbe a sodisfare soltanto una parte del duplice impegno che ha assunto.

D’altra parte, questo mio modo di vedere il problema, mi pare che si imponga anche se consideriamo non soltanto quello che è il primo comma dell’articolo 31, ma anche quello che è altrettanto esplicitamente affermato nel primo comma dell’articolo 35.

L’articolo 35 dice: «L’organizzazione sindacale è libera». Se l’organizzazione sindacale è libera è anche evidente allora che noi possiamo, sia pure in modo deprecabile, ipotizzare una molteplicità di sindacati, e se per dannatissima ipotesi (contro la quale noi lotteremo sino in fondo se sarà necessario) ci si trovasse in queste condizioni, sarebbe anche evidente che il collocamento dovrebbe avvenire all’infuori di questa o di quella organizzazione. Non ritengo necessario sviluppare più a lungo il problema della creazione di nuove possibilità ed occasioni di lavoro e della necessità, per me conseguente, che lo Stato in certa guisa direttamente o indirettamente si ponga in condizioni di provvedere a quello che è un suo preciso impegno. Conseguentemente a questo mio modo di vedere, mi è parso di ritenere che l’articolo 31, così come è formulato, rispondesse solo in parte a questa duplice esigenza. Ho creduto col mio emendamento, non certo di risolvere il problema qui accennato, ma in una certa guisa di porlo in modo tale che il futuro legislatore ordinario, quando eventualmente si dovesse trovare nella necessità di affrontare il problema stesso, trovi affermato nella Carta costituzionale il principio da me chiarito, principio che consentirà di risolvere in modo definitivo questo importante e delicato problema.

PRESIDENTE. L’onorevole Romano ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica promuove le condizioni per eliminare la disoccupazione e garantisce l’assistenza a quei cittadini che devono emigrare per trovare lavoro».

L’onorevole Romano ha facoltà di svolgerlo.

ROMANO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, lo scopo del mio emendamento è unicamente quello di avvicinare di più alla realtà lo spirito dell’articolo 31. Chi legge l’articolo 31 è istintivamente portato a pensare ad uno Stato provvidenza, e si cade sotto l’incubo dello Stato totalitario con la sua vasta e profonda giurisdizione in tutta la vita dell’uomo.

Infatti, l’articolo 31 nel suo primo comma dice:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Viene quindi da domandare: che cosa deve fare lo Stato per rendere effettivo questo diritto? Indubbiamente, per attuare questo principio, per poter rendere effettivo il diritto, bisognerebbe mutare le condizioni di oggi, passare dall’economia odierna ad una società completamente collettivista.

Questo problema è stato oggetto di studi da parte di Lord William Beveridge, il quale, pur essendo un liberale, parlando dell’occupazione integrale in una società libera, afferma che l’elemento fondamentale di una produzione nazionale sana sta nell’occupazione integrale di tutta la massa di lavoro esistente nel paese. In altri termini, stando al concetto di Lord Beveridge, bisognerebbe avere sottomano tutto il panorama della produzione nazionale, coordinare il bilancio dello Stato e degli enti pubblici e degli enti privati, il che significherebbe attuare in pieno una economia collettivista.

Agli stessi principî si è informato l’ex Ministro del commercio statunitense Wallace quando ha detto che, per poter assicurare la stabilizzazione del reddito globale del paese in duecento miliardi annui, bisogna assicurare l’occupazione di sessanta milioni di uomini nel lavoro. Ciò può valere per uno Stato di grandi risorse, ma lo stesso non può dirsi pel nostro Paese; e per persuadersi del come ciò per noi sia ben diverso basta dare uno sguardo a quello che è il settore principale della nostra economia, cioè l’agricoltura. Nel nostro Paese, nel 1871 avevamo appena 7 milioni 800 mila uomini occupati nell’agricoltura, su una popolazione di 26 milioni allora; nel 1936, su 42 milioni di uomini, l’occupazione nel settore dell’agricoltura era salita ad appena 8 milioni 700 mila. In proporzione l’aumento non è stato sensibile, perché mancano le possibilità per dar lavoro a tutta una popolazione tanto densa. La dura realtà è che l’agricoltura, che è il settore principale dell’economia italiana, non può assorbire di più, e non vi è rimedio ove si pensi che negli Stati Uniti d’America, su 114 milioni di ettari lavorano appena 10 milioni di uomini, mentre in Italia su 14 milioni di ettari lavorano quasi 9 milioni di uomini di età superiore ai dieci anni.

Ora, per poter dare attuazione pratica alla norma, bisognerebbe avere ben altre possibilità nei vari settori, dell’agricoltura, dell’industria e del commercio.

Il settore principale, quello dell’agricoltura, risponde negativamente: quindi non vi è altra possibilità per poter dare consistenza concreta all’articolo 31; onde si impone di modificare la struttura dell’articolo stesso in quanto è inutile promettere quello che non si può mantenere. L’Italia ha una sola valvola di sicurezza, che è l’emigrazione; questa valvola di sicurezza assicurava all’Italia prima del fascismo l’entrata di 600 milioni oro, che sono venuti a mancare appunto per l’arresto dell’emigrazione. L’Italia può disporre di una notevole energia di lavoro in un mondo che ne difetta. Per poter lasciare l’articolo 31 così come è redatto bisognerebbe che esso non limitasse la sua efficacia entro la frontiera della nazione, ma divenisse un elemento fondamentale di una politica economica internazionale. Solo così ci avvicineremmo alla realtà. Infatti l’Italia oggi ha due milioni di disoccupati, per i quali spende giornalmente 300 lire per unità, quindi 600 milioni al giorno. Ora, anche se questo articolo che discutiamo sarà approvato, il popolo italiano, i disoccupati diranno: «Sì, lo Stato ci riconosce questo diritto, ma che vale se questo diritto non può realizzarsi, se manca il soggetto passivo contro il quale farlo valere?». Un diritto sfornito di azione è vuoto di contenuto. Per avvicinare alla realtà lo spirito di questa disposizione, non si deve parlare di diritto, ma si deve dire soltanto che lo Stato promuove le condizioni per eliminare la disoccupazione e si impegna a proteggere tutti gli uomini che, per ristrettezza di territorio, sono costretti a varcare le frontiere nazionali. Sotto questo punto di vista, l’articolo acquisterebbe rilievo e per questo insisto nell’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento:

«Al primo comma aggiungere: Essi potranno esercitare la loro professione, arte o mestiere in qualsiasi parte del territorio nazionale».

Ha facoltà di svolgerlo.

NOBILE. Avevo già presentato questo emendamento quando si discusse l’articolo 10. Ricordo ai colleghi che questo articolo stabilisce che «ogni cittadino può circolare e soggiornare liberamente in qualsiasi parte del territorio italiano…» Mi sembrò allora e mi sembra anche adesso che, se nella Costituzione si afferma un diritto così elementare che certo nessuno oserebbe discutere, a maggior ragione bisogna affermare il diritto che ogni cittadino ha di esercitare la propria professione, arte o mestiere in qualsiasi punto del territorio nazionale. Mi fu suggerito allora dal Presidente della prima Sottocommissione di trasferire questo emendamento all’articolo 31, ciò che per l’appunto ho fatto. Non ho bisogno di aggiungere altre parole a titolo di giustificazione. Mi basta dire che esso serve a premunirci contro possibili aberrazioni dell’ordinamento regionale. Per metterci al riparo da esse bisogna che nella Costituzione sia detto qualcosa in proposito. Mi riferisco soprattutto al fatto che, già oggi, nell’Alto Adige, si comincia a rendere difficile il soggiorno e l’esercizio della propria professione a medici di altre parti d’Italia. Ad evitare che fatti di questo genere si possano ripetere su larga scala, quando avremo, se, avremo, un ordinamento regionale, occorre inserire l’aggiunta da me proposta al primo comma dell’articolo 31. Mi faccio forte, per insistere che l’emendamento sia messo in votazione, anche della competenza, che nessuno mette in discussione, dell’onorevole Di Vittorio, il quale mi ha esortato a mantenere l’emendamento.

PRESIDENTE. L’onorevole Cortese ha già svolto il suo emendamento, tendente a sopprimere il secondo comma.

L’onorevole Foa ha presentato il seguente emendamento:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La Repubblica può richiedere ai cittadini la prestazione di un servizio del lavoro».

Ha inoltre proposto di sopprimere il terzo comma. L’onorevole Foa ha facoltà di svolgere i due emendamenti.

FOA. Si è ritenuto nel Progetto di stabilire una simmetria tra diritto al lavoro e dovere del lavoro. Credo che si debba rispettare questa esigenza di simmetria.

Ma, leggendo e rileggendo con attenzione il secondo comma dell’articolo 31, debbo confessare che non sono riuscito a trovare un accenno qualsiasi che concordi con questa affermazione. L’unico significato che mi è dato di trarne, almeno secondo le mie facoltà interpretative, è questo: che ogni cittadino ha il dovere di operare in conformità e secondo la propria scelta, cioè ha il dovere di fare i suoi comodi. È l’unica norma che si può trarre, a mio giudizio, dal secondo comma dell’articolo 31, ed il terzo comma dello stesso articolo è collegato a questo strano dovere che non mi sembra debba essere formulato esplicitamente nella Costituzione. Mi sembra che questa formulazione sia difettosa nel significato. Può essere che l’interpretazione difettosa sia la mia, ma mi pare che la formulazione che ogni cittadino ha il dovere di fare un lavoro in conformità della propria scelta è, oltre tutto, una amara ironia perché noi sappiamo molto bene che nonostante tutta la retorica che si possa fare sul lavoro, la quasi totalità del lavoro manuale non si svolge in conformità della propria scelta, ma che i dati che si pongono al lavoratore sono dati obbligati. Ora, mi pare che questa formulazione abbia un significato ironico che non dovrebbe trovare posto nella Costituzione.

Penso che se si deve stabilire un dovere al lavoro, corrispondente al diritto al lavoro, questo dovere deve riflettere l’atteggiamento del singolo nei confronti della società organizzata politicamente, cioè dello Stato, e che quindi il dovere al lavoro si traduca, come sua sola formulazione plausibile, in un diritto, da parte dello Stato, di richiedere la prestazione del lavoro dei singoli. Questo mi pare che sia, nell’articolo 31, esplicitamente escluso, perché quando si dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta, è esclusa qualunque possibilità da parte della Repubblica di richiedere al cittadino un determinato lavoro.

Ora, noi sappiamo benissimo che lo Stato richiede ai cittadini un’aliquota del loro lavoro, in forma monetaria, attraverso tributi; noi sappiamo che in certe circostanze lo Stato richiede un’aliquota di lavoro in prodotti, attraverso i conferimenti obbligatori. Non credo che dobbiamo, per un indefinito avvenire, limitare ed escludere il diritto dello Stato di richiedere ai cittadini una prestazione di lavoro quando questa possa servire al benessere della collettività. Allo stesso modo come noi sappiamo che lo Stato ha il diritto di richiedere la prestazione al cittadino per la difesa del territorio della Repubblica, senza che sia fissata nessuna limitazione, perché le limitazioni saranno fissate dal grado di civiltà dei cittadini, così, per quello che sarà un eventuale diritto futuro, lo Stato italiano deve poter richiedere una prestazione di lavoro al cittadino, che sarà limitata dal grado di coscienza democratica e di evoluzione civile dello Stato democratico.

Con l’occasione, svolgo anche l’altro emendamento, di soppressione del terzo comma, che è collegato con quello che ho testé svolto. Rilevo che, se venisse accettato il mio emendamento al secondo comma, l’ultimo comma non avrebbe più ragion d’essere. Nel caso invece che il mio emendamento al secondo comma sia respinto, io intendo rinunciare all’emendamento soppressivo del terzo comma, perché è evidente che la sanzione della privazione dell’esercizio dei diritti politici, data la genericità con la quale è stato formulato il dovere del lavoro, è una sanzione di carattere morale, mancando qualunque possibilità di valore giuridico. Qualora invece si concretasse il dovere del lavoro, non vi sarebbe più bisogno di una sanzione di questo tipo, cioè di una sanzione morale. Io non faccio la questione del collegamento fra l’articolo 31 e l’articola 45. Questa è una questione che, non essendo ancora stato votato l’articolo 45, non pone nessuna limitazione per la votazione dell’ultimo comma dell’articolo 31. Quindi, mantengo la mia proposta di soppressione del terzo comma, nel solo caso che venga approvato il mio emendamento al secondo comma.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Morini, Taddia, Persico, Gullo Rocco, Bennani, Di Giovanni, Lami Starnuti:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«Ogni cittadino ha il dovere di lavorare, conformemente alle proprie possibilità».

L’onorevole Morini ha facoltà di svolgerlo.

MORINI. Siamo stati indotti a presentare l’emendamento al secondo comma dell’articolo 31 perché ci sembra che la dizione del Progetto sia troppo lata. E ciò anche in rapporto a quella che è un po’ la caratteristica del nostro progetto di Costituzione, caratteristica che comporta allo Stato una quantità di aggravi i quali, se non vi si pone un freno, potrebbero diventare una soma eccessiva. Il secondo comma dell’articolo 31 deve essere considerato in rapporto alla prima parte dell’articolo 32.

Dice il secondo comma dell’articolo 31:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Dice l’articolo 32:

«Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia»

Immediatamente la domanda che viene spontanea è questa: chi paga queste retribuzioni? In genere paga il beneficiario di quell’attività o di quella funzione. Ma nella formula dell’articolo 31 rientrano attività che non si risolvono a favore di una determinata persona o ente, ma si svolgono a vantaggio della società, presa nella sua essenza religiosa, come direbbero i colleghi democristiani.

È inutile fare dei sottintesi: è pacifico che rientra in questo caso l’ordine religioso contemplativo, rientra in esso chi fa della propria vita una dura rinuncia, ad esempio, in una continua preghiera, a favore dell’umanità per i peccati degli uomini. Ed allora è pacifico che domani si potrà dire che questa retribuzione dovrà essere pagata dallo Stato, cioè dalla società organizzata.

Ed è qui il nostro dissenso: nessuna obbiezione a quella che è caratteristica gelosa dell’organizzazione della Chiesa, ma anche nessun addentellato per nuovi aggravi.

Sopprimere allora il secondo comma dell’articolo 31? No! perché esso è il completamento del primo comma. Nel primo comma si parla del diritto al lavoro, nel secondo comma si parla del dovere al lavoro. Inoltre esso è avvio e premessa al terzo comma, che contiene la sanzione politica per chi si sottrae al dovere del lavoro, circoscritto nei limiti delle sole possibilità di ciascuno. Manteniamo quindi il secondo comma nella nuova formulazione da noi proposta per impedire nuovi aggravi allo Stato, perché questo non continui ad essere il Cireneo moderno di tutte le situazioni in cui vi sia carenza o insufficienza di soggetto passivo.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento della onorevole Federici Maria:

«Al secondo comma, sostituire la parola: attitudini alla parola: possibilità».

Ha facoltà di svolgerlo.

FEDERICI MARIA. Onorevole Presidente, questo emendamento è stato proposto da me in connessione con altri due emendamenti che si riferiscono rispettivamente agli articoli 48 e 98 del progetto e che appartengono ai Titoli relativi ai diritti politici e alla Magistratura. Mi riservo, in sede di discussione di quegli articoli, di chiarire questo concetto della «possibilità», perché tale parola in questo articolo costituisce una limitazione per la donna nel campo del lavoro.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Zotta e Cassiani hanno presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma sopprimere le parole: conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta, e sostituirle col seguente comma:

«Ogni cittadino è libero di scegliere la propria occupazione».

L’onorevole Zotta ha facoltà di svolgerlo.

ZOTTA. L’articolo 31 parla nel primo comma del diritto al lavoro, nel secondo comma del dovere del lavoro e della libertà di scelta della professione, nel terzo, infine, commina una sanzione contro chi non lavora, la quale consiste nella perdita dell’esercizio dei diritti politici.

Questo articolo, come d’altronde il complesso delle norme che riguardano la disciplina del lavoro, fissa uno status professionale. Indubbiamente ogni cittadino, in quanto lavoratore, si trova di fronte agli altri lavoratori in una specifica situazione di fatto e di diritto che qualifica, distingue la sua persona nella società. E ugualmente la categoria dei lavoratori del medesimo tipo assume di fronte alle altre categorie di lavoratori, nell’odierno assetto economico e giuridico, una particolare personalità ed autonomia e così si inserisce nell’organizzazione dello Stato. Dunque vi è uno status professionale.

Ora la questione che sorge è questa: se questo status abbia effetti nell’ordinamento costituzionale, nel senso cioè che esso costituisca un motivo di privilegio, di differenziazione tra i cittadini, una condizione per la partecipazione stessa alla vita politica della società. E allora mi viene da pensare alla strana situazione in cui in un tempo si trovavano i cittadini. Dante è costretto ad iscriversi alla Corporazione degli speziali per esercitare i diritti politici; la Costituzione russa prescrive che chi non lavora non mangia; e il medesimo concetto è ripetuto nella Costituzione jugoslava «chi non dà nulla alla comunità non ha diritto di ricevere nulla dalla stessa».

E la nostra Costituzione? Il progetto esclude chi non lavora dall’esercizio dei diritti politici. Al di fuori delle cennate costituzioni russa e jugoslava, le quali peraltro non si concretano in particolari disposizioni coercitive o in una sanzione particolare, l’Italia è il primo paese che introduca una limitazione nella capacità civile a carico dell’individuo che non lavora. Dunque lo status professionale incide sulla capacità giuridica del cittadino.

Finora si insegnava che per la persona fisica, unica condizione per essere subietto di diritto, fosse quella di essere uomo, che la capacità giuridica, cioè quel complesso di poteri e di facoltà che definisce l’individuo nell’organizzazione sociale, appartenesse all’individuo fin dalla nascita, e che essa potesse essere limitata relativamente soltanto ad alcuni diritti, per ragione di sesso, di età, d’infermità o di condanna penale. Una innovazione fu introdotta tanto infelice e fu quella che metteva al bando della vita civile gli appartenenti alla razza ebraica. Vogliamo noi continuare nel sistema, e dividere, senza un criterio sicuro ed obbiettivo di valutazione e di discriminazione, i cittadini in probi e reprobi?

Non tanto, onorevoli colleghi, mi preoccupa l’introduzione del principio, del quale è a temere soltanto la pericolosità, la tendenziosità dell’applicazione e non già la rispondenza ad uno stato di fatto sussistente nella realtà – io non ho mai trovato finora alcuna persona sana la quale non lavorasse perché non volesse lavorare, ma centinaia di migliaia di uomini che non lavorano perché non trovano da lavorare – non tanto, dicevo, mi preoccupa l’introduzione del principio in Italia, proprio in Italia dove tutti gli uomini, siano ricchi, siano poveri, vivendo in un’atmosfera di miseria che minaccia di giorno in giorno di soffocare il popolo tra gli artigli della fame, sono naturalmente stimolati da una spinta individuale e da una spinta collettiva ad acuire il proprio ingegno, a raffinare la propria intelligenza fino all’esasperazione, ad intensificare la propria attività sino a moltiplicarla per cercare di far fronte ai mille bisogni, cui le desolate condizioni di natura non provvedono: mi preoccupa invece che si perpetui il sistema di introdurre, ora per una ragione ora per un’altra, in una ininterrotta vicenda di azioni e di reazioni; di avvisaglie e di rappresaglie, limitazioni di capacità che costituiscono violazione dei diritti primordiali della personalità umana. Ciò è essenzialmente antidemocratico.

Chi non sente tutta la bellezza di questo principio etico del dovere sociale del lavoro? Ricordo i versetti della Scrittura: Siamo fatti per lavorare, come gli uccelli per volare. È un principio di natura e, appunto perché è un principio di natura, non era stato mai fissato precedentemente nelle Costituzioni.

Soltanto adesso alcune Costituzioni ne parlano; ma come di un dovere morale e sociale; usano termini elevati, termini non giuridici. La Costituzione estone parla di onore del lavoro. La Costituzione germanica dice in proposito: «Ogni tedesco, pur conservando la sua libertà personale, ha il dovere morale di impiegare le sue energie spirituali e corporali in modo da riuscire utile alla collettività». Quale obbligo sociale e con speciale riferimento alla protezione della legge, il lavoro viene definito nelle costituzioni di Costarica, Nicaragua, Panama, Uruguay.

Perché vogliamo offendere il popolo italiano, che è lavoratore al massimo, mostrando di non voler fidare nella sua sensibilità morale? I concetti morali hanno una forza, una vitalità che supera la contingenza politica del momento. Il lavoro è la legge immutabile della nostra vita, ed è condizione non solo del progresso economico, ma anche di elevazione intellettuale e morale, per cui già si pone male il problema quando si pensa che al lavoro abbiano la spinta soltanto coloro che siano stretti da necessità economiche. Ma, svuotato il termine lavoro del suo contenuto etico, cioè della condizione della sua obiettività ed universalità, e ristretto ad una nozione giuridica, cioè ad un obbligo di fare con minaccia di sanzione, ecco allora la grande questione: che cosa è il lavoro? E la risposta la darà la forza politica predominante nel momento. Si profila così, nel delineare il concetto, una pericolosa incertezza, una nebulosità di linee e di confini, che fa temere che domani saranno soltanto elementi contingenti, e, forse, anche ciechi istinti, a determinare chi bisogna proteggere e chi bisogna perseguitare, chi è lavoratore e chi non è lavoratore. È per questa ragione che chiedo la soppressione dell’ultimo capoverso dell’articolo.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Caso, Coppa e De Maria, hanno presentato il seguente emendamento:

«Al secondo comma sopprimere le parole: e alla propria scelta, e aggiungere dopo la parola: possibilità, le parole: fisiopsichiche e tenuto conto delle preferenze individuali».

L’onorevole De Maria ha facoltà di svolgerlo.

DE MARIA. All’articolo 31 si afferma che il cittadino ha il dovere di svolgere una attività o una funzione conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta.

Siccome le possibilità sono un’affermazione tanto generica quanto l’altra della propria scelta, proponiamo di specificare meglio al futuro legislatore cosa possa significare la frase nel suo insieme «conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta» e questo soprattutto allo scopo di richiamare l’attenzione sopra i postulati di una scienza moderna, cioè la psicotecnica, la quale studia appunto le possibilità dell’organismo umano in rapporto all’orientamento e alla selezione professionale.

Se si vuole limitare l’affermazione al dovere di svolgere una attività oppure una funzione qualsiasi che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, allora varrà la pena di sopprimere il resto del secondo comma; ma se nella Costituzione si vuole fare accenno alle possibilità del cittadino (specificando di quali possibilità si tratti) e alla propria scelta (accennando alle condizioni e modalità della scelta di una determinata professione o di un determinato mestiere), allora converrà aggiungere alla parola «possibilità» le parole «fisiopsichiche e tenuto conto delle preferenze individuali» (se fisiopsichiche è troppo tecnico: organiche). Con questa dicitura si entra nel campo della razionalità scientifica: senza peraltro imporre preventivamente alcun obbligo al legislatore, gli si dà l’indicazione per una possibile attuazione, nelle future leggi di tutela del lavoro, di tutte quelle norme che servano a proporzionare sempre meglio le attività fisiche e psichiche di ogni individuo, non padrone assoluto di una scelta più o meno empirica della sua professione, ma disponendo delle proprie energie in rapporto con quelle preferenze individuali, che, insieme con lo studio delle attitudini individuali, concorrono alla scelta del mestiere ma non lo determinano da sole. Di qui può arguirsi tutta la importanza di questa precisazione, a prima vista superflua o eccessivamente unilaterale dal punto di vista medico, sol che si tenga presente quanta dispersione di energie lavorative e quanta mancata selezione nei vari mestieri siano dovute, per lo più, alla scelta empirica della propria attività di lavoro, senza cioè il concorso di un accertamento, sia pure con una componente volontaria, delle attitudini individuali.

E si tenga conto inoltre che lo Stato, interpretando, disciplinando e razionalizzando, anche questa componente volontaria nello studio e nella determinazione delle attitudini, alla luce delle ultime conquiste della psicotecnica, verrebbe ad immettere nella società un patrimonio intellettivo finora inesplorato fra i lavoratori, quanto mai suscettibili di sviluppi geniali o almeno educativi, a favore della intera Nazione.

Il secondo comma resterebbe dunque per noi così formulato:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società conformemente alle proprie possibilità fisiopsichiche e tenuto conto delle preferenze individuali».

Allo stesso articolo 31 proponiamo poi l’abolizione del terzo comma ove è detto che, in caso di inadempimento del dovere del lavoro, possono essere sancite delle limitazioni o abolizioni dei diritti politici. Questo comma è in contrasto con l’articolo 45 del Titolo quarto ove è detto: «Non può essere stabilita nessuna eccezione al diritto di voto se non per incapacità civile o in conseguenza di sentenza penale».

Il legislatore di domani, se fosse approvato il terzo comma dell’articolo 31, potrebbe trovarsi nella condizione di dover sancire la privazione del voto per un cittadino che non adempisse al suo dovere di lavoro, mentre all’articolo 45 è stabilito il contrario.

Per queste ragioni proponiamo l’abolizione del terzo comma dell’articolo 31.

Concludo insistendo soprattutto sulla opportunità del primo emendamento poiché, utilizzando i risultati conseguiti dalla scienza medica nel campo dello studio delle attitudini e attività professionali, contribuiremo efficacemente al migliore avvenire sociale e politico della Patria.

Presidenza del Vicepresidente TUPINI

PRESIDENTE. L’onorevole Gabrieli ha proposto di sopprimere il terzo comma.

Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

GABRIELI. L’ultimo comma dell’articolo 31 si propone di condizionare l’esercizio dei diritti politici all’adempimento dell’obbligo stabilito nel secondo comma dell’articolo 30.

Mi permetto di far rilevare che questo comma contrasta in maniera assoluta con l’articolo 3 della Costituzione, dalla Costituente già approvato, nel quale si fa dipendere l’esercizio di tutti i diritti civili e politici dalla semplice qualità di cittadino. Esso contrasta inoltre con l’articolo 45 che dovremo approvare, in cui si dice che il diritto elettorale attivo non dipende se non dalla qualità di cittadino. Mi permetto di ricordare che la sospensione o la perdita totale dei diritti politici dipende da sentenza penale di condanna che supera determinati limiti di pena. Solamente in quel caso il cittadino entra in condizioni di inferiorità morale e giuridica e perde definitivamente o in maniera temporanea, a seconda della gravità della condanna, l’esercizio dei suoi diritti.

PRESIDENTE. Anche gli onorevoli Bosco Lucarelli, Cappi e Cappugi hanno proposto di sopprimere il terzo comma.

L’onorevole Bosco Lucarelli ha facoltà di svolgere l’emendamento.

BOSCO LUCARELLI. Rinunzio allo svolgimento associandomi a quanto ha detto l’onorevole Gabrieli.

PRESIDENTE. Gli onorevoli Benvenuti e Dominedò hanno anch’essi proposto di sopprimere il terzo comma.

L’onorevole Benvenuti ha facoltà di svolgere l’emendamento.

BENVENUTI. Onorevoli colleghi, è evidente che sono in gioco in quest’ultimo capoverso dell’articolo 31 i diritti fondamentali del cittadino: in particolare verrebbe da tale disposizione ad essere minato uno dei diritti, senza dei quali non vi è democrazia, e cioè il diritto di partecipazione di tutti i cittadini alla formazione della legge.

Ora si può discutere se il potere costituente abbia, o non abbia, fra le sue facoltà quella di limitare o di togliere ad alcune categorie di cittadini questo particolare diritto. Quello che, a mio avviso, non può essere ammesso, è che un tale diritto venga messo in balia degli arbitri del potere legislativo, come praticamente avverrebbe se si approvasse questo capoverso.

Mi permetto di rilevare che la Corte costituzionale in nessun caso sarebbe in condizione di cassare una legge elettorale, la quale togliesse i diritti fondamentali politici ai cittadini sulla base del capoverso 2 dell’articolo: in quanto o la Corte costituzionale per non invadere l’orbita del potere legislativo dovrebbe dichiararsi incompetente, ovvero dovrebbe entrare in questioni sottili di apprezzamento di natura sociale e politica che, a mio avviso, esorbitano completamente dai poteri di un organo giurisdizionale. Quindi praticamente, nessuna legge elettorale, che limitasse i diritti dei cittadini in base al capoverso dell’articolo 31 potrebbe andare soggetta a censura da parte della Corte costituzionale: donde possibilità di ripetuti arbitrii da parte di tutte le maggioranze parlamentari, che di volta in volta potrebbero, in certo modo, rifare il loro corpo elettorale appoggiandosi al terzo capoverso.

Quindi è fondamentale che il terzo comma sia soppresso.

PRESIDENTE. L’onorevole Cortese ha già svolto il suo emendamento tendente a sopprimere il terzo comma.

L’onorevole Mortati ha presentato un emendamento che propone di «rinviare la discussione dell’ultimo comma al momento dell’esame dell’articolo 45, col terzo comma del quale è in netta contradizione».

Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

MORTATI. È indubbia l’opportunità del rinvio dell’ultimo comma al momento dell’esame dell’articolo 45 relativo ai diritti politici, in quanto che, quando si discuterà l’articolo 45, si dovranno esaminare alcuni casi di esclusione dal diritto elettorale che hanno dei punti di collegamento e sono in riferimento con l’adempimento delle attività lavorative. Ed allora sarebbe opportuno che queste ipotesi siano considerate nella stessa sede e pertanto propongo il rinvio.

PRESIDENTE. Occorre che lei chiarisca, onorevole Mortati, la portata del suo emendamento, se cioè si tratta di rimandare la discussione nel merito o di fare una questione di collocamento, poiché in quest’ultimo caso potremmo studiare il problema dopo aver approvato il primo ed il secondo comma. Se fa una discussione di merito, le faccio osservare che la questione già è stata sufficientemente esaminata.

MORTATI. La mia proposta – come risulta dalla sua stessa formulazione – era quella di rinviare la discussione, poiché vi sono altri casi ed altre ipotesi di limitazione del diritto del voto che potrebbero porsi in relazione con il dovere del lavoro (come quello dei ricoverati negli ospizi di mendicità), quindi è opportuno esaminarli globalmente. Propongo pertanto il rinvio della discussione all’articolo 45.

PRESIDENTE. L’onorevole Nitti ha proposto di sopprimere il secondo e il terzo comma.

Ha facoltà di svolgere l’emendamento.

NITTI. Ieri avrei voluto parlare su questo Titolo terzo: «Rapporti economici», ma una noiosa raucedine ed anche la febbre mi impedirono di attenermi al mio proposito. Mi permetterò oggi di dire solo poche parole. Io ritengo che questo Titolo terzo sia di estrema gravità; e molte di quelle cose che oggi ci proponiamo di votare, facilmente potranno costituire per l’avvenire un grave peso su tutta l’economia nazionale. La massa enorme di promesse che vi sono contenute non potremo mantenerle.

Mi limito oggi a spiegare per quali ragioni io vorrei che gli articoli 31 e 32 fossero in parte modificati o soppressi. Noi affermiamo nell’articolo 31 che la «Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Ciò non manca di gravità, perché costituisce peso enorme e indefinito. È naturale, che il lavoro abbia le sue esigenze, e per quanto è possibile noi dobbiamo cercare di dare al lavoro il posto che merita nella nostra società. Si afferma che «ogni cittadino ha il diritto di svolgere una attività o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società conformemente alle proprie possibilità ed alla propria scelta»; e si aggiunge (e non è proprio necessario) che «l’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici». Si afferma poi che «il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia. Il lavoratore ha diritto non rinunciabile al riposo settimanale ed a ferie annuali retribuite». Buoni propositi! Chi ha scritto questo articolo vorrei che me lo spiegasse. Esso costituisce un fatto nuovo. Che questo articolo possa essere scritto come una aspirazione, poetica e sentimentale, io mi spiego. Questo articolo sembra inspirato da una concezione russa. Né meno in Russia ora è realizzabile, ma potrebbe essere in lontano avvenire. Un paese che ha estensione immensa, abbondanza di materie prime – seppure attualmente manchi di tutto – può esprimere questo come un proposito, come una volontà avvenire. L’Italia può veramente fare queste cose come promesse? L’Italia non può vivere da sé sul territorio. Chi fa queste promesse non solo per l’avvenire ma per il presente vaneggia. L’Italia ha un piccolo territorio dove su 310 mila chilometri quadrati deve vivere una massa enorme di uomini. Sopra un ettaro di terreno coltivabile devono vivere due uomini e mezzo. L’Italia non ha materie prime. È il solo paese d’Europa che si trovi in queste gravi condizioni. Non vi sono che due grandi paesi continentali in Europa che hanno un territorio limitatissimo, la Germania e l’Italia.

L’Italia ha press’a poco la stessa densità di popolazione della Germania, presso a poco 140 abitanti per chilometro quadrato. Ma la Germania ha infinite risorse: oltre ad avere un territorio quasi tutto in pianura, molto più fertile di quello dell’Italia, con una rete di canali, ha una più grande quantità di materie prime, sovratutto carbone e altri combustibili fossili. Quindi, essa ha tutte le condizioni per una grande industria. La sola Ruhr, che ha un territorio piccolo come quello di un circondario italiano, ha produzione tale che può comperare all’estero tutte le materie prime per tutta la Germania con i soli prodotti della Ruhr.

Noi facciamo promesse sulla carta: garantiamo condizioni di vita, che poi non potremo dare mai per gran tempo al popolo italiano. Noi non possiamo garantire nulla di ciò che promettiamo. Il popolo italiano dovrà vivere di sforzi. Esso non è mai vissuto delle risorse del proprio territorio. L’Italia, per formarsi, ha dovuto mandare all’estero fino ad un milione di uomini all’anno, in via temporanea o in via definitiva. L’Italia ha dovuto utilizzare tutte le sue risorse, per poter vivere. E noi ci mettiamo a garantire qui, seriamente, che alle famiglie italiane noi daremo ora un alto tenore di vita. Non potremo dare mai ciò che l’Italia non ha mai avuto.

Avendo adottata la formula politica che abbiamo adottato, non dobbiamo discreditarla, promettendo cose che l’Italia non può ora e non potrà dare né meno in avvenire prossimo.

Io devo dire che noi dobbiamo dare al popolo italiano, con ogni sforzo, una sensazione di vita, non false illusioni. Il popolo italiano dovrà incontrare terribili difficoltà per molti anni. Mentiscono coloro che adesso affermano che in pochi anni la situazione italiana diventerà non solo normale, ma facile e che di nulla mancheremo. Costoro dicono cose non vere. L’economia italiana si potrà riprendere solo lentamente, penosamente e con grande sforzo e fatica.

Ora, come possiamo promettere a cuor leggero che daremo al lavoratore, in ogni caso, un’esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia? Non l’ha mai avuta. Potremo garantirla solo perché abbiamo la Repubblica e diciamo di essere una democrazia?

Noi possiamo proporci tutte le buone ed oneste cose che vogliamo, ma non potremo dare ciò che non è possibile.

Noi possiamo assumere degli obblighi di ordine morale, ma non di ordine materiale. Noi dobbiamo rimanere nella realtà.

Quando da una parte e dall’altra di questi settori si raggiunge, per sentimenti diversi, un accordo, nell’espressione di tendenze ottimiste, io so che gli uni e gli altri non manterranno, non potranno mantenere, perché la realtà è più forte delle illusioni.

Io non vorrei far diffondere queste illusioni nell’animo popolare.

Parlerò dopo, se mi riuscirà, su quanto riguarda il lavoro, i diritti al lavoro, lo sciopero e i conflitti del lavoro.

In sede di discussione degli articoli mi permetterò di fare solo qualche osservazione.

Voglio ora limitarmi a dire che non intendo, da parte mia, garantire alcune promesse che so non potere essere mantenute. Quindi ho proposto di sopprimere le parole che esprimono impegni non realizzabili. Si parla facilmente di rendere dignitose e prospere le condizioni della famiglia! La famiglia in Italia è più numerosa che, quasi, in qualunque altro paese civile. E vi sono persone inconsce che sperano in famiglie che diventino più numerose. Mussolini premiava le famiglie numerose, quasi non bastasse che la famiglia italiana sia, fra i grandi, Stati di Europa dell’occidente, la più numerosa. Mussolini la voleva numerosa solo perché aveva l’illusione che così avrebbe fatto esplosione, avrebbe portato la guerra nel mondo. Ora la famiglia italiana non può darsi nemmeno questo lusso. La famiglia italiana deve essere elemento di ordine di pace e deve prima di tutto conquistare la vita, il diritto di esistenza, non pensare a niente di quello che turba il mondo. E però, dunque, io spero che il tempo delle follie ideologiche in un senso o nell’altro sia definitivamente finito.

Nella unione attuale fra democristiani e comunisti non si può procedere troppo avanti senza danno. Unioni provvisorie d’azione politica per scopi temporanei e temporanee esigenze sono possibili qualche volta forse senza danno. Ma unione permanente di programmi non è verosimile senza danno di tutti o senza infingimenti. La falce e il martello e la croce e l’aspersorio non possono avere né gli stessi ideali, né la stessa azione. In avvenire ognuno deve seguire la sua via. La libertà deve essere difesa contro tutte le insidie. Se la concordia in tempi calamitosi è utile, non sempre è utile, spesse volte è dannosa. Io non ho da dire che poche parole per mettervi in guardia, e cioè che gli articoli 31 e 32, così come sono stati concepiti, non sono possibili, perché promettono delle realtà non reali, promettono cose che non possono essere mantenute, stabiliscono impegni dello Stato che lo Stato, non potrà mantenere né meno in avvenire anche in paesi ben più ricchi.

Mi riservo, in seguito, di dimostrare come qualche altra illusione sia non meno pericolosa. Mi limito oggi a questa semplice osservazione o piuttosto a qualche semplice richiamo.

PRESIDENTE. L’onorevole Ruggiero Carlo ha presentato il seguente emendamento:

«Al terzo comma, tra la parola: dovere, e le parole: è condizione, inserire: salvo i casi di provata impossibilità».

Ha facoltà di svolgerlo.

RUGGIERO CARLO. Onorevoli colleghi, l’ultimo comma dell’articolo 31 ha gettato un po’ di confusione in molti spiriti tanto è vero che con molta insistenza, da parte di parecchi settori della Camera, sono pervenuti emendamenti, i quali chiedono concordemente la soppressione del comma stesso.

Io debbo osservare che, se noi consideriamo il comma come fatto a sé stante, indipendentemente dal contesto della Costituzione e come avulso da questa il comma ultimo dell’articolo 31 potrebbe apparire come eccessivo, perché potrebbe creare una specie di menomazione a quella che è la dignità o la libertà del cittadino. Ma, se voi considerate questo comma in rapporto al complesso delle norme costituzionali approvate fino a questo momento, voi vedrete che questo comma appare come il corollario, come la conseguenza logica di quello che è stato da noi stabilito nelle norme costituzionali precedenti. Vedete, noi abbiamo assunto il lavoro nella Costituzione come fondamento della Repubblica, tanto è vero che nell’articolo 1 è scritto che l’Italia è una Repubblica che trova il suo fondamento nel lavoro. Questo significa che il lavoro viene considerato da noi come elemento sostanziale e come fatto fondamentale. Insomma, noi diciamo nella Costituzione che è il lavoro che dà un contenuto etico alla nostra vita di cittadini italiani.

Affermato questo principio, che oramai è irrevocabile, perché è stato sancito nella Costituzione, ci troviamo di fronte a questo dilemma: questa affermazione deve rimanere un’affermazione astratta, metafisica, rinviata e relegata nel campo ideologico delle astrazioni, oppure questa affermazione deve trovare riscontro nella realtà pratica? Perché, se si è di questo secondo avviso, io penso che in un solo modo noi possiamo tradurre in realtà pratica il principio fondamentale che abbiamo assunto, cioè il lavoro: dando al principio la sanzione, e propriamente la sanzione che è contenuta nell’ultima parte dell’articolo 31. Perché io vedo l’ultimo comma dell’articolo 31 come una sanzione. Colui il quale non lavora, colui il quale non osserva il principio che deve essere considerato come lo spirito informatore della Carta costituzionale, andrà incontro a questa misura, cioè alla privazione dell’esercizio dei diritti del cittadino, inteso come elettore.

Quindi, o riteniamo che l’articolo 1 debba avere attuazione pratica; e allora, necessariamente dobbiamo addivenire all’accettazione dell’ultima parte dell’articolo 31; se no l’articolo 31 – ripeto – resterà un’affermazione vuota di ogni vero contenuto giuridico, assolutamente improduttiva di effetti, assolutamente inefficace e inoperante.

Ora, quando si parla di sanzione, onorevoli colleghi, si pensa a qualche cosa che possa mortificare un po’ la dignità e la libertà del cittadino. Nella specie mi sembra di no. C’è stato il collega onorevole Zotta, il quale diceva che in una Costituzione moderna era sancito il principio – che poi è il principio di San Paolo – per cui chi non lavora non mangia. In quella Costituzione, esiste la sanzione, ma intesa in senso direi materialistico o, diciamo la parola più esatta, in senso corporale. Qui invece esiste una sanzione, la quale – secondo il mio modesto parere – non vale a mortificare la dignità e la libertà del cittadino, ma vale invece a conferire prestigio al principio del lavoro, cioè a quel principio che abbiamo assunto come fondamentale elemento della Carta costituzionale. Perché? Perché, quando si dice che l’elemento essenziale del cittadino è la sua attività, il suo lavoro, e si assume il lavoro a tale elevazione di concezione, è giusto che la sanzione abbia lo stesso valore cioè corrisponda ad una privazione che incide sul diritto e sulla funzione del cittadino. L’esercizio dei diritti politici costituisce una funzione è un diritto squisitamente propri del cittadino. La sanzione che consiste nella privazione di questo diritto assume un valore direi quasi etico, che è corrispondente al valore dato al principio del lavoro. Non è quindi sanzione di ordine materiale e corporale, che angustia e mortifica, ma sanzione che – secondo me – dona prestigio al lavoratore in quanto ne aumenta la sensibilità morale e corrisponde ad una funzione squisitamente personale. Quindi non dovrebbe sgomentare ed impaurire, secondo me, questa forma di sanzione contenuta nell’articolo 31.

Io vorrei fare osservare ai colleghi democratici cristiani che furono proprio i rappresentanti del loro partito, in seno alla Sottocommissione, che proposero l’ultimo comma dell’articolo 31. Infatti il collega Basso inizialmente volle che si stabilisse un principio così formulato: «Tutti i cittadini concorrono all’esercizio di questo diritto, tranne quelli che ne sono legalmente privati, o che volontariamente non esercitino attività produttive». L’onorevole Merlin aderiva senz’altro alla proposta, ma l’onorevole Moro, che pur era d’accordo sul principio, propose questa formula: «L’adempimento di questo dovere al lavoro è presupposto per l’esercizio dei diritti politici». La formula, come vedete, è dell’onorevole Moro. E l’onorevole La Pira, che faceva parte della stessa Sottocommissione, si associò all’emendamento di Moro. Non capisco questa levata di scudi all’ultimo momento contro questo articolo da parte della Democrazia Cristiana. Debbo fare notare però che non può essere accettato il comma dell’articolo 31, così come è formulato, perché in effetti ha una enunciazione troppo generica e non comporta né distinzioni né discriminazioni. La dizione è troppo cruda perché l’articolo non prevede i casi di chi non può adempiere, per ragioni indipendenti dalla sua volontà, a questo dovere. Ho proposto perciò un emendamento che tiene conto di questi casi particolari: «L’adempimento di questo dovere, salvi i casi di provata impossibilità, è condizione per l’esercizio dei diritti politici». L’emendamento verrebbe a rientrare in un ambito più ristretto e forse più aderente alla realtà pratica perché prevederebbe così i casi di deficienza fisica e psichica come l’involontaria impossibilità in cui uno può trovarsi a causa della disoccupazione. Per tutti questi casi io ritengo che si possa far luogo all’accoglimento di questo emendamento.

C’è poi una questione di carattere, diciamo così, procedurale, perché si dice che il comma ultimo dell’articolo 31 sarebbe in contrasto con l’articolo 45. Mi permettano, onorevoli colleghi, di fare osservare che, se è vero che l’ultimo comma dell’articolo 31 va inteso come una sanzione, mi pare che la sanzione debba accompagnare il principio, e prevedere i casi di inosservanza di quel principio, mentre l’articolo 45 parla della facoltà di un diritto e quindi noi, se omettessimo qui l’ultimo comma dell’articolo 31, non statuiremmo la necessaria sanzione e compiremmo un piccolo errore di carattere tecnico.

Per le ragioni da me modestamente espresse, penso che debba essere accettato l’emendamento. È una piccola battaglia che la Costituzione ingaggia contro ogni parassitismo. Questo è il contenuto etico, politico, e, diciamo anche pratico, dell’articolo in questione. Ed io mi sono permesso di formulare l’emendamento perché esso allarga un po’ il concetto contenuto nella formulazione originaria.

PRESIDENTE. L’onorevole Bubbio ha presentato il seguente emendamento:

«Aggiungere all’ultimo comma:

«Tale condizione non è applicabile agli uomini che hanno compiuto il cinquantesimo anno di età, a quelli che godono di pensione, né alle donne qualunque sia la loro età».

Ha facoltà di svolgerlo.

BUBBIO. Il mio emendamento ha carattere necessariamente subordinato agli emendamenti di soppressione del terzo comma, perché devo dichiarare subito, in linea pregiudiziale, la perfetta mia adesione ai concetti espressi dagli onorevoli Zotta, Gabrieli, Bosco Lucarelli, Dominedò e Foa per la soppressione del terzo comma dell’articolo 31. Ho sentito l’onorevole Ruggiero, pochi minuti fa, accennare al fatto, che in seno alla Commissione, che ha trattato la suddetta materia, ci sono stati colleghi di questo Gruppo i quali sono stati un po’ quasi gli innovatori in materia ed i promotori di questa disposizione. Possiamo prenderne atto, ma ciò non impedisce a me, come singolo, quale investito di una rappresentanza politica, di manifestare la mia fiera avversione a questo comma, e quindi di dissentire completamente dalle finalità propugnate dai proponenti. In sostanza, quando parliamo di libertà e di diritti politici intendiamo che essi siano tutelati e che spettino al cittadino, indipendentemente dalla loro particolare condizione in rapporto al lavoro. Il diritto politico è connaturato all’uomo, e qualunque sia la condizione sua, non è ammissibile che possa essere assoggettato a restrizioni, salvi casi di condizioni particolari di indegnità, che la legge attuale già contempla.

Ciò premesso, dichiaro di svolgere il mio emendamento in tesi unicamente subordinata, nell’eventualità cioè che non sia accettata la soppressione del predetto capoverso. Se eventualmente, come non ci auguriamo, la Camera fosse di tale avviso e quindi si dovesse lasciare nella Costituzione che i diritti politici del cittadino sono subordinati all’esplicazione di un’attività, bisognerà necessariamente attenuare la portata di questa norma, come già il collega Ruggiero ha accennato col suo emendamento, nel senso che venga contemplato un certo numero di esenzioni o di eccezioni, non potendosi a tutti applicare un principio così rigoroso. È un concetto d’altronde che sarebbe di assai difficile pratica attuazione. Se è già difficile accertare le condizioni per essere elettori, a quali complicazioni si perverrebbe se si dovesse anche introdurre un altro requisito, per poter essere elettori? Basta questa considerazione per dimostrare la necessità assoluta, in cui ci troviamo, anche per ragioni pratiche, di abolire il comma, o, in subordine, di accogliere l’emendamento aggiuntivo da me proposto.

Il fondamento su cui questo si basa mi pare sia abbastanza chiaro, senza bisogno di speciali chiose. Se l’esercizio dei diritti politici, secondo l’articolo in esame, è subordinato all’adempimento del dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, è ovvio che tale condizione non si possa opporre quando si tratta di persone pervenute ad una tale età per cui si debbano considerare come raggiunte ed esaurite l’attività o la funzione sopraindicate.

Gli è perciò che si è stabilito nell’emendamento l’età del 50° anno per gli uomini. A tale età si può dire che ogni uomo abbia, in linea generale, già esplicato buona parte della sua missione civile e familiare, e quindi non risulta più inderogabile pretendere un ulteriore periodo di attività ovvero il mantenimento della condizione di attività per poter continuare a godere dei diritti politici. Sarebbe invero ingiusto e strano che giunto a tale età, dopo venti, trenta anni di duro lavoro, l’uomo si vedesse defraudato del diritto di voto, che fino allora ha esercitato, solo perché non continua ad esplicare la sua attività, sino all’esaurimento delle sue forze. Basta porre questo dubbio, per persuadersi della necessità dell’apposizione di un termine, che non può essere che quello indicato o quello di una età a tale limite vicina.

L’orientamento della legislazione sociale, in corrispondenza all’estendersi della disoccupazione, all’intensificarsi del lavoro meccanico, all’aumento della natalità, lascia del resto prevedere non lontano il giorno in cui l’uomo a 50 anni potrà godere del giusto assegno di pensione il che naturalmente non gli impedirà di dedicarsi ancora ad una qualsivoglia attività lavorativa della mente o del braccio. Ad ogni modo, pensionato o meno, l’uomo cinquantenne non deve vedersi estromesso dall’esercizio dei suoi diritti politici. All’uomo cinquantenne dovrà, per lo stesso ordine di ragioni, essere parificato chi abbia conseguito un diritto a pensione od assegno, che si presuppone sia appunto maturato in virtù e per effetto dell’opera anteriormente prestata.

Per la donna, invece, si è voluto nell’emendamento proporre che la condizione stabilita nel capoverso anteriore sia inoperante ed inapplicabile. Ciò non è dettato soltanto da un dovere di riguardosa cavalleria verso il così detto sesso debole, che pure da tempo dà luminoso esempio di laboriosità e di iniziativa in questo campo, ma anche soprattutto dalla concezione cristiana della figura sociale della donna, la quale deve essere riguardata essenzialmente quale custode del santuario della famiglia, che è un interesse della società di conservare e di custodire ed irrobustire. È vero che le necessità economiche ognor più gravi hanno spesso distratta la donna da questa altissima missione; nessuno intende qui ostacolare questo incessante movimento di emancipazione, il quale per altro non può essere in antitesi, ma in armonica connessione con l’essenziale funzione della donna in seno alla famiglia, nuclei essenziale della società. Tutti sentiamo tuttavia la potenza della poesia che fa della donna la regina del focolare quale sposa, madre, sorella. Essa, quindi, qualunque sia la sua funzione nell’attività economica e spirituale, solo perché donna ed in quanto tale, ha diritto di godere dei diritti politici senza la limitazione di cui al terzo comma dell’articolo in esame. La proposta trova d’altronde la sua giustificazione nelle gravi difficoltà che bisognerebbe superare per catalogare le donne in rapporto alla loro attività, non potendosi pensare che si debba escludere dai diritti politici chi, in ipotesi, si limitasse ad essere la compagna del marito, senza l’esplicazione di una specifica attività familiare.

La donna, in quanto tale e per sua stessa natura, è imprescindibilmente portata ai lavori domestici e alle cure familiari e si deve considerare come esplicante in ogni età ed in ogni momento un’attività utile alla società. Il lavoro vero e proprio è, invece, appannaggio dell’uomo, perché non dobbiamo dimenticare il motto divino che, se la donna partorirà con dolore, spetta all’uomo di guadagnarsi il suo pane con il sudore della fronte. Quindi confido che l’emendamento proposto sarà approvato, sempre nella ipotesi subordinata che non sia accettata la soppressione dell’intero capoverso che da ogni parte è invocata e sulla quale ancora una volta anch’io insisto.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Nobili Tito Oro e Condorelli:

«Trasferire l’ultimo comma dell’articolo 10 al primo comma dell’articolo 31 che avrà in tal modo la formulazione seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuove le condizioni per renderne effettivo l’esercizio e tutela il lavoro italiano all’estero».

Chiedo al proponente se non ritiene che questo emendamento sia già assorbito dalla deliberazione dell’Assemblea, che, accettando l’emendamento Dominedò, ha anche accolto questo concetto.

NOBILI TITO ORO. L’emendamento che si propone, non consta solo dell’elemento aggiuntivo ma anche di un altro elemento, quello modificativo dell’espressione «promuovere condizioni per rendere effettivo questo diritto». Questa espressione si chiede di sostituire con l’altra, indiscutibilmente più propria, «promuove le condizioni per renderne effettivo l’esercizio». II diritto è diritto: è o non è. Non si può parlare di un diritto in attesa di divenire effettivo. Quindi, nel concetto dell’emendamento proposto, l’espressione «per renderne effettivo l’esercizio» è quella che rispettando l’essenza del diritto, corrisponde in pari tempo allo spirito del progetto.

Quanto all’altra parte dell’emendamento, onorevole Presidente e onorevoli colleghi, sono d’accordo che il voto testé emesso dall’Assemblea sull’emendamento dell’onorevole Tremelloni l’abbia assorbita; ma assorbita fino ad un certo punto, nella sostanza; e per questa parte mi compiaccio che il principio della tutela del lavoro italiano all’estero sia stato assunto qui, nel titolo dei rapporti economici. Ma c’è l’altra questione, quella insita nella proposta di inserire questo principio nell’articolo 31 anziché altrove.

A tale riguardo ha già osservato l’onorevole Presidente che questa può essere materia di riesame da parte dell’onorevole Commissione in sede di coordinamento e di definitiva redazione del testo.

Io ne prendo atto volentieri, ma non posso trattenermi dal raccomandare fin da ora alla Commissione di considerare che il punto sul quale l’inserzione deve aver luogo è proprio questo in cui, dalla linea concettuale del riconoscimento a tutti i cittadini del diritto al lavoro si sviluppa prima il conseguente obbligo, da parte dello Stato, di promuovere le condizioni per rendere effettivo l’esercizio di questo diritto e poi, conseguenza a sua volta di questo obbligo, il dovere di tutelare il lavoratore, nell’esecuzione del suo lavoro, dovunque esso sia compiuto.

Siccome non sempre sarà possibile procurare al cittadino lavoro in patria, sarà compito del Governo favorirne l’emigrazione. Onde si rende necessario che lo Stato tuteli il lavoro del cittadino anche all’estero perché, se lo accompagnasse con la propria assistenza soltanto fino al piroscafo o al treno che deve condurlo oltre frontiera, esso renderebbe inoperante e annullerebbe tutta la tutela prestatagli fino a quel momento.

La Repubblica, che è fondata sul lavoro, che chiama i lavoratori alla partecipazione effettiva al Governo dello Stato e delle pubbliche amministrazioni, che protegge il lavoro in tutte le sue manifestazioni, che per tutti i cittadini ne fa un dovere e, corrispondentemente, un diritto; la Repubblica, che promuove le condizioni per l’effettivo esercizio di questo diritto, deve proprio per effetto dell’assunzione di tali obblighi, tutelare i cittadini costretti ad emigrare per necessità di lavoro dovunque si rechino; e tutelarli non soltanto nelle persone, ma anche nei diritti che dal lavoro ad essi derivano e nel prestigio della Patria, che è condizione preliminare del rispetto ad essi dovuto.

Se tale è lo sviluppo logico e necessario del riconoscimento del diritto dei cittadini al lavoro e del dovere dello Stato di promuovere le condizioni per il suo esercizio, la tutela del lavoro italiano all’estero, come conseguenza indispensabile di tali premesse, deve trovare proprio nell’articolo 31 il logico collocamento.

È pertanto, mentre ritiro con questa raccomandazione la parte aggiuntiva dell’emendamento, senza pregiudizio – beninteso – delle determinazioni riservate all’onorevole Condorelli. Per quanto riflette la parte sostitutiva vi insisto.

PRESIDENTE. Prego l’onorevole Relatore di esprimere l’avviso della Commissione sugli emendamenti presentati.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. La Commissione non accetta l’emendamento soppressivo dell’intero articolo, proposto dall’onorevole Cortese. Quanto alla prima parte dell’emendamento dell’onorevole Colitto, essa enunzia un fine dello Stato: procurare lo sviluppo economico del Paese. Sembra inutile la indicazione di questo fine, fra i tanti che lo Stato si propone, a meno che l’onorevole Colitto non abbia inteso di condizionare l’attuazione del diritto al lavoro a quest’unico evento (di un maggiore sviluppo economico del Paese), nel quale caso non ci può trovare consenzienti perché noi riteniamo che anche altre provvidenze possano e debbano essere prese al fine di rendere effettivo il diritto al lavoro.

L’emendamento continua: «Predispone le condizioni generali per assicurare più che possibile ai cittadini l’esercizio del loro diritto al lavoro»: «Predispone le condizioni», è detto invece nel testo; mentre qui si specifica «generali». Questa specificazione è indubbiamente una limitazione, che la Commissione non può accettare perché vi possono essere anche condizioni particolari, oltre a quelle generali; condizioni cioè riferentisi a determinati settori dell’economia o a determinate categorie.

Il voler escludere tali condizioni particolari ci sembra non provvido divisamento, quando, in ispecie, si tratta del lavoro e di un diritto al lavoro per il quale si dice che la sua assicurazione è talmente problematica da dar luogo ai dubbi di cui particolarmente hanno parlato l’onorevole Nitti e l’onorevole Calamandrei.

L’emendamento dell’onorevole Colitto conclude quindi: «per assicurare più che possibile ai cittadini l’esercizio del loro diritto al lavoro»: e qui la forma attenua il concetto che vuol essere di vivo incitamento al legislatore per conseguire il massimo impiego.

La Commissione non può quindi accettare l’emendamento.

L’emendamento dell’onorevole Zuccarini è stato abbandonato e, quindi, mi astengo dal farne parola.

Passò ora all’emendamento presentato dall’onorevole Foa: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto»: fino a questo punto, non abbiamo che la riproduzione testuale del primo comma del nostro articolo 31; ma aggiunge l’onorevole Foa: «…ed assicura l’apprestamento dei piani economici per la difesa dei consumatori e per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei minimi bisogni vitali».

Egli pensa, dunque, in sostanza, che la formulazione breve e sobria del primo comma del testo non contenga nulla di concreto e di preciso, che sia un’enunciazione troppo vaga e indeterminata e che, come tale, non dia garanzia di soddisfacimento del diritto. A noi pare, invece, che le formulazioni ampie e indeterminate (per le quali anche ieri ci è stato mosso rimprovero da un onorevole collega) abbiano la loro giustificazione e la loro spiegazione; precisamente la stessa che ho dato ieri in risposta all’onorevole Cortese. Non è, quindi, necessario che mi ripeta.

Dice l’emendamento: «assicura l’apprestamento dei piani economici per la difesa dei consumatori e per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei minimi bisogni vitali»: senonché bisogna tener presente che dei piani economici si parla nello stesso Titolo III; se ne parla all’articolo 37, secondo comma, del testo. E se ne parla ancora all’articolo 40. A noi pare che sia preferibile ciò che è stato fatto dalla Commissione perché, mentre l’emendamento dell’onorevole Foa limita la difesa ai consumatori e accenna a un piano che dovrebbe avere per destinatari i consumatori, noi invece parliamo in genere di piani di produzione e di distribuzione. Per questo motivo non ci sembra opportuna l’aggiunta fatta dall’onorevole Foa e riteniamo preferibile il testo da noi proposto come quello che è più ampio e concreto.

Per quanto riguarda l’emendamento Villani-Cairo: «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Promuove e disciplina le condizioni per rendere effettivo questo diritto», anche in questo caso la Commissione apprezza quelle che sono le intenzioni che ha esposto oggi l’onorevole Villani; però pensa che le finalità che si propone coll’aggiunta della parola «disciplina» siano egualmente conseguite con la formula da noi proposta. Nel «promuove le condizioni», si capisce, è implicito anche il concetto espresso colla parola «disciplina» e, quindi, non occorre aggiungere altro.

L’onorevole Romano ha proposto un emendamento che consta di due parti. La prima è questa: «La Repubblica promuove le condizioni per eliminare la disoccupazione», e qui, in forma negativa, non si fa in sostanza che esprimere quanto in forma positiva è già detto nell’articolo 31. Poi c’è la seconda parte: «e garantisce l’assistenza a quei cittadini che devono emigrare per trovare lavoro». Anche questa seconda parte è già inclusa nella disposizione che abbiamo approvato poco fa: «tutela il lavoro all’estero». Ecco perché la Commissione non ritiene necessario l’emendamento.

L’onorevole Nobile propone di aggiungere al primo comma: «Essi potranno esercitare la loro professione, arte o mestiere in qualsiasi parte del territorio nazionale». Che sia ragionevole, non lo neghiamo affatto, ma osserviamo: si tratta di un diritto di libertà. Quando un diritto di libertà non è negato, è implicitamente concesso e, quindi, non c’è bisogno che venga enunciato.

L’onorevole Nobile si preoccupa di ovviare a inconvenienti o ad errori che si possano commettere nell’avvenire. Ci sembra una previdenza eccessiva e, quindi, non crediamo opportuna l’aggiunta.

L’onorevole Cortese propone di sopprimere il secondo comma. La Commissione non è di questa opinione. Si parla del lavoro come dovere che dovrebbe avere anche la sanzione dell’ultimo capoverso. Ma, indipendentemente da ogni sanzione, deve restare come affermazione di un principio etico di indubbio valore.

A sua volta l’onorevole Foa propone:

«La Repubblica può richiedere ai cittadini la prestazione di un servizio del lavoro».

In sostanza, l’emendamento, ha un sapore di lavoro coatto. Questa è la nostra impressione. Abbiamo già una disposizione (approvata all’articolo 18) che dice:

«Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge».

In essa è implicito che la legge può imporre al cittadino un determinato lavoro. Ma soltanto la legge. In questo appunto sta la garanzia di libertà.

«Ogni cittadino ha il dovere di lavorare, conformemente alle proprie possibilità». E l’emendamento proposto dagli onorevoli Morini, Taddia, Persico ed altri.

Il testo parla anche di «scelta», e la Commissione, in maggioranza, non ha ritenuto di dover permettere l’esclusione di questa parola come quella che è ispirata a un fine di libertà.

L’onorevole Federici Maria propone, in relazione al secondo comma, che si sostituisca la parola «attitudini» alla parola «possibilità». Ma ha rimandato il suo emendamento e quindi non ne parliamo per adesso.

L’emendamento degli onorevoli Zotta e Cassiani propone, al secondo comma, di sopprimere le parole «conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta» e di sostituirle colle seguenti: «Ogni cittadino è libero di scegliere la propria occupazione».

Rispondo come ho risposto all’onorevole Nobile: è un diritto di libertà che non viene negato. Non vi è quindi necessità di affermarlo.

Gli onorevoli Caso, Coppa e De Maria propongono, al secondo comma, di sopprimere le parole «e alla propria scelta» e di aggiungere, dopo la parola «possibilità» le parole «fisiopsichiche e tenuto conto delle preferenze individuala».

Ripeto a questo proposito che non occorrono tante specificazioni. L’espressione adoperata nel capoverso primo dell’articolo 31 è: «conformemente alle proprie possibilità»; e ci sembra che esprima un concetto molto più ampio di quello che si racchiude nelle determinazioni e specificazioni che si vorrebbero includere dagli onorevoli proponenti. Sarebbe una limitazione e, come limitazione, non aggiunge ma diminuisce.

Vi sono poi parecchi emendamenti, tutti dello stesso tenore e tutti intesi alla soppressione del terzo comma.

Vi è pure un emendamento dell’onorevole Mortati nonché degli onorevoli Caso, Coppa e De Maria perché sia rinviata la discussione del terzo comma al momento dell’esame dell’articolo 45. La Commissione si è fermata su quest’ultimo emendamento e ritiene che non sia il caso di discutere il tema in questa sede, essendo più appropriato il Titolo IV «Dei diritti politici». Ad ogni modo la Commissione, qualora si dovesse addivenire al voto, non è contraria alla sua soppressione.

Implicitamente ho risposto anche agli onorevoli Ruggiero e Bubbio e quindi non ho bisogno di insistere ulteriormente.

Sull’emendamento proposto dall’onorevole Nobili Tito Oro osservo che la dizione «tutela il lavoro italiano all’estero» è già stata inclusa nell’articolo 30 e sulla questione del suo collocamento, si è già stabilito che ne parleremo quando verremo alla redazione del testo.

Avrei così finito se non dovessi una breve risposta all’onorevole Nitti. Gli osservo anzi tutto che la sua critica di assoluta inattuabilità delle disposizioni concernenti il lavoro non può avere logico riferimento all’articolo 32. Anche nel caso che il suo scetticismo avesse pieno fondamento e fosse vero che il Progetto contiene disposizioni illusorie, non attuabili né oggi né domani né mai, anche in questo caso la sua censura reale si appunterebbe contro l’articolo 32. Basterà la sua lettura: «Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del lavoro ed in ogni caso adeguata alle necessità di una esistenza libera e dignitosa per sé e per la famiglia». Nessuno al mondo può contestare che la disposizione sia profondamente giusta ed umana. Nessuno può negare che il salario debba essere adeguato non solo alle necessità del lavoratore singolo, ma che debba comprendere anche un di più; qualunque ne sia la forma, di assegno famigliare o d’altro. Il lavoratore non vive solamente per sé ma deve impiegare la sua fatica anche perché la sua famiglia viva. Su questo concetto non v’è dubbio e non lo contesta, nella sua umanità, l’onorevole Nitti. Egli invece contesta che sia attuabile tale diritto. Ci sembra un errore. Lo Stato deve curare il rispetto del diritto, ma la sua attuazione spetta al datore di lavoro: è lui che deve corrispondere al lavoratore una retribuzione la quale sia nei termini di giustizia che sono indicati all’articolo 32. Ecco perché, in linea logica, l’appunto è destituito, a nostro parere, di fondamento.

Invece, per quanto riguarda l’altra parte del testo «La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto», io ieri sera ho parlato lungamente e non mi ripeto: l’Assemblea non lo tollererebbe ed avrebbe ragione. Mi limito a confermare il concetto, aggiungendo una sola osservazione: appunto al fine di non promettere oltre ciò che si possa attuare in un avvenire non troppo lontano, la Commissione ha sostituito alla dizione originaria della terza Sottocommissione: «Lo Stato… predispone i mezzi per il suo godimento (del diritto al lavoro)», la dizione più temperata attuale: «promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto». Ciò premesso, non ci sembra audace affermare che questo compito più limitato incombe allo Stato e che non vi possa essere dubbio nella sua attuabilità anche immediata.

Ho così risposto ancora una volta a quanti ci accusano di avere lusingato il popolo italiano con vane promesse. L’accusa potrebbe forse avere una parvenza di verità quando la legge costituzionale fosse una legge temporanea, di vita breve. Non mai se si pensi che è una legge destinata a vivere una lunga vita e che deve considerare non solo il presente ma anche l’avvenire: un avvenire che sia – com’è nell’augurio comune – meno misero e meno fosco dell’oggi.

(La seduta, sospesa alle 18.10, è ripresa alle 18.20).

PRESIDENTE. Passiamo alla votazione degli emendamenti.

L’onorevole Cortese ha presentato la proposta, non accettata dalla Commissione, di soppressione dell’articolo 31. Vi insiste?

CORTESE. Insisto.

PRESIDENTE. Pongo ai voti la proposta di sopprimere l’articolo 31.

(Non è approvata).

L’onorevole Colitto ha presentato la proposta, non accettata dalla Commissione, di sostituire l’articolo 31 col seguente:

«Lo Stato promuove lo sviluppo economico del Paese e predispone le condizioni generali per assicurare più che possibile ai cittadini l’esercizio del loro diritto al lavoro».

Poiché l’onorevole Colitto non è presente, si intende che abbia rinunciato al suo emendamento.

L’onorevole Zuccarini ha ritirato il suo emendamento sostitutivo del primo comma.

L’onorevole Foa ha presentato il seguente emendamento non accettato dalla Commissione:

Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto ed assicura l’apprestamento dei piani economici per la difesa dei consumatori e per garantire a tutti i cittadini il soddisfacimento dei minimi bisogni vitali».

FANFANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FANFANI. Noi voteremo contro la proposta di emendamento presentata dall’onorevole Foa per la ragione che, mentre la prima parte, si trova già contemplata nell’articolo 31, quale appare nel progetto della Commissione, la seconda parte ci sembra costituire materia, se mai, di discussione a proposito dell’articolo 37.

E poiché ho la parola, se il Presidente permette, vorrei dire qualcosa per definire la nostra posizione anche per i due emendamenti presentati rispettivamente dagli onorevoli Villani e Romano.

PRESIDENTE. Prosegua pure.

FANFANI. L’onorevole Villani propone la variante, rispetto al testo della Commissione della parola «disciplina».

Ora, a noi sembra che le condizioni si promuovano, ma non possano essere disciplinate.

Per quanto riguarda l’emendamento Romano esso parla di preoccupazioni di eliminare la disoccupazione. Questo è solo un aspetto del concetto che ha preoccupato i formulatori dell’articolo 31. E per quanto riguarda la garanzia dell’assistenza a quei cittadini che devono emigrare per trovare lavoro, mi sembra che tale garanzia sia stata già fissata dall’articolo 30, approvato.

Poco fa è stato, a proposito dell’articolo 31, accennato a qualche dubbio circa i motivi per i quali noi del gruppo democristiano avremmo appoggiato il testo della Commissione. Ora, non è un incontro avvenuto in questi giorni o in questo mese con colleghi di altre parti, che ci ha portato ad appoggiare il testo della Commissione. V’è tutta una complessa dottrina, alla quale noi risaliamo come alla fonte del nostro programma, che ci ha portato ad accettare la dizione del riconoscimento del diritto al lavoro.

E anche per quanto riguarda la seconda parte, cioè l’instaurazione delle condizioni atte a rendere effettivo questo diritto, non facciamo altro che risalire ad alcuni testi che costituiscono il fondamento della nostra dottrina. E mi rifaccio semplicemente e per brevità ad un solo passo di una celebre enciclica, la «Libertas» del 1888, in cui si affermava il dovere dello Stato di promuovere le condizioni esterne atte a consentire a tutti gli uomini di usufruire delle occasioni favorevoli per vivere onoratamente, col proprio lavoro.

D’altra parte si è obiettato: ma voi fate una magnifica promessa, promessa che non potrete mantenere. Mi consenta onorevole Nitti di citare un passo di un’opera che proprio in questi giorni un autorevole maestro di vita politica e di studi economici come egli è, ha dato alla luce e precisamente quelle «Meditazioni dell’esilio» nelle quali a pagina 277 si dice: «Chi ricorda come la maggior parte degli economisti si è opposta dapprincipio alla legislazione sociale, alla limitazione delle ore di lavoro, alla protezione di salari, deve anche ammettere che le loro obiezioni spesso non avevano fondamento». Ora proprio la meditazione di questo passo ci invita ad andare incontro alle attuali perplessità dell’onorevole Nitti con grande cautela.

È per questi motivi che il Gruppo democristiano voterà a favore del primo comma dell’articolo 31, quale appare nel testo della Commissione dei settantacinque.

FOA. Chiedo di parlare per spiegare le ragioni per le quali ritiro il mio emendamento.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Non avrei ritirato questo emendamento nonostante le dichiarazioni della Commissione, perché mi pare che la Commissione col richiamarsi ad un supposto contenuto più ampio negli articoli 40 e 37, sia incorsa in un equivoco.

L’articolo 40 tratta della nazionalizzazione, cioè di un argomento del tutto estraneo alla materia da me trattata.

L’articolo 37 parla dello Stato nei suoi rapporti di controllo o di armonizzazione nei confronti dell’attività privata, mentre la materia da me proposta riguarda lo Stato come soggetto economico.

Ritiro l’emendamento, perché ho avuto notizia che poco fa è stato presentato un emendamento analogo dall’onorevole Montagnana e da altri, con una formulazione, a mio giudizio, più precisa e sostanzialmente altrettanto congrua di quella da me proposta.

Per queste ragioni, associandomi all’emendamento dell’onorevole Montagnana, ritiro il mio.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Villani e Cairo non accettato dalla Commissione:

Sostituite il primo comma col seguente:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro. Promuove e disciplina le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

Onorevole Villani, lo mantiene?

VILLANI. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Lo pongo in votazione.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il Gruppo democristiano voterà contro l’emendamento, attenendosi al testo accettato dalla Commissione.

(L’emendamento non è approvato).

Segue l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Romano:

Sostituire il primo comma col seguente:

«La Repubblica promuove le condizioni per eliminare la disoccupazione e garentisce l’assistenza a quei cittadini che devono emigrare per trovare lavoro».

Onorevole Romano, lo mantiene?

ROMANO. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Sta bene. Non essendovi altri emendamenti sostitutivi del primo comma dell’articolo 31, possiamo metterlo in votazione.

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Noi voteremo contro questo primo comma, come voteremo anche contro gli altri commi, perché siamo convinti che tutta questa materia non è pertinente alla Costituzione, ma ad una legge sul lavoro che non va discussa da questa Assemblea, bensì dalla regolare Camera dei deputati.

PRESIDENTE. Pongo in votazione il primo comma dell’articolo 31:

«La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni per rendere effettivo questo diritto».

(È approvato).

L’onorevole Nobile ha presentato il seguente emendamento aggiuntivo, non accettato dalla Commissione:

«Al primo comma aggiungere: Essi potranno esercitare la loro professione, arte o mestiere in qualsiasi parte del territorio nazionale».

Chiedo all’onorevole Nobile se lo mantiene.

MUSOLINO. Non essendo presente l’onorevole Nobile, dichiaro che faccio mio l’emendamento da lui presentato e lo mantengo.

PRESIDENTE. Procediamo, allora, alla votazione dell’emendamento dell’onorevole Nobile che l’onorevole Musolino fa suo.

TAVIANI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Il Gruppo democristiano vota contro l’emendamento, ritenendolo superfluo nel testo costituzionale e implicito in altre norme.

EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Voterò a favore di questo emendamento, perché mi pare sia la sola cosa che abbia un significato in tutto questo articolo. Per il resto si tratta di dichiarazioni astratte, che non hanno nessun contenuto comprensibile. L’emendamento Nobile invece ha per scopo di evitare un danno gravissimo che si manifesta già nelle regioni alle quali è stato dato o si sta per dare uno statuto particolare. Nelle regioni, a cui è stato già concesso lo Statuto regionale, si manifesta la preoccupante tendenza a mettere vincoli ai cittadini non nativi quanto al libero esercizio da parte loro di una libera professione o di un’arte. Per ciò l’emendamento Nobile mi pare quanto mai necessario ad impedire che si stabiliscano pericolose differenze di trattamento e nuove barriere tra regione e regione che aggiungerebbero altri danni a quelli che sono la conseguenza degli impedimenti posti dagli Stati esteri alla nostra emigrazione. (Commenti).

PRESIDENTE. Onorevole Ghidini, quale è il parere della Commissione in merito alla dichiarazione di voto dell’onorevole Einaudi?

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Se è come dice l’onorevole Einaudi, mi sembra opportuno che si debba parlare di questo argomento quando si discuterà delle regioni.

PRESIDENTE. Onorevole Musolino, mantiene l’emendamento nonostante il parere della Commissione?

MUSOLINO. Mi rimetto al parere della Commissione.

EINAUDI. Faccio mio l’emendamento Nobile.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Nobile, fatto proprio dall’onorevole Einaudi:

«Al primo comma aggiungere:

«Essi potranno esercitare la loro professione, arte o mestiere in qualsiasi parte del territorio nazionale».

(Dopo votazione per divisione, l’emendamento non è approvato).

Passiamo al secondo comma dell’articolo 31:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

Gli onorevoli Cortese e Nitti, hanno proposto di sopprimerlo.

Pongo in votazione l’emendamento soppressivo.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. A nome dei colleghi del mio Gruppo dichiaro che noi voteremo contro la proposta soppressiva.

(L’emendamento non è approvato).

L’onorevole Foa ha presentato il seguente emendamento, non accettato dalla Commissione:

«Sostituire il secondo comma col seguente:

«La Repubblica può richiedere ai cittadini la prestazione di un servizio del lavoro».

Chiedo all’onorevole Foa se lo mantiene.

FOA. Lo mantengo.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento sostitutivo.

BUBBIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

BUBBIO. In considerazione delle menomazioni subite dal popolo italiano durante la guerra sotto la forma di prestazioni di lavoro e per evitare che con il prevalere di eventuali totalitarismi, eguali menomazioni abbiano a ripetersi, mutando il cittadino in uno schiavo di Stato, voterò contro l’emendamento Foa.

(L’emendamento non è approvato).

PRESIDENTE. Dobbiamo ora porre in votazione il seguente emendamento degli onorevoli Morini, Taddia, Persico, Gullo Rocco, Bennani, Di Giovanni, Lami Starnuti, non accettato dalla Commissione:

«Sostituire il secondo comma con il seguente:

«Ogni cittadino ha il dovere di lavorare, conformemente alle proprie possibilità».

PRESIDENTE. Onorevole Morini, lo mantiene?

MORINI. Lo mantengo.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. A nome del mio Gruppo, dichiaro che il riconoscimento del dovere del lavoro, il quale costituisce uno dei due cardini dell’articolo in votazione e precisamente la seconda faccia della medaglia rispetto al diritto al lavoro contemplato nel primo comma dell’articolo, deve essere, a nostro avviso, considerato in tutta la pienezza della sua espressione.

Di conseguenza appare opportuno snodare l’idea del lavoro, contemplando così le «attività» come le «funzioni»; appare opportuno considerare tutta la gamma della possibile espansione del concetto di lavoro, da quello manuale a quello intellettuale; appare opportuno sottolineare che l’idea del lavoro si ricollega così allo sviluppo materiale come a quello spirituale della società, nella interdipendenza e nella inscindibilità di questi due aspetti fondamentali.

In vista di queste considerazioni, voteremo contro l’emendamento e per la formulazione del testo originale del progetto di Costituzione.

FOA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Essendo stato respinto l’emendamento da me proposto, voterò a favore dell’emendamento Morini, perché mi pare che prospetti con assai maggiore nettezza, in confronto al testo della Commissione, il contenuto del dovere del lavoro, in quanto toglie quell’equivoco, contenuto nel testo della Commissione, per cui il dovere del lavoro sarebbe subordinato a quella incerta facoltà di scelta.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento sostitutivo testé letto.

(Non è approvato).

Segue l’emendamento della onorevole Federici Maria:

«Al secondo comma, sostituire la parola: attitudini, alla parola: possibilità.

Onorevole Federici, conferma di rinviarlo ad altra sede?

FEDERICI MARIA. Confermo quanto ho già dichiarato.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Zotta e Cassiani:

«Al secondo comma, sopprimere le parole: conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta, e sostituirle col seguente comma:

«Ogni cittadino è libero di scegliere la propria occupazione».

Onorevole Zotta, lo mantiene?

ZOTTA. Lo ritiro.

PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli De Maria, Caso e Coppa.

«Al secondo comma sopprimere le parole: e alla propria scelta, e aggiungere, dopo la parola: possibilità, le parole: fisiopsichiche e tenuto conto delle preferenze individuali». (Commenti).

Onorevole De Maria, lo mantiene?

DE MARIA. La parola «fisiopsichiche» avrebbe potuto essere sostituita con «organiche». Comunque, lo ritiro.

PRESIDENTE. Poiché anche gli emendamenti parzialmente sostitutivi del secondo comma sono stati respinti o ritirati, dobbiamo procedere alla votazione del secondo comma nel testo della Commissione:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità e alla propria scelta».

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Chiedo che la votazione avvenga per divisione: si dovrebbe, cioè, votare per prima la seguente parte del comma:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività o una funzione che concorra alto sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità».

Le restanti parole: «… e alla propria scelta» dovrebbero essere votate in un secondo tempo.

Dichiaro che voterò a favore della prima parte e contro la seconda.

PRESIDENTE. La richiesta fatta ora dall’onorevole Canevari costituisce un suo diritto e pertanto noi dobbiamo accedere ad essa.

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Dichiaro che voterò contro tutto il comma.

PRESIDENTE. Pongo in votazione la prima parte del secondo comma:

«Ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività od una funzione che concorra allo sviluppo materiale o spirituale della società, conformemente alle proprie possibilità».

(È approvata).

Passiamo alla votazione della seconda parte del comma: «e alla propria scelta».

LUCIFERO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Dichiaro che voterò contro la soppressione della seconda parte del domina propugnata dal collega onorevole Canevari; voterò cioè a favore del testo della Commissione.

Confesso che sono sommamente preoccupato, perché ho visto affacciarsi l’ipotesi che, in uno Stato libero, degli uomini liberi possano essere costretti ad esercitare un lavoro diverso da quello da essi liberamente prescelto: io non credo che un giorno in Italia, culla del diritto, si possa dire a un cittadino qualunque: ad metalla, abbandona la professione che hai liberamente scelto! Sono convinto pertanto che questa Camera non voterà per una simile vessazione. (Applausi a destra).

VILLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VILLANI. Poiché l’onorevole Canevari non ha creduto di spiegare le ragioni per le quali egli ha dichiarato di votare contro la seconda parte di questo comma, ritengo che sia opportuno che tenti di chiarirlo io.

Noi, votando tutto l’articolo, dobbiamo riconoscere – è stato già detto e ripetuto qui dentro – che lo Stato assumerebbe un cumulo enorme di impegni verso i cittadini, per quello che riguarda il lavoro, e che davvero nessuno di noi può sapere in quale misura tali impegni potranno venir sodisfatti. Ora, se è bene che sia stato fatto tutto quello che è stato fatto, se noi abbiamo riconosciuto che lo Stato ha questi diritti e questi doveri nei confronti del cittadino, a me pare che lo Stato non possa assumersi nei suoi confronti l’obbligo non solo di procurare il lavoro, ma di procurarlo nelle condizioni che ogni singolo cittadino pretenda. Io mi riferisco anche a quello che ha detto l’onorevole Foa. È impossibile pensare che si possano sodisfare interamente queste esigenze, soprattutto se si respinge ogni criterio di pianificazione.

GIANNINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Fermo restando il nostro atteggiamento verso tutto l’articolo e verso i singoli commi, noi dovremmo però votare a favore di questa dicitura perché votando contro, dopo che è stata approvata la prima parte, noi ci assoceremmo ad una violazione della libertà. Quindi voteremo a favore, pur mantenendo la nostra pregiudiziale.

CAPPA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CAPPA. Noi voteremo per il mantenimento delle parole «alla propria scelta» e faccio osservare che la soppressione di queste parole sviserebbe in realtà il concetto completo ed integrale di tutto l’articolo.

CANEVARI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Voterò per la soppressione delle parole «alla propria scelta», e chiarisco il mio pensiero. Noi abbiamo riconosciuto che ogni cittadino ha il dovere di svolgere una attività conformemente alle proprie possibilità. Aggiungendo «alla propria scelta» mettiamo lo Stato nelle condizioni di assicurare il lavoro, a compimento di questo dovere, indipendentemente dalle possibilità del cittadino. Potrebbe darsi che diversi cittadini chiedessero di occupare dei posti nei quali non hanno nessuna possibilità di esplicare un’attività utile per la collettività. Ecco perché sono preoccupato di questa parte dell’articolo. Potremmo avere una richiesta numerosa, più di quella che si verifica oggi, di occupare dei posti nell’Amministrazione dello Stato, di diventare funzionari dello Stato. (Rumori Commenti).

Queste sono le ragioni per cui ho chiesto che la votazione avvenga per divisione.

LACONI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LACONI. Non è senza stupore che abbiamo assistito a questa incredibile discussione e abbiamo udito la singolare proposta che si limiti la libera scelta dei cittadini laddove è riaffermato il dovere al lavoro. Io credo che nessuno possa ingannarsi sul significato di questa votazione. Escludendo poco fa il servizio obbligatorio ed affermando in questo punto il dovere del lavoro, è chiaro che l’Assemblea vuol fare soltanto un’affermazione morale e politica che non comporta dei vincoli e delle coazioni per il cittadino. Può darsi che domani vi siano norme di legge che potranno orientare tutto lo sviluppo dell’economia e tutto l’ordinamento sociale del nostro Paese in un determinato senso; ma nessuno può pensare oggi ad una coazione nei confronti del cittadino che vincoli la sua libertà, soprattutto nel campo in cui questa libertà gli è più peculiare come persona umana, e cioè nella scelta del lavoro.

Si dice: ma lo Stato dovrà necessariamente fornire ad ogni cittadino per l’adempimento di questo suo particolare dovere il posto che il cittadino pretenderà. Questo è un assurdo. Qui si vuole affermare che, nella scelta dell’occupazione in cui il cittadino adempirà il suo dovere, il cittadino è completamente libero di dirigersi secondo le proprie capacità e le proprie preferenze. Non si intende affatto stabilire degli obblighi per lo Stato. Per questa ragione noi voteremo per l’accoglimento integrale dell’articolo.

D’ARAGONA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

D’ARAGONA. Dichiaro, anche a nome di alcuni amici del mio Gruppo, che voteremo in favore di tutto il comma, così come proposto dalla Commissione perché alla votazione di quest’ultima parte di questo comma diamo questo significato: noi riconosciamo a tutti i cittadini italiani la libertà di scegliersi il proprio mestiere, la propria professione, la propria occupazione. Con questo significato noi voteremo a favore.

CODACCI PISANELLI. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CODACCI PISANELLI. Il Regolamento prevede quattro specie di votazioni. Chiedo che non si voti per alzata di mano, onde evitare che i legulei abbiano possibilità di inficiare i risultati delle nostre votazioni. (Commenti).

PRESIDENTE. I legulei in questo caso stanno al suo banco.

EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

EINAUDI. Voterò in favore del mantenimento delle parole: «alla propria scelta», non solo per le ragioni esposte dagli onorevoli Laconi e D’Aragona, ma anche perché (questa è una mia motivazione personale) siccome queste parole negano il primo comma ed io l’ho negato, sono ben contento che nell’ultimo articolo sia espresso un concetto il quale renda logicamente impossibile l’applicazione del primo comma.

PRESIDENTE. Pongo in votazione l’ultima parte del secondo comma: «e alla propria scelta».

(È approvata).

Avverto che gli onorevoli Montagnana Mario, Pajetta Gian Carlo, Pesenti, hanno presentato il seguente emendamento aggiuntivo, al quale si è associato l’onorevole Foa:

«Dopo il secondo comma, aggiungere il seguente:

«Allo scopo di garantire il diritto al lavoro di tutti i cittadini lo Stato interverrà per coordinare e dirigere l’attività produttiva dei singoli e di tutta la Nazione, secondo un piano che dia il massimo rendimento per la collettività».

Chiedo all’onorevole Presidente della terza Sottocommissione di esprimere il suo parere.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. La Commissione viene soltanto ora a conoscenza dell’emendamento. Perché possa pronunciarsi su di esso, chiede che le sia concesso il termine regolamentare di 24 ore.

PRESIDENTE. Penso che la Commissione abbia il diritto di chiedere il tempo necessario per essere in condizione di esprimere il suo pensiero; senonché, per non rinviare i lavori dell’Assemblea, potremmo procedere alla votazione dell’ultimo comma dell’articolo 31 immediatamente, salvo domani, quando conosceremo il pensiero della Commissione, esaminare il comma aggiuntivo proposto ora.

TAVIANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Si è detto che gli emendamenti avrebbero dovuto essere presentati con un certo anticipo perché la Commissione li potesse esaminare; ma rilevo che sono stati esaminati degli emendamenti presentati stamani. Invece di rinviare a domani, si potrebbe ora sospendere per dieci minuti la seduta, dopo di che la Commissione potrebbe pronunziarsi.

PRESIDENTE. Onorevole Taviani; questo invito più che a me deve rivolgerlo alla Commissione. Se la Commissione crede di essere in grado di dare il suo parere nel termine di dieci minuti, io ne sarò lietissimo, e credo che lo sarà anche l’Assemblea. Chiedo, in proposito, il parere del Presidente della Commissione.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Mi sembra che non si possa contestare al Relatore il diritto di chiedere l’applicazione del termine regolamentare.

PRESIDENTE. L’onorevole Ghidini insiste?

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Insisto, perché in questo momento non potrei che esprimere un’opinione personale.

MARTINO GAETANO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Desidero ricordare che all’inizio dell’esame del progetto di Costituzione si concordarono per i nostri lavori alcune norme, fra le quali quella che gli emendamenti dovessero presentarsi almeno 48 ore prima della discussione. Ora, poiché la Commissione non intende accedere al desiderio manifestato che oggi stesso ci dia il suo parere, devo credere che il Presidente abbia il dovere di non accettare questo emendamento presentato all’ultimo momento, perché ciò costituirebbe un pericoloso precedente. (Interruzioni Commenti).

PRESIDENTE. Il precedente a cui si richiama l’onorevole Martino è formalmente esatto. Senonché egli sa bene che durante il corso di questa discussione si sono fatte numerose eccezioni, per cui crédo che l’Assemblea non possa agire diversamente nei confronti dell’emendamento testé presentato. Non so se l’onorevole Martino voglia fare una proposta formale, da porre in votazione.

RUINI. Presidente della Commissione per la Costituzione. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. Mi pare che la questione regolamentare sia chiarissima. Il regolamento dice che durante la discussione possono essere proposti emendamenti purché firmati da dieci deputati. Quando ciò si verifica gli emendamenti devono essere ammessi allo svolgimento ed alla votazione. Ma v’è un’altra disposizione del regolamento, e stabilisce che la discussione di un articolo aggiuntivo o di un emendamento proposto nella stessa seduta sarà rinviata all’indomani quando lo chiedano il Governo o la Commissione competente o dieci deputati. Poiché il Relatore ha fatto questa proposta, non c’è che da applicare il regolamento. La proposta dell’onorevole Martino non ha quindi ragione di essere.

MAFFI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MAFFI. Vorrei richiamarmi al buon senso elementare e proporre che, superando la discussione sul regolamento, si sospenda per dieci minuti la seduta, in modo che la Commissione possa fare un esame preliminare del comma proposto. Se, dopo la breve sospensione, la Commissione non sarà in grado di esprimere il proprio parere, potrà decidersi il rinvio.

MALAGUGINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MALAGUGINI. Nessuno contesta l’esattezza del richiamo al regolamento fatta dall’onorevole Presidente della Commissione; ma l’onorevole Ruini non ha contestato quanto ha detto il nostro Presidente, che cioè, sarebbe la prima volta che la Commissione non accetta un emendamento presentato fuori termine.

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Vorrei pregare la Camera di lasciare la questione nei termini molto semplici e niente drammatici in cui l’ha posta l’onorevole Ghidini. Noi ci troviamo di fronte ad un emendamento abbastanza complesso. Il Relatore ci chiede il tempo necessario per poterlo studiare: non c’è una ragione al mondo perché ci si possa opporre alla sua richiesta. Né possiamo riferirci a quanto è accaduto per la presentazione di altri emendamenti che sono stati immediatamente accettati e discussi, perché erano più facilmente percepibili nel loro valore politico. Quindi a me pare che, una volta che la Commissione, nella quale tutti abbiamo fiducia, ci chiede, di fronte all’emendamento presentato da un gruppo di deputati, la cortesia di rimandare la discussione di 24 ore perché possa esprimere il suo pensiero, questo desiderio debba essere accolto. D’altra parte non sono del parere di andare avanti saltando dall’uno all’altro articolo, perché la complessità dell’emendamento presentato è tale che potrebbe modificare il seguito dell’articolazione del Titolo. Ritengo quindi che si debba rimandare il seguito della discussione di 24 ore. Siamo a disposizione della Commissione.

PRESIDENTE. Onorevole Ruini, ella insiste nella richiesta di rinvio?

RUINI, Presidente della Commissione per la Costituzione. La Commissione insiste per il rinvio. Si tratta di un emendamento aggiuntivo che merita riflessione ed esame, perché tocca il tema del piano, e va messo anche in relazione con l’articolo 37. Una decisione non meditata sopra un emendamento che tocca un solo aspetto del piano, e si presta a divergenze e possibili riserve anche in chi è favorevole ad una ampia applicazione di piani, potrebbe compromettere le linee di una opportuna soluzione nei riguardi dell’articolo 37. La questione dunque va meditata ed impostata bene. Il rinvio deve essere accolto, a termini di regolamento. Veda l’Assemblea se non è possibile procedere intanto alla discussione di altri commi ed articoli che non sono connessi con l’emendamento, e che possono essere subito affrontati.

Noi siamo di fronte ad un emendamento che inserisce il concetto di piano nel primo e nel secondo comma. L’onorevole Ghidini, interpretando le difficoltà in cui si trova la Commissione, ha detto che non possiamo vedere su due piedi ciò che può ripercuotersi su tutto il tema dei piani. Il terzo comma, che riguarda i diritti politici, può essere esaminato, indipendentemente dall’emendamento.

Se si vuole, si può procedere.

Presidenza del Presidente TERRACINI

TOGLIATTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TOGLIATTI. Mi pare che la richiesta di rinvio di 24 ore fatta dalla Commissione sia del tutto giustificata e non saprei oppormi.

GRONCHI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GRONCHI. Questa discussione, pur così complicata, a volte si impiglia stranamente in questioni puramente formali e procedurali come quella che ora ci si presenta.

Credo che gli onorevoli presentatori del comma aggiuntivo potrebbero agevolare la risoluzione della questione se consentissero a riproporre il loro emendamento in sede di discussione dell’articolo 37.

Il secondo comma dell’articolo 37 dice:

«La legge determina le norme e i controlli necessari perché le attività economiche possano essere armonizzate e coordinate ai fini sociali».

Ritengo che questa forse sarebbe la sede logicamente più adatta alla presentazione dell’emendamento.

LUCIFERO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LUCIFERO. Evidentemente, l’onorevole Gronchi prospetta l’ipotesi che i presentatori ritirino l’emendamento, salvo a ripresentarlo in altra sede; ma, qualora essi io mantengano in questa sede, io penso che non solo la Commissione, ma tutti noi abbiamo bisogno di meditare su un emendamento di questa importanza, che è nella Costituzione, in certo senso, rivoluzionario, perché introduce un concetto nuovo in una forma definitiva.

Quindi sarei non solo d’accordo con la Commissione, ma certamente uno di quei dieci deputati – sarebbe facile trovare gli altri nove – che chiederebbero 24 ore per aver tempo di pensarci, perché l’argomento è grave.

Mi pare, poi, impossibile proseguire la discussione sugli altri articoli, mentre rimane in sospeso una questione di tanta gravità.

Se vogliamo rinviare di 24 ore, dobbiamo interrompere al punto in cui cade questo emendamento e riprendere il filo quando questa questione sarà risolta.

FOA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

FOA. Penso – come ho già sostenuto, nel ritirare il mio emendamento – che il comma aggiuntivo in esame abbia attinenza con l’articolo 31 e non con l’articolo 37. Si potrebbe, pertanto, accettare la richiesta del rinvio di 24 ore.

PRESIDENTE. Ove l’invito rivolto dall’onorevole Gronchi ai firmatari fosse accolto, il problema sarebbe superato; se no, resta la richiesta del rinvio di 24 ore fatta dalla Commissione. Ove fosse accettata questa richiesta, sorgerebbe la questione se si possa procedere o no nella discussione: cioè, se l’emendamento presentato, per il suo valore e la sua importanza, condizioni senz’altro qualunque altra norma contenuta in questo articolo.

Vediamo di sciogliere successivamente i tre quesiti.

L’onorevole Foa si è già espresso in risposta alla richiesta dell’onorevole Gronchi, riconfermando la necessità che l’emendamento venga inserito nel testo dell’articolo in esame.

Se gli altri firmatari dell’emendamento sono dello stesso avviso – ed il loro silenzio lo conferma – non possiamo che passare alla seconda possibilità.

La Commissione ha richiesto il rinvio di 24 ore per potere esprimere il proprio parere sull’emendamento proposto.

Ritengo che la Commissione abbia pienamente diritto di fare questa richiesta, che non ha bisogno di votazione per essere attuata. Pertanto credo che possiamo senz’altro stabilire che ogni decisione in relazione all’emendamento presentato è rinviata e cioè alla seduta pomeridiana di domani.

E allora, c’è da risolvere il terzo punto per potere proseguire i nostri lavori questa sera, se cioè il rinvio di 24 ore nell’esame dell’emendamento in causa debba portare con sé la sospensione di tutti i lavori se, cioè non sia possibile decidere per intanto sul terzo comma dell’articolo 31, che è così formulato:

«L’adempimento di questo dovere è condizione per l’esercizio dei diritti politici».

Ora, salvo l’avviso della Assemblea, mi pare che il problema posto da questo comma sia del tutto indipendente dai precedenti.

Esso stabilisce infatti una norma che non si riporta al processo produttivo o alle forme nelle quali esso si deve realizzare, ma alla posizione dei cittadini nell’esercizio dei loro diritti politici, in quanto lavoratori o meno.

Ritengo quindi, che si possa senz’altro decidere in relazione a questo terzo comma, per il quale è stata presentata una proposta soppressiva, che può votarsi indipendentemente dalla decisione sull’emendamento al comma precedente. Chiedo all’Assemblea di esprimersi a questo proposito.

CINGOLANI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CINGOLANI. Il nostro Gruppo, onorevole Presidente, non è favorevole a considerare un comma qualsiasi di un articolo separato talmente dal resto dell’articolo, da potere essere, oltre che discusso, votato a parte. Ogni articolo è un tutto per sé stante, anche se la formulazione giuridicamente esatta di ogni comma sia tale da poterlo fare vivere come elemento proprio nell’articolo stesso.

Quindi noi ci manifestiamo, con nostro dispiacere, perché si allunga certamente domani di mezz’ora la discussione, dentro il passaggio alla discussione dell’ultimo comma dell’articolo e facciamo nostro il pensiero già manifestato da altri di rinviare senz’altro a domani la prosecuzione della discussione di questo articolo.

GIANNINI. Chiedo di parlane.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Io ritengo che si possa benissimo continuare la discussione se i presentatori di questo emendamento invece di chiedere che esso sia inserito fra il secondo ed il terzo comma dell’articolo lo propongano come un articolo a parte, che potrebbe benissimo seguire l’articolo 31.

Non vedo la ragione per cui debba inserirsi fra il secondo e il terzo comma.

Può benissimo formane un articolo a sé, l’articolo 31-bis (Commenti).

ZOTTA. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ZOTTA. Penso che questo emendamento possa costituire l’ultimo comma dell’articolo in esame; il terzo in verità non è che un complemento del secondo comma, in quanto nel secondo si stabilisce un precetto e nel terzo la sanzione per l’inadempimento di questo precetto. L’inserimento dell’emendamento tra l’uno e l’altro sta addirittura fuori luogo, per cui chiederei – in appoggio a quello che chiedeva l’onorevole Giannini – che costituisca un comma a sé, a completamento dell’articolo.

PRESIDENTE. Mi pare che, comunque, debbano essere i presentatori dell’emendamento ad esprimere a questo proposito il loro pensiero.

Onorevole Foa, vuole parlare lei a nome dei presentatori?

FOA. Ho già spiegato il mio dispiacere di non poter accedere a questa richiesta di una così larga parte dell’Assemblea. Effettivamente ho già cercato oggi, nell’illustrare il mito emendamento, di spiegare la stretta Connessione che esiste fra l’emendamento da noi proposto e il problema del diritto al lavoro. Se noi accettassimo la diversa collocazione di questo emendamento, evidentemente verremmo meno ai motivi per cui è stato proposto questo emendamento. Mi rincresce veramente, ma credo che molti colleghi avranno perfettamente inteso questo legame. (Commenti).

PRESIDENTE. Mi pare che, di fronte alle dichiarazioni dell’onorevole Foa, non vi è che prenderne atto e trarne le conseguenze in ordine ai nostri lavori.

Mi limiterò ad osservare ai presentatori dell’emendamento che, da un punto di vista di successione logica, questo emendamento avrebbe dovuto essere inserito dopo il primo comma che parla del diritto al lavoro. E per l’appunto tutte le motivazioni dell’onorevole Foa in relazione agli emendamenti che egli aveva anche presentato in precedenza, stavano ad indicare che soggetto di questo emendamento è il diritto al lavoro; mentre il secondo comma si riferisce al dovere del lavoro. Ed è per questo che vi è poi il terzo comma, il quale stabilisce la sanzione per chi questo dovere non osservasse.

Ad ogni modo, a parte il problema dell’inserimento definitivo, poiché i presentatori dell’emendamento, non accedono all’invito che è stato loro fatto, mi pare che dobbiamo restare a questi punti:

1°) l’emendamento deve essere discusso come parte conclusiva del secondo comma;

2°) poiché da alcuni onorevoli Colleghi è stato fatto presente come questa decisione abbia comunque un’influenza anche sul terzo comma e sulla economia generale dell’articolo, occorre rinviare a domani l’esame non solo, dell’emendamento, ma anche della parte successiva dell’articolo.

(Così rimane stabilito).

Comunicazione del Presidente

PRESIDENTE. Comunico che, in sostituzione dell’onorevole Bonomi Ivanoe, dimissionario, ho chiamato a far parte della Commissione incaricata dell’esame delle leggi elettorali, l’onorevole Benedetti.

La Commissione stessa è convocata per domani mattina, alle ore 9.

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga opportuno ed equo estendere agli insegnanti elementari reduci di guerra, che non poterono usufruire, per ragioni di servizio militare, dei concorsi banditi negli anni 1939-1941 e 1942, il beneficio concesso a coloro che a questi concorsi parteciparono, riportando il solo giudizio di idoneità, di ottenere il passaggio in ruolo attraverso un concorso per titoli.

«Martino Gaetano».

«Al Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non creda opportuno abbandonare per i prossimi esami di libera docenza il principio del numero chiuso; o quanto meno, accogliendo i voti espressi dall’Associazione nazionale degli assistenti ed aiuti universitari, assegnare ad ogni materia un numero di posti notevolmente superiore a quello che – secondo quanto si dice – sarebbe preveduto da un decreto già predisposto e non ancora emanato. E ciò in vista del fatto che da quattro anni non si sono avute prove di libera docenza.

«Martino Gaetano».

«Ai Ministri dell’interno e delle finanze e tesoro, per conoscere quanto ci sia di vero intorno alla notizia riguardante il sorgere di un nuovo toto-calcio denominato «scarto-goal».

«Morini, Amadei, Cairo».

«Ai Ministri del commercio con l’estero, delle finanze e tesoro, dell’industria e commercio, dell’agricoltura e foreste, all’Alto Commissario per l’alimentazione e all’Alto Commissario per la sanità pubblica, per conoscere se non si ritiene urgente ed indispensabile provvedere alla riorganizzazione ed alla trasformazione del sistema di rilascio delle licenze d’importazione e di esportazione; sistema che attualmente, attraverso interminabili trafile burocratiche, frustra praticamente ogni provvida iniziativa.

«Morini, Cairo».

Chiederò ai Ministri interessati quando intendano rispondere a queste interrogazioni.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione per conoscere per quali ragioni i dipendenti dell’«E.N.E.M.» e particolarmente quelli delle scuole professionali marittime di Fano, Rimini, Pescara, ecc., sia pure in attesa della loro definitiva sistemazione in confronto ai dipendenti dello Stato, non abbiano ottenuto a tutt’oggi il pagamento di nessuna delle indennità corrisposte all’altro personale, e ciò nonostante che il Ministero del tesoro avesse già stanziato i fondi necessari; e come intenda il Ministero provvedere all’urgente bisogno degli interessati col reclamato intervento di giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Filippini».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere il punto di vista del Governo circa la situazione economica di Bordighera, città gravemente colpita dalla guerra, non sorretta da alcuna utile provvidenza e anzi compromessa nel suo naturale movimento di ripresa con disposizioni dannose, tra cui, specialmente:

la prolungata requisizione dei maggiori alberghi per trasferirvi i profughi di lontane regioni, e ciò mentre esistono nella vicina Vallecrosia numerose grandi caserme, nuove e vuote;

l’attribuzione alla sola città di San Remo del canone versato dalla casa da giuoco, mentre è chiaro che San Remo e Bordighera costituiscono una inseparabile zona turistica, talché lo sviluppo di Bordighera è indispensabile allo stesso progresso di San Remo;

l’incuria per cui uno splendido complesso di strade e giardini si va irrimediabilmente degradando;

e per sapere quali concreti provvedimenti intenda adottare (nell’ambito di una efficace politica per la ripresa del turismo) per la tutela e il ripristino dell’imponente patrimonio turistico di Bordighera, che attrasse visitatori da tutte le parti del mondo, determinando, nel passato, la prosperità della zona e contribuendo notevolmente alla ricchezza della Nazione. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Rossi Paolo, Canepa, Pera».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’interno e delle finanze e tesoro, per sapere se, con riferimento al decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 177, che prevede la concessione di un diritto speciale per uve, mosti e vini ai comuni, non ritengano sufficiente, in omaggio ai moderni criteri sulle autonomie locali, che le deliberazioni dei Consigli comunali siano approvate anno per anno dalla G.P.A., senza richiedere poi l’emanazione di apposito decreto del Ministro delle finanze di concerto col Ministro dell’interno, sentito il parere della Commissione centrale per la finanza locale e, come è stato proposto da alcuni, della competente Camera di commercio. Ciò almeno per quei comuni che da due anni riscuotono regolarmente il diritto in parola con risultati soddisfacenti per i loro bilanci (sì da meritare di non essere intralciati con procedure defatigatorie) e per il bilancio dello Stato, cui non hanno più bisogno di chiedere contributi di integrazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e del lavoro e previdenza sociale, per sapere se risulti loro che la Sezione staccata dell’A.N.A.S. di Salerno ha, con recente provvedimento, disposto il licenziamento di 16 operai del servizio automezzi, in aggiunta ai 13 licenziati nel marzo ultimo, e l’allontanamento di altri 170 operai della strada, giustificando il provvedimento stesso con la mancanza di fondi; e per sapere se intendano intervenire perché il ripetuto provvedimento, che ha gettato sul lastrico 200 famiglie, venga sollecitamente revocato e siano forniti i fondi necessari per la ripresa immediata di indispensabili lavori stradali di rifacimento in provincia di Salerno, dei quali proprio nell’attuale stagione si attendeva la intensificazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per sapere se reputi opportuno, in considerazione del notevole numero di candidati e delle risapute difficoltà inerenti all’alimentazione ed agli alloggi, disporre che i prossimi esami di procuratore vengano espletati, come lo furono con soddisfacente regolarità nello scorso anno, da apposite Commissioni presso i Tribunali, o che almeno presso questi ultimi abbiano luogo le prove scritte dei medesimi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere quali provvedimenti intenda di adottare l’Alto Commissariato dell’alimentazione, al fine di agevolare il rifornimento delle derrate di maggior consumo (con particolare riferimento a quelle di provenienza estera) agli Enti di consumo costituiti a norma del decreto legislativo 13 settembre 1946, n. 90 e del decreto presidenziale del 15 ottobre 1946. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Pat, Guariento, Ferrarese, Avanzini».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della marina mercantile e della difesa (Marina militare), per sapere se non ritengano opportune ed urgenti disposizioni fra essi concertate per migliorare i servizi di pilotaggio nei porti italiani, i quali servizi sono ora svolti in difficili condizioni e con mezzi di fortuna; e se non ritengano sostituire con battelli della Marina militare i galleggianti già adibiti al pilotaggio affondati o danneggiati per cause di guerra. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rossi Paolo».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni per le quali non è stato ancora pubblicato il provvedimento, già da mesi predisposto dall’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica, riguardante provvedimenti eccezionali a favore degli eredi dei farmacisti morti in guerra od in conseguenza della attività partigiana.

«Tale provvedimento fu ufficialmente annunciato al Congresso interregionale dei farmacisti proprietari, tenuto a Napoli nel novembre 1946. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Marinaro».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10:

Seguito della discussione del disegno di legge:

Ordinamento dell’industria cinematografica nazionale (12).

Alle ore 16:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

cxv.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 7 MAGGIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

indi

DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente                                                                                                        

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente                                                                                                        

Della Seta                                                                                                       

Taviani                                                                                                             

Di Vittorio                                                                                                       

Merighi                                                                                                             

Spallicci                                                                                                          

Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione                                                 

Cairo                                                                                                                

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

Pella, Sottosegretario di Stato per le finanze                                                       

Dominedò                                                                                                         

Perugi                                                                                                               

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente                                                                                                        

La seduta comincia alle 16.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Ha chiesto congedo l’onorevole Gortani.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Riprendiamo la discussione generale sul Titolo III del progetto.

È iscritto a parlare l’onorevole Della Seta. Ne ha facoltà.

DELLA SETA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, a prescindere dalla specifica valutazione dei singoli articoli, certo questo Titolo III è quello che più conferisce al progetto di Costituzione la nota della modernità. Nota comune ad altre costituzioni di altri paesi d’Europa.

Dopo i rapporti civili ed i rapporti etico-sociali, i rapporti economici. Si è consacrata, in questo progetto, la indissolubile connessione tra l’ordinamento economico e l’ordinamento politico. Si è riconosciuto che se è vero che solo in un regime democratico è dato potere attuare una democrazia del lavoro, è altrettanto vero che la democrazia sarebbe una forma politica priva di contenuto se per essa, quale mezzo atto al fine, non si attuassero riforme realizzanti la giustizia sociale. La repubblica per la repubblica non ha significato alcuno. La figura del cittadino è ormai mutata. Il cittadino non è tale solo in quanto gode di speciali diritti politici, di speciali libertà costituzionali; è tale anche in quanto lavoratore, in quanto cooperatore, come singolo o come associato, al benessere economico della Nazione.

Ho ascoltato, ieri, in quest’Aula, da parte di un collega socialista, rievocare, con commossi accenti, i tempi nei quali quanto oggi è consacrato nel progetto veniva considerato, se non delitto, una grande utopia. Noi repubblicani comprendiamo una tale commozione e la compartecipiamo. Potremmo domandarvi se, resi oggi più sereni e più conoscitori delle nostre dottrine, se voi, dico, socialisti, riconoscete infine, alla vostra volta, che la scuola repubblicana – un Mazzini, un Cattaneo, un Pisacane, un Bovio – una qualche pagina, divinatrice e rivendicatrice, ha scritto sul problema sociale; se riconoscete che le prime nostre consociazioni operaie sono pur state, in Italia, le prime libere organizzazioni di lavoratori. Ma, al di sopra di questi reciproci nostalgici compiacimenti di parte, preferisco, in questo progetto, in questo documento, cogliere la testimonianza di un grande ammaestramento della storia: date rivendicazioni, se oneste, se giuste, non possono, contro tutte le incomprensioni, contro tutti gli egoismi, non possono, lentamente, ma ineluttabilmente, non vedere il giorno dell’auspicato trionfo.

Tralascio, per amore di brevità, talune considerazioni di ordine estrinseco.

Dovrei rilevare una qualche espressione o una qualche norma pleonastica. Occorre proprio, come all’articolo 38, specificare quali economici i beni che appartengono allo Stato, ad enti od a privati? Ed è proprio necessario ricordare in una Costituzione, come si ricorda con l’articolo 37, che ogni attività economica, privata o pubblica, deve tendere a provvedere i mezzi necessari ai bisogni individuali e al benessere collettivo? Né manca una qualche espressione troppo vaga, come quando, nell’articolo 32, si afferma che la retribuzione deve essere adeguata alla necessità di una esistenza libera e dignitosa. Chi sarà il giudice della libertà e della dignità? Criteri morali che, tutto al più, possono relegarsi in un preambolo, ma non essere consacrati lì dove, in una Costituzione, rigidamente si parla di rapporti economici. E non mi domando se, per la esigenza di una più organica sistematica, non sarebbe stato più opportuno raggruppare tutte quelle norme che accennano alle previdenze e alle provvidenze dello Stato, anziché disseminarle, come sono, nel Titolo secondo e nel terzo di questa prima parte del progetto.

Quanto al principio direttivo, cui si è conformata, nel progetto, la disciplina dei rapporti economici, esso non poteva non essere il risultato di un compromesso. Diciamo compromesso non nel senso dispregiativo della parola; ma come espressione logica e storica della risultante media tra le due forze in contrasto. C’è, innegabilmente, la tendenza a porre, in primo piano, di fronte al datore di lavoro, la figura del lavoratore; ma, come negazione delle due soluzioni estreme, dell’assoluto liberalismo individualistico e dell’assoluto totalitarismo collettivistico, si è voluto armonizzare la esigenza di dare il debito valore ai diritti dell’individuo e della iniziativa privata con le esigenze della economia associata e disciplinata, senza escludere, quando il reale benessere della Nazione lo reclami, lo stesso vigile e tempestivo intervento dello Stato.

Ma entriamo nel merito. L’articolo 31 sancisce il diritto al lavoro. Diritto incontestabile, in quanto è il diritto alla vita. Non ad altra fonte l’uomo, normalmente, può attingere per garantire la propria esistenza, se non al lavoro, al lavoro concepito né, come su taluni banchi ho inteso, quale un’espiazione propiziatoria, né, come in regime capitalistico, quale una merce qualsiasi; ma al lavoro eticamente concepito come affermazione della personalità; come primo vincolo di solidarietà nell’opera collettiva; come contributo al benessere materiale e, per esso, indirettamente, anche al bene morale dell’umana consociazione.

Ma, bisogna riconoscerlo, così come consacrato nella Costituzione, questo diritto al lavoro, se non è quel diritto astratto nel quale caddero il Locke e il Montesquieu e Louis Blanc (droit au travail) e la stessa Costituzione francese del 1848, certo rimane come un diritto potenziale, dato che oggi nessuna azione giuridica è dato al cittadino di potere esplicare, sia verso un altro cittadino, sia verso lo Stato; e dato che un rapporto esiste tra la domanda del lavoro (Stato) e l’offerta del lavoro (diritto al lavoro); e dato che la domanda dipende dalle risorse naturali e dal capitale esistente.

Se interpretato alla lettera, questo diritto al lavoro rimarrebbe nella Costituzione come una promessa che lo Stato non può mantenere; promessa pericolosissima. Può rimanere nella Costituzione come un diritto potenziale, cioè come un diritto – e Mazzini e Marx videro profondamente questo – come un diritto che solo potrà avere un concreto riconoscimento quando sarà superato l’attuale ordinamento economico ancora imperniato non sull’associazionismo, ma sull’individualismo capitalistico. Oggi, per non illudere con promesse che non possono essere mantenute, basterebbe forse che fosse detto nella Costituzione: la Repubblica promuove quelle condizioni onde il cittadino, nel lavoro, possa trovare l’equa e dignitosa garanzia della propria esistenza.

Nel secondo comma dell’articolo 31 si afferma, dopo il diritto al lavoro, il dovere del lavoro. Noi vorremmo, in verità, che la società fosse così sanamente costituita da far sentire il lavoro più come una gioia che come un dovere. Ma di fronte alle possibili evasioni è bene ribadire questo dovere. Un dovere, certo, la di cui consapevolezza deriva più da una tempestiva e saggia educazione, che non da un articolo della Costituzione. Ma la norma non poteva non essere consacrata. Se vi sono coloro che vorrebbero lavorare, ma non possono, in quanto non trovano lavoro, subendo i rischi e i danni della disoccupazione, non pochi, purtroppo, in ogni classe sociale, sono coloro che potrebbero lavorare ma non vogliono, per pigrizia innata, per amore dell’ozio, per tendenza al parassitismo. Ora, come non è ammessa la libertà dell’ignoranza e perciò, sino ad una certa età, vi è la obbligatorietà della istruzione, così non è ammessa la libertà dell’ozio e perciò, conforme alle proprie attitudini, vi è il dovere del lavoro. In vera democrazia non v’è che una classe, la classe dei lavoratori. Lavoratori del braccio o della mente, ma lavoratori tutti, tutti contribuenti, con la propria opera, al bene supremo della Nazione. Chi non lavora non mangia, ha detto Paolo ed è ripetuto nella Costituzione sovietica. Noi, con espressione meno grossolana, amiamo ripetere col Maestro: chi non lavora non ha diritto alla vita.

Ma l’adempimento di questo dovere del lavoro può essere la condizione per l’esercizio dei diritti politici?

Il terzo comma dell’articolo 31 risponde recisamente, affermativamente. Noi apprezziamo il valore morale della norma. Il cittadino che alla società, col proprio lavoro, non dà alcun contributo, pone se stesso al bando dalla società di cui è parte. Ma un senso di giustizia impone la massima cautela. Vi sono i vecchi, i malati, gli invalidi, i disoccupati. Sarebbe ingiusto togliere a questi, per il solo fatto materiale del non lavorare, l’esercizio dei diritti politici.

Non ricorderemo che questo terzo comma dell’articolo 31 contrasta con l’articolo 45 del progetto, lì dove si afferma che, essendo il voto un dovere civico e morale, nessuna eccezione al diritto di voto può ammettersi se non per incapacità civile o sentenza penale; ma non si può non far presente che domani il divieto dell’articolo 31 potrebbe divenire, più che un pretesto, un’arma nelle mani del potere esecutivo per limitare, a scopo reazionario, il diritto dell’elettorato e dell’eleggibilità. Bisogna dunque o sopprimere – e sarebbe meglio – questo terzo comma ovvero meglio precisarlo formulandolo: l’adempimento di questo dovere, per chi ne ha la capacità e la possibilità, è condizione per l’esercizio dei diritti politici. Ma noi, ripetiamo, siamo per la soppressione pura e semplice.

Sorvolo sugli articoli 32, 33 e 34. La equa retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro; il diritto del lavoratore al riposo settimanale e alle ferie annuali retribuite; il diritto della donna lavoratrice ad avere, a parità di lavoro – e di rendimento io aggiungerei – le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore; e tutte le previdenze e le provvidenze sociali per gli inabili al lavoro e per chi non ha mezzi necessari alla vita e per i casi di infermità, invalidità, vecchiaia e involontaria disoccupazione, sono queste tutte norme che ormai tendono a far parte della legislazione sociale di ogni paese civile. Sarebbe davvero auspicabile, pel nostro Paese, un codice del lavoro, degno della comprensione che la giusta causa dei lavoratori ha ormai raggiunto tra noi, non solo nei partiti della democrazia, ma anche nelle classi più consapevoli e responsabili.

Abbiamo bisogno di manifestare la nostra piena adesione alla libertà delle organizzazioni sindacali, sancita nell’articolo 35? Negarla sarebbe negare, nel campo sociale, quel diritto di libera associazione che, già nell’articolo 13, è stato riconosciuto per tutti i cittadini.

È libertà tanto per i datori di lavoro, come per i lavoratori; è libertà di poter costituire più sindacati anche per una medesima categoria; è soprattutto libertà interna, come attuazione di una interna democrazia, nel senso che sia permessa agli associati la libera scelta dei dirigenti senza subire la imposizione degli elementi delegati dai partiti.

Noi non condividiamo la preoccupazione che qualche collega socialista ha manifestato circa l’obbligo della registrazione per quei sindacati che intendono assumere una vera personalità giuridica. Ci rendiamo conto, psicologicamente, di questa preoccupazione. Dopo il regime dittatoriale, non poteva non diffondersi uno stato di insofferenza verso lo Stato, di cui si teme la invadenza soffocatrice, una invadenza che, nel caso specifico, tenderebbe a inceppare la vita del sindacato sotto una forma, più o meno larvata, di corporativismo. Comprendiamo tutto questo; ma non possiamo non far presente che, quando diciamo Stato, noi intendiamo uno Stato realmente repubblicano; uno Stato che non può, in tutti i gangli della vita sociale, non portare lo spirito di una sana democrazia; uno Stato quindi che, col riconoscimento, attraverso la registrazione dei sindacati, non vuol menomare, minimamente, l’autonomia interna dei sindacati, ma si propone anzi di più valorizzarli e potenziarli, ad essi conferendo una piena personalità giuridica. Libere associazioni di lavoratori in libero Stato vigilante e cooperante, questa per noi, nel campo sociale, la formula della vera democrazia.

Per quanto riguarda lo sciopero consacrato, nell’articolo 36, come un diritto dei lavoratori, esso è un diritto incontestabile. In sé e per sé esso è un ricorso alla forza; ma, spogliato ormai di quelle forme violenti onde, negli anni lontani, si caratterizzò quando si attuò, esso oggi è una forma civile di lotta per la emancipazione del lavoro.

Si potrebbe discutere se lo sciopero, non essendo, un vero e proprio diritto naturale, ma un mezzo, un metodo di lotta, non ritrovi, pel riconoscimento, la sua propria sede in una legge, in un codice del lavoro, anziché nella Costituzione. È facile rispondere che ciò che con una legge si riconosce può con altra legge essere abrogato; e un nuovo vento di reazione potrebbe domani far considerare lo sciopero come in regime fascista fu considerato, cioè non come diritto, ma come delitto.

Un qualche collega ha voluto fare la distinzione tra sciopero economico e sciopero politico, ammettendo il primo, non legittimando il secondo. Vana distinzione. Ogni sciopero, in quanto astensione dal lavoro, è un fatto essenzialmente economico; ma diverso può esserne il fine. Normalmente si lotta, con lo sciopero, per talune rivendicazioni economiche; ma ciò non toglie che lo sciopero, ad una data ora, possa prefiggersi una data finalità politica. E non saremo noi davvero che lo respingeremo per usarlo, con la debita circospezione, come una valida arma dì lotta in difesa delle pubbliche libertà e contro ogni possibile reazione.

Tutti i lavoratori, si legge nel testo, hanno diritto di sciopero. Tutti? Anche i funzionari dello Stato? Anche gli addetti ai pubblici servizi? Punto oggi molto controverso.

Quanto ai pubblici funzionari, non saprei nascondere il mio grande senso di disagio quando apprendo, ad esempio, il minacciato sciopero dei magistrati o lo sciopero degli insegnanti. Sarà la mia forse una mentalità arretrata, ma così è. È un disagio il mio che non vuol essere, semplicemente, preoccupazione e deplorazione per l’astensione da alte funzioni inerenti alla vita dello Stato, ma è anche condanna di un ordinamento statale, il quale, profittando di un tradizionale dignitoso riserbo di una categoria benemerita di lavoratori, non sa assicurare a questi lavoratori, mentre tanto e tanto in altri campi si sperpera, un trattamento economico adeguato alle funzioni che esercitano e soprattutto alle mutate condizioni di vita. Non bisogna troppo abusare della dignitosa pazienza altrui. La corda a lungo tesa si spezza.

Quanto agli addetti a dati pubblici servizi io sono contro lo sciopero, recisamente. Comprendo lo sciopero dei tramvieri, non comprendo lo sciopero degli infermieri. Date prestazioni di opera implicano grande spirito di sacrificio ed alto senso di responsabilità. Il che non significa che questi lavoratori non debbano essere tutelati nei loro diritti. Io arriverei a concepire, in loro difesa, uno sciopero di solidarietà di altre categorie di lavoratori. Ma certi pubblici servizi, per senso di umanità, non debbono essere abbandonati. Non si può concepire uno sciopero degli infermieri o dei farmacisti. Hanno scioperato una volta anche i becchini. Stavo per dire che talvolta scioperano anche… i deputati (Ilarità).

Concludendo, si deve riconoscere per i lavoratori il diritto di sciopero, ma come un diritto il cui esercizio dai dirigenti responsabili deve essere severamente vigilato e disciplinato. Un diritto ad ogni modo, cui, come extrema ratio, si dovrebbe ricorrere solo dopo un tentativo di conciliazione, dopo il ricorso ad un arbitrato.

DI VITTORIO. Si fa sempre.

DELLA SETA. Concordiamo pienamente col testo della Commissione – articolo 38 – per quanto concerne il diritto di proprietà. Da un lato il riconoscimento di questo diritto che, affermazione pur esso della personalità sul mondo della materia, non può non essere legittimo quando frutto di un lavoro compiuto; dall’altro tutti quei limiti che della funzione sociale della proprietà sono il riconoscimento. Nell’interesse dello Stato i limiti alla successione legittima e testamentaria. Da parte dello Stato, per pubblico interesse, la espropriazione, salvo indennizzo, della proprietà privata.

Allo scopo di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali, molto opportunamente l’articolo 41 che, per un più logico coordinamento, dovrebbe seguire l’articolo 38, pone in rilievo i possibili vincoli alla proprietà privata terriera. Questa non può essere illimitata nella estensione, non può sottrarsi ad una eventuale necessaria opera di bonifica, non può essere abbandonata incolta, mantenendo, senza trasformazione, il latifondo e ostacolando quanto invece è da favorire, cioè la piccola e media proprietà.

Per quanto riguarda l’attività produttrice, ben si trovano, nel progetto, riconosciute le tre forme: la iniziativa privata individuale (art. 39); la iniziativa privata collettiva, cioè, la cooperazione (art. 42); nonché la iniziativa esclusivamente. collettiva, cioè la socializzazione (art. 40).

Noi repubblicani siamo troppo assertori di libertà, per non apprezzare, pur nel campo economico, il valore della iniziativa privata, che altro limite non può avere se non il pubblico interesse. E troppo, conforme agli insegnamenti del Maestro, siamo stati e siamo, sempre, caldi fautori del cooperativismo, per non aderire a questa forma, morale e moralizzatrice, dell’attività produttrice e per la quale l’opportuna vigilanza dello Stato – vigilanza diciamo e non tutela – non può limitare quella interna autonomia che è la condizione prima del suo retto funzionamento e del suo sviluppo. Se un qualche riserbo noi abbiamo è per la socializzazione. Riserbo diciamo e non preconcetta avversione. Noi non neghiamo che un qualche complesso industriale possa, per il pubblico interesse, essere socializzato; ma questa socializzazione deve essere suggerita, caso per caso, dalla esperienza e non obbedire ad un piano prestabilito di una radicale e totalitaria pianificazione. In questa pianificazione il cittadino lavoratore e produttore perde pur l’ombra della sua personalità. Molto apprezziamo perciò la grande sobrietà con la quale l’articolo 40 è stato formulato.

Ed apprezziamo anche la sobrietà con la quale è stato formulato l’articolo 43. Si riconosce per esso ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, non precisando se a titolo deliberativo o consultivo, tutto rinviando alla disciplina della legge. Anche a prescindere dal carattere superaziendale che taluni di questi consigli vanno assumendo, certo questi consigli di gestione, specie se, come si dovrebbe, si ammettono gli operai alla partecipazione degli utili, segnano un passo notevole per la pacificazione e la collaborazione tra le classi, per quanto, bisogna non dimenticarlo, essi segnano se non una fase, e non l’ultima, nella lotta, ormai secolare, per la emancipazione del lavoro.

Salvo tutte le modalità specifiche, con le quali la legge dovrà precisarla, è superfluo dire che, anche per i riflessi sullo stesso movimento cooperativistico, aderiamo in pieno alla norma sancita nell’articolo 44 e per la quale la Repubblica affida a sé stessa la tutela del risparmio, nonché la disciplina, il coordinamento e il controllo sull’esercizio del credito.

Ho finito. Mi si permetta, a conclusione, un piccolo rilievo. Si dice, all’articolo 41, che la legge intende anche promuovere la elevazione professionale dei lavoratori. Giusta esigenza cui già accennai quando parlai del problema della scuola. Ma questa esigenza non si limita alla elevazione professionale; essa, non meno imperiosa, anzi fondamentale, è anche un’esigenza, attraverso una sana educazione, di elevazione morale. Occorrono scuole, scuole per il popolo, che si prefiggano questa alta funzione educatrice. Da una maggiore educazione morale, che non può non portare ad un senso più raffinato del giusto e dell’onesto, l’operaio non solo trarrà una maggiore consapevolezza ed una disciplina maggiore nella stessa causa per cui, a proprio vantaggio, combatte; non solo si spoglierà, gradualmente, di ogni egoismo di classe e apprenderà, senza odio, quale sia il significato vero delle parole borghese e antiborghese; ma sarà portato soprattutto, a sentire ed a comprendere che la soluzione, conforme a giustizia, del problema sociale non è fine a se stessa; che la vera emancipazione dei lavoratori si avrà quando, assicurate dignitose condizioni economiche di esistenza, anche il lavoratore potrà vivere la vera vita, quella vita che non può essere il privilegio di pochi eletti, quella vita per cui l’uomo è veramente uomo, quella vita onde l’uomo conforta e innalza se stesso alla luce nobilitante dello spirito. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Taviani. Ne ha facoltà.

TAVIANI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, è lecito, io credo, anche più che giustificato, dubitare della utilità di questa discussione generale. Tuttavia dal momento che essa c’è, mi sia consentito adempiere al compito di precisare il punto di vista del Gruppo democristiano a proposito del Titolo III. Il punto di vista del nostro Gruppo deriva logicamente dalla risposta che cercherò di dare alle critiche che a questo Titolo sono state rivolte.

Una prima critica è affiorata nella discussione in Aula, e ancora più fuori dell’Aula; questo Titolo costituirebbe il risultato di un compromesso. Ora io mi appello all’onorevole Presidente della terza Sottocommissione, che ha elaborato le norme di questo Titolo; mi appello a tutti i Commissari. Non mai una volta le formulazioni si fondarono sul compromesso. Qualche volta esse sono state deliberate con voto di maggioranza; qualche altra volta, anzi spesso, ad unanimità o col voto dei rappresentanti dei maggiori partiti. Sempre esse hanno rappresentato un punto di incontro, non mai c’è stato un deteriore baratto su una proposizione o su una frase o su una parola. Tanto è vero che quando il voto non è stato unanime, le divergenze, più che politiche, sono state spesso tecniche, e si sono visti votare diversamente un socialista da un altro socialista, un democristiano da un altro democristiano, e anche – incredibile, ma vero – un comunista votare in modo diverso da un altro comunista.

Questo per quanto riguarda la forma; per quanto concerne la sostanza, io credo – e cercherò brevemente di dimostrarlo – che il Titolo III costituisca un complesso di norme che, superando l’impostazione individualistica del problema economico, pone le premesse della riforma sociale, senza peraltro fissare degli schemi precostituiti e rigidi, che potrebbero diventare incompatibili con lo sviluppo della tecnica e dell’economia.

Un secondo ordine di critiche riguarda particolarmente alcune norme che si ritengono vane o superflue o, comunque, non adatte ad un testo costituzionale. Ha già risposto ad esse il collega onorevole Dominedò nella seduta dell’altra sera, quando ha acutamente dimostrato come si possano dare delle norme, anche non immediatamente azionabili, che pure mantengano il loro valore: norme per il legislatore futuro. Esse costituiscono il grande binario su cui dovrà incamminarsi la legge.

Più grave è una terza critica. Questo Titolo è stato visto addirittura come l’espressione di una concezione statolatrica, soffocatrice della persona umana. Ci aspettavamo – mi aspettavo – questa critica dai colleghi di parte liberale, tenaci assertori del principio della libertà, come unico principio della realtà economica. E invece il discorso, veramente notevole, dell’onorevole Cortese, ha rivelato un liberalismo sensibile alle esigenze di giustizia sociale, un liberalismo più simile a quello del grande espositore della dottrina liberale: lo Stuart Mill, che non al rigido schematismo, al fanatismo rigido del Bastiat.

A questo fanatismo rigido si sono invece avvicinate le impostazioni dei colleghi di parte qualunquista. L’onorevole Maffìoli ha parlato addirittura di una statomania; più serenamente l’onorevole Colitto si è ricondotto a un ordine naturale dell’economia, che invano la legge, lo Stato cercherebbero, attraverso questo Titolo, di disciplinare e di orientare.

Ora, a questo proposito è bene intenderci: c’è una concezione tipica del mondo economico che ha prevalso nella dottrina e, solo in parte, nella prassi del secolo scorso: la concezione naturalistica per cui i fenomeni economici si dispiegano secondo leggi naturali e inderogabili, a cui invano l’uomo cercherebbe di opporsi. Per esempio, parlando del latifondo, un oratore di parte qualunquista ha detto che esso scompare naturalmente, senza bisogno di leggi, a mano a mano che si sviluppa l’economia. Ora, io potrei rispondergli con una citazione dell’Enfantin, celebre discepolo di Saint Simon, uno degli autori dell’Esposizione della dottrina sansimoniana. Centotrenta anni fa questo antesignano di non poche riforme sociali contemporanee scriveva presso a poco così: «Certo, senza bisogno di leggi, ogni squilibrio si appiana con lo sviluppo dell’economia. Certo, tutto finisce per livellarsi. Ma – mirabile conclusione questa! – finché non si è compiuto il livellamento, che faremo noi delle migliaia di uomini affamati? Li consoleranno i nostri ragionamenti? Sopporteranno essi con pazienza, solo perché i calcoli statistici dimostrano che entro un certo numero di anni l’economia si sviluppa naturalmente, ed essi allora potranno avere del pane?»

No, non non siamo statomani e neppure idolatri del toro impazzito che, secondo la pittoresca immagine dell’onorevole Maffioli, sarebbe lo Stato quale affiora dal Titolo III. Noi anzi riteniamo che l’ordinamento sociale dell’economia abbia proprio il risultato opposto a quello che temono i nostalgici o i maniaci del liberalismo a ogni costo; solo un ordinamento sociale, infatti, può evitare lo slittamento verso lo Stato totalitario, cui fatalmente finisce per condurre il non regolato esercizio delle libertà individuali. Come non seguiamo la concezione naturalistica dell’economia, così non crediamo neppure che tutto possa ottenere lo Stato come volontà legislatrice ed esecutrice. Tra i due principî, quello naturalistico – per cui l’economia si svolge spontaneamente sotto l’impulso delle sole forze individuali – ed il volontaristico – per cui tutto si riconduce all’autorità dello Stato – c’è un terzo modo di concepire la vita economica, il modo di chi pur tenendo conto delle resistenze naturali e della forza dell’interesse individuale o privato, postuli un inquadramento, un indirizzo sociale dell’economia.

Ci conforta, a questo proposito, l’esperienza del mondo economico contemporaneo. Non soltanto negli Stati totalitari, ma anche negli Stati democratici oggi si orienta socialmente l’economia: anche, e precipuamente, in quegli Stati che si portano a modello della democrazia: Nord America e Inghilterra.

Qualcuno potrà obbiettare che oggi si sta peggio di quanto non si stesse un secolo fa, nel secolo liberale e liberista. Ma questa affermazione può essere esatta, solo se riferita alle classi borghesi; non è esatta, se riferita al proletariato industriale e al proletariato agrario. Comunque, donde ha tratto origine la stessa triste realtà di oggi e la triste realtà del fascismo di ieri se non dal mondo che ha voluto risolvere unicamente nell’individuo la fonte di tutti i diritti e di tutte le libertà?

L’orientamento sociale dell’economia ha proprio lo scopo di tutelare la persona umana, anzi le persone umane. Ma – si dirà – chi ci garantisce che gli organismi sociali non esorbitino da questo loro compito? Ce lo garantisce l’ordinamento democratico dello Stato. Che, se l’ordinamento democratico dovesse venire a cessare, stia pur certo, onorevole Maffioli, che, anche senza il Titolo III, vedremmo veramente scatenarsi il toro impazzito dello Stato e soffocare la persona umana. Non è il liberalismo puro, non l’accettazione supina del cosidetto ordine naturale economico che possono garantire la democrazia. Essi porterebbero fatalmente al totalitarismo. Per garantire durevolmente la democrazia vano sarebbe ricorrere all’unica forza dell’individuo. Non c’è altro mezzo (ci ammonisce la lezione dell’esperienza) che articolare la democrazia nelle collettività intermedie: democrazia organica sul piano politico e solidarismo sul piano economico.

Fra i due termini, quali risultano dall’impostazione del Rousseau, individualismo e statalismo, c’è una terza via: quella della economia associata, dell’orientamento sociale dell’economia.

Questa via fu sempre battuta dalla scuola sociale cristiana. Su questa via abbiamo cercato di indirizzare il Titolo III.

Se poi qualcuno volesse mascherare le sue critiche dietro motivi tecnici o produttivistici, ma in realtà celasse null’altro che interessi, allora potremmo rispondergli con la grande frase di uno dei più illustri spiriti della democrazia americana, l’arcivescovo di Quebec: «Il secolo XX o sarà il secolo delle riforme sociali o sarà il secolo del sovversivismo!».

Da questa impostazione risulta chiara la posizione del nostro Gruppo riguardo ai diversi articoli. Non c’è il tempo (e sarebbe inutile ripetizione, perché altri miei colleghi hanno già parlato sui singoli articoli) di compiere un esame approfondito.

Mi soffermerò sul diritto al lavoro.

Di esso si è detto: perché inserirlo nella Costituzione? Ciò non significa postulare una totale pianificazione dell’economia? Non pare. Questa norma dice precisamente che, nei suoi interventi nell’economia, lo Stato deve tener presente soprattutto una mèta: assicurare il lavoro, perseguire una politica economica di pieno impiego.

Un altro punto: il diritto di sciopero. Anche qui il nostro pensiero sgorga logicamente dalle posizioni generali che ho cercato di precisare. In uno Stato perfettamente capace di realizzare la giustizia non dovrebbe esservi lo sciopero. Di questo siete convinti anche voi, colleghi comunisti; soltanto che, per voi, questo Stato perfetto già esiste ed in esso difatti è proibito il diritto di sciopero.

Per noi è lecito supporre che sia almeno, più difficile di quanto voi non riteniate, realizzare su questa terra una tale perfezione. Nell’ipotesi che essa per ora non esista, o che addirittura non possa esistere, resta a vedere se la Costituzione deve tener conto di quello che è un aspetto patologico della vita economico-sociale. Ecco perché comprendiamo benissimo quello che è stato detto testé dall’onorevole Della Seta. È il caso, egli si è chiesto e si chiede qualcuno, anche fra noi, di inserire questo diritto nella Costituzione? Esso non è altro che la logica derivazione del diritto alla legittima difesa, non è che una triste necessaria conseguenza di un rapporto di forza, lo ha detto testé l’onorevole Della Seta, fra capitale e lavoro. Qualcuno, più drasticamente, parla addirittura di una legge della foresta. Ora, lo Stato può sopportare, può comprendere che ciò si verifichi, che i lavoratori abbiano il diritto di difendersi, ma può apparire vano, inutile, superfluo intervenire a codificare o disciplinare dei rapporti di forza. Noi credevamo che questa fosse la vostra tesi (Si rivolge a sinistra) e dovrebbe esserlo, logicamente.

Noi non riteniamo peraltro, data la nostra concezione realistica, che questa tesi si debba senz’altro accettare. Noi riteniamo che la Costituzione possa e debba parlare del diritto di sciopero, non debba ignorare la facoltà dello sciopero, ma, intendiamoci, riteniamo che questa facoltà debba esercitarsi nell’ambito delle leggi. Tutti gli altri diritti, sanciti e riconosciuti in questo Titolo, anche il diritto di proprietà privata, che è diritto naturale, anche il diritto di iniziativa personale, il diritto al lavoro, il diritto all’assistenza, tutti vengono ricondotti alla legge che li regola, li disciplina e li determina. Perché non si dovrebbe fare lo stesso anche per il diritto di sciopero?

Se noi dovessimo entrare nel merito – e già ne ha parlato ieri l’onorevole Belotti – potremmo prendere in considerazione lo sciopero nel caso dei servizi pubblici, nel qual caso concordiamo con le osservazioni dell’onorevole Della Seta. Senonché pare ingenuo ritenere che vi possa essere una categoria di persone che debba scioperare in luogo di coloro che sono adibiti ai servizi pubblici, quasi che vi siano degli addetti al servizio di sciopero! Particolarmente significativa è poi la condizione dei pubblici ufficiali, per i quali, secondo l’espressione paradossale dell’onorevole Molè, si verificherebbe il caso dello Stato che sciopera contro lo Stato. Noi non avremmo nulla in contrario all’articolo della prima Sottocommissione, dove si entra nel merito per quanto concerne le modalità di questo diritto. Se non si ritiene di dover entrare nel merito, noi possiamo aderire ad una dizione simile a quella della Costituzione francese.

Per l’articolo 38, si è detto da qualcuno che, dopo aver affermato e riconosciuto il diritto naturale di proprietà privata, viene a negarla con dei limiti e delle norme.

Non è così: c’è un diritto naturale di proprietà privata, ma, oltre al diritto naturale della proprietà privata, c’è anche il diritto di tutti all’uso dei beni. Ambedue sono diritti naturali e fondamentali nell’ordine economico della società. Non si può negare né l’uno né l’altro. Ed allora abbiamo che, fissato il principio del diritto generale astratto della proprietà privata, la legge positiva lo deve concretare e determinare con norme specifiche, con dei limiti che tengano conto anche del diritto di tutti all’uso comune dei beni. Perciò all’articolo 38 è detto che la legge, nel determinare modalità e limiti, tiene conto di un duplice ordine di scopi: la funzione sociale della proprietà e la possibilità per tutti di accedervi, sicché la proprietà non sia un privilegio di poche persone, ma sia invece un diritto di tutte le persone umane.

Dell’articolo 40 l’onorevole Della Seta ha lodato la sobrietà, ed effettivamente esso non vuole precludere alcuna delle nuove formule di soluzione dei problemi industriali, che possono affiorare dallo sviluppo della tecnica e della economia. Anche noi aderiremmo ad un eventuale emendamento, che fissasse meglio lo scopo dell’intervento dello Stato per una socializzazione o nazionalizzazione, che non si limitasse al solo aspetto di coordinare le attività economiche, ma lo riferisse più ampiamente al bene comune, o, se si vuole, all’utilità generale; cioè che solo al fine dell’utilità generale la legge possa riservare o trasferire la proprietà di singoli beni o di categorie di beni alla comunità.

Questi non sono che alcuni aspetti di dettaglio che ho voluto citare come conseguenze logiche della nostra impostazione del problema sociale e della nostra posizione dinanzi al Titolo III. Certo si potrà indubbiamente modificare nei dettagli questa o quella norma in sede di votazione; ma, nel complesso, noi riteniamo di poter accettare l’impostazione di questo Titolo III, alla cui stesura gli uomini della Democrazia cristiana hanno apportato un così vasto ed efficace contributo; sappiamo di rispondere così al mandato che abbiamo ricevuto dagli elettori.

Noi risponderemo col nostro voto all’impegno di formulare una Costituzione che, conservando integre le tradizioni morali e religiose del nostro popolo, ponga le premesse giuridiche di quella evoluzione sociale che deve realizzarsi nell’ordine, nella legge e nella libertà.

Noi crediamo in questa evoluzione sociale; noi crediamo che essa possa e debba realizzarsi col metodo democratico e nell’ambito della civiltà cristiana. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Di Vittorio. Ne ha facoltà.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, noi, di questa parte dell’Assemblea, difendiamo, nel suo complesso, il Titolo III del progetto di Costituzione; lo difendiamo malgrado che non ci nascondiamo alcuni lati deboli, e malgrado che riteniamo necessarie alcune precisazioni su alcuni articoli del Titolo stesso. Noi crediamo che questo Titolo sia il più originale, quello che più degli altri caratterizza la Costituzione italiana e che, perciò, respingerlo o vuotarlo del suo contenuto reale, del suo contenuto positivo, significherebbe non corrispondere alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane. Con questo Titolo del progetto di Costituzione la nuova democrazia italiana esce finalmente dall’ambito ristretto, troppo ristretto, della politica pura per penetrare nel campo dell’economia, nel campo dei rapporti sociali, per apportarvi un minimo di giustizia sociale e per sancire i nuovi diritti conquistati dai lavoratori italiani.

Oggi non bastano più i diritti puramente politici, i diritti del cittadino: una Costituzione moderna, che voglia corrispondere alle esigenze vitali del popolo, deve riconoscere e sancire i diritti del lavoro, che è la fonte della vita, e deve riconoscere i diritti di coloro che ne sono gli artefici, i diritti, cioè, dei lavoratori.

Ogni nuova Costituzione segna una tappa nella evoluzione storica di un paese, e ciò che deve caratterizzare la tappa attuale dell’evoluzione storica dell’Italia deve essere appunto un tentativo concreto della democrazia italiana di affondare le proprie radici nell’economia e di democratizzare, nella misura del possibile, tenendo conto della realtà concreta, delle possibilità effettive, i gangli vitali del Paese, fra i quali sono – in primo luogo – le fabbriche, le aziende produttive in generale.

Per questa esigenza la nuova Costituzione non può tener conto soltanto della situazione presente: essa deve partire dalla base solida della situazione attuale, di ciò che è acquisito; ma deve anche proiettarsi in un prossimo futuro e tracciare ai futuri legislatori una prospettiva politica e storica verso la quale intendiamo indirizzare il nostro Paese.

Perciò noi ci meravigliamo delle meraviglie che abbiamo sentito esprimere da nostri colleghi su alcuni degli articoli essenziali di questo Titolo.

Ho sentito, l’altro giorno, l’onorevole Nitti chiedersi stupito come potrà fare la Repubblica italiana per assicurare il diritto al lavoro, per assicurare a ciascun lavoratore una retribuzione adeguata al lavoro compiuto ed alla qualità del lavoro. Evidentemente, se ci dovessimo basare esclusivamente sulla situazione attuale, in cui si può dire che nessun lavoratore abbia ancora una giusta retribuzione, si dovrebbe essere imbarazzati a dare una risposta all’onorevole Nitti. Ma noi lavoriamo per uscire da questa situazione di sconvolgimento economico e di miseria. Vogliamo riorganizzare una nuova vita dell’Italia, vogliamo creare una situazione normale nella quale deve essere possibile al legislatore di determinare, anche per legge, il modo per garantire il godimento dei diritti che sono riconosciuti in questo Titolo della nostra Costituzione.

Ciò che è importante, è che tutta la vita nazionale e tutte le attività dello Stato siano dirette a riorganizzare l’economia italiana e la nostra vita sociale, in modo da tendere a garantire effettivamente il diritto al lavoro come diritto alla vita e a garantire gli altri diritti che vengono riconosciuti ai lavoratori con questo Titolo del progetto di Costituzione.

Del resto, quei colleghi che partono dal presupposto dell’impossibilità concreta per la Repubblica italiana di garantire al lavoratore il godimento di quei diritti, partono dal preconcetto della immutabilità dei rapporti economici e sociali attuali. Questa pretesa immutabilità è assurda. La società è cosa vivente e, come tale, è cosa dinamica, in continua evoluzione. È evidente che se i rapporti economici e sociali vigenti ancora oggi dovessero rimanere immutati, tutti i diritti riconosciuti ai lavoratori, e non soltanto in questo Titolo del progetto, sarebbero vaghe parole. Il valore del riconoscimento di questi diritti nella Costituzione consiste appunto nel fatto che noi ci proponiamo di determinare tali mutamenti nei rapporti economici e sociali, da rendere realizzabili questi diritti per i lavoratori. È per questo che è importante e necessario che questi diritti siano sanciti nella Costituzione. È una illusione vana quella di determinati ceti sociali, retrivi e reazionari, come quelli della plutocrazia e della grande proprietà terriera, di voler fermare il quadrante della storia, di voler credere che la democrazia debba consistere esclusivamente nel riconoscimento dei diritti del cittadino, fermandosi così ai risultati della grande Rivoluzione francese.

Il mondo evolve; i diritti esclusivamente politici, i diritti del cittadino non bastano più. Bisogna garantire l’esistenza al lavoratore come artefice fondamentale della vita di ogni società civile, di ogni società organizzata.

Il fascismo ha voluto rappresentare nella nostra, come in altre società nazionali, appunto il tentativo estremo di impedire questa evoluzione della democrazia dal campo puramente politico al campo economico e sociale; ha voluto significare l’estremo tentativo di impedire alle giovani e vigorose forze del lavoro di avanzare alla conquista di altri diritti; ha voluto impedire alle masse lavoratrici di realizzare nuove conquiste che garantissero un’esistenza meno misera, meno meschina e più degna ai lavoratori. Ma noi abbiamo visto che, malgrado la grandiosità dei mezzi che sono stati impiegati in questo tentativo, esso non è riuscito, perché non poteva riuscire, perché le leggi della evoluzione sociale sono incoercibili. E si è vista una cosa ancor più grave: che questi tentativi dei ceti reazionari della nostra società non sono costati oppressione, miseria e sangue soltanto ai lavoratori, come alcuni si erano illusi e desideravano che fosse. Il fascismo, nel suo proposito di arrestare il progresso sociale, si è risolto in una catastrofe di tutta la Nazione ed è costato sangue e miseria all’intero popolo italiano.

Perciò bisogna che il processo di evoluzione sociale si svolga normalmente e si svolga liberamente, senza impedimenti artificiali da parte delle classi privilegiate, che sono abbarbicate ai loro antichi consolidati privilegi e che, per cercare di conservare questi privilegi e di sopravvivere come strati dirigenti della società, ricorrono a tutti i mezzi, compreso quello di condurre l’intero Paese alla catastrofe.

L’esperienza storica ha dimostrato che determinati ceti, determinate classi sociali in tanto possono assurgere e mantenersi alla direzione della società, in quanto i loro interessi coincidano con gli interessi generali della società e, quindi, in quanto essi siano, abbiano la coscienza di essere e sappiano essere i rappresentanti degli interessi generali e degli ideali della Nazione del popolo.

Ora credo che nessuno in questa Assemblea possa affermare che i ceti plutocratici, i ceti latifondisti, i ceti monopolistici dell’economia del Paese abbiano interessi che coincidano o che possano identificarsi con l’interesse generale della Nazione e che possano rappresentarne gli ideali.

Il Titolo III del progetto di Costituzione, attraverso i suoi vari articoli, pone la base di principio per la liquidazione di alcuni istituti, di alcuni rapporti economici e sociali, che sono stati storicamente condannati e sono divenuti, nella loro essenza, antisociali e perciò antinazionali.

Su che cosa si appunta in modo particolare la critica agli articoli essenziali di questo Titolo: all’articolo che pone la base di principio di una riforma agraria, a quello che pone la base di principio della nazionalizzazione di alcuni monopoli economici e di alcune industrie chiave, che sono fondamentali per lo sviluppo della economia nazionale?

Ebbene, signori, il latifondo che esiste ancora largamente nel nostro Paese, specialmente nel Mezzogiorno e nelle isole, non è altro che un residuo dell’antico regime feudale, non è che espressione di arretratezza e di miseria. Il latifondo deve essere eliminato perché in tal modo si elimina l’arretratezza della nostra agricoltura, si elimina la miseria dei nostri braccianti e dei nostri piccoli contadini: e non soltanto nel Mezzogiorno, ma anche in altre regioni d’Italia.

Ebbene, questo Titolo pone le basi di una riforma la quale è un presupposto essenziale per operare una profonda trasformazione fondiaria, che è indispensabile al nostro Paese. È indispensabile per ottenere una maggiore produzione delle nostre terre, un maggior impiego di mano d’opera, per ottenere più grano, più prodotti agricoli, e quindi anche un maggiore benessere, più scuole e un superiore livello di civiltà per il nostro popolo lavoratore.

I monopoli economici, la cui realizzazione scandalizza ancora qualcuno anche nella nostra Assemblea, non hanno nessuna funzione socialmente utile. Sono i monopoli economici che anche nel nostro Paese sono giunti a limitare artificialmente la produzione e in molti Paesi sono giunti a distruggere anche quantità di prodotti per mantenerne elevati i prezzi, mentre una parte notevole delle masse lavoratrici e popolari non aveva la possibilità di accedere a quei prodotti, di cui avrebbe avuto estremo bisogno. Bisogna liberare la nostra economia nazionale dai monopoli e dal latifondo per riuscire a realizzare le premesse di una rinascita economica ed effettiva del nostro Paese ed anche di un profondo rinnovamento democratico dell’Italia. Bisogna persuadersi, onorevoli colleghi, che nelle masse popolari del nostro Paese è penetrata profondamente la coscienza che i diritti esclusivamente politici non bastano più; è penetrata la coscienza della necessità della realizzazione delle riforme sociali di struttura della economia, che sono la sola garanzia effettiva e positiva del godimento dei buoni diritti che la Carta costituzionale riconoscerà ai lavoratori italiani.

Certo, il processo di realizzazione di queste riforme di giustizia sociale, alla quale ho appena accennato, non può essere evitato con misure artificiali; è un processo che deve inevitabilmente compiersi. E, data la sua inevitabilità (poiché risponde a esigenze fondamentali di vita e di progresso del Paese), la questione che si pone davanti alla coscienza pubblica è quella di sapere come questo processo sarà compiuto. Attraverso le vie legali, pacificamente, ordinatamente? O attraverso scontri violenti che possono degenerare nella guerra civile e portare nuovi lutti al nostro popolo, che ne ha già patiti fin troppi? Io credo che ogni tentativo diretto o a respingere l’insieme del Titolo III del nostro progetto di Costituzione o a vuotarlo del suo contenuto effettivo significherebbe lasciare la via aperta alla soluzione più deprecabile per il nostro Paese; significherebbe incoraggiare quei ceti latifondisti, i quali si armano e che ancora recentemente in Sicilia hanno funestato il nostro Paese con l’assassinio vile e barbarico di ben dieci lavoratori; significherebbe lasciare adito ai ceti storicamente superati, ma che non vogliono adattarsi alle esigenze di progresso della nostra vita nazionale, a continuare in una resistenza armata la quale non potrebbe che provocare nuovi lutti e forse nuove miserie al nostro Paese. Il Titolo III in fondo si preoccupa di dare una soluzione legale, ordinata a questo processo e al suo compimento. Perciò noi raccomandiamo che esso sia approvato dall’Assemblea.

Permettete, onorevoli colleghi, che io insista un momento sull’articolo 35 del nostro progetto di Costituzione, che pone in modo sintetico la base di principio del nuovo ordinamento sindacale italiano. Già altri colleghi hanno sottolineato i principî generali ai quali si ispira questo nuovo ordinamento: in primo luogo, la libertà nel campo sindacale. Perciò il nuovo sindacato è concepito come una organizzazione libera dei lavoratori, una organizzazione alla quale si accede volontariamente, nella quale il pagamento dei contributi sia volontario. Tutto l’ordinamento sindacale si ispira a questo principio di libertà, di indipendenza del sindacato, di autonomia del movimento sindacale dei lavoratori.

Ho sentito testé l’onorevole Della Seta lamentare il fatto che si esprimano alcuni sospetti verso la stessa registrazione dei sindacati, perché si temerebbe che una dipendenza qualsiasi dei sindacati dallo Stato potrebbe menomarne la libertà d’azione: l’onorevole Della Seta osservava che se ciò era giusto nei confronti di uno Stato fascista, non è giusto nei confronti di uno Stato democratico repubblicano. Comprendo ed apprezzo la natura dell’osservazione dell’onorevole Della Seta. Infatti per noi fra uno Stato fascista e uno Stato democratico; fra uno Stato reazionario e uno Stato democratico e repubblicano vi è una profonda differenza e l’atteggiamento dei lavoratori nei confronti dell’uno o dell’altro tipo di Stato è molto differente e in molti casi anche opposto. Però per noi è una questione di principio. È una necessità per i lavoratori che la loro organizzazione sindacale, lo strumento fondamentale della difesa dei propri interessi e della conquista di nuovi diritti nel campo economico e sociale, sia completamente autonoma e completamente libera da ogni ingerenza statale.

MAZZA. E politica.

DI VITTORIO. Da ogni ingerenza statale e da ogni ingerenza politica.

Ma quando noi, tenendo conto della tradizione che si è stabilita nel nostro Paese, abbiamo voluto affermare che il riconoscimento giuridico dei sindacati non deve implicare una dipendenza dei sindacati stessi dallo Stato, non abbiamo voluto esprimere nessuna diffidenza verso lo Stato democratico repubblicano; tanto è ciò vero, che nello statuto della Confederazione generale italiana del lavoro è affermato nettamente il principio che i sindacati, oltre a difendere gli interessi economici dei lavoratori, si preoccupano anche della difesa delle libertà democratiche e della Repubblica.

Perciò, nessun sospetto dei lavoratori verso lo Stato democratico e repubblicano; ma noi crediamo che la esigenza dell’autonomia e dell’indipendenza completa dei sindacati rispetto ai poteri dello Stato non sia incompatibile col rispetto che i lavoratori hanno verso lo Stato democratico, ed anzi con la loro volontà di impiegare tutti i mezzi a loro disposizione per difendere lo Stato democratico contro qualsiasi assalto o tentativo di assalto reazionario e monarchico.

In questo stesso articolo è affermato il principio della obbligatorietà dei contratti di lavoro. Io desidero per un momento attirare l’attenzione dei colleghi sulla necessità di questa obbligatorietà.

I sindacati sono abbastanza forti per tutelare efficacemente gl’interessi dei lavoratori, per ottenere la stipulazione di contratti collettivi, che, nei limiti delle possibilità reali, sodisfino le loro esigenze. Però, ci si trova molto spesso di fronte a dei datori di lavoro tanto egoisti e tanto antisociali, da non volere riconoscere nemmeno i contratti di lavoro, che sono stipulati liberamente fra le organizzazioni dei datori di lavoro e le organizzazioni dei lavoratori.

In questo caso, l’organizzazione dei lavoratori non ha che un mezzo, per far valere il proprio diritto: l’agitazione, lo sciopero, la lotta contro quel datore di lavoro egoista che si rifiuta di accogliere i giusti diritti dei lavoratori. E, naturalmente, siccome il numero di questi datori di lavoro non è così esiguo, come si porrebbe pensare, ciò ci porterebbe a dover scatenare una serie di agitazioni e di lotte che noi vogliamo evitare al nostro Paese.

Attualmente, il datore di lavoro, che non voglia rispettare i contratti (o che non voglia più rispettarli, se ad un certo momento li trova poco convenienti o se, sotto la pressione della disoccupazione, viene ad ottenere l’offerta di lavoratori affamati, a condizioni inferiori a quelle stabilite nei contratti di lavoro), dichiara che il contratto stipulato fra le due organizzazioni non lo impegna personalmente – o perché non è socio o perché, se lo era, si è dimesso –; quindi egli non avrebbe nessun obbligo di osservarlo.

Questa disposizione, sancita nell’articolo 35 della Costituzione e che verrà, naturalmente, come tutti i principî sanciti dalla Costituzione, regolata da una legge, eviterà queste agitazioni, dando efficacia di legge ai contratti di lavoro, e quindi obbligando anche quei datori di lavoro egoisti, antisociali, ai quali ho accennato, a rispettare i contratti collettivi come le leggi sociali.

Noi, per completare questo ordinamento sindacale basato sulla libertà e sull’indipendenza dei sindacati, proporremo un articolo aggiuntivo, col quale vorremmo affermare il principio che nel nostro Paese il mondo del lavoro organizzato, il movimento sindacale, deve avere un posto importante nella stessa struttura dello Stato e deve avere la possibilità di esercitare un’influenza nel senso dell’evoluzione sociale ed economica del nostro Paese. Noi vorremmo che fosse costituito un Consiglio nazionale del lavoro, con ramificazioni regionali e provinciali – in qualche caso, anche locali – elettivo…

MAZZA. Sì, dall’alto.

DI VITTORIO. …non un organismo burocratico dello Stato. E il compito di questo Consiglio nazionale dovrebbe essere quello di promuovere una legislazione sociale progressiva aderente alle esigenze economiche del nostro Paese. E a questo Consiglio dovrebbero essere sottoposte preventivamente, per il voto consultivo, tutte le leggi di carattere sociale che dovrebbero andare al Consiglio dei Ministri…

MAZZA. Un secondo Stato!

DI VITTORIO. …tutti i provvedimenti di carattere sociale da passare al Consiglio dei Ministri e all’Assemblea legislativa. Inoltre questo ente dovrebbe avere la possibilità di far osservare i contratti di lavoro e le leggi sociali e di esercitare a questo scopo il relativo controllo.

Intendiamoci bene, questo ente dovrebbe essere composto di tutte le classi interessate al processo della produzione; ma bisognerebbe finirla con un concetto invalso in numerosi ambienti e già idealizzato dal fascismo: il concetto della pariteticità della rappresentanza degli interessi rispettivamente dei lavoratori e dei datori di lavoro. Noi riteniamo che non sia democratico, che non sia giusto mettere sullo stesso piano interessi di carattere collettivo, di carattere generale, sociale, nazionale, con interessi di carattere privato e di carattere egoistico; come non è giusto porre sullo stesso piano interessi riguardanti, per esempio, mille cittadini e interessi che rappresentano invece le aspirazioni di un milione di cittadini. Noi comprendiamo anche la funzione che ha il capitale, la funzione che ha l’iniziativa privata negli attuali rapporti economici e sociali, ma possiamo desiderare che negli organi rappresentativi dello Stato democratico le rappresentanze siano costituite su base democratica, cioè sulla base del numero degli interessati da una parte e dall’altra. Noi domandiamo inoltre che i rappresentanti del Consiglio nazionale, come dei consigli regionali e provinciali, siano eletti dalle categorie interessate e non siano di nomina governativa, perché, anche se la nomina viene da parte di un Governo democratico, l’istituto avrà sempre un carattere burocratico e mai democratico.

Permettetemi ora di dire poche parole sulla questione più dibattuta di questa Assemblea: la questione del diritto di sciopero. Numerosi colleghi hanno detto: è proprio necessario sancire il diritto di sciopero nella Costituzione? Anche l’onorevole Della Seta si domandava poco fa: non sarebbe sufficiente che una legge ordinaria dello Stato togliesse il divieto del diritto di sciopero? Noi riteniamo che ciò non sarebbe sufficiente. L’onorevole Nitti, l’altro giorno, domandava in quale altra Costituzione è sancito il diritto di sciopero e perché lo dovremmo sancire proprio noi in Italia. Vi è una risposta a questa domanda dell’onorevole Nitti. Noi non possiamo prescindere dal fatto che in Italia, per circa 20 anni, il diritto di sciopero è stato negato. Lo sciopero era considerato un crimine, un delitto punito dalla legge, e noi usciamo dal regime che aveva reso lo sciopero un crimine. Evidentemente in altri Paesi democratici, che non hanno avuto la lunga parentesi del fascismo, il diritto di sciopero è un diritto così naturale, che è superfluo sancirlo nella Costituzione, perché ormai è entrato nel costume e nella vita nazionale e più nessuno lo pone in discussione.

BENEDETTINI. Più nessuno? Tutti lo mettiamo in discussione! (Rumori a sinistra).

DI VITTORIO. Ma io ho detto in altri paesi democratici…

BENEDETTINI. Come in Russia per esempio! (Commenti).

DI VITTORIO. Voi siete un prolungamento del passato! (Applausi a sinistra).

Una voce a destra. C’è in Russia diritto di sciopero? (Commenti).

DI VITTORIO. A proposito di questa interruzione, devo osservare che si dice comunemente, anche in questa Assemblea, che in Russia è proibito lo sciopero, non esiste il diritto di sciopero; ma questo non è vero, in Russia non vi è più lo sciopero perché non vi sono più i rapporti sociali che vi sono qui. (Commenti a destra).

Una voce a destra. Il fascismo diceva la stessa cosa!

DI VITTORIO. La ragione, dicevo, è molto semplice.

In Russia è stato abolito per sempre lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo; non vi è più nessuno, in Russia, che si arricchisca sul lavoro degli altri e che sfrutti il lavoro degli altri, e quindi lo sciopero non c’è più perché è venuta a mancare la causa stessa dello sciopero, che è lo sfruttamento dei lavoratori da parte dei capitalisti.

Una voce a destra. Ma c’è lo Stato. (Commenti Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Prosegua, onorevole Di Vittorio.

DI VITTORIO. Allora, onorevole Nitti, la necessità di inserire nella nostra Costituzione il diritto di sciopero deriva appunto dal fatto che usciamo dal fascismo. Si vuole creare una contrapposizione netta fra la nuova democrazia italiana ed il fascismo, specialmente col riconoscimento di questo diritto fondamentale del proletariato e di tutti i lavoratori: il diritto di sciopero, che è una delle principali conquiste del movimento operaio moderno, è una delle armi essenziali di difesa nel mondo del lavoro, e fa parte dell’integrità e della libertà della persona umana.

Perciò, noi riteniamo che sia indispensabile che questo diritto rimanga sancito nella nuova Costituzione della Repubblica italiana.

È stato osservato ancora che non si specifica se si tratti di sciopero economico o di sciopero politico. Signori, qui si tratta di riconoscere il diritto di sciopero. La natura ed il carattere dello sciopero deve derivare dalla volontà collettiva dei lavoratori che, in un determinato momento, credono necessario scioperare. Lo sciopero, ordinariamente, ha carattere economico: tende alla difesa di interessi immediati e concreti dei lavoratori, alla conquista di nuovi diritti nel campo del lavoro. Ma vi è anche lo sciopero politico, vi è anche lo sciopero di solidarietà. E nessuno deve scandalizzarsi se si dichiara democratico lo sciopero politico, perché, nella storia del movimento operaio italiano e mondiale, vi sono numerosi esempi di scioperi politici, che sono riusciti a salvare la democrazia, e ad impedire l’avvento violento della reazione al potere. Basterebbe ricordare lo sciopero generale in Germania del 1920 contro il putsch del generale Von Kappler; lo sciopero generale del 1934 in Francia, quando il movimento fascista delle Queues de feu aveva organizzato l’assalto al Parlamento per dare un colpo mortale alla democrazia e impossessarsi del potere. È stato lo sciopero generale degli operai e dei lavoratori tutti di Parigi e della Francia che ha impedito ai fascisti francesi di prendere il potere. Peccato che non siamo riusciti in Italia, nel 1922, a fare altrettanto. Il nostro Paese sarebbe stato salvato, fra l’altro, dall’abisso in cui è precipitato. (Applausi a sinistra).

BENEDETTINI. Quali erano i fascisti francesi, onorevole Di Vittorio? (Commenti Interruzioni a sinistra).

DI VITTORIO. Onorevole Benedettini, c’erano le Queues de feu del colonnello Laroque ed i nazionalisti monarchici destinati nel mondo moderno ad essere fascisti dappertutto.

Ma, sulla questione del diritto di sciopero, la maggioranza dell’Assemblea, così come la grande maggioranza della Commissione dei settantacinque, è evidentemente favorevole, in linea generale.

Un dissenso, specialmente fra noi di questa parte dell’Assemblea e gli amici democristiani, sorge sulla estensione di questo diritto.

Gli amici democristiani e, ciò che mi meraviglia, anche l’onorevole Della Seta del Gruppo repubblicano sono per la limitazione del diritto di sciopero; per escludere dal diritto di sciopero i lavoratori dei servizi pubblici, i lavoratori cioè statali ed i lavoratori di determinate produzioni da determinarsi, e ciò per difendere contro lo sciopero eventuale i diritti della collettività.

Su questo punto si è fatta anche molta retorica: si è parlato dell’eventuale sciopero dei medici, degli infermieri del manicomio, dei farmacisti, delle levatrici, dei becchini e di tante altre cose del genere.

È evidente, onorevoli colleghi, che in ogni regolamento ed in ogni manifestazione della vita vi può essere qualche cosa di assurdo, spingendo fino alle ultime conseguenze teoriche ogni posizione. Io ricordo che, quando, ancora ragazzo, cominciavo a lavorare nel movimento sindacale del mio paese, ci si batteva per le otto ore di lavoro; ricordo che una delle osservazioni più comuni, quella che aveva ottenuto il maggior successo contro la nozione delle otto ore di lavoro, anzi, contro il principio della determinazione delle otto ore di lavoro era questa, abbastanza ridicola: come fa il cliente che si trova dal barbiere allo scoccare delle otto ore con mezza barba fatta? Andrà in giro con l’altra mezza barba non fatta? Ed i reazionari di quel tempo credevano di aver fatto una osservazione così interessante e definitiva da dover scoraggiare i lavoratori nell’insistere nella richiesta della determinazione delle otto ore di lavoro.

Si rassomigliano molto a questa osservazione altre osservazioni che ho sentito fare a proposito del diritto di sciopero per i funzionari e per i lavoratori dei pubblici servizi. È evidente che il movimento sindacale, che in alcune regioni, ed in alcune zone in particolare rappresenta la maggioranza del popolo, non è insensibile allo sciopero dei servizi pubblici; perché gli stessi lavoratori organizzati nei sindacati sono i primi ad essere danneggiati da determinati scioperi di determinati servizi pubblici: per esempio, lo sciopero dei tranvieri, dei ferrovieri ecc. Perciò i lavoratori organizzati nei sindacati si preoccupano a che non vi siano scioperi, che possano danneggiare altri lavoratori e possano avere delle conseguenze negative nella vita nazionale del Paese. Ma evitare lo sciopero nei servizi pubblici, quando è una esigenza effettiva della vita collettiva della Nazione, deve essere il prodotto spontaneo della libera volontà dei lavoratori interessati e non una imposizione violenta che venga dalla legge. Tanto è ciò vero, che lo statuto della Confederazione del lavoro, lo statuto che i lavoratori si sono dati essi, liberamente, senza nessuna ingerenza governativa, stabilisce tassativamente una remora allo sciopero dei servizi pubblici, se volete, un’autolimitazione. Cosa dice lo statuto della Confederazione? «I lavoratori dei servizi pubblici, prima di effettuare uno sciopero, devono avere l’autorizzazione del Comitato direttivo della Confederazione del lavoro», cioè dell’organo centrale dirigente che rappresenta non l’una o l’altra categoria dei lavoratori, ma l’insieme dei lavoratori italiani, cioè una parte notevole della collettività nazionale.

Del resto, i lavoratori dello Stato e degli altri enti parastatali o enti locali stanno dando e hanno dato tante e tali prove, non solo della loro maturità sindacale, ma del loro altissimo senso civico, che veramente, da parte dell’Assemblea Costituente, negare di sancire nella Carta costituzionale il diritto di sciopero significherebbe compensare troppo male il loro senso di civismo. Non ho bisogno di spendere molte parole: tutti qui sappiamo quanto siano gravi oggi le condizioni economiche dei lavoratori statali e anche di lavoratori sottoposti a lavoro pesante e sfibrante come i ferrovieri, come i postelegrafonici; ciò è vero anche per tutte le categorie statali, compresi i maestri, i professori, i magistrati, i funzionari di ogni grado. Ebbene, malgrado questa situazione di estremo disagio, malgrado che il Governo si sia sentito nella necessità di rispondere «no» per un certo tempo ad alcune rivendicazioni minime più che giustificate – e riconosciute giustificate dallo stesso Governo – da parte dei lavoratori, non abbiamo avuto degli scioperi nel nostro Paese. Quando, per esempio, di fronte ai ferrovieri, molti dei quali invocano dalla Confederazione del lavoro la facoltà di scioperare per far valere le proprie rivendicazioni più che giustificate, da parte di altri ferrovieri e della Confederazione del lavoro si è fatto osservare che oggi uno sciopero delle ferrovie metterebbe in pericolo intere popolazioni che hanno l’approvvigionamento di 24 o 48 ore e che, mancando gli approvvigionamenti, a causa dello sciopero delle ferrovie, intere popolazioni resterebbero senza pane, i ferrovieri, come i postelegrafonici, come tutti gli altri lavoratori dello Stato, pure in condizioni di fame, di miseria atroce, non hanno scioperato, dando una prova grandiosa – per me – del loro spirito civico e del loro senso di solidarietà con gli interessi generali della Nazione e del popolo italiano (Vivi applausi a sinistra).

Volete proprio compensare adesso questo atteggiamento dei lavoratori statali, parastatali e degli enti locali di fronte agli interessi del Paese con un diniego del diritto di sciopero? Che cosa significherebbe questo?

BELOTTI. Non è un diniego. Si tratta di disciplinare il diritto di sciopero. (Commenti Rumori all’estrema sinistra).

DI VITTORIO. Ciò significherebbe che l’Assemblea Costituente non avrebbe fiducia nel senso civico e nello spirito di abnegazione dei lavoratori dello Stato ed avrebbe fiducia invece dei poteri dello Stato, in leggi dello Stato che con mezzi coercitivi dovrebbero impedire lo sciopero.

Signori, se non temessi di annoiarvi, potrei citarvi dei dati dai quali risulta che in tutti i Paesi, fino a quando il diritto di sciopero è stato negato, ostacolato, limitato o disciplinato come dice l’onorevole collega (che è, poi, la stessa cosa), gli scioperi sono stati più numerosi e più violenti. Quando invece il diritto di sciopero è stato largamente riconosciuto ai lavoratori, gli scioperi sono stati di numero inferiore ed hanno avuto sempre un carattere più normale e meno violento.

Questo deve valere anche per i lavoratori dello Stato.

In ultimo vorrei fare una semplice osservazione: i lavoratori dello Stato, i funzionari di ogni grado, in grande maggioranza laureati, i quali nella loro maggioranza non sono orientati verso principî di carattere estremista, sono tutti, dico tutti, assolutamente unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero, e parlo di lavoratori che nessuno qui e fuori di qui avrebbe il diritto di accusare di mania scioperaiola, perché non hanno mai scioperato.

Ma tutti questi lavoratori, compresi i lavoratori democratici cristiani, i lavoratori liberali e ce ne sono anche alcuni qualunquisti, tutti in seno ai sindacati sono unanimi nel rivendicare il diritto di sciopero perché, signori, ci sono molti dissensi su questa questione nella Costituente, nella stampa, nei circoli più o meno ben pensanti, ma in seno alle masse lavoratrici non vi è nessuna discussione in materia. Tutti i lavoratori approvano unanimemente il diritto di sciopero esteso a tutti i lavoratori.

Perciò noi domandiamo all’Assemblea Costituente di avere fiducia nelle masse lavoratrici, nel popolo lavoratore. Un Governo democratico deve essere e deve sentirsi così legato alla massa operaia e alla classe lavoratrice in generale da non avere nessun timore, nessuno! Se uno sciopero può avere conseguenze negative deprecabili per la vita del Paese, lasciate che gli stessi lavoratori lo apprezzino e la loro rinunzia allo sciopero sia il prodotto di una libera volontà dell’uomo direttamente e collettivamente interessato e non il prodotto di una coercizione, di una legge, di una imposizione che proviene dall’alto!

BELOTTI. C’è l’esempio della Russia! (Vive proteste a sinistra).

DI VITTORIO. L’ho già detto, ma sento la necessità di ripetere al collega che ha interrotto che in Russia c’è il diritto di sciopero come tutti gli altri diritti; soltanto, gli operai non fanno oggi lo sciopero, perché lo farebbero contro se stessi, lo farebbero contro il loro stesso interesse, poiché in Russia ognuno lavora. (Commenti Interruzioni al centro e a destra).

Sarebbe molto utile che si cominciasse ad imparare che cosa è la Russia, che cosa c’è in Russia! (Commenti Interruzioni a destra e al centro).

PRESIDENTE. Prego i colleghi di non interrompere. Onorevole Di Vittorio, prosegua il suo discorso.

DI VITTORIO. Onorevoli colleghi, io credo che la maggioranza dell’Assemblea, come già nella Commissione dei settantacinque, vorrà approvare nel suo complesso il Titolo III del progetto di Costituzione, ivi compreso il diritto di sciopero puro e semplice, così come è stato redatto, senza restrizioni, compiendo in tal modo un gesto di fiducia cosciente e consapevole verso le masse lavoratrici. E credo che così facendo Assemblea Costituente risponderà alle più vive aspettative delle masse lavoratrici italiane, le quali auspicano di realizzare, nell’ordine, nella calma, nella legalità i nuovi diritti che hanno già di fatto conquistato e le riforme strutturali, sociali, che sono indispensabili per aprire al nostro Paese un’era di tranquillità, di benessere e di pace, che deve permettere ai lavoratori italiani, manuali ed intellettuali, cioè alla grande maggioranza del popolo, di conquistare un livello superiore di benessere e un più alto grado di civiltà. (Vivi applausi a sinistra Congratulazioni).

Presidenza del Vicepresidente TARGETTI

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Merighi. Ne ha facoltà.

MERIGHI. Confesso di essere un po’ titubante a parlare, innanzitutto perché sento profonda la responsabilità che abbiamo tutti di abbreviare la discussione. È un senso di autodisciplina che giustamente è stato invocato e che io seguo, e mi limiterò per questo a rapidi accenni.

Mi fermerò soprattutto a parlare dell’articolo 34.

Sono poi titubante anche per questo fatto, che l’intervento dei medici, quando si parlò dell’articolo 26, non fu – dirò così – eccessivamente brillante, soprattutto per l’accoglienza che la Commissione e l’Assemblea stessa hanno fatto alle loro proposte.

Forse su queste questioni che interessano un pochino la categoria dei medici, sulle questioni sanitarie del Paese, incombe la disgrazia che incombe sulla categoria dei medici stessi. I medici, in fondo, voi lo sapete, sono delle persone molto desiderabili, ma tanto più sono desiderabili, tanto più sono soggetti alle critiche, ai frizzi, ai lazzi della stessa popolazione che si serve dell’opera loro.

Forse quindi questa disgraziata qualità dei medici si riflette anche un po’ sulle questioni sanitarie, specialmente durante questo periodo in cui pare che molte altre questioni siano più utili e pressanti.

Ma se consideriamo attentamente, non possiamo fare astrazione, in qualsiasi circostanza della nostra vita sociale, dal contributo che deve venire dalle categorie sanitarie e ancor più dalla scienza medica.

Ma se sono titubante a parlare, per le dette ragioni, sono tuttavia questa volta confortato da un fatto: che oggi non sono soltanto i medici socialisti a portare qui il loro pensiero, ma con noi vi è anche una categoria di altre persone che attualmente hanno grande importanza nella vita sociale: gli organizzatori socialisti. Non vi faccia meraviglia questa simbiosi, come si direbbe in termine biologico, questa associazione. Vi ricordo che proprio nel Parlamento nazionale, sul principio di questo secolo, un grande medico, un grande ingegno di scienziato e nello stesso tempo mente aperta a tutti i problemi nazionali e dell’arte, Guido Baccelli, che tenne alto il decoro del Parlamento e del Governo, concepì e volle la medicina sociale. Ricordo a tutti che i primi saggi di legislazione sociale furono ispirati precisamente dai medici. Cito, a suo onore ed a sua memoria, l’esempio di Angelo Celli, intimamente socialista, e di Nicola Badaloni. Altri vi sarebbero ancora. Dunque la nostra non è un’associazione improvvisata, magari a scopo di tattica parlamentare: è una cosa insita nella sostanza della nostra vita, una cosa insita nei problemi sociali, che medici e sindacalisti possano trovarsi d’accordo a studiare e risolvere tali problemi nell’interesse della collettività.

Io vorrei pregare l’amico Ghidini, valoroso presidente della terza Sottocommissione, che ha studiato il tema «problemi economici» ed ha tanto senno e tanta competenza giuridica e contemporaneamente tanto senso sociale, di voler porre la sua attenzione in questo momento a quanto verrò ad esporre. Indubbiamente è da ricordare questo: che tanto i rapporti etico-sociali, quanto i rapporti economici, che noi andiamo a sanzionare nella nostra Costituzione, dovranno subire forse profonde modificazioni, attraverso le leggi che saranno destinate a stabilire questi rapporti. Indubbiamente però questi titoli devono essere fissati nella nostra Costituzione, se non altro come diritti potenziali della nostra società. E per abbreviare, io vengo direttamente alle questioni di cui più particolarmente mi interesso, e cioè alle questioni che sono conglobate nell’articolo 34. La Commissione ha redatto un articolo in questo senso: «Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari alla vita ha diritto al mantenimento ed all’assistenza sociale». Nessuna discussione in proposito.

Però a noi pare che questo comma primo dell’articolo 34 trovi la sua sede migliore o all’articolo 31 o all’articolo 32, in quanto che l’articolo 31 stabilisce il diritto ed il dovere al lavoro. Per converso, quindi, sembra conveniente stabilire anche quella che è la contropartita di questo diritto e di questo dovere. Quando un cittadino non può ottemperare a questo dovere e non può esercitare il diritto, interviene la società, che, qualora il cittadino sia inabile e sprovvisto dei mezzi, deve provvedere al suo mantenimento ed alla sua assistenza. Quindi non è per proporre una modifica che crediamo opportuno togliere questo comma, ma perché vorremmo piuttosto passarlo all’articolo 31, come sede più naturale. Dove noi ci differenziamo nel concepire l’assistenza che verrebbe sanzionata nei successivi commi dell’articolo 34, è nel punto ove si dice: «I lavoratori, in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati per vivere in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria».

Anzitutto, faremmo eccezione in questo. Cosa vuol dire «in ragione del lavoro che prestano, hanno diritto che siano loro assicurati mezzi adeguati?».

Se i mezzi devono essere adeguati per vivere, indubbiamente non si può tener conto del lavoro prestato; potrebbe essere il lavoro di un minorato e quindi minimo.

Ecco perché proporremmo che fosse soppresso l’inciso «in ragione del lavoro che prestano»; e proporremmo una formulazione in cui si dicesse che il lavoratore ha diritto ad avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie.

L’articolo 26 dice: «La Repubblica tutela la salute, promuove l’igiene e garantisce cure gratuite agli indigenti».

Se i colleghi ricordano, proprio io ho sostenuto che non si dovrebbe parlare di indigenti, perché la società deve assicurare le cure e la prevenzione a tutti i cittadini. Quindi, noi insistiamo su questo fatto: che, oltre ai mezzi per la vita, siano assicurate le cure sanitarie; se si parla di invalidità e vecchiaia, indubbiamente è necessario pensare anche alle cure di questi malanni.

Quindi, proporremmo quest’altra formulazione del comma:

«Il lavoratore ha diritto di avere assicurati i mezzi necessari alla vita e le cure sanitarie per sé e per la famiglia, nei casi di malattia, di disoccupazione involontaria, d’infortunio, d’invalidità, vecchiaia». Ed aggiungiamo un concetto, che forse farà rabbrividire qualcuno: «ed in caso di morte la famiglia ha diritto alla pensione».

Indubbiamente, questo diritto alla pensione riguarda la categoria di lavoratori che restano privati del sostegno e che si troverebbero quindi nella impossibilità di trovare i mezzi di sussistenza.

Sta bene che la parte prima dice che la società assicura al lavoratore i mezzi necessari alla vita, ma come faremmo ad estendere queste provvidenze ai familiari dei lavoratori morti o per malattia o per infortunio?

D’altra parte, una provvidenza del genere penso non inciderebbe fortemente sulle nostre finanze, ed a questo proposito torna opportuna la notizia che ho rilevata oggi dai giornali: che, cioè, la Confederazione generale del lavoro intende creare un fondo di solidarietà per gli assicurati dell’Istituto di previdenza sociale che non hanno diritto a pensione.

È un principio che dobbiamo accogliere immediatamente e che sono lieto di aver prevenuto ed esteso con la presentazione di questa aggiunta all’articolo in parola.

D’altra parte, faccio appello ai colleghi che ieri in quest’Aula, nella discussione di questo Titolo, hanno ricordato la convenienza e la necessità che ancora esista una carità. Questo noi facciamo, se stabiliamo il principio delle pensioni e della loro reversibilità alle vedove ed agli orfani.

Noi indubbiamente con queste pensioni reversibili verremo a sollevare tanti istituti, orfanotrofi, case di riposo e altre istituzioni che sono con grande difficoltà sostenute dagli enti pubblici e che debbono fare spesso appello alla carità. Noi non vogliamo discutere il concetto della carità, nobilissimo sentimento che troverà sempre in tutti i tempi la possibilità della sua esplicazione. Ma quanto meno dovremo fare appello alla carità per aver fatto appello alla solidarietà sociale, tanto più saremo profondamente lieti.

Poi noi avremmo aggiunto un altro comma che dice così: «I cittadini i quali per infermità congenita o acquisita sono inabili al lavoro ma possono con una rieducazione professionale adatta essere resi idonei a un particolare lavoro, hanno diritto a questa rieducazione e successiva immissione al lavoro». È un principio altamente sociale. Oggi credo che questa rieducazione al lavoro sia soltanto goduta dagli infortunati sul lavoro: ma vi sono tanti altri individui, tanti altri esseri, per usare una parola più generica, che si possono trovare minorati profondamente nella loro capacità lavorativa. Ricordiamo, per dare un esempio solo, i malati di poliomielite anteriore, che restano paralizzati o semi paralizzati ad un arto. Oggigiorno non trovano assistenza, oltre le cure mediche, spesse volte inutili, e non hanno possibilità di occuparsi perché è mancata una conveniente rieducazione e l’indirizzo ad un lavoro utile per foro e per la società. Chiediamo quindi il diritto alla rieducazione, pensando anche alle infermità congenite. Ci sono venuti in questi giorni appelli pressanti, profondamente commoventi, da parte dei ciechi. Non possiamo abbandonare questi disgraziati, anche quelli che sono ciechi nati. Noi sappiamo che possono, per l’acuirsi profondo, intensissimo di tutti gli altri loro sensi, essere utilizzati in lavori convenienti anche delicatissimi. La società deve facilitare questa immissione dei ciechi nelle forze produttive della Nazione rispondendo così, non solo all’appello dei ciechi stessi, ma ad un senso profondo di solidarietà umana. Onorevoli colleghi, ci siamo resi conto, noi medici e organizzatori sindacali, delle difficoltà finanziarie per applicare questi principî. Perciò siamo entrati in un concetto che non è nuovo; che fu ribadito molte volte e che è questo: dobbiamo riprendere, per risolvere i problemi dell’assistenza sociale, quella idea dell’assicurazione generale contro le malattie. Non è un concetto rivoluzionario. Io vi ricordo, egregi colleghi (mi dispiace che non sia qui presente l’onorevole Labriola allora Ministro del lavoro), che nel 1922 a seguito di un congresso delle Camere del Lavoro italiane tenuto a Trieste si reclamò, da parte degli operai organizzati, l’assicurazione generale obbligatoria contro le malattie. La Federazione degli ordini dei medici studiò allora un progetto di assicurazione contro le malattie, d’accordo con l’organizzazione sindacale e tutte le categorie mediche (e non fu una cosa facile mettere d’accordo le varie categorie dei medici); e questo progetto fu consegnato all’onorevole Labriola che lo accolse: lo stesso Presidente del Consiglio Giolitti lo approvò e se non fosse arrivato il fascismo probabilmente quel progetto sarebbe stato varato e sarebbe oggi una conquista su cui avremmo potuto contare.

L’assicurazione generale contro le malattie dal punto di vista economico inciderà grandemente sulle nostre finanze? Noi non lo crediamo. Se pensiamo alle spese enormi, che aumentano paurosamente giorno per giorno, sostenute, non dirò solo dagli istituti e dagli enti assicurativi che noi conosciamo, ma dai Comuni e dalle Congregazioni di carità per l’assistenza sanitaria, in fatto di spedalizzazioni, in fatto di sussidi per cure, in fatto di medicinali, troviamo cifre iperboliche, oserei dire pazzesche. Consolidando queste spese su un piano preciso e stabilendo una tassa proporzionale al reddito dei cittadini, noi potremmo risolvere, anzi risolveremmo senza dubbio, il problema dell’assistenza domiciliare ed il problema dell’assistenza ospedaliera e di ogni altra provvidenza. Anche il problema ospedaliero grava fortemente sulle nostre responsabilità civiche. Noi risolveremmo tanti problemi. E, badate, non è una semplice ipotesi che si faccia qui in questo momento, e per iniziativa di noi pochi. È da qualche giorno che il Gruppo medico parlamentare ha raccolto delle risposte ad un referendum proposto a tutte le categorie dei medici italiani. Vi assicuro che tutte le risposte sono concordi nello stabilire questo principio: che bisogna passare allo studio e all’applicazione di un sistema di assicurazioni contro le malattie, per cui naturalmente non vi siano più dispersioni, non vi siano più incongruenze, e vi sia una protezione maggiore, accanto all’assistenza medica, sanitaria e previdenziale attuale e che formi un tutto veramente completo ed organico.

Poi viene l’ultimo comma:

«All’assistenza ed alla previdenza provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Siamo d’accordo. Ma qui permettete, egregi colleghi, e permettano i membri della Commissione, che io ritorni sopra un argomento che ho già trattato a proposito della discussione dell’articolo 26, argomento che era già stato sostenuto precedentemente dal collega Caronia, ma la cui proposta fu dallo stesso ritirata. Io avevo aderito alla proposta dell’onorevole Caronia e non potei quindi, ritirandola egli, riproporre la questione. La riprendiamo oggi. Noi sappiamo che questi istituti di assistenza e di previdenza – e io direi anche con una parola più generica: questi istituti di protezione sociale – sono molteplici. E infatti la Commissione stessa, ricordando quanto già esiste, ha detto: «provvedono istituti ed organi predisposti ed integrati dallo Stato». Noi riprendiamo la questione del coordinamento di questi istituti, tanto più che, se in realtà si dovesse applicare il principio dell’assicurazione generale obbligatoria contro le malattie, noi avremmo la necessità assoluta di un organo tecnico propulsore e coordinatore di queste istituzioni vecchie e nuove. Dal lato amministrativo, siamo d’accordo che dovrebbero amministrarsi a parte. E badate che in questa concezione di coordinamento dal lato tecnico e di separazione dei servizi tecnici da quelli amministrativi, sono entrati già anche molti di coloro che sono a capo delle attuali istituzioni mutualistiche, le quali oggi, per converso, subordinano purtroppo il lato tecnico, grandemente più importante, alle funzioni amministrative. Noi domandiamo – e insistiamo su questo punto – che tutti questi organi, privati o dello Stato, mutualistici, previdenziali, assicurativi a scopo sanitario siano coordinati dal lato tecnico da un unico organo autonomo indipendente.

Anche in questo punto troviamo consenziente la generalità delle categorie interessate, in prima linea i medici. Esse trovano che non si possono realizzare molte cose se non c’è un coordinamento nel campo dell’assistenza sociale, dell’igiene, della previdenza e della prevenzione. Al giorno d’oggi ad esempio non è assolutamente possibile organizzare o dar corso a provvedimenti sanitari senza passare attraverso la burocrazia delle Prefetture. Non si può dare corso a provvedimenti di carattere generale a favore della collettività, perché l’Alto Commissariato per l’igiene e la sanità pubblica urta ora contro l’uno ora contro l’altro organismo, dipendente da altra amministrazione statale.

In proposito posso citare questo fatto. Durante e dopo la guerra, mentre l’Alto Commissariato per la Sanità pubblica faceva tutto il possibile per disinfestare e per disinfettare – facilitato in questo compito anche dagli aiuti dell’U.N.R.R.A. e dell’America – ci si era accorti che i vagoni delle ferrovie erano infestati da cimici e pidocchi. Si voleva intervenire, ma la Direzione sanitaria delle ferrovie non lo permise perché voleva fare da sé, ed i vagoni continuarono a circolare con cimici e pidocchi. Se noi vogliamo costruire o rinnovare ad esempio un ospedale, non possiamo perché gli aiuti, i consensi, le approvazioni necessarie, sono divisi almeno in tre Ministeri: il Ministero dell’interno, innanzitutto, poi, se questo ospedale avesse funzione didattica, come potranno avere tutti gli ospedali di una certa entità, il Ministero della pubblica istruzione, ed infine il Ministero dei lavori pubblici. Mettete d’accordo tre Ministeri sulla approvazione del progetto e vedrete quando si costruirà l’ospedale! Per questo insistiamo sulla nostra proposta. Noi non vogliamo togliere a nessuno la facoltà di iniziativa sulle vie del miglioramento civile, ma intensificare l’opera e dare precise direttive tecniche per non avere dispersioni ed interferenze. Io vedo in questo momento, avanti a me, spuntare il sorriso ironico dell’onorevole Nitti. (Interruzione dell’onorevole Nitti). Mi perdoni, onorevole Nitti, ma oltre al sorriso che rivedo si rinnova nel mio animo, tristemente, il ricordo del suo nero scetticismo di fronte alle possibilità di questa nuova Repubblica: di fronte alle affermazioni di questo statuto che vogliamo dare alla nostra Repubblica in cui crediamo. Noi vogliamo pensare – e non saremmo socialisti se non lo facessimo – vogliamo pensare all’avvenire. Ci lasci, onorevole Nitti, e con lei tutti quelli che non credono, ci lasci illuminare questa Costituzione con un raggio di fede; che non sarà una gran fede nelle nostre modeste possibilità scientifiche, ma sarà però, ed è, una grande fede nella nostra missione di medici e di organizzatori socialisti. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Spallicci. Ne ha facoltà.

SPALLICCI. Vorrei, onorevoli colleghi, richiamare la distratta attenzione di questa Assemblea su di un argomento che è stato tema di diuturne discussioni entro quest’Aula. Noi medici non abbiamo avuto la presunzione di interloquire in materia di diritto e ci siamo imposti il silenzio ossequenti al vecchio aforisma ne sutor ultra crepidam, anche se la crepida nel caso nostro non era il modesto prodotto del calzolaio ma la nobile medicina sociale.

Noi, onorevoli colleghi, abbiamo sostituito alla figura del civis la figura del lavoratore, abbiamo rinunciato quasi a quella che era una figura così cara ai nostri nonni repubblicani, quella del cittadino; abbiamo tolto quasi dalla comunità della civitas l’uomo per introdurlo nella casa del lavoro, e questa vorremmo consacrare come un tempio.

Io vorrei intrattenervi sull’articolo 33, che parla della protezione del lavoro della donna. Ha dei precedenti illustri quest’articolo. Il collega Merighi, un momento fa, ha accennato agli illustri medici Baccelli e Badaloni. Io potrei dirvi anche che vi è qualcuno che precede questi eminenti assertori della medicina sociale: vi è Agostino Bertani, ad esempio, il quale fece tesoro di quanto Alberto Mario, che pure non era medico, aveva cercato nel suo Polesine, lui così ansioso e così preoccupato dello stato di pauperismo in cui viveva il bracciantato agricolo del suo paese.

Perché, la medicina sociale è antica, per lo meno quanto l’unità d’Italia: risale al 1870-71. Il progetto di legge di Alfredo Baccelli, che riassume quello del ministro Carcano, è del 1902. Si diceva allora, con parole che sembrano modernissime, chela donna e il fanciullo inferiore ai dodici anni, dovevano essere sottratti ai lavori delle cave, delle miniere, delle gallerie sotterranee. Doveva la donna avere dei benefìci quando era in istato di gravidanza: essere dispensata dal lavoro un mese prima e fruire di un altro mese di riposo dopo il parto. In più, erano già istituite da allora le sale di allattamento negli opifici, vi era il libretto sanitario in cui il medico doveva certificare della sanità e dell’attitudine al lavoro dell’operaia. Per cui, nel 1906, all’Assemblea della Convenzione internazionale di Berna, l’Italia non si presentò impreparata. Aveva già, a suo onore, preso tutti questi provvedimenti legislativi cui ho accennato.

Era, dunque, superata fin da allora quella resistenza da parte degli industriali che non intendevano, ansiosi soltanto del rendimento della produzione, fare quelle concessioni al proletariato femminile; era sopita la contesa tra costoro e gli altri, che erano più intenti a guardare la prole delle donne lavoratrici. Data da allora una nuova legge riguardante l’assicurazione della maternità che, se non erro, è andata in vigore dal 1910, una assicurazione obbligatoria con la creazione di una Cassa di maternità, che dava una indennità alle operaie per quel mese che precede e segue il parto.

Il Codice entra così a far parte della Costituzione, è stato detto, ma vi entra quando già è entrato, per una legge umana e umanitaria, nel nostro costume. Quindi è dovere ed è compito della nostra Carta costituzionale sancire questo in un articolo, e dobbiamo per questo essere grati alla Commissione che vi ha provveduto egregiamente.

Guardiamo la situazione delle donne lavoratrici nelle grandi città e negli stabilimenti, quando la sirena ha lanciato il suo grido d’allarme, che non è più quello della minaccia dal cielo, ma il richiamo della officina, e questo grido di sirena ci ricorda un pochino la sensazione di brivido che ne provava lo Zola: era per lui la voce scatenata dell’industrialismo, questo Dio Moloch, che faceva passare un bramito famelico sulle folle minerarie di «Germinal».

Ebbene, la donna si allontana e resta vuota la casa. Nella casa rimangono soli eredi, orfani temporanei, i figli, e c’è soltanto la scala polverosa delle grandi case delle nostre città, e c’è il pianerottolo, dove si raccolgono i bimbi, ma vicino alla scala ed al pianerottolo c’è la strada, e questa è cattiva consigliera per i bimbi. Quando la madre ritornerà, troverà dei bimbi più sudici, più riottosi e più insolenti; tornerà o sul mezzogiorno, se la mensa aziendale lo permette, oppure alla sera. Ed alle volte può darsi che questa donna ritorni per un periodo più lungo, ritorni perché il medico ha prescritto un congedo, perché ha formulato una diagnosi. È una lavoratrice degli stabilimenti poligrafici, ad esempio, è una lavoratrice dove si impastano delle vernici a smalto, dove ci sono dei composti piombiferi, con oltre il 2 per cento di piombo, è una lavoratrice della ceramica, delle terraglie, della vetrificazione, delle stoviglie, o è una lavoratrice del caucciù piombifero, ed allora la donna tradisce già nel suo pallore terreo la malattia, la intossicazione da piombo, cioè il saturnismo, per cui presenta quell’alito dolciastro caratteristico dell’intossicazione del piombo, e l’orletto grigio gengivale che corona la radice dentaria, che sono per noi medici i sintomi peculiari della malattia..

E non soltanto la madre attempata, ma anche la madre giovane, anche la nubile può essere condannata alla sterilità ed alla morte per intossicazione da piombo, per saturnismo; può essere anche condannata ad avere un allattamento così scarso da dover alimentare così malamente la prole da essere costretta poi a sostituire il seno materno con quelle alimentazioni artificiali che sono causa di così impressionante mortalità infantile. Ma questo non avviene soltanto nello stabilimento (ed io non ho intenzione di sfogliare davanti a voi un testo di patologia del lavoro): ma è opportuno che accenni ad una malattia delle risaie, alla leptospirosi. C’è in provincia di Vercelli, che è la provincia maggiormente risicola di tutta Italia, l’affluenza di circa 200 mila mondine da altre provincie, in momenti prestabiliti. Ebbene, questa malattia, che porta delle lesioni epatiche e renali, si contrae nelle risaie; le mondariso, non per il primo anno ma in una serie di anni successivi, vanno incontro a questa malattia che è data da un parassita che vive a spese del topo e del ratto da dove passa nelle acque dolci correnti o ferme delle risaie. Malattia che può compromettere non solo la salute delle madri, ma anche la salute della prole.

Qui la donna è la vittima del lavoro. Non a questa, noi potremmo dire: «donna, la causa è in te, piangi te stessa» come alle donne della grassa e magra borghesia, che si vanno intossicando, alle volte, con delle biacche, dei cosmetici fatti da manipolatori di frodo, o che cercano una tinta per imbiondire la loro chioma nera o annerire la canuta e che possono andare incontro ad analoghi malanni, o ad altre infine che si sono date con sfrenata baldanza al fumo, cercando di superare in questo anche l’uomo, e vanno incontro a malattie che sembravano un triste privilegio del maschio: l’ulcera gastrica e duodenale e anche l’angina pectoris.

Le vittime che noi commiseriamo e che vorremmo strappare al loro triste destino sono da un’altra parte.

Madre operaia, noi condividiamo la tua amarezza. Anche colla tutela sanitaria, anche col lavoro non affaticante e in ambiente non malsano tu devi affidare il bambino al nido, all’asilo. Sono le provvidenze della società materna. Garantisco io, ella ti dice, e tu ringrazi la custode, l’assistente, l’infermiera in camice bianco che farà le tue veci durante la tua assenza. O non dissero un tempo: siano i bambini posti sotto la cura di un collegio di magistrati e affidati ad apposite governanti in un alloggio comune? Questo indicava Platone.

Questa è provvidenza e assistenza sociale del nostro tempo. Non è il crudele allontanamento della madre cui non sarà più dato riconoscere il figlio, come si pretendeva in quella repubblica fuori della realtà e talvolta anche fuori dell’umanità, ma è pure una parentesi di rinuncia al governo dei figlioli che si ripete sei volte alla settimana durante le ore di lavoro.

Noi, adunque, inseriamo nella nostra Carta costituzionale questo articolo, che io vedo completato da un emendamento non mio, ma al quale sottoscrivo perché pone l’accento sulla funzione materna della donna, un emendamento che porta la firma della onorevole Federici Maria e dell’onorevole Medi, il quale dice:

«Le condizioni di lavoro devono consentire l’adempimento della sua essenziale funzione familiare e materna».

L’onorevole Di Vittorio ha detto che la nostra Costituzione dovrà essere temporanea, perché egli auspica una nuova Costituzione in un ordinamento sociale migliore, che non sia questo. Può darsi che noi non siamo completamente d’accordo in ciò che egli intende per nuovo ordine sociale, ma non importa.

DI VITTORIO. Ho detto che la Costituzione si deve proiettare nel prossimo futuro, non che ne dobbiamo fare un’altra.

SPALLICCI. Ad ogni modo, auguriamoci che la donna, in avvenire, possa essere sottratta allo stabilimento, all’officina e sia riportata nella sua funzione vera di donna. Possa il clima economico, il clima morale e sociale essere così elevato nel nostro Paese da permettere che la casa risuoni ancora di faccende e, magari, del ticchettio della macchina da cucire, cioè che alla donna sia realmente riservato e riconsacrato il suo compito di «angelo della famiglia» come disse il nostro Maestro.

Una voce a sinistra. Bel tempo che fu!

SPALLICCI. E che tornerà; noi dobbiamo realmente guardare nel futuro, vogliamo proiettarci, come diceva l’onorevole Di Vittorio, nel futuro e avere fede in questa affermazione lirica. Così la vide il Maestro nostro, un quasi Jacopo Ortis nella vita, a cui furono negati un volto sorridente di donna ed il volto clemente della Patria; Egli è fermo nella sua spoglia sottratta alla dissoluzione sul colle di Staglieno, accanto alle ossa della Madre, nella sua sosta mortale. Così vorremmo sentire l’occhio non vitreo della salma imbalsamata, ma vivo e brillante sotto l’arco maestoso della fronte di uno spirito immortale, volto su di noi, entro quest’Aula semideserta, sulla nostra Costituzione, a incoraggiamento e a monito, come a indicare: andate e dite una parola di fede, di bontà e di umanità al popolo italiano che pallido, esangue, allucinato, sta riprendendo la via che la guerra ingiusta gli aveva fatto smarrire e che sta per rinnovare il prodigio leggendario dell’araba fenice: risorgere dalle proprie ceneri e riprendere la sua strada e la sua missione di libera Nazione fra le consorelle della libera Europa. (Applausi).

Presidenza del Presidente TERRACINI

PRESIDENTE; Non essendovi altri iscritti a parlare, dichiaro chiusa la discussione generale.

Ha facoltà di parlare l’onorevole Ghidini, a nome della Commissione.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Io, per verità, onorevoli colleghi, avrei rinunciato volentieri a prendere la parola in questo scorcio di seduta, non tanto perché la Camera sia oramai quasi deserta, quanto perché non ne trovo la necessità.

Se parlo, lo faccio, come dicono i civilisti, per ottemperare al regolamento; per chiudere la discussione di carattere generale e venire più presto che sia possibile agli emendamenti dei diversi articoli che sono stati proposti alla vostra considerazione.

Dico che mi pare inutile parlare perché quasi tutti gli oratori che si sono diffusi in questa discussione di carattere generale hanno discusso gli articoli e illustrato i loro emendamenti o soppressivi o aggiuntivi o modificativi della forma o della sostanza. In massima parte la discussione ha vertito sugli emendamenti, e quindi mi riservo di rispondere in questa sede, sentita l’opinione dei colleghi di Commissione sia per una ragione di delicatezza nei loro riguardi sia perché è l’opinione della Commissione che io devo riferire e non la mia.

Dovendo parlare in questo momento io mi debbo limitare a discutere le osservazioni di carattere generale e fondamentale che furono mosse al Titolo III del progetto.

E mentre la discussione generale è stata sobria e limitata debbo invece constatare che gli emendamenti proposti sono assai numerosi, ed è facile immaginare che aumenteranno ancora fino a comporre un grosso fascicolo, tanto da far pensare che il Titolo abbia suscitato nell’animo degli onorevoli colleghi una infinità di dubbi e di dissensi mentre al contrario si deve constatare, in base alla stessa discussione, che essa non poteva essere più calma e più serena e che l’Assemblea è sostanzialmente d’accordo colla Commissione. Eppure si tratta di un Titolo che è forse più interessante di ogni altro poiché riguarda una materia nuova in gran parte e certamente innovatrice, più o meno, a seconda dell’ampiezza maggiore o minore colla quale verranno interpretate le sue disposizioni, e perché tratta di interessi che toccano vivamente la sensibilità di tutti gli italiani. Un nostro Grande ebbe a dire che è facile mandare gli italiani sulle barricate a compiervi anche il sacrificio della vita, ma che è molto difficile indurli a mettere fuori una lira. Naturalmente, egli parlava della lira di un tempo!

Ripeto: questioni di carattere generale quasi non ne sono state fatte, molte invece di carattere particolare e colla maggiore serenità, salvo che nel tema dello sciopero. Ma anche in tema di sciopero non direi che esista un vero dissenso. Vi sono divergenza di vedute e differenza di temperamenti; ma si può dire che l’Assemblea è unanime almeno sulla convenienza di affermare nella Costituzione il diritto di sciopero. Solo dal Gruppo qualunquista è venuto un emendamento, quello dell’onorevole Giannini, in cui si dice che l’articolo 36 deve essere sostituito col seguente: «Lo sciopero e la serrata sono vietati. I conflitti del lavoro devono essere regolati dalla legge».

È forse questo l’unico emendamento che contrasti in pieno uno dei principî consacrati nella Carta costituzionale. Tutti gli altri rappresentano limitazioni o ampliamenti delle varie disposizioni del Titolo senza negarne però la essenza fondamentale.

Il solo che abbia portato la discussione in un campo veramente generale e fondamentale è stato l’onorevole Maffioli che ha posto a base del suo ragionamento una concezione dello Stato profondamente diversa da quelle che ha animato la parola de’ suoi stessi colleghi. Infatti è certo che non tutti i suoi amici accedono all’opinione da lui espressa. Egli in sostanza professa la concezione dello Stato agnostico; dello Stato che non deve intervenire nel campo economico; che lascia completamente libera l’iniziativa privata; dello Stato che non agisce come elemento attivo di coordinazione, di controllo e di propulsione del fatto economico, ma piuttosto come gendarme dell’ordine esteriore, di quell’ordine dietro il quale si riparano il privilegio di pochi, la miseria di molti e la ingiustizia per tutti.

Ma l’onorevole Maffioli stesso ha sentito tutta l’anacronisticità dal suo pensiero tanto che a un certo punto (se ho ben compreso) ha soggiunto, per temperarne l’asprezza, che bisogna impedire il formarsi del supercapitalismo. Ma egli non si è accorto che in tal modo contradiceva alle sue stesse premesse. Se si lascia libero sfogo alla legge della libera concorrenza e alla libera iniziativa animata solo dal fine del profitto personale, si arriva pur sempre al supercapitalismo e così a quelle conseguenze che lo stesso onorevole Maffioli depreca, fra le quali primeggia la guerra tremenda che fu la rovina di tanti popoli.

A conforto comune devo tuttavia rilevare che l’onorevole Maffioli ha espresso un’opinione personale. Io devo pensare che egli non abbia parlato in nome del Gruppo al quale appartiene poiché un altro deputato del Fronte dell’uomo qualunque, altrettanto autorevole, l’onorevole Colitto, a proposito dei consigli di gestione, contro cui l’onorevole Maffioli è partito con lancia in resta, ha dettato questo emendamento testuale: «I lavoratori hanno diritto di partecipare nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse».

Il che vuol dire che l’onorevole Colitto non solo non vuole allontanare i lavoratori, ma vuole che essi collaborino allo sviluppo e all’incremento tecnico dell’azienda. Egli dunque non trova nulla di catastrofico nella creazione di questi consigli.

Una voce al centro. Le due tesi non sono in contrasto.

GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Non tutti adunque sono dell’opinione dell’onorevole Maffioli, e penso che la concezione dello Stato che egli ha posto a base della sua discussione non sarà accolta neppure dalla maggioranza del suo Gruppo.

Tutti più o meno ammettono l’intervento dello Stato nel settore economico: tutti ammettono che lo Stato debba controllare e coordinare le iniziative economiche. Sarà questione di limiti: si va da coloro che si lanciano verso l’avvenire con tutta la foga della loro aspirazione verso l’ideale della giustizia sociale a coloro che camminano più lenti, segnando il passo, come i liberali, ma che pure camminano. Soltanto l’onorevole Maffioli si è fermato sugli spalti dell’antico liberismo, come se in cento anni nessun passo in avanti avesse compiuto la evoluzione sociale.

Lo stesso onorevole Cortese ammette l’intervento dello Stato. Ma io non voglio portare la discussione in questo campo di natura dottrinale. Non voglio tramutare questa Aula in un’accademia o in una sfida di conferenze. Gli onorevoli colleghi avrebbero bene il diritto di lasciarmi parlare agli scanni vuoti.

Tanto meno sarebbe necessario perché altri onorevoli colleghi ne hanno, più o meno, parlato. Ne ha parlato, in linea prevalentemente teorica, l’onorevole Malvestiti, e ne ha parlato in un lucido discorso più aderente al testo l’onorevole Dominedò. Ne hanno parlato anche gli onorevoli Bosi, Montagnana. e Tega. Non sono tutti d’accordo nei particolari ma lo sono nel concetto fondamentale. L’onorevole Dominedò ha sostenuto che il Titolo III del nostro progetto di Costituzione rappresenta un tentativo di conciliazione dei diritti della persona coi diritti della collettività. Con questa affermazione dell’onorevole Dominedò, condivisa dagli stessi comunisti pei quali ha parlato l’onorevole Di Vittorio, si esclude il giudizio espresso dall’onorevole Maffioli e che un giorno espresse anche l’onorevole Capua quando ebbe la malinconica idea di emigrare all’estero e, peggio ancora, di voler portare ai nostri morti la notizia che «la nostra Patria è vile». Tanto lei, onorevole Capua, era persuaso che questo fosse un titolo socialcomunista!

CAPUA. Lei ha interpretato male la questione sul discorso della Patria. Era un altro concetto, che non riguardava questo Titolo. Non per chiarire questo concetto che dei sta ripetendo, ho detto questo. Molti deputati da me interpellati personalmente sarebbero stati ben lieti di addivenire alla decisione di portare poi questa Costituzione al referendum popolare. Su questo concetto ho inserito questa frase, non sul terzo Titolo, che stiamo discutendo.

GHIDINI. Presidente della terza Sottocommissione. Sta bene. Se è così, come Ella dice, vuol dire che l’isolamento della tesi Maffioli è veramente completo. La verità ad ogni modo è questa: che il nostro non è un progetto socialista. Io potrei dolermi, data la mia fede antica e costante, che tale non sia. Ma, ripeto, non è un progetto social-comunista. Come diceva l’onorevole Taviani poco fa, il nostro non è neppure un progetto di compromesso; non abbiamo voluto combinare le nostre idee con altre diverse od opposte. Se ci fossimo battuti sul campo delle ideologie, saremmo ancora a discutere, perché nessuno di noi avrebbe mortificato la propria fede e il proprio programma. Noi piuttosto, volendo fare una cosa realistica e pratica, checché ne pensi l’onorevole Nitti, abbiamo creduto di dovere adattare le disposizioni del Titolo alle condizioni dell’economia del Paese: a quelle che attualmente esistono ed anche a quelle che già si delineano in modo chiaro e sicuro nell’orizzonte politico ed economico del Paese, appunto perché la Carta costituzionale non registra soltanto il passato o il presente ma deve anche additare le vie dell’avvenire. Che questa non sia una Carta veramente socialista, ma una Carta che piuttosto renda possibile il progresso civile del Paese e consenta alla classe lavoratrice la realizzazione delle sue più legittime e profonde rivendicazioni, lo dimostra tutto il tessuto di questo, lasciatemelo dire, organico Titolo III del progetto di Costituzione.

È possibile parlare di un progetto social-comunista quando si afferma all’articolo 38 che la proprietà privata è assicurata e garantita e all’articolo 39 che l’iniziativa privata è libera?

Non è dunque un progetto social-comunista. È vero che sono affermati vincoli e limiti al diritto di proprietà. Ci sono limiti, perché non si vuole che si formino delle grandi concentrazioni di proprietà che sottraggono all’iniziativa privata grandi strati di produttori e costituiscono a un tempo delle potenze economiche tali che, se anche potessero condurre ad un grado di produttività più elevato, portano altresì a quella potenza politica che, non avendo altro intento che il vantaggio patrimoniale privato, disconosce e travolge gli interessi materiali, morali e politici della collettività scatenando quelle conflagrazioni che ci hanno portato alla miseria attuale.

Noi invece vogliamo che la proprietà si conformi alla sua funzione sociale. Del resto non è cosa nuova se tale concetto è affermato anche nel Codice civile fascista. Non è che io voglia mutuare questo concetto dal fascismo, per quanto, se c’è una cosa buona, io non abbia difficoltà ad accoglierla dovunque provenga perché la mia intransigenza non arriva fino alla cecità. Ma il concetto esisteva anche prima del fascismo ed esiste in tutte le legislazioni del mondo civile.

Quando l’onorevole Maffioli si lamenta dei vincoli posti alla proprietà, egli deve pensare che vincoli ci sono sempre stati. Sarà questione di limiti, e il nostro progetto non dice se questi vincoli dovranno essere più o meno gravi. Essi sono già nel nostro Codice civile per quanto riguarda la bonifica integrale; ci sono vincoli idrogeologici, vincoli al fine del rimboschimento e della sistemazione delle terre; per evitare che sia compromesso il regime delle acque, ecc., e nessuno ha mai sognato di avere in questo modo abolito la proprietà, o che i vincoli siano tali da condurre alla paralisi dell’iniziativa privata.

L’onorevole Maffioli ha parlato anche (mi permetta che insista ancora sulle sue osservazioni, onorevole Maffioli, non solo per deferenza ma anche perché ella è stato il solo che veramente abbia portato la questione sopra un campo di indole generale) di altri vincoli, ad esempio dell’espropriazione. Ma basterà che gli ricordi la legge del 1865. Egli ha parlato anche del diritto successorio, lamentando che nel Progetto si alluda ad eventuali diritti dello Stato sulle eredità come se nella nostra legislazione civile, non solo in quella mussoliniana, ma anche in quelle anteriori al fascismo non esistesse già la disposizione che, quando un Tizio muore «intestato» e non vi è parente entro il sesto grado, la proprietà è devoluta allo Stato, il quale diventa così erede legittimo. E poi, indipendentemente da questa disposizione, non va dimenticata la tassa di successione, che in effetti non è una tassa perché non è proporzionata alla spesa del servizio ma un vero e proprio prelievo sul capitale: potrei aggiungere, se non temessi di spaventare ancora di più il collega, che nulla di strano ci sarebbe se questo prelievo che oggi è fatto in denaro domani venisse fatto piuttosto in natura. Concludendo io vorrei persuadere lo stesso onorevole Maffioli che non si trova di fronte a una cosa tanto paurosa come egli crede, ma che si tratta piuttosto di un progetto semplicemente ma indubbiamente progressivo. È un progetto che tende a sbarrare la via al passato regressivo e reazionario e contemporaneamente ad aprire la strada all’avvenire, cioè al progresso, alle profonde riforme, agraria, industriale e bancaria, che qui non vengono affermate, o codificate sotto forma di norma cogente, ma delle quali vengono poste le premesse in base alle quali il legislatore futuro, cioè la volontà popolare futura, possa attuare queste riforme creatrici della auspicata giustizia sociale.

A questo punto mi pare di avere esaurito la discussione di carattere generale e mi restano solo alcune critiche di carattere tecnico alle quali alludo rapidissimamente per non dilungarmi. Si dice: ci sono delle norme che non hanno rigore giuridico; sono quelle che dovrebbero essere tolte dal testo definitivamente, oppure confinate in quella specie di limbo che è il preambolo. A questa pretesa abbiamo già risposto con tale copia di argomenti che è perfettamente inutile che vi insistiamo. Il diritto al lavoro è un diritto potenziale, come ha avvertito esattamente l’onorevole Ruini nella sua relazione, in base al quale si vuole impegnare vivamente lo Stato ad attuare l’esigenza fondamentale del popolo italiano di lavorare. D’altra parte mi preme rilevare che l’obbligo dello Stato è circoscritto entro un limite preciso, mediante l’inciso «promuove condizioni per rendere effettivo questo diritto».

La terza Sottocommissione aveva proposto un inciso diverso «predispone i mezzi per il suo godimento». Era più drastico, ma parve eccessivo; parve che potesse andare oltre le effettive possibilità e fosse come un promettere troppo in confronto di quanto si poteva mantenere. Si è così adottata una dizione che limita entro questo confine di ragione e di piena attuabilità il diritto al lavoro, quel diritto che splende, direi, nella nostra Costituzione come una stella fulgidissima.

Debbo poi dire dell’obiezione mossa dall’onorevole Cortese nel suo acuto ed equilibrato discorso (grande dote per un oratore è quella dell’equilibrio), che cioè in tutti questi articoli sono indicati dei limiti e delle condizioni senza però precisarne la portata in guisa che l’iniziativa privata, ignara del suo futuro destino, ne sarebbe paralizzata con danno grave della produzione. Rispondo all’onorevole Cortese che la sua preoccupazione è eccessiva e che d’altra parte non è possibile raggiungere quella sicurezza assoluta cui egli aspira se non a patto di arrestare del tutto il movimento evolutivo dell’economia nazionale. Occorrerebbe la staticità del fatto economico e allora – siamo perfettamente d’accordo – la sicurezza dell’iniziativa privata sarebbe assoluta. Ma siccome – piaccia o non piaccia all’onorevole Cortese e a me – il mondo cammina indipendentemente dalla nostra volontà (Approvazioni a sinistra), bisogna che ci adattiamo. Ma c’è un’altra verità che balza agli occhi: quando si procede ad una innovazione, ad una trasformazione, qualunque essa sia, il risultato non può essere mai completamente positivo e perfetto. Non si può costruire senza demolire; e la demolizione rappresenta sempre un danno; ma in tal caso si tratta di fare un bilancio dell’attivo e del passivo. Si tratta cioè di non rinunziare al progresso anche se deve costare qualche sacrificio o qualche rinunzia.

E un’ultima verità si impone a chi legga attentamente il Titolo. Qualsiasi innovazione o trasformazione in esso preconizzata od avviata dovrà avvenire sempre e soltanto attraverso la legge. Questa condizione, posta come un denominatore comune a tutte le disposizioni, ci affida che il legislatore futuro saprà adattarne l’applicazione alle esigenze del tempo e che lo svolgimento del fatto economico si attuerà con quella gradualità, sia pure intensa, che è garanzia di libertà. Del resto non potevamo in questa Carta costituzionale fissare esattamente limiti e condizioni, ciò supponendo la conoscenza esatta del mondo di domani. Ma noi purtroppo non siamo profeti e non possiamo immaginare con sicurezza il futuro; tanto più perché ci troviamo in un momento di transizione e di instabilità generale, e in un Paese che – purtroppo – non ha indipendenza economica. È una verità dolorosa che non possiamo negare. In una situazione come questa non potevamo che segnare un indirizzo generale confidando nella saggezza del popolo italiano e in un domani migliore. (Applausi a sinistra).

L’ultima obiezione di carattere generale è che il Titolo non altro sarebbe che un tessuto di lucenti promesse. Ho ancora nell’orecchio le parole senza speranza dell’onorevole Nitti: parole che, dall’alto della sua personalità di scienziato e di uomo politico, ci sono cadute sul cuore con la crudele insistenza di un gelido stillicidio. Altri all’inizio della discussione generalissima ha parlato perfino di frode, d’inganno, di beffa.

Potrei rispondere, se fosse vero, che l’inganno e la beffa risalgono al tempo della lotta elettorale quando tutti i partiti lanciarono programmi nei quali, senza distinzione, erano fatte queste promesse. I nostri più aspri censori non avrebbero quindi il diritto di parlare. Ma l’inganno e la beffa non sono veri e non lo furono mai. (Commenti).

Non tutto si potrà raggiungere oggi; siamo d’accordo. Ma se noi pretendessimo di fare una Costituzione limitata a quanto si può fare oggi stesso dovremmo toglierò dal progetto tutta la prima parte, quella cioè dei diritti politici, civili ed economici, poiché nessuno di essi potrebbe resistere alla situazione desolante in cui ci troviamo. Dovremmo ridurre la Carta costituzionale alla sola seconda parte, all’ordinamento politico del Paese, componendo così un bel palazzo, di ampie e magnifiche sale, ma vuoto e deserto e senza l’eco di questa voce potente di popolo anelante alla giustizia sociale. Io penso, con convinzione serena, che non tutto potremo dare oggi al lavoratore italiano. Gliene daremo oggi una parte, un’altra domani. Ma gli daremo contemporaneamente una grande e non illusoria speranza, tale che rafforzi il suo spirito nel duro cammino della resurrezione e che gli dia l’energia, veramente divina, di uscire dal baratro in cui l’ha gettato la follia più criminale che ricordi la storia dei popoli, per rifare la sua Italia, indubbiamente più bella di prima, nella luce e nella gloria di una civiltà superiore. (Vivissimi applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È così terminata la discussione generale sul Titolo terzo della prima parte del progetto di Costituzione. Dobbiamo ora passare all’esame degli emendamenti.

Gli onorevoli Tremelloni e Cairo hanno proposto di premettere all’articolo 30 il seguente:

«Allo Stato compete la rilevazione costante e tempestiva dei dati riferentisi alla vita economica della Repubblica. Esso provvede a diffonderne la conoscenza».

L’onorevole Cairo ha facoltà di svolgere questa proposta.

CAIRO. Onorevoli colleghi, l’emendamento presentato dal collega Tremelloni e firmato anche da me potrebbe apparire una proposta che non riguarda strettamente materia di carattere costituzionale. È parso tuttavia ai presentatori necessario premettere al Titolo in esame questa esigenza, che è di mero carattere economico e sociale.

Tutti i popoli civili, da molto tempo, attingono i dati necessari alla propria economia da rilevazioni statistiche rigorose. Noi, purtroppo, non abbiamo organizzazioni statistiche di tale importanza e di tale rigore da poterci mettere in concorrenza con quelli che sono gli istituti statistici di altri popoli. E se la statistica serve, come è noto, a tutte le attività scientifiche e a tutte le attività sociali, è specialmente ai rapporti economici che essa deve essere rivolta.

Il nostro emendamento vorrebbe affermare il principio che non è possibile parlare di rapporti economici è di rapporti sociali se lo Stato, se il popolo, se la Nazione non sono in grado di controllare rigorosamente, direi quotidianamente, ora per ora, la propria vita, se non mettono la mano al polso della propria attività economica. E, badate: è sembrato ai presentatori che questo fosse un argomento di carattere costituzionale in quanto è di carattere primordiale, rappresenta la premessa indispensabile per qualsiasi sviluppo economico della nostra civiltà e per conoscere quale è il punto della nostra attività e della nostra vita economica.

Col nostro emendamento non si parla solamente di un obbligo dello Stato di provvedere alla istituzione di questi istituti e di operare le relative rilevazioni di carattere statistico. Si aggiunge l’obbligo dello Stato della divulgazione, della diffusione di questi dati, della conoscenza quindi di questi dati estesa a tutti i cittadini. Ora, quando noi siamo di fronte a delle agitazioni di carattere economico, quando siamo di fronte a delle questioni di carattere economico nazionale, che interessano larghi strati di produttori, di lavoratori ecc., noi vediamo che molto spesso certi movimenti, certi atteggiamenti, sono dovuti al fatto che non sempre queste correnti di produttori, queste masse agitate e convulse folle, conoscono le condizioni e quindi i limiti delle possibilità di queste loro aspirazioni e agitazioni. È la mancanza del dato economico quella che talvolta induce anche a dei conflitti sociali che sembrano ingiustificati.

Ora, noi vogliamo con questo affermare un principio che sembrerà non strettamente costituzionale, secondo il concetto giuridico, non ortodosso, ma che sembra a noi costituzionale per il carattere primordiale, fondamentale, imprescindibile che è contenuto nell’affermazione da noi proposta.

Il volere che lo Stato prenda finalmente sul serio l’importanza della statistica economica, e faccia propaganda continua ed effettiva di questa statistica, e faccia conoscere gli italiani nel campo economico e sociale, in questa Italia la quale è tanto diversa, che tante volte non si conosce nemmeno, che alla vigilia della discussione sulle circoscrizioni regionali, non sa ancora se deve essere molteplice o se deve essere una, il far conoscere questi dati agli italiani e farli conoscere attraverso un obbligo imposto dallo Stato, vuol dire, a mio avviso, affermare un principio di necessità fondamentale.

Io non so quale accoglienza potrà essere fatta dai giuristi a questa affermazione che sembra eterodossa. Noi abbiamo il piacere di avere compiuto il nostro dovere, quello di richiamare l’attenzione della massima Assemblea della Nazione su questa deficienza del nostro Stato, la deficienza di una reale organizzazione di istituti statistici che siano controllati e che abbiano nello Stato, non soltanto un tutore, ma un forte e valido ausilio di carattere nazionale. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 15.

Interrogazioni con richiesta di risposta urgente.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’agricoltura e foreste, per conoscere le ragioni per cui il Governo non ha ancora convertito in legge il lodo De Gasperi, provvedimento di assoluta urgenza, soprattutto nella imminenza del raccolto.

«Macrelli».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ritenga oltremodo necessario – anche per alleviare la grave disoccupazione specialmente delle zone di Corato, Andria, Minervino, Barletta, Canosa – disporre subito l’inizio dei lavori dell’autostrada Bari-Napoli, che fra l’altro tanto vantaggio apporterebbe allo sviluppo dei rapporti commerciali fra le due regioni.

«Caccuri, Monterisi».

«Al Ministro delle finanze e del tesoro, per sapere quando intenda portare all’esame dell’Assemblea Costituente il disegno di legge relativo al risarcimento dei danni di guerra, problema di interesse nazionale, la cui soluzione non può essere ulteriormente dilazionata.

«De Mercurio, Morini, Paolucci, Camangi, Reale Vito, Bernabei, De Vita, Cairo, Rodinò Mario, Abozzi, Carboni».

Chiedo al Governo quando intenda rispondere.

PELLA, Sottosegretario di Stato per le finanze. Darò notizia di tali interrogazioni ai Ministri competenti affinché comunichino quando intendono rispondere.

DOMINEDÒ. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

DOMINEDÒ. Chiedo quando il Governo intenda rispondere ad una interrogazione da tempo presentata, riguardante la traduzione in legge del progetto di riforma dei consorzi agrari.

PRESIDENTE. Avverto che una delle prossime sedute antimeridiane sarà completamente dedicata alle interrogazioni delle quali il Governo ha riconosciuto l’urgenza.

PERUGI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PERUGI. Vorrei sollecitare dal Ministro della difesa la risposta alla mia interrogazione sul compenso per il lavoro straordinario agli ufficiali e civili.

PRESIDENTE. Farò presente al Ministro competente tale richiesta.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

SCHIRATTI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se non crede opportuno rivedere i criteri coi quali è stato stabilito il tesseramento differenziale annonario, poiché i criteri adottati per la suddivisione dei cittadini danneggiano gravemente le categorie impiegatizie, creando una ingiustificata sperequazione tra queste e gli operai, colpendo in modo particolare gli impiegati, che hanno carico di famiglia.

«L’interrogante chiede che il tesseramento differenziato e preferenziale venga modificato nel senso che il limite di reddito per l’appartenenza alla categoria A, venga elevato a lire 35.000, nette di tasse, assegni familiari, imposte, diarie e militari. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mariani Francesco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delie finanze e del tesoro, per sapere se non ritenga opportuno disporre perché sia reso praticamente possibile il pagamento dell’acconto per i danni di guerra (mobilio) alle famiglie dei militari irreperibili, per procedere al quale pagamento si richiede attualmente la dichiarazione di morte presunta con i conseguenti ulteriori adempimenti di legge.

«Per ottenere tale dichiarazione occorre una procedura che, oltre ad essere lunga, è anche notevolmente costosa, per cui il più delle volte l’acconto dovrebbe essere quasi completamente impiegato per far fronte alla spesa relativa e si chiede pertanto se il Ministro non ritenga fissare invece una procedura analoga a quella stabilita dal Ministero della difesa per il pagamento alle famiglie degli assegni dovuti ai militari irreperibili. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Camangi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze e del tesoro, per conoscere le ragioni che lo hanno indotto ad abbandonare il progetto di costituzione dell’Istituto regionale riscossione imposte dirette per la Sicilia, progetto che, instradando su una via moderna e tecnicamente più perfezionata il sistema di riscossione delle imposte dirette, garantiva gli interessi della Amministrazione finanziaria ed assicurava armonicamente la stabilità di occupazione della classe esattoriale, e per sapere se non ritenga opportuno di riprendere il progetto stesso, in vista dei cennati vantaggi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Dugoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere se non creda opportuno e doveroso, considerato il rilevante numero di reduci regolarmente iscritti alle sessioni ordinarie del 1941 e seguenti (chiamati alle armi con le classi di leva 1921, 1922 e 1923) che non hanno potuto usufruire di alcuna sessione straordinaria perché non ancora rientrati dalla prigionia o perché rimpatriati in minorate condizioni di salute, e quindi bisognevoli di cure e lungo riposo, indire una sessione di esami di ammissione, promozione, idoneità, licenza ed abilitazione presso gli istituti di istruzione media di ogni ordine e grado. Il movente della richiesta va ricercato nel fatto che numerosi reduci, in ispecie quelli della prigionia, non essendosi potuti dedicare allo studio subito dopo il rimpatrio a causa delle malattie contratte in cattività, e non avendo di conseguenza potuto fruire delle sessioni straordinarie precedentemente indette, verrebbero a trovarsi in condizioni di disparità nei confronti di coloro che hanno già beneficiato di tale concessione. Il caso ha carattere di urgenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Cotellessa».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della difesa e delle finanze e tesoro, per sapere quale azione concorde essi ritengono di svolgere in merito al provvedimento relativo all’avanzamento degli ufficiali provenienti dai primi tenenti dei carabinieri, di fanteria e di amministrazione.

«Il provvedimento che da un anno si dibatte in cavillose, anguste pastoie burocratiche tra l’Amministrazione dell’esercito e la Ragioneria generale:

  1. a) rappresenta un atto di giustizia con il quale si vuole riparare ad una lesione del diritto sofferta da questi ufficiali e restaurare quella morale dei quadri stabilita dalle sane leggi del passato e sovvertita dall’arbitrio fascista. Atto di giustizia perché questi ufficiali, già combattenti del Grappa e del Piave, dopo trent’anni di spalline, si sono visti raggiungere ed anche scavalcare da ufficiali ben più giovani di loro e dei quali furono superiori od istruttori, in violazione della precisa finalità della legge di avanzamento (articolo 140).

«Su questa anormale situazione il Consiglio di Stato si è espresso, de jure condendo, nel senso che la materia trattata dall’articolo 140 della legge 9 maggio 1940, n. 370, merita, così come ha convenuto il Ministro della difesa, di essere completata con quelle disposizioni esecutive che possano eliminare le verificatesi sperequazioni di carriera;

  1. b) risponde a superiore esigenza della Amministrazione militare, la quale intende, in questa fase di riorganizzazione delle Forze armate, avvalersi dell’opera di questi ufficiali, di provato valore e di particolare esperienza.

«Il fatto che il Ministro responsabile insiste nella presentazione del provvedimento significa che esiste effettivamente l’intima correlazione tra il provvedimento stesso e l’esigenza dell’Amministrazione;

  1. c) tende a promuovere i provenienti dai primi tenenti: al grado di maggiori, gli attuali capitani ai carabinieri e di amministrazione; al grado di tenente colonnello gli attuali maggiori di fanteria, in modo da ovviare anche alla disparità di trattamento venuta a crearsi con l’aumento dei limiti di età disposto per gli ufficiali dei carabinieri con il decreto legislativo 26 agosto 1945, n. 659, perché col provvedimento in questione si assicura un quasi uguale provvedimento ai fini della permanenza in servizio di detti ufficiali e cioè: sino al 52° anno di età i maggiori di fanteria che dovranno essere promossi tenenti colonnelli e sino al 53° anno di età i capitani dei carabinieri e di amministrazione che dovranno essere promossi maggiori;
  2. d) non costituisce sensibile aggravio finanziario per l’erario perché non dà titolo a corresponsione di arretrati, né comporta eccessivo aumento degli emolumenti perché gli ufficiali in questione – il cui numero è peraltro assai esiguo – percepiscono già, per la loro anzianità di servizio, le indennità del grado superiore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 15:

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.