ASSEMBLEA COSTITUENTE
CXXI.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI LUNEDÌ 12 MAGGIO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI
INDICE
Congedi:
Presidente
Disegni di legge (Discussione):
Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17)
Presidente
Russo Perez
Montini
Pajetta Giancarlo
Martino Enrico
Cianca
Bonomi Ivanoe, Presidente della Commissione per i trattati internazionali
Persico, Relatore
Sforza, Ministro degli affari esteri
Corbino
Gronchi
Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945. (8)
Presidente
Montini
Rivera
Canepa
Cingolani
Macrelli
Colitto
Quintieri Quinto
Tonello
Scoccimarro
Bonomi Ivanoe, Presidente della Commissione per i trattati internazionali
Assennato, Sottosegretario di Stato per il commercio estero
Interrogazione con richiesta d’urgenza:
Presidente
Longhena
La seduta comincia alle 10.
CICERONE, Il Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Carratelli, Costa, Massini e Pera.
(Sono concessi).
Discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17)
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto. (17).
Dichiaro aperta la discussione generale.
È iscritto a parlare l’onorevole Russo Perez. Ne ha facoltà.
RUSSO PEREZ. Molto onorevoli, per quanto poco numerosi colleghi, si è discusso di questo Accordo coll’Egitto in seno alla Commissione per i Trattati internazionali. Io ho ritenuto che questo Accordo non debba avere la ratifica da parte dell’Assemblea Costituente; e mi sono trovato d’accordo con parecchi colleghi, tra i quali l’onorevole Togliatti. Questo fatto, di essere d’accordo con lui, mi ha insospettito un poco, mi ha fatto pensare che potessi avere torto; però, avendo esaminato ancora più a fondo la questione, mi sono convinto che questa volta entrambi abbiamo ragione, sia pure partendo da punti di vista diversi.
In base a questo Accordo, che io qualifico poco chiaro, anzi oscuro, nelle sue origini, nel suo sviluppo e nelle sue conclusioni, noi dovremmo pagare all’Egitto – che, ricordate, non è stato Nazione belligerante – la modesta cifra di sei milioni e mezzo di lire egiziane, che corrispondono a circa 15 miliardi di lire italiane.
Pensate, dunque, che tra l’Italia e l’Egitto non ci fu dichiarazione di guerra; ma l’Egitto il 10 giugno 1940 ruppe le relazioni diplomatiche con noi e procedette al sequestro dei beni dei cittadini italiani, che vivevano colà.
E che questa misura fosse giuridicamente poco fondata, lo riconosce la stessa relazione al disegno di legge, dove si dice: «Gli argomenti giuridici a sostegno della tesi egiziana erano discutibili, però in via di fatto un mancato accordo e una non sollecita definizione delle trattative o una sospensione avrebbero causato (vi prego di ascoltare: cosa credete che si dica qui? – un danno enorme per la nazione italiana? – no) un protrarsi per un tempo imprecisabile del sequestro, provvedimento che colpiva dei cittadini italiani, fra i quali parecchi molto ricchi, che vivevano in Egitto.
Giuridicamente, in base alle leggi ed agli usi internazionali, questo provvedimento non si regge.
Pensate che è stato discusso perfino nei riguardi delle nazioni con cui siamo stati in guerra. Pensate ancora che vi sono alcune di queste, fra cui l’Inghilterra, che, o hanno già rinunziato, o stanno per rinunziare al sequestro. È chiaro che le analoghe misure prese dall’Egitto si giustificavano ancora meno.
Si parla dei danni che avrebbe subito quel paese: «par suite d’opérations militaires sur son territoire».
La frase mi appare volutamente equivoca: «a causa di operazioni militari» non svolte da noi, ma anche dagli inglesi o dai tedeschi, «sul suo territorio». Di fatto, noi abbiamo arrecato all’Egitto pochissimi danni.
Esso ce ne ha arrecato immensi, offrendo il suo territorio come piattaforma di manovra e di battaglia per le forze inglesi che erano in guerra con noi.
Quindi era legittimo ricercare il nemico su quel territorio e cercare di batterlo.
Comunque, i danni di un bombardamento sul porto di Alessandria e sul Canale sono insignificanti. I danni maggiori consistono, credo, nei datteri mangiati dai soldati italiani nell’oasi di Siwa.
È vero che l’Egitto cominciò col domandare una somma enorme; credo cento milioni in lire egiziane. Ma sappiamo tutti che queste sono abitudini orientali, per cui si domanda cento quando si vuole ottenere due. Difatti, i nostri negoziatori si dichiararono soddisfatti quando da cento si scese a dieci, in un primo tempo e, in un secondo tempo, a sei e mezzo, ivi comprese quelle somme che possono considerarsi restituzione di somme spese dal Governo egiziano per soccorsi ai nostri cittadini durante la guerra, per l’ammontare di due milioni e mezzo di lire egiziane.
Con questi precedenti, non capisco come si possa reggere l’affermazione della relazione al disegno di legge, in cui è detto «si poneva pertanto, in termini improrogabili, la necessità di arrivare al più presto ad un miglioramento della situazione nei riguardi del sequestro», sequestro che, come ho detto, feriva interessi di cittadini italiani, interessi rispettabili, d’accordo, ma interessi di singoli, non dell’intera Nazione.
Tanti cittadini italiani viventi in paesi stranieri hanno subito dei danni. Cittadini italiani che vivevano, per esempio, in Brasile, cittadini italiani che vivevano in Tunisia; i quali ultimi sono stati più danneggiati degli altri, essi che furono cacciati via dalla loro terra «come can tignosi», come direbbe Giosuè Carducci, e non hanno ricevuto alcun indennizzo; cittadini italiani viventi nella metropoli, che hanno avuto distrutti palazzi e beni mobili e non hanno ancora ricevuto neanche un soldo! E noi dobbiamo preoccuparci unicamente di quei cittadini italiani che vivevano in Egitto e che dovrebbero essere i soli ad essere indennizzati d’ogni danno da loro subito!
Come vedete, non c’entra per nulla il nostro rispetto verso la nobilissima nazione egiziana ed il nostro vivo e indiscutibile e generale desiderio di tornare con essa ai vecchi amichevoli rapporti; non c’è niente nel nostro atteggiamento, che possa ledere la dignità di questa nazione amica e offendere i popoli del Medio Oriente; non c’è niente che possa sollevare un attrito fra noi e loro.
Ho detto che l’accordo è oscuro per le sue origini e per il modo come furono condotte le trattative. Onorevoli colleghi, le trattative non avvennero per le normali vie diplomatiche, ma furono condotte dal signor Cerulli, non so di preciso quale titolo abbia, che era stato governatore in colonia, in Africa Orientale. Più tardi da Roma fu inviato all’onorevole Ivanoe Bonomi, che si trovava a Parigi, un telegramma invitante alla firma; e sapete in che data? La data è quella stessa del giorno della firma! E l’onorevole Bonomi firmò. Poi si viene da noi e si dice: cosa fatta capo ha. Ma l’Assemblea ha i suoi diritti e ad essa è devoluta l’approvazione dei trattati; e se l’Assemblea crede che il trattato non debba essere approvato, essa non deve avere preoccupazioni di alcun genere nei riguardi della nazione contraente, che noi, come ho detto, non abbiamo alcuna volontà di offendere negli interessi o ferire nella dignità. Pensate ancora, onorevole colleghi, che, ove approviate questo trattato, il male che si vorrebbe evitare non sarebbe evitato del tutto, perché il sequestro continuerebbe anche dopo il pagamento del primo milione di lire egiziane. Il sequestro non verrebbe tolto ai beni dei cittadini italiani residenti in Egitto se non nella misura dei pagamenti fatti e continuerebbe, quindi, parzialmente sino alla totale estinzione del debito, che dovrebbe – udite – essere estinto con valuta o merci o, peggio, con la partecipazione egiziana ad imprese industriali e commerciali italiane in Egitto! Comprendete il pericolo enorme di questa clausola, per cui fiorenti aziende di italiani residenti in Egitto possono domani diventare in tutto o in parte egiziane. Ci si dice che la firma è parsa non solo improrogabile, ma anche urgente; e difatti il disegno di legge è stato portato con procedimento di urgenza all’esame dell’Assemblea Costituente. Ma come mai, oggi, la firma è apparsa improrogabilmente necessaria, quando, dal 10 settembre ad oggi si sono fatti passare otto mesi nella più completa inerzia? C’era tutto il tempo di discutere, di portare allora, sei, sette mesi fa, questo progetto dinanzi alla Commissione dei trattati. Se è urgente, ed improrogabile soltanto ora, è evidente che non era urgente ed improrogabile allora. (Commenti).
Io dico che è venuta la volta di finirla col sistema della «cosa fatta capo ha». L’onorevole Persico, verso il quale professo grande stima e – questo è chiaro – difende disinteressatamente gli interessi di queste nostre collettività in Egitto, vi dirà che noi faremmo cattiva figura se non firmassimo, che i nostri rapporti con l’Egitto sarebbero turbati e si scaverebbe un abisso fra noi e loro. Ma perché questo? Non c’è nessuna ragione. Innanzitutto, il Governo Egiziano ha a sua disposizione i beni degli italiani in Egitto. Ci sono dei miliardari tra costoro. Perché il Governo italiano non dice loro: «Noi intendiamo risolvere la questione col vantaggio di entrambe le parti contraenti, ma è giusto che voi, italiani ricchi, in Egitto, sopportiate una larga parte di quell’onere, che, con questo accordo, si vuole addossare per intero allo Stato italiano». Non c’è nessuna ragione che noi, tanto poveri, paghiamo per loro, dal momento in cui delle Nazioni, che sono state in guerra con noi, rinunciano alle riparazioni ed al sequestro dei beni. E, badate, l’argomento non è soltanto mio, ma anche dell’onorevole Togliatti e di altri autorevoli parlamentari. A Parigi questo accordo fu portato alla firma dell’onorevole Bonomi proprio nel momento in cui si discuteva del diritto delle Nazioni che ci hanno battuto ad ottenere da noi riparazioni. Da un canto, in punto di diritto ed in punto di fatto, si sosteneva da noi che le riparazioni non erano dovute e che, comunque, non eravamo in condizione di pagarle. Dall’altro si cominciava ad offrire ben quindici miliardi a una Nazione che non era stata in guerra con noi! Torniamo alle antiche costumanze del Parlamento italiano, per cui gli interessi dei privati o di gruppi di cittadini sono passati sempre in seconda linea di fronte agli interessi della Nazione! Propongo, quindi, che l’Assemblea neghi la sua ratifica all’accordo del 10 settembre 1946.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Montini. Ne ha facoltà.
MONTINI. I motivi di opposizione illustrati or ora dall’onorevole Russo-Perez e le osservazioni stesse con le quali la Relazione presenta questo progetto, pongono la questione su una base molto realistica e semplice. Prendiamo atto invero che l’Accordo presenta lati criticabili, esso non è certo optimum; ma la domanda è questa: se non si approva quale situazione si creerà per il nostro Paese? Nel momento nel quale il disegno è presentato all’Assemblea, la situazione nei confronti dei nostri connazionali in Egitto e il complesso dei nostri interessi interni e internazionali ci portano ripeto sul piano molto semplice e realistico che consiste nel risolvere positivamente il quesito, giudicando che i motivi contrari non concludono a sufficienza per dire che non si debba accordare l’approvazione. Neppure si può negare tale approvazione perché l’Accordo ci viene presentato come cosa fatta e si vuol protestare di fronte al «fatto compiuto», proponendo così una specie di punizione a noi stessi se in qualche modo il Governo ha tutelato meno diligentemente i nostri interessi. Oggi di fronte allo stato estero col quale la Convenzione è stata già trattata, di fronte alla situazione internazionale, che vantaggio è che andiamo noi stessi a cercare le punizioni delle nostre eventuali deficienze?
Triplice è la motivazione per la quale si può sostenere l’approvazione dell’Accordo: anzitutto concludere e transigere su rapporti controversi. Si tratta di concludere. Una magra transazione val più di una troppo elaborata sentenza. Noi siamo di fronte ad una situazione complessa, non risolta in modo perfetto, la quale però richiede che si tenga conto del vantaggio che si ha nel concludere una questione la quale costituisce una indispensabile premessa per le presenti e future relazioni fra noi e l’Egitto. Noi siamo un Paese che ha bisogno di avere materie prime dall’Occidente, trasformarle in beni e portarle in Oriente dopo avervi impresso il valore del nostro lavoro. Noi abbiamo un interesse quindi economico e sociale perché questa porta verso l’Oriente, rappresentata dall’Egitto, non rimanga più a lungo chiusa.
In secondo luogo si tratta di considerare quelli che sono gli interessi dei nostri connazionali in Egitto. Tutti i loro beni sono sotto sequestro e ogni azienda o attività è in mano ad un amministratore che vive non solo sui proventi dell’attività economica sequestrata ma incidendo il patrimonio in modo sempre più considerevole. Noi sappiamo che due son le categorie di persone e di interessi a cui questo Accordo può giovare: anzitutto la gente povera o comunque artigiani non ricchi che vedono in questo Accordo la possibilità di riprendere la propria attività e d’altra parte la categoria rappresentante più ampi interessi che può ritornare alla gestione del proprio patrimonio.
Vi sono degli oneri finanziari che con questo Accordo si assumono, ma che indirettamente colpirebbero pur sempre lo Stato. Con questo Accordo non si pregiudicano eventuali soluzioni che facciano ricadere sulla parte più ricca dei nostri connazionali il peso effettivo degli oneri considerati. L’importante è che non siano compromessi definitivamente gli interessi nel loro complesso perché questi costituiranno sempre il mezzo per ripagarci dei sacrifici incontrati.
Infine, dice opportunamente la Relazione: «l’evidente opportunità di addivenire ad una piena pacificazione dei rapporti italo-egiziani, di cui è superfluo sottolineare la importanza delle nostre future relazioni con i Paesi dell’Oriente Mediterraneo, non può d’altra parte far trascurare le considerazioni di equità e di giustizia sociale, le quali hanno motivato e giustificano la richiesta di recente fatta pervenire dal Governo del Cairo».
È proprio così: dietro l’Egitto c’è tutto il mondo arabo e vi è tutta la situazione dei rapporti internazionali con l’Oriente, a cui bisogna guardare. Perciò non bisogna sopravalutare le critiche a questo Accordo: è più logico considerarlo un meno peggio per arrivare ad un maggior bene.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Pajetta Gian Carlo. Ne ha facoltà.
PAJETTA GIAN CARLO. Se la notizia della conclusione del trattato con l’Egitto è quasi sfuggita in un primo momento in cui si è provveduto all’accordo in questione, oggi l’opinione pubblica non può non accogliere con preoccupazione la notizia della discussione in Parlamento, né può sfuggirle quello che rappresenta il voto del Parlamento italiano. Esaminando oggi il modo nel quale questo particolare problema è stato affrontato e come si è cercato di risolverlo non si possono trascurare le critiche che già più di uno fece sin da allora, né si possono trascurare i dubbi che furono già affacciati per quanto riguardava tutte le nostre trattative condotte a Parigi e sui risultati che certi metodi diedero al nostro Paese.
Che cos’è avvenuto allora per quello che riguarda il problema delle nostre trattative con gli Egiziani? Si era determinata per noi, in quel momento, una situazione particolare; pareva che ognuno avesse qualche cosa da chiedere al nostro Paese; non vi era alcuno che non avesse il suo problema per cui noi avremmo dovuto intervenire, per cui noi avremmo dovuto pagare, per dirla in parole povere.
E si era, d’altra parte, diffusa la sensazione che il nostro Governo non avesse altro da fare che chiedere qualche voto, magari da comprare con qualche milione di sterline o di lire egiziane. Si pensava infattibile si sarebbe, in qualche maniera, mutato così lo schieramento delle nazioni che avrebbe dovuto avvenire nello stesso modo come avviene nella pratica parlamentare, o che accadesse qualche cosa di simile a quello che accade alle elezioni amministrative o politiche.
Si pensava forse che avrebbero votato per noi le piccole nazioni. Ci sentimmo dire allora che avremmo avuto la maggioranza, ci sentimmo dire che i voti degli Stati arabi sarebbero stati quasi tutti per noi. Ma poi, al momento opportuno, è apparso evidente invece che gli Stati votano secondo il proprio interesse, che votano secondo suggerimenti che non sono purtroppo quelli che possiamo aver dato noi, anche pagando con sei milioni di lire egiziane.
È sembrato ai nostri negoziatori che l’arrivare gradatamente a sei milioni di lire costituisse un affare, l’affare cioè di risparmiare qualche centinaio di milioni in più che ci era stato chiesto. Ma il problema era un altro; perché dovevamo pagare? Noi non dovevamo pagare proprio nulla allo stato egiziano.
Ci è stato detto che dovevamo pagare perché altrimenti la situazione dei nostri connazionali sarebbe stata resa più difficile; perché il sequestro dei beni italiani avrebbe continuato a metterci in una situazione insostenibile. Io direi che era proprio questo un argomento che dimostrava che noi non dovevamo pagare, perché già avevamo pagato giorno per giorno, perché già avevano pagato i nostri connazionali, perché noi avevamo subìto e continuavamo a subire un danno da parte del governo egiziano il quale continuava, con questo sequestro dei beni, a render difficile l’attività economica dei nostri connazionali in quel paese.
Si noti che si tratta di un governo di uno Stato, che non ha subito danni dalla guerra; perché, se dovessimo fare dei conti, in questa guerra che ha travagliato tutti, ci convinceremmo facilmente che non sono certamente gli egiziani coloro che hanno subito davvero delle perdite; in questo conflitto che ha trascinato tutti i popoli e che ha lasciato, nonostante qualche preoccupazione che essi possono avere avuto, gli egiziani presso che indenni.
Se dunque una giustificazione c’era, se una giustificazione poteva essere accettata, questa doveva tutt’al più riguardare i due milioni di lire che si dicono date alle collettività italiane, e non certo i danni di guerra.
Si poneva, d’altra parte, il problema di chi avrebbe dovuto pagare. Qui si è parlato di necessità di intervento a favore di quegli italiani diseredati che svolgono la loro attività economica in Egitto; ma in un primo tempo era sembrato che un milione di sterline dovesse essere preso proprio a spese di coloro che avevano visto i loro fondi sequestrati nelle banche in Egitto, il che avrebbe significato che avrebbero dovuto pagare una parte di questi sei milioni proprio i più diseredati, mentre, i più ricchi, che avrebbero tratto un vantaggio immediato dal miglioramento dei rapporti diplomatici, sarebbero stati esenti; sarebbero stati esenti cioè proprio coloro che si sarebbero trovati in condizioni più favorevoli.
Ed oggi infatti la cosa è stata riconosciuta; e il Governo ha deciso di sostituirsi e di pagare anche per questo milione.
Ci troviamo di fronte ad un trattato ingiustificato per il modo col quale è stato formulato, per il tempo in cui è stato affrettatamente firmato, prima che fossero considerati tutti i motivi che potevano determinare queste trattative è anche tutti gli argomenti che potevano portarci ad una conclusione che fosse più favorevole per di nostro Paese.
Noi dichiariamo qui esplicitamente che nella nostra critica non c’è nulla contro il Ministro degli esteri, che pensiamo abbia dovuto trovarsi anzi in un certo imbarazzo, non soltanto per continuare e perfezionare le trattative, ma perché la sua azione diplomatica nei confronti di altri Stati, deve avere incontrato difficoltà, proprio perché questo trattato costituiva già un fatto compiuto.
Così non abbiamo delle critiche particolari da rivolgere al Presidente della Commissione per i Trattati internazionali, onorevole Bonomi, che pure ha firmato questo trattato, perché ci rendiamo conto del modo come le trattative si sono svolte e del significato che ha avuto in quel particolare momento quella firma, che sembrava sollecitata, direi quasi imposta – se non sembrasse troppo – da Roma, dove pareva che le cose avessero dovuto essere conosciute, mentre pare invece non lo fossero.
Ma quello che ci preoccupa e che ci ha preoccupati fin da allora, è il momento nel quale questa firma è stata posta. Allora si dibatteva la questione delle riparazioni in generale per il nostro Paese, e qualcuno ha creduto di facilitare la nostra azione diplomatica, proponendoci di pagare delle riparazioni a chi non aveva subito alcun danno. Noi, che pure avevamo inferto dei danni ad altri paesi, cercavamo di non pagare o di pagare il meno possibile. Io penso che in quel momento qualcuno ha creduto che la firma fatta con tanta precipitazione e con la comunicazione alla stampa del trattato potesse avere riflessi favorevoli sulla nostra situazione in campo internazionale. Forse qualcuno avrà pensato che il dire che ci eravamo messi d’accordo con l’Egitto, potesse migliorare la nostra situazione, potesse far sì che altri pensassero che eravamo qualche cosa, che contavamo ancora nel campo diplomatico.
Se noi consideriamo la realtà, vediamo che essa è ben diversa. Non appena divulgata la notizia di questo accordo, sia la Grecia che la Jugoslavia, che in quel momento chiedevano riparazioni, fecero presente il loro stupore, e considerarono un argomento valido per sostenere le loro pretese l’accordo da noi stipulato con l’Egitto. Questa sarebbe stata la favorevole impressione che questo trattato ha dato; questo sarebbe stato il risultato che noi volevamo ottenere con la pubblicazione affrettata?
Si è parlato del sequestro dei beni: questa è un’arma che gli egiziani possedevano contro di noi, una specie di ricatto che essi hanno potuto tentare, e che in un certo senso potrebbero ripetere se non accettassimo il trattato. Quella del sequestro dei beni italiani all’estero non è questione particolare, specifica dello stato egiziano; in altri paesi, che hanno fatto la guerra contro di noi, questo sequestro esisteva, e noi abbiamo trattato e abbiamo visto che nei paesi nei quali il sequestro era stato mantenuto, in epoca relativamente recente, si è venuti nella decisione di liberare i nostri beni. Perché questo non poteva essere ottenuto anche con l’Egitto? Perché si doveva trattare in un modo diverso? Forse avevamo dei particolari debiti, anche morali, con questo Paese? Mi pare che così non fosse. Se questo ricatto, se questa pressione è stata esercitata, direi che questo è pienamente normale, naturale per il Governo egiziano. Mi pare che sia meno naturale, meno avveduto, meno accorto da parte del nostro Governo, di trattare, e di trattare soltanto come qualcuno che discuta di fronte ad una rivoltella puntata, del numero dei colpi che gli dovranno essere sparati contro.
È questo l’aspetto particolare di questo Trattato: la questione particolare del momento in cui questo Trattato è stato preparato e firmato.
Però noi vorremmo a questo proposito dire qualche cosa che va più in là di questo problema specifico è che si riferisce al metodo della nostra diplomazia, si riferisce al modo col quale il nostro Paese, la nostra nuova democrazia, può seguire i problemi internazionali, può intervenire e dimostrare la forza di un paese democratico che è qualche cosa di più che la forza di un paese dove la diplomazia è trattata senza che nessuno ne sappia niente e dove l’intrigo sostituisce, qualche volta e non sempre molto chiaramente, quella che è la trattativa politica di un paese libero. Chi è che ha trattato?
Noi avevamo a Parigi una delegazione che non poteva essere più autorevole, una delegazione che doveva discutere con i rappresentanti di tutte le nazioni, composta di uomini politici e di tecnici: ambasciatori, direttori generali dei nostri ministeri ecc. A quanto mi risulta questa delegazione è stata tenuta completamente all’oscuro delle trattative e mi pare che lo stesso Presidente della Costituente di allora, l’onorevole Saragat, non abbia saputo di esse che a firma avvenuta. E certo questo è per lo meno un po’ strano, un po’ fuori dell’ordinario, anche nella diplomazia di un paese che non abbia parlamento, nella diplomazia che ignori una Commissione per i trattati internazionali.
Da Roma furono dati i pieni poteri e si dice che furono dati perché questo è nella prassi diplomatica quando una delegazione è particolarmente autorevole, quando si ha fiducia in questa delegazione. Da Roma si dichiarò che non c’era la necessità di conoscere preventivamente il trattato.
Ma il fatto è questo; questa delegazione tanto autorevole, composta di tecnici e di competenti, che poteva fare senza mostrare la bozza del trattato a Roma, non ha considerato essa stessa la bozza di questo trattato. Non ha potuto; e in fondo, se noi dovessimo ricercare più in là, come si è chiesto giustamente nella Commissione dei trattati, ci accorgeremmo che un funzionario – che forse non è neanche del Ministero degli esteri – un esperto coloniale, è quello che ha definito questo trattato e lo ha preparato. E così noi oggi dovremmo vedere oggetto di una ratifica dell’Assemblea Costituente un documento non rispondente agli interessi generali italiani e che non risponde oggi forse nemmeno a pieno agli interessi specifici della colonia italiana in Egitto. Noi abbiamo visto convocare la Commissione dei trattati alla vigilia della partenza per Parigi della Delegazione. Nessuno ha saputo non solo i termini delle trattative con l’Egitto, ma nemmeno che queste trattative potessero essere allora intraprese.
Ecco perché noi oggi non soltanto muoviamo le nostre critiche, non soltanto esprimiamo le nostre preoccupazioni per quanto riguarda il Trattato italo-egiziano, ma vogliamo rinnovare la critica – che abbiamo già fatto più di una volta qui dentro, sulla stampa e in dichiarazioni ufficiali – ad un metodo diplomatico, ad un metodo di direzione della nostra politica estera che non può essere considerato il migliore e che ha dato fino ad oggi risultati che lasciano dubitare di questo metodo, e che autorizzano a rinnovare le critiche. Che cosa ci proponiamo adesso, che cosa diciamo di fronte al voto che ci si richiede? Noi ci rendiamo conto della necessità di normalizzare le nostre relazioni internazionali, ci rendiamo anche conto della necessità di avviare verso una situazione normale l’attività produttiva degli italiani in Egitto e non vorremmo in nessun modo che la nostra critica fosse considerata come una offesa a questo Stato, a questo Governo, e che i nostri rapporti che stanno per riprendere potessero essere nuovamente interrotti o divenire più freddi che al presente. Però questo non annulla le nostre preoccupazioni, né ci impedisce di considerare giustificata la nostra critica. Pertanto, mentre non consideriamo di dovere votare contro, non possiamo accettare il trattato come ci è proposto. Ecco perché noi ci asterremo dal voto, dando a questa astensione il significato di sottolineare la nostra critica.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Martino Enrico. Ne ha facoltà.
MARTINO ENRICO. Onorevoli colleghi. Posso condividere tutte le critiche dell’onorevole Pajetta ed una parte, almeno, delle critiche dell’onorevole Russo Perez. Non posso però accettare una distinzione che ha fatto l’onorevole Russo Perez fra gli interessi dello Stato e gli interessi delle collettività italiane. Mi pare, questa, un’affermazione pericolosa che attiene a certe dottrine passate. Lo Stato, per noi, si identifica in tutti i suoi cittadini, si identifica in tutta la sua collettività, così come il patrimonio dello Stato si identifica nel patrimonio di tutti i suoi cittadini; soprattutto noi dobbiamo tener presente la importanza delle collettività italiane all’estero e anche dai nostri banchi dovrebbe venire oggi una voce per la difesa di queste collettività che saranno ancora una volta il migliore veicolo della civiltà italiana.
È stato forse un pessimo affare che noi abbiamo fatto: ma abbiamo, almeno, una consolazione: che di tante pesanti firme che dobbiamo vergare in questi tempi, questa non diminuisce né il decoro, né la dignità, né l’onore, né il territorio italiano. È soltanto un cattivo affare che è stato concluso: una somma che si deve pagare, che forse, si poteva, anche, in tutto o in parte risparmiare.
Ma allora il nostro giudizio si deve ridurre alla considerazione del danno e considerare soprattutto se è opportuno, per respingere questo danno immediato, andare incontro a un danno assai maggiore.
E quando vi parlo di danno prossimo, non vi parlo del pregiudizio sulle relazioni che noi dobbiamo pur avere con tutti gli Stati, e quindi anche con l’Egitto, ma di un danno economico. L’amministrazione di questi beni sequestrati ci costa, se sono bene informato, il 10 per cento per ogni movimento di denaro. Quindi potete ben comprendere il costo per ogni giorno di sequestro. Le nostre imprese che sono in Egitto apparterranno a capitalisti, ma sono pur sempre imprese italiane e sono oggi ferme perché per poter lavorare occorre avere il capitale disponibile; il capitale è sequestrato: bisognerebbe ricorrere alle banche, ma, naturalmente, la banca non dà alcuna fidejussione finché è incerta la sorte dei beni italiani in Egitto.
Quindi penso che se noi consideriamo quello che costa il sequestro, quello che perdono le nostre collettività non lavorando, respingere oggi questo trattato significa aggravare e moltiplicare quello che è il danno del pagamento di una cifra.
Si è detto, e qui forse in forma demagogica dall’onorevole Russo Perez, che si proteggono i capitalisti…
RUSSO PEREZ. Quando si parla degli interessi della Nazione non c’è demagogia; c’è difesa degli interessi nazionali. Lasci ad altri l’uso di questa frase!
MARTINO ENRICO. Debbo rilevare che fra i capitalisti c’è la società dei fosfati che appartiene all’I.R.I., che ha proprietà del valore dagli 8 ai 10 milioni di lire egiziane ma che sono state valutate dagli egiziani per 800.000 lire egiziane, sicché se si dovesse addivenire, per ipotesi, ad una liquidazione forzata da parte egiziana di questi nostri beni, queste nostre importantissime proprietà rischierebbero di passare in altre mani per un valore irrisorio.
Ma poi non ci sono soltanto i ricchi laggiù: ci sono anche i poveri, ci sono tutti i nostri operai, tutti i nostri impiegati. E che essi abbiano bisogno di assistenza lo dimostra il fatto che abbiamo riconosciuto giusto il prelievo di due milioni e mezzo circa di lire egiziane per sovvenire, per aiutare tutte le nostre opere di assistenza laggiù, e singolarmente i nostri operai ed impiegati.
Dobbiamo tener presente che questa assistenza è cessata, che il Governo egiziano non provvede più ad assistere nessuno, e che, secondo gli accordi di Montreux, l’Egitto è autorizzato ad espellere dal proprio territorio le persone indesiderabili; e purtroppo nessuno c’è di più indesiderabile del miserabile.
Penso che queste considerazioni debbano far riflettere.
Ma poi, se non si ratifica questo accordo, qual è la soluzione del domani? Iniziamo delle nuove trattative? Ma iniziando delle nuove trattative, credete seriamente che i nostri contraenti partiranno da una somma inferiore ai quattro milioni e mezzo, o addirittura, disconosceranno di aver diritti nei nostri confronti?
Ammettiamo che sia stato un brutto affare. Lasciatelo dire ad un genovese. Ma un genovese che si preoccupa, da buon genovese, di cancellare un cattivo affare, vi dice che in questa situazione non ratificare il trattato significherebbe aumentare il nostro danno futuro; significherebbe fare invece di un cattivo affare, addirittura un pessimo affare.
E allora chiudiamo questa partita dolorosa, questo errore – se volete – diplomatico, che è stato fatto; chiudiamo questo cattivo affare economico e pensiamo che chiudendolo noi restituiamo attività e lavoro a molti italiani all’estero, a molti operai, a molti impiegati che sono stati licenziati da tutte le aziende egiziane nelle quali lavoravano. Abbiamo la possibilità di riaprire il commercio, le relazioni con l’Egitto, e in questo modo credo che in poco tempo, in un tempo forse minore di quello in cui si deve pagare questo debito, le nostre collettività potranno lavorare è produrre in misura forse superiore al debito che lo Stato si impegna a pagare.
Diceva bene il mio collega, salvo errore, democristiano: non è vero che alla collettività italiana non si possa chiedere un concorso; questo debito che si deve pagare in cinque anni potrà essere pagato più rapidamente e si potrà a questo effetto chiamare a concorso proprio i maggiori interessati, in modo da eliminare al più presto il debito. Ma questo argomento non può condurre alla non ratifica di questo accordo. Se siamo giunti al punto di potere rinnovare relazioni amichevoli con un altro Stato, se abbiamo la possibilità di far lavorare gli italiani ed abbiamo la possibilità di commerciare, in questo momento, dimenticando le recriminazioni di una firma mal posta, dobbiamo guardare verso il futuro e ratificare un trattato che servirà a elevare moralmente e materialmente i nostri fratelli che vivono all’estero.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cianca. Ne ha facoltà.
CIANCA. Dinanzi al dibattito che si è svolto intorno a questo accordo nell’Assemblea, penso che ciascuno debba assumere anche in questa sede, la responsabilità che ha preso in altra sede: cioè, nella Commissione per i trattati. Ho seguito con grande attenzione tutti i discorsi degli oratori che mi hanno preceduto. Questi discorsi arrivano concordemente ad una conclusione che nel merito è negativa per quanto riguarda l’esame critico dell’accordo. È stato definito un errore, una pagina dolorosa, un cattivo affare. È evidente che noi dobbiamo preoccuparci delle conseguenze di carattere internazionale che deriverebbero dal ripudiare l’accordo. D’altronde, io sono molto sensibile agli argomenti che sono stati addotti in quest’aula circa l’importanza della ripresa dei nostri rapporti con il mondo orientale: argomenti a cui fece appello il Ministro Sforza in sede di Commissione dei trattati. Credo convenga, in realtà, chiudere questa pagina dolorosa come ha detto il collega Martino; ma penso che, prima di chiuderla, noi, Assemblea politica, dobbiamo precisare il nostro atteggiamento anche per quel che riguarda la procedura, il metodo, che ha condotto alla preparazione affrettata di questo accordo ed alla sua conclusione. Sta di fatto che l’accordo venne firmato alla vigilia del giorno nel quale i nostri delegati dovevano svolgere, di fronte alla conferenza della Pace, nel suo complesso il problema delle riparazioni. Questo accordo risolveva in modo particolare, in forma ridotta, il problema delle riparazioni. Io penso che sia non soltanto nostro diritto, ma nostro dovere preoccuparci, più che per il passato per l’avvenire, del modo come si è arrivati all’accordo. Non mi dilungo su questo punto che è molto delicato; attendo però dalla parola del Ministro Sforza dei chiarimenti che ci possano confortare e assicurare per il futuro.
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bonomi, Presidente della Commissione per i trattati internazionali. Ne ha facoltà.
BONOMI IVANOE, Presidente della Commissione per i trattati internazionali: Io desidero dire alcune parole, non tanto come Presidente della Commissione dei trattati, ma come artefice principale di questo trattato cui ho posto la mia firma. In verità, l’opera mia personale è stata messa fuori causa tanto dall’onorevole Pajetta quanto dall’onorevole Russo Perez. In ogni modo, poiché io ho firmato il trattato (esso infatti porta la mia firma) a nome del Governo, io desidero precisare qui quali sono le critiche mosse al trattato e quali sono le possibili difese.
Tre critiche sono statue mosse al trattato. Si è detto: primo, inconsistenza delle ragioni giuridiche sulle quali l’Egitto fonda la sua richiesta di riparazioni; secondo, eccessiva condiscendenza dell’Italia ad acconsentire, in un momento a noi non favorevole e per una cifra che si dice esagerata alla conclusione dell’accordo ormai stipulato; terzo, inconvenienti derivanti da clausole non felici che hanno dovuto essere modificate.
Primo punto: aveva l’Egitto diritto a chiedere riparazioni per danni di guerra?
La questione è meramente giuridica e la sua soluzione è molta dubbia.
L’Italia non era in guerra con l’Egitto, l’Egitto non era in guerra con l’Italia. Però, di fatto, una guerra ci fu.
Bisogna riferirsi a casi analoghi, che si sono verificati alla Conferenza di Parigi. Anche alla Conferenza di Parigi si è constatato che alcune delle Nazioni Unite, che si elevavano a giudici dell’Italia, non erano state comunque in guerra con l’Italia: non avevano ricevuto dichiarazione di guerra da parte nostra, né esse avevano dichiarato guerra all’Italia. E per risolvere queste questioni che nel preambolo del Trattato di Pace le Nazioni Unite hanno dichiarato:
«L’Italia ha intrapreso una guerra di aggressione e questo fatto ha provocato uno stato di guerra con tutte le potenze alleate ed associate e con le altre Nazioni Unite e pertanto essa porta la sua parte di responsabilità nella guerra».
Perciò, anche se non c’è dichiarazione di guerra, il fatto solo che siamo stati provocatori di una guerra di aggressione, ci mette in uno stato di conflitto con l’Egitto.
Quindi, non si può rifiutare all’Egitto il carattere di potenza che chiede riparazione all’Italia.
Ma c’è di più; le riparazioni chieste dall’Egitto non sono le classiche riparazioni che si trovano nell’articolo 69 del Trattato di Pace e che sono riparazioni chieste globalmente da alcuni Paesi come la Russia, la Jugoslavia, la Grecia; alle quali si sono poi aggiunte, a New-York, l’Albania e l’Etiopia. Tali riparazioni determinate sono espresse in cifre precise nello stesso Trattato di Pace.
Qui no; se leggete il testo dell’Accordo italo-egiziano, vedete che si tratta di risarcimenti di danni.
L’Italia – si dice – ha apportato dei danni al territorio egiziano; li deve quindi risarcire.
Ora, che atti di guerra ci siano stati da parte nostra, non si può negare. L’aviazione italo-germanica ha bombardato Alessandria e la zona del canale. È difficile determinare quante delle bombe cadute erano italiane quante tedesche. Ad ogni modo, danni ci sono stati; invasione del territorio c’è stata: siamo penetrati fino ad El Alamein, cioè nel cuore del deserto egiziano.
Ha detto testé l’onorevole Perez: i danni delle nostre truppe si sono limitati ai pochi datteri dell’oasi di Siwa. Può essere, ma comunque il territorio fu invaso.
Per tutti questi fatti, non è possibile mettere in dubbio che l’Egitto possa chiedere risarcimento dei danni subiti.
Del resto questo principio del doveroso risarcimento dei danni noi l’abbiamo accettato; il principio è stato ammesso dal Ministero degli Affari esteri. A tutti i Paesi, cui abbiamo arrecato danni, noi abbiamo dichiarato di essere pronte a risarcire.
Secondo ordine di critiche: si dice: «avete avuto troppa fretta, avete pagato troppo». In una parola: voi avete fatto un cattivo affare, come ha detto testé l’onorevole Martino.
Signori, teniamo conto di un fatto passato sotto silenzio.
L’Egitto, anticipando quella disposizione del famigerato articolo 79 del Trattato di Pace, ha confiscato tutti i beni degli italiani, che si trovano in Egitto.
Questa nostra colonia era tra le più floride colonie italiane, anzi la più florida, che aveva accumulato in mezzo secolo di lavoro molta ricchezza di carattere collettivo (ospedali, scuole, istituti d’ogni genere); ora questa enorme ricchezza è stata messa sotto sequestro, colla minaccia di essere liquidata a vantaggio dell’Erario egiziano.
Non c’era dunque possibilità di rinviare sine die questa questione; bisognava affrontarla, secondo le direttive stabilite unanimemente da tutti i delegati italiani e dal Governo del tempo; cioè occorreva accordarsi con l’Egitto per risarcire con particolari pattuizioni i danni di guerra.
Si dice che il momento non è stato il più felice; posso anche riconoscerlo. Io stesso ebbi dei dubbi se convenisse in quei giorni firmare o attendere qualche settimana, in modo che si discutessero prima le questioni delle riparazioni dei danni all’Assemblea del Lussemburgo.
Ma questa questione del tempo può essere un argomento di critica, ma non infirma il trattato. Si può anche dire, forse col senno di poi, che nell’atmosfera che si è determinata attualmente nel mondo, di fronte all’esempio di alcuni grandi Paesi, come l’America e l’Inghilterra, che hanno rinunziato al sequestro di beni italiani, forse si poteva trovare nel clima nuovo del mondo qualche cosa che potesse temperare le pretese dell’Egitto. Questo può anche darsi. A ogni modo, è una ipotesi, ma non è una realtà.
Quanto alla misura, io non posso dire se è stata eccessiva o è stata perfettamente consona alla entità del danno. Intanto i danni sono difficilmente valutabili. Ripeto quello che ho detto prima: molte bombe cadute sul Canale erano bombe italiane e bombe tedesche. Quale parte spetta al danno arrecato da bombe italiane e quale parte spetta al danno arrecato dalle bombe tedesche? Di più difficile determinare esattamente il valore attuale di questi danni. Ma c’è un fatto particolare: la misura deve essere tratta non dal danno, ma dalla situazione creata dal fatto del sequestro dei beni italiani.
Noi avevamo questo stato di fatto: l’Egitto aveva confiscato una quantità di beni dei cittadini italiani. Ora bisognava valutare quale era l’entità di questa massa di ricchezza, sequestrata e questa entità è parsa ai nostri esperti veramente notevole. Si è parlato di 100 milioni di lire egiziane, alcuni hanno valutato anche a cifre superiori la ricchezza italiana nell’Egitto. E allora è su questa entità di ricchezza che doveva essere commisurato il risarcimento. Si è cominciata la trattativa e non per opera della Delegazione italiana, ma per iniziativa del Ministero degli esteri prima della conferenza di Parigi. Nelle trattative svoltesi a Londra si era cominciato a stabilire quale era la pretesa dell’Egitto e si era constatato con stupore che l’Egitto richiedeva un centinaio di milioni di sterline. Solo più tardi, quando siamo arrivati a Parigi, l’Egitto ha chiesto 10 milioni di lire egiziane per il risarcimento dei danni patiti. Cosicché, quando il nostro rappresentante poté ottenere la riduzione a 4 milioni di lire egiziane, parve già un successo. Ad ogni modo, da Parigi si interpellò il Comitato economico che risiedeva a Roma e si ebbe un telegramma di adesione a questa cifra di 4 milioni.
Cosicché parve, in quel momento, che l’accordo fosse il migliore degli affari possibili.
Io, ripeto, non ho qui gli elementi per dire: la cifra comunque è eccessiva e poteva essere ridotta. La delegazione italiana ha seguito il parere degli esperti e non poteva fare diversamente.
Terzo punto: nell’accordo di Parigi c’erano alcune clausole non felici. Lo riconosco.
Nel nostro accordo di Parigi c’è l’autorizzazione al Governo egiziano di prelevare un milione di lire egiziane dai fondi liquidi sequestrati per un primo indennizzo al Governo egiziano.
Ora, questo ha suscitato grandi critiche, perché si è detto localmente: ma i denari depositati nelle Banche rappresentano, sì, anche la ricchezza dei maggiori, ma rappresentano pure il piccolo risparmio, la ricchezza della povera gente.
Ora, con questa disposizione è la povera gente che viene a pagare, mentre coloro che hanno proprietà immobiliari sono esonerati dal carico. La critica è parsa giustissima. Ed è per questo che il Ministero degli esteri, d’accordo con noi, ha visto l’incongruenza di questa clausola ed ha operato in maniera che nel presente disegno di legge, e precisamente con l’articolo 2, si metta a carico dello Stato questo milione che non si preleva più dai fondi sequestrati.
Ma voi direte, noi spendiamo una formidabile somma, naturalmente onerosissima, specialmente in questi tempi di gravi angustie finanziarie. In realtà, signori, è la prima volta che ci troviamo a pagare riparazioni, e quindi comprendo tutta la riluttanza, e la perplessità dell’Assemblea. Ma teniamo conto di questo: questi beni confiscati dalle Nazioni che si ritengono danneggiate dall’Italia, qualora noi li lasciassimo alla Nazione che li ha confiscati, non ci esonererebbero da un carico formidabile.
Leggiamo l’articolo 79 del trattato di pace, n. 3. Esso dice testualmente che il Governo italiano si impegna ad indennizzare ai cittadini italiani i beni che saranno stati confiscati in virtù del presente articolo. Quindi, se noi non ratifichiamo questo trattato e l’Egitto prende tutti i beni degli italiani, cioè circa cento milioni di lire egiziane, lo Stato italiano sarà impegnato di fronte ai cittadini italiani danneggiati a rimborsare loro il valore dei beni confiscati. Quindi vedete che l’affare non è cattivo, se con quattro milioni evitiamo la minaccia di pagarne cento.
Ed allora io concludo dicendo: questo trattato, con tutte le sue ombre e con tutte le sue penombre, va ratificato, perché corrisponde anche a due grandi interessi nazionali. Il primo e più grande interesse è quello di salvare la collettività italiana in Egitto. Badate, abbiamo una colonia floridissima fatta dal lavoro di mezzo secolo dei nostri italiani i quali hanno portato laggiù il loro lavoro, la loro tenacia, la loro cultura, hanno fatto sentire la voce italiana anche negli Atenei ed hanno creato istituti che sono esempio di civiltà in quel Paese. Orbene, questa lunga opera non deve essere distrutta. Noi la distruggeremmo se questo trattato non fosse ratificato e si determinasse un urto con lo Stato egiziano. Ma c’è di più. Badate che questo Accordo italo-egiziano può essere il fondamento della nuova politica italiana nel Mediterraneo. Ormai il vecchio colonialismo è finito, è morto ed è ben morto. Non si entra in questi paesi, non si entra nel Mediterraneo con le bandiere e con la concezione imperialista di un tempo. Bisogna mettersi d’accordo con la popolazione indigena, cioè con l’elemento arabo che ora si riaffaccia alla vita e alla storia. Bisogna creare in collaborazione con questo elemento la nuova civiltà del Mediterraneo. Ora, signori, non si entra nel mondo arabo se non attraverso l’Egitto. Tutte le vie che arrivano nel mondo arabo passano per l’Egitto e l’alleanza e l’amicizia con l’Egitto è il passaporto se vogliamo creare questa feconda collaborazione di popoli sulle rive africane.
È con questi sentimenti che io ho firmato il trattato con l’Egitto ed è con questo animo che chiedo ai colleghi di volerlo ratificare. (Applausi).
PRESIDENTE. Non essendovi altri oratori iscritti, dichiaro chiusa la discussione generale.
Ha facoltà di parlare l’onorevole Relatore.
PERSICO, Relatore. Dopo le eloquenti parole del Presidente della Commissione, nonché firmatario del trattato a Parigi, poco avrei da dire. Però credo doveroso replicare all’amico, onorevole Russo Perez, su quello che è stato il nucleo delle sue argomentazioni. Evidentemente egli è caduto in un grosso equivoco, perché ha confuso i danni che l’Egitto richiede all’Italia per le operazioni di guerra delle nostre truppe e dei nostri aviatori sul territorio egiziano, con il sequestro dei beni italiani. Sono due cose assolutamente diverse. I danni sono la conseguenza delle operazioni di guerra. Si dice: ci sono stati, o non ci sono stati? Il dire che non ci sono stati è assurdo. Si potrà discutere della misura in cui ci sono stati, e su questo si è svolta una complessa trattativa durata lunghi mesi a Londra e a Parigi per arrivare a stabilirne la misura. La richiesta iniziale era enorme. Poi si è scesi ad una cifra che il Governo italiano, nei suoi organi responsabili, ha ritenuto accettabile. Io ho qui un documento – e credo di non violare nessun segreto – cioè un telegramma che fu spedito da Roma a Parigi il 2 settembre, otto giorni prima della firma nel quale si dice: «A patto che l’Egitto rinunzi assolutamente all’applicazione dell’articolo 69 (cioè dell’attuale articolo 79), la Commissione è favorevole alle trattative».
Così si addivenne alle trattative amichevoli, cioè a vere e proprie trattative di pace, perché questo in fondo è il primo trattato di pace che stipuliamo direttamente con una Nazione con cui siamo stati in guerra, se non di diritto, certo di fatto. La domanda egiziana fu sottoposta all’onorevole Paratore, nome dinanzi al quale tutti ci inchiniamo per la competenza specifica in materia finanziaria, ed il suo parere fu che conveniva iniziare le trattative a Parigi tenendo presente: a) la possibilità di poter addivenire alla riduzione della richiesta di 10 milioni di lire egiziane, con la stipulazione di un compromesso immediato; b) l’opportunità di dare immediatamente notizia dell’accordo (qui mi rivolgo sopra tutto all’onorevole Pajetta) raggiunto, per influenzare insieme il problema delle riparazioni di guerra.
Il Governo italiano ritenne utile tutto questo, che è in fondo una questione di metodo, onorevole Pajetta. Ci può essere stato errore tecnico o di diplomazia, io non lo so, perché non sono uno specialista, ma lo scopo quale era? Lo scopo era quello di influenzare in tal modo favorevolmente il problema delle riparazioni. C’è un caso precedente in materia, ed è costituito dall’accordo che l’onorevole Presidente del Consiglio dei Ministri e Ministro degli esteri dell’epoca, onorevole De Gasperi, ritenne opportuno stipulare direttamente col Governo austriaco per dirimere ogni questione territoriale e per poter concludere un accordo pacifico con l’Austria.
PAJETTA GIANCARLO. Anche quello fu un cattivo affare!
PERSICO, Relatore. Può essere che non sia stato un buon affare, ma il punto sul quale io insisto è che degno di rilievo fu il concetto cui ci si volle ispirare allora, allo scopo di influire in senso benevolo sul problema delle riparazioni dei danni di guerra. In sostanza, noi siamo nel campo della teoria dei pacta sunt servanda. Ha firmato Bonomi con Ghali Pacha dopo un regolare scambio di accordi…
RUSSO PEREZ. Ma noi non dobbiamo dire questo. Dirlo è come ammettere che, per il fatto che De Gasperi ha firmato il Trattato di pace, noi vi dobbiamo tener fede!
PERSICO, Relatore. Ma quello è un Trattato di pace e questo è un accordo a sfondo economico. Non siamo quindi vincolati rispetto alla somma pattuita, il che in definitiva serve per ristabilire gli amichevoli rapporti tra i due Paesi, come dice Ghali Pacha, in uno spirito di collaborazione, allo scopo di ristabilire quei legami di amicizia che una volta univano l’Italia all’Egitto. Lo stesso onorevole Bonomi riconosce questa che è la vera sostanza ed il fondo del Trattato, quando dice nella sua lettera del 10 settembre: «II Governo italiano apprezza l’attitudine amichevole dell’Egitto verso l’Italia, e considera come un fine essenziale della sua politica il ristabilimento delle relazioni tradizionali d’amicizia italo-egiziane». Per questo io ripeto che in fondo a tutto questo c’è una cosa assai importante, cioè ristabilire al più presto i nostri rapporti cordiali con l’Egitto e con tutto il Medio-Oriente. Ricordate che l’Egitto presiede la Lega Araba, vale a dire sette grandi Nazioni che si estendono in tutto l’Oriente arabo, fino al Golfo Persico. La lingua italiana è ancora parlata in Egitto (Commenti), la cultura italiana è ancora ritenuta la migliore delle culture mediterranee, le scuole italiane sono frequentate dai giovani dalle migliori famiglie egiziane. Perché rompere tutti questi vincoli che potranno riuscire assai utili in un prossimo avvenire?
I punti di critica sono stati tre: 1°) quello del momento, su cui non posso entrare, perché non posso discutere se il momento in cui fu firmato l’accordo fu scelto bene o male; 2°) la gravità degli oneri. Su questa gravità non abbiamo elementi per giudicare. Siamo arrivati ad una cifra inferiore di gran lunga a quella richiesta; 3°) la rapidità con cui le trattative sono state svolte. Rapidità che attraverso i documenti, non mi sembra così grave come si è detto, perché al telegramma del 2 succede un telegramma del 7, in cui l’Ambasciatore Lupi di Soragna da Parigi risponde: «La questione delle riparazioni dei beni italiani è stata nuovamente discussa da Cerulli, con la delegazione egiziana. È stata proposta un’ulteriore riduzione delle richieste egiziane, da dieci a sei milioni, ivi inclusi i due milioni spesi per i nostri connazionali. Il testo dell’accordo proposto è stato poi preso in esame». Un ulteriore telegramma del 9, antecedente alla firma, diceva: «Questa sera è stato concluso accordo italo-egiziano per riparazioni e beni italiani in Egitto. Si richiede autorizzazione onorevole Bonomi per poter firmare».
Anche questa fretta non è stata eccessiva, perché il Trattato è stato valutato, soppesato, esaminato sotto i suoi profili, economici, giuridici e morali. È stato un bruto affare, come dice l’orrevole Martino? È possibile che si potesse ottenere anche di più; ma in quel momento urgeva arrivare ad una soluzione, e dare la sensazione ad altri Stati che l’Italia era in grado di trattare direttamente come Stato libero, sovrano e indipendente. E questo scopo fu pienamente raggiunto. Che cosa si vorrebbe oggi? Negare la ratifica? Non mi pare passibile: del resto lo stesso onorevole Pajetta non ha proposto questo. Egli e i suoi amici si asterranno, ma non propongono in sostanza la reiezione del Trattato, perché il Trattato firmato il 10 settembre sarebbe dovuto entrare in vigore subito ed invece sono passati già otto mesi inutilmente. Attendono i nostri poveri operai, commercianti, piccoli artigiani, i quali hanno visto sequestrate le loro piccole aziende, che nell’intervallo sono sparite perché il milione sequestrato è ridotto oggi a duecentomila lire, e se tardiamo sarà ridotto ancora fino a zero. Senza contare che da parte del Governo egiziano si è detto, non ufficialmente, ma officiosamente, che per gli altri tre milioni e mezzo che dovranno essere pagati in seguito e per i quali c’è un lungo termine di cinque anni, si potranno aprire nuove trattative che sono previste nell’accordo, e che saranno accolte con spirito conciliante, per migliorare le condizioni ora stabilite. Questo il Governo egiziano, non l’ha detto in linea ufficiale, ma ci sono interviste autorevoli pubblicate sui giornali del Cairo, in cui si dice che, entrato in vigore il Trattato, pagato il primo milione, e levato il sequestro a questi piccoli commercianti, operai e professionisti, che si vedono rovinati perché non possono fare più nulla, che da sette anni hanno i loro beni sotto sequestro, si potrà poi studiare la questione dei tre milioni e mezzo e trovare una soluzione più conveniente.
Io credo che l’Assemblea Costituente farà opera saggia approvando il Trattato e chiudendo una controversia, che si agita da troppo tempo, e che ha fatto del danno al nostro buon nome nel Medio Oriente. Se l’Assemblea approverà il Trattato, potrà dare la precisa sensazione che noi vogliamo veramente ristabilire rapporti amichevoli con le nazioni del Medio Oriente e con gli Stati arabi, rapporti che sono necessari alla nostra espansione commerciale, economica e culturale in tutta la zona mediterranea. Quindi, io confido che, per tutte queste ragioni, l’Assemblea vorrà dare il suo voto favorevole al Trattato, che segnerà un primo notevole passo verso il necessario ritorno dell’Italia nella sfera dei rapporti internazionali. (Applausi).
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Ministro degli affari esteri.
SFORZA. Ministro degli affari esteri. Gli oratori che mi hanno preceduto hanno sviscerato ogni lato di questo problema. Tutto è stato detto e sarebbe inutile che io perdessi del tempo a ripetere all’Assemblea quanto ha già udito. Dirò solo per paradossale che sembri, e convinto come sono che il Trattato deve essere approvato, che sono quasi più grato agli oratori che hanno espresso vivaci critiche, come l’onorevole Russo Perez e l’onorevole Pajetta, perché, pur sentendo – lo confesso – il valore e la portata di certe loro affermazioni, essi mi hanno ancora più convinto che il nostro interesse, malgrado tutto, è di approvare il trattato.
Voi sapete che, come Ministro degli esteri che ha semplicemente ereditato questo strumento, io ho personalmente la più grande obiettività. Voglio dirvi solo le ragioni per me essenzialissime, che vi dovrebbero decidere ad approvare il Trattato. Esse sono due: una relativamente piccola ed una di grande importanza. La relativamente piccola è questa: che una inchiesta fatta dal Ministero degli esteri, anche attraverso organi estranei ai nostri agenti diplomatici e consolari, mi ha dato la prova che la unanimità degli italiani residenti in Egitto auspica, aspetta, implora il voto di questo Trattato, perché «noi dobbiamo ricominciare – dicono essi – a lavorare, ad affermarci, ad arricchirci, a prosperare». L’onorevole Russo Perez ha detto che è pericoloso seguire sempre la formula «cosa fatta capo ha»; ma in politica estera, più che in ogni altro campo, vi è una continuità costante fra gli errori e le loro correzioni, fra le attività e le perdite; la politica estera è una catena che noi non possiamo sciogliere. Ed è per questo che la politica estera è così complessa e difficile; in politica estera gli errori che commettiamo li teniamo incatenati al piede per lunghi anni; e tutti noi oggi lo apprendiamo con lacrime di sangue. Ovunque, del resto, gli italiani, sia nell’America latina, sia nel Sud Africa, sia in Cina, sia nei paesi dell’Oriente malesiano, ovunque ci gridano: pace, pace, pace. E il loro grido significa: «Noi abbiamo la forza di ristabilire tutto ciò che è stato guastato, noi ci sentiamo il coraggio di ricominciare ma purché si cominci da pari a pari». È per questo che ogni trattato, buono o cattivo che sia (è voi sapete a quale trattato io penso), è aspettato dagli italiani con ansietà in un mondo che essi son pronti a affrontare di nuovo colla loro pertinacia; si direbbe quasi che gli italiani, eredi di una storia tanto gloriosa quanto tormentosa, tanto piena di alti e bassi, si sentano quasi più in casa loro fra i disastri che non nella prosperità, tanto questi italiani sanno che sono pronti a ricominciare; ma purché, si dia loro la possibilità di ricominciare e lavorare. Ed è perciò, che sarebbe danneggiare profondamente la collettività italiana di Egitto, che è una delle più ricche e prospere di questo nostro Mediterraneo, il tardare la ratifica di questo Trattato.
Ma c’è anche una ragione ancor più grave, vi ho detto. Ad essa hanno accennato l’onorevole Bonomi e altri oratori. La ragione è questa: noi dobbiamo ricominciare una politica mediterranea ed africana completamente nuova; noi dobbiamo renderci conto che il pensare con formule del passato, perfino il dire fra virgolette la parola «colonie», è forse spiegabile da un punto di vista sentimentale, ma è nocivo per i nostri interessi futuri.
Noi dobbiamo certo accentuare di più in più il nostro bisogno e il nostro diritto di tutelare i nostri interessi emigratori, industriali, agricoli, in Africa. Ma appunto per far questo noi dobbiamo renderci conto della realtà: e la realtà è che questi anni hanno significato un secolo; noi siamo di fronte ad un fatto formidabile che è vano negare: il risveglio del mondo arabo.
Il risveglio del mondo arabo è una fatalità, come era nel 1821, nel 1831, nel 1848 una fatalità evidente per tutti, fuori che per i ciechi, il risveglio per la libertà e l’unità d’Italia. E poiché tale è la realtà, poiché è soltanto tenendoci mano per mano noi italiani e gli arabi che potremo creare una nuova politica di influenze e di sviluppo italiano in Africa – una nuova politica completamente diversa dal passato – sarebbe follia il compromettere prospettive che noi dobbiamo sperare grandiose e che io personalmente ritengo ricche di un grande avvenire per il nostro Paese. Sarebbe un gravissimo errore che noi incominciassimo proprio oggi a ferire – a ragione o no, perché la nostra ragione non è mai sentita dall’avversario – a ferire lo Stato che è l’anello, che è il centro della Lega araba. E questo Stato è l’Egitto.
Quelli fra i colleghi che erano presenti all’ultima seduta della Commissione dei Trattati ricorderanno come vi sia stata un’adesione quasi generale, quando, osservai che occorreva formulare la domanda di entrare all’O.N.U., ora che tutti gli Stati dell’America, e con particolare fervore gli Stati dell’America Latina, erano favorevoli a noi, e che fra questi Stati e gli Stati arabi vi era un segreto ma strettissimo contatto, il che ci permetteva di contare su una maggioranza notevole nell’Assemblea dell’O.N.U. favorevole al nostro ingresso nell’Assemblea stessa.
Non si può volere e disvolere nello stesso momento; il Governo, esprimendo tutto il suo pensiero per mia bocca alla Commissione dei Trattati, volle che il Parlamento, traverso di essa, fosse informato della situazione che era davanti a noi, pure asserendo che la responsabilità delle decisioni spettava a noi Governo, e che noi non desideriamo affatto nasconderci o garantirci dietro un voto della Commissione dei Trattati.
Ma poiché i nostri autorevoli colleghi della Commissione dei Trattati sentirono l’opportunità di accentuare questa politica di ingresso nell’O.N.U., che dipende anche dagli Stati arabi, e poiché tutto si tiene in politica, noi non possiamo negare oggi il nostro voto a questo Trattato.
Può darsi che ci si possa trovare perplessi di fronte alle ragioni giuridiche sollevate dall’onorevole Pajetta, o dinanzi a certi dubbi sul passato espressi dall’onorevole Cianca e da altri oratori. Ciò potrebbe spiegare delle esitazioni: ma qui si tratta di guardare verso l’avvenire, di tenere in mano tutte le nostre carte per creare quel risorgimento dell’Italia nel Mediterraneo che, se noi sapremo fare, potrà costituire il primo passo per la risurrezione del nostro prestigio nel mondo intero.
Noi non possiamo dunque non votare questo Trattato; esso è forse una delle chiavi verso una nuova affermazione solenne dell’Italia nel Mediterraneo. (Applausi).
PRESIDENTE. Passiamo all’esame degli articoli.
Art. 1.
Piena ed intera esecuzione è data all’Accordo concluso a Parigi il 10 settembre 1946 tra il Governo italiano ed il Governo egiziano circa il risarcimento dei danni subiti dall’Egitto per effetto delle operazioni militari svoltesi nel suo territorio ed il dissequestro dei beni italiani in Egitto.
RUSSO PEREZ. Chiedo di parlare?
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RUSSO PEREZ. Onorevoli scolleghi, di proposito non ho risposto alle critiche che mi sono state mosse, per non portare la particolare sensibilità del fatto personale in una discussione di così alto interesse nazionale e internazionale. Il mio voto contrario significa questo mio preciso pensiero: i rapporti amichevoli con l’Egitto devono essere, e subito, ristabiliti; la quistione deve avere una soluzione che sia di pieno gradimento del Governo egiziano, ma, negata la ratifica e riprese subito le trattative, una parte dell’onere derivante dall’accordo – possibilmente da maggiore – deve essere sopportata dalla collettività degli italiani abbienti in Egitto.
PRESIDENTE. Pongo in votazione l’articolo 1 testé letto.
(È approvato).
Passiamo all’articolo 2:
«L’onere del primo versamento di un milione di lire egiziane, previsto dagli scambi di note effettuati a Parigi in occasione della firma dell’accordo è assunto direttamente dallo Stato».
CORBINO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Io credo che, non come modificazione del contenuto dell’articolo 2, ma come raccomandazione al Governo per il seguito dei pagamenti che dovranno essere effettuati fino all’ammontare indicato nell’accordo, l’Assemblea dovrebbe esprimere la speranza che questo onere – non indifferente – non debba ricadere interamente sullo Stato, e che passi adeguati siano compiuti, con la calma che sarà suggerita dalle circostanze, al fine di chiamare a concorso quella parte più ricca della colonia dell’Egitto, che altrimenti verrebbe ad uscire dalla guerra completamente indenne.
Ripeto, non intendo che sia considerato questa mia proposta come un formale emendamento all’articolo 2, ma come una raccomandazione da fare al Governo.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SFORZA, Ministro degli affari esteri. Desidero assicurare l’onorevole Corbino che a me personalmente, e giudicandola sul momento, la sua raccomandazione sembra di grande interesse, e la seguiremo con la più profonda attenzione.
GRONCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Dichiaro di associarmi, anche a nome del nostro Gruppo, alla raccomandazione dell’onorevole Corbino.
PRESIDENTE. Metto in votazione l’articolo 2, testé letto.
(È approvato).
Pongo in votazione l’articolo 3:
«Il Ministro per le finanze e per il tesoro è autorizzato ad iscrivere in bilancio la spesa occorrente per l’esecuzione dell’accordo».
(È approvato).
Pongo in votazione l’articolo 4:
«La presente legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale».
(È approvato).
Se non vi sono opposizioni, questo disegno di legge sarà votato a scrutinio segreto nella seduta pomeridiana.
(Così rimane stabilito).
Discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945. (8)
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca la discussione del disegno di legge: Approvazione dell’Accordo internazionale per la costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, concluso a Quebec il 16 ottobre 1945 (8).
Dichiaro aperta la discussione generale.
È iscritto a parlare l’onorevole Montini. Ne ha facoltà.
MONTINI. La costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – la F.A.O. – è un ulteriore passo verso l’articolazione della vita internazionale la quale è rappresentata nel suo complesso dall’O.N.U., sebbene l’O.N.U. sia nel tempo venuta dopo la F.A.O., giacché questa venne istituita a Quebec fino dal 1945.
Noi siamo di massima favorevoli a queste varie organizzazioni che vanno sorgendo, come siamo in principio favorevoli a tutta l’organizzazione internazionale della pace, che si compone appunto di vari elementi di collaborazione concreta fra le Nazioni.
Per parte nostra, il Gruppo voterà quindi a favore di questo disegno di legge e motivi specifici verranno ulteriormente addotti dal collega del mio Gruppo onorevole Rivera.
A me interessa specialmente un aspetto di carattere sociale e connesso con la situazione particolarmente grave della vita alimentare del nostro Paese. Lo stato attuale dei bisogni alimentari è ben noto a chiunque e perciò mi esimo dall’illustrarlo. Ricordo solamente come a questi bisogni e alla necessita di organizzare l’alimentazione nel campo internazionale fu provveduto, nell’immediato dopoguerra, dal Combined Food Board, un ufficio che aveva il compito di amministrare le risorse alimentari per assegnarle alle Nazioni, per la parte che potessero acquistare, o mandarle alle altre attraverso, la U.N.R.R.A. che ha assistito alimentarmente anche il nostro Paese.
È succeduta a questa Organizzazione un’altra, nel momento nel quale si supponeva che organizzazioni per questi bisogni venissero a cedere ormai alla organizzazione naturale dello scambio dei prodotti anche alimentari. Si è infatti avvertito che, col cessar della guerra, non ritornavano invero automaticamente le condizioni normali; che la crisi era sempre pressante e che lo era a tal segno che non si poteva, per certe zone, avere alimenti neppure per quelle pochissime calorie che si potrebbero chiamare del regime di fame. Per cui in questo momento funziona tutt’ora, dopo due anni dalla guerra, una organizzazione di emergenza – International Emergency Food Council – che venne, costituita dopo il Combined Food Board per regolare e disciplinare la distribuzione dei generi alimentari e particolarmente dei cereali nei vari Paesi.
In confronto con questi organismi, l’Italia – che ha dovuto avere come avvocato naturale l’UNRRA, poiché essa ne era la principale fornitrice assistenziale – ha cercato di farsi determinare le assegnazioni (allocations) necessarie specialmente per quanto riguarda i cereali, campo nel quale sono note le nostre difficoltà, perché l’Italia vive, in quanto a cereali, sul 61 per cento di essi nella combinazione della sua alimentazione, mentre le altre Nazioni arrivano al massimo al 31 per cento. Questa che può sembrare una situazione di privilegio nel campo dei cereali va messa in relazione con la povertà della nostra alimentazione, essendo presso di noi deficienti gli altri coefficienti nutritivi: da noi si mangia prevalentemente pane, solo pane.
Comunque, per venire al nostro argomento nei confronti del disegno di legge che ci è presentato, notiamo che la FAO viene a costituire un organo a lato, e quasi staccato da questa necessità impellente, sociale, mondiale di intervenire nei confronti dei bisogni e della loro indispensabile regolamentazione sia in tema agricolo sia in tema più strettamente alimentare. La FAO si limita infatti ad uno scopo puramente informativo e di studio. Dice l’articolo 1 dello Statuto: «L’Organizzazione raccoglierà, analizzerà, interpreterà e diffonderà notizie relative alla nutrizione, ai generi alimentari ed alla agricoltura. E tutt’al più promuoverà o raccomanderà un’azione per queste ricerche o per un’assistenza tecnica in proposito. Si tratta pertanto sempre di ricerche scientifiche o indicazioni teoriche per l’adozione di determinate linee di condotta, ma la FAO si astiene per il momento da contatti diretti, immediati con i centri e le organizzazioni che provvedono alla vera necessità che è quella di ottenere gli alimenti.
Essendo di massima favorevoli a questo Accordo in esame, noi facciamo voti perché si entri nel momento attuale in una via di realizzazione completa e non ci si fermi soltanto alle costruzioni accademiche. Noi intendiamo che, prendendo l’argomento dalle necessità impellenti, si trovi la maniera di raggiungere una forma di intervento e di attività maggiormente connessa con i bisogni immediati delle popolazioni. È innegabile che la FAO dovrebbe e potrebbe collegarsi strettamente con gli Organismi di distribuzione e di assegnazione, anche se questa sua finzione dovesse avere un carattere semplicemente transeunte.
Per parte nostra desidereremmo fare anche una seconda osservazione, sebbene estranea all’immediatezza del provvedimento, ma che sottolinea la maggiore necessità di organizzazione operante anziché di organizzazione semplicemente di studio. È osservazione di carattere nazionale quella che, mentre si è voluto sopprimere l’Istituto Internazionale di Agricoltura, si è provveduto alla costituzione della FAO, la quale non ha in fondo altri e diversi scopi e quindi non risponde per sé a particolari bisogni, nati, o connessi con l’attuale guerra. Non si comprende perché si debba sopprimere un Istituto Internazionale di Agricoltura che aveva le stesse funzioni ed inoltre una esperienza ed una attrezzatura ben solide e universalmente apprezzate. Solo se la FAO, riuscirà a potenziare il proprio intervento ed un’utile disciplina nella pratica questione della alimentazione e della produzione potrà giustificare questo suo nuovo ingresso nella vita internazionale.
Perciò mentre constatiamo che le origini della FAO risalgono a quando era necessario provvedere (anche contro di noi allora in guerra o forzatamente assenti) alla Organizzazione internazionale dell’alimentazione, oggi noi auspichiamo due cose:
l°) che la FAO si inserisca totalmente nel campo ove si regolano i bisogni attuali, specialmente del nostro Paese, in rapporto alla scarsità dei mezzi alimentari del mondo;
2°) che il nostro (dico nostro per sede e tradizioni) Istituto Internazionale di Agricoltura divenga per lo meno una sezione regionale della FAO come sede del centro europeo di questa Organizzazione.
In questo senso riteniamo che aderendo a questo Organismo internazionale si dia luogo non già ad una attività particolaristica e ristretta, ma ad una più ampia sfera di collaborazione; e che il sacrificio dell’Istituto che aveva sede in Italia sia giustificato da un più ampio respiro della vita internazionale. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rivera. Ne ha facoltà.
RIVERA. Una gentile menzione a mio riguardo è stata fatta dal relatore di questa legge a proposito della dissoluzione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, dissoluzione che ha toccato vivamente il sentimento degli italiani, come ha addolorato buona parte di quegli stranieri che avevano avuto occasione di conoscere e di apprezzare questa istituzione internazionale. Essendo stato nominato delegato dell’Italia presso l’Istituto Internazionale di Agricoltura di Roma nel 1945, mi credo in dovere di venire ad offrire all’Assemblea qualche dettaglio di questa pagina dolorosa del nostro dopoguerra, ricordando quanto il Ministero degli esteri ed i delegati dell’Italia presso l’istituto e presso la FAO hanno fatto, in Italia ed all’estero, perché qualche cosa di questo Istituto, di questa opera, ideata da un americano ed applicata in Italia, rimanga ancora ad operare per il bene dell’umanità. David Lubin, 40 anni fa circa, bussò a parecchie porte perché la sua idea di pace sociale tra gli agricoltori avesse una realizzazione. Tutte rimasero chiuse: si aprirono solo le porte dell’Italia, di un popolo povero, ma nel quale il sentimento di solidarietà internazionale non si è mai spento e non sta per spegnersi.
L’Italia offrì subito a codesto apostolo e pellegrino di solidarietà umana la più larga ospitalità che poté, lo assisté passo passo nella organizzazione, che prese a sé e che poi affidò alle Nazioni firmatarie della Convenzione internazionale del 7 giugno 1905. Fu con questa creato quell’Istituto, il quale rappresenta il primo esempio di una organizzazione di diritto pubblico fra gli Stati per lo studio di problemi tecnici e per raggiungere scopi economici comuni.
È questo il primo esempio di organizzazione di un Ente internazionale dotato di un potere autonomo di iniziativa. Questo carattere giuridico consisteva essenzialmente nella facoltà di convocare Conferenze diplomatiche, che concludevano in Convenzioni internazionali, riferentisi a problemi tangibili, economici ed agricoli; ed è oggi veramente interessante rilevare per quali vie l’Istituto Internazionale di Agricoltura ha perseguito tali nobilissimi scopi, e quanto poco possano differire da queste, già felicemente sperimentate, quelle vie che si propone di battere la FAO, organizzazione internazionale nata dalla guerra per cercare di lenire danni di guerra e sopratutto di meglio organizzare l’economia agricola mondiale.
L’Istituto Internazionale di Agricoltura in questo quarantennio ha mirabilmente adempiuto ai primitivi propositi, con queste attività: studiare e presentare all’approvazione dei vari Governi le misure miranti all’interesse comune degli agricoltori e ad elevare le loro condizioni; raccogliere e pubblicare più rapidamente possibile le notizie relative alla produzione animale e vegetale, al prezzo, al commercio della produzione agricola ed anche alle malattie e ai nemici dei vegetali; studiare in monografie speciali, in ricerche originali, tutti gli aspetti del problema agricolo, utilizzando la documentazione raccolta su queste questioni; seguire ed illustrare il movimento tecnico, economico, sociale e legislativo dell’agricoltura. Questi compiti sono stati esplicati in una maniera che è stata dichiarata magnifica anche dall’ultimo Presidente dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, di nazionalità americana. Sicché ancor oggi potremmo domandarci perché uccidere questo Istituto, prima almeno che non sia nato il suo successore.
Questa Istituzione ha contribuito egregiamente per 40 anni ad organizzare il mondo economico, coi suoi dati numerosi, coi suoi studi e servirebbe egregiamente anche oggi ad organizzare la pace.
Io credo che, se non avessimo avuto a nostra disposizione i dati ed i risultati quarantennali dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, noi oggi saremmo ciechi per più d’un fatto economico, specialmente per quanto riguarda la produzione agricola mondiale.
Al momento che gli operai, nella Villa Borghese, qui a Roma, stavano per iniziare lo scavo per le fondamenta di quel magnifico palazzo, che poi l’Italia ha fabbricato a sue spese e posto a disposizione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura, David Lubin mandò loro un regalo in denaro, con l’ammonimento che essi non si apprestavano ad un’opera profana, ma invece ad un lavoro religioso, perché fatto per la giustizia. Essi infatti gettavano le basi d’una collaborazione tra tutti gli uomini di buona volontà del mondo e tra le nazioni, perché fosse sollevata l’agricoltura, per il bene degli agricoltori e dei consumatori.
Nel momento in cui si sacrificavano i pini secolari di Villa Borghese per la creazione d’una fondazione, che rimarrà documento perenne e ponderoso, nelle sue magnifiche pubblicazioni di uno slancio di solidarietà umana, dall’ideatore dell’opera fu data di essa una suggestiva definizione.
Con lo stesso spirito generoso fu successivamente da noi edificato un secondo palazzo, in vicinanza del primo, per ospitare la grandiosa biblioteca, la più bella e la più ricca del mondo intiero, specializzata su questioni agricole.
Eppure oggi con tristezza noi dobbiamo assistere alla inconsiderata chiusura dei battenti di questo Istituto, battenti che però l’Italia ha chiesto che immediatamente fossero riaperti, offrendo questi palazzi, perché essi continuassero a servire un’idea poco dissimile attraverso la F.A.O.
Onorevoli colleghi, non è stata senza travaglio la conclusione alla quale siamo oggi arrivati. L’Istituto, durante la guerra, è passato attraverso periodi penosi, quando una parte dei funzionari si è dovuta allontanare e la parte che è rimasta ha seguitato a lavorare tenacemente, accanitamente, pur con i pochi dati che in un certo momento venivano da fuori. Un Consiglio interinale presiedeva alle sorti dell’Istituto, durante le due guerre coi tedeschi e contro i tedeschi. Questo Consiglio, composto di personalità argentine, spagnole, rumene, dei Paesi Bassi e dell’Italia, ha tirato avanti faticosamente per tutti quegli anni questo carro attraverso crisi economiche gravissime, essendo venuti a cessare i contributi degli Stati, i cui delegati si erano allontanati. Ed anche in questa circostanza l’Italia si è ricordata di essere la depositaria della Convenzione Internazionale ed ha sovvenuto l’Istituto, per quel che occorreva, dando quattro milioni di lire, che a quell’epoca rappresentavano una somma discreta, in aggiunta al contributo ordinano.
Ma finita la guerra, non prima del novembre 1945, abbiamo avuto l’amarezza di sapere che, nel frattempo, l’Istituto Internazionale di Agricoltura era stato accusato, attraverso un memoriate distribuito ampiamente, nel giugno 1944, agli organi responsabili delle Nazioni Unite, nel quale era fatto carico a funzionari dell’Istituto di atteggiamenti politici contro le Nazioni Unite.
Noi abbiamo appreso per circostanze fortuite questa notizia, quando oramai erano avvenuti il primo incontro di Hot Springs e la Conferenza di Quebec ed era quindi già deliberata la «dissoluzione» dell’Istituto Internazionale di Agricoltura.
PRESIDENTE. Mi scusi. Noi stiamo discutendo un disegno di legge che non ha niente a che vedere con questo.
RIVERA. Io credo che l’Assemblea desideri sapere quello che è avvenuto in questo tempo dell’Istituto Internazionale, di cui votiamo la soppressione, essendo questo un argomento importante, oltreché sentimentale e doloroso! Un Istituto quarantennale glorioso si spegne oggi per nostra deliberazione: se ciò non interessa al Presidente o ai colleghi, io posso rinunziare alla parola.
PRESIDENTE. No, io dicevo che si tratta di approvare questo disegno di legge.
RIVERA. Ma vedo che l’Assemblea si interessa invece a questa vicenda. Quando si è avuto notizia di questo memoriate, il Consiglio interinale ha subito risposto con una documentazione, che ha demolito tutte le asserzioni del memoriale, che sono risultate effettivamente inesatte, infondate e false; esse del resto erano state raccolte attraverso «si dice» e lettere private di funzionari non commendevoli, senza che l’Istituto venisse minimamente interpellato nei suoi dirigenti responsabili.
Io ho citato questo fatto non per dire che anche tale giudizio si è fatto in ignoranza dell’imputato, come qualche altro grave giudizio si è fatto in questo triste dopoguerra, anche da noi, all’oscuro degli imputati, ma per dire che successivamente è stata riconosciuta la grande correttezza, anche politica, dei dirigenti e dei funzionari dell’Istituto nei periodi di guerra e di occupazione tedesca, anche cioè anteriormente al mandato di chi vi parla.
Dimodoché, se questa decisione della soppressione, della dissoluzione dell’Istituto, è stata presa in considerazione di questo memoriale Hartmann, questa decisione è bacata all’inizio da informazioni che sono risultate errate.
Ma su questo oramai noi dobbiamo scivolare, perché è storia, ma è storia che va precisata.
Quando gli Alleati si sono presentati a Roma ed hanno fatto immediatamente una visita all’Istituto Internazionale di Agricoltura, la loro meraviglia è stata grandissima, perché hanno trovato ancora in vita l’Istituto, che funzionava in pieno, sebbene con disagio finanziario grandissimo, e seguitava a dare quel contributo di lavoro, o poco meno, di prima della guerra. Eravamo ancora vivi, e, quando al posto del Comitato interinale, si è ricostituita una normale rappresentanza delle Nazioni presso l’Istituto, alla riunione del Consiglio Direttivo dell’Istituto sono intervenuti 44 Stati. Noi abbiamo allora avuto la gioia di presentare ancora funzionante in pieno questo Istituto e di poter offrire alle Nazioni qui riunite una messe immensa di dati freschi, preziosi per la soluzione di tanti problemi che riguardano l’organizzazione della pace. Ma in quella prima riunione del Comitato direttivo, onorevoli colleghi, fu subito avanzata la proposta di approvazione del protocollo, che prevedeva la dissoluzione dell’Istituto ed il trasferimento delle funzioni e degli averi di questo alla F.A.O. Apparve allora ben chiaro quale strada era stata prescelta per eseguire con rapidità il dettato di Hot Springs e di Quebec.
Una «dissoluzione» dell’Istituto non poteva essere patrocinata ed una discussione del genere non poteva essere presieduta da un italiano. Tutti i presidenti dell’Istituto sono stati italiani fin dalla fondazione; essi hanno condotto questo Istituto ad un grado di vegetazione florida e perciò parve opportuno che una persona di altra nazionalità provvedesse e presiedesse a questa dissoluzione. Al delegato italiano, che era chi ha l’onore di parlarvi, non convenne dunque accettare l’offerta fattagli della nomina a presidente dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura in questa ultima fase di vita dell’Ente, in conseguenza di che fu nominato presidente il delegato americano. Fin dalla prima riunione del ricostituito Comitato permanente fu dunque posta la questione se accettare o non accettare codesto invito alla dissoluzione.
Non mancammo di esporre il punto di vista del diritto, che avevamo il dovere di prospettare, anche in considerazione del fatto che l’Italia era depositaria della Convenzione. In una organizzazione internazionale come questa, è fondamentale l’autonomia di decisione. Questo organo internazionale aveva avuto origine da una convenzione internazionale (questo fu il punto di attrito fra i proponenti della dissoluzione e alcuni delegati) che non può essere spenta per volontà di una delle parti o di alcune parti, in assenza o in dissenso di altre; anzi un patto internazionale non può essere annullato, se non sono presenti ed accettanti tutti coloro che hanno preso parte alla conclusione di esso. La discussione fu lunghissima, ma fu chiarificatrice ed obbligò gli iniziatori della dissoluzione a costituire una situazione di forza, perché, quando fummo alla votazione, 37 Nazioni con 92 voti si pronunciarono per la dissoluzione dell’Istituto, mentre l’Italia dichiarò di astenersi e con lei si astennero altre 12 Nazioni con 30 voti. Si preparava così l’Assemblea generale che avrebbe dovuto votare la dissoluzione.
Questa che noi oggi votiamo è l’accettazione del risultato dell’Assemblea, svoltasi tre mesi dopo, l’8 e 9 luglio 1946, che suggellò la dissoluzione dell’Istituto. Tra l’una e l’altra riunione ci preoccupammo della linea d’azione da prendere, d’accordo con quelle Nazioni che avevano voluto fare, con la loro astensione, una dichiarazione di affetto e di stima per l’Istituto ed anche con quelle, che, senza alcuna soddisfazione, avevano votato la dissoluzione. Sembrò opportuno che si dovesse venire ad una specie di patteggiamento, perché qui a Roma, in un modo o nell’altro, questa istituzione, realizzante un’idea di solidarietà economica mondiale, potesse continuare a vivere. Il risultato fu che, nell’Assemblea generale, indetta dall’Istituto Internazionale d’Agricoltura, fu accettato all’unanimità il progetto di dissoluzione dell’Istituto ed immediatamente dopo fu adottato un voto, con 52 nazioni su 52 presenti, per cui l’Italia, e Roma, rimanessero come sede europea della FAO.
Onorevoli colleghi, qui si tratta di due deliberazioni differenti, delle quali l’una decide, l’altra fa un voto, ma la volontà degli Stati che hanno votato l’una e l’altra deliberazione è indiscutibile. Essi hanno domandato che continuasse qui a Roma quella attività che per 40 anni aveva reso celebre l’opera dell’Istituto Internazionale dell’Agricoltura. Oggi questo non è deciso. Oggi a Roma c’è bensì la sede europea della F.A.O., ma essa è provvisoria, perché si deve decidere prima quale sarà la sede centrale della F.A.O., per poter stabilire se ci sarà una sede europea e se questa sede europea potrà essere Roma.
Ma, da quanto a Kopenaghen nella Conferenza F.A.O., dove sono stato inviato quale delegato italiano per l’Agricoltura, spiegando ai delegati di ogni paese intervenuti la situazione dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura, ho potuto dedurre, abbiamo per questa tesi una stragrande maggioranza delle Nazioni Aderenti alla F.A.O.. Io credo che una notevole pressione morale, per tale decisione, sia esercitata dalla persuasione del valore immenso dell’opera dell’Istituto, ciò che vincerà il punto morto delle residue dubbiosità e potremo trasformare la sede provvisoria europea della F.A.O., qual è ora a Roma, l’antico Istituto Internazionale di Agricoltura, in sede definitiva.
Onorevoli colleghi, nella discussione che si è tenuta all’Assemblea generale dell’Istituto Internazionale d’Agricoltura, si legge il rilievo: «non uccidete l’organismo vivente prima di formare il nuovo! Non si cambiano i cavalli in mezzo al guado! Oggi che dovete organizzare la pace, questo perfetto organismo, che tale è stato riconosciuto, deve funzionare per la pace». Se riusciremo ad avere, onorevoli colleghi, ancora a Villa Borghese qualcosa che ci ricordi l’antica organizzazione dell’agricoltura fra i vari Paesi, cioè la sede europea della F.A.O., potremo dire che noi abbiamo quel che abbiamo donato. Ma se ciò non sarà, l’Italia non si rammarichi. Essa ha donato nel passato al mondo sempre largamente e generosamente i frutti del pensiero della sua gente. La gioia del donare non può spegnersi neppure oggi che siamo caduti in miseria, giacché attraverso la sofferenza ed il dolore si ravviva l’amore.
Il Governo sappia trar profitto dal lavoro proficuo sino ad oggi svolto, tesorizzando questo ed il fascino di Roma, perché tale eccelsa forma di solidarietà effettiva tra gli uomini continui qui in Italia. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Canepa. Ne ha facoltà.
CANEPA. Superfluo è dire che il Partito specialista dei lavoratori italiani darà, con vivissimo compiacimento, voto favorevole a questo disegno di legge il quale approva l’accordo internazionale per la costituzione dell’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura.
È un passo sulla via, sia pur lenta, sia pur faticosa, che conduce verso il nuovo mondo, il mondo universale che si viene creando al di sopra delle nazioni, mondo destinato a sicuro avvenire (a meno che l’umanità non voglia votarsi alla miseria, anzi al suicidio) in cui noi abbiamo fermissima fede. Io ho chiesta la parola soltanto per sottolineare, pienamente approvando, l’ultima parte della relazione del collega Iacini, là dove ricorda che la Organizzazione creata a Quebec presenta per il nostro Paese aspetto particolare, in quanto implica l’assorbimento dell’istituto internazionale dell’agricoltura di Roma, e fa voti che questo nostro Istituto divenga la sezione europea dell’Istituto, che ora è stato fondato della Organizzazione delle Nazioni Unite. Mi ricordo che, quando fu fondato l’Istituto internazionale di Roma, le speranze che ha suscitato furono molte, speranze che in parte sono state realizzate perché del bene ne è stato fatto e fu quello uno dei primi tentativi nella via internazionale. Ora raccomando al Governo di insistere vivamente perché davvero questo nostro Istituto, seppure viene assorbito in quello nuovo, sia quanto meno destinato ad essere la sezione, o se si vuol dire la filiale europea, di questa grande organizzazione mondiale.
E vorrei ricordare che c’è già un precedente. Autorevolissimi giornali svizzeri, Le Journal de Genève, per esempio, la Zürick Zeitung, ed altri, danno per certo che l’United Nations Organisation costituirà a Ginevra, nella splendida sede dell’antica Società delle Nazioni, la filiale europea, nel senso politico, di quella che comunemente si chiama ONU. Ebbene, se questo è, se la Svizzera diventerà la sezione europea politica dell’organizzazione generale, a maggior ragione Roma deve diventare la sezione europea dell’organizzazione per l’alimentazione e l’agricoltura. Quello che abbiamo fatto, l’iniziativa che abbiamo presa, i sacrifici che abbiamo sostenuto per fondare e alimentare questo Istituto, credo che ce ne diano qualche diritto.
E la via in cui si è messo il Governo, la domanda che pochi giorni fa l’onorevole Sforza ha fatto per la nostra ammissione nell’United, rientrano appunto in questa concezione per la quale noi, dopo tante disavventure, dopo tante disgrazie che abbiamo sofferto, dopo di essere caduti purtroppo così in basso, ci andiamo rialzando e rientriamo nella vita universale. La partecipazione ad essa sarà, se noi lo vorremo, se saremo tutti quanti uniti, sarà degna, onorevoli colleghi, a del nostro glorioso passato.
Questo è il voto che io faccio ed al quale voglio sperare, anzi sono certo, che tutti vi assocerete. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cingolani. Ne ha facoltà.
CINGOLANI. Mi associo, toto corde, a quanto ha detto l’onorevole Canepa, anche per questo: a nome della Delegazione italiana, allorché fu invitata nell’ottobre 1945 a rientrare nell’organizzazione internazionale del lavoro, io ebbi nell’Assemblea plenaria della Conferenza internazionale ad esprimere proprio questo voto. Si era già allora manifestato il disegno di creare una sezione alimentare ed agricola dell’O.N.U., e quindi si capiva che c’era già nell’aria una condanna a morte del nostro Istituto d’Agricoltura. Emisi, a nome della Delegazione, il voto che almeno per la sezione europea venisse mantenuto il nostro gloriosissimo Istituto internazionale, e ricordai quello che è stato il rilievo statistico internazionale, preziosissimo, fatto dal nostro Istituto che è unico al mondo ed ancora serve agli studiosi di agricoltura, anche per quanto riguarda la storia del passato, e che è sempre fonte di previsioni utilissime per l’avvenire. Il voto fu approvato dai rappresentanti di 57 Stati.
Quindi, faccio formale proposta al Governo di ricordare, nell’atto fin cui entreremo nell’O.N. U., che il voto nostro fu accettato dai rappresentanti di 57 Stati a Parigi, nell’ottobre del 1945. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.
MACRELLI. A nome dei miei colleghi di gruppo mi associo, toto corde, alle espressioni venute dal banco in cui siede l’onorevole Canepa e dal banco in cui si trova l’onorevole Cingolani. Non può essere diverso il sentimento che ci ispira in questo, momento. Noi attraversiamo un periodo difficile per la storia e per la vita del nostro Paese. Queste affermazioni devono trovare, in mezzo a tutti noi, senza distinzione di parte, pieno assenso morale, materiale, politico. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.
COLETTO. La realtà economica, nella quale l’Italia coi suoi problemi alimentari vive, ci spinge a dare senz’altro, e con compiacimento, la nostra adesione al progetto di legge. L’Italia ha, d’altra parte, urgente bisogno di compiere i più solleciti passi in avanti verso il ritorno alla normalità dei rapporti internazionali. Ora il disegno di legge in esame consente senza dubbio di fare molti di tali passi e non poco importanti. (Applausi).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Quintieri Quinto. Ne ha facoltà.
QU1NTIERI QUINTO. A nome del mio gruppo devo dichiarare che noi ci associamo a quanto è stato detto nell’Assemblea; cioè che diamo la maggiore importanza alla conservazione all’Italia dell’Istituto Internazionale di Agricoltura. Tutte le quistioni che si riferiscono agli studi di agraria, alla efficienza della produzione della terra, hanno per noi una importanza immensa; l’importanza cioè di assicurare il pane al nostro popolo e l’indipendenza al nostro Paese. (Approvazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Tonello. Ne ha facoltà.
TONELLO. Il partito socialista italiano non può che vedere con gioia la creazione di quegli istituti che fanno uscire il nostro Paese dal buio di quella che era l’autarchia fascista.
Perciò noi vediamo in questo dilagarsi dell’Italia in tutto il mondo civile una speranza per l’avvenire del nostro Paese.
Pertanto il partito socialista voterà in favore del progetto di legge. (Approvazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scoccimarro. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Dichiaro che il Partito comunista approverà il disegno di legge.
PRESIDENTE. Dichiaro chiusa la discussione generale.
In assenza del Relatore, ha facoltà di parlare l’onorevole Presidente della Commissione per i Trattati internazionali.
BONOMI IVANOE, Presidente della Commissione per i Trattati internazionali. In assenza del Relatore io non debbo che dire pochissime parole: raccomando all’Assemblea l’approvazione di questo disegno di legge e faccio notare ai molti oratori che hanno parlato che la preoccupazione nostra per l’Istituto Internazionale di Agricoltura è stata già raccolta, esposta ed illustrata nella relazione dell’onorevole Jacini.
La Commissione per i Trattati internazionali vigilerà affinché il Governo faccia tutti i passi possibili perché le aspirazioni esposte siano prese nella massima considerazione.
PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero.
ASSENNATO, Sottosegretario di Stato per il commercio con l’estero. Dichiaro che il Governo si ripromette di compiere tutto quanto è nelle sue possibilità perché sia accolto il voto unanime espresso dall’Assemblea.
PRESIDENTE. Passiamo all’esame degli articoli.
Art. 1.
Piena ed intera esecuzione è data all’Accordo concluso a Quebec il 16 ottobre 1945 per la «Costituzione della Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura», nella quale l’Italia è stata ammessa il 10 settembre 1946.
(È approvato).
Art. 2.
Il Ministro per le finanze e tesoro è autorizzato ad iscrivere in bilancio la spesa occorrente per la partecipazione dell’Italia alla suddetta Organizzazione.
(È approvato).
Art. 3.
La presente legge entra in vigore il giorno della sua pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale ed ha effetto dal 10 settembre 1946.
(È approvato).
Se non vi sonò osservazioni, la votazione a scrutinio segreto di questo disegno, di legge avrà luogo nella seduta pomeridiana.
(Così rimane stabilito).
RIVERA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
RIVERA. Onorevole Presidente, noi stiamo per approvare questa adesione dell’Italia alla FAO. Ora, io pongo una questione di carattere giuridico: l’Italia, quando ha firmato la risoluzione riguardante l’assorbimento dell’Istituto Internazionale di Agricoltura da parte della F.A.O. ha fatto esplicita riserva scritta in calce alla firma apposta, di ratifica da parte dell’Assemblea. Questa ratifica della Costituente è dunque necessaria perché l’adesione dell’Italia alla dissoluzione dell’Istituto abbia valore ed efficacia?
La votazione di approvazione della partecipazione italiana alla F.A.O., che oggi ha luogo, rappresenta implicitamente anche la ratifica da parte dell’Assemblea della convenzione sulla dissoluzione dell’Istituto Internazionale di Agricoltura o si giudica necessario che l’Assemblea debba pronunciarsi a parte con una particolare votazione di ratifica? Io raccomando all’attenzione della Presidenza e del Governo tale quesito perché prendano le deliberazioni del caso.
PRESIDENTE. Il quesito sarà fatto presente al Governo e alla Commissione per i Trattati internazionali.
Interrogazione con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. L’onorevole Longhena ha presentato la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:
«Al Ministro dell’interno, sulla situazione finanziaria delle Amministrazioni ospedaliere. L’interrogante ricorda di avere otto mesi or sono chiesto al Ministro dell’interno se non credesse opportuno, per sovvenire alle disagiate finanze delle Amministrazioni ospedaliere, riapplicare il decreto 2 febbraio 1922, n. 114, e avendo avuto risposta non sodisfacente, di aver presentato nel dicembre scorso una interpellanza, alla quale non si è creduto neppure di rispondere. Il Congresso delle Amministrazioni ospedaliere, radunate nel marzo a Torino, ha riconfermato il voto avanzato dall’interrogante. Nuovamente ha fatto seguito il silenzio. Alle invocazioni di aiuto, ai telegrammi disperati, si è opposta una tranquilla indifferenza. Ora si verifica ciò che era facile prevedere: gli ospedali non possono più pagare medici, impiegati, personale di assistenza.
«L’interrogante chiede che cosa pensi l’onorevole Ministro dell’interno e se reputi le dimissioni di tutti gli amministratori degli ospedali risposta all’indifferenza onde fin qui furono circondati i loro appelli insistenti».
Chiederò al Ministro dell’interno quando intenda rispondere a questa interrogazione.
LONGHENA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
LONGHENA. Rilevo la particolare urgenza dell’interrogazione. Se non interverranno opportune provvidenze, a metà del corrente mese si dovranno chiudere gli ospedali. E la responsabilità di questo fatto non ricadrà certo sugli amministratori degli ospedali.
PRESIDENTE. Assicuro che farò presente al Governo questo stato di cose.
La seduta termina alle 12.30