Come nasce la Costituzione

POMERIDIANA DI VENERDÌ 14 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXCIII.

SEDUTA POMERIDIANA DI VENERDÌ 14 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Comunicazioni del Presidente:

Presidente

Sostituzione di deputati:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Leone Giovanni

Rossi Paolo

Interrogazioni urgenti (Svolgimento):

Presidente

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Covelli

Sereni

Rodinò Mario

Puoti

Labriola

Della Seta

Crispo

Sansone

Badini Confalonieri

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Marazza. Sottosegretario di Stato per l’interno

Interrogazioni e interpellanza (Annunzio):

Presidente

La sedata comincia alle 16.

MEZZADRA, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pignatari.

(È concesso).

Comunicazioni del Presidente.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Corbino è tornato a far parte del Gruppo parlamentare liberale.

Ho chiamato a far parte della terza Commissione permanente per l’esame dei disegni di legge l’onorevole Morandi, in sostituzione dell’onorevole Bianchi Costantino, dimissionario.

Sostituzione di deputati.

PRESIDENTE. Comunico che la Giunta delle elezioni, nella riunione di ieri, ha proceduto alla sostituzione dell’onorevole Modigliani Giuseppe Emanuele, deputato nel Collegio unico nazionale per la lista del Partito socialista italiano di unità proletaria (7a), morto il 5 ottobre 1947; ed ha deliberato di proporre, a termini dell’articolo 64 della vigente legge elettorale politica, la proclamazione dell’onorevole Matteotti Giammatteo, candidato che segue immediatamente nella lista medesima.

Essendo l’onorevole Matteotti Giammatteo già deputato eletto nella analoga lista (3a) per la Circoscrizione di Pisa (XVI), la Giunta stessa ha deliberato di proclamare in sua sostituzione il candidato Bartalini Ezio, quale primo dei non eletti nella detta lista circoscrizionale, a termini dell’articolo 63, capoverso, della legge elettorale politica.

Analogamente la Giunta delle elezioni ha proceduto nella sua seduta di ieri, alla sostituzione dell’onorevole Enrico Martino, deputato nel Collegio unico nazionale per la lista del Partito repubblicano italiano (4a), le cui dimissioni sono state dall’Assemblea Costituente accettate il 30 ottobre scorso; ed ha deliberato di proporre la proclamazione, nel Collegio unico nazionale, dell’onorevole Giuseppe Chiostergi, che segue immediatamente nella medesima lista.

Essendo l’onorevole Chiostergi già deputato eletto nella lista (3a) del Partito repubblicano nella Circoscrizione di Ancona (XVIII), la Giunta ha deliberato di proclamare in sua sostituzione il candidato Marinelli Oddo, quale primo dei non eletti nella stessa lista circoscrizionale.

La Giunta delle elezioni poi, nella sua seduta odierna, ha preso atto delle dimissioni, accettate ieri dall’Assemblea, dell’onorevole Restivo Francesco, deputato della lista della Democrazia cristiana per la circoscrizione di Palermo (XXX); e, in base all’articolo 64 della legge elettorale politica, ha deliberato di proporre in sua sostituzione il candidato Cortese Pasquale, che segue immediatamente l’ultimo eletto nella lista medesima.

Pongo ai voti l’accettazione di queste proposte della Giunta delle elezioni.

(Sono approvate).

Avverto che da oggi decorre nei riguardi dei nuovi proclamati il termine di venti giorni per la presentazione di eventuali reclami.

Interrogazioni urgenti.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno risponderà nel corso della seduta alle seguenti interrogazioni presentate ieri con richiesta di urgenza:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per colpire i responsabili delle violenze e devastazioni consumate a Napoli in danno delle sedi provinciali e comunali del Partito nazionale monarchico.

«E per conoscere, inoltre, quali provvedimenti intende adottare nei confronti delle autorità preposte all’ordine pubblico a Napoli, le quali, con odiosa evidenza, mentre hanno provveduto a difendere le sedi di alcuni partiti, hanno lasciato impunemente devastare e incendiare le sedi del Partito nazionale monarchico.

«Covelli».

«Al Ministro dell’interno, per avere conferma di informazioni ricevute dall’interrogante sugli incidenti di Napoli.

«Sereni».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se anche a Napoli sono state disposte tutte le provvidenze opportune per evitare il ripetersi di sommosse, incidenti ed abusi, che hanno culminato nel saccheggio, da parte di facinorosi, della sede provinciale dell’Uomo Qualunque.

«E per conoscere, inoltre, se è vero che la sede napoletana della Democrazia Cristiana è stata, durante l’agitazione, guardata e protetta dalla forza pubblica, provvidenza che si è trascurata per le sedi degli altri partiti.

«Rodinò Mario».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati a seguito delle invasioni e devastazioni delle sedi dei partiti democratici a Napoli nei confronti degli esecutori materiali e dei mandanti.

«Puoti, De Falco».

Sullo stesso argomento sono state presentate le seguenti interrogazioni, alle quali ugualmente risponderà l’onorevole Sottosegretario:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, sugli ultimi incidenti verificatisi a Napoli.

«Della Seta, Chiostergi, Paolucci, De Mercurio, Zuccarini, Azzi, Magrini, Magrassi, Bernabei, Parri, Camangi, Macrelli».

«Al Governo, sugli incidenti di Napoli.

«Labriola».

«Al Ministro dell’interno, sulla reale entità degli incidenti avvenuti in numerose località del Piemonte ed in particolare ad Alessandria e Vercelli, con devastazione delle sedi del Partito liberale italiano e sulle misure adottate.

«Badini Confalonieri, Villabruna, Rubilli, Crispo, Martino Gaetano, Russo Perez».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere le origini e l’entità dei disordini e delle violenze verificatisi a Napoli e le misure adottate dal Governo per garantire le libertà democratiche nel rispetto della legge.

«Crispo, Cortese».

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

Poiché stamane l’Assemblea ha deliberato la chiusura della discussione generale, darò ora facoltà di parlare ai relatori sul Titolo IV della parte seconda del progetto di Costituzione.

L’onorevole Leone Giovanni ha facoltà di parlare.

LEONE GIOVANNI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, i tre temi centrali, sui quali è vertita l’appassionata, lunga, interessante ed accesa discussione, possono così identificarsi: 1°) indipendenza del giudice; 2°) indipendenza della Magistratura o, meglio, del potere giudiziario; 3°) unità della giurisdizione.

È bene avvertire fin da questo momento che i tre temi sono strettamente collegati; perché un giudice non può essere veramente indipendente se non è inquadrato in un organismo, in un ordine che, per essere a sua volta autogovernato, cioè indipendente da ogni altro potere, possa garantire l’indipendenza dei suoi membri; perché un ordine giudiziario in tanto può assicurare ai suoi membri la massima indipendenza in quanto è in grado di realizzare l’indipendenza della sua organizzazione; perché, infine, tutte le fratture nell’unità della giurisdizione – la quale si concreta nel principio che l’amministrazione della giustizia è affidata solo a giudici appartenenti ad un ordine indipendente, a loro volta garantiti da un complesso di condizioni che ne assicurino la libertà di azione costituiscono un pericolo per l’indipendenza del giudice.

Questo collegamento o questa interdipendenza fra i tre temi non occorrerebbe che venisse qui segnalata, se non fosse intervenuta un’autorevole parola in senso diverso. Alludo all’intervento dell’onorevole Gullo; perché l’onorevole Gullo pose al centro del suo discorso un’audace, singolare distinzione fra indipendenza del potere giudiziario e indipendenza dell’organo: quella riaffermava, questa negava.

Ora, senza la pretesa di esaurire compiutamente il delicato problema, a me pare profondamente errata tale concezione, non potendosi aspirare a fondare l’indipendenza di un ordine o meglio di un potere senza accettare l’indefettibile base della indipendenza dei singoli organi di quel potere. In verità, l’errore non sta tanto nell’affermazione che qui si critica quanto in un equivoco che in tema di indipendenza della Magistratura si è venuto in questa discussione perpetuando e che urge chiarire, perché ha raggiunto proprio nel discorso Gullo la più alta, esplicita ed aperta manifestazione. Quando infatti si dice che l’espressione «il magistrato deve applicare la legge» è insidiosa e pericolosa (e si fa ricorso a recenti casi giurisprudenziali, sui quali la brevità del dibattito non mi consente di indugiare); quando si afferma che i giudici non si devono chiudere in una interpretazione letterale, ma devono sentire la somma di aspirazioni e di speranze che vengono su nei cieli della democrazia; quando si dice che i magistrati non sono riusciti a percepire il nuovo clima e che infine l’ordine giudiziario non può essere formato da soli magistrati, che porterebbero il senso della casta, mentre gli estranei portano la visione loro dei problemi giudiziari, indipendentemente dalla veste di magistrati, i quali vedono in una maniera angusta; e tutto questo si afferma per sostenere quella composizione mista del Consiglio Superiore, che anche noi vogliamo (ma per altri motivi differenti, come vedremo); si denuncia in maniera chiara l’equivoco della impostazione; giacché la partecipazione di elementi estranei al Consiglio Superiore, massimo organo di governo della Magistratura, non vale, né può valere, né dovrà mai valere a correggere la pretesa angusta visione del magistrato, ma mira solo ad impedire che l’organizzazione della carriera del magistrato possa diventare un cerchio chiuso, trasformandosi in una casta. Poiché il magistrato ora, come domani nella nuova Costituzione, è svincolato da ogni legame gerarchico nell’esercizio della funzione giurisdizionale, in iure dicendo, cioè nella interpretazione e nell’applicazione della legge; gli elementi estranei non potranno, e non dovranno, influire sul libero esercizio di tale altissima, sovrana, libera potestà che ha due sole luminose direttrici cui obbedire: la legge che è fuori del giudice, la coscienza che deve essere la grande ispiratrice interiore del giudice: diremo, in termini kantiani, la legge dello Stato fuori di sé, la legge morale dentro di sé.

Occorre ancora una volta ribadire l’affermazione che una cosa è la disciplina di carriera del magistrato, altra cosa è l’esercizio della funzione giurisdizionale: quella può subire e ha subito alterne vicende; questa non può subire – e da molti anni, con la stessa fondazione dello Stato moderno, non ha subito – delle vicende. La carriera del magistrato può essere più o meno influenzata da altre forze e da altri poteri; la funzione giurisdizionale si ribella a ogni vincolo e non conosce altra soggezione che alla legge.

Sarebbe veramente singolare che quella funzione giurisdizionale, la quale, quando emanava dal Re, era indipendente e sovrana, ora, che è espressione dello Stato repubblicano, non fosse più tale!

Ciò posto passiamo all’esame dei tre temi fondamentali del presente dibattito:

  1. Indipendenza del giudice. – L’indipendenza del giudice – cioè il complesso di condizioni che assicurano al giudice quel distacco dai vincoli esterni che permetta libertà ed indipendenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale: di una sola servitù ribadendo, rinforzando i vincoli, la servitù alla legge ed alla propria coscienza – non si definisce, né si compendia. Si articola, si snoda, cioè, come abbiamo osservato, in un complesso di garanzie, che non sono destinate a porre il giudice in una particolare situazione di privilegio, bensì a distaccarlo, se non da tutti i possibili vincoli che la vita nella sua varietà può fare delineare, per lo meno da quelli che assumono maggior rilevanza. È evidente che se noi potessimo costruire un giudice che fosse staccato da ogni risentimento, da ogni aspirazione, da ogni passione, che possa turbarne la serenità e l’indipendenza – un giudice senza necessità economiche, senza aspirazioni politiche, di onorificenze, di carriera – noi avremmo posto le basi sicure per la massima indipendenza del giudice. Ma se questo non è possibile, credo che non possiamo rinunciare ad approssimarci alla creazione di un destino del magistrato che sia distaccato al massimo da vincoli e interessi che ne possano turbare l’imparzialità o la serenità. A questo nobile scopo sono dirette le aspirazioni della Magistratura; a questo medesimo scopo mira anche il nostro progetto di Costituzione.

Quali sono gli strumenti che noi abbiamo inventato; anzi abbiamo perfezionato? Eccoli: 1°) Inamovibilità. È veramente singolare che questa parola – che risale ai tempi della venalità delle cariche giudiziarie in Francia; e serviva ad attestare i diritti di proprietà acquistati dal compratore, concernenti pertanto il grado, la sede e perfino la facoltà di trasmissione ereditaria della carica di magistrato – sia entrata nella storia, dura e gloriosa, della Magistratura come espressione della massima garanzia di indipendenza del giudice.

Naturalmente, come purtroppo recenti esperimenti insegnano, il termine è elastico; sicché l’ordinamento giudiziario fascista (regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12) all’articolo 219 prevedeva il trasferimento dei magistrati inamovibili nel caso in cui «per qualsiasi causa, anche indipendente da loro colpa, non possono nella sede che occupano amministrare la giustizia nelle condizioni richieste dal prestigio dell’ordine giudiziario».

A questo proposito va segnalalo il deciso ripristino, attuato con regio decreto-legge 31 maggio 1946, n. 511, dell’integrale inamovibilità del magistrato. La Costituzione, nel riaffermare solennemente l’inamovibilità del giudice, non può, per il divieto di passare a formulazioni dettagliate, che limitarsi all’affermazione di principio che l’inamovibilità non può essere toccata se non nei casi e con le garanzie previste dalla legge sull’ordinamento giudiziario. Ma è evidente che la nuova legge sull’ordinamento giudiziario dovrà assi curare a questa garanzia dell’inamovibilità il massimo rispetto, trattandosi della fondamentale, elementare, indefettibile condizione per l’indipendenza del giudice. Questo non è soltanto un augurio; è una certezza, anzi è qualche cosa di più che, nella qualità e con la responsabilità di Relatore della Commissione, ho il dovere di sottolineare: è una direttiva che la Carta costituzionale intende segnalare al futuro legislatore dell’ordinamento giudiziario italiano.

2°) Immunità. Di questa garanzia il progetto non si occupa. Essa, in realtà, era formulata nell’articolo 13 del progetto Patricolo; ma, poiché, per sopraggiunti impegni dell’onorevole Patricolo, questo progetto non fu dal Relatore discusso, il problema non costituì oggetto di preciso esame e torna, oggi, attraverso alcuni emendamenti, in discussione. A me pare che il principio, con taluni limiti o talune garanzie, dell’immunità del giudice debba essere introdotto nel nostro sistema costituzionale, essendo dirotto ad assicurare la libertà del giudice nell’esercizio delle funzioni giurisdizionali.

3°) Divieto di iscrizione a partiti politici. Il problema non concerne, come è stato già avvertito, esclusivamente i magistrati. Altre categorie, investite di particolari funzioni o poteri, si presentano alla nostra attenzione per quanto concerne questo problema, che, anzi, si allarga per abbracciare lo stesso problema dell’elettorato passivo. Pertanto, il problema va più opportunamente rinviato ad una prossima sede, nella quale ci occuperemo dei casi di divieto di iscrizione a partiti politici e di esclusione dall’elettorato passivo per un complesso di categorie. Qui non posso che ribadire (a titolo esclusivamente personale, avendo la Commissione rinviato ogni decisione a quella sede alla quale accennavo testé) la mia adesione al divieto d’iscrizione ai partiti politici. Tale divieto – è opportuno che io ribadisca la vera essenza di questa posizione – non mira tanto a tener lontano i magistrati dalle pericolose suggestioni della politica attiva, dalle quali i magistrati di regola saprebbero guardarsi; quanto a salvaguardare nell’opinione pubblica il prestigio e l’imparzialità dei magistrati, specie nei piccoli centri, nei quali la partecipazione alle manifestazioni attive della vita dei partiti, con tutti gli inevitabili eccessi, potrebbe ingenerare la sia pur falsa opinione di una certa, per lo meno, maggiore sensibilità del magistrato alle direttive del suo partito o ai dirigenti di esso.

Quanto al divieto di partecipazione alle associazioni segrete, esso discende da una norma, che abbiamo già approvata, sul divieto di costituzione di associazioni segrete. Sicché, in linea di principio, a me pare che sia esatto l’emendamento proposto da alcuni, che cioè si possa cancellare in questa sede il divieto per il magistrato di appartenere ad associazioni segrete, in quanto deriva da un più ampio divieto, quello della costituzione di società segrete, che importa anche l’inammissibilità dell’iscrizione, ove queste associazioni venissero costituite in dispregio alla legge.

4°) Maggiore riduzione possibile delle preoccupazioni ed ansie di carriera. L’esperienza e la conoscenza della più elementare psicologia ci dicono quanto influisca il complesso delle preoccupazioni di carriera a rendere spesso il giudice agitato, perciò non sereno e talvolta – che è peggio – ad indurlo ad assumere atteggiamenti di non assoluta imparzialità. Giuseppe Zanardelli nel suo noto discorso, che più volte è stato qui opportunamente ricordato, esattamente individuava in questo uno dei massimi pericoli dell’indipendenza del giudice quando scriveva: «Ciò che maggiormente può compromettere l’indipendenza del magistrato è la febbre delle promozioni, la smania di varcare rapidamente numerosi gradi di carriera con la conseguente necessità di ingraziarsi il potere da cui le promozioni stesse dipendono per conseguire, attraverso sollecitazioni c condiscendenze, le ambite promozioni». E indicava due notevoli rimedi a tale pericolo: diminuire la molteplicità e la distanza fra i vari uffici; attribuire ai collegi giudiziari la nomina del presidente.

Orbene, questi due notevoli accorgimenti non potevano costituire oggetto di disciplina costituzionale. La legge e l’ordinamento giudiziario li prenderà in considerazione; e in particolare prenderà in considerazione quel problema della elettività dei capi degli organi giudiziari che, per quanto pericoloso, è stato impostato in larga misura proprio dai magistrati. Ma un principio non doveva restare fuori della Costituzione; un principio, che, affondando le sue radici nella tradizionale essenza della potestà giurisdizionale, postulava una espressa, solenne formulazione, quella contenuta nel terzo comma dell’articolo 89: «I magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di grado». Tale affermazione sta a significare che l’ordine giudiziario si articola non in base ad una gerarchia di gradi, che è incompatibile con la pienezza dell’essenza giurisdizionale, ma in base ad una distinzione di attribuzioni, cioè di competenze.

Da tale principio possono derivarsi alcune applicazioni pratiche notevoli, e cioè:

  1. a) innanzitutto, si realizzerà quell’auspicato sganciamento della carriera dei magistrati dalla equiparazione ai gradi dell’amministrazione statale, che costituisce un serio ostacolo per una urgente impostazione del problema della retribuzione dei magistrati;
  2. b) in secondo luogo, si potrà ritenere, come esattamente avvertiva l’onorevole Calamandrei, che lo stipendio del magistrato ed, in generale, la stessa carriera del magistrato, come progettava Zanardelli, non debbano essere in relazione al grado, bensì ad altri elementi, tra i quali l’anzianità.

Ma lo strumento più idoneo a svincolare la Magistratura dalle preoccupazioni della carriera sta nell’autogoverno, cioè nella indipendenza del potere giudiziario, del quale mi occuperò in seguito.

Devo dire fin da ora, però, che le accese e ripetute aspirazioni dei magistrati ad una indipendenza del loro ordine non mirano, come ad un superficiale osservatore potrà apparire, ad assicurare loro un privilegio, bensì a svincolarne la carriera dal potere esecutivo, realizzando così al massimo le condizioni per l’indipendenza della loro funzione.

5°) Incompatibilità della funzione di magistrato con onorificenze e incarichi pubblici non strettamente collegati alle attribuzioni di magistrato. Alcuni emendamenti, che saranno presi in esame nella sede adatta, mirano a distaccare il magistrato da quel complesso di qualifiche – le quali vanno dalle onorificenze, che raramente si conferiscono motu proprio e non su iniziativa di personalità politiche, all’assunzione di cariche pubbliche, che, per la retribuzione che vi è connessa o per la deleteria conseguenza di distogliere i magistrati dalla naturale funzione di giudice o, infine, per la maggiore possibilità di agevolare la loro carriera – costituenti un non indifferente ostacolo alla realizzazione della loro indipendenza.

6°) Indipendenza economica. Su questo punto la Magistratura, come è stato esattamente osservato, attende, se non una decisione concreta (che non può essere ospitata nella Costituzione), un’affermazione chiara e solenne, alla quale l’Assemblea Costituente non può rifiutarsi.

Nessuno potrà dimenticare che il problema di tutte le classi impiegatizie è storia di dolori, di sacrifici, di amarezze, spesso silenziosi, spesso inavvertiti. Ma nessuno potrà negare che il problema della retribuzione del magistrato, pur non disconoscendo il più ampio problema della retribuzione di tutti gli impiegati, ha un aspetto particolare, che è collegato alla funzione preminente che la Magistratura assolve.

Se per gli impiegati in generale non è da escludere il ricorso ad onesti accorgimenti, atti a lenire il dramma della vita, per i magistrati non vi è risorsa, che non intacchi non solo il prestigio, ma (che è peggio) la stessa indipendenza della sua funzione. Basti pensare che la stessa corruzione, che per altri impiegati può presentarsi nella forma, pur delittuosa ma non allarmante, della corruzione impropria, per il magistrato è sempre una corruzione propria. Se il magistrato è costretto a piegare e ad amministrare la giustizia in maniera difforme dalla legge, siamo di fronte ad una corruzione propria (atti contrari ai doveri di ufficio).

A questo proposito vale la pena di ricordare quel pensiero di uno scrittore francese (Jules Favre), che fu rievocato in questa stessa sede da Zanardelli nel ricordato discorso:

«La povertà della Magistratura è crimine sociale. La dignità stoica (come si ripetono i tempi! qualcuno ne accennava in quest’Aula) con la quale un magistrato accetta le sue strettezze è argomento di legittima ammirazione, ma è imprudente e crudele farne una virtù professionale di tutti».

Occorre pertanto che si levi da questa Assemblea un invito caloroso al Governo – ed una affermazione precisa nella Carta costituzionale – a considerare il problema della retribuzione ai magistrati nella sua vera luce, non solo di profonda umanità, ma di urgente esigenza di conservazione e di difesa della indipendenza dell’amministrazione della giustizia.

Rimanga, perciò, nella Costituzione la consacrazione del principio che ai magistrati spetta una particolare retribuzione!

È al tema dell’indipendenza del giudice, onorevoli colleghi, che preferisco collegare, sia pure con qualche innegabile ampliamento del campo di indagine, il problema della giuria e della elettività di alcune Magistrature.

Giuria. Personalmente sono contrario alla giuria, per una serie di ragioni che ho il dovere di contenere nella più concisa esposizione. Voglio qui ripetere osservazioni che ho avuto occasione di fare in altra sede.

Il problema non è politico; e preciso che intendo dire che, a mio avviso, l’istituto della giuria, come ha già osservato con tanta autorità l’onorevole Porzio, non è indefettibilmente collegato con l’organizzazione democratica dello Stato. Che la giuria sia sparita col decadere delle istituzioni democratiche e sia risorta con la rinascita di queste, non vuole attestare altro che una coincidenza che, seppure non casuale, non è certo causale. Basterebbe pensare che, secondo i più autorevoli giuristi, è sorta in regime feudale. E, per quanto concerne la correlazione del suo destino con quello della democrazia, è da considerare che, se l’abolizione da parte di regimi dittatoriali va intesa come soppressione di un principio di partecipazione popolare all’amministrazione della giustizia, non è provato l’inverso, che cioè essa ia effettivamente espressione di democrazia. Quando’ stamane l’onorevole Mancini, in una calorosa esaltazione della giuria, ci ricordava che il regime fascista non soppresse la partecipazione dell’elemento popolare nei giudizi di Corte d’assise, ma solo limitò questa partecipazione (e – vorrei aggiungere – limitò in misura minima, perché, come sapete, il giudice popolare partecipa con una maggioranza notevole nei confronti del giudice togato), enunciava un argomento che sta, sul piano storico, a contrastare la sua tesi della correlazione tra democrazia e giuria. Perché se quel regime – che non ebbe esitazioni ed incertezze nel distruggere qualsiasi legame con un sistema democratico d’organizzazione dello Stato e che non esitò a sradicare anche quegli istituti che soltanto per la loro coincidenza cronologica dovevano considerarsi democratici – conservò in larga misura la partecipazione di elementi popolari al giudizio delle Corti d’assise, vuol dire che quel regime, in questa sua sensibilità antidemocratica che vorrei dire perfetta ed esasperata, sentì che non era collegato il tema della giuria, cioè della partecipazione diretta del popolo all’amministrazione della giustizia, con il sistema della democrazia.

Il concetto di sovranità popolare, infatti, non importa la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia. Questo è il punto; e sono lieto di considerare che stamattina in questi termini esatti l’onorevole Porzio riproponeva il problema. Democrazia è governo di popolo; e perciò potere esecutivo e legislativo come emanazione di popolo; ma non è anche indiscriminata partecipazione del popolo a quelle attività che esprimono un’esigenza tecnica, di capacità. In riferimento a queste funzioni, la democrazia si attua con l’abolizione di quelle prerogative e di quei privilegi che contrastano a tutte le classi sociali la partecipazione alle funzioni statali. Resta, però, sempre l’esigenza della capacità, dell’idoneità a talune funzioni, incompatibile col principio della indiscriminata partecipazione del popolo. Coloro che, qui e fuori, con tanta nobile ed apprezzata passione, reclamano la partecipazione del popolo all’amministrazione della giustizia si sono mai azzardati a chiedere la partecipazione del popolo alla difesa dell’imputato, e più ancora all’insegnamento, che è un’alta funzione sociale? Si sono domandati perché il cittadino con la licenza elementare è idoneo ad amministrare la giustizia e non è invece idoneo ad insegnare, a formare cioè la coscienza dei giovani, là dove si richiede una maggiore inserzione dell’elemento sociale nel sistema tecnico; e non è pure idoneo alla difesa davanti al giudice popolare del suo simile?

Se una risposta affermativa non si può dare a ciò, questo significa che la partecipazione del popolo, che è scelta (e non casuale individuazione) per il potere legislativo ed esecutivo, si arresta di fronte alle altre funzioni statali, che esigono particolare capacità tecnica. Il paragone tra partecipazione del popolo alla funzione legislativa e partecipazione a quella giudiziaria non si può correttamente porre; giacché, a parte il fatto che nel primo caso il popolo non partecipa direttamente, indiscriminatamente, e per effetto di una scelta meramente casuale, alla funzione legislativa, è evidente che – mentre la funzione legislativa è predisposta a raccogliere col massimo della immediatezza il complesso delle aspirazioni e delle esigenze del popolo – la funzione giudiziaria, che nel nostro Paese si radica sul principio della codificazione, deve ispirarsi a criteri tecnici.

Perciò impostava esattamente il problema Enrico Ferri, come ha ricordato il collega Cassiani, quando diceva che «in una questione di scienza e di ordinamento tecnico, cioè di giustizia penale, pare a me che non gli ideali democratici o aristocratici siano da invocare, sibbene il criterio della capacità e dalla larghezza del giudizio».

Ma quello che soprattutto occorre segnalare è che il concetto di democrazia e di sovranità popolare non postula quello di scelta casuale, e cioè arbitraria, dei partecipi all’amministrazione della giustizia. Esattamente Francesco Carrara osservava che in tal modo «la giustizia criminale si trasforma in una lotteria e che si tolgono le bilance dalla mano della giustizia e si sostituiscono con le urne. Questo è il vizio della giuria e per il medesimo si distrugge l’uniformità della giustizia punitiva».

Per rendersi conto di questo grave argomento basterà pensare alla situazione che si determina quando il caso avrà portato alla formazione di una giuria composta tutta di cittadini orientati nello stesso senso su un problema che si agita in un processo: simpatia o antipatia per l’adulterio, indulgenza o eccessiva severità per alcune forme di reato.

La democrazia, specie nei più recenti sviluppi, si è venuta ad organizzare anche sul pilastro della capacità. L’orientamento professionale si va sempre più affermando nella scelta dei tecnici. Basti considerare il numero notevole di avvocati e di professori universitari mandati alla Costituente. Sarebbe strano, di fronte questo perfezionamento tecnico, fare un ritorno indietro in una materia che è la più sensibile a quelli che sono i presupposti tecnici. Se il problema dovesse venire ancora posto sul piano politico, sarebbe onesto chiederne l’impostazione integrale: o si arriva alla elettività di tutti i giudici (e questo passo, come vedremo, credo che non si possa neppure tentare in Italia) o si rinuncia alla giuria. Per lo meno, questa integrale impostazione, mentre non rimuoverebbe nessuna delle obiezioni contro la giuria, correggerebbe la casualità della scelta, essendo il popolo chiamato alla responsabilità dell’elezione dei giudici, e dei giudici più idonei.

Deve escludersi pertanto in via preliminare – e questa è la parte più lunga della mia dimostrazione – ogni profilo politico nell’esame del problema; e passare all’esame del profilo tecnico.

Ora, il problema della giuria potrebbe impostarsi sotto l’aspetto della necessità, per i più gravi reati che toccano la sensibilità del popolo, di chiamare ad esprimere un giudizio cittadini non perfettamente qualificati. A parte l’arbitrarietà del ragionamento, che ritiene i magistrati avulsi dalla coscienza popolare, fuori della vita, insensibili al palpito della umanità, chiusi a qualsiasi soffio di sentimento, di tradizione; a parte l’arbitrarietà di questo ragionamento, occorre opporre ad esso che nella nostra tradizione giuridica vige il principio della qualificazione, della certezza del diritto, della cristallizzazione legislativa. Tale principio impedisce che il giudizio sia attinto a fonti diverse dalla legge, la quale ha valore vincolante anche quando ne sarà scomparso o affievolito il presupposto sociale.

Non senza ragione la terra del giurì è l’Inghilterra, dove la norma penale non è incarcerata nel sistema legislativo, ma vive attraverso il richiamo della consuetudine e dei precedenti. Un solo punto di inserzione della coscienza popolare nel giudizio potrebbe ammettersi: quello della misura della pena. Ma limitata a questo, vi sentireste voi di sostenere la giuria, soltanto per graduare la pena nell’ambito stabilito dalla legge? Il problema è un altro e merita una impostazione integrale; e bisogna lealmente porlo su questa base: o si marcia in maniera decisa verso il diritto libero, ed allora la giuria può profilarsi come uno strumento di scoperta di questo diritto, che si esprime attraverso la coscienza popolare, attraverso i sentimenti del popolo; o si mantiene fede, come in questo momento è necessario mantenere fede, al sistema della codificazione e della certezza del diritto, ed allora la giuria è assolutamente incompatibile con questo nostro sistema giuridico.

Ed è veramente singolare, come diceva il collega Cassiani, che Enrico Ferri – il quale non solo per il suo orientamento politico (che doveva renderlo sensibile agli ideali democratici), ma soprattutto per il suo orientamento scientifico, un orientamento che si ribellava a qualsiasi rigore ed a qualsiasi limite di carattere tecnico, e che si volgeva verso profili di carattere sociale ed extragiuridico – è veramente singolare, dicevo, che Enrico Ferri sia stato uno dei più fieri avversari della giuria, e non solo in quelle manifestazioni che sono state ricordate in questa Aula, ma anche nella sua edizione postuma, della Sociologia criminale, curata dal professore Santoro.

«Se il giudizio penale – scriveva Ferri – dovesse consistere nel dichiarare che una data azione è buona o malvagia, crederemmo noi pure che la coscienza individuale, che ha appunto per oggetto quel giudizio etico, potesse bastare allo scopo; ma siccome il giudizio penale verte sulla certezza od incertezza, sulla verità, o sulla falsità di un contesto di fatti, crediamo che esso sfugga alla competenza di un intimo sentimento». Ma, per scendere più nel vivo del problema, si sostiene la possibilità di disintegrazione della indagine di fatto dall’indagine di diritto. Qui in contrario possono accennarsi due argomentazioni. Anzitutto non è esatto che il giudizio di fatto sia sottratto alla necessità della capacità tecnica, perché il determinare ed il ricostruire un fatto è spesso, anche inavvertitamente, opera di tecnici, perché soprattutto importa l’impostazione del problema delle prove (ricostruzione e sintesi delle prove), il quale esige la conoscenza di alcuni canoni di interpretazione delle prove, che costituiscono oggetto di regolamentazione giuridica.

In secondo luogo, io voglio limitarmi ad affermare (perché credo che la dimostrazione sia ovvia) la impossibilità di questa distinzione tra giudizio di fatto e di diritto; e che spesso quella che può sembrare una indagine genuina di fatto è pur sempre giuridica. Anche se non è avvertita, l’esigenza del profilo giuridico si delinea nell’indagine che appare più squisitamente di fatto: il problema della causalità. È un problema che non solo ha tormentato la mente dei filosofi, perché si ricollega a temi trascendentali, ma che importa una conoscenza tecnica delle norme giuridiche e non può essere perciò identificato come giudizio di fatto.

Queste ed altre gravi ragioni, che io mi astengo dall’enunciare, dovrebbero assolutamente allontanarci da un’idea di ripristino della giuria, che dovrebbe essere anche avvertita come una possibile causa di disconoscimento del valore vincolante della legge e come un fomite di delinquenza cosiddetta passionale.

Con ciò non dico di essere favorevole al sistema misto di quasi scabinato attuale. Se dovessi esprimere una mia opinione personale, direi di essere favorevole ad una competenza giudiziaria piena ad un tribunale, ad una particolare corte composta tutta di magistrati.

Né io posso aderire, per ragioni ancor più notevoli di quelle che ho enunciato, alla proposta dell’onorevole Persico di instaurare la partecipazione dell’elemento popolare a tutti i giudizi penali (piccola e grande giuria); quindi alla introduzione assoluta, larga, totale dell’elemento popolare nel processo penale.

Io apprezzo l’integrale impostazione del problema, giacché una delle ragioni che più facilmente si profilano contro il ripristino della giuria è questa: perché in alcuni processi è necessaria questa particolare sensibilità, è sentita l’esigenza sociale di questa interpretazione della coscienza popolare, di questa voce che non sappia di chiuso, ma che senta il soffio della civiltà, della vita, delle passioni umane? E perché la stessa istanza non si pone per i processi meno gravi, nei quali talvolta il profilo umano e sociale, il profilo che induce ad un elemento di carità, palpita più che nello stesso processo in Corte d’assise? Perché il furto, che può sembrare in realtà un reato grave in astratto e che invece può offrire spunti di umanità notevoli (furto che si compie perché la famiglia muore di fame, furto che si compie per realizzare un nobile intento della propria vita); perché il falso, che si può consumare per conquistare qualche nobile meta, non devono essere giudicati da una corte nella quale sia viva questa esigenza popolare?

Ora, all’impostazione integrale dell’onorevole Persico non si può opporre questa critica. Bisogna, quindi, apprezzare questa impostazione integrale.

Ma bisogna con maggior rigore non accettarla: non la si può accettare, perché circola sempre nella mia dimostrazione questa ansia, che l’amministrazione della giustizia è una funzione tecnica; tanto che gli stessi elementi umani e sociali che non possono, non devono essere banditi dal territorio della giustizia penale, postulano un punto di inserzione, punto di inserzione, al quale il Codice sostanziale dovrà offrire nuovi e più ampi congegni, ma che sarà sempre di carattere tecnico.

Il profilo umano il giudice lo chiederà alla sua esperienza e alla sua sensibilità di uomo; il congegno tecnico lo troverà nella sua preparazione.

Tuttavia, riconosco che il problema non può essere risolto e non deve essere risolto in questa sede. Esso è collegato innanzitutto a tutto il sistema legislativo penale: una giuria in tanto potrà funzionare, senza essere costretta a ricorrere ad eccessivi arbitrî, in quanto sarà chiamata a giudicare in base ad un codice che, con maggiore elasticità, dia ingresso all’aspetto umano del magistero penale. Esso è inoltre, collegato a tutto il delicato tema della riforma dell’ordinamento giudiziario. Basterà, per coloro che aspirano al ripristino della giuria, non chiudere definitivamente l’ingresso a tale istituto, irrigidendosi in una formula che escluda ogni ricorso ad elementi popolari (formulazione idonea della norma concernente le sezioni specializzate).

Elettività di alcune magistrature. Come ho rilevato poco fa, l’impostazione integrale dell’opposta posizione (quella dell’elettività del giudice) è la impostazione più chiara e più leale. Per questa impostazione non ricorre alcuno di quei profili di critica da me formulati nei confronti della giuria.

Ed è perciò necessario che su questo campo più aperto, più leale, più integrale si accetti la battaglia. Anche qui – senza avere la più lontana pretesa di esaurire il problema, che è un problema veramente pieno di suggestione e pieno di pericoli – io vorrei esprimere soltanto, quasi elencare, alcuni argomenti, alcuni rilievi che a mio avviso si oppongono all’elettività del giudice:

1°) L’elettività è, di regola, inconciliabile con l’accertamento di quella capacità tecnica che è uno, se non il solo, dei requisiti per l’esercizio della giurisdizione. Né l’inconveniente sarebbe sanato dalla predisposizione di categorie di eleggibili, giacché, pur nell’ambito di tali categorie, l’elettività non assicurerebbe l’elezione dei meglio preparati. È questa l’osservazione che vale a contrastare il rilievo dell’onorevole Gullo, secondo cui il rigetto dell’elettività del giudice suonerebbe offesa per noi, che proveniamo da una elezione. Mentre l’elezione dei deputati e dei senatori, infatti, obbedisce a criteri prevalentemente politici (l’elettore giudicherà chi è il più idoneo a far valere certe ideologie politiche o, scendendo più al concreto, a realizzare talune aspirazioni locali); l’elezione del giudice dovrebbe assicurare la scelta di un cittadino esperto e capace all’amministrazione della giustizia.

2°) L’elettività certamente sacrifica la imparzialità e, quindi, l’indipendenza del giudice. In un paese infatti come il nostro, di così ampio frazionamento politico, nessuno potrebbe evitare che le elezioni venissero ad assumere uno spiccato carattere politico.

3°) L’elettività, importando necessariamente una temporaneità nella durata delle funzioni, si risolverebbe indubbiamente in un grave limite per l’indipendenza del giudice.

4°) Il quarto motivo è rappresentato, poi, dall’esperienza dei Paesi dove il sistema dell’elettività del giudice ha avuto, in tempi recenti o lontani, pratica applicazione. L’elettività del giudice fu sancita dalla Costituzione francese del 1789, ma fu assai presto soppressa; dato che, come osservò Zanardelli, «le scelte furono per lo più ispirate dalle passioni politiche e la mediocrità dei giudici fu eguale alla loro oscurità». Solo in Isvizzera il sistema elettivo ha resistito; ma, per un provvidenziale intervento del costume, i giudici vengono di regola rieletti per molte volte consecutive: è evidente allora che in tal caso viene meno uno dei principali motivi che ci inducono a ripudiare il sistema.

Il Bryce afferma che le cause delle critiche sul funzionamento della giustizia negli Stati Uniti sono principalmente da individuare nel sistema elettivo dei giudici fra il 1830 e il 1850; ed il Laski afferma: «Una volta che una persona sia stata nominata al posto di giudice, nulla deve intralciare l’assoluta indipendenza del giudizio: elezione, rielezione, facoltà del Governo di esonerarlo, sono tutti metodi incompatibili con la funzione cui il giudice deve adempiere».

Ma nell’orientamento di coloro che propendono per l’elettività, per lo meno, delle magistrature minori, bisogna scorgere un elemento di verità, un’ansia che non può cadere nel vuoto.

La enunciava l’onorevole Gullo quando esattamente osservava che al magistrato si deve essenzialmente chiedere capacità e carattere. Ora, è evidente che, se con l’assunzione mediante concorso, si viene ad assicurare il primo di questi due requisiti, non si viene invece ad assicurare per nulla il secondo.

Ma si risolve il problema con il sistema elettivo?

Una cosa intanto è certa; ed è che il sistema elettivo è, per lo meno, il meno idoneo ad assicurare il requisito della capacità.

Ma, a mio giudizio, neppure il requisito del carattere è assicurato con tale sistema: nelle inevitabili deformazioni della democrazia non è raro incontrare casi di uomini che, proprio a cagione del loro spiccato carattere di indipendenza e di fierezza, non sono stati fortunati alle urne. Comunque, non sempre quegli elementi che valgono a rivelare un carattere sono facilmente rilevabili dal popolo. Sicché l’elettività, mentre non assicura il requisito della capacità; mentre costituisce una sicura insidia all’indipendenza del giudice; non rappresenta, d’altro canto, neppure una garanzia per quello che riguarda il suo carattere.

In verità, onorevoli colleghi, su questo delicatissimo problema – che noi consegniamo al futuro legislatore dell’ordinamento giudiziario – non è facile dire l’ultima parola. Quello che occorre studiare è la ricerca d’un congegno che possa assicurare l’assunzione di giudici forniti di capacità e di doti morali. Questo problema ha agitato per il passato le menti degli studiosi e degli uomini politici. E mi è caro ricordare qui che Enrico De Nicola, il quale oggi nobilmente ed austeramente impersona la più elevata Magistratura dello Stato, sentì nella sua coscienza di giurista e di avvocato l’importanza del problema, quando in un lontano articolo, confinato in un modesto giornale giudiziario, proponeva la costituzione di accademie particolari per la formazione dei magistrati.

Dopo aver riconosciuto l’importanza di questo problema, che ho testé esaminato, noi non possiamo condividere un giudizio negativo della Magistratura italiana; sentiamo, anzi, di doverlo respingere.

Non prenderò in considerazione quanto si è detto a proposito degli indirizzi giurisprudenziali – incostituzionalità dei decreti Gullo, amnistia, ecc. – perché, a parte le notevoli esagerazioni contenute nei relativi rilievi, si tratta di questioni contingenti, che non devono offuscare la limpidità dell’indagine del problema. Il problema, però, secondo l’impostazione che ne è stata data da alcuni settori, sta nel vedere se al giudice possa chiedersi un adeguamento, e in quali limiti, alle esigenze sociali, alla coscienza popolare.

Ora, su questo punto, onorevoli colleghi, il nostro diritto moderno, le regole della ermeneutica giuridica il congegno lo dànno; e non occorre che voi alteriate l’organizzazione della Magistratura, non occorre che voi rompiate quello che è lo schema tradizionale, che ha funzionato di regola così sufficientemente e nobilmente, di una Magistratura organizzata sul principio dell’assunzione mediante carriera, sul principio dell’autogoverno, per introdurre il principio sociale nell’amministrazione della giustizia. Noi sappiamo che la dottrina ha profilato a tale proposito i lineamenti dell’interpretazione evolutiva, che taluni chiamano progressiva: termine che potrebbe essere gradito a taluni settori di questa Assemblea. E vorrei ricordare che fu un grande giurista italiano, che onorò il partito popolare, il Degni, il quale in un libro di oltre quaranta anni fa, che è ancora fresco, fissava i canoni dell’interpretazione evolutiva. Si tratta di stabilire la funzione che dovrebbe avere questa interpretazione evolutiva. È evidente che l’interpretazione evolutiva o progressiva non può servire a distruggere le norme, a violare lo spirito della legge, la mens legis, a capovolgerla. A questo devono provvedere altri congegni; e deve essere di maggiore duttilità il congegno legislativo per obbedire a queste necessità sociali, a questi profili sociali. Ma l’interpretazione evolutiva – la quale significa possibilità di interpretare le norme in una maniera che si adegui a nuove esigenze, quando queste nuove esigenze, inserendo nel sistema del diritto vigente nuovi elementi, possono portare reazioni su singoli istituti giuridici – questa interpretazione evolutiva, progressiva, dà sufficienti possibilità, dà larghe possibilità al giudice, che non è necessario che sia popolare, di adeguare l’interpretazione della norma, che sia sorta in antichi tempi, a necessità, a profili sociali nuovi.

Occorre, però, che questa interpretazione evolutiva resti sempre nell’ambito della legalità, cioè non rifiuti obbedienza a quel canone del rispetto della certezza del diritto, che è una delle esigenze fondamentali dello Stato moderno. Perché, sul piano storico, non potete negare che là dove la certezza del diritto è crollata, sono crollate anche la civiltà e la libertà. Basta pensare che nel diritto tedesco, nel diritto di quello che fu il Paese più eminente forse nella costruzione sistematica o dogmatica, il nazismo penetrò; e col servilismo dei giuristi (che in Italia non si ebbe, perché in Italia i giuristi in gran parte fecero il loro dovere, resistendo all’infiltrazione dell’elemento politico) pretese che alla certezza del diritto, al principio della legalità, specialmente in materia penale, si sostituisse il principio dell’ispirazione alla sana coscienza popolare. Questo era il principio che fu affermato dalla dottrina giuridica tedesca. Quindi, si disse, il giudice non occorre che richieda alle norme giuridiche la direttiva per la soluzione dei casi giudiziari; può chiedere direttive alla sana coscienza popolare. Però, si aggiungeva: della sana coscienza popolare unico interprete è il Führer.

Quando si parte, onorevoli colleghi, da certi lidi che sono di distruzione, di insidia, sia pure inconsapevole, del principio della legalità e della certezza del diritto, noi abbiamo già visto a quali rive si può approdare: si approda alla distruzione della libertà, alla negazione completa della personalità umana.

E consentite che io ribadisca questo punto, che è punto centrale del discorso, perché ho avuto la sensazione che serpeggiasse il proposito di richiedere il mutamento dell’ordinamento giudiziario in Italia per renderlo più sensibile alle esigenze sociali. Ciò significa incorrere in un equivoco, quello di trasferire nel campo giudiziario la sollecitudine per le esigenze sociali che deve ispirare realizzazioni in altri campi. Io ricordo a questo proposito, anche senza voler ripetere quello che dicevo in sede di Sottocommissione polemizzando con un caro collega del mio Gruppo, che nessuno certamente può rimanere insensibile ai fatti sociali, ma non bisogna temere la cristallizzazione del giudice, bensì la cristallizzazione della legge.

Il giudice non deve essere che l’interprete delle esigenze sociali entro i principî della legge; mentre gli impulsi di vita nuova devono trovare la loro espressione nell’evoluzione della legge. Donde la necessità di fare leggi nuove che rispondano all’esigenza del divenire sociale con la maggiore elasticità. Ma a questa esigenza non si risponde quando si afferma che il giudice può decidere secondo il suo criterio.

A proposito di certe accuse che chiaramente o velatamente sono state rivolte alla Magistratura, di essere conservatrice, io osservavo che di conservatorismo si può parlare in duplice senso: nel senso della difesa di un dato sistema economico o politico vigente, e nel senso della difesa del sistema giuridico.

Il giudice deve essere conservatore della legge, interprete della legge secondo i fini per cui essa è stata emanata, e secondo quei fini che attraverso il mutamento del sistema possono introdursi nei cancelli della norma.

Se a un certo momento la formula e lo spirito della legge nuova sono in contrasto col movimento sociale in atto, il giudice non può arbitrariamente mutare la legge vecchia. Per l’ordine giuridico sarebbe troppo pericoloso che il giudice seguisse a suo arbitrio il nuovo orientamento sociale. Perciò io sostenevo, in sede di Sottocommissione, che il nuovo orientamento si proiettasse sul piano del diritto sostanziale, e non sul piano del diritto processuale. Non si può ammettere il cosiddetto diritto libero, per cui la coscienza del giudice si sovrappone alla norma di legge.

E veniamo ad un altro argomento che, sia pure con collegamento arbitrario, si può legare al problema dell’indipendenza del giudice: ed è il problema dell’inserzione della donna nella magistratura, il problema della donna-magistrato. Tacere di questo problema potrebbe sembrare o vigliaccheria di fronte all’aggressiva presa di posizione delle onorevoli colleghe, o eccesso di cavalleria. Che alla donna non si debba e non si possa negare una maggiore partecipazione alla vita pubblica non si può negare. Questa maggiore partecipazione è stata già riconosciuta.

Ma, per quanto riguarda il problema dell’ammissione alla Magistratura, io ritengo che solo in alcune limitate funzioni giudiziarie si possa introdurre la donna; in quelle funzioni cioè in cui la donna possa partecipare con profitto per la società e per l’amministrazione della giustizia, per le qualità che le derivano dalla sua femminilità e dalla sua sensibilità.

Io mi riferisco, oltre che alla giuria (nel caso che, contrariamente alla mia opinione, possa venire ripristinata), a quei procedimenti in cui è richiesto un giudizio che prescinde da esigenze non strettamente giuridiche, come può essere il tribunale dei minorenni, che è la sede più adatta per la partecipazione della donna!

Ma alle più alte magistrature, dove occorre resistere e reagire all’eccesso di apporli sentimentali, dove occorre invece distillare il massimo di tecnicità, penso che la donna non debba essere ammessa; perché solo gli uomini possono avere quel grado di equilibrio e di preparazione necessario per tali funzioni.

Perciò la formula del progetto di Costituzione mi sembra la più idonea, perché è una formula che pone la possibilità del limite dell’ammissione della donna alla magistratura.

Io direi che è già una conquista concreta, perché apre le porte all’ammissione dello donne in questo potere, pur stabilendo la possibilità, non l’obbligatorietà, di un limite; possibilità da studiare in sede di legge sull’ordinamento giudiziario.

  1. – Indipendenza della Magistratura, ovvero del potere giudiziario. A questo punto va ripreso l’accenno, che abbiamo posto in principio, all’indefettibile collegamento dei tre temi di indagine: indipendenza del giudice, indipendenza della Magistratura, unità della giurisdizione.

Se la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura nel Consiglio Superiore deve essere adottata, essa risponde ad esigenze profondamente diverse da quelle che in alcuni settori sono state segnalate; ed è bene che in questa sede la mens legis sia chiaramente espressa.

Qui non si tratta di immettere nella funzione giurisdizionale elementi non tecnici, espressione del popolo e non di casta (come si è voluto dire); ma si tratta di realizzare, mediante la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura al Consiglio Superiore, il più idoneo strumento di autogoverno e di indipendenza della Magistratura stessa.

Il Consiglio presiede all’amministrazione della Magistratura: questo è il punto che non si deve perdere di vista. Presiede, cioè, a tutta l’attività che accompagna la vita del magistrato; ma non ha e non può avere alcuna ingerenza nell’esercizio della funzione giurisdizionale.

Questa non conosce poteri superiori, non conosce gerarchia, non conosce vincoli. Libera da ogni legame, la funzione giurisdizionale non obbedisce che alla legge e non si ispira che alla coscienza del giudice. Se, pertanto, la partecipazione di elementi estranei non vale ad inserire nella amministrazione della giustizia un elemento così detto popolare (cioè un’espressione della sovranità popolare); risponderà ad altri fini; e tali fini concernono non l’amministrazione della giustizia, bensì il governo della carriera del magistrato, che è cosa ben differente.

In altri termini, dal punto di vista astratto, l’indipendenza del giudice si riafferma sempre, anche con una Magistratura non indipendente. Si tratterà di condizioni per realizzare questa indipendenza e si tratterà di una maggiore o minore possibilità di resistenza agli elementi esterni che possano frapporsi alla realizzazione di questa indipendenza.

Ecco perché dobbiamo mirare alla indipendenza della Magistratura. Ma nessuno ha dubitato mai che il magistrato nell’amministrazione della giustizia possa non essere indipendente. La funzione giurisdizionale è stata sovrana anche quando il giudice personalmente non aveva guarentigie di indipendenza.

Ora, il nostro compito sta in ciò: nel congegnare un governo della carriera del magistrato che miri ad assicurare il massimo di quelle condizioni che ne garantiscano l’indipendenza nella funzione giurisdizionale. Checché possiate scrivere in tutte le Costituzioni in senso contrario – e noi non lo vogliamo perché desideriamo imprimere un progresso alla civiltà del Paese – nessuno può coartare la coscienza del giudice, che è sovrano anche quando sa che fuori la porta vi può essere un pericolo per la sua libertà o per la sua carriera.

Noi dobbiamo mirare – e questo è il compito della Assemblea Costituente – a costruire una organizzazione della carriera del magistrato la quale, svincolala dalle influenze di poteri e di forze estranee, possa rendere più facile al giudice, o comunque meno difficile, l’esercizio di quella sovranità nella funzione giurisdizionale, di quella indipendenza nella funzione giurisdizionale, che egli ha, e che vuol vedere soltanto riconsacrata nella Costituzione e perfezionata nelle applicazioni pratiche. Orbene, sotto questo aspetto – come strumento, cioè, per realizzare l’indipendenza della Magistratura che, se deve essere libera ed indipendente, non deve essere distaccata dalla vita dello Stato – la partecipazione di elementi estranei o laici al Consiglio Superiore ha una ragione di essere ed è questa: eliminare il timore, che si è profilato non solo nei settori politici ma anche in alcuni settori interessati, di un Consiglio Superiore, massimo organo di governo della carriera dei magistrati, che, composto solo di magistrati, possa trasformarsi in un organo di casta, intorno al quale si coagulino interessi, intrighi, protezioni, preferenze tali da costituire un pericolo per l’indipendenza dei singoli giudici. Il giudice vedrebbe trasferite in altra sede quelle ansie che attualmente possono orientarsi verso il potere politico: forse non più interferenze politiche, ma forse più interferenze personali.

Ecco la preoccupazione che ci ha indotto a profilare, a proporre la composizione mista del Consiglio Superiore. Intendiamoci: questo pericolo inciderebbe su quella serenità del giudice che, come abbiamo più volte avvertito in questo discorso, non deve essere insidiata. Ma di altri pericoli non si deve parlare; non si deve parlare del caso, che è stato pure profilato da qualcuno di noi, di una Magistratura che si rifiutasse di applicare la legge; perché, a parte il carattere aberrante di questo fenomeno (che costituirebbe un vero conflitto tra poteri statali), il Consiglio Superiore non ha poteri in tema di esercizio della funzione giurisdizionale, ma solo in tema di amministrazione, cioè di carriera del magistrato. Il Consiglio Superiore non potrà vincolare i magistrati a una certa interpretazione; non potrà indurli a un certo orientamento nell’esercizio sovrano della funzione giurisdizionale. Il Consiglio Superiore ha soltanto il governo della Magistratura.

Il pericolo, però, di un autogoverno (così delimitato) staccato del tutto dagli altri poteri statali, come tale suscettibile di instaurare una organizzazione di casta, non poteva essere dissimulato e ad eliminarlo tre congegni si presentavano idonei:

  1. a) assegnare al Ministro di giustizia il potere di promuovere l’azione disciplinare a carico del magistrato. Le critiche su questo punto del progetto tralasciano di considerare che, mentre si tratta soltanto di facoltà di promuovere l’azione disciplinare (non di potestà di applicare sanzioni disciplinari), mentre si tratta solo di potestà di promuovere l’azione disciplinare, sulla quale deciderà il Consiglio Superiore (pertanto, in analogia al citato regio decreto-legge 3 maggio 1946 n. 511, al Ministro è stato tolto ogni potere di giudicare in sede disciplinare), non si può togliere al potere esecutivo (per quel necessario coordinamento che deve esistere tra tutti i poteri dello Stato, nei quali circola la sovranità) la facoltà di esercitare un’azione stimolatrice verso il potere giudiziario per quanto concerne la sfera della giurisdizione disciplinare;
  2. b) sganciare il pubblico ministero dalla disciplina della Magistratura giudicante, limitandone le guarentigie, in modo da tenerlo in più diretto collegamento con il Ministro della giustizia.

Qui devo avvertire che parlo a titolo personale, sia perché questa mia opinione, in una discussione sia pure non ex professo in sede di Sottocommissione, non fu accolta, sia perché non è proprio questa la sede opportuna per l’impostazione del problema. Ma io penso che in un futuro rinnovamento di tutto l’organismo giuridico italiano, che sia soprattutto impostato su basi di armonia e di collegamento, in una visione integrale della riforma della legge penale italiana, il problema del pubblico ministero debba ripresentarsi. E, a mio avviso, il problema del pubblico ministero va risolto così: il pubblico ministero dovrebbe esercitare effettivamente funzioni di polizia giudiziaria, mentre gli dovrebbero essere tolte tutte quelle attribuzioni che in questo momento contende al giudice. Quindi nessuna facoltà per quanto attiene ai provvedimenti della libertà dei cittadini. Il pubblico ministero dovrebbe assicurare la funzione di polizia giudiziaria e sarebbe così utile per la società nella acquisizione, nella ricerca delle prove, nel promovimento dell’azione penale. Tutte le altre attività, che nel processo penale gli si dovrebbero certamente consentire, dovrebbero essere sempre collegate a questa fondamentale, di essere cioè titolare del diritto di azione penale. Quindi partecipazione al processo penale in veste di titolare di questa azione.

Se così si facesse, noi eviteremmo quel duplicato attuale di funzioni giudiziarie, che talora è inutile, superfluo e che ritarda pure la sollecita amministrazione della giustizia; e costringeremmo il pubblico ministero a tornare alla sua funzione genuina, elementare, primitiva, quella di capo della polizia giudiziaria (un organo dello Stato con garanzie migliori di quelle che possano richiedersi all’organo della polizia giudiziaria); di capo della polizia giudiziaria che, con maggiori garanzie, stia a ricercare le prove con quella immediatezza, con quella serenità, con quella imparzialità, con quella superiore capacità tecnica, che possono garantire la serenità e idoneità delle prime indagini, le quali, per chi ha esperienza di processi penali, sono quelle che circolano in tutto lo sviluppo dei processi penali. Com’è raro che un rapporto redatto dal maresciallo di pubblica sicurezza o dei carabinieri crolli durante il processo; e come è frequente che costituisca la struttura di tutti i successivi sviluppi del processo: e tutte le incertezze, tutte le esitazioni, tutte le imperfezioni, tutte le negligenze, tutti gli errori, tutte le esagerazioni, che nel primo momento si sono profilate, sono rimaste nel processo a pesare su un innocente o a pregiudicare la giustizia!

Perciò io desidererei – ma non è tema che rientra in questa indagine attuale – che al pubblico ministero venissero tolti tutti quei poteri che egli contende al giudice e che esso venisse invece ripristinato in questa sua funzione di capo della polizia giudiziaria e di titolare dell’azione penale. Se così lo congegnassimo, nessuna meraviglia ad accettare questa mia idea, che il pubblico ministero non deve partecipare integralmente alle garanzie che si danno al magistrato, perché organo di Governo, organo del potere esecutivo. Così noi – e torno all’indagine che ci concerne – potremmo avere, in questo altro congegno del pubblico ministero, organo del potere esecutivo, realizzata quella esigenza di contatto fra il potere esecutivo e il potere giudiziario alla cui ricerca noi andiamo muovendo;

  1. c) creare il collegamento fra gli altri poteri ed il potere giudiziario, che minaccerebbe di restare un corpo chiuso, un’amministrazione di casta; e soprattutto impedire che questo corpo chiuso possa creare una interna sua organizzazione oppressiva della libertà e della serenità della carriera del magistrato. È il sistema che abbiamo adottato nel progetto da noi proposto, secondo cui il Consiglio Superiore è composto in maniera mista.

Alle critiche che sono state esposte in questa sede alla composizione mista del Consiglio Superiore risponderò in maniera sintetica, chiedendo scusa ai colleghi, le cui argomentazioni sono state tutte valutate, se di esse non posso tenere conto dettagliatamente per la brevità del mio intervento.

Osserverò:

1°) che gli elementi estranei, pur venendo eletti dal Parlamento, non possono essere qualificati come espressione di un orientamento politico. Nessuno si nasconderà che nelle elezioni di tali membri giocheranno le preferenze di colore; ma nessuno potrà sostenere che i membri eletti dal Parlamento entrino nel Consiglio Superiore in funzione politica, come espressione di una parte politica.

A garantire sovratutto contro questo pericolo varrà la delimitazione delle categorie degli eleggibili secondo l’emendamento proposto dall’onorevole Conti, da me e da altri, che risponderà al duplice scopo di assicurare elementi provvisti di preparazione e di sensibilità ai problemi della Magistratura e di garantire l’imparzialità e la serenità;

2°) che, anzi, tali elementi laici potranno, per la particolare qualificazione delle categorie da cui provengono, realizzare quella difficile, ma necessaria, saldatura tra le esigenze proprie dell’amministrazione della Magistratura e l’aspirazione ad un’organizzazione che non si isterilisca nella formazione di un corpo chiuso;

3°) che, infine, la partecipazione di diritto del Primo Presidente della Cassazione e, se accogliete il nostro emendamento, del Procuratore generale difende la Magistratura dal pericolo (e sovratutto dall’offesa al prestigio dell’ordine giudiziario) di una maggioranza di elementi laici.

Mentre questi rilievi devono valere a placare le preoccupazioni di coloro che sono del tutto contrari alla composizione mista ed a coloro che vorrebbero modificare il giuoco delle proporzioni in tale composizione mista; va detto a coloro che volessero muovere verso una più ampia partecipazione di elementi estranei che tale tentativo costituisce un regresso nell’indipendenza della Magistratura. Qui occorre fermarsi alla reale constatazione della situazione attuale della Magistratura, in base all’ordinamento giudiziario italiano, al quale così ampie riforme, piene di promesse e di speranze, apportò il decreto legislativo Togliatti del 31 maggio 1946. Attualmente il governo della carriera dei magistrati è in gran parte nelle mani del Consiglio Superiore ed il potere disciplinare è affidato ad un organo analogo (Commissione disciplinare): organi composti tutti da magistrati. Questo è il punto dal quale bisogna partire se si vuol mirare ad una onesta soluzione del problema, che è il problema centrale della sezione che concerne la Magistratura. È un punto di vista che non può essere disatteso.

Si entra in Magistratura attraverso un concorso. La Commissione è composta quasi esclusivamente di magistrati, con partecipazione di professori universitari. Si è promossi mediante un triplice congegno, nel quale interviene o il Consiglio Superiore se si tratta di scrutinio, o una commissione di magistrati se si tratta di concorso.

Quale è il destino, sotto l’aspetto disciplinare, della Magistratura? Tutte le sanzioni disciplinari sono sottratte al potere esecutivo. Sono consegnate nelle mani di corpi periferici o centrali esclusivamente composti di magistrati.

Questi organi hanno una vera e propria giurisdizione.

Sicché, sintetizzando – e questa sintesi è indispensabile, perché possiamo muovere alla risoluzione del problema con consapevolezza – sintetizzando: ingresso in carriera per concorso giudicato da magistrati; promozioni, quale che sia il congegno, giudicate da magistrati; sanzioni disciplinari applicate da magistrati

A che si riduce il potere del Ministro della giustizia in questo momento, nei confronti del magistrato? A congegni teoricamente modesti, che però sono praticamente più pericolosi.

Ecco il punto che occorre esaminare.

Il Ministro della giustizia ha una discrezionalità nell’assegnazione al magistrato della prima sede; quando il magistrato abbia superato il concorso, il Ministro è arbitro di mandarlo in Sardegna o a Roma. Anche qui è la discrezionalità che dev’essere chiamata in causa, perché, se si tratta del primo vincitore del concorso, questi non andrà in Sardegna. Quando il magistrato chiede il trasferimento in altra sede, è nella discrezionalità del Ministro di assegnare questa sede, cui il magistrato aspira. Quando il magistrato è promosso, il Ministro ha il potere di assegnare la nuova sede.

Questi tre poteri ha il Ministro della giustizia sulla Magistratura. Tutto il resto rientra in quello che si dice autogoverno. Lo so che questa parola è pericolosa. Assumo in pieno la parte di responsabilità che mi compete per la partecipazione che ho avuto a questa formulazione pericolosa. Quando si è parlato di autogoverno, si è pensato quasi ad uno spodestamento del Ministro per la giustizia.

Noi invece, non facevamo altro che perfezionare l’armonia del sistema vigente. Se tutta la carriera del magistrato è nelle mani della Magistratura, se soltanto i tre indicati congegni, che sono i meno importanti astrattamente, ma i più praticamente pericolosi, sono fuori dell’autogoverno della Magistratura e sono, invece, nelle mani del Ministro, perché non trasferire anche questi tre poteri al Consiglio Superiore, il quale, mentre oggi è composto esclusivamente di magistrati, come la corte disciplinare, domani si trasformerebbe in quel Consiglio Superiore che abbiamo proposto, composto per metà di magistrati (più il Primo Presidente ed il Procuratore generale) e per metà di elementi laici?

Questa è la situazione della Magistratura.

Perciò, io ho il diritto – e sono grato all’onorevole Veroni che lo ricordava qualche giorno fa – ho il diritto di ripetere quello che dicevo all’adunanza plenaria dei Settantacinque: dovete dirci se vogliamo far compiere un regresso alla Magistratura, ed allora assumetene la responsabilità. Peserà, in tal caso, sulla giovane Repubblica italiana la responsabilità di avere riportata indietro l’indipendenza della Magistratura. Ma, se noi vogliamo, non dico aumentare l’indipendenza, ma per lo meno mantenerla integra, il progetto è la massima concessione che si possa fare ad elementi estranei alla Magistratura. Noi su questa impostazione leale, e che sottomettiamo all’esame dei colleghi, intendiamo che sia condotta consapevolmente la nostra indagine, la nostra decisione. O un progresso alla Magistratura, che lo merita, non per suo privilegio, ma per nostra garanzia, per la sicurezza, per il fondamento dello stato moderno; o il regresso, di cui dovreste assumere la responsabilità.

La presidenza del Consiglio Superiore, a mio avviso, dovrà restare attribuita al Capo dello Stato. Essa, innanzitutto, come è stato rilevato, conferisce particolare solennità al massimo organo di governo della Magistratura, la quale avvertirà in tale presidenza, che probabilmente sarà soltanto simbolica, non l’espressione della interferenza di un altro potere, perché il Capo dello Stato è al di sopra degli altri poteri; bensì la consacrazione della sua altissima funzione.

Ma essa obbedisce anche ad un criterio di simmetria costituzionale, che non può sfuggire. I tre poteri dello Stato, avendo come vertice il Presidente della Repubblica, in lui si ricongiungono, pur senza in lui confondersi. È chiaro che questa Presidenza del Capo dello Stato costituirà uno dei pochi atti, per i quali non sarà richiesta la garanzia ministeriale.

E qui è ovvia la domanda che si pone alle vostre coscienze ed alla quale ho in gran parte risposto: quale sarà il destino del Ministro della giustizia? Cosa accadrà di questo Ministro della giustizia? Nessuna preoccupazione se dovesse sparire: non sarebbe poi la fine del mondo, perché si tratta di denominazioni; ed il problema consisterebbe nel conferire ad un nuovo o ad un altro ente questo settore dell’Amministrazione statale.

Voglio, tuttavia, sinteticamente elencare i tre gruppi di attività che il Ministro della giustizia ha conservato. Il Ministro conserva anzitutto tutta l’attività concernente gli uffici giudiziari; in secondo luogo ha il potere di ispezione; poi ha il potere di promuovere l’azione disciplinare, di cui vi ho già parlato; ed infine provvede all’esecuzione penale.

Basterebbe l’esecuzione penale per riempire da sola la vita di un Ministro e le ansie di un Ministero. Vorrei, a tale proposito, che in questa sede si sentisse la nostra parola, carica di amara esperienza: l’esecuzione penale in Italia è dolorosamente indegna di un popolo civile come il nostro. (Applausi). In altra sede dissi come nel quadro delle immense spese che lo Stato italiano si è assunto non figuri – almeno a quanto a me consta – uno stanziamento notevole per le spese concernenti gli istituti penitenziari. È una cosa singolare. Si assiste perfino ad un capovolgimento ignobile del sistema carcerario: gli istituti di custodia preventiva sono degradanti e costituiscono un’autentica negazione della dignità umana. È inutile, o colleghi, scrivere nella Carta costituzionale che vogliamo potenziare la dignità umana e che vogliamo che la pena non distrugga la personalità dell’uomo. Queste sono tutte belle frasi che si possono anche scrivere sulle facciate dei penitenziari, mentre là dentro vi è la più bassa e disgraziata umanità e dove il trattamento è quanto di più ignobile sia dato immaginare. Dalla nostra Assemblea si deve levare la nostra parola di segnalazione urgente di questa dura realtà, perché, se è vero che la pena è un compito dello Stato doloroso ma necessario, è altrettanto vero che la sua espiazione dev’essere intrisa di carità, come afferma Carnelutti. Lo Stato deve in prima linea attuare la riforma di tutto il sistema carcerario ed improntarlo a quelle caratteristiche che rechino i segni della civiltà, senza la quale non può sorgere uno Stato democratico. (Vivi applausi).

III. Unità della giurisdizione. – Onorevoli colleghi, su questo terreno si contendevano tre orientamenti: unità assoluta della giurisdizione e soppressione di tutte le giurisdizioni speciali, compresi il Consiglio di Stato e la Corte dei conti; libertà di tutte le giurisdizioni speciali, cioè mantenimento delle due particolari giurisdizioni speciali (Consiglio di Stato e Corte dei conti), le quali hanno una loro funzione, una loro dignità ed una loro storia, e dell’immensa congerie di giurisdizioni speciali, di cui qui non è facile fare neppure l’elenco; non solo mantenimento di questa congerie di giurisdizioni speciali, ma perfino possibilità illimitata di aumentarle per l’avvenire.

C’era poi una tesi intermedia, verso la quale si è orientato il progetto: cioè stabilire, in materia penale, il principio dell’unità della giurisdizione, con il divieto di costituire, nel modo più assoluto, giudici speciali in materia penale. È chiaro che su questo problema non è stato difficile arrivare ad un accordo, perché indubbiamente dove più si sente la preoccupazione degli eventuali pericoli causati da giudici speciali è proprio in materia penale che, in quanto attiene ai diritti fondamentali di libertà del cittadino, può maggiormente risentire il pregiudizio di giurisdizioni destinate a subire il peso di forze politiche.

Quindi, su questo punto il progetto è chiaro: in materia penale divieto di costituire giurisdizioni speciali, ma facoltà soltanto di istituire sezioni specializzate, cioè particolari organi dei giudici ordinari, i quali, non sottraendosi all’organizzazione della Magistratura e quindi all’unità della giurisdizione, possano rispecchiare alcune esigenze nella formazione del collegio giudicante, mediante la partecipazione di elementi estranei alla Magistratura.

Sto esponendo la tesi intermedia accolta dal progetto: in materia penale nessuna giurisdizione speciale, in materia civile possibilità di istituire, con una legge qualificata votata con una certa maggioranza, giurisdizioni speciali.

Ora è questo congegno intermedio che dovrà essere riesaminato e che va preso in considerazione; sicché a me sembra che sia inesatta l’osservazione di Villabruna che cioè dell’unità della giurisdizione non si conservi più traccia in questo progetto. L’unità della giurisdizione, in via assoluta, è caduta in questo progetto; ma, per lo meno per il profilo penale, essa resta come divieto di istituzione di giudici speciali; in materia civile resta come una direttiva, come un orientamento, di non ricorrere a giudici speciali, che non potrebbero mai essere istituiti se non con una legge votata con una certa maggioranza.

Ma, onorevoli colleghi, io penso che questa tesi intermedia debba prevalere. Io, come studioso, come teorico, come modesto cultore di diritto, studiando astrattamente il fenomeno, potrei, dovrei arrivare ad una concezione dell’unità della giurisdizione. Ma, le esigenze della vita moderna, le necessità susseguentisi, l’urgenza di alcuni particolari settori della vita attuale, hanno fatto delineare la necessità che in taluni particolari aspetti della giustizia non penale il giudice debba essere congegnato in modo da essere adattato a queste particolari esigenze, che sono tecniche o sociali, nelle quali occorre la partecipazione dell’elemento estraneo, non come svalutazione di una capacità del magistrato a quest’opera di particolare valutazione di certe esigenze, ma come necessità di una maggiore aderenza della giustizia a certi particolari profili sociali o anche tecnici.

Questo induce a mantenere, a rendere possibile, sia pure con la garanzia della legge votata con una certa maggioranza, la giurisdizione speciale in materia non penale. Constato che non si sono levate molte voci in senso contrario alla conservazione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, che si giustificano in parte perché giurisdizioni di interessi, tranne alcuni settori riservati ai diritti, ed in parte per la necessità di adeguare tali organi a quella che è l’attività tipicamente amministrativa. Non si può richiedere al potere giudiziario la facoltà di annullare atti amministrativi; ma occorre che vi sia un particolare giudice amministrativo, il quale abbia la facoltà di intervenire sia pure non sostituendosi all’emanazione dell’atto stesso, ma per lo meno annullandolo.

Ma se le giurisdizioni speciali – e quando parlo di queste metto fuori definitivamente Corte dei conti e Consiglio di Stato, delle quali non ci occuperemo più – se le giurisdizioni speciali devono, in materia non penale, poter essere conservate, ma sempre con una certa garanzia, a mio avviso una esigenza è insopprimibile, esigenza che non può non essere consacrata nella Carta costituzionale, quella cioè di ristabilire, per lo meno al vertice, l’unità della giurisdizione, garantendo il controllo della Corte di Cassazione su tutti i pronunciati dei giudici ordinari e speciali, naturalmente eccetto la Corte dei conti e il Consiglio di Stato.

Ora, sotto questo aspetto, io penserei che non si debba non mettere nella Carta costituzionale una norma di questo genere.

Non si può non esaminare la necessità di questo problema, perché la nostra esperienza ci dice che, quando si sono voluti eliminare, limitare, ridurre i diritti dei cittadini, si è abolito il ricorso alla Corte di Cassazione, la cui garanzia, per la massima indipendenza e per la funzione regolatrice del diritto di tale organo, deve èssere assicurata a tutti i cittadini.

Non si dica che questa è materia di ordinamento giudiziario: questa è garanzia costituzionale, che bisogna conferire al cittadino; ed è una garanzia nei confronti del potere legislativo, allorché questo vagheggiasse di privare il cittadino della possibilità di far valere i propri diritti dinnanzi al giudice ordinario. Giudice speciale, se deve essere consentito, ma per indagine di merito; giudice speciale, se deve essere consentito, per l’applicazione della legge nel caso concreto, secondo determinate esigenze; ma sempre possibilità del cittadino di ricorrere alla Cassazione. E non si affermi tale diritto in maniera generica; ma si precisi che tutte le violazioni di legge sono deducibili in Cassazione.

Su questo punto io debbo ricordare un’altra pagina ignobile della nostra vigente legislazione: quella dei tribunali straordinari militari. Ma vi sembra che, ad onta di tutte le necessità determinate dalla odierna delinquenza, si possa delineare un tale organo straordinario in uno Stato civile e nella cui Costituzione è scritto che i giudici straordinari sono aboliti? È possibile mai mantenere, prorogare anzi – ad onta che io in una interrogazione chiedessi al Ministro della giustizia che ci desse conto di questo – un organo giudiziario straordinario, formato in una maniera così ridicola (Presidente: un generale e componenti un magistrato e un cittadino)? Guardate che forma strana di mosaico! E questo tribunale è straordinario e cioè può agire senza alcun rispetto per le più essenziali forme e per le stesse garanzie della difesa! Ecco la necessità che si profila in chi ne ha l’esperienza, ecco la necessità di una urgente abolizione di questo organo, come di una cosa la più aberrante, poiché avverso le sentenze di tali tribunali non è ammesso il ricorso in Cassazione nemmeno per difetto di giurisdizione. E questo è pietoso per l’armonia e la serietà della legislazione in uno Stato repubblicano! Cosicché, mentre per giudicare di un furto abbiamo tre gradi di giurisdizione, per i reati che possono importare la pena di morte o l’ergastolo, non c’è garanzia di difesa e ricorso in Cassazione.

Dirò: io ho visto come a Napoli, in diversi casi, si è violato la più elementare norma di garanzia della difesa del cittadino, infliggendo l’ergastolo o trent’anni di reclusione senza nemmeno rispettare i limiti di competenza. Ora, ci possono essere esigenze particolari che bisogna soddisfare in uno Stato moderno, ci sono anche necessità di una giustizia aspra, che accentui la sua funzione preventiva; ma queste esigenze debbono armonizzarsi con alcune fondamentali garanzie, come quelle concernenti la difesa e la possibilità di adire la suprema Corte di Cassazione, che deve restare un organo regolatore del diritto in tutti i processi.

Collegato a questo problema dell’unità di giurisdizione è il problema dei tribunali militari. Se il tribunale militare in tempo di pace dovesse mantenersi – perché il progetto, in tempo di guerra, consente che tribunali militari siano istituiti – questa sarebbe indubbiamente l’unica eccezione che noi inseriremmo nella Costituzione al principio dell’unità della giurisdizione in materia penale.

GASPAROTTO. Sono tribunali ordinari, però.

LEONE GIOVANNI. Sì, ho chiuso la parentesi dei tribunali straordinari; mi occupo ora dei tribunali militari territoriali.

In ogni modo, pongo subito una subordinata, alla quale non potete essere insensibili: se accedeste all’idea di mantenere i tribunali militari, occorrerebbe sempre che la giustizia militare fosse inquadrata nella giurisdizione ordinaria e che, quindi, si abolisse quel sistema attuale, che non è certamente conforme ad una corretta Costituzione, che i tribunali militari sono giudici speciali alle dipendenze del potere esecutivo.

Anzi, dirò di più; nei tribunali militari, non solo il pubblico ministero è alle dipendenze del potere esecutivo – perché questo, in fondo, si potrebbe comprendere – ma anche il giudice relatore, l’unico giudice tecnico, che è un organo della Magistratura militare e, come tale, dipendente dal Ministero della guerra.

Quindi, ove accedeste alla tesi del mantenimento dei tribunali militari in tempo di pace, non vi potreste sottrarre alla necessità di inserire nella stessa Costituzione una formula che esprimesse questa nostra ansia verso una organizzazione indipendente dei tribunali militari.

Tuttavia io vorrò, a titolo personale, esprimere il mio dissenso, limitandomi ad enunciare le risposte alle notevoli ed autorevoli parole qui pronunziate in favore dei tribunali militari, tra gli altri anche dall’onorevole Gasparotto che ha portato la sua esperienza di Ministro della difesa.

Si è detto, in quella relazione della Commissione per lo studio dell’ordinamento della giustizia militare presso il Ministero di grazia e giustizia, che la giurisdizione militare integra le sanzioni disciplinari, ed è diretta a mantenere la saldezza dell’esercito.

Questo è stato detto dall’onorevole Villabruna; ma questo è quanto si legge in quella relazione che afferma il problema dell’autonomia della giurisdizione militare come completamento della giurisdizione disciplinare:

«Le trasgressioni disciplinari ed i reati militari sono lesioni di diverso grado e rilevanza, ma di uguale interesse nei confronti delle forze armate, ecc.».

Ora, su questo punto devo esprimere il mio profondo dissenso da tale impostazione e devo riaffermare: restino pure i tribunali militari, se credete! La mia può essere una posizione teorica più che pratica; ma certi concetti occorre che siano rettificati, perché l’autorità di un’Assemblea legislativa si proietta nel futuro, nell’interpretazione della legge. Ora, è profondamente errato stabilire una sostanziale affinità tra la sanzione disciplinare e la sanzione penale. Perché questa omogeneità, questa identità si presenterebbero soltanto nel campo militare e non in tutti gli altri campi?

La differenza fra sanzione disciplinare e sanzione penale è così ovvia da non richiedere qui alcun commento e vale a stabilire l’erroneità dell’affermazione che si possa congegnare la giustizia penale militare come una continuazione della sanzione disciplinare.

Questa visione, badate, è una visione non solo dal punto di vista teorico – a mio modesto avviso – inesatta; ma pericolosa, perché è a questa visione che si ispirano per lo più i giudici militari, sicché taluni reati vengono guardati sotto l’aspetto di una maggiore gravità e quindi puniti più duramente, mentre altri reati vengono considerati sotto l’opposto aspetto, di minor gravità. Ciò importa che i tribunali militari, mentre, come è notorio, sono di solito molto umani – e mi piace cogliere l’occasione per render loro atto di ciò – d’altra parte, quando si tratti di reati contro la disciplina, contro la subordinazione, sono rigorosissimi, sono anzi molte volte addirittura feroci, perché essi, come dicevo or ora, ripetono quella visione dottrinaria errata e irrogano così quelle sanzioni penali, che si riflettono poi sulla vita stessa del militare per infiniti importantissimi riflessi, sotto un profilo disciplinare.

Si osserva ancora che la giurisdizione militare è un caratteristico giudizio di capi. Questa concezione è inesatta. Essa risale al Vico: «il giudizio militare è un giudizio di capi, e quasi un completamento della potestà disciplinare, esercitato dai superiori militari verso i dipendenti»; è ripresa da altri più recenti cultori di diritto militare; e si ritrova nella relazione, di cui ho innanzi parlato.

Ora, dal punto di vista gerarchico, può darsi anche che ciò possa recare giovamento; ma non risponde certo alle esigenze di una giustizia sostanziale. Debbo inoltre precisare che noi non intendiamo, d’altronde, vietare la partecipazione al giudizio dei capi militari. Noi pensiamo, infatti, che i tribunali militari possano risorgere sotto forma di sezioni specializzate dei tribunali ordinari. In queste sezioni specializzate, l’elemento militare non solo, come ho detto, potrà entrare, ma potrà anzi esplicare un’azione quanto mai utile, recando il contributo di quella insostituibile esperienza, di quella competenza tecnica, la cui utilità nessuno vorrà negare.

Quando l’onorevole Bettiol – il mio caro amico Bettiol, che io ricordo soprattutto per la fraternità di studi che ci ha accomunato – mi dice che l’esercito è una istituzione e che, come tale, esso deve avere una sua giurisdizione, non mi è difficile rispondergli che vi sono molti altri corpi che sono pure delle istituzioni, ma che non hanno una loro giurisdizione particolare. Con la soppressione del Senato, onorevoli colleghi, possiamo dire che sia scomparsa l’ultima giurisdizione di casta.

È quindi facile obiettare che le esigenze particolari della giustizia militale possono essere sodisfatte con la partecipazione di militari al collegio giudicante. Ad ogni modo, in molte altre cause il giudice ordinario deve adeguarsi ad ambienti, a stati d’animo, ad interessi particolari, senza che si creda per queste particolarità di dover creare una giurisdizione speciale.

Cadono perciò i motivi favorevoli per il mantenimento in tempo di pace dei tribunali militari; e alludo ai motivi teorici. Sui motivi pratici che sono stati addotti, come quello che sarebbe difficile organizzare la giustizia militare in tempo di guerra, se non esistesse già in tempo di pace, non voglio soffermarmi neppure. Si organizzerebbe la giustizia militare in guerra, perché non è difficile organizzare particolari servizi che in tempo di pace non esistono. Sarebbe strano che in tempo di pace noi dovessimo profilare gli schemi di tutte le istituzioni che poi devono agire in tempo di guerra!

Cadono, quindi, come ho detto, i motivi favorevoli ai tribunali militari. Resta, invece, la grave obiezione che si tratta di un giudice speciale, legato direttamente ed esclusivamente al potere esecutivo. E non il solo procuratore militare, dicevo, ma anche i giudici che sono e restano militari: il relatore, che è un organo della giustizia militare, è alle dipendenze, come gli altri, del Ministero della guerra.

Una parola occorre dire per un eventuale sdoppiamento del problema.

Si potrebbe da taluni (e tale posizione assunse nella Sottocommissione l’onorevole Bozzi) sostenere il mantenimento dei tribunali militari territoriali e l’abolizione del tribunale supremo militare, che, pur costituendo una giurisdizione di diritto, è composto anche di elementi laici, non tecnici. Il tribunale supremo è composto da quattro magistrati: tre ordinari, un relatore della giustizia militare o tecnico, e tre elementi laici, tre militari. Ora, per quanto attiene alla composizione dei tribunali militari territoriali, essa può anche rispondere a talune esigenze, delle quali non sarò certo io a negare la validità e l’efficacia. Ma queste esigenze non sussistono per quanto attiene al tribunale supremo militare – organo esclusivo di diritto, che corrisponde alla Corte di Cassazione, che è la Corte di Cassazione in materia militare, con questo in più, che è una Corte di Cassazione che non ha giurisdizione intermedia, perché non esiste il grado di appello – che io non posso comprendere, se non come espressione di un privilegio di casta e qui la parola calza a pennello, specie se si pensi alla presidenza affidata ad un generale, che è assolutamente ignaro non solo di cognizioni giuridiche, ma perfino di quegli elementari accorgimenti di presidenza e di udienza, che sono indispensabili per un’amministrazione della giustizia che abbia prestigio e solennità.

La verità è che il Tribunale supremo militare è una figura che risale al 1855. Nel Regno di Sardegna, da cui deriva quello d’Italia, non esisteva un organo supremo di giustizia militare: era competente, invece, la Corte di Cassazione, secondo il regio editto 30 dicembre 1847 n. 638. Nel progetto del Codice penale militare del 1855 fu proposta l’istituzione di un «supremo collegio militare», che trovò attuazione nel Codice sardo del 1859. La dottrina non fu mai d’accordo su tale istituzione e la questione si è ripresentata in occasione dei numerosi progetti di riforma. Ricordo che, in Russia, sui ricorsi contro sentenze di tribunali militari decide la Corte Suprema dell’U.R.S.S.

Qual è, in definitiva, per concludere, la mia opinione su questi tribunali militari? Che i tribunali militari territoriali, nella composizione in cui si presentano oggi, non possono giustificare la loro presenza, soprattutto perché sono slegati da un’organizzazione giudiziaria indipendente, sovrana, autonoma. E nello stesso momento in cui noi riaffermiamo l’indipendenza e potenziamo la sovranità del potere giudiziario ordinario, sarebbe strano non sentire il problema della giustizia militare. Ché, ove si dovessero mantenere – e occorre che io, Relatore, ponga questo problema alla vostra coscienza e alla vostra intelligenza – occorrerebbe chiaramente provvedere nella Costituzione, a definire il loro inquadramento, per lo meno per la parte che attiene agli organi tecnici della giustizia militare, in una organizzazione giudiziaria unitaria indipendente e che risalga al Ministero della giustizia. Nessuna meraviglia che si debba risalire alla Magistratura ordinaria per destinare quegli elementi tecnici che devono partecipare alla giustizia militare.

In terzo luogo ove si dovesse mantenere la giustizia militare, non si può dissimulare il grave problema del Tribunale supremo militare che ha una composizione mista di tecnici e di laici, e non è inquadrato nell’unità della giurisdizione per la pronunzia del diritto.

Se si dovessero mantenere i tribunali militari, perché non portare i ricorsi alla Corte di cassazione, nella quale, come ho detto, si ristabilisce, come al vertice supremo della giustizia, l’unità della giurisdizione? Ivi occorre che si ricomponga, nell’unità dell’organo l’unità della giurisprudenza. E se anche i tribunali militari dovessero avere particolari norme di disciplina e di organizzazione, queste norme non potrebbero impedire assolutamente quel legame che bisogna creare per l’unità della giurisdizione di diritto.

Queste sono le osservazioni modeste che io ho voluto prospettare sulla discussione svolta da tanti autorevoli colleghi sul tema dei tribunali militari.

Onorevoli colleghi, io credo di avere modestamente, inadeguatamente corrisposto al mio compito di relatore, che ha seguito con scrupolo e devozione la vostra partecipazione ed il vostro contributo; e di tutti ho tenuto conto in questa relazione, nella quale, anche se manca un preciso riferimento ai singoli interventi, è stata colta la sostanza delle vostre osservazioni, che sono state meditate nella mia coscienza.

Ma lasciate che, chiudendo questa mia relazione, io possa ancora una volta ricordare quel famoso discorso di Giuseppe Zanardelli, che ho già ricordato. Zanardelli affermò che «la Magistratura è la custode, la difenditrice e la vindice di tutti i diritti e dei diritti di tutti. Dalla sua azione dipende la vita, la libertà, l’onore, la proprietà dei cittadini, tutte le più sacre e gelose immunità dell’uomo, nella sua personalità, nelle relazioni più intime della famiglia, nel più riposto segreto dell’essere suo. Il decoro stesso, la grandezza delle nazioni si misura dall’autorità e dal rispetto che ottengono i magistrati, dalla fede in essi riposta, dal grado di elevatezza in cui sono collocati dal popolo».

Queste solenni parole risuonano, oggi col senso della più viva attualità: d’altronde, è questa eterna freschezza il crisma delle grandi verità.

A chi come me ha collaborato a questo progetto di Costituzione con umiltà pari alla consapevolezza della nostra storica funzione sia consentito, quasi al termine della nostra lunga, appassionata e non sempre apprezzata fatica, di esprimere un augurio, nel quale palpita la coscienza del cittadino, dello studioso, dell’avvocato: che la Magistratura italiana, dopo le inevitabili esitazioni di quest’ora di ricostruzione del Paese, riprenda la via luminosa delle sue tradizioni di imparzialità, di capacità e di probità. Poiché justitia est fundamentum reipublicae, la Magistratura sia – e ne abbia la coscienza e l’orgoglio – la garante della solidità di questo fondamento del nuovo Stato repubblicano. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Ha facoltà di parlare l’onorevole Rossi Paolo a nome della. Commissione.

ROSSI PAOLO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, io penso che nessuno oserebbe dire – malgrado la chiusura anticipata che è stata votata stamane, al decimo giorno dall’inizio – che questa discussione sia stata trattenuta in vincoli troppo stretti. Mi pare che non vi siano stati argini né dighe all’irrompere di una eloquenza torrentizia. Il collega Leone, il cui eloquio può veramente essere paragonato ad una mitragliatrice, per la precisione con cui raggiunge il bersaglio e per la rapidità martellante e rapinosa con cui si esprime, ha dovuto impiegare qualche cosa come due ore per rispondere almeno una parola alle tante opinioni che si sono manifestate in quest’Aula. Avvocati (e chi non è avvocato in Italia?), magistrati, professori, hanno detto tutti la loro opinione, hanno sviscerato la materia da capo a fondo, mostrandoci il diritto e la fodera dell’argomento.

Un solo punto è rimasto alquanto oscuro; e fu un eminente fisiologo, in mezzo a tanti avvocati, il professor Gaetano Martino, che, nella sua viva sensibilità per i problemi biologici, l’ha individuato e messo in luce.

Questo argomento, del quale non ho sentito parlare per iscorcio altrimenti che da lui, è rimasto immune da critiche. È l’ultima sezione della Costituzione, è quella che si riferisce al congegno previsto dalla legge costituzionale per la sua stessa rinnovazione. Ora, il fatto che una cinquantina, e forse più, di oratori di tutti i Gruppi si siano espressi senza che uno solo si sia occupato di questa fondamentale disposizione che prevede il rinnovarsi della Carta costituzionale può essere per un ottimista, come forse non sono, materia di profonda consolazione, e può apparire per un pessimista, come non vorrei essere, un sintomo di estremo allarme. Delle due l’una, evidentemente: o nessuno di noi pensa oggi a qualsiasi mutamento della Costituzione, e tutti i gruppi ne votano o almeno ne accettano sinceramente le norme, convinti che debbono durare lunghissimo tempo, o, ahimè, regna perfino tra di noi, autori responsabili della legge fondamentale di convivenza politica, un deplorevole scetticismo sull’autorità, sull’efficacia e il rigore delle nostra Carta costituzionale.

Consentitemi di non risolvere questo dilemma pauroso perché ci sarebbe forse una terza ipotesi: quella che la vostra Commissione la quale, onorevole Presidente Ruini, non è riuscita a redigere un solo articolo, uno solo, che non abbia incontrato censure, discussioni e controproposte, l’abbia stavolta, e stavolta solo, indovinata al cento per cento, imbroccando un sistema se non perfetto almeno largamente sodisfacente e comunemente accettato. A questa ipotesi, anche per non risolvere il dilemma, amo e posso senza vanità appellarmi in quanto lo schema proposto dalla Commissione al vostro voto differisce sensibilmente da quello formulato nella mia originaria relazione.

Ci siamo trovati sempre tutti d’accordo nel ritenere che la nuova Costituzione italiana debba essere una Carta costituzionale rigida e per circondarla di questo necessario rigore con efficienti garanzie il relatore, scartando altri congegni, aveva seguito il modello delle Costituzioni belga del 1921 e spagnola nel 1931 mediante questo schema: ogni proposta di modificazione può essere introdotta dal Governo, o anche per iniziativa parlamentare, ma deve ottenere in entrambe le Camere la maggioranza assoluta. La proclamazione stessa del risultato affermativo determina automaticamente lo scioglimento delle Camere. Convocati i comizi, in breve termine, le nuove Camere dovranno porre ai voti, senza emendamenti, il progetto già approvato dal disciolto Parlamento. Ove il progetto risulti confermato, stavolta a maggioranza semplice, esso diventa legge costituzionale ed il Parlamento continua la sua normale attività legislativa.

È inutile che io tenti di dirvi i pregi di questo sistema. È più opportuno sottolineare i difetti che hanno determinato la Commissione a respingere questo congegno probabilmente troppo macchinoso. Si è detto: non conviene che per modificazioni costituzionali eventualmente di piccola, o piccolissima, mole si debba far ricorso a metodi così laboriosi da paralizzare l’iniziativa, né si può pensare ad una gerarchia di norme, escogitando per le norme di secondo grado un metodo di revisione diverso e più agile. Si è aggiunto: è pericoloso costringere il Parlamento a sciogliersi prima del tempo, se vuole operare una riforma costituzionale. Con ciò si potrebbero impedire e ritardare all’infinito riforme necessarie ed urgenti, data la legge biologica di conservazione che è comune alle razze animali e alle razze parlamentari. Si è osservato che non apparisce nemmeno legittimo che un’Assemblea politica che sta per disciogliersi condizioni al sì e al no, puramente e semplicemente, l’attività ed i poteri di una nuova Assemblea, di un’Assemblea successiva, espressione anch’essa della sovrana volontà popolare. Sì è, infine, rilevato che può nascere, talora, una così stringente, una così premente urgenza di ritoccare la Costituzione da non consentire, senza grave pericolo, senza gravissimo danno, la mora della doppia legislazione,

Convenne volgere il pensiero ad altri metodi. Un sistema fu scartato di comune accordo, quello della maggioranza qualificata di due terzi o di tre quinti. Niente di più contrario, infatti, all’essenza stessa del principio maggioritario e niente di più politicamente pericoloso ed ingiusto del caso in cui il 25 o il 33 per cento degli eletti e quindi degli elettori possa insistentemente e caparbiamente opporsi ad una riforma che è voluta dal 75 o dal 60 per cento degli eletti, e quindi degli elettori. Questo vuol dire aprire la strada alla rivolta e alla violenza. Fu scartato il più logico sistema del referendum, per quelle ragioni che furono svolte ampiamente in quest’Aula e che io non ripeterò, quando venne in discussione l’istituto del referendum in generale.

Fu scartato, ancora, per ovvie ragioni il ricorso all’Assemblea Nazionale che si era prospettato in un primo tempo. Per le stesse ragioni per cui parve inopportuno creare questo terzo istituto politico, questa terza Camera, si dovette necessariamente rinunciare all’idea di deferire all’Assemblea Nazionale le modifiche della Costituzione.

Da queste successive esclusioni e dalla riconosciuta necessità d’assicurare una notevole fermezza della Costituzione è nato quello schema che abbiamo l’onore di presentarvi: schema che riesce a conciliare – noi ci illudiamo – le istanze opposte di certezza e costanza della legge costituzionale e di adattabilità al tempo che preme con le sue continue mutevoli esigenze. La Costituzione non deve essere un masso di granito che non si può plasmare e che si scheggia; e non deve essere nemmeno un giunco flessibile che si piega ad ogni alito di vento. Deve essere, dovrebbe essere, vorrebbe essere una specie di duttile acciaio che si riesce a riplasmare faticosamente sotto l’azione del fuoco e sotto l’azione del martello di un operaio forte e consapevole!

Vediamo se le progettate disposizioni si possono avvicinare a questo ideale. Abbiamo voluto, anzitutto, che l’iniziativa della revisione competesse tanto al Governo quanto ad ogni singolo deputato. Con ciò sembra superata l’incertezza circa l’opportunità di consentire l’iniziativa anche a gruppi popolari. In una democrazia rappresentativa come la nostra, che è retta, tra l’altro, dal sistema elettorale della proporzionale, non c’è nessun gruppo politico di qualche ragionevole entità nel Paese che non abbia almeno una voce nel Parlamento. Abbiamo voluto il procedimento delle due letture, con un intervallo di tre mesi fra l’una e l’altra, perché una cosa tanto seria come la riforma costituzionale non sia il prodotto d’impulsi momentanei e demagogici o, comunque, non ben confermati e meditati. Abbiamo richiesto l’esigenza della maggioranza assoluta (metà più uno dei membri che compongono le due Camere), per evitare colpi di mano minoritari, sempre deplorevoli, pericolosi, deplorevolissimi e pericolosissimi nella suprema materia costituzionale. Vorrei dire a questo proposito che scientificamente si parla di maggioranza qualificata anche quando si parla di maggioranza assoluta. Mi pare che sarebbe più rispondente a verità parlare di maggioranza reale o maggioranza garantita. La metà più uno non è maggioranza qualificata. È maggioranza sicura, garantita, e nulla più.

Oltre a queste garanzie che ci paiono molto serie e sostanziali, ne abbiamo introdotto un’altra che può tutti tranquillizzare: il ricorso alla fonte stessa della sovranità: il referendum popolare, quando un quinto dei membri di una Camera, o 500 mila elettori, o sette Consigli Regionali ne facciano domanda. Con ciò anche i diritti della minoranza – di una modesta minoranza – sono tutelati efficacemente, restando aperto l’appello al popolo, anche ad opera di una parte comparativamente piccola della pubblica opinione. Restava la necessità di tutelare la certezza della legge; e a ciò si è provveduto fissando un termine entro il quale l’impugnativa può essere promossa: tre mesi. Tre mesi paiono sufficientemente lunghi perché l’opinione pubblica si metta in moto se è necessario, e paiono sufficientemente brevi per non lasciar troppo nell’indefinito le norme costituzionali.

Il ricorso al referendum viene escluso in un caso soltanto: quando la legge sia stata approvata in entrambe le Camere (con 4 votazioni giacché si prevede il sistema della doppia lettura), con la maggioranza di due terzi dei componenti, una maggioranza davvero largamente qualificata.

È opportuna questa norma? A me pare di sì, avuto riguardo alla concreta realtà politica, al concreto panorama politico del nostro Paese. Noi facciamo la Costituzione della Repubblica italiana, non la Costituzione d’Utopia o della Città del sole di Campanella. In un paese dove vigesse il sistema del collegio uninominale, o dove le correnti politiche si polarizzassero intorno a due soli partiti, una maggioranza qualificata di due terzi potrebbe eventualmente, non rispondere alla maggioranza reale del Paese; potrebbe accadere, come è accaduto talora in Inghilterra, che un partito che pure ha vinto in quasi tutti i collegi, cinque anni prima, sia in netta minoranza, poco dopo le elezioni nel paese, mentre conserva, in Parlamento, la quasi totalità dei mandati. Ma in Italia, dove abbiamo il sistema della proporzionale e dove i partiti purtroppo, me ne rammarico, sono anche soverchiamente frammentati, una maggioranza che raccolga in Parlamento i due terzi raccoglierà certamente nel Paese una proporzione anche maggiore di consensi. Quindi è parso giusto, per evitare inutili agitazioni e tentativi faziosi di minoranze infime, impedire il ricorso al referendum, quando la legge sia stata approvata dalle due Camere con la maggioranza di due terzi. Ma supponiamo che anche questa garanzia sia fallace. Supponiamo, in estrema ipotesi, che un Parlamento, che duri tutti i cinque anni, si discosti completamente dalla pubblica opinione, talché la maggioranza parlamentare dei due terzi non risponda più alla maggioranza reale del Paese, ebbene, una estrema valvola di sicurezza resta aperta: ci saranno le elezioni generali; quella maggioranza, quel Governo, quel Parlamento saranno rovesciati dal suffragio universale e con relativa facilità, come primo atto del nuovo Parlamento, quella determinata riforma impopolare sarà facilmente revocata.

Col sistema che vi proponiamo, io non so veramente se si possa parlare, in termini costituzionalistici, di una Costituzione rigida. Io vorrei che gli illustri maestri che sono qui me lo dicessero. Personalmente temo alquanto che non si possa più parlare di Costituzione rigida; si potrebbe forse parlare di una Costituzione semi-rigida o piuttosto di una Costituzione garantita da un serio e severo congegno di revisione Costituzionale.

Ma queste sono questioni teoriche, che interessano relativamente. Nella Commissione siamo tutti d’accordo. Abbiamo la tranquilla coscienza di avere escogitato un metodo che concilii, in composita armonia, le esigenze in conflitto, che si presentano ugualmente imperiose.

Finisco con l’esprimere un’opinione ed un augurio. Abbiamo il più profondo rispetto della legalità, ma non abbiamo alcun feticismo per il contenuto intrinseco d’ogni singola legge, d’ogni singola norma, sia pure costituzionale.

Ci siamo sforzati, nel costruire la nostra Costituzione, di raggiungere il meglio, ma sapevamo tutti di non poter conseguire un optimum assoluto, immutabile nel tempo. Il tempo, in verità, corre veloce e crea bisogni sempre nuovi e sempre diversi. Se in un futuro non molto lontano il congegno della revisione costituzionale dovrà essere messo in moto, nessuno scandalo, anche se dovrà essere messo in moto con qualche frequenza. Ciò che è davvero essenziale è un’altra cosa, è che le norme costituzionali siano mutate quando occorra, senza ancoraggi conservatoristici e senza facilonerie avveniristiche, ma siano formalmente, sostanzialmente ed intrinsecamente rispettate finché sono in vita. Abbiamo visto molte Costituzioni rimanere in vita per lungo tempo ed essere cinicamente violate o – il che è peggio – ipocritamente escluse. Auspichiamo, per le fortune della nostra Repubblica, l’aprirsi di un periodo in cui la legge si possa mutare e si muti solo con la legge, ed in cui la legge, finché è legge, sia religiosamente osservata. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato ad altra seduta.

Svolgimento di interrogazioni.

PRESIDENTE. L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno risponderà ora alle interrogazioni sui fatti di Napoli, di cui ho dato già lettura.

Ha facoltà di parlare.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato all’interno. Dichiaro subito di non poter rispondere all’interrogazione rivolta dall’onorevole Sereni, in quanto ignoro le informazioni ricevute dall’interrogante ed alle quali si accenna nell’interrogazione. Risponderò tuttavia, in replica, se l’onorevole Sereni si compiacerà di precisarle, come credo farà, nel corso della discussione.

I fatti sono noti. Ieri mattina alle ore 11, su invito della Camera confederale del lavoro, cinquemila dimostranti si sono recati in corteo a Napoli nella Piazza del Municipio. Parlarono diversi oratori, venne reclamato da questi, fra l’assenso entusiasta della folla, lo scioglimento dei partiti cosiddetti neofascisti, ed infine venne a gran voce invitata l’Amministrazione del Comune ad esporre, dal balcone del Palazzo, la bandiera rossa. Poiché l’invito non veniva ovviamente accolto, gran parte dei dimostranti tentò di invadere il palazzo comunale. Fu allora che le forze di polizia, opportunamente dislocate sul posto, entrarono in azione e riuscirono ad evitare l’invasione. Nel frattempo, però, un automezzo della polizia, carico di agenti, mentre attraversava la piazza per raggiungere il palazzo del Comune, veniva ostacolato violentemente, durante il viaggio, dalla folla. Uno dei dimostranti, quello che apparve il più violento fra gli assalitori, venne arrestato. La folla dei dimostranti si rovesciò allora, in gran parte, verso il vicino palazzo della Questura, tentando, anche qui, di invadere gli uffici, urlando per protestare contro l’avvenuto arresto e per reclamare il rilascio dell’arrestato. Partirono dalla folla alcuni colpi di rivoltella all’indirizzo del palazzo della Questura; partì soprattutto una fitta sassaiuola, che frantumò tutti i vetri delle finestre. Fu allora che gli agenti, che difendevano il palazzo, a scopo di intimidire gli assalitori, esplosero parecchi colpi di moschetto in aria. Non riuscendo con questo fatto a trattenere i dimostranti ed anzi aumentando, a parere dei difensori, le violenze degli assalitori, furono lanciate due bombe lacrimogene dopo di che la folla si disperdeva.

Dopo questo episodio, che è costato due feriti di arma da fuoco – un giovane di tredici anni ferito a una coscia ed un operaio ferito al collo, per fortuna entrambi leggermente – dopo questo episodio, recatasi gran parte dei dimostranti alla Prefettura, una commissione di questi, costituita dal segretario generale della Camera del lavoro e da rappresentanti del Partito comunista, veniva ricevuta dal prefetto, al quale esprimeva i desiderata delle masse operaie, che si possono riassumere nella richiesta, proclamata nel comizio di Piazza Municipio, di scioglimento dei partiti neofascisti. Uscita la commissione e saputosi dalla folla l’esito di questo incontro col rappresentante del Governo, si formarono parecchi gruppi di dimostranti, alcuni dei quali si avviarono al Vomero, dove venne devastata la sede del Movimento sociale italiano. Nella Galleria venne parimenti invasa e devastata la sede del Partito monarchico italiano; poi la sede dell’Uomo Qualunque e quella del Movimento nazionale democratico sociale. Venne anche tentato un assalto al giornale Risorgimento. Questo assalto poté essere tuttavia sventato.

Nella borgata Bagnoli, la sezione monarchica venne parimenti invasa. I mobili di gran parte di queste sezioni vennero portati sulla strada e bruciati. Né le dimostrazioni e gli episodi finirono qui, in quanto anche nei dintorni di Napoli se ne verificarono analoghi, altrettanto violenti e deplorevoli. A Pozzuoli venne invasa e devastata la sede del partito dell’Uomo Qualunque; vennero operati otto arresti, degli arrestati venne domandato il rilascio da una folla tumultuante; si tentò di invadere la caserma dove gli arrestati erano detenuti, ma i tentativi vennero fortunatamente sventati.

A Torre Annunziata gli incidenti assunsero una gravità anche maggiore: venne invasa la sezione del Partito monarchico, venne assalito uno degli iscritti a questa sezione, certo Manfredi, consigliere comunale, accusato di avere ordinato la distruzione, poco prima avvenuta, di alcuni numeri del giornale La Voce, e venne parimenti aggredito un certo Avvisati, qualificato ex fascista. Entrambe queste aggressioni sono avvenute nella casa degli aggrediti, i quali vennero naturalmente malmenati dalla folla e minacciati di linciaggio, ma furono sottratti dall’intervento tempestivo di forze di polizia. Le case di costoro vennero saccheggiate. A Castellammare di Stabia, dove i manifestanti ammontavano a circa quattromila, si tentò anche l’invasione della sezione del Movimento sociale italiano e quella della Democrazia cristiana. Vennero invase e devastate le sedi dell’Uomo Qualunque e del Partito monarchico; venne inoltre distrutta la insegna di un cinematografo, che recava il nome di Savoia, vennero incendiate parecchie edicole con distruzione dei giornali.

Da Torre Annunziata parte dei dimostranti, calcolata in 500 persone, su autocarri, raggiungevano anzitutto Boscotrecase, quindi Boscoreale, ed in entrambe queste località devastavano la sede del partito dell’Uomo Qualunque e del Partito monarchico. Veniva parimenti tentata l’invasione della sede del Partito democristiano.

A Ponticelli si ebbero analoghi incidenti.

Si chiede dagli interroganti che cosa il Governo abbia fatto e che cosa il Governo intenda fare per impedire che incidenti di questo genere si verifichino ancora, e per colpire i responsabili degli incidenti avvenuti.

La risposta mi pare ovvia. Le autorità preposte all’ordine pubblico hanno ricevuto rigorosissime istruzioni: si deve fare ogni sforzo per identificare i responsabili, per catturarli, per denunziarli quindi all’autorità giudiziaria, siano essi esecutori materiali dei fatti, siano essi mandanti, se mandanti potranno essere individuati.

Per facilitare l’azione della polizia in questo senso, il Governo ha adeguatamente potenziato, sia le forze dell’arma dei carabinieri, sia quelle della pubblica sicurezza. Con tale potenziamento si mira a precostituire i mezzi per evitare il ripetersi degli episodi di violenza e per reprimerli.

La cosa è ovvia: il Governo intende perseguire in ogni modo questo che ritiene il suo principale dovere, e confida, anche con la collaborazione dei galantuomini di tutti i partiti, di riuscirvi senza ulteriore grave pregiudizio del buon nome del nostro Paese.

È stata presentata anche un’interrogazione per i fatti avvenuti in Piemonte, alla quale posso senz’altro rispondere.

Effettivamente i fatti di Napoli non sono rimasti isolati. Ad Alessandria, in Piemonte, ieri si sono avute dimostrazioni meno importanti, ma altrettanto gravi, che hanno del pari portato alla devastazione delle sedi dell’Uomo Qualunque e del Movimento sociale italiano.

A Vercelli si è avuta parimenti, dopo una dimostrazione, alla quale risulta abbiano partecipato 4 mila operai, la distruzione e la devastazione delle sedi dell’Uomo Qualunque e del Partito liberale e la distruzione dei loro mobili e carteggi, incendiati sulla strada.

Ad Alessandria anche quattro persone, ritenute appartenenti ai Partiti cosiddetti di destra, sono state malmenate dalla folla e leggermente ferite.

A Vercelli è avvenuto un episodio che, forse, merita di essere ricordato, perché le maestranze della Chatillon hanno imposto ai dirigenti della fabbrica di prender parte al comizio e li hanno rilasciati quando la manifestazione è cessata.

A Biella è stata parimenti devastata la sede dell’Uomo Qualunque ed i mobili incendiati; il danno subito pare sia stato particolarmente ingente. I giornali qualunquisti e di altri partiti sono stati bruciati.

Ad Ivrea è stata assalita un’edicola; furono sequestrati, diciamo così, i giornali di tutti i partiti ritenuti di destra e incendiati sulla strada. A Torino oggi si è avuto un altro episodio analogo: verso le ore 16, è stata tentata l’invasione dell’Uomo Qualunque, dapprima fronteggiata da forze di polizia; mentre poi però tali forze venivano sopraffatte e i dimostranti, penetrati nei locali, distruggevano le suppellettili e i carteggi che, secondo il sistema consueto, venivano anche questa volta incendiati sulla pubblica strada.

Venivano parimenti compiuti dei tentativi nei confronti della sede del Movimento sociale italiano e del Movimento nazionale democratico: questi tentativi venivano però frustrati.

Uno degli onorevoli interroganti – e chiedo venia se rispondo a questo punto – precisamente l’onorevole Rodinò, ha chiesto se non fosse vero che la sede napoletana del partito della Democrazia cristiana sia stata, durante l’agitazione, protetta da maggiori forze che non le sedi degli altri partiti minacciati. Debbo dichiarare, nel modo più preciso, che le misure prese per la Democrazia cristiana sono siate le stesse che sono state prese nei confronti delle sedi degli altri partiti, Nei confronti della sede della Democrazia cristiana, è da osservare che si è dimostrata meno violenta l’azione degli aggressori.

Naturalmente, dopo averli elencati, il Governo non può lasciare senza una vivace deplorazione tanti angosciosi episodi di violenza, e non può non fare una volta ancora fervidamente appello al senso di responsabilità di quanti agitano le folle, ai quali gli interessi di parte non devono far dimenticare quello superiore della Nazione, che soltanto nell’ordine può trovare le vie della rinascita.

Ché se tale appello dovesse sventuratamente non essere ascoltato, ricordi ciascuno che il Governo rivendica unicamente a se stesso il diritto ed il dovere di garantire l’ordine nei confronti di chiunque si attenti ad offenderlo, comunque ammantati ne siano i delittuosi pretesti. (Vivi applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Covelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COVELLI. Non sono sodisfatto: non posso esserlo delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario dell’interno. Siamo alle solite, onorevole Sottosegretario: appelli, promesse, provvedimenti rimasti nei cassetti del Ministro, del Sottosegretario, degli organi competenti, mentre tutto procede come prima, peggio di prima.

Se fosse stato qui l’onorevole Scelba, gli avrei dato pubblicamente atto della sua faziosità repubblicana per cui, ogni volta che si è parlato di sedi monarchiche, di partito monarchico, ha avuto una sola preoccupazione, quella di minimizzare; dico di più: ha insinuato addirittura che da parte dei monarchici si esagerasse.

In ogni caso, i monarchici hanno voluto sempre, in ogni occasione – non già per dare atto all’onorevole Scelba delle sue teoriche repubblicane, ma per dare una dimostrazione al Paese – hanno sempre voluto dimostrare, dicevo, di essere più degli altri ossequienti alle leggi dello Stato. È stato però erroneamente interpretato questo sentimento di devozione al Paese. Questa nostra condotta è stata ritenuta debolezza. Noi rammentammo in una nostra protesta, per dire con l’onorevole Fuschini, parlamentare, a proposito delle devastazioni delle nostre sedi in Sicilia, che non avevamo visto, in relazione agli episodi precedenti, nessun provvedimento del Governo atto a tutelare i nostri diritti democratici che, fino a prova contraria, sono eguali a quelli degli altri partiti.

Abbiamo protestato altre volte, insoddisfatti come sempre per la carenza assoluta delle autorità in taluni episodi; protestiamo oggi, con la massima serenità per quello che è avvenuto a Napoli, in relazione all’insoddisfazione nostra dopo quello che ha detto l’onorevole Sottosegretario. A Napoli l’assalto alle sedi del Partito nazionale monarchico, dicevo ieri e confermo oggi, vuole essere per i signori comunisti un gioco a carambola. Anche per le ragioni che dirò, noi non siamo disposti a prestarci a questo gioco in linea generale, ma sentiamo il dovere di avvertire i comunisti e il Governo che, ove mai si ritenesse di poco momento l’offesa perpetrata al cuore di Napoli, che, malgrado le gradassate di certi guasconi, nuovi e vecchi, è sempre la capitale ideale dei monarchici italiani… (Interruzioni – Rumori a sinistra). Ora rispondiamo al Governo; ai comunisti risponderemo a Napoli.

Una voce a sinistra. Non diffami Napoli.

COVELLI. Lei non può capire Napoli.

Una voce a sinistra. Napoli è più repubblicana di altre città d’Italia.

COVELLI. Non per sottovalutare questa offesa morale… (Interruzioni a sinistra)

PRESIDENTE. Facciano silenzio, onorevoli colleghi!

COVELLI. …arrecata ai napoletani, noi ancor oggi, come sempre, generosi, (Interruzioni a sinistra) diciamo al Governo che siamo veramente delusi di questa indifferenza delle autorità dello Stato alle preoccupazioni giustificatissime dell’opinione pubblica.

Una voce a sinistra. Nonostante i vostri voti favorevoli!

COVELLI. Sì, non fosse altro che per votare contro i sovvertitori! (Applausi a destra – Rumori a sinistra).

Una voce a sinistra. È il popolo di Napoli!

COVELLI. Lei non lo conosce il popolo, nemmeno da lontano. (Commenti a sinistra).

L’offesa (Interruzioni a. sinistra), sì, parlo di offesa, perché della provocazione ne riparleremo a Napoli!

Una voce all’estrema sinistra. Quanti siete?

COVELLI. Siamo più di quanti non possiate immaginare. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio!

COVELLI. Noi facciamo nostra la preoccupazione di tutta Napoli. L’aver lasciato impunemente realizzare, con la viltà tipica di taluni episodi, un piano di attacco e di offesa alla nostra sede in Napoli, significa che taluni criminali hanno perduto ogni ritegno… (Interruzioni all’estrema sinistra – Rumori vivissimi).

Una voce all’estrema sinistra. Voi andate di notte ad ammazzare gli avversari.

COVELLI. …e si dichiarano pronti – in questa catena di violenze che non so se si sia fermata a Napoli – a sovvertire la pace e la tranquillità del Paese per realizzare i loro piani.

Una voce all’estrema sinistra. Voi avete sovvertito per trenta anni la pace!

COVELLI. In tutta lealtà io voglio dire una parola ai comunisti. In tutta lealtà, ho l’impressione che siate caduti in un equivoco con le vostre provocazioni a nostro danno, se avete voluto colpire nel bersaglio nostro la reazione. Vi sbagliate: i monarchici non hanno – è bene chiarirlo – nessuna collusione con quelli che non perdonarono al Re il 25 luglio, e che per questo motivo sono alleati vostri e non nostri. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Non hanno collusione neppure con quei ceti contro i quali puntate, e che oggi giocano comodamente con la Repubblica come hanno tentato di fare con la monarchia prima del 2 giugno.

I monarchici sono gente per bene, gente ligia alle migliori tradizioni della storia di Italia (Interruzioni – Rumori all’estrema sinistra). I Savoia rappresenteranno sempre la miglior gloria d’Italia. (Vivi rumori all’estrema sinistra).

Orbene, io non so quale convenienza abbiate nel caramboleggiare con noi. Se voi volete perseverare in questo errore, dal momento che lo Stato, onorevole Sottosegretario, si disinteressa, come è dimostrato dall’inettitudine del Prefetto e del Questore di Napoli, in tutta lealtà diciamo a voi che, se volete perseverare in questo errore, per i vostri piani…

Una voce all’estrema sinistra. Ma che piani! Vogliamo che si smetta di assassinare i lavoratori!

COVELLI. …se volete persistere in questo errore – dicevo – e proprio non ne potete fare a meno, in tutta lealtà, accomodatevi; e allora, domando particolarmente ai comunisti… (Interruzioni all’estrema sinistra) accadrà che, dove vi potremo fermare (mi riferisco ai comunisti), vi fermeremo, dove dovremo azzuffarci ci azzufferemo. Potreste avere la meglio, ma potreste anche avere la peggio. (Interruzioni all’estrema sinistra). Certo è che l’impegno che metterete voi nella zuffa – se l’autorità dello Stato fosse carente – la metteremo anche noi, pel bene supremo del Paese.

Ma mi domando in conclusione: se questo avvenisse, si potrebbe verificare il nostro successo o il vostro successo, ma tutti e due insieme avremmo perduto la battaglia della libertà e della democrazia in Italia.

Or dunque, al Governo – ritornando a Napoli – non è più possibile perseverare in una certa forma di funambolismo, che sarebbe efficace solo se vi fosse una sensibilità capace di raccogliere i moniti: ma questa non vi è. Bisogna pur dire (e avrei gradito che si fosse detto oggi) quali provvedimentali sono stati già adottati. Nessuno!

O a Napoli – a cominciare da Napoli soprattutto, onorevole Sottosegretario! – si restituisce all’opinione pubblica smarrita la fiducia nell’autorità dello Stato, o proprio a partire da Napoli noi del Partito nazionale monarchico (e mi si creda, abbiamo tutte intere le possibilità!) dimostreremo, ove mancasse quell’autorità, di essere sufficientemente mallevadori di quella eventuale fiducia, per dimostrare che il popolo italiano è ancora presente a se stesso, ha ancora intatte, dopo le bufere, le possibilità per assolvere in pieno la sua missione, che è missione di civiltà contro i negatori, contro i sovvertitori, contro i traditori della storia, del costume, della civiltà italiana! (Applausi a destra – Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Sereni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SERENI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, devo dire che, a parte la cronaca dei fatti che è stata data dal Governo, quanto ci ha detto oggi l’onorevole Marazza corrisponde, a grandi linee, alla verità, ma non posso non rilevare quanto appunto avevo rilevato già ieri, in base alle informazioni da me ricevute, cioè che quello che ieri l’onorevole Scelba ha detto, a proposito degli incidenti di Napoli, non corrisponde a verità. Devo ripetere per questa parte, la raccomandazione al Ministero degli interni, di avere delle fonti di informazione un po’ più serie. Si è parlato ieri di tentativi di issare la bandiera rossa sul municipio di Napoli.

Non c’è niente di vero in questo, assolutamente niente, e gli incidenti non si sono svolti davanti al Municipio, tranne quelli provocati dall’ingresso violento di una camionetta in mezzo al popolo, che, come si usa da parte di tutti i partiti, per tutte le manifestazioni a Napoli, si era radunato a piazza del Municipio. Questo è il primo rilievo, perché, come giustamente ricordava ieri l’onorevole Pajetta, noi facciamo un duplice addebito alla politica del Governo: un addebito di incapacità tecnica, che resta confermato anche da questo piccolo particolare, perché il Governo deve sentire la sua responsabilità, di quanto ha affermato di fronte all’Assemblea, e poi un addebito politico. Devo ripetere qui quanto è stato rilevato da parte non sospetta di connivenza con noi. È un fatto che nel corso delle manifestazioni popolari, che hanno avuto ieri luogo a Napoli, la sede della Democrazia cristiana era presieduta ben differentemente da quello che non fossero le sedi degli altri partiti, che sono stati oggetto delle manifestazioni popolari stesse. Dobbiamo rilevare in questo campo – non so se tutti saranno proprio d’accordo – che qui si tratta, credo, di una incapacità tecnica.

Ci potrebbe essere qualcuno che pensi che questa insufficienza dipendesse da una certa attitudine ormai vecchia nel Governo attuale, e cioè di trattare, anche quelli che sono i suoi alleati, con quello stesso spirito di settarismo che qualifica tutto il resto della sua azione. (Proteste al centro). Ci dispiace: questa volta non potrete avere i consensi della destra.

È bene che io parli serenamente. (Commenti al centro). Vedete, onorevoli colleghi ed onorevole Sottosegretario, io credo che forse a proposito della discussione che già ha avuto luogo ieri, l’onorevole Cappi abbia cercato più di altri parlamentari di parte governativa, di andare un po’ più a fondo alla questione. Non si può trattare di questi problemi come si è fatto ieri, con la mentalità da questurino non del regno d’Italia, ma delle vecchie monarchie assolutiste, dell’onorevole Scelba. (Rumori – Interruzioni al centro).

Si tratta di vedere il fondo. Non possiamo prendere sul serio un Ministro dell’interno, il quale ci viene qui a parlare dei morticini, delle bombette e dei giornaloni che sono stati distrutti. Questa è una cosa poco seria. Non fa onore a questa Assemblea sentire cose del genere da parte di un Ministro responsabile della Repubblica.

Bisogna cercare di far uscire la questione dal piano sul quale è stata portata da alcuni degli oratori di parte governativa, e cercare di portarla sul terreno della serenità e sul piano della libertà. Il fatto è che la Democrazia cristiana e noi parliamo due linguaggi, che non si possono reciprocamente tradurre. C’è stato un tempo nel quale, noi abbiamo tradotto il linguaggio della Democrazia cristiana e l’onorevole Marazza, che è qui presente, sa con quanta cordialità abbiamo collaborato nei Comitati di liberazione per la lotta clandestina. Ci siamo compresi. Ora c’è stato un abbandono da parte della Democrazia cristiana di quel tono; perché allora noi ci comprendevamo, non sul terreno della capitolazione di fronte alle forze del fascismo, ma sul terreno della lotta contro il fascismo. Allora parlavamo tutti e due uno stesso linguaggio e ci comprendevamo. (Interruzioni al centro).

Una voce a destra. Era un linguaggio italiano!

SERENI. Onorevoli colleghi di parte democristiana, io non vi sto lanciando insulti gratuiti. Io sto dicendo la mia opinione personale. Questo: voi parlate un linguaggio differente. Per quale ragione? Ce l’ha detto ieri il collega Cappi. Non era questo il modello di libertà per cui combattevamo. Quando combattevamo nei Comitati di liberazione non concepivamo che una delle libertà della Carta atlantica o di qualche altra Carta fosse, per esempio, quella di fare assassinare 19 organizzatori sindacali in Sicilia. Non era questa la libertà, e libertà non vuol dire affatto cari amici, rinunciare all’uso, non dico della violenza, ma della forza. Contro i fascisti noi abbiamo usato la forza ed anche la violenza! (Approvazioni a sinistra). E l’onorevole Marazza era con noi a lottare per la conquista di questa libertà. (Rumori).

Ho solo constatato come si svolgeva la lotta nel passato. Ora il problema è questo: è evidente che noi non chiamiamo libertà la capitolazione di fronte ai nemici della libertà.

Quando questa si vuole passare per libertà, noi non siamo d’accordo con la Democrazia cristiana e parliamo un altro linguaggio. Non può essere l’uso della forza (non dico della violenza) il carattere distintivo della democrazia, ma è l’atteggiamento di fronte a quelle forze politiche e sociali che si presentano come nemiche della libertà del Paese. Queste forze erano ieri le forze fasciste; sono oggi quelle forze che fanno apertamente, onorevole Marazza, l’apologia del fascismo.

Onorevole Marazza, ha dimenticato il Ministero dell’interno, che le ha fornito i dati che sono serviti alla sua risposta, altre cose, per esempio, l’atteggiamento che la polizia, per ordine ricevuto evidentemente dal Ministro dell’interno, ha assunto di fronte alla folla che manifestava contro l’oscena gazzarra sotto i gagliardetti fascisti, di fronte a parole d’ordine fasciste, che non so da dove venissero.

COVELLI. È falso! Dice cose non vere.

SERENI. Noi abbiamo visto che per ordine dell’onorevole Scelba la polizia protegge una manifestazione, che aveva un dichiarato carattere fascista ad un funerale con aperte grida fasciste sediziose. Mentre, di fronte ad una folla di lavoratori, i quali manifestavano pacificamente – non c’è stato nessun tentativo di assalto né al Comune né alla questura né alla prefettura; ma si sono recate delle commissioni chiedendo di essere ricevute…

MAZZA. Da chi sono state devastate le sedi?

SERENI. Di fronte a questa massa, le forze di polizia – non per cattivo atteggiamento tenuto dai funzionari di polizia, ché anzi l’atteggiamento personale dei funzionari non è stato cattivo – hanno usato, dietro ordine dei superiori, dei mezzi drastici di dispersione.

RUSSO PEREZ. Tanto pacifica, che si andava a distruggere le sedi dei partiti.

SERENI. In Piazza del Municipio si è svolta una manifestazione. Hanno parlato degli oratori, e la folla ha avuto un atteggiamento perfettamente calmo, finché non c’è stata la penetrazione della camionetta della polizia. (Interruzioni al centro). Ma perché protestate? Lo ha detto l’onorevole Marazza. Siate più intelligenti! (Interruzioni al centro).

MICHELI. È lei, che è poco intelligente nel dare la colpa alla camionetta.

PRESIDENTE. Onorevole Micheli, la prego, non interrompa.

MICHELI. Mi dice che devo cercare di capire: gli dico che ho capito fin troppo.

SERENI. Ha avuto ragione, e noi sentiamo questa responsabilità, l’onorevole Covelli a rivolgersi ai comunisti ed a tutti i partiti repubblicani sinceri. Certo, il Partito comunista con la sua forza politica ha un particolare rilievo. Ha avuto ragione a rivolgersi a noi. Facendo le sue minacce, l’onorevole Covelli si è rivolto ai comunisti e poi al Governo. Egli ha riconosciuto un fatto che risponde alla realtà: che ci troviamo di fronte ad un Governo, che è privo di autorità nel Paese, che ha un’autorità inferiore a quella dei grandi partiti. (Interruzioni al centro). Io dico quello che ha detto l’onorevole Covelli.

Si tratta di un problema di autorità, signori del Governo.

COPPI. Allora andiamo ai Governi autoritari.

SERENI. Lei non comprende che proprio un Governo di autorità è un Governo che non ha bisogno di essere autoritario.

La proposta che faceva l’onorevole Covelli, a proposito di una specie di alleanza potrebbe essere interessante. Una cosa da studiare, se, invece di trattarsi della monarchia di Savoia, che si è macchiata di tanti delitti e di tanto sangue, si trattasse della monarchia dei Borboni, che a suo tempo fece cose interessanti. (Interruzioni a destra).

Il problema cui dobbiamo rispondere è un altro. Perché sono avvenute queste devastazioni a Napoli e in ogni parte d’Italia? Questo è il problema essenziale.

Dobbiamo dire che queste manifestazioni sono prodotte dalla mancanza assoluta di autorità del Governo, dalla sfiducia delle masse popolari di tutta Italia che hanno in questo Governo, nella sua incapacità di fermare i tentativi criminosi neofascisti.

L’onorevole Marazza rivendica al suo Governo l’esclusivo diritto di governare.

Perché un Governo possa governare non basta che con un cambiamento di fronte abbia una maggioranza in Parlamento, che contrasta con tutta l’impostazione che esso ha dato alla campagna elettorale.

PERRONE CAPANO. Ci vogliono centocinquantamila carabinieri.

SERENI. Il fatto è che non si governa.

Il fascismo aveva più di centocinquantamila carabinieri e non ha governato in Italia.

Una voce a destra. È stata la guerra.

SERENI. Anche prima della guerra non ha governato.

Questo Governo non ha autorità, e per questo le masse popolari manifestano nelle forme, che certamente noi tutti vorremmo evitare in Italia. Invece abbiamo un Governo di miscredenti, come ha detto il collega Pajetta; abbiamo un Governo alleato del fascismo. (Applausi all’estrema sinistra – Proteste al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Rodinò Mario ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

RODINÒ MARIO. Le poche parole che vi dirò spero non diano luogo né a contrasti né a battibecchi. La mia pacatezza è dovuta a profondo senso di preoccupazione, ad un profondo senso di responsabilità.

Non dirò una cosa nuova affermando che noi qualunquisti siamo contrari alla violenza, da qualunque parte essa venga. Siamo contrari, e lo stiamo dimostrando coi fatti, a reagire con la violenza alla violenza, perché crediamo che la lotta civile nel campo nazionale e la guerra nel campo internazionale sono alla base dell’infelicità che, nella storia dei secoli, travaglia l’uomo qualunque.

Una voce a sinistra. Tutte belle parole!

RODINÒ MARIO. Non posso nascondervi l’impressione poco sodisfacente, l’impressione poco democratica, che ho avuto dalla nostra seduta di ieri e da questo scorcio di seduta di oggi, perché io non posso approvare che, di fronte agli eccidi e alle violenze che dividono il Paese e che macchiano le piazze di sangue, anche questa Assemblea, la quale dovrebbe rappresentare l’unità del Paese e ne è l’organo e l’espressione massima, continua a dividersi: assistiamo al triste spettacolo di settori dell’Assemblea che elogiano, giustificano e proteggono quelli che hanno compiuto dei delitti, ed esaltano ed ingiuriano le vittime, solo perché del partito avverso. Sarebbe molto più nobile e decoroso che tutta l’Assemblea concorde chiedesse ed esigesse dal Governo, qualunque esso sia in questo momento, il rispetto tassativo della legge, l’osservanza di un diritto uguale per tutti i cittadini, i quali tutti hanno diritto alla libertà e alla tutela dell’ordine. Non vogliamo violenze, non vogliamo apporre violenza a violenza, ma, appunto per questo, è evidente che vogliamo che la prima violenza, la violenza iniziale, sia punita ed impedita nel suo ulteriore sviluppo; ché, se questo non avvenisse, cammineremmo inevitabilmente, a grandi passi, verso quel «caos» tanto preannunciato dall’onorevole Nenni. Creeremmo qui fatalmente, inesorabilmente, con l’andar del tempo la legge della giungla, l’homo homini lupus. Non sapremmo più come disciplinare queste masse smarrite ed armate l’una contro l’altra, ed il giorno che avessimo fatto questo – Dio disperda le mie parole! – correremmo il pericolo di subire un’occupazione straniera egualmente esecrabile da qualunque parte essa avvenga.

Fiducia al Governo noi l’abbiamo data. Ma la fiducia nel Governo impone al Governo stesso l’obbligo di tutelare la legge, di mantenere l’ordine, di punire i colpevoli. Quando assistiamo a scene tragiche come quelle descritte dai giornali, noi non possiamo non meravigliarci che provvedimenti più rapidi, più decisivi e più drastici non siano stati presi. La vastità degli incidenti aumenta di giorno in giorno. Non abbiamo più la sensazione di avvenimenti isolati e sporadici: soltanto stamane, dalle prime ore del mattino alle quattro del pomeriggio, alla nostra Segreteria Generale sono pervenute dalle nostre diverse sedi comunicazioni di saccheggi. Non si tratta, come annunciato dal Sottosegretario agli interni, della sola sede di Napoli, ma anche di quelle di Fuorigrotta, di Avvocata, di Boscoreale, di Boscotrecase, di Ponticelli, di Pozzuoli, di Torre Annunziata, di Castellamare di Stabia e di Portici: questo soltanto nella Provincia di Napoli.

Ed ancora: Livorno, Torino, Aosta, Varese, Novara, Arezzo, Vercelli, Biella, Casale Monferrato, Piacenza, dove non solo è stata devastata la sede dell’Uomo Qualunque, ma è stata violata e saccheggiata la casa di una nostra modesta e gentile organizzatrice del luogo, che è rimasta così derubata di tutti i suoi mobili, le sue cose, i suoi vestiti. (Commenti).

Non capisco, come di fronte a così gravi avvenimenti e responsabilità, il Governo possa, come ora ora ha fatto l’onorevole Sottosegretario, comunicare incidentalmente e quasi a giustifica di quello che si è svolto, che la polizia è stata sopraffatta. Ma la polizia non può e non deve dichiararsi sopraffatta, se non dopo aver messo in giuoco tutte le sue possibilità e tutta la sua forza di resistenza. Altrimenti fa la figura di quel funzionario fascista che fu mandato in una certa zona a fare la lotta – allora si pensava a questo – contro le mosche, e quando venuta l’ispezione e trovato che nessun risultato era stato raggiunto e che il paese era più di prima pieno di noiosi insetti, gli fu domandato: «Ma, non avete fatto voi la lotta contro le mosche?» «Si, – rispose – ma hanno vinto le mosche».

La polizia deve avere dei poteri ampi e deve rispondere subito del come e perché è stata sopraffatta. È evidente che tutta la forza della polizia è nel fatto che essa può esercitare determinati poteri, determinate azioni, determinate offese. Solo così cento uomini porranno imporsi a centomila, e dominarli e costringerli a rispettare la legge; ed è assurdo pretendere che a parità di condizioni, fra un minimo numero di tutelatori ed una enorme maggioranza di ribelli, possa venir rispettata la volontà del minor gruppo.

Qualcuno di voi avrà visto nei cinematografi, come ho visto io l’altra sera, la sfilata delle forze della polizia italiana. Ho viste fotografate masse di uomini organizzati, armati, dotati di tutti i mezzi. Uno spettacolo tranquillizzante, rassicurante per tutti coloro che amano l’ordine, la libertà e la tutela del diritto per tutti i cittadini, a qualunque partito appartengano. Perché queste forze e questi mezzi non sono messi attivamente in funzione? Mancano gli uomini? Ma io credo di poter dire che migliaia di qualunquisti, migliaia di onesti cittadini sarebbero disposti, se fosse necessario, a mettersi senza compenso, a disposizione del Governo in carica; in migliaia di cittadini saremmo disposti a mettere il nostro petto e le nostre braccia a disposizione dell’autorità legalmente costituita, affinché in Italia si salvino l’ordine e la libertà. (Commenti a sinistra).

Il Governo, di fronte al succedersi, all’incalzare di questi avvenimenti, per rispondere alla sua funzione, per meritare la fiducia che gli abbiamo dato, deve darci subito l’assicurazione che tutto è stato messo in giuoco, che tutto sarà utilizzato per salvaguardare, nell’interesse di tutti, l’ordine e la libertà.

Ma io non posso, prima di terminare, fare a meno di chiedere spiegazioni per un fatto strano: io non capisco perché sono state, così sistematicamente, e con evidente rispondenza ad un piano prestabilito di carattere nazionale, saccheggiate dalle masse di sinistra tutte le sedi dell’Uomo Qualunque, mentre invece dovunque sono rimaste rispettate le sedi della Democrazia cristiana. (Commenti a sinistra).

L’offensiva contro di noi è incominciata da quando il nostro Consiglio nazionale ha fatto una precisa affermazione dichiarandosi contrario a qualsiasi forma di totalitarismo ed individuando nel comunismo il peggiore totalitarismo possibile. Ma la Democrazia cristiana, anch’essa ha fatto una campagna elettorale nella quale ha chiesto i voti, rappresentandosi come il massimo avversario e l’unico baluardo contro il comunismo. Non capisco, ripeto, questa offensiva di sinistra che si sviluppa in una forma così poco distributiva e logica, se è possibile trovare la logica e la giustizia nell’ingiustizia. In verità mi preoccupo che il Governo (come mi risulta dalle affermazioni pervenutemi dai nostri centri) protegga e tuteli le sedi della Democrazia cristiana in una forma concreta ed efficiente e trascuri le altre. (Interruzioni al centro). Forse questa è la sola spiegazione possibile o, almeno, la più onorevole. Comunque, se la mancanza di energia da parte del Governo è deplorevole ed è condannabile in qualche momento, lo è ancora di più se la carenza si manifesta in minor misura quando si tratta della tutela dei propri amici, ed in maggior misura quando si tratta della tutela degli altri.

Raccomando, quindi, all’onorevole Sottosegretario agli interni di volerci tassativamente garantire che nulla sarà trascurato, perché tutti questi delittuosi incidenti abbiano immediatamente a cessare, perché i responsabili ed i colpevoli siano identificati e puniti col massimo rigore, ad esempio e monito di chiunque altro possa ancora avere intenzioni del genere. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Puoti ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

PUOTI. Il motivo della mia interrogazione era quello di conoscere quali provvedimenti erano stati adottati nei riguardi dei responsabili, dei mandanti, in riferimento agli incidenti di Napoli.

Io questa mattina mi sono premurato di recarmi a Napoli per accertarmi personalmente, sia dei danni subiti dalle sedi del Movimento nazionalista per la democrazia sociale, sia del modo come è avvenuta questa invasione.

Una voce a sinistra. Viaggio di ispezione, come gli ispettori fascisti.

PUOTI. L’onorevole Sereni ne era già informato ieri sera; io sono andato col vostro amico Giorgio Amendola questa mattina.

Ora, purtroppo, l’onorevole Marazza non ci ha sodisfatti, ed io ho dovuto constatare che le sue informazioni circa la protezione alle sedi dei partiti politici non corrispondono esattamente alla situazione di ieri. Per quanto concerne il Movimento nazionalista della democrazia sociale, i dirigenti napoletani del partito avvertirono tempestivamente la questura e la pretura, perché venisse disposto un servizio adeguato a protezione della sede del partito stesso. Nonostante la precisa e chiara richiesta verbale e scritta dei dirigenti del Movimento nazionalista, né la prefettura né la questura poterono disporre di questo servizio di protezione. (Interruzioni a sinistra). Quindi io mi rivolgo al Governo ancora una volta, come feci ieri sera, per chiedere la necessaria ed indispensabile protezione che devono avere tutti i partiti democratici legalmente costituiti. (Commenti a sinistra), intendo riferirmi a tutti i partiti democratici, perché non voglio polemizzare con i partiti a carattere totalitario e dittatoriale. (Commenti alla estrema sinistra). Mi riferisco al Partito comunista, che ieri aveva la sua protezione, nonostante fosse all’offensiva, mentre noi che eravamo sulla difensiva non eravamo protetti.

È così ieri Napoli – che è una città tranquilla ed operosa, che non conosce lo spirito di fazione e di parte – è stata costretta ad assistere ad uno spettacolo indegno, di inciviltà, perché masse di operai cacciati dalle officine per una manifestazione, che i nostri lavoratori non sentivano…. (Interruzioni a sinistra).

RUSSO PEREZ. Le annunziate persino sui giornali, queste manifestazioni!

PUOTI. La manifestazione doveva essere un atto di solidarietà, come disse ieri il collega Pajetta, dei lavoratori di Napoli coi lavoratori del Settentrione. Ma solidarietà per incidenti avvenuti, non complicità, per creare nuovi incidenti! Quindi, istigazione a commettere delitti!

Questo è il primo punto della responsabilità che bisogna accertare, perché è bene che il Governo dia la prova concreta della sua forza democratica nell’imporre il rispetto di tutte le libertà, specialmente a coloro i quali…

Una voce a sinistra. Specialmente ai fascisti!

PUOTI. Specialmente ai fascisti rossi, vorreste dire? Siamo d’accordo!

BOLOGNESI. Lei è un fascista nero! (Commenti).

PUOTI. Specialmente a coloro i quali vedono nel Partito comunista quel partito che, facendo leva sul sentimento delle classi operaie, provoca nel Paese uno stato di disagio che porta a quelle conseguenze già verificatesi in Italia 25 anni or sono. (Rumori vivissimi a sinistra). Noi siamo decisi a stroncare qualunque tentativo del genere, con qualunque mezzo. O il Governo ci appoggia in questa nostra missione per l’affermazione dei diritti democratici della libertà, o saremo costretti noi a rintuzzare volta per volta, uno per uno, ogni gesto ed ogni atto che non sia veramente conforme ai nostri principî democratici.

È necessario quindi che il Governo prenda di urgenza in considerazione la richiesta già formulata ieri, relativa ad una legislazione che sia atta ad impedire le violenze politiche, ingiustificate e sproporzionate comunque, perché noi non possiamo consentire che, per l’affermazione di un partito, si sparga del sangue, si sparga del sangue del nostro popolo, di quel popolo che ha già tanto sofferto e che oggi vorrebbe essere tutto unito per cercare il più possibile di lenire il dolore, per curare le troppe ferite, per ricostruire le migliaia e migliaia di case distrutte…

Una voce a sinistra. Per colpa di chi?

PUOTI. …per ritornare al lavoro sano ed onesto.

Non mi è quindi possibile, onorevole Sottosegretario, dichiararmi sodisfatto. Io le rivolgo pertanto formale richiesta affinché lei impartisca le disposizioni necessarie, non per il fatto contingente, ma per l’avvenire: che il Governo sia effettivamente la garanzia della tutela della libertà dei partiti e delle idee politiche. Io ripeto che noi non vogliamo essere costretti a difenderci da soli. (Commenti a sinistra).

Noi ne abbiamo la possibilità, perché non siamo pochi: la maggioranza del popolo italiano è da questa parte; è con noi. (Rumori a sinistra). E per una minoranza, onorevole Sottosegretario, non bisogna mettere il Paese in uno stato di terrore, in uno stato di soggezione. O il Governo provvede subito veramente, seriamente, o esso ineluttabilmente costringerà i nostri onesti lavoratori alla guerra civile, cosa cui noi non vogliamo arrivare. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Labriola ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LABRIOLA. Avevo presentato la mia interrogazione quasi più per un fatto personale che per partecipare ad una controversia, la quale me, come voi, profondamente rattrista. Alcuni giornali avevano riportato che, fra le reazioni cui si era abbandonato qualche gruppo di dimostranti a Napoli, ci fosse anche stata la distruzione di alcune poche copie di un giornale che io dirigo.

L’avvenimento, in sé, è misero e non penso certo di invocare la vendetta celeste per un fatto simile. Ma da esso ricavo qualche osservazione e qualche impressione. Il giornale che ho avuto l’onore di dirigere è un giornale nettamente, spiccatamente democratico, a tendenze socialiste, così come socialista è sempre stata la mia attività politica. Le cause operaie sono sempre state infatti le nostre, dico del giornale che dirigo; noi le abbiamo sempre difese negli stessi termini dei colleghi della parte sinistra dell’Assemblea; nessuna delle rivendicazioni degli operai che è stata affacciata è stata dal giornale respinta. Ma io non voglio con questo dire che un trattamento particolare doveva essere dedicato a questo giornale, il quale – lo ripeto con orgoglio e fierezza – è uno dei più indipendenti organi democratici del nostro Paese, e nello stesso tempo un organo decisamente orientato verso il socialismo.

Se, d’altra parte, la controversia fra gli estremisti, come essi chiamano se stessi, e il  Governo consiste nel fatto che appunto il Governo sarebbe venuto meno ad alcuni doveri, ad alcuni obblighi; se questa è la controversia, permettetemi di ricordare che nessuno più di me in questa Assemblea si è mostrato risoluto e conseguente nel votare contro il Governo. Giammai vi è stato nel nostro sistema di pubblicistica un’incrinatura qualsiasi; abbiamo voluto esporre con lealtà, con semplicità, sia pure con deferenza verso gli uomini, il dissenso che dall’attuale Governo ci separa.

Perché, dunque, faccio queste osservazioni e vi sottopongo questo caso? Perché, appunto, onorevoli colleghi, penso che il senso della logica politica ormai si sia perduto nel nostro Paese. Potete aggiungere che si può anche ricavare la stessa conclusione dalla stessa controversia, da questa polemica che si è sviluppata in questa Assemblea: accuse da una parte, accuse dall’altra, e tutte del medesimo genere. Tutti deplorano le violenze; tutti si credono vittime; e, a dire la verità, forse – anzi, senza forse – tutti hanno ragione.

Che vuol dire questo? Vuol dire che siamo tutti al di fuori del senso comune, tutti in una situazione aberrante, fatta sostanzialmente di assurdità. E se noi facessimo un tentativo qualunque per superare questa assurdità e la illogicità comune alla situazione, forse avremmo fatto un passo molto innanzi nella via della riconciliazione nazionale, almeno nel senso del rispetto reciproco e del comune esercizio di tutte le libertà. Questo doveva essere un obbligo per tutti. Mi permetta, onorevole Covelli, devo assolutamente respingere l’affermazione fatta a proposito della mia città, che questa città sia, che possa essere una città monarchica. Napoli è la città forse più travagliata d’Italia – 300 bombardamenti, è rasa al suolo almeno per la metà; la miseria è universale. Le disposizioni del Governo per venire incontro ai bisogni della città medesima sono state pressoché nulle. Si spiega lo stato di eccitazione, lo stato di insoddisfazione, lo stato di appetizione verso qualche cosa di nuovo. Napoli non è una città monarchica; tutte le volte in cui essa ha voluto ritrovare la sua coscienza più intima, è stata una città repubblicana.

COVELLI. Ma se anche lei è stato monarchico, onorevole Labriola!

LABRIOLA. Io sono stato monarchico? Come lei osa affermare una simile cosa?

PRESIDENTE. Onorevole Covelli, la prego, non interrompa.

LABRIOLA. Perdoni, signor Presidente, io son pronto a sospendere la brevissima esposizione che sto facendo, ma desidero che s’inviti l’onorevole Covelli a precisare la sua affermazione, che io considero per me come calunnia e diffamazione. Io sono repubblicano da sempre. E sempre, sin dalla più giovane età, io partecipavo alla lotta repubblicana e specialmente col mio maestro Turati, che sempre ricordo col più grande rispetto…

COVELLI. Il 2 giugno i suoi elettori furono monarchici!

LABRIOLA. Onorevole Covelli, se ella avesse voluto occuparsi un tantino delle cose mie! (sebbene parlando in questa Assemblea ella doveva avere il dovere di essere informato). Dalla mia Storia dei dieci anni ella conoscerebbe per lo meno che l’atto di accusa più violento, ma fondato, contro la monarchia Sabauda è stato scritto da me. Tante altre mie pubblicazioni non hanno fatto che ripetere lo stesso motivo. E in questo io mi sento napoletano, perché la mia città nel 1647, quando tutta l’Italia era sotto il dominio straniero degli spagnoli e degli austriaci, la mia Napoli insorse nel nome della repubblica, e se il suo particolare atteggiamento avesse potuto prevalere, sarebbe rimasto glorioso esempio di istituzioni democratiche in un secolo che si piegava al dispotismo dei re.

Quando nel 1799 ella volle esplodere come una bomba di luce, fu nella repubblica che essa trovò la sua incarnazione ideale.

Come repubblicano dunque io mi sento napoletano. Ammetto che vi siano state ultime circostanze ed occasioni per le quali il popolino napoletano ha mostrato d’inclinare verso ricordi monarchici. Ma la negligenza che tutti i Governi hanno sempre dimostrato verso la mia città ha potuto trovare uno sfogo in una manifestazione qualunque, che ha potuto essere in un certo senso interpetrata a favore della monarchia. Perché io posso assicurare l’onorevole Covelli, e gliene faccio pubblica sfida, che se noi dovessimo incontrarci in un dibattito elettorale, e dovessimo affrontare insieme la prova delle urne, io gli mostrerò che tutto il popolo napoletano sarà per la Repubblica in tutte le sue gradazioni. (Applausi a sinistra).

COVELLI. Il popolo napoletano vota Labriola: è un’altra questione.

LABRIOLA. Ma io non voglio indulgere a questo piccolo contrasto. Voglio dire che la mia città non è monarchica, e che se ciò è apparso in qualche momento la colpa è dei governanti.

Ad ogni modo, onorevoli colleghi di destra, permettetemi di dire un’ultima cosa: io riconosco la gravità del momento e vorrei che fossimo tutti a riconoscerla. Noi siamo dinanzi all’abisso, alla disgregazione di tutto. Noi siamo ad un bivio: o rafforzamento della repubblica, della legalità repubblicana e democratica, o disgregazione totale del Paese.

Per ottenere il rispetto della Repubblica voi per primi dovete fare ossequio alla Repubblica. Ma dico anche ai colleghi dell’estrema sinistra, con i quali ho comune il terreno di lotta: se questo si riconosce, noi potremo forse uscire dalle più gravi difficoltà, e svolgere il nostro contrasto nell’ordine e nella pace.

Napoli anche questa volta ha sofferto, ha dolorato! Mando un saluto riverente alle famiglie delle vittime. E mi auguro che il Governo voglia cogliere l’occasione per fare per la mia città tutto quanto può. Io per primo farò il mio dovere in questo senso. La mia coscienza socialista e repubblicana riconosce innanzitutto la necessità di una legalità democratica e repubblicana. Invito tutti voi a riconoscere, che fuori di questa legalità non vi è salute per il Paese. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Della Seta ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DELLA SETA. Dovrei, conforme alla procedura parlamentare, rispondere per dichiarare se io sia o non sia sodisfatto. Penso – e intendo renderle un omaggio – che il più insoddisfatto debba essere lei, onorevole Sottosegretario per l’interno.

Non mi soffermo sui fatti singoli di Salermi, di Milano, di Napoli o su altri fatti altrove avvenuti. Tali fatti sono, purtroppo, gli anelli di tutta una catena; essi rivelano tutta una situazione; sono essi documento di uno stato d’animo; sono larvate insidie, oscure minacce, improvvise violenze, torbidi contrasti di interessi e di passioni, traverso i quali non solo la dignità della Patria è offesa, ma è compromessa la esistenza stessa della Repubblica.

Sono certo, ripeto, che il primo insodisfatto, insodisfattissimo deve essere proprio lei, onorevole Sottosegretario, perché non v’è uomo di Governo che, prima di essere tale, non debba essere uomo; e non v’è cittadino bennato cui non sanguini il cuore, quando sangue cittadino, di qualsiasi parte politica, nella lotta fratricida, venga così inconsultamente e tragicamente versato.

Dovrei ora dichiarare che io parlo a nome del Gruppo repubblicano. Preferisco dire che, per la mia modesta parola, oggi il mio Gruppo parla a nome di tutto il partito repubblicano, parla a nome della scuola repubblicana, la quale è storica anche perché vanta una nobile tradizione del più alto civismo, una tradizione per cui il bene della Patria fu posto sempre al di sopra di ogni egoismo di classe, come di ogni passione di parte. Ma se è vero che non formalmente e ironicamente, ma realmente noi qui siamo i rappresentanti della Nazione, allora non sembri presunzione la mia se affermo che il Gruppo oggi parla in nome della stessa Italia, la quale, come madre dolente che protende le braccia verso i figli discordi, lancia il grido dell’anima: pace, pace, basta, basta, basta con le discordie, basta con le violenze; alla tragica e sciagurata guerra che è stata combattuta non aggiungete la più sanguinosa e vergognosa delle guerre, la guerra civile. (Applausi al centro).

Se io fossi un vecchio parlamentare, un parlamentare navigato nei tattici accorgimenti, potrei dire: badate, si approssima la nuova campagna elettorale; non è in una atmosfera arroventata di passioni e di violenze che i comizî potranno essere tenuti, affinché la lotta sia impegnata con armi oneste e leali; celebrate dunque, come altra volta fu celebrata, la tregua tra i partiti. Ma, confesso, questa parola «tregua» mi suona sinistramente all’orecchio; la tregua esprime il calcolo utilitario, la tregua implica la riserva mentale, la oscura intenzione di ricominciare domani, raggiunto il fine, una guerra più sanguinosa. È sul terreno morale, esclusivamente, che io intendo rimanere; poiché, diciamolo ben alto, tutte le male arti del machiavellismo non valgono, in date ore, a soffocare le più imperiose esigenze morali, non rispettando le quali la Nazione sarebbe travolta, ineluttabilmente, in un abisso ancora più profondo, in un abisso dal quale sarebbe ancor più difficile il poter risorgere, in un abisso pel quale ancora più arduo sarebbe il ritrovare l’ancora della salvezza.

E perciò, anzitutto, io mi rivolgo a voi, uomini del Governo. Non platoniche dichiarazioni noi attendiamo, ma fatti concreti, testimonianze inoppugnabili che consacrino e rassicurino la vostra reale buona volontà di concorrere alla grande opera della pacificazione nazionale. Non è pacificazione una politica di parte, basata sulla estromissione antidemocratica di altre parti politiche, che pur rappresentano una parte non esigua della Nazione e sulle quali la Nazione, con libero voto, si è non ambiguamente espressa; non è pacificazione l’irrigidimento in una posizione di monopolio politico. Bisogna convincersi che dalla grave crisi che la travaglia la Nazione potrà essere salvata solo chiamando al governo della cosa pubblica tutte le forze vive e sane della Nazione stessa, senza esclusivismi e senza ostracismi, che altro non possono alimentare se non laceranti rancori e ancor più torbide violenze.

Poi mi rivolgo ai partiti e dico: lotti, sì, ogni partito per la propria fede e per le proprie ideologie; più che diritto è suo dovere; ma sia una lotta degna, una lotta disciplinata non dalla semplice tolleranza, ma da quel rispetto reciproco, che è indice di educazione civile, che è pegno di ogni civile progresso.

Questo il fervido appello che, in quest’ora grave, il partito repubblicano, fedele alla sua tradizione, da questa Assemblea rivolge agli italiani. La Patria anzitutto; anzitutto la Repubblica; e la lotta, doverosa, per l’attuazione progressiva della giustizia sociale, non sia avvelenata dall’odio, ma santificata da un sentimento profondo di solidarietà umana.

Mi auguro che questo nostro appello da ogni parte politica sia bene inteso e non frainteso. Sarà destinato ad essere una voce clamantis in deserto?

Noi abbiamo obbedito alla voce della nostra coscienza. Ognuno di noi – come cittadino, come partito e anche voi come uomini di Governo – ognuno di noi, di fronte alla Nazione che osserva e che giudica, dovrà assumere, senza possibili evasioni, le proprie responsabilità. (Vivi applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. L’onorevole Crispo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CRISPO. Intendo dire poche parole con tono diverso da quello prevalentemente usato in quest’Aula, e, soprattutto, senza alcuna accentuazione polemica.

Noi siamo dinanzi ad una tragica realtà. Essa – consentite che io ve lo dica – è come il bilancio fallimentare della democrazia, e la discussione che ha luogo in quest’Aula ha una sua impostazione deplorevolmente unilaterale, perché ciascun settore rivendica a sé la tutela delle pubbliche libertà, e ciascun settore ne rimprovera agli altri settori la violazione.

Orbene, dovremmo unirci tutti per deplorare la violenza, che è negazione della democrazia, ed è negazione dei principî fondamentali di una sana Repubblica, qual è quella che noi auspichiamo per il nostro Paese.

Intendo dirvi anche un’altra cosa. Della Seta, nella nobile sua eloquenza, diceva: pace, pace, pace. Era il grido di Francesco Petrarca: «Io vo gridando: pace, pace, pace».

Grande utopia retriva! Come ebbe a dire un filosofo, maestro di democrazia: Giovanni Bovio. Parole veramente attuali, in un mondo come il nostro, dominato dai partiti, nel quale la lotta non potrà mai comporsi fra ideologie opposte e inconciliabili.

Che cosa occorre fare, adunque?

Occorre educare il popolo e noi stessi al metodo della lotta, alla civiltà della lotta, nello spirito della democrazia. Non dico ciò, come appartenente al partito liberale. Il liberalismo può essere anche qualche cosa di diverso dal Partito liberale, ma l’idea liberale dovrebbe essere patrimonio di tutti, l’idea liberale che, dalla riforma e dalla rivoluzione fino al socialismo, è trionfo e conquista del mondo moderno, dovrebbe essere il culto di tutti. E da quest’Aula il Paese non dovrebbe raccogliere l’eco di contrasti che spesso assumono il tono e gli accenti di una rissa verbale. Il Paese è stanco, il Paese è inquieto. Le vie sono coperte di sangue, di feriti, talvolta di cadaveri. Il Paese ha bisogno di udire da quest’Aula una parola che si ripercuota nella coscienza pubblica, una parola di fede nell’imperio della legge, nella restaurazione della legge! (Applausi).

SANSONE. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Signor Presidente, l’onorevole Covelli ha affermato che io avrei detto un falso ieri allorché ho riferito all’Assemblea che un gruppo di operai napoletani, che si trovavano a manifestare sotto il Comune di Napoli, non volevano esporre la bandiera rossa sul Comune ed erano stati malmenati – sia pure per un equivoco e non per una recisa volontà – dalla polizia che irrompeva rapidamente (Commenti a destra).

Ora, signor Presidente, onorevoli colleghi, gli operai, dopo avere ascoltato il compagno comunista e il compagno Adinolfi, chiesero che al Comune stesso fosse issata la bandiera tricolore e non quella rossa. Su questo punto richiamo l’attenzione dell’onorevole Sottosegretario, e ripeto che la popolazione napoletana, indignata per quanto avveniva nel nord, indignata per il contegno del sindaco e della Giunta di Napoli che avevano seguito tre o quattro giorni prima il feretro di un dalmata ucciso da un comunista per reato di apologia del fascismo, chiedeva, dicevo, che fosse issata la bandiera tricolore. Mentre ciò chiedevano, avvenne l’incidente che provocò l’arresto e il ferimento di due operai e l’uso delle bombe lagrimogene e tutte le altre devastazioni che sono state denunciate. Non ho da aggiungere altri dati di fatto, ma questa è la verità, come è riportata da una parte della stampa.

COVELLI. Da una parte! Dalla Voce!

RICCIO. Ma non è esatto!

MAZZA. Non è informato bene, onorevole Sansone!

SANSONE. Desidero ora fare una breve digressione… (Commenti).

PRESIDENTE. Per fatto personale?

SANSONE. Per i fatti che hanno formato oggetto di una mia interrogazione di ieri e alla quale il Ministro non ha dato una risposta esauriente. Il Sottosegretario ha detto che sono stati assaltati partiti neofascisti. L’errore che si commette dal Governo e da una parte di questa Assemblea è di considerare queste organizzazioni come partiti. Noi neghiamo il diritto a queste organizzazioni neofasciste di assurgere a partiti democratici, per cui, quando si viene qui a dire che organizzazioni come il Movimento sociale italiano o come alcune sezioni dell’Uomo Qualunque…

MAZZA. Avete devastato le sedi dell’Uomo Qualunque in tutta Italia.

SANSONE. Ho detto di «alcune» sezioni dell’Uomo Qualunque, in quanto il vostro partito sta subendo una epurazione interna.

Queste organizzazioni, che, ripeto, non possono essere partiti democratici, sono quasi per istinto colpite dalle masse popolari, perché comprendono che lì si annida il neofascismo (Interruzioni a destra) e colpiscono cioè quelli che sentono rappresentare la fonte delle loro sofferenze. Ed allora, se veramente si vuole – lo diciamo al Governo ed a quella parte dell’Assemblea che la invoca – la tutela della legge, che vi deve essere per tutti i cittadini, occorre che vi sia sovratutto un senso di vera democrazia ed abbandonare il passato tragico, doloroso, veramente nefasto per l’Italia.

MAZZA. Voi siete il passato!

SANSONE. Riprendendo il fatto personale, preciso che l’equivoco che mi si voleva attribuire non v’è.

Perciò prego l’onorevole Covelli di voler rettificare l’affermazione – falsa, secondo lui – che io avrei fatta (Applausi a sinistra).

LI CAUSI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LI CAUSI. Desidero chiedere al Sottosegretario onorevole Marazza se abbia notizie da Palermo, poiché i giornali della sera hanno pubblicato notizie che potrebbero interessare.

PRESIDENTE. No, onorevole Li Causi. Se crede, può presentare una regolare interrogazione.

L’onorevole Badini Confalonieri ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

BADINI CONFALONIERI. Non potevo dubitare del buon volere e dell’azione energica del Governo, dei cui propositi prendo atto, anche se mi permetto di sottolineare all’attenzione dell’onorevole Sottosegretario che ogni provvedimento è tanto più efficace, quanto più è tempestivo. Ne è conferma la circostanza che, in Piemonte, per il quale io ho presentato interrogazione relativa ai fatti di ieri, altri fatti oggi, dei quali ella ha fatto cenno, e più gravi, sono successi.

Dopo le dichiarazioni del Ministro dell’interno, rese nella seduta pomeridiana di ieri, io non avrei voluto interloquire, anche e sovrattutto per non aumentare l’allarme del Paese, conscio, come sono, che è preciso dovere mio, preciso dovere di tutti noi, dì fronte alla situazione difficile, Dio non voglia tragica, di avere davanti agli occhi la nostra funzione di equilibratori e di moderatori. Non avrei interloquito, se non fosse intervenuta in cotesti deprecabili incidenti una nota nuova, che rivela il fermo proposito, la preordinata volontà di colpire indiscriminatamente tutte quelle forze politiche, che non piegano a disegni o a propositi sovversivi, di creare nel paese il caos e la rovina politica ed economica.

Una voce a sinistra. Esagerato!

BADINI CONFALONIERI. Non esagero e parlo specificamente di quei fatti di Alessandria, dei quali l’onorevole Sottosegretario ci ha dato notizia in una maniera, ed è comprensibile, ancora del tutto generica, ma che, per comunicazione telefonica diretta che ho avuto, posso affermare riguardano anche la devastazione della sede del Partito liberale italiano.

Ora, il partito liberale italiano – me lo consenta l’onorevole collega il quale dice che io esagero – ha siffatta fulgida tradizione risorgimentale e governativa, ha un ventennio di attività antifascista, ha dato un apporto attivo e fattivo alla lotta di liberazione, in modo tale che non poteva fornire il minimo appiglio a sospetti di neofascismo o di filofascismo, ed in ispecie proprio il Partito liberale di Alessandria, dove l’avvocato Piacentini, che è segretario cittadino del Partito liberale locale, fu il comandante delle forze partigiane della città durante la lotta clandestina, e, solo, una notte si recò ad accendere la miccia, che doveva devastare la sede del repubblichino Popolo di Alessandria. I colleghi di quella circoscrizione e di tutti i partiti me ne possono far fede. Ed allora io ho il diritto di protestare per questo fatto, ma non di protestare per chiedere all’onorevole Sottosegretario vendette, rappresaglie, nuovi lutti, ancora lutti; no certo, ma per chiedere ai colleghi del Partito comunista italiano una parola di doveroso riconoscimento per questo apporto che il Partito liberale ha dato alla lotta di liberazione; una parola di deplorazione per questi fatti indiscriminati e deplorevoli. Che se questo non fosse, se questa parola non dovesse venire, se questo silenzio vostro dovesse interpretarsi foriero di nuove tempeste, è chiaro che noi dovremmo rivedere quell’opinione che, lottando fianco a fianco con voi, ci eravamo fatta…

Una voce a destra. Noi l’abbiamo già riveduta!

BADINI CONFALONIERI. …durante la lotta clandestina; è chiaro che noi dovremmo rivedere quell’opinione che speravamo confermatasi nei fatti. È chiaro che avremmo un motivo di più per invocare l’autorità della legge e la sua inflessibile applicazione nei confronti di tutti coloro i quali, a qualunque costo e a qualunque prezzo, attentano all’avvento e al consolidamento di quella autentica democrazia che, nei rischi della lotta clandestina, noi giovani avevamo auspicata e propugnata. (Applausi).

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Dato lo svolgimento della discussione, potrei anche esimermi dal replicare. Si sono udite qui nobilissime parole. A quelle nobili parole io particolarmente vorrei affidare un nuovo appello del Governo. Soltanto credo di non dover lasciar passare inosservato l’accenno di uno degli oratori al comportamento della polizia, che sarebbe stata sopraffatta semplicemente perché non avrebbe usato tutti i mezzi di difesa di cui essa dispone. Dichiaro che la pubblica sicurezza ha impiegato, in tutte le circostanze, di cui oggi abbiamo parlato, tutte le forze di cui dispone. Riconosco che, purtroppo, alcuni di questi servizi di protezione non hanno potuto essere altrettanto forti quanto le circostanze avrebbero richiesto. Escludo peraltro che in questo si possa riscontrare una responsabilità di chicchessia. È un’affermazione che ho udita qui e che non posso lasciar passare inosservata, l’affermazione, cioè, che le forze di polizia avrebbero dovuto, nei singoli casi, piuttosto che cedere, impiegare le armi. Mi permetto di richiamare i colleghi al senso delle proporzioni. Che cosa avremmo potuto dire noi oggi se, per difendere pochi tavoli e pochi giornali, dovessimo piangere insieme i morti che un intervento armato della polizia, se intervento voleva esserci e voleva essere efficace, avrebbe provocato? (Applausi al centro).

Lascio all’eloquenza di questa osservazione ogni commento. Mi permetto soltanto di aggiungere che il Governo crede di aver diritto alla fiducia dell’Assemblea e del Paese. Il Governo non ha niente da rimproverarsi negli sforzi che va compiendo diuturnamente perché l’ordine ritorni nell’Italia tutta. Il Governo non ha che da rammaricarsi se, malgrado i suoi sforzi, nell’Italia tutta l’ordine non sia ancora ritornato. Ma esso ritornerà e ritornerà presto. Io ho l’onore, in questo momento, di rappresentare qui da solo tutto il Governo, impegnato altrove; ma io sento di rappresentarlo veramente, nel modo più degno, quando ripeto qui, dinanzi a voi, solennemente, questa affermazione, che è un impegno: il Governo farà tutto, e nel miglior modo, perché l’ordine in Italia ritorni e perché con l’ordine ritorni la prosperità e la salvezza del nostro Paese. (Vivi applausi al centro e a destra – Congratulazioni).

Interrogazioni e interpellanza con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per avere spiegazione sull’incidente avvenuto in occasione delle recenti dimostrazioni popolari a Lecce, durante le quali gli agenti di polizia percossero una donna al punto da cagionarle il parto prematuro.

«Merlin Angelina, Rossi Maria Maddalena, Noce Teresa, Bei Adele, Montagnana Rita».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro degli affari esteri, per sapere quale azione il Governo ha svolto o intende svolgere di fronte al fatto che, nei territori recentemente assegnati alla Jugoslavia, cittadini italiani, i quali, secondo il trattato di pace, dovrebbero essere posti in grado, entro il 15 dicembre, di esercitare il diritto di opzione, saranno obbligati, nel corrente mese di novembre, a prendere parte alle votazioni politiche di uno Stato di cui essi non intendono far parte.

«Giacchero, Geuna».

«Al Ministro dei lavori pubblici, per conoscere i motivi per cui i lavori della strada provinciale n. 77 in provincia di Campobasso sono rimasti aggiudicati, con enorme ritardo, all’impresa Fidotti per l’importo di 19 milioni e 500 mila lire, mentre erano state stanziate a tale scopo lire 25 milioni, motivo per cui non è possibile completare la strada in territorio molisano.

«Questo fatto è di grave danno al Molise, che attende da oltre sessant’anni la costruzione di detta strada.

«Si invocano dal Ministro, di urgenza, i provvedimenti necessari che permettano, senza ulteriori dannosi indugi, l’integrale costruzione della strada su tutto il territorio molisano e sino al confine della provincia di Chieti.

«Camposarcuno».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quanto gli consti circa gli autori e i moventi dell’orrendo nuovo omicidio perpetrato contro il giovane lavoratore Mario Ornago la notte del 13 corrente a Cernusco sul Naviglio (Milano), ad opera di individui che fracassatogli a bastonate il cranio lo trascinavano a briglia di cavallo e lo gettavano quindi in una roggia.

«Clerici, Ermini».

Il Governo ha facoltà di dichiarare quando intende rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Il Governo risponderà a queste interrogazioni in una delle prossime sedute.

PRESIDENTE. Comunico inoltre che è stata presentata anche la seguente interpellanza con richiesta d’urgenza:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni per le quali – nonostante le dichiarazioni in proposito della Presidenza – non si è ancora portato alla discussione, avanti l’Assemblea Costituente, il progetto per il risarcimento dei danni di guerra; e per sapere perché non si è ancora provveduto ad istituire un organo autonomo, che diventi organo di esecuzione della emananda legge.

«Morini, Riccio Stefano, De Mercurio, Sampietro».

Il Governo ha facoltà di dichiarare quando ritiene che possa essere svolta.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Interesserò il Ministro interpellato perché faccia sapere al più presto quando intende rispondere.

Interrogazioni e interpellanza.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni e di una interpellanza pervenuta alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro della difesa, perché, in relazione allo scoppio della polveriera verificatosi il giorno 13 novembre nei pressi di Cassano d’Adda (provincia di Milano) ed in conseguenza del quale hanno perso la vita quattro operai, assicuri della adozione di provvedimenti che impediscano il ripetersi tanto frequente di simili gravi accidenti.

«Meda, Rosselli, Benvenuti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere:

1°) perché da oltre sei mesi è stata sospesa la liquidazione dei danni provocati alle case dalle rappresaglie nazi-fasciste in provincia di Pavia;

2°) come intende disporre della restante somma di lire 19 milioni circa, giacente presso la Prefettura, già destinata a tal fine;

3°) se non crede opportuno rassicurare le famiglie danneggiate che lo stanziamento non verrà stornato per altro uso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mezzadra».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere:

  1. a) se il beneficio dell’abbreviazione di un anno per merito scolastico, espressamente contemplato dal decreto legislativo luogotenenziale 5 aprile 1945, n. 227, per i Licei e gli Istituti tecnici e magistrali, non debba considerarsi rispondente a un criterio di ordine generale, logicamente applicabile ad ogni ordine scolastico, compreso quello elementare, come è comprovato dalla dizione adottata dall’ultimo comma dell’articolo 1 del citato decreto, laddove, a proposito della scuola media, si esclude ogni altra abbreviazione eccezionale, all’infuori di quella di carattere normale sopra ricordata;
  2. b) se, nel caso di contraria interpretazione del diritto costituito, non ritenga opportuno e urgente introdurre nella riforma della legislazione scolastica, attualmente in corso, un’apposita norma anche per l’ordine elementare, ritornando così alle più sane tradizioni del nostro ordinamento, rivolte a stimolare, o quanto meno a rendere sempre possibile, la selezione dei migliori;
  3. c) se, in vista della stessa finalità sociale, non ritenga di dovere opportunamente ridurre l’obbligo di intervallo fra i corsi scolastici, adeguando al sistema generale le limitazioni speciali di cui al regio decreto 4 maggio 1925, n. 653, tuttora in vigore. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Dominedò».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non ritenga conveniente soprassedere all’attuazione della circolare n. 54, Div. IV, prot. n. 8846, del 2 settembre 1947, con la quale si prescrive l’applicazione obbligatoria di un nuovo ordinamento delle scuole industriali di avviamento e tecniche, che innova completamente il sistema di studi sinora seguito in tali scuole.

«Ciò anche in considerazione dell’opportunità di rimandare ogni innovazione in materia a quando sarà affrontato – dalla futura Camera – il problema generale dell’istruzione secondaria di avviamento professionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Tremelloni».

«La sottoscritta chiede di interrogare il Ministro del tesoro, per sapere se non si ritenga opportuno, in attesa di una completa modifica dell’attuale legislazione sociale, predisporre particolari emendamenti alla vigente legislazione pensionaria. Nel senso che venga ad aver diritto alla reversibilità di pensione la vedova del funzionario al quale si è unita in matrimonio dopo la sua cessazione dal servizio, ma col quale ha vissuto per molti anni ancora.

«Il problema è d’interesse generale. Queste vedove si trovano ovunque in tristi condizioni di abbandono e si fa quindi urgente un provvedimento atto a risolvere la cosa secondo giustizia. (La interrogante chiede la risposta scritta).

«Bianchi Bianca».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro della difesa, per sapere se il Governo intenda prendere qualche provvedimento in favore dei prigionieri di guerra (I.M.I.) internati in Germania, i quali, secondo le convenzioni di Ginevra (1929), furono costretti a lavorare, ma vennero finora considerati arbitrariamente collaboratori dei tedeschi e perciò privati degli assegni di prigionia, (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giacchero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere se, tenuto conto della documentata esposizione già presentata dalla Confederazione dei coltivatori diretti, riguardante la particolare situazione della provincia di Asti, non intenda di ridurre il quantitativo previsto per il contingente di frumento per l’anno 1948 da quintali 100.000 a quintali 60.000. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giacchero».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intenda invitare il provveditore alle opere pubbliche di Napoli ed il direttore del Genio civile di Salerno a comprendere – secondo la segnalazione ministeriale già da tempo ad esso provveditore fatta – nel piano di lavori di imminente esecuzione a sollievo della disoccupazione, la costruzione dell’edificio scolastico già progettata e delle fognature, e la riparazione delle strade e del cimitero, nel comune di Roccapiemonte (Salerno), finora completamente dimenticato e perciò meritevole di giustizia. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se intenda invitare il provveditore alle opere pubbliche di Napoli ed il direttore dell’ufficio del Genio civile di Salerno a studiare ed inserire nel piano di lavori, di imminente attuazione a sollievo della disoccupazione il progetto di costruzione della strada di circonvallazione dell’abitato della frazione Sant’Eustachio in comune di Mercato San Severino (Salerno), al quale è urgente abbinare quello di un’opera di convogliamento dei torrenti montani che sfociano coi loro detriti e, nei periodi di pioggia, seppelliscono letteralmente nel fango la predetta frazione Sant’Eustachio e quella di Piazza del Galdo.

«Tali opere indilazionabili di bonifica stradale e di sistemazione montana sono un atto di elementare giustizia verso la popolazione densissima (1890 abitanti per chilometro quadrato di superficie coltivabile) e laboriosissima di una plaga che, se completamente bonificata, sarà tra le più fertili dell’agro nocerino. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga giusto invitare il provveditore alle opere pubbliche di Napoli ed il direttore dell’ufficio del Genio civile di Salerno a prendere in sollecita considerazione la dolorosa situazione del comune di Nocera Superiore (Salerno), che dopo circa 4 anni non ha potuto ancora vedere eseguita la rimozione del lapillo della eruzione vulcanica del marzo 1944 dal grande Canale della Bonifica, che per una estensione di circa 5 chilometri dovrebbe convogliare le acque del Monte Albino per riversarle nel torrente Cavaiola, e più non le convoglia, onde le frazioni Pucciano e Pareti, che sono ai piedi di detta montagna, vengono colle piogge letteralmente inondate nelle strade, nei cortili e nei locali terreni, sì che la stampa (vedi II Domani d’Italia del 28 ottobre 1947) dà giustamente l’allarme per l’imminente inverno.

«Né meno impellente è pel detto comune il bisogno della costruzione delle fognature e di un edificio scolastico e quello della riparazione delle strade e del cimitero, che è tuttora, e malgrado le ripetute promesse, nello stato in cui lo ridussero le azioni belliche del settembre 1943.

«Giustizia vuole che tutte le opere predette vengano comprese nel piano di lavori che si appresta a sollievo della disoccupazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per conoscere quali ragioni hanno vietata la trasformazione in biennale del corso annuale di avviamento professionale a tipo agrario di Laurino, il solo – a quanto pare – cui in provincia di Salerno si sia negata tale trasformazione; e per sapere se non creda giusto revocare il diniego, per sodisfare le legittime esigenze di quell’importante centro rurale.

«Non si comprende, invero, la lamentata restrizione, quando quotidianamente si promette la più viva sollecitudine per il Mezzogiorno agricolo, dove l’istruzione professionale agraria non può dirsi certo sufficientemente diffusa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del commercio con l’estero, per conoscere quali cause abbiano permesso che il pacco CONDAS composto di: chilogrammi 10 di pasta alimentare e di chilogrammi 4,500 di zucchero semolato sia venduto a lire 4500, mentre le A.C.L.I. possono vendere un pacco composto di: chilogrammi 9 di zucchero semolato, chilogrammi 4,500 di pasta da minestra e chilogrammi 4,500 di fiore di farina a lire 4600, quando è stabilito che i pacchi hanno la stessa provenienza americana, e il pacco CONDAS è destinato agli statali, quale aiuto ai loro magri stipendi, nella lotta contro il caro vita e la borsa nera. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Vischioni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per conoscere se non ritenga opportuno sospendere, almeno parzialmente, le assegnazioni di carbone estero e di sulcis alle industrie di laterizi, onde facilitare la vendita della lignite prodotta dalle nostre miniere, ed evitare così i minacciati licenziamenti degli operai minatori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Monticelli».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non intenda risolvere secondo criteri di giustizia e di equità la controversia esistente tra il demanio dell’Aeronautica e numerosissimi contadini di Bagno per la messa a coltura dell’ex campo di aviazione devastato dai tedeschi, retrocedendolo definitivamente ai vecchi proprietari, che attualmente lo coltivano ciascuno per la quota in precedenza loro espropriata.

«Ciò in considerazione della ridotta efficienza attuale dell’Aeronautica e della niuna importanza che aveva l’aeroporto anche quando era in efficienza, essendosi ab initio rilevato inadatto, perché coperto da frequentissime nebbie. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali ostacoli ancora si frappongano alla sollecita esecuzione dei lavori più urgenti per il miglioramento e la sistemazione idrico-forestale dell’Abruzzo aquilano, già segnalati nel Congresso della montagna tenuto in Aquila nell’aprile 1947 e cioè – tra gli altri – dei vivai forestali di Roccaraso (minati e distrutti per eventi bellici), di Pescasseroli, in attinenza al Parco nazionale di Abruzzo, e di Aquila, nonché la ricostruzione della pineta di Roccaraso, vandalicamente abbattuta dai tedeschi ed il completamento dei bacini montani di Scanno e di Sulmona, con la correlativa sistemazione, per quest’ultimo, del monte Morrone.

«Detti lavori, che allevierebbero notevolmente la disoccupazione dei paesi interessati e per i quali esistono i relativi progetti e piani preventivi, fanno parte dei lavori da attuarsi con il cosiddetto «fondo lire» dell’Organizzazione internazionale dell’agricoltura ed in conseguenza non presentano difficoltà neppure dal lato finanziario per la loro pronta esecuzione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lopardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri della pubblica istruzione e degli affari esteri, per conoscere se l’iniziativa presa dalla città di Pesaro, patria di Gioacchino Rossini, per istituire una Università musicale internazionale intitolata al suo nome, trovi la loro adesione ed il loro appoggio.

«Nella ricostruzione dei paesi del mondo devastati dalla guerra non è di minor peso quella di carattere morale e intellettuale di fronte a quella economica.

«L’Italia ha un vanto nei secoli e deve tendere ad un primato solo: il primato della cultura, della scienza e dell’arte.

«Se, pertanto, le Nazioni Unite e tutte le Nazioni, sollecitate e spinte a favorire il progetto di una Università musicale internazionale, vi portassero il loro concreto contributo, facil cosa sarebbe la realizzazione di un così nobile sogno: la quale, oltreché cementare la pace fra i popoli nel più sereno campo dell’arte, darebbe lustro e decoro all’Italia e alla piccola città che si onora di aver dato i natali a Rossini, genio immortale, animatore di vita, e benefattore, che è conosciuto e venerato in tutto il mondo e ha lasciato il suo patrimonio a Parigi e a Pesaro, perché la grande arte della musica non perisca ma si sviluppi invece a sollievo delle infinite miserie della travagliata umanità. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Filippini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare l’Alto Commissario per l’alimentazione, per conoscere:

1°) se corrisponde a verità che in certe zone della provincia di Modena, e specialmente nel comune di Medolla, sia stato distribuito ai braccianti agricoli, per il bimestre ottobre e novembre, del granone avariato ad integrazione del grano loro assegnato; granone che, macinato, fu rifiutato persino dai suini;

2°) quali provvedimenti intenda prendere, ed al Centro e verso la S.E.P.R.A.L. di Modena, perché l’inconveniente non abbia mai più a ripetersi, onde evitare le giuste proteste della popolazione, tenendo altresì presente la grave ingiustizia nei confronti di zone eminentemente produttrici di frumento. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Merighi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per conoscere quali siano le cause del ritardo lamentato nello stanziamento di fondi adeguati per svolgere efficacemente la lotta – mediante i metodi suggeriti dalla scienza (insetticidi, selve colturali, ecc.) – contro il parassita «Lyda stellata» o «Lyda campestris», che va devastando da tempo larghe zone boschive dei comuni di Aquila, Pizzoli, Celano, Gagliano Aterno, ecc.

«Detta lotta non fu potuta effettuare negli anni precedenti a causa degli eventi bellici e costituisce pertanto una imperiosa esigenza per l’economia silvana di tanta parte d’Abruzzo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Lopardi».

«I sottoscritti chiedono di interpellare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli affari esteri, per sapere quali provvedimenti siano disposti a prendere per dare rapida attuazione ai voti formulati dalla Conferenza parlamentare europea di Gstaad del settembre scorso.

«Giacchero, Colonnetti, Macrelli, Zuccarini, Giannini, Spataro, Badini Confalonieri, Guidi, Cingolani Angela, Camposarcuno, Colitto, Bertola, Zerbi, Delli Castelli Filomena, Gortani, Perrone Capano, Cotellessa, Geuna, Russo Perez, Carbonari, Calamandrei, Benvenuti, Damiani, Marina, Dominedò, Bastianetto, Rubilli, Donati, Garlato, Pieri, Fabriani, Baracco, Viale, Chiaramello, Tumminelli, Alberti, Maffioli».

PRESIDENTE. La prima delle interrogazioni testé lette sarà iscritta all’ordine del giorno e svolta al suo turno, trasmettendosi ai Ministri competenti le altre per le quali si chiede la risposta scritta.

Così pure la interpellanza sarà iscritta all’ordine del giorno, qualora il Ministro interessato non vi si opponga nel termine regolamentare.

La sedata termina alle 20.20.

Ordine del giorno per la seduta di domani.

Alle ore 9.30:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 14 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXCII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI VENERDÌ 14 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Cassiani

Perrone Capano

Porzio

Mancini

Moro

La seduta comincia alle 11.

CASSIANI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato De Caro Raffaele.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Bernabei. Non essendo presente s’intende vi abbia rinunciato.

È iscritto a parlare l’onorevole Cassiani. Ne ha facoltà.

CASSIANI. Onorevoli colleghi, al punto in cui la discussione è giunta, a me non resta che tracciare le linee rapide di una premessa e formulare molto semplicemente una richiesta: lo spirito animatore delle norme, che in questo progetto vanno sotto il titolo «Magistratura», a me pare possa riassumersi in un desiderio: quello di consacrare la esigenza che era, sì, fuori dello Statuto, ma era innegabilmente da tempo nella coscienza pubblica; la esigenza, cioè, di affermare che non si può parlare soltanto, a proposito della Magistratura, di un pubblico servizio oppure di una attività specifica che sia funzione essenziale dello Stato. Su questa base l’Assemblea mi pare pressoché unanime nel riconoscere la necessità della indipendenza giuridica, che sia detersa da inframettenze parlamentari e da interventi ministeriali. Io non nego il significato e il valore di una discussione metafisica sul potere sovrano, che ci condurrebbe indietro nel tempo e ci farebbe correre il rischio, per il solo amore della tesi, di contribuire a tagliare quello che può dirsi il legame fisiologico che dovrebbe pur esserci tra la Magistratura e la compagine viva e complessa dello Stato moderno. Ci porterebbe all’epoca in cui la vera tendenza liberale spezzò il blocco di formule pressoché incomprensibili, disciplinando quello spirito rivoluzionario che si agitava, malfrenato, nell’Assemblea parlamentare francese e che ebbe ripercussioni – non certo dimenticate – in giornate memorabili della Camera italiana.

Quando si dice, onorevoli colleghi, che i magistrati dipendono dalla legge, si fa evidentemente un’affermazione di estrema indipendenza, che sarebbe apparsa, badiamo bene, un’eresia qualche decennio fa, quando Vittorio Emanuele Orlando, allora Ministro della giustizia, nell’Aula del Parlamento prima e del Senato poi, tra il consenso pressoché unanime delle due Assemblee, affermava che la legge è una astrazione che non consente né dipendenze né rappresentanze; onde il Pubblico Ministero, del quale egli trattava allora, non può essere il rappresentante della legge, ma deve essere il rappresentante del potere esecutivo verso la Magistratura, secondo la teoria tradizionale.

Quando si afferma nel progetto di Costituzione l’inamovibilità, non si fa certo – è evidente – riferimento a quanto si diceva nel 1888 nell’Assemblea francese, che l’inamovibilità non è un dogma, non è un principio costituzionale, tanto meno un contratto tra lo Stato e il giudice, e che è semplicemente una regola di competenza che serve più a tutela del giudicabile che del giudicante.

Siamo lontani, evidentemente, da questa concezione. Ma l’inamovibilità diventa qui un principio costituzionale, ad evidente difesa dell’indipendenza della Magistratura.

Ecco perché non comprendo la protesta vivace dell’amico e collega Caccuri. Forse la sua passione di magistrato lo ha spinto oltre: contro che cosa protesta, di che si lamenta? Insomma, con queste norme, e particolarmente con quella dell’articolo 97, dove è scritto che i magistrati dipendono soltanto dalla legge, si enuncia un principio che un tempo destava allarme. È un principio che potrebbe farci temere un’operazione pericolosa, l’operazione di tagliare quello che fu chiamato il «cordone ombelicale» che deve legare la Magistratura al corpo statuale. Ci farebbe temere questa operazione pericolosa, ove non fossimo, invece, convinti di concorrere, attraverso queste norme, alla difesa delle pubbliche e delle private libertà del popolo italiano.

Ma, arrivati a questo punto, però, reclamiamo che la Magistratura non diventi una casta chiusa e privilegiata, inibendo il libero gioco delle forze sociali e rompendo quella che può chiamarsi la vita fisiologica delle pubbliche funzioni. S’invoca da taluni una modifica pericolosa – a mio modo di vedere – all’articolo 97, in quella parte dove è detto che il Consiglio Superiore della Magistratura è composto da membri eletti per metà dalla Assemblea Costituente.

Io comprendo lo spirito di certe modifiche, come quella cui ho apposto anche la mia firma, secondo la quale si vorrebbe che i membri eletti non fossero soltanto membri dell’Assemblea Nazionale, ma fossero anche rappresentanti scelti nel campo delle scienze e in quello del foro; ma non posso per nulla comprendere, ad esempio, la proposta di coloro che vorrebbero escludere l’intervento dell’Assemblea. Coloro che propongono ciò, non so come non comprendano che l’articolo 97 rappresenta l’unico legame tra Parlamento e Magistratura.

Si deve infatti all’articolo 97 se non viene meno la funzione del Parlamento nella Magistratura. Perché appunto di questo si tratta; si tratta di far venir meno totalmente la funzione del Parlamento nella Magistratura. Ma se non si potrà più dire, come si diceva un tempo, al magistrato: tu non devi aspettare e temere nulla dall’autorità politica, mentre tutto devi temere dall’ispezione parlamentare, vigile e rigorosa, avremo fatto noi opera sodisfacente?

Forse, in virtù di questa concezione, il Ministro di giustizia avrà funzioni soltanto amministrative. Noi accettiamo il principio, ma riaffermiamo quanto è detto nell’articolo 97, ad evitare – lo diciamo chiaramente – pericolosi autogoverni che sarebbero in contrasto con la vita democratica del Paese.

Né il timore che io esprimo può apparire irriverente verso la Magistratura, che ha bene meritato dal Paese, come hanno giustamente detto due magistrati che io ho avuto il piacere di ascoltare in questa Assemblea: i colleghi Scalfaro e Caccuri. E poi questa tema io la esprimo nel momento stesso in cui chiedo che il principio dell’unicità della giurisdizione abbia valore anche nel senso che si affidi alla competenza del giudice togato l’esame dei reati più gravi, di quelli cioè affidati alla Corte d’assise.

Penso che, a questo proposito, l’articolo 96 del progetto di Costituzione, il quale riguarda l’istituto della giuria, sancisca una norma di dettaglio, una di quelle norme di dettaglio alle quali, come ben diceva l’onorevole Calamandrei, non si può indulgere. Se noi, onorevoli colleghi, vogliamo veramente fare una Costituzione destinata ad accompagnare lo Stato, nel corso, che ci auguriamo non breve, della sua vita, non si comprende veramente l’inserzione in questa Costituzione di una norma che innegabilmente rientra nella competenza del diritto processuale.

C’è dunque, a mio parere, un motivo, per così dire, pregiudiziale, per l’esclusione di una tal norma dalla nostra Costituzione, per la soppressione cioè dell’articolo 96. Ma io penso che vi sia anche un motivo sostanziale, sotto questo riguardo, meritevole della nostra attenzione. Cercherò di illustrarvelo brevemente.

Io ho attentamente seguito i lavori dell’Assemblea a questo proposito ed ho rilevato una strana affermazione dell’onorevole Gullo. Egli ha detto di non aver ascoltato alcun argomento serio a sostegno dell’abolizione della giuria, dell’abolizione cioè dell’articolo 96. Strana cosa, dicevo, perché io che, come ripeto, ho ascoltato con molta attenzione i discorsi dell’Assemblea, ho udito una serie di argomenti innegabilmente seri. Io potrei ritorcere quello che ha detto l’onorevole Gullo, perché potrei dire che egli ha pronunciato un magnifico discorso, ampio, completo, quasi architettonico, ma non ha detto un solo argomento – mi consenta la stessa espressione – serio, a sostegno della giuria; perché è un argomento che somiglia troppo al paravento arabescato, che non nasconde altro che il vuoto, quello usato dall’onorevole Veroni prima e dall’onorevole Gullo dopo, che la democrazia, quando sale, si porta appresso la giuria e quando precipita si porta appresso nel precipizio il giudice popolare.

Io vorrei, invece, anche per sodisfare l’onorevole Gullo, invitare umilmente l’Assemblea a rivolgere innanzitutto il pensiero a due fonti, ugualmente autorevoli, che potranno confortare il nostro giudizio, senza incidere, beninteso, sulla sua autonomia. La prima di queste due fonti è quella delle Assemblee scientifiche. Mi permetto di ricordare l’Assemblea dell’Associazione italiana di diritto penale, dove la maggioranza fu per la Corte criminale, e i precedenti storici della scuola napoletana. Ricordo il congresso del 1923 tenuto in Catania dalla Società italiana per il progresso delle scienze, che si dichiarò apertamente, nettamente contrario al cosiddetto giudice popolare. Ricordo, infine, il Comitato per lo studio delle riforme penali, costituito dall’Istituto italiano di studi legislativi, che ha concluso i suoi lavori pochi mesi fa, dichiarandosi apertamente contrario al giudice popolare e sostenendo l’attribuzione della materia alla competenza del giudice togato.

La seconda fonte sulla quale mi permetto di richiamare l’attenzione dell’Assemblea – e non mi pare una fonte priva di importanza – è il giudizio isolato, ma espressivo di uomini che, nelle aule di Assise, dai giudici popolari hanno avuto verdetti vittoriosi in giornate veramente memorabili della loro vita di avvocati penali. O che torniamo col pensiero ai numi indigeti della Patria nel campo delle scienze, patriarchi del diritto, da Carrara a Pessina, o che volgiamo il pensiero ad espressioni notevoli della scienza moderna, da Garofalo a Ferri, noi troviamo questa avversione decisa, dichiarata anche di uomini che militavano nelle file più avanzate della democrazia. Quando Ferri si dichiarava ostinatamente contro la giuria, direi quasi clamorosamente contro – come era anche nel suo temperamento – egli aveva raggiunto il fastigio non soltanto nel campo della scienza e del foro, ma anche in politica; tant’è che il suo partito gli affidava la massima delle cariche rappresentative: la direzione dell’Avanti! In quel periodo, quando dirigeva l’Avanti!, scrisse appunto: «sarebbe come se io dessi ad aggiustare un orologio al mio calzolaio». E più tardi scriveva: «Quando proposi nel 1879 l’abolizione della giuria, mi si disse che infrangevo i principî democratici; ed io risposi: Che c’entra la democrazia con l’amministrazione della giustizia? Sarebbe come dire che la democrazia deve entrare in una sala di ospedale, dove occorre un medico specializzato».

E Gennaro Marciano chiamava il giudice popolare di Assise: «sistema negatore della giustizia».

E lasciate che accanto ai grandi morti io citi un grande vivo, che siede in quest’aula, Giovanni Porzio. Lo ascolterete di qui a poco. Egli è mancato a questo dibattito, perché impegnato in una grande battaglia di Corte d’assise. Egli vi dirà il suo pensiero, che penso collimi con quello di Marciano: «sistema negatore della giustizia».

Due fonti, delle quali una ha il pregio dell’autorità scientifica e l’altra, evidentemente, ha il pregio innegabile di contenere testimonianze alte e per giunta insospettabili.

Entrambe ci indicano la via da seguire: l’esclusione dell’articolo 96 del progetto di Costituzione.

È certo che si tratta di un problema che per la sua natura non può essere consacrato nella sua soluzione in una Costituzione. Basterebbe osservare che la norma non può che essere affidata al vaglio dell’esperienza. E allora, affidiamola soltanto al Codice comune, per le ragioni ovvie che tanti amici tecnici qui presenti comprendono.

Ma si profila un pericolo grave, onorevoli colleghi, contro il quale penso che gli spiriti liberi non possono non reagire: il pericolo, come accennavo dianzi a proposito del discorso dell’onorevole Gullo, di una malintesa affermazione politica in sede tecnica, arrivando a questo assurdo, a questo paradosso che, diciamo la verità, è nelle mire di alcuni sostenitori della giuria, anche se non espresso: poiché ad abolire la giuria fu il regime fascista, ridiamole noi vita.

A questo punto io vorrei osservare che la giustizia in Italia si amministra col Codice penale che è stato promulgato in periodo fascista, e al quale saranno portati soltanto dei ritocchi.

C’è da aggiungere che quando fu decretata la fine della giuria, i tempi erano innegabilmente maturi per l’abolizione. E si erano maturati quando? Innegabilmente in clima di democrazia. Gli è che l’abolizione della giuria coincise con l’abolizione dello scabinato, forma inconcepibile a mio modo di vedere, forma di giudizio misto copiato dalla Germania.

E per rifarmi ancora ad un discorso autorevole, non fosse altro perché di un ex ministro della giustizia, l’onorevole Gullo, che mi dispiace di non vedere in quest’Aula, rilevo che egli diceva: il magistrato è lontano dal popolo, avulso dalla vita fin dall’alba della sua carriera. Ho scritto le sue parole.

Ma allora, se questo è vero, tutta la materia penale deve essere sottratta al giudice togato. È una materia incandescente, per giudicare la quale occorre talvolta più cuore che cervello. Perché mai affidarla ad un uomo che non sente più le voci che vengono dalla vita, le voci che salgono dalle strade, dalle botteghe, dai campi, dalle officine? Perché a quest’uomo dev’essere data la facoltà di irrogare dodici anni per un delitto di furto, e gli dev’essere tolta per irrogare la pena che deve colpire un omicida?

Gli è che il giudice togato trae la sua origine dal popolo, per lo stesso congegno democratico al quale noi facciamo omaggio, e lasciate che io lo dica, non solo per il diritto che mi proviene dal sedere in quest’Aula, ma anche per aver speso venti anni nell’esercizio dell’avvocatura penale.

Dicono poi alcuni: giustizia regionale. Non comprendo la esigenza per singole regioni di avere un giudice che comprenda i traviamenti, le passioni, le ardenze del popolo ospitato nella regione ove egli giudica. Se l’argomento è valido, esso è esatto e valido non solo per il giudice di Corte d’assise, ma per tutti i giudici: in materia penale, civile, commerciale, perché è innegabile che la vita nel nostro Paese ha delle differenze profonde da regione a regione. La vita giudiziaria della Calabria, della Lucania, della Sicilia, della Sardegna, ha scarsissima identità con la vita giudiziaria della Lombardia. Non c’è nessuno di noi che questo non sappia. Nella Calabria, nella Lucania lontane, delitti di sangue e materia possessoria; in Lombardia, invece, delitti prevalentemente patrimoniali e vita agitata di grosse attività commerciali. Ma con ciò, nessuno mai ha pensato di contrapporre il giudice lucano al giudice lombardo! Ecco perché non comprendo la portata del problema.

Guardiamoci invece intorno: in molti Paesi d’Europa la giuria o si avvia alla soppressione o è stata già soppressa. In Austria, prima dell’annessione alla Germania, nel 1932, si passò dalla giuria allo scabinato; in Francia si è associata la giuria alla Corte d’assise nell’applicazione della pena, annullando così la regola della separazione del fatto dal diritto, che determinava le attribuzioni rispettive della giuria e della Corte. In Inghilterra, il paese classico della giuria, si è ammesso l’appello alla Corte d’appello criminale, formata da giudici togati. E non solo: in Inghilterra è lasciata libertà di scelta, in prima sede, fra il giudice della giuria e il tribunale e, a giudicare dalle voci che a noi giungono dall’Inghilterra – voci anche più qualificate perché ci provengono dal mondo scientifico e dalla stampa scientifica – pare che sia cominciata anche lì la fase di decadenza della giuria e che vi siano segni non dubbi di una estinzione dell’istituto.

Ma non vi pare, onorevoli colleghi, che sia un elemento di incongruenza – perdonate – il solo fatto di porre il problema nel momento in cui nel campo scientifico, con voce unanime, si chiede la specializzazione del giudice penale nelle scienze ausiliarie del diritto, in medicina legale, in psichiatria, in antropologia criminale?

Allora, qui sta la soluzione del problema.

Io non la indico, perché chiedo semplicemente la soppressione dell’articolo 96. La soluzione sarà quella che sarà. Potrà essere la competenza del tribunale con la costante duplice valutazione di merito attraverso l’appello; potrà essere la competenza della Corte d’assise limitata al delitto politico, come propone il collega Sardiello, proposta alla quale crederei di sottoscrivere se invece non facessi altra proposta; sarà la limitazione della competenza della Corte d’assise alla materia politica e alla materia passionale, cui vuole ricorrere il collega Altavilla. Comprendo poco la proposta, però, e non mi persuade. Comunque, la soluzione sarà l’una o l’altra, ma nel campo della concretezza della giustizia.

Onorevoli colleghi, la Commissione di studio si presenta a noi divisa tra timidi assertori della giuria (per la verità) e tenaci negatori di essa. È un segno di quella che io mi auguro sia la pensosa esitanza dell’Assemblea!

Guardiamo la sostanza al di fuori e al disopra della forma; rendiamoci noi, qui dentro, garanti della giustizia del nostro Paese perché, se è vero che Roma è nata a tutte le missioni della civiltà, è ugualmente vero che è nata a tutte le missioni della saggezza! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Perrone Capano. Ne ha facoltà.

PERRONE CAPANO. Debbo fare una leale confessione all’Assemblea e a me stesso. Io non ho potuto seguire i lavori dell’Assemblea perché trattenuto da un dibattito in Corte d’assise, ma ho letto con molta cura i resoconti sommari e mi sono accorto che quello che intendevo dire è stato già largamente e molto più autorevolmente detto. Di conseguenza io rinunzio al discorso limitandomi a fare delle brevi dichiarazioni quando verranno in discussione i singoli emendamenti che sono stati presentati. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare lo onorevole Porzio. Ne ha facoltà.

PORZIO. Onorevoli colleghi, in verità prendo la parola per fatto personale, perché dalla bontà, dalla cortesia di molti colleghi sono stato, dirò così, tratto in causa. Consentirete che io, non potendo in questi prossimi giorni trovarmi nell’Assemblea, dica chiaramente e brevissimamente il mio pensiero.

Perché sono contrario ai giurati? Ecco la domanda che mi è stata da più parti rivolta. Potrei semplicemente rispondere: perché tranne poche autorevoli voci è tutto un coro contro la giuria e non soltanto nell’Assemblea, ma fuori e nella scienza, tra i pubblicisti più noti, tra i giuristi più esperti, tra tutti coloro insomma che hanno realmente esperienza dei giudizi penali. Ma questa risposta forse potrebbe essere interpretata come un ossequio mascherato da parte mia. La realtà è che sono stato sempre avversario della istituzione dei giurati. Mi sgorga dal fondo. Sono istintivamente, organicamente contro ogni arbitrio, contro ogni decisione immotivata, contro quel monosillabo netto, incontrollabile, irrevocabile la cui genesi è oscura e qualche volta torbida.

Come volete che si possa essere favorevoli quando la mancanza di motivazione è ciò che toglie ogni pregio al verdetto? Noi viviamo in un’epoca che il nostro antico filosofo, Giambattista Vico, diceva: i tempi umani.

È vero, Giambattista Vico ha scritto dei corsi e ricorsi: andata e ritorno; ed io non so se noi siamo all’andata o al ritorno. Comunque, è certo che in tempi umani nei quali, come il Vico diceva, la ragione spiega tutta se stessa, non possiamo appagarci di verdetti immotivati, incontrollabili e che talvolta rappresentano una pietra sepolcrale sul destino di uomini e di sventurati.

Ma quel che non comprendo in noi, uomini moderni, è questo strano miscuglio: reverenza e sfiducia, esaltazione ed avversione e diffidenza. O si aboliscono i magistrati, ed allora vedremo alla prova questi nuovi giudici. Ma quando i magistrati vi sono, si mantengono, si affidano ad essi interessi cospicui, processure complesse, ardue questioni, allora è inspiegabile e assurdo che dei processi siano ad essi demandati e siano sottratti ad essi degli altri processi per risolvere questioni che richiedono egualmente acume critico, valutazione serena, e soprattutto un corredo di cognizioni e di dottrina.

Del resto, che cosa facciamo ora noi qui? Non cerchiamo forse di conferire alla Magistratura maggior prestigio, maggiore indipendenza, renderla quasi autonoma, sottrarla ad influenze estranee, intimidatrici? Or come si concilia questo col voler introdurre, nell’amministrazione della giustizia un giudice popolare? In realtà, il vero fondo del mio pensiero e della mia avversione è questo: detesto il giudizio di Trasimaco: il bene agli amici ed il male ai nemici, il bene ai ricchi ed il male ai poveri, il bene ai potenti e il male ai derelitti ed agli sventurati. Come vedete, il mio pensiero deriva da elevate considerazioni.

Capisco. Qui siamo in un’Assemblea politica. Si dice: la politica, la democrazia impongono degli istituti. E va bene. Democrazia; tutti democratici ora, democratici a destra, democratici a sinistra, democratici al centro. Anche il campanone di Montecitorio è diventato democratico. Ma che c’entra la democrazia in un problema tecnico, in un problema di capacità? La democrazia non è comizio, non è folla, non sono grida incomposte. È la supremazia dei migliori cittadini, è la possibilità di tutti ad aspirare ai maggiori uffici, alle cariche più elevate, è la umanità nelle leggi, è il sentire più vasto. Ed allora quale democrazia? La democrazia per un verdetto inconsapevole? Per svincolare la giustizia dal potere esecutivo? Ma siete proprio convinti che il giurì possa in determinate occasioni svincolarsi dalle sinistre influenze che possono venire dall’alto o dal basso? Io ho una lunga e ben diversa esperienza e se volete un esempio vado a cercarlo nella vecchia storia. Victor Hugo fu condannato dai giurati e assolto dai magistrati. Napoleone III lo volle condannato, e vi era il giurì. Potrei invocare anche storie recenti.

Guardate: tutta quanta la nostra letteratura e la nostra vera grande tradizione è contro questo istituto. Fui nella mia gioventù profondamente scosso da una grande pagina, non ricordo più se di un pamphlet o di una arringa (non ho qui le carte), di un grande avvocato e di un grande giurista italiano: Giuseppe Ceneri, l’imperterrito difensore di Andrea Costa, della prima Internazionale, alle Assise di Bologna. Ricordo che Giuseppe Ceneri scriveva disperato perché non riusciva, pur torturandosi, a trovare un piccolo motivo di nullità per potere innanzi alla Corte di Cassazione fare annullare un iniquo verdetto che importava la condanna di un vero innocente. È stato in quest’Aula ricordato Shakespeare, mi permetterà l’amico onorevole Persico, che non è presente, che ricordi Shakespeare anch’io: «Non v’è nulla di più atroce e di più sconvolgente quanto l’ingiustizia della giustizia umana». E queste parole divennero l’epigrafe dei motivi di ricorso redatti dall’eminente uomo. E così Pessina, Carrara, ed il suo maestro Carmignani; così in Francia Lacassagne, Tarde; positivisti come Garofalo, Ferri; così gli avvocati più eminenti da Ceneri a Cavaglià, a Spirito, a Girardi, a Manfredi, a Marciano che è stato qui testé ricordato dalla eloquente parola dell’amico Cassiani. È veramente una delle più grandi angosce quella di discutere innanzi ad uomini, anche colti, ma impreparati. È un’angoscia; non parlo delle cause affidate ai Tribunali e alle Corti d’appello, ma parlo di quelle più gravi, demandate alle Corti di assise. V’è o non v’è la prova? Se la prova vi è, è tutta una ricerca di motivi, di moventi, intrinseci, estrinseci, ardue questioni psicologiche, difficili ricerche di psichiatria. Non v’è la prova. Ed allora occorre un acume critico, un senso indagatore, una ricostruzione logica nella quale ricorrono tutti gli elementi necessari per un’indagine compiuta e profonda. È stato ben detto che la critica storica sorse dalla critica forense, cioè i metodi di indagine seguiti per la ricostruzione dei fatti individuali furono seguiti per i fatti collettivi e sociali. Or non è possibile che la scienza riconosca la sufficienza della semplice intuizione e quindi non si offende la libertà quando è la scienza, è l’arte critica, le quali giudicano argomenti lontani dalla immediata percezione e che rientrano esclusivamente nel loro assoluto dominio e la scienza non può riconoscere l’istinto e l’opinione comune, che molte volte è l’opinione volgare, come criterio di verità quando è così facile irridere e deridere quelli che sono i più complessi risultati dell’indagine scientifica.

Voi mi volete dire che questo capita talvolta anche coi magistrati. Non nego, ed è perciò che si richiede una Magistratura più elevata, più colta, più indipendente, meglio retribuita. E poi, sentite: non ho il piacere di essere conosciuto da molti di voi, ma io non sono mai stato né un adulatore, né un reticente nell’esprimere liberamente le mie opinioni.

Ma lasciatemi dire, che dopo il giudizio del primo magistrato v’è l’appello, v’è la motivazione della sentenza, v’è il ricorso in Cassazione. Come vedete vi sono dei rimedi che viceversa il cieco ed inappellabile monosillabo non consente.

I più grandi sostenitori – e negli atti parlamentari potrete facilmente trovarne i discorsi – furono parlamentari insigni e memorabili i loro discorsi. Stanislao Mancini ebbe parole di alta eloquenza, come Giuseppe Pisanelli, a proposito dei giurati. Anzi, Pisanelli, insigne giurista che in Piemonte stette esule, fu proprio dal Conte di Cavour incaricato di studiare la riforma giudiziaria e scrisse un libro pregevole sui giurati; volume che gelosamente serbavo ma che è andato sventuratamente travolto tra le macerie della guerra. Non importa; però ricordo che Pisanelli fu come fermato dallo sgomento innanzi a un tormentoso quesito, cioè al verdetto immotivato. Egli non concepiva sentenze senza motivazione, ed aveva perfettamente ragione. Son proprio sue parole (che più o meno ricordo): la motivazione è il freno del giudice, è la garanzia dell’imputato, è quella che affida alla storia il modo di documentare la civiltà di un paese. E l’illustre uomo non seppe suggerire un provvedimento qualsiasi per salvaguardare la dignità del verdetto, il diritto delle parti e quello della società la quale reclama di conoscere le ragioni per le quali un uomo è assolto o condannato.

Ma io vorrei dire ai sostenitori della istituzione dei giurati i quali credono che il giurì rappresenti la quintessenza della democrazia, questo: quando si procede alla scelta di coloro che debbono essere giurati, mi pare che la democrazia se ne va. Non mi parlate della libera Inghilterra. Tutti sappiamo che fin da 900 anni v’è il giurì in Inghilterra. Ivi nacque l’istituto. Però il giuri nacque nella contea, e si sceglievano i cittadini esperti in materia legale, che avessero speciali cognizioni giuridiche: proprio quella scelta, quelle categorie che tolgono il carattere di specifica democrazia alla istituzione. Per trovare veramente il giudizio popolare, bisogna risalire al mondo greco-romano, al Demos, legislatore e giudice, al Foro romano. Sicché, dall’Inghilterra, dallo statuto di Clarendon, alla Francia; e poi a Mancini, a Pisanelli, a Pessina, non avete che la scelta, la categoria. Il principio democratico quindi è più che scosso e annullato.

Cosa sostituire?

Io penso che allo stato delle cose dovremmo per necessità sospendere l’articolo e rinviare la discussione in sede legislativa. Quella è la sede opportuna. Occorre armonizzare il giurì e gli altri istituti giuridici. Bisogna coordinare il giudizio di Corte d’assise con quella che un tempo si chiamò sezione d’accusa e che oggi si chiama sezione istruttoria; provvedere alla facoltà dell’appello, del ricorso in cassazione: insomma presentare un insieme organico che conferisca valore, efficacia, prestigio all’amministrazione della giustizia.

Io, onorevoli colleghi, sono fautore delle Cassazioni regionali. L’amico onorevole Persico gridò contro questa aspirazione che è pure di molti qui dentro. Io ho ricordi magnifici della gloriosa Corte di cassazione di Napoli fondata proprio dagli eminenti conterranei di Pietro Mancini e di Fausto Gullo: Giuseppe Raffaelli, Giuseppe Poerio, e poi Marini Serra, e poi Cianciulli, e poi Nicola Nicolini e quel Giuseppe Riccardi, Ministro nel 1820, che quasi precorse la riforma giudiziaria con i giurati e creò le categorie di coloro i quali avrebbero dovuto compiere l’altissimo ufficio. Sento dire che non bisogna toccare la Cassazione in nome della uniformità della giurisprudenza. Sono contro anche in questo; sono più avanzato e liberale di voi.

Il fondamento logico e giuridico della Cassazione è ben altro, è nel diritto della società di conoscere se il giudice ha applicato o no la legge, se l’ha violata, se ha redatta una sentenza che possa chiamarsi tale, che cioè abbia fatto buon governo vero e proprio, non si sia riparato dietro affermazioni dogmatiche, se infine non abbia commessi errori e la logica non sia stata infranta da insufficienze e contradizioni. Tale è il fondamento della Corte di cassazione, non l’uniformità, altrimenti, o signori, i cassazionisti non sarebbero più degli uomini pensanti, ma dei repertori ambulanti. (Si ride).

Come vedete, onorevoli colleghi, non mi spinge nessuna gretta ragione, ma il proposito di assicurare al nostro Paese una giustizia illuminata, consapevole e degna. Io mi ribello allo strano privilegio che è quello di vedere attribuito un potere a coloro che non hanno tutte le capacità per esercitarlo. È il peggiore dei privilegi, il più odioso. Ho un elevato concetto della giustizia; essa è l’unica, la sola difesa contro l’atroce esperienza della vita: il dolore, è la fonte da cui derivano rivendicazioni e conquiste umane. E siccome io ho sentito in quest’Aula citare tanti salmi dell’antica Roma, consentite che io concluda ripetendo con Plinio: «Tanto durerà la Repubblica, quanto dura il costume di rendere imparzialmente un’illuminata giustizia». (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Mancini. Ne ha facoltà.

MANCINI. Illustre Presidente, onorevoli colleghi, il campo è mietuto, largamente e profondamente, e, se mi permettete, vorrei pur dire ingenerosamente. Tutti quelli che hanno parlato prima di me, hanno scritto una pagina degna di questa Assemblea Costituente. Mi lusingo di non ripetere. Se la ripetizione fu una figura retorica tanto cara a Napoleone il Grande, il quale la legava alla catena fulgente delle sue vittorie, non può dirsi lo stesso per chi parla e per chi è costretto ad ascoltare. Vi prometto di non tediarvi, perché io non polemizzerò con nessuno, ma dirò la mia opinione sinceramente e semplicemente, senza meditate orditure verbali e virtuosismi culturali, facendo tesoro dei risultati della mia esperienza professionale, né breve, né povera. Non «tesserò» contro nessuno, disilludendo il mio illustre amico Porzio. Non farò istanze peregrine. Non incomoderò le grandi ombre dei trapassati. Lascerò in pace la Costituzione inglese; dirò soltanto quello che penso senza subordinarlo a prevenzioni, a preconcetti, a dogmatismi, ma legandolo, da buon marxista, alla realtà storica nella quale viviamo e nella quale si svolge la funzione giudiziaria.

Parlerò dell’indipendenza della Magistratura, del divieto di iscrizione a partiti politici, della donna-magistrato, della giuria e delle Cassazioni regionali. Mi si consenta che, prima di trattare brevemente di siffatti temi, io faccia una premessa, che è il presupposto delle mie conclusioni. «Ordine» questa Magistratura, o «potere giudiziario»? Ascoltando molti oratori ho avvertito una certa confusione tra ordine e potere giudiziario. Quasi tutti han parlato di potere giudiziario.

Questo Titolo IV, «La Magistratura», parla soltanto di ordine giudiziario e non di potere giudiziario. Nella limpida e interessante Relazione si legge: «La Magistratura non è soltanto un «ordine», è sostanzialmente un «potere» dello Stato; anche se non si adopera questo termine lo si fa per evitare gli inconvenienti e gli equivoci cui può dar luogo una ripartizione teorica, ove sia interpretata meccanicamente».

In questo clima democratico, nel quale il potere è soltanto emanazione della sovranità popolare, non si può, né si deve parlare di potere giudiziario, se la Magistratura pretende nominarsi, promuoversi, autogovernarsi.

Io non so come definire il potere giudiziario: è un aspetto della sovranità? È espressione della sovranità? È un attributo della sovranità? Appartiene alla sovranità?

Si definisca come si vuole, non si potrà sganciare dall’«unico sovrano», che è il popolo, se è vero che la «sovranità» è passata dal monarcato e dalla dispotia – che la esercitavano a mezzadria – nelle salde e generose mani del popolo e per esso nelle Camere elettive.

La sovranità è la somma armonica dei poteri, in piena democrazia. Onde non può appellarsi potere un ordinamento che ha origine e natura diverse dai poteri fondamentali della Repubblica.

Se invero tale potere giudiziario si «nomina» da sé e diventa autonomo, in qual modo si lega agli organi, che sono emanazione popolare? Comunque, il potere legislativo e quello esecutivo sono in continua evoluzione e non nello stato di perenne fissità, oserei dire dogmatica e confessionale, come il potere giudiziario.

Gli uni esprimono la coscienza e la volontà popolare e sono rovesciati nel contrasto.

L’altro – espressione, per modo di dire, della Repubblica e dipendente dalla legge – interpreta la medesima e l’applica a suo modo, e spesso in contrasto con la coscienza del popolo, come avviene per i processi contro i criminali fascisti, da Basile a De Vecchi, senza che il popolo possa far nulla, almeno per censurarlo.

In questo Titolo il popolo non è mai menzionato, salvo allorché si tratta delle pronunce delle sentenze e dell’articolo 96, concernente la giuria. Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte di assise.

Ecco, signori, il fondamento della giuria. Ecco come la giuria diventa la espressione della coscienza e del sentimento popolare. Il popolo esercita direttamente il suo potere giudiziario, o meglio la sua funzione giurisdizionale nell’apprezzamento limitato ad alcuni fatti delittuosi, alla stregua della sua coscienza e dei suoi sentimenti.

Badate, onorevoli colleghi, che la dittatura non è rappresentata soltanto dagli uomini o dai partiti; la dittatura potrebbe essere rappresentata anche dai poteri, e specialmente dal potere giudiziario. Ne abbiamo fatto ingrata e dolorosa esperienza qualche anno fa: mentre il popolo affermava, attraverso le urne ed il suo suffragio, il mutamento istituzionale dello Stato italiano, che passava dal monarcato alla repubblica, la repubblica si spegneva nella magra requisitoria di un procuratore generale e nella negazione di alcuni magistrati di Cassazione, ostili all’empito della libertà e dei tempi nuovi.

Ebbene, o signori, chi ha osato dire una parola, chi è mai intervenuto per ostacolare, deviare, impedire l’espressione di queste coscienze che tentavano di eliminare, in nome della legge da loro interpretata il verdetto di un popolo, che è il verdetto della storia?

Io ho voluto ricordare l’episodio soltanto per mettervi in prevenzione a proposito di tutte quelle pretese, che ci han fatto pervenire i magistrati e della iperbole laudativa di molti colleghi, che scambiarono la tribuna parlamentare, ove conviene che ogni viltà sia morta, con la sbarra giudiziaria.

Autogoverno, autonomia, indipendenza della Magistratura.

Problema di facile risoluzione se non perdiamo di vista la realtà.

L’autogoverno è stata una proposta poco felice dell’illustre mio amico professor Calamandrei; l’autonomia è stata sorpresa sulle labbra autorevoli del Presidente della Cassazione nel discorso di immissione all’alta carica; l’indipendenza è preferita dalla Commissione. Ho notato però che queste tre parole sono state indifferentemente usate come se fossero sinonimi, espressioni reciprocabili, mentre notevole differenza passa fra l’autogoverno, l’autonomia e l’indipendenza.

L’autogoverno riguarda l’assunzione, la promozione, la disciplina e l’amministrazione delle spese occorrenti per la funzione della giustizia: autogoverno finanziario. Autonomia significa indipendenza integrale. Indipendenza vuol dire autonomia limitata. Il professor Calamandrei – autore dell’autogoverno – ha sempre avuto un debole per la Magistratura: lo ha avuto tanto che concesse al giudice istruttore civile tutti quei poteri che giunsero perfino a mortificare la libertà e la dignità del difensore. In ogni modo, pure essendo, questa spoliazione della sovranità, contrastata e decisamente respinta dalla Sottocommissione e da quella plenaria, ha prodotto dolorosamente i suoi effetti; perché, in pratica, si è giunti a concedere un vero e proprio autogoverno, del quale potrebbero dichiararsi sodisfatti quei magistrati, i quali ieri subirono, senza alcuna protesta, sovente con compiacimento, la dispotia fascista; mentre pretendono di creare un potere a sé, libero ed indipendente da ogni legame con gli altri poteri e pronto ad interferire, con la interpretazione della legge, sulla attività della vita del Paese.

Io non voglio, onorevoli colleghi, recar dispiacere a nessuno; ma ho l’abitudine di dire sempre la verità, specialmente da questa tribuna, dove ci ha mandato il popolo, che tradiremmo se ne limitassimo la sovranità. Noi avvocati abbiamo una poco lodevole prassi: quella di scambiare le norme della tribuna parlamentare con quelle delle aule giudiziarie. Dalla sbarra giudiziaria, difatti, prolifichiamo lodi ed agitiamo turiboli verso coloro, che sovente ci ascoltano in vacanza o ci invitano scortesemente alla brevità.

Qui, ahimè! si continua nel gioco propiziatore.

Io affermo invece che la Magistratura non ha fatto nulla nel passato o nel presente per avere diritto all’autogoverno e all’autonomia integrale. (Applausi a sinistra). Non voglio ricordare i molti episodi che si riferiscono al passato regime; rammento soltanto l’episodio D’Amelio, che cedette il suo alto stallo di magistrato senza macchia a Mussolini, che si era degnato intervenire alla inaugurazione dell’anno giuridico.

Il dispotismo e l’arbitrio, che scacciavano il diritto e profanavano il più alto tempio della legge. Soltanto una coscienza non fu prona, perché quella coscienza respinse, dalla sua toga, senza macchia e senza paura, la casacca della menzogna: era il requirente, in periodo istruttorio, del processo Matteotti: Umberto Tancredi della mia terra, che non piegò mai a minacce o a lusinghe, e che la Magistratura di oggi non ha mai pensato a ricordare a suo onore ed a suo orgoglio, e che han ricordato, nella celebrazione del processo Matteotti, la famiglia del martire, per inchinarsi reverente alla sua memoria, e l’assassino di Giacomo Matteotti, che sentiva ancora nelle carni gli aculei della sua istruttoria coraggiosa.

Quanti fiumi di eloquenza sulla indipendenza della Magistratura! Un tema prediletto e spesso estradato dal momento storico, ed in preda alla retorica più abusata.

Si poteva parlare dell’indipendenza della Magistratura, onorevoli colleghi, nei tempi infausti del fascismo, non in clima democratico, in cui il potere legislativo e il potere esecutivo non possono esercitare la loro invadenza o tirannia. Non si può parlare oggi di indipendenza, perché l’indipendenza ogni cittadino l’ha raggiunta e la difende nell’ambito geloso della sua coscienza e nell’esercizio della sua attività. La conquista della libertà porta con sé l’indipendenza del proprio giudizio. La Magistratura nella sua funzione è sovrana nella legge. Tutta la Costituente celebra la libertà e la dignità della persona umana; gli elementi preziosi della più ampia indipendenza morale. Comunque, in periodo di democrazia, come potrebbe esercitarsi una qualsiasi influenza da parte del potere esecutivo e del potere legislativo senza venir sorpresa e denunziata alla pubblica censura? Io non esagero se vi dico che pur nei tempi anteriori al fascismo nessun potere ha mai sindacato le decisioni della Magistratura, la quale ha interpretato e applicato il diritto secondo il suo pensiero e la sua coscienza.

Una sola indipendenza avrebbe dovuto essere reclamata e garantita: non quella all’esterno, ma l’indipendenza all’interno della Magistratura. Quando si è creato questo Consiglio Superiore, le cui origini sono elettive, quando non avete espresso un sistema, per cui il singolo magistrato si senta veramente dipendente solo dalla legge, in modo di evitare la gerarchia, in quanto tutti esplicano la stessa funzione e dipendono nello stesso modo dalla legge, che viene interpretata ed applicata secondo i dettami della propria intelligenza e coscienza, come si può seriamente affermare la completa indipendenza del giudice? Se il Consiglio Superiore della Magistratura rassicura la indipendenza esterna, l’ineguaglianza di grado turba, quando non lo elimina, il potere di autogovernarsi effettivamente. Inoltre, quando abbiamo fatto penetrare nell’interno della Magistratura il soffio pericoloso dell’elettorato, che naturalmente determina passioni, desideri, risentimenti, favoritismi, ditemi come può essere garantita nell’interno della Magistratura quella indipendenza assoluta che si pretende all’esterno?

Il principio della eguaglianza di tutti i giudici e del valore della carriera come esplicazione di funzioni diverse, e non come gerarchia nel senso tradizionale della parola; l’elezione del Consiglio Superiore in base ad elezione di magistrati di qualsiasi grado, avrebbero potuto raggiungere quella indipendenza così necessaria all’interno del corpo giudiziario.

Una vera e grande indipendenza, onorevoli colleghi, avrebbe dovuto pretendere la Magistratura italiana, che si sperde nei desideri di autonomie antidemocratiche: l’indipendenza economica; perché il fattore economico influenza sempre l’indipendenza morale del cittadino. L’indipendenza economica sarebbe stata la sola legittima istanza, che avrebbe trovata consenziente tutta l’Assemblea Costituente.

La Magistratura italiana naturalmente non avrebbe potuto pretendere gli emolumenti della Magistratura inglese, così inopportunamente rammentati qui dentro. Ma avrebbe dovuto e potuto sperare uno stipendio adeguato al costo della vita. Perché la Magistratura italiana – e questa è la maggiore e sentita lode che voglio tributarle – ha avuto sempre l’affanno della povertà, e l’orgoglio della onestà.

Ciò detto, dichiaro subito che noi socialisti non siamo favorevoli ad una Magistratura elettiva. Non siamo favorevoli per un doppio ordine di ragioni. Innanzitutto perché la Magistratura elettiva, come nella Svizzera, non ha dato risultati migliori del sistema assuntivo. Anche perché colui che fu eletto la prima volta è stato costantemente confermato al posto dagli ulteriori suffragi. E ancora perché l’eleggibilità rappresenta un controsenso col nostro sistema della legalità, cioè del diritto codificato; mentre il sistema della eleggibilità aderisce perfettamente al sistema del diritto libero. In Russia, nei primi tempi della rivoluzione, vigeva il sistema del diritto libero: il collegio giudicante improvvisava la sua formulazione giudiziaria in base alla politica, che si trasformava in diritto. Oggi però vige colà lo stesso sistema di legalità che esiste negli altri Paesi, cioè la elaborazione del diritto a mezzo degli organi legislativi, e quindi la sostituzione del sistema della eleggibilità con altro sistema.

L’elezione sarebbe preferibile soltanto per il conciliatore, nei limiti di un elettorato passivo ed attivo molto ristretto, onde sottrarre la sua nomina agli arbitrî informativi del solito maresciallo dei carabinieri, così influente presso i magistrati.

Dopo ciò, dovrei parlare dell’inamovibilità della Magistratura, sulla quale avrei qualche riserva da fare. Mi limito soltanto a concludere questa parte del mio discorso affermando che l’Italia, a differenza della Francia, ha concesso l’inamovibilità financo al pubblico ministero, che per me resta sempre parte. La vera indipendenza della Magistratura dipende dalla stessa Magistratura, cioè dalle qualità morali dei suoi componenti.

Comunque, i pionieri della autonomia integrale e dell’autogoverno commettono la più flagrante incoerenza, quando sanciscono il divieto ai magistrati di essere iscritti ad un partito politico o ad associazioni segrete. Si mettano un po’ d’accordo con se stessi. Atteggiamento avveniristico da una parte, atteggiamento sorpassato dall’altra. Progresso e regresso. Ma quando noi abbiamo sancito in questa nostra Costituente: «che ogni cittadino ha il diritto di esprimere liberamente le proprie opinioni», come inibiamo al cittadino magistrato di iscriversi ad un partito politico?

La libertà a scartamento ridotto non la comprendiamo, noi socialisti.

Ma si vuole davvero il magistrato astratto dalla vita sociale, dai suoi interessi, dai suoi sentimenti? Si vuole trasformare l’ordine giudiziario in un ordine monastico, fatto di rinunzie e di castità politica?

Ma non vi accorgete che codificate l’ipocrisia e il gesuitismo; mentre la democrazia è sinonimo di lealtà e di sincerità personale e pubblica?

Un divieto senza alcuna sanzione, sia magari di ordine morale, non si comprende. Del resto il divieto è facile a superarsi, creando vincoli segreti assai preoccupanti, perché avvolti nel mistero, come quelli massonici; poiché coloro contro i quali si esercita il divieto possono segretamente iscriversi nei partiti che rappresentano l’espressione della loro fede politica.

Io che milito, fin dagli anni liceali, in un partito, mi rifiuto soltanto di pensare che la disciplina di partito possa far deviare il giudizio del giudicante-correligionario. La coscienza supera i legami di partito. Comunque i partiti, per coloro che militano in essi per fede e per sentimento e non per speculazione politica, sono scuola di educazione e di democrazia, e difesa e garanzia di indipendenza personale. Dirò di più: i più severi giudici dei propri compagni sono gli stessi compagni. Legge psicologica ed etica, che non soffre eccezioni.

Non vi accorgete che siffatto divieto offende le origini e la vita di questa Assemblea? L’Assemblea Costituente è divisa in partiti; la legge elettorale ha un fondamento e una base nei partiti; qui sono venuti alcuni valorosi magistrati, mercé la loro iscrizione in una lista di partito; qui l’Assemblea sancisce, a danno loro, il divieto di iscrizione ad un partito! In altri termini li scaccia, li dichiara intrusi.

Per il nostro passato, per la nostra dignità di uomini di partito, per omaggio a questa tanto conclamata democrazia, cancelliamo tale divieto, che rappresenta una immeritata offesa alla Magistratura ed una gratuita ingiustizia alla personalità umana.

Una voce. È una ipocrisia!

MANCINI. L’ho detto dianzi e non aggiungo altra parola sull’argomento.

Passiamo ora alla donna-magistrato.

La Magistratura vuole chiudersi in una casta senza sesso, in una torre di avorio – come diceva il mio carissimo amico onorevole Turco – quando sbarra la via e chiude la porta della sua casa alla donna. Disdegna che un gentile sorriso venga a rompere l’austerità e la grinta (per non dire la mutria!) di tanti magistrati. Io non voglio rendere omaggio a nessuno, perché, parlando della donna, rendo soltanto omaggio a me stesso; poiché l’uomo si umanizza vicino alla donna. Io ho sempre pensato e penso che l’intervento della donna in tutte le umane attività, dalle più alte alle più modeste, dalle più pietose alle più umili, è stato sempre provvido e benefico. La storia e la cronaca ci insegnano con le loro vicende di bene e di male, che la donna, anche quando non era stata innalzata dal cristianesimo a turris eburnea, a vas electionis, ed era soltanto strumento di piacere, ella, con la sua bellezza e col suo genio somatico, ha influito a determinare avvenimenti e vicende di grande importanza. Dal naso di Cleopatra fino all’imperatrice senza impero, la duchessa di Castiglione, vi è una dorata catena di vezzi, che insidiano il movimento storico! Ma noi, che abbiamo concesso senza riserve alla donna parità di diritti in tutti i settori della vita sociale e ci sentiamo onorati della presenza di tante graziose colleghe, la nostra legislazione, che prima fra tutte, ha consentito l’ascesa della donna nelle cattedre delle scuole superiori ed universitarie, onde la cattedra di chimica a Napoli è tenuta da una donna che è l’orgoglio della scienza chimica, che è nostro orgoglio, perché è la figlia di Bakunin, mentre nell’Università di Firenze una avvenente giovinetta trentaduenne ascende per concorso nella cattedra di fisica, dovremmo nella nostra legge fondamentale sancire un divieto per la Magistratura! Ma, signori, non dimentichiamo che l’Italia ha dato al mondo una legislatrice, Eleonora D’Arborea, che dettò di suo pugno norme e regole così giudiziose, che pur oggi non ci lasciano indifferenti e dimostrano che la donna, anche nella speculazione giuridica, ha lasciato la sua orma.

Il mio amico Dante Veroni cercava di ammorbidire e rendere indulgente l’intervento della donna nella Magistratura, affermando che la donna, come è fallita nella professione forense, fallirà nella carriera giudiziaria. E ricordava in proposito con ingenerosità non degna di lui il caso di Teresa Labriola. Io, che fui preferito discepolo del padre, che fra breve rammenterò parlando della giuria, debbo dire che Teresa Labriola tenne con grande onore la cattedra di filosofia del diritto nell’Università di Roma e, come tutti i cattedratici, non eccelse nella avvocatura, perché la dogmatica sovente è in conflitto con la pratica giudiziaria.

Ma questo non è argomento, perché tanti giovani laureati in legge sono falliti nella professione e sono poi, attraverso la disciplina dei concorsi, saliti ai più alti gradi della Magistratura giudiziaria e amministrativa.

Del resto la donna, con il suo naturale intuito, porta nella difficile arte di giudicare un prezioso elemento: quell’istinto infallibile del sentimento di equità, che è la forma sentimentale della giustizia, mentre la giustizia è la forma razionale dell’equità. Ma che volete? Volete una giustizia che rappresenti soltanto qualche cosa di ieratico, di estraneo al popolo, del quale la donna è parte integrante e indispensabile? Ebbene, se si vuole una giustizia fatta di umanità, di storicità, che rifletta la coscienza popolare, che abbia, insieme col tecnicismo giuridico, anche il pregio del tecnicismo etico-affettivo, si dia il benvenuto alla donna. Quanto è più generoso e gentile il cuore del magistrato, che pur batte e pulsa sotto la sua fredda toga, tanto più la giustizia diventa degna di monito e di coazione psicologica. Ebbene, quale cuore più generoso e più gentile del cuore di una donna, che valuta i fatti umani e vivifica col sentimento la dura norma della legge? ché la giustizia, non è più faida o vendetta sociale.

E passiamo alla giuria.

La giuria è il tema scottante preferito dagli accaniti ed implacabili nemici di essa. In alcuni di questi valorosi avversari sembra che ci sia un fatto personale, tale la violenza dell’attacco.

Il mio eloquente amico Giovanni Porzio, signore incontrastato della Corte d’assise, ne ha dato inconfutabile prova qualche ora fa, unendo la sua maestria alla parola tornita di Gennaro Cassiani.

Io dichiaro subito, senza riserve, anche a nome del Gruppo parlamentare socialista, che sono favorevole alla giuria. Le sono sempre rimasto fedele, anche quando contro di essa imperversava la raffica impetuosa del fascismo.

L’Italia è il paese dei convertiti. Non per nulla il capolavoro della letteratura italiana (parlo dei Promessi Sposi di Alessandro Manzoni) esalta le conversioni. Quanta gente si è convertita, solo perché dall’alto arrivava la parola d’ordine di morte alla giuria! Io mi sono divertito nel mio isolamento ventennale a raccogliere tutti gli articoli di coloro che sui giornali quotidiani e nelle riviste giuridiche o di eloquenza mutavano la loro esaltazione di ieri nella irreducibile repulsione dell’oggi. Qualche cattedratico non sfuggirebbe alla vergogna della facile e cortigiana conversione. In ogni modo la istituzione della giuria io non voglio esaminarla – come han fatto i due valorosi che mi han preceduto, schierandosi sulla sponda avversa – delegando il mio pensiero alle delibere e agli ordini del giorno dei congressi o al parere – pur rispettabile – di tanti scrittori.

I ricordi del passato hanno la loro importanza, ma il pensiero, che si evolve e si adegua alla realtà storica sociale e politica, ha un’istanza privilegiata e suggestiva.

Rompo la consegna e ricorro alle citazioni pure io. Eccone poche, ma buone, e non tocche. Un uomo politico, il più grande uomo politico che abbia avuto l’Italia, Camillo Benso di Cavour, volle che la giuria fosse istituita nel Piemonte. E fu lui, Camillo Benso di Cavour, a volere la giuria in contrasto con quel suo Ministro, ricordato dall’onorevole Porzio.

Volete altro esempio, grande nella filosofia come l’altro era nella politica? Antonio Labriola, il quale nel 1904-905, all’Università di Roma, nel suo corso di filosofia morale, affermò che il fondamento del diritto di punire è nella coscienza del popolo, perché soltanto il popolo ha il diritto di giudicare.

E ne volete un altro: il più grande ancora nella scienza del giure? Francesco Carrara. Io mi sorprendo assai che un giovane magistrato abbia ricordato Francesco Carrara come un oppositore della giuria. Aprite, o signori (ma voi li avete aperti e li conoscete), gli opuscoli e leggerete la prolusione all’Università di Pisa nel 1876. In essa Francesco Carrara, davvero il patriarca del diritto e della psicologia giudiziaria, esalta la giuria.

Io vi rammenterò soltanto la fine di quella prolusione. Egli scrive: «per le vie di Parigi si avanzava un individuo con un cadavere sulle spalle che doveva lanciare nella Senna. Egli gridava, passo per passo: «passa la giustizia del re. Aristarchi, con la giuria, gridiamo: passa la giustizia del popolo. Inchinatevi!» Le parole di Francesco Carrara rivivono pur oggi nel pensiero e nella coscienza di coloro che parlano il nostro linguaggio senza prevenzioni, senza preconcetti di natura politica, e senza sofisticherie curialesche.

Intanto ho un’altra citazione da fare. Mittermayer, nella Teoria delle prove, scrive dieci pagine mirabili che, se io avessi l’abitudine di leggere, avrei dovuto leggere per farle assaporare a tutti i palati compromessi dall’odio contro la giuria.

Esaurita la mobilitazione delle grandi ombre, torno a me stesso. Ebbene, vi dico, onorevoli colleghi, – irridendo alla demagogia avversaria ed a tutte le volgarità, di cui ogni avvocato ha creduto di farsi una specialità – io sono per la giuria per le seguenti ragioni: per ragioni tradizionali; per ragioni politiche; per ragioni tecniche; per ragioni empiriche.

Per ragioni tradizionali. In una Assemblea così colta come l’Assemblea Costituente italiana, dinanzi alla quale ho l’onore di parlare in questo momento, ho sentito ancora ripetere un luogo comune, cioè che la giuria è un’importazione inglese. No, signori! Importiamo dall’Inghilterra le stoffe e le derrate; ma non istituzioni giuridiche. L’Italia ha sempre esportato simili prodotti. Nell’Inghilterra libera, nel secolo tredicesimo, si insorse contro i «giudizi di Dio». La giuria fu l’antitesi. La giustizia del popolo fu mutuata dalla rivoluzione francese, Costituzione 1790-91, e venne propagandata in tutte le repubbliche da essa fondate.

In Italia, aprite la Storia del Diritto Italiano di Francesco Schupfer e troverete: che esistevano fin dal dodicesimo secolo i giudici popolari, che si appellavano giudici dell’uso, laici, iurati, probiviri, cousules, e così via. Bononia docet. A Bologna difatti troviamo uno Statuto del secolo dodicesimo – anno 1250 – in cui venne rafforzato l’istituto del giudice popolare. E si rafforzò per il prevalere del diritto romano sul diritto barbarico. Roma – ha ben detto, onorevole Porzio – ebbe un’inesauribile fonte del suo diritto: la coscienza del popolo, con il suo organo: il pretore, con il suo cui bono che Caio quaerere solebat. È vero – onorevole Porzio – Roma e Sparta ebbero in certi momenti della loro grande vita sociale l’esaltazione dell’elemento popolare. Il quale, in ogni tempo ed in ogni latitudine, con l’infallibilità dell’istinto, ha superato la fallacia della razionalità. Voce di popolo, voce di Dio. Nella cronaca e nella storia, onorevoli colleghi, ho ben altra citazione da rammentarvi. Le parole del Presidente della Repubblica Cisalpina, che salutano la giuria:

«La istituzione dei giurati è quanto di più ingegnoso abbia prodotto l’amore fraterno; in esso campeggia tutta la sua anima, affannosa di trovare innocente l’imputato e di somministrargli tutti i mezzi per potersi giustificare».

Mai fu trovato mezzo tanto ingegnoso per dimostrare l’amore fraterno, perché la giustizia è un ordo amoris, non è ordo odii; perché la giustizia non è soltanto dura lex, ma indulgenza nel castigo, se si vuole che la pena sia davvero un atto il profilassi sociale.

E mi sorprende come da quella parte dell’Assemblea, dove la democrazia è qualificata dall’aggettivo «cristiana», vi sia stata una parola garbata, come quella dell’onorevole Cassiani, che abbia dimenticato che Cristo lanciò dalle rive del Giordano una parola alle folle assetate di giustizia:

«Non giudicate, ma, se giudicate, giudicate secondo il cuore vostro, che è il cuore del popolo».

La voce di Cristo l’ha ascoltata soltanto un uomo come La Pira, anima armoniosa di bene; onde il suo voto si è unito ai nostri a favore della istituzione della giuria popolare. Ecco la tradizione italica.

La ragione politica. Non ripeterò ciò che hanno detto gli oratori che mi hanno preceduto, cioè che la giuria è legata alla libertà ed alla democrazia. L’onorevole Veroni e l’onorevole Gullo Fausto hanno eloquentemente svolto questo concetto. Io mi limiterò a ricordare a tutti le parole che il Ministro Rocco scrisse, nella relazione alla sua legge, cioè quella ibrida istituzione dello scabinato, che sostituì la giuria:

«La rivoluzione fascista, che ha rivelato i danni ed i pericoli del democraticismo anche nel campo del costume e degli istituti giudiziari, doveva necessariamente procedere ad una sostanziale riforma dell’istituto della giuria».

Signori, io sono col democraticismo e non col fascismo. Se non altro per questo si dovrebbero calmare gli ardori più o meno antidemocratici contro la giuria. Il fascismo fu meno accanito di Porzio. Il fascismo consentì almeno che l’elemento laico partecipasse al giudizio delle Corte di assise.

Ho ascoltato in questo «sacro furore» antipopolare degli argomenti assai strani: «Io sono contrario al «sì» e al «no», perché il «sì» e il «no» partono da una coscienza, la cui genesi è torbida».

Ma, signori. E noi siamo democratici? Se la democrazia è quella che ha definito l’onorevole Porzio, egli può dirsi democratico. La democrazia nostra è ben diversa, è forma e sostanza di classe dirigente. Ammettendo la giuria, noi celebriamo e rendiamo omaggio alla coscienza del popolo. È il popolo sovrano che interviene nel giudizio, è il popolo che pronunzia il suo verdetto, come il coro nella tragedia greca.

Avvocati di Corte di assise parlano con una prevenzione che offusca il loro giudizio; parlano con tanto astio da farmi sospettare un fondo inconfessato di livore politico.

Io mi permetto di richiamarli alla serenità. Valutino la giuria per sé, senza passione di parte. Alcuni hanno invocato il tecnicismo giuridico, tanto più necessario quanto più gravi sono le ipotesi criminose. Il tecnicismo giuridico è salvo. Il giurato ha il monopolio giurisdizionale del fatto. Quello del diritto è lasciato al magistrato, che applica la pena. Ed è giusto che sia così, perché nei giudizi di Corte di assise, che dovrebbero essere limitati soltanto ad alcuni reati, è la giuria che può dare quel contributo psicologico ed etico per ottenere quelle valutazioni in ordine al fatto, dedotto in giudizio ed alla personalità dell’imputato, consone il più possibile all’opinione ed al sentimento del popolo entro i limiti della legge. La giustizia è fatta per il popolo. Si è parlato di errori e di eccessi della giuria. Ebbene, pur esistendo, non discreditano il principio, ma le modalità.

La partecipazione del popolo al giudizio penale è – al disopra della democrazia – un principio giusto e vero, perché nel magistero penale si riflette direttamente la coscienza popolare. Si tratta di disciplinare il principio in modo da dare il massimo dei vantaggi ed il minimo dei danni – e ciò si vedrà in appresso – ma nella Costituzione, il principio dovrà essere affermato. Ma, onorevoli colleghi, non esiste un istituto giuridico perfetto, e gli errori sono degli uomini. Ora io, se potessi confrontare gli errori dei magistrati con quelli dei giurati, credo che il vantaggio sarebbe nettamente per i giurati. Finiamola con questa retorica. Io voglio ricordare l’ultima fatica di Gennaro Escobedo. Dalle assise di Cagliari era stato assoluto un imputato. Il presidente della Corte, al quale dai giudici laici si era fatta maggioranza, redige una sentenza, motivata non alla stregua dell’assoluzione, ma alla stregua della condanna. Insorse la coscienza intemerata di Gennaro Escobedo, chiamando a raccolta, tutti i cattedratici e gli esperti italiani. Vi avrei voluto leggere le parole di Enrico De Nicola a proposito di questo falso ideologico, che vi dice come e quanto sia pericoloso affidarsi nei giudizi di assise al magistrato togato, che l’abitudine nel giudicare rende spesso semplicista ed inerte.

Voi, onorevoli colleghi schierati contro la giuria, non fate altro che lanciare blasfemi contro il popolo. Non vi accorgete che indirettamente date una patente di incapacità a quel popolo, che ha dato all’Italia l’onore e la libertà, che ha saputo giudicare il crimine fascista ed il crimine monarchico. Ora un popolo, che ha tale maturità etica, politica, ha tutto il diritto di partecipare direttamente all’amministrazione della giustizia nel suo Paese.

Il popolo di oggi, onorevole Porzio, non è il popolo di ieri, il popolo dei suoi verdi anni professionali, così vittoriosi.

Lasciamo da parte il dogmatismo della motivazione e pensiamo che la più vera e più sentita motivazione è quella che detta la propria coscienza ed il proprio sentimento; poiché la legge non è altro che la espressione codificata della coscienza popolare in un momento storico.

Ho ancora qualche cosa da dire: presentarvi i risultati della mia esperienza.

Capisco che voi potreste pensare, se non dire – illustri come siete – che l’esperienza di un modesto avvocato di provincia lascia il tempo che trova; io posso obiettarvi però, e non pecco d’immodestia perché chi mi conosce sa che non dico cosa inesatta, che in questa Assemblea non vi è alcuno che mi superi per intensità di lavoro in Corte d’assise. Ho avuto delle vittorie e delle sconfitte, forse più le prime; ma ho sempre notato nell’intimità della mia. coscienza, che alla base di certi verdetti che mi sorpresero e mi parvero aberranti, vi era un fondo di buon senso, che la passione difensiva mi aveva fatto sfuggire e che il pubblico all’unisono con la giuria aveva colto ed apprezzato.

Ed io chiedo ancora alla mia esperienza ben altri argomenti, che superano tutte le volgari censure che si scrissero in tempo fascista, e che sono state ripetute in questa Assemblea, non esclusa la accusa di possibili influenze, o di sotterranee vie per giungere alla coscienza del giurato.

Nella attuale costituzione della Corte di assise l’elemento laico – i così detti assessori – hanno con le loro maggioranze, formatesi spontaneamente per l’uniformità del sentimento, portato un correttivo al Codice penale mussoliniano, che pur troppo ancora vige.

Quell’articolo 90, cioè, quei tali stati emotivi, che non escludono e non diminuiscono l’imputabilità, i giudici laici non l’hanno mai voluto applicare; perché han sentito nella propria coscienza popolare tutta l’assurdità morale, che costituisce per la scienza un’aberrazione. E la Corte ha mai applicato l’ultimo capoverso dell’articolo 40, per cui non avere impedito un fatto quando si aveva l’obbligo giuridico di impedirlo, equivale a cagionarlo? Era la coscienza popolare, che si ribellava all’assurdo etico giuridico.

E c’è ancora un’altra eresia condannata dagli assessori: quell’articolo 116, per cui il concorrente risponde di un reato diverso da quello voluto.

L’elemento popolare, pure ostacolato e spesso arditamente dall’elemento tecnico, con la sua formulazione giudiziaria ha creato il diritto. La compatibilità delle due attenuanti dei motivi morali e della provocazione fu prima proclamata dai giudici popolari, in contrasto con i togati, e poi sapientemente ratificata dal Supremo Collegio.

Diciamolo onestamente senza farci trasportare da facili encomi; chi trovammo in Corte d’assise vicino a noi nel cuore, nella espressione, nel pensiero giuridico? Furono i magistrati togati che rispondevano: Dura lex sed lex, o i giudici del popolo, che la legge interpretavano con la razionalità del loro sentimento?

E fummo noi, quando cercammo di strappare alla ritorta crudele dell’ergastolo un disgraziato, che gridammo: «Sì, c’è la premeditazione, ma nell’animo di costui avvamparono motivi, e premettero impulsi che debbono essere apprezzati».

E chi li apprezzò? Il deriso assessore, il quale concesse la provocazione, che indi la Cassazione riconobbe compatibile con la premeditazione.

Le intuizioni del popolo.

Signori, la giuria reclama un altro merito: ha creato quella squisita forma di arte che è l’eloquenza forense. Soltanto la giuria nelle aule d’assise e non le fredde aule giudiziarie, dove il parlare è vano, ha creato questa forma di arte tipicamente italiana, e particolarmente meridionale. Ed oggi che a Capo dello Stato io vedo il più elegante ed il più limpido oratore forense; oggi che in questa Assemblea, su tutti i settori, non escluso il banco della Commissione, siedono coloro che dalle Corti di assise, auspice la giuria, ebbero a ripetere onori, successi ed agiatezza, si ascolta il coro ingrato dei convertiti che vogliono disconoscere il loro passato e stroncare l’avvenire dell’oratoria italiana. Un grande scrittore, dal quale possiamo dissentire per il contenuto della sua arte, del suo atteggiamento politico, aveva sentito magnificare l’oratoria di Genuzio Bentini, a cui mi è grato mandare da questo stallo, che fu da lui onorato, un pensiero memore e commosso, di Genuzio Bentini, ingiustamente trascurato dal primo Congresso nazionale forense. Volle andare a sentirlo: si mescolò nella folla ignorato da tutti, e palese soltanto a pochi. Ascoltò Bentini che difendeva una fanciulla di alto lignaggio, vittima delle violenze del suo autista e madre snaturata.

Gabriele d’Annunzio si tenne silenzioso ed attento; indi fu domandato. Rispose: ascoltandolo mi è parso di vivere nell’età di Pericle.

Signori, questo episodio venga per lo meno a molcere i vostri animi accesi d’ingiustificato furore.

Giovanni Porzio, che ha tenuto con insuperabile eloquenza e prestigio la sbarra della Corte d’assise di Napoli; che ancora risuona della grande eloquenza di Nicola Amore, viene oggi a gridare il crucifige contro la giuria. Io non so se tu sei nell’aula, o mio illustre amico, ma io voglio dirti: non ti accorgi che tu gridi il crucifige contro tutta l’eloquenza meridionale, contro il tuo passato?

Io non voglio essere così intransigente. Gli oppositori hanno ragione soltanto quando lamentano l’assenza di un Collegio di seconde cure. È necessario il riesame del processo. Ed è per questo che noi siamo favorevoli alle Cassazioni penali regionali.

Cassazione civile unica. Cassazioni penali multiple. Nella disputa antica fra i due sistemi ho trovato soltanto un argomento: che la Cassazione unica di Roma rappresentava l’uniformità interpretativa delle leggi. Purtroppo, la giurisprudenza penale colà muta col mutare di sezione, ed allora perché la Cassazione unica penale?

La necessità della Cassazione regionale – ripeto – cui dobbiamo dare la potestà di rivedere anche nel merito i verdetti della giuria, si impone anche perché la caratteristica locale le dà la possibilità di giudizi adeguati alle caratteristiche del popolo.

Il diritto, signori, non è qualche cosa di immutabile, di astratto. Il diritto e le leggi che si interpretano e si applicano devono tener presenti le costumanze, l’ambiente, i sentimenti, i coefficienti etnici di un popolo, se si vuole davvero adeguare il castigo al delitto e la rivalsa al danno.

Io ho finito, onorevoli colleghi, e chiudendo il mio dire voglio dirvi quello che altri non vi ha detto.

Tutti hanno elevato il loro inno alla giustizia. Hanno ricercato le parole più belle, le frasi più elette, le espressioni più sonanti. Ma tutti hanno dimenticato la vera giustizia, anelito inesausto delle genti umane affaticate. La quale non si limita e non si restringe al dibattito di una causa penale o al contrasto di una contesa civile. La giustizia va oltre le aule giudiziarie, nelle strade, nelle folle, nelle masse, nel popolo e diventa giustizia sociale.

Padre Dante, che non era un tecnico giuridico e si rammentò soltanto del giure in un verso del Paradiso, mentre fu il più gran giustiziere del mondo, ci ha lasciato un verso, che è un insegnamento universale: «Le leggi son, ma chi pon mano ad elle?».

Chi pon man ad elle?

Curiamoli quelli che devono mettere mano alle leggi, scegliamoli in modo che sappiano che oggi il clima storico è mutato, che oggi i rapporti del diritto di proprietà non sono più quelli dei tempi quiritari, onde si annullano i decreti di un Ministro, che scalfiscono il diritto malvagio; che oggi i rapporti di classe sono rovesciati, e non sono più quelli del dispotismo e della monarchia fascista. La giustizia, la vera giustizia è quella che accoglie, vivifica, codifica nella sua coscienza il palpito della vita e della personalità umana, senza privilegi e senza ineguaglianza! (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

MORO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORO. Propongo la chiusura della discussione generale sui Titoli IV e VI del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE. Domando se la proposta di chiusura è appoggiata.

(È appoggiata).

La pongo in votazione.

(È approvata).

Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 13.15.

POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCXCI.

SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Domande di autorizzazione a procedere in giudizio:

Presidente

Dimissioni di un deputato:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Scelba, Ministro dell’interno

Sansone

Di Vittorio

Li Causi

Pajetta Gian Carlo

Coppa

Meda

Mariani Francesco

Cairo

Mastrojanni

Selvaggi

Puoti

Gasparotto

Cappi

Zanardi

Interrogazioni con richiesta d’urgenza:

Presidente

Scelba, Ministro dell’interno

Covelli

Sereni

Rodinò Mario

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Domanda di autorizzazione a procedere in giudizio.

PRESIDENTE. Comunico che il Ministro di grazia e giustizia ha trasmesso tre domande di autorizzazione a procedere in giudizio rispettivamente contro i deputati Labriola, Li Causi, e Tomba, per il reato di cui all’articolo 595 del Codice penale.

Saranno trasmesse alla Commissione competente.

Dimissioni di un deputato.

PRESIDENTE. Comunico che l’onorevole Restivo mi ha inviato la seguente lettera:

«Palermo, 12 novembre 1947

«Signor Presidente,

«La Giunta delle elezioni ha convalidato la mia elezione a deputato all’Assemblea Costituente, in sostituzione del compianto professore Diego D’Amico.

«Inutile che le dica come io senta profondamente la responsabilità dell’ufficio a cui sono chiamato. Ma proprio il senso di questa responsabilità m’induce a ritenere che non sarebbe per me possibile partecipare, nel modo con cui vorrei, ai lavori dell’Assemblea Costituente, senza che questa partecipazione si riflettesse necessariamente – se non altro per ragioni di tempo e di dislocazione di uffici – in un minore impegno nell’espletamento delle mie attuali funzioni di assessore della Regione siciliana.

«Ora io non mi sentirei coerente con la mia fede di autonomista e di siciliano se, avvertita una tale preoccupazione, non uniformassi ad essa la mia condotta. Sono venuto quindi nella determinazione di presentare le mie dimissioni da deputato alla Costituente, dimissioni che vorrà comunicare all’Assemblea.

«Ella comprenderà, signor Presidente, che nel gesto che io compio non può non esservi, pur nell’assoluta convinzione che lo anima, qualche elemento di rammarico, per il fatto stesso di allontanarmi da colleghi valorosi, apprezzati nelle poche sedute alle quali ho avuto l’onore di prendere parte. Ma sono convinto – ed è di ciò che sono soprattutto lieto – che, anche attraverso la mia attività regionale, io resto un collaboratore della loro fatica, nel concreto formarsi dei nuovi istituti in cui si rinsalda l’unità del Paese.

«La prego di accogliere, col mio più fervido augurio per l’opera dell’Assemblea, che Ella così autorevolmente presiede, i sensi della mia viva stima.

«Francesco Restivo»..

Pongo ai voti l’accettazione delle dimissioni dell’onorevole Francesco Restivo.

(Sono accettate).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Come da impegno assunto, il Ministro dell’interno risponderà ora alle seguenti interrogazioni urgenti, presentate nella tornata di ieri:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, sull’assassinio proditorio consumato da agenti della mafia agraria siciliana in persona del compianto Vito Pipitone, vicesegretario della Confedeterra di Marsala, avvenuto in quella città la sera del 9 corrente; e più precisamente, per sapere:

1°) quali misure sono state prese per impedire il ripetersi dell’assassinio a tradimento di organizzatori sindacali, specialmente di contadini siciliani, dato che quello di cui è stato vittima il compianto Pipitone è il diciannovesimo della serie;

2°) se non credono indispensabile ed urgente adottare provvedimenti eccezionali per porre fine all’attività criminale della mafia, alimentata dai grandi proprietari terrieri ed avente lo scopo chiarissimo d’impedire l’applicazione delle leggi sociali della Repubblica nel campo agricolo, spezzando la rete di complicità che lega numerosi elementi delle autorità locali coi latifondisti e coi loro mafiosi assassini.

«Di Vittorio, Massini, Bitossi, Barbareschi».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere:

1°) se il Governo, dopo il recente brutale assassinio del vicesegretario della Federterra di Marsala, Vito Pipitone – ultimo di una lunga serie di crimini rimasti tutti impuniti – intende ancora disconoscere, con grave danno per la sicurezza e la democrazia dell’Isola, l’esistenza di una vasta associazione politica criminosa, diretta a lottare con tutti i mezzi, compreso l’assassinio, contro le organizzazioni dei lavoratori ed i partiti democratici repubblicani;

2°) se il Governo intende adottare energici provvedimenti, e quali, per assicurare alla giustizia, con la massima rapidità ed energia, i responsabili diretti ed indiretti, mandanti e mandatari, dei crimini politici siciliani, organizzati da elementi facinorosi al servizio delle cricche reazionarie dell’Isola;

3°) se il Ministro Guardasigilli intende richiamare energicamente i procuratori generali presso le Corti di appello e i procuratori della Repubblica presso i Tribunali della Sicilia, affinché provvedano a che, nei casi del genere, la legge sia applicata inesorabilmente e con esemplare sollecitudine.

«Li Causi, Montalbano, D’Amico, Fiorentino, Musotto, Cianca, La Malfa, Nasi, Varvaro, Corsi».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere, come deputati milanesi, quali misure intenda prendere nei confronti delle organizzazioni terroristiche clandestine neofasciste che operano nel Milanese e delle organizzazioni che ne costituiscono il paravento legale.

«Gli interroganti considerano la tolleranza colpevole del Governo, le recenti collusioni della Democrazia cristiana con i fascisti del M.S.I. e la campagna contro i sindacati dei lavoratori condotta dagli organi di stampa governativi come il più pericoloso incentivo ai criminali che intensificano la loro attività delittuosa e preparano nuove insidie contro l’ordine e contro le libertà democratiche.

«Pajetta Gian Carlo, Alberganti, Scotti Francesco, Cavallotti».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti il Governo intenda prendere nei confronti della situazione dell’Alta Italia, caratterizzata da aggressioni e azioni delittuose, ultima delle quali la tragedia di Rubiano di Mediglia, e quali garanzie il Governo intenda fornire per l’incolumità dei cittadini e l’esplicazione della loro libertà.

«Coppa, Cannizzo, Selvaggi, Mazza, Russo Perez».

«Al Ministro dell’interno, sui luttuosi fatti verificatisi l’11 novembre a Mediglia (Milano), che condussero all’uccisione di due cittadini ed al ferimento di altri tre.

«Gli interroganti chiedono quali provvedimenti l’autorità intenda adottare perché le libertà e la sicurezza pubbliche siano garantite.

«Meda, Morelli Luigi, Gasparotto, Cairo, Arcaini, Lazzati, Clerici, Zerbi».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere se il Governo si è reso esatto conto della allarmante situazione che si è creata nella provincia e nella città di Milano in seguito ai recenti gravissimi fatti a tutti noti e se non riconosca la necessità e l’urgenza di rinnegare quei metodi di Governo che, lasciando impunito l’incitamento a commettere fatti della natura di quelli lamentati, ne favoriscano il verificarsi da parte di elementi inadattabili al nuovo clima politico-sociale della Repubblica italiana.

«Mariani Francesco, Malagugini, Pistoia, Targetti».

«Al Ministro dell’interno, sui sanguinosi fatti avvenuti in questi giorni in Lombardia, in Sicilia e in Emilia.

«Cairo, Lami Starnuti, Di Gloria, Tremelloni, Corsi, Momigliano, Filippini, Rossi Paolo».

«Al Ministro dell’interno, per sapere se è all’esame la sostituzione del prefetto di Milano.

«Pajetta Gian Carlo».

Nel frattempo sono pervenute altre interrogazioni aventi il medesimo carattere di urgenza, delle quali do lettura:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere le cause che hanno impedito alle forze armate di polizia di evitare le gravissime manifestazioni di delinquenza collettiva culminate nel linciaggio di uomini e nella distruzione delle sedi del partito del Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque. Tali manifestazioni hanno terrorizzato le civili popolazioni dei più popolosi centri dell’Italia, ingenerando in tutto il territorio dello Stato un giustificato allarme per le possibilità evidenti di rimanere sopraffatte in qualsiasi momento da orde di facinorosi abbrutiti nell’odio, assetati di vendetta, organizzati nell’ombra, armati negli spiriti perversi, muniti di ordigni terroristici, pronti a consumare i crimini più efferati ed a spargere il terrore fra l’intera popolazione inerme ed indifesa.

«Gli interroganti chiedono di conoscere quali provvedimenti di eccezionale severità e di incondizionata intransigenza ha predisposto il Ministero dell’interno per garantire l’autorità dello Stato, per prevenire eventuali altre manifestazioni del genere, per reprimere immediatamente, con assoluta fermezza e con esemplare estrema severità, qualsiasi benché minimo tentativo di violenza contro le cose e le persone, dando alle forze armate di polizia ordini precisi, decisi e categorici di usare tutti indistintamente i mezzi, consentiti dalle leggi dello Stato, per la prevenzione, la difesa e la repressione immediata e ad ogni costo, di qualsiasi manifestazione di minaccia o di violenza.

«Mastrojanni, Rodinò Mario».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati adottati o si intende adottare a scopo repressivo e preventivo, nell’Italia settentrionale, per impedire l’estendersi ed il moltiplicarsi di atti di violenza, che vanno dall’aggressione alla rapina, contro inermi cittadini e contro le sedi di partiti democraticamente operanti.

«Per conoscere quali istruzioni sono state date ai prefetti e ai questori affinché, verificandosi casi del genere, il loro intervento si effettui con tempestività ed energia, così da restaurare nel pubblico il senso dell’autorità della legge, gravemente scosso da sopraffazioni di parte.

«Per conoscere se non ritenga opportuno sottoporre all’approvazione dell’Assemblea Costituente una legge speciale tendente a garantire con drastica energia il rispetto delle libertà di cittadini violentemente manomesse dalla delinquenza di partito.

«Per conoscere se si ritiene in grado di garantire il mantenimento dell’ordine pubblico con i mezzi attualmente a sua disposizione, o se non ritenga invece necessario ricorrere a misure di emergenza, atte a stroncare il piano criminoso di sovvertimento civile e politico, che alcuni partiti mostrano sempre più palesemente di volere attuare.

«Patrissi, Puoti, Fresa, De Falco».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda prendere a seguito dell’invasione e della distruzione della redazione del giornale Il Mattino d’Italia di Milano, e quali garanzie il Governo intenda dare perché atti del genere, veri e propri attentati alla libertà di stampa, non abbiano a ripetersi.

«Selvaggi».

«Al Ministro dell’interno, sui recenti fatti di Milano e di Bologna e sui provvedimenti adottati e da adottare a garanzia della pace sociale e della libertà.

«Gasparotto».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere a quali direttive d’ordine generale il Governo intenda ispirare la propria attività per far cessare il clima e i fatti di violenza che turbano con ritmo preoccupante l’ordine pubblico e la pace sociale, premesse necessarie della ricostruzione, materiale e spirituale, del Paese.

«Cappi».

L’onorevole Ministro risponderà pure alla seguente altra interrogazione presentata martedì scorso dall’onorevole Zanardi:

«Al Ministro dell’interno, per conoscere i provvedimenti presi nella provincia di Bologna contro attività terroristiche, svolte da persone armate – che, per il buon nome del nostro Paese, è augurabile non appartengano a nessun partito politico – le quali hanno invaso nella sera dell’8 novembre 1947 la sede dell’Enal in Crocetta (Medicina) ferendo gravemente due persone – fra cui Alfredo Buttazzi combattente e partigiano delle brigate Matteotti – in offesa al diritto comune ed in spregio delle tradizioni democratiche e socialiste di Bologna».

Ha pertanto facoltà di parlare l’onorevole Ministro dell’interno.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, il 10 corrente perveniva al Ministero dell’interno il seguente telegramma: «In contrada Bambina (Marsala) il vicesegretario questa Confederterra Vito Pipitone mentre apprestavasi svolgere opera per determinare assegnazione terre Feudo Giudeo veniva colpito a morte da mano ignota. Invitasi autorità tutta intervenire onde sia fatta giustizia».

Il contenuto di questo telegramma veniva conosciuto in tutta l’Italia dalle organizzazioni sindacali e rappresentava l’inizio di una serie di manifestazioni in tutto il Paese che hanno turbato la vita del Paese stesso e sono costate la vita a dei cittadini italiani. Il fatto cui accenna il telegramma è stato ricostruito dalle autorità. La sera dell’8 novembre Vito Pipitone veniva aggredito in campagna, ferito gravemente, portato all’ospedale.

All’ospedale, egli dichiarava all’autorità giudiziaria di essersi deciso quella sera improvvisamente a recarsi alla casa paterna, sita in lontana campagna e che questo suo divisamento egli non aveva comunicato ad alcuno. Per questa circostanza ed anche per la figura modesta del Pipitone, giacché egli è semplicemente l’organizzatore della zona rurale, le autorità ritengono sia da escludere nel fatto un movente politico. (Vive interruzioni all’estrema sinistra – Rumori – Commenti).

Voci all’estrema sinistra. Volete la guerra civile!

LI CAUSI. È una provocazione!

PRESIDENTE. Facciano silenzio! La seduta è appena incominciata. Sono state rivolte interrogazioni al Ministro dell’interno: lascino che risponda.

AMENDOLA. Per dire cose serie. (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Faccia silenzio, onorevole Amendola.

LI CAUSI. Vi sono stati finora diciannove morti! (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. Facciano silenzio! Occorre ch’io sospenda la seduta?

SCOCCIMARRO. Tutte le cose hanno un limite. (Rumori al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Scoccimarro, faccia silenzio, la prego. (Commenti al centro – Rumori a sinistra – Interruzione del deputato Maltagliati).

Onorevole Maltagliati, per favore! Io desidererei sapere se si ritiene che io debba con fatica riportare il silenzio nell’Aula, perché del silenzio approfitti poi un solo collega per un’interruzione, e non l’Assemblea intera per proseguire i suoi lavori.

SCELBA, Ministro dell’interno. Io, onorevoli colleghi, non posso, in un primo tempo, che riferire i fatti, così come le autorità locali inquirenti, e cioè la magistratura, i carabinieri e la pubblica sicurezza li hanno accertati. Non pretendo che gli altri condividano il giudizio, ma vorranno consentirmi di esporre i fatti quali sono risultati sino ad oggi obiettivamente. Le autorità inquirenti locali, a cui si è aggiunta la magistratura – perché il Pipitone è morto il giorno successivo, e quindi è potuto intervenire anche il magistrato ad interrogarlo – basandosi precisamente sulla dichiarazione del Pipitone – dichiarazione raccolta dal magistrato e consacrata agli atti – che egli si era recato quella sera improvvisamente e senza comunicare a nessuno la sua decisione alla casa paterna, tenderebbero ad escludere, il movente politico.

Di questo fatto, cioè, che nessuno sapeva che quella sera il Pipitone doveva recarsi alla casa paterna…

SCOCCIMARRO. Quelli che lo hanno ammazzato lo sapevano. (Commenti).

Una voce al centro. L’hanno indovinato. (Interruzioni – Rumori).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, basta, per favore.

SCELBA, Ministro dell’interno. La circostanza che egli non aveva l’abitudine di recarsi a quell’ora e di frequente a casa del padre; il fatto ch’egli abitava in altra campagna molto lontana e la circostanza che press’a poco alla stessa ora tutte le sere rincasavano due fratelli e si recava alla stessa ora nella casa paterna del Pipitone il fidanzato della sorella; circostanze acclarate fino a questo momento, fanno ritenere alle autorità locali inquirenti, insieme, ripeto, alla stessa modestia della carica rivestita dal Pipitone, che possa trattarsi di un errore di persona.

SCOCCIMARRO. Lo sa che è un insulto, questo? (Proteste al centro).

PRESIDENTE. Onorevole Scoccimarro, per favore.

SCELBA, Ministro dell’interno. Io non vedo perché riferire che la carica occupata dal Pipitone fosse modesta rappresenti un insulto alla memoria del morto! (Interruzioni all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. Lascino proseguire!

SCELBA, Ministro dell’interno. Io accenno alla modestia della carica per fare rilevare che, se nella provincia si voleva colpire un rappresentante dell’organizzazione sindacale… (Interruzione del deputato Fedeli).

Una voce all’estrema sinistra. Uno alla volta! Sarà per la prossima volta!

PRESIDENTE. Faccia silenzio, onorevole Fedeli! Onorevoli colleghi, badino che io interrompo la seduta senz’altro! (Interruzioni dei deputati Scoccimarro e Li Causi).

Onorevoli colleghi, desidero porre la questione molto chiaramente. Sono state presentate undici interrogazioni. Io desidero sapere se gli onorevoli interroganti hanno presentato le interrogazioni per avere una risposta oppure per eludere le risposte.

Una voce a sinistra. Queste non sono risposte!

PRESIDENTE. Onorevole collega, quando sarà Ministro le scriverà come vuole lei le risposte! (Applausi al centro).

Onorevoli colleghi, fino a questo momento, in lunghi mesi di discussioni, anche agitate, siamo riusciti a condurre innanzi i nostri lavori senza ricorrere a mezzi che spiacerebbero più all’Assemblea che a me. Non vorrei che in questo scorcio di lavori la Presidenza fosse obbligata – per suo dovere, non per suo capriccio! – ad impugnare l’arma, veramente non molto piacevole, del Regolamento. Ho detto che vi sono undici interrogazioni, alle quali il Ministro dell’interno deve rispondere. Gli interroganti potranno poi largamente dichiarare il loro pensiero e commentare le parole del Ministro; ma questo non giustifica che, dopo appena tre minuti di risposta, si siano avuti oltre dieci minuti di interruzioni e rumori. Questo non è modo di discutere. Prego gli onorevoli colleghi di attendere a manifestare il loro pensiero nel momento più opportuno e, possibilmente, nel modo più opportuno. (Approvazioni).

Onorevole Ministro, la prego di proseguire.

SCELBA, Ministro dell’interno. Dicevo, onorevoli colleghi di sinistra, che accennavo alla qualità personale della vittima soltanto per dire che, se si fosse voluto raggiungere il proposito di stroncare l’organizzazione sindacale della provincia, esistevano nella provincia uomini ben più autorevoli e ben più dinamici del Pipitone.

Comunque, le circostanze che ho riferito mettono per lo meno in dubbio la causale del delitto. Noi non possiamo, allo stato delle cose, dire precisamente, nettamente che il delitto sia imputabile all’attività sindacale svolta dal Pipitone, oppure ad errore di persona, come presumono, in base ai sommari accertamenti, le autorità locali; non abbiamo, cioè, la certezza per fare un’affermazione definitiva, certezza che potrà aversi soltanto da parte dell’autorità giudiziaria, la quale prontamente è stata investita degli accertamenti del fatto delittuoso.

Onorevoli colleghi, il fatto di Salemi è venuto a turbare un periodo di tranquillità della mia terra, della Sicilia, perché dopo i fitti di Portella della Ginestra e le aggressioni alle sedi dei partiti socialista e comunista la Sicilia fortunatamente non era stata turbata da nessun altro delitto.

LI CAUSI. E gli altri morti della settimana scorsa?

SCELBA, Ministro dell’interno. Permetta che le risponda.

Ripeto che non è stata turbata la vita dell’Isola. Dico ciò, onorevoli colleghi, perché si imputa quasi all’attuale Governo una situazione eccezionale che esisterebbe nell’Isola. Ora, io potrei leggere i dati delle uccisioni che si sono verificate anche a danno di sindacalisti in Sicilia. E devo dire che queste per la maggior parte rimontano ad epoca molto lontana, quando al Ministero dell’interno non c’erano dei democristiani. Comunque, è certo che durante cinque mesi la vita politica e sociale della Sicilia, sia pure tormentata, come tutta la nostra vita nazionale da agitazioni sociali, tormentata dalle occupazioni delle terre che potevano costituire motivi ed incentivi a delitti, durante cinque mesi, nel periodo, direi, più critico dello sviluppo sociale nell’Isola, perché si è svolta la grande agitazione terriera, non è stata turbata dal sangue. (Interruzioni – Commenti all’estrema sinistra).

È stato ucciso giorni addietro il segretario della Federterra di Terrasini, certo Maniaci Giuseppe. Ora, neppure il partito comunista, dopo una prima protesta, ha ritenuto insistere nell’attribuire il delitto a movente politico.

LI CAUSI. Non è esatto.

SCELBA, Ministro dell’interno. Uno sciopero generale indetto a Rovigo per la uccisione del Maniaci è stato all’ultimo momento disdetto dalla Camera del lavoro a seguito di istruzioni ricevute dal centro.

BOLOGNESI. È falso.

SCELBA, Ministro dell’interno. E infatti, onorevoli colleghi, chi era il Maniaci? Il certificato penale ci dice che egli a tredici anni riportava la prima condanna per furto.

LI CAUSI. Col padre morto. La sorella monaca.

SCELBA, Ministro dell’interno. A diciassette anni riportava, dopo altre due condanne per furto, una condanna nientemeno che a dieci anni di reclusione per associazione a delinquere e rapine. Mentre si trovava in carcere tentò due audacissime evasioni. Fu riarrestato, e per questo passò altri due anni in carcere ed ebbe all’uscita l’ammonizione e la vigilanza speciale. (Interruzioni dei deputati Fedeli e Li Causi – Prolungati rumori).

Nel 1940 entrava a far parte del partito comunista, e diventava segretario della Federterra (Commenti a destra – Vivissimi rumori all’estrema sinistra).

Una voce all’estrema sinistra. Portate il Paese alla guerra civile!

BENEDETTINI. Voialtri! (Vivi rumori a sinistra).

SCELBA, Ministro dell’interno. Al momento dell’uccisione veniva trovata nella sua casa una cesta di arance… (Interruzioni a sinistra Rumori).

Veniva trovata nella tasca della sua giacca una pistola… (Interruzioni a sinistra – Proteste del deputato Pajetta Giancarlo) …con caricatore e con cartucce in canna. (Apostrofi dall’estrema sinistra all’indirizzo del Ministro dell’interno – Rumori – Commenti).

Nascoste sotto un pagliericcio sono state rinvenute e sequestrate quattro bombe a mano. (Interruzioni e rumori vivissimi all’estrema sinistra).

NEGRO. Non è permesso insultare i morti! (Rumori).

Una voce all’estrema sinistra. Dimissioni! (Vivissimi rumori – Commenti al centro – Interruzione del deputato Saccenti).

PRESIDENTE. Io desidero sapere se gli onorevoli colleghi intendono con questi clamori spingermi ad abbandonare il seggio della Presidenza. Non mi vorranno far credere che qualunque giustificato sdegno debba significare mancanza di rispetto alla Presidenza, cosa che nessuno ha posto finora in discussione. (Interruzioni dei deputati Colombi e Cacciatore).

Il primo deputato che mancherà di rispetto alla Presidenza – e si manca di rispetto alla Presidenza quando si interrompe il Presidente nella forma petulante con cui troppi di loro hanno preso l’abitudine di interromperlo – od il primo dei colleghi che pronunci parola che non sia la più corretta, pur nella sua passionalità, – si può esprimere qualunque sentimento senza scendere a termini non degni di questa Aula – sentirà i rigori particolari che il Regolamento vuole si applichino in questi casi. Io li assicuro che non sono venuto a presiedere questa seduta per assistere a contese di questo genere. (Approvazioni – Interruzioni del deputato Leone Francesco).

PRESIDENTE. Onorevole Leone Francesco, la richiamo formalmente all’ordine.

Onorevole Scelba, prosegua.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, dicevo che durante questi cinque mesi decorsi dai tragici fatti di Portella della Ginestra, all’infuori di questi due episodi, la vita dell’Isola è trascorsa tranquilla. Per contro, il Governo aveva dimostrato di sapere mantenere gli impegni formalmente assunti dal Governo di fronte all’Assemblea.

Allorché l’Assemblea si occupò dei delittuosi fatti del 1° maggio e del giugno io dichiarai che il Governo era il maggiore interessato a far luce sui tragici fatti, e che il Governo, nell’interesse del Paese, oltreché nell’interesse suo stesso, avrebbe fatto tutto quello che era in suo potere per accertare i responsabili dell’efferato delitto. Questa promessa fu mantenuta, in quanto gli autori delle stragi sono stati individuati e arrestati, e taluno ha pagato con la propria vita il fio delle sue colpe.

Se questa è la situazione dell’Isola in questi ultimi tempi, se la vita dell’Isola si è svolta in modo non difforme da quella di tutto il resto d’Italia, io non trovo motivo di ricorrere a mezzi eccezionali, straordinari, come vengono invocati da alcuni interroganti, per sopperire ad una situazione che si dichiara eccezionale, ma che io ho la soddisfazione, nell’interesse del Paese, di dichiarare che non presenta assolutamente, dal punto di vista dell’ordine pubblico, nulla di eccezionale. (Commenti a sinistra).

L’episodio doloroso della Sicilia si è ripercosso nelle altre Regioni d’Italia, e, in modo particolare, nella Lombardia.

Erano in corso nella Lombardia manifestazioni di protesta contro il delitto consumato in Sicilia allorché nuovi episodi venivano a innestarsi nel clima turbato delle coscienze ed a creare nuovi motivi di agitazione. Il 9 novembre, mentre cinque giovani ritornavano da una festa da ballo, venivano aggrediti lungo la strada, da gente che stava ai margini della strada stessa. Era una serata di nebbia. Due dei cinque giovani venivano feriti. Causale del delitto: nessun accertamento è stato possibile compiere…

PAJETTA GIULIANO. C’era la nebbia!

SCELBA, Ministro dell’interno. All’una o alle due di notte noi non possiamo pretendere che in ogni angolo delle strade si trovi pronta la polizia. Il tempo intercorso per il trasporto dei feriti al Comune più vicino, ha richiesto non meno di un’ora di strada a piedi e la polizia è intervenuta quando materialmente non era più possibile trovare gli aggressori, i quali evidentemente non attendevano la polizia per essere catturati.

Motivo politico, si è detto. Ripeto, non abbiamo nessun elemento; ma se vi è una causale politica, si potrà desumere da un elemento di fatto: dal colore politico, per esempio, dei giovani che sono stati aggrediti. Da alcune informazioni pervenute risulta che uno era qualunquista e due ex comunisti. C’è un motivo politico? Se un motivo politico esiste è chiara la provenienza dell’aggressione. Ma io non oso, ripeto, pronunciarmi, perché non sono io che ho impostato l’aggressione su motivi politici. Rispondo ad una richiesta formale indicando gli elementi di valutazione per il giudizio che ciascuno è in grado di poter dare.

L’aggressione contro questi due giovani provocava, il giorno successivo, una spedizione punitiva. Queste sono le informazioni del prefetto di Milano; naturalmente le indagini non sono state compiute personalmente dal prefetto. Il fatto verificatosi il giorno successivo a quello dell’aggressione dei due giovani viene riferito in questi termini: alle ore 18 circa del giorno 10 un gruppo circa di 50 operai della Breda e di Sesto San Giovanni, appartenenti al Partito comunista italiano, autocarrati, si portavano nella frazione Rubiani di Milano dandosi alla ricerca del qualunquista Magenes, organizzatore del partito qualunquista di quella località, il quale si era rinchiuso nel molino gestito da certo Vitali Mario, e gli intimavano di seguirli. Il Magenes tentò di fuggire; poi, vistosi raggiunto, sparava due colpi di pistola, ferendo uno degli aggressori ed uccidendo un operaio della Breda. Il gruppo degli operai intimava poscia il ritiro del cadavere rimasto nell’interno del granaio ove trovavasi il Magenes; sopraggiunto il sindaco di Mediglia, questi invitava alla calma gli operai e invitava il Magenes a costituirsi. Il Magenes si consegnava al maresciallo comandante dei carabinieri, ma gli operai riuscivano a sottrarlo alla forza pubblica. I militari dell’arma, con l’ausilio dei funzionari di pubblica sicurezza, provvedevano a rintuzzare il gruppo degli operai e riuscivano a sottrarre il Magenes, che nel frattempo era stato ferito alla testa da corpi contundenti. Il medesimo, trasportato all’ospedale, decedeva durante il tragitto. Durante l’assedio della cascina e del mulino, il gruppo degli operai disarmava di fucile il cacciatore Allene Marco, causandogli una ferita lacerocontusa.

Questo è il fatto, in seguito al quale il giorno successivo si verificavano a Milano delle manifestazioni operaie. Erano in corso tali manifestazioni quando giungeva la notizia che era scoppiata una bomba nella sede del Partito comunista. Le autorità locali, che hanno riferito sul fatto, dicono: circa alle ore 12, al secondo piano interno della Federazione comunista, scoppiava improvvisamente una piccola bomba. (Commenti all’estrema sinistra).

PAJETTA GIAN CARLO. Voleva forse che fosse atomica?

SCELBA, Ministro dell’interno. Io leggo il rapporto del prefetto di Milano. Le indagini non le ho compiute io. Mi limito soltanto ad informare l’Assemblea in base agli elementi di cui può disporre un qualunque Ministro. D’altro canto, credo che dobbiamo rallegrarci tutti che si trattasse di una piccola bomba.

Questa bomba, soggiunge il rapporto del prefetto, infrangeva alcuni vetri senza però arrecare danno a persona, essendo in quell’ora la Federazione predetta quasi sgombra di funzionari. I reparti di polizia immediatamente accorsi riuscivano a procedere al fermo di tale Gragnolo Giuseppe, semi-infermo di mente, recentemente espulso dal Partito comunista. (Interruzioni all’estrema sinistra – Commenti).

La notizia dell’attentato alla sede del Partito comunista determinava, com’era naturale, un aumento della tensione, che era già forte a Milano, e nel pomeriggio, alle 14.30, frotte di operai accorrevano da tutte le fabbriche per una manifestazione di protesta in Piazza del Duomo…

Una voce all’estrema sinistra. Viva gli operai di Milano! (Applausi all’estrema sinistra).

Una voce al centro. Viva gli operai pacifici di Milano!

SCELBA, Ministro dell’interno. Durante la manifestazione il presentatore degli oratori che parlavano al comizio, il signor Degrada, secondo le ultime informazioni pervenute – il quale è anche membro del Consiglio di amministrazione della R.A.I., – annunziava che era deceduto l’operaio Rivolta, ferito insieme all’altro operaio, il Gaiotti, che era rimasto ucciso il giorno precedente a Mediglia; aggiungeva inoltre che cinque operai erano stati arrestati dalla Celere e che venivano bastonati presso la sede della pubblica sicurezza.

Le due notizie erano inventate di sana pianta.

È chiaro che, di fronte a queste notizie, considerato lo stato d’animo degli operai, nuove manifestazioni di violenza dovevano aversi; ed infatti una serie di violenze si verificavano nella città di Milano, che non fanno onore a nessuno e che, certo, non sono fatte per dare serenità e tranquillità al Paese.

Venivano invase e devastate le sedi dell’Uomo Qualunque e del Movimento sociale italiano; veniva devastata la direzione del Meridiano d’Italia; veniva tentato l’assalto alla questura e alla tipografia del giornale predetto. (Interruzione del deputato Pajetta Gian Carlo).

Le ultime notizie pervenute oggi da Milano dicono che la giornata di oggi è passata tranquilla.

I fatti di Milano e i fatti di Sicilia hanno provocato nel resto d’Italia una serie di manifestazioni di violenza: io non le starò a ricordare, anche perché la stampa ne ha riferito. Fortunatamente nessuna vittima umana abbiamo dovuto lamentare, nonostante l’asprezza delle manifestazioni. Sono state devastate in molte città d’Italia le sedi dell’Uomo Qualunque, prese particolarmente di mira. Un tentativo di linciaggio è stato evitato dalla polizia. Ma, nonostante tutto ciò, l’ordine nel senso più largo della parola si è potuto garantire. La polizia è stata messa a dura prova, onorevoli colleghi, in questi giorni, perché manifestazioni vi sono state e in gran numero e non è certo sempre possibile evitare le singole aggressioni. Le forze dell’ordine pubblico sono servite però ad evitare gravi e dolorosi incidenti.

Non sempre rifulge in tutta la sua luce tutto ciò che le forze dello Stato compiono per evitare il peggio; ma io non posso tacere qui, di fronte all’Assemblea Costituente, che gli organi di pubblica sicurezza hanno compiuto, nei limiti delle loro forze, tutto il loro dovere, impiegando tutta la loro energia, tutta la loro forza al servizio dello Stato, della tranquillità, e dell’ordine del Paese.

Onorevoli colleghi, le forze di pubblica sicurezza, dico per tranquillizzare i settori dell’Assemblea che hanno chiesto misure eccezionali al Governo, sono in grado di assicurare l’ordine nel Paese, ma non certo di impedire le sporadiche manifestazioni di violenza. Si accusa il Governo, si accusano le forze dell’ordine di non usare il pugno duro. Voi avete sentito anche qui, dalla lettura delle interrogazioni, quello che si chiede al Governo. Io penso che un Governo democratico, che abbia il senso della misura, debba fare ogni sforzo per evitare conflitti sanguinosi nel Paese, anche a costo talvolta di dare la sensazione di debolezza. Non è invece, onorevoli colleghi, debolezza l’indirizzo del Governo di evitare conflitti nonostante che circostanze oggettive potrebbero spingere le forze dell’ordine; non è debolezza quella delle forze dell’ordine che cercano di contenere le manifestazioni e di incanalarle verso forme meno impetuose.

Ma nessuno deve illudersi; se attentati allo Stato, se attentati alla democrazia dovessero verificarsi, il Governo è deciso ad usare contro la violenza la forza dello Stato.

(Applausi al centro e a destra – Commenti all’estrema sinistra).

Si tratta, onorevoli colleghi, di salvare il regime democratico; e salvare il regime democratico significa, anzitutto questo: dare ai cittadini la sicurezza che le forze dello Stato non soltanto sono operanti, ma decise e capaci di reprimere ogni attentato alla democrazia. Noi intendiamo assicurare tutti i cittadini italiani che, pur nella più larga comprensione della situazione politica italiana, che pur nella più larga comprensione dello stato d’animo in cui crescono e maturano queste agitazioni, pur comprendendo che le preoccupazioni di ordine economico esasperano lo stato d’animo di determinate masse, noi siamo vigilanti e sappiamo anche che delle condizioni economiche disagiale dei lavoratori si cerca di approfittare per scopi politici, chiaramente e nettamente dichiarati.

Io ritengo, onorevoli colleghi, che le manifestazioni ufficiali e non ufficiali che fanno appello alla piazza o alle forze popolari di agire sul terreno della piazza, per modificare una situazione politica, per modificare una situazione governativa, ritengo che questi appelli non sono fatti per salvaguardare la democrazia, perché la democrazia non agisce nella piazza, perché la democrazia ha i suoi strumenti i quali sono, onorevoli colleghi, il Parlamento e la scheda elettorale. (Applausi al centro – Interruzioni all’estrema sinistra).

E alla scheda elettorale, onorevoli colleghi, il Governo ha già dichiarato di voler ricorrere per mettere il Paese in condizioni di esprimere le forze reali che sono nel Paese. E se le urne, ma soltanto le urne, daranno al Paese delle forze politiche nuove, queste forze politiche nuove, che conquisteranno democraticamente il loro posto nel Parlamento, avranno diritto di governare il Paese. (Interruzioni all’estrema sinistra).

Ma contro ogni tentativo di sovvertire la situazione politica attuale con manifestazioni violente o di piazza, contro ogni tentativo di terrorismo psicologico e politico, una democrazia e un Governo cosciente di quello che significa democrazia, hanno il dovere di fare appello alle forze dello Stato. (Applausi al centro – Commenti a sinistra).

Una voce a sinistra. Ci parli dei fascisti.

SCELBA, Ministro dell’interno. Verrò ai fascisti. A giustificazione di queste manifestazioni, onorevoli colleghi, si è invocata la necessità di reagire con forme terroristiche a quelle organizzazioni terroristiche neo-fasciste che agiscono clandestinamente o attraverso organizzazioni politiche apertamente.

Io desidero, onorevoli colleghi, di esprimere nettamente il pensiero del Governo in questa materia; e anzitutto, che il Governo, per suo conto, non è disposto a cedere ad imposizioni di qualsiasi natura nel determinare la propria linea di condotta; che il Governo è deciso ad applicare le leggi dello Stato e che non intende agire fuori delle leggi dello Stato.

Esistono in Italia dei movimenti neo-fascisti, esistono certamente. (Commenti all’estrema sinistra).

Qual è l’atteggiamento del Governo rispetto a questi movimenti?

Ritengo di poter dichiarare che molti fascisti vivono in grossolano errore. Il Governo, e non l’attuale Governo, ma i Governi democratici, hanno instaurato in Italia, soprattutto dopo l’avvento della Repubblica, una politica di larga conciliazione. Questa politica era una necessità, perché la democrazia aveva il dovere di differenziarsi qualitativamente rispetto al fascismo, dimostrando il suo vero volto, il suo volto umano. Questa politica, che non è, ripeto, la nostra politica, anche se ha avuto il nostro concorso, noi intendiamo perseguire.

Mi pare che l’onorevole Togliatti, a proposito della sua amnistia, diceva che se egli si trovasse a dover decidere sull’amnistia la rifarebbe egualmente. Io credo che l’onorevole Togliatti abbia fatto questa affermazione in modo eccessivo, perché, se lui ed io e tutti quanti abbiamo collaborato a questa amnistia avessimo potuto prevederne tutte le conseguenze, probabilmente avremmo preso qualche debita cautela. Ma nella sua sostanza e nella sua essenza l’amnistia e la politica di pacificazione erano una necessità sociale, perché non si può pensare a ricostruire un Paese senza ricostruire l’unità degli spiriti. (Commenti a sinistra).

Era una necessità, ma molti uomini del fascismo sono caduti in equivoco. Sono caduti in equivoco coloro i quali pensano che la politica pacificatrice della democrazia, che l’amnistia e tutte le altre leggi siano state quasi un atto di riparazione per una ingiustizia compiuta. Non è un atto di riparazione per una ingiustizia compiuta, ma è un atto sapiente, volontario, cosciente, tendente alla pacificazione degli spiriti!

Vi sono molti uomini del fascismo i quali non hanno inteso il valore di questa politica. Noi abbiamo tolto dalle carceri uomini che erano stati condannati a scontare decine di anni, li abbiamo restituiti alle loro famiglie, abbiamo ridato loro la possibilità di vivere, abbiamo ridato loro la possibilità di rifarsi un volto e una dignità di uomini liberi; non hanno compreso e non comprendono questa politica umana del Governo, della democrazia e credono che questa politica umana verso singoli uomini rappresenti null’altro che l’inizio e la possibilità di una restaurazione politica, non dico di sistemi perché sistemi e situazioni politiche non si ripropongono mai negli stessi termini, ma una restaurazione di una classe politica, sociale ed economica che, per le responsabilità incontrate nel passato, non può pensare di ritornare nella vita del nostro Paese. (Applausi al centro – Commenti a sinistra). Non può soprattutto pensare il vecchio fascismo e gli uomini del vecchio fascismo di riavere una parte nella politica italiana, perché gli uomini possono confondersi nei movimenti – e molti ex fascisti sono in tutti i partiti politici, nessuno escluso in questa Assemblea – e hanno il diritto di collaborare e possono collaborare, ma quando si pensa di ricostituire i quadri di organizzazione, quando questi quadri riprendono elementi puramente e schiettamente fascisti, evidentemente un regime democratico non può consentire questa resurrezione. E il Governo, che ha questi pensieri, segue la situazione. Il Governo è deciso, per suo conto, a fare il suo dovere in questo campo perché nessuna reviviscenza di organizzazioni fasciste o resurrezione di una classe politica tramontata possano verificarsi nel Paese.

Una voce a sinistra. Rompa l’alleanza col Movimento sociale italiano.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ma, onorevoli colleghi, anche in questo campo le valutazioni sono diverse (Commenti a sinistra) perché noi non possiamo accettare che, mentre il rappresentante più alto del Partito comunista italiano si reca a rendere omaggio a un congresso di un partito che ha qui i suoi rappresentanti, poi questo partito debba vedere distrutte le proprie sedi, i propri membri aggrediti o assassinati col motivo che si tratti di fascismo. Questo, onorevoli colleghi, noi non lo possiamo accettare. La valutazione politica di un movimento non può variare secondo il proprio tornaconto del momento. La politica rispetto al fascismo deve essere lineare. Ma detto questo, onorevoli colleghi, per quanto riguarda il fascismo, detto che il Governo per suo conto è deciso fermamente ad impedire il ritorno sulla scena politica di manifestazioni e riorganizzazioni tipicamente e strettamente fasciste, il Governo non può accettare che contro minacce di reviviscenza fascista si istauri in Italia un terrorismo politico che del fascismo avrebbe tutte le caratteristiche. (Applausi al centro – Interruzioni all’estrema sinistra).

Quali sono le manifestazioni di terrorismo fascista?. Il partito comunista è stato vittima di due aggressioni avvenute entrambe a Milano. Un ordigno esplosivo è scoppiato presso la sede comunista di Milano il 24 settembre. Il Governo e la polizia hanno fatto il proprio dovere, perché questa ha scoperto e rintracciato gli autori i quali oggi si trovano a San Vittore in attesa di giudizio. Non si può imputare al Governo di non aver scoperto i responsabili e di non aver fatto, nei confronti degli autori di aggressioni contro il partito comunista, il proprio dovere. (Interruzioni all’estrema sinistra). Mentre in tanti altri attentati, fatti nei confronti di altri movimenti, i responsabili sono rimasti fino ad oggi impuniti perché gli autori non sono stati scoperti.

Un’altra piccola, modesta, manifestazione contro il partito comunista si è avuta a Milano recentemente il 4 novembre.

PAJETTA GIAN CARLO. Una modesta manifestazione? Una bomba, innocente?

SCELBA, Ministro dell’interno. Recentemente, dicevo, una bomba di carta è scoppiata sul davanzale della casa del custode della Sezione rionale comunista di Milano sita in Via del Santi. Fortunatamente non ha provocato nessun danno. Ma, di contro, onorevoli colleghi, a queste aggressioni, che noi possiamo nel primo caso, positivamente, benché l’autorità giudiziaria non abbia ancora espresso il suo giudizio, ma in base agli elementi raccolti, attribuire a neo-fascisti, (e dobbiamo dire che si tratta però di neo-fascisti molto «neo», perché uno non ha neppure 20 anni, quindi è addirittura un ragazzo (Interruzioni a sinistra) e gli altri responsabili sono dai 20 ai 22 anni), di contro a queste aggressioni abbiamo, onorevoli colleghi, una lunga serie di manifestazioni di intolleranza politica, di violenze politiche, nei confronti degli altri partiti che io mi risparmierò di leggere tutte all’Assemblea.

Una voce al centro. Staremmo qui fino a domani.

SCELBA, Ministro dell’interno. Mi limiterò a leggere gli episodi più salienti e i fatti individuali; e mi soffermerò poi su qualche fatto, che deve richiamare particolarmente l’attenzione dell’Assemblea.

Il 26 settembre si è avuto il linciaggio di un ex fascista; il 9 ottobre a Perugia è stato aggredito, colpito e ferito gravemente un certo Giampaolo Giuseppe, ex fascista.

Il 10 ottobre a Mombello è stata lanciata una bomba contro la sede del Partito democristiano. (Interruzioni a sinistra). L’11 ottobre un comunista feriva un qualunquista con un coltello al viso. Lo stesso giorno a Milano sei individui, nella sede del M.S.I., percuotono 4 aderenti, fra cui il segretario. Il 13 ottobre a Ginosa si ha un morto e 22 feriti per azione compiuta da elementi comunisti, arrestati e denunciati all’autorità giudiziaria. Il 14 ottobre abbiamo il lancio di tre bombe contro il generale Barbasetti di Prun, democratico cristiano. Il 15 ottobre, a San Giuliano…

PAJETTA GIAN CARLO. Perché non legge anche quello di San Giuliano?

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevole Pajetta, io sto leggendo le aggressioni compiute contro i partiti cosiddetti di destra e di centro; l’episodio di San Giuliano non è stato contro di noi.

PAJETTA GIAN CARLO. Contro la Democrazia cristiana: esclude che siano stati fascisti, perché sono vostri amici.

Una voce a sinistra. Questa è la verità.

SCELBA, Ministro dell’interno. A Modena il 27 ottobre furono sparati tre colpi di rivoltella contro la finestra dell’abitazione di certo Messoni, membro della Giunta esecutiva della Democrazia cristiana. Il 27 ottobre a Carpi 4 sconosciuti aggrediscono un ex fascista, procurandogli ferite guaribili in 15 giorni. Il 29 ottobre devastazione delle sedi del M.S.I.; il 4 novembre devastazione della sede del Movimento nazionalista e della tipografia sociale. Il 4 novembre tre sconosciuti si presentano nell’abitazione dell’ex generale della milizia Gatti Francesco e lo feriscono gravemente con 4 colpi di rivoltella. Il 6 novembre a Fontanego di Agogna ignoti fanno esplodere una bomba innanzi alla chiesa parrocchiale. Il 7 novembre a Como uno sconosciuto lancia una bomba a mano contro l’Istituto dei missionari. L’11 ottobre a Taranto viene invaso e devastato il Corriere del Giorno. L’11 novembre devastazione del Movimento nazionalista; viene ferito il custode e prelevato il figlio, dottor Ghersi; è evitato il linciaggio per l’intervento della pubblica sicurezza. Un altro gruppo tenta di irrompere nella sede dell’Uomo Qualunque. Il 4 novembre a Mirandola un gruppo di comunisti aggredisce un democristiano causandogli lesioni guaribili in dieci giorni. Il 7 novembre alcuni comunisti percuotono un altro democristiano, causandogli ferite alla testa ed alle mani. Il 7 novembre vengono esplosi colpi da arma da fuoco contro un ex squadrista. Ad Abbadia San Salvatore altri attentati ed aggressioni del genere.

Come vedete, i fatti sono numerosi; ma quattro manifestazioni, quattro attentati devono richiamare la nostra particolare attenzione: l’uccisione del ragioniere Petruzzelli e l’attentato contro il generale Gatti, uno qualunquista e l’altro ex fascista.

Su questi due fatti richiamo la vostra attenzione perché sono stati eseguiti con una tecnica particolare, con la stessa tecnica: introduzione nella casa, richiesta ai familiari della presenza dell’interessato da parte di ipotetici amici, uccisione o ferimento alla comparsa dell’interessato sotto gli occhi dei familiari. (Commenti – Interruzione del deputato Pajetta Gian Carlo).

Vi è poi l’aggressione alle officine Breda. (Interruzione a sinistra). Qui, non siamo di fronte ad ex fascisti, non siamo di fronte a generali della milizia, non siamo di fronte ad ex squadristi e repubblichini, ma di fronte ad autentici lavoratori. A Sesto San Giovanni i lavoratori sono stati vittime di inaudite violenze da parte di squadre che si sono introdotte nella fabbrica con la menzogna. Potrei leggere tutto il rapporto alla Camera perché è interessante. Queste squadre si sono introdotte nella fabbrica (sono state individuate come squadre di «pestaggio») dicendo che facevano parte della Commissione interna. Ma la Commissione interna, quella vera, non li ha riconosciuti come tali, ed allora essi si sono introdotti con la violenza ed hanno bastonato numerosi lavoratori democristiani.

Una voce al centro. Quelli non sono lavoratori perché non sono comunisti.

SCELBA, Ministro dell’interno. Aggressione dell’Emilia. Qui, non siamo neppure di fronte ai democratici cristiani, non siamo neppure di fronte alla politica del Governo, ma siamo fuori del Governo, siamo nel campo delle opposizioni, siamo nel campo dei socialisti del Partito socialista dei lavoratori italiani. Anche quest’argomento è oggetto di interrogazione ed i fatti sono noti: l’onorevole Matteotti non ha potuto parlare a Castel Sampietro di Bologna. Il giorno dopo uno dei partecipanti alla riunione, riconosciuto come tale, è stato aggredito, vilmente bastonato da cinque persone ed ha riportato delle gravissime ferite, per cui sta ancora all’ospedale. Qui, ripeto, siamo nel campo estraneo al Governo ed alla responsabilità governativa; siamo nel campo delle opposizioni.

Questi episodi, onorevoli colleghi, ci dimostrano come nel Paese esiste del terrorismo, una psicologia di intolleranza; e non accenno che ai soli fatti individuali, e non parlo di tutte le agitazioni o manifestazioni o scioperi, ecc.; non accenno a questo perché rientrano in un quadro diverso. Siamo nel campo della aggressione individuale singola e della intolleranza politica. Tutto questo rivela uno stato d’animo nel paese che è pericoloso; è pericoloso e dannoso perché opera contro l’interesse del Paese, opera contro la resurrezione economica del Paese, opera contro la democrazia. Opera contro la resurrezione economica del Paese perché è impossibile una ricostruzione del nostro Paese se la sua vita è continuamente turbata dalla insofferenza, dalla indisciplina, dal terrorismo e da manifestazioni violente. È impossibile pensare ad una più rapida ricostruzione nel nostro Paese se non diamo a tutti la certezza della tranquillità e dell’ordine. Questi disordini non operano contro un Governo o contro un partito, ma operano contro il Paese. (Applausi al centro).

LI CAUSI. Il fascismo è andato al potere così: per salvare il Paese!

PASTORE RAFFAELE. Il fascismo faceva le stesse affermazioni!

SCELBA, Ministro dell’interno. Noi abbiamo bisogno di fiducia all’interno e all’estero, perché senza la solidarietà ed il contributo di paesi esteri non può attuarsi la ricostruzione del nostro Paese. Nessuno, onorevoli colleghi, può essere disposto ad aiutare il nostro Paese se noi diamo uno spettacolo di indisciplina e diamo la sensazione che il Paese, anziché normalizzarsi è in continua agitazione. (Rumori – Commenti).

LI CAUSI. Ricordiamo il discorso di Pesaro e le leggi eccezionali durante il fascismo!

SCELBA, Ministro dell’interno. Il Paese, dicevo, ha bisogno di fiducia, perché con la fiducia vengano fuori le forze, le energie, gli uomini che creano le imprese economiche ed industriali e che danno il lavoro. Noi abbiamo bisogno dell’estero, e se noi diamo la sensazione che il nostro Paese, anziché avviarsi verso un più stabile regime democratico, corre il rischio di gravi agitazioni interne, noi operiamo contro il Paese, contro la sua ricostruzione, contro le classi lavoratrici stesse ed operiamo contro la democrazia. Guai se in Italia il popolo dovesse rendersi conto che l’autorità dello Stato non è capace di garantire l’ordine contro ogni tentativo di sovvertimento sociale. (Proteste a sinistra – Interruzioni dei deputati Pajetta Gian Carlo e Benedettini).

Nonostante tutto, onorevoli colleghi, ritengo che ancora, in Italia, l’aspirazione alla vita democratica, l’aspirazione ad uno stabile regime democratico sia largamente condivisa da tutti i partiti. Io sono anche convinto, nonostante tutte queste manifestazioni di intolleranza, che non sia necessario il ricorso a mezzi eccezionali, come viene richiesto da più parti dell’Assemblea.

Io ritengo, che coi mezzi eccezionali non si salva la democrazia; basta la volontà di far osservare e rispettare le libertà fondamentali dei cittadini, che sono state riconosciute e garantite dalla Costituzione e sono l’aspirazione della coscienza democratica del Paese.

Io ripudio e respingo le suggestioni che da più parti di questa Assemblea sono venute, perché la situazione si risolva con mezzi eccezionali. Affermo che la situazione del Paese nonostante queste dimostrazioni non è tale da legittimare il ricorso a nessun mezzo eccezionale. Onorevoli colleghi, mentre esprimiamo il nostro cordoglio e la nostra solidarietà a tutte le vittime di queste contese politiche che si rinnovano e alle loro famiglie, noi, nonostante tutto, convinti della sanità del nostro Paese, rivolgiamo un appello: noi vogliamo mantenerci sul terreno della democrazia; il Governo chiamerà il Paese ad esprimere la sua volontà nel termine più breve; abbandoniamo le forme di violenza, le intimidazioni, tutto ciò che possa turbare la vita del Paese, tutto ciò che possa creare l’impressione che, anziché andare verso un regime democratico, noi andiamo verso giorni neri ed oscuri.

Troppo le lotte di parte hanno gravato sul nostro Paese; e penso che le conseguenze tragiche che ancora gravano – ma che noi già dimentichiamo – le conseguenze tragiche degli odî e delle lotte di parte che sono di fronte ai nostri occhi debbano essere e saranno monito per tutti, per non abbandonare la via della legalità e la via della democrazia. (Vivi applausi al centro – Commenti).

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. A quale proposito?

SANSONE. Vorrei chiedere al Ministro dell’interno, che desse anche notizia alla Camera dei gravissimi incidenti di Napoli.

PRESIDENTE. Il Ministro dell’interno dichiara di voler rispondere subito alla domanda dell’onorevole Sansone.

SCELBA, Ministro dell’interno. Egregi colleghi, a Napoli, come in altre città d’Italia, si sono questa mattina svolte altre manifestazioni di protesta: a Livorno, a La Spezia, in altri centri. (Commenti a sinistra). A Napoli un numeroso gruppo di manifestanti ha tentato di invadere la sede comunale col pretesto di voler innalzare la bandiera rossa sul balcone del Municipio. (Commenti al centro – Interruzione del deputato Dozza – Rumori a sinistra).

Di fronte alla violenza della folla, che tentava di sfondare l’ingresso del palazzo comunale, la forza pubblica è stata costretta a sparare in aria. (Rumori). Essa si è limitata, per misura prudenziale e di fronte all’aggressività della folla, a sparare in aria senza recare nocumento ad alcuno: e siamo lieti che non sia avvenuto nulla di grave.

Nel trambusto, si sono avuti due feriti: ho detto nel trambusto e non già a cagione dello sparo di qualche colpo di fucile. Solo due feriti: un privato e un agente di pubblica sicurezza.

PAJETTA GIANCARLO. E i gas lacrimogeni? (Rumori).

SCELBA, Ministro dell’interno. La polizia è stata costretta anche a far uso di bombe lacrimogene: sono state lanciate due bombe lacrimogene. (Commenti). La polizia, onorevoli colleghi, è dotata anche di bombe lacrimogene. (Commenti a sinistra). Ed io ritengo che, di fronte a delle masse agitate, sia preferibile sciogliere assembramenti ricorrendo a getti di acqua o mediante bombe lacrimogene, anziché a spari di mitraglia e di fucili (Commenti a sinistra); nella città si sono diffuse, come succede abbastanza spesso, delle notizie esagerate di morti e feriti in gran numero, che, ripeto, fortunatamente, non vi sono stati. A seguito dell’agitazione che si era manifestata in tutta la città per tali voci è intervenuto l’onorevole Palermo, il quale ha avuto dalla pubblica sicurezza informazioni ed assicurazioni che non vi erano morti, che nessuna violenza era stata arrecata, e che le notizie che circolavano nella città erano fantasiose. L’onorevole Palermo ha potuto dare queste notizie tranquillanti ai dimostranti, per cui la manifestazione si sciolse.

Ecco le informazioni come sono pervenute al Ministero sino al momento in cui io sono venuto all’Assemblea; in quel momento la gente tornava alle proprie case dopo la dimostrazione e gli incidenti si riducevano a quanto ho riferito. (Approvazioni al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Di Vittorio ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DI VITTORIO. Debbo dichiarare che non sono sodisfatto delle comunicazioni dell’onorevole Ministro dell’interno, ma vivamente preoccupato, e con me credo una notevole parte del Paese, dalle dichiarazioni che egli ha fatto all’Assemblea.

Io cercherò di esprimere queste preoccupazioni nella forma più serena possibile. Altri colleghi citeranno dei fatti precisi che contestano alcune informazioni di carattere tendenzioso delle autorità locali, specialmente per quanto si riferisce alla Sicilia, e che il Governo, come al solito, ha fatto proprie.

Mi sia consentito innanzitutto di deplorare che il Ministro dell’interno, riferendosi al recente assassinio di un organizzatore sindacale della Sicilia, invece di avere una espressione almeno di pietà (non voglio dire cristiana) per le vittime, ha detto qualche cosa che suonava offesa per la memoria delle vittime stesse. Quando, a proposito dell’assassinio del vicesegretario della Confederterra di Marsala, Pipitone, l’onorevole Ministro ha creduto necessario leggere all’Assemblea il certificato penale (Commenti a sinistra) dell’organizzatore sindacale ucciso, per far risaltare che quest’altro organizzatore ucciso, il Maniaci, doveva considerarsi un delinquente comune, sapeva, o per lo meno doveva sapere, egli specialmente che è siciliano, che nelle regioni più povere del nostro Paese, nel Mezzogiorno e specialmente in Sicilia, in Sardegna e in Calabria, la situazione di crudele miseria in cui vive tanta parte dei lavoratori, tanta parte del nostro popolo, porta una quantità di giovani, di figli del popolo, ad abbandonarsi ad atti riprovevoli: Questi giovani poi, col maturare dell’età, diventano degli onesti e forti lavoratori, capaci di crearsi una famiglia e di tenerla onoratamente. Questo è il caso del Maniaci, questo è il caso, purtroppo, di centinaia di migliaia di nostri lavoratori i quali, malgrado qualche reato (Commenti al centro) compiuto in giovinezza, hanno diritto al rispetto, e l’hanno tanto più in quanto sono stati vilmente uccisi a tradimento. (Applausi a sinistra).

L’onorevole Ministro – come al solito – ci ha detto che quest’ultimo delitto non aveva motivi politici, che le autorità locali pensano che si tratti di misteriosi motivi di ordine privato.

Onorevole Ministro dell’interno, l’assassinio del Pipitone non è un caso isolato, perché si tratta del diciannovesimo organizzatore sindacale che viene ucciso proditoriamente, freddamente, a tradimento, da elementi mafiosi appostati sul suo cammino, e dire che si tratta di crimini comuni, di reati comuni, non è degno della nostra Assemblea!

Questi fatti denunciano un male sociale che il Governo deve prima comprendere e poi affrontare! La versione dei motivi privati di questi delitti, di questi massacri di organizzatori sindacali, è la versione dei mafiosi, è la versione dei responsabili, i quali tentano così di ottenere il duplice risultato di massacrare gli esponenti del movimento contadino e sindacale in generale e di fare in modo che tutti i delitti rimangano impuniti e vengano attribuiti a motivi misteriosi, mentre tutti in Sicilia sanno – comprese le autorità di pubblica sicurezza e l’autorità giudiziaria – quali siano le vere cause di questi delitti.

Una voce a sinistra. Le sa l’onorevole Scelba!

DI VITTORIO. E le sa naturalmente anche l’onorevole Scelba!

Il motivo, del resto, è semplice. Anche se ci si volesse limitare ad analizzare le circostanze di fatto in cui i singoli delitti sono avvenuti, una persona di mediocre intelligenza potrebbe immediatamente individuare i colpevoli e determinare il carattere del delitto. Questi delitti avvengono sempre quando è in corso o è minacciata un’occupazione di terre incolte, una applicazione della legge Gullo, cioè un’applicazione delle prime leggi sociali della Repubblica in agricoltura! Questi delitti avvengono sempre o l’indomani o il giorno prima di una occupazione di questo genere. E tutti sanno (la nostra Assemblea si onora di avere fra i suoi membri giuristi illustri), tutti sanno che quando si vogliono scoprire i colpevoli d’un delitto basta domandarsi a chi esso giovi. Chi ha interesse in Sicilia di massacrare i dirigenti delle organizzazioni contadine? Chi ha interesse di fare uccidere e terrorizzare gli organizzatori sindacali? Sono i grandi proprietari latifondisti, i quali non vogliono in nessun modo che si attenti ai loro privilegi iniqui e secolari; sono i grandi latifondisti gli istigatori, i finanziatori, gli organizzatori della mafia che esegue questi delitti. E il Governo non si è mai diretto verso le classi che sono responsabili non soltanto politicamente, ma penalmente, di questi delitti per ricercare tra esse i colpevoli. Ed è un fatto che tutti questi delitti rimangono impuniti. Vi sono tanti delitti comuni anche in Sicilia i cui responsabili vengono più o meno scoperti e puniti. In tutti gli assassinî di esponenti del movimento dei lavoratori non si trovano mai i colpevoli.

Come non pensare, come si può fingere di ignorare che se questo è possibile, se questa catena di delitti è possibile, gli è perché le classi, i ceti sociali interessati a fare eseguire questi delitti hanno organizzato una rete di interessi, di complicità criminali nella quale hanno attirato anche elementi delle forze dell’ordine, elementi della polizia ed anche elementi della Magistratura?

Se il Governo vuole veramente che si osservi la legalità democratica e repubblicana, se il Governo vuole che si osservi l’ordine, bisogna impedire che questi assassini dei lavoratori e dei loro esponenti continuino.

I grandi latifondisti del Mezzogiorno e gli altri ceti reazionari della Sicilia si illudono in questo modo di terrorizzare i contadini e di distruggere e di soffocare nel sangue il loro anelito alla libertà e alla conquista della terra; essi si illudono perché ciò che è avvenuto altre volte, è avvenuto ora e avverrà in seguito in forme le più variate in tutto il territorio nazionale, deve dare la dimostrazione persuasiva a quei signori e al Governo che i contadini siciliani non saranno mai abbandonati, mai soli alla rappresaglia. (Applausi a sinistra). Essi potranno sempre contare sulla solidarietà concreta ed attiva dei lavoratori di tutta Italia, i quali comprendono che la soluzione del problema sociale, del problema della terra, che è al fondo di questa catena di delitti, è la condizione indispensabile per creare in Italia un substrato solido e fondamentale della democrazia e della Repubblica. Perciò tutti i lavoratori italiani aiuteranno i contadini siciliani, i contadini meridionali, i contadini di tutta Italia, a realizzare quella riforma agraria che è stata una promessa di tutti i partiti, che ora la maggior parte di questi partiti dimentica di aver fatto nel periodo elettorale. Ma per quanto riguarda gli altri avvenimenti che sono avvenuti in questi giorni in Italia e che hanno funestato in modo particolare la città e la provincia di Milano, anche in questo caso non si è al primo delitto, al primo attentato, che abbia suscitato l’indignazione delle masse. Ci troviamo anche qui in presenza di una catena ininterrotta di delitti, che vanno intensificandosi e moltiplicando, assumendo sempre più il carattere di aperta provocazione contro le forze proletarie e democratiche del Paese. La bomba scoppiata nella sede della Federazione del Partito comunista a Milano, anche se il Ministro degli interni la definisce modesta, non è che il più recente fatto di una lunga serie di fatti che si ripetono in tutte le zone.

Lo stesso fatto che ha determinato l’agitazione dei lavoratori di Mediglia, anche quello era un atto determinato da finalità comuni. Un gruppo di giovani che ritorna a tarda sera a casa è aggredito a tradimento, come negli altri tempi. Che cosa significa la risposta dei lavoratori? Che cosa significa la proclamazione dello sciopero generale a Milano? Che cosa significa l’emozione che si è diffusa fra i lavoratori di tutti i grandi centri d’Italia, in tutta Italia? Significa una cosa molto semplice: che il proletariato italiano e tutti i lavoratori italiani non sono disposti a far sì che si ripetano situazioni analoghe a quelle del 1921-22. (Applausi a sinistra).

Una voce al centro. È vecchia questa. (Rumori).

DI VITTORIO. È sempre nuova. Signori, quella tragica esperienza politica e storica è troppo recente, ed è costata troppo cara a tutto il nostro popolo, perché ci si possa illudere che i lavoratori italiani l’abbiano e la possano dimenticare. Indietro i lavoratori e le forze democratiche conseguenti italiane non torneranno mai più. Nessuno si faccia illusioni in proposito.

E l’onorevole Scelba, anzi l’onorevole De Gasperi – mi dispiace che non sia presente in questo momento – non si illuda che si possa ripetere il tragico giuoco di Giovanni Giolitti. Anche Giolitti allora – si diceva dai suoi amici – voleva tentare di liquidare l’illegalismo fascista alleandosi con il fascismo. Egli si alleò, e questa alleanza rese possibile l’ottobre del 1922.

Voi state ricalcando la stessa strada; voi, Governo della Repubblica italiana, avete il dovere per legge e in applicazione dei principî già sanciti nella parte approvata della nuova Costituzione, di combattere il fascismo, di impedirne la resurrezione, sotto qualsiasi forma.

Una voce a destra. Anche quella rossa.

DI VITTORIO. E voi, invece di applicare le leggi della Repubblica, impedendo la resurrezione del fascismo o i tentativi di riorganizzazione di esso, vi siete alleati alle forze anche più dichiaratamente fasciste. (Applausi a sinistra).

SILES. Voi avete fatto la corte a Giannini.

DI VITTORIO. Vi siete alleati al Movimento sociale italiano, un movimento fascista, neppure camuffato, perché soltanto il nome non ha, ma nel programma, nel metodo, nella propaganda quotidiana è completamente fascista. Voi non avete ripudiato nella costituzione dell’amministrazione comunale di Roma di allearvi con questo movimento, che un Governo democratico e repubblicano non dovrebbe tollerare e di cui noi domandiamo lo scioglimento. (Applausi a sinistra – Commenti).

Se si vuole veramente, come noi lo vogliamo con tutta la nostra forza, evitare al nostro Paese la sciagura di una nuova guerra civile, bisogna veramente osservare la legalità democratica e repubblicana.

Dovete sciogliere le organizzazioni fasciste, più o meno camuffate, e sopprimerne la stampa, che è un insulto permanente alla democrazia ed a tutti coloro che sono morti per la libertà e l’indipendenza della Patria. (Applausi a sinistra).

Voi, invece, seguendo questa politica, che fu, in condizioni un po’ meno gravi di quelle attuali, la politica di Giolitti, ottenete il risultato che constatate: ridate alle forze fasciste reazionarie la speranza di potere risorgere e di poter ritornare ad impadronirsi del potere e a dominare, ad incatenare, ad imbavagliare il nostro popolo. E, d’altra parte, distruggete nelle masse popolari la fiducia che un Governo sia capace di difendere la legalità repubblicana e democratica. Bisogna ridare alle masse popolari, alle grandi, alle larghe masse del popolo, alle grandi masse lavoratrici, quelle che lavorano e producono e dalle quali dipende il destino della Nazione, la fiducia che il Governo veramente osserva le leggi della Repubblica, della democrazia, nel loro spirito; e non si accontenti soltanto di proclamare questa volontà nell’Assemblea, mentre poi, nell’azione quotidiana, cerca di scagionare tutti i delitti, commessi da gruppi reazionari fascisti e neofascisti, e cerca di sopravalutare degli eccessi, che io deploro, delle masse popolari, indignate e sfiduciate dalla sua politica.

In queste condizioni, noi dichiariamo che, se il Governo compirà interamente il suo dovere di difendere la legalità democratica, di impedire il ripetersi degli assassinî dei dirigenti del movimento contadino e sindacale siciliano, di stroncare le organizzazioni neo-fasciste e di sopprimerne la stampa, otterrà di ristabilire veramente la calma e la tranquillità nel nostro Paese.

Altrimenti, non vi fate illusione neppure voi, amici della Democrazia cristiana, almeno quella parte di voi che è sinceramente democratica e che è disposta a battersi per la difesa della democrazia. Ricordate, l’altra volta, l’attacco delle squadre fasciste? Era diretto contro di noi, contro l’organizzazione rossa (Camera del lavoro, cooperative, sezioni, circoli), ma quando non ci furono più organizzazioni nostre da abbattere, furono attaccate le vostre, furono attaccate le organizzazioni bianche. E la vostra partecipazione al primo governo fascista, la vostra prima alleanza col governo fascista, che ha qualche analogia con l’alleanza che oggi voi tenete con le forze reazionarie, non vi salvò dalla reazione. Rifletteteci bene!

Ma, per fortuna, il proletariato e la gran massa popolare italiana questa esperienza l’hanno ben presente, e sono essi, il proletariato e le forze popolari democratiche italiane, che salveranno la democrazia. Voi avete sempre parole di fuoco per rimproverare scioperi, agitazioni, manifestazioni spontanee dei lavoratori contro le violenze fasciste. Sappiate che il proletariato è deciso a difendere la democrazia e la libertà, che il proletariato, attraverso tutte le manifestazioni legittime delle sue forze, che sono possenti, riuscirà, con il Governo o anche senza il Governo, a difendere e a sviluppare le libertà del popolo italiano. (Vivi applausi a sinistra – Commenti al centro e a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Li Causi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

LI CAUSI. Onorevoli colleghi, avete inteso come il Ministro dell’interno abbia espresso il proprio rammarico che l’ultimo delitto consumato dalle organizzazioni criminali, legate agli interessi del feudo e della terra in Sicilia, abbia potuto avere delle ripercussioni nazionali, e come egli abbia sottolineato che il penultimo delitto, quello del Maniaci, segretario della Federterra di Terrasini, appreso attraverso i giornali e l’ANSA dai contadini e dai braccianti di tutta Italia, abbia suscitato profondo sdegno tale da determinarli allo sciopero generale; l’onorevole Scelba si rammarica che non siamo più ai tempi di Crispi, quando i delitti della mafia contro i dirigenti contadini non venivano percepiti al di là dello Stretto di Messina e si spegnevano nella debole eco di un’interrogazione a Montecitorio.

Non sono solo di adesso i crimini contro organizzatori contadini in Sicilia. Anche allora, nel 1921, quando fu ucciso Bernardino Verro, venne qui uno Scelba qualsiasi a dirci che l’assassinio era per motivi di donne; e dopo Verro cadde Nicola Alongi e Sebastiano Bonfiglio; come prima erano caduti Giovanni Orcel e Lorenzo Panepinto.

Ma il paese non si muoveva. Qui alla Camera erano i compagni socialisti, era sovente la voce di Filippo Turati, che si levava a ricordare il sacrificio enorme di questi eroici pionieri del movimento contadino siciliano; era Filippo Turati che rievocava le figure di Bernardino Verro, di Sebastiano Bonfiglio, di Lorenzo Panepinto e di altre diecine di organizzatori sindacali assassinati prima del fascismo. Oggi abbiamo il Ministro siciliano, il poliziotto degli agrari, che è stato messo lì apposta contro i contadini. (Rumori – Commenti).

Badate, lascio stare i delitti del 1944, perché lì c’entro anch’io – e la Democrazia cristiana sa che il 16 settembre in un comizio pubblico a Villalba vi fu chi mi gettava le bombe addosso mentre c’era chi mi sparava con la rivoltella. E sapete chi sono quegli assassini? Uno è il segretario della Democrazia cristiana di quel paese; e l’onorevole Corbi, che è stato in Sicilia pochi giorni fa, sa che il Presidente della Regione, avvocato Alessi, lo ha fatto aspettare un’ora, lui, per intrattenersi col mio attentatore di Villalba, a tutt’oggi ancora grande elettore della Democrazia cristiana, insieme con lo zio capomafia della provincia di Caltanissetta. Scelba si rammarica dunque, che i delitti che avvengono laggiù abbiano un’eco in Italia e suscitino immediatamente manifestazioni di sdegno e di solidarietà; mentre dovrebbe compiacersi di questo enorme fatto storico dell’unità spirituale del Paese realizzata attraverso la lotta e il sangue delle classi lavoratrici. Ecco che cosa vien fuori dalla meschina, poliziesca relazione che abbiamo ascoltata da Scelba e che offende anzitutto e profondamente la coscienza del popolo siciliano. Non parliamo dei crimini del 1944. I 19 morti del 1945, 1946 e 1947 (esclusi i massacrati di Portella della Ginestra e delle stragi del 22 giugno) sapete chi sono? Due sindaci socialisti, quello di Naro e di Favara, entrambi in provincia di Agrigento; cinque segretari di sezioni comuniste; dodici tra segretari di Camere del lavoro e di organizzazioni contadine. Quale è la frequenza, diciamo così, stagionale di questi delitti? Si addensano nei mesi durante i quali si svolge la lotta per l’assegnazione delle terre incolte; si uccidono poi i pionieri del movimento sindacale e politico là dove, imperando la mafia, si vuole impedire che sorgano i partiti del popolo, le leghe contadine, per lasciare il monopolio alle cricche sotto insegna pseudo-liberale o democristiana. In provincia di Palermo, a Ficarazzi, tre nostri compagni sono stati assassinati, fra i quali l’ingegnere d’Alessandro, perché non sorgesse la sezione comunista e la Camera del lavoro. A Ficarazzi è stato assassinato dalla mafia, per non aver voluto aderire all’organizzazione criminosa, uno dell’Uomo Qualunque, delitto da me denunziato in questa Assemblea, ma nessuno se ne è dato per inteso.

Ora, con una sì chiara caratteristica di questi delitti (e prescindo per ora dai massacri di Portella della Ginestra e del 22 giugno) come si può avere il coraggio da parte di Scelba di venirci a dire che trattasi di delitti comuni, di fatti da cui esula il movente politico? Maniaci, della Federterra di Terrasini, era un delinquente, dice Scelba; Pipitone, della Federterra di Marsala, un poveruomo; perché occuparsene? Perché tanta commozione, tanto sdegno fra i lavoratori per così poco?

Scelba viene a leggere i certificati penali degli assassinati o i rapporti della polizia: un assassinato è donnaiolo o libertino; un altro sovversivo pericoloso; oppure «non gode di buona reputazione»; un altro è un bravo nomo ma modesto… cosa c’entra la politica?

A proposito di Vito Pipitone, per quanto ci sia stato assicurato dalle autorità della Regione, e per quanto ci riferisce l’onorevole Corbi che in quei giorni si trovava in Sicilia, né i carabinieri, né la pubblica sicurezza, hanno escluso il movente politico del delitto. Lei soltanto lo esclude, onorevole Scelba, e per escluderlo non si vergogna di ricorrere alle più ridicole ipotesi, come se tutti non sapessero a Marsala che il Pipitone doveva recarsi a Salemi per dividere il feudo «Giudeo» assegnato dalle Commissioni ai contadini. Di che altro era responsabile il povero Pipitone, se non di aver difeso gli interessi dei contadini, di aver rotto un’incrostazione secolare di prepotenza e di violenze a danno dei contadini, consumata da agrari e gabellotti?

Anziché incamminarsi sulla strada giusta, la più naturale, quando si tratta di delitti contro lavoratori, la polizia percorre sempre le strade le più tortuose e assurde.

Non così, per esempio, quando vi fu l’attentato contro il vescovo di Agrigento al bosco della Quisquina; l’organo democristiano della Sicilia e gli altri giornali reazionari dell’Isola, prima ancora che fosse accertato il minimo indizio, pubblicarono che il delitto non poteva attribuirsi che ai comunisti; è venuto fuori subito dopo che a sparare contro il vescovo era stato un frate. Quando scoppiò nella Chiesa Madre di Melilli in Provincia di Siracusa non so quale deposito di esplosivi, i democristiani dissero: ecco l’opera dei comunisti sacrileghi; e stamparono manifesti ed articoli per dimostrare come i comunisti sono nemici di Dio e nemici della Chiesa; si scoprì che a servirsi dell’altare maggiore come deposito di esplosivi erano stati dei pescatori di frodo della zona.

C’è un orientamento ben preciso, senza nessuna preoccupazione di dire menzogne o diffondere la calunnia, quando qualche cosa accade agli agrari, alla Democrazia cristiana, ai partili reazionari; ma se le vittime sono dei lavoratori, la politica non c’entra.

Onorevoli colleghi: Scelba ci ha parlato dell’ultimo delitto, quello di cui è rimasto vittima il Pipitone, ignorando gli altri diciotto assassini dei mesi scorsi.

Ma come? Sono delitti staccati l’uno dall’altro oppure non fanno parte di un ciclo, come ha dimostrato l’onorevole Di Vittorio? Non denunciano questi delitti una situazione sociale divenuta acutissima, che reclama, con quella forza, con cui oggi le masse contadine l’hanno posta, la soluzione del problema della terra? È tutto qui, Ora, è evidente che, se il Partito democristiano, che in Sicilia ha la direzione più reazionaria di Lttta Italia, che ha compiuto in questi giorni – come a Roma – l’alleanza con gli espulsi del partito di Giannini… (Interruzione del deputato Aldisio).

LI CAUSI. A Palermo, nel Comune, la Democrazia cristiana ha deciso di appoggiare Patricolo. (Rumori al centro e a destra).

ALDISIO. Voi ne fate ben altre di alleanze che non queste! Non confondiamo le idee. (Rumori a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Aldisio, la prego.

LI CAUSI. …deve proteggere gli assassini dei lavoratori.

Ed è così che il Ministro Scelba deve minimizzare il valore di questi delitti, perché vuole dare la sensazione al Paese, ingannandolo, che in Sicilia la situazione si normalizza. È smentito però dal nuovo ispettore di pubblica sicurezza, il questore Modica, che denunzia trentadue assassini in provincia di Trapani in queste ultime settimane, senza che se ne scoprano gli autori.

Quando Scelba assicura che la banda Giuliano non esiste più, che è sgretolata, polverizzata, non dice il vero. Pochi giorni fa nuovo sangue di militi dell’arma è stato sparso nella zona di Montelepre.

Ma Scelba non riesce a mettere le mani su Giuliano, mentre le forze di polizia dislocate nella zona di Montelepre da tre anni tormentano quelle popolazioni.

Giuliano non si prende perché fa comodo. Agli agrari, alla mafia, al Governo degli agrari e della mafia. È così comodo per Scelba poter dire: chi ha seminato strage a Portella della Ginestra è Giuliano; chi ha assassinato e devastato il 22 giugno è Giuliano!

Ma Giuliano non si prende. Si prende però qualcuno della sua banda e questo qualcuno confessa. Confessa anche che Giuliano vuole fare la pelle all’onorevole Montalbano, al nostro Pompeo Colajanni, al sottoscritto. Attorno ai minacciati la polizia dispone un servizio di protezione; ma perché Giuliano voglia uccidere i dirigenti comunisti e ha seminato strage, perché ha rivolto le sue armi contro i lavoratori a Portella, non si riesce a sapere, non si vuole sapere.

Giuliano non si prende. Giuliano continua ad essere inafferrabile; si vuole mantenere in piedi Giuliano, perché fa comodo addossare a Giuliano tutte le colpe.

Vi è poi, il terzultimo delitto, consumato ai primi di novembre, a San Giuseppe Iato, dove cadeva ucciso un tale Caiola. Chi era costui? Uno che il 1° maggio, anziché andare con gli altri alla festa di Pian della Ginestra, con pochi amici preferì fare la scampagnata nelle vicinanze. Il Caiola riferì alle autorità, che immediatamente dopo gli spari, discesero dalla Pizzuta, a gruppi di tre, quattro, gente armata. Per aver riferito questo e alla polizia e alla magistratura, il Caiola, – come d’altronde altri testimoni a carico di mafiosi indiziati di San Giuseppe Iato – sono stati minacciati e intimiditi per ritrattare le testimonianze. Siccome non hanno obbedito alla intimidazione, la mafia passa alla loro soppressione. Il Caiola è il primo dei testimoni a cadere; la pelle a questo Caiola gliel’hanno fatta.

I giornali reazionari dell’Isola, compreso quello della Democrazia cristiana, hanno gettato fango sul Caiola, come già sul Maniaci, come d’altronde qui, col Maniaci, ha fatto Scelba.

BELLAVISTA. Abbiamo pubblicato il certificato penale!

LI CAUSI. Volevano questi fogli… che noi gettassimo i loro cadaveri ai cani.

Il     Maniaci, nel 1940, uscì di prigione; dopo un anno i carabinieri gli fecero togliere la sorveglianza (ne aveva per tre anni), perché s’era messo a far bene, si era sposato, ero divenuto padre. Nel Partito comunista entrava nel 1944. (Interruzione del deputato Bellavista).

A proposito del Maniaci, noi siamo andati a Terrasini, e ai lavoratori, ai cittadini riuniti, con quelli di tutta la zona, ricca di organizzazioni mafiose, abbiamo detto i difetti del Maniaci, ma anche il suo grande sforzo di redenzione che lo condusse a mettersi alla testa dei sofferenti. Noi abbiamo salvato la figura di Maniaci, che voi volete infangare. Avreste preferito che rimanesse delinquente, che diventasse bandito, come Giuliano?

Lei, onorevole Scelba, ha cercato di farsi bello qui affermando che, malgrado il clima arroventato della Sicilia, non si sia sparso molto sangue. Domandi ai siciliani! I morti sono tutti da parte dei lavoratori. Lei sa meglio di me che se non si è sparso sangue, sangue dei signori e dei loro mandatari e sicari, è perché i contadini siciliani, attraverso le loro organizzazioni, si sono dati una disciplina così ferrea, da non abboccare più alle provocazioni, da non abbandonarsi, come negli anni, nei secoli scorsi, alle rivolte, che se facevano cadere qualche testa di nobilotto ozioso o di agrario prepotente, stroncavano per decenni la vita politica dei grossi borghi rurali nostri.

In Sicilia noi continueremo – come abbiamo fatto finora – con tutte le forze del popolo siciliano e dei contadini a porre e a risolvere i problemi della rinascita siciliana!

Ma i nostri contadini, i nostri organizzatori sindacali, ci gridano: dobbiamo assistere ancora inerti alle stragi, agli assassinî, alle violenze, alle intimidazioni delle caste dominanti? Dobbiamo assistere, senza difenderci, alla impunità degli assassini, alle scandalose scarcerazioni?

Finora, insieme con i partiti democratici della Sicilia, noi comunisti abbiamo impedito le azioni di rappresaglia. Da oggi in poi però le rappresaglie, nella carenza del Governo e nella complicità di certe autorità, noi le faremo! (Applausi all’estrema, sinistra – Rumori).

BENEDETTINI. Ecco le solite minacce!

I voti del M.S.I. li avete chiesti voi al Campidoglio e non li avete ottenuti e vi siete scagliati contro! (Rumori – Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Pajetta ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PAJETTA GIAN CARLO. Onorevoli colleghi, non siamo sodisfatti della risposta del Ministro dell’interno (Commenti al centro) e certamente non ne saranno sodisfatti i lavoratori che oggi hanno seguito il feretro del loro fratello, del loro compagno, del partigiano con la fronte spaccata, che essi hanno raccolto presso la casa degli squadristi, dei repubblichini di Mediglia. Non sono certamente sodisfatti i famigliari, i bimbi, le donne dei nostri compagni caduti, di quelli che son caduti in questi giorni, di quelli che erano caduti perché queste cose non avvenissero più! Non possiamo essere sodisfatti della situazione, e tanto meno del contegno, dell’atteggiamento scandaloso di questo vostro Ministro degli interni! (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

Io mi domandavo, quando lo sentivo cercare di minimizzare i delitti e i crimini della canaglia fascista, quando gli sentivo leggere le relazioni che tentavano di infamare i nostri morti e tacere dei misfatti dei criminali fascisti che sono stati colpiti dall’esasperazione sdegnata dell’anima popolare; mi domandavo, quando parlava di queste bombe «modeste» e della «pietà» delle bombe lacrimogene che sono state lanciale a Napoli sui cittadini dispersi dai colpi sparati in aria (solo in aria!), quando Scelba attenderà per ammettere la gravità della situazione, per riconoscere che a Milano ci sono i banditi fascisti? Attende forse il giorno nel quale si alzerà per fare la mia commemorazione? (Commenti al centro). Onorevoli, colleghi, quella bomba modesta che ha distrutto solamente il pavimento del corridoio del mio ufficio potrebbe essere seguita da bombe meno modeste, se noi non provvedessimo anche quando il Governo non provvede. E invece ecco questo vostro Ministro impassibile. Può essere ammirata la sua imperturbabilità; nel gioco parlamentare può valergli l’ammirazione e l’applauso, ma questa non è soltanto imperturbabilità parlamentare, questa è indifferenza colpevole; questa è menzogna. (Proteste al centro).

Voi forse non avete dimenticato come io qui denunciassi le trame fasciste nel Milanese, documentando l’organizzazione clandestina, la propaganda del delitto e la tolleranza dell’autorità centrale. Ebbene, che cosa è successo dopo questa denuncia? Quanti giornali fascisti ha sequestrato il Ministro Scelba? A quella prima bomba, un’altra ne è succeduta e nel breve tempo, che è passato da quando abbiamo stilata l’interrogazione che si va discutendo, una terza bomba è esplosa nella sede di una organizzazione comunista di Milano. Ora, noi siamo fieri che i nostri uffici siano in prima linea; siamo orgogliosi di lavorare come se stessimo in una trincea, ma una trincea dalla quale si combatte, nella quale non staremo ad aspettane i colpi. Noi siamo fieri ed orgogliosi che le bombe del nemico, che le raffiche dei mitra assassini gridino che noi siamo i veri nemici del fascismo, che noi siamo i veri difensori della democrazia. (Applausi a sinistra). Noi siamo fieri e non crediamo di mancare di coraggio, ma non siamo disposti a rimanere inerti, noi non siamo disposti a lasciar fare e a lasciare che voi permettiate che altri facciano. Solo incapacità tecnica della polizia? Qualcuno qui una volta ci ha fatto l’elogio politico di questo vostro capo della polizia, di quel dottor Ferrari che passerà alla storia, se ci sarà una storia della polizia, per la sua inettitudine.

Ma noi, per quanto sia grande l’incapacità tecnica, non possiamo credere che sia sufficiente a giustificare questa situazione. È soltanto pervicacia, soltanto temerarietà di inafferrabili banditi? Non sono questi i motivi soltanto; è un clima preoccupante quello che permette questi delitti; è il clima, nel quale questi incapaci, questi inetti, questi pervicaci, questi temerari operano in un senso o nell’altro.

Sapete voi che cosa è successo in questi giorni a Milano, forse meno clamoroso di queste bombe? È stato celebrato uno stranissimo processo: un fascista, uno degli organizzatori di questo Movimento sociale italiano che è la raccolta dei repubblichini e dei criminali di ieri e di oggi, ha osato denunciare all’autorità giudiziaria il giornale del Partito comunista che si era permesso di dichiarare che il Movimento sociale italiano è una organizzazione fascista. Perché oggi arriviamo a questo; questa gente denuncia noi, ci vuol portare al tribunale e certo si augura di farci presto arrivare anche in carcere. Ebbene, l’avvocato di questo individuo, dopo la mia deposizione (ero teste per la prima volta, dopo essere stato imputato altre volte in altri tribunali), mi ha sollecitato: onorevole Pajetta, nella sua qualità di deputato all’Assemblea Costituente, vuol dirci quale sia stata la risposta dell’onorevole Scelba, Ministro dell’interno, a proposito del Movimento sociale italiano? Perché qui ho una documentazione preziosa. Capisce, onorevole Ministro dell’interno? Era la sua testimonianza che invocava il difensore dei fascisti; e quella invocazione era qualche cosa di più della ricerca di una testimonianza. In quel momento era… una vera e propria chiamata di correo. (Applausi a sinistra – Vivissimi rumori – Proteste al centro – Commenti).

Che cosa è avvenuto nel Milanese? (Interruzione del deputato Siles).

Noi abbiamo avuto la pazienza di sopportare, sia pure con manifestazioni d’impazienza, le parole dell’onorevole Scelba. Permettetemi di parlare, oppure interrompetemi quando sentite che dovete almeno fingere di protestare. Che cosa è avvenuto nel Milanese, e che cosa sta avvenendo? Abbiamo parlato altre volte e anche oggi, delle radici sociali del fascismo, che sono ancora vive. Avviene dunque che le forze della reazione agraria si vanno raccogliendo. Non avviene a caso. Questo o quell’attentato fanno parte di un piano. Si tratta di avvenimenti che si intessono in una trama più vasta. Gli agrari del Milanese, come quelli di tutta la Valle Padana, hanno dovuto cedere di fronte, non all’invocazione del Presidente del Consiglio, ma allo sciopero dei braccianti. Hanno dovuto cedere sui salari, sulle ore di lavoro; hanno creduto di poter cedere sulle questioni economiche, ed ora vogliono riprendersi sul terreno sociale e politico. Per che cosa si battono oggi gli agrari della Valle Padana? Per avere il diritto alle disdette indiscriminate. Vogliono far valere un principio che è sepolto nelle nostre campagne: che il padrone della terra sia anche il padrone degli uomini. No! È quello il diritto che non possiamo riconoscere loro. Lo disdette indiscriminate non saranno concesse.

La nostra organizzazione sindacale è abbastanza forte per impedirlo. E allora, ecco il delitto, ecco l’attentato. Allora, onorevole Ministro dell’interno, si spara anche sui più modesti lavoratori. Perché sono i modesti lavoratori che, l’uno vicino all’altro, quando scioperano fanno paura agli agrari. Allora si spara, perché si vuole che viva ancora un legge che non è antica nelle nostre campagne, quando si poteva uscire dalla cascina soltanto fino ad una certa ora, quando si poteva uscire solo con il permesso dei padroni. Ecco la causale di questi attentati.

Guardate qui un giornale degli agrari di Cremona. C’era una terra incolta, una cascina quasi abbandonata. I lavoratori hanno dissodato quella terra, occupato quella cascina. Sono usciti forse dalla legalità? Non è questo che vogliamo discutere adesso. Ma guardate con che titolo questi agrari si rivolgono alle autorità del vostro Governo, ai suoi rappresentanti, al Prefetto di Cremona: «Scusi, signor Prefetto, aspetta il morto?» Certo, non è il morto che potrebbero uccidere questi lavoratori armati solo delle loro vanghe, che dissodano quei campi, che vogliono darci il grano; ma il morto che possono procurarci, se il Prefetto facesse capire che può servire gli agrari di Cremona, che sono gli amici di Farinacci, di quell’uomo che se non ritorna sulla scena politica, se non lo potete far rieleggere nella Giunta di Roma per esempio. è perché c’è stato un certo intervento di certi nostri partigiani. (Applausi a sinistra).

Ecco, amici, quale è la situazione. Cosa si aspetta? Quale è il risultato di queste condizioni? L’attentato di Mediglia. Le spiegazioni piuttosto nebulose dell’onorevole Scelba ci hanno detto come i viaggi di notte nelle condizioni nelle quali si trova la provincia di Milano, si può aspettare una scarica di mitra. Purtroppo è vero. Ci può dire dell’organizzatore dei contadini di Abbiategrasso, che è stato non preso a caso? Forse anche quella sera, c’era della nebbia, ma venne identificato, bastonato e lascialo morente per la strada, fino a quando altri lavoratori l’hanno raccolto.

Ci può dire di quello che è avvenuto a Mediglia, quando i contadini hanno fatto il comizio di protesta, indetto, non, come si è scritto, dal sindaco di Mediglia, ma dalla organizzazione unitaria dei contadini, dalla Confederterra? Un comizio che si doveva svolgere in un’atmosfera, non dico serena, ma di ferma e dignitosa protesta. Volete la prova.? Aperte le botteghe, il circolo, la piazza affollala di donne e di bambini. Volete la prova? Questi lavoratori sono andati disarmati in quel cascinale per ricercare chi li aveva provocati. Quando questi ha sparato, essi hanno tolto il fucile ad un cacciatore per difendersi.

Questi erano gli operai autocarrati, onorevole Scelba.

Lei non ha mai visto dei giovani cattolici autocarrati? (Interruzioni al centro).

Io non credo che neppure con le circolari dell’onorevole Scelba sia un delitto andare sugli autocarri; sarebbe un delitto andarvi armati, o compiere un omicidio. Questo delitto è stato compiuto a Mediglia contro questi inermi. Chi abitava nella cascina? Lei, onorevole Scelba, non ne ha la biografia. La famiglia è conosciuta nella zona; uno di questa famiglia si chiamava il terrore di Mediglia – non è il morto – squadrista nel 1919 e nel 1922, organizzatore di azioni contro le cooperative, più vaste allora, perché si reagiva meno rapidamente; organizzatore di squadre di azione e di violenze contro le nostre organizzazioni; processato in regime fascista per violenza contro i suoi lavoratori, difeso dall’onorevole Farinacci, ed assolto; finanziatore del cosiddetto Movimento di resistenza patriottico per oltre 150 mila lire; infine, raccoglitore di crumiri durante l’ultimo sciopero; e giunto alla disdetta dei suoi contadini in questi ultimi giorni. Questa biografia le manca, onorevole Scelba, ma i contadini di Mediglia la conoscevano.

Da quella casa sono partiti proditoriamente i colpi che hanno ucciso il nostro partigiano e ferito i suoi compagni: ed ecco esplodere l’indignazione della folla e la protesta di tutta la città. La protesta della città di Milano: dieci minuti, un monito; dieci minuti di raccoglimento dei compagni di lavoro per il nostro caduto. E mentre questo avveniva, altri meditavano nuovi delitti; ed ecco la terza bomba contro la nostra Federazione. Ma era il seguito di tutta una serie di avvenimenti, che il Ministro non conosce. A Musocco il 4 novembre si raccolgono squadre fasciste per commemorare, esse, la vittoria dell’Italia; sono state disperse dalla popolazione e dai partigiani; forse qualcuno è tornato malconcio. Poi: apposizione sulla lapide che ricorda i nostri morti del ritratto di Mussolini; alla Montecatini diffusione di manifesti, con i quali si annunzia prossimo il ritorno del fascismo; ed il susseguirsi di lettere minatorie alla federazione, nelle quali si promettevano morti imminenti.

Ebbene, di fronte a questi avvenimenti, la popolazione di Milano ha risposto, ed ha risposto perché lei, onorevole Scelba, non ha fatto il suo dovere, perché lei non ha voluto che le forze dell’ordine del nostro Paese facessero davvero il loro dovere. Lei ci ha attribuito perfino un fantomatico tentativo di assalto alla Questura di Milano. Noi non pensiamo di assaltare la Questura di Milano, noi non denunciamo l’azione o l’inazione di quelli che non possono, di quelli a cui lei impedisce di fare. Non abbiamo niente di particolare contro il questore Agnesina. Ha arrestato personalmente Reale, Sereni, Amendola, ma non per ordine di Scelba, ma del suo predecessore, per ordine di Mussolini. (Commenti al centro). Ho detto che non li ha arrestati ancora per ordine di Scelba, ma di Mussolini, e noi, nonostante questo ricordo, non abbiamo mai fatto una campagna per screditare questo questore e la sua polizia. Noi abbiamo chiesto soltanto una cosa a lui e ai suoi agenti, e la chiediamo al Ministro: chiediamo che si intervenga coi fatti, perché non vorremmo sostituirci alle forze dell’ordine, ma vorremmo essere sicuri della nostra democrazia e di chi la deve difendere.

Ma voi non provvedete, ma provocate. Voi volete aggravare la situazione, voi volete che questi incidenti scoppino, che questi delitti si moltiplichino. Voi chiamate sul vostro capo la collera popolare.

Permettetemi un richiamo politico più generale. Anche le cose che non avvengono a Milano, hanno pure a Milano una ripercussione.

Attraverso la vostra stampa, voi incitate al delitto. Guardate, ieri, il Popolo, l’organo del partito di Governo, scriveva così: «Tragica spedizione punitiva per una sparatoria dopo un ballo. Chi ha commesso il delitto? Si tratterebbe dunque di una spedizione punitiva per un motivo futile». E poi: «Conseguenze del terrorismo nel Milanese: due morti o cinque feriti…». Per quello che riguarda la Sicilia: «Due fiduciari della Federterra uccisi in Sicilia. Escluso il movente politico dagli elementi finora raccolti». Questa è la vostra, stampa, la stampa che incoraggia i fascisti e che garantisce la loro impunità.

Il Tempo, un giornale vostro amico, al quale certo permettete ancora che la Confindustria passi un certo numero di milioni, il Tempo di ieri chiedeva l’arresto dei comunisti colpevoli di questi delitti, ed oggi parla di me come di chi vorrebbe trasformare in bivacco di squadre rosse quest’Aula del Parlamento, nella quale forse i fascisti sarebbero già venuti se gente, come noi comunisti e partigiani, non difendesse la democrazia. (Applausi a sinistra – Commenti al centro).

Voi aprite la strada al fascismo, accecati da pretti interessi di classe, dalla vostra incomprensione del pericolo che rappresenta per tutti in Italia l’anticomunismo.

Ma vogliate pensare un momento a quello che è avvenuto poche settimane fa. Lo scandalo di Roma, quando quella sera abbiamo gridato insieme contro i fascisti che si erano raccolti a Piazza Colonna. Ho visto allora ritornare qui un collega democratico cristiano dicendo: «Ho dato dei santissimi pugni a quei mascalzoni». Ma, caro collega, io non so dove sei, tu hai gridato qui con noi e con noi hai dato dei santissimi pugni; ebbene, quei delinquenti fascisti hanno eletto la loro rappresentanza e voi avete il sindaco, perché avete accettato i loro voti. (Interruzione del deputato Benedettini).

Onorevoli colleghi, il nostro collega Benedettini voleva forse che io ricordassi che il sindaco democristiano ha avuto anche un voto monarchico? (Commenti – Interruzioni).

BENEDETTINI. Noi ci siamo distinti per la nostra condotta!

PAJETTA GIAN CARLO. Voi avete legalizzato il neofascismo, onorevole Scelba, Noi vi chiediamo che voi sciogliate il Movimento sociale italiano. Siete voi che li avete arruolati tra le cosiddette forze dell’ordine. Voi, partito della Democrazia cristiana, per ricordare una locuzione cara al vostro Presidente del Consiglio: siete legati ad una stessa cordata con il fascismo. Pensate dove vi porta quella corda.

È stato un errore dei fascisti, dice l’onorevole Scelba, di prenderci per alleati. Io credo che sia stato un errore vostro di costituire questa alleanza. È un delitto il vostro. Voi avete tradito la democrazia italiana. (Applausi a sinistra – Rumori al centro).

E debbo ricordare anche l’esasperazione delle masse milanesi, per la situazione economica. Le grandi officine Breda: sono quelle officine a cui lei, onorevole De Gasperi, ha detto che aveva dato tanti miliardi; non soltanto non hanno intero il loro salario, ma nelle aziende non si acquistano materie prime, non si hanno piani, non si va avanti.

Oggi in quelle aziende c’è il sabotaggio economico, perché si vuole che la nostra industria vada in fallimento, perché sia giustificata la disoccupazione e la demoralizzazione delle masse.

DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Hanno ricevuto i salari per domani.

Io mi sono dato oggi pena proprio per questo, mentre voi facevate la dimostrazione. (Applausi al centro).

PAJETTA GIAN CARLO. Oh grande ventura la mia! Come mi saranno riconoscenti gli operai della Breda, se ogni volta che parlo per essi, lei ha da dichiarare di aver già provveduto per il giorno dopo! (Commenti).

Sono stati licenziati in massa tutti, nessuno escluso, gli operai delle Rubinetterie riunite, che dipendono dal gruppo Edison. L’onorevole De Gasperi ci dirà forse che domani sarà riaperto lo stabilimento? Alla Sant’Agostino, licenziamenti in massa; la Celere accorre a Monza, non contro i fascisti, ma per presidiare le Vetrerie, da cui vengono espulsi gli operai che chiedono di lavorare!

Ecco la situazione! Ecco quello che voi avete creato nel Paese! Onorevoli colleghi, vogliate scusare la scarsa originalità di questo mio intervento. Troppe cose vecchie, troppe cose ripetute, troppe cose che sono quelle dell’altra volta. Troppe cose che sono soltanto aggravate dall’insipienza, dall’incuria, dalla tolleranza complice di questo Governo.

Ma che cosa volete? Vi è stato già ricordato un altro Governo così: e allora quei fascisti che avevate covato, quei fascisti di cui vi eravate fatti un’arma o uno scudo, sono venuti a bussare alla porte del Viminale e hanno detto al Ministro dell’interno: lasciaci il posto.

Cosa aspettate? Che tornino? Che bussino? Credo che non busseranno, questa volta, i fascisti. Ma non busseranno, perché può levarsi più alta l’onda della collera popolare, può levarsi più alta l’onda della resistenza di quelli che hanno imparato, di quelli che oggi vi dicono: siete sorti come Governo dalla discordia, rapidamente siete scesi par la china funesta. Oggi siete il Governo dalla provocazione, e mi vi diciamo, i lavoratori italiani vi dicono: andatevene! (Applausi a sinistra – Rumori vivissimi al centro e a destra). Andatevene, se non sapete governare questa Repubblica! (Proteste al centro). Andatevene, se non sapete governare questa Repubblica, che vuole essere dei repubblicani…

Una voce a destra. Andatevene voi!

PAJETTA GIAN CARLO. Andatevene, se non sapete governare questa nostra Italia, che vuole essere degli italiani! (Vivi applausi all’estrema sinistra – Rumori, proteste al centro e a destra – Commenti).

PRESIDENTE. L’onorevole Coppa ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

COPPA. Onorevoli colleghi, dopo l’appello caloroso dell’onorevole Pajetta al Governo, il mio discorso o la mia risposta al Ministro sembrerà un po’ scialba. Ma gli è che io sono profondamente impressionato da un fenomeno che si verifica molto spesso in questa Assemblea, e cioè dalla carenza della logica.

Ci si pone un tema, e si va fino agli antipodi del tema posto.

Io vorrei che per un momento questa Assemblea, anziché essere diretta dal nostro illustre Presidente, fosse presieduta da uno specialista di malattie mentali…

PAJETTA GIULIANO. Avrebbe già mandato fuori lei!

COPPA. Sono convinto che, cominciando da me, i tre quarti dei colleghi sarebbero scartati alla visita medica, per non eccessiva coerenza tra le idee professate e le azioni.

Ma non voglio dare anch’io esempio di poca logica nel rispondere al Ministro, che ha avuto la bontà di prendere in considerazione la nostra interrogazione, la quale non è stata posta con spirito partigiano.

Tutt’altro; noi qui non chiediamo vendetta e non chiediamo neppure giustizia; chiediamo soltanto sicurezza, tranquillità e pace per il popolo italiano, perché noi siamo solidali con Pipitone, che è caduto in Sicilia e con Gervasio Federici, che è caduto a Roma; noi siamo solidali con Martucci, che è stato ucciso a Napoli, e con Gajotti, che è stato ucciso da Magenes a Medaglia, e con Magenes che è stato linciato dalla folla!

Però, a questo proposito, sento il bisogno di porre a me una domanda. Leggendo un giornale, trovo questo titolo: «Un altro lavoratore ucciso. L’agrario omicida giustiziato dal popolo». E, nel contesto, non si fa cenno della circostanza che l’uccisore era stato assediato nella sua casa, come risulta da altri giornali. Chi di essi dice la verità?

Sono dolente di dover ricordare un episodio capitato all’onorevole Lussu molti anni fa. In quell’epoca erano i fascisti, che assalivano per la terza volta la casa del valoroso combattente Lussu: per la terza volta. Che cosa doveva fare Lussu? Si difese; uccise due degli assalitori e fu assolto per legittima difesa. Orbene, il caso di Magenes è prospettato in una maniera stranissima nella stampa di alcuni partiti: non si dice che era inseguito.

L’onorevole Pajetta ha avuto la lealtà di dire che era nipote di uno dei fascisti della zona e, per conseguenza, si dovrebbe dire che meritava di essere perseguitato e ucciso.

Questo giovane è stato perseguitato dalla folla, è entrato nella sua cascina, è salito al primo, al secondo piano: con le spalle al muro, che cosa doveva fare? Si è difeso; ha ammazzato. E allora è con una certa sorpresa che noi leggiamo, nel testo di alcune delle interrogazioni presentate, la richiesta al Governo che vengano adottate misure eccezionali, immediate, contro il ripetersi degli assassini alimentati dai proprietari terrieri.

Ci si riferisce alla Sicilia, evidentemente.

Ma questa è gente che vede in una sola direzione: noi invece guardiamo in tutte le direzioni, perché, di fronte al sangue, far distinzioni di partito è mostruoso. La vita di ogni cittadino è sacra, come è sacra la libertà di professare qualsiasi credo politico. Noi non crediamo che la violenza possa giovare a chicchessia: probabilmente giova alle idee cui appartengono le vittime.

È perciò che noi, in nome di tutte le vittime, chiediamo che torni l’imperio della legge: non c’è bisogno di misure eccezionali. Ritorni in vigore e sia applicato con rigore il Codice penale, perché la legge è l’unica difesa dei deboli nei paesi civili. Noi esortiamo il Governo ad agire con estrema energia contro i criminali, a qualsiasi partito appartengano: lo faccia, finché è in tempo, e prima che nell’opinione pubblica si faccia strada e si consolidi la convinzione che di fronte all’eventuale carenza dei pubblici poteri, ogni cittadino debba provvedere alla propria tutela e difesa.

Noi pensiamo e speriamo – sinceramente speriamo, anche se questa speranza è pervasa da giustificato timore – che questo giorno non debba mai spuntare sull’orizzonte tutt’altro che sereno del nostro Paese. E perciò, per ora, mi dichiaro soddisfatto dalle dichiarazioni del Ministro dell’interno. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Meda ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MEDA. Onorevoli colleghi, io mi dichiaro sodisfatto delle dichiarazioni del Ministro dell’interno; mi dichiaro sodisfatto, perché ritengo che un senso di soddisfazione avrà da tali dichiarazioni anche il Paese (Commenti a sinistra), perché io non dubito che anche voi siate d’accordo che il popolo italiano ha una unica aspirazione: quella di ritornare alla normalità, alla serenità, al lavoro.

Noi siamo rimasti mortificati di quello che è avvenuto nella provincia di Milano; siamo rimasti mortificati ricordando come il 26 aprile 1945 la nostra provincia, nell’impeto della liberazione, avesse registrato il minor numero di morti, il minor numero di esecuzioni. E questo è un vanto nostro; questo è un onore di Milano. Ma, ripeto, oggi siamo preoccupati di quello che sta avvenendo; siamo preoccupati delle azioni di rappresaglia; siamo preoccupati dei linciaggi, che denotano uno spirito di cattiveria, di perversità, di inciviltà. Vogliamo sperare, però, che da parte dello Stato si agisca in modo tale da impedire che fatti del genere abbiano a ripetersi.

Egregi colleghi, l’ora è tarda ed io non voglio dilungarmi in altre considerazioni.

Speravo che da questa discussione, anche dai banchi dell’estrema sinistra si fosse levato un appello alla concordia, all’amore; ho sentito, invece, dall’onorevole Li Causi dichiarare che da oggi si iniziano le azioni di rappresaglia.

Onorevoli colleghi, io non posso dimenticare che si parlò di rappresaglia negli anni del fascismo; che la rappresaglia fu un’arma della dittatura mussoliniana. Ebbene, perché riadottare questi sistemi… (Interruzioni a sinistra).

ROVEDA. Il Governo allora non seppe difendere la libertà. (Rumori al centro).

MEDA. …questi sistemi che non sono degni della democrazia? (Commenti a sinistra – Interruzione del deputato Mazza).

Voi siete abituati a pronunciare la parola libertà, senza conoscerne il vero suo significato. È il principio del diritto di libertà che bisogna rispettare. (Interruzioni a sinistra). Il popolo italiano vuole tale diritto, esige tale libertà.

FARINI. Non vuole il fascismo!

PRESIDENTE. Onorevole Farini, non interrompa.

MEDA. Vuole la vera libertà, cioè la sicurezza di poter professare qualsiasi fede politica. E qualsiasi fede politica, sempre che sia onesta nelle intenzioni e retta nei principî, ha diritto di essere rispettata. (Interruzioni, rumori a sinistra).

ROVEDA. Anche nell’intento di gettare bombe!

MEDA. È inutile che voi gridiate! Io non riuscirò mai a convincermi che in regime di democrazia e di libertà possano esservi diverse categorie di cittadini di fronte alla legge. Dinanzi alla legge tutti siamo uguali.

Una voce a sinistra. Anche i fascisti?

MEDA. Sì! Anche il fascista di ieri, se il fascista è stato giudicato, se il fascista è stato assolto, se il fascista si comporta da buon cittadino italiano! (Applausi al centro).

Onorevoli colleghi, noi sappiamo che vi è un movimento neofascista. L’amico Pajetta ha voluto ricordarci le lettere anonime di minaccia. Ne riceviamo tutti, noi democristiani; ne riceve perfino l’onorevole Gasparotto, che non è sospetto dal lato politico! Che cosa ne facciamo? Noi le cestiniamo, voi invece le conservate in archivio. Ma le missive minatorie non ci preoccupano. Però state sicuri che, se domani vi fosse necessità di difendere la libertà del nostro Paese, le istituzioni democratiche, la Repubblica, noi saremmo certamente in prima linea, come lo siamo stati nel periodo della cospirazione! (Applausi al centro).

Una voce all’estrema sinistra. Che cosa avete fatto?

MEDA. Amici della estrema sinistra, non abbiamo niente da imparare da voi. Però riteniamo di potervi dire che noi più di voi amiamo l’Italia! (Applausi al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Mariani Francesco ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MARIANI FRANCESCO. Onorevoli colleghi, il Ministro Scelba ha dato l’impressione che, più che il Ministro, abbia parlato in lui l’uomo di parte, perché nella sua esposizione ha tenuto a mettere in risalto tutto ciò che può nuocere ai partiti di sinistra. Ha lamentato l’eccessiva intolleranza politica. Ma la intolleranza va imputata non ad una sola parte, ma a tutte.

Episodi di intolleranza non indifferenti, imputabili anche alla Democrazia cristiana, vi sono stati e vi sono tuttora. Basti ricordare la campagna per le elezioni amministrative.

In molti paesi della provincia di Milano non siamo riusciti a parlare, perché le donne aizzate dal parroco e da elementi della Democrazia cristiana, hanno rimesso in aure sistemi e frastuoni che ci ricordano i tempi di 40 anni or sono.

Il Ministro ha dichiarato di essere in grado di assicurare l’ordine al Paese. Dovremmo quindi in un certo qual modo compiacerci, ma noi diciamo: Ministro Scelba, bisogna intenderci un po’: quale ordine, lei intima assicurare? Potrà obiettare che di ordine ve ne è uno solo. Anche Mussolini (il confronto può essere irriverente, ma è lontano da me questo pensiero) assicurava l’ordine al Paese. Il Governo – dichiara Scelba – è deciso ad applicare le leggi. Anche noi da tanto tempo reclamiamo che il Governo applichi le leggi; ma abbiamo inteso ed intendiamo che si applichino le leggi in difesa della Repubblica; le leggi che non consentono al fascismo quella propaganda perfida, avvelenatrice degli animi, che si compie in Italia da molto tempo.

Non so se certe riviste e certi giornali li leggiamo soltanto noi. In essi vi è l’esaltazione del duce del fascismo, del fascismo, che riaffiora, e si potenzia quotidianamente. Una rivista recentemente stampava un editoriale di questo genere: il fascismo avrebbe salvato l’Italia, se non ci fossero stati due tradimenti: i partigiani, gli americani e gli inglesi, che hanno invaso il nostro Paese. Ma è possibile che in omaggio alla libertà sia concessa una propaganda di questo genere? Questa è pornografia politica, morale, che deturpa il costume e getta nel nostro popolo un senso di perplessità. Assistiamo oggi a un fenomeno che per noi non è strano. Si dice: fallito il tentativo democratico, ci si rivolge all’azione diretta. Ma è democrazia quella che assassina organizzatori, che attenta alle nostre libere organizzazioni dei lavoratori? Chi ha compromesso e compromette la democrazia? Quando noi rifacciamo la storia recente, dobbiamo forse pentirci dell’amnistia concessa ai fascisti. Questo tema offre un punto interrogativo angoscioso per tutta la nostra folla, perché quando andiamo negli stabilimenti ci sentiamo domandare: ma perché, ma perché? E questa domanda ha una risposta, e la risposta è questa: che i fascisti beneficiati hanno tradito l’amnistia! Invece di ritornare fra noi, fratelli fra i fratelli, resi consapevoli del male che hanno compiuto e della generosità della Repubblica democratica, invece di ritornare fra noi, sì che il popolo italiano potesse dimenticare e stendere un velo di oblio su tutti gli errori del passato, si sono inseriti nuovamente nella vita pubblica con l’aureola dei trionfatori e delle vittime e col proposito di rinnovare nel nostro Paese i tristi sistemi di un tempo.

Il delitto e la reazione imperversano dalla Sicilia a Milano, questa grande e industriosa città. Milano ha subito molti attentati alla Camera del lavoro. Nel primo si è uccisa una donna; nel secondo si è effettuato un tentativo di assalto a colpi di mitragliatrice. Una bomba a mano nella sede comunista di Porta Genova ha dilaniato il corpo di un bimbo e l’ha proiettato fuori della finestra a dieci metri di distanza. Voi dovevate assistere il corteo di popolo che passava imprecando davanti lo strazio di questo piccolo corpo. La grande città di Milano, con tutti i suoi partiti politici ed organizzazioni sindacali, ha seguito il corteo funebre ed ha pianto su questa vittima, senza un pensiero di ritorsione e di vendetta. Nella pacifica Milano, dove non si reagisce, dove non si applica la legge del taglione, dove si spera nella democrazia, organizzatori socialisti e comunisti andavamo tra le masse lavoratrici e negli stabilimenti a dire a tutti gli operai: «State tranquilli, state fermi, non accettate le provocazioni. Non date pretesto alla reazione, che desidera provocare il fattaccio». Ma gli operai si domandano: «Fino a quando?». Non siamo stati in grado, e non lo siamo neppure oggi: successivamente abbiamo avuto ancora due attentati alla sede della Federazione socialista. Poi una bomba nella sede della Sezione comunista; e, più grave ancora, onorevole Scelba, l’attentato alla Casa del popolo di Lambrate; bomba che per caso non ha fatto centinaia di vittime, perché la riunione non è più avvenuta nel locale dove è esplosa la bomba. Eppure, questa gente consapevole della strage che avrebbe potuto compiere, era appostata con il mitra e sparavano contro la Casa del popolo, nell’intento di accoppare i fuggiaschi, coloro che eventualmente fossero scampati all’assassinio. Un fremito di ribellione è passato tra la massa lavoratrice. Pur tuttavia, non abbiamo avuto gesti di rappresaglia. Non vi siete mai domandati il perché? Perché noi ci siamo fatti parte attiva nel raccomandare la calma con la nostra parola e con la nostra autorità.

Ma le masse sono stanche di essere soggette alla violenza, ed hanno ragione.

Ancora: dobbiamo deplorare i recenti luttuosi fatti nello sciopero dei lavoratori della terra, quel meraviglioso sciopero, pacifico, tranquillo dei nostri contadini della Valle Padana, appoggiato da tutte le correnti sindacali; si sono verificate violenze, ferimenti e minacce a mano armata da parte degli agrari contro i contadini.

Tutte queste violenze da chi sono provocate? Chi sta dietro i sicari. Chi sono i mandanti?

Io non sto a ripeterlo; i colleghi che hanno parlato prima di me l’hanno detto chiaro. Evidentemente, nella passione politica, si inserisce il termine della lotta di classe. Sono gli agricoltori; sono coloro che hanno da difendere tristi privilegi e molte volte il maltolto, che non comprendono il dovere del sacrificio verso i propri fratelli, perché fratelli debbono essere considerati coloro che lavorano.

Il Governo, per bocca dell’onorevole Scelba, dichiara che intende applicare la legge. Ebbene, anche noi vogliamo che la legge sia applicata e vogliamo la legalità.

Qualche frase dura può sfuggire nell’impeto, da parte di chi ha l’animo amareggiato per questa situazione. Ma noi dobbiamo compiere tutti uno sforzo per superare questa tragica situazione. Ci siamo resi conto ieri e ci rendiamo conto oggi, che la resurrezione del nostro Paese è faticosa. E ci siamo fatti forti, ed abbiamo assunto l’ingrato compito di convincere migliaia e migliaia di operai ad accettare i licenziamenti per alleggerire le industrie. Abbiamo assunto questo compito con angoscia. Quando uscivamo da quelle fabbriche, ci guardavamo in faccia, noi organizzatori, con le lacrime agli occhi. L’abbiamo compiuto questo duro dovere, e siamo alla vigilia di doverne compiere uno più tremendo.

Ma le masse lavoratrici reclamano che il sacrificio deve pur essere sopportato anche da tutte le altre classi sociali.

Se nuove masse di operai saranno messe in mezzo alla strada, vogliamo vederne il perché; oggi, mentre folle di operai sono percosse dalla disoccupazione, altre mandate a casa senza paga, per quindici giorni o un mese, onorevoli colleghi, non vi dice proprio niente il triste episodio di quell’operaio che va alla fabbrica, mormorando: «Ho dei figli da mantenere, se vado a casa senza paga, mi tolgo la vita». E se l’è tolta davvero! L’episodio ha un grande significato di dolore e di esasperazione, ma gli operai affermano a gran voce: «Noi non vogliamo fare la stessa fine». In questo stato di malessere, in questo disagio economico delle classi lavoratrici, si inserisce quotidianamente la provocazione.

Noi sappiamo assai bene che le classi operaie non desiderano che lavorare, ma vogliono lavorare in pace, nella libertà democratica che si sono conquistata. La insurrezione morale di Milano rappresenta una manifestazione di una decisa volontà ed un monito. Le classi lavoratrici, dall’impiegato all’ultimo manovale, avvertono una perfetta analogia tra la situazione odierna e quella prefascista, anche nella condotta del Governo.

Comprendono che è lo stesso fenomeno che si ripete. Si è incominciato allora con le bastonature, poi con la bomba a mano, poi con la distruzione delle sedi dei lavoratori e dei partiti. Oggi il Governo non può o non vuole impedire che il fascismo ripigli ancora piede. In siffatta situazione il nostro popolo si domanda se il Governo è inoperante nello schiantare il fascismo, quel fascismo che è stata la causa della rovina del nostro Paese; non intende il nostro popolo essere preso alla sprovvista, e reagisce. Reazioni che si sarebbero potute evitare, se il Governo si fosse messo sulla strada di eliminare le cause che determinano la reazione stessa.

Noi vogliamo la legalità e la tutela dell’ordine pubblico, ma non nel senso di incoraggiare la illegalità ed i delitti contro le istituzioni democratiche, applicando faziosamente la legge solo per reprimere le legittime reazioni delle masse antifasciste. Il periodo della lotta di liberazione ci è di insegnamento, ed il nostro posto sarà sempre a fianco delle masse che intendono difendere il pane, le libertà democratiche, la Repubblica. Se non si vuole che la insurrezione popolare bandisca il fascismo, deve provvedere il Governo. Debellare le organizzazioni fasciste comunque camuffate è la pregiudiziale per la pacificazione nel nostro Paese.

Solo in tal modo si creeranno le premesse, perché le lotte politiche e sindacali si svolgano in quell’atmosfera di reciproca tolleranza e comprensione, quale si addice a popoli civili. Ma sia ben presente a tutti che i lavoratori d’Italia sono ben decisi, ove non provveda la legge e l’azione di Governo, a difendere ad ogni costo quelle libertà che sono loro costate tanti sacrifici. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Cairo ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CAIRO. Poche parole, onorevoli colleghi, che vogliono testimoniare lo sforzo che si vuol fare da questa parte per portare una parola di serenità, il più possibile obiettiva, in questo dibattito, che è increscioso per l’animo di tutti gli italiani.

Pare che la situazione interna del Paese si faccia preoccupante, pare che questa nostra Repubblica, che abbiamo creato, per cui lavoriamo, e che amiamo tutti, si sia messa su una strada, in fondo alla quale non sappiamo cosa troveremo, o sappiamo troppo bene cosa troveremo. Da tutto questo balza una considerazione, che trascende il fatto parlamentare della risposta dell’onorevole sodisfatto o insoddisfatto, un monito che dovrebbe farci riflettere, e che è questo: l’Italia è uscita dal travaglio e dalla sconfitta, da un regime infame, che l’aveva travagliata da anni, senza essersi data uno stabile, saldo reggimento democratico. Ci sono delle responsabilità, indubbiamente. La politica in democrazia è soprattutto responsabilità, responsabilità che noi sentiamo di condividere anche sebbene in minima parte, responsabilità che grava soprattutto, mi sia consentito di dirlo, sul Governo. Dico questo senza avere l’aria di fare della opposizione demagogica, fuori luogo.

Il Governo deve compiere tutto il suo dovere, sempre, ma maggiormente in momenti come questo, in cui la storia del Paese diventa più intensa; bisogna far sentire a tutti che esiste una legge e che esistono delle forze sufficienti per imporla.

Questo è il dovere del Governo, e queste forze non debbono solamente rivolgersi su quelli che combattono ora la lotta politica, ma anche a quelle ombre del passato che non sono interamente fugate. Perché il fascismo continua a sussistere là dove è meno perseguibile: negli animi, nella forma mentis.

Badate, io sono il primo firmatario della interrogazione presentata dal mio Gruppo, non perché io sia il più degno fra i colleghi componenti questo Gruppo, ma perché io appartengo a quella terra lodigiana, che dal delitto e dal dolore è stata funestata proprio in questi giorni. Avete ragione, colleghi e compagni, in quella terra è nato il fascismo, ed il fascismo continua ad esistervi. Là c’è quello schiavismo agrario, e c’è il fascismo che non disarma, perché c’è il feudalismo padronale.

Ebbene, di questo bisogna ricordarsi, perché di là è scaturita quella scintilla che poi ha dato l’incendio fatale a tutto il Paese ed è lì che – voi signori del Governo – dovete puntare la vostra sorveglianza; perché da quei ceti, che io non mi perito di definire socialmente inferiori, è venuto il pericolo del fascismo.

Io lo so per esperienza, perché la mia modestissima vita politica, che ho percorsa durante venti anni e più, si è iniziata quando il fascismo faceva le sue prime prove sanguinose nella pianura padana. So che in questi giorni, ingiustificato o meno – ma io dico giustificato – c’è il terrore fra quei contadini.

Badate, noi infieriamo talvolta contro quelli che sono i movimenti inconsulti degli operai e dei contadini; verso di loro noi dobbiamo indulgere, perché noi stessi sentiamo talvolta, di fronte alla sola parola «fascismo», una tale rivolta interiore, che ci fa trascendere quelli che sono anche i limiti imposti dalla civile convivenza.

È l’anima di quei contadini, quella che voi del Governo dovete ascoltare, perché se c’è un pericolo oggi, è là, è in mezzo a quelle caste agrarie che furono le generatrici del peggiore, del primo, del più velenoso fascismo.

Detto questo però, è anche onesto fare un po’ di introspezione. E mi rivolgo a tutti i colleghi dell’Assemblea, senza malanimo, senza faziosità: abbiamo noi rispettato le libertà che abbiamo create? Lasciatelo dire ad un iscritto a un Partito che ha sofferto e soffre della violenza contro il più elementare dei diritti, il diritto alla parola, la quale non è che il mezzo attraverso cui si estrinseca la libertà di pensiero, fondamentale libertà della vita umana.

Ora, abbiamo rispettato tutti questa libertà? Noi di questo Gruppo siamo un po’ parti lese in questo naufragare della libertà, e quindi noi non possiamo non rilevarlo per primi. Il socialismo, consentitemi l’inciso, è rispetto delle libertà, è negazione della violenza – non per espressione verbale solamente, ma per programma, per tradizione, per volontà effettiva e leale – e noi socialisti possiamo dire questo, perché siamo sempre stati contro la violenza, e noi possiamo deplorare e deploriamo oggi la violenza politica e non vogliamo più che essa rinasca in Italia.

Però, se in questo dibattito esiste quell’ombra fascista che non riusciamo a fugare, ripeto, esiste anche qualcos’altro che dovrebbe far meditare il Governo, al quale rivolgo queste mie brevi parole.

Aveva ragione Mariani: c’è in Alta Italia il disagio economico. Aveva ragione: ci sono operai, i quali non sanno se potranno lavorare domani, i quali numerano i pochi soldi della mercede e non sanno se ne avranno fino a domani. C’è, effettivamente, qualche cosa che manca, una falla economica, signori del Governo.

Noi, pochi uomini di questi banchi, abbiamo denunziato ciò quando ci opponevamo, col nostro voto, a questo Governo, quando dicevamo: ci vuole un piano economico; non basta badare alla finanza dello Stato; c’è una contabilità sociale; c’è dell’umanità anche nelle cifre; fate un piano per soccorrere queste folle, che rappresentano il nerbo insostituibile della Nazione.

È una lacuna che non si vede, ma è chiara la lacuna economica, per la quale più derelitte ancora del modo con cui le ha fatte la natura si trovano le classi lavoratrici in questo momento.

Non faccio sermoni; non sono da tanto. Però sento il dovere, come rappresentante delle classi lavoratrici, di dirvi: non guardate solamente al problema di Governo come un problema di polizia, ma consideratelo anche come un problema economico e sociale. Voi lo avrete, allora, risolto e non piangerete tutti i morti che noi piangiamo e che, per noi socialisti, sono tutti egualmente degni di compianto.

Fugate le ombre del fascismo, fate un’economia sociale, e vedrete risorgere la Repubblica, perché questa Repubblica deve insegnare soprattutto a tutti gli italiani che le libertà civili sono patrimonio di tutti gli italiani e che tutti gli italiani debbono difenderle contro ogni violenza, da qualunque parte provenga, perché ogni violenza è matricida, perché ogni violenza è liberticida. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Mastrojanni ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MASTROJANNI. Onorevoli colleghi! Ringrazio innanzi tutto il Ministro dell’interno per il modo esauriente con il quale ha informalo questa Assemblea, non solo intorno alle proporzioni ed ai limiti dei delitti che si sono susseguiti, ma anche sulle causalità che hanno determinato i delitti stessi. Da ogni parte il dibattito appassionato, vivace e qualche volta intemperante, più che esprimere esecrazione per i crimini consumati, da qualunque parte siano essi scaturiti, si è addentrato a specificarne le causali, quasi per giustificare i fatti come conseguenza logica di precedenti illeciti verificatisi.

Questa Assemblea avrebbe invece dovuto sentire il dovere, piuttosto che analizzare le causali dei delitti, di chiedere lo studio e l’esecuzione di provvedimenti, che valgano ad eliminare le cause ed a prevenire eventuali altre aggressioni alla libertà individuale ed alle cose.

Le causali dei delitti, tutti sappiamo quali siano, ma è strano che, mentre alcuni attribuiscono queste causali ad una presunta alleanza contingente fra il Governo ed i fascisti, altri le attribuiscono a reazioni contro precedenti violenze. È strano altresì che tali manifestazioni di delinquenza collettiva si rappresentino oggi come la conseguenza logica di altre azioni delittuose commesse contro alcuno; mentre altra volta invece si identificavano con l’esasperazione di situazioni economiche e sociali, alle quali il Governo non era riuscito direttamente e prontamente a provvedere.

Ma, onorevoli colleghi, è tempo che noi si dia bando agli eufemismi e che ci si svesta di ogni ipocrisia. A tal uopo ricordo che, durante i lavori della Commissione per la Costituzione, le sinistre affermarono il concetto, secondo cui esse intendevano che ai partiti politici si riconoscesse la forma ed autorità costituzionale. Mi opposi, perché in tal modo avremmo svuotato di ogni contenuto questa Assemblea Costituente, ma non posso dimenticare questa posizione mentale assunta dalle sinistre.

Mi domando ora se sia lecito ai rappresentanti di tali partiti di lasciar perpetuare queste manifestazioni, che turbano la coscienza collettiva ed ingenerano la convinzione che la legge e il diritto possano essere vulnerati attraverso la forma violenta di manifestazioni di terrorismo collettivo, e soggiogando la forza del diritto o rendendo vana la espressione della legge.

Mentre il nostro partito, Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque, inizialmente veniva identificato come l’espressione di un fascismo ormai sepolto; mentre successivamente questa singolare ed artificiosa insinuazione veniva a dileguarsi e in altri movimenti si identificava il neo-fascismo, e mentre ancora alcuni ci accusavano di filo-comunismo, oggi si distruggono a Milano, a Genova, a Venezia, a La Spezia e in tante altre località, per spirito di brutale malvagità, per vandalismo inconsulto e inqualificabile, le sedi di un movimento liberale democratico, che ha portato nella vita nazionale il senso dell’equilibrio, della saggezza, della moderazione.

Una voce al centro. Non esageriamo!

MASTROJANNI. Io non esagero, onorevole collega, e la prego di credere che l’esagerazione è solamente nell’inopportunità della sua espressione.

Il Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque, che in questo momento ho l’onore di rappresentare, è l’unico che abbia dimostrato, con coraggio fattivo e con fertili risultati, l’individuazione logica e obiettiva dei fenomeni sociali e politici che ci travagliano; è l’unico che abbia avuto il coraggio di difendere i perseguitati quando ingiusta era la persecuzione; è il solo che oggi dica apertamente che la violenza, da qualunque parte essa provenga, non può essere che identificata come delittuosa. E non possiamo che identificare come delinquenti, tutti coloro che in qualsiasi modo giustificano queste manifestazioni brute della feccia umana, la quale, se non educata, deve almeno essere messa in condizioni di non nuocere né oggi né domani.

Onorevole Ministro dell’interno, la mia interrogazione è chiara, precisa e categorica. Due domande ho rivolto: la prima, per conoscere le causali che hanno impedito alle forze armate di polizia di evitare le delittuose manifestazioni collettive, che si sono esasperate nei centri più popolosi del territorio dello Stato. A questo proposito ricordo il vostro stesso accenno, onorevole Ministro, quello relativo, cioè, al tentativo, inutilmente smentito dall’onorevole Pajetta, di assalire la Questura di Milano. Il fatto è così grave e preoccupante…

PAJETTA GIAN CARLO. Grave, ma non è vero!

MASTRO JANNI. Così grave, per cui io mi domando se domani, questi intendimenti, oggi larvatamente adombrati e non riusciti, fossero con più accurata preparazione messi in essere e dovessero pervenire a conclusioni decisive, io mi domando se, assalita la Questura di Milano…

PAJETTA GIAN CARLO. È una fantasia; chi ci ha mai pensato?

MASTROJANNI. …noi potremmo più sperare nella possibilità d’una repressione delle altre più gravi manifestazioni generali e decisive, le cui conclusioni nefaste non vi è alcuno di noi che non veda a quali obiettivi tendano e a quali conseguenze portino!

Ed è pertanto, onorevole Ministro, che nella seconda parte della mia interrogazione vi chiedevo se non intendete, d’accordo con il Governo e, ove occorra, col consenso e il suffragio dell’approvazione della maggioranza di quest’Assemblea ancora saggia e onesta, se non intendete di predisporre un sistema di leggi preventive e repressive per cui possa questo popolo, che ha il diritto di vivere tranquillamente, dopo il travaglio e il calvario che l’ha afflitto per così lunghi anni, di contare su una sicura tutela e difesa, che consenta a tutti e a ciascuno di vivere finalmente sereni senza essere turbati dalla prepotenza di turbe facinorose, le quali, comunque mascherino le loro finalità, nascondono paurosi ed ingiustificabili obiettivi.

Le leggi vi impongono, onorevole Ministro degli interni, di non aggrapparvi a opportunità politiche o di Governo, ma vi impongono di garantire la tranquillità pubblica! Voi non potete limitarvi a fare sopportare alle forze armate di polizia tutti gli oltraggi, dando alle stesse forze la sensazione della loro impotenza. Le forze di polizia devono essere addestrate, armate e decise a mantenere ad ogni costo l’ordine pubblico!

Ogni cittadino ha il diritto di pretendere da un Governo liberale democratico l’adempimento severo, scrupoloso, deciso, fermo e categorico di questo dovere. Nessuno deve turbare più oltre la pubblica tranquillità o aggredire la pubblica incolumità.

I partiti hanno ormai raggiunto la forza, l’efficienza, la potenza per poter esprimere liberamente, con tutto il prestigio e l’autorità che loro deriva, quelle che sono le lacune, i bisogni, i desideri delle categorie sociali che essi rappresentano. E poiché tutte le categorie sociali sono qui largamente e autorevolmente rappresentate, è qui che – nell’onesto, civile e logico giuoco delle discussioni e delle maggioranze – può essere attuato quel sistema di previdenze e provvidenze collettive, che una volta avuto il crisma della legge, devono essere da tutti osservate e fatte osservare.

Se questo principio – che personifica la civiltà e rappresenta il progresso dei popoli – non è un’utopia, ma è un dogma, non vi è ragione alcuna che possa giustificare le intemperanze di alcuno, né vi sono causali, per quanto profondamente ricercate e per quanto abilmente esasperate, che possano comunque attenuare le responsabilità o trasformare la loro identificazione nettamente e precisamente delinquenziale, e suscettibile quindi di sanzione penale!

Onorevole Ministro, io non desidero approfittare di questa occasione per dire che l’obiettivo principale preso di mira in tutta Italia è stato il Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque. Non intendo farne l’elogio o dimostrare l’insulto e l’oltraggio ed il danno materiale, ma intendo solo affermare che noi, fermi e decisi, forti di essere nel vero, forti nella nostra coscienza serena e tranquilla, noi non dubitiamo che il nostro verbo di verità e di giustizia debba trionfare fra la folla, che rappresenta e personifica l’uomo qualunque. Onorevole Ministro, vi prego di considerare con la somma della responsabilità che il caso richiede, le nostre precise richieste. Fate che le forze armate di polizia nello Stato italiano siano in ogni momento efficienti, agguerrite nello spirito e nel braccio; fate che ogni cittadino d’Italia possa tranquillamente perseverare nella via del bene, dell’ordine, del lavoro e della comprensione; fate che possa essere garantito e che non vi sia possibilità alcuna per il prevalere ed il prepotere di qualsiasi fazione e che qualsiasi tentativo, da qualsiasi parte prevenga, per minacciare o per turbare l’ordine pubblico, venga severamente represso e definitivamente stroncato, ed in modo che, coloro i quali ancora credono che, preparandosi nell’ombra e rafforzandosi nello spirito perverso, possano attendere il momento opportuno per afferrare l’esercizio del potere, troveranno un baluardo infrangibile contro cui contrasterà e si frantumerà qualsiasi losca iniziativa. Queste le conclusioni che ho l’onore di esprimervi a nome del Fronte liberale democratico dell’Uomo Qualunque. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. L’onorevole Selvaggi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SELVAGGI. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Ho preso atto delle dichiarazioni dell’onorevole Scelba e, poiché i colleghi che mi hanno preceduto hanno già abbondantemente parlato degli incidenti accaduti in Alta Italia, farò alcune brevi considerazioni. Vorrei ricordare che la libertà di stampa è uno dei cardini della democrazia, perché è l’estrinsecazione della libertà di pensiero, e vorrei ricordare che, stroncando la libertà di stampa, anche attraverso mezzi tecnici, attraverso i quali la libertà di stampa si esplica, si attenta alla democrazia e si apre cioè la porta alla dittatura. Ora, se il compito del Governo è quello di fare rispettare le leggi da parte di tutti, il compito del Governo è anche quello di tutelare e garantire contro chiunque le libertà democratiche e i mezzi della loro esplicazione. Molte volte è stato già affermato e dichiarato in quest’Aula da parte del Governo, e proprio da parte dell’onorevole Scelba, che le libertà democratiche sarebbero state garantite e difese e le libertà degli individui sarebbero state tutelate. Eppure siamo arrivati a episodi che sono oggetto della discussione odierna. Ora, io mi auguro e confido che davvero e finalmente lo Stato sappia difendere con le forze dell’ordine, che sono a disposizione dello Stato e in maniera decisiva ed energica, le libertà di tutti, che sono le libertà di ognuno. Si ricordino poi, coloro che credono che con la violenza possano stroncare la libertà, che le idee hanno una loro forza che non si fa violentare da nessuna violenza ed intimidazione. È solo in questo modo, che il Governo potrà essere coerente alle dichiarazioni dell’onorevole Scelba. (Applausi a destra).

PRESIDENTE. Per i firmatari dell’interrogazione dell’onorevole Patrissi, risponde lei, onorevole Puoti?

PUOTI. Si, onorevole Presidente. La nostra interrogazione è provocata sia dalla precedente del 4 novembre, per la quale non avemmo tempestivamente risposta, sia dai recenti avvenimenti riguardanti direttamente la nostra sede nazionalista in Genova, sia da tutti gli avvenimenti di cui si è occupata questa sera l’Assemblea, riguardanti le città dell’Alta Italia, avvenimenti quanto mai dolorosi, perché dovuti alla violenza di uomini di parte aventi lo scopo solamente di creare il disordine in Italia e uno stato d’animo insopportabile per tutti coloro che vogliono l’ordine e vogliono lavorare tranquillamente. (Interruzioni a sinistra).

Vogliamo difendere i lavoratori onesti.

PAJETTA GIAN CARLO. Puoti è un fascista.

PUOTI. Onorevole Pajetta, la prego, questo è un motivo troppo sfruttato, cerchi di cambiare.

Onorevole Scelba, la preghiamo, a nome di tutti coloro che la pensano onestamente da italiani (Commenti a sinistra), da liberi italiani non aggiogati ad alcuno Stato straniero (Interruzioni all’estrema sinistra) di proporre a questa Assemblea una legge, che metta fine per sempre alla violenza politica. (Interruzioni a sinistra). Le forze del disordine mettono il Paese in uno stato di panico e di terrore, credo che basti; credo che troppo sangue sia stato versato. (Interruzioni all’estrema sinistra).

PAJETTA GIAN CARLO. Per colpa vostra.

PUOTI. Consentitemi democraticamente di continuare a parlare. (Interruzioni a sinistra). Il sangue versato è nostro e per colpa vostra. (Rumori all’estrema sinistra).

PAJETTA GIAN CARLO. Le fa comodo parlare di democrazia.

PUOTI. Onorevole Pajetta, la prego ancora una volta di lasciarmi parlare. Ne ho il diritto.

Dicevo, onorevole Scelba, che è necessario che per tutti i partiti politici vi sia una remora, una legge, che vieti le violenze morali e materiali. Poiché stasera si è parlato molto di fascismo e di fascisti, ne voglio parlare anch’io. (Interruzione a sinistra).

I metodi fascisti sono tornati nelle piazze: al manganello si è sostituito il mitra; ma il metodo è lo stesso: è la violenza.

Se vogliamo che in Italia vi sia vera democrazia, anzitutto dobbiamo abolire e reprimere con tutti i mezzi a disposizione del Governo questa violenza nelle piazze.

Proprio stamani sono avvenuti fatti di violenza a Napoli, città tranquilla, dove non vi erano state le manifestazioni dell’Alta Italia.

I lavoratori sono stati mobilitati coi camions e portati in corteo, per una. manifestazione di parte.

Onorevole Ministro, bisogna evitare queste speculazioni a carattere collettivo; bisogna che un partito faccia le sue manifestazioni soltanto con i propri iscritti, senza distrarre i lavoratori dal lavoro. (Interruzione del deputato Pajetta Giuliano).

Bisogna reprimere queste iniziative, che turbano la vita della Nazione.

I lavoratori stamane a Napoli sono stati distratti dal lavoro per partecipare ad una manifestazione comunista. (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Puoti, la sua interrogazione è precedente ai fatti di Napoli.

PUOTI. Ma i fatti sono avvenuti.

PRESIDENTE. Purtroppo sono avvenuti, ma un altro collega ha presentato una interrogazione specifica. Trascuri di parlare dei fatti di Napoli.

PUOTI. Trascurerò di parlare delle manifestazioni coatte di Napoli, però non posso non parlare ed insistere sullo stato d’animo che si sta creando in Italia in questo momento, in cui dovremmo tutti quanti essere uniti, tutti gli italiani, parlo di quelli ai quali preme che il nostro Paese risorga di nuovo. (Interruzioni a sinistra).

Questo è un linguaggio che non viene compreso da voi, ne sono convinto; ma io ho il dovere di fare questa affermazione, perché parlo a nome di coloro, i quali in questo momento vedono turbato il loro lavoro e non ne vogliono più sapere di violenza. (Vivi rumori a sinistra).

Concludo con le parole che l’onorevole Pajetta rivolgeva al Governo; io le rivolgo a voi: (Accenna all’estrema sinistra): Andatevene! Andatevene! Andatevene! (Vivi rumori a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Gasparotto ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

GASPAROTTO. Non intendo alimentare di altre fiamme questa già ardente discussione. Preferisco far mie le ultime accorate parole pronunciate dall’onorevole Mariani, del quale posso testimoniare l’opera di pacificazione e di disciplina che sta svolgendo tra le masse operaie della nostra città.

Indubbiamente, vi è una constatazione da fare: vi è, cioè, un risorgente fascismo che non può non preoccupare. Da che dipende? Forse da noi stessi, forse dall’amnistia che abbiamo accordato per sensi di alta generosità e che da troppa gente viene giudicata come una prova di debolezza. Occorre che il Governo faccia comprendere a costoro che l’amnistia, invece, è stata ed è una dimostrazione di forza, inquantoché, se si è voluto distendere un velo sulle colpe del passato, e tale è il punto di partenza, non si intende perdonare alle colpe future. Il Governo frattanto deve difendere ad ogni costo, per tutti e contro tutti, la vita dei cittadini. Dopo il fatto Matteotti, nel salone qui vicino, Antonio Salandra, che pur votava ancora per il Governo, ha detto ad un Ministro: «Ricordate che i morti pesano, e i morti riversano doverose responsabilità sui Governi». Questo monito ancora oggi possiamo ripetere a voi del Governo ed a noi stessi, che con voi abbiamo il dovere di dividere le responsabilità dell’attuale momento. Ma come si difende la libertà dei cittadini, di tutti i cittadini? Voi, Governo, dovete difenderla con la forza, che è a vostra disposizione; noi dell’Assemblea, e voi, capi di partito, dobbiamo difenderla con la libertà, perché solo l’esercizio integrale delle libertà salva i cittadini dalle violenze. Quando nel 1919, in un contradittorio preannunciato fra Filippo Turati e Arturo Vecchini, al Vecchini fu impedito di parlare, il primo a ribellarsi contro la violenza fu Turati, e in quel giorno la libertà fu salva. Quando poi nel 1924 fu impedito a Turati di parlare, nel suo collegio, che gli era stato costantemente fedele, nessuna voce è sorta a difenderlo, e la libertà in quel giorno morì.

Noi dobbiamo difendere, dunque, la libertà di tutti. In questo momento, soprattutto, in cui il Paese va incontro a giorni tristi, in questi giorni, in cui stiamo cercando di difendere i nostri lavoratori dalla crisi che imperversa, e voci autorevoli e sinistre minacciano altre crisi, perfino per la più fiorente industria italiana: quella dei tessili, in questa era imminente e difficile, il Paese ha bisogno di pace. Ma la pace si difende col lavoro e con la libertà. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Sansone ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SANSONE. Onorevoli colleghi, non avrei risposto al Ministro Scelba se egli non avesse tentato di minimizzare e, starei per dire, di non riferire i fatti nella loro interezza. Si dice che stamani gli operai delle nostre officine distrutte, e che essi hanno ricostruite, volevano issare la bandiera rossa sul Comune di Napoli. Questo non è esatto. A Napoli, stamane, i nostri operai protestano contro il Comune di Napoli, contro il sindaco e la Giunta comunale che si era resa complice di una solidarietà che io denuncio a questa Assemblea, ed alla quale solidarietà ha fatto anche eco l’onorevole Coppa. Pochi giorni fa il segretario della federazione socialista di Napoli le ha diretto un telegramma al quale lei, onorevole Scelba, non ha dato corso e non ha risposto. Il fatto che si denunziava era grave; si trattava di un dalmata che percorreva le strade di Napoli con la fotografia dell’ex «duce», costringendo chi incontrava a baciarla. Insorsero dei giovani comunisti contro tale azione delittuosa e si recarono dal maresciallo dei carabinieri della stazione vicina a denunciarla, ma il maresciallo non dette peso alla cosa, cosicché il giovane dalmata continuò in questa opera di sopraffazione e di apologia del regime fascista. (Rumori – Commenti). E quando un giovane comunista,. esasperato da questa forma delittuosa e sopraffattoria, venne a lite con lui e lo colpì a morte, il sindaco monarchico di Napoli, in forma ufficiale, ha seguito questo feretro, che ha ritenuto degno della considerazione di tutta la città.

COVELLI. Questo è naturale; ma è falso quello che lei dice.

SANSONE. Ecco quali sono le azioni provocatorie! E quando stamane i nostri lavoratori protestavano sotto il Comune di Napoli per denunciare questa alleanza fra il fascismo, gli elementi monarchici, ed una parte della democrazia cristiana, quindici carri armati sono andati quasi a schiacciare la folla ed hanno provocato gli incidenti. (Rumori – Proteste al centro).

Onorevole Scelba, io ho il dovere di farle delle domande precise e tassative; non sono qui a fare della vana retorica: il Paese è in uno spasimo e noi abbiamo il dovere di difendere la posizione dei lavoratori e con essi il Paese stesso.

Io, il 15 luglio, dopo un’interpellanza dell’onorevole Li Causi su altre uccisioni avvenute in Sicilia (eravamo allora al decimo o undicesimo morto ed ora siamo al diciannovesimo), presentai una mozione nella quale dicevo: «L’Assemblea Costituente, udite le dichiarazioni non sodisfacenti sull’interpellanza dell’onorevole Li Causi, considerato che il brigantaggio politico si manifesta sempre più in Sicilia e che la popolazione siciliana ha il diritto di poter esprimere democraticamente le proprie opinioni e di poter svolgere una normale e pacifica attività politica, chiede che il Governo precisi quale azione intende svolgere per reprimere tale forma pericolosa di reati, facendo presente che la fiducia popolare si fonda proprio sull’attività che svolgerà a tal fine».

Dal 15 luglio, onorevole Scelba, io non ho chiesto la discussione di questa mozione, perché si sarebbe detto che noi della sinistra siamo qui per fare uno dei soliti attacchi al Governo. Ho voluto attendere i fatti. Dal decimo morto siamo arrivati al diciannovesimo; dalla Sicilia a Milano, da Milano a Napoli gli incidenti aumentano proprio per questo atteggiamento negativo e provocatorio del Governo. (Applausi all’estrema sinistra).

Ora, le faccio un’altra domanda, onorevole Scelba: esiste una legge contro l’apologia del fascismo? Chiedo a lei: quanti cittadini italiani, quanti fascisti sono stati denunziati per questo reato? Credo nessuno. Mi sono dilettato a scorrere la giurisprudenza di questo periodo dei vari tribunali e delle Corti della Repubblica; non ho trovato un solo caso che si riferisse a questa legge. Non un solo cittadino italiano – cioè non un solo fascista – è stato denunziato per apologia del regime: e come vuole, quindi, che questa gente, che questi ex repubblichini, che questi massacratori, non siano contenti del suo Governo e non le diano l’appoggio che viene anche consacrato da alleanze politiche?

Ecco i fatti, onorevole Scelba, che determinano le reazioni dei lavoratori, ché essi vedono in questo Governo una provocazione continua.

Stamattina nei tram di Roma dei giovani si gloriavano, avevano la baldanza di dire: siamo fascisti, siamo stati repubblichini e ce ne vantiamo! Sono avvenuti piccoli incidenti: ma, penso che ci doveva essere il quarto Governo De Gasperi per poter determinare questa situazione in Italia!

Quindi, lei non ha fatto un’opera di prevenzione di questi reati; non ha fatto un’opera di repressione; anzi, sul terreno politico, ha favorito un’alleanza che ha rafforzato in costoro la volontà di riemergere con più forza di prima.

Questa è colpa esclusiva del Governo!

Ora qui si pone un problema: vogliamo, onorevole Scelba, onorevole De Gasperi, vogliamo veramente avere carità di patria? Io penso che il dovere di tutti gli italiani, in questo momento, sia di riunire tutte le forze veramente democratiche e finirla con questi monopoli del potere o del Governo e riunirci tutti. (Vivi commenti al centro – Applausi all’estrema sinistra).

PRESIDENTE. Facciano silenzio! E lei, onorevole Sansone, si attenga al tema dell’interrogazione.

SANSONE. Ripeto, penso che noi dobbiamo riunire tutte le forze democratiche. Non dobbiamo essere qui a soppesare il numero dei seggi ministeriali, tre a me e quattro a te. Riuniamo tutte le forze e così veramente daremo al Paese la certezza che noi debelleremo il fascismo e che veramente vogliamo rafforzare, fortificare, difendere, far veramente sviluppare la nostra politica.

Creda, onorevole De Gasperi, è un appello che le rivolge un suo leale avversario politico. Mi muove non un interesse di parte, ma un interesse come italiano, come un modesto italiano, ma che sente il travaglio del Paese.

Che se poi questo grido di dolore, questo grido che è ancora di speranza non è raccolto, se questo grido viene ancora soffocato, onorevole De Gasperi, noi ci sapremo difendere, e la colpa sarà la sua! (Applausi all’estrema sinistra – Commenti al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Cappi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CAPPI. Io avrei dovuto esporre il pensiero della Democrazia cristiana; perché in un momento che – senza drammatizzare come fanno certi giornali – è indubbiamente grave, sembra opportuno che anche la Democrazia cristiana faccia sentire, come partito, il proprio pensiero ed assuma, di fronte al Governo e di fronte al Paese, la propria responsabilità.

Ma, dopo le ampie dichiarazioni del Ministro dell’interno e gli interventi di alcuni colleghi, soprattutto dopo i nobili accenti di alcuni di essi: l’onorevole Gasparotto, l’onorevole Meda, l’onorevole Cairo, data anche l’ora tarda, rinunzierò a questo mio compito. Ero stato incaricato di parlare specialmente perché ho visto, ed ho vissuto, l’altro dopoguerra, e l’ho vissuto in quella Cremona già ricordata dall’onorevole Pajetta; ho vissuto in quella Cremona dove – imperante Farinacci – io, come l’onorevole Lussu ebbe la bontà di ricordare, ho saputo mantenere incontaminata la mia fede democratica.

E, di Cremona, avrei potuto ricordare alcuni episodi. Dirò solo che con angoscia noi vediamo ripetersi, con tragica, quasi monotona egualità, la situazione di quel dopoguerra. Infatti, anche allora da parte dei colleghi di estrema sinistra si fece bersaglio il partito popolare. Così oggi ho l’impressione che si voglia tòrre di mezzo questa forza della Democrazia cristiana, la quale, finché avrà vita di partito, vita dei suoi uomini, si getterà in mezzo all’agone e cercherà di opporsi con tutti i mezzi allo scatenamento della violenza. (Vivi applausi al centro – Commenti a sinistra).

FUSCHINI. Lo conoscete poco il partito popolare! (Interruzione del deputato Schiavetti – Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Schiavetti, la prego non interrompa; ed anche lei, onorevole Fuschini, non intervenga senza autorizzazione nella discussione.

CAPPI. È perfettamente inutile che interrompiate, perché ho detto che rinunzio a svolgere quello che avrebbe dovuto essere il mio intervento. E rinunzio a svolgerlo perché oggi il tema che preoccupa tutti è il tema della libertà: ed è precisamente su questo tema che noi e voi parliamo due linguaggi diversi, non ci intendiamo più. (Approvazioni al centro). Quando per voi sono paesi liberi quelli dove agli uomini dell’opposizione si stringe un cappio o si apre un ergastolo, e si dichiarano tirannici paesi come il nostro, non possiamo più intenderci. (Applausi al centro).

Voi potrete fare falò del vocabolario e capovolgere il senso delle parole; ma non farete falò dell’intelligenza del popolo italiano, che distingue e giudica. (Commenti a sinistra). Voci preoccupanti si levano nella stampa, si sono levate anche in quest’Aula. Andatevene! ha intimato Pajetta: ce ne andremo il giorno dopo le prossime elezioni se ci saranno sfavorevoli. Il potere è talora pericoloso e penoso; è però sempre, per quanto aspro, un dovere, verso la volontà popolare liberamente espressa. (Vivi applausi al centro – Interruzione del deputato Pajetta Gian Carlo).

Voi fate appello dal Parlamento alla piazza; noi riteniamo che in regime democratico questo appello non si dà, o si dà solo nel giorno di libere elezioni. Echeggia la stessa frase di venti-venticinque anni fa: voi dite di essere costretti ad usare la violenza, la rappresaglia, per difendere la libertà. Noi non vogliamo che si ripeta il 1919-20, e sia chiaro a tutti che questo non si verificherà. (Commenti – Interruzioni).

PRESIDENTE. Facciano silenzio, onorevoli colleghi, permettano all’onorevole Cappi di proseguire.

CAPPI. Finché la Democrazia cristiana avrà responsabilità di Governo, questo non si ripeterà. Noi non vogliamo che risorgano né le camicie nere, né gli arditi del popolo; solo lo Stato, con la sua legge e, occorrendo, con la sua forza, perché uno Stato imbelle è generatore della tirannide. (Interruzioni a sinistra).

Una voce a sinistra. Ma se siete già alleati! (Commenti – Proteste al centro).

ALDISIO. A quest’ora lo sareste voi!

CAPPI. Voi potete irridere questa nostra fede nella libertà, ma non ce la potrete rapire. E noi, difendendo la libertà, crediamo di difendere anche voi (Interruzioni a sinistra), e chissà che non venga un giorno in cui siate grati per quest’opera alla Democrazia cristiana. Con questo nostro atteggiamento teniamo fede a quegli ideali di democrazia che ci hanno animato nell’altro dopoguerra, che ci hanno animato durante la guerra, nella lotta di resistenza, nella quale, spalla a spalla, forze nostre hanno combattuto anche con voi. (Interruzioni a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevoli colleghi, non interrompano.

CAPPI. Di quella lotta, della quale noi – nonostante qualche episodio isolato – rivendichiamo la nobiltà e la grandezza.

Ripeto, non voglio entrare in polemica con voi, perché parliamo due linguaggi diversi. Ma noi, finché – lo ripeto – saremo un partito e vi sarà tanta libertà in Italia, come non v’è in altri Paesi, di poter vivere ed esplicare liberamente questa nostra attività di partito, noi a questa fede democratica resteremo fedeli. La fortuna del nostro partito sarà quella che l’avvenire ci riserverà, ma noi crediamo, così operando, di fare il bene del nostro Paese e di obbedire al comando della nostra coscienza civile e morale. (Vivi applausi al centro – Commenti a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Zanardi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ZANARDI. Onorevoli colleghi, io ho presentato una interrogazione, che il Ministro dell’interno ha voluto dichiarare urgente; a dire il vero, io non sono del suo parere, perché il mio temperamento è alieno da ogni infeconda polemica; per questo io vi invito a fare un esame di coscienza, per chiedervi cioè se tutte queste grida e contrasti che abbiamo pronunciato in quest’Aula siano utili alla pace del Paese. (Approvazioni al centro).

Ho interrogato il Ministro degli interni perché un nostro compagno operaio, partigiano delle brigate Matteotti, è stato assalito nella località Crocetta di Medicina da quindici persone, bastonato fino che è caduto privo di sensi.

Io ho già nella mia interrogazione affermato di non conoscere gli autori del delitto, e mi sono augurato che essi non appartengano a nessun partito politico. Ora mi rivolgo specialmente ai colleghi comunisti perché essi stessi vogliano dichiarare che gli assalitori in numero soverchiante del nostro compagno Buttazzi non appartengono al loro partito; tanto più che nell’Emilia il partito comunista è fortissimo e gli uomini forti non hanno bisogno di ricorrere alla violenza.

Svolgendo la mia interrogazione ho bisogno di dichiarare se sono o non sono sodisfatto.

Modesto uomo politico, io so che la Democrazia cristiana va a marce forzate verso destra, ed io, per la mia educazione, non posso certamente seguirla; appartengo agli uomini liberi che non possono essere tacciati di fascismo, perché una ingiusta tragedia ha tormentato la mia famiglia e la mia vita per venticinque anni.

Ora, colleghi, io ho parlato non per fare una discussione e tanto meno per incolpare questo o quello dell’avvenuta aggressione in danno di un milite della nostra idea, ma soltanto per dire che so quanto sono dannose al nostro Paese queste forme di violenza cieca ed irragionevole.

Sono stato per lungo tempo a capo della Amministrazione di Bologna, che ha tradizioni democratiche: in quella città prima di due guerre e del fascismo tutti potevano liberamente discutere ed ogni partito era tollerante. Mi auguro che la tolleranza presieda a tutti noi e che noi, militi di un’idea dobbiamo combattere senza ode con fervore, vantandoci soprattutto, oltre che di essere socialisti, di essere italiani! L’Italia può essere difesa soltanto con la difesa della Repubblica e della democrazia! (Applausi al centro sinistra).

PRESIDENTE. È così terminato lo svolgimento delle interrogazioni.

Interrogazioni con richiesta di urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro dell’interno, per sapere quali provvedimenti intenda adottare per colpire i responsabili delle violenze e devastazioni consumate a Napoli in danno delle sedi provinciale e comunali del Partito nazionale monarchico.

«E per conoscere, inoltre, quali provvedimenti intende adottare nei confronti delle autorità preposte all’ordine pubblico a Napoli, le quali, con odiosa evidenza, mentre hanno provveduto a difendere le sedi di alcuni partiti, hanno lasciato impunemente devastare e incendiare le sedi del Partito nazionale monarchico.

«Covelli».

«Al Ministro dell’interno, per avere conferma di informazioni ricevute dall’interrogante sugli incidenti di Napoli.

«Sereni».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere se anche a Napoli sono state disposte tutte le provvidenze opportune per evitare il ripetersi di sommosse, incidenti ed abusi, che hanno culminato nel saccheggio, da parte di facinorosi, della sede provinciale dell’Uomo Qualunque.

«E per conoscere, inoltre, se è vero che la sede napoletana della Democrazia Cristiana è stata, durante l’agitazione, guardata e protetta dalla forza pubblica, provvidenza che si è trascurata per le sedi degli altri partiti.

«Rodinò Mario».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti siano stati adottati a seguito delle invasioni e devastazioni delle sedi dei partiti democratici a Napoli nei confronti degli esecutori materiali e dei mandanti.

«Puoti, De Falco».

Chiedo al Ministro dell’interno quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Onorevoli colleghi, dalle ultime informazioni pervenutemi durante la seduta risulterebbe che sono state saccheggiate le sedi di alcuni partiti in Napoli, esattamente la sede monarchica sotto la Galleria, la sede dell’Uomo qualunque al Vomero, quella del Movimento sociale italiano a Piedigrotta, la sede monarchica a Bagnoli e la sede del Movimento nazionalista in via Tasso. Inoltre sono state saccheggiate le sedi del Partito monarchico e dell’Uomo qualunque a Torre Annunziata. Sono informazioni sommarie riferitemi durante la seduta. Non sono in grado di dare altre notizie e mi riservo di rispondere alle interrogazioni appena avrò potuto avere tutte le notizie del caso assicurando che, se responsabilità vi sono state da parte delle forze dell’ordine, saranno severamente colpite.

COVELLI. Vogliamo sapere quali altri provvedimenti intende prendere!

Almeno ci dica che cosa fa per evitare ulteriori incidenti. O ci difende lei o ci difendiamo noi (Proteste a sinistra), perché se questa vuole essere una sfida la raccogliamo in pieno. (Proteste a sinistra).

PRESIDENTE. Onorevole Covelli, chieda la parola, se desidera esprimere il suo pensiero.

COVELLI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

COVELLI. Desidero conoscere dal Ministro dell’interno – e credo che questo sia nella sua facoltà – quali provvedimenti intende (questo può dirlo anche ora) adottare perché altri incidenti non si verifichino. Perché, se fino ad oggi vi sono stati feriti e danni alle cose, domani vi potrà essere qualche cosa di più, e lo dico nell’interesse di tutti. Qui, non più tardi di quindici o venti giorni, ci si è lamentati dei mazzieri e dei monarchici autocarrati, di certi napoletani che sarebbero andati ad Avellino. Io ricordo ai signori compagni di Napoli che quelli erano di Napoli e non intendevano assolutamente essere provocati oltre, soprattutto perché si sono mantenuti sempre (e ce ne diano atto) sul piano della più assoluta democrazia. Ebbene, se le sedi del partito nazionale monarchico a Napoli e provincia devono servire di carambola, noi invitiamo il Ministro dell’interno perché provveda a tutelarle, così come sono state tutelate le sedi degli altri partiti, e agli altri diciamo che, se effettivamente mancasse l’intervento del Governo, non aspetteremo più come abbiamo aspettato fino ad oggi. Abbiamo, vivaddio, tanti monarchici a Napoli! (Commenti a sinistra).

SANSONE. C’erano: non vi sono più.

PRESIDENTE. Onorevole Covelli, lei sta svolgendo l’interrogazione, mentre aveva chiesto la parola per porre un quesito al Ministro dell’interno. Il Ministro ha dichiarato che risponderà quando sarà in grado di farlo.

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Vorrei dire all’onorevole Covelli che, essendo stato tutto il pomeriggio all’Assemblea Costituente, non ho potuto seguire la situazione di Napoli. Appena però sono stato informato delle agitazioni che si verificavano nella città e del tentativo di assalto alle varie sedi dei partiti, ho impartito disposizioni perché affluiscano a Napoli rinforzi di pubblica sicurezza per la tutela dell’ordine pubblico e per assicurare la libertà dei cittadini.

SERENI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SERENI. La mia interrogazione chiedeva conferma di informazioni. Visto che il Ministro dell’interno non ha informazioni, e il partito comunista ha mezzi di informazioni più rapidi (Commenti al centro e a destra), potrei dire qualche cosa che può interessare l’Assemblea.

PRESIDENTE. Lei, onorevole Sereni, ha presentato una interrogazione al Ministro. Se ha delle informazioni le comunichi al Ministro, che ne terrà conto nella risposta che darà all’Assemblea. Lei non vorrà che io le faccia un trattamento diverso di quello che ho riservato all’onorevole Covelli.

RODINÒ MARIO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

RODINÒ MARIO. Desidero chiedere all’onorevole Ministro dell’interno se, data la nostra ansia di avere notizie, e poiché non abbiamo un servizio di informazioni, come l’onorevole Sereni, ci possa assicurare di rispondere alle interrogazioni nella giornata di domani.

PRESIDENTE. L’onorevole Scelba ha facoltà di rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Se il Governo avrà notizie diverse – mi auguro che non siano tali – da quelle che sono state portate a conoscenza dell’Assemblea, risponderò domani nel pomeriggio.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere in quali condizioni si svolge l’opera dell’Amministrazione della giustizia in provincia di Cagliari, con speciale rapporto ai fatti di Carbonia e di Guspini.

«Mastino Gesumino, Carboni Enrico, Mannironi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e il Ministro degli affari esteri, per conoscere se, nella considerazione:

1°) che attualmente esistono numerose istituzioni statali e parastatali, sparse anche in vari Dicasteri, le quali trattano problemi e questioni attinenti alle relazioni e agli scambi culturali con l’Estero;

2°) che le attribuzioni di dette istituzioni, spesso fra loro concorrenti, non sono sempre chiaramente definite e che, ad ogni modo, qualcuna di esse costituisce un inutile doppione;

3°) che tale stato di cose porta necessariamente alla mancanza di direttive omogenee e al conseguente scarso rendimento anche di quelle istituzioni che sembrerebbero meglio attrezzate per affrontare i problemi che le relazioni culturali con l’Estero impongono;

4°) che in conseguenza si disperdono energie e danaro senza ottenere quella efficace ripresa delle relazioni e degli scambi culturali dell’Italia con gli altri Paesi, che nel momento attuale è più che mai necessaria ed opportuna;

non ritengano necessario ed urgente un provvedimento che riordini e unifichi i servizi suddetti, adeguandone la struttura alle necessità di questo periodo di tempo.

«Nobile».

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se sia vero che la manifestazione del 4 novembre nel comune di Bacoli (Napoli) si sia mutata in una celebrazione monarchica; e se e quali provvedimenti abbia presi contro le autorità responsabili.

«Cianca, Schiavetti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere se non ritiene ingiusto che per gli alloggi dell’INCIS di nuova assegnazione si facciano pagare ad una minoranza di impiegati statali canoni di pigione esorbitanti – dalle 3000 a più di 6000 lire mensili – in confronto a quelli minimi – lire 120 a vano – mantenuti alla stragrande maggioranza degli inquilini dell’INCIS.

Il criterio che sta alla base della lamentata disparità di trattamento, che è quello di far sopportare ai nuovi inquilini i maggiori costi di costruzione delle nuove case dell’INCIS, appare assurdo al solo pensare che se venisse perpetuato porterebbe alla deprecabile conclusione che, mentre la maggioranza degli inquilini dell’INCIS continuerebbe a pagare cifre irrisorie per pigione, una minoranza (costituita, per giunta, da famiglie numerose sinistrate di guerra) arriverebbe a pagare cifre iperboliche per il sempre crescente costo di costruzione delle nuove case.

«Il contrasto diviene, poi, più evidente, se si considera che queste ultime case sono costruite e rifinite «alla meglio», sprovviste, come sono, di tutti i conforti moderni (non hanno ascensore, né vasche da bagno, né impianti di riscaldamento, impianti elettrici deficienti, ecc.), che abbondano, invece, nelle case di vecchia costruzione, le quali si trovano site in punti centrali della città e, quindi, comportano un’ulteriore economia di mezzi di trasporto.

«Appare, ora, cosa ingiusta che lo Stato, mentre tiene un criterio unico per la retribuzione dei propri dipendenti, adotti, invece, criteri di preferenza nel far pagare loro gli alloggi forniti dallo Stato stesso. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bruni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle finanze, per conoscere se e quali provvedimenti intende adottare in relazione alle richieste formulate dal Consiglio direttivo dell’Associazione nazionale per i Comuni italiani per la modifica dell’articolo 10 del decreto legislativo 29 marzo 1947, n. 177, affinché i Comuni interessati possano stabilire proventi tributari atti a dare un notevole apporto alla finanza locale e giusta perequazione al carico fiscale con sollievo di quelle categorie produttrici che risultano già colpite in misura eccessiva e che continuano ad essere oggetto di tassazioni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Perrone Capano».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze, della marina mercantile e del lavoro e previdenza sociale, per sapere se, in vista del continuo passaggio in disarmo di motovelieri e velieri degli armatori di Gela, attrezzati per la pesca delle spugne, a causa che la pesca stessa è divenuta passiva principalmente per il dazio doganale che non dovrebbe esistere, trattandosi di merce proveniente dalla pesca e nazionalizzata, si vogliano adottare urgenti misure di sgravio onde evitare l’aumento della disoccupazione di quei lavoratori marittimi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Finocchiaro Aprile»

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non creda opportuno ed urgente fare affluire in larga misura nel compartimento di Reggio Calabria carri merci non solo per sopperire alle esigenze pressanti ed inderogabili della campagna agrumaria, che tanto interessa quelle zone, ma anche per consentire il trasporto di tutti gli altri generi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuno di riconoscere Foggia come aeroporto doganale e di istituire lo scalo di qualche linea civile nazionale ed internazionale.

«Tenga presente l’onorevole Ministro che i bombardamenti su Foggia e le conseguenti gravissime distruzioni del centro abitato, sono state causate dalla presenza degli aeroporti militari nella piana di detta città, e che gli invocati riconoscimenti sarebbero una doverosa riparazione morale dei danni subiti. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Imperiale».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 21.5.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxc.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Congedi:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Gasparotto

Avanzini

Castiglia

Presentazione di relazioni:

Treves

Presidente

La seduta comincia allo 10.

GABRIELI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Caso e Caroleo.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Gasparotto. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Al margine estremo della discussione generale, poiché voci autorevoli ci hanno fatto apprendere che oggi essa sarà chiusa, non vi è tempo né posto per fare o rifare accademia.

Riconosco che la Magistratura italiana non poteva attendersi omaggio maggiore di questa discussione, ove oratori giovani ed anziani si sono schierati in sua difesa, sfoggiando dottrina, eloquenza e soprattutto esperienza, come d’altronde devo riconoscere che apporto maggiore non poteva essere recato all’Assemblea Costituente dalla Magistratura, la quale, attraverso ordini del giorno, memoriali, articoli di riviste, lettere personali, ha portato qui la sua libera voce.

Io cercherò, come ho sempre cercato in questa discussione, di attenermi, più che sia possibile e finché sia possibile, al testo della Commissione, alla quale riconosco la ampiezza e la bontà del lavoro compiuto.

Cercherò anche di non subire l’attrazione, o suggestione che sia, del nuovo. Cercherò, invece, di tenermi aderente, anche qui finché sia possibile, alla tradizione del nostro Paese, soprattutto in quanto la tradizione giuridica del Paese abbia superato e vinto la prova del tempo.

Le discussioni più appassionate sono culminate sui problemi della giuria popolare e della partecipazione delle donne all’esercizio della Magistratura.

Non vale più la pena di parlare sulla Corte di assise. Forse anche la stessa discussione già fatta poteva essere evitata. Ognuno porta da tempo nel proprio cuore le convinzioni antiche o recenti. C’è una così vasta letteratura, una così larga fioritura di dottrina su questo argomento, che la discussione su di esso non può che convertirsi ed esaurirsi in mera accademia.

Perciò, coerente alle mie antiche convinzioni, mi dichiaro favorevole al mantenimento della giuria popolare, nei limiti indicati dal testo della Commissione, cioè demandando alle leggi particolari, alle norme comuni la disciplina dell’istituto nei suoi limiti di competenza e nella composizione della giuria.

Qui si sono evocati i grandi spiriti che hanno dominato la dottrina antica e moderna. Si è ricordato perfino lo Stuart Mill, il Montesquieu, e tra i nostri più vicini scrittori, il Pessina, il Pisanelli, il Finocchiaro Aprile, ed altri. Mi permetterò invece di ricordare il più grande spirito italiano, che ha anticipato l’istituto moderno del giudice popolare, ed è Cesare Beccaria, il quale diceva che, mentre riconosceva al giudice togato la maggiore e migliore capacità per istruire le cause, preferiva il giudice popolare, scevro da preconcetti, per il giudizio sulle cause. Vale la pena – e con questa citazione credo di aver esaurito l’argomento – di leggere quello che ha scritto in tempi tanto lontani Cesare Beccaria: egli diceva che se nel cercare le prove occorre abilità e destrezza, nel giudicare un risultato si richiede «un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a trovare il reo, e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato ai suoi studi». Si dirà che questo è già un luogo comune e fu detto da tanti oratori; ma è privilegio e gloria dei grandi precursori quello di esprimere opinioni che, a distanza di tempo, diventano luoghi comuni.

Qui, da più parti, fu rievocato il «caso Olivo», che – riconosco – a suo tempo, quarant’anni fa, provocò una larga campagna di stampa contro la giuria popolare. Poiché ho avuto la fortuna di assistere a talune di quelle sedute, alla Corte di assise di Milano, posso portare un chiarimento sul «fatto Olivo», imputato di uxoricidio. Olivo era un modello di impiegato, per rettitudine, per capacità, per assiduità. Aveva la disgrazia di avere al suo fianco, e di convivervi, una donna la quale gli rendeva la vita impossibile. Portato all’estremo limite della disperazione, un certo giorno la soppresse. Le cronache umoristiche del tempo dicevano: «non riusciva a farla tacere; per chiuderle la bocca, si decise a sopprimerla».

Il giudice popolare di Milano lo ha assolto, deponendo nell’urna 12 schede bianche. Sotto la pressione della stampa, la Corte di cassazione annullò il verdetto (e questo fu giudicato da tutti un atto di arbitrio) e trasferì la causa alla Corte d’assise di Bergamo. Quasi in via pregiudiziale, fors’anche – lo riconosco – per ribellione al giudizio del magistrato supremo, i giurati di Bergamo con 12 schede bianche confermarono il giudizio milanese. Si venne poi a conoscere il retroscena di queste assoluzioni. I giurati milanesi intendevano assolvere dall’uxoricidio, vale a dire dall’accusa più grave, l’Olivo; intendevano condannarlo per lo strazio fatto del cadavere, a scopo di occultamento del delitto. Il Presidente della Corte d’assise – e potrei farne anche il nome – il quale, badate bene, aveva scritto un libro Sui quesiti ai giurati – non credette, non volle o non poté inserire fra essi quello dello scempio del cadavere.

MACRELLI. Omicidio preterintenzionale!

GASPAROTTO. No. Il Codice Zanardelli del tempo, che regolava la materia, bensì contemplava il delitto di vilipendio, ma era un reato che aveva un ben diverso contenuto, punibile con la pena irrisoria da tre mesi a trenta mesi. Così, i giurati si trovarono nella impossibilità di giudicare in senso sfavorevole, per quanto grandemente attenuato, l’imputato.

Ebbene, che cosa avvenne? Avvenne che il successivo Codice penale ebbe ad introdurre precisamente, pur mantenendo l’antico articolo 144 del vilipendio, un nuovo articolo 411, per la distruzione del cadavere, punibile con la sensibile pena da tre a sette anni. L’errore dei giurati ha servito al legislatore.

Questa è la spiegazione del caso Olivo. Del resto, riconosco col caro amico Villabruna, che colla Corte d’assise ha consuetudine di antica data, riconosco che la questione su questo argomento si trasferisce dal campo tecnico al campo politico.

Giustamente ha detto Veroni che l’istituto della giuria rappresenta un trionfo della democrazia e della libertà. L’accostamento della giustizia al popolo, il principio di far giudicare l’uomo dai suoi pari è principio di democrazia e di libertà. Perciò, in questi gravi reati, soltanto il giudice popolare può, in un certo momento, interpretare la pubblica coscienza, e soltanto al giudice popolare è dato di assolvere nei delitti a ragion d’onore, per difesa cioè dell’onore della famiglia, mentre ciò, per il rigore della legge e per l’abito professionale, al magistrato togato non sarebbe mai consentito. Queste assoluzioni nei reati d’onore non hanno mai meravigliato l’opinione pubblica, anzi hanno trovato il pubblico consenso perché, più che una repressione, costituiscono un ammonimento per coloro che attentano all’onore delle donne e alla pace della famiglia; precedenti questi, che dimostrano che la giuria popolare è gradita all’opinione del popolo italiano. Perciò dev’essere mantenuta.

Quanto poi ai limiti di questo istituto, quanto alla scelta dei giurati, alla qualità dei reati che saranno sottoposti al suo giudizio, provvederà la nuova legge. La Costituzione è uno statuto solenne che deve avere carattere, se non di fissità, di stabilità tale da essere sottratto alle alterne fluttuazioni delle condizioni contingenti della vita politica ed economica del Paese. Tutto quello che può essere frutto del mutevole corso del tempo deve essere regolato dalla legge speciale, per non esporre il Paese, non dico alla vergogna, ma certamente al fastidio di cambiamenti frequenti alla legge costituzionale.

Partecipazione delle donne all’esercizio della Magistratura. Non vi è nulla di nuovo in materia. Dal momento che, dopo la prima guerra europea, la donna ha fatto il suo ingresso trionfale nella vita economica, del Paese, dal momento che durante quella guerra la donna è entrata nei ranghi della mobilitazione civile, dal momento che, sempre durante quella guerra, ben più terribile dell’ultima per quel che riguarda il rischio personale, perché quella era guerra di uomini e l’ultima fu guerra di macchine, dal momento che la donna, come crocerossina, è arrivata a fianco dei combattenti a raccogliere i feriti sulla linea del fuoco, dal momento che la donna molte volte ha sostituito gli uomini nei pubblici e privati uffici, non è il caso di contenderle ulteriormente questo diritto di partecipare alla Magistratura. Del resto, vi è un precedente: la legge dei probiviri, che se oggi non esiste più perché trasferita nella Magistratura del lavoro, resta come principio, ha consentito l’ingresso della donna in questi uffici: ebbene, la donna vi ha fatto ottima prova. Io vorrei frenare le impazienze della nostra gentile collega onorevole Mattei, la quale, con un emendamento, domanda addirittura la parificazione assoluta della donna magistrato al magistrato uomo. Io non vorrei che, insistendo troppo su questo emendamento, si finisse con il perdere la battaglia.

Io mi attengo invece al testo della Commissione, il quale dice che questa partecipazione sarà regolata dalla legge speciale.

Ma finora possiamo dire che, a parità con l’uomo e forse anche con un giudizio superiore a quello che dà l’uomo, la donna può intervenire in tutte le questioni che riguardano la tutela dei minori e la famiglia. Quando si è parlato della parificazione della donna all’uomo nell’esercizio dell’elettorato politico ed amministrativo – e la Camera ha votato a grande maggioranza questa parificazione – si sono rievocate vecchie dottrine circa la prevalenza del cervello dell’uomo su quello della donna. Si sono addirittura dosate con la bilancia le cellule del cervello dell’uomo rispetto a quelle del cervello della donna. Ma si è concluso poi che queste discussioni sono oziose: la verità è che la donna è diversa dall’uomo.

Ma, appunto perché è diversa, essa deve entrare negli uffici, proprio per recare un elemento nuovo, equilibratore e integratore di altri elementi di giudizio.

Ma il tema che maggiormente mi attrae per l’ufficio che ho recentemente ricoperto, tema che è già stato trattato più o meno ampiamente e nobilmente sia dall’onorevole Bettiol che dall’onorevole Villabruna, è quello che riguarda la proposta soppressione della cosiddetta giustizia militare. La Commissione parte da un principio basilare: l’unicità della funzione giurisdizionale. Essa dice che tutti i giudizi debbono essere sottoposti all’alto esame della Magistratura.

Ora, io faccio un’osservazione preliminare: secondo una notizia anticipatami dal collega, onorevole Ghidini, il Capo IV della Costituzione non si intitolerà più «Magistratura», ma «Giustizia». Ottima innovazione, perché il principio supremo è la giustizia, della quale la Magistratura è l’organo: l’organo che l’amministra. Ma questo principio dell’unicità della giurisdizione, che ha trovato una vastissima letteratura, trova già delle eccezioni nel testo stesso della Commissione.

Ci sono infatti delle evidenti evasioni a questo principio, in quanto si permette la sussistenza, a fianco della Magistratura, del Consiglio di Stato, organo di giudizio di legittimità e di merito in materia legislativa, e della Corte dei conti, organo di legittimità nelle questioni di contabilità e di pensioni, al quale è sottoposto lo Stato stesso.

Inoltre, vi è un articolo del progetto di Costituzione che non è stato ancora oggetto di esame: il 102. Esso dispone testualmente che «contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per Cassazione secondo le norme di legge».

Dunque signori della Commissione, voi ammettete la presenza, nella Costituzione, di organi speciali, e così il principio dell’unicità della giurisdizione, che avete così solennemente posto a base del Capo II, viene ad essere da voi stessi profondamente ferito. Tuttavia, in relazione a questo principio base e come sua logica conseguenza, per quanto in contradizione con gli organi speciali che avete riconosciuto, voi intendete sopprimere quella che si chiama volgarmente la giustizia militane.

A questo proposito dichiaro subito che i tecnici militari si propongono di opporsi virilmente e concordemente a questa proposta, al fine di tener salda la compagine delle Forze armate, non solo in tempo di guerra, ma anche in tempo di pace.

A tal fine il Ministero della guerra – come ha ricordato, per quanto fuggevolmente, il collega Persico – ha nominato una Commissione che ha studiato con larghezza di indagini il problema dell’ordinamento della giustizia militare. E mentre non si è trovata unanime, per il difforme parere dell’onorevole Palermo, sul principio del riconoscimento esplicito della necessità di mantenere il Magistrato militare, e cioè i Tribunali militari, si è trovata unanime, anche con Palermo, nel riconoscere che questa materia deve essere sottratta alla Costituzione ed essere regolata da norme speciali, perché si tratta di materia in via di successiva elaborazione, che può subire l’influsso del tempo e delle circostanze, e quindi non trova sede opportuna nella Costituzione, che ha e deve avere carattere di stabilità.

Quali sono le ragioni per le quali la Commissione (dissenziente, ma non intervenuto alle sedute, l’onorevole Calamandrei) insiste sulla necessità di mantenere questo organo speciale giurisdizionale?

Lo stesso progetto della Commissione ammette la Magistratura militare, e cioè la giustizia militare, in tempo di guerra; ma questa presuppone un’attrezzatura già in funzione anche in tempo di pace, perché la giustizia militare non è un organo – data la delicatezza del suo congegno e la gravità delle pene alle quali può arrivare (perfino alla sentenza di morte, in tempo di guerra) – che si possa improvvisare al momento dello scoppio spesso fulmineo delle ostilità, perché anche in tempo di guerra la giustizia militare presuppone un vasto concorso di funzioni tecniche e l’organizzazione di complessi uffici e servizi che non possono essere attuati sotto le incalzanti pressioni del momento.

Del resto – onorevole relatore Ghidini, mi segua su questo punto, perché non è più, questa, discussione accademica – il diritto positivo vigente prevede già l’applicazione della legge penale di guerra anche in tempo di pace, ad esempio per i corpi militari di spedizione all’estero, per le operazioni militari (art. 9 del Codice penale militare di guerra). E, ripeto, non faccio dell’accademia, il fatto si è verificato: nel 1900 l’Italia ha onorevolmente partecipato con un Corpo di spedizione, a fianco delle maggiori nazioni civili, alla repressione dei «boxers» in Cina. Eravamo in tempo di pace, ma in quella occasione fu applicata la legge militare in tempo di guerra e furono messi in funzione i tribunali militari.

Del resto, senza ricorrere all’esempio di quello che è avvenuto nella lontana Cina, la nave militare navigante in tempo di pace, quando esce dalle acque territoriali, allontanandosi dal lido della Patria, porta con sé la bandiera della Patria, e con essa le leggi della Patria, e le applica. E nessuno mai proporrebbe ad una nave della marina italiana in crociera nell’alto Oceano di tornare indietro per far giudicare dal magistrato borghese il reato di ammutinamento, che esige una pronta repressione, soprattutto allo scopo di esempio e di ammonimento.

Per modo che avviene che, per amore della teoria, per l’affetto che portate al principio astratto dell’unità giurisdizionale, voi siete costretti a riconoscere che anche in tempo di pace quella Magistratura militare che volete abolire si trova, per necessità di cose, direi comandata a funzionare, a dispetto della vostra tesi.

Del resto, i reati che offendano la fedeltà, la difesa, i piani militari di guerra o di pace, le piante delle fortificazioni, la disciplina e il servizio militare, esigono l’istituzione di un giudice specializzato, tecnicamente preparato all’esatta conoscenza dell’ordinamento delle tre Forze armate, che hanno speciali caratteristiche, speciali esigenze, speciali necessità, alla conoscenza delle quali non è certamente predisposto il magistrato ordinario.

E poiché ovunque e da tutti i banchi di questa Assemblea si parla di democrazia, dirò che chi ha professato avanti i tribunali militari ha sempre riconosciuto che procedimento più democratico in materia di giudizi non vi è, perché si tratta del militare giudicato, a parte la gerarchia, dai suoi compagni, dai suoi simili; si tratta del militare giudicato da militari; e quindi si tratta di una forma di giustizia aderente alla vita e alla classe cui appartiene il giudicando.

Inoltre, per poter applicare con giustizia, con efficacia soprattutto, la giustizia fra i militari, occorre l’immediatezza del giudizio, occorre repressione immediata, non tanto a scopo punitivo, quanto a scopo educativo, come esempio agli altri, tanto più, colleghi, che con le ferme brevi oggi adottate che trattengono i soldati alle armi soltanto per un anno, che spesso si riduce ad otto mesi, se voi affidaste la giustizia militare al magistrato ordinario, già tanto oberato di lavoro e di funzioni, si finirebbe col cadere nel grottesco di veder giudicato un militare quando non è più militare, quando ha ripreso il suo posto di cittadino nella vita civile, e sarebbe allora veramente curioso e inefficace rimandarlo al carcere militare.

Vi ha di più. Si è sparato, e non a salve, contro il Tribunale Supremo militare. Ma bisogna conoscere l’organizzazione di questa giustizia, chiamatela pure straordinaria, per poterla condannare. Il Tribunale militare supremo giudica anche in via amministrativa per quanto riguarda la reintegrazione nel grado militare per condanna, giudica per i provvedimenti disciplinari riguardanti la cancellazione dai ruoli, l’infrazione delle leggi sul matrimonio, tutte cose per le quali occorre una esatta conoscenza della vita militare, che difficilmente può apprendere il magistrato, che, come dico, deve spaziare in campi tanto vasti e diversi, che non ha tempo e modo e – direi quasi – non ha attitudine, per scendere alla particolare visione e conoscenza della vita militare.

Vi è poi, a conforto della nostra proposta, il largo presidio dell’esperienza. Signori, i codici militari italiani sono in vigore dal 1869 e – salva qualche eccezione di cui parlerò subito – essi hanno funzionato con piena soddisfazione di quanti avvocati vi si sono accostati. (Approvazioni).

Fra la Magistratura ordinaria (non se ne offendano i magistrati!), e la Magistratura militare, gli avvocati più volte preferiscono quella militare (Approvazioni), per il senso di indulgenza che vi trovano, per la larga e umana comprensione dei moventi, dei motivi del delinquere. Qualche volta certi moventi, sforzando la legge, portano i giudici militari all’assoluzione, in casi cioè pietosi ai quali non potrebbe arrivare per abito professionale il magistrato comune!

Giustamente perciò un uomo di non dubbia fede democratica, Genunzio Bentini, ha fatto, prima di morire, l’esaltazione della giustizia militare. Non vi è, infatti, avvocato che, uscendo dal tribunale militare dopo la sentenza, abbia avuto una parola di rimprovero verso i giudici.

Cosa è avvenuto, invece, dopo il 1869? Ci fu, è vero, una proposta votata e deliberata dalla Camera nella seduta del 26 novembre del 1900 per la soppressione dei tribunali militari, ma essa obbedì alla passione del tempo: erano avvenuti i fatti clamorosi del 1898, i fatti del maggio di Milano, le repressioni severe di Sicilia, Turati condannato a 12 anni, De Andreis condannato a 14 anni; e c’era ancora nell’aria la risonanza del fatto Dreyfus, per cui allora i tribunali militari furono chiamali «tribunali giberna». Quindi, per reazione contro la giustizia militare, prona allora al Governo e per forzare la mano alla giustizia comune (ma anche la Cassazione allora tenne bordone al Governo!), per reazione politica la Camera votò la proposta di abolizione dei tribunali militari. Ma quella proposta è caduta nel vuoto: ricordate quanti anni sono passati, oggi siamo al 1947, e la proposta è rimasta senza eco. Il che è certamente significativo!

Insomma, io dico che la passione del nuovo non ci deve sedurre. Io, per mio conto, resto fedele alla nostra tradizione, alla sana e salda tradizione italiana; e notate, tradizione italiana che trova la sua origine niente meno che nelle leggi di Roma, alle quali ancor oggi, nella riforma della giustizia militare che ci proponiamo di fare, si dovrà far capo, perché Roma insegna che il militare, in quanto delinqua uti miles, deve essere giudicato dalla giustizia militare, ma in quanto delinqua uti civis deve essere giudicato dalla giustizia civile.

Perciò, nella prossima riforma della giustizia militare, noi dovremmo separare dai reati essenzialmente militari tutti quei reati nei quali il militare, pur delinquente, pur mancando al rispetto della legge nella sua qualità di soldato, offende non la legge militare, ma la legge civile. Quando, con una legge speciale, sottratta quindi alla Costituzione, noi verremo a riformare il vigente Codice militare, provvederemo certamente ad una sensibile diminuzione delle pene che, ripeto, ebbero la loro vigilia ed ispirazione dalle leggi piemontesi, di rigore eccessivo, tanto eccessivo, per non dire feroce, che il giudice militare fu costretto a ricorrere molto spesso al rimedio della forza irresistibile per non relegare per trent’anni in carcere il militare colpevole di colpe non gravi.

Inoltre, per quanto io non sia schiavo della tirannia degli esempi (la parola è bella, perché viene da Mazzini), per quanto riconosca che occorra svincolarsi una volta tanto dalla tirannia degli esempi, non posso non tenere presente che tutte le legislazioni europee, anche le ultime e più recenti, sono per il mantenimento della giustizia militare. Vi fu un’eccezione soltanto in Germania, dopo la guerra perduta del 1918, ma fu subito ripristinata da Hitler. Ho in mano la pubblicazione nostra, che fu distribuita a tutti i deputati, la quale porta il riferimento di tutte le legislazioni, le quali, eccettuata quella Danese, anche le più recenti, anche le legislazioni di paesi di acceso spirito repubblicano, come la Spagna al tempo della Repubblica, dovendo legiferare in materia di giustizia militare, hanno mantenuto l’ordine speciale, e lo ha mantenuto e lo mantiene, soprattutto, la Russia, che ha applicato al proprio valoroso esercito una disciplina veramente superiore ad ogni nostra aspettativa.

Dunque, riassumendo: necessità di mantenere la giurisdizione militare: 1°) perché si tratta di una giustizia più aderente ai rapporti della vita militare, che non può essere affidata che al giudizio dei militari; 2°) per la natura particolare dei reati militari, la quale esige una speciale sensibilità come, ad esempio, nel caso, non infrequente anche in tempo di pace, delle mutilazioni volontarie per evadere agli obblighi militari; 3°) per la necessità della immediatezza della repressione, dato le ferme brevi applicate dall’ordinamento militare odierno. Ché se contro questa nostra proposta si opponesse, come si è opposto da più parti, la possibilità di integrare la Magistratura ordinaria con dei giudici militari, ricorrendo a quelle forme di scabinato che sono state, se non erro, condannate da tutti, vi prevengo che questa forma di ibridismo processuale è condannata da ogni parte e condannata soprattutto dalla unanime dottrina.

Una volta fissato nella Carta costituzionale, come vorrebbe il testo della Commissione, la soppressione della giustizia militare, ed affidata la stessa ai magistrati ordinari, vi domando: se questo vostro esperimento non facesse buona prova, dovremmo modificare la Costituzione per ritornare alla Magistratura militare? Basti questo pericolo, basti questo rischio per fare comprendere quanta responsabilità la Commissione si è assunta e quanta responsabilità si assumerebbe la Camera ove adottasse il principio della Commissione stessa. Perciò, mentre io personalmente, interprete del pensiero dell’ambiente militare (perché non per nulla il mio emendamento è stato firmato dai quattro Sottosegretari di tutti i partiti)…

GHIDINI. E in caso di connessione o di concorso?

GASPAROTTO. Ne parlerà la legge speciale.

Dunque, stavo dicendo, io ho voluto che il mio emendamento soppressivo in questa ultima parte, ultimo capoverso dell’articolo 95, fosse firmato dai quattro Sottosegretari di Stato, un comunista, due democristiani, un socialista, per dimostrare che noi, più che esprimere un pensiero personale, interpretavamo il pensiero degli ambienti militari. E di ciò me ne ha dato autorevole conferma un momento fa l’onorevole Cingolani, mio successore nel Dicastero della difesa.

E non crediate che ciò si faccia per spirito tradizionalistico, perché l’Esercito italiano si è democratizzato di molto. Abbiamo recentemente unificato tre Ministeri, senza incontrare difficoltà. Tutte e tre le forze armate vi hanno lealmente aderito; ma questi tre Ministeri, queste tre forze armate distinte ma non separate, devono costituire un tutto organico, devono costituire un corpo omogeneo, e perché venga mantenuta questa omogeneità non si può toglierle uno dei suoi organi che riteniamo essenziale al mantenimento della disciplina.

L’Esercito, signori, è una cosa seria. Non si può sul suo corpo fare sperimentazioni avventate. L’Esercito vive di fede e di disciplina: la fede innanzitutto, ma fede regolata dalla disciplina, perché un esercito senza disciplina è un corpo che facilmente si sfalda. E l’esempio di una disciplina, che non consente eccezioni, ci viene dalla Russia. La Russia è una organizzazione militare delle più ferree. Ma è stata la ferrea disciplina militare russa quella che è valsa ad infrangere e schiantare il possente urto delle forze germaniche a Stalingrado.

E recentemente, La Flotta Rossa, un giornale sovietico destinato ai soldati, scriveva che pur attraverso l’accorciamento delle distanze fra capi e gregari (il che avviene anche oggi in Italia) la disciplina deve essere rigidamente praticata. «Disciplina basata sull’alta coscienza del dovere militare. Essa non ammette liberalismi verso i violatori di ordini, verso i vacillanti».

Se dalla Russia ci viene questo esempio, proprio da noi si deve praticare qualche cosa di diverso, per non dire di opposto?

Da più parti si sono alzati al cielo accenti di poeti e filosofi. Un nostro speciale gruppo parlamentare aspira all’unità federativa europea, con la costituzione di un nuovo Stato internazionale che allarghi le sue braccia a tutto il mondo.

Pur non correndo dietro a questi sogni troppo alti e troppo lontani, bisogna riconoscere che se questi sogni si propongono di assicurare al mondo la pace, si può salvare la pace solo con la creazione dell’esercito internazionale a garanzia della libertà e dell’ordine fra le nazioni.

Nel 1940 il Partito laburista inglese ha espresso un esplicito voto a questo proposito. L’esperienza, come ho detto, della spedizione internazionale della Cina del 1900 vale ancora oggi, ed è non inutilmente ricordata. Soltanto attraverso la creazione di questa grande gendarmeria internazionale, al servizio di un organo superiore delegato a difendere la pace anche degli Stati minori, soprattutto degli Stati minori, contro il pericolo delle aggressioni, si può raggiungere questo generoso obiettivo. E l’Italia deve contribuire e contribuirà col suo contingente, col suo piccolo esercito. E come già nel lontano 1900 e con pieno onore della sua Marina, dovremo farci onore anche in queste prossime occasioni. Ma per far questo, occorre mantenere all’Esercito salda e omogenea la sua compagine, e tenerlo lontano, per l’amore del nuovo, dal pericolo di avventate improvvisazioni. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Avanzini. Ne ha facoltà.

AVANZINI. Onorevoli colleghi, il tema è tanto alto da rifiutare ogni conformismo. Così può e deve accadere che voci diverse e discordi si elevino dallo stesso settore di questa Camera. Inteso dunque, che esprimerò idee personali, le quali non impegneranno il Gruppo, al quale appartengo.

Tanto più che quelle idee mi saranno vele per navigare contro corrente, dissentendo dagli oratori più validi, che mi hanno preceduto e hanno parlato di tre argomenti: l’indipendenza della Magistratura, la giuria, la Cassazione unica. L’indipendenza della Magistratura! Chi, pensoso delle sorti della libertà, della democrazia e del Paese può non volerla? Quando giorni addietro l’onorevole Bozzi, parafrasando l’articolo 94 del progetto, affermava che il giudice deve dipendere soltanto dalla legge e dalla sua coscienza, proclamava una verità, che è nel pensiero e nel sentimento di tutti, qui dentro.

Il problema è un altro. È piuttosto il problema della garanzia, che la Carta costituzionale deve prestare al giudice per quella sua indipendenza, avallando proprio quelle due ubbidienze, al disopra delle interferenze e delle influenze, delle suggestioni e delle preoccupazioni.

A questo dovrebbe intendere il Consiglio Superiore della Magistratura, quale lo compone l’articolo 97, che al Consiglio Superiore della Magistratura affida le assunzioni, le promozioni, le assegnazioni ed i trasferimenti di sede, i provvedimenti disciplinari; in genere il governo della Magistratura. Così si vorrebbe dunque disancorare completamente la Magistratura dal potere legislativo e da quello esecutivo. Essa andrebbe per la sua via, a testa alta oltre tutti i richiami. E non dubito che quella sarebbe la diritta via. Anch’io, anch’io come l’onorevole Bozzi, non partecipo neppure al remoto sospetto che domani la Magistratura, fatta casta chiusa, possa erigersi contro lo Stato, e magari rifiutare l’applicazione della legge.

Però in me c’è un dubbio, un dubbio solo, anche se non irragionevole. E proprio per quanto ha detto l’onorevole Bozzi: il giudice deve essere indipendente anche nei confronti delle sue gerarchie interne. Se non la Magistratura, i magistrati nel nuovo organamento della vita giudiziaria forse non si troveranno garantiti nella pienezza dei loro diritti.

Certo non accadrà più quello che accadeva in tempi non distanti. Un Presidente della Corte di Cassazione, che in sede di concorsi o di promozioni si presentava, traeva il suo fogliettino, e gli assunti e i promossi dovevano essere quelli iscritti in quel fogliettino.

Non accadrà più che un magistrato munitissimo di titoli, degno di ritrovarsi nei primi posti della graduatoria, si ritrovi invece relegato negli ultimi posti.

Pure in me risuonano le parole antiche: homo sum, nihil humani a me alienum.

Nel Consiglio Superiore della Magistratura entreranno dunque alcuni avvocati, i quali però dovranno interrompere l’esercizio della professione. E per sette anni! Una vacanza lunga, destinata, se sarà reale e compiuta, a distruggere lo studio professionale più florido!

Lo sappiamo un po’ noi avvocati costituenti. E la nostra vacanza, pur non completa, dura soltanto da un anno e mezzo!

Allora è certo che nel Consiglio Superiore della Magistratura non entreranno né i maggiori, né i migliori, coloro cioè che nel pensiero della Commissione avrebbero dovuto rappresentare garanzia alta e degna per il buon governo della Magistratura.

Vi entreranno alcuni magistrati, i quali non giudicheranno più. Sia per la grave mole dell’impegno, che andranno ad assumere, sia perché venga allontanato anche il lontano sospetto che quelli, i quali hanno ancora aperta una carriera, possano giovarsi in causa propria. Dunque i magistrati non giudicheranno più: giudicheranno invece i loro colleghi. Allora – ecco la eco delle parole antiche homo sum ecc. –: amicizie, rivalità, solidarietà più impensate, ricordi di scuola, consuetudini di sede, ammirazioni magari ingiustificate, lieviti insomma, che non si possono sopprimere. E tutto questo per sette lunghi anni, al di sopra ed al di fuori di ogni controllo; perché non può rappresentare un controllo la presenza di uomini non appartenenti alla Magistratura; tanto più se il numero di questi sarà ridotto, secondo chiede l’onorevole Dominedò, a una rappresentanza meramente simbolica.

Oggi, onorevoli colleghi, un magistrato, che sia vittima di una soperchieria, può trovare, e trova certamente, in qualunque settore questa Assemblea un deputato, che denunzi quella soperchieria e gli ottenga giustizia.

È questo il grande, democratico controllo della Assemblea, espressa dalla volontà popolare. C’è una realtà insopprimibile: distinti i poteri ma non separati decisamente, come compartimenti stagni per nessun verso comunicanti. Son necessari pur sempre un collegamento, un coordinamento di vita tra i diversi poteri.

Il potere esecutivo è o non è chiamato a rendere conto di sé ogni giorno al potere legislativo? Io non dico che questo debba accadere quotidianamente, per il terzo potere; dico soltanto che questo non può, non deve essere avulso, rigidamente e compiutamente, dalla complessa vita dello Stato.

Ed allora? Lo so: l’onda ormai è troppo alta. Questa istanza di autogoverno della Magistratura è troppo ormai diffusa. Quello che è non può restare. Qualche correttivo deve essere però cercato; sarà cercato in sede di emendamenti.

Per esempio. Il capoverso dell’articolo 97 recita che il Ministro della giustizia promuove l’azione disciplinare contro i magistrati secondo le norme dell’ordinamento giudiziario. E perché allora non consentire una facoltà di reclamare al Ministro da parte del magistrato, il quale senta e dimostri di essere stato offeso nelle sue libertà e nei suoi diritti? Si dirà: ecco sopravvivere allora quella subordinazione, che vogliamo cancellare. Nossignori! Il Ministro risponderà di sé all’Assemblea. Allora, eccola la più alta e più compiuta garanzia; quella che deriva dalla concorde e coordinata azione di tutti i poteri dello Stato.

Credetemi, nessuna diffidenza ha ispirate le mie parole. Io sono tra coloro che per lunghi anni hanno imparato ad ammirare ed ad amare i magistrati. Soltanto la esigenza di quella più alta e compiuta garanzia e la maturata conoscenza dei fermenti deteriori di quasi e nostra umanità, mi hanno indotto a parlare, come ho parlato.

La giuria: tema arroventato. E non potrebbe non esserlo, se il bravissimo amico onorevole Turco ha detto che tale tema attiene alla torrida zona della criminalità umana.

Poche voci in favore della giuria, qui dentro. Dirò la mia modestissima e la trarrò non dell’astrazione e dalla dilettazione teorica.

Vedete: se noi vogliamo incidere la figura del giudice perfetto, o più vicino alla perfezione, dobbiamo certo concludere che il giurato è il giudice più imperfetto. Ma c’è un giudice, non dico perfetto, ma che si avvicini alla perfezione? Ciò non può dirsi neppure del giudice togato. Quante volte sbaglia! Basti pensare al numero delle sentenze che quotidianamente vengono riformate in sede di impugnazione.

Quante cose poi dovrebbe sapere il giudice? Se egli è chiamato a decidere in processi di bancarotta dovrebbe intendersi di contabilità e della complessa vicenda commerciale e industriale; se è chiamato a giudicare nei processi di aggiotaggio dovrà conoscere il minuto e complesso, talora insidioso funzionamento delle borse; se sarà chiamato a giudicare in processi di omicidio, di lesioni, di aborto dovrà intendersi di medicina legale, di psichiatria, di psicologia. Tante e tante cose insomma, per cui, non ricordo chi, volendo dimostrare l’assurdo che è nel motto notissimo: «il giudice è il perito dei periti», scriveva che allo scopo, ciascun giudice dovrebbe avere il cervello poderoso di Leonardo.

Allora il problema è un altro. È davvero il giurato, pur giudice imperfetto, del tutto incapace di rendere giustizia, o quanto meno di renderla quale la renderebbe il giudice togato? Io sento il problema, onorevoli colleghi, non secondo quanto ho letto nelle riviste o nei libri – del resto poche cose, quasi sempre uguali e non del tutto suadenti – ma secondo la mia pratica professionale. Perché la teoria non è sempre la vita, come la vita non sempre si può inquadrare negli schemi rigidi imposti dalla teoria. Consentite dunque anche a me di partire da un ricordo professionale

1921! Una frotta di giovani fascisti percorre un argine del Po nella mia terra mantovana. Dai lati della strada partono colpi di rivoltella: tra quei giovani un morto e due feriti gravi. È arrestato un giovane del paese: ne ricordo ancora, il nome. Istruttoria e rinvio a giudizio. I due feriti sopravvissuti ed altri che erano in loro compagnia riconoscono senz’altro nell’arrestato lo sparatore. Al dibattimento i confronti si ripetono fermi, precisi, senza esitazioni, mentre io rivivevo la disperazione del vecchio padre dell’imputato, il quale nel mio studio mi scongiurava di salvargli il figlio innocente. Il vecchio soffriva d’asma, vegliava tutta la notte: giurava quindi che il figliolo, quando il delitto veniva commesso, dormiva nel letto, che gli era vicino! Cosa dovevo fare? Dovevo citarlo come testimonio? Già il codice di procedura del tempo non lo consentiva. E anche se lo avessi potuto fare chi gli avrebbe creduto? Un padre può mentire per salvare la sua creatura. Io non ricordo quel che dissi allora ai giurati. Ricordo solo che alla fine l’urna rivelò cinque schede per l’assoluzione e cinque per la condanna. E fu l’assoluzione! L’assoluzione di un innocente! Si ripeté la solita storia: dopo anni, un uomo venne a morire, ma prima si confessò autore di quel delitto, indicò i complici, escludendo la partecipazione di colui che aveva, innocente, azzardato l’ergastolo.

Onorevoli colleghi, di fronte a quella imponenza di riconoscimenti il giudice togato non avrebbe mai assolto. Ai miei argomenti sulla possibile fallacia del riconoscimento, sulla possibilità dell’equivoco, sulla suggestione dell’ora avrebbe risposto: «ferravecchi del mestiere». E avrebbe condannato un innocente!

Potrei aggiungere altri casi: ma basta uno. Perché anche da quest’uno deriva un grande ammonimento! Gonzales, che ha tanta pratica di vicende giudiziarie ha scritto:

«Pur abrogata fin dal 1944 la pena capitale per i reati comuni del codice penale, le lunghe pene sono comunque pene capitali; 20-30 anni di reclusione, l’ergastolo, annichiliscono le ragioni di vivere. Allora, affidare tanto destino di uomini alla routine professionale, all’ossequio formale ed intransigente per le regole cristallizzate del diritto, in confronto delle molteplici esigenze di vita, dei molti problemi di equità e di responsabilità sociale, che affiorano nei drammi umani, ripugna al sano istinto popolare di giustizia».

Lo so, amico Scalfaro, che ti do un dispiacere, ma è certo che il giudice togato ha sempre in sé una insidia, che alla lunga non riesce a vincere: l’abito professionale. Dopo i primi fervori, se pur, come te, li ha avuti, il giudice finisce per procedere per schemi, per convinzioni ed idee acquisite. La logica delle prove nel fatto – e, badate, che in Corte d’assise è soprattutto questione di logica delle prove nel fatto – diventa in lui come anchilosata, onde perde quella duttilità, quella elasticità che sono postulate dalla diversità dei casi.

La pratica professionale insomma ottunde la sensibilità! E allora che mi importa se il giurato non sarà un pozzo di scienza giuridica, quando egli nel giudizio porta invece come una freschezza, una spontaneità, oserei dire una innocenza di indagine? Se egli procede con una sensibilità più aperta, con una comprensione, certamente non professionale, ma indubbiamente più umana?

Amico Bettiol, il giurato se tu lo interroghi non ti saprà definire, secondo i testi, in che consista la preterintenzione, non ti spaccherà l’argomento, ridotto ad un capello, nelle innumeri distinzioni dei giuristi. Così, in tema di premeditazione, non saprà dirti se per essa basta il proposito, o se ci si deve aggiungere la riflessione, e quindi alla riflessione la deliberazione, e ancora la pervicacia nella deliberazione. No, queste cose non te le saprà dire, ma nel caso concreto il giurato saprà dirti se colui, che attende il suo giudizio, ha colpito o non oltre l’intenzione, ha premeditato o non, e te lo saprà dire di istinto, per intuizione, con una comprensione umana, proprio quale è richiesta dalla gravità del giudizio!

Per questo indubbiamente grandi Presidenti di Corte d’assise: Campolongo, Vaccaro, Raimondi, Fanelli, che hanno vissuto la loro vita fra i giurati, che hanno presieduto tante giurie, quando si trattò della loro abolizione si ribellarono e proclamarono che, per i più gravi delitti, la giuria popolare è somma garanzia per la giustizia.

SCALFARO. Non c’è anche una coscienza anchilosata di difesa?

AVANZINI. Non immiseriamo il problema, onorevole collega. In questo momento io non parlo da avvocato, ma parlo da uomo che guarda al problema della giustizia: perché al problema della giustizia sia data la soluzione che più conviene alla tradizione italiana ed a quelle che sono le supreme esigenze del diritto.

Devo anche dissentire da altro collega che ha parlato da questi banchi, ed ha guardato con orrore a quella, che definì la nefasta influenza del fattore politico nei giudizi affidati alle giurie. Potrei ricordare che uno dei più fieri oppositori della giuria, l’Altavilla, finì per riconoscere che alla giuria devono almeno essere riservati i giudizi nei processi politici e in quelli passionali.

Anche qui dentro mi affiorano ricordi personali e in quest’Aula vi sono uomini che possono rendere testimonianza di quanto io dico. L’onorevole Villani, innocente, allora seduto tra gli imputati. Gli onorevoli Targetti e Grilli con me al banco della difesa. Fu nel processo chiamato allora dell’eccidio di Castello Estense. Le colonne fasciste avevano investito il Castello, in cui i socialisti si orano asserragliati per difenderlo. Scaricate le armi dall’una e dall’altra parte sul terreno, fra i fascisti, cinque morti e numerosi feriti.

Il processo non si poté celebrare a Ferrara: si celebrò a Mantova per legittima suspicione. Agguerritissima la parte civile: i migliori avvocati del foro penale ferrarese ed altri ancora. Ma non essa ci impauriva. Ci impauriva altro fatto: tra i giurati ben sette erano iscritti al fascio. Per due mesi, tutti i giorni quei sette dischetti tricolori innanzi agli occhi! Dove andiamo? Come finirà? ci domandavamo.

Ebbene, la conclusione fu che, di quindici imputati, dodici furono assolti e degli altri tre uno, il più accusato da me difeso, fu condannato a 7 anni di reclusione, altro a 4, altro a due. Condanne miti quindi, quali nessun giudice togato, nel caso, avrebbe pronunciate. È vero dunque che quei giudici popolari avevano sentito che la giustizia era un qualche cosa di più alto sul loro spirito di parte.

Potrei citare altri casi. Lo sa l’onorevole Ghidini. Lo sa l’onorevole Cappi che tratto a Cremona davanti alla Corte d’assise, domino Farinacci, quale imputato di vilipendio alle istituzioni, fu assolto.

Non vogliamo dunque esser così pessimisti.

C’è e resta sempre in fondo all’anima umana un sedimento di nobiltà e di responsabilità. Sovrattutto di responsabilità!

Fuori delle ore più convulse e arroventate della storia, nella ritornata normalità della vita, sedete sul banco del giudice il più acceso uomo di parte. Nel momento in cui dovrà decidere la sorte di un suo simile – ergastolo, trent’anni, vent’anni – quel senso di responsabilità risorgerà in lui prepotente e obbligante!

L’altro giorno l’onorevole Villabruna mi ha stupito, poi che in lui parlava un penalista di così alta statura.

Egli ha detto che per correggere la giuria fu creato l’assessorato, e fu un passo avanti. Ma non certo per la giustizia! Lasciamo il caso delle sentenze suicide.

Gli assessori eccezionalmente impongono l’assoluzione dell’imputato e allora il Presidente scrive una sentenza volutamente contradittoria e carente di motivazione, così da assicurarne l’annullamento. Ho detto eccezionalmente, perché la caratteristica più grave dell’assessorato è la subordinazione del giudice popolare al giudice togato. Così, proprio nei processi più gravi, si arriva al giudice unico.

Sì, può essere accaduto che i giurati abbiano assolto forse chi non lo meritava. In fondo, non è un gran male. «Purché il reo non si salvi il giusto pera e l’innocente». È un verso di un poeta epico italiano, che l’ha posto però sulle labbra di un saraceno. Non è un gran male. Certo, però, nei miei ricordi professionali c’è questo: io ho sicura coscienza che mai sia stato condannato un innocente dalla giuria popolare. Ho la sicura certezza, invece, che durante l’assessorato, due innocenti mi sono stati condannati. E da uno di questi sciagurati a tanto a tanto mi giunse una lettera disperata, quasi come un triste rintocco di campana! È il più funesto ricordo della mia vita professionale. E anche allora, per quella deprecata subordinazione del giudice popolare. Cinque ore di camera di consiglio, finché il Presidente impose la sua convinzione. Il giorno dopo la sentenza tre assessori, fra cui un ingegnere e un professore, si presentavano al presidente del Tribunale per chiedere di essere cancellati dalla lista degli assessori. Tanto era il peso che ingombrava la loro coscienza.

Ecco perché son sorto a parlare sovrattutto per il ripristino della giuria. Certo, vedete, bisognerà rendere la giuria più rispondente ai suoi compiti. Basterà selezionarla.

Un magistrato eletto, il Serena Monghini, il quale non è certo tenero per la giuria, al riguardo scrive: «Secondo i principî della sana democrazia, il potere è esercitato dai migliori per designazione diretta o indiretta di tutti i cittadini… Questo criterio dovrebbe estendersi progressivamente all’amministrazione della giustizia anche in Italia. Se si ritiene pertanto, che nei casi di reati più gravi l’elemento popolare debba concorrere all’amministrazione della giustizia, è opportuno che tali giudici siano scelti tra i cittadini che per le loro qualità intellettuali e morali appaiono al popolo suoi legittimi rappresentanti come i più idonei all’esercizio di tale funzione». E qui una serie di proposte, fra cui quella di elevare il titolo di studio, che consente l’ammissione al corpo dei giurati.

C’è però l’ultimo argomento, quasi il fortilizio, degli avversari della giuria. Dicono: «Ma non la sentite la iniquità? Chi viene condannato soltanto ad un mese di reclusione o a 2.001 lire di multa, può ricorrere in appello, mentre ciò è negato al condannalo all’ergastolo o a trent’anni!».

È argomento questo che può essere superato; una soluzione può essere trovata in sede di legislazione. Un’idea che mi è venuta ieri sera, pensando a queste poche cose che dovevo dirvi, e che questa mattina ho incontrata anche in qualche autore. Se, per esempio, fosse disposto che un verbale di dibattimento, rigorosamente e diffusamente redatto, raccogliesse tutte le prove dibattimentali, che cosa potrebbe vietare alla Corte di cassazione o ad una sua Sezione, di essere ammessa al riesame del fatto? In presenza cioè e delle prove dibattimentali, compiutamente raccolte, e delle prove istruttorie, essere ammessa a giudicare se anche il monosillabo, il semplice monosillabo che afferma o che nega ha corrisposto e corrisponde alla logica delle prove e alle supreme ragioni del diritto e della giustizia? E questo, non solo in ordine all’affermazione o alla negazione della responsabilità, ma in ordine anche alla più esatta definizione giuridica dei fatti contestati e delle conseguenze che ne possono derivare?

Un’idea che potrà essere elaborata.

L’altro giorno l’onorevole Bettiol diceva: tutte le norme devono essere dettate a garanzia dell’innocenza dell’imputato. È vero, è vero: questa dev’essere la meta. Ma non è men vero che questa meta la giuria popolare non allontana se essa, in fondo, esaudisce un prepotente desiderio di giustizia, ansia indomita da secoli, di tutti gli uomini, di tutte le genti.

La Cassazione unica: tema pacato, che non domanda accenti di passione.

Vediamo, su questo argomento, di non essere incantati più dalla suggestione che dalla sostanza di una formula. Cassazione unica, si dice, perché sia mantenuta l’uniformità della giurisprudenza e la sua costanza.

Innanzi tutto è possibile una uniformità di giurisprudenza? E poi, la costanza della giurisprudenza, contraddicendo al principio del continuo divenire, gioverà al progredire del diritto?

Uniformità della giurisprudenza! Essa esige l’unicità del giudice. Ora la Cassazione è unica, ma distinta in Sezioni. Tale distinzione in Sezioni compromette proprio quella uniformità. Vedete in penale, dove la materia è più angusta, dove sono sconosciuti i vasti orizzonti del diritto civile.

Il tramviere delle aziende municipalizzate è un pubblico ufficiale? Ebbene ci fu un tempo in cui una Sezione diceva sì, l’altra diceva no. Più recentemente: il ladro, che spoglia l’albero recidendone i rami, commette furto semplice o furto aggravato per aver usata violenza sulla cosa? Una Sezione diceva: furto semplice, e l’altra: furto aggravato. Ci vollero le Sezioni unite per dirimere il dissenso.

Anche i civilisti potrebbero denunciare casi di dissenso nei giudizi delle diverse Sezioni della Cassazione civile.

E badate: dovrà giungere prossimo il tempo in cui bisognerà pur guardare a questo lavoro della Cassazione.

I ricorsi sono tanti, affluiscono da tutta Italia: la decisione è lenta: impiega degli anni. Converrà dunque alla fine aumentare le Sezioni. E ciò aumenterà le possibilità di dissonanza e di dissenso nelle decisioni. Che importa allora che il dissenso e la dissonanza siano fra le diverse Sezioni della così detta Cassazione unica, piuttosto che fra le diverse Corti istituite nelle varie città d’Italia, che prima le ospitavano?

In fine: la costanza delle decisioni gioverà alla elaborazione giurisprudenziale e quindi al diritto? Certo, eletti magistrati compongono la Cassazione romana. Ma non dimentichiamo – mi scusi l’onorevole Cappi se gli rubo troppe citazioni latine – che quandoque bonus dormitat Homerus. E allora badate che la norma giurisprudenziale, uniforme e costante, considerata perfetta e immutabile, non diventi una comoda poltrona per un sonno troppo prolungato, inimico di quella necessità di progrediente elaborazione in una continua ansia di ascesa e di perfezione, senza la quale si ha la stasi, il regresso e la morte.

Le diverso Corti di cassazione, invece, ricostituite, emule dovranno essere in un grande compito di vita del diritto.

Dagli anni lontani mi viene il ricordo della più antica Cassazione d’Italia, quella di Torino. Quale stimolo essa era per il divenire del diritto!

Ci sono poi ragioni pratiche, che non devono trascurarsi. Tutti i ricorsi da essere decisi a Roma. La distanza, la spesa! Questa oggi assurge a un patrimonio. Ne consegue che il ricorso diventa privilegio di pochi; e, in regime di democrazia, onorevoli colleghi, la giustizia, il ricorso alla giustizia dev’essere possibile per tutti!

Ho certamente abusato della vostra pazienza, onorevoli colleghi, ma il tema era alto, altissimo, e domandava tutte le voci: le voci della scienza, che io non ho potuto dare, le voci dell’esperienza, che io ho tentate, ma ad un solo scopo: quello che il diritto e la giustizia, e la Magistratura che deve assicurare l’uno e l’altra, siano sempre alte e degne nelle nostre coscienze e nelle nostre mete! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Castiglia. Ne ha facoltà.

CASTIGLIA. Onorevoli colleghi, dopo tutto quello che sull’argomento è stato detto e ripetuto in quest’Aula, dopo le molte pubblicazioni che su questa parte della Costituzione sono state fatte – dalla pubblicazione del padre Lener a quella di Angeloni e Santoni, a quella di Borghese, Brescia e altri; dalle proposte della Corte suprema di cassazione, alle varie relazioni, ai lavori approntati dalla Commissione nominata dal Ministero per la Costituente – non si può sperare di dire cose nuove e di portare argomenti che non siano stati già trattati.

Ad ogni modo, se è vero che la giurisdizione è la funzione che ha per oggetto l’attuazione e la tutela dell’ordinamento giuridico, l’importanza di tale funzione è troppo evidente. Ed è per questo che l’argomento ancora merita un ulteriore esame, anche se questo esame porti necessariamente alla ripetizione di temi già svolti, ma che possono essere guardati da un punto di vista forse diverso.

La giurisdizione, dunque, mira alla stessa conservazione dell’ordinamento giuridico e, quindi, alla conservazione dei presupposti che regolano la vita politica e garantiscono la libertà del Paese.

Non è dubbio che il potere giudiziario, attraverso i suoi organi, costituisca il miglior presidio e la migliore garanzia alla realizzazione della giustizia, senza della quale non può parlarsi di libertà.

Dall’esame panoramico della parte del progetto di Costituzione che riguarda il potere giudiziario, balza evidente che essa non risponde in pieno a queste superiori esigenze di giustizia, soprattutto per la violazione di due punti, di due esigenze fondamentali: la violazione della indipendenza della Magistratura, indispensabile ai fini della sovranità del potere giudiziario, e la violazione del principio della unità della giurisdizione.

L’onorevole Cappi si è dichiarato soddisfatto di questo sistema adottato nel progetto di Costituzione, specialmente per quanto riguarda la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. È perfettamente logico, perché io ricordo che nella seconda Sottocommissione fu il più strenuo assertore di questi principî, che poi trovarono la loro consacrazione nell’articolo 97 nel progetto di Costituzione. Egli, prendendo le mosse dallo scritto del Lener e rifacendosi alla sistematica da questi adottata, ha affermato che il progetto di Costituzione è in grado di assicurare alla Magistratura sia l’indipendenza costituzionale, che quella istituzionale, e funzionale. Ma è proprio nello scritto del Lener, citato dall’onorevole Cappi, che si contengono gli argomenti fondamentali, che combattono la stessa tesi propugnata, in un primo momento in sede di Sottocommissione ribadita in questa Assemblea dall’onorevole Cappi.

Io non condivido questa visione ottimista dell’onorevole collega perché, per esempio, osservo che, a proposito della indipendenza costituzionale, manca nel progetto di Costituzione una formulazione, che consacri il principio della sovranità della funzione giurisdizionale stessa nel quadro della divisione dei poteri e conseguentemente la sua indipendenza dagli altri poteri. Come è noto, si parla di giurisdizione, ma il termine giurisdizione, in dottrina, è usato sia in senso sostanziale, come potestà sostanziale, sia anche come complesso dei poteri procedurali necessari per attuare la giurisdizione stessa. E quando più tardi, nell’articolo 97 del progetto di Costituzione, si parla di autonomia, il termine è assolutamente inadeguato ad esprimere il concetto di sovranità, che, secondo noi, dovrebbe essere espresso, perché, come osserva appunto il Lener nel suo scritto, l’autonomia è una categoria diversa ed inferiore alla sovranità. Senza dire poi che la frase usata all’articolo 94 del progetto di Costituzione, cioè «espressione della sovranità della Repubblica», si appalesa priva di valore effettivo, perché, a proposito della indipendenza dei magistrati, al capoverso successivo dello stesso articolo 94, si consacra, non quella che il Lener chiama indipendenza costituzionale, ma solo una indipendenza istituzionale. Possiamo allora dire che il progetto di Costituzione così come è formulato, non soltanto non garantisce la indipendenza della Magistratura, ma sancisce una vera e propria subordinazione della Magistratura al potere legislativo e alle vicissitudini politiche del Paese. Diceva l’onorevole Fausto Gullo, ieri, che non bisogna confondere fra la sovranità, che è del potere, e una sovranità, che si vorrebbe attribuire all’organo. Perfettamente d’accordo. Ma non è possibile arrivare alla sovranità del potere se non attraverso una indipendenza dell’organo, che è chiamato all’attuazione, all’esplicazione delle funzioni proprie del potere, vale a dire, nel nostro caso, attraverso l’indipendenza costituzionale, oltre che funzionale e istituzionale, della Magistratura.

La prima violazione dell’indipendenza. della Magistratura è costituita dalla formulazione del quarto capoverso dell’articolo 95, il quale costituisce nello stesso tempo violazione del principio di indipendenza della Magistratura e offesa all’unità della giurisdizione, dato che con esso si dà la possibilità di sottrarre qualsiasi controversia alla Magistratura ordinaria, tranne che in materia penale, la sola per la quale sia sancito il divieto di istituzione di magistrature speciali.

Ma il punto fondamentale, la questione veramente grave, che si è agitata e dibattuta da tutti i settori dell’Assemblea e che dimostra, attraverso questa molteplicità di discussioni, come sia veramente sentita, come essa debba essere affrontata e risoluta, è quella della costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura. Io non starò a ripetere tutto quello che è stato detto, ma sono del parere (e l’ho espresso anche in sede di seconda Sottocommissione) che il Consiglio Superiore della Magistratura non debba comprendere elementi estranei alla Magistratura; che la Magistratura debba essere governata da un Consiglio Superiore composto esclusivamente di magistrati, appunto per evitare quella influenza, che è influenza del legislativo, ma è anche influenza politica che può esercitarsi sul magistrato. Che cosa importa che si faccia divieto in sede di progetto di Costituzione ai magistrati di appartenere a partiti politici quando poi – come ha giustamente osservato un altro collega – la carriera, la promozione, la sede a cui dovrà essere assegnato il magistrato sono soggetti a questo giudizio, che sarà fatto, sempre secondo il progetto di Costituzione, in parte da magistrati, ma in parte da elementi estranei? I quali ultimi devono essere nominati dal Parlamento, e pertanto saranno espressione di una maggioranza parlamentare necessariamente fluttuante, che costringerà il magistrato a quello speciale abito mentale di adattamento, per cui cercherà di non essere mai né da una parte né dall’altra e cercherà di barcamenarsi, con quanto danno per l’amministrazione della giustizia è facile intendere Che dire, poi, dell’enormità di proporre che un estraneo all’Ordine giudiziario, nominato dal Parlamento, sia Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura? Lasciare che la Magistratura si governi da sé a me sembra, non soltanto un atto di riconoscimento della coerenza e della indipendenza, di cui la Magistratura ha sempre dato prova. Non è soltanto atto di omaggio e di fiducia che la Magistratura merita. È anche esigenza superiore di giustizia e necessità politica. So benissimo che non da tutti si condivide questa idea, ma in fondo è la vicenda a cui tutti gli uomini sono sottoposti.

Durante il regime fascista i magistrati si ritenevano come i più fieri antifascisti e si guardava ad essi con sospetto; adesso, perché qualche sentenza può non essere giusta, e non rispondere a esigenze di giustizia, alcuni ritengono i magistrati i più fieri reazionari. Questo è il giudizio degli uomini, il quale può essere determinato e ispirato da una serie di considerazioni che non sono sempre serene ed oggettive, ma possono essere determinate e ispirate da particolari stati di animo.

Contro questo principio, contro questa necessità, ieri parlava l’onorevole Gullo, quando diceva che l’ordine giudiziario non può essere scisso dagli altri poteri, che non è pensabile nemmeno in linea d’ipotesi alla eventualità di una ingerenza illecita degli altri poteri, per il rispetto che dobbiamo alla democrazia. Perfettamente d’accordo! Ma, nel formulare una legge che dovrà regolare l’istituto non soltanto per oggi, ma per l’avvenire, non possiamo escludere preventivamente la eventualità di una possibile degenerazione, di una deviazione e di un qualsiasi inconveniente.

E allora è assolutamente necessario che si ritorni al concetto dell’indipendenza delia Magistratura. Divisione di poteri non deve essere isolamento, diceva l’onorevole Gullo. Giustissimo! Ma altro è parlare d’indipendenza della Magistratura, che è condizione necessaria per la sovranità del potere giudiziario, altro è parlare d’isolamento. Si può arrivare a questa armonizzazione dei tre poteri attraverso altre forme; per esempio, con la nomina di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura del Capo dello Stato, il quale partecipa dei vari poteri dello Stato.

Potrebbe essere questo un modo di armonizzare le varie attività, le varie competenze ed i vari poteri; ma non più di questo io credo che si possa dire e si possa fare.

Altro argomento contrario. Si diceva: se c’è una vera democrazia, non c’è ragione di preoccuparsi eccessivamente dell’indipendenza della Magistratura. Il problema della indipendenza della Magistratura poteva essere sentito nel regime monarchico costituzionale (diceva l’onorevole Gullo), quando c’era questa posizione di antagonismo fra re depositario del potere giudiziario e popolo.

Io credo che non isolare la Magistratura, ma renderla assolutamente indipendente possa essere utile, in tutti i regimi e climi politici, per la garanzia che la Magistratura deve dare alla libertà del cittadino, che non può essere una libertà condizionata alle esigenze politiche del momento.

Diceva l’onorevole Calamandrei in altro discorso che, pur essendo convinto della esigenza che la Magistratura sia resa assolutamente indipendente, si deve al famoso caso Pilotti se la Magistratura oggi non può avere la sua completa indipendenza.

In fondo, il caso singolo – che non discuto, ma che è il caso di un solo magistrato – come i vari episodi e ricordi professionali che si sono citati in quest’Aula, non possono e non debbono influire su una questione di carattere generale che è di giustizia superiore.

Se c’è un magistrato, per esempio, che non dia garanzia di onestà, non si dirà che tutti i magistrati non compiono il loro dovere. Perché da questo esempio, per altro ingigantito e gonfiato, si deve discendere a questa conseguenza?

Altra menomazione a questa esigenza dell’indipendenza della Magistratura è costituita dal modo di composizione della Corte costituzionale, la quale, secondo il progetto, è composta solo per metà di magistrati; non solo, ma tutti i membri, tutti i giudici, tutti i componenti della Corte devono essere nominati dal Parlamento. È troppo evidente, o signori, che, se questa formulazione dovesse restare, noi avremmo una illogicità grave: la Corte costituzionale cadrebbe sotto la influenza di quel potere legislativo, che essa stessa, a sua volta, deve controllare, a proposito del giudizio sulla costituzionalità delle leggi.

Mi pare sia troppo evidente la mostruosità giuridica, troppo grande la contradizione. Ed è per ciò che questa formulazione non può e non deve essere consacrata definitivamente nella Costituzione dello Stato.

Evidentemente, bisogna correggere tutti questi difetti, bisogna colmare tutte le lacune, che non sono soltanto queste, cui ho accennato panoramicamente, se si vuole contribuire efficacemente al consolidamento di quelle libertà democratiche, che sono aspirazione di tutti.

Occorre provvedere a quel complesso di norme, che garantiscano alla Magistratura, oltre all’indipendenza dall’esecutivo, anche la indipendenza dal legislativo e l’indipendenza da qualsiasi influenza politica.

Come? Prima di tutto, riformando la Costituzione nella parte che riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (ho presentato in proposito un emendamento). Riformare poi la Corte costituzionale in modo da farne un organismo prevalentemente tecnico-giuridico e non un organismo prevalentemente politico, così com’è invece nella formulazione attuale. Estendere il divieto di cui all’articolo 95, quarto capoverso, circa la istituzione di giudici speciali, anche alle altre materie che non siano la materia penale. Ribadire il principio, di cui all’articolo 94, ultima parte, circa il divieto di appartenenza a partiti politici.

So che le obbiezioni a quest’ultimo principio sono molteplici. Si è detto che questo costituirebbe la rinuncia a certi diritti politici, quale quello dell’elettorato passivo. Ebbene, non rispondo io, a questa argomentazione: hanno risposto i magistrati della Cassazione, quando hanno detto che l’astensione dal porre candidature (naturalmente non essendo inscritti a un partito politico, non si può porre una candidatura politica) è conseguenza logica della particolare funzione dei magistrati, i quali sicuramente non si dorranno della privazione di questo particolare diritto.

Altra obiezione che si è fatta è che l’appartenenza ad un partito politico non può e non deve turbare la serenità e l’imparzialità del giudice. Neanche questo è esatto. Anche a ciò hanno risposto i magistrati della Cassazione, i quali hanno detto che, viceversa questi vincoli di subordinazione, i quali si creano fra i partiti a cui si appartiene e i dirigenti del partito e delle sue organizzazioni, in fondo debbono per forza di cose creare un vincolo di subordinazione che, anche indirettamente, può turbare la serena amministrazione della giustizia.

Contro tutto questo si è argomentata ancora ieri da parte dell’onorevole Fausto Gullo: la Magistratura così è avulsa dal popolo, non sente le pulsazioni della vita sociale.

Si tratta di frasi le quali possono creare un certo allarme, ma in ultima analisi, non mi pare che rispondano per nulla alla realtà oggettiva dei fatti. Così egli ha citato l’esempio dell’applicazione estensiva del decreto di amnistia sui reati politici, dicendo come questa applicazione estensiva abbia violato lo spirito della legge e turbato la coscienza popolare. Io vi dico: signori, non dimenticate quella che era la formulazione di quel famoso articolo 3 del decreto 22 giugno 1946, che ha dato luogo poi a tante polemiche, con il quale si escludevano dal beneficio dell’amnistia coloro, i quali avevano rivestito «una elevata funzione di direzione civile e politica». Io mi chiedo se con una formulazione così equivoca, così generica e così poco felice dal punto di vista tecnico, non si dovesse dar luogo a delle interpretazioni che, per taluni, sono perfettamente rispondenti allo spirito del decreto, mentre per taluni altri possono non esserlo. Ma il giudice deve essere al di sopra di queste competizioni. Di che cosa vi lagnate? Voi stessi avete detto che l’amnistia era uno strumento di pacificazione generale, e se questo strumento di pacificazione è stato applicato con una certa larghezza – eccessiva secondo il vostro punto di vista, non secondo il nostro – in tutto questo cosa c’entra la considerazione che il magistrato sarebbe avulso dalle pulsazioni della vita sociale? Il magistrato applica la legge secondo la formulazione che voi gli avete data; questa è la legge che voi avete data al magistrato perché l’applicasse, ed egli l’ha applicata secondo la sua coscienza, secondo la sua competenza e secondo il suo convincimento: secondo lo spirito di giustizia che lo anima.

Si dice: il magistrato è avulso dal popolo, come se il magistrato non fosse il popolo, come se il magistrato non vivesse la vita quotidiana, la vita della collettività e come se il magistrato fosse un essere diverso da quello che forma tutta l’umanità e tutto il complesso dei cittadini. Se, poi, sotto il velo di questa accusa si vuole imputare ai magistrati di non volersi uniformare ai desideri di parti politiche che prevalgono in determinati momenti, io vi dico che questa accusa è la migliore e più ambita lode che si possa fare alla Magistratura italiana.

Ora, la verità è che con queste affermazioni sbalorditive, ma inconsistenti, si vuole giustificare la negazione della indipendenza della Magistratura, per arrivare a quello al quale voi mostrate di voler arrivare: a quella subordinazione della Magistratura a esigenze che non sono di carattere puramente giuridico, ma di carattere sociale, e più che sociale, politico, per cui ad un certo momento il magistrato dovrebbe superare anche la lettera e lo spirito della legge, per creare un nuovo diritto aderente a chissà quali nuovi criterî e nuovi concetti, di opportunità contingente e di interesse non collettivo, ma partigiano e quindi fazioso.

A tutto questo, evidentemente, non possiamo aderire. Ed è per questo: perché si profila già, fin da questo momento, il pericolo contro l’indipendenza della Magistratura, il pericolo contro quella che dev’essere la disarticolazione del potere giudiziario, e quindi della Magistratura, dall’influenza politica, e bisogna insistere su questo concetto, perché il pericolo è grave, come si desume da tutto quello che è stato detto in questa Aula.

E così, le stesse ragioni militano contro i tentativo di inserire nel progetto di Costituzione l’istituto dell’elettorato per la scelta dei magistrati: i magistrati non dovrebbero più venire alla Magistratura attraverso il concorso, ma attraverso l’elezione. Certamente questa conseguenza è coerente con il punto di vista espresso ieri dall’onorevole Gullo, ma altrettanto coerente, dal nostro punto di vista, è il rifiuto di aderirvi. L’elezione del magistrato comporterebbe e aggraverebbe tutti gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, e che sono determinati dalla subordinazione della Magistratura alle influenze politiche. Si diceva ieri che il concorso, in fondo, non serve a niente, tranne che a saggiare la preparazione culturale del magistrato. E vi sembra poco? Vi sembra cosa da niente che il magistrato sia già preparato ad affrontare la vita del giudice con quel corredo di cognizioni e di conoscenze che sono indispensabili, perché la sua missione venga esercitata con quello spirito di serenità, di intransigenza, di diligenza, che tutti noi ci auguriamo? Vi sembra poco? E perché non ricordiamo tutti che i vari reclutamenti di magistrati fatti fuori dei concorsi hanno dato degli esiti, nella maggior parte dei casi, addirittura disastrosi? I magistrati che sono stati reclutati senza concorso, molto spesso si sono arenati ai primi gradi, appunto a causa della loro scarsa preparazione, della loro scarsa attitudine alla funzione di giudice.

Vogliamo estendere questi inconvenienti alla totalità, o quasi, della Magistratura, con l’altro grave incommensurabile inconveniente della soggezione del magistrato al corpo elettorale? Perché non vi è dubbio che ogni eletto è soggetto alla pressione, diretta o indiretta, del corpo elettorale. E tutto questo non quanto beneficio della amministrazione della giustizia, con quanto beneficio per l’assoluta obbedienza alle leggi, è facile immaginare!

La verità è sempre quella: si vuol creare una Magistratura obbediente, in luogo di una Magistratura che, come la nostra, ha dato sempre prova di indipendenza contro tutte le intimidazioni, da qualsiasi parte venute, in ogni tempo.

Ed allora, grosso errore sarebbe quello di aderire a questa tesi, grosso inconveniente, che anche questa volta si risolverebbe in una grave offesa a quel principio di giustizia, a quel principio di indipendenza della Magistratura, che dev’essere assolutamente, integralmente, pienamente consacrato nella Carta costituzionale della nuova Italia.

Ma il problema dell’indipendenza della Magistratura, o signori, non ha soltanto un aspetto giuridico, ha anche un aspetto economico. Io so benissimo che in sede di Costituzione non si possa risolvere il problema, che, badate, influisce enormemente sulla serenità spirituale del giudice, e quindi sulla realizzazione della sua missione; problema che influisce sul reclutamento dei magistrati, perché, se i magistrati dovessero continuare a dibattersi nelle strettoie di queste difficoltà quotidiane, come vi si dibattono i nove decimi dell’umanità, avverrebbe un vero esodo, giacché molti sarebbero costretti a lasciare la toga, e i migliori elementi, domani, non si presenterebbero più ai concorsi per iniziare una vita, che indiscutibilmente è, dal punto di vista morale, degna del più grande sacrifizio, ma che in sostanza comporterebbe una continua lotta contro i bisogni materiali, ai quali il magistrato, rappresentante di un potere dello Stato e alla cui opera di giustizia sono affidati la vita, la libertà, l’onore, gli averi dei cittadini, deve essere assolutamente sottratto.

Io credo che, sia pure in forma indiretta, l’Assemblea Costituente potrebbe e dovrebbe porsi il problema della libertà dal bisogno del magistrato e dare, se non altro, un certo avvio alla soluzione di esso. Ho presentato in tal senso una proposta di emendamento, secondo cui – non è, intendiamoci bene, la mia una proposta originale, in quanto l’ho desunta dai voti di parecchie associazioni di magistrati – secondo cui, dicevo, al Consiglio Superiore della Magistratura si commetterebbe il compito di determinare il trattamento economico da farsi al magistrato, entro i limiti dei fondi gravanti sul bilancio dello Stato e valendosi di speciali proventi da ricavarsi mediante speciali tassazioni sugli alti processuali. Dei modi per l’attuazione concreta di tale proposta, si dovrebbe naturalmente, parlare in sede opportuna.

Comunque, signori, teniamo conto che l’eroismo non può essere senza limiti e non può durare all’infinito.

Unicità della giurisdizione, dicevo. L strano che il progetto di Costituzione, mentre si preoccupa di riaffermare questo principio, con il quarto capoverso dell’articolo 95, viceversa lo vulnera in pieno e si occupa di due questioni che sicuramente, a mio modo di vedere, non influiscono per nulla sul principio dell’unità della giurisdizione e tanto meno lo menomano.

Si parla infatti di soppressione dei tribunali militari e si parla poi di una questione per noi particolarmente grave, quella della Cassazione unica e del conseguente divieto di costituire le Cassazioni regionali. A proposito dei tribunali militari, non potrei aggiungere molto a quello che ha detto così efficacemente poco fa l’onorevole Gasparotto. Egli ha delineato un quadro veramente completo della situazione e ci ha addirittura illuminati su questo problema, che non è un problema di carattere affettivo e sentimentale, come qualcuno può credere. Io non ho ragione di nascondere i miei sentimenti, e se anche il problema ha uno sfondo affettivo, esso è soprattutto di carattere tecnico e giuridico.

Osservo innanzi tutto, per amore della chiarezza, che così come è formulato, ed inquadrato nella materia del progetto di Costituzione, il problema della soppressione dei tribunali militari dà luogo ad equivoci. Invero, l’articolo 95, sesto comma, dice che «i tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra»; l’articolo VII delle disposizioni transitorie afferma che «entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i tribunali militari».

Questo articolo delle disposizioni transitorie, dunque, si occupa della revisione di questi organi speciali di giurisdizione. Capoverso: «Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente discussione si provvede con legge alla soppressione del Tribunale Supremo militare e alla devoluzione della sua competenza alla Cassazione».

Dunque, nello stesso articolo si parla di soppressione del Tribunale Supremo e di devoluzione della sua competenza alla Corte di cassazione; ma a proposito dei tribunali militari di prima istanza non si parla di soppressione e della conseguente devoluzione, che sarebbe automatica, ad altro organo giurisdizionale: si parla unicamente di revisione, che non si sa in che cosa debba poi praticamente ed esattamente consistere.

Signori, la questione, il problema, non è però questo. Da tutto lo spirito del progetto di Costituzione si rileva come la direttiva sia la soppressione; anche se quell’articolo VII delle disposizioni transitorie è formulato in maniera così equivoca, come ho esposto all’Assemblea.

Noi conosciamo su per giù gli argomenti che si formulano in favore della tesi della soppressione: non ultimo quello esposto nella relazione di minoranza della Commissione per lo studio dell’ordinamento della giustizia militare, del componente, avvocato Palermo, che dovrebbe essere l’obiezione, vorrei dire, fondamentale, quella cioè che dovrebbe addirittura togliere qualsiasi dubbio in proposito, e cioè che essendo la giustizia militare «alle dirette dipendenze del potere esecutivo, e, più particolarmente, del Ministero della difesa e della autorità militare» offre al potere da cui dipende la possibilità di essere usata come «organo di giustizia politica, come arma liberticida, e strumento di governi autoritari».

È strano che ci si preoccupi che la giustizia militare sia soggetta all’esecutivo, nello stesso momento in cui non ci si preoccupa che la Magistratura ordinaria, la quale giudica dei fatti che possono essere commessi da tutta la collettività, sia soggetta al legislativo, e sia soggetta anche e soprattutto a quelle influenze politiche di cui ho parlato, che potrebbero renderla, più che organo di giustizia politica, organo di protezionismo di una faziosità intollerante.

Ma, signori, se anche questo fosse vero, tutto ciò non inciderebbe sull’opportunità, sulla necessità direi, di conservare i tribunali militari anche in tempo di pace, perché basterebbe riformare questa parte dell’ordinamento della giustizia militare là dove questo inconveniente può essere denunciato.

Unità della giurisdizione offesa dall’istituzione dei tribunali militari? Errore, signori, errore gravissimo, perché prima di tutto noi sappiamo, nella pratica, che tutto questo non è vero e non è esatto.

Ma, d’altra parte, se vogliamo esaminare la questione da un punto di vista strettamente giuridico, possiamo dire che, se riduciamo – questo sì – la competenza dei tribunali militari in tempo di pace alla conoscenza soltanto dei reati oggettivamente indiziari, senza quei tali casi di connessione che, secondo l’attuale Codice militare, estendono la competenza sino ai reati comuni commessi dai borghesi, possiamo considerare i tribunali militari come una vera e propria giurisdizione parallela a quella ordinaria, dotata di leggi proprie.

Si è detto che il militare, per tale sua qualità transitoria, non perde la qualità di cittadino, e pertanto deve essere giudicato, alla stregua di tutti gli altri cittadini, dal giudice ordinario, con la procedura ordinaria. L’errore di questa teoria, consiste in una concezione eccessiva dei diritti del cittadino, concezione che trascura quelle che sono le esigenze preminenti del servizio militare, perfettamente conciliabili coi diritti individuali. La questione del resto non è nuova: fu agitata, in Francia, e tenne il cartello per molto tempo. Si tentò la soppressione dei tribunali militari, ma poi si riconobbe la necessità di ricostituirli. Così come l’onorevole Gasparotto ha esposto, in tutti i Paesi esistono i tribunali militari. Né c’è bisogno di ricorrere al solito esempio della Russia, come se fosse quello l’unico Paese da prendere ad esempio. Tutti i Paesi europei hanno i tribunali militari anche in tempo di pace.

Si dice che i tribunali militari avevano la loro ragion d’essere quando l’organizzazione militare era molto più imponente di quella che non sia ora. La risposta è semplice: la disciplina, che viene indiscutibilmente garantita, maggiormente rafforzata, e resa valida, dai tribunali militari, è necessaria tanto in un grosso, quanto in un piccolo esercito. Anzi in un periodo come quello dal quale noi usciamo, in cui i vincoli disciplinari e il sentimento di coesione sono notevolmente allentati, considerata la situazione caotica nella quale ci siamo trovati, dobbiamo riconoscere che il problema è addirittura di ricostruzione, e quindi il freno, il vincolo della disciplina dev’essere più efficacemente tenuto. E credo che nessuno possa dissentire da una simile considerazione.

Si dice che la giurisdizione militare è conquista della casta militare di cui costituirebbe quasi un privilegio. Anche questa è una inesattezza, perché se è vero che il servizio militare obbligatorio è un dovere del cittadino verso la società, la giurisdizione penale militare non ha la caratteristica del privilegium fori, e diviene una specialità della giurisdizione penale, giustificata anche dalla specialità della legge da applicare.

Si è lamentata la preponderanza dei giudici di fatto, perché, come sono costituiti oggi i tribunali militari, del collegio giudicante fa parte un solo giudice tecnico, mentre gli altri sono giudici di fatto. Questa osservazione viene proprio da quelli che parlano della ricostituzione della giuria, che deve giudicare in maniera preponderante sul fatto.

Se v’è questo inconveniente, che i giudici di fatto hanno preponderanza sui giudici tecnici, anche questo può essere oggetto di riforma nell’ordinamento della giustizia militare. Anziché un giudice tecnico, si insedieranno due tecnici nel collegio giudicante; ma tutto questo non inficia per nulla l’esigenza del mantenimento della giurisdizione militare.

Altra obiezione: riducendo i quadri si ridurrebbero praticamente i tribunali militari a sei in tutta Italia, con grave danno dell’immediatezza fra le parti e il giudice.

Ma neanche questa è un’obiezione seria e consistente, perché si possono istituire, come sono stati istituiti durante il periodo testé trascorso, delle sezioni distaccate di tribunali militari che adempiano perfettamente alla loro funzione e alla loro missione.

Per converso, vi sono delle esigenze etiche por la conservazione, e sono quelle inerenti alla coesione della compagine militare, alla saldezza dei principî di gerarchia e di disciplina, alla esigenza della immediatezza della repressione che sono sempre valevoli sotto qualsiasi regime o spirito politico che possa dominare il Paese.

Avete sentito l’inconveniente denunciato dall’onorevole Gasparotto nel caso in cui la competenza del reato militare fosse sottratta al giudice militare per essere affidata al giudice ordinario, oberato già di lavoro, col risultato di giudicare il militare colpevole quando sarà tornato alla vita civile. E v’è anche la giusta osservazione che chi non vive nell’ambiente militare e chi è lontano dalla mentalità militare non può avere una esatta conoscenza delle cose militari, e pertanto non è in grado di valutare convenientemente i fatti, riportandoli all’ambiente nel quale sono avvenuti e alla mentalità di chi ha commesso il reato. Questo riporto può farlo molto meglio il magistrato militare – che vive nell’ambiente e che partecipa della mentalità militare – che non il magistrato civile.

Altri colleghi hanno portato la voce della loro esperienza e dei loro ricordi professionali. Io non ne porto. Ma, come giustamente è stato osservato, è molto difficile che noi avvocati ci siamo qualche volta lamentati di una sentenza del tribunale militare, perché, ad onor del vero, devo dire che quasi sempre (salvo eccezioni trascurabili che non possono che confermare la regola) i tribunali militari hanno adempiuto veramente e con senso di consapevolezza a questa missione di giustizia che è stata loro affidata.

Altra questione: le Cassazioni regionali. Mi ci fermerò brevemente perché il collega Avanzini ha detto le ragioni che militano per l’istituzione delle Cassazioni regionali.

Unità della giurisdizione offesa? Nemmeno per idea, perché fra le varie sezioni della Cassazione unica vi sono divergenze nella soluzione di taluni problemi giuridici, tanto che si è dovuto costituire l’ufficio del massimario per il coordinamento delle varie massime della Cassazione, senza che per questo possa dirsi violata l’unità del diritto o della giurisdizione. Che cosa vieta dunque che vi sia, accanto – per esempio – alla terza sezione penale, una quarta sezione che risieda a Napoli, una quinta che risieda a Torino e una sesta che risieda a Palermo?

Invece di Cassazioni regionali, si potrà parlare di sezioni della Cassazione unica, sezioni la cui esigenza è troppo evidente per le ragioni già dette dal collega Avanzini e perché rispondono alla necessità di decentramento della giustizia che è esigenza della moderna complessa dinamica vita sociale.

Consentite, o signori, che mi trattenga ora brevemente sull’ultimo argomento che ha formato oggetto della più appassionata discussione in questa Assemblea: il problema della giuria.

Il collega Avanzini – in fondo – ha argomentato (così come ha argomentato ieri l’onorevole Fausto Gullo) soprattutto su quelli che sono i suoi ricordi personali e professionali.

Ma, o signori, chi di noi avvocati non ricorda di aver vinto una causa che credeva di dover perdere e di aver perduto una causa che credeva di dovere vincere? Chi di noi non si è lamentato, durante la vita professionale, di una sentenza che ha ritenuto ingiusta e quindi ha – vorrei dire – solidificato una sua impressione su questa, che ha ritenuto una grande ingiustizia?

Ma, così come vi sono state giurie che hanno assolto innocenti che sembravano raggiunti da prove imponenti, vi sono state giurie (e non vi affliggerò con dei ricordi personali che non hanno poi nessuna importanza), che hanno condannato, senza possibilità di previsione, senza possibilità di appello, degli innocenti a delle pene che vanno fino a trent’anni, che vanno all’ergastolo. Perché noi nel ricordare questi episodi della vita professionale ricordiamo soltanto quelli che fanno comodo alla nostra tesi personale? Quante volte la giuria è caduta in errore, ha giudicato male per influenze o politiche o paesane o di interessi più o meno larvati, confessabili o non confessatibi per tutto quel complesso di elementi che formano un ambiente tanto pericoloso nel quadro della giustizia amministrata dal giudice popolare che non può essere serena come deve essere quella amministrata dal giudice togato? Signori, dice il collega Avanzini: siccome il giudice togato sbaglia pure lui e lo dimostra il fatto del gran numero di sentenze in grado di appello, così può sbagliare il giurato. Ma l’errore del giudice togato lo potete correggere, se v’è una Corte di appello che giudichi in secondo grado, ma l’errore del giurato, del giudice non togato, non potete rimediarlo perché non v’è e non vi può essere nessuna possibilità di revisione di fatto, perché l’espediente suggerito dal collega Avanzini, quello di conferire alla Cassazione la potestà di una revisione del fatto, attraverso un verbale di dibattimento che sia completo, non è espediente che possa essere attuato. Nemmeno per sogno! Del resto l’idea non è nuova, perché è stata attuata anche in Inghilterra fin dal 1908 quando si istituì una Corte di revisione che rivedeva i giudicati della giuria. Ma è assurdo e questo ha segnato una grande decadenza dell’istituto della giuria popolare. L’idea suggerita dal collega Avanzini è inattuabile per due ragioni soprattutto: come possiamo affidare alla Cassazione, la quale è una giurisdizione che deve occuparsi esclusivamente delle violazioni di diritto, una giurisdizione di merito, di fatto, snaturando quella che è la natura dell’organo che noi vorremmo investire di questa conoscenza? E poi non vi accorgete che proprio così verreste ad annullare questo principio della sovranità popolare della giuria, conferendo al giudice togato (proprio a quel giudice togato al quale voi vorreste sottrarre la conoscenza dei delitti affidati alla competenza della giuria popolare) questo giudizio di revisione il quale potrebbe naturalmente ritornare sulla decisione del sì o del no della giuria e fare precipitare nel nulla questo principio della sovranità popolare della giuria?

Proprio in questo preteso rimedio si rivela il più forte, il più grosso inconveniente della giuria popolare. Ma poi, signori, non vi sono due ragioni, v’è una serie di ragioni, una quantità enorme di ragioni le quali sono tutte contro il ripristino della, giuria popolare. Lasciamo stare tutto il patrimonio di ricordi di ingiustizie più o meno volontarie da parte della giuria popolare.

Ma quando mi si dice, per esempio, come ha fatto l’onorevole Avanzini, che il magistrato togato, appunto per quella routine professionale alla quale è abituato non è più sensibile come dovrebbe essere il giudice non togato, il giudice popolare, io protesto, signori, contro questa affermazione e mi sorprende che venga da un collega che è anche avvocato. Noi viviamo la vita delle nostre corti, dei nostri tribunali, partecipiamo a questa amministrazione della giustizia.

Non mi sono mai accorto che il giudice togato non fosse all’altezza della situazione, non soltanto riguardo alla conoscenza, alla preparazione, ma anche in quanto a sensibilità, a quello scrupolo che si accompagna sempre nello sforzo del giudice che deve giudicare il suo simile. Non posso lasciar passare sotto silenzio una affermazione che lede la dignità della Magistratura. Io devo rendere atto di omaggio – io che non sono magistrato – ai magistrati, a quelli che possono essere considerati nella nostra vita professionale, per certi riguardi, i nostri antagonisti. Io rendo omaggio a questo spirito di serenità, che non è affatto insensibile a tutte le esigenze di vita vissuta.

Il giurato – dice il collega Avanzini – non saprà definire in termini giuridici un istituto giuridico, ma lo saprà praticamente applicare.

Vorrei vedere come farebbe il giurato ad applicare, per esempio, quella famosa disposizione dell’articolo 133 del Codice penale, secondo cui la valutazione del reato deve essere, fra le altre cose, desunta dall’intensità del dolo o dal grado della colpa. Vorrei vedere come si può spiegare ad un giudice popolare, ad un complesso di giudici popolari i quali saranno lasciati soli tra loro a decidere, come si potrà fare a spiegar loro e a far applicare, per esempio, il capoverso dell’articolo 56, a proposito della desistenza volontaria, e far definire i confini fra gli atti non punibili della desistenza e il tentativo punibile. Tutto ciò affatica coloro che hanno una preparazione giuridica che si è consolidata attraverso gli anni, come il non tecnico potrà affrontare problemi di questa specie? Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Diceva ieri l’onorevole Fausto Gullo che Finocchiaro Aprile nel 1905 affermava che i processi di Corte d’assise erano in diminuzione e da parte sua aggiungeva che se è vero che la pena ha una funzione educativa, evidentemente bisogna dedurre che la giuria aveva efficacemente contribuito a questa riduzione giudicando bene.

Oh signori, ma la riduzione di certi reati o l’aumento di essi viene da tali e tante circostanze, viene da molteplici moventi che agiscono in un senso o nell’altro, per cui non si può dire che la diminuzione di processi annunziata cinquanta anni fa da Finocchiaro Aprile dipendesse unicamente dal fatto che la Corte di assise avesse giudicato bene o male, e dir ciò è assolutamente arbitrario. Il punto fondamentale su cui si fondano i sostenitori della giuria popolare, è la necessità della separazione tra il giudizio di fatto e il giudizio di diritto.

Ma, signori, come si fa a distinguere l’esame di fatto dall’esame di diritto se fatto e diritto non sono due entità che possono nettamente separarsi, ma che inevitabilmente si amalgamino e si confondono? Ogni valutazione di fatto importa di necessità una valutazione di diritto. Basti pensare all’articolo 133 del Codice penale già da me citato, o al congegno dell’articolo 62 dello stesso Codice, sulle circostanze attenuanti comuni, e così via. Io non starò a ripetere quello che hanno detto giuristi di chiara fama. Si sono fatti dei nomi qui ai quali potremmo aggiungere quelli di Carrara, Carnelutti, Pessina, Del Giudice, Altavilla, Maraviglia e Jannitti Piromallo, che ha scritto un pregevole opuscolo sulla abolizione delle Corti d’assise, tutti contro l’istituzione della giuria popolare. E vi ricordo le parole di Pessina a proposito di questo argomento, che cioè non è sempre possibile separare la questione di fatto dalla questione di diritto e spesso su problemi giuridici deve sentenziare il giudice popolare. Sono parole sacrosante sulle quali dobbiamo convenire come quelle di Del Giudice: «La distinzione tra fatto e diritto in Corte di assise è artificiosa e non rispondente a verità». Ed allora viene meno uno dei pilastri fondamentali su cui si vuol poggiare l’esigenza della istituzione della giuria popolare.

L’equità. Qualcuno ravvisa la ragion d’essere della giuria popolare nella sua funzione equitativa, come se fosse possibile svincolare il giudizio, sia pure fatto dal giurato, dalle norme fondamentali e dai principî di diritto. Se la giuria facesse questo, dimostrerebbe di aver fallito la sua missione.

Possiamo parlare di equità come una fonte di diritto autonoma? È assurdo. Violerebbe con ciò il principio della certezza della norma giuridica. Ma se per equità s’intende quel complesso di considerazioni che possono attenuare un giudizio e determinare quella che noi chiamiamo comunemente la benevolenza nei riguardi dell’imputato, la comprensione più umana e benigna di certi fatti delittuosi, in questo il giudice togato, che ha a sua disposizione il rimedio, perché nel giuoco delle diminuenti può benissimo fare entrare quella sua considerazione, può attenuare di molto la responsabilità secondo le particolari condizioni di ambiente, di mentalità, di educazione.

Quante volte noi abbiamo fatto appello a questa equità, a questo senso di benevolenza e di umana comprensione, che non è privilegio del giudice popolare ma anche e soprattutto del giudice togato! Quante volte abbiamo visto sentenze rispondenti a questo criterio di equità, anche se da un punto di vista strettamente giuridico potessero presentare lacune, anche se fossero state superate delle concezioni giuridiche strettamente rigorose! Eppure, questo è stato fatto dai magistrati togati. «Per fare direttamente partecipare il popolo all’amministrazione della giustizia», si è detto.

Signori, in nome del popolo si possono fare e soprattutto dire tante cose; ma se la funzione di amministrare giustizia in regime democratico deriva, come tutti i poteri dello Stato, dalla investitura popolare, che cosa vogliamo di più?

«Il popolo deve direttamente giudicare». Come se il magistrato non fosse il popolo. Solo per il fatto di aver frequentato le Università e superato il concorso si dovrebbe ritenerlo avulso dal popolo come un essere che viva una vita autonoma e diversa da quella della comunità. Anche questa obiezione, consentitemelo, ha un carattere non serio, ma semplicemente demagogico, che deve assolutamente essere bandito.

Le ragioni, viceversa, che militano per l’abolizione, sono molte e sono state tutte esposte. Le influenze politiche vi sono e vi saranno sempre, onorevole Avanzini. Se l’influenza politica è in noi, immaginiamo quella che può essere nel giudice popolare che della sua funzione non fa norma di vita e che non ha acquistato quella sensibilità, quella abitudine a giudicare, quella certa mentalità e quella particolare tendenza a valutare i fatti degli uomini senza lasciarsi fuorviare da considerazioni diverse da quelle che non siano le esigenze di una rigida applicazione della norma giuridica. Pensate voi che cosa potrebbe essere il giudizio nel processo Graziosi, tanto per citarne uno, e in tutti quei processi che appassionano la stampa. Pensate come il clima rovente della passione sia alimentato da certa stampa che attualmente specula sui più bassi istinti dell’uomo. Questa stampa, la quale tenta di orientare l’opinione pubblica in un senso o nell’altro, quanto male fa e potrebbe fare sulle decisioni di una giuria popolare che non fosse corazzata contro questa seduzione, contro questa influenza deleteria! A tutto questo bisogna pensare, specialmente in questo clima di sovvertimento morale, in questa epoca spaventosamente piena di delitti. La stampa può essere orientata in certo modo, per ragioni intuitive. E la giuria popolare può a sua volta essere irresistibilmente influenzata dalla campagna di stampa, nel suo giudizio.

Quindi: pressione e impreparazione. Non soltanto impreparazione giuridica, ma impreparazione in quel complesso di cognizioni, le quali molto spesso sono insufficienti al giudice, che pure ha percorso tutti i gradi della carriera; immaginate se non debba essere insufficiente anche in colui il quale occasionalmente viene chiamato a prestare la sua opera di giudice, e normalmente non possiede il curriculum di studi di un magistrato. Impreparazione in quella particolare capacità di spersonalizzazione, tanto necessaria per riportare ciò che si apprende alla mentalità e alla personalità dell’imputato, sempre diversa da quella di chi giudica.

Mancanza di responsabilità: il «sì» o il «no», puro e semplice, sottrae spesso il giudice popolare al dovere di un processo logico, specialmente quando questo sia complesso e difficile; e spesso la risposta è determinata da impressioni superficiali, da sensazioni errate, o da ragioni indipendenti da una convinzione, formatasi attraverso la raccolta delle prove ed attraverso un procedimento logico non soltanto formale ma anche sostanziale.

Queste sono alcune delle ragioni che militano contro l’istituzione della giuria popolare; problema, questo, che non dovrebbe riguardare nemmeno la Costituzione. Ma poiché v’è un articolo, il quale consacra questo principio, è opportuno proporne, come io ho fatto, la soppressione, per i motivi esposti.

Onorevoli colleghi, non ho la pretesa di avere passato in rassegna tutti i problemi; ho voluto esaminare più rapidamente possibile taluni aspetti di questo problema fondamentale della giustizia, che è problema anche di libertà; perché – sia detto ancora una volta e non per fare un’affermazione la quale abbia carattere demagogico – non v’è libertà senza giustizia. Mi auguro che dallo sforzo e dalla collaborazione di tutti, come anche dall’urto delle più disparate opinioni ed idee possa sorgere quella direttiva, che possa ispirare la nostra Costituzione a questi principî di libertà e di giustizia, in modo che questo complesso di norme possa salvaguardare le istituzioni democratiche del Paese e possa dimostrare ancora una volta che l’Italia è la culla del diritto. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

Presentazione di relazioni.

TREVES. Chiedo di parlare per la presentazione di due relazioni.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TREVES. Ho l’onore di presentare le relazioni ai seguenti disegni di legge:

1°) Approvazione del Trattato di amicizia e relazioni generali fra la Repubblica italiana e la Repubblica delle Filippine, firmato a Roma, il 9 luglio 1947;

2°) Approvazione del Trattato di pace e relativo scambio di note fra la Repubblica italiana e la Repubblica di Cuba, firmato all’Avana il 30 giugno 1947.

PRESIDENTE. Queste relazioni saranno stampate e distribuite.

La seduta termina alle 12.35.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXIX.

SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Caccuri

Candela

Scalfaro

Gullo Fausto

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Scelba, Ministro dell’interno

Pajetta Gian Carlo

Sansone

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

BINNI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Caccuri. Ne ha facoltà.

CACCURI. Onorevoli colleghi, nel momento in cui si discute e sta per decidersi della posizione costituzionale del potere giudiziario, io vorrei che fosse più vigile che mai il senso di responsabilità di tutti i componenti di questa Assemblea Costituente. Trattasi, invero, come vi è noto, di uno dei più gravi e delicati problemi, di un problema vecchio ma sempre nuovo, che non interessa soltanto – come a prima vista potrebbe sembrare – quanti fanno parte dell’amministrazione della giustizia, ma riguarda la Nazione intera, poiché, ben è stato detto, tocca le fondamenta e l’essenza stessa dello Stato democratico, che non può avere ordinato assetto se il potere giudiziario non è posto in grado di custodire liberamente le leggi e di impedire in ogni caso la violazione di esse.

È per questo che, non solo i magistrati, ma la parte più sana del popolo italiano guardano in questo momento con particolare interesse ai lavori di questa nostra Costituente, sicuri che in un risorto clima di libertà democratica sarà finalmente attuata quella riforma che da un quarto di secolo si attende, quella riforma, cioè, diretta ad assicurare la vera indipendenza della Magistratura, indipendenza imposta più che dal prestigio dei magistrati, dal diritto del popolo italiano a vivere in un regime di libertà e di giustizia.

Il progetto di Costituzione, al riguardo, in verità ha deluso: ha deluso poiché, pur affermando magnifici principî, ha trovato modo di far rientrare dalla finestra quella possibilità di ingerenze politiche che pur aveva cacciato dalla porta, e contiene delle proposte che infirmano in pieno i presupposti di un ordine giudiziario distinto: l’autonomia dei giudici e la unicità della giurisdizione. Esaminerò brevemente questi due elementi di indipendenza del potere giudiziario. L’unicità di giurisdizione, oltre che garanzia di libertà democratica, è strettamente connessa, a mio parere, con l’autonomia del potere giudiziario, poiché è ovvio che tale posizione di autonomia è indubbiamente scossa se si ammette che un altro potere, l’esecutivo o il legislativo, possa sottrarre ad esso una serie di rapporti istituzionalmente appartenenti alla Magistratura ordinaria. Creare giurisdizioni speciali, infatti, significa limitare il potere giudiziario, significa comprimere la sua autonomia, significa infirmare il concetto essenzialmente unitario della potestà sovrana di amministrare giustizia, poiché se fosse in linea di principio consentito al Governo o alle Camere di creare, senza limiti, organi speciali di giurisdizione, potrebbe ben essere sottratta alla Magistratura anche tutta o buona parte della materia ad essa demandata, svuotando così praticamente di contenuto la funzione del potere giudiziario e togliendo per conseguenza ai cittadini la garanzia di tutela dei loro diritti.

Né vanno taciuti i gravi inconvenienti che la molteplicità delle giurisdizioni porta con sé, inconvenienti che infirmano la certezza stessa del diritto, tanto necessaria alla pace sociale; inconvenienti che vanno dai conflitti di competenza alla contraddittorietà delle decisioni, all’incertezza in ordine al giudice stesso da adire, giacché è noto che col frazionamento del potere giudiziario riesce talvolta difficile agli stessi tecnici determinare con precisione la sfera di competenza degli organi speciali. Ma, è stato osservato che il giudice togato non ha la capacità per decidere su certe materie; e peraltro le giurisdizioni speciali, si è detto, sono legittimate dalla necessità di sottrarre determinati rapporti ai rigori del diritto codificato, ai quali i giudici ordinari sono naturalmente fedeli, per affidarli al giudizio di tecnici più aderenti ad eccezionali e a nuove esigenze sociali.

A dimostrare infondata la prima asserzione, non c’è in verità da spendere parole, tanto evidente appare la capacità del magistrato ad acquistare, più di un qualsiasi altro cittadino che non ha né la sua esperienza, né la sua cultura, né il suo abito giuridico, la necessaria specializzazione anche in materie diverse da quelle comuni.

In ordine alla necessità, poi, di rendere flessibile l’attività giurisdizionale, va rilevato che ciò significherebbe snaturare il concetto stesso di giustizia, significherebbe volere una prestazione di giustizia pieghevole ai criteri della politica contingente, significherebbe pretendere di sostituire alla volontà normativa una arbitraria e soggettiva valutazione. Giustizia, onorevoli colleghi, vuol dire certezza giuridica, vuol dire unità e uniformità di applicazione delle leggi vigenti, in base al principio dell’uguaglianza dei cittadini rispetto ad esse. Se nuove esigenze sociali impongono la creazione di nuove norme, si provveda pure a crearle ed il giudice, siatene certi, le applicherà fedelmente, poiché egli, fedele alle leggi, non si presta all’arbitrio, ma non vuole affatto rimanere custode di un diritto allontanatosi dalla vita. L’indole di alcuni rapporti o di determinati gruppi di controversie può pur far apparire idoneo il contributo di elementi tecnici, e questi elementi, purché in numero modesto (dico modesto per evitare che attraverso l’immissione di una troppo larga massa di estranei al potere giudiziario si possa ugualmente esautorare il principio dell’unicità di giurisdizione) possono ben essere utilizzati nei collegi giudicanti; ma io penso che tale esigenza non deve essere sopravvalutata al punto da ritenere indispensabile la creazione di organi speciali invece che di sezioni specializzate degli organi ordinari.

E se è vero che alcune categorie di giudizi debbono essere sottratte a procedure lunghe e formalistiche, io ritengo che a tale necessità si potrà ovviare con l’istituzione di norme procedurali più rapide, e non con le giurisdizioni speciali, che sono sempre perniciose per la unità del diritto e per la garanzia dei cittadini. Come invece è stato realizzato nel progetto di Costituzione il principio della unità della giurisdizione? Il progetto innanzi tutto limita la competenza del potere giudiziario soltanto all’attività giurisdizionale civile e penale, esclusa quindi quella amministrativa. Ma, anche in relazione a tale limitata attività, non viene affatto sancita l’espressa abolizione dei giudici speciali attualmente esistenti e se ne prescrive invece nelle disposizioni transitorie la revisione entro cinque anni; il che importa per implicito la possibilità, almeno per quanto riguarda le giurisdizioni civili, di conferma da parte del potere legislativo con le modalità di cui all’articolo 95, quinto comma. E quando, poi, si tiene presente che con le stesse modalità, con la maggioranza cioè assoluta delle Camere possono essere creati ad libitum nuovi giudici speciali, si comprende di leggieri quanto infirmato sia rimasto nel progetto il principio dell’unità della giurisdizione, tanto necessaria per l’effettiva tutela, come ho già detto, dei diritti dei cittadini.

Ed al riguardo degli organi speciali e della partecipazione del popolo all’attività giurisdizionale, mi corre qui l’obbligo di rilevare l’inopportunità di sancire con una norma costituzionale l’istituto della giuria nel procedimento di Corte d’assise, come è stato stabilito nell’articolo 96 del progetto.

Non starò qui ad esporre nei dettagli i numerosi difetti dell’istituto della giuria, che lo stesso Carrara accusò del vizio radicale di sostituire l’urna della giustizia: quei difetti che al Carmignani, quando fu istituito il giurì in Italia, fecero lasciare la toga in segno di protesta e fecero dire al Manzini essere la predetta istituzione il più radicale e rancido residuo delle idee, o filosoficamente ingenue, o settariamente demagogiche, della Rivoluzione francese e che l’esperienza ha condannato coprendolo di ridicolo.

Non starò, dicevo, ad esporre i numerosi difetti. Accennerò ai principali e più gravi, che riguardano i requisiti dei giudici, la natura della decisione che ne promana, e soprattutto la mancanza di ogni saldezza alla pietra angolare sulla quale dovrebbe poggiare l’edificio della giuria, cioè la pretesa netta separazione, nella materia del giudizio, tra il fatto ed il diritto.

Che non sia possibile in verità separare il fatto dal diritto è ormai quasi concordemente affermato dalla migliore dottrina, poiché in effetti una cognizione del fatto, separata dalla statuizione del diritto, disconosce quella intima connessione tra il giudizio storico ed il giudizio critico che è propria di ogni giudizio giuridico.

L’inseparabilità venne riconosciuta anche dallo stesso Casorati, che fu l’autore principale della legge del 1874, e che non potette non ammettere che, eliminato pure il nomen juris nelle questioni sottoposte ai giurati e tolta qualsiasi denominazione giuridica, non rimaneva meno insoluto il quesito della separazione del giudizio di demarcazione fra il fatto e il diritto.

Ma la dimostrazione più convincente si trova nelle parole di un insigne docente e magistrato, il professor Del Giudice, il quale rilevava che il giudizio dei giurati implica in ogni caso l’applicazione di una nozione giuridica astratta, il reato e le sue conseguenze, al fatto concreto, e che, soprattutto, la inseparabilità fra l’accertamento del fatto e la indagine del diritto è nel giudizio che deve promanare dai giurati sulla colpevolezza.

Il giurì non si limita, infatti, a giudicare se un fatto sia avvenuto o se l’abbia commesso l’imputato; ma giudica pure se l’imputato sia colpevole; e, ai sensi di legge, colpevole vuol dire imputabile e responsabile. Ora, come può affermarsi che il concetto di colpevolezza, il quale implica le nozioni giuridiche d’imputabilità e responsabilità, sia un elemento di puro fatto?

L’impossibilità di distinzione, poi, appare più chiara se si tengono presenti le disposizioni del nuovo Codice in ordine alle cause che escludono o che attenuano la imputabilità o la responsabilità, alle circostanze che aggravano o attenuano il reato, alle indagini sulla personalità del delinquente, sia per le pene, che per le misure di sicurezza, rispetto alle quali sarebbe assurdo ogni riferimento al puro fatto materiale.

Non è possibile adunque, dicevo, dividere il fatto dal diritto; ma anche se lo fosse, il solo buonsenso non basterebbe, come è stato sostenuto, a ben giudicare del fatto, giacché occorrerebbe un’opera critica a cui il giurato in genere non è adatto. Il giudice deve raggiungere e cogliere la verità nella realtà del fatto materiale mediante i mezzi di prova; al giurato manca invece ordinariamente il requisito primo ed elementare per penetrare la realtà, l’attenzione, nel cui cerchio deve il mondo esteriore essere compreso per entrare nella vita dello spirito. L’incompetente, dopo le prime vivaci impressioni, subito si stanca, non riesce a seguire con le debite cure lo svolgimento e le risultanze del dibattimento e giunge alla decisione con la mente annebbiata e confusa. È fuori dubbio, inoltre, che la valutazione delle prove è il risultato di una tecnica particolare che il giudice acquista solo dopo un lungo periodo di esercizio professionale; e qualsiasi trattato di psicologia giudiziaria dimostra che non basta l’intelligenza naturale, non esercitata, per valutare i risultati di un mezzo probatorio. Ma il giurato, oltre ad essere un giudice genericamente incapace ed il meno adatto a resistere alle pressioni che vengono dall’esterno, è specificamente incompetente, poiché per lo più in lui manca anche la minima conoscenza del diritto penale e delle scienze complementari, cui si deve pur far ricorso per poter dare un consapevole giudizio.

Né è vero, come qualcuno ha sostenuto, che il giurato rappresenti la coscienza del Paese. Questa, in realtà, abbraccia due momenti: l’uno dei quali è la coscienza comune, l’altro è la coscienza riflessiva (come dice il Carrara) guidata dall’arte critica.

La vera coscienza del Paese è l’unità di questi momenti, ed il verdetto, per esserne l’esatta emanazione, non può prescindere dalla parte critico-riflessiva.

Ora, se ciò era vero anche quando lo scriveva Pessina, lo è maggiormente oggi che il processo tende a divenire sempre più tecnico ed è in vigore un sistema penale che dà maggiore importanza alle condizioni personali del delinquente e che quindi richiede nel giudice una maggiore somma di cognizioni tecniche e giuridiche. Anzi, ciò renderebbe necessario che insieme ai giudici togati prendessero parte, in certi casi, all’emanazione della sentenza unica persone provviste di cognizioni scientifiche speciali, che sostituissero i consulenti tecnici, presso a poco come avviene nella Corte di appello inglese, che ha facoltà di aggregare a sé come assessori delle persone tecniche.

Mancano d’altra parte le giustificazioni politiche che potrebbero legittimare il ripristino della giuria. È risaputo invero che le ragioni dell’origine delle giurie nei diversi paesi e nei diversi momenti storici possono ricercarsi nella necessità di garantire la libertà individuale contro il prepotere regio, la ragione, cioè, unica, era quella di rappresentare una guarentigia dell’individuo contro il potere assorbente dello Stato.

È chiaro invece che per noi questa contrapposizione tra giudizio popolare e giudizio di magistrati non ha ragione di essere. Del resto, nella stessa Inghilterra, ove la giuria era sorta contro la tirannia del regime feudale, l’istituto cede sempre più terreno e da vari anni il giurì inglese, nel porre termine ai propri lavori, spesso formula finanche un voto per la propria abolizione. Taluni provvedimenti legislativi hanno poi intaccato l’essenza dell’istituzione e si hanno sintomi di una non lontana estinzione.

Col Criminal appeal act del 1907 infatti si ammise l’appello contro la sentenza di Corte di assise e si conferì alla Corte di appello stessa una funzione che in parte corrisponde alla nostra Corte d’appello, in parte alla nostra Corte di cassazione. Può infatti ordinare la produzione di documenti, sentire testimoni, ordinare nuove prove, e l’ultimo giudizio viene affidato non più al giudice popolare, ma al magistrato.

Altre disposizioni, sia col Criminal justicial act del 1925, sia con la legge del 1° settembre 1939, riducono il numero dei giurati, facendo perdere alla giuria la sua caratteristica e la sua finalità, dimostrando sempre più che l’istituto non più sodisfa la pubblica opinione.

Sarebbe pertanto veramente strano che, mentre la giuria tende ad essere soppressa in quegli Stati che per primi l’hanno accolta, venga da noi ripristinata.

Né la legittima la concezione storico-sociale della sovranità popolare, per cui nei casi più gravi, che maggiormente turbano l’ordine pubblico e direttamente ledono gli interessi della collettività, dovrebbe essere il popolo stesso, nella persona dei giurati, per principio di democrazia, ad amministrare la giustizia; perché, invero, l’amministrazione della giustizia sia espressione di democrazia non è affatto necessario che l’esercizio delle funzioni relative sia affidato direttamente al popolo: basta che i suoi organi traggano origine, legittimità e poteri dal popolo organizzato a Stato, in conformità alla Costituzione democratica dal popolo stesso voluta e determinata. Una volta predisposti tali organi, essi nell’esplicare le rispettive funzioni attuano indubbiamente la volontà popolare.

Se, quindi, in regime di democrazia costituzionale anche i giudici togati sono organi di designazione del popolo, il problema della giuria non è un problema di democrazia, ma un problema di giustizia, cioè di idoneità all’attuazione del massimo di giustizia. Ed allora questo problema non può che essere risolto a favore dei giudici togati, perché essi amministrano la giustizia non ex occasione, senza alcuna preparazione, ma come munus publicum, di carattere continuativo e scientifico e sono quindi preparati per l’esplicazione delle mansioni loro affidate.

Criterio preferenziale questo che dovrebbe essere tenuto fermo anche se per ipotesi il problema della giuria fosse il solo idoneo ad attuare l’idea democratica, poiché, come bene è stato rilevato da un illustre magistrato (il Jannitti Piromallo), se nella disciplina del processo penale e, del resto, di ogni altro processo, la determinazione dell’organo decidente dovesse dipendere dalla scelta fra la giustizia e la democrazia, questa dovrebbe essere sacrificata a quella e non viceversa. Alcuni hanno osservato che attraverso la giuria si può portare nel giudizio il senso dell’equità e si può quindi assicurare una migliore giustizia nel caso concreto. Senonché va rilevato innanzi tutto che introdurre indirettamente, attraverso la giuria, nel giudizio penale l’equità (la quale come fonte autonoma di norma non ha una sfera di applicazione nel campo penalistico) sarebbe contrario alle leggi, perché verrebbe meno la certezza del diritto, se si consentisse al giudice, e fra l’altro al giudice meno preparato, di ribellarsi alla norma codificata.

Ma se si potesse ammettere un correttivo alla legge mediante l’equità, indubbiamente le migliori garanzie per la determinazione della norma equa non potrebbe che offrirle il giudice togato.

In materia amministrativa il progetto, in contrasto con l’aspirazione dei più insigni giuristi italiani, consacra nella Costituzione una giurisdizione speciale che ha per proprî organi non solo il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, ma tutti gli altri giudici speciali esistenti e quanti altri il potere legislativo e quello esecutivo per delega volessero creare. Tale sistema, a parte gli inconvenienti pratici che verrebbe a perpetuare sulla incertezza del diritto, sulla competenza del giudice e sulla imparzialità dei giudici, è in contrasto col concetto stesso di democrazia, secondo cui la legge dev’essere posta nell’interesse generale ed ogni giudizio di legittimità non può che spettare agli organi del potere giudiziario naturalmente preposto all’applicazione della legge in ogni caso di controversia.

Né ad una critica obiettiva può sfuggire lo stesso organo costituzionale a carattere generale, che pur ha raccolto le maggiori benemerenze nel campo della giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato, le cui funzioni miste politico-giudiziarie ed il cui carattere originario di organo di fiducia delle pubbliche amministrazioni, adombrano le decisioni, anche le più giuste, di sospetto, come quelle che emanano da un giudice di parte.

Ritengo perciò che le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato dovrebbero essere assorbite in una magistratura ordinaria specializzata, col vantaggio così di offrire al cittadino la garanzia del doppio grado di giurisdizione in ogni controversia, oltre al sindacato supremo della Corte di cassazione. Anche la certezza del diritto indubbiamente molto ne guadagnerebbe, poiché sono a tutti note fra l’altro le difficoltà che oggi sorgono per distinguere la giurisdizione su diritti dalla giurisdizione su interessi, la giurisdizione di legittimità dalla giurisdizione di merito.

Tuttavia, però, se per ragioni ambientali o per particolari esigenze di politica legislativa si volesse conservare la giurisdizione speciale del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (in ogni caso dovrebbe rigorosamente stabilirsi il divieto di creare nuove giurisdizioni speciali e trasformare quelle esistenti in sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria), tuttavia, dicevo, se per particolari ragioni si vuol conservare la giurisdizione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, è necessario che la materia propria di tali organi costituzionali sia limitata alla tutela degli interessi legittimi. Esclusa perciò la competenza esclusiva e restituite alla giurisdizione ordinaria le controversie di puro diritto oggi attribuite al Consiglio di Stato, va mantenuta integra la distinzione fra giurisdizione di interessi e giurisdizione di diritti, lasciando la prima agli organi giurisdizionali amministrativi e l’altra ai giudici ordinari.

Per quanto poi particolarmente concerne la posizione del Consiglio di Stato, le sezioni giurisdizionali dello stesso dovrebbero comunque staccarsi da quelle consultive e formare un separato tribunale amministrativo i cui membri però non dovrebbero essere nominati ad libitum dal potere esecutivo. Poco opportuna e proficua invece appare la separazione fra le funzioni giurisdizionali ed amministrative della Corte dei conti, se si tiene presente lo stretto collegamento che esiste fra le due funzioni, in quanto la funzione giurisdizionale in materia di responsabilità contabile e civile dei funzionari completa la funzione di controllo sulla gestione finanziaria dello Stato. Alla Corte di cassazione, inoltre, come suprema regolatrice di diritto, per maggiore garanzia di giustizia e per assicurare l’esatta osservanza della legge da parte di tutti i giudici dello Stato, con benefici effetti sulla stabilità dei rapporti sociali, va attribuito il controllo di legittimità su tutte le pronunzie giurisdizionali, da qualunque organo emesse, oltre la risoluzione dei conflitti di attribuzione e di giurisdizione. Sarebbe veramente inconcepibile che in uno stato di diritto la stessa norma di legge potesse essere diversamente applicata senza la possibilità di unificazione da parte di un organo supremo; tale funzione della Cassazione rivela nel contempo l’esigenza che quest’organo sia unico in tutto il territorio dello Stato. Le ipotesi infatti di incompetenza e di difetto di giurisdizione, le discordanze ed i contrasti di decisione dei giudici di merito dipendono dalla pluralità degli organi investiti di giurisdizione. È evidente pertanto la necessità che unico sia l’organo supremo cui sia demandato il compito di ristabilire la certezza obiettiva del diritto, di assicurare l’uniforme applicazione della norma in tutto il territorio della Nazione, e contenere così in un’unica forma giuridica le varie tendenze giurisprudenziali.

La pluralità delle Corti di cassazione, sempre deprecata da giuristi e da uomini politici, sarebbe oggi assurda ed un pericolo per l’unità del diritto, oggi che la nuova legislazione regionale ed il nuovo ordinamento giuridico fortemente decentrati esigono un sempre maggiore rafforzamento dell’unità di giurisdizione, almeno attraverso un organo giurisdizionale centrale unico.

Al riguardo del sindacato di legittimità della Cassazione, l’articolo 102 del progetto statuisce il ricorso per cassazione secondo le norme di legge. Quest’ultima riserva, con cui si demanda al futuro legislatore la fissazione dei limiti del ricorso, non è affatto tranquillante, poiché nulla esclude che esso possa essere limitato ai soli casi di incompetenza ed eccesso di potere, casi per cui il ricorso è sempre esistito nell’ordinamento italiano fin dalla legge 31 marzo 1887, n. 3761.

L’innovazione invece che va esplicitamente sancita nella Costituzione è il diritto al ricorso per violazione di legge, sia processuale che sostanziale.

Altro delicato problema in tema di unità del potere giudiziario è quello che riguarda il conflitto di giurisdizione. Secondo l’articolo 126 del progetto, è affidata alla Corte Costituzionale la risoluzione dei conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato. Ora, se il giudice speciale non appartiene al potere giudiziario, apparterrà a quello esecutivo; onde ogni conflitto fra giudice ordinario e giudice speciale si ridurrà ad un conflitto di attribuzioni, a dirimere il quale sarebbe competente la Corte Costituzionale e verrebbe così inficiato il principio dell’unità della giurisdizione anche nell’ultimo rimedio dell’intervento regolatore della Cassazione. Inoltre, la stessa dizione ambigua dell’articolo 126 farebbe pensare che alla medesima Corte Costituzionale fossero attribuiti i conflitti di attribuzione fra Pubblica Amministrazione ed autorità giudiziarie, demandati dalla legge 21 marzo 1877 (art. 1, 2 e 3) alle sezioni riunite della Cassazione; il che, mentre snaturerebbe la funzione stessa della Corte Costituzionale (la quale si dovrebbe occupare di controversie simili in questioni da cui esula la materia costituzionale), rappresenterebbe nel contempo una grave diminuzione di prestigio per l’ordine giudiziario ed insieme un attentato alla efficace tutela dei diritti dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, la quale a suo beneplacito potrebbe rendere inerte l’autorità giudiziaria adita, per rimettere le decisioni ad un organo estraneo all’ordinaria giurisdizione. Forse i compilatori del progetto non intendevano pervenire a tale conseguenza, ma è per questo necessario fin d’ora eliminare ogni ambiguità al riguardo, per evitare ogni eventuale contrasto nel futuro.

Appare evidente pertanto, da quanto sopra ho esposto, la difettosa applicazione data dal progetto al principio dell’unità dell’attività giurisdizionale che, come ho accennato, è uno dei presupposti e delle condizioni per l’autonomia del potere legislativo.

Ma il colpo più grave all’indipendenza della Magistratura è dato dall’articolo 97. La premessa del progetto della nuova Costituzione era di realizzare un deciso progresso nel grave problema dell’autonomia dei giudici; nella conclusione, invece si è dimostrato di avere una concezione del tutto inadeguata dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Non è che il progetto di Costituzione in materia non abbia affermazioni magnifiche; non è che manchino disposizioni con cui l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura venga affermata. Si legge, infatti, nei diversi articoli, che la funzione giurisdizionale è espressione della sovranità della Repubblica; che i magistrati dipendono dalla legge; che non possono essere iscritti a partiti politici; che i magistrati costituiscono una organizzazione indipendente, che i magistrati sono inamovibili. È tutto un crescendo veramente rassicurante.

Senonché, quando si passa ad esaminare come si attua la proclamata autonomia e come si garantisce l’indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, non si può che rimanere perplessi ed avere la sensazione che tutto sia per tornare come prima e anzi, direi, peggio di prima.

Si è sempre lamentato come un pericolo per la vera indipendenza della Magistratura l’ingerenza della politica negli affari della giustizia. Si è cercato, pertanto, nel progetto, di estromettere dall’amministrazione della giustizia il potere esecutivo, perché portatore di interessi politici ed espressione di forze politiche. Senonché, in realtà, a tali interessi si è dato ugualmente ingresso ed in misura più efficiente, nel governo della Magistratura con la proposta formulazione del Consiglio Superiore.

Infatti, se il potere diretto del Ministro della giustizia è, indubbiamente, assai limitato, perché si riduce al solo esercizio dell’azione disciplinare, non altrettanto limitata rimane, invece, l’ingerenza che non può che essere politica, del potere legislativo, il quale per mezzo dei suoi designati, entra addirittura a far parte dell’organo di direzione e di governo della Magistratura.

Altro che progresso, signori, nell’autonomia dei giudici! C’è proprio da domandarsi se nell’attuazione del principio dell’indipendenza del potere giudiziario non si stia per fare addirittura un deciso e grave passo indietro!

Con la legge Togliatti, invero, restituite le prerogative tolte dal fascismo alla Magistratura, il Ministero di grazia e giustizia ben poca ingerenza politica poteva avere, una volta costituito un Consiglio Superiore composto esclusivamente da magistrati, eletto da essi stessi, presieduto dal loro capo e con la larga competenza che gli era attribuita. Quando invece si stabilisce, come nel progetto di Costituzione, che la metà dei componenti del Consiglio Superiore deve essere eletta dall’Assemblea Nazionale, si espone alla diretta influenza di elementi politici l’intera vita giudiziaria e lo stato giuridico stesso dei magistrati.

E che vale allora dichiarare i giudici soggetti soltanto alla legge, quando l’autonomia dei magistrati deve rimanere una semplice affermazione teorica, sia in relazione ad organi di altri poteri, sia nell’interna gerarchia giudiziaria? Che vale sancire il divieto per il giudice di iscrizione a partiti, se non si vogliono escludere dall’amministrazione della giustizia quelle ingerenze esterne che incidono in concreto sulla imparzialità e serietà dei pronunciati giudiziari? E perché, c’è da chiedersi, una volta ammesso il principio dell’autonomia, sul quale tutti sono d’accordo; e lo si rileva dai discorsi fatti qui da tanti colleghi, lo si rileva dai lavori preparatori; perché, se tutti sono d’accordo, perché tanta riluttanza a dettare una disciplina giuridica che valga a tradurre in realtà un principio ammesso da tutti? Perché? Per sfiducia nella Magistratura? Se tale sfiducia esiste, devo pensare che deriva o dalla mancata o dalla imperfetta conoscenza dei compiti e dell’attività della nostra Magistratura. Se tale sfiducia è di carattere tecnico organizzativo, a smentirla basta ricordare – come bene ha rilevato l’Associazione dei magistrati – che gli organi giudiziari sono stati i soli a non sospendere mai il loro funzionamento, malgrado gli eventi bellici e le crisi economiche e politiche che hanno martoriato il Paese. Basta ricordare che, con gli stessi organici del 1865, i magistrati hanno risposto soddisfacentemente alle esigenze di una popolazione raddoppiata.

Se tale sfiducia poi è di carattere politico, gli smemorati in buona fede dovrebbero pur ricordare che la Magistratura, anche se priva di ogni effettiva garanzia, ha resistito come ha potuto, con eroismi personali e grazie al senso di dignità della gran maggioranza dei suoi componenti, per 20 anni alla dittatura, mantenendo in complesso fede ad una tradizione di onestà e di indipendenza. Dovrebbero pur ricordare il glorioso contributo di sangue e l’opera preziosa data dai magistrati alla stessa lotta clandestina e dovrebbero non obliare altresì che i magistrati furono gli unici a rifiutare collettivamente il giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale fascista. E il paradosso è, onorevoli colleghi, (e forse però questa è la prova migliore della loro dirittura) il paradosso è, che i magistrati italiani ebbero in tempi fascisti fama di antifascisti, sicché furono guardati con sospetto e spesso perseguitati dal regime. (È forse a tutti noto che lo stesso Mussolini ebbe a qualificare il Palazzo di Giustizia come il più temibile covo di antifascisti!). Mentre, dicevo, dal passato regime i magistrati furono guardati con sospetto, oggi magari non si esita a qualificarli fascisti e reazionari. È ingiusto pertanto, è ingiusto ed ingiurioso, affacciare dei dubbi sulla fedeltà del corpo giudiziario; e non si rende certo un buon servizio al consolidamento del regime repubblicano, tenendo sotto sospetto un ordine che esercita le funzioni più delicate e che, come tale, ha bisogno della massima fiducia sia dei cittadini che degli altri poteri dello Stato. Un ordine che nel diuturno travaglio della vita giudiziaria, nonostante un trattamento economico indegno, di miseria, offre continui esempi di sacrifizi, di senso altissimo del dovere, di dirittura e che ha in sé, nella sua austerità di vita, nella sua tradizione di onestà e di lealtà, nel suo equilibrio e nella sua saggezza, nella forza suggestiva della missione che esercita, gli elementi più certi di fiducia e la garanzia più sicura di illimitata fedeltà a tutte le istituzioni dello Stato. Se esistono eccezioni, queste non possono autorizzare generale sfiducia nella Magistratura, che ha sempre conservato la sua integrità morale, reagendo, fedele sempre alla legge, a tutti i tentativi di asservimento e di sopraffazione. Episodi isolati ed errori di uomini singoli non possono, comunque, pregiudicare la posizione costituzionale dell’amministrazione della giustizia, poiché gli uomini passano, ma la Costituzione rimane e l’indipendenza degli organi giudiziari non costituisce un ambizioso interesse dei magistrati, ma un interesse vitale del popolo italiano. Si è obiettato che con un Consiglio Superiore di soli magistrati verrebbe escluso ogni controllo sul potere giudiziario e ciò sarebbe pericoloso.

L’obiezione, però, non ha un serio fondamento. Innanzi tutto il controllo tra poteri non può essere che un controllo di natura politica; controllo che si spiega nei rapporti fra il legislativo e l’esecutivo, poiché questo ultimo ha un programma politico da attuare e per conseguenza, non può non essere sottoposto al sindacato di opportunità da parte del Parlamento, nel quale quel programma politico raccoglie la maggioranza dei consensi. Un siffatto controllo invece non sarebbe né necessario né possibile nei confronti del potere giudiziario, per la natura stessa dell’attività giurisdizionale, la quale si esaurisce come è noto in un processo di deduzione che non deve ammettere soluzioni di opportunità, se veramente si vuol fare scaturire dalla volontà generale la volontà della legge nel caso particolare. Data perciò la caratteristica di tale funzione, se si vuol garantire il principio fondamentale di ogni ordinata convivenza civile (la libertà individuale e la certezza del diritto) non deve essere consentito sull’attività del giudice alcun controllo tranne, s’intende, il rimedio della impugnazione davanti al giudice, investito di funzione superiore. Né il potere esecutivo, né il legislativo possono e devono avere ingerenza sull’attività giurisdizionale, poiché la giustizia deve erigersi assolutamente indipendente, purificata da qualsiasi interesse. La politica, come è stato rilevato anche durante i lavori preparatori, può fare sentire il suo influsso nelle leggi, fino al momento cioè in cui si trasforma in norma giuridica, ma una volta creato il diritto, la politica deve fermarsi e non può esercitare controllo e direttive sui giudici, che devono interpretare il diritto per quello che è, e non per quello che poteva o doveva essere.

Perché il potere giudiziario dunque sia autonomo, ed il giudice indipendente, questi non deve avere davanti a sé, come saggiamente si è statuito nella Costituzione, che la legge e la sua coscienza, a meno che non si voglia fare entrare la voce della politica dove deve rimaner sovrana invece la voce della giustizia.

Si è ancora sostenuto che in regime democratico sovrano è il popolo, e poiché l’espressione più schietta della sovranità popolare è il Parlamento, un’assoluta indipendenza della Magistratura dal potere legislativo la renderebbe estranea alla volontà del popolo e costituirebbe, come ormai si dice con una frase fatta, una casta chiusa, conservatrice e retriva.

Va però rilevato, innanzi tutto, che la volontà stabile e suprema del popolo è quella che si manifesta nella Costituzione. Onde, se indice e caratteristica del sistema costituzionale prescelto è l’indipendenza del potere giudiziario, è chiaro che, fino a quando la Costituzione non muta, mantenere indipendente tale potere significa mantenere in vita la vera volontà popolare, intesa, non solo quale semplice maggioranza parlamentare, ma come volontà unitaria di tutta la Nazione.

Né gli interessi vivi del popolo espressi attraverso il Parlamento possono trovare contrasto nel potere giurisdizionale estraneo all’influenza parlamentare, poiché come ben è stato da altri osservato, qualsiasi progresso sociale manifestato attraverso l’attività legislativa nei limiti della Costituzione, viene garantito non ostacolato, dalla Magistratura.

Ma soprattutto è da rilevare che al popolo, al disopra di ogni esigenza, preme che la legge sia uguale per tutti e che sia garantita a tutti i cittadini giustizia serena e imparziale. Ora, se si pensa tra l’altro che le stesse pubbliche amministrazioni sono assoggettate al diritto, tale imparzialità evidentemente non potrebbe aversi, significherebbe anzi far diventare l’organo giudiziario giudice in casa propria, se il potere giudiziario non fosse indipendente dal potere esecutivo e da quello legislativo.

Mostrati, così, speciosi ed infondati, i pretesti per un controllo sul potere giudiziario, che avrebbe soltanto perfetto di compromettere la finalità fondamentale di uno Stato libero, quella cioè di garantirei tutti i cittadini che la giustizia sia resa in modo imparziale, non restano che i gravi inconvenienti della composizione mista del Consiglio Superiore proposta dalla Commissione: il pericolo cioè di interferenze politiche e professionali, che praticamente metterebbero nel nulla l’indipendenza della Magistratura., il cui prestigio e soprattutto la fiducia che in essa deve riporre il Paese sarebbero grandemente sminuiti.

E nulla sarebbe più deleterio, onorevoli colleghi, all’affermazione di un libero ordine democratico, del sospetto di una giustizia influenzata o corrosa nei suoi organi da spirito politico o comunque messa in condizione di soggezione ad altri poteri dello Stato.

Pensate invero alle infinite pressioni da parte dei partiti attraverso i loro designati nell’organo di autogoverno; pensate agli svariati maneggi di quei professionisti poco scrupolosi che, chiamati a comporre il Consiglio Superiore, potrebbero anche continuare ad avere, a mezzo di compiacenti prestanome personali interessi nelle cause affidate a magistrati, la cui carriera ed amovibilità essi terrebbero in mano; pensate a tutto questo, o signori, e vi convincerete che il Consiglio Superiore, così come si vorrebbe costituito, rappresenterebbe tutt’altro che una garanzia di giustizia, oltre che un regresso democratico e costituzionale. Dico un regresso, poiché il Consiglio Superiore della magistratura è stato sempre in Italia composto da soli magistrati, ed il decreto 31 maggio 1946, accogliendo i voti non solo degli organi giudiziari, ma di quanti caldeggiavano i nuovi orientamenti per la democrazia, lo avevano reso elettivo da parte degli stessi magistrati.

Se si vuole perciò veramente l’indipendenza della Magistratura, occorre evitare che la nomina, la designazione ai vari uffici, la promozione, in una parola lo stato dei magistrati, dipendano da orientamenti ed influenze di organi politici, occorre evitare, quelle illecite inframmettenze, dalle quali chi amministra giustizia dev’essere messo al riparo; e perché ciò accada è necessario che l’organo supremo della Magistratura sia composto da soli magistrati, scelti attraverso il sistema della interna libera elezione.

Sarebbe veramente strano e contradittorio che, mentre ai giudici si fa divieto di appartenenza a partiti politici, e si fa divieto, badate, appunto perché si vuole che i giudicabili abbiano un senso di assoluta tranquillità e che il diritto, una volta affidato al magistrato per la sua applicazione, sia visto semplicemente come tale e non abbia neppure lontanamente a risentire di quella politica che sfocia negli organi legislativi, sarebbe veramente strano, che si affidino poi le promozioni, i trasferimenti i procedimenti disciplinari e quanto altro riguarda la vita stessa dei magistrati proprio a uomini di partiti, designati da quell’Assemblea legislativa che, appunto perché organo preposto alla creazione delle leggi, dovrebbe rimanere estraneo agli organi preposti all’applicazione della norma da essa creata.

L’onorevole Calamandrei, in tema di contrasti fra un potere giudiziario autonomo e gli altri poteri dello Stato, ha prospettato come pericolo la possibilità di un rifiuto di applicazione della legge da parte della Magistratura, la quale potrebbe, ha aggiunto, attribuirsi anche il potere di stabilire criteri generali di interpretazione della legge.

Il pericolo prospettato mi sembra in verità assai immaginario e non può sorgere in concreto, sia perché la Magistratura verrebbe meno alla sua funzione se non applicasse una legge che abbia tutti i crismi formali stabiliti dalla Costituzione (e se lo facesse si entrerebbe nel campo rivoluzionario del sovvertimento dei poteri, al modo stesso che il legislativo si arrogasse il compito di amministrare la Giustizia) sia perché la potestà di fissare i criteri generali di interpretazione spetta all’Assemblea legislativa e non all’autorità giudiziaria, che ha soltanto il compito di interpretare la norma con effetto, fra l’altro, limitato al caso concreto.

D’altra parte, se il pericolo fosse realmente esistente, non potrebbe certo essere eliminato dal Consiglio giudiziario misto, poiché nulla in concreto potrebbe impedire che il corpo giudiziario applicasse le legge nel modo da esso ritenuto più opportuno ed assumesse un determinato orientamento interpretativo; né, di fronte alle decisioni della Corte di cassazione, come è stato rilevato, vi sarebbe, come non vi è neppure oggi, la possibilità di sindacato da parte del potere esecutivo sia da parte del potere legislativo. La composizione mista cioè, lungi dall’evitare il fantasioso pericolo prospettato, avrebbe semplicemente l’effetto concreto di far penetrare la politica nelle decisioni singole; di far giungere indebite pressioni ed ingerenze professionali agli organi giudiziari. Ma non potrebbe impedire che la Magistratura, come complesso giudicante, assumesse – volendolo – un determinato atteggiamento nell’interpretazione della legge. A me pare che in realtà tutto dipenda da una decisa, per quanto ingiustificata ostilità e diffidenza verso i magistrati che sono qualificati retrivi, conservatori, insensibili ai fatti sociali, forse perché hanno il torto di essere i servitori fedeli della legge piuttosto che della politica, che non può e non deve interessare loro, finché non si traduca in norma giuridica di cui soltanto essi devono essere gli interpreti più ortodossi e più scrupolosi. Noi vogliamo che sia mantenuta, ed oggi più che mai accentuata, questa posizione conservatrice; e non possiamo concordare con coloro che la vorrebbero trasformare in attitudine politica e vorrebbero la legge aderente alla mutevole realtà della politica, sotto la speciosa pretesa che il diritto non debba essere inserito nel codice, ma nella coscienza del popolo.

L’onorevole Cappi dichiarava giorni fa che per il retto funzionamento della giustizia quello che importa è che il giudice non subisca deviazioni nella fase di interpretazione e di applicazione della legge. E per tale funzione, egli spiegava, nessun pericolo può costituire l’immissione di elementi estranei nel Consiglio Superiore. Mi dispiace di contraddire l’amico Cappi, ma non posso fare a meno di notare che il pericolo è proprio là, nella possibilità che attraverso le pressioni degli elementi estranei immessi nell’organo di autogoverno, il giudice possa risentire l’influsso della politica proprio nel processo di interpretazione e applicazione della legge, e possa così essere deviato da quella linea serena e obiettiva che dovrebbe perseguire. Questa, onorevoli colleghi, e questa sola è la ragione che fa vedere con disfavore la composizione mista del Consiglio Superiore della Magistratura. Lo stesso onorevole Cappi ebbe a rilevare che in regime democratico l’eventualità di un potere esecutivo e legislativo tirannici e invadenti deve escludersi quasi a priori, poiché tale eventualità può soltanto aversi in una situazione patologica, come nel periodo fascista, e non in condizioni normali. Va ribadito che le interferenze sulla Magistratura, in verità, non mancarono, pure se in forme meno gravi, anche prima del 1922; poiché in Italia – dobbiamo dirlo – non hanno mai i giudici goduto di una effettiva piena indipendenza; e se il funzionamento della giustizia è apparso tal-, volta turbato o se un senso di sfiducia ha investito la Magistratura, ciò è dovuto – dobbiamo pur riconoscerlo – in gran parte alle ingerenze del potere esecutivo e degli organi politici in genere, che hanno tanto contribuito a far decadere nel popolo l’idea della imparzialità dell’Amministrazione della giustizia.

E va rilevato, infine, che, fra l’altro, la partecipazione di elementi estranei nel Consiglio Superiore non può trovare neppure completa spiegazione – che peraltro ridonderebbe comunque tutto a danno dell’amministrazione della giustizia – in vere ragioni costituzionali; poiché quell’organo di autogoverno, che tante preoccupazioni dà a coloro che paventano l’autonomia della Magistratura, ha peraltro compiti puramente interni alla organizzazione giudiziaria e di carattere amministrativo, relative al personale. Con esso non si dà alla Magistratura il potere di creare la legge per la propria organizzazione e neppure quello di organizzarsi a suo arbitrio. Con l’organo autonomo di governo la Magistratura avrebbe soltanto il potere di assumere, di trasferire, di punire, in una parola di amministrarsi, ma sempre nei limiti, nelle forme e con le garanzie fissate dall’ordinamento giudiziario, che viene emanato dal potere legislativo.

Quale casta chiusa, di grazia, io vi domando?

Si può parlare di torri di avorio, di casta impenetrabile quando si ha non solo il potere di organizzarsi, ma anche quello di creare la legge per la propria organizzazione. Se tale legge invece è creata da altri, non rimane che un potere, il quale ha quasi carattere di semplice esecuzione. Non vedo perciò la ragione e non riesco proprio a vedere il pericolo del perché il Consiglio giudiziario non debba essere composto di soli magistrati.

Penso che l’intervento del potere legislativo nella formazione del Consiglio superiore della Magistratura sia stato ammesso sull’esempio della Costituzione francese; ma, a parte il gusto della importazione, anche in campi ove potremmo legittimamente esportare, va rilevato che la composizione mista può avere una certa giustificazione nel Consiglio Superiore della Magistratura francese, il quale ha, fra le altre funzioni, anche quella di esercitare il diritto di grazia, ma non ha e non può avere neppure tale legittimazione da noi, ove manca siffatta prerogativa. Ritengo pertanto che nulla possa giustificare la composizione mista dell’organo di autogoverno.

Se poi proprio non si volesse rinunziare all’ingerenza del potere legislativo nella composizione del Consiglio giudiziario, ritengo che, ad attenuare gli inconvenienti del sistema, non vi sia che una duplice soluzione: o variare l’apporto proporzionale fra i componenti magistrati ed i componenti estranei, in modo da dare ai primi una prevalenza numerica in confronto ai secondi; oppure offrire al Parlamento la facoltà di scegliere, sempre nel corpo dei magistrati, una metà dei componenti il Consiglio Superiore.

Ma, oltre che alla indipendenza dall’esterno, è necessaria una indipendenza nell’interno dell’organizzazione giudiziaria, poiché l’autonomia del potere giudiziario garantisce la Magistratura dall’influenza di altri poteri, ma non presenta alcuna garanzia nell’interno del corpo giudiziario, garanzia che non è certo meno importante. I magistrati debbono essere posti tutti sullo stesso piano, poiché tra di essi vincolo gerarchico nel senso tradizionale della parola non può e non deve esistere, in quanto la gerarchia importa il concetto di ubbidienza agli ordini che vengono dall’alto, mentre il giudice non deve obbedire che alla sua coscienza ed alle norme legislative. È l’essenza stessa della funzione giudiziaria che è in contrasto con la dipendenza gerarchica, poiché diversa può essere la sfera dell’autorità giurisdizionale, ma il potere di esercizio della giurisdizione è, nell’ambito della propria competenza, pieno ed assoluto; ciò importa che la Magistratura – come opportunamente è stato dichiarato nella Costituzione – sia distinta non per gradi, ma per funzioni e che il magistrato, una volta entrato in ruolo, abbia uno svolgimento quasi automatico di carriera senza preoccupazioni, in merito alla stessa, di beneplacito dei superiori.

Altra applicazione del principio di autonomia è la facoltà, di cui non si è fatto alcun cenno nel progetto, da parte dell’organo di autogoverno, di stabilire il trattamento economico dei magistrati nei limiti del bilancio e del gettito della tassazione sugli atti giudiziari.

È questo un lato assai importante del problema dell’indipendenza della Magistratura, poiché lasciare il trattamento economico all’arbitrio del potere esecutivo significa rendere frustranea ogni garanzia costituzionale.

Solo così, d’altra parte, attraverso una amministrazione diretta delle somme stanziate e del gettito della speciale tassazione predetta, può essere risolto il tormentoso problema economico della Magistratura, che vive le più dure miserie della vita quotidiana; solo così può essere garantita al giudice una esistenza indipendente e decorosa, e può essere nel contempo superata la pregiudiziale che ostacola il riconoscimento al magistrato, per la particolarità delle sue funzioni, di un trattamento diverso da ogni impiegato dello Stato.

Una disposizione inoltre, per lo meno inadeguata ed imprecisa, è quella che riguarda la questione dei poteri della Magistratura sulla polizia.

Non bisogna dimenticare infatti che anche per la legislazione vigente l’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria. Al lume però della esperienza tale astratto potere si è rivelato inefficiente, poiché spesso tarda e inidonea è stata l’esecuzione degli ordini del magistrato da parte dei funzionari di polizia, specie quando i provvedimenti giudiziari non collimavano con le vedute degli organi da cui la polizia giudiziaria direttamente dipende.

Indispensabile perciò è che almeno speciali reparti di polizia siano alle dirette dipendenze gerarchiche e disciplinari dell’autorità giudiziaria.

È opportuno altresì concedere al Magistrato le stesse prerogative dell’immunità parlamentare, poiché date le delicate funzioni da lui spiegate, un arresto infondato a carico del giudice produce, quand’anche ne fosse poi dimostrata l’innocenza, conseguenze gravi sia per la sua riputazione, sia per il prestigio del potere giudiziario che, non meno degli altri, deve godere la fiducia del Paese.

In ordine all’iscrizione del giudice ai partiti politici, io sono contrario in verità a qualsiasi divieto che non corrisponda allo spirito di una vera democrazia, a qualsiasi disposizione che limiti la libertà di opinione di un individuo, specie se è un magistrato. Questo invece deve avere ed ha in sé tanto senso di responsabilità, tanta consapevolezza del proprio dovere che l’iscrizione a qualsiasi partito non può riuscire a compromettere la sua libertà di decisione, e di apprezzamento, né tampoco a farlo deflettere da quella dirittura che è per lui un habitus di vita.

Non è l’iscrizione al partito che può far addivenire a compromessi con la propria coscienza e neppure può semplicemente valere a togliere il senso di tranquillità ai giudicabili. Nessun divieto formale potrà impedire al giudice di agire in conformità d’interesse di partito se è proclive a compromessi; tutto dipende dalla sua onestà e dalla sua coscienza. Sarebbe davvero un’inutile ipocrisia ed un’offesa anche pei magistrati introdurre una norma costituzionale come quella proposta dalla Commissione, ipocrisia poi tanto più inutile quando la vita della Magistratura dovesse essere legata, attraverso componenti estranei nell’organo di autogoverno, ad interessi politici ed affidata ad uomini di partiti, come si è proposto nell’articolo 97.

Questo, più che l’iscrizione dei Magistrati nei partiti varrebbe a circondare di sospetto l’ordine giudiziario!

Comunque, io penso che l’iscrizione o meno nei partiti politici dovrebbe essere affidata alla sensibilità ed al senso di opportunità dei magistrati stessi, più che sancita, con un divieto, in una norma costituzionale.

Per il sistema di scelta dei magistrati, a me sembra che il criterio del concorso sia la forma più democratica di scelta, poiché raggiunge lo scopo per la selezione tecnica su di un principio di eguaglianza; raggiunge lo scopo cioè di chiamare alle più importanti funzioni i più capaci, senza valutazione diverse dal merito e considerazioni di privilegi personali.

Sono però contrario all’immissione delle donne nella Magistratura.

È vero che esse hanno dato ottime prove in tanti uffici, ma l’arte del giudicare, oltre a richiedere particolari doti di equilibrio e di logica, richiede una costante serenità di giudizio che le donne, per ovvie ragioni fisiologiche e per naturali facoltà psicologiche, non possono avere, specie se si tien conto che normalmente in esse il sentimento prevale sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve avvenire il contrario.

Ritengo che si possa consentire alle donne di partecipare a limitate e determinate forme di giudizio nelle sezioni specializzate, ma non generalizzare fino al punto di consentire il libero accesso nella Magistratura.

Ed ho finito.

Concludo ribadendo che noi non vogliamo una Magistratura avulsa dalla vita sociale, ma la vogliamo indipendente.

Noi non vogliamo che il giudice sia una astrazione, ma desideriamo che sia sereno nell’esplicazione della sua opera. Che non abbia preoccupazioni di influenze estranee sulla sua coscienza e che sulla sua carriera non vi sia possibilità di interferenze esterne.

Noi sappiamo che l’indipendenza dell’ordine giudiziario è indice e garanzia di ogni democrazia costituzionale e che sarebbe inutile aumentare in astratto la sfera di libertà dei cittadini, sarebbe perfettamente inutile proclamare l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, se non si istituisse un potere giudiziario in condizioni di poter realizzare e garantire queste elementari esigenze di democrazia.

E presupposto primo di tale realizzazione, onorevoli colleghi, è l’indipendenza integrale della Magistratura, la cui funzione, se deve davvero costituire garanzia e difesa di diritti e di libertà non può e non deve risentire, a meno che non si voglia negare e tradire nel contempo lo stesso ordine democratico, non può e non deve risentire – dicevo – delle fluttuazioni di maggioranze parlamentari e dell’alternarsi dei partiti al Governo.

Potere politico, partiti, maggioranza parlamentare hanno, come ho detto, un settore proprio in cui far sentire il loro influsso, ed è quello della legislazione, a cui non si sottrae lo stesso ordinamento giudiziario dal quale è disciplinata la Magistratura; ma non possono e non debbono, in un regime di vera democrazia, influire sull’esercizio del potere giurisdizionale.

Se si è contrari al principio dell’indipendenza della Magistratura, si abbia pure il coraggio di dirlo, nell’Assemblea Costituente, di fronte al popolo; si sostenga pure esplicitamente che i giudici debbono essere dipendenti dal potere esecutivo o legislativo e debbono seguire le direttive politiche di essi; si abbia almeno la coerenza nelle affermazioni e si assumano le responsabilità relative. Ma se si dichiara che il potere giudiziario deve essere indipendente, occorre stabilire gli esatti termini di tale indipendenza, senza rinnegare, così come si è fatto con tanta disinvoltura nel progetto, il principio nel momento stesso che lo si afferma. Se si vuole perciò una Magistratura subordinata alla politica, lo si dica chiaramente, senza infingimenti e senza riserve mentali.

Si ricordi però che, come saggiamente rilevava padre Lener nell’articolo cui accennava ieri l’amico Romano, si ricordi, dico, che quando la politica entra nella giustizia, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini sono in pericolo.

E una Costituzione che non evita tale i pericolo, non può dirsi più una Costituzione democratica; è una Costituzione che prepara l’avvento alla dittatura. L’avvento alla dittatura, sì, onorevoli colleghi, alla dittatura, poiché ben è stato scritto, che giustizia e libertà sono veramente un inscindibile binomio: esse vivono o periscono insieme! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Candela. Ne ha facoltà.

CANDELA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Arrivo quasi mortificato al punto della discussione, perché l’ambiente è saturo per quanto dottamente si è detto sul Titolo IV. E credo che sostanzialmente siamo tutti concordi, per assicurare alla Magistratura una piena indipendenza, perché tutti qui operiamo ed agiamo nella maggiore lealtà, per creare degli organismi veramente democratici che assicurino, per un lungo periodo, la vita futura del Paese.

La democrazia ha per fondamento la giustizia. Quindi, l’indipendenza e l’autonomia dei Magistrati, che della giustizia devono essere i sacerdoti, costituisce veramente la base di questo fattore democratico. Il progetto, ispirandosi a questi criteri, traduce nei pochi articoli quanto è stato il risultato di uno studio veramente laborioso ed accurato della Commissione dei Settantacinque. All’Assemblea i dissensi si sono manifestati principalmente sull’articolo 96: «Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise», perché nel problema non si è voluto distinguere, e si è dato da taluni la prevalenza al fattore politico anziché al fattore tecnico-giuridico. Si pensa che non vi è democrazia, e che non vi può essere democrazia, senza l’istituto della giuria, che, per la verità, in Italia è stata affermazione delle forme liberali nel pericolo della libertà. Ma il tempo procede ed anche il diritto e la procedura sono soggetti alla legge del tempo ed alla evoluzione. Quello che interessa garantire è il diritto del cittadino in rapporto alla società, ed il diritto della società perché il reo non vada impunito, ma soprattutto perché l’innocente non sia condannato. Noi, contrari al ritorno dell’istituto della giuria popolare, sosteniamo che il problema non dev’essere considerato dal lato politico, ma nella sua entità tecnica, quale più rispondente all’interesse sociale e all’interesse del privato.

Posto il problema in questi termini, ritengo che non vi possa essere dubbio per la risoluzione da noi indicata: la forma collegiale del giudizio con sentenza motivata e con appello che ne permetta il riesame di merito.

E poiché gli argomenti hanno una ineluttabile forza, è da pensare che i sostenitori della giuria vogliono che nella valutazione di taluni reati il giudice abbia il potere di superare la legge; in quei casi nei quali opinano che la coscienza popolare ritiene di procedere ad una assoluzione o ad una indulgenza che non potrebbe mai venire da un giudice togato o popolare obbligato a motivare la sentenza.

Il giudice, con la motivazione, ha il dovere di specificare e di documentare le ragioni del suo convincimento, cosicché questa rappresenta una indagine delle prove e deve essere espressa in maniera tale da rendere alla pubblica coscienza la serenità che giustizia si è fatta.

Le disposizioni del Codice di rito fulminano di nullità le sentenze insufficientemente motivate. Allo stato attuale, malgrado le molte doglianze sull’assessorato, vi è una maggiore garanzia. Le motivazioni insufficienti spesso hanno messo il giudice supremo nelle condizioni di annullare quelle sentenze e si è ripetuto il giudizio. Spessissimo questo è avvenuto con un solo motivo di contraddittorietà della sentenza, il che dimostra che per garantire la libertà del singolo è necessario che il giudice dia conto del suo convincimento con la motivazione serena e precisa di tutte le risultanze processuali.

È comunemente avvertita, da coloro che si occupano di materia penale, la necessità che il giudice in materia penale debba essere un giudice specializzato. La legge dà al giudice l’attributo di perito dei periti. E l’avvocato onorevole Veroni parlava stamane delle perizie di Leonardo Bianchi e di altri illustri che venivano portate al vaglio dei giurati, per sussidiare con la parola della scienza e della tecnica le insufficienze dei giudici popolari e metterli sulla via della retta decisione.

Non rilevava l’inconveniente che il fornire ad incompetenti e ad ignoranti perizie discordanti, significa abbuiare ancora di più la loro coscienza, perché l’ignorante non è in condizione di valutare perizie complesse e non potrà mai decidere con cognizione. Lo stesso giudice togato, che spesso non è all’altezza di quei tali dotti che forniscono le perizie, ma non è almeno in condizione di non capirle e non può sottrarsi al dovere imprescindibile di occuparsene nella motivazione, ha il dovere di dire perché accoglie una tesi e respinge un’altra tesi. La motivazione costituisce così in ogni caso una estrema garanzia di libertà del cittadino e deve essere tale per volontà della legge che non lasci dubbi di sorta.

MANCINI. Si combattono le perizie psichiatriche con l’interrogatorio dell’imputato.

CANDELA. Faccio l’avvocato da trenta anni in Corte di assise, e di queste assurdità non ne ho mai trovate, perché l’interrogatorio è un atto necessario, ma non è l’elemento solo che può bastare per un giudizio. S’intende che i nostri obiettivi e il nostro interesse professionale possono essere in urto con la decisione del magistrato, ma questo non conta. E la dimostrazione ampia e completa viene dal fatto che la maggior parte degli avvocati e degli studiosi sono contro il ripristino della giuria. Rinunziamo ad una facile gloria, ma serviamo il paese. Era facile ottenere dei verdetti nei quali, affermandosi il fatto, si negava la intenzionalità (Interruzione dell’onorevole Mancini). Questo offende non solo la coscienza giuridica, ma soprattutto la coscienza morale. Ed io vi dico che non più tardi di ieri ho discusso un processo a Messina per rinvio della Cassazione di un processo fatto a Palmi – perché nella motivazione non si era tenuto conto del parere del consulente tecnico…

MANCINI. Che c’entra questo con la giuria?

Una voce al centro. Se lo scabinato sbaglia, la giuria sbaglia di più.

CANDELA. Comprendo come l’onorevole Mancini possa essere attaccato alla vecchia tradizione, che risponde del resto veramente ai principî sacri della libertà…

Una voce a sinistra. E allora?

CANDELA. Allora che cosa? volete confondere una questione politica con una questione tecnico-giuridica? Questo è l’errore vostro! (Commenti). Intanto l’annullamento per difetto di motivazione ha avuto come conseguenza la ripetizione del dibattimento nel caso che ho riferito. Ma quando il giurato ha una licenza modesta, un titolo modesto di cultura, o non ha cultura affatto, perché basta l’iscrizione nelle liste elettorali per far parte della giuria, mi dite come fa il giurato ad intervenire in una questione che non sia meramente di fatto? E questioni di fatto pure e semplici non esistono: il rapporto di causalità, che sembrerebbe il più semplice, involge tante questioni giuridiche; come lo risolve ? Lo risolvi tu, vecchio ed accorto avvocato; ma non può risolverlo quel pover’uomo, che è messo di fronte ad un problema di carattere tecnico che non è in condizioni di affrontare. Il giurato assolve il suo compito e lo assolve istintivamente; risponde sì o no secondo la sua convinzione, che viene più dalle forme esteriori e suggestive anziché da quelle profonde e vere che nascono dalla conoscenza del processo e dallo studio paziente ed elaborato.

Questo ci insegna la pratica professionale. Sono intervenuto in una discussione già satura, direi, perché ho inteso gli argomenti addotti dall’onorevole Veroni questa mattina, il quale si è espresso molto garbatamente; non così audacemente come il mio interruttore, a favore della giuria. È noto agli studiosi, noi avvocati conosciamo quello che fu il conflitto tra la scuola classica e la scuola positiva. Attorno alla scuola positiva fiorì un seguito di studi di un tecnicismo speciale, che sta a provare sempre di più che il criminale spesso è un ammalato, un individuo che delinque in condizioni patologiche; il delitto è, spesso, patologia.

Ora, tutto questo va inteso e va capito da chi ha studiato seriamente; non può essere inteso dal profano, che del fatto brutale non coglie che l’attimo che lascia la conseguenza, ma non le cause intime e profonde.

Quanto ha pesato il fatale nell’atto dell’uomo che ha commesso un delitto? Tutto questo dico nell’interesse dell’imputato, di colui che dovrà essere giudicato, nell’interesse del cittadino, perché l’errore non si commetta, perché l’ammalato sia mandato al luogo di cura e il reo paghi le conseguenze.

È un complesso di cultura e di cognizioni specifiche che si domandano al giudice penale, per cui noi insistiamo per avere il giudice penale specializzato, questo giudice penale specializzato che dovrà avere conoscenza profonda soprattutto in medicina legale, perché è inammissibile una situazione come quella attuale in cui l’esame di medicina legale non è neanche obbligatorio per i laureandi in legge. Questa è la triste verità! Quindi, conoscenza di tossicologia, di traumatologia e di tutto quello che può avere una sua importanza, che pesa, col valore del tecnicismo, e non dell’empirismo. Si potrà risolvere il problema nella maniera che si crede, anche non affidandolo ai magistrati; ma evidentemente il collegio che deve giudicare il suo simile dovrà pur dire le ragioni per cui ha condannato un uomo radiandolo dalla vita materiale e morale della società.

 

Potrà essere il rimedio quello del magistrato togato? Io ho ritenuto e pensato sempre che tutti i giudizi devono esser fatti dal magistrato ordinario. Non vi è ragione alcuna di distinzioni. Ma questa distinzione è fatta per l’affermazione di un principio che è al di fuori dell’interesse sociale e dell’interesse dell’individuo? Non lo comprendo!

Se si vuole affermare il principio che il popolo, attraverso i suoi delegati, deve fare la legge, e che deve anche direttamente amministrare la giustizia, e allora è bene che tutti i processi siano di cognizione del popolo. Non vi è ragione di fare distinzione e di creare i privilegiati del delitto.

E, guardando ai tempi in cui viviamo, questo non è il momento per mostrare larghezze o benevole compiacenze; nella valutazione delle prove, occorrono severità, coscienza, competenza. Questo è il momento in cui la criminalità è al suo parossismo! Basta guardare le statistiche: alla Procura della Repubblica di Messina vi sono migliaia e migliaia di processi pendenti. E la provincia di Messina è quella che dà minore contributo alla criminalità; fate indagini attraverso le varie Procure della Repubblica e troverete che la situazione è veramente dolorosa.

Si dovrebbe tornare alla giuria, soltanto per seguire una ideologia, per fare una affermazione politica astratta, che in concreto si risolve in vantaggio per i criminali. E quali? I peggiori, i più pericolosi per l’ordine sociale, i rapinatori, gli sgozzatori, l’uomo del chilometro 47. Sono essi che devono beneficiare della giuria popolare? E allora, tutti i reati vadano alla cognizione del giudice popolare! E contro la giuria furono Francesco Carrara ed Enrico Ferri. Vi indico gli antesignani di due scuole diverse. Il Codice attuale deve essere applicato dal giudice tecnico; sulle aggravanti e diminuenti, quante questioni sorgono di prevalenza, di equivalenza, di coesistenza che non possono essere decise dal giudice che non è tecnicamente preparato. E così per la premeditazione, provocazione e tante altre questioni che sono proprie dei giudizi di assise.

Ma il Codice dovrà essere riformato, indiscutibilmente, e quello che spaventa taluni è la entità e la gravità della pena; è valido motivo di preoccupazione. D’accordo; il magistrato, che in questo senso è conservatore perché applica la legge ed è un esecutore della legge qualunque sia il regime che serve, non può andare al di là dei limiti di pena stabiliti dal Codice. Ma queste modifiche si possono e devono fare anche con carattere di urgenza perché, per esempio, è assurdo che per il vizio di mente, che scema grandemente l’imputabilità, la diminuzione sia solo del terzo. È necessario tornare alla vecchia distinzione tra provocazione lieve e provocazione grave. La concausa, la preterintenzione nelle lesioni e così via. Restituzione per molti capi al Codice Zanardelli. Quindi la colpa non è del collegio giudicante, in rapporto alle asprezze delle pene, ma del Codice che deve essere applicato: dategli una legge buona e il magistrato farà buona giustizia. Il magistrato non vive avulso dalla società, ma vive in mezzo alla società e di questa società sente i bisogni e le sofferenze. Egli ha la sua famiglia che gli riporta l’eco della grande famiglia della città e dell’ambiente in cui vive e si muove, è un uomo con i suoi palpiti, i suoi dolori e le sue gioie, non può essere sordo ed estraneo alla vita sociale.

Non vi è preoccupazione per la mentalità formata o deformata, come taluni hanno mostrato di temere, per il cosiddetto abito professionale che rende sordo il magistrato alle voci della vita, perché è assurdo pensare che il lavoro intellettuale abbrutisca cervelli ed anime, perché se noi questo dovessimo temere dovremmo abolire il magistrato di carriera. È la buona legge, che il giudice deve avere, perché quando il giudice avrà la legge umana avremo le sentenze consone al sentimento popolare. Quindi penso che reati comuni che possano preoccupare il popolo, preoccupare la Nazione, perché per la loro entità sono demandati al magistrato, assolutamente non ve ne sono, anzi interesse sociale è che i reati più gravi siano giudicati dai giudici tecnici. E il tribunale potrà avere una formazione speciale, potrà avere quella formazione paritetica che nella parità dei voti si risolveva in favore dell’imputato. Ma non trovate immorale ed illogico che mentre per una semplice lesione vi sono due giudizi, due esami di merito, per un delitto che importa l’ergastolo vi debba essere un solo esame di merito con un verdetto che non lascia tracce perché anche le schede, che dicono poco, andavano bruciate? Questo è il paradosso della situazione. Con i due giudizi di merito evitate l’errore giudiziario o per lo meno lo ridurrete al minimo, perché quando voi ammettete, come diceva l’onorevole Veroni, che i magistrati sbagliano anche loro, è vero, dite una grande verità. Per questo c’è il secondo grado di giudizio. Anche i magistrati sbagliano, perché sono uomini e non sono infallibili ma certamente sbagliano di meno.

Una voce a sinistra. Sbagliano due volte.

CANDELA. Ma quando si fa il secondo tentativo può darsi che non sbaglino e se sbagliano due volte c’è ancora la Corte di cassazione. E sulla scorta di quei motivi che sono stati dedotti in primo grado e secondo grado si va al terzo grado, per ricorso. In sostanza vi sono tutti quegli accorgimenti per cui il cittadino deve sentirsi garantito. L’infallibilità è di Dio e non dell’uomo. Penso pertanto, che si possa arrivare alla soppressione dell’articolo 96 senza peraltro che questa soppressione pregiudichi la questione in avvenire. Se vi opponete a quella che è la sentenza del solo magistrato perché pensate che il magistrato si sia incallito nel mestiere e possa non essere un giudice sereno, si potrà trovare in avvenire altra soluzione, ma è certo che il magistrato è il più lontano dalle pressioni, dalle sollecitazioni del Paese, del momento, dagli stimoli e passioni delle parti. Se questo uomo che volete porre al di fuori della politica, nel più alto grado della gerarchia e dell’impiego, col progetto in esame, se questo magistrato che in Inghilterra ha tanta autorità da potere umiliare anche il Sovrano e in quel Paese dove le leggi scritte sono poche, la tradizione è tale e il costume è tale per cui tutte le evoluzioni sociali e civili sono possibili, lo rifiutate per i giudizi più gravi che richiedono maggiore ponderazione create una penosa contraddizione; in Inghilterra l’evoluzione sociale avviene senza scosse perché vi è profondo il sentimento della giustizia, il rispetto per il giudice, per coloro che amministrano la giustizia con pieno concorso di tutte le parti del Paese. E quando la democrazia italiana avrà raggiunto questo grado di civiltà, sarà veramente una democrazia perenne che non potrà fallire, perché il fondamento di tutti gli Stati civili e della vera democrazia è la giustizia. Non vado oltre, e per gli emendamenti concordo con quanto ha detto nobilmente l’onorevole Sardiello e mi associo a lui. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scalfaro. Ne ha facoltà.

SCALFARO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, dopo tante discussioni su un problema così ampio, così appassionante e soprattutto così difficile, sia consentito a me, ultimo dei magistrati qui presenti, di portare un modesto contributo. E vorrei portarlo (mi si consenta, perché non è critica ad alcuno) non già protestando contro l’indipendenza della Magistratura che è stata nel progetto manomessa, ponendomi a difenderla quasi ad oltranza per quindi uscire dall’Aula senza aver concluso assolutamente nulla. Mi pare che il problema debba essere visto così come quando, in una qualsiasi Corte, in un tribunale, alla fine dalle arringhe di accusa e di difesa si ritirano i magistrati in camera di consiglio e discutono passo passo su questioni di fatto e di diritto, e discutono tirando le somme su quello che si è detto.

Non mi voglio arrogare il diritto e il vanto di tirare le somme su quanto hanno detto gli altri, ma vorrei vedere se fra queste due tesi dell’indipendenza da una parte e di chi, dall’altra, sostiene che l’indipendenza riduca la Magistratura ad una «casta chiusa», non vi sia una via di mezzo. Io ho presentato un emendamento in merito. Ho presentato un emendamento che parte da un interrogativo posto a me stesso e che mi permetto porre all’Assemblea: che cosa si intende per indipendenza? Ché se per indipendenza si intende di impedire qualsiasi controllo in quello che può essere il governo dell’amministrazione della giustizia in Italia, evidentemente il Consiglio Superiore della Magistratura, dovrà esser composto di soli magistrati.

In tal caso, si può anche andare al di là di una pura e semplice indipendenza. Si consenta che un magistrato ricordi che stiamo vivendo in una realtà di vita concreta, dove sono delle esigenze politiche che non possono essere trascurate né è possibile chiudere gli occhi di fronte ad una richiesta di controllo nel governo della Magistratura che viene fatta da tante parti di questa Assemblea e che non può ritenersi a priori tutta inficiata da moventi politici o peggio, da desiderio di soppiantare, di scardinare la Magistratura rendendola asservita ai partiti. Ché se anche così fosse nelle intenzioni, quello che ci interessa, è il prendere atto che solo di controllo si parla e per questo solo si fanno formali richieste. D’altro canto, ci si potrebbe fermare ad un sostanziale concetto di indipendenza ad un concetto-limite, difendendo quella che è l’indipendenza nella sua essenza, nel suo contenuto indispensabile: in tal caso si ha indipendenza fino a quando non si pongano ostacoli, non limiti che lasciando la parvenza di essa, la svuotano di ogni contenuto. Non si avrebbe indipendenza quando il Consiglio Superiore avesse una maggioranza di non magistrati, o anche quando rimanesse quello che è scritto nel progetto, dove è previsto che la metà dei membri siano magistrati e l’altra metà eletti dall’Assemblea fuori del suo seno.

Nel mio emendamento il pericolo viene a scomparire mutandosi quella composizione in queste diverse proporzioni, che cioè nel Consiglio Superiore vi siano sotto la presidenza del Presidente della Repubblica, due terzi di magistrati eletti dalla Magistratura ed un terzo di non magistrati eletti dall’Assemblea. Per quanto poi riguarda la scelta di questo terzo, ritengo indispensabile che si tratti di tecnici. Se il Consiglio superiore dell’istruzione che pure ha sola funzione consultiva, può avere nel suo seno solo insegnanti, a maggior ragione il Consiglio superiore della Magistratura deve avere esclusivamente persone tecniche, data la competenza, la funzione che al Consiglio è affidata. Mi pare tuttavia che l’emendamento Monticelli, che ammette al Consiglio Superiore ex magistrati, avvocati, docenti di diritto, pure accettabilissimo, possa anche non far parte di una Costituzione ed entrare in una legge successiva sull’ordinamento giudiziario. Nella Costituzione, è sufficiente delimitare questi campi; fissare i principî, vincere la grossa battaglia dell’indipendenza perché da una parte la Magistratura non potrà dire di non aver sufficiente libertà né che è costretta a subire volontà, o pressioni estranee; d’altra parte coloro che esigono il controllo lo hanno attraverso il terzo dei non magistrati. È questa una sintesi delle due correnti che considera giustamente e la necessità dell’indipendenza, soppressa la quale si sopprimerebbe la stessa giustizia, e questa situazione storico-politica che ha le sue esigenze e che non potrebbe essere misconosciuta senza pregiudizio della stessa Magistratura già purtroppo, sufficientemente e ingiustamente sospettata. È inutile quindi, che ci impanchiamo a pubblici ministeri di fronte ad un progetto di Costituzione, dichiarandoci pronti a lacerarlo, affermando che non è attuabile, quando poi questa affermazione di principî debba rimanere tale, senza aver saputo dare un contributo concreto. È dovere per un magistrato difendere la Magistratura nel suo prestigio, nella sua forza, nella sua opera di giustizia: tale difesa non si fa a proteste vane, a richieste che già si prevedono verranno respinte: difendiamo il difendibile purché la giustizia sia salva.

Io sono convinto, comunque, che anche qualora – e voglio porre questo «qualora» come ultima deprecata ipotesi – l’indipendenza della Magistratura non fosse salvaguardata, potremmo pur sempre credere, e confidare, nella coscienza dei singoli magistrati. È questa la garanzia più grande, più salda della giustizia. Ma si tratta appunto, in quest’opera di legislazione, di togliere gli ostacoli a che il giudice compia giustizia e far sì che questa indipendenza possa manifestarsi in una amministrazione serena e concreta di giustizia, perché lo sforzo dei singoli per l’indipendenza della propria toga, non urti contro un sistema che già questa toga ha vincolato, ha compromesso.

Io penso che da nessuna parte si voglia tornare alla proposta che si è sentita ventilare, quella di avere dei magistrati eletti dal popolo. Spero che questo non venga proposto da alcuna parte, perché sarebbe in sostanza grave offesa ai principî di giustizia; e comunque, costituirebbe gravissimo pericolo allo svolgimento di una serena amministrazione della giustizia. Ché, se è giusto che il popolo elegga i propri amministratori, i propri governanti, questo può fare scegliendo nel diverso schieramento politico, tra le varie tendenze, di rappresentanti delle diverse ideologie politiche. Tutto ciò non è possibile in tema di giustizia, che deve rimanere una e immutabile; né potrà mai esservi giustizia di destra, di centro o di sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualsiasi aggettivo: esso sarebbe «ladro». Esso verrebbe a privare del suo contenuto il sostantivo. La giustizia, come tale, non ha mai bisogno di essere affiancata da qualsiasi aggettivo; essa non può esser qualificata; la qualifica snatura la giustizia o, quanto meno, la presenta gravata di sospetti.

L’indipendenza quindi è sottoposta a queste condizioni: che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia due terzi di magistrati e un terzo di elementi estranei; e come Vicepresidenti, il primo Presidente della Cassazione ed il Procuratore generale (che sarebbe assurdo, fosse comunque estromesso).

Non mi pare il caso di porre una subordinata; tuttavia voglio ugualmente esprimerla. Ho visto le ultime proposte dei magistrati che scendono anche al di sotto di questa materia, quasi a ultima barriera di difesa: e cioè che comunque l’Assemblea non neghi ai magistrati una qualsiasi maggioranza nel Consiglio Superiore. Io ho chiesto una maggioranza qualificata; perché mi pare necessaria per la dignità e per la fiducia, che l’Assemblea deve avere verso la Magistratura italiana. Ma, almeno questo minimo di maggioranza sia tutelato. E l’indipendenza si rafforza nel progetto, quando nell’articolo 89 si parla di inamovibilità e allorché si afferma che i magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi: grande conquista quest’ultima.

Sarà difficile la discussione nella riforma dell’ordinamento giudiziario, perché da una parte si cerca di impedire tutti i pericoli del carrierismo, e dall’altra non si consente una marcia avanzata, indiscriminata di magistrati senza distinzione di capacità, di doti e di preparazione.

Quello che è soprattutto indispensabile – ed unisco la mia voce a quella, più autorevole, di altri – è che i magistrati non siano considerati ed inquadrati come funzionari dello Stato.

Questa è una battaglia che, penso, ha il suo cardine, la sua origine, mi permetto dire con previsione ottimistica, la sua vittoria, nel progetto, il quale appunto parla di distinzione non di gradi, ma di funzioni. Quindi, si sposta completamente la posizione dei magistrati rispetto a quella dei dipendenti statali. Su questa battaglia il Parlamento futuro si fermerà a discutere, a vagliare, a soppesare, per trarre il più possibile il magistrato al di fuori ed al di sopra della mischia fatta di interessi contrastanti e di lotte politiche.

Articolo 94: si occupa o meglio nega l’iscrizione ai partiti politici.

L’onorevole Veroni ci ha citato una serie di magistrati. È per me, giovane magistrato, che nutro tutt’ora e penso nutrirò sinché io viva, venerazione profonda per i magistrati e per la loro opera, in particolare per i magistrati anziani, per le battaglie sofferte e combattute, è per me dico edificazione particolare il sentire questa elencazione di magistrati, che hanno saputo lottare nel campo della giustizia, senza vedere la loro attività incrinata o sospettata neppure dall’opinione pubblica, e portare qui il loro contributo particolarmente equilibrato e costruttivo.

Poiché potrebbe sembrare che io difenda una mia posizione, lascio che l’Assemblea decida. Credo che i miei colleghi, molti, io certamente, siano pronti a lasciare la toga, o la vita politica, quando, comunque, l’Assemblea lo deciderà.

Io sono pronto a farlo ed a portare la mia modestissima ed esclusiva attività non in quel campo dove possa meglio riuscire, o dove più la vocazione mi chiami, ma dove possa meglio servire la mia Patria.

È indubbio però che questo articolo dia adito a molte discussioni. Io una preghiera posso rivolgere all’Assemblea ed è questa: che non ci si fermi a discutere se l’iscrizione sia o no consentita, se la partecipazione alla vita politica debba o no esser esclusa, ma si entri nella sostanza, vi si entri profondamente, cercando, guardando l’uomo e pensando che sotto la toga siamo uomini di carne ed ossa come tutti gli altri. Si cerchi di impedire che effettivamente sorgano sospetti di interferenze politiche presso la pubblica opinione, che non deve essere turbata da interrogativi in merito all’espletamento dell’attività giudiziaria; si faccia in modo che non sorgano questi interrogativi; perché il cittadino non debba chiedersi se un atto di giustizia sia sereno ed è obiettivamente motivato o se invece sia inficiato da qualche sospetto di politica. Quindi il problema non è soltanto nel negare una iscrizione. Può darsi che questa non tolga nulla, ma è necessario entrare nella sostanza e creare le premesse perché sorga e si mantenga quella mentalità e quella psicologia nel magistrato che gli consenta di difendersi da inframmettenze politiche, da pressioni, da tutto ciò che possa comunque turbare la sua coscienza, il suo giudizio, la sua opera di giustizia. Si tenga ben presente che si ha il pieno diritto, che questa Assemblea può anche avere il dovere di chiedere ai magistrati di non iscriversi ai partiti, e di non fare politica, ma questo è il corrispettivo, per così dire, dell’indipendenza; perché o noi diamo l’indipendenza al magistrato – ed in questo caso si può giungere ad una siffatta conclusione, come l’onorevole Cortese tanto saggiamente ci ha prospettato stamattina – o noi non possiamo fargli pagare, per così dire, lo scotto dell’indipendenza che gli avessimo negata.

Ritengo inoltre che questa indipendenza debba essere rafforzata, togliendo quel secondo capoverso dell’articolo 95: «presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario». Onorevoli colleghi, ci sono varî sistemi per poter, ad un certo momento, legare l’attività di giustizia della Magistratura e se vi può essere l’inframmettenza del potere esecutivo o del potere legislativo, vi può anche essere il sistema di sottrarre continuamente della materia al giudizio del giudice togato. Basterebbe vedere come sono sorti i varî tribunali speciali per questa loro speciale competenza, fino all’ultima sottospecie di tribunale, quello annonario, che non era composto da tre magistrati, ma da due magistrati e da un tecnico, il quale, sì, avrebbe potuto giungere a portare il suo contributo oggettivo di esperto e di scientifico, vale a dire il suo specifico contributo di tecnico, ma non avrebbe mai dovuto diventare giudice, rimanendo solo consulente, solo perito. Si mantenga l’esperto nella sua vera veste e si lasci che il magistrato possa continuare a fare il magistrato.

Vi è un altro problema che ha interessato e a volte turbato, in un modo che vorrei dire anche strano, l’Assemblea: è quello delle donne, vale a dire se esse debbano o meno entrare a far parte della Magistratura.

Lasciando quel che può essere il mio parere personale, di un giovane che sarebbe certo tacciato di mentalità del ’700, io penso che l’articolo 48 da noi già votato, possa aver arato il terreno ed aperto la strada per la soluzione di un tale problema. Quando l’Assemblea ha dichiarato che «tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», è possibile che comunque il problema possa ritenersi, se non del tutto, quasi risolto. Si potrebbe obiettare che questo articolo è sotto il titolo dei Rapporti politici; comunque è stato scritto e non è facile ora andare a vedere le motivazioni che l’hanno determinato o le varie dichiarazioni di voto per cercar di restringere il più possibile il contenuto. Ormai è scritto.

Per questo ritengo che sia inutile la presentazione dell’emendamento che, firmato dall’onorevole Mattei Teresa e dalla collega Rossi Maria Maddalena dice: «le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura», ma che sia molto più saggio mantenere le parole del progetto, che portano con sé una grande saggezza, la quale, cioè, pur di fronte a questa uguaglianza, che io credo ancora voglia essere uguaglianza che non nega, ma presuppone le diversità nell’ordine di natura, abbia posto così un principio, abbia cioè detto che se la donna è uscita di casa per la vita politica, per la vita pubblica, comunque per un’attività che non sia quella sua primaria di maternità nella casa, la donna è chiamata ad essere «donna» in questa Assemblea come in ogni altra attività, ed è grande ed è a suo posto solo se è donna, perché solo in questo modo è madre di quella maternità spirituale, profonda, dolce e dolorosa insieme. Così potrà esser chiamata anche nella Magistratura, ma per portare questo suo palpito di maternità per cui in questo ufficio, in quell’incarico, sia necessario, o più opportuno che vi sia una donna. Ma ritengo comunque, che le doti altissime del suo animo dove prevale il sentimento che più è capace di renderla eroica, si confacciano alla specifica funzione del giudicare.

Ed una parola mi sia consentita sulla giuria. Non potrei certo mettermi in lizza con avvocati che hanno decenni di esperienza. Non posso, quindi, e non avrei titoli particolari per presentarmi a dire che io non sono favorevole alla Giuria. Ma vi è il più vasto problema, della partecipazione di estranei, di laici, al giudizio. Ho fatto un anno e mezzo il pubblico ministero in quelle Corti d’assise speciali dove ho visto troppo sovente i giudici popolari prevenuti, non sereni. È vero che erano delle Corti del tutto speciali, ma è anche vero che la pressione, la lotta politica, l’incapacità al giudizio, i commenti esterni di giornali o d’interessati, turbano la coscienza del cittadino chiamato a giudicare.

Io non sono d’altra parte d’accordo con quanto ebbe a dire stamane l’onorevole Veroni dicendo che vi è un nesso, una concatenazione fra quella che può essere la vita democratica di un popolo e l’esistenza della giuria. Forse storicamente questo potrà ancora trovare elemento di prova, ma nego che nella sostanza si possa parlare di rapporto, di causa ad effetto.

Credo che il problema debba essere studiato come la maggioranza mi pare abbia detto finora, e cioè, al di fuori di qualsiasi osservazione che possa, comunque, lasciar pensare a politica contingente. Uno solo è il quesito: per quale via si raggiunge meglio il fine della ricerca della verità che è la base essenziale per fare giustizia. Comunque, io sono contrario in particolare a chi ha detto che se la giuria dovrà esser esclusa, quanto meno essa deve vivere per i reati politici. Mi pare che se vi sia un caso nel quale debba essere esclusa sia proprio questo. E mi si lasci elevare una protesta, in questo momento, di fronte a quell’opinione pubblica che va presentando il reato politico come ammantato di qualcosa che lo renda meno criminoso di un altro reato. Lo è più gravemente, più profondamente criminoso che non qualsiasi altro reato, e lo è tanto, per cui è giusto che la società si difenda, decisamente, seriamente attraverso l’opera oggettiva, serena, vigile, del giudice togato, ma non attraverso un giudizio politico che presuppone logicamente una valutazione politica del fatto. No, signori, è un reato, è uno dei peggiori reati, e guai alla coscienza di quel popolo che si ostini a valutarlo diversamente. E qui sorgerebbe un problema agganciato a quello dell’iscrizione ai partiti. Perché mai si dovrebbe chiedere che il Magistrato togato non si iscriva a nessun partito ed il cittadino chiamato a far parte della Giuria, il cittadino giudice non debba avere questa limitazione? E lascio l’interrogativo.

Ma, consentitemi che soprattutto, io difenda i magistrati da un’accusa e da una critica sorta da varie parti di quest’Aula: si è detto che la giuria sia indispensabile (e su questo punto concludo perché il problema sia rinviato in sede di legislazione) perché il Magistrato è formalista, è freddo, mentre la Giuria porta certo un coefficiente di umanità.

Consentitemi, onorevoli colleghi, di ribellarmi a questa gelida visione dell’animo del giudice; lasciate che io vi dica che sotto questa povera toga c’è sempre un cuore che soffre, una coscienza che sente il dolore, le trepidazioni, gli affanni, i dubbi, le amarezze, le incertezze, vi è un’anima che intende la sofferenza dell’uomo. Ma questo senso umano è particolarmente cosciente ed è umanità che viene integrata anche da una sapienza di studio giuridico che la rende non emotiva o passionale, ma intelligente, motivata, serena.

Onorevoli colleghi, date questa indipendenza alla Magistratura. Date l’indipendenza perché i cittadini abbiano fiducia nella giustizia, date l’indipendenza per dimostrare che c’è una fiducia profonda nei magistrati; altrimenti non garanzia del cittadino, né della democrazia noi avremo, e soprattutto costringeremo qualche magistrato, che si ostina disperatamente a credere nella giustizia, a lasciare la toga, proprio per continuare a credere in una vera giustizia. Date quindi l’indipendenza. In quest’Aula tante volte sono sorte delle critiche, anche aspre, verso la Magistratura. Io altra volta ebbi a levare la mia povera voce a questo riguardo, e da ogni parte di quest’Aula ho inteso un applauso alla Magistratura, un applauso che mi ha commosso. Si è in questi giorni parlato tanto bene dei magistrati e della Magistratura ed è profondamente vero che affidando una particolare fiducia a questa toga si dà una maggior forza alla giustizia, a quella che è la concreta giustizia, a quella che ogni giorno continuamente si genera nelle aule giudiziarie. Ho unito così la mia, a voci molto autorevoli, a voci che hanno difeso la Magistratura. Ho cercato anch’io di difendere la mia povera toga.

D’altra parte tutti in quest’Assemblea dobbiamo, dinnanzi ai cittadini italiani dimostrare che qui si crede profondamente nella giustizia, perché i cittadini italiani imparino a continuamente credervi, come a elemento indispensabile di rinascita e di redenzione.

Onorevoli colleghi, io terminerò rivolgendo a ciascuno di voi, una preghiera. Non a voi deputati, a voi politici, a voi diversamente schierati nei vari settori, ma a ciascuno di voi uomo che sente, che vive, che soffre. Da lei, onorevole Presidente dell’Assemblea, agli uomini un po’ in tutti i settori, e in qualcuno in particolare, ci sono tanti che hanno molto sofferto a cagione della giustizia; vi sono uomini che hanno profondamente e magicamente sofferto, ed io mi appello a costoro che hanno provato le più gravi sofferenze, perché chi della ingiustizia ha sofferto deve avere un credo più forte nella vera giustizia. Avete sofferto per cagione di giustizia, privata del suo fondamento: la libertà. Io mi appello a questa sofferenza, come alla sofferenza di voi, che siete deputati ed avvocati di ogni parte, voi che soffrite con la sofferenza di coloro che dovete difendere, voi che soffrite nel segreto del vostro studio per la ricerca affannosa della verità. Lasciate che anche ogni magistrato porti la sua sofferenza, come io porto la mia seppur modesta. Pure fu essa ad aprirmi più ampia la porta della comprensione fra i detenuti, a farmi salire soffrendo al banco dell’accusa a chiedere una condanna a chi fratello mi era dinnanzi, e nel dolore, più che mai fratello mi appariva. Lasciate che in nome di questa sofferenza io vi chieda: difendiamola insieme questa povera, umile, tante volte lacerata ma gloriosissima toga, difendiamola insieme da ogni parte di questa Assemblea e ricordiamo che se essa è intemerata, è garanzia di giustizia; se essa è libera è garanzia, onorevoli colleghi, è certezza di libertà. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Gullo Fausto. Ne ha facoltà.

GULLO FAUSTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Che il problema sottoposto oggi alla discussione dell’Assemblea sia arduo e complesso è dimostrato – se ce ne fosse bisogno – dalla lunga discussione che si è svolta in questa Assemblea e, prima ancora, dall’ampio dibattito che si è svolto sulle riviste e sui giornali.

Problema arduo e complesso; ardua e complessa, quindi, la soluzione che esso richiede per la salute della nuova democrazia italiana.

Ma a rendere indubbiamente più complicati i termini del problema sono intervenuti due fatti. Il primo è che il problema non si è salvato da un veleno che, specialmente nel nostro Paese, si riscontra un po’ dappertutto: non si è salvato dalla retorica.

Non è che la retorica sia qualche cosa da escludere sempre e aprioristicamente; cadremmo così nella retorica dell’antiretorica. Un grande scrittore il quale, appunto perché grande, non poteva avere, e difatti non aveva, simpatia per la retorica, diceva però che qualche volta è giusto che essa ci sia. Ma quando ha da esserci, è necessario che sia misurata, parca, fatta con garbo, tale, insomma, che la gente non si accorga della sua presenza.

Ora, è indubbio che nei rapporti del problema giudiziario vi è stata sempre della retorica e della pessima retorica, perché i giudici sono vittime – penso che essi per i primi abbiano coscienza di questo loro stato di vittime – sono vittime di due retoriche ugualmente pessime, una che chiamerò esaltatrice e un’altra che dirò menomatrice.

C’è caso che si parli dei magistrati senza che si ricorra a frasi di questo genere: apostoli della giustizia, custodi del diritto, sacerdoti della legge? Ed è questa appunto la retorica esaltatrice.

Ma c’è anche – come dicevo – la retorica menomatrice. Vi siete mai accorti, in grazia di questa retorica, che vi sia un giudice il quale decida di cause di milioni avendo fatto un sufficiente pasto o che non venga in udienza con l’abito frustro e logoro? E accade, così, che per questi due eccessi retorici noi perdiamo di vista l’uomo che sta sotto la toga, la quale non è certo una toga da sacerdote, da apostolo, da custode, tale insomma da far venire in mente i sacerdoti della Norma o dell’Avanti! È necessario invece che noi abbiamo davanti l’uomo, l’uomo giudice, che parecchie volte ha scelto questa carriera perché spintovi dalla necessità, dal bisogno di dare alla sua vita una sistemazione, pur senza escludere coloro che la scelgono per elezione. Siamo insomma di fronte a uomini che devono essere considerati e valutati come tali.

Ma, insieme con questa retorica che falsa l’umanità del giudice, vi è un qualche altro elemento perturbatore. In realtà il problema giudiziario non è uno solo; si è erroneamente fatto di tre problemi ben distinti un problema unico. E anche ciò è valso a renderne più difficile la soluzione, il problema è triplice. Vi è il problema del potere giudiziario in se stesso. Quando si parla, per esempio, di sovranità del potere giudiziario e se ne discute come di qualche cosa che possa essere messa in dubbio, evidentemente si confondono tre problemi diversi. Si confonde il potere giudiziario con l’organo del potere giudiziario e, peggio ancora, con gli uomini che costituiscono l’organo. Ma vi può esser dubbio sul fatto che il potere giudiziario sia un aspetto della sovranità dello Stato? Anche lo Statuto albertino, affermando che la giustizia emana dal re (che era l’organo in cui si compendiava la sovranità dello Stato), riconosceva esplicitamente il carattere sovrano del potere giudiziario. Non è ammissibile che si discuta su questo. Si è sempre concordemente riconosciuto che una delle lesioni più gravi alla sovranità di un Paese è appunto quella di togliergli o menomargli la podestà di giudicare. Non può esser dubbio: il potere giudiziario è un aspetto della sovranità dello Stato. E affermare ciò significa accettare senz’altro le conseguenze di cui di qui a poco parleremo.

Vi è poi un secondo problema ed è quello dell’organo che deve esercitare questo potere. Ma a nessuno verrà in mente di affermare che quest’organo è un organo sovrano.

Non lo è alla stessa maniera che non è sovrano il Governo che pur esercita il potere esecutivo, che non lo siamo noi che esercitiamo quello legislativo. Non si vede perché dovrebbe esserlo l’organo che esercita il potere giudiziario; tanto meno ciò si vede in rapporto agli uomini che costituiscono l’organo stesso. Sono concetti semplici, ma non è forse inopportuno richiamarli alla mente allorquando ci si pone sul terreno della soluzione del problema del potere giudiziario. Triplice problema, dunque: potere giudiziario, organo giudiziario, uomini che costituiscono questo organo. È il problema degli uomini quello che abbiamo davanti? Ho già avuto cura di sottolineare la necessità che il giudice sia esaminato e valutato come uomo. Egli ha tutto da guadagnare da ciò e nulla da perdere. Io che ho avuto contatto con i giudici italiani per decenni, posso senz’altro affermare, a loro onore, che essi costituiscono una classe in cui le persone degnissime non sono affatto rare. Purtroppo il costume è tale che l’onestà, assunta nel più elementare significato della parola, diventa una nota distintiva, mentre dovrebbe costituire il fatto di tutti, la premessa sottintesa. Ma poiché è così, bisogna riconoscere che questo titolo di distinzione è consueto tra i giudici. Ognuno di noi, che ha avuto contatto con i magistrati, può senz’altro affermare, sicuro di aderire al vero, che è rarissimo il caso del giudice che ceda all’allettamento corruttore. La generalità dei giudici da questo punto di vista è sana. Ma dobbiamo senz’altro affermare, per la dignità di noi stessi e per la dignità dell’Ordine giudiziario, che questo è un elemento che non basta; perché si sia un buon giudice non è sufficiente essere soltanto onesto; l’onestà è una premessa che deve esser sottintesa.

Ma anche movendo da tale considerazione, ognuno di noi può rievocare l’immagine di qualche giudice, che costituisce un esempio veramente imitabile. Mi piace a questo punto ricordare un fatto occorsomi proprio durante il tragico ventennio, in cui tutto cedette, anche l’Ordine giudiziario. Alcuni uomini potettero resistere, ma l’Ordine cedette. Perché non dirla questa verità? Ricordo, dunque, che un sottufficiale della milizia aveva così bestialmente percosso e bastonato un detenuto, da cagionargli una polmonite traumatica, che ne determinò la morte. Si istruì il processo. Il milite era imputato di omicidio volontario.

Fatto è che si voleva, che si doveva salvarlo ad ogni costo. Furono mobilitate, starei per dire, tutte le forze dello Stato. Ho davanti la Corte di assise, in quel giorno in cui si svolse il dibattimento: era piena di ufficiali dell’arma a cui apparteneva l’imputato. Vi erano stati periti compiacenti, i quali avevano detto che, nel caso, non si trattava di una polmonite traumatica, che non c’era alcun nesso di causalità fra le percosse e la polmonite e la morte; che vi era stata soltanto una coincidenza casuale tra le innocue percosse e una polmonite infettiva. Vi era un principe del foro – del foro fascista, naturalmente – che aveva assunto la difesa del sottufficiale. Il Pubblico Ministero ritirò l’accusa e chiese l’assoluzione.

Vi era però in questa Corte di assise un Presidente, un vecchio, alto, fisicamente aitante, che dirigeva come meglio poteva il dibattimento nel clima assolutorio che si era creato. Non si affacciava nemmeno il sospetto che l’imputato non dovesse essere assolto.

Era una giornata afosissima di luglio. L’avvocato, sicuro del fatto suo, ritenne di dover dire soltanto poche parole. La Corte di assise entrò in camera di consiglio che non era ancora mezzogiorno. Era quasi il tramonto e non veniva fuori.

Dopo lunghe otto o nove ore finalmente la Corte riapparve. I giudici avevano chiari nel viso, nell’atteggiamento, nelle vesti i segni della sofferenza di una così lunga camera di consiglio con una temperatura torrida. Solo il Presidente appariva nella padronanza assoluta di tutti i suoi mezzi fisici; con voce alta, avvolto nella toga che lo rendeva ancora più solenne, lesse la sentenza di condanna per omicidio volontario. Egli ebbe il coraggio, di fronte a tutto quello sfoggio di forze che era nell’aula, in quel clima di intimidazione e di aperta minaccia, di resistere e di fare giustizia. Vi furono, non è dubbio, anche durante il fascismo, giudici che conservarono la coscienza del loro dovere.

La questione non è tanto di uomini, e questo rende il problema ancora più arduo, e ci deve convincere che non è risolvendo una questione di uomini che noi possiamo pretendere di risolvere la questione del potere giudiziario in Italia. Essa, del resto, si è sempre dibattuta, anche quando esistevano, secondo alcuni, in gran numero giudici insigni, di cui ora si sarebbe perduto lo stampo.

Ricordo un discorso di Zanardelli, che una rivista giuridica ha pubblicato in questi giorni, per notare come gli stessi problemi che si agitano ora si agitavano cinquanta anni fa, e negli stessi termini.

Ora, poiché il problema permane nonostante gli uomini, occorre riconoscere che esso è più profondo e più radicale. È un problema di sistema.

Qui si innesta senz’altro, come primo aspetto della questione, ed è l’aspetto più interessante, quello dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura. Si dice: la Magistratura deve essere indipendente ed autonoma. Badate, è qui che si inserisce l’errore di cui parlavo all’inizio, ossia di non riflettere bene che la sovranità è soltanto del potere giudiziario e non dell’organo. Evidentemente, quando si afferma con tanta risolutezza – e vedremo in quali termini e in quale misura – la necessità dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura, si commette un errore, ossia si slarga il carattere di sovranità, che è proprio del potere giudiziario, attribuendolo all’organo. Si dice: «la Magistratura deve essere indipendente ed autonoma». Occorre che ci intendiamo sul significato di queste parole. Quale è il potere dello Stato che sia indipendente ed autonomo?

Non il potere legislativo, non il potere esecutivo. Né si vede che l’uno e l’altro siano menomati, e nella teoria e nella realtà, dal fatto che non sono né indipendenti né autonomi. Perché dovrebbe esserlo in così larga misura il potere giudiziario? Bisogna pur dare un fondamento teorico e pratico a questa affermata necessità della piena indipendenza e della piena autonomia della Magistratura.

E, badate, è una autonomia e una indipendenza che si postulano in maniera tale, che, se noi volessimo applicarle integralmente, avremmo un organo assolutamente scisso dagli altri organi, che sono anch’essi rappresentativi della sovranità dello Stato.

Onde si trarrebbe la ragione di tutto ciò?

Non basta dire: «noi vogliamo sottrarre l’ordine giudiziario alle illecite interferenze dell’esecutivo». Qui siamo di fronte ad un fatto illecito, direi, delittuoso, comunque eccezionale; e non è possibile, partendo da una eccezionalità, voler costruire un edificio costituzionale. Dire: noi intendiamo che l’ordine giudiziario sia assolutamente autonomo ed indipendente, significa scinderlo dagli altri poteri sovrani dello Stato; non può bastare a giustificare, ne teoricamente, né praticamente una costruzione simile, il fatto eccezionale di un Ministro, che possa imporre al giudice una sentenza. E questo lo dico prescindendo dal fatto che noi siamo in regime di democrazia. E se questa democrazia noi la intendiamo e la creiamo come attività di organi, che si rifacciano costantemente, nella esplicazione della loro funzione, a quella unica fonte di sovranità, che è il popolo, se noi questo vogliamo, e dobbiamo volerlo, se noi riusciamo a creare questa democrazia, evidentemente la pretesa necessità di assicurare l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura in maniera tale da renderla un potere scisso da tutti gli altri, non ha alcun fondamento; perché non è più concepibile, se non come fatto assolutamente anormale, la indebita ingerenza dell’esecutivo nel giudiziario.

Il controllo che vi è da parte del legislativo sull’esecutivo, da parte del corpo elettorale e del popolo sull’uno e sull’altro deve, ripeto, rendere assolutamente eccezionale una indebita ingerenza dell’esecutivo; non parliamo del legislativo, cui qualche collega accennava. Noi possiamo in astratto ipotizzare tutto, ma non vedo come questa ingerenza del legislativo potrebbe esplicarsi come atto illecito. Se domani si esplicasse in una maniera tale, che anche la Magistratura ne sentisse il peso, ciò non avrebbe nulla di men che perfettamente lecito.

Ed allora, che cosa è questa indipendenza? Se noi togliamo ad essa questa giustificazione, che deve essere esclusa per il rispetto stesso che ognuno di noi deve avere per la democrazia nuova, cosa sarà mai questa indipendenza della Magistratura?

Indipendenza da che cosa? Dal legislativo e dall’esecutivo, nel senso che questo potere, nella esplicazione della sua attività, non debba avere rapporti costanti, continui con l’esecutivo e col legislativo? Io nego che in uno Stato veramente democratico possa aversi un fatto simile. Noi consideriamo i tre poteri, così come mostrava di considerarli, in un passo oltremodo significativo della sua Scienza della legislazione, Gaetano Filangieri. Egli scriveva:

«In ogni specie di Governo l’autorità dev’essere bilanciata, ma non divisa; le diverse parti del potere debbono essere distribuite, ma non distratte; uno deve essere il fonte del potere, uno il centro dell’autorità; ogni parte del potere, ogni esercizio di autorità deve immediatamente da questo punto partire, deve continuamente a questo punto ritornare».

Il Filangieri, con perspicuità di concetti e di parola, senz’altro definiva quale deve essere l’esercizio della sovranità costituzionale.

Ma noi, realizzando l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario, così come esse vengono richieste, creeremmo un potere completamente staccato ed estraneo dagli altri poteri dello Stato. Noi consideriamo la sovranità come un tutto inscindibile; nessun potere deve essere distaccato da questa unica fonte, da cui traggono l’autorità tutti i poteri. Si dice: noi vogliamo l’indipendenza della Magistratura, perché «compito del magistrato – dicono i magistrati dell’Associazione nazionale – è l’applicazione della legge, che non ammette soluzioni di continuità». Sono parole grosse, con le quali in realtà si cade in una strana tautologia. Non credo che ci sia alcuno il quale possa mettere in dubbio questo fatto, cioè che il magistrato debba applicare la legge. Ma quando si è detto questo, non si è detto proprio nulla, e non si è avanzato di un’unghia sulla via della risoluzione del problema. Cosa vuol dire: «il magistrato deve applicare la legge»? Forse siamo di fronte ad un meccanismo automatico per cui quando avremo assicurata la fedeltà dell’operatore, avremo senz’altro la piena applicazione della legge? O non piuttosto l’applicazione della legge è un fatto del nostro spirito, della nostra mente e del nostro essere, cioè qualcosa che non può ridursi ad un meccanismo? Quando voi dite: il magistrato deve applicare la legge, dimenticate una cosa sola ed essenziale: la legge è come l’opera d’arte, che può rimanere nel suo testo immutata, ma che rinnova continuamente il suo spirito. Forse che la Divina Commedia che leggeva Giovanni Boccaccio sei secoli fa è la stessa che leggeva Francesco De Sanctis 80 anni addietro o è la stessa che leggiamo noi?

La poesia di Torquato Tasso era percepita dai suoi contemporanei ben diversamente da come la percepiamo noi, che abbiamo vissuto il romanticismo e vediamo quale filone romantico è nei suoi versi. Pure i testi della Divina Commedia e della Gerusalemme Liberata son sempre quelli. Così la legge. Potete voi dire che il Codice civile del 1865 veniva inteso allo stesso modo nel 1940? Le parole erano sempre le stesse, d’accordo, ma l’interpretazione di quel Codice, che si era protratto per 80 anni, ne aveva fatto via via una cosa diversa. Quando si dice che il magistrato intende all’applicazione della legge, si dice cosa che non ha affatto il significato che si vorrebbe attribuirle. Ne volete una prova? E sia detto questo, non solo per mostrare che questa frase non significa nulla, ma per segnalare quanto di pericoloso sia insito in essa. Sono costretto qui, volendo aderire alla realtà e guardarla con occhio scevro da ogni preconcetto e da ogni partito preso, a chiedermi se il magistrato ha creduto di applicare la legge in questi ultimi tempi– parlo di episodi recenti, perché essi hanno sempre una suggestione maggiore – dichiarando incostituzionali, uno dopo l’altro, tutti i decreti di carattere agrario, tutti, nessuno escluso, i miei e i decreti Segni. Finanche l’ultimo, sull’equo fitto, dopo soli due mesi, dalla Corte d’appello di Torino è stato dichiarato incostituzionale. Credete che questi magistrati pensino di non avere applicata la legge?

Se dovessimo fermarci a questa frase, bisognerebbe dire che essi hanno fatto il loro dovere. Ma come l’hanno fatto? Prescindo dall’aspetto strettamente giuridico, e mi domando se questi magistrati hanno avuto coscienza del fatto che con i loro giudicati venivano a porsi contro un inizio di legislazione agraria, attraverso il quale finalmente un raggio modestissimo di sole è sorto ad illuminare tutta una massa di uomini finora tenuta nelle tenebre più fitte. Ebbene, questo inizio di legislazione, pur così crepuscolare, ha trovato dei giudici che non hanno compreso nulla del suo significato sociale, che si sono chiusi in un’angusta interpretazione letterale, per giunta anche errata, perché la dichiarazione di incostituzionalità di una legge non può essere che un fatto puramente formale; ed è quindi aberrante che si dichiari incostituzionale una legge, mentre non abbiamo ancora una Costituzione. Ma, si ripete, anche se non ricorresse questo motivo giuridico, resterebbe sempre l’altro motivo più sostanziale, e cioè che la Magistratura non ha, purtroppo, avvertito nulla delle speranze, delle aspirazioni delle masse contadine, che nel clima della nuova democrazia chiedono di avere il giusto riconoscimento. Pure io so che non mancano fra i magistrati coloro che sentono queste aspirazioni e queste necessità. Ma la loro presenza non è valsa ad evitare questa dichiarazione di incostituzionalità a catena di tutti i decreti a favore dei contadini.

Quasi tutti i più alti gerarchi fascisti sono stati rimessi in libertà. Non incolpiamone l’amnistia: essa voleva essere un atto di pacificazione, che era chiesto da tutti i partiti, e fu quale dovette essere. È questione di averla interpretata in una maniera aberrante, e non solo dal punto di vista politico-sociale. Non doveva essere applicata così neanche da un punto di vista strettamente giuridico, perché il ragionamento che la Magistratura ha fatto per arrivare a quella conclusione, è giuridicamente errato e tortuoso. Ed è stata conclusione nettamente contrastante con l’aspirazione viva di quegli italiani, che hanno voluta questa nuova democrazia, e per volerla hanno affrontato carceri, martirî, dolori e hanno salvato così la dignità stessa del nostro Paese.

Ma tutto questo, evidentemente, è sfuggito alla Magistratura. Essa non è riuscita a percepire il senso di questa nuova vita.

La indipendenza del magistrato è necessario intenderla in un altro modo. Nei riguardi del potere giudiziario è indubbio che il regime assolutistico, di fronte alla polverizzazione giurisdizionale del feudalesimo, rappresentò un sicuro progresso. Il potere giudiziario si presentava come un riflesso della sovranità dello Stato, che si impersonava e riassumeva tutto nel re. L’esigenza della indipendenza della Magistratura sorse nei regimi costituzionali, quando la sovranità venne ad essere formalmente scissa tra popolo e re. Il popolo doveva garantirsi. Gli doveva essere garantita una giustizia che sfuggisse al pericolo del prepotere regio. Così sorse e si giustificò l’indipendenza della Magistratura. Ma ora, se noi creiamo sul serio una autentica e vera democrazia, non possiamo non essere contrari ad una indipendenza così intesa. Noi vogliamo che il giudice viva a continuo contatto del popolo, ossia della fonte da cui esso unicamente trae i motivi e la giustificazione della sua autorità. La Magistratura deve essere legata con tutti gli altri poteri, appunto perché l’esercizio di tutti e tre i poteri risulti quanto più si può armonico e perché nessuno di essi venga, per nessuna ragione, distratto e scisso dagli altri.

La indipendenza, invece, così com’è intesa da alcuni, verrebbe ad essere uno strumento idoneo soltanto ad isolare il magistrato, ed accadrebbe questo fatto: che la indipendenza, sorta come una guarentigia di carattere esclusivamente strumentale, verrebbe ad essere considerata invece come una guarentigia di carattere finalistico o teleologico; ossia l’indipendenza del giudice per la indipendenza del giudice. Ma perché questo? Che cosa si vuol fare del giudice? Forse un essere che viva sotto una campana di cristallo e che non senta nulla delle aspirazioni e delle speranze del popolo? Un essere che viva chiuso in se stesso, inteso a quella applicazione della legge che abbiamo visto or ora? O non è giusto invece, non è necessario che la Magistratura partecipi attivamente alla vita della Nazione? Che essa collabori strettamente con gli altri poteri, legata ad essi da vincoli che non vengano mai allentati o dispersi, perché disperderli significherebbe ferire in pieno la democrazia stessa, nella sua sostanza e nel suo profondo significato?

Intanto si ha vera democrazia, in quanto il legislatore, l’esecutore e il giudice costituiscano, sì, tre poteri distinti, ma operanti in armonica coesistenza. Soltanto così può essere intesa la indipendenza della Magistratura. E da questa premessa può e deve muovere la discussione intorno al Consiglio Superiore della Magistratura.

Perché il progetto vuole che il Consiglio Superiore della Magistratura non sia formato esclusivamente da magistrati? Perché formarlo esclusivamente di magistrati significherebbe alimentare questa strana pretesa di una indipendenza, che valga come estraneità completa dal resto dello Stato. Per la ragione contraria noi affermiamo, invece, che questo organo massimo del potere giudiziario non può essere composto esclusivamente di magistrati. Essi vedrebbero il problema del potere giudiziario attraverso le unilaterali esigenze dell’organo e confonderebbero l’uno con l’altro.

Sono due cose che, invece, devono essere tenute distinte. Il potere giudiziario non è un fatto della sola Magistratura, è un fatto di tutti gli italiani. Non può immaginarsi che il Consiglio Superiore sia formato di soli magistrati, i quali indubbiamente, per necessità di cose, porterebbero nella soluzione dei vari problemi un angusto sentimento di casta, e sfuggirebbe ad esso, invece, quella visione più larga del potere giudiziario, come attività che interessa tutti gli italiani e non soltanto i giudici.

Ecco la necessità perché di questo organo facciano parte elementi estranei, che concorrano insieme coi magistrati alla soluzione di tutti i problemi che interessano il potere giudiziario.

Si dice: ma voi li fate eleggere dalle Camere; c’è una ingerenza illecita del legislativo.

Non lasciamoci prendere dalle parole fatte. Quale ingerenza sarebbe questa? Perché la Camera dei deputati ed il Senato, nominando alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura, eserciterebbero una illecita ingerenza? Chi volete che li nomini, se non le Assemblee che rappresentano direttamente il popolo, quel popolo che è la fonte unica della sovranità, e dal quale la Magistratura trae il suo potere e la sua autorità? C’è cosa più logica e più adeguata alle esigenze costituzionali dello Stato, che questi membri estranei siano appunto nominati dalle Assemblee popolari? Gli eletti entreranno in questo organo supremo della Magistratura portando, appunto, la visione che l’uomo estraneo all’ordine ha del potere giudiziario, in modo che la soluzione dei vari problemi non sarà una soluzione unilaterale, ma sarà quella che è imposta dalle esigenze di tutte le categorie del popolo italiano e non soltanto dalla categoria direttamente interessata, che è quella dei magistrati.

Da questo punto di vista noi approviamo senz’altro il testo del progetto, ed approviamo anche che a capo del Consiglio Superiore della Magistratura sia il Presidente della Repubblica, il quale darà maggior lustro a questo supremo organo del potere giudiziario e, riassumendo in sé la sovranità dello Stato, imprimerà al Consiglio Superiore l’aspetto, non di un organo proprio ed esclusivo della Magistratura, ma di un organo che presieda al potere giudiziario in nome di tutto il popolo italiano.

Ma, a mostrare quanto sia giusta la tesi che ha trovato la formulazione nel progetto, e quanto sia invece infondata e ingiustificata la richiesta della piena e assoluta indipendenza della Magistratura, soccorrono altre considerazioni, che riguardano più direttamente gli uomini che compongono l’ordine giudiziario.

Qui siamo di fronte alla parte più spinosa: quella appunto, come dicevo poc’anzi, che si è affacciata cento volte durante gli ottanta anni di vita unitaria italiana, e che non ha mai trovato l’adeguata sistemazione. Ebbene, bisogna affermare – per lo meno io l’affermo, perché sento che questa è la ragione che ha reso impossibile la soluzione del problema giudiziario finora, e la renderà impossibile sempre, se continuerà a persistere – bisogna affermare che la ragione è che il giudice non è tratto direttamente dal popolo.

Gli stessi magistrati sentono questa manchevolezza. Tanto la sentono, che, in uno stampato, che hanno fatto distribuire a tutti noi, essi, dopo aver affermato che «bisogna che la scelta avvenga solo a mezzo di concorso nazionale per esami» avvertono la necessità di aggiungere: «il che conferisce ai magistrati la qualità di rappresentanti, sia pure indiretti del popolo» Essi dunque sentono questa necessità: i giudici debbono essere rappresentanti del popolo. Ed è proprio qui la lacuna, qui il vizio del sistema. Il magistrato è ora avulso dal popolo. Egli non proviene direttamente da questa fonte; eppure ciò è quanto mai necessario in un regime di vera democrazia.

In realtà è veramente strano pensare che basti un concorso, per conferire questa rappresentanza. Ma, ripeto, è proprio qui la lacuna del sistema.

Che cos’è il concorso, questa fonte da cui i magistrati vengono tratti? Alcuni esami, e si può anche ammettere che siano esami difficili. Non sono, comunque, insuperabili, anche da chi non sia fornito di speciale intelligenza. Sappiamo tutti che cosa siano gli esami.

Ma, anche a considerare che il concorso sia uno strumento di cernita perfetto, è da chiedere: che cosa si accerta attraverso il concorso? Si accerta al massimo la capacità dottrinale. Ma basta esser colto per essere giudice? Basta avere – e magari l’avessero, dopo vinto il concorso – basta avere sul serio la capacità dottrinale, perché si possa essere un buon giudice? Può sul serio affermarsi che il concorso superato legittimi la presunzione di essere di fronte ad un giudice che sa amministrare giustizia?

Si accerta innanzi tutto, attraverso il concorso, per esempio, il carattere? E non è forse questa la prima dote del giudice, molto più che non sia la cultura? Non è forse necessario che il giudice abbia in sé il senso più vigile della propria dignità, che abbia in sé la volontà sempre ferma di difendere la propria indipendenza? Perché si potranno escogitare tutte le leggi che si vorranno, ma se non si ha l’uomo integro, che senta di dover difendere la sua dignità e la sua indipendenza contro tutto e contro tutti, il buon giudice non si avrà mai!

A tal proposito ritengo opportuno accennare ad un fatto, che concorre a mostrare che cosa possa voler dire incamminarsi verso la creazione d’una casta, di un ordine chiuso, e il fatto è il decisamente ostile atteggiamento che hanno assunto i magistrati ai fronte al profilarsi della possibilità di fare ricorso ad una Magistratura elettiva.

E perché non dovrebbe pensarsi ad una Magistratura elettiva? Perché non dobbiamo affermare nella Costituzione (si intende, senza scendere a dettagli, che rimandiamo al legislatore venturo), perché non dobbiamo affermare nella Costituzione, che la Magistratura può anche avere come sua fonte la elezione?

Io ho letto quello che il collega Persico ha scritto (egli dice che il suo libro non lo ha letto nessuno, e non è vero), cioè che possa essere opportuno ricorrere al mezzo dell’elezione, almeno per i conciliatori ed i pretori.

Si obietta che si andrebbe incontro non si sa bene a quali inconvenienti.

Ma perché pensare che il popolo non sia capace di eleggere i suoi rappresentanti? e ciò dobbiamo dirlo proprio noi?

Ma perché questa ostilità preconcetta contro le elezioni? Non vi sono nazioni dove il giudice è eletto? All’inizio potrà esservi qualche deviazione; ma si può esser certi, che l’elettività rinnoverebbe profondamente, e ci fornirebbe un mezzo efficace per dare al problema giudiziario una soluzione adeguata ed efficace. Affermiamo dunque nella Costituzione che il magistrato possa essere elettivo! Il popolo saprà eleggere persone idonee e degne!

E, del resto, noi potremmo spianargli la via, richiedendo dagli eleggibili qualità che garantiscano della loro competenza e della loro capacità.

Abbiamo fiducia nel buon senso degli italiani; nella coscienza che essi avranno di eleggere i migliori. Noi otterremmo un altro risultato, che è di natura pratica, ma che non è meno interessante, ossia questo: che riducendo il numero dei magistrati veri e propri, appunto perché lasceremmo alla fonte elettiva i pretori e i conciliatori, lo Stato potrebbe andare incontro alle loro necessità in maniera più adeguata ed efficiente, assicurando loro un trattamento degno dell’alto ufficio. Come avviene in Inghilterra, dove il corpo vero dei magistrati è composto da poche centinaia di persone.

Forse questa stessa preconcetta ostilità alla elezione del giudice non è estranea alla manifestata ostilità alla ricostituzione della giuria popolare nei giudizi di Corte di assise. Non l’ho sentito ieri, ma mi è stato riferito, che il mio amico Veroni ha detto una cosa saggia, quando ha ricordato che ogni eclissi nella libertà e nella democrazia ha senz’altro avuto come compagna una eclissi nella istituzione della giuria. È scomparsa la libertà, scompare la giuria; la libertà è risorta, risorge anche la giuria.

Non si può restare estranei e insensibili a questa esperienza storica. Ma io voglio, oltre che fare ricorso a questo motivo, che ha pure la sua grande importanza, affrontare brevemente, il problema anche nella sua sostanza. Non è inopportuno ricordare in questo momento ciò che Finocchiaro Aprile, il presentatore del Codice di procedura penale del 1913, scrive nella sua lunga e pregevolissima relazione al progetto del 1905, che poi fu il Codice del 1913, sostenendo la necessità di mantenere in vita la giuria. Egli parla giustamente della premessa che, allora una Magistratura e una sanzione raggiungono il risultato voluto, quando si constata che i delitti colpiti con quella sanzione e da quella Magistratura sono in diminuzione.

Ebbene, Finocchiaro Aprile poteva constatare che, mentre i processi di Corte di assise erano in costante diminuzione, i processi di competenza dei Tribunali erano in continuo aumento.

È un argomento di fronte al quale non si può restare insensibili, perché, o si deve negare l’efficacia della pena, ed allora quegli errori giudiziari, di cui tanto si parla, perdono molto del loro contenuto e del loro significato, oppure si afferma la necessità della pena, ed allora non si può prescindere da questo fatto statisticamente accertato.

È poi anche da considerare che l’errore del giudice popolare ha una risonanza, si capisce, molto maggiore. Domani, per esempio, si griderà senz’altro all’errore giudiziario da parte di coloro che vorrebbero condannato il Graziosi, se questi verrà assolto, e viceversa, se verrà condannato, grideranno all’errore coloro che lo vorrebbero assolto. Il processo Graziosi ha occupato non so più quanti mesi, ed è diventato un avvenimento nazionale. Ma che volete che si sappia, invece, delle dieci o più cause che oggi si sono dibattute in una sezione del Tribunale di Roma o di Napoli? Quanti errori giudiziari di cui non si sa nulla!

Lasciamo stare tutte le ragioni che giustificano storicamente l’istituzione della giuria, in Inghilterra prima e in Francia e nelle altre nazioni dopo. Facciamo capo soltanto alla nostra esperienza. Si obietta: il giurato è un incompetente; non può aver mai la capacità del giudice togato. Non può capir nulla della personalità dell’imputato.

Senonché il giudice togato può pure avere avuto da natura un cuore aperto a tutte le aspirazioni, a tutte le idealità, una mente dedita agli studi, un’anima vibrante ad ogni stormire di sentimento; ma che volete? Bisogna non essere uomini per non cedere alla terribile usura del fare costantemente le stesse cose.

Il giurato è in condizioni da intendere e da ricercar meglio quali possano essere state, in determinate circostanze di tempo e di luogo, le reazioni opposte dall’imputato. Le intende meglio, perché la legge vuole che egli sia di regola un concittadino dell’imputato, che ne conosca, quando non li senta egli medesimo, gli stessi bisogni e anche gli stessi pregiudizi; perché non c’è giustizia che sia sentita dal popolo, se essa non tenga conto delle aspirazioni ed anche, perché no dei pregiudizi del popolo. Il giudice non farà mai giustizia vera, se perde i contatti con la realtà che gli si muove intorno. Nei processi politici ed in quelli comuni di molta gravità, il giurato sente queste cose meglio che non le senta il giudice togato. Non ho letto e non ho sentito in questa Assemblea quali siano le valide ragioni che rendono sconsigliabile il ritorno ai giurati; e non ho sentito che si siano portate ragioni valide, per menomare la bontà di quelle che stanno a favore della giuria. E così come per il ritorno alla giuria, vorrò dire fugacemente qualche cosa sulle altre questioni che si sono qui dibattute. Su una soprattutto, della quale, per quanto nel progetto non se ne parli, hanno discorso quasi tutti gli oratori che mi hanno preceduto. E cioè: Cassazione unica o Cassazioni regionali?

Ritengo che può essere forse pericoloso affrontare questo problema e volerlo risolvere, mantenendosi soltanto sul terreno strettamente giuridico. Penso sia opportuno decampare da questi limiti, che possono essere angusti, e vedere se fuori di questo ambito possano esservi ragioni, che consiglino il richiamo in vita delle Cassazioni regionali.

In realtà, l’argomento centrale a favore della Cassazione unica è quello della unicità della giurisprudenza. Il diritto deve avere una sola interpretazione e questa non si può avere se non attraverso l’unica Corte di cassazione.

I fatti ci dicono che le cose vanno in maniera leggermente diversa, cioè che l’unicità di giurisprudenza non è assicurata nemmeno dalla Cassazione unica.

Ma, come dico, vorrei far capo ad argomenti non soltanto giuridici. E ricordo a me stesso che l’Italia, per la sua storia, per la sua tradizione, per la sua varia composizione sociale, è forse la Nazione che più d’ogni altra presenta aspetti diversi. Ora il diritto non è un’astrazione. Il diritto è veramente tale, quando sorge spontaneo dai bisogni e dalle necessità del popolo: allora soltanto è veramente inteso dalla universalità dei cittadini.

Indubbiamente vi è in Italia questa diversità d’aspetti; essa è stata sempre così ovviamente constatabile, che non è inopportuno ricordare che, in un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario presentato da Giuseppe Zanardelli nel 1903, venivano costituite le Corti di revisione, facendone un giudice di terza istanza, e restringendo, così, e di molto, i limiti di attività della Corte di cassazione.

Ma anche ad ammettere che con la Cassazione unica si riesca ad avere l’unicità di giurisprudenza, è un bene che essa si abbia? Non pensate che ci possano essere delle questioni, identiche apparentemente, le quali è ingiusto che trovino soluzioni identiche così a Torino come a Caltanissetta? Non c’è caso che si giunga allo strano risultato di non aver fatto giustizia né in un luogo né nell’altro?

Tralascio tutti i motivi di natura più specialmente pratica, come la necessità di avvicinare il giudice al cittadino e al suo difensore. Un ordine del giorno, firmato in prevalenza da deputati piemontesi, mette in opportuno risalto tali necessità.

E occorre anche aver presenti le tradizioni luminose delle Corti regionali di cassazione, le quali hanno scritto pagine splendide nella storia del diritto e della giurisprudenza. E bisogna anche dire che, ricostituendo le Corti regionali, noi ripariamo ad uno dei danni maggiori, che derivano dal fatto che la Magistratura suprema sieda nella capitale. Lasciate che io dica d’esser sorpreso dal fatto che i magistrati, nel momento in cui affermano con tanta energia l’esigenza di una piena indipendenza dal potere esecutivo e dal potere legislativo, non avvertano conseguentemente una necessità tanto più evidente, e cioè che l’organo supremo di giustizia non stia a contatto con tutto ciò che è il movimento dei Ministeri e degli uffici centrali, si sottragga alle influenze e alle suggestioni di un ambiente politicamente così arroventato com’è sempre quello della capitale. È per questo che in varie nazioni, anche grandi, la Cassazione è tenuta lontana dalla capitale.

Ebbene, cerchiamo almeno di decentrare, ridando alle Regioni le proprie Corti di cassazione. Si stabilirà in tal modo un’emulazione tra l’una e l’altra Corte, e c’è la certezza che da questo contemporaneo esercizio di attività, che si svolgerà nei centri più importanti, attraverso tutto il territorio dello Stato, verrà fuori davvero un diritto e una giurisprudenza più aderenti alla varia vita del popolo nostro.

Un’altra questione si presenta, quella se consentire o meno al magistrato di appartenere ad un partito politico. Non se ne abbiano a male i colleghi che in quest’Aula hanno sostenuta la tesi contraria, se io in questo momento faccio un richiamo, anzi poggio il mio ragionamento tutto su questo richiamo alla sincerità. Ma voi sul serio potete credere che il magistrato non abbia una sua opinione politica? In questa Assemblea siedono, mi pare, cinque o sei magistrati: a che titolo dunque essi sono in quest’Aula? Se si sostiene che il magistrato non può essere membro di un partito, come si può consentire che egli sia membro di un’Assemblea, la quale poggia tutta sui partiti? Che egli cioè eserciti una funzione che è l’espressione tipica dell’attività politica?

Pensate sul serio che ci sia un solo magistrato, il quale non abbia una sua convinzione politica? Ma io mi auguro – per il rispetto che ho dei magistrati – che in mezzo a questo agitarsi di tendenze e di correnti politiche, non vi sia un solo giudice, il quale si mantenga tetragono ad esso, e tanto quindi al di fuori della realtà. Se ci fosse un simile magistrato, io non gli affiderei mai una causa, perché un individuo il quale resta insensibile in mezzo a tanto agitarsi d’ideali e di partiti non può essere un buon giudice. Ora, se si parte, come si deve, dalla premessa che ciascun magistrato ha la sua opinione politica, è bene che egli l’abbia apertamente; questo non nuoce a nessuno. Se mai, l’opinione politica nuoce quando essa è tenuta nascosta. Il giudice, che assuma apertamente la qualità di membro di un partito, si sottrarrà più facilmente, nell’esercizio della sua funzione alla soggezione del partito stesso, di quanto non riuscirà a fare se egli tiene nascosta in se stesso la sua fede politica. Egli sente più vivo il controllo, quando la sua qualità di membro di un partito è notoria.

Non vedo la ragione dell’esclusione dei magistrati dalla vita politica. Una menomazione così grave, in tanto può essere accettata, in quanto vi sia una ragione potente che la sostenga, una ragione che si imponga a chiunque, e che non lasci luogo a dubbi o a perplessità. Ma, quando questa decisa ragione manca, io non so spiegarmi il perché di questa limitazione. L’applicazione della legge è una cosa umana, che non può, non deve straniarsi dalla realtà della vita. Soltanto allora essa cessa di essere l’astratta elucubrazione del giurista che si chiude nel suo gabinetto e che ricerca le soluzioni giurisprudenziali più o meno eleganti.

E insieme con questa necessità, ossia che venga abrogata la parte del progetto che si riferisce al divieto di appartenenza dei magistrati a partiti politici, io affermo un’altra necessità, che sia cioè consentito alla donna di essere giudice. Alessandro Dumas figlio, sostenitore eloquente del diritto delle donne ad essere immesse nella vita pubblica con tutte le prerogative degli uomini, con riferimento alla cruenta epopea napoleonica, disse da artista: «Quando passa un conquistatore e uccide alla madre un milione di figli, per questo fatto la donna acquista il diritto di partecipare al Governo politico della nazione». Che cosa avrebbe detto ora, quale accento avrebbe tratto dalla sua arte Alessandro Dumas, se avesse visto che alla madre è stato inferto uno strazio ancora più grande, nel momento in cui le è stato sulle sue stesse braccia ucciso il figlioletto poppante, travolto in una tempesta che ha atterrato tutti, vecchi, bambini, donne?

Non v’è una ragione sola che autorizzi ad affermare che la donna non debba avere una completa parità di diritti con gli uomini. Non v’è un motivo solo per dimostrare che la donna eserciti, meno bene dell’uomo, qualunque carica; potrà commettere degli errori, ma gli errori li commettono anche gli uomini. Non v’è quindi ragione, perché la donna non sia anch’essa ammessa all’esercizio della potestà giurisdizionale. Essa forse intenderà meglio di noi uomini tanti stati d’animo che a noi sfuggono, ma che invece sono appresi con quella più acuta sensibilità, che è propria della donna. La donna giudice intenderà più e meglio degli uomini ogni motivo di pietà e di sofferenza. Vi sono circostanze, fatti e sentimenti che noi uomini non sappiamo valutare pienamente così come possono e sanno le donne.

Io sentirei di affermare una inferiorità ingiustificabile, nel momento in cui, avendo dato alla donna tutti gli altri diritti, noi persistessimo a negare ad essa il diritto di essere giudice. (Approvazioni a sinistra).

Onorevoli colleghi, un montanaro che da un secolo e mezzo gode di una reputazione universale (non v’è nessuno che non lo conosca) e che ebbe una fase della sua vita piuttosto agitata, dico Renzo Tramaglino, in un momento in cui era più stretto dagli affanni e dal dolore di vedersi ostacolato nella sua legittima aspirazione, ebbe ad esclamare: «e finalmente v’è anche una giustizia a questo mondo». Alessandro Manzoni annota: tant’è vero che quando l’uomo è sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.

Io non condivido questo desolante pessimismo di Alessandro Manzoni. Penso invece che una giustizia umana vi possa e debba essere; ma in tanto questa giustizia sarà degna di noi, in quanto parta dal popolo e sia appresa e riconosciuta dal popolo.

Fino a che il popolo considererà il giudice come un estraneo, o peggio ancora come un nemico, fino a quando il povero, colui che non ha i mezzi per imporsi nella vita, sentirà di avere fra i tanti visi ostili che lo circondano, anche quello del giudice, finché tutto questo non sarà cancellato, non si avrà mai giustizia. La giustizia si avrà soltanto quando essa sarà come tale appresa e sentita dal popolo. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 10. Avverto che vi sarà seduta anche al pomeriggio, sempre per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, sull’assassinio proditorio consumato da agenti della mafia agraria siciliana in persona del compianto Vito Pipitone, vicesegretario della Confederterra di Marsala, avvenuto in quella città la sera del 9 corrente; e più precisamente per sapere:

1°) quali misure sono state prese per impedire il ripetersi dell’assassinio a tradimento di organizzatori sindacali, specialmente di contadini siciliani, dato che quello di cui è stato vittima il compianto Pipitone è il diciannovesimo della serie;

2°) se non credono indispensabile ed urgente adottare provvedimenti eccezionali per porre fine all’attività criminale della mafia, alimentata dai grandi proprietari terrieri ed avente lo scopo chiarissimo d’impedire l’applicazione delle leggi sociali della Repubblica nel campo agricolo, spezzando la rete di complicità che lega numerosi elementi delle autorità locali coi latifondisti e coi loro mafiosi assassini.

«Di Vittorio, Massini, Bitossi, Barbareschi».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere:

1°) se il Governo, dopo il recente brutale assassinio del vicesegretario della Federterra di Marsala, Vito Pipitone – ultimo di una lunga serie di crimini rimasti tutti impuniti – intende ancora disconoscere, con grave danno per la sicurezza e la democrazia dell’Isola, l’esistenza di una vasta associazione politica criminosa, diretta a lottare con tutti i mezzi, compreso l’assassinio, contro le organizzazioni dei lavoratori ed i partiti democratici repubblicani;

2°) se il Governo intende adottare energici provvedimenti, e quali, per assicurare alla giustizia, con la massima rapidità ed energia, i responsabili diretti ed indiretti, mandanti e mandatari, dei crimini politici siciliani, organizzati da elementi facinorosi al servizio delle cricche reazionarie dell’Isola;

3°) se il Ministro Guardasigilli intende richiamare energicamente i procuratori generali presso le Corti di appello e i procuratori della Repubblica presso i Tribunali della Sicilia, affinché provvedano a che, nei casi del genere, la legge sia applicata inesorabilmente e con esemplare sollecitudine.

«Li Causi, Montalbano, D’Amico, Fiorentino, Musotto, Cianca, La Malfa, Nasi, Varvaro, Corbi».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere, come deputati milanesi, quali misure intenda prendere nei confronti delle organizzazioni terroristiche clandestine neofasciste che operano nel Milanese e delle organizzazioni che ne costituiscono il paravento legale.

«Gli interroganti considerano la tolleranza colpevole del Governo, le recenti collusioni della Democrazia cristiana con i fascisti del M.S.I. e la campagna contro i sindacati dei lavoratori condotta dagli organi di stampa governativi come il più pericoloso incentivo ai criminali che intensificano la loro attività delittuosa e preparano nuove insidie contro l’ordine e contro le libertà democratiche.

«Pajetta Gian Carlo, Alberganti, Scotti Francesco, Cavallotti».

«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti il Governo intenda prendere nei confronti della situazione dell’Alta Italia, caratterizzata da aggressioni e azioni delittuose, ultima delle quali la tragedia di Rubiano di Mediglia, e quali garanzie il Governo intenda fornire per l’incolumità dei cittadini e l’esplicazione della loro libertà.

«Coppa, Cannizzo, Selvaggi, Mazza, Russo Perez».

«Al Ministro dell’interno, sui luttuosi fatti verificatisi l’11 novembre a Mediglia (Milano), che condussero alla uccisione di due cittadini ed al ferimento di altri tre.

«Gli interroganti chiedono quali provvedimenti l’autorità intenda adottare perché le libertà e la sicurezza pubbliche siano garantite.

«Meda, Morelli Luigi, Gasparotto, Cairo, Arcaini, Lazzati, Clerici, Zerbi».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere se il Governo si è reso esatto conto della allarmante situazione che si è creata nella provincia e nella città di Milano in seguito ai recenti gravissimi fatti a tutti noti e se non riconosca la necessità e l’urgenza di rinnegare quei metodi di Governo che, lasciando impunito l’incitamento a commettere fatti della natura di quelli lamentati, ne favoriscano il verificarsi da parte di elementi inadattabili al nuovo clima politico-sociale della Repubblica italiana.

«Mariani Francesco, Malagugini, Pistoia, Targetti».

«Al Ministro dell’interno, sui sanguinosi fatti avvenuti in questi giorni in Lombardia, in Sicilia e in Emilia.

«Cairo, Lami Starnuti, Di Gloria, Tremelloni, Corsi, Momigliano, Filippini, Rossi Paolo».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò all’inizio della seduta pomeridiana di domani.

PAJETTA GIAN CARLO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PAJETTA GIAN CARLO. Nella nostra interrogazione affermiamo che riteniamo il Governo colpevole; lo è ancora di più pel modo stesso come affronta questa sera la questione. Il Ministro dell’interno si rifiuta di darci i dati che sono a sua conoscenza sulla situazione di Milano. Egli è a conoscenza che nel brevissimo lasso di tempo trascorso dal momento in cui formulavamo la nostra interrogazione, un’altra bomba, carica di tritolo, è stata lanciata contro gli uffici della federazione comunista di Milano. A Milano è stato versato del sangue perché voi del Governo tollerate una situazione insostenibile.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ma lei tratta l’interrogazione con anticipo.

PAJETTA GIAN CARLO. Noi chiediamo che il Governo ci risponda subito.

SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò fra dodici ore.

PRESIDENTE. Onorevole Pajetta, il Ministro ha detto che risponderà domani nel pomeriggio.

PAJETTA GIAN CARLO. In questo momento mi giunge la notizia che sarebbe prossima la disposizione di mutare il prefetto di Milano. Queste sono voci sparse ad arte per incoraggiare i fascisti. (Interruzioni al centro Rumori).

PRESIDENTE. Onorevole Pajetta, se lei desidera una risposta dal Governo sulla sostituzione del prefetto di Milano, presenti un’altra interrogazione.

PAJETTA GIAN CARLO. Noi chiediamo che il Ministro ci dica qualcosa questa sera stessa.

SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SCELBA, Ministro dell’interno. Ho già detto che risponderò domani nel pomeriggio. Non solo lei, onorevole Pajetta, ma anche altri colleghi hanno presentato interrogazioni sulla stessa materia. All’inizio della seduta pomeridiana di domani risponderò a tutte le interrogazioni presentate in materia di ordine pubblico.

PRESIDENTE. Sta bene.

Comunico che sono state pure presentate le seguenti altre interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non ritenga necessario ed urgente – specie in vista della stagione invernale – di addivenire alla creazione di un organo per coordinare la materia dei danni di guerra e proporre ed adottare i conseguenti provvedimenti a favore dei danneggiati e sinistrati: e ciò sotto forma di Sottosegretariato o di Alto Commissariato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri.

«Gasparotto, Aldisio».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non creda opportuno emettere sollecitamente provvedimenti per il riordinamento delle varie disposizioni di legge, riflettenti il risarcimento dei danni di guerra, andando così incontro alle giuste esigenze dei tanti interessati che da anni attendono.

«Sansone».

«Al Ministro della pubblica istruzione, per chiedere se – dato che la rappresentanza unitaria ed autonoma delle forze dell’arte e del pensiero, realizzabile con l’unità sindacale o con l’intesa fra libere associazioni, è indispensabile alla tutela di quelle forze e ad una saggia azione di Governo, e dato che tale rappresentanza, per malaugurata incomprensione fra Nord e Sud e per interferenze politiche, non è stata spontaneamente raggiunta – non ravvisi l’opportunità di convocare i rappresentanti delle principali Accademie storiche, dei grandi Istituti scientifici, delle organizzazioni a carattere sindacale e delle libere associazioni, al fine di studiare le forme e le norme di una loro rappresentanza unitaria, disponendo, nel frattempo, che non sia dato alcun riconoscimento ed alcuna sovvenzione a gruppi isolati, che pretendono di rappresentare gli intellettuali e gli artisti tutti d’Italia.

«Di Fausto».

«Al Ministro dei trasporti, per apprendere se e come egli intenda di rimediare alla penuria di vagoni esistente nella provincia di Reggio Calabria per il trasporto di prodotti deperibili e non deperibili, con grave danno dell’economia agricola e industriale.

«Siles».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni che hanno indotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri ad anticipare dal 31 dicembre al 31 ottobre e con semplice circolare il termine per la presentazione delle proposte di ricompensa al valore ai partigiani da parte dei comandi competenti.

«Con questo atto d’arbitrio si minaccia di pregiudicare seriamente a danno dell’interesse nazionale l’equo riconoscimento del sacrificio dei caduti della guerra di liberazione.

«Foa».

Interpellerò i Ministri competenti per sapere quando intendono rispondere.

Comunico infine la seguente altra interrogazione con richiesta di risposta urgente presentata ora dall’onorevole Gian Carlo Pajetta:

«Al Ministro dell’interno, per sapere se è all’esame la sostituzione del prefetto di Milano».

Chiedo al Ministro dell’interno quando intende rispondere.

SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò nella seduta di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Sta bene. Mi consentano gli onorevoli colleghi di osservare ancora una volta che troppo spesso si presentano interrogazioni cui si attribuisce il carattere di urgenza. Fra le interrogazioni che ho letto stasera – mi perdonino i presentatori – ve ne sono parecchie per le quali l’urgenza è in relazione ad un proprio sentimento interno ma non in relazione ai problemi proposti. Vedano dunque i colleghi di adoperare con minor frequenza questo termine che, anche nel parlare comune, significa qualcosa di molto grave nel merito e non inderogabile nel tempo.

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Sulle sue osservazioni in merito alle interrogazioni con urgenza, tutti abbiamo coscienza della opportunità di quanto Ella ha suggerito. Ci rendiamo conto che la richiesta di urgenza deve avere un suo carattere plausibile, ma nell’ipotesi dell’interrogazione presentata da me, come anche dagli onorevoli Gasparotto ed Aldisio, richiamante l’attenzione del Governo sui danni di guerra, sia considerato che i sinistrati di guerra aspettano da anni l’unificazione delle leggi e dei provvedimenti relativi. Io ho conferito con il Ministro del tesoro nel mese di luglio e non si è fatto ancora nulla!

Volevo aggiungere che ho presentato, quattro giorni fa, una interrogazione di urgenza per la Mostra d’oltremare di Napoli. Il termine oggetto della interrogazione scade il 18 novembre prossimo. Sono due sere che richiedo – in fine di seduta – di avere una risposta e do atto all’ufficio di Presidenza che ha svolto ogni attività presso il Ministro dei lavori pubblici. Il 18 novembre prossimo – ripeto – centinaia di ettari di terreno saranno restituiti ai proprietari, con pregiudizio della Mostra ed il Ministro non risponde ancora! Come vede, signor Presidente, la richiesta di urgenza ha talvolta veramente un serio fondamento.

PRESIDENTE. La mia osservazione non si voleva rivolgere a nessuna interrogazione in particolare, ma in generale. Occorre, da altra parte, che i singoli membri dell’Assemblea sollecitino essi stessi presso i Ministri competenti l’accoglimento della loro interrogazione. L’Ufficio di Presidenza fa solo delle comunicazioni ai Ministri interessati e deve naturalmente limitarsi a comunicare all’Assemblea le risposte ricevute. Comunque solleciteremo queste risposte.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se e quali provvedimenti siano allo studio circa la revisione delle disposizioni in vigore sul trattamento economico degli ufficiali in servizio permanente effettivo del ruolo comando collocati nella riserva, per limiti di età, anteriormente al 1° settembre 1946, i quali fruiscono dei beneficî economici, di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 14 maggio 1946, n. 384, e per i quali, in base a detta legge, lo stipendio è bloccato al 15 giugno 1946, al fine di eliminare la disparità di trattamento in confronto degli ufficiali del ruolo mobilitazione e di quelli che hanno prestato servizio nella repubblica fascista, collocati nella riserva sotto la data del 2 giugno 1947, i quali fruiscono, invece, dei miglioramenti economici concessi dal 1° settembre 1946 al 1° giugno 1947.

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se e quali provvedimenti intenda prendere per la repressione degli abusi di certa stampa, che, con uno specioso pretesto informativo e persino educativo, al di là di ogni diritto e limite di controllo e di critica, si è specializzata a raccogliere e a divulgare deliberatamente ed esclusivamente, con inutile abbondanza di particolari raccapriccianti e fotografie oscene, fatti scandalistici e criminosi della più bassa cronaca nera, gettando in tal modo immeritato discredito sul nostro Paese che, pur tra fatiche ed ostacoli, prosegue con proficua tenacia la sua attività ricostruttiva anche nell’ordine morale, creando una pericolosa atmosfera eccitatrice di morbose passioni, specie dove le resistenze e le difese sono più deboli, minacciando di grave ed irreparabile danno la sanità fisica e morale dei nostri figli che debbono ancora sperare e credere nelle rinnovate forze spirituali operanti nel Paese preparandosi a servirlo con propositi degni e robustezza di carattere e volontà.

«Guerrieri Filippo, Scalfaro».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere:

1°) se, date le miserevoli condizioni economiche in cui trovasi il personale di custodia ed amministrativo delle carceri della Repubblica, soggetto per di più a subire un trattamento tutt’altro che umano ed a compiere turni di servizio di gran lunga superiori alle otto ore giornaliere, non ritenga opportuno di provvedere in via di urgenza:

  1. a) ad estendere al personale carcerario le indennità di ordine pubblico concesse con decreto legislativo 1° aprile 1947, n. 221 (Gazzetta Ufficiale 1947, n. 92) agli agenti e funzionari di pubblica sicurezza ed ai carabinieri;
  2. b) ad estendere egualmente a detto personale l’indennità di alloggio stabilita a vantaggio delle stesse categorie di cui sopra col decreto legislativo 1° aprile 1947, n. 222;
  3. c) a sostituire l’attuale indennità caro-viveri con la concessione di viveri in natura così come viene praticato con i carabinieri, la guardia di finanza e gli agenti di pubblica sicurezza;
  4. d) a concedere gratuitamente a tutto il personale di custodia divise decenti ed igieniche al posto di quelle sporche e lacere che attualmente indossa con grave ed evidente pregiudizio del suo prestigio verso i detenuti;

2°) se non ravvisi che sia ormai opportuno procedere ad un totale riordinamento dello stato giuridico di questa che è una fra le più abbandonate categorie dei dipendenti statali, tanto più che si deve tener conto dei delicati compiti che ad essa sono affidati e delle enormi responsabilità cui va incontro nell’esercizio delle sue funzioni.

«Varvaro, Montalbano, Mancini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere che cosa ancora si aspetti per dare esecuzione al decreto ministeriale 10 maggio 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10 giugno 1947, n. 129, col quale il dottor Giorgio Segre è stato nominato Presidente della Giunta della Camera di commercio, industria ed agricoltura di Vercelli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Giacometti».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere se non ritengano opportuno ridurre ragionevolmente i contributi unificati dovuti dai coltivatori diretti che hanno salariati fissi conviventi, in considerazione delle maggiori spese che detti coltivatori sostengono. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Scotti Alessandro».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e della pubblica istruzione, per sapere se, nelle loro recenti visite alla provincia di Salerno, si siano resi conto dei bisogni che urgono la zona del Cilento, la quale per superficie e per popolazione rappresenta la metà circa di detta provincia ed ha una rete stradale rudimentale (è servita dalla sola strada nazionale n. 18 e da poche strade provinciali), con paesi distanti ben 80 chilometri dallo scalo ferroviario, ed altri del tutto privi di acqua potabile, ed altri ancora – e sono moltissimi – con scuole che non vanno oltre la terza classe elementare, mentre diffuso è in tutta la zona l’analfabetismo ed allarmante la disoccupazione magistrale (nel Salernitano sono circa 3000 i maestri disoccupati); e per sapere se e quale programma immediato di opere pubbliche e di istituzioni scolastiche si siano proposti di adottare per sodisfare i detti bisogni e rendere così giustizia ad una plaga tanto trascurata quanto laboriosa e benemerita della Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se – di fronte ai reinsorgenti tentativi di creazione di una provincia di Castellammare di Stabia, cui si pretenderebbe aggregare i comuni della Costiera amalfitana (recentemente interessati, quantunque con esito negativo, ad esprimere voti in tal senso) – non intenda tranquillizzare le popolazioni della provincia di Salerno, assicurando che la detta iniqua aggregazione non avverrà. Essa sarebbe, invero, la rovina materiale e morale della provincia di Salerno, la quale, oltre a luminose tradizioni storiche, perderebbe il suo più spiccato carattere turistico ed il maggiore gettito delle sue entrate e, qualora si dovesse riesumare l’insulso progetto fascista del 1930, anche la parte più fertile del suo territorio.

«Ciò senza dire che il deprecabile tentativo non fa che accrescere la divisione degli animi in un momento in cui, per l’attuazione delle autonomie regionali e per la risoluzione degli annosi problemi del Mezzogiorno, si ha bisogno della maggiore solidarietà fra le popolazioni del medesimo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere se non ritenga ingiusto che la importante cittadina di San Cipriano Picentino in provincia di Salerno, capoluogo di mandamento e centro di intensa vita rurale, sia tuttora priva di comunicazioni telegrafiche e telefoniche, che la Direzione provinciale delle poste di Salerno non ha trovato ancora modo di ripristinare, e se non intenda provvedere con un suo diretto intervento a rimuovere le difficoltà che a tale ripristino si oppongono. (L’interrogante chiede la risposta scritta),

«Rescigno».

«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ravvisi necessaria un’azione energica e sollecita contro la Società «Terni» la quale, pur avendo realizzato enormi profitti dalla costruzione dei due bacini idroelettrici del Salto e del Turano, cerca oggi di sottrarsi, con palese violazione della legge, all’adempimento dei suoi obblighi nei confronti delle amministrazioni e dei privati che allo scopo furono espropriati.

«I cittadini e le amministrazioni dei comuni rivieraschi considerano urgente e doveroso l’intervento diretto degli organi competenti al fine di ottenere, in conformità alle leggi vigenti:

  1. a) la esecuzione immediata delle opere pubbliche e la ricostruzione delle abitazioni private, sommerse all’epoca dalle acque e non ancora riedificate o non completate;
  2. b) il risarcimento dei danni apportati alla rete stradale ed un’equa compensazione per le strade demaniali;
  3. c) la definizione di tutte le altre vertenze in corso, nonché il rispetto assoluto di ogni altro diritto previsto dalla legge e dai contratti stipulati a suo tempo;
  4. d) la concessione agli enti della quota del canone fissato dalla legge 11 dicembre 1933, l’aggiornamento delle quote al valore attuale della moneta e il pagamento di tutti gli arretrati;
  5. e) la concessione, ai sensi degli articoli 52 e 53 del decreto-legge 11 dicembre 1933 – oltre i particolari diritti spettanti all’amministrazione di Rieti – del quantitativo di energia elettrica e dell’ulteriore canone, adeguato all’attuale corso della moneta;
  6. f) la risoluzione di tutti gli altri problemi di pubblico interesse indicati nella legge stessa;
  7. g) la rapida e definitiva compilazione del disciplinare i cui termini devono essere molto chiari e precisi se si vuole evitare l’ulteriore violazione della legge da parte di una società la quale, pur essendo consapevole dell’enorme disagio in cui si son venute a trovare intere popolazioni per effetto dell’esproprio, non ha esitato, fino ad oggi, di servirsi di futili cavilli per non pagare le spese delle sue costruzioni.

«A tale effetto, e in considerazione dello stato di grave indigenza in cui si trovano numerosi cittadini delle due vallate, l’interrogante fa presente l’esigenza umana e sociale di provvedere al più presto con opportune e rigorose misure governative. (La interrogante chiede la risposta scritta).

«Pollastrini Elettra».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere per quali motivi – malgrado le precise disposizioni di legge, ribadite dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la circolare n. 75050/12115 del 30 luglio 1946 – l’Amministrazione delle poste e telegrafi non abbia ancora provveduto a mettere in pensione i funzionari ed impiegati che hanno superato i limiti di età e di servizio; ed abbia viceversa perfino promosso al grado superiore funzionari già al di là del limite di età e di servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Mazzei».

«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere se vi sia la possibilità di un ulteriore miglioramento delle pensioni dei lavoratori iscritti all’Istituto nazionale della previdenza sociale, in considerazione che le condizioni dei pensionati permangono misere, nonostante gli aumenti recentemente apportati. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).

«Lami Starnuti, Cairo, Filippini, Momigliano, Canevari, Bocconi, Montemartino, Ghidini, Fietta, Binni, Pera, Rossi Paolo, Silone, Zanardi».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.45.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 10 e alle ore 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXVIII.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (Seguito della discussione):

Abozzi

Cortese

Veroni

La seduta comincia alle 11.

MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Abozzi. Ne ha facoltà.

ABOZZI. Onorevoli colleghi, prendo la parola in sede di discussione generale, non per esaminare i numerosissimi problemi, che si riferiscono all’ordine giudiziario, ma soltanto per coordinare ed illustrare gli emendamenti che ho avuto l’onore di presentare, i quali si riferiscono tutti o quasi tutti all’indipendenza della Magistratura.

Non vi sembri che io mi scosti dall’argomento se mi riferisco all’articolo 50 del progetto di Costituzione il quale, nel secondo comma non ancora approvato dall’Assemblea, suona così: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Questa formulazione non è che l’eco un po’ affievolita dell’articolo 35 della Costituzione francese del 1793, il quale diceva: «Quando il Governo violi il diritto del popolo, l’insurrezione è per il popolo il più sacro dei diritti, il più indispensabile dei doveri».

Io mi domando, onorevoli colleghi, che cosa significhi, che cosa rappresenti questo diritto alla resistenza di cui parla il testo italiano, questo diritto all’insurrezione di cui parla la Costituzione francese del 1793. Si tratta evidentemente dell’ultima ratio, della suprema sanzione cui può far ricorso la massa del popolo oppresso. Ma, nel vivere quotidiano, nel vivere normale, quando non sono offesi i diritti della massa, ma quando è offeso il diritto del singolo e soltanto del singolo, quando un cittadino è offeso da un altro cittadino o dai poteri dello Stato e non può insorgere da solo, chi difende il singolo? La risposta è facile: il singolo è difeso dalla Magistratura. La massa difende se stessa con l’insurrezione; il singolo si affida alla Magistratura, la quale però, per adempiere al suo compito, deve essere assolutamente autonoma, assolutamente indipendente.

Questa è una verità che, almeno in astratto è riconosciuta da tutti, anche da quelli che praticamente la negano; come la nega il nostro progetto di Costituzione, il quale, dopo aver solennemente – pomposamente, vorrei dire – affermato che il magistrato dipende soltanto dalla legge, che la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente, propone un Consiglio Superiore formato in gran parte di cittadini estranei all’ordine giudiziario ed eletti da un’Assemblea politica; cosa che tronca alla base qualunque idea di autonomia, qualunque idea di indipendenza. C’è, dunque, una tesi: la Magistratura deve essere autonoma e indipendente; e questa tesi, ripeto, è accettata da tutti.

Ma da questa tesi nasce un problema – il problema che è stato così ampiamente discusso in quest’Aula: com’è che la Magistratura può essere indipendente? Come si arriva alla indipendenza? Questo è il punto, questo il problema.

Onorevoli colleghi, io sono perfettamente d’accordo con quegli studiosi, tra cui uno squisitissimo scrittore francese, i quali dicono che per arrivare all’indipendenza della Magistratura non vi sono che tre vie. San Tommaso diceva che vi sono cinque vie per arrivare a Dio; io dico che vi sono tre vie per arrivare all’indipendenza della Magistratura. E le tre vie sono queste: la prima: il magistrato compra la sua carica; la seconda: il magistrato è eletto dal popolo; la terza: la Magistratura sceglie se stessa.

In Francia, nell’antico regime, il cittadino comprava la carica di magistrato, e naturalmente non dipendeva che da se stesso; e nell’antica monarchia, prima ancora che le cariche si potessero o comprare o vendere, il re integrava il Parlamento, scegliendo in una lista tre membri. Ma è da notare che il Parlamento era arbitro di comprendere nella lista anche persone non accette, non ligie al sovrano: quindi, chi sceglieva era il Parlamento; il sovrano sceglieva soltanto formalmente. E anche in questo caso, bisogna dire il vero, l’indipendenza della Magistratura era sufficientemente garantita. Ma io comprendo perfettamente che a metà del secolo XX non si può neppure concepire che il magistrato compri il suo ufficio; non si può concepire, anche se il cittadino avesse provato perfettamente la sua capacità e la sua moralità.

Vi è allora la seconda via, da tutti conosciuta e in qualche Stato applicata: il popolo elegge i magistrati. Il magistrato eletto sarà, forse, indipendente dal potere esecutivo e dal potere legislativo; ma non è indipendente dal cittadino, non è indipendente dai suoi elettori. Dipende dai suoi elettori, con i quali deve far i conti ogni quattro o cinque anni, come un deputato; ma, mentre la dipendenza del deputato non è né una colpa né un’insigne virtù, ma un fatto che si sottrae a ogni giudizio di valore, la dipendenza del magistrato dall’elettore non è cosa che giovi alla sua dignità.

Il deputato può anche rappresentare le idee e le passioni degli elettori; ma il giudice non li può rappresentare; può accogliere le idee, ed anche le passioni della folla, ma come convincimento proprio, come idee che nascono in lui, come passioni da lui sentite, indipendentemente dal pensare e dal sentire della massa. D’altra parte mal si comprende che il magistrato faccia la corte – sia pure riguardosa – all’elettore che può essere privato del patrimonio o della libertà quando la giustizia lo imponga.

La terza via: la Magistratura sceglie se stessa. Questa pare la via buona. Ma come la Magistratura può scegliere se stessa? È semplicissimo; la Magistratura sceglie se stessa così: i giudici eleggono la Suprema Corte di cassazione e la Suprema Corte di cassazione a sua volta nomina i giudici. La Corte di cassazione sarebbe dunque eletta da tecnici e, d’altra parte, questo Supremo consesso eletto da tecnici avrebbe tutti i titoli per giudicare le capacità e la dirittura morale di giudici. E così, poiché l’inamovibilità del giudice non è neppure discussa, si arriva veramente alla perfetta indipendenza dal potere legislativo, dal potere esecutivo e dal cittadino: quindi alla vera autonomia ed alla vera indipendenza.

Ma qualunque cosa si possa pensare di questa mia tesi, che può apparire ardita a un primo giudizio, non penso che si possa discutere il principio elettivo applicato al Consiglio Superiore della magistratura. E questo principio elettivo è accolto anche dalla nostra Costituzione, ma è accolto male. Il Consiglio Superiore non deve essere nominato da Assemblee politiche, ma da magistrati, e soltanto da magistrati. Le Assemblee politiche non possono rinunciare ai loro criteri politici, non possono rinunciare a quello che in loro c’è di necessariamente, di fatalmente politico. Se tale rinunzia facessero non sarebbero Assemblee politiche. Ed allora per evitare che il Consiglio Superiore diventi un qualunque campo di competizioni politiche, si formi il Consiglio Superiore, come ho avuto l’onore di dire nel mio emendamento, con otto membri eletti per cinque anni da tutti i magistrati, fra gli appartenenti alle diverse categorie, sotto la Presidenza del primo Presidente della Corte di cassazione. E sempre per ottenere la totale esclusione della politica è anche necessario che l’azione disciplinare non sia promossa dal ministro, ma dal primo Presidente della Corte di cassazione. Il magistrato dev’essere un organo di raccordo fra i magistrati e lo Stato, ma non deve lanciare anatemi né far lusinghe politiche. Un deputato dell’Assemblea legislativa francese nel 1790 diceva che nei tempi d’oro della Magistratura francese il magistrato non poteva entrare al Louvre e neppure nelle Camere dei grandi. Sarebbe desiderabile che i magistrati italiani non frequentassero il gabinetto del Ministro né per ricevere anatemi, né per accettare lusinghe. Qualcuno pensa che la Magistratura autonoma possa diventare una casta o una fazione. A me pare che queste paura sia vana: avrebbe un fondamento se il magistrato, oltre che applicare la legge la formasse, ma il magistrato non crea il diritto, lo dice. Egli è soggetto alla legge che lo difende quando la legge difende, lo colpisce quando la legge colpisce. La sua sorte – di fronte alla legge – è quella del comune cittadino.

D’altra parte, io non so capire questa ingiustificata paura, anche per un altro verso. Noi viviamo in un tempo in cui la parola autonomia è di moda; non soltanto la parola, ma anche la cosa. Si sono regalate vaste autonomie regionali, larghe possibilità di legislazione alle Regioni. Perché si dovrebbe aver paura dell’autonomia concessa alla Magistratura? Non ho mai sentito che gli Stati possono morire perché non si sono accordate le autonomie regionali, ma in tutti i secoli si è detto che gli Stati muoiono quando la Magistratura è corrotta. L’asservimento è una forma di corruzione, forse la peggiore.

È detto nel progetto che dal Consiglio Superiore della magistratura possono essere destinati all’ufficio di consigliere di cassazione gli avvocati dopo quindici anni di servizio. È fatto incontestabile che l’avvocato coopera all’amministrazione della giustizia, ma poiché al grado di Consigliere di cassazione il magistrato arriva dopo una vita impiegata a servir la giustizia, è giusto che l’avvocato sia designato all’alta funzione dopo una vita spesa a servir la giustizia.

Per questo a me pare che il termine di venti anni di esercizio sia più opportuno di quello di quindici voluto dal progetto.

D’altra parte, non sembra che il criterio del tempo sia decisivo o, per lo meno, sia l’unico criterio da adottare. Non è il numero degli anni consacrati all’ufficio professionale, che deve decidere, ma la dignità della vita professionale, la fama guadagnata, l’avere onorato la toga con la capacità e la dirittura morale.

Per me, onorevoli colleghi, il problema della giuria è strettissimamente legato a quello d’importanza giuridica; ed è per la difesa integrale dell’indipendenza del giudice che io penso che il progetto di Costituzione debba accettare il principio della Corte criminale, rifiutando l’istituto della Giuria.

Onorevoli colleghi, il giurato, nella migliore delle ipotesi, è un dipendentissimo cittadino: dipende almeno dalla propria incompetenza.

Il magistrato che ha consacrato la vita alla missione da giudicare, che ne sente la dignità e non l’abbandona, di norma, che per collocamento a riposo o per morte, può veramente vivere in quella torre di avorio di cui si è parlato in quest’Aula. Ma il giurato è un giudice saltuario, episodico, occasionale. Non dico che l’occasione fa l’uomo ladro, Dio me ne guardi. Dico che il giurato non consacra la vita alla giustizia: l’ordine di sedere come giurato è accolto dal cittadino che ha da sbrigar i suoi affari, come un mandato di comparizione – peggio, come un ordine di arresto. Egli cerca medici compiacenti per certificati compiacenti.

È non è tutto: i congiunti dell’imputato tendono le reti all’improvvisato giudice: il giurato Tale è minacciato del protesto di una sua cambiale, il giurato Tal altro della propalazione di uno scandaletto familiare; al terzo si promette una onorificenza, della quale si occuperà l’onorevole deputato del collegio, il quale normalmente non ne sa niente; si lusinga il quarto con la promessa del sospirato trasferimento di un congiunto. Il giurato non solo non può entrare nella famosa torre di avorio del magistrato, ma non può stare in nessuna torre, qualunque ne sia la materia.

L’onorevole Macrelli diceva ieri che in quest’Aula si erano pronunciate parole aspre contro i giurati; oggi le sente anche più crude. E non voglio affatto concludere che non possano esistere giurati onesti. Ce ne furono e ce ne saranno.

Io penso che il problema della giuria non è da esaminare con gli occhiali colorati; voglio parlare di colori politici; non è da esaminare sotto la specie della democrazia o della non democrazia; ma soltanto sotto il punto di vista tecnico del migliore giudizio che si possa ottenere nelle Corti di assise. Questo è l’unico punto di vista valido e corretto.

Penso che nessuno può spingere il proprio sentimento democratico fino a pretendere che si formi un collegio di medici, di avvocati o di ingegneri, i quali abbiano la caratteristica di non conoscere la medicina, l’avvocatura o l’ingegneria; mi sembrerebbe una non leggera esagerazione.

Si tratta di un problema tecnico. È vero che qualche volta si nasce con una struttura mentale logica che rende possibile un giudizio istintivo abbastanza corretto. C’è anche l’istinto del musico, del melodista: ma armonista si diventa, contrappuntisti non si nasce. E così l’ottimo tecnico del giudizio non nasce, diventa.

La vecchia banalità del giurato giudice sul fatto e non sul diritto non è creduta ormai più da nessuno, anche se si ammette che, in qualche tempo, qualcuno, nel fondo della sua coscienza l’abbia creduta veramente.

Il giudice giudica l’imputato di un reato, nel quale sono fusi indissolubilmente fatto e diritto.

Esistono casi facili nella storia giudiziaria: ma nei processi di assise i casi facili non si trovano. Difficile seguire l’intrico degli indizi, difficile, per l’insipiente, valutare gli estremi di un reato, difficile giudicare le perizie tecniche che il buon giudice accetta o respinge per ragioni cercate nella propria cultura; difficile l’indagine psicologica. Solo il magistrato sa scrutare l’animo del testimone, ed entrare nell’invisibile mondo delle intenzioni.

Un poeta francese, di purissima ispirazione, diceva che bisognerebbe torcere il collo all’eloquenza, strozzarla: ebbene, il giurato non è di quelli che mettono le mani al collo della eloquenza.

In un tempo in cui si crede che la risoluzione dei problemi sia affidata all’arte dell’indurre e del dedurre, la Corte di assise non è che un campo per il giuoco delle emozioni: qualche volta volgarmente eccitate, e volgarmente accolte.

L’onorevole Togliatti ha detto in un suo discorso che il cittadino deve essere giudicato dai suoi pari. Non capisco bene il significato di questa parola: «pari». Mi sembra equivoco. Il vero pari di un cittadino imputato di omicidio dovrebbe essere un altro cittadino imputato ugualmente di omicidio.

MACRELLI. Ma no!

ABOZZI. Capisco perfettamente, amico Macrelli, che l’onorevole Togliatti non ha voluto dir questo, ma semplicemente che l’imputato deve esser giudicato dal cittadino come tale, dal popolo in una parola. Io non credo però che si possa dividere la Nazione in popolo e non popolo, comprendendo nel non popolo i magistrati. I magistrati fanno parte del popolo: sono i cittadini che hanno appreso a giudicare. È soltanto questo saper giudicare che distingue il magistrato dal comune cittadino.

L’onorevole Bozzi nel suo discorso diceva che il problema della Magistratura non è risolto con la indipendenza del magistrato dal potere esecutivo: occorre, egli disse, che il giudice sia libero ed indipendente anche dalle gerarchie dei superiori. Io sono perfettamente d’accordo, ma a me pare che non sia facile stabilire norme speciali le quali tutelino l’indipendenza dei magistrati dalle gerarchie superiori. A me pare che si tratti di un problema di carattere psicologico, di buon costume gerarchico, di comune onestà. Capisco perfettamente quanto sia difficile sottrarsi alle pressioni del potere politico. Talvolta è necessario uno sforzo morale che non voglio dire eroico, ma quasi eroico. Ma non è davvero difficile sottrarsi al timore reverenziale esagerato o alla paura di una nota informativa o poco lusinghiera o sfavorevole.

Se il presidente del tribunale viola quella norma la quale vuole per prima la pronunzia del più giovane, dicevo, che non sarà un gran danno. Una discussione ha da esserci, e il presidente dirà il suo parere come lo dicono tutti gli altri. Guai se si dovesse veramente credere che in una qualunque causa che riguarda un qualunque rapinatore ladro, il Presidente si lega al dito il dissenso del giudice e il giudice sacrifica le sue convinzioni per non dispiacere al suo presidente. Se questo fosse, se di tanta pavidità, di tanta codardia si macchiasse l’anima del magistrato italiano, si dovrebbe dire che l’animo umano è irrimediabilmente sconcio: e sarebbe suonata l’ultima ora della santa giustizia. Giudici siffatti giudicherebbero male anche se fossero garantiti come corpo e come singoli. Sarebbe evidente in essi un impedimento dirimente a ben giudicare. Ha detto anche l’onorevole Bozzi che non sempre la Magistratura è rimasta sul piedistallo sul quale si sarebbe voluto che fosse rimasta. E sarà. Ed è.

Onorevoli colleghi, non c’è esercito che non abbia almeno un disertore; ma se ha un solo disertore o pochi, può ben dirsi ancora valoroso. Ognuno di noi conosce indirettamente la vita nazionale e direttamente quella della piccola patria nella quale vive e lavora. Ebbene, io affermo che nella mia piccola patria Sarda, il presidente che si vendica del giudice dissenziente o il giudice che regola il voto su quello del presidente o che si mette in ginocchio dinanzi alla potenza politica, non li ho mai conosciuti. Ho conosciuto soltanto uomini che hanno seguito la coscienza e la legge.

Un pensatore italiano, Giuseppe Rensi, in un suo libro ha dedicato un capitoletto alla impossibilità di essere giusti. L’idea della giustizia, egli diceva, manca del meglio, manca della universalità, e quindi non ha nessun fondamento razionale ed obiettivo. Non solo, ma Giuseppe Rensi dice che tutto quello che si può dire della giustizia, è racchiuso in quella facezia del giudice che udita una parte diceva: «hai ragione», udita l’altra diceva: «anche tu hai ragione». E al bambino che osservava: «tu dai ragione a tutti e due», rispondeva: «anche tu hai ragione». Io penso che forse Giuseppe Rensi è nel vero e l’idea di giustizia non ha l’universalità. Ma noi non dobbiamo fare la metafisica della idea di giustizia. Dobbiamo soltanto tentare di realizzare quel minimum di giustizia che è realizzabile quaggiù. Una luce piena di giustizia non illuminerà mai il mondo, ma un raggio di giustizia è lecito sperarlo. Occorre pure che i servitori della legge, che sono anche i servitori dell’ordine del mondo, abbiano un’assoluta indipendenza, un’assoluta autonomia. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cortese. Ne ha facoltà.

CORTESE. Onorevoli colleghi, si dice che un letterato, Ferdinando Martini, allorché entrò, in visita ufficiale quale governatore, in un’aula del tribunale dell’Eritrea, leggendo quella scritta che sta in tutte le aule di giustizia «La legge è uguale per tutti», commentasse: Non basta che la legge sia eguale per tutti, la giustizia deve essere eguale per tutti. Ed infatti, non basta che sia eguale per tutti la formula astratta: la legge vivente, la legge a contatto con i fatti e con gli uomini, la legge che genera la sentenza: la giustizia deve essere «eguale per tutti».

A tal fine, poiché è soprattutto compito del legislatore costituzionale quello di garantire al massimo l’eguaglianza della giustizia, al legislatore costituzionale si pongono allo studio taluni temi fondamentali: l’indipendenza della Magistratura, la scelta del giudice, l’unità della giurisdizione, l’unità della interpretazione.

Non c’è più una giustizia feudale, una giustizia delegata dal principe; non c’è più il principe, ma c’è una forza nuova, sempre più espansiva, che l’esasperazione della lotta politica e la tecnica della organizzazione estendono e rinvigoriscono sempre di più: ci sono i partiti.

Mettere il giudice al riparo delle pressioni e dalle interferenze dei partiti deve essere una delle nostre preoccupazioni maggiori.

Quando noi diciamo che è pericoloso inserire nel Consiglio Superiore della Magistratura, ed in così larga misura, dei membri estranei, espressioni di correnti politiche che portano nel Consiglio Superiore della Magistratura l’espressione di tendenze politiche contrastanti, le pressioni di interessi politici, il contagio d’una politicità che si può propagare anche ai membri del Consiglio Superiore attinti dalla Magistratura; quando noi diciamo che con questa larga inserzione di elementi attinti dal potere politico è praticamente violato il proclamato principio della indipendenza e dell’autonomia della Magistratura sancito nell’articolo 96, – con tanto maggior danno quanto più è esasperata – come è ora – la lotta politica che tende di invadere ogni campo della vita italiana – ci si presentano talune obiezioni. Si dice: volete fare della Magistratura una casta avulsa da ogni altro potere.

Il Consiglio Superiore della Magistratura non è un organo che autonomamente detta le norme per la vita interna della Magistratura, ma applica quelle dettate dal potere legislativo con la legge sull’ordinamento giudiziario. Non dunque la «casta» che si dà un proprio statuto, ma un organismo che si amministra da sé applicando lo statuto che gli proviene dal di fuori. È pur sempre il potere legislativo che disciplina, organizza, ordina la vita interna della Magistratura. Noi chiediamo soltanto che per le promozioni, le assegnazioni, i trasferimenti, la disciplina, la Magistratura – applicando le norme dettate dal potere legislativo – si amministri da sé, mediante un suo organo elettivo disciplinato dalla Carta costituzionale, al fine di evitare che attraverso le pressioni e l’ingerenza da parte di elementi politici sulla carriera del magistrato si possa politicamente influire sulla condotta del magistrato nell’esercizio della sua funzione.

Ci si muove poi, un’altra obiezione: è benefico – affermano i comunisti – smuovere con l’intervento dell’elemento politico, più aderente al moto perenne della vita economica e sociale, il conservatorismo che mantiene immobile il magistrato nell’applicazione della legge. L’obiezione, per tanti versi contestabile, muove da un errore.

Il Consiglio Superiore della Magistratura non interviene né vigila per l’attuazione della legge, non censura e non approva le sentenze, non guida e non suggerisce nell’elaborazione giurisprudenziale. L’applicazione della legge è sottratta al suo compito e al suo esame. Comunque composto il Consiglio Superiore della Magistratura non ha in questo campo alcuna ingerenza. Il giudice sta libero tra la sua coscienza e la legge. L’obiezione infondata rivela però una pericolosa tendenza di fronte alla quale tanto più necessaria appare la esclusione degli elementi politici dal Consiglio Superiore della Magistratura.

Onorevoli colleghi, il sistema è questo, il potere legislativo impone al giudice il binario con la legge processuale; lo lega alla attuazione della sua volontà sovrana con le leggi sostanziali con un legame tanto più solido e preciso, in quanto nel nostro sistema giuridico le norme sono rigorosamente codificate, a differenza di altri sistemi nei quali il magistrato può, con maggiore libertà, muoversi fra le fonti non codificate del diritto; il potere legislativo regola infine con l’ordinamento giudiziario la vita interna della Magistratura.

È questo il sistema, né il potere legislativo né quello esecutivo hanno la potestà di sindacare, d’influenzare l’applicazione giudiziaria della legge. Si accetti o no questo sistema, ma non si cerchino accorgimenti per esercitare influenze e controlli mascherati, presidiando con l’elemento politico l’organo regolatore della vita della Magistratura.

Per essere indipendenti dai partiti è necessario essere anzitutto al di fuori dei partiti. Io aderisco pienamente al principio per il quale i magistrati non devono essere iscritti a partiti politici. Il magistrato che milita in un partito, il magistrato che partecipa alla vita del partito, che dirige il partito, che assume responsabilità di partito, può essere compromesso nella sua serenità e nella sua indipendenza, sia pure inconsapevolmente, o – perlomeno – può apparire tale nella superficiale e sospettosa valutazione del pubblico. Ma quando si pongono certi principî, bisogna con coerenza portarli alle loro ulteriori conseguenze. Il magistrato nel fuoco della campagna elettorale, il magistrato candidato, il magistrato che diventa il centro di un attrito politico intensificato dalla lotta elettorale, il magistrato che diventa la bandiera di un movimento politico in una determinata zona, ed esaspera – com’è inevitabile in tutte le campagne elettorali – i toni del suo atteggiamento politico, il magistrato alla ribalta politica in primo piano, nella Camera e nel Senato, non si concilia col divieto fatto al magistrato d’appartenere a partiti politici.

Occorre avere una coerenza e noi, preoccupati profondamente dell’indipendenza di questa funzione, preoccupati affinché essa sia ed appaia libera, autonoma, agli occhi dei cittadini, stabiliamo il principio – specialmente in un momento in cui i partiti diventano milizia, e taluni partiti hanno delle ferree discipline – che il magistrato, per essere ed apparire indipendente dal potere politico, debba essere innanzi tutto di fuori dai partiti politici, ed allora ne discende, come conseguenza evidente, che il magistrato non potrà neppure essere eleggibile al Consiglio comunale, al Consiglio regionale, alla Camera come non potrà esserlo al Senato. Ond’è che io esplicitamente propongo un emendamento che completa la proposizione già inserita nella Carte costituzionale.

E sempre per coerenza ai principî, mi induco a proporvi il seguente quesito: se il magistrato non può essere iscritto a un partito politico, può esservi iscritto un componente del Consiglio Superiore della Magistratura? Se il magistrato non può essere iscritto ad un partito politico per quelle ragioni sostanziali che ho segnalato e perché deve dare a tutti la sensazione precisa di essere indipendente da ogni vincolo politico, può il giurato – se la giuria sarà accolta – chiamato a decidere in un giudizio particolarmente grave che può chiudersi anche con una condanna all’ergastolo, sedersi al suo banco in aula di giustizia col distintivo politico all’occhiello?

MANCINI. Si toglie il distintivo: è semplice.

CORTESE. E sarà una ipocrisia. Il giurato che partecipa ai partiti politici, il giurato capo cellula, il giurato segretario della locale sezione della Democrazia cristiana o del Partito comunista o del Partito liberale, non basta che si tolga il distintivo nemmeno per evitare nel pubblico il sospetto fondato o infondato della sua influenzabilità per ragioni politiche, specialmente in giudizi aperti, per la particolarità della materia, all’influsso delle passioni, prima fra esse la passione politica.

MANCINI. Il giurato iscritto a un partito politico ha anzi la coscienza più serena degli altri. Ella, esprimendosi in questo modo, reca offesa ai partiti politici: mi meraviglio di lei.

CORTESE. Lei perde di vista la realtà e non coglie il senso di quello che io dico. Bisogna soprattutto non dare l’impressione che il giurato iscritto ad un partito politico…

MANCINI. C’è la disciplina dei partiti, c’è l’onestà dei partiti.

CORTESE. Ma c’è la lotta politica.

MANCINI. La lotta politica è al di sopra dei partiti. In una Assemblea che è l’espressione dei partiti politici non si offendono i partiti!

CORTESE. La lotta politica non è affatto al di sopra dei partiti. Io non offendo i partiti, ma colui che è iscritto ad un partito politico…

MANCINI. Ma è un onore, è un grande onore appartenere ad un partito politico!

CORTESE. Noi non diciamo che la direzione dei partiti possa influire sulla decisione del giurato o del magistrato in genere; noi diciamo però che il singolo il quale sia direttamente partecipe alla vita politica può essere trascinato ad una malintesa interpretazione del suo vincolo politico, può, soprattutto, essere oggetto di un sospetto in tal senso – magari infondato – mentre è invece indispensabile che il cittadino sia perfettamente convinto dell’imparzialità del giudice.

Giustizia uguale per tutti; l’unità della giurisdizione è una garanzia di giustizia eguale per tutti. L’autonomia del potere giudiziario è manomessa quando un altro potere, sia pure quello legislativo, può sottrarre ad esso, creando giurisdizioni speciali, una serie di rapporti, ferendo così il concetto sostanzialmente unitario dall’amministrazione giudiziaria e discreditando anche la Magistratura ordinaria, ritenuta inidonea al suo compito. D’altra parte, si accentua così l’incertezza circa il giudice competente; si facilitano i conflitti di competenza e le contradittorietà dei giudicati; viene meno spesso, il doppio grado di giurisdizione, si riduce, si mutila spesso il controllo della Corte di cassazione.

Io non mi nascondo che vi sono delle gravi perplessità in rapporto alla Corte dei conti e al Consiglio di Stato circa la soppressione delle loro funzioni giurisdizionali; ma anche qui mi sembra che il principio stabilito dell’unità della giurisdizione debba essere condotto alle sue conseguenze, devolvendosi al magistrato ordinario anche la decisione delle controversie fra il cittadino e la pubblica amministrazione. Si supereranno così anche delle difficoltà, talvolta insormontabili, di identificazioni giuridiche e si ripareranno radicalmente talune vistose deviazioni dai principî, come ad esempio quella per la quale il Consiglio di Stato giudica anche su diritti soggettivi. Parimenti non si comprende perché debba essere sottratto al giudice ordinario e debba essere affidato alla Corte dei conti il giudizio di responsabilità colposa per danni dei funzionari e degli impiegati statali; e perché – arrivando ad una deviazione nella deviazione – una contestazione che sorga dal rapporto di lavoro di un impiegato della Corte dei conti debba essere decisa dalla stessa Corte.

Se per talune materie si richiede una particolare competenza tecnica nel giudice, a questa esigenza si potrà venire incontro con particolari disposizioni; ma importa riaffermare che premessa di giustizia uguale per tutti è l’unità di giurisdizione, che assicura appunto l’eguaglianza della giustizia nelle sue garanzie, nelle sue forme, nelle sue possibilità di gravame.

Molti si sono dichiarati favorevoli – ed anche dei miei amici di Gruppo – alla conservazione del tribunale militare in tempo di pace. Si è detto: vi sono sì molti difetti; tutti li conosciamo; ma sono difetti riparabili, rimediabili. Si potrà dare maggiore respiro alla difesa, si potrà limitare la competenza dei tribunali ordinari, si potrà vedere di sottrarre i borghesi alla competenza dei tribunali militari. (Io non so fino a qual punto questo sia possibile, in caso di concorso di più persone nel reato o di connessione).

Ma, onorevoli colleghi, di fronte al mio pensiero – al mio pensiero di liberale, soprattutto – si pone questa verità innegabile: che nei tribunali militari giudica il potere esecutivo; vi sono dei cittadini giudicati dal potere esecutivo. Nei tribunali militari vi sono degli egregi, insigni, apprezzabili magistrati militari, che dipendono dal Ministero della difesa; vi sono degli ufficiali che dipendono dai loro superiori gerarchici. Per quei giudizi è escluso ogni altro controllo che non sia il controllo militare e politico. Quando noi riaffermiamo l’indipendenza della Magistratura, il principio della giustizia uguale per tutti, di cui è garanzia l’unità della giurisdizione, noi non possiamo sottrarci a questa ultima necessità ideologica e pratica: cioè quella della soppressione in tempo di pace di un tribunale che non è amministrato da giudici, intendendosi per giudici i magistrati del potere giudiziario, ma dal potere esecutivo.

Se vi sono delle esigenze di disciplina, di servizio, potremo ampliare il numero delle infrazioni disciplinari. Non comprendo, per esempio, perché l’addormentarsi della sentinella, il rifiuto d’obbedienza, la violata consegna, debbano essere considerati come reati, e non invece soltanto quali sono, gravi infrazioni disciplinari. Queste infrazioni disciplinari saranno colpite dai superiori gerarchici, e, quando ne sia il caso, si potranno anche istituire delle Corti disciplinari presso i comandi.

Ma quando siamo di fronte ad un reato, cioè al caso di un cittadino che deve saldare il suo conto con la giustizia con anni e decenni di reclusione, il cittadino, vesta o non vesta la divisa, ha il diritto di reclamare che la giustizia sia applicata nei suoi confronti con le stesse garanzie e con gli stessi gravami che tutelano gli altri cittadini, e quindi ha il diritto di essere giudicato dal potere giudiziario e non dal potere esecutivo.

Nel periodo di transizione, se si aboliscono i tribunali militari, sarà necessario stabilire che il Tribunale supremo militare giudice del diritto, sia subito sostituito dalla Corte di cassazione. Appare infatti ancora più enorme l’assurdo d’un giudizio esclusivamente di diritto sottratto alla Corte di cassazione e affidato ad organo composto da militari.

Si osserva che la legge penale militare è una necessità per la vita stessa dell’Esercito. Io non chiedo affatto che la legge penale militare sia abolita; io chiedo che sia applicata da organi del potere giudiziario e così, come per altre materie il potere giudiziario si avvale di esperti, si potrà del pari provvedere per questa materia particolare.

Si osserva ancora che il Tribunale supremo militare ha competenze anche amministrative, come per lo svincolo delle doti militari. È facile rispondere che nulla vieta di creare un organo apposito a cui affidare questa speciale competenza.

In materia penale la Costituzione ha affermato in modo preciso il divieto di istituire organi speciali e straordinari. Io però sono preso da una perplessità di fronte all’articolo 95. Comprendo che dal punto di vista giuridico si tratta di concetti perfettamente diversi; ma quando si dice che presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, io vorrei una garanzia in rapporto alla materia penale.

Non vorrei infatti che fosse possibile, attraverso questo binario, arrivare a delle Corti d’assise speciali, a dei collegi coi quali, modificando profondamente la composizione dell’organo ordinario, si crei un organo sostanzialmente speciale.

Occorre precisare che presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi, per determinate materie, delle sezioni specializzate, quando ciò sia reclamato dalla «particolarità tecnica» dell’oggetto del giudizio.

Soltanto l’aspetto particolarmente «tecnico» della materia può giustificare una particolare composizione dell’organo giudicante con la partecipazione di «esperti» che integreranno il collegio, la cui presidenza e la cui maggioranza saranno sempre rappresentate da magistrati ordinari.

La materia penale è particolarmente degna d’attenzione. Ed io lo dico non solo per l’interesse che ad essa portiamo noi che proveniamo dall’avvocatura penale, ma per tante ragioni ovvie. Ora io vorrei sottoporre all’attenzione degli onorevoli colleghi qualche rilievo che deriva dall’esperienza pratica. Si è stabilito nel progetto che l’autorità giudiziaria «può disporre direttamente dell’opera della polizia in materia giudiziaria». Non basta. La pratica insegna che proviene all’autorità giudiziaria un telegramma con la notizia che in un dato paese si è verificato un delitto, e poi il più delle volte, per giorni e giorni l’autorità giudiziaria non sa più nulla e rimane completamente avulsa dalle indagini, le quali si svolgono esclusivamente ad opera della polizia giudiziaria, che raccoglie gli interrogatori, le testimonianze, procede ai confronti, e registra anche talvolta clementi generici, in seguito non più rilevabili, accerta tracce non più constatabili; arriverà poi l’autorità giudiziaria, dopo quindici o venti giorni, e troverà un verbale in cui si è cristallizzata già la prova, in cui l’indagine s’è già quasi esaurita, il convincimento già s’è quasi stratificato, sì che spesso tutto il processo penale non è che una spirale, alla fine della quale, nella sentenza, non si ritrova che il verbale che era nella radice.

È indispensabile, quindi, che la polizia giudiziaria sia posta alla diretta ed esclusiva dipendenza del potere giudiziario; che il potere giudiziario abbia praticamente la possibilità di assumere fin dall’inizio la direzione, la sorveglianza, il controllo delle indagini di polizia giudiziaria.

Desidero ora sottoporre all’Assemblea una esigenza che mi sembra fondamentale e cioè che ogni provvedimento giurisdizionale debba poter ricevere il controllo della Suprema Corte di cassazione.

L’articolo 102 dice che contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge.

Secondo le norme di legge, può significare anche soltanto per incompetenza o eccesso di poteri. Io vorrei che fosse con precisione stabilito nella Costituzione che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali di qualunque magistratura è dato ricorrere per cassazione «per violazione di legge». Le parole «per violazione di legge» le vorrei sostituite a quelle «secondo le norme di legge». I codici di procedura stabiliranno poi le modalità, ma il principio è questo: per qualunque sentenza di giudici speciali o ordinari deve essere consentito il ricorso alla Suprema Corte di cassazione per eccepire una violazione di legge sostanziale o processuale; non potrà in alcun caso il legislatore limitare il ricorso ai casi di incompetenza e di eccesso di potere.

L’unità dell’interpretazione è garanzia di «giustizia eguale per tutti».

Il problema della Cassazione unica o multipla non può essere influenzato dal gioco di interessi particolaristici. Né è esatto dire che le Cassazioni regionali furono soppresse dal fascismo, poiché già da decenni da più parti si chiedeva l’unicità della Cassazione; né deve dimenticarsi che soltanto motivi di politica contingente consigliarono, ai primordi dell’unità nazionale, la conservazione delle cinque gloriose Cassazioni.

Certo è preferibile, per andare alla Cassazione, prendere il tram anziché prendere il treno… ma «Cassazione», la Cassazione, già all’orecchio suona al singolare. È difficile dire: le Cassazioni. La logica stessa della funzione indica l’unicità dell’organo. La Cassazione garantisce l’unità dell’interpretazione delle varie leggi e riunisce al vertice i vari organi giurisdizionali sparsi sul territorio dello Stato.

La funzione, ripeto, la postula unica.

Si dice: «Abbiamo fatto un ordinamento regionale». Ebbene, il Codice, la legge dello Stato, devono essere interpretate da un organo supremo che riaffermi l’unità nel diritto: affermazione tanto più necessaria, in quanto appunto vi sono le Regioni. Nei lavori preparatori ho trovato citato Michele Pironti, il quale fece un discorso sulle Corti regionali. Ricordo il titolo di quel discorso: «I caratteri delle Cassazioni regionali». Questo titolo è per me la condanna delle Corti regionali. Egli infatti poneva in rilievo proprio le particolari caratteristiche che si andavano formando in rapporto alle singole Cassazioni regionali, le differenziazioni che sempre più si accentuavano nell’interpretazione delle leggi da parte delle singole Cassazioni regionali.

Ora, la interpretazione della legge trascende il caso concreto; la interpretazione difforme determina l’incertezza della legge stessa. L’errore di diritto è un errore che può rimbalzare dalla controversia, può influire sulla condotta dei cittadini, in quanto può far ritenere che una determinata legge abbia una determinata portata e un determinato significato. Se è necessario dare una legge sempre più certa al cittadino, è necessario che l’organo supremo che interpreta la legge sia un organo unico.

Riconosco che noi, quando sfogliamo i repertori della Cassazione, incontriamo delle interpretazioni mutevoli. Ma questo non significa già portare un argomento per le Cassazioni plurime, poiché è certo che gli stessi difetti si accentuano, si esasperano, si moltiplicano con le Cassazioni multiple.

La scelta del giudice deve essere garanzia di giustizia eguale per tutti.

La scelta del giudice mediante concorso è garanzia di preparazione e di competenza. Concorso anche interno per selezionare il magistrato durante lo svolgimento della sua carriera. Oserei forse dire, per distinguere magistratura penale da magistratura civile.

Noi nella pratica vediamo i giudici penali che chiedono di andare a fare delle piccole escursioni in civile, per poter scrivere delle sentenze ed acquistare un titolo, quasi che la funzione di amministrare la giustizia in campo penale fosse una funzione degradata in confronto a quella nel campo civile. Eppure, tutto il movimento della scienza moderna, tutte le elaborazioni giurisprudenziali, i congressi internazionali, sempre più dimostrano quanto il giudice debba essere preparato, padrone perfino di scienze ausiliarie, ove egli voglia cimentarsi nel difficile compito di giudicare gli uomini e di amministrare la legge penale, che diventa sempre più complessa. Ma mentre io parlo di tecnica e complessità di preparazione e di scienze sussidiarie, io vedo affacciarsi dall’articolo 94 aureolata di incompetenza e di ignoranza, la figura della giuria.

Vi è qualcosa di paradossale, consentitemelo dire col massimo rispetto anche per chi sostiene la tesi avversa. Il giudice più incompetente per il giudizio più grave, il giudice ritenuto il più infallibile, senza il doppio grado di giurisdizione, senza appello, in quanto più incompetente; ed a lui si consente di essere il più dispotico, cioè lo si svincola dall’obbligo dalla motivazione; gli si consente di poter esprimere il suo giudizio con un dispotico monosillabo, sulla cui punta oscilla tutta la vita di un uomo, che può essere condannato all’ergastolo.

Voi, onorevoli colleghi, sapete quali gravi indagini occorre svolgere nelle Corti di assise in rapporto ai delitti più gravi.

Si dice: democrazia; ma democrazia è questa: eguaglianza delle possibilità per tutti nell’assunzione delle carriere; quando vi sono compiti tecnici da svolgere la selezione è affidata soltanto alla preparazione tecnica.

Che cosa è questa democrazia del «sorteggio»? Si dice: coscienza popolare, come se il sorteggio esprimesse la coscienza popolare; scelta cieca, della sorte. Capirei magari una elezione.

VERONI. Mancini, Finocchiaro Aprile, Pisanelli hanno fatto discorsi memorabili.

CORTESE. I discorsi memorabili dei maggiori esponenti della nostra dottrina, da Francesco Carrara a Pisanelli, sono contro la giuria. Io ho letto Pisanelli, ricordato nella relazione del Guardasigilli; ho voluto sfogliare questo antico libro intitolato Istituzione dei Giurati. Quando parlava del trapianto di questo istituto dall’Inghilterra, Pisanelli scriveva: «I giurati, destituiti di cultura, nel Continente non si appoggiano ad antiche consuetudini e non sono sorretti dalla tradizione e non rappresentano altra cosa che l’ignoranza; ossia ciò, che negli odierni giudizi (la vivacità dell’espressione è sua) nulla ci può essere di più laido, di più abietto, di più esiziale nel giudicare». Soggiungeva: «la mancanza di una motivazione priva certamente la sentenza dei giurati degli altri vantaggi, che potrebbe presentare». Perché la motivazione è la dignità della sentenza. Una sentenza non motivata, che non consente appello e riesame del procedimento logico, delle valutazioni giuridiche, delle premesse di fatto che hanno condotto alla decisione, sospende nel vuoto un dispositivo, lascia senza risposta ogni interrogativo che investa il suo fondamento.

D’altra parte il giudizio dell’inesperto è tanto più assurdo in quanto, come ho già avuto occasione di rilevare, nel nostro Paese la sentenza deve applicare la legge, che è sempre scritta, codificata, tecnicamente formulata, e non già consuetudini ed usi, principî non scritti affidati alla tradizione, come in Inghilterra, che è la patria della giuria.

Soprattutto voi, colleghi del campo penale, ben conoscete quale movimento di pensiero, di indagine, di critica, di dottrina, quale feconda, ricca elaborazione giurisprudenziale vi sono state da quando, con la soppressione della giuria, le sentenze della Corte d’assise hanno avuto una motivazione e la Corte di cassazione ha potuto pronunciarsi sui problemi giuridici che frequentemente si presentano nelle Corti d’assise.

Pensate agli ardui temi affrontati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. La nozione di premeditazione, conciliabilità della premeditazione col vizio parziale di mente, conciliabilità della premeditazione con la provocazione; provocazione e motivi morali sulla base dello stesso fatto o di due fatti distinti. Se non ci fosse stata la motivazione delle sentenze, tutto questo lavoro di ermeneutica e di giurisprudenza non ci sarebbe stato. E noi avvocati, che spendiamo la nostra fatica in questi studi e in queste indagini, dovremmo poi portare i risultati della nostra preparazione tecnica, le nostre tesi giuridiche dinanzi al banco dove siede sì un cittadino, al quale può andare tutta la nostra simpatia e la nostra stima, ma che è un uomo che non può seguirci nell’arduo cammino. La giustizia diventa una lotteria, come diceva Francesco Carrara, una lotteria tanto più pericolosa nei piccoli centri, dove più agiscono le suggestioni, le pressioni, le amicizie, i timori riverenziali, le clientele elettorali dell’avvocato; le animosità o le cordialità dei gruppi familiari, le avversioni della piccola politica locale. Né può tacersi del fenomeno degli eccessi della stampa in tema di cronaca nera, eccessi che pur possono avere un’influenza suggestiva sul giudice popolare meno corazzato ed attrezzato.

Tutta la dottrina, la Magistratura e gran parte degli avvocati penali sono contro l’istituzione della giuria, la quale, infine, non garantisce la «umanità» del giudizio più di quanto possa garantirlo il magistrato, che è uomo esperto fornito di sensibilità, e non è certo chiuso alle voci del sentimento, che non è certo incapace di valutare gli aspetti, i motivi, le giustificazioni umane del delitto. Il magistrato, che è anch’egli «popolo», figlio del popolo, lavoratore, che con un modesto stipendio spende la sua vita al servizio del Paese, della legge, per garantire le libertà e i diritti di tutti.

Le Corti di assise dei giurati sono le Corti delle grandi prevenzioni e delle grandi indulgenze. Arbitrarie le une e le altre.

Onorevoli colleghi, soltanto con un giudice indipendente, esperto, preparato, si garantirà il cittadino, il cui onore, i cui beni, la cui libertà dipendono dall’amministrazione della giustizia, e si potrà forse garantire al massimo quella eguaglianza della giustizia che è l’esigenza fondamentale di un popolo civile. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Veroni. Ne ha facoltà.

VERONI. Onorevoli colleghi, l’Assemblea non abbia preoccupazioni; sarò assai breve nel prospettare alla vostra attenzione alcuni rilievi che, se non sono esclusivamente desunti dalla mia lunga carriera professionale di oltre quarantacinque anni, sono da riportarsi ad un non breve periodo di tempo, durante il quale ebbi l’onore di collaborare con due Ministri Guardasigilli di opposte tendenze politiche: l’onorevole Tupini e l’onorevole Togliatti, ambedue animati dalla passione fervida di dare sollecito e solido assetto alla vita giudiziaria, nel nuovo clima politico successo alla tirannide nazi-fascista. E per questo vorrei ricordare all’Assemblea che, dopo la liberazione di Roma, l’onorevole Tupini costituì quattro Commissioni di studio per la riforma dei Codici di diritto sostanziale e diritto formale. E nel discorso inaugurale che tenne alle quattro Commissioni riunite, egli delineava eloquentemente su quali nuove basi si sarebbe dovuto assidere la giustizia, e penale e civile, nel nuovo ordinamento democratico. Io voglio ricordare all’Assemblea che il Ministro Guardasigilli riconobbe soprattutto la necessità inderogabile di provvedere alla creazione di un nuovo ordinamento giudiziario, il quale, riportandosi per sommi capi a quell’ordinamento giudiziario che Vittorio Emanuele Orlando, Ministro Guardasigilli nel 1908, aveva presentato e fatto approvare dal Parlamento, avrebbe dovuto risolutivamente allontanarsi da quell’altro ordinamento giudiziario che recò nel 1941 la firma del Ministro Grandi.

E lo stesso Ministro Guardasigilli, onorevole Tupini, dette alle Commissioni per la riforma dei Codici, e particolarmente a quella cui venne affidato lo studio per meglio garantire la Magistratura, Commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario, le linee sulle quali la Commissione avrebbe dovuto procedere per realizzare questa auspicata riforma reclamata dalla classe dei magistrati e dalla coscienza del Paese.

Non meno di lui, onorevoli colleghi, il Ministro Togliatti, che arrivò al Ministero della giustizia circondato da una certa prevenzione della classe dei magistrati, i quali naturalmente non erano perfettamente convinti che potesse essere Ministro Guardasigilli il maggiore esponente del Partito comunista, l’onorevole Togliatti, dico, fu preso dallo stesso ardore per la soluzione dei problemi di giustizia. E riprendendo il lavoro che la crisi ministeriale aveva fatto interrompere all’onorevole Tupini, creò delle Commissioni interne, alle quali parteciparono insieme a chi ha l’onore di parlarvi, il presidente della Cassazione, il procuratore generale della Cassazione, quattro presidenti di sezione della Cassazione, il Capo dell’ufficio legislativo, avvocati insigni, come Giovanni Selvaggi e Federico Comandini, dell’ordine degli avvocati di Roma, Commissioni che prepararono quel decreto del 31 maggio 1946 che reca il titolo: «Guarentigie sulla Magistratura».

Io voglio ricordare che uomini di partiti diversi: l’onorevole Leone, nei lavori della seconda sezione della seconda Sottocomissione, presieduta dal nostro Vicepresidente onorevole Conti, l’onorevole Turco in questa Assemblea, un magistrato, l’onorevole Romano, hanno ricordato che questo decreto 31 maggio 1946, approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro Guardasigilli del tempo, è veramente una conquista per la classe dei magistrati, talché esso fu accolto dalla Magistratura con pieno plauso. I magistrati si ritennero soddisfatti ed esauditi nelle loro richieste, perché per la prima volta questo decreto affrontava e risolveva in pieno e conclusivamente il problema della inamovibilità del giudice, estendendola al pubblico ministero, e garantiva al magistrato l’esercizio delle sue alte funzioni lontano da ogni e qualsiasi influenza; perché, per questo decreto veniva creato un Consiglio Superiore della Magistratura, non come propone il progetto di Costituzione, che rappresenta un regresso di fronte a quello che è il voto e il desiderio dei magistrati, ma come era stato ardentemente reclamato dalla classe, un Consiglio, cioè, composto esclusivamente di magistrati. Così che nei lavori preparatori della Commissione competente si poté dire: «Ma che cosa di più la Magistratura potrà ottenere con il sospirato autogoverno? Che cosa può avere di meglio, quando il decreto sulle sue guarentigie tutto ha dato e tutto ha concesso?».

Il nostro collega onorevole Leone, politico apprezzato e profondo studioso di problemi giuridici, diceva che, per effetto del decreto del 31 maggio 1946, la Magistratura ha i Consigli giudiziari eletti per libera votazione della classe; ha il Consiglio Superiore della Magistratura costituito esclusivamente di magistrati eletti per libera elezione; ha al Consiglio Superiore della Magistratura attribuito i più larghi poteri, sì da far ritenere giustamente che esso rappresenti il frutto della costante e lunga lotta che la Magistratura aveva affrontato, sostenuto, superato.

Ma, onorevoli colleghi, i magistrati ora non si dimostrano più pienamente soddisfatti.

Dopo essersi dichiarati sostanzialmente soddisfatti nelle loro aspirazioni, esaudite attraverso la collaborazione data alla formazione del decreto sulle loro guarentigie (e nella Commissione erano infatti presenti, fra gli altri, altissimi magistrati come Pagano, Pilotti, Piga, Manca, Spallanzani, Azzariti, ecc.), i magistrati chiedono il completo autogoverno, dopo aver ottenuta la completa sospirata autonomia.

L’onorevole Bozzi ha detto che per autogoverno si deve intendere soltanto quello amministrativo; ma ciò non è completamente esatto: quando i magistrati chiedono l’autogoverno vanno molto al di là di questa funzione amministrativa che l’onorevole Bozzi vorrebbe riconoscere all’autogoverno stesso. 1 magistrati vogliono con l’autogoverno poter provvedere essi alle nomine, alla destinazione e alla rimozione dei magistrati, avere l’iniziativa e il controllo della disciplina della classe, governare, insomma, su tutto quello che attualmente costituisce il potere del Ministro della giustizia. Ora nessuno può e deve contestare, alla classe dei magistrati, piena autonomia ed indipendenza, senza pervenire però a quell’autogoverno, che farebbe di essi una casta chiusa, quasi appartata dal vivere civile.

Una tale tendenza, che non tutti i magistrati possono volere e possono desiderare, dovendo anch’essa, la classe dei giudici, considerarsi uno degli elementi essenziali della vita febbrile del Paese, condurrebbe il giudice e la sua classe ad appartarsi, per governare unicamente il proprio ordine, per provvedere alla propria disciplina, per amministrarne le finanze, per regolarne l’andamento, ecc.

Ecco perché noi diciamo che il decreto 31 maggio 1946 sulle guarentigie della Magistratura, che prevede la soluzione del problema dell’indipendenza attraverso l’inamovibilità del giudice, ed estendendola anche al pubblico ministero, questo decreto è – secondo l’opinione nostra e secondo quella che era, allora, l’opinione della classe dei magistrati – quanto di più può desiderarsi e concedersi, oltre di che, nelle condizioni attuali del nostro Paese, non è consentito andare.

Ma, onorevoli colleghi, qui conviene, in riferimento alla nostra concezione giuridica o politica esprimere liberamente il pensiero di questa parte dell’Assemblea sovra alcuni altri problemi, possibilmente senza ripeter male le cose dette sinora bene.

Partecipazione del magistrato alla vita pubblica: chi vi parla è forse tra i pochi che da più anni seggono in quest’Aula: vi entrai per la prima volta nel 1912, e vi trovai magistrati insigni, Edoardo Cimorelli, Tommaso Mosca, Michelangelo Vaccaro, Giuseppe Mendaia, Giulio Venzi, e più tardi vi pervennero altri, fra cui ho caro il ricordo di un compagno di Gruppo, Alessandro Marracino, giurista insigne e spirito superiormente colto: tutti ebbero la nostra fraterna ammirazione e la estimazione del Paese, per aver saputo sempre fedelmente militare nella propria parte politica, pur conservando incontaminata l’altezza della loro funzione di magistrati.

E per andare un pochino più in là, prima che io entrassi, negli anni lontani, in quest’Aula, vi aveva seduto un altro altissimo magistrato romano, Antonio Gui, che rappresentò qui la nostra terra e che fu l’amatissimo presidente di tutte le Corti d’assise della regione laziale.

Ebbene, tutti questi magistrati, da Gui a Venzi, a Mendaia, a Mosca, tutti questi magistrati dettero prova di non sapere affatto prescindere dagli interessi supremi della giustizia, quando esercitarono la loro non mono nobile funzione di uomini politici; fecero, insomma, magnificamente i deputati e i magistrati.

Ora, vi è un nostro collega veramente valoroso e avvocato insigne, l’onorevole Sardiello, che ieri ha parlalo eloquentemente, il quale ha presentato un emendamento con cui vuole persino inibire al magistrato di poter aspirare a cariche pubbliche: non consigliere comunale o regionale, non deputato, non senatore. Che cosa è questo?

Noi siamo fermamente convinti che la Magistratura debba ritenersi paga di aver ottenuto le sue piene autonomie col decreto 31 maggio 1946 sulle sue «guarentigie» da me più volte ricordato; ma non vogliamo, per questo, privare, distogliere il giudice dal godimento di quei diritti elementari che la Costituzione riconosce a ciascun cittadino.

Se spetta al magistrato il diritto all’elettorato attivo, deve essergli anche riconosciuto il diritto all’elettorato passivo.

Ed io penso, conseguentemente, che sia un errore, che sia un’evidente esagerazione, che sia una pericolosa deformazione anche la preoccupazione che un magistrato possa far parte di un partito politico.

MANCINI. Imponiamo anche la castità al magistrato.

VERONI. Il magistrato ha il senso dell’ordine, il magistrato ha il senso del limite; anche quando, pertanto, egli appartenga ad un partito politico, saprà certamente conservare una linea di sobrietà e di prudenza nella lotta dei partiti; ma nessuno gli può contestare d’inscriversi, se voglia, ad un partito, perché è un diritto basilare di tutti i cittadini di vivere pienamente e attivamente la vita politica secondo i propri intendimenti, secondo il proprio pensiero, diritto che noi abbiamo universalmente riconosciuto nella Costituzione.

Se diversamente facessimo, andremmo evidentemente contro i principî della rinata democrazia.

E da ultimo consentitemi brevi rilievi sull’odierno problema, che tanto appassiona l’Assemblea: la Corte d’assise deve essere ripristinata, deve essere conservato l’assessorato o scabinato, deve essere affidata soltanto al magistrato la materia che per l’innanzi era affidata alle nostre Corti d’assise? Un nostro collega, che non appartiene a partiti di sinistra – l’onorevole Turco, che è un avvocato eminente – ha potuto dire che, quando l’onorevole Togliatti propose col suo noto decreto di ripristinare l’istituto della giuria, egli evidentemente lo aveva fatto, perché non si era potuto sottrarre a quella che era in quel momento la particolare situazione politica del Paese, uscito dalla tirannide fascista e dalla occupazione nazista.

Diceva l’onorevole Turco che fu forse quello un gesto di «mimetismo integrale»; frase un po’ oscura, che forse voleva significare questo: il Ministro Guardasigilli volle far sentire di essere l’espressione massima della democrazia e ridonò al popolo il diritto di giudicare attraverso l’istituto della giuria.

La verità è un’altra, onorevoli colleghi; a me consta personalmente, per essere stato in due Gabinetti il collaboratore di quel Ministro, che prima di presentare al Consiglio dei Ministri del tempo il decreto che ripristinava la giuria, furono interpellati i Consigli dell’ordine, le magistrature; gli studiosi, e, se voi volete consentire ad uno dei vostri più modesti colleghi un ricordo personale, potrei dirvi che fu dato proprio a me l’incarico di assaggiare, di vedere, di assaporare, quale era nel nuovo regime l’intenzione, il pensiero della classe forense e dei magistrati. E fui a Treviso, a Venezia, a Padova, a Milano, ecc. ed ho, nell’adempimento del mio stretto dovere, raccolto degli elementi concreti, che furono poi consolidati dal pensiero di buona parte della Magistratura, invitata a far sapere alle sfere dirigenti della vita giudiziaria quale fosse l’intendimento suo sopra l’istituto della giuria. Ebbene, caro amico Turco, o perché – come tu pensi – tutti eravamo invasi allora dal desiderio insopprimibile di ridare alla vita giudiziaria del Paese quell’aria salubre e respirabile che non aveva avuto per il passato, o perché tale era l’obiettivo convincimento di avvocati, di magistrati e di studiosi; sta di fatto che la giuria non trovò contrasti. E allora, nel maggio 1946, il Ministro Guardasigilli portò al Consiglio dei Ministri, presieduto dall’onorevole De Gasperi, il suo decreto, e il Consiglio dei Ministri – con decreto 31 maggio 1946, n. 560, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 1946 – senza sollevare discussioni od obiezioni gravi, ripristinò la giuria. Quindi, quando l’onorevole Fausto Gullo, succeduto al Ministro Togliatti, presentò un progetto di legge, correttivo soltanto dal punto di vista formale del primo, l’onorevole Gullo non faceva niente di decisamente nuovo e si orientava, dal punto di vista giudiziario, giuridico, politico, sulla linea che aveva seguito il suo predecessore.

Nella sua relazione, infatti, egli scriveva che, nel corso degli studi legislativi per la redazione delle norme da lui proposte, si era ravvisata l’opportunità di introdurre alcuni emendamenti diretti a potenziare la riforma, pur lasciandone inalterata la struttura fondamentale.

Giova a questo punto ricordare che sorse viva discussione in seno alla Commissione degli esperti – creata dal Guardasigilli Togliatti – sul requisito che si doveva chiedere al giurato, e non sull’utilità o sulla necessità di ripristinare o meno la Corte d’assise. Fu allora che la Commissione, in difformità da quello che il Ministro Guardasigilli aveva proposto, sostituì al requisito della licenza elementare, la licenza media inferiore o altro titolo equipollente.

Gli argomenti di natura strettamente giuridica contro il ripristino della giuria s’infrangono, onorevole Villabruna, di fronte al modificato clima sociale e politico, perché ogni volta che è insorta la tirannide, quel giorno è caduta la giuria (Approvazioni a sinistra), e ogni volta che è risorta la libera democrazia ed è caduta la tirannide, quel giorno è risorta la giuria. (Applausi vivissimi a sinistra). Segno è questo, onorevoli colleghi, che fra la giuria e la concezione politica del Paese vi è una connessione, per la quale un collega dell’estrema – mi sfugge ora chi – poteva dire che proprio non si può esaminare il problema della giuria, senza considerarlo nel quadro e nel tono della vita politica, nel momento in cui essa si ripristina o si rimuove.

Onorevoli colleghi, quest’Aula, e quella più angusta che abbiamo da molti anni abbandonata, hanno intese voci potenti sostenere la giuria. Pasquale Stanislao Mancini ha fatto dei discorsi mirabili – che io rileggevo nei giorni scorsi – per dire tutti i motivi e tutte le ragioni per cui nel regime di libertà e di democrazia s’impone l’istituto della giuria.

Ma Giuseppe Zanardelli, e nella relazione del Codice del 1889, e in Parlamento, e più tardi durante il suo ultimo Ministero ha ratificato con la sua alta autorità di giurista, e col suo alto pensiero di politico, che la giuria s’impone in regime di democrazia. Da ultimo Camillo Finocchiaro Aprile, fra le figure più luminose di questa Camera – io ero nel 1913 componente della Commissione di riforma del Codice di procedura penale – ha nei suoi magnifici discorsi esaltato l’istituto della giuria che volle conservato nel suo nuovo Codice di rito.

Dunque, se in regime di libertà lungamente vissuta uomini così insigni ed esperti sostennero e giustificarono pienamente l’istituto della giuria, dovremmo proprio noi, dopo aver tanto sofferto e patito, e dopo aver visto restituito in libertà il nostro Paese, dobbiamo proprio noi allontanarcene?

Io sono veramente lieto che chi presiede stamane la nostra Assemblea, l’onorevole Targetti, abbia potuto dare proprio lui il sigillo, lui socialista, alla restaurazione della giuria nella Costituzione. Fu proprio, infatti, nell’ultima seduta di quella operosa seconda Sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dall’onorevole Conti, che la giuria fu riconsacrata dalla proposta dell’onorevole Targetti.

Riconsacrato col nostro voto il ripristino dell’istituto, dovrà la legge comune e procedurale fermarsi su gli argomenti qui ripetuti sulla impreparazione del giurato: verrà così stabilito chi dovrà essere giurato, quali requisiti dovrà avere, e quale rimedio dovrà essere approntato per riparare alle deficienze che la giuria popolare può presentare dal punto di vista tecnico per essere pienamente rispondente alle esigenze del giudizio penale.

E qui io voglio ricordare da vecchio avvocato che la tecnicità della prova, a cui sarebbe inadatto il giudice popolare, ha accompagnato sempre il giudizio penale vivificato dal sussidio di perizie mediche, psichiatriche, calligrafiche, balistiche, ecc. Avveniva per il passato che il giurato trovava, se inesperto, un concludente sussidio nella trattazione delle parti e un correttivo nel riassunto del presidente destinato a mettere in luce le risultanze generiche e specifiche delle prove raccolte, sicché il giurato finiva per orientarsi notevolmente anche di fronte ai problemi tecnici.

Né sarà male ricordare, infine, che alla compilazione delle liste dei giurati provvedevano commissioni, presiedute dal Presidente del tribunale, che esaminavano le domande di iscrizione col sussidio dei rapporti dell’arma dei carabinieri, dei rapporti della pubblica sicurezza, delle informazioni dei sindaci e della Procura, ecc. Si facevano così delle buone liste di giurati, e quando finalmente si arrivava al pubblico giudizio si faceva lo scarto dei giurati, che dava la possibilità di eliminare i meno idonei.

È avvenuto, onorevoli colleghi, che in questa Aula è stato facile ricordare gli errori della giuria, ma pochi hanno ricordato che anche la Magistratura, composta di uomini, è incorsa ed incorre in errori spiegabili.

Ma forse sarà utile riproporre in questa Assemblea una proposta, che anche con l’intervento del collega onorevole Cevolotto è stata approvata al Congresso forense di Firenze, una proposta la quale, pur affermando il principio della giuria, rimandi alla legge ordinaria quello di esaminare come, quando e perché, e su quali reati abbia la sua competenza.

Ora, onorevoli colleghi, io vorrei dire una ultima parola, per esprimere il mio dissenso nei confronti di coloro che ostacolano l’entrata delle donne nella vita giudiziaria. Io non capisco come si possa dire che la donna non sia matura per la vita giudiziaria, quando invece è matura per esercitare la professione di avvocato, quando soprattutto è matura per fare l’elettrice e per fare l’eletta. E così, mentre in regime di democrazia, il primo Gabinetto Bonomi concedeva alle donne il diritto elettorale passivo ed attivo, talché molte sono venute in questa Aula ed hanno fatto e fanno bene il loro dovere, io non capisco perché, potendo fare le leggi, potendo collaborare a dare al Paese la sua nuova Costituzione, non possano disimpegnare le funzioni giudiziarie.

In fondo non saranno molte a dedicarsi alla vita giudiziaria, non perché non siano capaci di farlo, ma perché avverrà ciò che è avvenuto per la professione forense, ove non si è ravvisata fervida passione per l’esercizio dell’avvocatura da parte delle donne. Avverrà probabilmente lo stesso se riconosceremo alle donne il diritto di accedere alla vita giudiziaria. Ma la considerazione che le donne non saranno in folla a poter chiedere di entrare nell’ordine giudiziario è ben diversa dalla considerazione che voi vogliate estraniarvele, dopo che sono state ritenute capaci a sedere e a legiferare in quest’Assemblea sovrana.

Ora, onorevoli colleghi, ho finito, e vorrei che potesse partire da questa Assemblea una voce ed un augurio che già è partito dalla Commissione di preparazione del progetto. Esiste da qualche tempo una specie di dissenso fra la vita politica del Paese rinnovato e la Magistratura. Si dolgono i magistrati che il potere esecutivo non abbia saputo provvedere al miglioramento delle loro condizioni economiche; si dolgono i magistrati che si permetta alla stampa, senza che nessuno la censuri, di criticare asprissimamente l’opera della Magistratura; si dolgono i magistrati che talvolta sia, da esponenti della vita politica del Paese, censurato il loro giudizio per l’applicazione dell’amnistia politica. Di molte altre cose, e talvolta non ingiustamente, si rammaricano. Si è creata indubbiamente, così, una specie di frattura fra la rinnovata vita politica del Paese risorto a libera vita democratica e la vita giudiziaria. Ebbene, onorevoli colleghi, la frattura si risanerà, il vuoto si colmerà e consentite ch’io mi ripeta qui finendo l’augurio, che in me è certezza, espresso dall’onorevole Conti, autorevole Presidente della seconda Sezione della seconda Sottocommissione, in occasione di un evento che dolse al Paese: «Auguriamoci che i magistrati italiani sappiano essere degni della vita democratica e repubblicana del Paese». Io ne sono certo! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

La seduta termina alle 12.55.

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXVII.

SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Monticelli

Romano

Salerno

Martino Gaetano

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia alle 16.

RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Monticelli. Ne ha facoltà.

MONTICELLI. Onorevoli colleghi, molto è stato già detto a proposito del Titolo della Costituzione sulla Magistratura e molto ancora si dirà dai numerosi colleghi che sono iscritti a parlare.

Ritengo che se un problema deve essere esaminato in ogni sua parte, questo problema è appunto quello della Magistratura, perché è da tutti sentita la necessità inderogabile che il potere giudiziario si eserciti in piena indipendenza nell’interesse di tutti, essendo la continua garanzia di tutti i cittadini. Quando infatti l’indipendenza del potere giudiziario decade, la storia ci ha insegnato che il regime democratico entra in crisi, col conseguente dominio di una fazione politica sullo Stato, che non è più lo Stato di tutti i cittadini. A questo interessante ed importante problema della nostra nuova Costituzione mi accingo a dare il mio modesto contributo di avvocato e di studioso, sicuro di esplicare opera utile alla ricostruzione del Paese anche in questo delicato settore.

Qualche giorno fa il collega onorevole Villabruna ricordò, in quest’Aula, il memorabile discorso pronunziato da Giuseppe Zanardelli sull’indipendenza della Magistratura. Io credo che difficilmente un discorso potrebbe essere più attuale e più idoneo a rispecchiare le supreme esigenze di una restaurazione di quel senso della giustizia, che l’onorevole Cappi nella sua equilibrata eloquenza, ha intravveduto come un nuovo grande insegnamento al mondo che l’Italia, debitrice verso gli altri popoli sul piano economico, può invece dare nel campo del progresso civile. Quando Giuseppe Zanardelli, il 25 marzo 1903, affermava che «la Magistratura è la custode, la difenditrice e vindice di tutti i diritti e dei diritti di tutti», e che dipendendo dalla sua azione la vita, la libertà, l’onore e la proprietà dei cittadini, «il decoro stesso, la grandezza delle nazioni si misurano dall’autorità, dal rispetto che ottengono i magistrati, dalla fede in essi riposta, dal grado di elevatezza nel quale sono collocati nell’opinione del popolo», noi sentiamo che qualsiasi discorso, anche del più abile oratore, nulla potrebbe aggiungere alla solennità di una simile affermazione.

Del resto, l’esigenza della indipendenza del potere giudiziario è stata riconosciuta dall’articolo 97 del progetto di Costituzione, e non poteva essere diversamente, perché non si possono difendere i diritti e la libertà dei cittadini se non con una Magistratura autonoma e indipendente. Non posso quindi essere d’accordo su quanto in questi giorni è stato scritto sul giornale forense pubblicato a Roma, La Giustizia, relativamente al costume ed alla turpitudine che durante il fascismo finì, secondo l’autore di questo articolo, col contaminare l’Ordine giudiziario, che preferì grandeggiare più nella livrea della caserma che sotto la gloriosa toga per cui Roma è eterna, facendo… scricchiolare la giustizia. Ad onor del vero – ed è necessario che in difesa della Magistratura si elevi da quest’Aula non soltanto la viva voce di chi ha fatto parte dell’Ordine giudiziario, ma anche di chi ha indossato ed indossa la toga dell’avvocato, considerandola non come un lurido cencio che gli uscieri talvolta appoggiano sulle spalle dell’avvocato di passaggio, ma come il simbolo di una missione alta e solenne – ad onore del vero, dobbiamo dire che questo senso di sfiducia politica non è sentito dagli italiani, i quali ricordano non solo che in periodo di intransigente assolutismo la Magistratura ha resistito per venti anni, priva di ogni effettiva garanzia, all’invadenza di uno Stato totalitario, mantenendo la sua indipendenza nella dipendenza di uno Stato asservito, ma anche ricordando il glorioso contributo di sangue e l’opera preziosa data alla lotta clandestina dai magistrati, i quali furono i soli dipendenti dello Stato che rifiutarono collettivamente quel giuramento di fedeltà alla repubblica sociale, che essi non vollero dare, considerando tale rifiuto un loro preciso dovere. Ma io non voglio lasciarmi attrarre dal lato, direi quasi, sentimentale della vexata quaestio, e preferisco tornare sul terreno realistico dell’esame accurato degli articoli della Costituzione che riguardano la Magistratura.

Io ho presentato numerosi emendamenti, ma essi per me hanno voluto avere un solo e preciso significato: richiamare la vigile attenzione dell’Assemblea su alcuni articoli del progetto che, pur partendo dall’affermazione dell’indipendenza della Magistratura, hanno poi tradotto in norme incomplete e difettose il principio stesso.

Il collega onorevole Bettiol ha, secondo me, posto nel modo più chiaro il quesito, quando, dopo aver rilevato che da un lato vi sono coloro che vogliono un regime costituzionale autonomo per la Magistratura, e dall’altro lato coloro che propendono per la seconda soluzione, di far dipendere la Magistratura dal potere esecutivo, ha poi affermato che fra le due soluzioni vi è posto – e vi può essere posto – per una soluzione intermedia, che possa legare armonicamente la Magistratura agli altri poteri, senza un carattere di subordinazione e senza un regime di casta chiusa. Io penso che proprio questa soluzione occorra attuare nella Costituzione, non ritenendo che gli articoli del progetto, così come si presentano a noi per l’approvazione, siano completamente riusciti a questo scopo.

Si rendono necessari dei ritocchi, degli emendamenti, delle modifiche essenziali, per raggiungere questo obiettivo. Quale è questo obiettivo, onorevoli colleghi? Anzitutto, l’unicità della giurisdizione, costante affermazione dei più eminenti giuristi italiani da Mancini a Mortara, e in secondo luogo l’autorità degli organi del potere giudiziario. Occorre anzitutto che il cittadino sia garantito, attraverso la Costituzione, contro la permanenza o la creazione di giudici speciali che sottraggono il suo caso quasi sempre alla competenza degli organi dello stesso potere giudiziario. Ed è per questo che io, contrario ai giudici straordinarî o a quelli speciali, che sono sempre alle dipendenze del potere esecutivo, ovvero sono composti con quel deprecabile sistema misto che non ha fatto mai buona prova, ho proposto la soppressione del terzo comma dell’articolo 95, non ritenendo che sia il caso di istituire i giudici speciali neppure in materia civile. Ed ho altresì proposto la soppressione dell’articolo 96 sull’istituto della giuria nei processi di Corte di assise, che stamane è stato esaminato con tanta competenza da altri valorosi colleghi, perché ritengo che questo problema sia più opportuno rimandarlo alla legge e non farne oggetto di un articolo speciale della Costituzione.

Ma questa unicità della Magistratura non si raggiunge solo con la soppressione dei giudici straordinarî o dei giudici speciali che, non appartenendo all’autorità giudiziaria, non saranno mai forniti di quelle garanzie di indipendenza e di competenza che noi riteniamo necessarie, ma affidando al potere giudiziario la funzione giurisdizionale come regola generale. Ed è per questo che io ho proposto di aggiungere l’avverbio «esclusivamente» al primo comma dell’articolo 95.

La funzione giurisdizionale deve essere esercitata esclusivamente dai magistrati ordinari. Vi possono essere delle eccezioni, ma le uniche eccezioni possibili sono quelle per gli organi del Consiglio di Stato e per i tribunali amministrativi regionali, di cui all’articolo 122, secondo comma, di cui ci siamo spesso dimenticati, perché il Consiglio di Stato non esercita soltanto un controllo di legittimità, ma anche, in grado di appello, giudica sulle sentenze della Giunta provinciale amministrativa. Altra eccezione può essere ancora la Corte dei conti in materia di contabilità e pensioni, ed ancora i tribunali militari per i reati militari, stabilendo però per ciascun organo la sfera di specifica competenza. Non mi nascondo la grande difficoltà della distinzione, che ha travagliato dottrina e giurisprudenza, tra diritti ed interessi, o la conseguente incertezza circa il giudice competente, così come non mi nascondo – e ho avuto occasione di esprimere questi miei timori allo stesso Presidente della Commissione, onorevole Ruini – che, parlando di interessi legittimi devoluti alla giurisdizione del Consiglio di Stato, non risulta ben chiara la posizione di quei rapporti d’impiego, che debbono essere decisi o dalla Magistratura ordinaria o dal Consiglio di Stato. Penso però che non dovrebbe essere difficile, una volta affermata la distinzione fra interessi legittimi e diritti, di trovare anche un modus vivendi, una formula cioè la quale, mantenendo la differenza tra la giurisdizione sugli interessi legittimi dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, e quella dei diritti devoluti invece alla cognizione della Magistratura ordinaria, possa comprendere, nella competenza esclusiva dei Consiglio di Stato, anche i rapporti di pubblico impiego.

Il secondo obiettivo da raggiungere è quello dell’autorità degli organi del potere giudiziario, autorità che – è doveroso e doloroso riconoscerlo – oggi si manifesta in maniera assai imperfetta. Ho avuto occasione di leggere un pregevole volume compilato da due giudici del Tribunale di Roma, Angeloni e Santoni, dal titolo: Ricostruire la giustizia. Questo problema è esaminato con vera competenza, giungendo purtroppo a conclusioni amare nei confronti della decadenza del potere giudiziario, specialmente nel campo della applicazione delle decisioni. Conseguenza della concezione statale formatasi durante venti anni di fascismo, per cui la forza prevaleva sul diritto, l’istinto sul raziocinio; o ancor più – ed è grave constatarlo – della decadenza di tutti i valori morali? In parte sono questi i motivi, ma la ragione principale è che il potere giudiziario è stato troppe volte confinato nella superficialità e non si è adeguato o non ha avuto la possibilità di adeguarsi ai nuovi tempi per cui i ruoli, gli uffici, gli stessi sistemi, sono rimasti ancorati al lontano 1860. Non è forse vero che nel campo penale mandati ed ordini di cattura sono stati sistematicamente ritardati od ineseguiti dalla polizia giudiziaria, in base ad istruzioni piovute il più delle volte dall’alto e persino sentenze irrevocabili di condanna non sono state eseguite o sono state ritardate per mesi e talvolta per anni? Non è forse vero che in materia civile oggi l’esecuzione di una sentenza o di una ordinanza del giudice è diventata una cosa quanto mai preoccupante per l’avvocato che deve agire a tutela degli interessi del cliente, perché, per esempio, nel campo degli sfratti sa che dipendono ancora oggi dalla volontà dell’ufficiale giudiziario procedente, o dalla maggiore o minore buona volontà del commissario di pubblica sicurezza che, ritardando o non concedendo la forza pubblica, impedisce praticamente l’esecuzione.

La spiegazione si trova nel fatto che gli organi di polizia sono sottoposti al potere esecutivo, mentre è necessario (ed ecco la ragione di un altro mio emendamento) che sia creato un corpo di polizia giudiziaria alle dirette dipendenze del potere giudiziario, non soltanto per le esigenze tecniche di cui ho parlato, ma per il suo prestigio costituzionale e per le nuove e gravi responsabilità che oggi alla Magistratura sono affidate con la nuova Costituzione. Solo così si restituirà al potere giudiziario quella autorità che è tanto necessaria per l’esplicazione dei suoi importanti compiti, e nello stesso tempo si riuscirà a spezzare quel diaframma che oggi purtroppo esiste tra il cittadino ed il suo giudice naturale, in modo di ottenere che ogni cittadino non debba riguardare al potere giudiziario soltanto come all’organo che colpisce ogni illegalità, ma anche all’organo che difende con la massima intransigenza ogni diritto, costituendo la vera e sola affermazione di tutte le libertà. Ma l’autorità del potere giudiziario non si attuerà completamente se non si provvederà a concedere ai magistrati la immunità, così come è concessa ai membri della Camera dei deputati. Non debbo io ricordare a questa Assemblea, nella quale la classe degli avvocati è così numerosamente e degnamente rappresentata, come un arresto, un procedimento penale in danno di un magistrato può produrre, anche se egli è innocente, delle conseguenze irreparabili per la sua reputazione, e più ancora per il prestigio del potere giudiziario.

È troppo recente il fatto di un magistrato del Tribunale di Roma che, in seguito ad un procedimento penale affrettato, per una falsa denuncia, è rimasto lungo tempo in carcere e solo dopo questo lungo periodo ha potuto riprendere il suo posto, dopo avere dimostrato la sua piena innocenza; ma a prezzo di sofferenze e conseguenze che non è facile descrivere.

Il magistrato ha necessità assoluta di essere libero per tutelare la libertà degli altri, e del resto la preventiva autorizzazione del Consiglio Superiore della Magistratura toglie alla norma qualsiasi possibilità di abuso e qualsiasi privilegio di casta. Il principio della indipendenza della Magistratura – che Gladstone proclamò, con una sua felice formula, essere la forza dell’organizzazione statale – viene ad ottenere nel nostro sistema costituzionale il massimo riconoscimento, con la creazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Mi sia concesso fare qualche breve rilievo sulla formazione o costituzione di questo Consiglio. Tale Consiglio, che dovrebbe essere l’organo centrale dell’autogoverno, non si è riusciti a sottrarlo, con la dizione dell’articolo 97 del progetto, alla influenza del potere esecutivo, che è sempre portatore di interessi politici, ed è espressione di forze politiche, perché la presidenza è stata affidata al Presidente della Repubblica.

Debbo affermare che, essendo una mia personale convinzione, sarebbe preferibile che il capo del potere giudiziario fosse il più alto magistrato, cioè il primo presidente della Corte di cassazione, il quale rafforzerebbe anche la qualità di «custode della legge», che è stata delegata dal popolo al potere giudiziario. Anche perché poi vi è una evidente incompatibilità tra la funzione del Presidente della Repubblica, quale organo che nomina i magistrati, e dello stesso quale Presidente dell’organo che tali nomine propone.

Si è osservato, a tale proposito, che l’attribuzione della presidenza al Capo dello Stato conferisce maggiore solennità all’organo stesso e sopperisce alla assenza di mezzi di collegamento tra i vari poteri. Se si volesse seguire tale indirizzo, sarebbe bene modificare l’articolo, aggiungendo quale membro anche il procuratore generale della Repubblica e restringendo le categorie, nelle quali dovrebbero essere scelti i membri di nomina da parte del Parlamento, ai magistrati dell’Ordine giudiziario e amministrativo, anche a riposo, a professori universitari docenti di diritto e agli avvocati dopo venti anni di esercizio professionale. In tal modo, non soltanto si riesce a portare i magistrati ad essere in seno al loro Consiglio in maggioranza di fronte agli altri membri, ma si evita l’inclusione di uomini prevalentemente politici, si attenuano le influenze politiche, in modo da unificare l’indirizzo dell’attività amministrativa del Consiglio; senza aggiungere, poi, che data l’impossibilità per il Presidente della Repubblica di attendere personalmente a tutta la complessa attività del Consiglio Superiore della Magistratura, praticamente il Consiglio stesso sarebbe presieduto dal primo presidente della Cassazione, quale vicepresidente del Consiglio stesso.

Occorre però, in tal caso, sancire il divieto per chi esercita la professione forense di esercitarla quando sia eletto al Consiglio Superiore della Magistratura; e non soltanto per il periodo della carica, ma anche per l’avvenire. Sembra un paradosso, ma è così, perché chi ha consuetudine con la vita forense, chi conosce gli ambulacri dei vari palazzi di giustizia, sa che sarebbe molto facile per un avvocato continuare e mantenere il suo studio sotto il nome di un altro collega, e poi partecipare alle riunioni del Consiglio Superiore della Magistratura, influendo sulla nomina o sulla promozione di questo o di quel magistrato: in fondo poi ne andrebbe a soffrire il prestigio e la dignità della giustizia, perché, una volta mantenuto aperto uno studio con siffatti accorgimenti, praticamente l’avvocato non più iscritto nell’albo e facente parte del Consiglio superiore, continua e continuerebbe ad essere, sia pure sotto il nome di un altro collega, il vero dominus della lite.

Occorre evitare questo inconveniente, occorre ovviarvi e, con questi emendamenti che io ho proposto, si può garantire l’indipendenza della Magistratura. Ma, come bene osservava il collega onorevole Bettiol, più che l’indipendenza della Magistratura, bisogna affermare l’indipendenza del giudice nell’amministrazione della giustizia, e tale indipendenza, piuttosto che con una garanzia giuridica, si afferma con la virtù professionale. Sia prima indipendente e incorruttibile l’uomo e poi la legge potrà intervenire per garantire la disposizione d’animo dell’uomo.

Nessuna legge, onorevoli colleghi, nessun articolo della Costituzione, saranno sufficienti a garantire l’indipendenza del giudice se al giudice manca questa qualità morale e politica in sé e per sé espressa.

E infine mi sia concesso di soffermarmi sulla Corte costituzionale. È innegabile che, seguendo l’esempio degli Stati Uniti d’America, esempio seguito da quasi tutti gli ordinamenti costituzionali d’Europa, occorra creare una Corte suprema per la custodia della Costituzione, per la vigilanza sulla sua applicazione e per dirimere i conflitti fra i vari poteri dello Stato, per giudicare infine il Presidente della Repubblica e i Ministri.

Si tratta di creare un organo di superlegalità o, come comunemente si dice, si tratta di creare un superpotere. Ma occorre anche qui, secondo la mia opinione, evitare la formazione di un’Alta Corte di carattere politico, sia perché i compiti affidati alla Corte Costituzionale sono di carattere prevalentemente giuridico, sia perché le condizioni politiche e sociali dell’attuale vita italiana non tollererebbero mai una tale soluzione.

Si chiede che la Corte Costituzionale venga messa in condizioni di assoluta imparzialità, si chiede di avere la certezza del giudizio e che l’autorità che proviene da tale Corte sia la sola cui sia commessa l’interpretazione della legge. Onorevoli colleghi, come raggiungere tutto ciò? È questo un po’ il problema del Consiglio Superiore della Magistratura, perché l’attuale soluzione, così come è prevista dall’articolo 127 del progetto di Costituzione, non mi sodisfa. Debbo anzi aggiungere che anche lo stesso emendamento da me proposto, dopo le discussioni che sono state fatte in questa Assemblea e che io ho accuratamente seguito, mi sembra ormai superato dalle discussioni stesse e da quelli che sono oggi conseguentemente i miei nuovi convincimenti.

Io ritengo che la soluzione migliore per una corretta interpretazione giuridica della Costituzione sia di fare in modo che la Corte costituzionale sia composta per un terzo di membri nominati dal Consiglio Superiore della Magistratura, per un terzo dal Presidente della Repubblica e per l’altro terzo scelti dal Parlamento fra le tre categorie, però, di cui ho parlato prima a proposito del Consiglio Superiore della Magistratura, e cioè tra i magistrati dell’Ordine giudiziario e amministrativo, anche a riposo, i docenti universitari di diritto e gli avvocati dopo venti anni di professione. In tal modo la scelta viene ristretta ad un numero molto limitato e la composizione della Corte Costituzionale diviene veramente una garanzia per tutti.

Un ultimo rilievo vorrei fare a proposito della competenza della Corte Costituzionale. Nell’articolo 126 è detto che la Corte risolve i conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato, fra lo Stato e le Regioni e tra le Regioni. Ma, onorevoli colleghi, i conflitti di attribuzione, secondo l’articolo 3 della legge 31 marzo 1877, non sono forse devoluti alla cognizione delle Sezioni unite della Corte di cassazione? E il vigente Codice di procedura civile forse non ha confermato tale disciplina? E allora occorre distinguere. Perché, se si intende devolvere alla competenza della Corte Costituzionale questi conflitti di attribuzione, sottraendoli al giudizio della Suprema Corte e spezzando così il principio dell’unicità della giurisdizione, allora sono contrario a tale principio, per i concetti che ho già avuto l’onore di esporre.

Le controversie che possono sorgere non hanno alcuna attinenza con la materia costituzionale, e il potere giudiziario non potrebbe garantire una pronta efficace tutela dei diritti dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, quando la decisione potesse essere rimessa ad un organo estraneo al potere giudiziario. Se, invece, si tratta di un’ambiguità di dizione, se si tratta di una frase poco felice, allo scopo di evitare dubbi e contrasti futuri, occorre dire semplicemente che la Corte Costituzionale risolve i conflitti fra i poteri dello Stato o, tutt’al più, per amore di precisione, i conflitti di elaborazione fra gli organi costituzionali dello Stato, fra lo Stato e le Regioni, fra le Regioni. Ecco le considerazioni a cui si è ispirato il mio emendamento all’articolo 126.

Ed ho così esaminato rapidamente quasi tutti gli emendamenti. che ho proposto, inquadrandoli nella discussione generale del Titolo. Mi riservo di intervenire per illustrare gli emendamenti a cui non ho accennato durante questa discussione.

Lo spirito informatore del mio discorso è la convinzione assoluta che fondamento di ogni umana convivenza debba essere la giustizia. E tale ideale noi lo raggiungiamo solo dando al potere giudiziario un’assoluta indipendenza rispetto agli altri poteri, una piena e completa unicità organica e un’indiscussa autorità. Quando tali principî sono stati dimenticati, obliati, come ho detto al principio di questo mio discorso, il diritto e il Paese sono andati alla deriva. Oggi vi è nel Paese una storica ripresa di energie e di speranze. Occorre imporre, con una forza di cui il popolo è fiero, alta su tutte e ferrea disciplinatrice, non il silenzio a chi chiede giustizia e chiede luce, a chi invoca onore e libertà, ma il punto fermo, il basta ad ogni illegalità, ad ogni offesa alla giustizia, alla dignità dei cittadini e ad ogni violazione della legge. L’uomo della strada, che è vecchio, molto vecchio. ma che non muore mai, sente oggi che nella Patria bollono i fermenti di questa tragedia, e sa altresì che tutte le possibilità di ripresa della Nazione sono condizionate dalla inderogabile esigenza costituita dalla sua stabilità morale ed interna.

Se vogliamo corrispondere a questa aspettativa, a questa attesa, occorre affrontare il problema della giustizia nel campo della concretezza politica e non già nel campo dell’astrazione filosofica, e ricostruire la giustizia. Ricostruire la giustizia significa porre la giustizia in alto, nell’augusto nome di Roma che è stata madre di leggi eterne.

Nel campo delle scienze giuridiche noi potremo essere orgogliosi, se sapremo dare al mondo il senso di questa giustizia attraversò gli studi severi e la nostra passione.

Veramente grande, onorevoli colleghi, è la grandezza che ci appartiene: e dobbiamo lavorare per la nostra rinascita.

Io sono soddisfatto, quale membro dell’Assemblea Costituente, di aver portato la mia piccola pietra per la grande ricostruzione. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Romano. Ne ha facoltà.

ROMANO. Signor Presidente, onorevoli colleghi, la discussione elevata, densa di pensiero e di saggezza giuridica di questi giorni ha già inquadrato tutti i problemi che interessano la Magistratura.

Purtroppo tutti gli oratori, egregi oratori, maestri del diritto, sono stati sfortunati. Hanno dovuto parlare ad un’Aula quasi deserta, e guardando il vuoto, ho ricordato più volte un pregevole articolo pubblicato lo scorso anno nel Sabato del Lombardo, dal professore Candian: «Disinteresse per la giustizia».

«Oggi», scriveva l’illustre giurista, «nessuno più si interessa della giustizia, un poco perché tutti gli orientamenti incidono nelle cosiddette economie sociali, e un poco per la penosa e scettica rassegnazione ai nostri mali ritenuti inguaribili, giudicati insuscettibili di una qualunque terapia».

Onorevoli colleghi, bisogna ricordare che i problemi della Magistratura sono problemi di giustizia, che i problemi di giustizia a loro volta sono problemi politici, perché la giustizia è garanzia di libertà.

Purtroppo non si considera tutto questo, non si pensa che non si può avere libertà vera, se non si realizza la universale sottoposizione delle attività pubbliche al diritto. Non si considera che, quando nelle aule di giustizia si leggono le parole «la legge è uguale per tutti», in quel «tutti» è compreso anche lo Stato.

Questa è una delle ragioni d’essere della divisione dei poteri, e da questa divisione discende l’indipendenza della Magistratura, che ancora non si è voluto chiamare: «potere giudiziario».

Onorevoli colleghi, nonostante le critiche diverse mosse alla teoria della divisione dei poteri, questa teoria, trasmessaci dall’illuminismo del ’700 e solo imperfettamente trasfusa nelle varie costituzioni europee, compreso lo Statuto albertino, rimane ancora oggi la più rispondente all’essenza delle istituzioni politiche, che regolano la vita dei popoli, la più feconda di risultati pratici, la più consona alla vita di uno Stato veramente democratico. Se il potere legislativo è la fonte stessa dell’ordinamento giuridico e se il potere esecutivo promuove l’azione del potere legislativo e del potere giudiziario, quest’ultimo svolge la sua attività controllando gli altri due. Perché questo controllo sia perfetto è necessaria la indipendenza assoluta della Magistratura, non quella semi-indipendenza, che finisce per rivelarsi vana, illusoria, inesistente, così come è stata sanzionata nel progetto di Costituzione. Se seguiamo i diversi ordinamenti giudiziari che hanno preceduto quello del 1941, constatiamo un continuo regresso, non un progresso! Il maggiore progresso nostro è stato il decreto Togliatti, gliene rendiamo onore: il decreto del maggio 1946 fu una conquista democratica dell’ordine giudiziario, ed oggi questa conquista si vuole annullare attraverso questo progetto di Costituzione, creando un Consiglio Superiore della Magistratura eletto per metà dall’Assemblea Nazionale.

Onorevoli colleghi, il potere giudiziario deve essere messo in condizioni tali da essere in qualsiasi momento in grado di arrestare l’azione illegale di qualsiasi organo dello Stato, sindacando la legittimità delle leggi, dei regolamenti, dei decreti, degli atti amministrativi in genere, deve cioè essere in grado di tutelare in modo sicuro, pronto ed efficace ogni diritto, ogni interesse legittimo offeso o minacciato, eliminando ogni arbitrio da qualunque parte esso provenga, deve rendere impossibile ogni oppressione individuale o collettiva, ogni abuso politico, legislativo o amministrativo, ogni ingiustizia particolare o generale.

Se questa indipendenza non sarà tale da rendere pienamente libera la nobile, direi quasi divina missione del giudicare, la dovuta garanzia verrà a mancare alla libertà del cittadino, che si troverà esposto alle mutevoli oscillazioni delle forze politiche, o peggio all’arbitrio di possibili dittature.

Onorevoli colleghi, la giustizia è il termometro infallibile della civiltà dei popoli. Più un popolo è civile, più in alto siede la giustizia. Ed è per questo che, discutendo questo Titolo IV, quasi bisognerebbe che ognuno di noi si spogliasse dello spirito di parte, perché questo Titolo IV, riguarda un patrimonio sacro che appartiene a tutto il popolo italiano, e che è appunto la giustizia. (Applausi).

Vengo rapidamente agli emendamenti da me presentati e comincio con la denominazione del Titolo.

La denominazione del Titolo non è felice, giacché qui non si tratta di stabilire i diritti, i doveri di quella particolare categoria di pubblici funzionari che veste toga e tocco. La Magistratura non è un organo complesso come il Governo, come il Parlamento, di cui ci siamo occupati nei Titoli precedenti.

La Magistratura è un complesso di organi, e, quindi, la denominazione indica un concetto puramente astratto.

Io avrei desiderato che si fosse detto una buona volta: «potere giudiziario». Ma purtroppo non si è voluto. Appena si legge, nella relazione fatta dal Presidente dei Settantacinque, che per ordine giudiziario sostanzialmente si deve intendere potere giudiziario e che non si usa questo termine per non far sorgere equivoci ed inconvenienti.

In verità il perché di questa preoccupazione non sono riuscito a comprendere.

Ma giacché non si è voluto adoperare il termine «Potere giudiziario», almeno si preferisca l’altro: «Ordine giudiziario», che risponde a quello dello Statuto albertino.

Considerato poi che il capitolo primo comprende i principî generali dell’amministrazione della giustizia sarebbe più esatto, a mio modesto avviso, usare non già il termine «Ordinamento giudiziario» così come è stato fatto, ma quello di «Funzione giurisdizionale». L’ordinamento giudiziario è quel complesso di norme che regolano tutta la struttura delle diverse categorie che concorrono al funzionamento del l’amministrazione della giustizia.

L’improprietà della denominazione scaturisce anche dal fatto che l’articolo 97 demanda al Ministro la facoltà di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati, e richiama le norme sull’ordinamento giudiziario. E allora domando e dico: questo ordinamento giudiziario o è nella Carta costituzionale oppure è fuori della Carta. Se è fuori, togliamo di qua la denominazione «Ordinamento giudiziario» e scriviamo in testa alla sezione prima le parole «Funzione giurisdizionale». Come vedete la improprietà scaturisce proprio da un articolo compreso nella sezione prima, denominata «Ordinamento giudiziario».

Dopo queste considerazioni sulla denominazione del Titolo, accennerò brevemente, pur non avendo presentato alcun emendamento anche per ragioni di opportunità, alla questione della non iscrizione dei magistrati ai partiti politici.

Ho ascoltato le elevate considerazioni del collega onorevole Ruggiero, dichiaratosi favorevole all’iscrizione, ho sentito anche i rilievi pratici del collega onorevole Musotto, il quale ha il vanto di essere vissuto per vent’anni nella Magistratura; ho udito altri onorevoli colleghi che hanno sostenuto il divieto dell’iscrizione, ma ho pensato che non è l’iscrizione intesa nel senso organizzativo quella che lega l’uomo e ho ricordato un episodio molto simpatico di un filosofo napoletano, che ebbe sequestrata tutta la biblioteca per aver parlato male dei Borboni: portati via tutti i libri su una strada secondaria di Napoli, i ragazzi gironzolando intorno ai carretti, gridavano: «I libri du diavulu!». Uscì il vecchio filosofo con la incolta barba sul balcone e, premendosi la fronte con una mano, rivolgendosi all’usciere procedente disse: «Don Gennarì, e questa non me la sequestrate?».

Onorevoli colleghi, il pensiero non si può vincolare, l’idea rimane al di sopra di tutti i pezzi di carta; quindi lasciate stare, fatene a meno di questa disposizione nella Carta costituzionale. (Approvazioni).

Vengo all’emendamento all’articolo 94.

Ho detto di sostituire il primo comma con le parole: «La funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo italiano».

Nel progetto si è detto solamente «popolo». Quando lessi questa parola «popolo» mi domandai: ma chi è questo popolo? Indubbiamente sono tutti gli italiani. E poiché noi attraversiamo un periodo in cui fetecisticamente si adopera questa parola per indicare determinati gruppi o frazioni, ho pensato all’opportunità di un appellativo che mettesse chiaramente in evidenza che la giustizia sarà amministrata in nome di tutto il popolo italiano.

Unità del potere giudiziario e giudici speciali. – Altro concetto al quale ho ispirato i miei emendamenti è l’unità del potere giudiziario, che è garanzia di giustizia.

Questa unità del potere giudiziario dovrebbe stare a cuore a tutti, perché tutte le volte che un Governo vuol far prevalere la politica alla giustizia, specie quando trova resistenza nella coscienza giuridica e nella rettitudine del magistrato ordinario, ricorre alla creazione di nuovi organi giudiziari, sottraendo così la cognizione di determinati rapporti ai giudici naturali.

Intanto questo frazionamento è rimasto sanzionato nella Carta costituzionale e si è dimenticato che ogni frazionamento significa polverizzazione dell’ordinamento giudiziario.

La lotta per evitare il frazionamento è antica, perché già nell’articolo 71 dello Statuto si era astrattamente affermato il principio dell’unità del potere giudiziario; ma fin da allora le classi dirigenti, che miravano a dominare il Paese, iniziarono una lotta e si coalizzarono per violare questo articolo 71. Infatti la legge sul contenzioso amministrativo del 20 marzo 1865, allegato E, nacque contemplando delle eccezioni.

Si creò la giurisdizione sul Consiglio di Stato e quella della Corte dei conti in materia di contabilità e pensioni. L’offensiva al principio della unità della giurisdizione continuò negli anni successivi, e si ebbero i testi unici del 2 giugno 1889, del 17 agosto 1907, n. 678, e 26 giugno 1924, n. 1054. Così il Consiglio di Stato fu investito della giurisdizione sugli interessi legittimi dei cittadini nei confronti della pubblica amministrazione, delle questioni giurisdizionali relative a diritti che si presentano nelle controversie di sua competenza ed infine di una giurisdizione esclusiva nei riguardi di determinati gruppi di veri e propri diritti dei cittadini, deliberatamente sottratti alla competenza dell’autorità giudiziaria ordinaria, come i diritti derivanti dal rapporto di pubblico impiego. Con la giurisdizione esclusiva, l’abolizione del contenzioso amministrativo cadde quasi nel nulla.

Noi rendiamo omaggio a quell’altissimo consesso che è il Consiglio di Stato, che ha segnato delle pagine indelebili e nel campo della cultura e nel campo della giurisprudenza amministrativa, pagine indelebili che mi fanno ricordare un articolo pregevolissimo dell’onorevole Vittorio Emanuele Orlando; ma se si deve affermare una buona volta questa unità del potere giudiziario, è bene arrivare ad una precisazione. La resistenza si basa su rilievi diversi e si dice che «le norme riguardanti la illegittimità degli atti amministrativi, cioè incompetenza, eccesso di potere, violazione di legge sono poste più che altro nell’interesse della pubblica amministrazione, non nell’interesse del cittadino, e che pertanto solo un organo amministrativo può giudicare con perfetta cognizione di causa. Ma è facile osservare che le norme riguardanti la legittimità degli atti amministrativi sono nell’interesse della collettività dei cittadini e non solo della pubblica amministrazione.

Altro motivo che si adduce per giustificare la esistenza del Consiglio di Stato a «sezioni giurisdizionali» è la specifica conoscenza del diritto amministrativo.

A questa osservazione si può rispondere che anche in seno alla Magistratura ordinaria si può arrivare ad una specializzazione amministrativa. D’altra parte i membri del Consiglio di Stato, che andrebbero a far parte della Suprema Corte di cassazione, nulla perderebbero né moralmente né materialmente. Concludendo, ai giudici amministrativi dovrebbero essere sottratte tutte le controversie relative a diritti e tutte quelle di legittimità relative ad interessi.

Invece, le controversie importanti un esame di merito sarebbero devolute ad un organo di controllo amministrativo, che non sarebbe un organo giudiziario, ma un organo fiduciario del Governo, vale a dire espressione del potere esecutivo, da questo nominato, incaricato di controllare l’opportunità degli atti amministrativi.

I tribunali giudicherebbero in primo grado sia le controversie relative a diritti, sia quelle di legittimità relative ad interessi; le sezioni specializzate di Corte di appello giudicherebbero in secondo grado, ed in sede di Cassazione le sezioni specializzate. L’autorità giudiziaria potrebbe dichiarare illegittimo l’atto amministrativo, annullarlo o sospenderlo.

Così si realizzerebbe l’unità del potere giudiziario: affermando il principio dell’unità del potere giudiziario, bisognerebbe eliminare per sempre il giudice speciale, perché nella coscienza giuridica del Paese è fermo il convincimento che la creazione di giudici speciali straordinari o eccezionali è contraria ad ogni più elementare concetto di libertà e di giustizia. Noi non abbiamo più bisogno dileggi speciali. Ogni legge speciale riabilita il fascismo. Le leggi speciali sono pericolose, esse sono tipici istituti degli stati totalitari e quando afferma di volere combattere questa o quella corrente con leggi speciali, senza accorgersene l’antifascismo crea il fascismo. Con la paura non si governa, ed un Governo veramente democratico non può pretendere una opinione popolare unanime; l’unanimità è un caso molto raro, mentre l’indecisione è un caso molto frequente nella volontà collettiva.

Il popolo italiano, se lasciato libero, sa scegliere la sua via, ma se lo si obbliga, se lo si costringe a seguire un indirizzo coattivamente, per reazione va alla parte opposta. Spetta alla saggezza dei Governi di evitare questo pericolo, evitando le leggi eccezionali, che violano il diritto delle minoranze, diritto che s’estrinseca nella opposizione, la quale deve considerarsi organo della sovranità.

Purtroppo ancora si ha la cattiva abitudine di ricorrere a leggi speciali, con le quali si arriva ad annullare anche i diritti acquisiti. Proprio con una legge speciale noi, non so se opportunamente o inopportunamente, giorni or sono abbiamo messo alla porta centodieci vecchi che rappresentavano l’élite della cultura italiana e che rimangono ancora oggi i custodi viventi del Risorgimento italiano. (Applausi).

Cassazione unica. – Ho letto l’ordine del giorno che reca la firma dell’onorevole Villabruna e di altri numerosi deputati, ordine del giorno col quale si chiede il ripristino della Cassazione a Torino.

Se l’Assemblea dovesse arrivare all’accoglimento di detto ordine del giorno, noi deputati del Mezzogiorno e della Sicilia abbiamo il diritto di chiedere il ripristino delle Corti di Cassazione di Napoli e di Palermo, che furono due grandi fari del diritto; due grandi palestre della giurisprudenza.

Non vorrei però che col ripristino di queste tre Corti di Cassazione, in applicazione dell’autonomia regionale si creasse una Corte di Cassazione per ogni Regione, giacché allora si cadrebbe nel ridicolo.

Né vorrei che il ripristino si giustificasse affermando che la Cassazione unica fu una istituzione fascista, – e che non ha dato prove di perfetto funzionamento.

La riforma si riallaccia ad una serie di progetti, che vanno da quello di Minghetti del 1872 agli altri di De Filippo del 1868, Raeli del 1870, De Falco del 1872, Taiani del 1879 e 1885 ed infine Mortara del 1919.

Tutti questi progetti si riallacciano a nomi come Pisanelli, Pescatore, Mattirolo, Quarta, Mortara, Fadda.

Dunque, niente istituzione fascista. A chi parla di disfunzione della Corte di Cassazione io vorrei rivolgere la preghiera di dare uno sguardo ai volumi della giurisprudenza della Corte Suprema, civile e penale, per gli anni 1943, 1944 e 1945, pubblicati lo scorso anno dall’Istituto italiano di studi legislativi. Quei volumi hanno un grande significato, costituiscono la prova migliore del perfetto funzionamento della Suprema Corte.

Gli anni 1944 e 1945 sono il periodo più triste seguito alla sconfitta: mentre allora tutto andava in sfacelo, mentre il nostro patrimonio morale sempre più si assottigliava, mentre le difficoltà della vita materiale si aggravavano di giorno in giorno, in Roma di frequente bombardata, proprio in quegli anni la Cassazione, anche dimezzata di personale, continuò ad amministrare serenamente giustizia.

Dopo queste brevi considerazioni sulla Cassazione, desidero fare presente che con l’ultima parte dell’articolo 95-bis ho inteso sottrarre al potere esecutivo, cioè al Consiglio dei Ministri la nomina del Primo Presidente e del Procuratore generale della Cassazione. Ogni Governo è l’espressione di maggioranze mutevoli e la nomina dei due più alti magistrati deve essere sottratta a queste volontà mutevoli.

Giuria. – Argomento questo già molto mietuto. Io però vorrei impostare la questione sotto questo riflesso. Che cos’è una Carta costituzionale? È una legge che guarda il futuro, e presuppone una vitalità ed una stabilità; ora, la Giuria, regolata da leggi speciali, non ha trovato stabilità nelle leggi ordinarie. Perché la si vuol inserire proprio nella Carta costituzionale, quando gli stessi ideatori della giuria finirono per pentirsene? Basta leggere una pagina del Pisanelli. I difetti della Giuria sono molteplici: a) incapacità dei giurati; b) parzialità di giurati; c) grande indulgenza per i reati passionali; d) eccessivo rigore per i reati contro la proprietà. Si sono lamentati frequentemente assoluzioni scandalose, che ci hanno discreditato anche all’estero, pene inadeguate alla gravità dei reati; inique sproporzioni tra le pene inflitte per casi identici, affermazioni di responsabilità in processi indiziari che hanno lasciato perplessa la pubblica opinione.

Tutto questo mi fa ricordare le parole del professore Roncati, illustre psichiatra, il quale in una sua monografia «Il processo penale» ebbe a dire: che con l’istituto della Giuria la scienza istruisce il processo, la scienza lo discute e d’ignorante lo giudica.

Questo amaro giudizio dato anni or sono è ancora oggi di attualità. Il fascismo cercò di rimediare. Perché non si deve riconoscerlo? Si è detto che si peggiorò. Non è vero. Con l’assessorato non si peggiorò affatto. Il fascismo incorporò la giuria e la confuse col magistrato togato, di modo che il collegio giudicante risultò formato da un certo numero di giudici popolari e di due giudici togati.

Questo collegio misto ebbe il compito di pronunziare la sentenza, senza che vi fosse più il verdetto separato dei giudici popolari. Caduto il verdetto, che limitava il compito del magistrato togato all’applicazione della pena o all’assoluzione, l’oratoria dovette acconciarsi alla nuova situazione. Si arrivò una buona volta alla sentenza con la motivazione in modo che l’imputato potesse sapere il perché della condanna, si evitarono tante altre incongruenze; ma non bastò, e prova ne è il famoso caso Mulas per il quale Gennaro Marciano combatté la sua ultima e nobile battaglia. Fu allora che si sentì il bisogno di arrivare sollecitamente ad una riforma; e si arrivò alla nomina di una Commissione da parte del Ministro Tupini. Vi furono allora due tendenze diverse. Una mirava ad attribuire i reati di competenza della Corte di assise ai giudici togati. Si voleva cioè creare l’Alta Corte criminale sul genere di quella che esisteva a Napoli e che dette buona prova.

Ma questa presentava l’inconveniente di abolire proprio per i reati gravi il rimedio dell’appello.

A questo inconveniente si voleva ovviare investendo la Suprema Corte oltre che del sindacato di diritto anche del sindacato sul fatto; ma si snaturava l’istituto della Corte di cassazione.

Altri avrebbero voluto attribuire i reati di competenza della Corte di assise in prima istanza ai tribunali ed in seconda istanza alla Corte di appello.

Questo sistema avrebbe offerto tre garanzie:

  1. a) unità di competenza per tutti i reati gravi;
  2. b) garanzia del doppio grado di giurisdizione;
  3. c) capacità funzionale tecnica, che è indubbiamente maggiore nel giudice togato.

La realizzazione di questi tre principî nell’ordinamento giuridico dello Stato avrebbe delle conseguenze di indiscutibile pregio e garantirebbe in modo certo ed equo la volontà della legge.

Intanto è prevalsa la corrente in favore della giuria, come si evince dal decreto del maggio 1946 e dall’articolo 96 del progetto di Costituzione.

Io personalmente sono contrario alla giuria; e questo mio modesto parere trova conforto nel pensiero di sommi giuristi.

Al congresso internazionale di diritto penale tenutosi a Palermo nel 1935 partecipò fra altri, Raffaele Garofalo, vanto della Magistratura e della cattedra.

Il Garofalo allora non esitò ad affermare pubblicamente che quello che si era veduto in Italia durante 50-60 anni del sistema della Giuria non era che un seguito di ingiustizie. Nello stesso congresso si dichiarò contrario all’istituto della Giuria il Presidente della Seconda Sezione penale della Suprema Corte, Ugo Aloisi dicendo che non bisognava far decidere con un responso di giustizia enigmatica e che la motivazione dei pronunziati del giudice doveva rimanere la base di garanzia per la retta amministrazione della giustizia.

Mi piace anche ricordare il pensiero di Enrico Altavilla: «dire che affidare l’amministrazione della giustizia al giudice popolare è un trionfo democratico, significa pronunziare una bella frase fuori di ogni realtà, che non giustifica la paradossale situazione. I delitti più gravi debbono essere giudicati da giudici incompetenti e debbono essere sottratti ad un controllo del giudice di appello». Onorevoli colleghi, l’amministrazione della giustizia è una cosa seria.

Nell’evoluzione del diritto penale si è consolidato la necessità della specializzazione del giudice penale, la opportunità dell’approfondimento della cultura nelle scienze psichiatriche e psicologiche.

Con questo indirizzo del pensiero moderno contrasta il ritenere di poter chiamare a giudicare dei reati gravi persone fornite di scarsissima cultura.

Dai sostenitori della giuria si dice che quando si debbono infliggere pene molto gravi è opportuno che la colpevolezza dell’imputato sia riconosciuta non solo dai giudici togati, ma anche dai giudici laici.

Si vuole insomma che la sentenza sia l’espressione non solo della scienza giuridica, ma anche della coscienza popolare.

Bisogna invece, tener presente che l’amministrazione della giustizia è qualcosa di così squisitamente tecnico che non può obbedire al concetto, che dicesi democratico, di attribuire a qualsiasi persona la risoluzione di problemi che decidono di tutta la vita di un uomo. Si dice che anche un buon lavoratore può decidere una causa che non richiede particolari conoscenze tecniche; questo significa affermare una verità parziale, giacché chiunque ha esperienza di cose giudiziarie, sa che ogni giorno sorgono presso le Corti di assise questioni, le cui situazioni di diritto sono così interamente legate a quelle di fatto, che soltanto i tecnici possono risolvere tali problemi.

Dire se un omicidio fu commesso con premeditazione, se vi fu eccesso di difesa, se questo fu doloso o colposo, se ed in quale misura il giudicabile è imputabile, se concorre la circostanza della continuazione, se l’imputato sia un delinquente per tendenza, tutte queste questioni non possono essere risolte dal giudice laico.

Lo studio del delinquente, l’esigenza di profonde indagini sui motivi del delitto, sulla personalità fisiopsichica del reo, sulla sua personalità sociale, tutto lascia pensare al pericolo del giudice laico.

Il giudice laico anche se preparato, il che costituirebbe rara eccezione, non dà mai affidamento di serenità.

In proposito desidero ricordare che sul giornale l’Avanti! del 1° dicembre 1946, Achille Corona dedicava un articolo al processo che doveva in quei giorni svolgersi innanzi alla Corte di assise di Bari per l’omicidio del deputato socialista Giuseppe Di Vagno commesso nel 1921 ad opera di squadristi fascisti.

Nell’articolo si osservava che il Collegio giudicante era formato in modo da dar luogo ai più legittimi sospetti per il partito, cui si riteneva che appartenessero gli assessori.

L’articolo concludeva con queste parole: «la giustizia deve essere amministrata in modo che tutti gli italiani abbiano fiducia nel suo verdetto».

Questa proposizione merita di essere sottolineata per il suo significato e per il suo valore, che trascende il caso speciale, riaffermando il principio basato su una inderogabile necessità, cioè l’imparzialità del giudice in ogni attività giudiziaria, sia essa penale, civile o amministrativa.

Indipendenza della Magistratura. – I magistrati dipendono soltanto dalla legge, così afferma l’articolo 94.

«Ordine autonomo ed indipendente» si legge nella prima parte dell’articolo 97.

Sempre, in tutti i tempi, prima del fascismo e anche durante il fascismo, come oggi, si è parlato e si parla di indipendenza della Magistratura, di terzo potere, ma né nello Statuto albertino, né in questo progetto di Costituzione si leggono le parole «potere giudiziario».

Nella relazione si è detto che la Magistratura non è soltanto un ordine; che è sostanzialmente un potere dello Stato e che non si adopera questo termine neppure per gli altri poteri, per non fare sorgere equivoci ed inconvenienti, cui potrebbe dar luogo una ripartizione teorica interpretata meccanicamente.

In verità questo chiarimento è poco convincente.

La verità è che l’indipendenza della Magistratura ha moltissimi fautori, ma quando si tratta di attuare l’indipendenza le cose cambiano; e molti dei fautori apparenti finiscono per svelarsi avversari decisi, sino a sembrare di avere un sacro terrore della indipendenza che predicavano.

Eppure in tanti altri campi si pensano le più ardite riforme.

Essi dicono che bisogna evitare uno strapotere della Magistratura e che in questo si cadrebbe con la piena autonomia del potere giudiziario.

Questo forse è il motivo per cui, pur affermandosi nell’articolo 97 del progetto che la Magistratura costituisce un organo autonomo ed indipendente, nello stesso articolo in questa autonomia e questa indipendenza vengono sensibilmente ridotti, chiamando a far parte del Consiglio Superiore della Magistratura elementi estranei all’ordine giudiziario e demandando al Ministro della giustizia, cioè ad un organo del potere esecutivo, il diritto di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati.

Ecco, onorevoli colleghi, in che consiste l’autonomia e la indipendenza.

Tutto si giustifica con la preoccupazione di creare uno strapotere.

La preoccupazione è ingiustificata: io comprendo uno strapotere del potere esecutivo, al quale si assiste in Italia da un quarto di secolo, strapotere consacrato nella legge del 31 gennaio 1926, n. 100, e nel decreto legislativo luogotenenziale del 16 marzo 1946, n. 98, riguardanti l’autorizzazione al Governo di emanare norme giuridiche.

Comprendo anche lo strapotere del potere legislativo, specie in quei paesi ove si adotta il sistema unicamerale o un bicameralismo reso illusorio.

Ma non so pensare ad uno strapotere del potere giudiziario, la cui funzione è tutta nell’applicazione della legge, la quale detta ai giudici anche le regole della interpretazione.

Certo è che il termine «potere giudiziario» ha destato preoccupazioni anche nei compilatori del progetto di Costituzione.

Eppure nella prima parte dell’articolo 94 si legge: «la funzione giurisdizionale, espressione della sovranità della Repubblica, è esercitata in nome del popolo».

Ora se il potere giudiziario, che è la massima garanzia dei diritti e delle libertà dei cittadini non può considerarsi come una concessione dello Stato, bensì come una istituzione voluta dal popolo e difesa dal popolo, si sarebbe ben potuto dire: «il potere giudiziario esercita la giustizia in nome del popolo».

Ma come ho detto si è sempre avuto una certa preoccupazione, anzi una riluttanza a parlare di potere giudiziario.

Quando si parlò di ordine giudiziario, si discusse sul significato di questa dizione. Nel 1859 dal Manfredini fu sostenuto che «ordine giudiziario» doveva significare «potere giudiziario» indipendenza dal Governo; ma prevalse la tesi contraria sostenuta dal Rattazzi, per la quale l’ordine giudiziario fu inteso come una parte della pubblica amministrazione.

Oggi solo nella relazione si legge che «ordine giudiziario» deve intendersi per potere giudiziario».

Ma un potere per essere tale deve essere indipendente.

Questa indipendenza, a mio avviso, non si realizzerà se le disposizioni del titolo IV rimarranno quali sono.

Guardando un poco la posizione giuridica che dal 1860 in poi le leggi dello Stato hanno fatto e fanno al potere giudiziario, noi troviamo che nello Statuto albertino vennero affermati i seguenti principî:

  1. a) pronunzia delle decisioni giudiziarie in nome del Capo dello Stato (art. 68);
  2. b) inderogabilità dell’ordinamento giudiziario da parte del potere esecutivo (art. 70);
  3. c) divieto di giurisdizione straordinaria (art. 61);
  4. d) inamovibilità del giudice dopo tre anni di servizio (art. 69);
  5. e) obbligatorietà specifica e non generale delle decisioni giudiziarie (art. 73);
  6. f) pubblicità delle udienze (art. 72).

La pronunzia delle sentenze in nome del Capo dello Stato già da sola metteva in evidenza il carattere accessorio della più alta funzione dello Stato come «la giustizia».

Tale accessorietà si aggravava facendo dipendere i magistrati, per quanto riguarda lo stato personale, da un Ministro politico, il quale, pur rimanendo in teoria estraneo alle funzioni giudiziarie, finiva sempre per portare l’influsso della corrente politica da lui rappresentata in seno al Governo.

Anche l’inderogabilità dell’ordinamento giudiziario da parte del potere esecutivo (art. 70 dello Statuto) rimase un’affermazione vuota di reale contenuto.

Mancando una distinzione fra leggi costituzionali e leggi ordinarie e potendo il Parlamento legiferare senza distinzione, a qualsiasi Parlamento era possibile sconvolgere l’ordinamento della giustizia.

Lo stesso dicasi per l’inamovibilità del giudice (art. 69).

L’esperienza di 80 anni ha dimostrato come alle volte si era o in un modo o nell’altro costretti a rinunziare a questo ipotetico diritto o bisognava rassegnarsi a subire sostituzioni, rimozioni per esigenze di servizio (art. 222 regio decreto 30 gennaio 1941, n. 12).

Ugualmente fu violato il divieto di giurisdizione straordinaria.

Si crearono tribunali speciali come quello per la difesa dello Stato e per giustificare la violazione del divieto si fece la distinzione tra tribunale speciale e tribunale straordinario.

Insomma in tutti gli ordinamenti giudiziari che si sono susseguiti, l’indipendenza della Magistratura è stata quasi sempre una beffa. Così fu con l’ordinamento del 14 luglio 1907, n. 511; così con l’ordinamento del 30 dicembre 1923, n. 2786, ed il culmine si raggiunse con l’ordinamento del 30 gennaio 1941, n. 12) ancora oggi vigente, ove il magistrato è posto sotto l’alta sorveglianza del Ministro, da cui riceve le opportune direttive in base al principio dell’unità del potere.

Insomma durante il regime fascista le condizioni si aggravarono: la inamovibilità divenne suscettibile di sospensione per volere del Ministro (art. 223 del regio decreto-legge 3 gennaio 1941, n. 12). Furono istituiti con circolare rapporti sull’attività dei magistrati e si mise così il magistrato in uno stato di soggezione ancora più grave di quello di qualunque funzionario, il quale aveva almeno il diritto di conoscere il giudizio espresso su di lui dai suoi superiori e ricorrere gerarchicamente.

Ancora oggi le promozioni sono alla discrezione del Ministro che nomina le commissioni di scrutinio e di concorso.

Il reclutamento dei magistrati è rimasto al completo arbitrio del Ministro (art. 125 del regio decreto legge 30 gennaio 1941, n. 12 ed art. 4-5 e 19 del regio decreto 15 ottobre 1925, n. 1860).

Il Ministro può escludere, con provvedimento insindacabile, chi vuole dal concorso e può persino annullare gli esami (art. 19 regio decreto 15 ottobre 1925, n. 1860).

Nel 1940 un egregio giovane che nulla aveva commesso, non fu ammesso al concorso semplicemente perché suo padre era uno studioso delle opere di Benedetto Croce, e questo episodio lo cito per dare l’idea di quale situazione si era venuta creando in questo campo. Anche fosse esistita una colpa per il padre giammai le colpe dei padri si sono fatte gravare sui figli.

Questo principio è affermato anche nel Codice civile per i casi di indegnità a succedere.

L’appartenenza del magistrato alla carriera collegiale o a quella di Pretura è rimasta all’arbitrio del Ministro (art. 115 e 138 regio decreto-legge, 30 gennaio 1941, n. 12).

Dopo questo sommario sguardo al passato viene da domandare: «il problema della autonomia, dell’indipendenza della Magistratura è risolto nel progetto di Costituzione?

Si è veramente dato forza al potere giudiziario?

Si è affermato il principio dell’unità del potere giudiziario?

Si sono fornite per i magistrati quelle garanzie stabilite per i membri del potere legislativo e del potere esecutivo?

Penso che anche questo progetto, nonostante le affermazioni di indipendenza, abbia sotto certi punti di vista aggravato lo stato di dipendenza della Magistratura.

Il problema della indipendenza della Magistratura somiglia un poco al problema del Mezzogiorno.

Ogni Governo nell’insediarsi fa l’elogio del Mezzogiorno, fa le solite promesse, ma poi tutto rimane come prima.

Così avviene per la Magistratura.

Quattro sono le indipendenze che si chiedono: indipendenza costituzionale, indipendenza funzionale, indipendenza istituzionale, indipendenza economica.

Manca la prima perché il progetto di Costituzione non qualifica come sovrana la funzione giurisdizionale, né qualifica sovrano il potere che la esercita.

Difetta d’indipendenza funzionale perché non si parla esplicitamente di autogoverno.

È minacciata l’indipendenza istituzionale in quanto le assunzioni, le promozioni, i trasferimenti di sede e di funzioni si fanno dipendere da un Consiglio Superiore di cui fanno parte elementi che sono espressioni di correnti politiche.

Non vi è traccia della indipendenza economica, che è di somma importanza al fine di una retta amministrazione della giustizia. Con l’articolo 97 proposto in sostituzione di quello del progetto ho inteso eliminare il grave inconveniente che si avrebbe con un Consiglio Superiore della Magistratura costituito in parte di estranei all’ordine giudiziario e tutti eletti dall’Assemblea. I membri del Consiglio Superiore della Magistratura devono essere solo magistrati ed eletti dalla Magistratura.

Una sezione del Consiglio Superiore deve funzionare da corte disciplinare e l’azione disciplinare dovrà essere esercitata dai procuratori generali della Cassazione o delle Corti di appello.

Lasciando l’articolo 97 così come è formulato nel progetto non solo si annullerebbe l’indipendenza della Magistratura, ma tutto l’ordine giudiziario verrebbe messo alla sbaraglio. (Approvazioni).

Prima di lasciare l’argomento fondamentale del Titolo IV, cioè l’indipendenza della Magistratura, desidero ricordare quanto ha scritto un gesuita, padre Lener. Questi, figlio di un alto magistrato, dopo avere esercitato la professione di avvocato, entrò nell’ordine dei gesuiti. Nel raccoglimento della sua cella deve avere ricordato il tormento paterno, deve avere pensato ai suoi anni di esercizio dell’avvocatura ed ha scritto in quella rivista densa di pensiero che è la Civiltà Cattolica un pregevolissimo articolo sull’indipendenza della Magistratura (anno 1947, pagina 303 e seguenti).

Il dotto gesuita così scrive: «Con l’articolo 97 del progetto di Costituzione il governo dell’ordine giudiziario viene conferito bensì al Consiglio Superiore della Magistratura, ma questo non è più un organismo composto di soli magistrati.

«Elementi estranei all’ordine giudiziario, politici, sono chiamati a comporlo in condizioni d’assoluta parità. Poiché la scelta di tutti i membri elettivi per metà compete all’Assemblea Nazionale e non è a vita, la maggioranza parlamentare potrà fare in modo che la stessa maggioranza del Consiglio Superiore della Magistratura sia di un dato colore politico.

«Con ciò tutta la Magistratura sarà influenzata dal partito politico che riuscirà ad aver la maggioranza in Parlamento».

Padre Lener richiama nello stesso articolo la parola detta in pubblica Assemblea Costituente dall’onorevole Calamandrei: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, che secondo il progetto da me redatto avrebbe dovuto essere composto da soli magistrati eletti dalla stessa Magistratura, sarà invece composto per metà da elementi politici.

Chi ha impedito all’autogoverno della Magistratura di affermarsi in pieno, è stato Sua Eccellenza il Procuratore Generale Pilotti. La Magistratura deve ringraziare proprio lui della ostilità con cui è stata accolta nel progetto l’idea dell’autogoverno».

Questo è enorme; la storia dirà se Sua Eccellenza Pilotti fosse dalla parte della ragione o meno, ma è incredibile che per l’eventuale errore di un uomo si debba punire una classe, anzi si debba punire il Paese. (Approvazioni).

Nell’articolo 98 parte 1a è detto che possono essere magistrati anche le donne nei casi previsti dall’ordinamento giudiziario.

Da alcuni si è detto che, potendo le donne esercitare la professione di avvocato, debbono anche poter essere magistrati.

In verità io invito a meditare sulla opportunità di questa norma.

Oggi chi per un verso, chi per altro, tutti si concordano per allontanare la donna dal focolare domestico.

La donna deve rimanere la regina della casa, più la si allontana dalla famiglia, più questa si sgretola. (Applausi).

Con tutto il rispetto per le capacità intellettive della donna, ho l’impressione che essa non sia indicata per la difficile arte del giudicare.

Questa richiede grande equilibrio e alle volte l’equilibrio difetta per ragioni anche fisiologiche.

GUIDI CINGOLANI MARIA. È un antiquato.

ROMANO. Meglio così.

Una voce al centro. Le signore protestano.

ROMANO. Questa è la mia opinione. Le donne devono stare a casa. (Interruzione della onorevole Federici Maria).

Penso che l’intervento della donna, non come magistrato togato, potrebbe essere utile per il tribunale dei minorenni.

Su questo punto non ho presentato un emendamento specifico, ma ho ritenuto opportuno un rilievo anche per il legislatore futuro.

Ho chiesto invece, che nel secondo capoverso dell’articolo 98 siano eliminate le parole «ed avvocati dopo quindici anni di esercizio».

Consentendo questa forma di reclutamento dei Consiglieri di cassazione si apre il varco ad inconvenienti diversi, che potranno portare al favoritismo con grande nocumento dell’ordine giudiziario.

Un avvocato di valore dopo quindici anni di esercizio professionale avrà indubbiamente gettato le basi di una clientela, alla quale per ovvie ragioni economiche non rinunzierà; quindi il reclutamento cadrebbe su avvocati che non sono riusciti ad affermarsi nel campo professionale e che attraverso l’intrigo cercherebbero rifugio nell’alta Magistratura.

Ciò potrebbe verificarsi facilmente se il Consiglio Superiore rimarrà costituito per metà da elementi eletti dall’Assemblea Nazionale fra estranei alla Magistratura.

Pertanto insisto nel proposto emendamento.

Guarentigia dell’immunità. – L’autonomia funzionale degli organi giudiziari non potrebbe dirsi completa ed assoluta se le persone dei giudici non fossero poste al sicuro da qualsiasi attentato «diretto o indiretto» da parte degli organi statali o di forze politiche organizzate.

In ogni ordinamento costituzionale è stata sempre grande la preoccupazione di mettere al sicuro da ogni estranea influenza coloro che esercitano le più alte e delicate funzioni di giustizia e di controllo.

L’indipendenza personale del magistrato può essere violata in due modi:

  1. a) mediante la rimozione del magistrato dalla sede o dalla funzione a lui spettante;
  2. b) col fermo di polizia, con l’applicazione di misure amministrative di sicurezza ed in alcuni casi addirittura con l’arresto.

Atti arbitrari del genere oggi sono ancora più possibili dati i tempi di intensa passione e di aspra rivalità politica.

Quindi la garanzia dell’immunità concessa finora solo ai membri della Camera dei deputati, dovrebbe essere estesa anche ai magistrati come organi del potere giudiziario.

L’arresto, anche se revocato, finisce per gettare delle ombre e ciò a discapito del prestigio della Magistratura.

Qualche anno fa venne spiccato un mandato di cattura contro un distinto magistrato solo in base ad una chiamata di correo fatta da un cancelliere.

Il magistrato, la cui innocenza risultò chiarissima fu dopo qualche mese scarcerato.

Nel frattempo su alcuni giornali si erano letti a grossi caratteri le parole «La Magistratura alla sbarra».

Ora, se la persona del magistrato fosse tutelata come quella dei deputati sì gravi inconvenienti si eviterebbero.

Onde insisto nell’emendamento così formulato:

«I magistrati non possono essere privati della libertà personale se non previa autorizzazione del Consiglio Superiore della Magistratura, salvo il caso di flagrante delitto per il quale sia obbligatorio il mandato di cattura».

Polizia giudiziaria. – L’articolo 100 stabilisce che l’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria.

Su questo argomento desidero osservare che l’attività preparatoria del giudizio e quella esecutiva dei giudicati non potranno ricevere piena applicazione sino a quando non si avrà un corpo di polizia giudiziaria alle dirette dipendenze disciplinari ed amministrative del potere giudiziario.

Gli organi di polizia sono attualmente assorbiti dall’attività amministrativa e politica e, quindi, spesso non trovano il tempo per eseguire un mandato di cattura.

È necessario che sia creato un corpo di polizia giudiziaria alle dirette dipendenze disciplinari ed amministrative del potere giudiziario.

Quando si devono servire due padroni si finisce per servire poco diligentemente quello dal quale meno si dipende.

Onde l’articolo 100 nel suo primo comma potrebbe essere così formulato:

«È istituito un corpo speciale di polizia giudiziaria posta alla diretta ed esclusiva dipendenza dell’autorità giudiziaria».

Istituti di prevenzione e di pena. – Nella Carta costituzionale non è detto da chi debbano dipendere gli Istituti di prevenzione e di pena.

Vi fu un tempo in cui questi dipesero dal Ministero dell’interno; successivamente passarono alle dipendenze del Ministero della giustizia. La dipendenza naturale spetta all’autorità giudiziaria, la quale ha tutti i requisiti per controllare il funzionamento degli istituti stessi, in tali sensi dispone il secondo comma dell’articolo 100 nell’emendamento proposto.

Avvocatura dello Stato. – Ho chiesto la soppressione dell’articolo 105 che riguarda l’Avvocatura dello Stato, in considerazione che questa non può essere considerata un organo costituzionale da comprendersi sotto il Titolo IV.

Come il cittadino per la difesa dei suoi diritti assume il patrocinio di un avvocato, così lo Stato ha il suo difensore e basta questo rilievo per comprendere come questo difensore non possa essere considerato organo costituzionale.

Corte costituzionale. – Desidero infine rivolgere viva preghiera all’Assemblea di meditare sull’articolo 127, che riguarda la formazione della Corte costituzionale.

Il magistrato, se vuole essere tale, non può per definizione assiomatica essere dipendente da alcun altro potere.

Ora mi domando come possono essere indipendenti e giudicare secondo coscienza uomini nominati a tempo dal Parlamento, ossia da partiti politici, uomini che dipendono per la loro rielezione dal Parlamento. Quando un giudice è l’espressione di una corrente politica, egli nel giudicare della costituzionalità delle leggi, avrà sempre la preoccupazione di recar danno a quel partito, dal quale ha ricevuto il suffragio.

Trovare una soluzione che tranquillizzi in pieno non è facile; ma deve riconoscersi che la garanzia maggiore ci può essere data dal magistrato ordinario, cioè dal magistrato nominato e promosso, trasferito e governato dal Corpo medesimo di cui fa parte.

Trattamento economico. – La posizione economica attuale della Magistratura deriva da un equivoco, giacché i magistrati d’Italia ebbero origine nettamente nobiliare.

Il posto di giudice era ambito per mantenere alto il prestigio ed il potere della famiglia e,quindi, l’esercizio della Magistratura era un munus publicum.

Si ritenne che il magistrato dovesse essere provvisto di beni di fortuna, dei quali lo stipendio rappresentava solo una integrazione.

Ma quando le cariche giudiziarie, come tutte le altre cariche direttive dello Stato passarono dalla nobiltà all’alta borghesia e da questa alla media, i magistrati vennero a trovarsi in gran parte nella condizione economica di tutti gli altri impiegati delle amministrazioni statali, costretti a vivere di solo stipendio.

I magistrati di oggi non discendono da magnanimi lombi, ma dal popolo e prevalentemente da quella classe impiegatizia, che silenziosamente è sempre vissuta e vive tra mille difficoltà e stenti.

I figli di questa modestissima classe usciti dalle università, non potendo per mancanza di mezzi affrontare la incertezza e l’aleatorietà della libera professione, concorrono in Magistratura.

Questi giovani, che sentono imperioso il dovere di non pesare un giorno di più sul bilancio familiare, questi giovani sono le nobili reclute della Magistratura italiana.

Perciò molto ci addolora il sentire alle volte affermare con poca ponderatezza che la Magistratura è asservita agli agrari, che guarda con simpatia i grandi proprietari, gli industriali.

La Magistratura conosce un solo imperativo categorico, la norma giuridica, batte una sola strada, quella della giustizia, invoca una sola luce, la luce di Dio.

Oggi mentre molti assetati di felicità, divorati dall’egoismo, avidi di beni, corrono dietro i facili guadagni, mentre tutto è in funzione del benessere fisico, il magistrato ha saputo soffrire, mantenendo lontano ogni ombra, ogni macchia dalla toga, che considera un simbolo sacro.

La Magistratura italiana ha al suo attivo una giusta fama di onestà e di correttezza, per cui la sua rettitudine non è stata mai neppure discussa.

La quasi totalità dei magistrati non frequenta teatri, non cinematografi, non si consente villeggiature di montagna o di mare.

Con tanto impoverimento della personalità i magistrati italiani si sono comportati da eroi attendendo, in silenzio, in mezzo alle più gravi ristrettezze economiche, alla oscura e diuturna fatica del giudicare, hanno continuato ad accudire con serenità allo studio di poderose questioni, in cui spesso sono in contrasto interessi ingentissimi.

La Magistratura italiana è quella che meno si sporcò di fascismo, e prova ne è che si sentì il bisogno di creare organi speciali disposti ad asservirsi supinamente alla dittatura.

La Magistratura italiana come allora così anche oggi, è rimasta e rimane al suo posto.

Purtroppo in questi tempi grigi, tutti si è presi dall’autodenigrazione: ombre si gettano sulla polizia, ombre sull’arma dei carabinieri, ombre sulla Magistratura.

Con questo sistema si discreditano gli organi più vitali e si aggrava la carenza dello Stato. Tagliare i rami secchi è un dovere, ma è anche un dovere mantenere alto il prestigio di queste istituzioni, che sono un poco la spina dorsale del Paese.

Qui vi sono stati lanci inconsulti di manate di fango contro la Magistratura, specie quella siciliana.

Ebbene non le parole vane, ma i numeri della statistica dicono che la Magistratura in Sicilia fra infinite difficoltà, ha colpito in pieno petto la criminalità.

Dal 1943 al 1945 vi fu un crescente di attività delittuosa: rapine, estorsioni, sequestri di persone, associazioni a delinquere.

A molti non era più consentito di andare in campagna, ma alla fine del 1946 la statistica ha segnato il ritorno alla normalità.

E la lotta contro la criminalità si è svolta osservando la legge, non come si fece all’epoca del prefetto Mori, ricorrendo ai mandati di cattura in bianco.

Sono, quindi, in errore quei pochi che inconsultamente hanno osato attaccare la Magistratura. Se in tutti i settori della vita italiana esistesse quello scrupolo, quello spirito di sacrificio, che intensamente vive sotto la toga del magistrato, la risurrezione morale del Paese potrebbe ritenersi assicurata.

È di ieri un esempio fulgido di purezza e di francescana povertà della Magistratura di Sicilia.

In un grande centro di quella terra, che vive di onore, un Presidente di Sezione di Corte di appello cessò improvvisamente di vivere.

Il giorno del decesso colleghi ed avvocati andarono a visitare la vedova; questa dirottamente piangeva; pregata di rassegnarsi, tra i singhiozzi disse al Primo Presidente della Corte che non aveva neppure i mezzi per ordinare la cassa.

Con una colletta quell’esimio magistrato raggiunse l’ultima dimora tra quattro assi coperti da una toga intemerata. Questa è la Magistratura italiana.

Nell’agosto scorso avrete letto sulla Scena illustrata lo stato di miseria in cui morì a Milano un giovane magistrato.

Quando amici e colleghi accorsero nella squallida stanzetta trovarono sopra un tavolo un voluminoso processo civile coperto di appunti.

Quel volume era la ricchezza in contestazione, sul letto di morte l’indigenza assoluta, sopra una sedia una giacca sdrucita con poche centinaia di lire che servirono per telegrafare alla famiglia, alla fidanzata. Anche questa accorse e chiese un ricordo, un indumento, che essa già considerava un simbolo, la toga onoratamente indossata da chi doveva essere il compagno della sua vita.

Ecco la Magistratura italiana.

Onorevoli colleghi, rispettiamola e difendiamola in questa legge suprema dello Stato.

Ricordiamo in questo momento le parole di un grande giurista, Giuseppe Zanardelli.

Questi disse che la toga del magistrato senza armi spaventa la forza, senza forza arresta la violenza, senza apparato riduce il fasto alla modestia ed al timore.

Sì, onorevoli colleghi, la forza giusta della toga è ricercata da tutti, dalla povertà come un asilo, dalla ricchezza come un appoggio, dall’onore come una luce, dalla vita stessa come mezzo di conservazione.

Onorevoli colleghi. La Magistratura non ha ambizione di sorta, non mira a strapotere alcuno.

Chiedo ai colleghi di sinistra che rispettino il decreto del guardasigilli Togliatti del maggio 1946, che fu una conquista democratica per l’ordine giudiziario. Ai colleghi del centro rivolgo viva preghiera di leggere questo numero della Civiltà cattolica e meditare le sagge parole di Padre Lener, che per avere preferito a questo brutto mondo la vita dello spirito ha diritto di essere creduto più di noi.

Prego infine, vivamente i colleghi di destra di leggere quei libro profondo di Roepke campione del liberalismo, cioè La crisi sociale del nostro tempo. In questo libro che è la sintesi di tutta la sua produzione scientifica, Roepke dice ad un certo punto che i tribunali sono la cittadella dell’autorità dello Stato, che fino a quando questa cittadella resiste non vi è timore di sfacelo dello Stato.

Difendiamo dunque questa cittadella, che in tempi grigi ha resistito alla prova del fuoco. Difendendo la Magistratura, intendiamo difendere la giustizia del nostro Paese. Qui, onorevoli colleghi, non si tratta di difendere gli interessi di questa o di quella categoria di lavoratori ma qualche cosa di sacro, la giustizia, che è patrimonio di tutti gli italiani. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Salerno. Ne ha facoltà.

SALERNO. Onorevoli colleghi, siamo certamente tutti d’accordo in quest’Aula nel sottolineare l’estrema importanza dell’argomento che stiamo trattando: la giustizia, l’amministrazione della giustizia. Ma credo che non siamo ugualmente d’accordo sulle ragioni che ci inducono ad attribuire tanta importanza a questo argomento.

Eppure è necessario fissare queste ragioni, perché esse possono costituire l’orientamento utile per la impostazione e la risoluzione dei maggiori problemi.

Per me le ragioni sono due: una di carattere strettamente costituzionale – e quindi giuridica –; l’altra di carattere profondamente umano –, e quindi universale. Sono due termini inscindibili, senza di cui– è mia opinione – nessuno dei problemi attinenti alla giustizia può essere compiutamente risolto.

Se è vero in gran parte – come è stato detto – che la legge esaurisce il travaglio politico che la precede e supera, per così dire, le idee e i contrasti che ne sono il presupposto; è anche vero che la legge non esaurisce la sua finalità estrema, cioè l’applicazione al caso concreto, se non attraverso la funzione giurisdizionale, tappa ultima del ciclo vitale della norma giuridica, cuspide somma di tutto l’ordinamento costituzionale.

Accanto però a questo profilo tecnico e giuridico della giustizia, ve n’è un altro: morale, sociale, umano, che non può essere trascurato: la giustizia sete degli uomini, la giustizia proporzione, misura, calcolo di tutte le entità imponderabili della vita, la giustizia che eleva il giudice ai più alti fastigi, senza fargli perdere la sua natura umana e la conoscenza degli uomini, la giustizia reclamata da tutti perché tutela gli interessi di tutti, e non solo quelli materiali, ma anche quelli altamente personali, come l’onore, la libertà, il lavoro.

Sarebbe una iattura se questi due lati, il lato giuridico e il lato umano, fossero tenuti distanti o, peggio ancora, se il lato tecnico-giuridico dovesse eccessivamente estendersi a detrimento dell’altro, perché allora avremmo una giustizia fredda, una giustizia meccanica, lontana dagli uomini, pericolosa per la società.

Ad evitare questo pericolo, bisogna compendiare i due termini: il termine giuridico e il termine umano; essi devono incontrarsi e questo incontro non può avvenire che sull’unico terreno possibile, cioè sul terreno sociale.

Una grande affermazione è contenuta nella nostra Costituzione: «La funzione giurisdizionale è espressione della sovranità della Repubblica ed è esercitata in nome del popolo».

È un’affermazione alla quale bisogna dare tutto il peso e la significazione che merita se si vuole che questa Costituzione non sia solamente una raccolta di formule esteriori, ma abbia veramente un contenuto di schiettezza e di socialità. È un’affermazione importante perché fissa il potere, ma fissa anche la fonte del potere: attribuisce alla funzione giurisdizionale tutta l’autorità necessaria, ma pone un limite, che è la condizione della nascita e della vita di questo potere.

Sovranità, e sovranità che deriva dal popolo!

Noi usciamo da un periodo di tirannide, in cui il potere esecutivo e tutto il meccanismo dispotico che gli era sorto intorno si era mostruosamente ingigantito a danno degli altri poteri, compreso naturalmente quello della giustizia. È necessario che si formuli questa alta affermazione di riscatto e di prestigio della giustizia. Proclamare in uno Stato ispirato alla legalità che il potere giudiziario è espressione della sovranità popolare, significa applicare un principio di schietta democrazia, che cioè tutti i cittadini sono uguali dinanzi al giudice e il giudice è uguale per tutti. Non basta affermare che la norma astratta è uguale per tutti. Il giudice deve essere sicuramente uguale per tutti.

La sovranità della giustizia però deve essere intesa nei suoi giusti termini per evitare due pericoli a cui si potrebbe andare incontro: che cioè questa sovranità sia soltanto una espressione verbale e, per così dire, una finzione, e per evitare il pericolo opposto: che questa sovranità straripi nell’arbitrio e diventi la negazione della funzione altissima che al potere giudiziario è commessa.

Si vuole insomma che il giudice sia sovrano sì, ma che la sua sia una sovranità effettiva e concreta, senza manti laceri né corone di cartone, ma anche senza eccessi ed arbitrii che metterebbero la sua volontà in istridente contrasto con la volontà sociale. E per me questo è il problema fondamentale: creare un potere giudiziario sovrano che sia la fedele espressione della volontà collettiva.

Ebbene, le condizioni della sovranità non sono che due: da un canto il prestigio del giudice, dall’altro l’indipendenza del giudice.

Il prestigio non può discendere dalla legge; il prestigio scaturisce dall’ordine interno dei magistrati, perché poggia sulla fierezza e sulla dignità dell’uomo, in osservanza di quei principî etici che non si scrivono, ma si sentono e dei quali si deve fare uso. Bisogna bandire la corsa alle posizioni avanzate, la gara dei successi personali, insomma il «carrierismo». Bisogna abolire la distinzione per gradi, e mantenere soltanto quella per funzioni, abolire una bassa ed una alta Magistratura, comprendendo nella prima i giudici che esercitano nel campo penale, nella seconda quelli che trattano la materia civile.

Sia unica la funzione, ed unica la dignità.

La Magistratura deve essere intesa come l’espressione di una missione e le missioni sono fatte con un po’ di sacrificio. Quando un magistrato non sente questa norma imperativa, egli avrà tutte le attitudini per altre funzioni, ma non sarà un buon magistrato.

Tutti possono essere magistrati, come tutti possono essere sacerdoti di una fede, ma sia magistrato chi vive e chi sa vivere da magistrato, cioè in quello stato di elezione morale onde possa dirsi: molti sono gli avvocati ma… i magistrati sono gli eletti.

L’altra condizione della sovranità è l’indipendenza. Ma anche su questa espressione bisogna intendersi.

Diceva l’onorevole Dominedò: insomma, che cosa si vuole con questo titolo IV, qual è la sua essenza, quale il suo spirito? Non altro che la ricerca ansiosa del giudice libero, egli rispondeva. E certo, se la libertà è, come dev’essere, la somma di tutti i valori morali, non v’è nessuno che non aspiri a questo giudice libero. Ma bisogna intendersi sul concetto di libertà. La libertà, deve essere, innanzitutto, per essere vera, la risultante di tutte le libertà, ed in secondo luogo la libertà non la si può intendere se non come la coesistenza di essa con le altre libertà. Insomma, quello di libertà è un concetto di relazione e di proporzione. Una libertà assoluta potrebbe esprimere un concetto negativo. La libertà deve perciò rispondere a requisiti di coordinamento e di armonia, sicché nel tempo stesso in cui si pone il problema della libertà, si pone anche il problema dei limiti della libertà, e nel tempo stesso in cui si pone il problema dell’indipendenza del giudice, si pone anche il problema della dipendenza del giudice, perché il giudice che fosse completamente indipendente, astrattamente indipendente, potrebbe giungere alla rinnegazione della funzione che gli è affidata.

In quanto alla dipendenza, nella Costituzione è detto che il giudice dipende dalla legge e dalla coscienza, ma io vorrei dire che non basta. Occorre una terza dimensione, cioè egli deve dipendere anche dalla coscienza, dallo spirito della legge, deve essere pervaso da quel soffio animatore che è nella legge.

Non parliamo di una coscienza popolare che non sia consacrata nella norma. Non ne parliamo. Era una preoccupazione dell’onorevole Dominedò, ma è una preoccupazione che mi pare non abbia ragion d’essere, prima di tutto perché una coscienza popolare non consacrata nella legge, in un regime democratico, non può esistere. Questa specie di dualismo, di contrasto tra il precetto e la volontà popolare può verificarsi in periodo di tirannide, quando la coscienza popolare non giunge ad esplicarsi nella legge, ma non è concepibile in periodo di libertà. In secondo luogo, se una coscienza popolare non è consacrata nella legge, evidentemente non si tratta della legge che deve essere applicata. Quando noi parliamo di coscienza popolare, parliamo di quella coscienza che è nella legge e che l’accompagna, perché, onorevoli colleghi, si dice (e l’hanno scritto i relatori autorevolissimi di questo Titolo) che la legge, nell’atto della sua formazione, esaurisce il processo politico che le sta alla base, ma io dubito della esattezza integrale di questa massima.

È proprio vero che tutta la politica venga esaurita? Non è forse anche vero che vi è sempre qualcosa che non riesce ad inserirsi nella legge, non riesce a prendere espressione concreta e che tuttavia esiste ed accompagna la legge come un’ombra, come una vibrazione, come una invisibile riserva copiosa, alla quale il giudice attinge forse con maggiore fortuna di quel che non faccia attingendo alla legge medesima nella sua articolazione letterale, appunto perché essa, definita e quasi conclusa in determinati cancelli, spesso finisce per essere arida ed insufficiente?

Quando si dice che esiste lo spirito della legge, si parla di qualche cosa che non deve essere considerata come un formalismo o una convenzionale figura retorica, che si tramanda da secoli, ma come alcunché di reale e vivente. Ora, è questo lo spirito che lega il popolo alla giustizia ed alla Magistratura. È questo lo spirito che lega il potere legislativo al potere giudiziario; ed è con questo spirito che la legge viene interpretata secondo la coscienza, secondo la civiltà di un periodo storico presso una determinata società.

Io ho sentito qui i più aurei discorsi pronunciati dai luminari della scienza. Il tecnicismo ha raggiunto i vertici della elaborazione. Come dicevo in principio, temo però che si sia lasciato nell’ombra quell’altro lato del problema, che è il lato umano, e che bisogna inserire nella norma costituzionale. Quando poco fa sentivo dire che il giudice applica la legge, e che questa applicazione della legge si esaurisce nel processo dialettico e tecnico-giuridico, io pensavo che in tutto questo non solo vi è un vizio di ragionamento, ma forse tutta una inclinazione del nostro tempo a dimenticare quanto di umanità era negli antichi maestri del diritto, da Francesco Carrara ad Emanuele Carnevale.

E vorrei dire che questo è anche un po’ il vizio di una tendenza scientifica, per cui Emanuele Carnevale, che fu uno degli ultimi veri umanisti del diritto penale, temeva che la nuova scuola sorgente in Italia potesse disumanare il diritto penale, come potrebbe disumanare il diritto ogni giudice che prescindesse dal contenuto umano che esso racchiude.

Ora, qual è la funzione del giudice? Qual è la sua funzione al di fuori di ogni tecnicismo, al di fuori di ogni formulazione scientifica, prescindendo da tutti gli schemi e le nomenclature, qual è questa funzione del giudice? Che cosa fa il giudice, in fondo? Non si passa d’un tratto dalla legge alla vita. Fra la legge e la sua applicazione c’è un intervallo, c’è uno jatus, che bisogna riempire, c’è un quid che bisogna trovare: questa è la funzione del giudice, vale a dire adeguare, avvicinare, livellare la norma astratta al caso concreto, la norma generale al caso specifico. E tutto questo secondo la legge e secondo la coscienza del giudice, ma anche e soprattutto secondo la coscienza sociale. Si è detto tante volte ed autorevolmente: il giudice è la legge vivente. Un antico filosofo affermava che le leggi peggiori possono diventare sopportabili quando i giudici sono buoni e che viceversa le leggi buone possono diventare pessime quando i giudici sono cattivi. Che cosa significa questo? Qual è la ragione di queste alternative e quali sono gli strumenti di cui si deve servire il giudice per trasformare la legge astratta in una legge vicina alla vita ed all’uomo? Qual è la fonte alla quale potrà attingere? Essa non può essere che la ricerca dell’umanità e del fondo sociale di cui è permeata la legge stessa. La legge per essere giusta, deve essere aderente alla umanità ed allo spirito sociale. Questo contatto e questa continuità fra la vita sociale e la vita giurisdizionale, lungi dall’indebolire la sovranità del giudice, la rafforza e la contiene nei limiti solamente accettabili, vale a dire i limiti di una sovranità costituzionale.

In tutto questo può entrare un atteggiamento politico? Potrei dire di sì, e se è assurdo parlare di una politica giudiziaria, nel senso di un orientamento sistematico della giustizia nella sua esplicazione, è altresì indubitabile che un coefficiente politico entra in quasi tutte le attribuzioni e le esplicazioni dell’attività della giustizia. Oggi la vita moderna ci va insegnando questo: che le controversie demandate al potere giurisdizionale sono sempre più tali da richiedere una larga conoscenza dei bisogni umani. La politica, quindi, è uno di quei fattori che non possono essere nella vita collettiva allontanati e respinti, perché è un po’ come l’aria che circonda l’essere umano; politica però della legge, che accompagna la legge stessa, non la politica del giudice, per cui quel termine «coscienza», che si legge nel progetto e che si deve interpretare come criterio di rettitudine e di zelo, va integrato e completato col concetto di coscienza sociale che accompagna la norma; altrimenti, a lasciar arbitra la coscienza subiettiva del giudice, si potrebbe andare incontro a dolorose sorprese ed assistere alle più aperte storpiature della legge, nell’ottimistica presunzione di compiere un sacro dovere.

In conseguenza di questo punto di vista, cioè che un’impronta sociale e politica deve essere anche nella coscienza del giudice e deve corrispondere alla coscienza sociale e politica di chi la legge ha formato, discende che, negare al magistrato la possibilità non di essere politicamente orientato, ma di essere iscritto ad un partito, è una contraddizione evidente. Vero è che il divieto è originato dalla preoccupazione di quel che potrebbe sulla pubblica opinione, di discredito e di sospetto, l’appartenenza del giudice alla milizia di un partito. Ma certamente in quel divieto vi è un’offesa ed un’ingiuria al partito ed al giudice, cosicché quella norma non può non essere cancellata, appunto per affermare vieppiù le necessità dell’aderenza del giudice alla coscienza collettiva.

Inteso così il principio dell’indipendenza del magistrato, cioè come avvicinamento alla vita sociale, bisogna applicarlo anche al campo funzionale della Magistratura. L’autogoverno o il Governo della Magistratura fatto da un organo specifico è una esigenza indeclinabile, ma bisogna che anche questo organo mantenga la sua continuità tra vita sociale e vita giurisdizionale.

Io ho sentito citare qui frequentemente un discorso di Giuseppe Zanardelli pronunciato nel 1903 a proposito della progettata riforma dell’ordinamento giudiziario, che non ebbe poi seguito. Ora lo Zanardelli, che era un liberale, a questo proposito non esitò a dire che tra il pericolo di una soggezione della Magistratura al potere esecutivo e quello della clausura, dell’incapsulamento della giustizia in un organismo staccato dalla vita collettiva, era preferibile il pericolo che derivava dal potere esecutivo. Testualmente egli disse: «E non è certo meno pernicioso dell’arbitrio ministeriale quello dei corpi chiusi, presso i quali possano le condiscendenze, i pregiudizi di classe, e prevalga uno spirito di parte, esclusivo e parziale». È inevitabile allora il formarsi, non diremo di un clientelismo, ma di un classismo interno, in virtù del quale chi non avesse santi in quel piccolo paradiso sarebbe condannato… alle pene eterne.

Ma poi c’è un’altra ragione per cui non è concepibile che quest’organo supremo sia composto esclusivamente di magistrati. Noi diciamo che nella Magistratura la funzione giurisdizionale è l’espressione della sovranità ed è esercitata in nome del popolo. Quale sarebbe un qualsiasi indizio di investitura della base sociale per questo alto consesso, questo organo supremo, quale è l’organo giudiziario? Se domani andasse in vigore la Costituzione, e fosse accolta la proposta secondo cui il Consiglio Superiore della Magistratura deve essere composto esclusivamente di magistrati, di quale Magistratura si parlerebbe? Della nostra Magistratura, di quella Magistratura che noi in massima parte abbiamo ereditato dal passato, la quale improvvisamente si chiuderebbe in un organo sovrano che potrebbe disporre del reclutamento, delle promozioni, di tutto quello che attiene alla vita amministrativa e disciplinare del magistrato. Dove sarebbe quel qualsiasi contrassegno della volontà e della potenza del corpo sociale da cui tutto dovrebbe scaturire, compresa l’autorità della Magistratura? Noi speriamo che la Magistratura non sia legata al passato, speriamo che non possa andare incontro ai pericoli che ha dovuto subire nel ventennio della tirannide; ma queste nostre speranze appunto ci additano la necessità e ci impongono il dovere di mantenerla vicina alla vita e al corpo sociale.

Non credo però che si possa accogliere la proposta di coloro che nel Consiglio Superiore della Magistratura vorrebbero inserire una rappresentanza simbolica – come si è detto in quest’Aula – dell’elemento laico, perché questo è il sistema del riconoscimento della necessità di partecipazione di tutta la vita collettiva a questo organo supremo, attraverso l’espressione simbolica, ma è anche l’annullamento del principio. Comprenderete, infatti, che la presenza di tre o quattro laici nell’ordinamento del Consiglio Superiore della Magistratura sarebbe solamente una finzione giuridica, per non dire una ipocrisia legale.

Quindi, sono dell’opinione che debba in misura equa partecipare al Consiglio Superiore della Magistratura una rappresentanza della vita collettiva; e non comprendo tutte quelle diffidenze che sono state per vari motivi profilate in queste discussioni.

Il Capo dello Stato non deve partecipare, si è detto, perché il Capo dello Stato, comunque, è sempre espressione di un partito. Eppure si era sempre dichiarato, si pensava, si sperava che, benché espressione di un partito, il Capo dello Stato fosse anche la sintesi della vita nazionale e, quindi, stesse un po’ al disopra dei partiti. Non devono partecipare gli avvocati, perché gli avvocati potrebbero continuare ed esercitare la loro attività professionale per interposta persona. Non deve partecipare una rappresentanza del legislativo, perché, come ha detto l’onorevole Dominedò, questa sarebbe una contaminazione del potere giudiziario. Penso che in tutte queste affermazioni vi sia l’estrinsecazione di un senso di scetticismo, di pessimismo e di diffidenza, onde può ben dirsi che noi viviamo quasi in un’atmosfera di continuo sospetto. E forse questa è la barriera più grande che divide, non solo in questo campo, gli uomini di tutto il mondo. Se abbiamo fiducia nella democrazia dobbiamo anche ritenere che vi è una forza intrinseca che purifica e non contamina la giustizia. Mentre questo sospettare il delitto, la malversazione, l’inganno, la frode ad ogni piè sospinto, mi pare che sia l’espressione di uno stato d’animo, che può essere forse giustificato dopo un periodo di tirannide, ma che deve essere fugato, in maniera che a questa democrazia, che vogliamo rinnovellare, sia infusa una vita nuova, una vita rispondente ai fini sociali, ai quali le nuove istituzioni devono essere indirizzate.

Purtroppo, noi non abbiamo più, forse, il senso esatto delle cose, proprio per quel fenomeno della tirannide di cui parlavo innanzi: noi temiamo che il potere legislativo possa sopraffare il potere giudiziario, sol perché entrino in questo dei rappresentanti del primo. Ma la verità è che il potere legislativo non ha mai sopraffatto gli altri poteri, e se tirannidi si sono avute, sono sorte fuori del potere legislativo, fuori delle Assemblee, fuori dei Parlamenti, e, quindi, bisogna diffidare di tutto ciò che non è emanazione della volontà popolare liberamente espressa: questo è il pericolo da cui bisogna difendersi.

L’indipendenza della Magistratura non consiste nell’isolamento; la partecipazione di un’equa rappresentanza di elementi laici al Consiglio Superiore deve essere imposta dalla Costituzione, perché è garanzia del mantenimento di quel legame indispensabile di continuità, che deve esistere fra vita sociale e Magistratura.

Ma l’indipendenza sia soprattutto affermata nelle estrinsecazioni concrete della funzione giurisdizionale. Si è suggerito giustamente che qualche cosa bisogna dire per rafforzare il principio dell’autonomia finanziaria del magistrato: sia questo anche detto incidentalmente, ma deve essere detto e legato, come un dovere, al legislatore futuro, giacché la libertà di cui parlava l’onorevole Dominedò, presuppone innanzitutto la libertà del magistrato da quel bisogno e da quel sospetto che potrebbe qualche volta incidere sulla funzione suprema della Magistratura.

Abbia questa indipendenza la Magistratura ed abbia anche tutto il potere giurisdizionale, perché, se si è parlato e si combatte per la creazione di un vero potere giudiziario, sarebbe assurdo che, mentre si lotta con tanto ardore, si consente poi che molte delle attribuzioni di questo potere siano esercitate proprio da coloro che il potere non posseggono, perché non hanno gli attributi del potere giudiziario.

Si dice che tutte le funzioni giurisdizionali debbono essere conferite al magistrato; ma intanto l’ordinamento statale è ricco di funzioni giurisdizionali esercitate da organi che non hanno a che vedere con la Magistratura. Ora, questo bisogna in qualunque modo evitarlo, perché defrauda i magistrati della loro sovranità e della loro indipendenza.

Purtroppo il Consiglio di Stato rimane, ma dovrebbe attendere soltanto a quella tutela di interessi legittimi, per cui già un passo avanti si è fatto con la legislazione del 1865 e del 1877, e si restringa in questi termini il suo potere senza toccare la materia dei diritti subbiettivi, in modo da non invadere la sfera del potere giudiziario.

Anche la Corte dei conti dovrà mantenere esclusivamente la sua tradizionale funzione di controllo sulla contabilità dello Stato, ma si sottragga a queste due Magistrature ogni potere giurisdizionale. Si renderà così il doveroso omaggio alla tradizione ed anche al comportamento di questi organi, i quali, anche in periodo di oppressione, hanno dato prova di indipendenza e di fierezza.

Il potere giudiziario non può però – organizzato sulle basi che sono indicate nella Costituzione – consentire che siano mantenuti in vita i tribunali militari. Io ho sentito tante volte fare qui l’elogio dei tribunali militari; non bisogna confondere quella che è la necessaria tutela di alcuni interessi schiettamente militari, e quindi la necessità di una legge penale militare, con una giurisdizione penale militare: sono due cose diverse, perché i tribunali militari contrastano il principio informatore del potere giudiziario, cioè la sua indipendenza, cioè la sua appartenenza ad un Ordine di giustizia. Come è noto invece, i giudici militari non dipendono che dall’esecutivo, e propriamente dal Ministero della guerra. È memorabile un ordine del giorno presentato molti anni addietro, nel 1900, da un gruppo di deputati, fra i quali luminosamente figuravano uomini come Turati, come Prampolini, come Comandini ed altri, con cui si chiedeva fin da allora l’abolizione dei tribunali militari, appunto perché, essendo organi del potere esecutivo, erano stati investiti di quelle più severe repressioni, che difficilmente sarebbero state applicate dalla giustizia ordinaria. Non è concepibile che in una giustizia socialmente e democraticamente organizzata, un ampio potere di giurisdizione sia esercitato da organi che non entrano nella compagine giudiziaria, ma che dipendono dal potere esecutivo. Costoro non sono dei giudici; sono dei funzionari. Io non vedo come si possa da una parte rivendicare l’autorità, la sovranità del potere giudiziario, e dall’altra consentire che vi siano queste deviazioni così evidenti e notevoli.

Non m’indugio su altri problemi, e mi soffermo su qualcuno che più mi sta a cuore, come quello, per esempio, della Corte d’assise. Su di essa vi è una specie di dichiarazione di ostilità, se non proprio universale, certamente della grande maggioranza dell’Assemblea. Però vi è una minoranza favorevole, e in questa minoranza mi sento contento di trovarmi. Per la verità, non mi pare che il problema sia impostato con esattezza. In sostanza, l’opposizione all’istituzione delle Corti d’assise è questa: il problema ha carattere solamente procedurale, la Corte d’assise è solamente una questione di competenza, non è un problema politico. Non mi pare che questa sia la maniera di impostare il problema, perché la politica può entrare dovunque; anche qualche cosa che apparentemente ha un suo significato, ne può assumere uno politico. Viviamo in un’epoca profondamente politica. Ma ciò è accaduto anche in altri tempi, quando l’essere sbarbati o non sbarbati poteva costituire un’espressione politica; il fumare o non fumare, perfino questo aveva un significato politico. Quindi, il problema politico non è vero che non ci sia. Il problema politico c’è in questo precetto contenuto nella Costituzione, e d’altra parte la questione delle Corti d’assise è sorta storicamente proprio come una questione politica.

In Francia è sorta come una questione politica, quando è crollata tutta la struttura regia dello Stato ed è venuto il popolo a determinare, a custodire i nuovi ordinamenti. Si è voluto, in senso reattivo, dare al popolo la possibilità di esercitare direttamente la giustizia, e si sono create le Corti d’assise.

Ma anche in Italia – e cerchiamo di non fare passi indietro almeno in questo – la Corte d’assise è sorta nel Piemonte, nel 1848, per giudicare i reati di stampa. Anche qui la significazione politica era ovvia, era patente. Usciamo da un periodo di tirannide, usciamo da quei periodi, cioè, nei quali tutto ciò che ha significazione ed espressione popolare viene combattuto e compresso. Si impone anche qui un problema politico; tanto è vero che lo si è portato alla Costituente. In fondo, che cosa si vuol dire con questo precetto? Si vuol presentare un dilemma: può il popolo, al quale – si dice nel primo articolo della Costituzione – appartiene la sovranità; può il popolo, in nome del quale si esercitala giurisdizione (art. 94) rivendicare il diritto di esercitare direttamente questa funzione e di esercitarla come detentore, come depositario della funzione stessa?

Si dice da qualcuno, come ha detto l’onorevole Villabruna, che non occorre creare le Corti d’assise, perché c’è già nella Costituzione il principio, secondo cui la funzione giurisdizionale è esercitata in nome del popolo.

Quindi tutti contenti. Ma se invece di affermarlo soltanto, lo si potesse tradurre in qualcosa di concreto, credo che il precetto avrebbe la sua reale applicazione. Si è detto da qualch’altro – come l’onorevole Crispo – che la partecipazione del popolo alle Corti di assise rappresenta la partecipazione di una massa indifferenziata, e che le Corti d’assise sono uno scannatoio, o lo sono state.

Ascoltando ciò mi veniva fatto di rilevare come molte volte noi ci rendiamo portatori di principî astratti con piena convinzione, con piena lealtà, ma poi, al momento in cui dobbiamo trasportare il principio nel campo dell’esecuzione, cioè dobbiamo passare alla realizzazione, incontriamo dei diaframmi. E quanti diaframmi in questa Costituzione!

Molte cose si dicono, ma quando si deve creare un istituto che renda attivo il principio e lo faccia incidere sulla vita sociale, quanti timori e quanti tentennamenti!

Si è parlato della sovranità popolare, ma poi si dice che è bene che il popolo non partecipi all’amministrazione della giustizia; si è parlato della sovranità e della indipendenza della giustizia, e si mantengono i tribunali militari; si è parlato di tante altre cose, per esempio della parità dei diritti delle donne, ma poi non si vuole che le donne giudichino. Quanti contrasti! Del resto l’uomo agisce non come pensa, ma come sente, e nel sentimento si annidano spesso dei pregiudizi.

Comunque, al quesito politico riflettente il diritto del popolo a rivendicare la funzione di giudice, nessuno risponde di no, nessuno nega al popolo il diritto di amministrare la giustizia, ma si afferma che il popolo non è capace di farlo. Quando si sono istituite le Corti d’assise in Francia c’era più conseguenza. Si disse: il cittadino deve essere il padrone vero, il depositario di tutta la vita sociale. Ebbene il cittadino è anche lui che dispone, che amministra giustizia: il cittadino vota, il cittadino giudica ed ha diritto di essere partecipe delle attività principali dello Stato.

Ma si dice: la giuria popolare non è capace, perché non è tecnica. Si è fatta in questa Aula l’esaltazione del tecnicismo. Ora se tutto ciò che è tecnico rappresenta un perfezionamento della funzione, il tecnicismo, anche nel campo della giustizia, sia il benvenuto.

Ma il fatto è questo: che qui si tratta di un tecnicismo sui generis, composto per lo meno di due capitoli, uno di tecnica strettamente giuridica, e l’altro di tecnica umana. Io ricordo quando, molti anni or sono, nel 1928, dirigevo con altri giovani a Napoli un giornale giudiziario, nel quale speravamo di trovare un palladio e un rifugio di idealità. Anche allora si dibatteva questo problema, e credemmo di aprire un referendum sulle Corti d’assise, sul magistrato togato, sullo scabinato, e interpellammo i più illustri maestri dell’epoca e, primo fra tutti, Enrico Ferri, che ci rispose con la sua caratteristica scrittura dicendoci una cosa, che potrebbe definirsi di carattere sensazionale ed incisivo. Disse: se mi si guasta l’orologio, io lo porto dall’orologiaio. Perché mai, quando si tratta di giustizia, non debbo andare dai tecnici della giustizia?

La cosa può anche sembrare soddisfacente e davvero conclusiva. Modestamente credo di no, perché non ci troviamo qui in presenza del comune orologio, ma per lo meno di un orologio, nei cui confronti ognuno sente di essere un po’ orologiaio, perché non si tratta solamente del problema della giustizia intesa come applicazione della norma tecnica, guardata con freddezza, come si può guardare al microscopio un qualsiasi corpo per poterlo studiare fin nelle più intime latebre. Qui ci troviamo di fronte ad un fatto giuridico, che nella sua intima essenza è un fatto umano, e qual è la giustizia che non sente il contenuto di umanità nel fatto che deve giudicare? Ecco perché tutti sono un po’ orologiai. (Interruzioni). Lo so, questo mio ragionamento non può non suscitare, non solo il disappunto, ma la ribellione dei molti illustri tecnici-giuristi che sono in quest’Aula, ma è d’uopo che ogni tecnico della giustizia possa dire la sua parola, perché qui non si tratta di fare la ruota di un carro che possa interessare solamente una ristretta categoria di persone. Ecco la necessità di mantenere il contatto fra la vita sociale e la vita giudiziaria.

Ora, se è vero che vi è sempre una dose di umanità, che anche il giudice togato deve possedere, io non comprendo perché mai non debbano attribuirsi alla competenza dei giurati quei reati il cui giudizio poggia prevalentemente sul criterio della umanità. È un errore certo il credere che tutti i reati, che secondo la procedura penale sono di competenza della Corte d’assise, debbano senz’altro essere giudicati dai giurati.

Qui siamo in tema di Costituzione, e noi vogliamo solamente che questo principio, del diritto del popolo a pronunciarsi su alcuni fatti della vita, e quindi dell’attività sociale, sia espressamente proclamato, e non facciamo in questo momento nessuna distinzione. Certo, parlare della competenza della Corte d’assise sotto il profilo quantitativo della pena è uno sproposito.

Noi diciamo che, poiché la giustizia ha per lo meno due volti, uno tecnico e uno umano, vi sono casi in cui l’umanità prevale, o per lo meno, è più imperante, onde può affermarsi il principio costituzionale, che d’altra parte è un principio politico, secondo cui il popolo in alcuni casi può esercitare direttamente la giustizia. Quindi il concetto della capacità è un concetto che non mi soddisfa, perché circoscrive la questione della competenza della giuria a determinati reati, a quelli che comportano una determinata penalità, mentre la competenza deve essere qualitativa.

E quando si parla di giuria, non si faccia la questione del titolo di studio, perché o si deve credere ad una funzione umana, la quale può essere esercitata senza titolo di studio, oppure si deve trasportare tutto sul terreno del tecnicismo.

I difetti delle giurie sono stati lamentati, e giustamente. Però non esageriamo. Io potrei fare una ultima osservazione, ed è questa: hanno sbagliato le giurie? Hanno sbagliato; ma quante volte hanno sbagliato i magistrati togati! Tutto l’ordinamento giudiziario poggia sull’errore, poggia sulla possibilità costante dell’errore, perché il secondo grado di giurisdizione ha per presupposto l’errore. Ora, tutto questo…

LEONE GIOVANNI. Non c’è il secondo grado di giurisdizione con la giuria. (Interruzioni).

SALERNO. Ha ragione, ma salendo salendo non si sa dove si arriva. Non facciamo una specie di barriera di questo argomento della possibilità dell’errore in seno alla giustizia popolare, errore che invece sarebbe eliminato ed evitato dal magistrato togato. La verità è che sbagliano tutti e due, ma per alcuni determinati reati, per i quali vale più la coscienza popolare che l’intelligenza, sovente chiusa in campane di vetro, si presta meno all’errore il giudizio popolare. Noi sappiamo che, a parte gli errori, si sono avute le così dette sentenze suicide, ed uno dei più grandi ed insigni giuristi nostri è morto combattendo contro una di queste sentenze. Eppure quella sentenza suicida l’aveva scritta un magistrato togato. (Interruzioni del deputato Priolo). E poi vi è un’altra cosa che non potete negare: si forma nel giudice una deformazione professionale, in virtù della quale, anche vedendo bene, ma sempre in un certo senso, si finisce col vedere solo in quel senso e a non avere quella elasticità che è nella vita e deve essere nella funzione.

Io non faccio una filippica contro i magistrati; Iddio mi guardi! Dico solo che il popolo può anche giudicare in alcuni reati direttamente, perché tutti quei grossi pericoli, che sono stati avvisati, non esistono o esistono anche in seno alla giustizia togata.

SILES. Cosa c’entra con la Costituzione?

SALERNO. Ne avete parlato tutti. E finisco. Un’ultima parola, un ultimo argomento: le donne (Si ride). Probabilmente sorrideremo un po’ tutti di simpatia verso le donne.

Ebbene, anche qui, quanti contrasti fra i principî e la loro applicazione! Si dice: la donna non può essere giudice, perché non ha l’intelligenza dell’uomo, non ha la sensibilità dell’uomo, non ha la commozione dell’uomo. Ho sentito parlare di gradi e qualità di commozioni, della commozione superficiale delle donne e della commozione profonda degli uomini. Ma io, rivedendo quello che si è detto nel passato, ho dovuto constatare che questi sono proprio gli stessi argomenti che si usavano cinquant’anni addietro, quando non si volevano fare entrare le donne nelle scuole, quando non si voleva che le donne entrassero nei pubblici uffici, quando non si voleva che le donne entrassero nella vita pubblica. Gli stessi argomenti di allora ritornano, perché la verità è questa: che con tutta la celebrazione della giornata della donna fatta mesi or sono proprio in questa Aula (la ricordiamo tutti), e malgrado le varie apologie di occasione: la donna questo, la donna quest’altro, quando si può sbarrare il passo alle donne, lo si fa volentieri, perché noi abbiamo ancora molti pregiudizi. La donna non ha commozione, la donna non è capace… sono argomenti già superati. La donna è entrata nella scuola, ha insegnato, è medico, è tecnico, e non può non essere anche giudice, sia pure tenendo conto della sua particolare natura, per cui è soprattutto madre, e quindi capace di sentire l’anima del fanciullo.

Le donne devono tacere – disse l’onorevole Bettiol – ripetendo le parole di S. Paolo: «tacciano le donne in chiesa». Ma tuttavia le donne hanno parlato in tutti i campi, e parlano anche dai posti più alti della vita politica non italiana, ma internazionale. Quanti Stati sono stati retti (Commenti) e lo sono tuttora con molta saggezza dalle donne!

E allora chiudiamo questo argomento, dicendo che la donna, che è la prima a parlare all’essere che nasce, può anche parlare in quella più ampia famiglia umana che è la società.

Ed io concludo dicendo che le donne hanno questo diritto, non fosse altro perché esse fanno parte integrante di questa nostra umanità ed hanno diritto di pronunciarsi in questa, che è materia giuridica, ma che è anche materia sociale, onde la giustizia più sarà vicina agli uomini, più sarà conforme alle esigenze della vita: giustizia degli uomini, fatta per gli uomini! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Martino Gaetano. Ne ha facoltà.

MARTINO GAETANO. Onorevoli colleghi! Io mi propongo di parlarvi del Titolo VI della seconda parte del progetto di Costituzione, e cioè delle «Garanzie costituzionali». So bene che è un ardimento questo, anche se, come mi avvertiva poc’anzi il collega ed amico onorevole Lussu, può ad alcuni dei presenti in quest’Aula far piacere che finalmente venga rotto «l’incantesimo degli avvocati». È un ardimento, e può sembrare presunzione, per chi, come me, sia digiuno di nozioni giuridiche, intervenire nel dibattito su una così importante questione costituzionale, soprattutto se, come me, si voglia esprimere un’opinione contrastante col pensiero di maestri del diritto e di autorevolissimi parlamentari.

L’onorevole Vittorio Emanuele Orlando espresse già, nel suo memorabile discorso all’inizio dei nostri lavori sul progetto di Costituzione, la propria ostilità al sindacato costituzionale della legge. Questa ostilità non è di oggi, perché egli già la manifestava, credo, sessant’anni addietro, quando giovane professore di diritto costituzionale nella mia università, scriveva la sua «teoria giuridica delle guarentigie delle libertà». Dalla lettura dei resoconti della Commissione dei Settantacinque ho appreso, inoltre, che l’onorevole Einaudi, nella seduta del 1° febbraio di questo anno, espresse egli pure critiche e riserve notevoli sulla Corte costituzionale. Non ho avuto la fortuna ancora di ascoltare la parola, a questo proposito, dell’onorevole Nitti, però non mi è difficile rendermi edotto del suo pensiero al riguardo, leggendo gli emendamenti che egli ha presentato su questo titolo. L’onorevole Nitti ha presentato quattro emendamenti: uno all’articolo 126: «sopprimerlo»; uno all’articolo 127: «sopprimerlo»; uno all’articolo 128: «sopprimerlo»; uno all’articolo 129: «sopprimerlo». Nessun emendamento ha presentato l’onorevole Nitti, almeno che io sappia, a proposito dell’articolo 130, cioè della seconda sezione del titolo sesto della seconda parte del progetto, quella che riguarda la «revisione della Costituzione». Ciò mi lascia pensare che l’onorevole Nitti sia contrario al controllo giudiziario delle leggi, ma favorevole alla rigidità della Costituzione.

Ora a me pare evidente che il controllo della costituzionalità delle leggi sia una conseguenza necessaria della rigidità della Costituzione. Nelle Costituzioni flessibili, dove praticamente nessun limite è posto all’attività del potere legislativo, in quanto non è fatta una distinzione tra potere costituente e potere legislativo e con l’ordinaria procedura legislativa possono essere approvate leggi costituzionali, evidentemente non può ammettersi nessun sindacato sulla costituzionalità delle leggi, eccetto quello sulla costituzionalità estrinseca, cioè sulla regolarità degli atti attraverso cui si compie la funzione legislativa. Ma nelle Costituzioni rigide quando, se pure il potere costituente non è distinto dal potere legislativo (come nel nostro caso), una procedura particolare, più o meno complicata, per la revisione della Costituzione è fissata, io credo che altrettanto evidentemente si imponga un controllo giudiziario dell’attività del potere legislativo. Questo concetto, del resto, fu affermato in modo estremamente chiaro dal primo giudice John Marshall, il quale presiedette la Corte Suprema federale degli Stati Uniti di America per un lunghissimo periodo nella prima metà del secolo XIX, ed al quale si deve in sostanza tutta l’importanza enorme che ha assunto negli Stati Uniti di America il controllo giudiziario delle leggi esercitate dalla Corte Suprema federale, nell’occasione della famosa decisione sulla controversia Marbury v. Madison (il cosiddetto Mandamus-Case).

«È certo – egli scrisse – che quando uno Stato adotta una Costituzione rigida, automaticamente esso sanziona la superiorità delle norme costituzionali sulle norme legislative ordinarie. Ed infatti, o la Costituzione è superiore ad ogni atto legislativo non conforme ad essa, o il potere legislativo può modificare la Costituzione con una legge ordinaria. Non c’è via di mezzo. Se la prima parte di questa proposizione alternativa è vera, un atto legislativo contrario alla Costituzione non è legge; e se non è legge, può essa, ciò malgrado, avere efficacia, possono i tribunali essere obbligati ad applicarla? In altre parole, può un atto legislativo essere considerato norma produttrice di effetti giuridici, sebbene non sia legge? E quando – egli affermò ancora – nella Costituzione il potere giudiziario è considerato come uno dei poteri fondamentali e indipendenti dello Stato, non c’è dubbio che spetta ai tribunali, nell’esercizio dei loro poteri giurisdizionali, di controllare la validità delle leggi, cioè la loro compatibilità e conformità con le norme della Costituzione».

Di modo che il sindacato giurisdizionale della costituzionalità delle leggi è evidente che discende dalla rigidità della Costituzione, cioè dall’esistenza di quei limiti che la Costituzione pone all’attività del legislatore. Se questi limiti sono superati, allora evidentemente è violato il diritto. Contro gli atti del potere esecutivo, che violano il diritto, il cittadino è garantito attraverso il sindacato giurisdizionale del Consiglio di Stato; non dovrebbe egli essere parimenti garantito contro gli atti del potere legislativo i quali violino la Costituzione? E non è questo tanto più necessario proprio in una Repubblica parlamentare come questa, che vogliamo organizzare col nostro progetto di Costituzione, dove al Capo dello Stato non è attribuita quella superiore funzione della tutela giuridica, cioè del confronto fra la legge e la Costituzione, che è propria della Corona negli Stati monarchici?

Se ho ben capito il pensiero di Vittorio Emanuele Orlando, e degli altri che con lui sono ostili a qualsiasi forma di sindacato giurisdizionale della costituzionalità delle leggi, quest’ostilità deriva soprattutto dalla preoccupazione che, ammettendosi il principio del controllo giudiziario delle leggi, in un certo senso si venga a fornire una scusa legittima per la disobbedienza alla legge, si venga dunque a turbare la tranquillità giuridica dello Stato. Per essa è, infatti, indispensabile che non esistano dubbi sulla validità delle leggi: principio questo ovvio ed indiscutibile.

Ma l’esistenza di un organo particolare per il controllo giudiziario delle leggi non servirebbe appunto ad eliminare qualsiasi possibilità di dubbio? E d’altra parte, l’assenza di questo controllo particolare non equivarrebbe a «proclamare – come scrisse Orlando – il governo dispotico di una maggioranza di Assemblea»?

Qui si è a lungo discusso, a proposito del Titolo IV della prima parte della Costituzione, sul cosiddetto diritto di resistenza, e dubbi non infondati furono espressi da parecchi autorevoli colleghi circa l’opportunità di far menzione nella Costituzione di questo principio, accolto da tempo immemorabile nel diritto pubblico di tutti i paesi. Forse è stato un errore l’averlo incluso fra i diritti politici, cioè l’averlo considerato come un diritto di libertà, mentre esso rappresenta piuttosto – come sostengono i cultori di diritto pubblico dal Casanova al Brunialti, per non citare che i più noti – la «guarentigia comune dei diritti di libertà», cioè una garanzia di libertà, una garanzia costituzionale. Il diritto di resistenza, come garanzia dei diritti di libertà, è ammesso fin dalle leggi Valerie, trova posto nella «Magna Charta» britannica e nella «Bulla Aurea» di re Andrea II di Ungheria, rappresenta un principio accettato e difeso da tutti gli scrittori di diritto pubblico in tutti i tempi ed in tutti i Paesi, e soprattutto dai Gesuiti.

Ora, il sindacato giurisdizionale della costituzionalità delle leggi non è che l’espressione giuridica continua di questo diritto di resistenza popolare contro l’onnipotenza parlamentare: ne è una prova, vorrei dire ontogenetica, la storia della Costituzione degli Stati Uniti d’America. La separazione delle Colonie del Nord-America dalla Madre Patria fu l’effetto, come è noto, della resistenza popolare contro una legge votata dal Parlamento inglese, la quale imponeva tributi ritenuti arbitrari, cioè tasse sul commercio interno. Infatti, secondo la dottrina allora vigente, era competente il Parlamento della Madre Patria soltanto per le tasse e i tributi che gravavano sul commercio esterno delle colonie (perché considerati di interesse generale), ma non per i tributi gravanti sul commercio interno, per i quali erano competenti le Assemblee legislative delle colonie: questa fu la tesi che sostenne con tanto calore il Pitt alla Camera dei Comuni. È proprio per queste origini, che nel diritto pubblico americano si affermò fin dall’inizio, come fondamentale, il principio del diritto di resistenza popolare contro l’onnipotenza parlamentare; e l’espressione concreta di questo principio si trova appunto nel controllo giudiziario delle leggi, controllo imposto più dal costume del Paese, che dal testo dell’articolo 6 della Costituzione del 1787. E a questo proposito vorrei che mi fosse consentita una digressione: l’onorevole Einaudi, nel suo intervento nella seduta plenaria della Commissione dei Settantacinque del 1° febbraio ultimo scorso, ebbe ad affermare «improprio» il riferimento così frequente al diritto pubblico americano in questa materia. Egli disse che nella Costituzione degli Stati Uniti d’America non esiste niente che possa giustificare il controllo giudiziario delle leggi, eccetto quelle parole del 1° capoverso dell’articolo 6: «questa Costituzione e le leggi che saranno fatte in sua conformità». Egli disse: «Tutto quello che si è fatto è stata l’opera dei magistrati: sono i magistrati che si sono impadroniti di queste due o tre parole della Costituzione ed in base ad esse hanno elaborato il sistema attuale del controllo giudiziario sulla costituzionalità delle leggi».

Ora, ciò non mi sembra esatto. Anzitutto, secondo l’opinione dei cultori del diritto pubblico americano, la competenza della Corte Suprema federale ad occuparsi della costituzionalità della legge, deriva non tanto dall’articolo 6, quanto dalla seconda sezione dell’articolo 3 della Costituzione, dove si tratta appunto del potere giudiziario, della Corte Suprema federale, e si dice che «esso si estenderà a tutti i casi, in diritto ed equità, che deriveranno da questa Costituzione, dalle leggi degli Stati Uniti, ecc.». Le parole «di questa Costituzione» rappresentano un emendamento aggiuntivo, proposto da William Johnson, ed approvato il 27 agosto 1787 dalla Costituente di Filadelfia, appunto con lo scopo precipuo di confermare questa specifica competenza della Corte suprema federale.

Ma, a parte ciò, è certo che il controllo giudiziario delle leggi era già nella coscienza popolare e che, pertanto, esso deriva più dal costume del paese che dalla lettera della Costituzione. Infatti, i coloni erano già abituati, prima ancora della rivoluzione, a considerare limitati i poteri delle Assemblee legislative. Il controllo giudiziario delle leggi veniva allora esercitato dal Privy Council, che dichiarava invalide le leggi incompatibili con gli Statuti delle colonie e con il Common Law. È certo, infine, che i costituenti del 1787, fin dal primo momento, considerarono come fondamentale per la struttura costituzionale degli Stati Uniti d’America il controllo delle leggi, ciò risulta dalle notizie e dalle indiscrezioni che si ebbero sui lavori dell’Assemblea Costituente del 1787. Come saprete, i lavori dell’Assemblea Costituente non ebbero carattere pubblico, né furono redatti resoconti verbali; non solo, ma sui lavori i costituenti si erano anzi impegnati a mantenere il segreto.

Tuttavia, qualcuno tradì questo segreto. Ciò risulta inoltre dall’interpretazione che della Costituzione diedero gli stessi costituenti. Tre mesi dopo l’approvazione della Costituzione, e cioè nel dicembre 1787, in un discorso alla Convenzione del Delaware per la ratifica, uno dei costituenti, James Wilson, disse queste parole: «Se il Congresso facesse una legge incompatibile con i poteri attribuitigli da questa Costituzione, i giudici dichiarerebbero la legge nulla ed inefficace. Di conseguenza, tutte le leggi del Congresso contrarie alla Costituzione, non avranno forza di legge». E due mesi dopo, il 26 febbraio 1788, un altro costituente, George Bryan scriveva nel The Independent Gazetteer di Filadelfia:

«Se il Congresso fosse disposto a violare gli articoli fondamentali della Costituzione, le sue deliberazioni non produrrebbero nessuna conseguenza, dato che esiste una barriera, cioè la Corte Suprema dell’unione, che ha facoltà di determinare la costituzionalità di qualsiasi legge controversa». Questa fu, possiamo dire, l’interpretazione autentica che della Costituzione diedero gli stessi costituenti. Non mi pare, dunque, esatto che l’elaborazione dell’attuale sistema di controllo sulla costituzionalità delle leggi in America sia stata l’opera arbitraria dei magistrati. Se una clausola specifica non fu inserita nella Costituzione, ciò fu perché questo controllo era nella coscienza di tutti, faceva parte cioè di quel patrimonio comune di principî elementari che, per la loro universalità, non avevano bisogno di essere confermati per iscritto. L’opera dei magistrati, e soprattutto di John Marshall, consistette piuttosto nel rivendicare con estrema energia al potere giudiziario questa facoltà in un particolare momento della vita degli Stati Uniti, quando – essendo al potere gli antifederalisti, con Jefferson alla Presidenza – rischiavano di essere allentati i vincoli che univano gli Stati nella Confederazione.

Riassumendo: non vi sono fondate ragioni per ripudiare il controllo giudiziario della costituzionalità delle leggi; vi sono invece serie e fondate ragioni per ritenere che, come espressione giuridica e civile di un indiscutibile diritto di resistenza popolare contro gli abusi del potere esecutivo, esso rappresenti un mezzo adeguato per la stabilità del regime parlamentare.

Ciò che, piuttosto, è da discutere, è se convenga meglio affidare questo potere ai magistrati ordinari, o ad una corte particolare come quella prevista nel nostro progetto di Costituzione.

L’onorevole Einaudi vorrebbe che questo potere fosse affidato ai magistrati ordinari. La Corte costituzionale, se è, come è nel nostro progetto, espressione dell’Assemblea, può trasformarsi da organo giuridico in organo politico e, anziché servire a tutelare i diritti di libertà del cittadino, può contribuire a violare la Costituzione; può rappresentare cioè lo strumento legale per la violazione della Costituzione, interpretandola secondo le esigenze, le aspirazioni della parte politica dominante, in un determinato momento, nell’Assemblea. In altri termini, piuttosto che tutela sostanziale dei diritti di libertà del cittadino, essa potrebbe essere tutela formale delle esigenze di una determinata corrente politica.

È innegabile che il controllo costituzionale delle leggi conferisca contenuto politico agli atti del potere giudiziario. Del resto, questo lo dimostra anche l’esperienza fatta negli Stati Uniti d’America, dove il contenuto politico degli atti della Corte Suprema federale è stato talvolta così cospicuo, da giustificare l’espressione di «Governo dei giudici», con la quale da taluno è stato definito questo organo particolare della giustizia federale. Ma, è vero che, qualora questo controllo fosse affidato ai magistrati ordinari, i loro atti sarebbero sempre ispirati a criteri giuridici e non politici; che sarebbe eliminato il contenuto politico del controllo di costituzionalità delle leggi?

Onorevoli colleghi, io non lo credo. Il controllo giurisdizionale della costituzionalità delle leggi presuppone sempre – inevitabilmente – una indagine sui principî cui si informa la Costituzione, presuppone cioè la determinazione della realtà delle norme costituzionali. La componente politica nel giudizio di costituzionalità delle leggi mi pare pertanto sia sempre inevitabile, tanto nel caso che il controllo venga affidato a magistrati ordinari, quanto nel caso che esso venga invece affidato ad un collegio particolare, come quello previsto dal nostro progetto di Costituzione.

D’altra parte, come è stato segnalato, se non erro, dall’onorevole Mastrojanni, nonché da altri colleghi nel corso dei lavori della seconda Sottocommissione, l’affidare questo controllo ad un collegio particolare può rappresentare una garanzia per la certezza del diritto. Infatti, qualora questo compito venga affidato alla Magistratura ordinaria, l’eventuale dichiarazione di incostituzionalità di una legge si riferirà esclusivamente alla controversia specifica che ha dato origine alla dichiarazione di invalidità, mentre invece, quando questo compito venga affidato ad un organo particolare, la legge incostituzionale cesserà di aver vigore in tutto il territorio della Repubblica. Non si avrà dunque una giurisprudenza contrastante, non esisteranno dubbi sulla validità della legge, non sarà turbata la tranquillità giuridica dello Stato.

«Il dubbio sulla validità della legge – scrisse Orlando – scuote uno dei principî più essenziali alla tranquillità giuridica dello Stato». Ciò che occorre è conferire ai giudici della Corte costituzionale una indipendenza, un prestigio, una posizione adeguata all’alto compito che viene ad essi affidato.

Negli Stati Uniti d’America i giudici della Corte federale vengono nominati dal Presidente, il quale evidentemente si ispira molto spesso, per ovvie ragioni, a criteri politici nella sua scelta. Eppure, ciò nonostante, sono tali le prerogative sancite dalla Costituzione (inamovibilità, permanenza in carica per tutta la vita, ecc.), che i giudici possono mantenere, e mantengono, la loro indipendenza anche nei confronti di chi li ha nominati. Ed infatti i giudici che al principio del secolo XIX furono nominati da Jefferson, antifederalista, per farne quasi il contrapposto a Marshall, presidente della Corte Suprema Federale, che era accanito federalista, non esitarono a seguire molto spesso le direttive del Marshall contro lo stesso Jefferson che li aveva nominati.

Nel nostro caso, una garanzia di indipendenza si trova, a parer mio, nella lunga durata dell’ufficio prevista dall’articolo 127 del progetto, perché quando la durata dell’ufficio è di nove anni, mentre quella delle Assemblee legislative è di cinque o di sei, in sostanza viene ad essere evitato il pericolo della soggezione verso la maggioranza dell’Assemblea legislativa, e quindi del conformismo, da parte dei giudici eletti a quella carica dalla stessa Assemblea.

Tuttavia, per maggiore garanzia, io penso che non sarebbe mal fatto se si stabilisse il principio della non rieleggibilità dei giudici della Corte. Il desiderio, più che legittimo e naturale, di essere rieletti allo scadere dei nove anni, potrebbe indurre i giudici della Corte al conformismo, alla soggezione verso partiti politici dominanti in un determinato periodo nell’Assemblea o nel Paese; mentre la nozione che allo scadere dei nove anni, comunque e in ogni caso, cessa l’ufficio ricoperto, può renderli più autonomi, più indipendenti nelle loro funzioni.

Si può obiettare: ma così si verrebbe a privare il Paese dei servizi di persone – magistrati o avvocati o docenti di diritto – che hanno dimostrato di saperlo utilmente servire e che potrebbero ancora continuare a servirlo utilmente. Si può ricordare che negli Stati Uniti d’America si sono avuti casi di permanenza per lunghissimi periodi nella carica di giudice costituzionale (il Marshall, se non erro, stette in carica quasi 35 anni). Ma, anzitutto, negli Stati Uniti d’America i giudici della Corte Suprema federale vengono nominati a vita; e poi non mi sembra che in un paese di 46 milioni di abitanti come il nostro, sempre così ricco di magistrati e di cultori del diritto di eccezionale valore, possa rappresentare un serio inconveniente la sostituzione di poche persone nella carica di giudice costituzionale.

Di modo che il principio del controllo costituzionale delle leggi, da affidarsi ad una Corte particolare, ci trova in massima favorevoli; tanto più che esso, come ho detto, è una conseguenza necessaria della rigidità della Costituzione, alla quale rigidità noi liberali siamo pure favorevoli. Dire che questa Costituzione sia tale da soddisfare le aspirazioni liberali, non sarebbe dire cosa esatta. Troppo spesso noi ci siamo trovati in disaccordo con la maggioranza di questa Assemblea, soprattutto a proposito della prima parte del progetto, dove sono formulati principî da noi magari accettabili come tali, ma non accettabili sotto l’aspetto di norme giuridiche vincolative per lo Stato. E tuttavia, non ostante tutto quello che questa Costituzione possa contenere di non gradito per noi, noi desideriamo che essa viva, e che viva nei secoli; noi desideriamo che essa possa rappresentare un’efficiente barriera contro ogni nuovo eventuale attentato alle pubbliche libertà. La Costituzione che noi avevamo prima del fascismo apparteneva al tipo di quelle che si dicono elastiche o flessibili: poteva essere modificata con la normale procedura legislativa del Parlamento. E fu assai spesso modificata, non ostante essa fosse stata proclamata «legge fondamentale perpetua e irrevocabile dello Stato». Per questo suo carattere di flessibilità essa non rappresentò un serio ostacolo contro tutte quelle innovazioni, che a poco a poco portarono alla completa soppressione delle libertà del cittadino. Perciò, se pure da un punto di vista teorico, si potrebbe sostenere che noi liberali dovremmo essere più favorevoli ad una Costituzione di tipo elastico, la recente esperienza ci induce a schierarci decisamente in favore di una Costituzione di tipo rigido; tanto più che non è possibile evitare il sospetto che pericoli di nuove violazioni dell’ordinamento costituzionale possano sorgere soprattutto in un Paese, come il nostro, uscito appena, si può dire, da una guerra disastrosa e così agitato da contrastanti passioni. Se, per esempio, fosse vero quello che di questi giorni si dice e cui si accennava ieri in un giornale del pomeriggio (La Repubblica), che cioè alcuni colleghi nostri si propongono, in sede di compilazione della legge elettorale per il Senato, di introdurre con un artificio il sistema proporzionale, che è stato già respinto dall’Assemblea Costituente, non dovremmo noi vedere in questo un indizio di una naturale, involontaria, incosciente disposizione, che è in noi fin da ora, di violare questa carta costituzionale che così faticosamente siamo venuti elaborando?

Occorre poi aggiungere che l’esistenza di una Corte costituzionale per il controllo giurisdizionale delle leggi è resa inevitabile dall’ordinamento regionalistico che abbiamo adottato. Contrasti inevitabilmente sorgeranno fra gli organi politici centrali e quelli decentrati; e un equilibrio, una armonia del sistema statale non potranno essere assicurati senza l’esistenza di un sindacato imparziale, cioè di un controllo giurisdizionale.

Detto ciò, vorrei che mi fosse consentito di fare alcune brevi osservazioni di dettaglio sul titolo VI della seconda parte del progetto. Esso è diviso in due sezioni: la «Corte costituzionale» e la «revisione della Costituzione». E allora perché denominarlo «Garanzie costituzionali»? La seconda sezione non rappresenta qui evidentemente un istituto di garanzia, e d’altra parte la Corte costituzionale non rappresenta la sola garanzia della Costituzione.

È superfluo dire quello cui è stato accennato da autorevoli colleghi in parecchie occasioni: la migliore e più vera garanzia non deriverà dall’esistenza di una Corte costituzionale, e nemmeno dal carattere rigido della Costituzione, ma piuttosto dalla sua adeguatezza al modo di essere, alla struttura sociale e politica del popolo.

È stato ricordato dall’onorevole Orlando che nel Paese più ligio alle norme costituzionali, l’Inghilterra, una Costituzione scritta nemmeno esiste. È il diritto consuetudinario che rappresenta la base ed il fondamento del diritto pubblico, la garanzia è nella tradizione. Il Common Law è scritto solo in parte, in gran parte è ammesso invece per adattamento, senza nessuna garanzia esterna coattiva. Eppure la sua forza è così grande, da assicurare veramente la stabilità ideale delle istituzioni giuridiche. In nessun posto, per esempio, si trovano scritte norme che prescrivano l’ordinamento bicamerale, la convocazione annuale del Parlamento, la prerogativa reale nella organizzazione dell’esercito, il carattere pubblico delle tornate del Parlamento: è la tradizione, è il costume che ha creato tutto ciò. Il costume è la migliore garanzia.

Ma, a parte questo, non meritano forse di essere considerate come attività di garanzia costituzionale quelle previste dall’articolo 117 di questo nostro progetto. Lo scioglimento del Consiglio regionale che compia atti contrari all’unità della Nazione, o altre gravi violazioni di legge? Non rappresenta una garanzia costituzionale quel diritto di resistenza che, come ho detto, a torto era stato incluso nel Titolo dei diritti politici, perché più che un diritto di libertà esso rappresenta la sanzione di essa? Di modo che, la Corte costituzionale non è la sola garanzia e una garanzia non è la seconda sezione (la revisione della Costituzione).

Più logico mi sembrerebbe denominare questo titolo: Garanzie giurisdizionali e revisione della Costituzione. È quello che ho appunto proposto con un mio emendamento. Se vogliamo che la Corte costituzionale rappresenti veramente un serio istituto di garanzia, dobbiamo fare in modo che essa sia un organo giuridico, non un organo politico; dobbiamo fare in modo che le sue sentenze abbiano davvero virtù di persuasione, e non siano invece – come teme Luigi Einaudi – «lievito di discordie civili». Perché, se la Corte costituzionale dovesse invadere il campo politico nella interpretazione di certe norme, spesso anche troppo elastiche, di questa nostra Carta costituzionale, o se dovesse addirittura assumere il compito di giudicare anche dell’opportunità delle leggi (come è avvenuto, per esempio, negli Stati Uniti d’America), allora noi avremmo davvero nella Corte, anziché una ragione di tranquillità, una ragione di preoccupazione e di perenne discordia.

Deve essere dunque un organo giuridico e non politico. Cioè, il controllo giudiziario deve esercitarsi esclusivamente quando la violazione di una norma costituzionale sia positivamente accertata. È questo il concetto al quale si ispirò il Marshall, ed egli, nel suo lunghissimo periodo di presidenza della Corte federale, in un caso solo dichiarò incostituzionale una legge del Congresso. E bisogna evitare altresì quei concetti giusnaturalistici che sono assai pericolosi nella determinazione dei rapporti fra l’individuo e lo Stato o fra le Regioni e lo Stato.

Il controllo giudiziario delle leggi presuppone una duplice interpretazione: quella della Costituzione e quella delle leggi.

Ora, se la Corte si attribuisse il compito di intervenire nella interpretazione di quelle norme a confini elastici, suscettibili di pluralità di soluzioni e di realizzazioni, evidentemente essa invaderebbe il campo che è riservato al Parlamento, cioè si trasformerebbe da organo giuridico in organo politico.

È questo un pericolo che è stato prospettato, se non ricordo male, dall’onorevole Benvenuti a proposito della discussione dell’ultimo comma dell’articolo 31 del nostro progetto di Costituzione, là dove era affermato che l’esercizio di un’attività la quale concorra al progresso materiale o spirituale della Nazione è condizione essenziale per l’esercizio dei diritti politici.

Orbene, per evitare questo, occorrerebbe che la Costituzione dettasse già le norme per la interpretazione delle proprie disposizioni, sottolineando l’importanza delle norme fondamentali da cui è caratterizzato il regime dello Stato, così come il Codice civile detta le norme per la interpretazione delle leggi. Ciò sarebbe tanto più necessario, io penso, in quanto molto spesso nella elaborazione di questa Carta costituzionale si è cercato di obbedire a quella tale esigenza napoleonica rammentata dall’onorevole Calamandrei nel suo memorabile discorso. Napoleone in verità voleva che la Costituzione non fosse solamente oscura, ma anche breve: courte et obscure. Noi non abbiamo potuto farla breve, ma non abbiamo certo mancato di farla oscura.

È la mancata comprensione di questo compito esclusivamente giuridico che ha portato, in altri paesi, all’attribuzione di poteri non giuridici, ma politici alla Corte costituzionale. E quando questo accade, quando cioè il potere giudiziario si attribuisce compiti politici, come diceva il Guizot, la politica non ha niente da guadagnare e la giustizia ha tutto da perdere.

Ecco perché mi son permesso di proporre il seguente emendamento aggiuntivo (l’articolo 126-bis):

«La Corte non potrà pronunciarsi sulla validità degli atti legislativi e dei decreti, se non in relazione a quelle norme costituzionali, la cui interpretazione non giustifichi una pluralità di soluzioni, una delle quali sia stata adottata dal Parlamento o dal Governo. Essa si asterrà parimenti, nelle sue decisioni, dal pronunciarsi su questioni che implichino una valutazione dell’opportunità dei suddetti atti».

Credo che questa norma risponda a una esigenza effettiva, avvertita già da autorevoli colleghi. Ho visto, per esempio, che l’onorevole Calamandrei nella riunione della seconda Sottocommissione del 14 gennaio sottolineò, in un suo notevole intervento, la necessità di vedere «come togliere o attenuare il carattere politico del controllo, come smorzare questa eccessiva ingerenza politica del giudice».

Dobbiamo tuttavia tenere presente che, per quanto limitato, la Corte costituzionale avrà sempre un compito politico. I suoi atti avranno sempre un, se pur limitato, contenuto politico. Se noi vogliamo che sia davvero efficiente la garanzia offerta dall’organo giurisdizionale, dobbiamo fare in modo che non sia possibile mantenere in vita una legge già dichiarata incostituzionale dalla Corte.

E qui viene in discussione il procedimento di revisione della Costituzione: perché, presupposto per l’efficienza della Corte costituzionale è che non sia possibile approvare leggi costituzionali se non attraverso una procedura complicata. Altrimenti il Parlamento potrebbe superare il contrasto con l’organo giudiziario approvando come legge costituzionale la legge eventualmente dichiarata invalida dalla Corte. Ma vi è un altro mezzo con il quale il Parlamento potrebbe mantenere in vita una legge incostituzionale e risolvere a proprio vantaggio il conflitto eventuale con la Corte. Il Parlamento potrebbe aumentare il numero dei giudici e nominare a quel posto persone fedeli a una determinata politica. E questo è già avvenuto del resto anche negli Stati Uniti d’America: i giudici della Corte suprema federale erano sei, poi diventarono sette nel 1807, poi diventarono nove nel 1837.

In due occasioni, nei famosi Legal tender cases e nel contrasto, non meno famoso, fra Roosevelt e la Corte Suprema federale all’epoca del New-Deal, fu appunto la nomina di nuovi giudici che servì a definire il conflitto, cioè a determinare la maggioranza a favore dell’organo legislativo. Di modo che mi sembra inopportuno, anzi pericoloso, demandare alla legislazione ordinaria, così come fa il nostro progetto di Costituzione all’articolo 129, il compito di determinare il numero dei giudici. Mi sembra assolutamente indispensabile che il numero dei giudici sia già fissato nella Costituzione. Ora, per quanto si riferisce alla composizione della Corte, l’articolo 127 già precisa che la Corte sarà composta per metà di magistrati, per un quarto di avvocati e docenti di diritto, per un quarto di cittadini eleggibili a ufficio politico. In tal modo la Corte verrebbe ad essere composta di un numero pari, mentre a me sembra opportuno che sia composta di un numero dispari di giudici. Inoltre, io vorrei proporre di diminuire un po’ il numero degli elementi politici, appunto per accentuare ancor più il carattere giuridico e non politico della Corte. Io oserei proporre che la Corte fosse composta di sette magistrati, cinque avvocati docenti di diritto e tre cittadini eleggibili ad ufficio politico.

Veniamo ora al funzionamento della Corte. Per quanto riguarda il funzionamento, mentre il compito di disciplinarlo è demandato alla legislazione ordinaria, il progetto già prevede all’articolo 128 che una legge dichiarata invalida cessa di avere efficacia. Si tratta dunque dell’annullamento ex nunc: alla legge sorta viziata è riconosciuta efficacia e validità fino al momento dell’annullamento. Ed allora bisogna porsi un quesito: nel caso in cui la dichiarazione di incostituzionalità consegua dal deferimento della questione alla Corte costituzionale, da parte della Magistratura ordinaria così come è previsto dal primo comma dell’articolo 128, la legge invalida si applica o non si applica alla controversia? Credo che la risposta dovrebbe essere negativa. Dovrebbe essere ovvio che quella legge non si applica alla controversia. Ma ad ogni modo non è inutile prospettarsi questo quesito, perché la legge dichiarata incostituzionale cessa di avere efficacia dal momento della pubblicazione della sentenza, la controversia che ha promosso la dichiarazione di incostituzionalità è sorta invece nel periodo di vigenza della legge.

Io ho presentato un emendamento aggiuntivo allo scopo di chiarire con una norma espressa questo punto. Vedranno gli illustri giuristi del Comitato di coordinamento se sia il caso di accoglierlo o se può essere considerato superfluo.

Ed un’altra parola vorrei dire a proposito di un altro emendamento aggiuntivo che ho presentato. Il controllo giudiziario delle leggi si estende pure a quelle approvate eventualmente mediante referendum popolare? Io non credo che dovrebbe essere così: il referendum già rappresenta di per se stesso un istituto di garanzia; a parte ciò, poiché il compito della Corte è quello di garantire, nella organizzazione costituzionale di una democrazia indiretta, l’organo delegante, cioè il popolo, contro gli eccessi di poteri dell’organo delegato, cioè del Parlamento, non si comprende come possa esercitarsi questo controllo nei confronti di un tipico istituto di democrazia diretta, qual è il referendum popolare. Tuttavia, allo scopo di chiarire questo punto io ho presentato un emendamento aggiuntivo, e non penso che, dopo tutto, una breve norma, inserita dopo l’articolo 129, sarebbe troppo dannosa per l’economia di questa legge.

Io ho già detto, anche troppo a lungo, che il controllo giudiziario delle leggi è una conseguenza necessaria della rigidità della Costituzione. Vorrei ora aggiungere che l’efficacia, l’utilità del controllo giudiziario non può non variare nello stesso senso (per usare una espressione matematica) della rigidità della Costituzione. In altri termini, quanto più una Costituzione è rigida, tanto più efficiente ed utile risulterà il controllo giudiziario delle leggi.

Ed infatti, come poc’anzi accennavo, l’utilità, l’efficacia della Corte costituzionale – del controllo giudiziario, diciamo meglio in senso lato, della costituzionalità delle leggi – sta nella circostanza che per l’approvazione di leggi costituzionali è necessario o l’intervento di un organo straordinario o l’intervento di una procedura straordinaria particolarmente complicata. Ché, altrimenti, se potesse essere con facilità modificata la Costituzione, il Parlamento potrebbe superare facilmente il dissidio con la Corte modificando la parte della Costituzione che è in contrasto con la legge dichiarata incostituzionale. E questo è avvenuto talvolta perfino negli Stati Uniti di America, dove pure il procedimento di revisione della Costituzione è abbastanza complicato.

Se nella Svizzera il controllo giudiziario della legge non ha avuto uno sviluppo sufficiente (in Svizzera possono essere dichiarate invalide soltanto le leggi delle Assemblee cantonali, ma non quelle dell’Assemblea federale) ciò si deve proprio al fatto che quella Costituzione può essere emendata con grande facilità.

Infatti, in circa 50 anni la Costituzione Svizzera fu modificata ben 25 volte.

Di modo che occorre porsi questo quesito: la nostra Costituzione è davvero una Costituzione rigida? Il procedimento di revisione costituzionale è sufficientemente complicato? Ora, io condivido pienamente la preoccupazione dell’onorevole Relatore che un procedimento troppo complicato di revisione costituzionale non abbia «ad ostacolare il cammino ad un completamento dell’edificio costituzionale». Una Costituzione non può essere evidentemente un’arca santa, da fulminare chiunque la tocchi. Una Costituzione deve essere vitale; ma come ogni essere vivente non può non essere, pure, al tempo stesso, mortale. Essa risulterà adeguata alla struttura sociale e politica di un popolo in un determinato momento; può risultare inadeguata in un altro momento. È dunque necessario che essa sia modificabile, se si vuole che col mutare dei tempi non tutto di essa perisca. Ma ciò che altresì mi preoccupa è che un procedimento troppo semplice di revisione costituzionale può frustrare quella garanzia che è offerta dall’esistenza di una Corte costituzionale. Non si potrebbe, ad esempio, far sì che una legge di revisione, la quale sia ispirata o promossa da una dichiarazione di incostituzionalità pronunciata dalla Corte, debba essere in ogni caso sottoposta a referendum popolare? Non presento emendamenti: sottopongo questo suggerimento al giudizio del Comitato di coordinamento.

Se nel caso specifico le difficoltà saranno accresciute, ancor più lodevole apparirà ai miei occhi la disposizione dell’ultimo comma dell’articolo 128, in base alla quale la decisione della Corte costituzionale, che abbia dichiarato incostituzionale una legge, deve essere immediatamente comunicata al Parlamento perché provveda nelle forme costituzionali. Questa disposizione avrà allora davvero un solo significato: deferire all’organo competente il compito di eliminare il vuoto che si presenta – nella disciplina giuridica di una determinata materia – in seguito all’annullamento ex nunc di una legge. Tale disposizione sottolineerà, allora, io penso, quella che è l’opinione comune di tutti i membri di questa Assemblea, che cioè la Corte costituzionale debba essere un organo prevalentemente, seppure non esclusivamente, giuridico. Se questo sarà il carattere vero della Corte, se essa funzionerà come noi immaginiamo che debba funzionare, allora io penso, onorevoli colleghi, che potrà realizzarsi nel nostro Paese quanto James Harrington auspicava già nel 1656: «un Governo che sia imperio delle leggi e non imperio degli uomini». (Vivi applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 11. Avverto che vi sarà seduta anche nel pomeriggio, alle 16, sempre per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Ministro di grazia e giustizia, per conoscere per quali ragioni, malgrado le ripetute segnalazioni e sollecitazioni, non si è provveduto a fornire la Corte di appello ed il Tribunale di Catanzaro dei magistrati indispensabili al loro funzionamento.

«Lucifero».

«Al Ministro degli affari esteri, per sapere se gli risulta l’avvenuta fucilazione in Albania del giovane tecnico italiano Paolo Saggiotti, accusato di sabotaggio, e se, data la gravissima situazione degli italiani rimasti ancora in quel Paese (si tratta di circa 750 persone, di cui oltre un centinaio in stato di detenzione) non ravvisa l’opportunità di un pronto intervento, nelle formeche saranno giudicate possibili ed opportune, nell’intento di conseguire la liberazione dei detenuti ed il ritorno in patria di tutti gli italiani rimasti in Albania a seguito dell’accordo negoziato e concluso nel marzo 1945 dall’onorevole Palermo.

«Quest’accordo prevedeva la permanenza in Albania di alcune categorie di personale specializzato, per un periodo che si presume sia stato lungamente sorpassato.

«Di Fausto».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro di grazia e giustizia, per conoscere gli intendimenti del Governo circa il blocco degli affitti.

«Lami Starnuti».

Interesserò i Ministri competenti affinché facciano sapere al più presto quando intendano rispondere a queste interrogazioni.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

RICCIO, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri del lavoro e previdenza sociale e dell’agricoltura e foreste, per conoscere e far conoscere i criteri coi quali vengono determinati i contributi uniti per i lavoratori dell’agricoltura, tanto quelli ordinari che quelli supplementari, e le ragioni per le quali molti piccoli proprietari, che sono lavoratori come gli altri, sono chiamati a pagarli senza essere ammessi a beneficiarne.

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere i provvedimenti presi nella provincia di Bologna contro attività terroristiche, svolte da persone armate – che, per il buon nome del nostro Paese, è augurabile non appartengano a nessun partito politico – le quali hanno invaso nella sera dell’8 novembre 1947 la sede dell’Enal in Crocetta (Medicina) ferendo gravemente due persone – fra cui Alfredo Buttazzi combattente e partigiano delle brigate Matteotti – in offesa al diritto comune ed in spregio delle tradizioni democratiche e socialiste di Bologna.

«Zanardi».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non crede opportuno ristabilire la norma, già vigente antecedentemente al regime fascista, che considerava, agli effetti della pensione per gli impiegati statali muniti di laurea o titolo equipollente, gli anni di università o di istituto superiore, che venivano così accumulati agli anni di effettivo servizio prestato.

«Ciò evidentemente servirebbe sempre a migliorare intellettualmente la burocrazia statale e ad invogliare ottimi elementi a partecipare ai concorsi per il personale banditi dalle varie Amministrazioni dello Stato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Chiaramello».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se è a conoscenza del vivissimo malumore che serpeggia in mezzo ai funzionari di pubblica sicurezza di grado inferiore all’VIII, i quali, soli fra tutti gli impiegati statali, sono ancora obbligati a sostenere gli esami di idoneità per la promozione al grado di commissario di pubblica sicurezza (VIII). Da tali esami sono stati recentemente esonerati i pari grado del ruolo ufficiali di pubblica sicurezza per i quali, fra l’altro, non è richiesta, ai fini dell’ammissione nell’Amministrazione della pubblica sicurezza, la laurea; titolo, questo, indispensabile, invece, per i funzionari. Inutile fare presente che, dato l’attuale momento, che richiede l’impiego (eccezionale per durata e pesantezza) dei funzionari di pubblica sicurezza in servizi continuativi di ordine pubblico, i funzionari stessi non hanno il tempo necessario per un’adeguata preparazione. Conseguenza logica: gli esami o saranno una burletta o ritarderanno ancora la troppo lenta carriera dei funzionari di pubblica sicurezza. Tali esami, che si prevedono in dicembre, sono stati banditi col decreto del Ministro dell’interno, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 11 del 30 maggio 1947. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bruni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere le ragioni per le quali agli operai collocati in pensione nella città di Isola Liri (Frosinone):

  1. a) viene dagli uffici postali, nel corrispondere la pensione, fatta una ritenuta di lire 300 per ogni pensionato;
  2. b) a quelli di età inferiore ai 65 anni viene corrisposto un assegno di contingenza inferiore;
  3. c) non è stato dato il premio della Repubblica;
  4. d) vengono esclusi da tutte le opere di assistenza e beneficenza che la Cassa mutua malattia svolge a favore dei lavoratori. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se non intenda ripristinare la vendita dei biglietti di seconda classe sui treni rapidi da Caserta (capoluogo di provincia) a Roma, essendo il rapido l’unica comunicazione diurna (a meno di prendere l’interminabile via di Cassino) tra le due città, e non essendo possibile alla maggioranza dei ceti popolari e medi acquistare il biglietto di prima classe, o recarsi in una stazione intermedia tra Napoli e Caserta per prendere il biglietto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Persico».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’agricoltura e delle foreste, per sapere in virtù di quali considerazioni, in spregio alle disposizioni contenute nell’articolo 49 del testo unico della legge sulla caccia, sia stata nuovamente autorizzata la riserva di caccia della zona boschiva denominata «Pioppe» in territorio di Vigevano.

«L’interrogante fa presente che l’illegale autorizzazione ha provocato la legittima reazione da parte dei liberi cacciatori di Vigevano, i quali si vedono privati di una delle già scarse zone di libera caccia ed ha indotto il prefetto di Pavia a emanare una temporanea disposizione di divieto di caccia, tanto libera che riservata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pistoia».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se intenda consentire ai viaggiatori muniti dei biglietti di seconda classe il viaggio sull’automotrice Potenza-Roma e ciò in vista della mancanza di altri agevoli mezzi di comunicazione. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Pignatari».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere le ragioni per le quali il professore Enrico Garaffa, ordinario di disegno, appartenente al ruolo A, col grado 7°, proveniente dalla soppressa sezione fisico-matematica degli Istituti tecnici superiori, vincitore di ben 7 concorsi (dei quali 3 speciali) per ogni tipo e ordine di scuole secondarie, sia condannato da anni a prestare servizio nella scuola media inferiore, annessa all’istituto tecnico «Giambattista della Porta» di Napoli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Crispo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se e quali provvedimenti intenda promuovere, perché si addivenga ad una ricomposizione delle attuali Deputazioni provinciali, che furono formate in base ad un criterio di rappresentanza proporzionale dei sei Partiti partecipanti ai Comitati di liberazione e più non rispondono alla mutata fisonomia e consistenza dei Partiti stessi, nonché all’attuale situazione politica nazionale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per sapere se non ritenga opportuno promuovere l’abrogazione o almeno la modifica dell’articolo 4 del decreto legislativo luogotenenziale 16 novembre 1944, n. 425, che concede il diritto di reintegra ai soci assegnatari di cooperative edilizie a contributo erariale, dichiarati decaduti ai sensi dell’articolo 2 del regio decreto-legge 29 luglio 1927, anche nel caso che il socio, cui successivamente fu fatta l’assegnazione, abbia stipulato od eventualmente riscattato il mutuo edilizio individuale.

«Tale concessione, invero, è in aperto contrasto con gli articoli 139 e 229 del testo unico 28 aprile 1938, n. 1165, a norma dei quali i soci acquistano irrevocabilmente la proprietà dell’alloggio con la stipulazione del contratto di mutuo individuale.

«Che anzi la disposizione che si deplora va oltre i limiti fissati dal citato articolo 2 del regio decreto-legge del 1927, secondo il quale la dichiarazione di decadenza doveva arrestarsi di fronte alla stipulazione del mutuo edilizio individuale. Quanto sia necessario riparare ad una così evidente violazione del diritto di proprietà non è chi non veda. Ed è appena il caso di rilevare che la disposizione dell’articolo 5 del decreto legislativo luogotenenziale 16 novembre 1944, n. 425, è praticamente inattuabile, per la mancanza di alloggi disponibili, onde per non lasciare indefinitamente sospeso il diritto di chi ha già ottenuto l’assegnazione definitiva, sarebbe preferibile che i nuovi alloggi fossero messi a disposizione di coloro che chiedono la reintegra. Ed occorrerebbe altresì precisare che in nessun caso l’assegnatario proprietario può essere obbligato a lasciare l’alloggio prima che venga soddisfatto ai sensi del citato articolo 5. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei trasporti, per sapere se, di fronte ai frequenti gravi disastri automobilistici (fra i recenti, quello di Positano, in provincia di Salerno), cagionati per la maggior parte da imperizia o imprudenza dei conducenti, non ritenga opportuno promuovere un provvedimento legislativo che prescriva, per il conseguimento delle patenti di abilitazione alla guida di autoveicoli di secondo e di terzo grado, preventivi diligenti accertamenti sanitari di ufficio ed indagini accurate sui precedenti morali degli aspiranti alle patenti stesse, con la revisione altresì di quelle già concesse.

«Non si comprende, invero, come il rigore col quale vengono abilitati i conducenti di locomobili a vapore o elettrici, viaggianti su rotaie, non debba estendersi ai conducenti di autoveicoli, la cui guida su strade trafficate è tanto più delicata e pericolosa. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se, nell’interesse della città di Amalfi, la cui vita presente e futura è ancorata precipuamente allo sviluppo del turismo locale, che costituisce altresì una notevole fonte di lavoro per gli amalfitani, ed a seguito delle proteste sollevate da quella Amministrazione comunale, da enti e da cittadini, in ordine alla recente destinazione del Palazzo Bergamasco, non ritenga opportuno promuovere un provvedimento legislativo, che dichiari riservata a scopi turistici tutta la zona del Lungomare dei Cavalieri della detta città. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rescigno».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se non creda equo estendere anche al personale dei Provveditorati agli studi i vantaggi dei ruoli aperti, già accordati al personale insegnante e direttivo delle scuole elementari, a quello delle scuole medie e a quello delle biblioteche e dei convitti nazionali. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Montemartini».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere quando intende dare corso al provvedimento che ripristina la pretura di Polistena, centro popoloso e importantissimo della piana di Palmi di Reggio Calabria; provvedimento atteso da molto tempo e la cui adozione sanerebbe una ingiustizia perpetrata dal defunto regime.

«È opportuno tener presente che in Polistena esistono locali adatti, ove funziona una sezione staccata, che però non corrisponde alle esigenze giudiziarie del mandamento, centro agricolo e commerciale di grande rilievo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Priolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere con quali criteri furono assegnati i 20 miliardi, messi a disposizione delle «Provvidenze per agevolare la ripresa delle costruzioni edilizie» (decreto legislativo 8 maggio 1947) ed a quali enti ed in quale misura per ciascuno le assegnazioni vennero fatte. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Chiaramello».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 19.40.

Ordine del giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXVI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Macrelli

Murgia

Sardiello

La seduta comincia alle 11.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, grave e delicato è il problema che l’Assemblea costituente affronta in questi giorni; problema politico e morale insieme, la cui soluzione inciderà profondamente nella vita del nostro Paese e soprattutto delle libere istituzioni repubblicane.

Molti colleghi autorevoli hanno già parlato dinanzi a voi; altri parleranno ancora, con maggiore competenza di me. Così che, solo per debito di coscienza e per un impegno d’onore assunto davanti ai magistrati, coi quali io ho, si può dire, come molti di voi, consuetudine di vita e di attività quotidiana, esprimerò il mio pensiero, facendo una rapida corsa attraverso gli articoli del progetto di Costituzione.

Veramente significative sono le lapidarie affermazioni dell’articolo 94: esse dovranno costituire non soltanto per i magistrati, ma anche per tutto il popolo italiano, sorto a libertà attraverso la Repubblica, la nuova concezione che si ha della giustizia.

Ho i miei dubbi sul capoverso dell’articolo 94, là dove si dice che «I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete». Mi sembra che questa sia una limitazione ai diritti dei cittadini e a quei principi di libertà che noi abbiamo già consacrati nella Carta costituzionale. Penso che questa affermazione potrà far parte di un altro corpo di leggi, quello che regolerà, ad esempio, l’ordinamento giudiziario; comunque vorrei che l’Assemblea non dimenticasse quello che è stato il risultato di un referendum svoltosi fra i magistrati italiani: la stragrande maggioranza dei giudici si è manifestata contraria all’iscrizione nei partiti politici.

Articolo 95. Confesso che io avrei preferito attribuire alla Magistratura ordinaria tutta la funzione giurisdizionale in ogni materia: civile, penale, amministrativa, creando magari sezioni apposite con elementi tecnici. Ma il tema è troppo vasto e porterebbe forse a sconvolgere tutto il nostro ordinamento giurisdizionale. Se ne potrà parlare in altra sede e in altro momento.

Approvo in pieno, invece, l’articolo 96, che afferma il seguente principio: «Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’Assise». Io ho ascoltato con profonda meraviglia e, vorrei aggiungere, anche con un certo senso di amarezza le parole che si sono pronunciate in quest’Aula, soprattutto (strano) da parte di valorosi colleghi penalisti che hanno – come, sia pure più modestamente s’intende, chi parla – affrontato le belle e difficili battaglie nelle aule delle Corti d’Assise. È stata proprio la crociata contro la giuria popolare. Parole aspre sono state dette, e penso che gli stessi sentimenti che oggi muovono me a parlare in favore della Corte d’Assise, abbiano un po’ agitato anche la coscienza del popolo italiano, il quale, squisitamente classico, ha avuto sempre, e credo mantenga ancora vivi, il culto ed il gusto dell’eloquenza.

Certi nomi non si dimenticano. Non c’è bisogno di risalire lontano nel tempo, onorevoli colleghi; restiamo pure nella nostra epoca. I nomi di Gaetano Manfredi, di Francesco Rubichi, di Gennaro Marciano, di Arturo Vecchini, di Genunzio Bentini, e, aggiungiamo alla schiera dei morti anche qualcuno dei viventi: di Enrico De Nicola, di Giovanni Porzio, sono ancora incisi nel ricordo, e l’eco della loro splendente oratoria rimane ancora, si può dire, nelle aule giudiziarie d’Italia. Non è facile cancellarla. E si dimentica che la giuria popolare, affermatasi nella lontana legislazione e nella coscienza del popolo britannico, trovò la sua consacrazione durante il periodo eroico della Rivoluzione francese; quella rivoluzione che proclamò per prima i diritti dell’uomo. Basti ricordare il decreto 30 aprile 1790, che istituiva la giuria popolare, trasfuso poi nella Costituzione del 3-14 settembre 1791. E tutte le legislazioni degli Stati, particolarmente di quelli retti a regime democratico, accettarono il principio. La ventata fascista in Italia, sconvolgendo il nostro ordinamento giudiziario, cancellò poi la giuria popolare, creando quell’istituto ibrido dell’assessorato, che è estraneo alla nostra concezione giuridica e alla nostra tradizione. Si è detto da qualcuno che i magistrati sono i meno idonei, per una sorta di deformazione professionale, a intendere e a valutare l’aspetto umano e morale dei casi portati al loro esame e più propensi a ricondurli negli schemi rigidi ed astratti della giuridicità. Io dico soltanto che, se nella nuova Repubblica si vuol dare una nuova educazione al popolo italiano, bisogna avvicinarlo a tutti gli istituti ed anche a quelli perciò che riguardano l’amministrazione della giustizia. Si è parlato di sentenze suicide; si è rievocato ancora una volta il caso Olivo: pare strano, ma tutti quelli che elevano un atto di accusa contro la Corte di Assise, dimenticano che la responsabilità per questi fatti risale, non alla giuria popolare ma ad altri. Ed allora voi vedete, o signori, che l’osservazione ha un valore relativo. Bisogna rendere la giustizia aderente alla realtà, e soprattutto alle nuove concezioni della vita politica e morale del nostro Paese. In questi giorni, al Congresso forense di Firenze, si è dibattuto questo problema ed ho sentito parlare di un duello oratorio fra Adelmo Nicolai e Giovanni Porzio: il primo favorevole, il secondo contrario alla giuria popolare. Duello magnifico, immagino: noi conosciamo ed ammiriamo l’ingegno e la duttilità del pensiero dell’uno e dell’altro.

Il congresso di Firenze ha però votato un ordine del giorno al quale noi della Costituente dovremo ispirare le nostre deliberazioni: ha riaffermato il principio di una maggiore adesione della volontà popolare alle più gravi decisioni giudiziarie penali. Noi accettiamo il voto che è venuto dal congresso di Firenze: là era rappresentata la classe forense che conosce le lotte, le battaglie, le amarezze di quella che è la funzione altissima e dell’avvocato e del magistrato. E quel voto penso che noi dovremo fare nostro. (Approvazioni).

Passiamo all’articolo 97, il quale parla dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura, che definisce «ordine» e non «potere». Del «potere» si parla soltanto nella relazione del Presidente della Commissione; ma nel progetto questa parola è accuratamente evitata.

Senza ritornare alla classica divisione del Montesquieu, senza riferirci a degli schemi ormai accettati, io penso che sarebbe stato opportuno parlare ancora una volta di «potere», tanto più che lo Statuto albertino parlava di «ordine» ed è strano che noi nella Costituzione repubblicana ripetiamo lo stesso errore, mentre tutte le Costituzioni, le libere Costituzioni dei popoli liberi, parlano di un potere giudiziario.

Comunque, non mi preoccupo dei due nomi che, intendiamoci, non sono sinonimi. Sono fra loro, non dico in antitesi, in contrasto, ma certo non hanno uguaglianza di significato, né possono averla. Per noi l’importante è che la Magistratura abbia la sua autonomia.

Anche questa parola ha spaventato un po’, perché si è detto che autonomia significa «autogoverno», «uno Stato nello Stato», «la Magistratura avulsa dalla vita nazionale». Parole grosse, che nascondono delle piccole preoccupazioni, non aderenti alla realtà della vita.

Recentemente, in una rivista di classe inspirata a sensi dì profonda comprensione democratica dei diritti e dei doveri della Magistratura, leggevo che il problema della libertà nello Stato democratico moderno non si esaurisce nella partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, nel riconoscimento dei valori eterni ed inalienabili della personalità umana e dei diritti ad essa inerenti e nella conquista della libertà politica; ma trova più saliente espressione nella garanzia che la libertà civile sia concretamente rispettata contro qualsiasi invadenza e che tutti, cittadini e organi della pubblica autorità, siano soggetti costantemente all’osservanza della legge. Ora, siffatta garanzia è data soltanto dalla organizzazione di un forte potere giudiziario del quale siano chiaramente definiti i compiti, precisate le relazioni giuridiche con gli altri poteri dello Stato e poste in evidenza talune prerogative indispensabili per assicurare l’imparziale esercizio della giurisdizione.

Per noi autonomia vuol dire indipendenza assoluta della Magistratura, la quale indipendenza deve intendersi così dal punto di vista politico come da quello economico.

Innanzitutto, indipendenza da ogni potere politico; e mi riferisco tanto a quello esecutivo, quanto a quello legislativo, perché anche quest’ultimo può esercitare la sua influenza, soprattutto quando il sistema parlamentare traligna nel parlamentarismo: facili le influenze, facili le suggestioni.

La Magistratura deve essere invece oggi fuori di ogni pressione, perché deve essere al di sopra di ogni sospetto per l’alta missione cui deve rispondere.

Sebbene l’articolo 97 ribadisca il principio della autonomia e della indipendenza, quale concreta attuazione trovano tali solenni affermazioni? Risponde uno dei capoversi dell’articolo 97: per il progetto, tutta la carriera dei magistrati dipende dal Consiglio Superiore della Magistratura; «le assunzioni, le promozioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari e, in genere, il governo della Magistratura ordinaria sono di competenza del Consiglio Superiore secondo le norme dell’ordinamento giudiziale».

È dunque evidente che, se il Consiglio Superiore è soggetto ad influenze politiche o ad interessi comunque estranei a quelli di giustizia, il potere giudiziario è asservito e soggetto ad inframmettenze che vanno assolutamente evitate, se si vuole che la legge sia in realtà la viva tutela del diritto.

Secondo l’articolo 97, il Consiglio è costituito, come ricorderete, dal Presidente della Repubblica che lo presiede, da due vicepresidenti e così via. Il progetto, in questa sua formulazione, merita le nostre critiche, perché indubbiamente costituisce un regresso di fronte alle norme di un altro decreto, quello del 31 maggio 1946, il quale stabiliva che il Consiglio Superiore doveva essere composto soltanto di magistrati e sanciva, con alto spirito di vera democrazia, che i membri dovevano essere eletti dagli stessi magistrati.

Noi ritorniamo dunque un poco indietro. È strano, proprio oggi, in regime di democrazia e di democrazia repubblicana! Esaminiamo pure comunque questo articolo 97, rapidamente. La Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura è assunta dal Presidente della Repubblica. Vi confesso che io sono ancora incerto sulla convenienza o meno di questa norma.

Esprimo i miei dubbi soprattutto sotto un duplice riflesso. Voi avete sentito che fra le attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono anche le assegnazioni ed i trasferimenti di sede. Credete di elevare il prestigio del Presidente della Repubblica per questi atti, che vorrei definire di ordinaria amministrazione o quasi? Ma non solo. Una volta – mi insegnano i valorosi colleghi che mi ascoltano – c’era contro qualche provvedimento anche il ricorso straordinario al Re; oggi sarà il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il quale dovrà diventare giudice e parte in causa.

Faccio solo questi rilievi, onorevoli colleghi, e potrei aggiungerne altri da un punto di vista squisitamente costituzionale; ma non mi soffermo, perché l’ora è tarda e ne sospinge.

Per noi la cosa più importante è questa: che l’Assemblea Costituente fissi delle norme precise, per cui la Magistratura italiana possa, libera da influenze politiche, esercitare la sua grande missione al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica. Lo storico inglese David Hume scrisse un giorno: «Tutto il nostro sistema politico o ciascuno degli organi suoi, l’esercito, la flotta, le due Camere e via dicendo, non è che mezzo ad un solo fine: la conservazione e la libertà dei dodici grandi giudici d’Inghilterra». E proprio in Inghilterra, per educare il magistrato al sentimento dell’indipendenza da ogni potere politico, si è fatto eternare dall’arte nell’aula del più alto consesso giudiziario del Regno la memoria di un giudice, di quel giudice che inviò alla Torre di Londra il principe ereditario, arrogantemente comparso dinanzi a lui per reclamare la impunità di un suo valletto. (Applausi).

Io ho detto, onorevoli colleghi, indipendenza politica; ma ho aggiunto anche: indipendenza economica. Chi come me e come molti di voi, del resto, conosce la vita dei magistrati italiani, sa quali sacrifici morali e materiali essi debbono affrontare ogni giorno. Stipendi di fame è la definizione esatta, non è un’esagerazione, onorevoli colleghi. Stipendi di fame per coloro – badate – che hanno affidata alla loro coscienza la tutela dell’onore, della libertà, dei beni dei cittadini.

Io ho già avuto occasione di trattare questo argomento davanti a voi in sede di interrogazioni: argomento doloroso e umiliante.

Il Governo si è trincerato dietro le solite esigenze di bilancio; comunque, ad un certo momento, si è rimesso anche alle decisioni di questa Assemblea. Ora, l’Assemblea Costituente, alla quale i magistrati italiani si sono rivolti con fiducia, sappia affrontare una buona volta il problema angoscioso, per risolverlo nell’interesse della giustizia e della Nazione. (Approvazioni).

Per arrivare alla meta auspicata da quanti hanno a cuore la pausa della giustizia e la sorte della Magistratura, occorre innanzitutto sganciare i magistrati dall’ordinamento degli impiegati dello Stato, approvato con regio decreto 11 novembre 1923 n. 2395. Fu infatti con quel decreto, di spirito profondamente e nettamente fascista, che i magistrati vennero inquadrati fra il personale dipendente dall’Amministrazione dello Stato. Secondo noi il Governo può e deve provvedere nel senso richiesto, tanto più che è da tutti riconosciuta ed affermata l’importanza delle funzioni dei magistrati e, anche, la diversità fra esse e quelle degli altri dipendenti statali. Certo, dovere preciso è quello di creare al magistrato una posizione dignitosa e sicura, poiché la vera indipendenza morale è strettamente legata all’indipendenza economica.

Conoscete voi, onorevoli colleghi – e mi rivolgo non ai giudici o agli avvocati che sono in quest’Assemblea – quella che è la vera situazione della Magistratura italiana? Conoscete voi le vere condizioni in cui si amministra la giustizia in Italia? Consentitemi (mi avvio rapidamente alla fine) alcune cifre: sono raccolte in una petizione diretta all’Assemblea Costituente dai magistrati dell’ordine giudiziario. Si parla ad un certo punto del numero dei magistrati che, attraverso il tempo, con gli anni, è andato diminuendo invece di aumentare con l’aumento del lavoro, con l’aumento delle pratiche, con l’aumento degli incarichi, poiché ormai il magistrato deve fare tutto, entra in tutte le manifestazioni della vita italiana, mentre il suo compito dovrebbe essere limitato soltanto ed esclusivamente a rendere giustizia, a fare giustizia. (Applausi).

Orbene, in questa petizione si dice: «Il personale della Magistratura, dal primo gennaio 1941 complessivamente in numero di 4400, al primo gennaio 1947 era ridotto al numero di 4100. Nel Tribunale di Milano, i magistrati che al primo gennaio 1940 erano 99, al primo gennaio 1947 erano 74».

Cifre inadeguate! E mi rivolgo al Ministro della giustizia che deve conoscere meglio di me questa situazione e che dovrà provvedere a suo tempo, attraverso quelle che saranno le indicazioni date dall’Assemblea Costituente.

Ma a quelle cifre io voglio aggiungerne un’altra: quella relativa agli stipendi. Un magistrato, entrato nel 1910 in carriera con un primo stipendio di 200 lire mensili, percepisce oggi, arrivato al grado di Consigliere di Cassazione, uno stipendio di lire 33.000 mensili circa, con una capacità di acquisto non superiore a lire 150 del 1911.

Un magistrato di grado ottavo che nel 1940 percepiva uno stipendio di 1500 lire, oggi percepisce 24.000 lire circa, compresa ogni indennità, nonostante che il costo dei generi di prima necessità si è moltiplicato di 30 o 40 volte.

Ora, ci sono dei rimedi? Noi pensiamo di sì. Io ho già parlato anche su questo argomento e ho richiamato l’attenzione del Governo e dell’Assemblea su quello che dovrebbe essere secondo molti di noi il rimedio per affrontare e risolvere decisamente il problema, ripeto, ancora una volta, nell’interesse della giustizia e del Paese: l’istituzione della più volte invano reclamata Cassa nazionale dei magistrati. Con questa sarebbe possibile venire incontro alle più elementari esigenze dei magistrati senza gravare sul bilancio dello Stato.

E badate che tale principio non è nuovo nella nostra legislazione. Basta ricordare la legge 7 aprile 1921 n. 355 che, fissando un’indennità annua per i magistrati, contemporaneamente aumentava ed in certi casi raddoppiava, le tasse di bollo, le tasse di sentenza, per far fronte alle nuove esigenze di bilancio. Tale indennità venne poi tolta dal famigerato decreto dell’11 novembre 1923.

Vogliate scusarmi se aggiungo ancora qualche cifra. Sapete qual è la mole enorme del lavoro giudiziario e la inadeguata corresponsione di oneri? Attualmente si può calcolare che i soli provvedimenti di volontaria giurisdizione, siano, «grosso modo» almeno trecentomila. Ebbene, qual è la tassa fissa per questi provvedimenti? Per i provvedimenti del Pretore varia da lire 25 a lire 49. Le cifre sono raddoppiate, sotto un certo punto di vista, per il Tribunale: da 49 si arriva fino a 100. Non basta. Annualmente si calcola che vengano emessi almeno 1 milione di decreti penali con una tassa fissa di lire 25 fino a poco tempo fa, ed ora portata a lire 140.

Le sentenze penali in sede di pretura si aggirano sulle cinquecento mila, con una tassa che arriva fino a lire 360 per i delitti e 150 per le contravvenzioni. Le sentenze di tribunale raggiungono le centocinquanta mila con una tassa di lire 760 o 390 a seconda che si tratti di delitti o contravvenzioni.

Dato l’attuale valore della moneta, tali cifre sono irrisorie. Basterebbe quindi aumentarle in modo corrispondente al valore della moneta, alle necessità dell’amministrazione della giustizia e alle esigenze delle stesse parti, per raggiungere quella cifra che, destinata alla Cassa nazionale, varrebbe da sola a risolvere il problema angosciante, senza incidere sulle finanze dello Stato.

Ma, si dice: voi affermereste un principio pericoloso. Domani altri funzionari dello Stato potrebbero chiedere lo stesso provvedimento e lo stesso trattamento.

Nulla di più assurdo che questa equiparazione della funzione giudiziaria a quella dei dipendenti dello Stato. A prescindere da ovvie considerazioni di prestigio e dalle peculiari esigenze di indipendenza economica, altri coefficienti differenziano nettamente la funzione giudiziaria:

1°) l’estrema varietà dei casi quotidianamente sottoposti al giudizio dei magistrati;

2°) la grave responsabilità relativa agli interessi che formano oggetto della funzione giurisdizionale;

3°) la necessità di una preparazione tecnico-scientifica di ogni giorno e di ogni ora e dell’adeguarsi quotidiano alla evoluzione ed ai ritrovati della giurisprudenza scientifica e pratica;

4°) l’ognor crescente mole di lavoro, che richiede applicazioni oltre ogni limite consueto di orario impiegatizio;

5°) l’interdizione da ogni altra attività lucrativa;

6°) la necessità professionale che il magistrato sia aperto a tutte le esperienze e a tutti gli aspetti della vita sociale.

Ecco i miei pensieri, onorevoli colleghi, su questa parte importantissima del progetto di Costituzione. Non aggiungerò altro. Le perorazioni per noi avvocati penalisti sono d’obbligo, si dice, ma io invece terminerò con le parole che Enrico De Nicola – prima di assurgere alla più alta magistratura dello Stato – pronunziava a Castelcagnano: «Io non so concepire nulla di più alto, di più solenne, di più terribile che la missione del giudice. Sorprendere la verità tra le menzogne che la inviluppano ed i cavilli che la insidiano, resistere alle basse passioni che contaminano e alle stesse austere virtù che sovente provocano la prevenzione e deviano tal volta il giudizio, essere giusti senza indulgenze e sereni senza rigore, conoscere il cuore umano nelle sue debolezze e nelle sue imperfezioni, non obbedire agli odii e non lasciasi trascinare dagli amori, restare impassibili in mezzo ai contrasti e agli urti della vita, tracciare il limite del giusto con mano sicura e con occhio esperto, essere interpreti non della parola, ma dello spirito informatore e vivificatore delle leggi, non odiare la ricchezza e la potenza e non disprezzare nel contempo la povertà e la debolezza, disporre dell’onore, degli averi, dell’avvenire, della vita stessa dei propri simili, è tale un complesso di doveri alti e solenni da strappare ancora una volta il grido accorato: quali funzioni sublimi ma ove sono le menti così vaste e i cuori così virtuosi che possano esercitarle? Eppure, attraverso oscuri eroismi, sacrifizi ignorati, abnegazioni segrete, la Magistratura italiana – che è troppo numerosa per potere essere egualmente perfetta – adempie alla sua difficile missione con zelo sproporzionato alle condizioni di carriera e di vita che le sono state create. Ed io formulo una speranza: che presto il potere giudiziario assurga anche in Italia a quella uniforme altezza intellettuale e a quel grado di prestigio sociale, a cui aspira e ha diritto».

La speranza di Enrico De Nicola, è anche la nostra, onorevoli colleghi. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Murgia. Ne ha facoltà

MURGIA. Onorevoli colleghi, l’onorevole Macrelli, che mi ha preceduto, ha esordito brillantemente richiamando l’attenzione dell’Assemblea su tutti i problemi di questo titolo. È giusto. Io penso però che uno di essi sia particolarmente importante per la sua particolare gravità; gravità interpretata nobilmente proprio in quel monito solenne del nostro Presidente della Repubblica onorevole De Nicola letto or ora dall’amico Macrelli e col quale egli ha chiuso la sua bella orazione, questo: stabilire chi debbano essere i giudici del cittadino quando egli sia accusato di delitti che fino a ieri comportavano la pena suprema e oggi l’ergastolo o diecine di anni di reclusione. Problema grave al quale un altro strettamente se ne connette, per le sue conseguenze pratiche, forse ancora più grave: quello di stabilire se contro tali sentenze debba essere mantenuto solo il rimedio oggi esistente e nuovamente sancito nell’articolo 102 del nostro progetto, cioè il ricorso per Cassazione, o non invece, come io ho proposto con un emendamento specifico a tale articolo, anche il rimedio dell’appello.

Ciò perché – come voi sapete – oggi non esiste contro le sentenze della Corte d’assise che privano in perpetuo di libertà il cittadino, ne distruggono l’onore e ne confiscano i beni, il giudizio di appello, quel giudizio di appello che pure esiste, e giustissimamente, contro tutte le altre sentenze penali dei tribunali e dei pretori che infliggono pene detentive leggere di qualche anno, di qualche mese o addirittura semplici pene pecuniarie.

È qui, su questo assurdo stato di cose della nostra legislazione penale, che io invoco tutta la vostra attenzione, che io richiamo tutto il vostro senso di responsabilità perché si cancelli questa ingiustizia che è forse la più grave per le garanzie del cittadino.

Quale è stato il motivo etico, logico o giuridico che ha impedito fin qui che si istituisse il rimedio dell’appello contro le sentenze della Corte d’assise? È un motivo strettamente connesso all’istituto della giuria popolare di cui in linea principale ho proposto, con altro emendamento, la soppressione. E come e perché? La giuria popolare era considerata, simbolicamente, come il popolo stesso che giudicava, il popolo al quale anche in questa materia si davano gli attributi di infallibilità e di sovranità, portando il linguaggio politico per non dire demagogico sul terreno della scienza. Ora, si argomentava, se il popolo di cui la giuria è il simbolo è infallibile, la sua sentenza non può essere viziata da errore, e quindi l’appello è inutile, e se è sovrano, come lo è, non si può concepire un giudizio più alto, quindi ugualmente inutile, anzi assurdo.

Ma oltre queste ragioni, puramente demagogiche, un’altra ve n’è sostanziale che ha impedito finora e impedirà sempre che contro le decisioni della giuria possa istituirsi il giudizio di appello, questa: che il giudice popolare non motiva le sue decisioni, non dice per quale motivo assolve o condanna: su una scheda scrive un sì o un no dietro il quale c’è l’arcano dei motivi che lo hanno determinato. Ora, a prescinder dal fatto che la mancanza di motivazione costituisce la violazione fondamentale dei diritti del cittadino accusato e che legittima tutti gli abusi, sta l’altro fatto che essendo il giudizio di appello un giudizio di critica dei motivi messi a sostegno della sentenza impugnata, l’appello diventa impossibile per la mancanza dell’oggetto su cui deve cadere: la motivazione.

A questo riguardo si potrebbe, ma ingenuamente, obiettare: se questo è l’ostacolo acché venga istituito l’appello (poiché nessuno fino a questo momento ha osato disconoscere la giustizia di questo istituto) si disponga che anche le sentenze della giuria vengano motivate. Qualcuno dei colleghi, anzi, mi pare abbia proposto, per conciliare il mantenimento della giuria con la istituzione dell’appello contro le decisioni di essa, che si investisse la Cassazione anche del giudizio di merito. È assurdo per molte ragioni: prima di tutto perché si snaturerebbe l’istituto della Cassazione che è chiamata soltanto a un’alta e definitiva critica di puro diritto sostanziale o processuale e le è preclusa l’indagine di merito.

Secondariamente si commetterebbe una grave ingiustizia a danno degli imputati i quali, a differenza di quelli giudicati dal pretore o dal tribunale, avrebbero solo due gradi di giurisdizione e non tre, perché contro il giudizio della Cassazione non è possibile un ulteriore grado di giudizio. Ma pensate poi alle difficoltà pratiche. Poiché la Cassazione giudicherebbe sul merito di tutti i giudizi delle Corti d’assise d’Italia, non solo si dovrebbe moltiplicare per dieci il numero attuale dei magistrati di Cassazione (e fin qui non si tratterebbe forse di un male) ma si vedrebbe la Cassazione piena di imputati ammanettati di tutte le Corti della penisola, dato che l’imputato ha diritto a presenziare al giudizio di appello. Si potrebbero inoltre sentire testimoni dato che il giudice di appello può, in determinati casi, disporre nuove prove, ammettere nuovi testimoni e si potrebbe persino arrivare alla rinnovazione del dibattimento in sede di appello, sede che in questo caso, ripeto, sarebbe la Cassazione. Tutto ciò sarebbe assurdo. Ma resterebbe sempre, anche superate tutte codeste considerazioni, l’ostacolo fondamentale: come farebbe la Cassazione a giudicare sul merito in secondo grado se la sentenza della giuria manca di motivazione? O, come verrebbe proposto, si potrebbe davvero pensare che la giuria sarebbe capace di motivare? Io ho una modesta esperienza di processi di Corte d’assise e sono in grado di escludere tale possibilità. Come la motiverebbe un povero contadino, pur nobilissimo e rispettabilissimo per il suo lavoro e per la sua onestà, come la motiverebbe un fabbro, un macellaio o che so io, dato che non esiste alcun limite per la capacità di esser giudice popolare, quando si tratti di processi di straordinaria complessità e gravità, costituiti da molti volumi con perizie, relazioni tecniche, di carattere inaccessibile e direi incomprensibile per la loro mentalità e levatura?

Quindi, per queste ragioni io ritengo che sia impossibile conciliare l’istituto della giuria colla possibilità di istituire il giudizio di appello contro le sue decisioni.

Basterebbe questo motivo solo ma formidabile per legittimare la mia richiesta di soppressione dell’istituto della giuria. Ma perché non sembri che questo motivo solo sia di ostacolo al suo ripristino nel nostro diritto io illustrerò le ragioni sostanziali ancora più profonde che dimostrano l’estremo pericolo per le garanzie del cittadino del giudice popolare tanto nei reati comuni quanto nei reati politici. Chiediamoci: quale è la funzione, anzi la missione naturale del giudice sia esso popolare o togato? È quella di giudicar bene; e giudicar bene significa evitare, per quanto è nelle umane possibilità, che sia condannato un innocente, assolto un colpevole, o condannato ad una pena aberrante un colpevole, ad una pena cioè che non sia proporzionata all’entità del suo delitto, che non tenga conto della personalità del reo, dei motivi che lo hanno spinto al delitto, dell’ambiente da cui proviene, in cui del delitto è talvolta la lontana origine.

Si afferma dai sostenitori della giuria che l’indagine di fatto è facile e che, appunto perciò, il giudice popolare la può facilmente fare. Non è vera nemmeno questa affermazione, anzi essa è molto lontana dal vero e può esser fatta solo da chi o non ha nessuna esperienza o la ha molto modesta in processi di Corte d’assise. Per giudicar bene occorre anzitutto conoscere la verità di fatto; cioè distinguere il vero dal falso, il reale dall’apparente di cui i processi sono spesso intricati e commisti.

Vediamo il giurato all’atto pratico, immaginiamolo il giorno dell’udienza. Fino a quel momento egli non sa nulla, non conosce sillaba di tutto il processo scritto, quel processo scritto che è lì sul tavolo del Presidente della Corte. Ai sostenitori della giuria sembrerà che questo sia un argomento a favore, perché, essi affermano, è preferibile che il giudice abbia l’animo vergine e puro di impressioni. Sul tavolo del Presidente, dicevo, ci sono per lo meno tre volumi, uno che concerne i verbali di denunce, interrogatori degli imputati da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, di parti lese, confronti, la requisitoria del pubblico Ministero, la sentenza di rinvio a giudizio con tutti i motivi che la giustificano; nel secondo vi son le perizie, consulenze tecniche e altri atti; nel terzo tutti gli esami testimoniali in cui si verifica questo: che gli stessi testimoni sentiti dai verbalizzanti o dal giudice. depongono in modo contrastante fra loro; non solo, ma si verifica che uno stesso testimone, che davanti ai verbalizzanti in un primo interrogatorio aveva dato una versione dei fatti, davanti al magistrato ne dia un’altra in assoluto contrasto; aggiungete a ciò il contrasto esistente spesso fra perizia e perizia e perizia e consulenza tecnica. Tutta questa storia precedente del processo scritto, su cui il giudice popolare non sapeva nulla e su cui appunto non ha avuto modo di meditare, di esercitare il suo potere critico, viene rievocata rapidamente all’udienza, aggravata dalle nuove risultanze e contraddizioni e dalle arringhe dell’accusa e della difesa alla cui schermaglia dialettica il giudice popolare non è preparato cadendo nelle insidie oratorie del difensore o dell’accusatore. Aggiungete che il più delle volte egli non ha sufficiente tempo di meditare perché deve, per legge, decidere immediatamente dopo le arringhe, per cui il suo giudizio non può essere che affrettato e superficiale e quindi pieno di rischi fatali per chi è accusato di fatti, che ieri erano puniti colla morte e oggi colla perdita perpetua della libertà, dell’onore e dei beni.

Questi pericoli, di errori giudiziari fatali, sono infinitamente minori col giudice togato; col giudice cioè che ha consacrato la sua giovinezza agli studi nel campo specifico del diritto sostanziale e processuale, di criminologia, di psicologia giudiziaria e che ha soprattutto un enorme vantaggio sul giudice popolare: l’esperienza della continua pratica. Egli vede sfilare quotidianamente davanti a lui imputati dalla fronte aggravata dalle colpe, o col volto tranquillo dell’innocenza insidiata ma in cui brilla la fiamma della speranza nella giustizia, o altri, delinquenti incalliti nel delitto, che ostentano una sicurezza che l’acuta indagine del magistrato sconcerta; così passano davanti a lui schiere di testimoni veridici o falsi le cui deposizioni meno facilmente che il giudice popolare possono sorprendere o ingannare il giudice togato. E questo che è vero per i reati comuni è maggiormente vero per i reati politici per i quali il giudice popolare è ancor meno adatto. Non facciamo qui della demagogia ed esaminiamo freddamente quanto del resto l’esperienza recente nostra e straniera ci conferma. Supponiamo – facciamo un caso pratico – una giuria in cui la maggior parte dei suoi componenti sia di un colore politico opposto a quello dell’imputato che è chiamato a rispondere. Quell’imputato tremerà al cospetto di quella giuria perché non lo assisterà la coscienza della sua innocenza, di aver legittimamente agito, perché sa che su quei giudici più che l’imperativo della giustizia impera la faziosità, perché in quel processo sarà in gioco il prestigio stesso di un determinato partito politico. (Interruzione del deputato Macrelli).

Io mi richiamo ad esperienze recenti, caro Macrelli, esperienze nostre e non nostre.

MALTAGLIATI. E i tribunali speciali?

MURGIA. Noi li condanniamo, perché, come ho detto altra volta, sono la particolarità del vostro settore; una giuria popolare, infatti, si trasforma generalmente, nel caso di reati politici, proprio in tribunale speciale. Dobbiamo pensare che un giudice popolare può ricevere influenze dall’esterno – ed è ingenuo pensare che di fronte a delitti enormi, che comportano talvolta la responsabilità di un partito, non si facciano mille tentativi, non si cerchino di usare tutti i mezzi dalle lusinghe alle minacce come, ripeto, la esperienza dei tempi recenti ha dimostrato. Ma io dico che al di fuori delle pressioni esterne il giudice popolare trova un divieto interno, a fare obiettivamente giustizia, trova un divieto nella sua concezione etica della giustizia assolutamente soggettiva. Il giudice popolare che appartiene a una determinata corrente politica, che ritiene l’attuale ordine giuridico espressione della classe dominante, giudica questo ingiusto e ne trae la conclusione tutta rivoluzionaria che la violenza è lecita per cancellare quello che egli ritiene un ordine costituzionale, giuridico ingiusto. E se ha in privato una tale concezione non dobbiamo pensare che se ne svesta o la oblii quando siede per ufficio, giudice del suo avversario politico in Corte d’assise. Mentre, invece, per il giudice togato vi è l’applicazione della legge positiva, ed egli una volta stabilito il fatto, ne trae la conclusione rigorosa…

Una voce. Pure se ne sono fatti processi in altro modo!

MURGIA. Sta bene; ma sono stati fatti da giudici faziosi, cioè politici, e non da giudici togati; e che costituivano tribunali speciali corrispondenti pressappoco ai tribunali del popolo o a queste specie di giurie.

Quindi, riprendendo, onorevoli colleghi, dicevo questo: la concezione della giustizia per certa gente non si identifica colla legge: la legge è l’espressione del partito che ha vinto, che ha imposto il suo credo politico e ne esige il rispetto colla forza. Ciò che al giudice popolare, convinto di tale ingiustizia, consente – dato che egli non motiva e non si attiene alla legge – di commettere ogni arbitrio. Egli, appunto perché non motiva, è non solo giudice ma anche legislatore. Il giudice popolare può dire: «per me quell’imputato non ha ucciso in condizioni di legittima difesa, quindi non è meritevole di nessun beneficio e sia sterminato». Se, invece, la maggioranza della giuria sarà dello stesso colore politico dell’imputato che ha ucciso un avversario politico, egli incederà spavaldo in udienza, con la sicurezza che i suoi stessi giudici gli faranno scudo, irriderà alla giustizia e uscirà con clamore di trombe come un trionfatore.

Non lasciamoci influenzare da considerazioni politiche. In tutte le professioni, in tutti i rami dell’attività umana si esige una particolare preparazione; si esige per l’ingegnere, si esige per il medico, si esige per il giudice che deve applicare la legge e decidere della sorte di un cittadino.

Ma, ripeto, il motivo formidabile che da solo legittima la soppressione dell’istituto della giuria è quello di istituire il rimedio dell’appello.

Per non ammettere l’appello, per non ritenerlo necessario bisognerebbe che fosse vero che il popolo – che si vuole simboleggiato nella giuria – fosse, in questa materia, infallibile, che la giuria fosse una specie di consesso di numi immuni dall’errore, dalla frode, da tutte le fragilità e debolezze di cui è impastata l’umana natura.

Ma se qualcuno vi fosse che avesse questa illusione, io rievocherei in contrario, tutta la tragica statistica di uomini mandati alla morte dalla giuria popolare o di altri spentisi nel buio e nella solitudine degli ergastoli. Questi uomini furono poi – riconosciuta luminosamente la loro innocenza o per successive confessioni dei veri colpevoli o per altre prove sicure – riabilitati alla memoria ma non restituiti alle loro famiglie e alla vita. Quelle sentenze non si poterono riformale appunto perché non esisteva il rimedio, la possibilità dell’appello.

Sia questo, dunque, o colleghi, il momento di cancellare questa ingiustizia, sia un impegno d’onore della nostra Assemblea di scolpire il principio in questa Carta costituzionale che contro tutte le sentenze penali che infliggono pene detentive, comprese quelle della Corte d’assise, sia istituito il giudizio di appello.

Alcuni sostengono che questa non sia materia costituzionale e che perciò bisogna soprassedere e rimandarla al legislatore ordinario. L’amico Macrelli, a metà della sua bella orazione, ha dimostrato citando tutte le più illustri costituzioni straniere che questa è tipicamente materia costituzionale. Badate: o noi non abbiamo idee chiare su questo argomento e sarebbe molto grave per noi legislatori o le abbiamo e allora bisogna scolpire ora tale principio. Perché diversamente il legislatore ordinario potrebbe non sentirsi obbligato a istituirlo. Ciò è tanto più opportuno giacché tutti gli oratori che ho udito si son mostrati d’accordo perché sia istituito. In questo modo comincerà subito a diminuire il numero delle ingiustizie e degli errori giudiziari.

Si è detto che il motivo principale per cui il magistrato non sarebbe indicato per giudicare di determinati reati è quello che egli rappresenta una casta chiusa, reazionaria, insensibile alla evoluzione della società, sorda ad ogni nuova esigenza politica: È anche questo uno dei soliti luoghi comuni. Chi sono i magistrati, da quali ambienti, da quali ceti provengono? Sono quasi tutti figli di modesti impiegati, di piccoli possidenti, di gente che lungi dal conoscer gli agi della vita ne conosce le lotte, le angustie e i bisogni ammantati da un dignitoso decoro e appunto perciò più sensibili agli intimi comandi della evoluzione e del progresso e della giustizia sociale.

Anzi, a questo proposito, i colleghi qua presenti che esercitano la professione forense mi devono dare atto di questa verità: che i giudici più reazionari, specialmente nei reati contro la proprietà, sono proprio i giudici popolari mentre il giudice togato tortura molte volte la legge al fine di trovare una attenuante o dimenticare una aggravante per infliggere una pena più mite.

LUCIFERO. E che vorrebbe assolvere.

MURGIA. Assolvere no, ma condannare ad una pena equa, dove appunto sta la giustizia.

Detto questo io tratto del problema dell’indipendenza economica dei magistrati per i quali ho proposto il seguente emendamento: «Norme speciali regoleranno il trattamento economico dei magistrati». Lo ho formulato in questi termini e non in termini generici di autonomia economica dei magistrati come altri colleghi han fatto, perché solo nel modo da me proposto essi possono e devono essere svincolati dalla categoria degli altri impiegati statali ai fini del trattamento economico. Senza questo la elevata e decorosa funzione del magistrato che deve stare al vertice di tutta la vita pubblica non sarà sufficientemente garantita per quanto i nostri magistrati abbian data sempre una prova splendida di integrità.

Ed ora mi avvio rapidamente ad illustrare l’ultimo emendamento da me proposto per la difesa degli imputati, parti lese, attori e convenuti poveri.

Gli avvocati fanno del loro meglio; vi sono di quelli che si prodigano oltre misura e con lodevole zelo. Ciò avviene o per quelli che hanno maggiori possibilità economiche o per i giovani spronati dall’ambizione di farsi luce. Ma dobbiamo riconoscere che in molti casi l’opera dei patrocinatori è modesta per non dire scarsa, con quale conseguenza degli interessi che si tutelano è facile comprendere. Perciò io propongo che venga costituita una Cassa speciale che sia di stimolo e per lo meno di parziale interesse dei patrocinatori che devono difendere gli interessi di questa povera gente.

Detto questo onorevoli colleghi io finisco; finisco colla ferma speranza che venga istituito il giudizio di appello e con esso siano evitati per sempre alla società gli errori funesti che ho rievocato. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Sardiello. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Onorevoli colleghi, non recherò più fiori né di gioia né di pianto, né rose né crisantemi, alla indipendenza della Magistratura. È un’idea ormai matura, una conquista che deve avviarsi ad una sempre più concreta, definitiva realizzazione.

È piuttosto da fare l’augurio che la Magistratura ne sia sempre degna e capace di consolidare così l’idea, la sua conquista nella legge e più ancora nel costume. Faccio questo augurio con trepidazione, ma non senza speranza. Con trepidazione, onorevoli colleghi, perché, senza riprendere delle accuse, soprattutto senza farne un processo, non è possibile dimenticare quanto è stato ricordato in quest’Aula: il fenomeno doloroso del ventennio fascista, che ha piegato alla imposizione dall’alto molti magistrati. Devo dire che il fenomeno non era nuovo. Forse (non farò degli esempi) qualche alto magistrato, che ebbe in mano il più drammatico processo del regime fascista, per il delitto che più commosse l’anima nazionale, servì allora il regime fascista, come aveva servito con la stessa disinvolta audacia prima di allora altri Governi. Il fascismo in questo campo dilatò, inasprì, esasperò un male già noto della vita italiana.

Venne, dopo la liberazione, lo sbandamento delle coscienze in cui precipitò il dramma politico e spirituale dell’Italia, ed abbiamo visto dei magistrati dare segni precisi di resistenza a quella che era l’aspirazione della coscienza popolare, ad una giustizia che potremmo dire storica.

Ho detto: non facciamo un processo. Cerchiamo anzi di darci del fatto una spiegazione. Forse è qui: che non sempre alla preparazione, anche elevata, culturale e professionale corrispondono una eguale ampiezza e vastità di visione ed un eguale alto senso di responsabilità politica, nel significato più largo di questa parola. Fermiamoci qui. Non diciamo, come il collega onorevole Bozzi, che la Magistratura ha piegato… come tutti. Un’affermazione del genere sciuperebbe quella considerazione particolare che noi vogliamo tributare alla Magistratura ed alla sua speciale funzione, e che esige il presupposto di particolari qualità intellettuali e morali. Resta – a conforto – il ricordo di alcuni magistrati (e piuttosto dei ranghi meno elevati), che hanno perfino sacrificato la toga, che era non solo l’orgoglio della loro vita, ma il pane per i loro figlioli…

GASPAROTTO. Il giudice Ventura a Milano ha domandato due volte l’aspettativa per non servire il regime.

SARDIELLO. Consentitemi allora che dica, accanto a questo, il nome di un calabrese: Alfredo Occhiuto. Non si dica neppure che questi atteggiamenti, come dicevo, di resistenza, siano dovuti soltanto alla imperfezione delle leggi tecniche, particolarmente dell’amnistia Togliatti, che Dio l’abbia in gloria.

Una voce a sinistra. Chi? Togliatti?

SARDIELLO. No, l’amnistia. (Ilarità).

C’è da osservare che gli errori derivati da questi difetti… tecnici sono stati tutti soltanto… in una direzione. Ma questa difesa in nome della imperfezione delle leggi apre anch’essa la via ad un’accusa, perché ci presenta il magistrato cristallizzato nelle formule, incapace di elevarsi assurgendo ad una comprensione più vasta, penetrando lo spirito della legge; espressione quindi di una mentalità che quietamente si annida il più spesso nelle alte gerarchie; mentalità superata, che dovrebbe sparire.

Onorevoli colleghi, bisogna ben apprezzare il fatto che questo disappunto per certa condotta di magistrati, prima ancora che nel corso di questa discussione, sia stato denunciato non raramente da alcuni magistrati. Ho letto con soddisfazione – quella che procurano tutte le prove di lealtà e di coraggio – in una pubblicazione di alcuni giudici del tribunale di Milano queste parole che meritano di essere ricordate:

«Mentre ci si sta battendo per ottenere in sede costituzionale il riconoscimento di potere autonomo, in sede di ordinamento giudiziario una completa indipendenza, e dagli organi di Governo il rispetto di questa indipendenza, nonché mezzi economici adeguati alla funzione di magistrato, occorre che i magistrati diano la sensibile dimostrazione di essere degni del nome che portano, della funzione che rivestono, del prestigio, della indipendenza e della considerazione che rivendicano. Bisogna invece riconoscere onestamente che oggi è la condotta di una parte non trascurabile di magistrati che costituisce il più grave intralcio al conseguimento di quelle mete».

Non conosco il giudice che ha scritto queste parole, ma sento che deve essere un giovane. E qui sboccia la speranza: guardando a tanti nobilissimi nuclei di giovani, che sono oggi nei tribunali d’Italia e mostrano quotidianamente la sensibilità viva delle necessità della vita italiana che rinasce. Questi giovani, quando invocano l’indipendenza e l’autonomia, vi dicono, nella loro coscienza profonda (e questo ci assicura), che vogliono essere indipendenti dal potere esecutivo, anche per evitare le suggestioni delle alte gerarchie, che sempre sono state quelle direttamente e più facilmente raggiunte dal potere esecutivo nelle sue deplorate interferenze; e sperano che l’autonomia porti anche questo: la fine del «carrierismo» e che i magistrati facciano veramente tutti e sempre i magistrati! Ciò che è sperabile si ottenga, se l’autonomia libererà il Ministero di grazia e giustizia da tante soverchie attività, onde ad esso bastino soltanto i suoi funzionari.

E, dunque, fra quella trepidazione e questa speranza, affermiamo il principio dell’indipendenza della Magistratura! Ma (e il progetto mi pare che abbia il segno di questa preoccupazione) il principio – com’è di tutti i principî astratti quando vengono concretati e quindi posti a contatto con le realtà attuali morali, politiche e sociali – deve sottostare ai limiti necessari.

Questa preoccupazione mi pare espressa particolarmente là dove è disegnata la formazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Sorsero i contrasti, si urtarono le opinioni assolute della prevalenza rilevante dei laici, e della prevalenza rilevante dei magistrati, quando pure non si chiese – come vuole l’onorevole Bellavista – che il Consiglio Superiore sia tutto dei magistrati: hortus conclusus. Il progetto si pone in mezzo fra l’una e l’altra pretesa.

L’emendamento da me presentato, sopprimendo il superfluo secondo Vicepresidente (laico), garantisce praticamente ai magistrati la maggioranza nella composizione del Consiglio Superiore. Non ho incluso nella enumerazione dei laici e dei magistrati, ai fini di questa maggioranza, il Presidente della Repubblica. Non l’ho incluso perché, dissentendo dall’opinione apprezzabilissima del mio valoroso amico onorevole Macrelli, io invece accetto con entusiasmo la norma del progetto, che assegna al Presidente della Repubblica la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, convinto che, anche quando alla più alta carica dello Stato non fosse (e sia per molti anni!) un giurista della altezza luminosa di coscienza e di dottrina di Enrico De Nicola, il Capo dello Stato rappresenterebbe sempre alla Presidenza del Consiglio della Magistratura una superiore, grande idea unificatrice di tutte le forze dello Stato, che a me pare necessaria e feconda nella nuova vita italiana.

Ho proposto un altro emendamento a questo articolo: un’aggiunta all’ultima parte, là dove si parla degli elementi laici che l’Assemblea dovrà designare a comporre il Consiglio Superiore della Magistratura. Può parere bizantinismo, lo confesso, può apparire anche un fatto di difficile realizzazione pratica. Ma ho voluto, onorevoli colleghi, fermare un principio che rapidamente illustrerò.

L’aggiunta è questa: che i componenti laici, che saranno designati «metà dall’Assemblea Nazionale fuori del proprio seno», siano scelti «fra i cittadini che non abbiano direzione o rappresentanza di partiti politici».

Muove da una premessa, che occorre tenere presente: l’affermazione dell’articolo 94 secondo cui «i magistrati non possono» far parte di «partiti politici», «non possono essere iscritti a partiti politici». Si è detto da qualcuno: è una menomazione, è un’offesa ai magistrati. Non penso sia esatto. Non si inibisce infatti ai magistrati di avere e di nutrire liberamente un’idea politica. Si inibisce ai magistrati la iscrizione ai partiti politici.

Ora, onorevoli colleghi, intendiamo tutti che questa è una cosa diversa dalla libertà di un pensiero e di una fede. L’iscrizione al partito è una milizia, l’iscrizione al partito è una disciplina, e non può escludersi che la disciplina del partito politico potrebbe venire in conflitto con la disciplina spirituale del magistrato. Non dobbiamo creare simili casi di coscienza.

Devo aprir qui una breve parentesi: devo ricordare un altro emendamento, da me proposto, all’articolo 94. All’ultimo capoverso, che vieta ai magistrati l’iscrizione ai partiti politici, aggiungo il divieto di accettare «cariche ed uffici pubblici elettivi».

Guardate, onorevoli colleghi: il giorno in cui allontaniamo dalla vita politica militante i magistrati togliendo ad essi il tesserino del partito dal portafoglio, non possiamo consentire che entrino per altre vie nella lotta rovente dei contrasti per la conquista di una carica pubblica. O accettiamo in pieno il principio o no. Altrimenti autorizzeremmo quella brutta cosa, forse la più brutta cosa nel campo morale ereditata dai recenti anni passati: il doppio gioco.

E così – chiudendo la parentesi e tornando all’emendamento sull’articolo 97 – intendete, o colleghi, che se per principio il magistrato deve essere estraneo alla politica militante, la mia proposta (con valore di indirizzo, di orientamento, con forza di legge: come volete) sia da accogliere. Dica l’Assemblea che, se i magistrati non devono andare alla politica militante, la politica militante non deve andare ai magistrati.

I magistrati intenderanno che queste preoccupazioni non suonano menomazione e tanto meno offesa; intenderanno che, per questa via, si vuole garantire ad essi una migliore condizione per l’esercizio della loro altissima – funzione di tutori e garanti dell’integrità dei diritti di tutti i cittadini. Non ne soffriranno i magistrati, specie se nello stesso tempo, in tutte le forme, sapremo dare ad essi la prova del riconoscimento dell’altezza e della nobiltà della loro funzione.

Discendiamo (il salto può parere precipitoso, ma non è) da questi vertici ideali a talune concrete considerazioni. Non c’entra, lo so, l’argomento cui sto per accennare col progetto di Costituzione; ma se ne è parlato, e non è male dunque che le idee ventilate suscitino il pensiero esplicito di tutti.

Lo Stato avverta il dovere di garantire al magistrato la indipendenza economica!

Mi scriveva recentemente un valoroso magistrato: «noi non vogliamo il trattamento dei giudici della Gran Bretagna, ma non vogliamo neppure quello dei giudici dell’Islam». Io concreto quella aspirazione in questo concetto: la condizione economica del magistrato deve essere tale che sia base e strumento per la elevazione intellettuale e sociale del giudice ed anche la espressione piena, direi il simbolo, della valutazione che lo Stato fa della funzione della giustizia.

Onorevoli colleghi, il progetto di Costituzione pone il magistrato ad un’altezza superba: tra la legge e la coscienza. Se, a questa altezza, lo condannassimo ancora, come oggi, alla battaglia quotidiana con le più essenziali necessità della vita, le enunciazioni fastose contenute nell’articolo 94 non sarebbero che una deplorevole irrisione!

Quando avremo, in tutti i modi possibili, con ogni forza, elevato moralmente e materialmente la Magistratura, nella sua libertà, nella austerità della legge, nella luce della coscienza, ed allora potremo allargare pure le file, aprire le porte alle donne.

Si è insorti contro l’ammissione delle donne nella Magistratura. Consentitemi, onorevoli colleghi, che io non condivida l’apprensione. Questi allarmi apocalittici mi riportano alla mente certi antichi versi stecchettiani contro quelli che lamentavano non so più che innovazioni letterarie: «Vennero i Goti, i Visigoti e il resto; e dopo tutto questo, che cosa venne poi? Venne il Manzoni».

Sono preoccupazioni non nuove; le abbiamo udite, le stesse, quando è sorta la questione della iscrizione della donna all’albo degli avvocati. Ogni avvocato si vide la toga strappata di dosso, perché passasse sugli omeri più gentili di una collega. Ma sono venute le donne avvocato, pochine invero, e non abbiamo sofferto di vederle impegnate quasi esclusivamente in curatele, in attribuzioni confacenti alla loro indole. E si è fatto rumore anche per la donna deputato, e sono venute le egregie colleghe, pochine o poche, ma le abbiamo ascoltate con interesse a proposito di argomenti al loro spirito tanto vicini: problemi scolastici, educativi.

Nessun allarme. La realtà della vita lima gli eccessi. Verranno così anche le donne giudici, e non mi dispiacerà di vederne qualcuna in un tribunale per minorenni.

Mi meraviglia l’emendamento proposto da una collega, la collega Federici, che si fa banditrice dell’esclusione delle donne.

FEDERICI MARIA. No. Il mio emendamento propone di sopprimere le limitazioni, non di espellere le donne dalla Magistratura.

SARDIELLO. Leggo qui una proposta pura e semplice di soppressione dell’articolo 98 e devo pensare che abbia quel significato. Comunque prendo atto della rettifica.

Onorevoli colleghi, quello che preoccupa nella funzione del giudicare non è, come si è detto da qualche collega avversario delle donne (delle donne giudici, si intende), il particolare temperamento psichico. Il pericolo più grave della funzione del giudicare è un altro, ed è l’ignoranza. Ed all’ignoranza, onorevoli colleghi, l’articolo 96 apre invece ufficialmente le porte.

Io non aggiungerei altro a quello che è stato detto. Mi induce ad insistere la passione antica di questo problema, e l’opinione già sostenuta in riviste e giornali giuridici, per cui un collega mi ha detto: «La tua opinione non conta qua dentro, perché sei già compromesso». Evidentemente una celia: l’opinione vale invece di più, perché è l’opinione di quando la giuria era in auge, di quando il fascismo l’ha poi trasformata e deformata. Ora si parla della sua resurrezione. Il problema è antico, ma è caratteristico che sempre, ed anche ora in quest’Aula, nelle parole già ascoltate dei sostenitori della giuria, alla lode si accompagni sempre la critica. Una lode incondizionata non è mai venuta. Mi piace di risalire in questo campo (che, come tanti altri, ha dato all’Italia primati incontestabili) alle nostre sperienze, anziché a voci di maestri inglesi o francesi, che possiamo ammirare per la nostra soddisfazione intellettuale, ma che sono alquanto lontani dalla nostra realtà di vita; e mi consentirete perciò di ricordare le parole di un grandissimo sostenitore della giuria: Enrico Pessina, il quale, nel 1898, in un famoso discorso non poteva fare a meno di dire: «Il giurì è un lato solo e parziale della coscienza del Paese, è la coscienza volgare del Paese, ma non è tutta la coscienza del Paese; esso è la coscienza del Paese moncata di uno dei lati più importanti, cioè della coscienza riflessi guidata dall’arte critica».

Ed Enrico Pessina, proponendosi di perfezionare il giurì, sapete a che cosa pensava e che cosa proponeva? Lo scabinato. Oggi un’eco – lontana lontana, si capisce – dell’alta parola e del profondo pensiero di Enrico Pessina mi pare di cogliere nella relazione – allegato 5 – sulla procedura per i reati di competenza della Corte di assise, presentata dal Ministro della giustizia il 12 dicembre 1946, là dove si legge che «i giurati sono in grado di emettere un giudizio di responsabilità solo a condizione che questo non coinvolga la necessità di risolvere delicate questioni di carattere tecnico».

E mi domando: quale è il giudizio che non imponga di risolvere questioni di carattere tecnico?

Pensate a quella terza domanda del famoso questionario della Corte di assise: «È colpevole l’imputato?» che involgeva tutta una valutazione di elementi tecnici e scientifici intorno al criterio della responsabilità. Come l’affidate alla giuria, dopo questa premessa che è nella vostra relazione?

Bisogna anche dire che argomenti nuovi a favore della giuria non ve ne sono. Tra quelli addotti, il più perspicuo è ancora quello del discorso dell’onorevole Togliatti nella tornata dell’11 marzo 1947, in sede di discussione generale sulla Costituzione, cioè: «Quando ad un cittadino togliete dieci, venti anni della sua vita (e allora perché non anche quando gli togliamo soltanto due o tre anni o quando gli togliamo soltanto la possibilità di trovar lavoro per una assoluzione dubitativa?…) e quando lo mandate al giudizio, o condannate per delitto politico, egli ha diritto al giudizio dei suoi pari»…

L’onorevole Togliatti anche questa volta… viene da lontano. Il concetto della parità a fondamento della giuria non è nuovo ed ha avuto quasi cento anni fa l’alta e solenne risposta di un grande giurista italiano: il Pisanelli, che scriveva così: «Fallace è da reputare l’opinione di coloro che, ponendo come fondamento del giurì l’idea della parità di condizione tra giudicabile e giudicante, da quella credono pure ne sia informata la sua indole».

Questo diceva Pisanelli quasi cento anni addietro; oggi direbbe che quel criterio della parità ha meno ragione di allora di essere preso in considerazione, perché quella parità avvisata come necessaria, quella che è pensabile tra il giudicabile e il giudicante, quella parità può dirsi ormai fissata nella nostra civiltà in principî di eguaglianza di diritti e di doveri di tutti i cittadini, in una concezione che non può e non deve spezzettarsi in distinzioni per classi o categorie esclusive, ma che, nello Stato democratico, deve pervadere tutta la vita, ed a cui non può certamente sottrarsi neanche il magistrato togato.

Ho presentato questo emendamento all’articolo 96 e non credo che alcuno possa pensarlo in contradizione con quanto ho detto sin ora: «Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria, nei processi per reati politici».

Una voce a sinistra. Questa è materia di Codice di procedura penale, non di Costituzione!

SARDIELLO. Possiamo essere di accordo; ma, fino a quando nel progetto di Costituzione rimane inserito l’articolo 96, ho il diritto di dire che, se deve risorgere la giuria, la sua funzione deve essere, a mio giudizio, limitata e condizionata come ho detto. Se nel progetto non vi fosse l’articolo 96, non verrei a recitare queste proposte all’Assemblea.

Quindi, propongo la limitazione della competenza dell’Assise ai reati politici. Il perché è intuitivo: il reato politico ha una caratteristica sua, e sia l’elemento psichico come la natura del bene giuridico tutelato dalla norma sono in esso elementi vistosi, prevalenti, quasi sempre assorbenti e danno al fatto da giudicare caratteristiche tali che, più del giudizio tecnico, si confà ad esso quello che viene dalla coscienza spontanea del popolo. Inoltre, esso è espressione quasi sempre di una corrente formata o che si va manifestando tra il popolo, e perciò posso allora intendere che sia il popolo il più idoneo a giudicare sulla responsabilità di quell’imputato.

Non penso di disegnare un conflitto permanente tra politica e giustizia.

MASTINO PIETRO. Ma l’imputabilità non entra in discussione lo stesso?

SARDIELLO. Certamente; ma ho messo apposta in rilievo le caratteristiche particolari nelle quali, direi, sfuma il giudizio tecnico giuridico anche su quella questione. V’è, insomma, una barriera che differenzia il reato comune dal reato politico. L’interruzione dell’egregio collega mi riporta alla mente il ricordo del pensiero di Francesco Carrara, il quale, giunto all’ultima pagina del suo immortale «Programma», quando avrebbe dovuto affrontare la trattazione del reato politico, vi rinunciava, non ritrovando i principî assoluti di cui il concetto giuridico penale ha bisogno, e diceva press’a poco così: se in teoria la politica impone il silenzio al giurista, nella realizzazione pratica, di fronte al reato politico, il giurista si ritira sotto la tenda. E questa differenza rimane e dà qualche luce alla distinzione che io faccio con la mia proposta di emendamento all’articolo 96.

E finirei. Ma ho bisogno, signori, ancora di un momento solo per liberarmi di una preoccupazione. Non vorrei che vi fossero sottintesi: eliminata la giuria, non vorrei che si riaffacciasse – o, purtroppo, restasse – lo scabinato. (Approvazioni). Su questo punto lo penso che non vi debbano essere divisioni.

Il giudizio… coloniale ha dato in Italia delle prove troppo note, troppo deplorate e troppo recenti perché sia necessario ricordarle ed illustrarle.

Lo scabinato riassume i difetti del giudizio della magistratura togata e di quello popolare. (Approvazioni). Il suo prodotto più espressivo è stato quello delle «sentenze suicide», vergogna della giustizia. E allora, onorevoli colleghi, che cosà faremo?

Noi veniamo da una duplice esperienza: l’esperienza della giuria che io non penso si possa rievocare con la visione rosea che animava le dolci parole del collega onorevole Persico, quando, rivolto a Giovanni Porzio, l’uomo dalle cento battaglie vittoriose davanti alla giuria, diceva: lei ha vinto sempre e con lei ha vinto sempre la giustizia.

Fuori dalla fiera delle infatuazioni: l’ora e l’argomento impongono la più grande responsabilità.

Noi veniamo dall’esperienza della giuria, la quale ha ricordi di successi e di esaltazioni per ciascuno di quanti avvocati siamo da qualche decennio oltre il mezzo del nostro cammino (e questo ci valga il riconoscimento della nostra probità, se avversiamo quello istituto!) ma ha pure ricordi di verdetti deprecati, che furono lutti della giustizia.

Ma veniamo anche dall’esperienza amara del collegio misto. Ora, sia chiaro che, se non vogliamo il volto della giuria, non ne vogliamo neppure la maschera, regalataci dal fascismo.

E allora la soluzione è in una verità profondamente umana: ogni giudizio è viziato dall’errore; in ogni giudizio umano v’è per lo meno la possibilità dell’errore. Quale rimedio contro questa eventualità? La nostra civiltà giuridica non ne conosce che uno: l’appello, il quale approfondisce il giudizio ed avvicina sempre più la pronunzia definitiva alla verità ed alla giustizia.

La giuria, l’assessorato, la stessa Corte criminale, vietano tradizionalmente la possibilità del secondo grado di giurisdizione. In una dotta relazione intorno alla riforma dei Codici elaborata dalla rappresentanza del nobile foro di Catanzaro rappresentato dall’illustre nostro collega onorevole Turco, ho letto la proposta di una Corte criminale con secondo grado di giurisdizione. Ma non mi pare che questo sia realizzabile.

E allora non v’è che una via: assegnare tutti i giudizi al magistrato ordinario consentendo per tutti il giudizio di appello. Si vedrà più tardi come dovranno essere composte le speciali sezioni dei Tribunali. Ma il principio generale – e soltanto questo ora qui disegniamo – non può essere altro. Né vedo come possano sorgere preoccupazioni. Devo dire che resto come sorpreso e perplesso quando vedo tanti valorosi colleghi derivare le loro preoccupazioni sulla opportunità di investire di tutti i giudizi i magistrati dal numero degli anni di reclusione da irrogare all’imputato. Ma non è dunque vero che, a volte, due anni di reclusione possono avere più gravi e dolorose conseguenze che non, in altri casi, quindici o venti per lo sciagurato al quale sono irrogati? Ma che dico? V’è qualche cosa che pare un niente: la formula di assoluzione, pure basta questo talvolta a precludere la via dell’avvenire ad un giovane, ad allontanare per sempre dal suo lavoro un uomo che vive del lavoro soltanto. Deve anche allora il giudice esser capace di sentire il peso di una grande responsabilità? Nessuno vorrà negarlo.

Il dramma – si potrebbe dir la tragedia – è qui, o signori: il giudice che non sia, sempre e dovunque, intellettualmente e spiritualmente preparato alla sua alta funzione. E questo addita l’obiettivo cui dobbiamo mirare. Quando avremo sempre e dovunque il magistrato moralmente, spiritualmente ed intellettualmente preparato, potremo, dovremo affidare ad esso la risoluzione di tutte le controversie.

Questa la meta cui dobbiamo mirare ora, apprestando la Costituzione e segnando l’indirizzo al legislatore di domani. Il fiore della Magistratura italiana sarà con noi. Così come ho impreso a parlare, con un augurio concludo: che la Magistratura e tutti gli italiani intendano il grande significato del fatto che qui, dove – in bassi dì – vennero esaltate – presidio degli interessi nazionali – le squadre armate e le milizie di parte, i rappresentanti del popolo, nella prima Assemblea della Repubblica italiana, affidano alla legge ed ai magistrati, che dalla legge soltanto dipendono, la tutela dei diritti di tutti i cittadini nella nuova vita italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 12.55.

LUNEDÌ 10 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXV.

SEDUTA DI LUNEDÌ 10 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Congedo:

Presidente

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente

Corbellini, Ministro dei trasporti

Mancini

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Nasi

Giannini

Labriola

Schiavetti

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno

Tumminelli

Sansone

Petrilli, Sottosegretario di Stato per il tesoro

De Martino

Rodinò Mario

Gonella, Ministro della pubblica istruzione

Crispo

Spallicci

Macrelli

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Andreotti, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri

Sansone

Canevari

Pressinotti

Interrogazioni (Annunzio):

Presidente

La seduta comincia allo 16.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Pellizzari.

(È concesso).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.

La prima è quella dell’onorevole Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere le cause del grave disastro sulla linea ferroviaria Camigliatello-Cosenza, gestita dalla Società Calabro-Lucana, nel quale hanno incontrato la morte cinque padri di famiglia, e si lamentano numerosi feriti. Si chiede se sia consentito, su queste linee a forte pendenza, il movimento di automotrici, logorate dal tempo e dall’uso, e per giunta sottoposte quotidianamente ad un sovraccarico di viaggiatori. I quali non lasciano nemmeno libero – con evidente e continuo pericolo – lo spazio riservato al conducente, di cui limitano vigilanza e possibilità di movimento, e di immediata e provvida manovra».

L’onorevole Ministro dei trasporti ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Il disastro di cui parla l’onorevole interrogante è avvenuto su una linea secondaria che ha una forte pendenza, dove le condizioni di esercizio sono particolarmente difficili: pendenze fino al 6 per cento, curve di raggio di 100 metri. Le norme di esercizio che regolano queste automotrici sono tecnicamente controllate dall’Ispettorato della motorizzazione e non v’è, quindi, nulla da eccepire al riguardo.

Il giorno del disastro era in servizio una vettura antiquata la quale però non era sovraccarica; vi erano anzi meno posti occupati di quelli che essa non consentisse, giacché consentiva 59 posti e ne aveva occupati soltanto 42. Evidentemente c’è stato in questa automotrice un conducente il quale, come è risultato dall’inchiesta, non è stato abbastanza pronto ed avveduto, come è richiesto da quel particolare tipo di motore, per ottenere il cambio della velocità in discesa.

Nelle discese infatti, tale tipo consente una velocità di marcia di 40 chilometri, mentre la velocità di fuga è di poco superiore. È accaduto invece che, in un momento di disattenzione, il conducente si sia fatto prendere la mano dal veicolo che ha aumentato la velocità; il capotreno non ha provveduto a frenare in tempo e il veicolo è sviato.

Sono difatti da lamentare, dolorosamente dei morti e dei feriti.

Circa le responsabilità, purtroppo queste fanno capo, come ho detto, al conducente, che non è stato molto pronto. I freni sono stati trovati in buon ordine. Devo qui chiarire che in questi veicoli particolari, con freni ad aria compressa, ad azione diretta e moderabile, il viaggiatore interviene come peso frenante; quindi, se anche il veicolo è sovraccarico, agli effetti della frenatura, il pericolo non esiste. I veicoli sono vecchi, ma sono stati revisionati da meno di un anno e quindi erano tutti in condizioni tecniche di sicurezza.

Agli effetti del miglioramento di questo servizio, posso dire che è previsto che la Società Calabro-Lucana, compatibilmente coi fondi patrimoniali disponibili e con le condizioni del bilancio di esercizio, potrà sostituire gradualmente le automotrici a due assi con quelle a carrello di tipo più moderno consentendo così una migliore velocità e un numero di posti circa doppio di quello offerto attualmente.

Comunque, posso assicurare che, dall’inchiesta in corso, non sono state riscontrate manchevolezze di carattere tecnico tali da poter preoccupare.

Ho disposto, 20 giorni or sono, di fare un supplemento d’inchiesta per chiarire alcuni dettagli costruttivi e di carattere secondario, che però non possono sostanzialmente modificare quello che ho detto.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MANCINI. Onorevoli colleghi, dirò poche ma sentite parole. Non posso e non debbo dichiararmi sodisfatto, per la semplicissima ragione che non condivido per nulla l’opinione del Ministro dei trasporti, il quale è venuto qui alla Camera a riferire l’opinione dell’ispettore mandato immediatamente a Cosenza dopo il disastro. Io non so se il suo mandatario, signor Ministro, si sia recato proprio sul luogo del disastro per notare come questa ferrovia scorra sull’orlo di un terribile precipizio; io non so se abbia esaminato attentamente quella tale automotrice che mi si dice abbia al suo attivo (o al suo passivo!) più di un milione di chilometri di percorso. Io non so se si sia premurato di assumere informazioni presso il Procuratore della Repubblica, che si è recato insieme ai tecnici sui luoghi. Certo si è che l’opinione riferita oggi all’Assemblea dal Ministro, corrisponde perfettamente all’opinione dei dirigenti della Società Calabro-Lucana. I quali avevano ed hanno interesse a rovesciare sulle povere spalle del conducente tutta la loro evidente responsabilità!

La verità è una sola: quella che è stata constatata immediatamente e che mi è stata riferita: cioè: che l’acceleratore si è trovato sganciato, che la marcia non si è trovata a posto, mentre, dato il dislivello, l’acceleratore doveva essere al minimo e la marcia doveva essere ingranata.

Di chi la colpa? La colpa – a mio parere e a parere di tutti coloro che sono a conoscenza di tutto quel che succede sulle rotaie ferroviarie nella mia provincia, e specialmente a Cosenza, il disastro fu dovuto in maggior parte al materiale logorato della Società Mediterranea. Questo materiale combatte una lotta accanita fra il tempo e la necessità dei servizi, poiché sono dodici anni che la Società Calabro-Lucana non rinnova nemmeno una carrozza. E c’è un’altra causa intrascurabile: l’eccedenza dei viaggiatori. Non l’eccedenza – signor Ministro – nei rapporti della velocità, perché nei rapporti della velocità tale eccedenza avrebbe dovuto servire da freno, ma soltanto nei rapporti della resistenza del materiale logorato.

Vuole una prova, signor Ministro, che ciò che affermo qui, dinanzi alla Camera, risponde perfettamente a verità? Ebbene, non erano passati nemmeno dieci giorni da tale disastro che un’altra automotrice ha subito un altro incidente: si è spezzato, a pochi chilometri dal punto dove è avvenuto il disastro, l’asse del carrello anteriore. E sapete chi c’era nell’automotrice? C’erano 64 ragazzi reduci dalla Colonia Silana. Fortunatamente tutto è finito con contusioni e con panico e non è successo nulla, altrimenti avremmo dovuto lamentare uno di quei disastri simili alla ecatombe sul mare di Livorno. Ma non basta: or fa venti giorni una automotrice alla discesa di Carpanzano ha sofferto la rottura dell’asse del carrello anteriore. Incidenti a ripetizione. Ora io domando a lei e a tutti i colleghi che mi ascoltano: è possibile, è giusto, ed oso dire… onesto che una città come Cosenza sia stretta nella morsa di due trappole ferroviarie? Una trappola è rappresentata dalla Cosenza-Paola, per deficienza di costruzione e un’altra trappola è costituita dalla ferrovia Calabro-Lucana per deficienza del materiale. Un anno e mezzo fa, 18 bare sfilarono per le vie della città ed ora altre cinque bare hanno commosso tutta la cittadinanza.

La mia protesta lascia il tempo che trova, come la sua risposta, Signor Ministro. Ma i disastri creano lutti, spargono lacrime, scavano solchi profondi di affanni, di miserie, di maledizioni. È necessario che una buona volta il Governo si rammenti della Calabria e se ne rammenti con urgenza, con serietà, con premura. Il problema ferroviario calabrese è un problema che richiede tutta la sua attenzione, signor Ministro. Abbiamo quelle due melanconiche linee che partono da Napoli, una lungo la riviera del Tirreno e l’altra lungo la riviera dello Jonio per congiungersi a Reggio Calabria, e che sono nelle stesse condizioni di arretratezza, in cui erano 40 anni fa. Abbiamo poi il «tronco della morte»: Cosenza-Paola. Esiste in proposito un progetto dovuto all’ingegnere Nicolosi, che suggerisce una opportuna modifica a quel tracciato pericoloso, dove tanti disastri sono avvenuti Non è più l’ora degli espedienti. Bisogna risolvere il problema con nuove costruzioni adeguate al traffico attuale. Inoltre la garanzia della vita dei viaggiatori è un dovere dello Stato: è un diritto del cittadino.

Signor Ministro provveda, non con le promesse, ma con i fatti.

PRESIDENTE. Segue un’altra interrogazione dell’onorevole Mancini, al Ministro dei trasporti, «per conoscere se non creda doveroso mettere in esercizio sull’elettrotreno Roma-Reggio Calabria lo stesso materiale ferroviario in uso sull’elettrotreno Roma-Milano, aggiungendovi, come in questo, qualche vettura di seconda classe. L’interrogante chiede ancora che venga concessa, sodisfacendo i voti delle popolazioni cosentine e catanzaresi, una vettura diretta sul diretto che parte da Roma alle ore 19.10».

L’onorevole Ministro ha facoltà di rispondere.

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Il problema delle comunicazioni della Calabria non è abbandonato dal Governo, anzi da noi è particolarmente curato.

MANCINI. E come?

CORBELLINI, Ministro dei trasporti. Basterebbe dire che l’elettrificazione della linea del Tirreno è un dato di fatto, al quale abbiamo dedicato una delle nostre maggiori attività della ricostruzione. Basterebbe dire che la Cosenza-Paola ha già in servizio l’automotrice ad aderenza completa che ho studiato personalmente disegnandone i particolari costruttivi e sostituendo l’aderenza a dentiera con l’aderenza naturale; ciò che ha più che dimezzato il tempo di percorrenza.

È questo un modernissimo sistema di trazione in tale campo, studiato appunto per migliorare i servizi.

Potrei infine aggiungere che sulla Cosenzia-Paola oggi vi sono nove coppie di treni al giorno. Quando si vuole parlare di acceleramento dei servizi elettrici tra Napoli e Reggio Calabria, non si deve dimenticare quali sono le particolarità essenziali di quella linea. Orbene, gli elettrotreni, che furono progettati nel mio ufficio nel 1934-36, furono costruiti per linee assolutamente di pianura, capaci di consentire una altissima velocità (160 km ora). Essi attualmente fanno servizio sulla Milano-Roma, e sono stati spinti sino a Napoli, dove la pendenza massima è soltanto del 12 per mille. Non è possibile mandarli oltre Napoli se non limitatamente a Nocera inferiore. Quindi, l’elettrotreno del tipo attuale non è idoneo a fare servizio fino a Reggio Calabria; perché, come vi sono le locomotive da montagna e da pianura, così, vi sono anche gli elettrotreni atti alla montagna e alla pianura e la salita di Cava, che è del 22 per mille, non si può fare con i quegli elettrotreni. Ma simili difetti sono già stati superati dalle caratteristiche dei nuovi elettrotreni in costruzione, che potranno permettere di andare da Milano a Reggio Calabria ad una velocità assai superiore a quella attuale. Purtroppo questi elettrotreni, disegnati dopo la liberazione, si sono potuti ordinare soltanto pochi mesi fa, perché in questo campo non si possono fare delle improvvisazioni.

Con questo, assicuro che il servizio attuale delle elettromotrici, da Napoli a Reggio Calabria, che sostituiscono gli elettrotreni, e con le quali si possono superare quelle salite, può essere praticamente tollerabile. Indubbiamente è un servizio ancora incompleto, perché non va dimenticato che le Ferrovie dello Stato, si trovano attualmente appena a metà della loro ricostruzione. È facile fare delle critiche, ma quando le Ferrovie dello Stato, in poco meno di due anni, hanno fatto quel lavoro che hanno fatto, bisogna prendere atto della loro lodevole attività ricostruttiva. Essa si è sviluppata anche in un lavoro che non ancora avete visto, perché è nei progetti degli uffici studi e negli impianti costruttori dove si lavora a catena per la nuova produzione. Vedrete che faremo qualcosa di nuovo e di moderno, tecnicamente molto progredito, e lo faremo anche per la Calabria, perché anch’essa è degna di tutta la considerazione, come tutte le regioni Italiane. Non ho altro da dire.

PRESIDENTE. L’onorevole Mancini ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MANCINI. Onorevoli colleghi, veramente il Ministro non ha risposto alla mia interrogazione. Questo è il punto importante e nello stesso tempo molto eloquente. Ma oltre a questo, non ha risposto nemmeno alle mie obiezioni precise e dettagliate nei riguardi della prima interrogazione. Infatti, egli ha testé detto: il Governo è intervenuto anche per la Calabria – quell’anche sfuggito inavvertitamente dalle labbra del Ministro dice tante cose…

Una voce a sinistra. È un poema!

MANCINI. E come è intervenuto? È intervenuto con quattro automotrici, disegnate dal Ministro. Comprendo che sono… speciali ed è stato sommo onore per noi averle. Ma esse non risolvono il problema e non ci salvano dal pericolo, di cui ho già parlato, perché quando una di queste quattro motrici, disegnate dal Ministro, per un qualsiasi guasto deve rimanere in officina, si sospende il servizio. Comunque, le quattro automotrici non sono sufficienti per il servizio Cosenza-Paola, dove sono necessari alcuni treni, sia per merci, che per i viaggiatori. Ora, se il pericolo è evitato per le quattro automotrici, non è evitato per i treni. Onde la risoluzione di questo problema dannoso e gravissimo dovrà essere trovata ben altrimenti.

La seconda mia interrogazione si riferisce all’elettrotreno che si arresta a Napoli… come se temesse di andare oltre. Anche in questo la differenza fra Nord e Sud. A tale proposito devo far osservare al Ministro che pur non essendo un tecnico, ho naturalmente, prima di presentare la mia interrogazione, chiesto a qualche tecnico, che potrebbe esser magari uno delle ferrovie, il quale se non è stato fortunato nella carriera come il Ministro è pure di gran valore, dilucidazioni sulla mia richiesta. Ebbene egli mi ha detto che l’ostacolo di cui ha parlato il Ministro può facilmente superarsi, in quanto con la seconda classe che dovrebbe essere istituita sul rapido Roma-Reggio Calabria si verrebbe ad attaccare all’elettrotreno un’automotrice. Ed allora l’automotrice, avendo un rapporto maggiore di quello che non abbia l’elettromotrice, ne compenserebbe la mancanza di rapporto, onde il problema potrebbe dirsi risoluto, e quindi, da Napoli in giù, potrebbe anche la Calabria usufruire dell’elettro-treno e i «terroni» viaggiare allo stesso modo dei cittadini nordici.

Ma, signor Ministro, la verità è ancora più ingrata. L’ho raccolta con rinnovata amarezza qualche ora fa sulle labbra del mio carissimo compagno onorevole Sansone.

Signor Ministro, mandi qualcuno alla stazione ferroviaria di Roma quando parte il diretto delle 16 e 20 per Reggio Calabria. Il suo osservatore le riferirà le condizioni miserevoli della carrozza diretta per Cosenza.

Una carrozza, come si dice, superclassata, cioè una carrozza di terza classe diventata di seconda. E non per tutti i giorni. A giorni alternati; perché presta ingrato servizio anche una carrozza di terza classe, mentre si paga il biglietto di seconda. Ora questa sgangherata carrozza lascia tutto a desiderare, dalla luce ai gabinetti.

Non è compatibile nemmeno con quel poco conforto che un viaggiatore, che paga fior di quattrini, ha il diritto di pretendere. Il mio amico e compagno Sansone è stato costretto a scappare dalla carrozza cosentina e rifugiarsi nella vettura Roma-Palermo.

Ed allora, signor Ministro, io non voglio ricordare quello che ho già detto qualche momento fa svolgendo la mia precedente interrogazione, ma un po’ di bilancio debbo farlo: Cosenza è attaccata ad un tronco pericoloso, dove aleggia la morte. Possiede soltanto quattro automotrici, che da un momento all’altro potrebbero far sospendere il servizio viaggiatori. L’elettotreno si arresta. Una sola vettura va e viene da Roma e questa vettura mortifica chi vi penetra…

Ho il diritto di protestare con tutti i mezzi? Che cosa si deve fare per smuovere il nullismo del Governo?

Un po’ di riguardo verso questo Mezzogiorno si vuole avere o no? Sembra un ritornello uggioso, la istanza che ogni tanto si eleva da questi banchi per rammentare, reclamare, invocare. Ma il Governo è sordo al grido di dolore che viene da laggiù. Che cosa dobbiamo fare? Dobbiamo passare forse dalle parole a proteste più espressive? La pazienza ha un limite. Le nostre popolazioni hanno un grande torto, onorevole Ministro e signori del Governo, hanno il torto di aver subìto e di subire pazientemente questo stato di cose. Le nostre popolazioni hanno un torto soltanto, quello di non aver presentato come le altre regioni d’Italia il bilancio delle loro necessità. Anche la Calabria poteva presentare la partita del suo «avere», dopo aver dato tanto. Vecchia ed inutile storia. Io vi richiamo all’imparzialità regionale, signor Ministro e signori del Governo, e sia detto una volta per sempre! (Applausi).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Nasi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se egli non stimi che possa tradursi in grave accusa contro il Governo l’affermazione del quotidiano Buonsenso di essere stato costretto a cessare la pubblicazione per aver perduto le abituali sovvenzioni di organismi e ceti plutocratici e questo non appena il Qualunquismo si schierò contro il Governo democristiano. Se non ritenga, altresì, che debba sollecitarsi la discussione alla Costituente della legge sulla stampa, che contempli anche la denunzia delle fonti di finanziamento dei giornali».

L’onorevole Sottosegretario di Stato ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Alla interrogazione dell’onorevole Nasi si potrebbe rispondere, specie per la prima parte, con poche parole, dicendo che il Governo è stato completamente estraneo alle vicende che hanno condotto alla sospensione del giornale Buonsenso, e che quindi ogni insinuazione o critica, o è gratuita o è calunniosa. Ma quando si tocca direttamente o indirettamente lo scottante tema della libertà di stampa, di cui il Governo, mi onoro di ripetere, è verso tutti gelosissimo custode, sembra indispensabile soffermarci analiticamente su quanto viene affermato nelle interrogazioni, perché nessuno possa in buona fede continuare a nutrire dubbi o apprensioni.

Leggendo senza preconcetti l’articolo del collega Basevi a cui si riferisce l’interrogazione dell’onorevole Nasi, si ha anzitutto chiara la sensazione dello stato, per doppio riguardo, emotivo in cui si trovava l’autore. Da un lato, a motivo delle non lievi polemiche interne del partito qualunquista in quel momento, che traspariscono dai secchi accenni ai disgregatori e ai «necroforici e allucinati marescialli». D’altro canto, chi conosce cosa sia un giornale, sa i legami che esistono fra i fattori che concorrono alla produzione e l’oggetto prodotto, e può bene immaginare il rammarico commosso di un direttore che sia al punto di dover, per forza maggiore, sospendere la pubblicazione. In simile condizione psicologica è facile dare, a chi si presume sia stata la causa o la concausa del decesso, anche l’epiteto di fascista, fascista bianco o di altro colore. Del resto, chi di noi non ha molte volte erogata o subita tale qualificazione con una reciprocità così palese, anche se di discutibile gusto?

Ma l’onorevole Nasi propone al Governo un quesito preciso, domandando cosa ne pensiamo della denuncia di procurato affamamento dell’organo qualunquista, a suo dire contenuta nell’ultimo numero del Buonsenso. Cosa può risultare al Governo delle fonti di un giornale? Conviene osservare forse che quanto ha detto l’onorevole Nasi, che, cioè, le sovvenzioni al Buonsenso da parte degli organismi e ceti plutocratici sono cessate in dipendenza dell’atteggiamento dell’Uomo Qualunque contro il Governo attuale, non corrisponde di per sé al testo dell’articolo di Basevi, che anche noi avevamo letto con l’attenzione che meritano problemi politici e di stampa del genere; così come tutti potevano leggere gli accenni alla stampa dell’Uomo Qualunque fatti in molte occasioni, scritti o verbali, da organi e persone responsabili di quel partito.

Secondo un metodo che non ha molti seguaci, l’Uomo Qualunque ha parlato spesso pubblicamente e con diffusione della propria situazione amministrativa; e basta prendere gli atti dei due Congressi Nazionali del Fronte e la collezione dei molti quotidiani e del settimanale per essere sufficientemente informati. Direi che si è di fronte ad una volontà di fare parziale anticipazione di quella pubblicità delle fonti finanziarie a cui si riferisce l’onorevole Nasi. Si può apprendere così da reiterate affermazioni che, al contrario di quanto normalmente avviene, per lungo periodo e dopo breve inizio a sottoscrizione popolare per la carta, è stato l’attivo del settimanale L’Uomo Qualunque a finanziare il relativo partito ed anche le edizioni, romana e milanese, del Buonsenso, il cui bilancio è rimasto, per altro, al pareggio fino al febbraio dell’anno in corso. Questo è detto nell’Uomo Qualunque dell’11 dicembre 1945 e del 12 febbraio 1947. Successivamente apprendiamo, sempre dallo stesso giornale, che «gli aumentati costi delle aziende giornalistiche hanno appesantito il bilancio editoriale, tanto da far gettare l’allarme e da fare mettere nelle previsioni la sospensione della pubblicazione». Sono parole testuali di parecchia stampa qualunquista, compreso il Buonsenso, romano e milanese, che, si diceva – e questo il 12 febbraio 1947, molto prima della polemica, cui ha accennato l’onorevole Nasi – saranno tra i primi ad essere sacrificati.

L’onorevole Nasi dice: «Se si fosse già stabilito legislativamente l’obbligo di denuncia delle fonti di reddito dei giornali, noi sapremmo nome e cognome di chi ha sanato per un periodo i passivi degli organi qualunquisti e potremmo essere illuminati a dovere sugli aspetti politici di tale operazione».

Tale osservazione è sostanzialmente ingenua e formalmente intempestiva: ingenua, perché l’organo di stampa di un partito segnerà al proprio attivo, nella voce contribuzioni del partito, esattamente tanto quanto basterà per il deficit; sicché il bilancio quadrerà perfettamente e non vi sarà revisore dei conti, il più severo che sia, a trovare da eccepire alcunché. Di più non può chiedersi, e ci si dovrà, se mai, limitare a conoscere, per sommi capi, la statistica delle contribuzioni dei singoli lettori al loro giornale o ad apprendere, in sede polemica, l’avvenuto dono di un gruzzoletto di dollari da un qualunque zio d’America in pro di gruppi, che non tralasciano occasione per accusare gli altri di avere stretti legami col mondo americano.

Vero è che l’Assemblea ha deciso, all’articolo 16 della Costituzione, che la legge può stabilire con norme di carattere generale che devono risultare noti i mezzi finanziari della stampa periodica; ma, se mai sarà applicabile seriamente un tale principio, esso dovrà trovare attuazione nel prossimo parlamento, dopo l’approvazione dell’intero testo costituzionale.

Non può del resto omettersi, tornando al fatto specifico, che, se il Basevi ha parlato di offerti e non chiesti aiuti, venuti a mancare al giornale, nell’ampia documentazione contenuta nell’ultimo numero dell’Uomo Qualunque si ha una precisa dichiarazione circa promesse di sovvenzioni fatte da alcuni industriali, «senza che alla promessa facesse mai seguito l’erogazione materiale. Ciò conferma, se mai, che le difficoltà finanziarie non sono nate oggi per il complesso editoriale qualunquista; ma sono interna corporis di partito. Evidentemente noi non possiamo entrarci e dobbiamo limitare e riconoscere che nessun elemento esiste, per cui possa imputarsi al Governo la crisi di questo o di altro giornale.

Aggiungo l’augurio che il disagio del Buonsenso possa essere presto superato ed il giornale riprenda la sue pubblicazioni poiché non è senza preoccupazione che si assiste al fenomeno della scomparsa di organi di stampa di partiti che hanno il diritto ed il dovere di interloquire quotidianamente sulle vicende e gli sviluppi della politica nazionale ed internazionale.

PRESIDENTE. L’onorevole Nasi ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

NASI. Dovrei anzitutto dichiarare che non faccio parte di nessun gruppo di guastatori, fra i quali ha creduto di classificarmi l’organo dei repubblicani storici; guastatori i quali dovrebbero precedere l’irrompere delle masse socialiste e comuniste contro il Governo. (Commenti).

L’attenzione che ha destato la mia interrogazione, che forse è ingenua, può significare che ho messo il dito su una piaga e che l’opinione pubblica non è insensibile davanti a certi problemi di moralità. Il Sottosegretario ha risposto ampiamente, ma in fondo mi ha quasi detto: lei ha sbagliato indirizzo; il Governo che cosa c’entra? Mi ha anzi detto che io avrei posto male la questione. In fondo, onorevole Sottosegretario di Stato, la questione non l’ho posta io, ma l’ha posta nel momento di morire, con la speranza di rinascere, il direttore del Buonsenso. Che speranza di cosa ha egli detto e che cosa si può cavare da quel che egli ha detto?

Osservo che in altri tempi, anche in Italia, con la dichiarazione cruda che ha fatto il direttore del Buonsenso, le acque di Montecitorio si sarebbero smosse violentemente ed il Governo si sarebbe trovato nella necessità di pensare ai casi suoi. (Commenti).

Non mi fermerò molto su quel che ha detto il direttore del Buonsenso, ma non posso tralasciare di riassumere il suo pensiero, che in fondo è stato questo: io, Buonsenso, vivevo con le sovvenzioni che mi venivano da gruppi di industriali o di agrari, non so bene; quando questi gruppi hanno creduto di dover aderire alla politica del Governo e si sono intesi sicuri che questa politica non li colpisse, non ho più avuto sovvenzioni ed ho dovuto cessare le pubblicazioni. È una crudezza assoluta di parlare: fa male, male quasi come il racconto di una prostituta sulle sue giornaliere esercitazioni. (Commenti). Ma l’onorevole Giannini ha illustrato maggiormente la questione e ci ha fatto sapere di essere stato assillato da questi famelici, i quali sono parecchi – pare – in Italia, per essere difesi, quando la politica dell’onorevole Einaudi non si confaceva ai loro interessi. Però – soggiunge l’onorevole Giannini – e questo ha dell’incredibile – quando l’onorevole De Gasperi si è deciso a versare a questi ricattatori dei miliardi, questi stessi che mi avevano pregato e mi avevano sovvenzionato, mi hanno detto: «Alto là! Il Governo non si tocca!» Allora io mi sono visto costretto – io, direttore del giornale – a sospendere le pubblicazioni.

Devo dire all’onorevole Giannini, se me lo permette, che egli non ha reso un buon servizio al Paese quando ha difeso della gente dai pericoli della avocazione e dell’epurazione, quando ha difeso degli affaristi e degli appaltatori. Egli non poteva aspettarsi altro guiderdone oltre quello che ha avuto.

E mi permetto di dirgli, anche, che io non ammiro questo sistema giornalistico che si fonda sulla compra-vendita e sulla resa dei servizi. Io aspiro e penso ad un giornalismo indipendente.

Naturalmente, egli sa, perché gli sono amico, che non vengo neanche qui a domandare un giudizio contro di lui, come si è fatto contro un deputato alla Camera inglese.

Ma, veniamo a quello che sostanzialmente è stato detto dal giornale e dallo stesso Giannini.

Il Buonsenso e Giannini stesso hanno detto: «Il Governo interviene direttamente e indirettamente nella stampa; il che significa che il Governo fa presa sulla stampa per corromperla e così far sua l’opinione pubblica».

Questo, in sintesi, il discorso del Buonsenso e di Giannini.

GIANNINI. Troppa sintesi!

NASI. Oggi, si sospendono i fondi al Buonsenso. Ma questo fatto ha dei precedenti, che sono stati un po’ tralasciati dalla pubblica attenzione, anche perché naturalmente la stampa sussidiata non ne ha fatto quella propaganda che era necessaria.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Quali fatti?

NASI. Noi sappiamo, e deve saperlo anche l’onorevole Sottosegretario di Stato che è un valente giornalista, che il Giornale dell’Emilia, a Bologna, sussidiato dagli agrari, mentre marciava democraticamente e non era favorevole al Governo, un bel giorno dovette cambiare direzione ed ora sostiene naturalmente la Democrazia cristiana.

GIANNINI. Avrebbe dovuto morire il giornale!

NASI. Ma c’è un altro caso ancora più grave, perché avallato da due giornalisti intemerati quali sono Corrado Alvaro e Gaetano Natale. A Napoli, il Risorgimento dell’armatore ed ex fascista Lauro naviga in acque democratiche e si spinge a punte estreme di democrazia. L’armatore lascia fare. Un bel giorno arriva a Napoli il Ministro della marina mercantile, l’onorevole Cappa, ed allora l’armatore Lauro si fa fotografare insieme a Cappa: la rotta cambia ed il giornale viene messo sul binario democristiano. Ed io vorrei far notare all’onorevole Sottosegretario di Stato le parole che sono state stampate mentre si svolgeva l’avvenimento, che sono di una gravità eccezionale, e di cui avrebbe dovuto tener conto il Governo. «D’ora in poi – è stato stampato – il Risorgimento diventerà l’organo ufficioso della Democrazia cristiana, o meglio del Governo di De Gasperi. Per Lauro la contropartita consiste nell’appoggio da parte del Governo e del Ministro della marina mercantile per i suoi interessi di armatore». (Commenti al centro).

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma, dove è scritto questo?

NASI. Sull’Avanti. Come si vede il Governo non può dire che non c’entra. E c’entra anche il partito che è al Governo, perché oggi la Democrazia cristiana e il Governo sono un tutto inscindibile.

Io faccio soltanto notare che quelli che oggi pagano i giornali sono gli stessi che pagavano sotto il fascismo. (Applausi a sinistra). Sono gli stessi che ora tentano l’arrembaggio alle fonti dello Stato e a tutti i punti cruciali della Nazione, sono gli stessi che noi dobbiamo affrontare. È un cancro questo nella vita della Nazione, che bisogna assolutamente estirpare.

Dovrei ora passare alla seconda parte della mia interrogazione, e cioè dire perché è necessario che la legge sulla stampa sia discussa in questa Assemblea.

PRESIDENTE. C’è un’altra interrogazione dell’onorevole Schiavetti su questo punto.

NASI. Mi limiterò, perciò, a dire che, alla vigilia delle elezioni, non è possibile lasciare la legge vigente che è quella fascista, aggravata dal decreto Badoglio. Se dovesse essere conservata quella legge, noi delle sinistre in specie potremmo andare incontro a gravi incognite. (Commenti – Rumori). Si potrebbe, quindi, stralciare dal progetto che è davanti all’Assemblea quella parte che riguarda le fonti delle sovvenzioni: per lo meno il lettore saprebbe per conto di chi si scrive il giornale. È necessario che questo problema, che è politicamente e moralmente grave, sia affrontato. È necessario che il Governo non sia d’accordo con i gruppi che sussidiano la stampa, gruppi che vanno dai liberali ai fascisti; è necessario che in una Repubblica democratica la stampa sia strumento di educazione e non di corruzione. (Applausi all’estrema sinistra).

GIANNINI. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. Signor Presidente, onorevoli colleghi, credo che dovrete avere la cortesia d’accordarmi qualche minuto di più per lo svolgimento di questo fatto personale, che è anche un fatto di carattere generale.

Dovrei incominciare col rettificare alcune inesattezze nelle quali è caduto il collega Nasi; ma preferisco incominciare ringraziando il giovine e valente Sottosegretario alla Presidenza, il quale ha detto la cosa che più m’interessa come giornalista e come deputato. Il Sottosegretario ha detto: da questa esasperazione polemica, di cui non avevamo esempi nella storia politica passata – e in questo spero che non ci sia rimprovero, onorevole Andreotti, perché la storia si deve rinnovare; guai se andassimo ancora a cavalcioni degli elefanti, come ai tempi d’Annibale! – da questa esasperazione si deve dare atto che il Buonsenso, che la stampa qualunquista ha, in un certo senso, anticipato la pubblicità sulle fonti alle quali i giornali attingono i mezzi di vita.

La ringrazio, onorevole Sottosegretario, di questo riconoscimento, che interpreto come una lode: se sbaglio, lei mi correggerà. E l’interpreto come una lode, onorevoli colleghi, per questa ragione; perché in tutta la nostra azione politica, in tutta la nostra azione giornalistica – e quando dico «nostra» intendo dire quella dell’«Uomo Qualunque», di quei miei amici che erano, sono e saranno militi dell’«Uomo Qualunque» – noi siamo i protagonisti d’una tragedia che si potrebbe dire la tragedia della verità.

Noi abbiamo detto una verità politica al nostro inizio: vogliamo che l’«Uomo Qualunque» governi se stesso. Questa è una formula, onorevoli colleghi, ampia, che ha bisogno d’integrazione, di collaborazione da parte di tutti i tecnici, di tutti i pratici, di tutti gli scienziati. Sarà una formula vaga, elastica: ma è una formula.

Noi vediamo che l’uomo qualunque paga sempre le conseguenze di una politica che dirò tradizionale – non voglio adoperare l’espressione «professionale», con cui, forse, potrei offendere pochi o molti colleghi. – Allora ci siamo detti al nostro sorgere: poiché l’uomo qualunque non è più la massa amorfa e indisciplinata dell’antichità, poiché c’è un meccanismo, anche statuale, che permette a chicchessia d’entrare in possesso d’un minimo di cultura; poiché c’è una stampa, c’è una radio, ci sono altri mezzi di diffusione del pensiero, non riteniamo che la politica debba essere più il monopolio d’una piccola aliquota specializzata, ma libera a tutti. Di tanto abbiamo un esempio anche brillante, nel nostro amico e collega Corbellini, che fa il Ministro, e lo fa bene, e dimostra così che non c’è bisogno d’esser un parlamentare per esser un buon Ministro.

Sembra che quest’idea sia stata affascinante, perché molta gente è confluita a noi, molti elementi del cessato regime, molti monarchici, molti elementi d’estrema destra; e sono confluiti a noi anche elementi dell’estrema sinistra (Commenti a sinistra); sono confluiti molti elementi repubblicani. (Commenti).

Una voce al centro. È confluito anche Togliatti!

GIANNINI. C’è un democristiano che m’informa che è confluito anche l’onorevole Togliatti. Mi meraviglio che il nostro segretario generale onorevole Tieri non m’abbia comunicato quest’importante adesione. Ma andiamo avanti, che cos’è accaduto, caro Nasi?

È accaduto che il travaglio del crivello, che in tutti i vecchi partiti si svolge attraverso i decenni, nel nostro giovine partito è invece inizialmente e continuamente in funzione. C’è quindi chi ci può rimanere e chi non ci può rimanere; chi sente la forza e il coraggio di resistere a certe difficoltà e chi non sente tale forza e tale coraggio.

Non intendo parlare soltanto di parlamentari, ma anche di chi vive intorno ai partiti e che lei, caro amico Nasi, conosce meglio di me. Onorevoli colleghi! Io sono nato giornalista, perché faccio il giornalista dall’età di quindici anni e non credo di farlo male. È pertanto con la mia esperienza di giornalista che vi dico che in Italia non ci sono forse tre giornali veramente indipendenti, se per indipendenza s’intende quella finanziaria.

Vorrei che nessuno m’obbligasse a fare dei nomi, ma, quando dico tre, credo d’abbondare. (Interruzioni al centro). C’è qualche cosa che non va? (Si ride). Dicevo: c’è però un grande giornale, finanziariamente indipendente, ed è il mio, onorevoli colleghi: il mio giornale, l’Uomo Qualunque, il settimanale Uomo Qualunque, il quale ha un’enorme indipendenza finanziaria, che gli è data dalla sua diffusione, dal numero dei suoi abbonati, dall’alto costo della sua pubblicità.

È grazie a questo giornale settimanale veramente indipendente, onorevoli colleghi, che la nostra corrente politica è viva. Ed è viva perché? Perché intorno a tutti i partiti si cristallizzano o tentano di cristallizzarsi vari interessi. E tendono a cristallizzarsi, oltre che vari interessi, anche degli… Non so come potrei chiamarli… Degli «intellettualismi», che sono le pretese di coloro che sia dalle farmacie di villaggio, sia dalle sale dorate dei grandi Consigli d’amministrazione, pretenderebbero di dirigere il Governo, di manovrarlo, di dare la loro impronta alla vita politica della Nazione.

Che cosa accade allora? Accade che, siccome per stampare dei giornali occorre molto danaro, questo denaro si finisce col cercarlo in quei tali ambienti.

LABRIOLA. Il danaro deve darlo il pubblico e soltanto il pubblico se il giornale vuol essere onesto.

GIANNINI. Ma, onorevole Labriola, lei dice una cosa che non è esatta, perché lei dirige un giornale che è finanziato dall’armatore Lauro! (Commenti).

Ora, io non faccio che dire la verità; l’ho sempre detta, onorevoli colleghi, la verità. (Interruzione del deputato Labriola).

PRESIDENTE. Onorevole Labriola, verrà il suo turno: darò la parola anche a lei.

GIANNINI. L’ho sempre detta e me ne vanto. Ma debbo soggiungere che se non avessi il mio settimanale, e se questo mio settimanale non mi desse i mezzi larghissimi che mi dà, non avrei la possibilità e forse nemmeno il tempo di dirla la verità. La verità è un lusso. Ora, bisogna distinguere, onorevole Nasi, fra quei giornali che «accettano» un aiuto indispensabile, senza di che il giornale non si fa, e quelli invece che «si vendono» per ottenere questo aiuto.

LABRIOLA. Non è punto vero: il giornale vive con il pubblico.

PRESIDENTE. Lasci dire, onorevole Labriola: poi parlerà anche lei.

GIANNINI. Professore mio, per quanto io sia stato suo allievo, e l’abbia sempre rispettato, non v’è ragione per cui lei mi debba mancare di rispetto.

LABRIOLA. Ma io non le ho per niente mancato di rispetto.

GIANNINI. Ma se non mi lascia parlare! (Si ride).

PRESIDENTE. Non faccia dialoghi, onorevole Giannini.

GIANNINI. Scusi, signor Presidente.

Bisogna dunque distinguere questi giornali in due categorie: chi accetta aiuti incondizionatamente, e chi si vende per essere aiutato.

Ora, non so come all’onorevole Nasi sia sfuggita questa cristallina circostanza che, data la mia capacità giornalistica, dati i mezzi personali di cui posso disporre sacrificando, se voglio, ancora di più il settimanale Uomo Qualunque, dato il fatto che, bene o male, sono alla testa d’un partito, se avessi voluto continuare il Buonsenso mi sarebbe bastato accontentarmi, adattarmi, accettare certi determinati consigli per continuarlo. Mi meraviglio come sia sfuggito all’onorevole Nasi il fatto che, sopprimendo o sospendendo il giornale, il quale, amico Nasi, non è morto, ma è solo in villeggiatura. (Ilarità).

Una voce al centro. Novembrina!

GIANNINI. Novembrina, sì; si va già a sciare in questa stagione; il mio Buonsenso è andato dove gli pare. Sospendendo le pubblicazioni questo giornale ha compiuto un magnifico atto d’indipendenza e di purità, perché ha detto: «Io ho bisogno degli aiuti; o voi me li date a condizione che io continui a stampare ciò di cui sono persuaso; o, altrimenti, tenetevi i vostri aiuti: io non esco più».

Ed è precisamente questo che è accaduto, onorevole Nasi. Io non credo d’avere né il diritto né il dovere di fare la storia della mia amministrazione, in quanto la mia amministrazione consiste in una società anonima, anzi, in più società anonime, le quali depositano i bilanci nelle cancellerie dei tribunali come per legge, insieme al libro dei soci e a tutto quant’altro a questo Parlamento e a chiunque altro possa interessare d’investigare. Amico Nasi, lei non ha che a prendere un taxi – se non vuole, le offro la mia macchinetta – andare in Tribunale a scartabellare e indagare, e saprà tutto quanto vorrà. L’importante è questo: che quando lei fa il paragone fra questo giornalismo e una prostituta, io le devo dire: lei ha il diritto di fare questo paragone fra il giornalismo che si vende e la prostituta; e siamo d’accordo, perché si vendono tutt’e due; ma fra l’altro giornalismo, quello che accetta di suicidarsi pur di non legarsi, non può fare questo paragone. Lo può fare al massimo con la cassetta delle elemosine d’un qualsiasi convento, nella quale il principe, la duchessa, il povero, l’assassino, l’onesto, mettono il loro obolo; poi il priore lo raccoglie e lo impiega come gli suggerisce la sua coscienza.

Ora, è questo il nostro caso; ed è questo il nostro caso anche politico, perché lei non ignora che i partiti hanno anch’essi bisogno d’appoggi. Non impiantiamo una questione morale su questo, perché se no la piccola tragedia della verità, alla quale ho accennato, diventa una spaventevole tragedia, nella quale io non avrei nessuna paura di dire le battute più gravi. Anche i partiti hanno bisogno; senonché, che cosa accade? Accade che quei ceti, i quali s’agitano intorno ai Governi e sperano, o pensano, o credono di poterne diventare padroni, di poterli rendere prigionieri, s’illudono nello stesso modo di poter prender prigionieri i partiti. Ce ne sono alcuni che nobilmente muoiono: e ce n’è stato qualcuno in questa Camera, a cui io debbo tributare un elogio su questo: il Partito d’azione, che avrebbe potuto vendersi e ha preferito morire. Ce ne sono altri che subiscono terremoti, perché resistono a pressioni – intendiamoci – non soltanto finanziarie, ma anche ideologiche, perché i pericoli che minacciano i partiti e i giornali, caro collega Nasi e onorevoli colleghi d’ogni parte della Camera, non sono solamente pericoli finanziari, ma anche ideologici; i partiti, come i giornali, sono in pericolo sia quando debbono accettare alcuni milioni per comprare rulli di carta, sia quando debbono accettare idee che qualche ex sergente maggiore in cerca di migliore impiego pretenderebbe di dare a chi la politica la fa per convinzione e non per mestiere.

Certo è, amico Nasi, che Il Buonsenso è cessato per questa ragione: perché non ha inteso cambiare la sua linea politica. Per sbagliata che potesse essere, per erronea che fosse, aveva scelto quella linea e non l’ha voluta mutare.

Allora lei ha fatto una questione al Governo e ha detto: il Governo si ravvisa responsabile in questa situazione?

Ho aspettato con ansia che rispondesse il Sottosegretario, perché sarei stato veramente stupito di sentirgli dire: sì, il Governo si ravvisa responsabile.

Secondo me il Governo non può essere ritenuto responsabile di questa situazione, e innanzi tutto «non può» essere ritenuto responsabile, per ragioni d’intelligenza: perché sarebbe stato enormemente stupido un Governo, come quello che abbiamo, presieduto da De Gasperi (il quale, oltre a essere mio caro amico personale, è principalmente un uomo di grande ingegno; io posso dissentire da lui, ma non posso negargli l’intelligenza), si fosse esposto al pericolo d’una serie di guai per prendersi il gusto di far cessare la pubblicazione d’un solo giornale, quando in Italia ce ne sono altri cento che gli dicono di più e di peggio di quello che gli diceva il Buonsenso.

No, onorevole Nasi, la questione è un’altra: lei ha accennato a un armatore e ad altri; tutta gente che ha guadagnato facilmente molto danaro. Incomincio a convincermi che effettivamente è facile guadagnar molto danaro in certe circostanze. All’improvviso questa gente si scopre il bernoccolo della politica, e allora, solamente perché un giorno ha avuto l’onore d’offrire cento biglietti da mille a un giornale o a un partito (e dico «ha avuto l’onore», perché chiunque ha portato o porta danaro a me avrà sempre l’onore di portarmelo (Ilarità), e io gli farò, se crederò, il favore d’accettarlo; e ciò sempre in funzione di quel tal settimanale attivo che mi consente di mandar avanti un partito senza stampa quotidiana e di dir sempre quello che voglio. Accade – dicevo – che qualcuno di questi omuncoli che hanno fatto miliardi nel commercio del baccalà o in altre attività (certamente non ignobili, ma non implicanti eccessiva genialità da parte di chi le esplica), fa piani politici, costruisce Governi, pretende di dare direttive. Ora, c’è chi se le fa dare pedissequamente, quelle direttive, e allora continua a stampare il suo giornale quotidiano; ma c’è – per esempio – chi come me che non se le fa dare, e che, pur parlando con un arricchitissimo, gli dice: tu non capisci niente di politica, tu non sai far niente, politicamente, va a dare ad altri il tuo danaro, non tentare d’importi a me se non riesci a convincermi. E allora il mio giornale non si stampa e si ferma.

In Italia sta succedendo questo: le incrostazioni d’interessi e di spiritualità dei ceti che pretendono o credono d’avere, il monopolio dell’intelligenza stanno appesantendo il Ministero De Gasperi!

Le svelerò una verità, caro Nasi, un grande segreto: si erano messi contro di noi perché noi siamo stati gli autori del Ministero De Gasperi: ogni tanto quest’altra verità si ricorda e si dimentica. Il Ministero De Gasperi è stato preconizzato da noi. Fin dal 24 giugno 1946 noi avevamo chiesto questo Governo, e l’avevamo chiesto perché avevamo ravvisato l’impossibilità che funzionasse più il Tripartito. Noi soli abbiamo insistito, noi, che, finalmente, all’inizio di quest’estate, siamo riusciti a farlo fare.

Bene, io le svelerò questo segreto, caro Nasi. Noi siamo stati assillati dalle recriminazioni di tutta questa gente: ma che cosa avete fatto? Ma voi mettete tutta la politica italiana nel monopolio della Democrazia cristiana? Ma dove andremo a finire? Ma avremo una dittatura clericale anziché fascista o comunista! Voi avete commesso un errore! Tutto ciò portava la solita spiacevole conseguenza di rispostacce da parte mia e non soltanto mia, perché nel nostro partito siamo tutti pronti a dare rispostacce.

Improvvisamente è accaduto che il mio ottimo amico De Gasperi, per ragioni sue, di cui renderà conto al Parlamento quando ne sarà il caso, ha ritenuto d’intervenire in questa faccenda, in questa procurata povertà, in questa non so fino a quanto vera impossibilità di pagare i salari, pagando egli i salari e creando così una pratica bolscevizzazione dell’Italia in certi rami dell’industria. Strana bolscevizzazione, perché quella russa se non altro si accolla le perdite dell’industria, ma se ci sono utili se li piglia. Noi invece ci siamo presi soltanto le perdite. Abbiamo dato alcuni miliardi alla Caproni, alcuni miliardi ad altre aziende. Da questi fatti è nato un improvviso, un nobilissimo sentimento di fiducia verso la Democrazia cristiana. Quel Ministero che ci era stato rimproverato d’aver aiutato a formarsi è improvvisamente un Ministero tabù. Noi vedevamo questo Ministero da un punto di vista dal quale era nostro diritto vederlo, dopo aver contribuito a farlo, e pretendevamo di farne parte: e crediamo di non aver errato affacciando queste pretese. Vari amici nostri, fra gli improvvisi convertiti, allora ci hanno detto: no, no, no, voi dovete fare questo, voi dovete fare quest’altro; dovete fermare questa campagna; non dovete fare così. Eh, un momento, ho detto io; e che siamo i vostri lacché, i vostri servitori? Ma io vi caccio fuori quanti siete. È chiaro? E questa mia reazione da che cosa nasce, caro Nasi? Dall’inestimabile pregio della possibilità di dire la verità, dal fatto certo d’avere un giornale settimanale finanziariamente indipendente che mi mette al sicuro da ogni pericolo.

PRESIDENTE. Ricordi che sta parlando per fatto personale.

GIANNINI. Ho l’impressione di dire cose istruttive. Cercherò di stringere quanto più è possibile.

Una voce al centro. Per fatto personale, non c’è limite.

GIANNINI. Il limite io lo trovo nella mia deferenza verso di lei, signor Presidente, e spero di terminare entro cinque minuti. La nostra reazione dunque nasce dalla nostra possibilità di esser indipendenti giornalisticamente e dunque spiritualmente, di poter scrivere quello che a noi piace.

Ora, se ciò comporta la cessazione delle pubblicazioni d’un giornale passivo, se questo comporta perturbamenti nell’interno del partito, se questo comporta altri danni, altre battaglie, altre lotte, a noi non fa paura. Noi siamo qui per difendere la nostra idea, errata o non errata, dell’«Uomo Qualunque», della «Donna Qualunque». Noi intendiamo difendere questi ceti: noi non intendiamo avere pregiudiziali di nessuna sorte e di nessuna specie. Noi vogliamo semplicemente assicurare il benessere a questa categoria sociale che sentiamo di rappresentare, e che fino allo scioglimento di quest’Assemblea noi siamo in diritto di ritenere che legittimamente rappresentiamo.

Fra poco vi saranno le elezioni. Il colpevole massimo di tutto questo baccano è l’onorevole Scelba, perché se egli non avesse bandito le elezioni, qui si vivrebbe in una idilliaca tranquillità. Tutto quanto accade, accade in funzione delle elezioni. Tutto quanto accade, accade in funzione del dramma intimo di molti fra coloro che pensano, e giustamente, che qui non torneranno più, e s’agitano, e soffrono. E hanno anche ragione.

Ci saranno le elezioni. Onorevole Nasi, noi parteciperemo a queste elezioni col «Torchio dell’Uomo Qualunque», con la nostra idea pulita, con i nostri giornali quotidiani se potremo farli liberamente, senza i nostri giornali quotidiani se non potremo farli liberamente. Se noi otterremo il suffragio del popolo italiano ritorneremo qui a fare il nostro dovere; se noi non otterremo questo suffragio noi ritorneremo là da dove siamo venuti, e riprenderemo le nostre vecchie occupazioni.

Io credo – e i miei amici spero che credano con me, per quanto io non mi sia concertato con loro – che il popolo italiano non abbia bisogno d’esser vasellinato con miliardi di dubbia provenienza per scegliere i suoi rappresentanti. Penso che questi miliardi possano servire soltanto a facilitare la logistica delle elezioni, ma che la base della lotta politica debba essere soltanto la sincerità, la fede anche nell’errore. Onorevole Nasi, noi ci atterremo a questa linea di condotta.

Per tutto quant’altro riguarda le indagini che lei, e chiunque altro, di qualsiasi parte dell’Assemblea, di qualsiasi Gruppo, intende esperire nella contabilità giornalistica dei giornali ai quali presiedo, sono sempre a disposizione, in qualsiasi momento, senza alcun preavviso.

Signor Presidente, la prego dì scusarmi se ho abusato della sua cortesia. (Applausi a destra).

LABRIOLA. Chiedo di parlare per fatto personale.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

LABRIOLA. Io avrei potuto domandare la parola per fatto personale quando l’onorevole Nasi ha alluso al giornale Il Risorgimento, il quale fa parte dell’azienda editoriale a cui appartiene anche il giornale che io ho l’onore di dirigere.

La situazione del Risorgimento è un po’ diversa da quella che l’onorevole Nasi ha esposto. Ma io non intendo occuparmi di queste cose per la ragione elementarissima che io non faccio parte del giornale medesimo.

Esiste a Napoli un’azienda giornalistica, anzi, meglio, un’azienda editoriale che prende il nome di S.E.M. A questa azienda appartengono tre organi quotidiani: Il Roma, che io dirigo; Il Risorgimento, che evidentemente ha un’altra direzione, e Il Corriere di Napoli.

Il Risorgimento, quando era diretto dal signor Floriano del Secolo, era un giornale nettamente democratico e di spiccato colore antifascista.

Eliminata, per ragioni che non possono interessare l’Assemblea, la direzione di questo distinto pubblicista, venne assunto come direttore di esso il signor Corrado Alvaro.

Uno dei proprietari dell’azienda reputò che l’orientazione in senso comunistico conferita al giornale da questo pubblicista non fosse opportuna e credette perciò di separarsi da lui.

Il direttore attuale ha reputato invece, probabilmente per desiderio dello stesso proprietario, di orientare il giornale verso la Democrazia cristiana o, meglio ancora, di farne un organo di tendenza governativa. Ma è un errore il reputare, come alcuni signori di questa parte della Camera hanno pensato, che l’azienda dipenda dal signor armatore Lauro. Egli non è che uno dei due proprietari dell’azienda. (Commenti). L’altro proprietario, del quale suppongo nessuno oserebbe discutere, è il Banco di Napoli. (Commenti).

Il Banco di Napoli sventuratamente si trova nella condizione che la sua direzione è tuttavia provvisoria, vale a dire i suoi elementi direttivi furono nominati solo in via straordinaria, e attendono di essere sostituiti da persone le quali possano prendere con più sicura responsabilità la direzione della stessa azienda. Dell’orientamento dei giornali Il Risorgimento e Il Corriere di Napoli non tocca a me parlare.

Io dirigo il giornale Il Roma. Ho interrotto l’onorevole Giannini nel momento in cui diceva che i giornali hanno bisogno di sussidi, di appoggi, di aiuti. Io lo nego nella maniera più categorica. Un solo appoggio i giornali possono legittimamente desiderare e pretendere: quello del pubblico. Se i giornali sono onesti, se rappresentano una opinione pura e netta, sia quella della Democrazia cristiana, sia quella liberale o comunistica, il pubblico li seguirà, almeno nella misura in cui i mezzi materiali siano dati a questi giornali per essere pubblicati.

Si è parlato di pressioni che si potessero esercitare sui pubblicisti. Il Comandante Lauro non ha avuto con me che due sole conversazioni: la prima quando egli mi ha offerta la direzione del giornale e l’altra quando si è dovuto parlare dell’amministrazione di esso. Giammai mi si è rivolto l’invito ad orientare il giornale in un senso anziché in un altro.

Il Roma ha una grande tradizione. È il giornale della famiglia Lioy, uomini onesti, gente intemerata, degna di esser ricordata con pubblico rispetto. L’onorevole Giannini ne sa qualche cosa. Egli, napolitano, non può ignorare ciò che quei signori facessero per assicurare non solo alla cittadinanza napolitana, ma al Paese, un puro organo di opinione.

Io sono appunto del parere che quando un giornale rappresenta un’idea, e questa idea è onestamente professata, il pubblico seguirà questo giornale e nel proprio interesse deve seguirlo. A me giammai nessuno è venuto a chiedere che dessi un indirizzo diverso da quello che i miei precedenti, i miei sentimenti e il mio orientamento politico mi permettevano di avere. Sono contrario alla Democrazia cristiana: lo sono per tante ragioni che ho avuto l’occasione di svolgere proprio in questa Camera. Nessuno avrebbe mai pensato che io avrei potuto fare un giornale che non fosse stato avverso all’attuale Governo, perché nessuno poteva pensare che il suo umile collega, onorevole Giannini, avrebbe potuto avere opinioni difformi da quelle che i suoi sentimenti gl’imponevano di avere.

Ricordo ancora una volta che l’altro proprietario del giornale è il Banco di Napoli, non d’accordo, in questo momento, col signor armatore Lauro; non d’accordo per questioni che si riferiscono all’indirizzo politico degli altri giornali dell’azienda medesima; non d’accordo con esso, anche per ragioni amministrative.

Ma tutte queste questioni non potranno risolversi, se non quando il Governo si deciderà, dopo due anni, dopo infiniti ponzamenti, a dare al Banco di Napoli, che ne ha bisogno, una buona direzione, una onesta direzione come quella che adesso, in linea provvisoria certamente ha, ma che ha bisogno di essere stabile e definitiva.

La mia conclusione, onorevole Giannini, è molto semplice. Io faccio un giornale, che finanziariamente dipende dal pubblico e politicamente da me; se domani qualcuno dovesse chiedermi di difendere sul giornale una opinione, che non fosse la mia – né so chi potrebbe essere – so pertanto distintamente che cosa gli risponderei, e non ritornerebbe ad insistere.

Penso che avremmo una stampa d’indiscutibile onestà e concorreremmo largamente alla educazione del pubblico, quando i giornali si ispirassero tutti a questo concetto: il giornale è del pubblico, non degli industriali, non dei banchieri e neppure dei partiti, salvo che questi non rappresentino veramente correnti nazionali e collettive. In nessun caso si deve ammettere che il giornale rappresenti interessi privati. Ed esso fatalmente sarà cosa dei privati finché si accetteranno oblazioni ed interventi, i quali non sempre stanno in rapporto con l’orientamento politico del periodico.

Io so di fare un giornale a fondo socialista, democratico ad ogni modo, e questo sarà finché la cosa sarà nel mio controllo. Potrò domani trovare sul mio tavolo di lavoro, o ricevere un telegramma col quale si potrà significarmi il mio licenziamento; questa è cosa che posso prevedere, ma è indiscutibile che, fino a quanto sarò alla testa del giornale, questo non rappresenterà che la mia opinione e quella che ritengo opinione più conveniente al pubblico italiano.

GIANNINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

GIANNINI. L’onorevole Labriola sostiene che un giornale è giornale, in quanto esso è sostenuto dal pubblico. Nello stesso tempo ci viene a dire che il giornale da lui diretto è espressione non solo dell’armatore Lauro ma del Banco di Napoli. Insomma, il suo giornale è del Banco di Napoli o è del pubblico?

Secondo: io ho spiegato chiaramente che non si intendeva attaccare né circoli politici, né giornalisti, né editori, ma colpire quei ceti, i quali, per aver guadagnato denaro nella vendita del baccalà o del formaggio, pretendono di diventare genî politici di prima grandezza.

Per quanto riguarda il gruppo in relazione con il giornale diretto dall’onorevole Labriola, si tratta di uno stranissimo gruppo, che ha tre giornali: con uno attacca il Governo, con l’altro lo difende, con il terzo segue una via di mezzo.

LABRIOLA. Il Governo lo attacco io e non il gruppo al quale apparterrei, questa è la verità! (Commenti).

GIANNINI. Io dico la verità; perché questo gruppo con un giornale è filodemocristiano, con l’altro è antidemocristiano: questo significa fare il trust dei giornali. Dirò che proprio il Risorgimento è stato sospettato non di essere filo-democristiano, come è sospettato oggi, ma filoqualunquista, e questo perché il nuovo direttore del Risorgimento è stato indicato da me, perché a me si rivolse l’armatore Lauro, per avere il mio parere in proposito, ed io gli consigliai Alberto Consiglio, che era il mio redattore. Per un certo periodo di tempo il Risorgimento è stato ritenuto un giornale filoqualunquista, adesso è diventato filodemocristiano. Quando lei, onorevole Labriola, sostiene che ci sono giornali i quali vivono solamente con ciò che vendono – con la pubblicità che vendono e con le copie che vendono – io le dico, onorevole Labriola che quando lei lo dimostrerà io ne prenderò atto. Per ora confermo che in Italia vi sono due o tre soli giornali che fanno questo. Ma un solo giornale politico indipendente: è il mio e non altri! (Commenti – Applausi a destra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Schiavetti, Valiani, Pertini e Cianca, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere i motivi che avrebbero consigliato il Governo a rinviare alle future Assemblee legislative, contrariamente alla comune aspettativa, la discussione e l’approvazione del progetto di legge sulla stampa, destinato a regolare in modo stabile e certo un settore dell’attività politica e culturale del Paese, turbato da ripetuti indizi di sopraffazione politica e di disordine economico e morale».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. È facile rispondere all’onorevole Schiavetti che il disegno di legge contenente nuove disposizioni sulla stampa è stato presentato dal Governo all’Assemblea nella seduta del 29 marzo 1947 ed è stato dall’Assemblea deferito all’esame della Commissione per la Costituzione, che ha a sua volta nominato una Sottocommissione. Da quanto si sa, dei lavori di questa Sottocommissione, che fu da prima presieduta dall’onorevole Grassi ed attualmente lo è dall’onorevole Cevolotto, essa tenne la prima riunione il 29 aprile, ed un mese dopo la presentazione iniziò il vero e proprio esame del provvedimento. Il 26 maggio furono chiamati a partecipare ai lavori anche alcuni rappresentanti della Federazione della stampa, tre dei quali sono nostri colleghi ed uno no. La Commissione ha tenuto sette riunioni, di cui l’ultima, – secondo quanto mi consta – è del 30 ottobre. Sarebbero già state esaminate molte delle parti in cui è suddiviso questo disegno di legge.

Quando dovetti rispondere all’onorevole Valiani il giorno della interrogazione sul mutamento di testata del Corriere Lombardo in Corriere di Milano, io stesso accennai alla preoccupazione che, data l’imminenza della chiusura dei nostri lavori, non fosse possibile condurre a termine il lavoro preparatorio in sede di Sottocommissione, e, successivamente, qui in Aula, di tutto questo vero e proprio testo unico che coordina le disposizioni vigenti sulla stampa; e, poiché era assolutamente indispensabile dare un contenuto certo ad alcune disposizioni, dissi che sarebbe forse stato bene stralciare le disposizioni più urgenti, o almeno quelle in cui oggi vi è maggiore discussione, e portarle, in un disegno di legge molto più leggero, in Assemblea, in modo da poterlo discutere prima del 31 dicembre.

Questo non è stato accettato dalla Sottocommissione, ed io prendendo degli accordi con il Presidente della Sottocommissione stessa, vedrò di preparare, come già è stato predisposto dai nostri uffici, questo nuovo testo che non fa altro che ridurre di molto i temi, e quindi gli articoli del testo precedentemente presentato, in modo tale che lasciando alcune discussioni meno urgenti ed in parte più complicate, sia possibile – specialmente in quel delicatissimo settore della autorizzazione, che oggi è regolato da disposizioni non sempre interpretate alla stessa stregua nelle diverse provincie, tanto da far dichiarare necessaria l’urgenza di porre termine a questa discussione – addivenire senz’altro all’istituto della registrazione, così come è contemplato dal progetto presentato nel marzo.

Io presenterò alla Sottocommissione, prima ancora di presentarlo formalmente alla Camera come nuovo disegno di legge, questo progetto ridotto, e se la Sottocommissione, come spero, accetterà di discuterlo in queste proporzioni, sono certo che noi riusciremo a farlo approvare prima del 31 dicembre.

Comunque, il Governo non ha affatto ostacolato quello che era l’andamento dei lavori della Sottocommissione e della Commissione dei Settantacinque, e quindi nel caso l’interrogazione dell’onorevole Schiavetti andava forse diretta, prima ancora che al Governo, alla Presidenza dell’Assemblea, per sapere a che punto fossero i lavori della Commissione.

PRESIDENTE. L’onorevole Schiavetti ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SCHIAVETTI. Mi dispiace di dover dichiarare che non sono affatto sodisfatto della risposta dell’onorevole Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio.

UBERTI. Si sapeva!

SCHIAVETTI. Onorevole Uberti, non si sapeva, perché se fossi sodisfatto direi che sono sodisfatto; ma non lo sono per una semplice ragione. Probabilmente l’onorevole Andreotti dimentica di aver usato un’espressione alquanto equivoca nella risposta che egli diede al collega Valiani a proposito di una sua interrogazione sulla testata del Corriere di Milano. Egli disse, in quella risposta, di ritenere difficile, e forse anche inopportuno, discutere in questo scorcio della Costituente l’intero disegno di legge presentato dal Governo all’Assemblea.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Per coordinarlo a tutta la Costituzione.

SCHIAVETTI. Già, ma il criterio della opportunità, egregio Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, è qualcosa di diverso e più complesso di quello della possibilità. Evidentemente, qui si tratta di una questione di carattere politico, altrimenti non si doveva usare questa parola dell’opportunità.

Ora, appunto per quello che riguarda il criterio della opportunità, noi riteniamo che sia estremamente opportuno che si ponga ordine nel dominio relativo al regime della stampa in Italia. Noi viviamo fin dalla liberazione, in sostanza, sotto il regime della autorizzazione, e parzialmente anche sotto il regime del sequestro preventivo, regime dell’autorizzazione che non è nemmeno quello fascista soltanto, come ha ricordato il collega Nasi, ma che è quello impostoci dagli Alleati e che noi abbiamo tradotto nel Regio decreto-legge 14 gennaio 1944, n. 14. Ora, è assolutamente necessario che noi usciamo da questo regime di carattere provvisorio, e ciò anche per ragioni di dignità nazionale oltre che di opportunità politica. Dobbiamo fare tutto il possibile per risolvere rapidamente due serie di problemi. La prima serie è attinente alla difesa del diritto di libertà di stampa, diritto di libertà che può essere minacciato da arbitrii governativi, e purtroppo in questo campo vi sono dei precedenti poco rassicuranti. Infatti già per due volte il Governo, al cui centro politico era la Democrazia cristiana, ha fatto sequestrare, sotto il pretesto della violazione della decenza pubblica, due giornali, che sono stati poi assolti dall’autorità giudiziaria da questa accusa, il che ci induce al sospetto che l’accusa di questa violazione fosse soltanto un pretesto e che si volessero colpire dei giornali che difendevano delle idee e sostenevano dei punti di vista che erano diametralmente contrari e quelli sostenuti dalla Democrazia cristiana.

Ora, è verissimo che con l’onorevole Andreotti le cose sono alquanto cambiate e che il regime di carattere benevolmente parrocchiale che aveva imposto alla stampa l’onorevole Cappa, è diventato un regime più ragionevole; ma che la tutela della stampa debba dipendere dalla mentalità e dalla benevolenza di un membro del Governo, è un fatto pericoloso per la dignità del giornalismo e per la difesa della dignità della stampa.

C’è poi un’altra serie di problemi che devono essere risolti. I nostri colleghi hanno assistito, un quarto d’ora fa ad una impressionante sciorinatura di panni sporchi. Io domando all’Assemblea che cosa penserà il Paese domani di questo scambio di confidenze che si sono fatte gli onorevoli Giannini e Labriola. Vi sono dei problemi che vanno al di là della semplice tutela del diritto di stampa, vi sono problemi che riguardano il dovere, da parte dello Stato e dell’Assemblea, di tutelare l’opinione e la buona fede pubblica dalle iniziative perniciose delle oligarchie finanziarie che si valgono dei diritti consentiti dalla libertà della stampa per far subdolamente trionfare i loro interessi particolari su quelli generali del Paese.

Noi abbiamo il dovere di risolvere questa serie di problemi e di discuterli, di porli al Governo o all’Assemblea stessa, prima ancora che si facciano le elezioni. Questi problemi riguardano, ad esempio, il mercato della carta, il cui alto prezzo è diventato uno degli ostacoli più forti per le aziende giornalistiche anche le più oneste, che ancora ci sono in Italia; vi è poi il problema della disponibilità delle tipografie (già accennato in seno alla Commissione che ha studiato il progetto relativo al regime di stampa); vi sono infine le limitazioni da imporre a tutti coloro che vogliono pubblicare dei giornali, appunto perché il pubblico possa essere difeso dagli attacchi alla propria buona fede dal prevalere degli interessi particolari sopra gli interessi generali.

Non vi dirò ora come da questa parte della Camera si auspica la soluzione di questo problema importante, una soluzione che deve andare al di là della pura difesa del diritto di stampare; vi dirò però che abbiamo il dovere dinanzi al Paese di portare chiarezza nell’impostazione di questo gruppo di problemi, altrimenti noi daremo ragione, a due anni di distanza dalla liberazione, al fascismo, il quale, confondendo a bella posta i due piani sui quali può esser considerato il problema della libertà della stampa – il piano giuridico e il piano finanziario – sosteneva che la libertà di stampa è una menzogna e che la stampa deve essere controllata e regolata dall’autorità dello Stato. Noi non vogliamo dare ragione al fascismo neanche in questo e vogliamo perciò che sia introdotto ordine in questo gruppo di problemi.

Testé l’onorevole Giannini ha detto che la verità è un lusso. Onorevoli colleghi, questa è una bestemmia, di fronte al popolo italiano! La verità non deve essere un lusso; deve essere invece garantito a tutti gli italiani non solo il diritto di dire la verità, ma anche quello di sapere la verità! (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione degli onorevoli Mastrojanni e Tumminelli, al Ministro dell’interno, «per conoscere se sono stati identificati ed arrestati gli autori dell’assassinio premeditato, consumato per brutale malvagità nella persona del giovane Mario Petruccelli, appartenente al Fronte liberale democratico dell’Uomo qualunque di Sesto San Giovanni».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Le indagini subito attivamente iniziate e condotte per identificare ed arrestare gli autori dell’assassinio del giovane Mario Petruccelli – avvenuto a Sesto San Giovanni il 4 novembre ad opera di due individui che, presentatisi a casa sua poco prima della mezzanotte e chiesto di parlare con lui per dichiarati motivi politici, lo freddavano appena comparso, a colpi di rivoltella, dandosi quindi alla fuga – sono indubbiamente a buon punto; ma non ancora, purtroppo, concluse. L’onorevole interrogante mi consentirà perciò di mantenere al riguardo il necessario riserbo, tanto più che nel corso di queste indagini, condotte, ripeto, molto attivamente e in stretta collaborazione da tutti gli organi di polizia, alcuni episodi sembrano rivelare una vasta omertà in atto che sembrerebbe avvalorare piuttosto l’ipotesi del delitto politico. Questa ipotesi peraltro, è molto grave nella fattispecie essendo la vittima un infelice semiparalitico, disoccupato, scacciato di casa dalla moglie e da questa privato dell’unica figlia, nonché da tempo, finanche, esonerato dal modestissimo incarico di fiduciario per Sesto San Giovanni del Partito dell’Uomo qualunque, incarico che sembra lo aiutasse a poveramente vivere – perciò occorre necessariamente essere, in proposito, molto prudenti.

Qualunque, possa essere la causale, non dubiti l’onorevole interrogante del determinato proposito delle autorità di polizia di raggiungere ad ogni costo gli autori di un delitto tanto efferato.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

TUMMINELLI. La ringrazio, onorevole Sottosegretario, delle assicurazioni che ha voluto dare a me e non soltanto a me, ma a tutto il mio Gruppo, ma il problema investe una cerchia più ampia di interessi, i quali sono innanzitutto quelli della libertà del cittadino. Tuttavia debbo fare delle riserve sulle assicurazioni fornitemi or ora dall’onorevole Sottosegretario, al quale mi permetterò di osservare che non si tratta di un fatto singolo, ma di una serie di episodi che si ripetono. Oggi, infatti, è stato colpito lo sventurato Petruccelli, ma, appena pochi giorni fa, un altro delitto si è verificato nelle stesse, identiche condizioni e con gli stessi mezzi e con lo stesso tipo di metodo, a Milano; così, alcuni mesi fa, un giornalista è stato assassinato di notte dinanzi alla porta di casa in modo analogo.

Ora noi ci domandiamo, onorevole Sottosegretario, signori del Governo: ci troviamo di fronte ad una nuova ondata di terrore? Ci troviamo forse di fronte ad un nuovo metodo di intimidazione, metodo che sarebbe, come è evidente, quanto mai pericoloso? Che cosa si può, onorevoli colleghi, di fronte a due individui con giacca di pelle che si possono presentare alla casa non già dei soli rappresentanti o militanti nel nostro Partito, ma di qualunque cittadino, di notte, e che uccidono senza alcuna ragione, soltanto perché hanno ricevuto il mandato di uccidere a qualunque costo? Che cosa si può, onorevoli colleghi, di fronte ad uomini che non hanno se non il deliberato proposito di soffocare nel sangue una voce, una idea, l’idea di un partito, l’idea della libertà?

Sorge allora opportuno domandarsi se, come diceva pocanzi l’onorevole collega Giannini, la libertà sia veramente un lusso; è opportuno domandarsi se la nostra personale incolumità sia legata alla capacità di essere più veloci o destri dell’individuo che ci minaccia o ci insidia.

È questo, signori del Governo, onorevole Sottosegretario, che categoricamente vi domando; è questo che io chiedo a tutti i membri di questa Assemblea. La situazione è grave e la questione non è se non quella di vedere se si vuole, se si deve riprendere ancora una lotta civile, una guerra civile e se con tali metodi si intenda di conseguire tale scopo.

Noi deprechiamo questa guerra civile; non la vogliamo: è per questo che la pubblica sicurezza ci deve dare la garanzia più assoluta, più inequivocabile, che le nostre vite, quelle dei nostri familiari, siano ad ogni costo tutelate e difese; è per questo che le autorità competenti ci debbono dare la più ampia assicurazione che le nostre idee possano essere liberamente propagandate, che chiunque possa liberamente manifestare il proprio credo politico. È evidente che, dicendo ciò, non intendo alludere soltanto al mio Partito, non affermare un diritto che non è soltanto nostro, ma patrocinare una causa che è di tutti, di ogni partito, di destra come di sinistra.

Dobbiamo impedire ad ogni costo che la violenza possa chiudere la bocca e far sì che la libertà possa costituire veramente un lusso di popoli più civili del nostro.

Onorevole Sottosegretario, occorre che a questa svolta della nostra vita politica, della nostra ricostruzione democratica e della libertà del nostro Paese, il Governo intervenga energicamente con il disarmo. Il Paese ha dato un grande esempio di disarmo morale. È precisamente su questo disarmo morale che si è potuto fare quello che si è fatto in questi ultimi due anni.

Orbene, il Governo ha tutti i mezzi, tutte le possibilità, il Ministero degli interni ha tutte le facoltà per poter imporre il disarmo materiale. Io faccio appello a tutti i settori di questa Assemblea, perché anche essi collaborino in questa opera, perché si possa veramente far sì che non ci sia più un uomo nel nostro Paese il quale possa possedere ed impugnare illegittimamente un’arma.

Onorevole Sottosegretario! Il provvedimento che giunge ad arrestare i colpevoli è cosa indispensabile e che, quindi, si può e si deve auspicare: ma noi soprattutto domandiamo che non accada più che vi sia un cittadino, anche un solo cittadino che possa essere illecitamente armato. Noi domandiamo al Governo che esso prevenga, per non dovere punire più tardi.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Sansone, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se è vero che è di imminente adozione un provvedimento tendente alla riorganizzazione dell’Istituto centrale di statistica ed alla conseguente immissione nei ruoli dell’Amministrazione centrale solo di una aliquota del personale dipendente; ed in caso affermativo per conoscere: a) in base a quali criteri si intendano ridurre i quadri del personale, e, quindi, l’efficienza di un servizio che allo stato attuale, come è stato pubblicamente e autorevolmente denunciato, si trova in condizioni estremamente arretrate e, pertanto, richiederebbe, invece, di essere ulteriormente sviluppato, perfezionato e coordinato con tutte le altre attività statistiche razionali; b) in base a quali considerazioni si intenda immettere nei ruoli dello Stato solo parte del personale e quale sorte è riservata al personale non immesso in ruolo alla scadenza dei singoli contratti; c) se, data la crescente importanza dei servizi statistici razionali, anche per i loro riflessi in campo internazionale, non ritiene opportuno di investire della materia l’Assemblea, o per essa la competente Commissione legislativa, in modo che un provvedimento di tanta gravità garantisca, oltre che la tutela dei diritti di tutti i dipendenti, anche il necessario potenziamento dei servizi statistici nel superiore interesse della Nazione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri ha facoltà di rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. L’origine della preoccupazione dell’onorevole Sansone sta in una notizia non vera, pubblicata dall’Avanti! che ha provocato non solo questa interrogazione, ma anche una certa agitazione interna, e comprensibilissima, dei dipendenti dell’Istituto centrale di statistica, che si sono visti agitare così uno spettro che non aveva altra consistenza che quella di una immaginaria, fantasiosa informazione raccolta appunto dal giornale molto vicino politicamente all’onorevole Sansone.

È vero che è di imminente adozione un provvedimento legislativo sull’ordinamento dei servizi statistici e dell’Istituto centrale di statistica; e questo conformemente ad una disposizione legislativa del 1945. Il provvedimento è stato elaborato in base alle proposte formulate fin dallo scorso anno da un’apposita Commissione di studio composta da professori e docenti universitari di discipline statistiche, economiche e finanziarie – tra i quali i professori Niceforo, Amoroso, Vinci, Livi, D’Addario, Galvani, Luzzatto-Fegiz, Albertario, Pesenti, ecc. – nonché da giuristi ed altri esperti designati dalla Presidenza del Consiglio, dal Consiglio di Stato, dalla Corte dei conti, dalla Ragioneria generale dello Stato, da altre amministrazioni statali e da associazioni ed organizzazioni sindacali fra le quali la Confederazione generale italiana del lavoro.

Il provvedimento non solo non contempla riduzione di personale, ma, al contrario, ne prevede un rafforzamento, particolarmente nella categoria di concetto, per mettere l’Istituto nelle migliori condizioni per assolvere ai vasti e delicati compiti che gli sono demandati.

È quindi assolutamente falso che l’Istituto di statistica sia sul punto di dover congedare una parte del proprio personale. Come pure ho il dovere di dire in coscienza che è falso che l’Istituto sia in condizioni arretrate, perché, malgrado le generali difficoltà ed il fatto che la consistenza numerica del suo personale sia di oltre 200 unità inferiore a quella del 1939, esso non solo ha ripreso tutte le antiche rilevazioni ed elaborazioni statistiche, apportandovi notevoli miglioramenti tecnici, ma ha esteso il campo della sua attività a rilevazioni ed elaborazioni mai eseguite nel passato né dall’Istituto stesso, né da altre amministrazioni ed enti.

I risultati di questa attività sono documentati nei quattro Bollettini mensili regolarmente pubblicati: Bollettino mensile di statistica, Bollettino dei prezzi, Bollettino di statistica agraria e forestale, Statistica del commercio con l’estero; nelle altre numerose pubblicazioni edite dal 1945 ad oggi, tra le quali il ben noto Compendio statistico; il Sommario statistico delle Regioni d’Italia; il Compendio, in due volumi, delle statistiche elettorali italiane dal 1848 ai nostri tempi, e, recentissimi, i primi due volumi di una nuova serie di Annali di statistica, con importanti studi scientifici su argomenti di viva attualità.

Altre testimonianze dei risultati di tale attività emergono, inoltre, dal notevole impulso dato dall’Istituto ai lavori statistici che si svolgono presso le altre Amministrazioni ed enti e dall’attiva partecipazione dell’Istituto stesso, con propri funzionari, ai lavori dei vari Comitati interministeriali e delle Commissioni tecniche nominate dal Governo per l’esame di speciali problemi di interesse nazionale e internazionale; e ancora, dall’alto prestigio – di gran lunga superiore a quello goduto nel passato – conquistato nel campo internazionale e dimostrato, fra l’altro, dalle numerose lusinghiere testimonianze in questo senso ad esso date dalle massime organizzazioni internazionali quali l’Istituto internazionale di Statistica, l’O.N.U., la F.A.O., ecc., con le quali il nostro Istituto attivamente collabora nell’interesse del Paese.

Infine, le norme contenute nello schema di provvedimento prevedono l’immissione nei ruoli statali di tutto dì personale a contratto in servizio alla data di entrata in vigore del provvedimento; esse tutelano nel modo più sodisfacente gli interessi del personale, che, del resto, attraverso la propria rappresentanza sindacale, ha attivamente partecipato alla elaborazione delle norme stesse.

Infine l’onorevole Sansone richiede che le Commissioni della Camera non siano estranee all’elaborazione e all’approvazione di questo provvedimento. Senza dubbio, poiché trattasi di un provvedimento urgente, ma non di estrema urgenza (dato che se ne parla dal 1945), esso, approvato dal Governo, nella prossima settimana di sedute sarà senza dubbio mandato alla prima Commissione, che pare sia quella competente a discutere questo problema.

PRESIDENTE. L’onorevole Sansone ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

SANSONE. La mia risposta sarà ampia. Io potrò dichiararmi sodisfatto quando tutto quel che ha detto l’onorevole Sottosegretario si verificherà, perché egli ha esposto un programma futuro dell’Istituto di statistica, ma non la situazione attuale. E mi spiego.

Per ciò che riguarda il personale, vi è un progetto che tende a mettere il personale stesso nei ruoli; però tra il personale vi è agitazione perché sembra che da parte del Ministero del tesoro sarà fatta la proposta di falcidiare il numero dei dipendenti e, quindi, ora, si potrà dire, o si afferma che tutto il personale sarà sistemato, ma quando saremo al testo definitivo della legge, allora certamente il personale sarà ridotto.

Io prego, quindi, vivamente l’onorevole Sottosegretario di voler studiare questo problema, di volere evitare cioè che il Tesoro imponga diminuzioni di personale, che sarebbero dannose non solo al personale stesso ma all’Istituto di statistica, il quale, contrariamente a quanto l’onorevole Sottosegretario ha detto, versa in questi momenti in una situazione di deficienza che deve preoccuparci seriamente.

Su questo punto sono in disaccordo con lei, onorevole Andreotti. Io non posso infliggere all’Assemblea la lettura di un rapporto molto lungo e dettagliato, ma se io domandassi a lei o domandassi all’Istituto di statistica quanti sono in questo momento gli abitanti in Italia, non lo si può sapere, e siamo al terzo anno dalla fine della guerra! Deve convenire, onorevole Sottosegretario, che sono manchevolezze gravi!

Ma vi è qualcosa di più. Come rilevo dal giornale Realtà, sono state sospese le statistiche del commercio con l’estero, perché nel 1946 furono compilate erroneamente, il che ha portato ad una valutazione errata della nostra bilancia commerciale ed ha fatto diminuire le nostre richieste di aiuti all’estero, in quanto si riteneva ad un certo momento che avessimo esportato più di quanto effettivamente fosse avvenuto. Sono deficienze gravissime! Non sappiamo ancora i dati statistici relativi alla natalità o alla mortalità, ed io ricordo un episodio: quando il Ministro Fanfani rispose alla mozione di Morandi e Di Vittorio, egli ci indicò delle statistiche, che certamente erano errate, il che significa che in Italia la statistica non funziona, (Interruzione del Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri), e non funziona perché i servizi sono suddivisi. Noi non abbiamo un servizio statistico unificato: ogni ufficio, ogni Ministero ha la sua statistica, e in America e altrove circolano statistiche ufficiose come se fossero ufficiali, il che determina tutto un orientamento della vita internazionale contrario agli interessi del nostro Paese.

Ora, la statistica è il fulcro della vita di un Paese civile. Sono i numeri che esprimono veramente la vita di un Paese, ma questi numeri devono essere accreditati presso i Paesi stranieri. L’Istituto di statistica italiano ha una tradizione luminosa, perché è sempre stato presieduto da statisti insigni, ma da due anni, come diceva lei, cioè dal 1945, vi è una gestione provvisoria affidata ad un amico del suo Partito, al professore Canaletti.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Appunto c’è questa interrogazione.

SANSONE. La sua è una intemperanza fuori posto. Mi sono permesso di dire che è un democristiano. Se questo è vietato, le dirò che pian piano la dittatura nera cresce! (Rumori al centro).

Dunque dicevo che la gestione provvisoria è affidata al professore Canaletti e da due anni non si passa dalla gestione straordinaria alla gestione ordinaria, ma quel che è peggio, è che non si provvede al Consiglio Superiore di statistica, che è veramente l’organo che può accreditare i nostri dati all’estero. Sono due anni, ripeto ancora, che siamo in una situazione provvisoria in un settore che è uno dei principali del Paese. Perciò chiediamo l’intervento dell’Assemblea Costituente la quale deve affrontare il problema stesso, risolvendo cioè la unificazione dei servizi statistici affinché subito venga costituito il Consiglio Superiore di statistica e che può dare veramente la tranquillità sulle cifre che si possono realizzare.

A conferma – se pur ve ne fosse ancora bisogno – delle deficienze voglio leggervi quanto riporta il giornale che vi ho citato: «È di qualche giorno fa il comunicato con cui l’Istituto centrale di statistica informa di avere temporaneamente sospesa la pubblicazione dei dati sul commercio estero italiano causa la necessità di provvedere alla revisione dei criteri di elaborazione e rilevazioni fin qui seguiti non rispondenti alle presenti condizioni degli scambi della valuta dei paesi stranieri. Ottimamente – commenta ironicamente il compilatore della nota. Meglio nessuna statistica anziché delle cattive statistiche e parlando in coscienza quelle anche ufficiali, fin qui fornite, non potrebbero senz’altro definirsi come buone».

Quindi, io pregherei l’onorevole Sottosegretario di voler controllare che non siano violati i diritti del personale nel senso che se si statizza l’Istituto bisogna che veramente tutto il personale sia immesso nei ruoli, ma principalmente necessita che cessi la gestione straordinaria, che si nomini il Consiglio Superiore di statistica e che principalmente tutta l’Assemblea prenda in discussione questo problema che è uno dei problemi centrali per la vita del Paese.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Vorrei solo aggiungere una parola a quello che ha detto l’onorevole Sansone, in quanto mi incombe l’obbligo di dire che se non è stato fatto in Italia il censimento, questo non dipende dall’Istituto di statistica, ma dipende da una mancata deliberazione del Governo, che ha ritenuto, o per mancanza di mezzi o per trasmigrazioni interne che ancora esistono in misura rilevante, di non poter disporre il censimento. D’altra parte, lo stesso Istituto di statistica, così come è organizzato nella fase costituente interna, non ha degli organi periferici propri e questo spiega perché possano esistere dati che provengono dalla base senza una certezza o senza una forte percentuale di certezza.

L’onorevole Sansone ha parlato delle statistiche di disoccupazione, e quanto egli ha detto è vero. Ma quelle statistiche non vengono fatte dall’Istituto su relazione diretta della base, sibbene sopra indicazioni dei vari organi.

SANSONE. Questo è l’errore. Sono tre anni che la guerra è finita ed urge la unificazione dei servizi statistici.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ma c’è almeno un merito dell’attuale gestione: quello di avere restituito una certa pace interna all’Istituto che, come lei ricorderà certamente, è mancata per un certo tempo ed è mancata perché certe figure, che avevano una particolare responsabilità e non avevano meriti insigni per potere essere assolti da altre pecche, sono state finalmente in parte messe fuori e in parte messe in condizioni di vedere come oggi è la realtà e cioè che l’interesse dell’Istituto è semplicemente quello di ottenere una certa concordia, un clima di serenità in cui si possa veramente servire ai compiti dell’Istituto stesso.

Io credo che l’attuale Presidente, il quale è un democristiano, sia anche un competente. È un professore di statistica e ha dato prova di aver restituito all’Istituto quel certo clima, e quella certa fisionomia che dà tutte le garanzie. Spero che quando – e ritengo prestissimo – questa legge che riordina l’Istituto verrà varata, questo organismo sarà posto in condizioni di assoluta idoneità a risolvere quei problemi di urgenza che si riterrà necessario di esaminare per l’interesse dell’Istituto stesso.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole De Martino, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere se il Governo intende mettere finalmente un termine alla vita dell’A.R.A.R., che occupa da anni impianti dell’industria privata con pregiudizio dell’economia nazionale e con aggravamento del problema della disoccupazione».

Data l’affinità di argomento, questa interrogazione può essere associata all’interrogazione degli onorevoli Rodinò Mario, Monticelli e Crispo, al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dei trasporti, del tesoro e dell’industria e commercio, «per conoscere se non si ritiene necessario ed urgente disporre una inchiesta sulla gestione dell’A.R.A.R. L’opinione pubblica si preoccupa vivamente della regolarità e della onestà del funzionamento di questa organizzazione che, improvvisata dal Governo Parri in pochi giorni, da anni riceve e custodisce, tratta, transige ed aliena e vende nell’interesse del pubblico erario tutto un assortimento di beni, inventariati all’ingrosso, che hanno valore di centinaia di miliardi, e ciò senza che finora sia mai stato esercitato, da persone estranee all’abituale ingranaggio dell’ente, un effettivo controllo sulla regolarità e sulla bontà dell’operato dell’ente stesso, sulla misura delle sue spese e sulla rispondenza dei risultati raggiunti con quelli che un’amministrazione sana ed oculata avrebbe dovuto ottenere. Sta di fatto che da tempo circolano, con riferimento all’A.R.A.R., voci di inauditi arricchimenti da parte di funzionari e di speculatori e la stampa ha in questi giorni pubblicato con chiari e violenti commenti, il testo di un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. e una azienda privata, con il quale tale privata azienda risulta messa in grado di realizzare, senza impegno di denari e di rischio, utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi. Data l’importanza degli inconvenienti ed il groviglio degli interessi che è possibile vi si annidi intorno, si richiede che la Commissione per gli accertamenti necessari venga composta, per garantirle autorità ed indipendenza, con parlamentari in grado, per competenza tecnica ed amministrativa, di valutare la realtà della posizione».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro ha facoltà di rispondere.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Mi riferisco dapprima all’interrogazione dell’onorevole De Martino.

All’Azienda rilievi alienazione residuati, creata con decreto legislativo luogotenenziale 29 ottobre 1945, n. 683, è stato affidato un importantissimo compito, e cioè di procedere alla presa in consegna ed alla alienazione del materiale residuato di guerra ceduto dagli Alleati al Governo italiano. È evidente pertanto, che non si rende possibile, come chiede l’onorevole interrogante, porre fin d’ora un termine alla vita dell’azienda, perché non è dato stabilire quando potrà essere smaltito il quantitativo ancora ingente di materiale che essa detiene, tanto più che sono tuttora in corso altre consegne, da parte degli Alleati, di residuati di guerra di rilevante entità. Non potrebbe riuscire utile, al fine di attuare l’auspicata restituzione all’industria privata degli immobili ed impianti attualmente occupati dai cennati materiali, sopprimere l’A.R.A.R., perché, ovviamente, finché i residuati di guerra da alienare esistono, occorrerà pure custodirli e venderli; e perciò, ove si addivenisse a detta soppressione, si dovrebbe provvedere ad affidare ad altro organismo statale o parastatale tale compito, senza alcun beneficio nei riguardi dello sgombero degli immobili di proprietari privati, ed anzi, con la quasi certezza di ritardarlo ulteriormente per gli inevitabili intralci che un siffatto cambiamento determinerebbe, almeno in un primo tempo, nel ritmo delle vendite. Non bisogna poi dimenticare che l’attività dell’A.R.A.R. involge cospicui interessi del Tesoro, al quale affluisce il ricavato delle vendite. Sono stati già introitati oltre quarantun miliardi di lire, onde anche sotto questo aspetto è d’uopo evitare iniziative che si risolverebbero in un danno per lo Stato.

In ordine alla questione specifica dei beni immobili, già adibiti dalle Forze armate alleate a depositi di materiali residuati di guerra, successivamente ceduti al Governo italiano, e per esso all’A.R.A.R., è da rammentare che la questione stessa ha formato oggetto del decreto legislativo del Capo provvisorio dello Stato 28 febbraio 1947, n. 120, il quale, all’articolo 1, stabilisce che gli immobili suddetti si considerano occupati dall’azienda al momento in cui essa abbia ricevuto in consegna i materiali ivi depositati. Tale provvedimento si è reso necessario allo scopo di assicurare nel miglior modo la conservazione del materiale, che per la sua rilevante entità, non poteva essere collocato altrove, data la difficoltà di trasportarlo e di trovare locali o terreni idonei per sistemarlo convenientemente. Qualsiasi spostamento avrebbe inoltre dato luogo agli inconvenienti di cui ho fatto cenno, per la inevitabile paralisi che ne sarebbe derivata nelle alienazioni.

Ciò non significa naturalmente che da parte dell’A.R.A.R. non si cerchi in tutti i modi di attenuare il disagio che deriva agli interessati dal prolungarsi dell’occupazione di terreni o immobili di loro proprietà. Una speciale disposizione è stata all’uopo inserita nel citato decreto n. 120 per quanto attiene agli immobili destinati ad uso di abitazioni o di scuole o destinati ad istituzioni di assistenza e beneficenza, per l’alloggio di ricoverati e per i relativi servizi, stabilendosi che per detti immobili l’A.R.A.R. deve provvedere alla restituzione entro un determinato periodo di tempo indicato nel decreto medesimo. Indipendentemente da questa specifica norma, il Tesoro non ha mancato e non mancherà di svolgere azione vigile e costante affinché, compatibilmente con le esigenze funzionali dell’A.R.A.R., non si verifichino ingiustificati ritardi nello sgombero dei locali da essa occupati; e in tal senso si è già avuto occasione di rivolgere premure all’azienda, di volta in volta che sono pervenute segnalazioni da parte degli interessati. È altresì da avvertire che, in seguito anche alle vivaci premure rivolte dal Ministero del tesoro, l’A.R.A.R. nulla tralascia per dare il massimo impulso alle vendite, ciò che contribuirà ad affrettare lo sgombero dei locali nei quali il materiale è ora depositato. Di più non è possibile fare. Nessun dubbio che occorre ridurre allo stretto indispensabile i danni che l’occupazione degli immobili di privati industriali ha potuto determinare all’economia del Paese; ma è altrettanto indiscutibile che occorre in pari tempo tenere in debito conto la necessità dell’A.R.A.R., cui è affidato un così importante e complesso compito e alla cui attività sono connessi, come già ho avvertito, cospicui interessi dello Stato.

Per quanto si riferisce alla interrogazione dell’onorevole Rodinò ed altri colleghi, osservo che, circa la questione della regolarità di funzionamento dell’A.R.A.R., deve premettersi che questa azienda è stata costituita nell’ottobre del 1945, per assolvere ad un compito di natura e di entità assolutamente eccezionale, quale è quello della presa in consegna, della custodia e della alienazione di ingenti quantitativi di materiale residuati di guerra, da cedersi dagli alleati al Governo italiano.

Trattavasi, nella specie, di ricevere, spesso in alcuni giorni, a volte in poche ore, quantitativi enormi di materiali, di natura assolutamente eterogenea, custoditi alla rinfusa in interi campi, senza dettagliati elenchi di consegna, e di provvedere successivamente alla loro custodia ed alienazione; compiti questi che sovrastavano al momento, come per vario tempo hanno sovrastato, ogni pratica possibilità organizzativa dell’azienda.

Che ciò possa aver dato luogo agli inconvenienti spesso lamentati è fuori di dubbio; ma occorre aggiungere subito che nulla è stato trascurato, sia da parte del Tesoro che dall’azienda medesima, per addivenire nel più breve tempo possibile ad una più idonea e migliore organizzazione, adottando anche più efficienti controlli, che, nonostante la delicatezza e la complessità dei compiti all’azienda stessa affidati, possono lasciare presumere di raggiungere risultati capaci di escludere irregolarità ed abusi.

Comunque, non sono mancate, e non mancano neppure attualmente, tutte quelle iniziative che consentano di addivenire ad un notevole miglioramento della situazione.

Una innovazione, che indubbiamente ha contribuito a creare nel campo dell’alienazione un’atmosfera più sana, è quella della adozione, in massima, del sistema della pubblica gara, che offre, in confronto alla trattativa privata, maggiori garanzie di imparzialità e di regolarità, e che pertanto appare preferibile, anche se ostacola alquanto la più rapida alienazione degli ingenti quantitativi di materiali giacenti nei magazzini e nei campi dell’A.R.A.R.; tanto più che tale svantaggio viene attenuato intensificando al massimo il lavoro di lottizzazione ed i servizi di propaganda.

In connessione con la questione delle vendite, si è curato di migliorare, nel limite del possibile, il servizio di stima del materiale; questione questa che, peraltro, ha sempre presentato e presenta tuttora notevoli difficoltà, giustificate dall’ingente numero dei lotti, che vengono posti in vendita per ogni decade e che ammontano in media a 4.000.

Una delle più gravi lacune verificatesi nell’espletamento dei servizi inerenti alla presa in consegna, alla custodia ed alla alienazione dei residuati di guerra, è quella della mancanza di un inventario del materiale pervenuto all’azienda, che avesse stabilito fin dall’inizio della gestione un punto fermo, per seguire i movimenti del materiale stesso. Si deve indubbiamente a questa deficienza la maggior parte degli inconvenienti che spesso si sono lamentati. Ciò, peraltro, va posto in relazione con la circostanza che ingentissimi quantitativi di materiali sono stati ceduti dagli alleati all’A.R.A.R., senza elenchi di consegna, onde il lavoro di ricognizione non si presentava invero agevole, data anche la necessità di non intralciare, con lo svolgimento di operazioni di ricognizione, classificazione ed elencazione, il regolare ritmo delle alienazioni.

Comunque, in seguito alle vive insistenze da parte del Tesoro e per effetto della collaborazione che ha sempre offerto l’azienda, è stata possibile la compilazione di un inventario indicativo, alle date del 31 dicembre 1946 e del 30 giugno 1947, del quantitativo dei materiali in possesso dell’A.R.A.R., razionalmente classificati. Tale consistenza non corrisponderà certamente alla situazione iniziale del materiale, che è da ritenere non potrà più ricostruirsi; potrà forse non fotografare nemmeno l’attuale situazione di fatto, ma data la mole di lavoro e le difficoltà che si sono frapposte alla sua realizzazione, costituirà senza dubbio un risultato notevolissimo. Ad ogni modo questi dati, faticosamente raccolti, potranno fornire sicura base per procedere, in prosieguo di tempo, ai necessari completamenti ed aggiornamenti che consentano di controllare più esaurientemente il movimento del materiale. Dopo un periodo di notevole incertezza è stato provveduto alla riorganizzazione dei servizi contabili dell’azienda, adottando il sistema unico, basato sul più largo decentramento, nel senso che ciascuna sede ha una contabilità autonoma collegata al centro attraverso il conto corrente istituito fra ogni sede e la Direzione generale.

Per quanto attiene alle spese di funzionamento dell’azienda, è in corso di compilazione il preventivo di spese, che consente di fissare annualmente il livello massimo delle spese stesse, salvo le eventuali variazioni che, nel corso della gestione, si potessero rendere necessarie.

Per ciò che concerne la questione dei controlli, va considerato che essa è attualmente effettuata, oltre che dal collegio dei sindaci, anche dalla Ragioneria generale dello Stato, a mezzo di funzionari distaccati presso l’azienda medesima, mentre alla periferia, limitatamente alle sedi più importanti, come Livorno, Milano, Bari, Venezia e Forlì, si provvede mediante personale di ragioneria delle Intendenze di finanza. Data la grandissima importanza della sede di Napoli, alla quale è affidata la gestione di oltre la metà dell’intero quantitativo dei materiali A.R.A.R., si è provveduto al distacco permanente di un ispettore superiore del Tesoro, col compito specifico di vigilare sulla gestione della sede stessa: compito principale affidato agli incaricati del controllo presso le sedi periferiche è quello di assistere alle operazioni preliminari e conclusive inerenti alle pubbliche gare, esprimendo il proprio parere, quando risulti necessario. Ma il controllo dei predetti funzionari può estendersi a tutta l’attività amministrativa e contabile delle rispettive sedi, campi e magazzini compresi. Il controllo, come sopra organizzato, ha dato pratici risultati e si svolge senza pregiudizievoli intralci per il funzionamento dell’azienda e per il concretamento delle operazioni di alienazione. Siffatta azione di controllo, alla quale concorre l’azienda medesima con il proprio corpo di ispettori, che è intendimento del Tesoro rafforzare e che dovrebbe anche essere incitamento ai dirigenti centrali e periferici dell’A.R.A.R. a perfezionare sempre più il loro lavoro e a porre maggior impegno per evitare rilievi ed osservazioni in dipendenza di atti non conformi all’interesse dell’azienda. Ma se non può sicuramente affermarsi che coi provvedimenti adottati sia stata raggiunta una organizzazione tale da impedire in ogni caso qualsiasi più lontana possibilità di irregolarità ed abusi, si deve però dire che molto è stato fatto per avviare l’azienda verso quella regolarità sostanziale e formale che è sempre stata preciso obiettivo del Tesoro, anche se tale regolarità – come già sopra avvertito – per la natura stessa dell’azienda e la sua condizione di funzionamento, esigerà continui perfezionamenti.

Per quanto concerne poi le notizie apparse sulla stampa circa un contratto interceduto tra l’A.R.A.R. ed un’azienda privata, che in tal modo sarebbe stata posta in grado di realizzare utili per molte centinaia di milioni nel giro di pochi mesi, gli onorevoli interroganti intendono riferirsi evidentemente, in particolare, alla vendita da parte dell’A.R.A.R. di 1800 motori Diesel G.M. Ed è pertanto opportuno, al fine di potere esprimere un sereno giudizio, considerare i tre principali aspetti dell’operazione: soggetto acquirente, modalità del contratto, prezzo di vendita. Ed occorre subito avvertire che se nel caso concreto l’azienda alienatrice è stata indotta a derogare alla normale procedura della vendita a mezzo della pubblica gara, vi sono stati seri motivi, che vanno ricercati nella particolare natura dell’ente acquirente. L’Unione aziende meccaniche meridionali, U.N.A.M., creata dalla Società per lo sviluppo delle industrie del Mezzogiorno, S.V.I.M.E.Z., col concorso della Navalmeccanica, dell’Alfa Romeo di Pomigliano d’Arco e delle Industrie meccaniche napoletane, aziende tutte controllate dall’I.R.I., non può infatti considerarsi alla stessa stregua di una qualsiasi organizzazione industriale o commerciale che svolga la propria attività per scopi esclusivamente speculativi, ma come un ente che fiancheggia e rafforza l’opera del Governo nella soluzione dell’importante problema di carattere nazionale attinente allo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno d’Italia.

Tale caratteristica dell’U.N.A.M. è confermata dal fatto che il maggior ente partecipante all’Unione stessa, e cioè l’Associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, avente per iscopo statutario di promuovere lo studio per le condizioni economiche del Mezzogiorno e di definire concreti programmi di azione intesi allo sviluppo delle attività industriali meglio rispondenti alle esigenze di quelle zone d’Italia, non può esercitare attività industriali e commerciali rivolte a scopi meramente lucrativi.

Va inoltre tenuto presente che tutte le cariche sociali dell’Associazione sono gratuite e che l’eventuale attivo che risulterà al momento della liquidazione sarà devoluto ad istituzioni aventi per iscopo il progresso economico del Mezzogiorno. L’Associazione stessa è presieduta dall’onorevole Morandi, che, all’epoca del contratto in questione, rivestiva la carica di Ministro dell’industria e commercio e dedicava un particolare interessamento alla intensificazione di concreti programmi per l’incremento delle industrie meridionali.

Si è voluto da taluno osservare, a proposito del soggetto acquirente dei suddetti 1800 motori, che l’U.N.A.M. trae le sue origini dall’unione aziende meccaniche meridionali, U.N.A.M.M.E.R., costituitasi il 25 febbraio 1947 ed avente la comune caratteristica di una società privata con scopi commerciali ben precisi. Ma non si vede quale rilevanza possa avere tale indagine di carattere retrospettivo ai fini del giudizio che può esprimersi sull’operazione compiuta dall’A.R.A.R. Sta di fatto che il contratto è stato stipulato non con l’U.N.A.M.M.E.R., società privata, ma con l’U.N.A.M., e che questa, al momento in cui la vendita venne eseguita, aveva indubbiamente caratteristiche, che la differenziavano sostanzialmente da altre aziende aventi il solo e unico scopo della speculazione.

Chiarita, in tal modo, la figura dell’ente acquirente, vediamo quale sia l’essenza del contratto U.N.A.M.-A.R.A.R. Esso è diretto principalmente alla utilizzazione dei motori per la costruzione di gruppi elettrogeni, impieghi questi di particolare importanza, in quanto sono di grande aiuto per superare le eventuali crisi invernali di energia elettrica e stimolare, nel tempo stesso, l’approntamento di alternatori, dando lavoro e guadagno ad altre industrie.

Nei riguardi specifici dell’A.R.A.R., la opportunità di chiedere la vendita nei termini previsti dal contratto con l’U.N.A.M., va posta in relazione anche con le difficoltà che essa aveva precedentemente incontrate nell’alienazione separata di motori singoli o accoppiati. Si consideri che, su 158 motori messi in vendita a coppie, ne furono venduti soltanto 92. Non poteva perciò fondatamente sperarsi di riuscire ad esitare l’ingente massa di 2.300 motori di carri armati giacenti nei campi.

Va inoltre tenuto presente che, per direttiva di carattere generale, è fatto obbligo all’A.R.A.R. di vendere i materiali allo stato in cui si trovano, onde evitare che all’attività puramente commerciale dell’alienazione si unisca quella più rischiosa della trasformazione e manipolazione del materiale.

Poiché i motori di cui trattasi sono montati su carri armati, la vendita a piccoli lotti doveva importare o l’obbligo dell’A.R.A.R. di provvedere allo smontaggio, oppure l’autorizzazione ai singoli acquirenti di effettuare tale smontaggio con i propri mezzi, È facile comprendere quali pericoli avrebbe presentato quest’ultima soluzione nei riguardi della tutela dell’ingente patrimonio custodito nei campi e magazzini dell’azienda. La vendita effettuata all’U.N.A.M. presenta il grande vantaggio di agevolare l’esodo di una grande quantità di materiale, che è utilissimo per la economia di un ente che opera a mezzo di società controllate dallo Stato ed in base a direttive di una associazione non avente finalità speculative. La natura del contratto non è quella di una vera e propria vendita, ma di un deposito presso l’U.N.A.M. per successiva alienazione a terzi, ed i motori non venduti entro il termine contrattuale dovranno essere restituiti all’A.R.A.R. senza diritto per l’U.N.A.M. a rivalsa di sorta.

Per quanto riguarda il prezzo, nel determinarlo l’A.R.A.R. ha tenuto conto:

1°) delle offerte già acquisite in sede di pubblica gara di motori sciolti;

2°) del costo di smontaggio di ogni motore dal rispettivo carro armato;

3°) del prevedibile prezzo realizzabile in vendite a lotti.

È da precisare che nelle vendite di motori scelti la media delle offerte ricevute dall’A.R.A.R. fu di L. 337.000 per motore, spese di montaggio L. 10.000 per motore; ed il prezzo a cui gli organi peritali dovettero scendere, di fronte allo scarso successo delle gare, fu di 300.000. Furono venduti dieci motori del lotto 4364 di Livorno, avendo la Commissione aggiudicatrice constatato, in occasione di una pubblica gara, la scarsa richiesta del materiale in parola.

L’esperienza fatta sulla vendita in gare pubbliche dei motori scelti a ditte e persone private per piccoli quantitativi, al prezzo persino di L. 300.000 l’uno, legittimava la presunzione dell’azienda che fosse conveniente vendere quelli montati su carri armati ad un prezzo ormai vicino ai precedenti, ad un ente operante nell’ambito del pubblico interesse e per un grosso blocco.

Giova notare che il prezzo concreto di vendita non venne stabilito in modo costante, ma con riferimento a quello di listino dell’autocarro italiano dotato del motore più simile al Diesel G.M., che è di L. 275.000. Con tale agganciamento si è mirato a garantire l’A.R.A.R. dei rischi derivanti dalla svalutazione monetaria, in considerazione che il termine del contratto era previsto al 31 dicembre 1948.

La spesa di L. 10.000 per smontaggio di ogni singolo motore restava a carico dell’U.N.A.M. Da tutte le considerazioni esposte non si può prescindere, se si vuole valutare nella sua realtà questo contratto, che ha dato luogo a critiche non sempre serene e obiettive.

Comunque, è bene si sappia che non si è trattato di una operazione decisa e concretata in modo rapido: il concretamento della operazione fu, al contrario, preceduto da un accurato esame, da lunghe discussioni svoltesi nelle riunioni del Comitato esecutivo e del Consiglio di amministrazione dell’A.R.A.R. in data 28 gennaio, 17 febbraio, 11, 25 e 31 marzo corrente anno. E in quest’ultima riunione il contratto fu approvato, non senza avvertimento, da parte di qualche consigliere dotato di particolare competenza tecnica, sul dubbio esito che l’iniziativa avrebbe avuto per l’acquirente, attesa l’imponente massa dei motori da smontare, dei gruppi elettrogeni da collocare e tenuto conto degli oneri e delle alee connessi alle operazioni stesse.

A seguito di attacchi mossi da qualche giornale in merito alla convenzione della quale trattasi, la questione ha anche formato oggetto di ulteriore esame, avvalendosi del parere di competenti tecnici; è stata altresì disposta ed eseguita un’accurata indagine da parte di un ispettore generale del Ministero del tesoro. Ma da tutto questo complesso di accertamenti e di indagini si può trarre la conclusione che l’operazione debba ritenersi pienamente regolare, sia dal lato formale che da quello sostanziale.

E poiché gli onorevoli interroganti hanno accennato a manchevolezze di carattere generale nel funzionamento dell’A.R.A.R., ritengo opportuno fornire anche alcuni chiarimenti sulla particolare questione dei furti e incendi.

Furti. Fin dal primo momento dell’assunzione da parte alleata dei depositi residuati di guerra, l’A.R.A.R. s’è posto il gravissimo problema della custodia e conservazione del materiale ivi contenuto.

L’organizzazione creata per la prevenzione e la repressione delle attività criminose ai margini dell’azienda e precisamente dei furti, dei tentativi di sottrazione del materiale concertati con terzi, dell’irregolare uscita di materiali, ecc., ha avuto inizio nei primi mesi del 1946 e si è sviluppata su basi di sempre maggiore efficienza, raggiungendo risultati notevolissimi, che sono stati riconosciuti più volte dagli stessi alleati e da tutti i rappresentanti delle similari organizzazioni ed istituzioni estere, i quali abbiano visitato le sedi e i campi A.R.A.R.

L’organizzazione creata in stretta intesa con l’autorità di pubblica sicurezza e col Comando speciale del Corpo di custodia affidato al colonnello Biglino e ai suoi collaboratori designati dal Comando dell’arma dei carabinieri e dal Ministero della guerra, si fonda su queste principali caratteristiche:

  1. a) creazione di distaccamenti di carabinieri nei campi; con attività speciale di investigazione e controllo;
  2. b) istituzione presso tutte le principali sedi dell’A.R.A.R. di nuclei speciali di pubblica sicurezza all’ordine di un commissario distaccato appositamente, nuclei che fanno capo ad un ispettorato generale presso la Direzione generale di pubblica sicurezza in Roma, coadiuvati da vari funzionari ed agenti col compito specifico di indagine, denunzia, repressione di tutti i reati o tentativi di reati in ogni sede o servizio dell’azienda. Fanno capo a questi gruppi, oltre che gli speciali servizi della Direzione dell’A.R.A.R., anche numerosi informatori distribuiti fra guardie giurate, personale dei campi, ecc., con l’incarico di accertare e riferire immediatamente eventuali irregolarità o sospetti, dovunque manifestantisi;
  3. c) controllo sempre più intenso ed efficace delle attività e delle entrate ed uscite nei campi, compatibilmente con l’originario difetto e struttura di funzionamento conseguente al modo e all’entità delle consegne, mediante un corpo di ispettori centrali e periferici che è dotato di oltre 30 persone, quasi tutte esperte in materia amministrativa, tecnica, commerciale o di magazzino e che agisce in istretta collaborazione con le predette autorità di pubblica sicurezza e dei carabinieri. L’azione di tutti i predetti servizi, associata ad una sempre maggiore razionalizzazione dei sistemi ispettivi della A.R. A.R., ha condotto a risultati veramente notevoli, se si tengano presenti le formidabili difficoltà iniziali che nessuna azienda né organizzazione ha mai dovuto affrontare in Italia, nemmeno in misura più ridotta di quello che non abbia invece dovuto affrontare l’A.R.A.R.

Si può affermare che in nessuna azienda esista oggi un sistema di controlli così preciso come esiste nell’A.R.A.R. Molte sensazioni che si hanno, in genere, nel senso contrario, oltreché ad insufficiente conoscenza della realtà, sono dovute anche al fatto che molte indagini e conseguenti sanzioni vengono tenute segrete. Di molte infatti non si conoscono tuttora i risultati, anche perché spesso queste indagini debbono durare parecchie settimane ed anche mesi.

Per quello poi che riguarda gli incendi, ve ne sono stati due soltanto di qualche importanza ed entrambi sono avvenuti nel periodo immediatamente successivo alle consegne da parte degli alleati, quando cioè i campi erano in condizioni di assoluta confusione e quindi di impossibilità di organizzazione e di controlli veramente efficienti.

Un primo incendio si verificò a Livorno per effetto di materiali deteriorati ivi giacenti. Nessuna valutazione fu possibile in modo esatto dei danni arrecati, in quanto nessun riscontro era stato fatto dei quantitativi consegnatici. Comunque, dagli atti dell’inchiesta fatta – si tratta della primavera del 1946 – risulterebbe che i danni sono stati modesti.

Più grave invece è stato il secondo incendio, quello cioè che si è verificato nel campo di Torre Annunziata il 23 luglio del 1946. Tutte le inchieste condotte al riguardo di questo incendio, che ha distrutto soprattutto materiali tessili e simili, hanno escluso in modo assoluto il dolo. Da notarsi che si tratta di inchieste condotte dalla pubblica sicurezza, dal corpo dei pompieri, nonché dalla polizia alleata già in servizio presso l’A.R.A.R.

L’incendio è stato dovuto ad alcune scintille sprigionatesi dalle locomotive dello stazionamento ferroviario. I danni presunti, secondo la Direzione dell’A.R.A.R., avrebbero ammontato alla cifra di 280 milioni; ma tale cifra è stata considerata poi di molto superiore alla realtà dalla valutazione fatta più tardi dalle autorità di pubblica sicurezza, le quali hanno calcolato il danno nella cifra approssimativa di 50 milioni.

Un incendio di molta minore entità dei due precedenti si è verificato al campo di Poggioreale Macello, contenente soltanto maschere antigas in istato di deterioramento. Il danno è stato valutato dalle autorità di pubblica sicurezza nella cifra approssimativa di 10 milioni, mentre invece la direzione dell’A.R.A.R. aveva parlato di una cifra alquanto superiore. Tutte le indagini hanno comunque escluso il dolo ed hanno concordemente attribuito l’incendio ad autocombustione originata dall’eccessivo calore.

È a questo proposito da ricordare che, proprio nello stesso periodo, a pochissima distanza da quel campo, ha avuto luogo un formidabile incendio al deposito di traversine delle Ferrovie dello Stato, con un danno di parecchi milioni.

Posso dire, in conclusione, che gli incendi verificatisi sono stati pochissimi e i danni veramente lievi, ove si rifletta all’enorme quantità di depositi e soprattutto alla carenza di mezzi antincendio di cui si poteva disporre.

Dopo quanto esposto, il Ministero del tesoro dichiara di ritenere che le indagini di una Commissione di inchiesta non siano necessarie; esse anzi probabilmente paralizzerebbero l’attività dell’A.R.A.R., senza eliminare gli inconvenienti lamentati.

PRESIDENTE. L’onorevole De Martino ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

DE MARTINO. Le dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro non mi lasciano per nulla sodisfatto, anche perché pensavo che, a giudicare dall’interesse che l’argomento ha suscitato nel Paese e dalla precedenza e dalla coincidenza di altre interrogazioni sullo stesso argomento, si potesse senz’altro dedurre che il problema posto sul tappeto fosse di attualità, ossia la discussione di esso fosse più che matura.

Premetto che non è mia intenzione di pronunciare parole grosse, suscitatrici di scandali: deficienze, abusi, manchevolezze, episodi sintomatici e rivelatori potranno essere, se mai, oggetto di esame approfondito da parte non nostra, ma di altri organi.

Io qui desidero fissare con elementare chiarezza alcuni aspetti generali di questo problema, intorno al quale enormi interessi si agitano, anche se non tutti precisamente leciti.

Secondo me, l’attività dell’A.R.A.R. va distinta in tre fasi – e non in tre… evi, come minaccia di farli diventare anche la risposta dell’onorevole Sottosegretario – e che hanno conferma nella stessa sigla dell’Ente:

1°) Azienda rilievo, e cioè a dire, fase di ricognizione e di carico degli ingenti quantitativi di materiali vari che gli alleati avevano ammassati in Italia (specie nel Mezzogiorno), per alimentare la marcia dei loro eserciti. Fase, dunque, puramente statistica e contabile.

2°) Alienazione residuati. Siamo alla seconda parte della sigla, anche se le lettere sono identiche alla prima. Qui le cose si complicano. Una mastodontica burocrazia è sorta per la bisogna e i risultati delle vendite (alienazioni) si dimostrano, con le cifre, attivi e cospicui per lo Stato.

Ed, infatti, le prime vendite si sono succedute con intensità; e sugli innumeri campi A.R.A.R. si precipitarono, avidi, gli speculatori di ogni risma, in cerca di affari redditizi; e, trattandosi di una organizzazione di nuovo impianto, cui la improvvisazione aveva rifilato tutti i suoi difetti, non sono mancati gli scandali grossi e piccini, di cui, per un certo tempo, le cronache quotidiane hanno offerto saggi poco edificanti.

Si era peraltro in tempo di svalutazione crescente, e la minaccia del cambio della moneta si profilava a scadenza periodica a turbare i sonni di quanti in modo lecito o illecito avevano accumulato denaro. Perdurava la mancanza di materiale di ogni specie, e le industrie, ai primi incerti passi della loro ripresa, si erano date affannosamente ad acquistare residuati.

PRESIDENTE. Onorevole De Martino, mi pare che la sua risposta prenda proporzioni addirittura smisurate in confronto dei cinque minuti che le sono consentiti dal Regolamento. Io posso concederle qualche minuto di più, ma evidentemente non basta: lei, fra l’altro, legge e la lettura è vietata dal Regolamento. Cerchi dunque di essere sintetico, altrimenti gli altri interroganti non avranno modo di sentire la risposta alle loro interrogazioni.

DE MARTINO. Ma io mi valgo soltanto di alcuni appunti: e questo mi pare sia consentito.

Dicevo che il terzo periodo è quello che viviamo, ed è il più difficile e preoccupante, specialmente dopo le dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario. L’A.R.A.R. occupa, come ho detto nella mia interrogazione, gli impianti dell’industria privata, con pregiudizio dell’economia nazionale e con l’aggravamento del problema della disoccupazione.

Sono ormai quattro anni, signori del Governo, nell’Italia del Sud, e tre anni nell’Italia del Centro e del Nord, che l’A.R.A.R. persiste nel sistema di requisizione di stabilimenti industriali e di vaste zone di terreno sottratte all’agricoltura, su cui, ai limiti delle strade o nel cuore di fertili campagne, giacciono in estensione materiali che sono in attesa di essere eliminati e che fra l’altro costituiscono esca ai reati di furto, ed incentivo alla delinquenza minorile. Sicché i procedimenti penali s’infittiscono, con aggravio di lavoro per la Magistratura inquirente e giudicante, con aumento di spese nel bilancio della giustizia, con il diffondersi sempre più preoccupante dell’abitudine al furto, per cui mi meraviglio come intelligenti avvocati di parte non abbiano ancora invocato per i loro clienti il beneficio della… grave provocazione. (Commenti).

Ma veniamo al sodo, al consistente: l’utile ricavato dal bilancio dell’A.R.A.R. è espresso in rigide cifre contabili che potrebbero, al caso, appagare un’azienda privata, che non è tenuta a valutare gli eventuali danni che arreca alla collettività. E la mancata produzione degli stabilimenti industriali e dei terreni, occupati dai depositi della A.R.A.R., non è forse danno alla Nazione? Questo lei, onorevole Sottosegretario, non l’ha detto. E il prolungarsi di una situazione di precarietà nei confronti del personale assunto in via provvisoria, non costituisce una grave responsabilità per lo Stato e un impegno morale verso innumerevoli impiegati, funzionari ed operai che lavorano nell’Ente? E il pericolo di un sempre maggiore deterioramento, e quindi deprezzamento, dei materiali giacenti in attesa di vendita, non è forse una voce da segnare al passivo?

Pur compenetrandomi della situazione del personale dell’A.R.A.R. – per il rispetto che porto verso tutti coloro che lavorano – non credo che ciò possa costituire il motivo determinante per procrastinare all’infinito l’esistenza dell’A.R.A.R., che, a lungo andare, non avrebbe altro compito che quello di amministrare se stessa.

Ora io sostengo e propongo di normalizzare finalmente un assurdo stato di cose, di smobilitare questa pesante ed onerosa bardatura, certamente dannosa all’economia nazionale, restituendo nel più breve tempo alla loro destinazione produttiva gli impianti industriali ed i terreni sottratti alla loro funzione, e che attivandosi o ritornando a cultura, potranno accogliere nuove braccia operose, sottraendole alla mortificante tragedia della disoccupazione a cui sono costretti.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. E i materiali dove li mettiamo?

DE MARTINO. I materiali si liquidano, perché i materiali perdono valore man mano che passa il tempo! Essi arrugginiscono, e se oggi possono essere venduti, per esempio, per cento miliardi, domani dovranno essere venduti – anche per effetto della rivalutazione della lira – per cifre molto, ma molto inferiori ai cento miliardi!

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. E infatti liquidiamo.

DE MARTINO. Quando per liquidare i residuati che ci hanno lasciato i vincitori impieghiamo un tempo maggiore della stessa durata della guerra, che cosa succederà per l’avvenire dell’Italia?

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Io non so se l’onorevole interrogante si renda conto della quantità ingente di materiale!

PRESIDENTE. Onorevole De Martino, lei dice cose interessanti, ma per avere il diritto a parlare così a lungo, doveva fare una interpellanza e non una interrogazione.

DE MARTINO. Dopo la risposta dell’onorevole Sottosegretario, io mi riservo di fare una interpellanza, perché i nostri punti di vista sono completamente opposti. Io penso che il mio criterio sia costruttivo, mentre quello dell’onorevole Sottosegretario è un criterio da conservatore: e questo non significa fare gli interessi dell’economia nazionale!

PRESIDENTE. Nel dare ora facoltà all’onorevole Rodinò di dichiarare se sia sodisfatto, gli chiedo se non ritenga opportuno anch’egli presentare a sua volta una interpellanza sull’argomento di questa interessante interrogazione.

RODINÒ MARIO. Io conto di essere brevissimo, perché mi sembra, dopo la lunga risposta dell’onorevole Sottosegretario, di essere d’accordo con il collega De Martino, e credo che sia necessario trasformare questa nostra – direi – comune interrogazione in una interpellanza, che possa dare adito a più ampia discussione.

Solo vorrei rilevare, per giustificare la necessità dell’interpellanza, che l’onorevole Sottosegretario al tesoro ha chiarito con i suoi argomenti, che egli ritiene che tutto funzioni regolarmente nell’A.R.A.R., o almeno che funzioni per il meglio.

Invece la nostra interrogazione ha avuto lo scopo di portare a conoscenza dell’Assemblea che questa convinzione, che ha il Governo, non risponde alla convinzione che hanno moltissimi cittadini, e che questi cittadini desidererebbero a loro volta fare propria la convinzione che ha il Governo, confortata e convalidata da qualche Commissione d’inchiesta, che naturalmente non potrebbe essere formata dagli stessi funzionari che oggi gestiscono l’A.R.A.R.

Non mi dilungo, benché avrei molte citazioni e documentazioni da produrre; ma, appunto perché mi riservo di parlarne in sede di interpellanza, chiudo questo mio intervento dichiarando che non sono sodisfatto, tanto da pensare, appunto, alla necessità di una più vasta discussione in sede di interpellanza.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Crispo, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere le ragioni per le quali è stata chiusa, per improvvise disposizioni del Provveditorato agli studi di Napoli, la sezione distaccata del liceo-ginnasio governativo di Meta di Sorrento, dove affluivano circa 100 allievi. Il provvedimento di chiusura è giunto tanto più improvviso e pregiudizievole, in quanto erano state già effettuate le iscrizioni e si erano anche iniziate le lezioni, e ciò in seguito alle ripetute assicurazioni del Ministro al sindaco di Meta, autorizzato; alla stipula del regolare contratto di fitto dei locali».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere all’interrogazione.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. L’onorevole interrogante sa come sia pietosa la condizione di molte di queste sezioni staccate, che furono istituite sotto l’influenza dell’azione bellica e che naturalmente ora tendono a scomparire per dare luogo a scuole regolarmente costituite.

Il provveditore agli studi di Napoli ha ritenuto opportuno di non autorizzare quest’anno questa sezione staccata di Meta di Sorrento, semplicemente perché al provveditore risultavano iscritti soltanto 20 alunni.

L’onorevole Crispo dice che sono cento gli alunni che potrebbero frequentare questi corsi.

Io posso assicurare l’onorevole interrogante che, se effettivamente sono cento, cioè un numero ben diverso da quello che risulta al provveditore di Napoli, immediatamente provvederò perché la sezione staccata venga mantenuta.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

CRISPO. Prendo atto dell’assicurazione che in questo momento l’onorevole Ministro si è compiaciuto di darmi, di revocare, cioè, il provvedimento di chiusura della sezione distaccata del liceo-ginnasio di Meta di Sorrento, ove risulterà che il numero degli iscritti sia quello da me indicato. Lo preciso di nuovo: novantacinque. Devo dire, però, che non sono sodisfatto della risposta, per verità assai monca, dell’onorevole Ministro, perché mi sembra che egli sia stato poco esattamente informato del modo in cui si è giunti improvvisamente alla soppressione della scuola distaccata di Meta di Sorrento.

È necessario premettere che, se è vero che la sezione distaccata sorse per esigenze belliche, la esperienza ha dimostrato che essa rispondeva alle reali esigenze di ben cinque Comuni: Sorrento, Meta, Piano, Vico Equense e Sant’Agnello di Sorrento. Difatti, nell’anno scolastico 1945, le iscrizioni furono sessantacinque; nell’anno scolastico successivo ottantacinque; in quest’anno novantacinque, come ho già ripetuto. Come si è giunti e perché si è giunti alla soppressione? Nel mese di giugno ultimo scorso il Comune chiedeva il mantenimento della sezione in Meta di Sorrento e l’onorevole Ministro rispondeva, chiedendo una regolare deliberazione. Questa fu inviata nell’agosto del 1947, e nel settembre 1947 l’onorevole Ministro autorizzava la riapertura della scuola per l’anno 1947-48. È un dato di fatto storico, adunque, che, in seguito ad una specifica autorizzazione del Ministero, il sindaco del Comune di Meta fu perfino indotto a stipulare il contratto di fitto dei locali per l’anno 1947-48. Furono poi sollecitati i pagamenti delle tasse di iscrizione; e la scuola fu aperta il 15 ottobre, quando, per l’assenza di qualche professore, l’inizio delle lezioni fu prorogato di qualche giorno. Intanto – incredibile a dirsi – il 30 ottobre, improvvisamente, la scuola veniva soppressa.

Nella zona vesuviana si afferma – io non raccolgo la notizia, ma ho il dovere di denunciare il fatto – che in concorrenza con la sezione distaccata, successivamente alla istituzione di essa avvenuta nel periodo di guerra, è stato aperto in Meta un liceo-ginnasio parificato, ad iniziativa delle suore del Monastero Sant’Anna e si ritiene (questa è l’opinione generale) che per avvantaggiare questo istituto religioso, sia stata soppressa la sezione distaccata. Se la notizia è vera, io non posso non protestare vivamente in attesa di un provvedimento che ripristini la sezione, arbitrariamente chiusa.

lo ho qui, onorevole Ministro, un esposto di ben ottantaquattro padri di famiglia. È la copia di quello inviato a lei. Questi padri di famiglia chiedono, e la richiesta mi sembra giusta, che, se la sezione è destinata ad essere soppressa, resti aperta per lo meno in questo anno, essendosi già fatte le iscrizioni, ed essendo state pagate le tasse. La richiesta, dicevo, mi sembra giusta, e sarebbe veramente enorme che gli alunni già iscritti alla sezione distaccata, dovessero, invece, essere obbligati a trasferire necessariamente la loro iscrizione all’istituto di Sant’Anna.

PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni che, trattando lo stesso argomento, possono essere svolte congiuntamente:

Spallicci, De Mercurio, Paolucci, Della Seta, Macrelli e Facchinetti, ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, «per conoscere se non credano opportuno diminuire l’onere delle tasse universitarie, che rendono difficile la possibilità di frequenza ai corsi agli studenti meno forniti di mezzi di fortuna»;

Priolo, ai Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, «per conoscere se, dato il grave onere che l’aumento delle tasse universitarie costituisce per gli studenti con modesti mezzi di fortuna, non ritengano opportuno procedere ad una conveniente ed equa riduzione».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Ringrazio vivamente l’onorevole Spallicci e gli altri, che hanno voluto attirare l’attenzione dell’Assemblea su questo gravissimo problema delle tasse universitarie e del finanziamento dei nostri Istituti superiori universitari. Non è possibile considerare questo problema se non si tiene presente il suo intimo legame con il più generale problema della finanza universitaria. Le odierne difficoltà finanziarie in cui si dibattono le Università sono dovute, come è noto, ad un complesso di cause di cui la prima, in ordine di tempo, è da ricercarsi nel falso concetto dell’autonomia amministrativa concessa a tale ente. Questa autonomia, come l’onorevole interrogante saprà, è puramente fittizia, perché è sempre mancata alle Università una vera ed adeguata autonomia finanziaria. Le Università hanno sempre vissuto, oltre che con il provento delle tasse scolastiche e con il contributo dei proventi locali, principalmente con l’aiuto dello Stato mediante contributi ordinari e straordinari e mercé il carico fatto al bilancio dello Stato degli stipendi, assegni e pensioni a favore dei professori universitari di ruolo e del personale amministrativo.

Occorre aggiungere un’altra causa di dissesto, e questa è data dai rilevantissimi danni di guerra. Infine bisogna tener presente il complesso dei miglioramenti economici per il personale insegnante e non insegnante.

Ora, di fronte a tale situazione, il Ministero si è seriamente preoccupato, sin dal momento in cui è stata liberata l’Italia insulare e centromeridionale, del problema del finanziamento delle Università. Dopo la liberazione di tutto il territorio fu provveduto con un fondo di 300 milioni stanziato con un decreto del 27 maggio 1946, a favore di tutte le Università e gli Istituti superiori. Questi 300 milioni erano stati preceduti da altri 50 milioni del bilancio anteriore. Con successivo decreto del settembre 1946 si provvide a quintuplicare per tutte le Università ed Istituti superiori i contributi dovuti dallo Stato per un ammontare di 150 milioni, ed inoltre fu stanziata una somma di 500 milioni e 280 mila lire per l’erogazione di contributi, ma in effetti per un acconto sulle spese anticipate per pagamento di stipendi e di personale.

Sono stati pure già stanziati, e in parte erogati, oltre 140 milioni circa per retribuzioni al personale insegnante e non insegnante. Il Ministero ha ancora provveduto a corrispondere successivamente 981 milioni, concessi per i miglioramenti economici corrisposti al personale delle Università ed agli Istituti superiori nei bilanci 1945-1946, 1946-1947. Un altro miliardo è stato stanziato per il corrente esercizio finanziario, sempre per retribuzione del personale e per contributi speciali ad Istituti bisognosi. Complessivamente, dalla liberazione ad oggi, lo Stato ha erogato a titolo straordinario, oltre le spese ordinarie, naturalmente, la somma di 3 miliardi e 397 milioni per le sole Università, oltre le spese fisse per gli stipendi dei professori, assegni, retribuzioni, ecc., al personale. Tutto ciò, è bene ripeterlo, è servito e servirà in massima parte per le spese del nostro corpo insegnante; ma il fabbisogno, come ben comprende l’onorevole interrogante, è di gran lunga superiore. Per quanto concerne i locali distrutti e danneggiati dalla guerra, è da rilevare che, mentre per le piccole riparazioni hanno provveduto o stanno provvedendo le Università con fondi propri, per quelle di maggior rilievo si è ottenuto che provvederà il Ministero dei lavori pubblici. In parte, i lavori sono già in corso di esecuzione. Anche la situazione del personale universitario non è numericamente adeguata alle necessità didattiche, tecniche, amministrative. Rimangono ancora in vigore i vecchi ruoli dell’anteguerra. Invero, le Università, per far fronte alle predette necessità, hanno proceduto per il passato all’assunzione di nuovo personale, i cui oneri finanziari gravino soltanto per una piccola parte sui bilanci universitari. Il Ministero si vide dunque costretto, per l’eccessivo aumento di questo personale che grava in parte sui bilanci universitari, ma in parte notevole sul bilancio dello Stato, si vide costretto, ripeto, nell’aprile 1946 a valutare, d’accordo col Ministero del tesoro, ogni nuova assunzione di personale sia a carico del bilancio statale sia a carico di quello universitario. È da aggiungere, anzi, che il Ministero del tesoro, nel concedere l’assenso per 981 milioni di cui si è detto, ha fra l’altro fatto presente la necessità di procedere, d’intesa con quel Ministero, ad una riduzione del personale non di ruolo assunto fin dal 1946. È inutile ribadire che le provvidenze di cui si è fatto cenno hanno lo scopo di provvedere alle attuali e più urgenti necessità dei nostri Atenei; ma, per poter mettere in condizioni la Università di adempiere compiutamente la loro alta funzione didattica e scientifica, occorrerebbe uno stanziamento annuo di almeno 10 miliardi, secondo i nostri calcoli. Ma tale somma non potrà essere posta a carico dell’attuale bilancio statale; e pertanto sarebbe necessario che, pur rimanendo le Università affidate a carico dello Stato, fosse ritoccata la finanza locale in maniera da assicurare al bilancio delle Università stesse una autonomia amministrativa vera, autonomia amministrativa che è il fondamento delle altre autonomie. Così stando le cose, appare evidente che nel momento attuale non si ritiene assolutamente possibile pensare ad una riduzione delle tasse universitarie. E vengo a questo argomento.

Il problema delle tasse si ricollega intimamente a quello delle entrate. Come si è detto sopra, le entrate delle Università – i mezzi, cioè, che dovrebbero consentire ai nostri Atenei di vivere degnamente e prosperare – sono rappresentati dal contributo dello Stato, dal contributo degli enti locali e dai proventi derivanti da lasciti e donazioni, nonché dal gettito delle tasse scolastiche.

Premesso che i proventi derivati da lasciti e donazioni rappresentano una modestissima parte di entrate e che i contributi degli enti locali sono rimasti pressoché fermi, nonostante i reiterati sforzi del Ministero, si può concludere che, in sostanza, le entrate universitarie sono costituite esclusivamente dal contributo dello Stato e dal gettito delle tasse universitarie.

Ora, per quanto concerne ili contributo statale e le singole molte sovvenzioni, che lo Stato ha elargito nei tempi più recenti, è stato già ampliamente trattato in questa stessa Assemblea in altre occasioni.

Per quanto concerne il problema delle tasse, si deve tener presente che l’azione del Ministero è stata sempre improntata al principio di far gravare il meno possibile sullo studente l’onere dell’insegnamento.

Infatti, tenuto conto della considerazione che gli studenti meritevoli e bisognosi sono, in base all’attuale legislazione, esonerati totalmente o parzialmente dal pagamento delle tasse scolastiche, a seconda naturalmente delle votazioni riportate negli esami, gli studenti possono dividersi in tre categorie nettamente differenziate: Categoria A, con esonero totale; categoria B, con l’esonero parziale; categoria C, con pagamento integrale dell’ammontare delle tasse, cui sono tenuti gli abbienti, anche se fra i meritevoli per profitto.

Le tasse universitarie, in relazione all’aumentato costo dei servizi, sono state, in primo tempo, cioè a decorrere dall’anno accademico 1945-46, appena raddoppiate: se prima lo studente versava in media lire 1040 annue, col raddoppio veniva a corrispondere la somma di lire 2080 annue.

Ora, era intendimento di questo Ministero di non apportare alcun nuovo aumento, tanto che nessun nuovo aumento venne adottato per l’anno accademico 1946-47; ma, di fronte mille necessità impellenti dei bilanci universitari, quasi tutti deficitari, di fronte all’aumentato costo dei servizi di carattere generale, alle pressanti richieste delle autorità accademiche, che avevano rappresentato la urgente necessità di adeguati incrementi delle entrate e delle stesse tasse, per concorde parere di tutti i rettori, nell’imminente pericolo della chiusura dei nostri Atenei, il Ministero non poté non provocare un secondo aumento delle tasse universitarie, a decorrere dall’anno accademico 1947-1948; aumento posto dal Ministero del tesoro come condizione essenziale per la concessione del fondo di 981 milioni, quale contributo dello Stato per i miglioramenti economici al personale. Ma, anche a seguito dei due aumenti, l’importo delle tasse e sovratasse scolastiche sembra a molte autorità accademiche ancora esiguo, giacché, fatti i debiti confronti, uno studente che corrispondeva, anteriormente alla guerra, lire 1040 di media annue, ne corrisponde ora lire 4.160; con un aumento, quindi, di sole quattro volte nei confronti dell’anteguerra. La tassa statale in cifra mensile si concreta nella somma di lire 350.

È bene considerare al riguardo – e richiamo l’attenzione dell’onorevole interrogante a questi dati – che il costo dello studente si aggira sulla media di lire 30.000 annue, in confronto di lire 4.100 da esso pagate.

Come ognuno vede, ammesso che lo Stato debba fare o faccia ulteriori sacrifici per il mantenimento delle nostre Università, non si può non osservare che anche gli studenti, che direttamente fruiscono del servizio, debbono anch’essi considerare, come considerano, la necessità di contribuire a quella parte di sacrifici che è oggi richiesta dall’esigenza di vita dei nostri Atenei. Ed in realtà si deve dire, ad onor del vero, che gli studenti hanno anch’essi ravvisata questa necessità in linea di massima, necessità di venire incontro agli impellenti bisogni mediante ulteriori e parziali integrazioni da parte loro, cioè oltre 4 mila lire annue d’integrazione, come contributo ai bilanci di ciascuna Università. Ciò è stato confermato dai delegati del Consiglio nazionale studentesco, che è l’organo rappresentativo di tutti gli studenti universitari, i quali hanno fatto parte di un’apposita Commissione nominata dal Ministero per l’esame del problema. I delegati, consci delle necessità universitarie, piuttosto che soffermarsi su una richiesta di diminuzione di tasse universitarie, hanno insistito invece sull’adozione di speciali provvedimenti a carattere assistenziale, provvedimenti e provvidenze che sono ora allo studio e che potendosi concretare sia con l’estensione del sistema delle borse di studio, sia con l’istituzione di mense e alloggi o particolari organi del genere, quali cooperative, studentesche, ecc., valgano ad alleggerire realmente l’onere sopportato dalle famiglie, soprattutto da quelle residenti in provincia.

Riassumendo, ed ho finito, si può precisare quanto segue: 1°) gli studenti universitari, secondo l’ultima statistica controllata, ammontano a 236 mila: in questo numero sono però compresi 46 mila studenti fuori corso, i quali non pagano le normali tasse, ma solo una tassa speciale di lire 200 annue; quindi gli studenti dei corsi normalmente paganti non sono che 189 mila;

2°) sulla base dei dati dell’ultimo anno accademico, si può affermare che l’onere che lo Stato ha affrontato in un anno per le Università è stato di circa 2.700.000.000, onere che, diviso per circa 190 mila studenti in corso di studi, è pari all’onere di circa 30 mila lire per ciascuno studente.

Passando dalle uscite alle entrate, rileviamo che le tasse statali, esclusi naturalmente i contributi posti di loro iniziativa dalle singole Amministrazioni universitarie – e ciò è nella loro competenza ed il Ministero può entrarvi relativamente – le tasse statali, dicevo, hanno dato un gettito complessivo, nello scorso anno, di 395 milioni, pari a circa 2 mila lire per studente, in confronto alle 30 mila lire che lo Stato spende per ciascuno studente. Pertanto il passivo di un’annata è stato di 2 miliardi e 300 milioni per questa Amministrazione.

Ora il raddoppio delle tasse, richiesto dal Tesoro, per il quale ha dato il consenso il Ministero della pubblica istruzione, permetterà di raggiungere 800 milioni; ma, dati i recenti, notevoli aumenti di spese per il personale, non è da prevedere, per questo bilancio, una diminuzione sensibile del passivo dello scorso anno. Ma si aggiunge: vi sono contributi vari, posti per iniziativa di singole Università. A questo proposito io debbo ricordare che il Consiglio superiore ha fatto recentemente presente al Ministero che le Università operano, nell’ambito della loro autonomia e della loro competenza amministrativa, per quanto riguarda tali contributi. Per rispettare questa competenza ho preso io stesso l’iniziativa di convocare mercoledì prossimo tutti i rettori delle Università, perché si possa compiere un ampio riesame di questi contributi. E questo, secondo me, per i seguenti fini:

1°) renderli meno gravosi possibile;

2°) perequarli fra Università e Università, perché questi contributi, come è noto, esistono nelle Università del Nord e non esistono nelle Università del Sud;

3°) informarli ad un criterio differenziale che permetta di esentare totalmente gli studenti bisognosi e di gravare notevolmente il contributo degli studenti che dispongano di mezzi.

Si chiede infine che cosa fa il Governo per aiutare gli studenti bisognosi a compiere i loro studi universitari. Rispondo che, oltre all’esenzione totale o parziale delle tasse per gli studenti meritevoli, il Governo ha nello scorso anno accademico concesso agli studenti universitari borse di studio per un ammontare complessivo di 300 milioni. Ciò significa che oltre i tre quarti del gettito totale delle tasse pagate da tutti gli studenti universitari è stato restituito agli studenti bisognosi sotto forma di borse di studio. Nelle casse dello Stato sono quindi entrati per le tasse, solo circa, 90 milioni, mentre sono usciti due miliardi e 700 milioni.

Questo è il bilancio delle nostre Università.

PRESIDENTE. L’onorevole Spallicci ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

SPALLICCI. Io sono grato all’onorevole Ministro dell’istruzione della risposta molto diligente che ho ascoltato con vivo interesse. Realmente, io avevo sperato che le conclusioni fossero state più sodisfacenti, ma prendo lo spunto da quella promessa e imminente riunione dei rettori delle Università, in cui saranno discussi i temi che il Ministro ha annunciato, e voglio augurarmi che quelle tassazioni complementari, che sono appunto nelle Università del Nord Italia così gravose per gli studenti, possano essere lievemente diminuite. Perché ha ragione l’onorevole Ministro di dire che le tasse sono soltanto raddoppiate, cioè che da duemila si arriva a quattromila; ma vi sono in più le complementari sino a raggiungere le ottomila, e vedo che al Politecnico di Milano i contributi di laboratorio assommano a 7 mila lire e che quindi lo studente viene a pagare qualcosa come 20 mila lire all’anno.

Nella facoltà di medicina, sempre a Milano, si pagano circa 22 mila lire. Ora, naturalmente, l’onorevole Ministro mi dirà che tutto questo rientra nell’autonomia amministrativa delle singole Università; ma ad ogni modo, anche tenendo conto delle borse di studio, v’è da prendere in considerazione questa richiesta, che mi sembra abbastanza ragionevole, degli studenti meno favoriti dalla fortuna. Essi chiedono non di ritornare alla tassazione molto bassa dell’anno scorso, che ritengono inadeguata al costo della vita, ma ad una diminuzione dell’aggravio attuale. Considerando dunque, come diceva l’onorevole Ministro, 189 mila il numero degli studenti – facciamo pure cifra tonda in 200 mila – abbiamo avuto nello scorso anno circa 350 milioni di lire di tasse. Oggi, se i miei calcoli non sono inesatti, il contributo si aggirerebbe sul miliardo. Gli studenti si trovano oggi, d’improvviso, ad essere gravati (parlo sempre dei meno abbienti) di un notevole contributo, perché alle 20 o 22 mila lire citate bisogna aggiungere le spese per le dispense, quelle dei libri, che rappresentano un aggravio notevole.

Mi si dirà, e mi si dice giustamente, che 200-246 mila, compresi anche quelli fuori corso, sono un numero eccessivo di studenti iscritti. Indubbiamente, noi abbiamo una duplice e strana piaga nel nostro Paese: l’analfabetismo e il dottoralismo.

Abbiamo una pletora notevolissima di studenti che si illudono che un cencio di laurea rappresenti la chiave per aprire le porte dell’avvenire. Purtroppo, molte volte si aprono soltanto le porte d’un misero impiego. Da noi non è ancora concepibile, che uno possa avere una laurea e possa non disdegnare anche il lavoro manuale come avviene in qualche altra nazione in cui una dottoressa in chimica può acconciarsi ai compiti di operaia in uno stabilimento. Da noi soltanto il matrimonio può far scordare la laurea ad una donna.

Severità negli studi e rigore negli esami, invochiamo. Perché da noi la percentuale dei rimandati negli Atenei deve essere solo del 2 per cento mentre in Francia è ad esempio del 50 e del 60 per cento?

Si pensi a ridurre il numero degli studenti che è andato moltiplicandosi in un modo allarmante, a seconda del merito e non a seconda delle possibilità economiche. Concorsi siano banditi anche per accedere alle Università.

La Repubblica nascente non dovrà affidare la selezione preferendo i meglio censiti ma i più idonei.

Dobbiamo riconquistare quel primato che avevamo un tempo, quando, guardando agli stranieri, si diceva che noi eravamo grandi e là non eran nati, e per ritornare ad avere quel prestigio morale rifacciamoci ad una maggiore severità negli esami.

Non mi dissimulo le grandi difficoltà finanziarie in cui si dibatte il Governo; conosco lo stato fallimentare delle amministrazioni universitarie, le condizioni pietosissime dei nostri laboratori; ma credo che non si debba pretendere di tutto sanare col contributo degli studenti. In definitiva costoro non chiedono già di ritornare alle tassazioni delle due mila lire dell’anno scorso, ma domandano un 20 per cento di diminuzione su quelle che oggi sono state portate (come a Milano) da due a 22 mila lire.

Voglio augurarmi che prevalga il concetto della unificazione delle tasse universitarie e che non si debba ancora lamentare tale e tanta sperequazione tra gli Atenei del nord e quelli del resto d’Italia.

Gli studenti più poveri e più studiosi possono fruire di esenzione, di borse di studio; ma non dimenticate che i 30 e lode della scuola non corrispondono sempre ai 30 e lode della vita.

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni, per accordi intercorsi con il Governo, sono rinviate:

Perlingieri, Moro, Bettiol, Salvatore, Bosco Lucarelli, Fuschini, Ermini, Rescigno, Recca, Uberti e Gabrieli, ai Ministri dell’industria e commercio, delle finanze e dei lavori pubblici, «per conoscere se ravvisino di prorogare per un decennio le disposizioni della legge 5 dicembre 1941, n. 1572, concedente agevolazioni agli impianti industriali dell’Italia centro-meridionale, iniziati entro il termine del 31 dicembre 1946, e ciò sia in considerazione del fatto che, a causa del periodo bellico, la detta legge non ha potuto avere pratica attuazione, sia in considerazione della necessaria evoluzione industriale dell’Italia centro-meridionale, resa più urgente dalle distruzioni belliche e costituente un aspetto primario del problema meridionale».

Perugi, al Presidente del Consiglio dei Ministri, «per conoscere: 1°) quali aiuti ed alleggerimenti fiscali intenda disporre il Governo a favore degli agricoltori del comune di Gradoli (provincia di Viterbo), i cui raccolti sono stati quasi interamente distrutti dalla grandine nel nubifragio verificatosi in quella zona il 28 giugno ultimo scorso; 2°) se in considerazione dell’attività quasi esclusivamente vinicola di quei lavoratori e del fatto che i danni subiti avranno ripercussioni negative sui raccolti ancora per circa due anni, non ritenga dare agli aiuti oltre che un carattere urgente, anche uno continuativo per alleggerire il disastro che ascende a più di cento milioni di lire».

Segue l’interrogazione dell’onorevole Macrelli, al Presidente del Consiglio dei Ministri del tesoro e delle finanze, «per sapere se non credano opportuno dare le disposizioni e adottare i provvedimenti necessari – di immediata esecuzione – perché siano esaurite nel più breve termine le pratiche per le pensioni di guerra e degli infortunati civili».

Ha facoltà di rispondere l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. In merito alle interrogazioni dell’onorevole Macrelli, sulla liquidazione delle pensioni di guerra, il Ministero del tesoro, per mio tramite, ha dato una ampia risposta il 29 settembre ultimo scorso, come risulta dal numero 236 del resoconto sommario delle discussioni di questa Assemblea Costituente.

Prego, quindi, l’onorevole Macrelli di volere avere presente quanto fu risposto in quella occasione col sussidio di fatti e dati concreti e con elementi giustificativi della previsione che il Ministero formulava per una prossima e sodisfacente organizzazione del servizio delle pensioni di guerra.

Riassumendo quanto ebbi già occasione di dichiarare in quest’Aula, rispondo che i problemi di cui il Ministero si è occupato sono stati i seguenti:

1°) ampliamento dei locali a disposizione della Direzione generale delle pensioni di guerra: è stato provveduto col mettere a disposizione l’edificio di Via Sicilia con centottanta locali, nei quali si sono trasferiti molti servizi;

2°) aumento del personale: è stato portato a circa mille persone e si continua ad incrementarlo con l’assegnazione di altri impiegati;

3°) istruttoria delle pratiche: è in corso di approvazione da parte del Consiglio dei Ministri uno schema di decreto legislativo che autorizza le parti interessate a richiedere direttamente ai distretti militari e ai comuni i documenti giustificativi delle domande di pensione e fa obbligo agli enti suddetti di rilasciarli in un tempo ristretto;

4°) commissioni mediche di accertamento: sono state portate da diciotto a trentadue, disponendo il loro funzionamento in più turni e sottoponendole ad ispezioni, che già lo stesso direttore generale delle pensioni di guerra ha iniziato da alcuni mesi, per rendersi conto della loro efficienza e per provvedere alle loro manchevolezze.

È stata decretata, con decreto legislativo recente, l’assegnazione di medici civili dipendenti dallo Stato, circa un centinaio, in forza al Ministero dell’Africa italiana, alle commissioni mediche ospedaliere, per renderne più intensa l’attività;

5°) si è instaurato dal 23 settembre il servizio a cottimo per l’istruttoria delle pratiche di pensioni, servizio che sta dando cospicui risultati come si può rilevare dalle seguenti cifre, raggruppate in tre distinti periodi di quindici giorni; il primo dal luglio del corrente anno, quando non ancora si era iniziato il lavoro a cottimo; il secondo quando esso si era appena iniziato e che abbraccia, con la fine di settembre, i primi giorni di ottobre; il terzo relativo alla seconda metà di ottobre.

Nel primo periodo i progetti di liquidazione di pensione furono compilati in numero di 1075; nel secondo periodo di quindici giorni, quando appena si iniziò il lavoro a cottimo, ne furono compilati 1.219; negli ultimi quindici giorni 2.083. Come si vede qui si è raddoppiata addirittura la misura.

Istruttorie: nel primo periodo ne furono eseguite 6.543; nel secondo, a cottimo appena iniziato, 23.451; nel terzo periodo 26.903.

Revisione sia dei progetti che delle istruttorie da parte degli uffici della Direzione generale: nel primo periodo 4.046; nel secondo 12.982; nel terzo 29.479.

Anticipazioni, che si fanno in via provvisoria: nel primo periodo ne furono eseguite 382; nel secondo 763; nel terzo 1.238, rese possibili, naturalmente, per l’esplicazione più intensa di quelle pratiche burocratiche, che sono premessa indispensabile per addivenire al risultato finale dell’anticipazione.

Altra voce molto importante nei lavori della Direzione generale è quella dell’emanazione dei decreti concessivi.

Nel primo periodo, furono spediti 1.042 decreti concessivi di pensione; nel secondo, 1.800; nel terzo, 2.835. I certificati di iscrizione spediti nel primo periodo furono 241; nel secondo, 1.114; nel terzo, 1.407. Le pratiche definite dalla Commissione medica superiore, la quale naturalmente si pronunzia nei casi di particolare contestabilità su determinate specie, furono 450 nel primo periodo di quindici giorni, 945 nel secondo, 990 nel terzo. E, finalmente, le pratiche burocratiche, le quali vanno dalla lettura della corrispondenza, fino alla riassunzione dei fascicoli e alla spedizione di note dall’ufficio sono state: nel primo periodo, 76.062; nel secondo, 259.198, nel terzo, 325.456.

Al cottimo attendono ora circa 600 impiegati, ma è intendimento del Ministero del tesoro di elevare questo numero nel più breve tempo possibile;

6°) è in approvazione, da parte del Consiglio dei Ministri, lo schema di un decreto legislativo che renderà eseguibili, sia pure in via provvisoria, i progetti concessivi di pensione anche prima che abbia avuto luogo l’attuale prescritto riscontro del Comitato liquidatore, quando cioè v’è stato soltanto il visto da parte del Direttore generale.

Si prevede che in tal modo molte pratiche avranno immediata esecuzione, giacché vi sono molte migliaia di pratiche dinanzi al Comitato liquidatore le quali, secondo la legge vigente, debbono essere appunto esaminate ad una ad una dal Comitato stesso. Poiché, quindi, queste pratiche sono state già con molta cura esaminate dagli uffici della Direzione generale, io ho pensato di predisporre un decreto nel senso che ho detto ora, prevedendo il grande vantaggio che ne deriverà a tutti coloro che attendono la pensione.

Tutto ciò premesso, assicuro l’onorevole interrogante che la liquidazione delle pensioni di guerra, doveroso riconoscimento, da parte dello Stato, dei diritti acquisiti da quanti sacrificarono la propria integrità fisica alla Patria o videro i loro congiunti sacrificare la vita alla Patria, costituisce oggetto della più vigile e costante cura da parte degli organi che vi sono preposti e del Governo.

L’angoscia degli invalidi e dei loro congiunti è la nostra angoscia: per essa non risparmieremo alcuno dei provvedimenti che possano avvantaggiare questi sventurati.

PRESIDENTE. L’onorevole interrogante ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MACRELLI. Conoscevo già la risposta dell’onorevole Sottosegretario per il tesoro, perché è pressoché uguale a quella che egli rese all’interrogazione dello scorso 29 settembre. Ed è appunto perché io già la conoscevo, che sono tornato alla carica, perché le dichiarazioni fatte in quella circostanza non erano riusciti a persuadermi.

L’Assemblea oggi ha udito molte cifre, veramente impressionanti: migliaia di provvedimenti, migliaia di istruttorie, ecc. Ma v’è una cifra che ha dimenticato di dire l’onorevole Sottosegretario di Stato per il tesoro, la cifra che si riferisce alle pensioni non ancora liquidate, che raggiungono il numero enorme di cinquecentomila!

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Non è esatto, questo.

UBERTI. Duecentomila.

MACRELLI. Cinquecentomila! Non temo smentite; per una sola ragione, amico Uberti, perché prima di venire qui sono andato a chiedere notizie, ad assumere informazioni.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. La cifra non è esatta, perché non corrisponde a quella che io ho avuto dalla Direzione generale.

MACRELLI. Mi consenta, onorevole Sottosegretario, e il rilievo che faccio in questo momento, accennando alla cifra, non vuole essere affatto accusa o rimprovero all’ufficio delle pensioni di guerra, che lavora in una maniera ammirevole, dal direttore generale all’ultimo funzionario. La colpa non è del personale, la colpa è del sistema. Pochi mezzi, purtroppo, sono a disposizione della Direzione generale.

Dice il Sottosegretario nella sua risposta odierna: noi abbiamo ampliato i locali della Direzione generale.

Sapete, onorevoli colleghi, in quanti uffici è divisa l’attività della Direzione generale delle pensioni? V’è l’ufficio in via della Stamperia, che voi conoscete bene; un altro in via Flaminia, Ponte Milvio; un terzo in via Sicilia, Teatro delle Arti, e un quarto al viale del Lavoro, Palazzo degli esami, dove si trova l’archivio insieme allo schedario.

Dislocazione esagerata, che porta una notevole perdita di tempo e una perdita di mezzi. Quindi, un provvedimento necessario da parte del Governo sarebbe quello di concentrare più uffici in una medesima località. Ne avete la possibilità. (Commenti). Vi sono tante caserme qui a Roma, inutilizzate e inutilizzabili (Commenti), che potrebbero essere adoperate magnificamente a questo scopo e ad altri scopi più utili.

Ha aggiunto l’onorevole Sottosegretario che si è provveduto all’aumento del personale. Vorrei ricordare, soprattutto agli anziani di questa Assemblea…

PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, ricordi che il tempo a sua disposizione è quasi trascorso.

MACRELLI. Sta bene, onorevole Presidente; ma si tratta di un argomento importante, sul quale vorrei richiamare l’attenzione dell’Assemblea, tanto più che il Paese ascolta, perché vi sono delle necessità gravissime e urgenti.

Vorrei ricordare, dicevo, che fin dal 1918 fu istituito un apposito Ministero per l’assistenza ai militari e le pensioni di guerra – e primo titolare di quel Ministero fu Leonida Bissolati – trasformato poi in Sottosegretariato, e poi in Direzione generale, nel 1923. Orbene, sapete quanti erano gli impiegati, allora? E ci trovavamo all’indomani della grande guerra, della guerra del 1915-18, e quindi era limitato il numero delle richieste di pensione: erano 1.200.

Oggi, dopo la guerra tremenda e tragica, dopo le richieste dei sinistrati di guerra, non solo dei pensionati, abbiamo appena appena mille impiegati. Si è provveduto recentemente – è la verità – trasferendo diversi impiegati dal Ministero dell’Africa italiana alla Direzione generale delle pensioni. Non basta, onorevole Sottosegretario. E quando lei mi dice che si è provveduto per accelerare le istruttorie delle pratiche, io consento; e quando lei mi dice che si sono create nuove Commissioni mediche, io approvo; e quando dice che recentemente, proprio per disposizione della Direzione generale, si è provveduto al cosiddetto lavoro a cottimo, dico che si è fatta una cosa magnifica. So che l’onorevole Petrilli ha dato tutta la sua anima e la sua attività per questa Amministrazione, e io gliene faccio pubblica lode, come la faccio a tutti i funzionari della Direzione generale. Ma non basta.

Ha accennato, l’onorevole Sottosegretario, alle ultime cifre relative alle pensioni. Sapete in media quante sono le pratiche che si espletano in un mese? Circa quindicimila, e col lavoro a cottimo si arriva anche a diciassettemila.

Ma sapete quante pratiche arrivano ogni mese alla Direzione generale delle pensioni? Dalle quindici alle venti mila, il che significa che il poco personale, pratico, valoroso, che si sobbarca ad una fatica quotidiana gravosa, deve provvedere all’espletamento di queste pratiche, mentre restano inevase le altre cinquecentomila di cui ho parlato prima.

Si può rimediare? Sì, assumendo dell’altro personale: è una proposta concreta che faccio.

Io so che da quel banco era venuta una proposta che fu fermata da altri, per altre ragioni. Ma pensate, onorevoli signori del Governo e onorevoli colleghi, che con una spesa di settantacinque milioni, secondo i calcoli che sono stati fatti, assumendo un numero che varia da duecentocinquanta a trecento impiegati, in un anno si esaurirebbero tutte le pratiche di pensione inevase. E allora, spendiamoli questi settantacinque milioni! Se ne spendono tanti per tante altre ragioni, per cui voi non avrete motivo di invocare, come fate per questa, la bellezza, la santità del sacrificio. Orbene, per una cifra in fondo modesta che potrebbe ovviare a tanti inconvenienti, io penso e credo che il Governo vorrà provvedere. (Applausi).

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PETRILLI, Sottosegretario di Stato per il tesoro. Desidero dire che un provvedimento per aumentare il numero degli impiegati addetti alla Direzione generale delle pensioni di guerra è stato già previsto, studiato e proposto, e dovrà essere attuato celermente, sollecitamente, sicché questo che è un voto dell’onorevole interrogante, forma già oggetto di un progetto che verrà senz’altro attuato. Sarà così notevolmente aumentato il numero delle persone addette ai lavori a cottimo, perché sono convinto che con quel lavoro risolveremo gran parte del problema, il quale, nel suo contenuto pratico, per quelle che sono le cifre comunicate a me, precisamente dal direttore generale delle pensioni di guerra, non porta alla cifra di cinquecento mila accennata dall’onorevole interrogante; perché i sono in istruttoria esattamente 387 mila domande. Vorrei quindi che non si diffondesse quella cifra di mezzo milione od oltre.

Per ciascuna di queste pratiche occorrono i fogli matricolari da parte del distretto militare, i documenti di stato civile da parte dei comuni, e il procurare tutti questi documenti importa una perdita di tempo, e soltanto la necessità di rinnovare le istanze presso ciascuno di questi uffici, e per ognuna delle 387 mila pratiche, significa che bisogna scrivere per una seconda volta 387 mila lettere. Di qui si comprende facilmente l’unità di misura con cui si deve procedere in questo lavoro, e quindi le grandi difficoltà che importa l’istruttoria. Noi abbiamo fatto premura anche presso il Ministero della guerra, perché sia inviata ai distretti militari una circolare vivacissima in ordine al dovere e all’obbligo morale e giuridico che hanno di corrispondere con la maggiore urgenza alle richieste degli Ispettorati generali per le pensioni di guerra. E così anche i comuni; ma spesso i documenti sono andati dispersi per vicende belliche.

Ad ogni modo, da parte nostra faremo tutto quanto è necessario, perché queste giuste esigenze di tante famiglie che attendono con ansia la liquidazione delle pensioni di guerra siano sodisfatte. (Approvazioni).

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni sono rinviate su richiesta dei Ministri, assenti per ragioni di ufficio:

Monticelli, ai Ministri di grazia e giustizia e del lavoro e previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponde a verità quanto il giornale Il Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito al mancato versamento della somma di lire 342.300 da parte della cooperativa «La Rinascita», di Grosseto, che, incaricata dalla Sepral di provvedere alla distribuzione ai vari comuni della provincia di 163 quintali di riso sequestrato il 12 febbraio 1946 dalla squadra annonaria, ne versò il ricavato l’8 agosto 1947, cioè dopo oltre un anno e mezzo, quando già era stata presentata denunzia per appropriazione indebita alla Procura della Repubblica di Novara. Per conoscere altresì quali provvedimenti si intendono adottare, anche da parte del Ministro del lavoro, verso la suddetta cooperativa»;

Monticelli, al Ministro del lavoro e della previdenza sociale e all’Alto Commissario per l’alimentazione, «per sapere se risponda a verità quanto il giornale II Mattino dell’Italia Centrale ha pubblicato in merito alla mancata distribuzione alle cooperative di consumo di 200 quintali di baccalà salinato, assegnato dall’Alto Commissariato per l’alimentazione alla Federazione provinciale delle cooperative di Grosseto, e da questa rivenduto, a prezzo notevolmente maggiorato, ad una ditta di Fucecchio. In caso affermativo, quali provvedimenti intende prendere il Ministro del lavoro verso la Federazione delle cooperative di Grosseto»;

Nobile, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere quale ingegnere sia stato designato, ed in base a quali criteri, per i lavori relativi ai beni immobiliari di proprietà dello Stato italiano in Varsavia».

Data l’ora tarda, le altre interrogazioni iscritte all’ordine del giorno saranno svolte nella prossima seduta dedicata alle interrogazioni.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se il Governo intende o meno di emanare le disposizioni legislative che consentano alle cooperative, alle mutue e agli enti similari il ricupero dei beni di cui furono spogliati dal fascismo.

«Canevari, Bocconi, Caporali, Ruggiero Carlo, Zanardi, Morini, Merighi, Tonello, Longhena, Treves, Filippini, Cairo, Piemonte».

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per sapere se credono dignitoso per il Governo e per l’Assemblea Costituente mancare agli impegni precisi, più volte assunti anche davanti all’Assemblea stessa, di presentare il progetto di legge, relativo alla rivendica dei beni mobili e immobili, di enti e di privati, sottratti o dovuti cedere, durante il periodo fascista, con la violenza morale e materiale, ai legittimi proprietari, e se intanto non ritengano opportuno dare disposizioni perché siano sospesi provvedimenti esecutori in corso.

«Macrelli, Zuccarini, Spallicci, Azzi, Sardiello, Chiostergi, Pacciardi, Magrini, Parri».

Chiedo al Governo quando intende rispondere.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Governo risponderà lunedì prossimo.

PRESIDENTE. È anche pervenuta la seguente interrogazione urgente:

«Al Ministro di grazia e giustizia, per conoscere se, come e quando intende risolvere la dolorosa situazione della Corte di appello delle Calabrie, nella quale mancano tre presidenti di sezione, tredici consiglieri; per cui il primo presidente è costretto a presiedere le udienze penali; le udienze civili sono rinviate sine die; e ben 150 processi penali giacciono nella cancelleria della sezione istruttoria in attesa di essere definiti.

«Mancini».

Chiedo al Governo quando intende rispondere anche a questa interrogazione.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Ne darò comunicazione al Ministro competente, il quale farà sapere quando intende rispondere.

SANSONE. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

SANSONE. Ho presentato giorni fa una interrogazione al Ministro dei lavori pubblici riguardante la Mostra d’oltremare di Napoli. Poiché la interrogazione investe un termine che scade il 18 di questo mese, volevo pregare se fosse possibile che l’interrogazione fosse posta all’ordine del giorno prima di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Comunicherò al Ministro competente questo suo desiderio.

CANEVARI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

CANEVARI. Ho presentato al Ministro della pubblica istruzione una interrogazione sulle pensioni ai maestri elementari. Ho preso accordo a voce col Ministro di porre l’interrogazione all’ordine del giorno della prossima seduta, dedicata alle interrogazioni.

PRESIDENTE. Sta bene, interpellerò in tal senso il Ministro competente.

PRESSINOTTI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

PRESSINOTTI. Ho presentato una interrogazione riguardante il blocco dei fitti; data l’importanza dell’argomento, che è sentito da tutto il Paese, pregherei che fosse posta all’ordine del giorno prima di lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Prego il Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio di comunicare le intenzioni del Governo al riguardo.

ANDREOTTI, Sottosegretario di Stato per la Presidenza del Consiglio dei Ministri. Il Ministro Grassi risponderà lunedì prossimo, tanto non v’è motivo di urgenza poiché il termine scade il 31 dicembre. Il Ministro Grassi sta raccogliendo i dati in modo da essere in grado di dare una risposta esauriente. Se dovesse rispondere domani, potrebbe dire soltanto che sta facendo indagini.

PRESIDENTE. Sta bene.

Interrogazioni.

PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.

MOLINELLI, Segretario, legge:

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti intenda adottare nei confronti dell’ufficiale comandante il servizio di polizia in Piazza Venezia la sera del 7 novembre, responsabile della brutale condotta degli agenti, i quali, senza nessuna ragione, si lanciavano contro i cittadini che, dopo la fine del comizio tenutosi alla Basilica di Massenzio, attraversavano pacificamente la piazza per fare ritorno alle loro case.

«Minio».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere con quali criteri il Comitato interministeriale dei prezzi ha concesso che il latte alla stalla venga portato da 28 lire a 45 lire il litro e quali sono i fattori che giustificano tale aumento.

«Vischioni».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri di grazia e giustizia e del tesoro, per conoscere quali provvedimenti hanno adottato od intendano adottare a tutela dei diritti e dei legittimi interessi di alcuni magistrati dei gradi IV e V i quali, essendo addetti ad uffici giudiziari dell’Alta Italia ed avendo raggiunto il limite di età nel periodo della guerra combattuta nell’Italia centrale dopo la liberazione di Roma, vennero indistintamente collocati a riposo per il suddetto motivo dell’età, senza che potessero valutarsi, nei loro riguardi, le condizioni richieste per il loro trattenimento in servizio a norma della legge speciale 28 gennaio 1943, n. 33, e vennero poi, dopo la liberazione dell’Alta Italia, richiamati in servizio come pensionati senza tenere nella giusta considerazione le circostanze: che, nel predetto periodo di guerra, gli stessi magistrati erano stati trattenuti in servizio dal Governo di fatto dell’Alta Italia a norma della stessa legge sopracitata e che, dopo la liberazione dell’Alta Italia il Governo militare alleato, avendo avuto comunicazione dei decreti di collocamento a riposo, aveva revocati tali decreti, trattenendo esso pure in servizio gli stessi magistrati, i quali, pertanto, avevano prestato continuo e ininterrotto servizio oltre il limite di età.

«Bulloni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa (Aeronautica), per sapere perché gli ufficiali di complemento in servizio dai 1929 e successivi sino al 1944, richiamati per deficienza dei quadri, furono inviati in congedo senza nessun riconoscimento.

«Questi ufficiali, oltre ad avere servito con fedeltà ed onore per parecchi lustri, sono quasi tutti ex combattenti della guerra 1915-18, nonché reduci dell’ultima guerra e membri attivi del fronte clandestino di resistenza durante l’occupazione nazi-fascista.

«Dato che quelli in servizio permanente effettivo, con anzianità di servizio talvolta inferiore, nella peggiore delle ipotesi, furono collocati nella forza assente in attesa di reimpiego con regolare stipendio ogni fine di mese e liberi di poter espletare mansioni rimunerative per proprio conto, si chiede per i suddetti ufficiali un atto di giustizia tendente a riconoscere giuridicamente il servizio da loro prestato sotto le armi, affinché a quelli che hanno raggiunto il ventesimo anno sa riconosciuto il diritto e trattamento di quiescenza: e a tutti gli altri, una indennità – una tantum – in ragione degli anni di servizio regolarmente prestati. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Bruni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della difesa, per conoscere se non ritenga opportuna l’estensione dei benefici della legge 14 maggio 1946, n. 384, anche agli ufficiali inferiori, ad evitare che un ufficiale inferiore che non possa, per gravi ragioni, accettare un trasferimento, si trovi costretto alle dimissioni senza alcun trattamento economico, a differenza degli impiegati avventizi e degli ufficiali epurati per aver prestato servizio nell’esercito repubblichino. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rossi Paolo».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere cosa egli intenda fare per accelerare la elaborazione definitiva dello statuto e del regolamento democratici dell’E.N.A.L., allo scopo di porre termine al più presto, anche in questo Ente, agli inconvenienti del regime commissariale. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Grieco».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere se ritiene opportuno estendere i benefici di cui al decreto del 28 agosto 1942, n. 1097 – con cui si offre la possibilità alle maestre supplenti, vedove di guerra, con tre anni di servizio, di essere assunte nel ruolo effettivo – alle maestre il cui marito sia stato dichiarato disperso od irreperibile in azione di guerra, e già godenti di pensione privilegiata. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Preti».

«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri delle finanze e del tesoro, per sapere se, m vista del maggiore ed importante lavoro ora affidato agli uffici distrettuali delle imposte dirette, non ritenga opportuno rivedere, per quelli dell’Alta Italia, gli stanziamenti fatti per sopperire alle spese di riscaldamento dei locali. Specie per i nuovi delicati compiti connessi con l’imposta patrimoniale straordinaria, si riterrà certo opportuno evitare (in definitiva nell’interesse stesso della Finanza) che i funzionari siano costretti a lavorare, a ricevere e discutere con i contribuenti in condizioni di disagio, come avviene quando il locale è male e poco riscaldato. La lena ed il rendimento del lavoro non sono certo indipendenti dalle condizioni materiali in cui il funzionario deve svolgere la propria attività.

«In particolare, e come esempio, si rammentano le condizioni dell’importante ufficio imposte dirette di Pavia, al quale, per l’intero esercizio 1947-48 e per tutte le spese di ufficio, riscaldamento compreso, sarebbe stata assegnata la somma complessiva di lire 73.900. Tale ufficio si compone di 17 stanze e deve provvedere ad alimentare 16 stufe per circa 150 giorni. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Ferreri».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro del tesoro, per conoscere quali siano le ragioni del differente trattamento relativamente alla corresponsione della razione viveri in natura od in contanti tra i sottufficiali dell’Aeronautica militare non effettivamente impiegati, ma considerati in «attesa di destinazione» e quelli della Marina militare, pure considerati nella medesima posizione.

«Ciò perché consta che, onde equiparare i sottufficiali dell’Aeronautica a quelli della Marina militare (per i quali ultimi è stata già disposta la corresponsione viveri in natura od in contanti, a seconda se residenti in sede ove esistano magazzini viveri oppure in sedi ove tali magazzini non esistono), il Ministero della difesa (Aeronautica) aveva richiesto i fondi suppletivi al Ministero del tesoro, che, invece, ha stralciato la relativa voce obbiettando che a tale personale (cioè a quello dell’Aeronautica) non deve competere il trattamento di cui sopra.

«Ora, considerato il caso di una forte aliquota di sottufficiali dell’Aviazione militare, trovantisi nella identica posizione dei sottufficiali della Marina militare, si ritiene che le disposizioni intese a regolare il trattamento economico ed amministrativo per i dipendenti della Marina debbono essere identiche – come per il passato – a quelle per i dipendenti dell’Aviazione, perché se uno stato di disagio economico esiste per i primi, è vero che lo stesso stato di disagio esiste per i secondi.

«Si chiede pertanto che venga con urgenza esaminata la situazione dei sottufficiali dell’Aviazione militare nella posizione di «attesa di destinazione» e che venga quindi esteso a questi ultimi il trattamento che è dovuto ai loro colleghi della Marina militare. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Rognoni».

«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno e l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, per conoscere se non ritengano opportuno bandire subito i concorsi per primari, aiuti ed assistenti agli ospedali; ed ove seri impedimenti ostacolino questi bandi, se non ravvisino la necessità di concedere che le amministrazioni ospedaliere li bandiscano, secondo i loro regolamenti, limitatamente ad un biennio.

«Ciò toglierebbe il disordine ed il malcontento che regnano negli ospedali, dove sono vacanti migliaia di posti, coperti da incaricati, i quali attendono da anni l’apertura dei concorsi; ciò permetterebbe un’ottima selezione di elementi capaci, che assicurerebbero il pieno funzionamento di tali istituti.

«Poiché altra volta l’interrogante ha chiesto ed ha avuto promesse non mantenute, esprime il desiderio di una sollecita e precisa risposta scritta.

«Non nasconde che numerose federazioni ospedaliere sono decise a bandire tali concorsi, ove non giunga una parola del Governo, che dichiari la ferma intenzione di accelerare il ritorno della normalità anche in questo campo assai delicato. (L’interrogante chiede la risposta scritta).

«Longhena».

PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.

La seduta termina alle 20.5.

Ordine dei giorno per le sedute di domani.

Alle ore 11 e alle 16:

Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

SABATO 8 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXIV.

SEDUTA DI SABATO 8 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Congedo:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Presidente

Musotto

Colitto

Cappi

Bellavista

Persico

Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):

Presidente

Morini

Varvaro

La seduta comincia alle 10.

SCHIRATTI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedo.

PRESIDENTE. Comunico che ha chiesto congedo il deputato Lussu.

(È concesso).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Preti; ma poiché non è presente, s’intende che vi abbia rinunziato.

È iscritto a parlare l’onorevole Musotto. Ne ha facoltà.

MUSOTTO. Onorevoli colleghi, il vivo dibattito sull’ordinamento giudiziario, che vieppiù dovrebbe farsi importante, per il numero dei colleghi iscritti a parlare, è giustificato dalla urgente necessità di dare un ordinamento all’amministrazione della giustizia nel quadro della ricostruzione nazionale, ed importerà un complesso di norme che naturalmente incideranno sulla costituzione stessa dello Stato.

La Magistratura ha da tempo manifestato la sua istanza di divenire un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, estranea agli altri poteri dello Stato. Ed io di questo argomento vorrò anzitutto occuparmi, perché, onorevoli colleghi, parmi che esso abbia un carattere di priorità ed un fondamento essenziale tra i vari problemi che il progetto di Costituzione pone all’esame dei membri dell’Assemblea Costituente.

Io ebbi l’onore di appartenere all’ordine giudiziario; quindi potrò liberamente parlare. La mia parola non può certo avere accento di irriverenza verso questo ordine, che pure, bisogna riconoscerlo, negli anni andati dei pervertimenti e delle deviazioni, si sforzò di tenere alto il prestigio della propria funzione.

Ma, onorevoli colleghi, creare un ordine chiuso, una casta chiusa, avulsa dagli altri poteri dello Stato, in questo storico momento, in cui noi assistiamo al trapasso da un vecchio ad un nuovo regime (nuovo regime che attraverso stenti e difficoltà tenta di consolidarsi), credo sia estremamente pericoloso. Sia pure chiusa in una torre di avorio, secondo la espressione dell’onorevole Turco. E poi va ricordato, onorevoli colleghi, un episodio recente, ancora doloroso: non tutti i magistrati, hanno chiaramente manifestato una fede consapevole nel divenire sicuro della Repubblica italiana.

Sono problemi di una importanza capitale, sono problemi che devono innanzitutto essere posti dalla pubblica opinione, hanno bisogno di una chiarezza, di una maturità nella coscienza pubblica, prima che vengano all’esame dell’Assemblea Costituente.

La Magistratura può ricomporsi, può trovare nell’ordinamento giudiziario, che la Costituente le sta apprestando, i presupposti del divenire della sua ampia autonomia e della sua ampia indipendenza.

Già molti colleghi hanno espresso il proprio pensiero, né parmi che i pareri siano concordi. C’è ancora nell’Assemblea qualche preoccupazione, ci sono dei dubbi in rapporto a questo grave problema dell’autonomia integrale della Magistratura. Dobbiamo andare con grande cautela, onorevoli colleghi, prima di affermare questo principio, che non risponde alle esigenze del momento storico in cui lo valutiamo, in cui il problema ci è posto.

Io sono per la indipendenza della Magistratura. E chi può non essere per l’indipendenza della Magistratura? Credo che uno dei requisiti, o meglio una delle necessità alle quali dovrebbe venire subito incontro il Governo per dare una effettiva, una reale indipendenza alla Magistratura, sia proprio il fattore economico. Io non trovo nel progetto di Costituzione alcun articolo che si occupi espressamente di tale problema. Non è qui presente il Ministro della giustizia, ché gli avrei voluto dare un suggerimento: è inutile aspettarci che dalle esauste finanze del bilancio italiano venga alla Magistratura un aiuto adeguato alla importanza e alla particolarità della sua funzione. Sarebbe una illusione!

Ho sentito parlare da tempo, anche per la famigliarità che ho con i magistrati, della istituzione di una Cassa speciale dei magistrati. Ora, non è nuovo il fatto in Italia, e noi potremmo pervenire alla costituzione di questo fondo speciale, di questa Cassa speciale in favore della Magistratura, attraverso il sistema dell’applicazione delle marche. Se ne potrebbero studiare il modo e le norme, per agevolare il funzionamento di questo Ente. Onorevoli colleghi, si potrebbe così venire in aiuto, almeno in parte, ai bisogni della Magistratura. Certamente, l’applicazione di queste marche, data la misura trascurabile di esse, non verrebbe ad incidere troppo sul costo dei giudizi.

Per quanto riguarda l’indipendenza economica della Magistratura, diciamolo francamente: il magistrato in Italia è malamente retribuito, e noi abbiamo recenti episodi che hanno angustiato la vita famigliare di alcuni magistrati, per cui sentiamo tutto il dovere di venire incontro a questi funzionari, per attenuare il disagio, nel quale essi vivono e si dibattono.

Diceva uno scrittore di cose politiche: in Inghilterra, dove i magistrati sono largamente retribuiti, un giudice che non compisse il proprio dovere sarebbe l’ultimo degli uomini; in Italia perché il magistrato lo compia deve essere un eroe. Quindi urgente la necessità di venire incontro ai bisogni della Magistratura.

Noi siamo per la inamovibilità del magistrato, e fra i magistrati intendiamo per primi, tutti i funzionari del Pubblico Ministero, e vogliamo che questi siano affrancati dal potere esecutivo. L’istituto della inamovibilità del magistrato, lo ricordiamo, aveva avuto delle generiche affermazioni di garanzia nello Statuto albertino, ma lungo la strada questo istituto giuridico della inamovibilità si è completamente perduto, attraverso la lettera e lo spirito dei recentissimi ordinamenti giudiziari.

Noi siamo, dunque, per la inamovibilità del magistrato, la quale conferirà, specialmente al Pubblico Ministero, serenità nell’esercizio delle sue funzioni.

Dovrei interessarmi di un altro argomento, sul quale ho notato che c’è disparità di consenso nell’Assemblea Costituente. A me pare che il problema sia fondamentale. Mi riferisco al divieto, fatto dall’ultimo comma dell’articolo 94 del progetto di Costituzione, ai magistrati di iscriversi ai partiti politici.

Argomento molto importante, onorevoli colleghi, che va valutato davvero con molta ponderazione, e con molto senso di responsabilità. I magistrati non devono iscriversi ai partiti politici: ma intanto, ditemi, chi può negare ad un magistrato di manifestare la propria opinione politica, e di manifestarla anche pubblicamente? Chi può mai contestargli questo diritto? Il magistrato ha lo stesso diritto degli altri cittadini, ma non deve iscriversi. E perché non deve iscriversi? Perché egli iscrivendosi verrà, si dice, a perdere parte della sua indipendenza spirituale, tanto necessaria nell’esercizio della sua funzione.

Non è vero, onorevoli colleghi; noi dobbiamo tenere alla sincerità del costume politico: il magistrato che non si iscrive, al riparo da ogni eventuale controllo o richiamo da parte dei suoi superiori, si sentirà più libero nelle manifestazioni politiche; ne farà di più; appunto perché tutti sanno che egli non ha alcuna tessera di partito.

Ma poi, notate questo importante rilievo: il divieto di iscriversi ai partiti politici incide sull’elettorato passivo dei magistrati. Col sistema della proporzionale, un magistrato che non sia iscritto nei vari partiti politici, non ha praticamente diritto di porre la sua candidatura per le alte cariche politiche; non ha questo diritto. Ed allora, onorevoli colleghi, noi con questo divieto impediremo a molti magistrati, che oggi sono alla Camera, di ritornarvi

Ma, io penso, se volete sanzionare il principio, occorre essere conseguenti: applicarlo in tutta la sua estensione: ai magistrati in servizio attivo, ai vice pretori onorari, ai conciliatori – che costituiscono un numero importante in tutta l’Italia – perché anch’essi esercitano una funzione giurisdizionale. Ed ai funzionari della Corte dei conti, del Consiglio di Stato, a tutti coloro che hanno una funzione giurisdizionale. Starei per dire, anche a coloro i quali fanno parte degli attuali assessorati delle Corti d’assise, presso cui si dibattono processi importantissimi, gravissimi, che sfuggono anche all’esame del secondo grado di giurisdizione. Costoro non dovrebbero essere iscritti ai partiti politici, e così via dicendo, fino a quelli che fanno parte di magistrature speciali, tutti coloro, insomma, che esercitano una funzione giurisdizionale.

Il magistrato, quando è iscritto ad un partito politico trova il freno e il monito nella propria coscienza. Questa impedirà di far pesare la iscrizione nel giudizio, che a lui si chiede. Mi si è fatto rilevare, che il divieto sarebbe particolarmente necessario nei piccoli centri. Non è vero, onorevoli colleghi; ne abbiamo personale esperienza. Nei piccoli centri, il magistrato che fa parte di un partito politico si sforza, appunto perché è sotto il controllo vivo, giornaliero, costante della pubblica opinione, non solamente di essere giusto, ma anche di apparirlo.

Ed è per queste considerazioni che noi non siamo d’accordo sul divieto proposto dal progetto di Costituzione. In Italia – non dimentichiamolo – c’è il voto obbligatorio; il magistrato deve quindi necessariamente votare, deve necessariamente esprimere la propria opinione politica.

Sono queste le osservazioni, onorevoli colleghi, che io desideravo fare in questo mio breve discorso, appunto, come dissi in principio, perché era mio vivo desiderio di intrattenervi, in modo particolare, su questi argomenti che sono fondamentali. Alla soluzione che noi ed essi daremo, legheremo la nostra responsabilità.

Alla Magistratura vorrei rivolgere un’esortazione, che potrebbe anche essere un omaggio: attraverso l’ordinamento giudiziario, che la Costituzione le sta apprestando, sia essa, nel nuovo quadro delle riforme, costantemente il presidio vigile delle libere istituzioni della Repubblica Italiana. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Colitto. Ne ha facoltà.

COLITTO. Onorevoli colleghi, io mi propongo, con questo mio intervento, di dare, in modo piuttosto organico, ragione dei vari emendamenti da me proposti a parecchi dei tredici articoli che, divisi in due sezioni, dedicata la prima – articoli dal 94 al 100 – all’ordinamento giudiziario e la seconda – articoli dal 101 al 105 – alla giurisdizione, costituiscono il Titolo IV della parte seconda della Costituzione, intestato «La Magistratura».

  1. – Io ho incominciato con il proporre che sia modificata l’intestazione del Titolo. Là dove è scritto «La Magistratura», io penso sia più opportuno scrivere «L’amministrazione della giustizia». È questa certo una intestazione più risonante, ma parmi anche più precisa, perché mal si addice, a mio avviso, l’intestazione «La Magistratura» ad un Titolo, una sezione del quale non si occupa della Magistratura, ma di norme processuali.
  2. – Ho proposto, poi, che solennemente si proclami nella Costituzione che «la giustizia è amministrata in nome del popolo». Ritengo che tale dizione sia da preferirsi a quella «la funzione giurisdizionale è esercitata», adottata dal progetto. Forse tecnicamente questa è più precisa; ma, se si vuole davvero che la Costituzione sia appresa dal popolo, bisogna abbandonare l’eccessivo tecnicismo ed usare frasi, che pienamente, e soprattutto agevolmente, dal popolo siano intese, apprese, ricordate.

Non si parla, del resto, proprio di amministrazione della giustizia nell’articolo 96, allorché si proclama che il popolo ad essa partecipa mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise? Se queste parole sono usate nell’articolo 96, non mi rendo conto perché dovrebbero parole diverse essere usate in altri articoli del testo della Costituzione.

È appena il caso di aggiungere che le parole «espressione della sovranità della Repubblica», con le quali nella prima parte dell’articolo 94 del progetto si intende qualificare la «funzione giurisdizionale», sono da sopprimere, non fosse altro che per la ragione che anche la funzione legislativa è espressione della sovranità della Repubblica, e davvero non si comprende perché ciò si debba ricordare per l’una funzione e tacere per l’altra.

III. – Ma da chi la giustizia è amministrata? All’interrogativo io risponderei con un articolo così redatto: «La giustizia è amministrata da magistrati, secondo le norme stabilite dalla legge». Appunto questa dizione io propongo che sia adottata come primo comma dell’articolo 95 al posto della dizione del progetto: «La funzione giurisdizionale in materia civile e penale è attribuita ai magistrati ordinari, istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

Si può, nell’articolo 95, a mio avviso, aggiungere che la «la legge determina anche i casi in cui la giustizia è amministrata con la partecipazione di cittadini esperti» e che «non possono istituirsi giudici speciali in materia penale». Ma altro non è necessario dire. Nel progetto si parla di partecipazione di cittadini esperti «secondo le norme sull’ordinamento giudiziario»; ma è agevole rilevare che norme regolatrici della partecipazione di esperti alla funzione giurisdizionale possono essere dettate, oltre che dalle leggi sull’ordinamento giudiziario, anche da altre leggi e dai Codici.

Di esperti, per esempio, si parla negli articoli 4-12 delle disposizioni di attuazione del Codice di procedura civile e nell’articolo 231 delle disposizioni transitorie per l’applicazione di tale Codice.

E a che giova aggiungere che «i magistrati dipendono soltanto dalla legge» e che la legge essi «interpretano ed applicano secondo coscienza»? Tutti dipendiamo dalla legge. È sempre vivo ed attuale l’ammonimento di Cicerone: servi legum esse debemus, si liberi esse volumus. Ed è intuitivo che, quale che sia lo stato della pubblica opinione, quali che siano le influenze dei partiti, della stampa, dello Stato, il magistrato deve pensare a compiere il dovere che la legge, e solo la legge gli assegna, avendo come guida, che gli illumina la via, la serenità della propria coscienza.

Ma non da soli magistrati, od esperti, la giustizia, secondo il progetto, dovrebbe essere amministrata. L’articolo 96 dispone infatti che «nei processi di Corte d’Assise all’amministrazione della giustizia partecipa direttamente il popolo mediante l’istituto della giuria».

A tale istituto io personalmente sono nettamente contrario. Non ritengo idoneo, al fine di una retta amministrazione della giustizia, l’istituto della giuria perché – che volete? – una sentenza (e tale è il verdetto dei giurati) non motivata ed inappellabile non può non far tremare le vene e i polsi a qualsiasi cittadino onesto.

D’altra parte, a me appare molto strano che nell’articolo 101 della Costituzione si proclami che tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati e che poi si consenta la ricostituzione della giuria, che emette verdetti, cioè provvedimenti giurisdizionali, non motivati.

La partecipazione, ad ogni modo, del popolo all’attività giurisdizionale nei giudizi di Assise, anche ove voglia accogliersi, esige delle garanzie, per cui non appare opportuno pregiudicare con una norma costituzionale la soluzione del problema. L’articolo 96 perciò dovrebbe essere soppresso, anche perché il contenuto dell’articolo costituisce materia di ordinamento giudiziario.

In ogni caso, è opportuno che siano eliminate le parole «mediante l’istituto della giuria», in modo che la costituzione della Corte d’Assise non sia necessariamente vincolata ad un sistema che, sopprimendo la garanzia della motivazione della sentenza, renda impossibile qualsiasi controllo.

  1. – Ciò premesso, esaminiamo il vero problema di natura costituzionale riguardante la Magistratura.

Alla Magistratura deve essere, da una Costituzione democratica e civile quale è la nostra, assicurata la più completa indipendenza. La Costituzione lo riconosce. Nell’articolo 97 si legge appunto che «la Magistratura costituisce un ordine autonomo ed indipendente».

Ma come il principio viene poi tradotto in realtà?

È noto che una vera indipendenza si realizza solo ove due altri principî trovino attuazione: il principio dell’autogoverno – termine forse tecnicamente improprio, ma facilmente comprensibile – e il principio della unità di giurisdizione, in forza del quale il potere giudiziario deve accentrare nei suoi organi tutta l’attività giurisdizionale, civile, penale ed amministrativa.

Fulcro dell’indipendenza della Magistratura è l’autogoverno della Magistratura: essa costituisce un ordine autonomo, che provvede da sé e senza alcuna ingerenza del potere esecutivo, al proprio governo. Dire autogoverno significa dire autonomia organizzativa e funzionale: affinché essa non si riduca praticamente a mera apparenza, è indispensabile che i magistrati siano posti in condizione di non avere nulla da temere e neppure nulla da sperare dagli organi del potere legislativo e da quelli del potere governativo. Si impone, pertanto, la necessità non solo di sancire, nei riguardi dei magistrati, il divieto della applicazione anche temporanea a funzioni non giurisdizionali e del conferimento di onorificenze o di incarichi, ma altresì di riservare agli stessi organi del potere giudiziario tutti i provvedimenti amministrativi sullo stato giuridico degli appartenenti alla Magistratura, quali il reclutamento, le destinazioni, le promozioni, la scelta dei dirigenti e dei capi.

Bene è stato detto, bene è stato scritto che in materia di indipendenza non possono esistere soluzioni di compromesso, soluzioni transattive. Una indipendenza limitata o condizionata non è concepibile. Ora, se questo è esatto, l’articolo 97 del progetto di Costituzione, che disciplina il Consiglio Superiore della Magistratura (organo centrale dell’autogoverno), non può non essere modificato. Tale Consiglio non può, infatti, essere formato in parte di magistrati ed in parte di uomini politici. È questa, a mio avviso, una composizione ibrida, sommamente pericolosa, che, mentre costituirebbe un passo indietro sulla via del progresso costituzionale del Paese, ferirebbe mortalmente il principio dell’autonomia e della indipendenza della Magistratura, essendo evidente che, così componendosi il Consiglio Superiore della Magistratura, il governo di questa non sarebbe affatto sottratto al potere esecutivo, espressione delle forze politiche e portatore degli interessi politici del Paese.

Su ciò molto si deve l’Assemblea soffermare, essendo qui in giuoco la tutela dei diritti e delle libertà dei cittadini.

Quanto al principio della unità di giurisdizione, mi permetto di rilevare che il progetto non lo realizza integralmente: non sancisce, infatti, espressamente l’abolizione dei giudici speciali civili e penali attualmente esistenti, ma ne prescrive la revisione entro i cinque anni (articolo 7 delle disposizioni transitorie), il che implicitamente ammette, almeno per quanto riguarda quelli civili, la possibilità di conferma da parte del potere legislativo con le modalità di cui all’articolo 95, quinto comma. Si riconosce che con le stesse modalità possono essere creati ad libitum nuovi giudici speciali civili. Anche in materia penale è permessa la costituzione presso gli organi giudiziari ordinari, di sezioni specializzate con la partecipazione di cittadini esperti, in numero non precisato. E ciò è da evitare, onorevoli colleghi, ove si voglia impedire che, quando che sia, si accampi da uno o più partiti dominanti la pretesa, ad esempio, di costituire tribunali penali misti e Corti d’assise speciali.

  1. – Passando ora brevemente ad occuparmi della materia disciplinata nella seconda sezione del Titolo, credo di non ingannarmi, se affermo che le norme fondamentali di carattere processuale, in essa contenute, riguardano: l’azione penale, le udienze, i provvedimenti giurisdizionali, la tutela dei diritti e degli interessi verso gli atti della pubblica amministrazione.

Non ho nulla da dire circa quest’ultimo punto. Mi soffermerò, perciò, brevemente sugli altri.

Azione penale. – L’articolo 101 del progetto è così redatto: «L’azione penale è pubblica».

È stata in tal modo riprodotta ad litteram la prima parte dell’articolo 1 del Codice di rito penale. Si è voluto evidentemente riaffermare, anche nel testo costituzionale, il concetto che il compito funzionale dello Stato di provvedere alla realizzabilità della pretesa punitiva nascente da reato, in vista del quale è predisposto il processo penale, costituisce contemporaneamente un potere ed un dovere dello Stato medesimo. Poiché gli interessi tutelati dalle norme penali sono in ogni caso interessi eminentemente pubblici, la loro attuazione si impone allo Stato, non come una mera facoltà per il raggiungimento di uno scopo non essenziale, ma come un obbligo funzionale per il conseguimento di uno dei fini essenziali per cui lo Stato medesimo è costituito, cioè a dire l’assicurazione e reintegrazione dell’ordine giuridico violato. In conseguenza, la pretesa punitiva dello Stato derivante da reato deve farsi valere da un organo pubblico.

Ma, una volta proclamalo che l’azione penale è pubblica, non aggiungerei nell’articolo 101 il periodo, che in esso si legge: «Il pubblico ministero ha l’obbligo di esercitarla e non la può mai sospendere o ritardare».

Anzitutto non è sempre il pubblico ministero che esercita l’azione penale, ché, per i reati di competenza del pretore, è questo, non il pubblico ministero, che la esercita.

L’articolo 74 del Codice di procedura penale stabilisce appunto che «il pubblico ministero, o il pretore, per i reati di sua competenza, inizia ed esercita l’azione penale».

Non si comprende, poi, perché si parla di obbligo del pubblico ministero di esercitare l’azione penale e non anche di iniziarla, usandosi così una dizione diversa da quella usata nel ricordato articolo 74 del codice penale.

So bene che una delle conseguenze del principio della ufficialità del procedimento penale è appunto questa, che il procedimento deve promuoversi di ufficio, cioè per iniziativa del pubblico ministero, senza bisogno di eccitamenti esterni, ma questa regola ha le sue eccezioni. In alcuni casi il Pubblico Ministero, che normalmente deve procedere di ufficio, non può promuovere l’azione penale se non in seguito a ricezione della querela. E, mentre, di regola, egli ha il potere e il dovere di proseguire incontrastatamente la azione diretta ad ottenere una decisione sul merito della imputazione, deve cedere, invece, alla volontà privata, quando il querelante, col consenso dell’imputato, faccia remissione o con lui si riconcilii. In altri casi il pubblico ministero non può iniziare l’azione penale, se il privato offeso non abbia presentata la sua istanza. Vi sono, infatti, reati, normalmente perseguibili di ufficio, che, quando sono stati commessi all’estero, non possono essere puniti in Italia senza la «istanza» della persona offesa (articoli 9, 130 Codice penale, e 6 Codice di procedura penale). Vi sono, infine, casi (articoli 8, 9, 10, 11, 127, 133 Codice penale), in cui la perseguibilità di un reato dipende dalla «richiesta» di procedimento del Ministro della Giustizia o di altra autorità, se così dispongono leggi speciali.

Senonché, quando vi sia la querela, la istanza e la richiesta, l’azione penale è sempre iniziata dal pubblico ministero o, per i reati di sua competenza, dal pretore.

Dire, quindi, che al pubblico ministero spetta di esercitare l’azione penale senza dire a chi spetta di iniziarla sembrami non giuridicamente preciso. È al pubblico ministero che è riservato non solo l’esercizio, ma anche il promovimento dell’azione penale. Occorre, quindi, dichiararlo, se si vogliono evitare errori od equivoci.

Anche impreciso è il concetto espresso con le frase: «il pubblico ministero non può mai sospendere o ritardare l’azione penale». Indubbiamente la regola è che il procedimento penale, una volta iniziato, non può essere revocato, sospeso o modificato o soppresso; ma anche tale regola della irretrattabilità del processo penale ha le sue eccezioni, quali il diritto di remissione, che appartiene al querelante, quando il querelato non si opponga, il diritto di oblazione volontaria, spettante in determinati casi all’imputato (art. 162 codice penale) e la podestà di amnistia, con la quale lo Stato rinuncia alla pretesa punitiva. È, quindi, non perfettamente esatto affermare che il pubblico ministero non può «mai» sospendere o ritardare (perché non anche far cessare?) l’azione penale.

È perciò che io ho proposto la soppressione dal primo comma dell’articolo 101 del periodo innanzi ricordato, riguardante l’esercizio dell’azione penale. Ove qualche cosa in merito si voglia dire, si potrà usare la formula indicata nell’emendamento da me proposto, che suona così: «Il pubblico ministero, o il pretore per i reati di sua competenza, la inizia, quando non sia necessaria la querela, la richiesta o la istanza, di ufficio e la esercita con le forme stabilite dalla legge. L’esercizio dell’azione penale non può essere ritardato, sospeso o fatto cessare se non nei casi espressamente preveduti dalla legge».

Le udienze. – Delle udienze il testo costituzionale si occupa, come se non vi fossero che le udienze penali. Ma anche nel processo civile le udienze esistono. E, poiché nell’articolo 101 si dettano norme sulla giurisdizione, non mi rendo conto del perché si debba parlare di quella penale e non anche di quella civile. E, poiché le udienze civili non sempre sono pubbliche (tali non sono, ad esempio, quelle tenute dal giudice istruttore), perché così la legge dispone, indipendentemente da ragioni di ordine pubblico o di moralità, io penso che con la norma costituzionale basta proclamare che «le udienze sono pubbliche, salvo che la legge disponga diversamente», eliminandosi il resto della norma.

I provvedimenti giurisdizionali. – Dei provvedimenti giurisdizionali il progetto si occupa, sottolineando: a) la necessità che siano motivati; b) la ricorribilità alla Corte di Cassazione per qualsiasi violazione di legittimità contro le decisioni emanate in secondo grado o non appellabili; c) la irrevocabilità della decisione, una volta diventata res judicata.

Di tali provvedimenti si occupano l’ultimo comma dell’articolo 101 e gli articoli 102, 103 e 104 del progetto.

L’ultimo comma dell’articolo 101 proclama che «tutti i provvedimenti giurisdizionali debbono essere motivati».

E l’articolo 102 sostanzialmente esprime il concetto che contro le sentenze o le decisioni pronunziate dagli organi giurisdizionali di secondo grado, o non soggette ad appello, è sempre ammesso il ricorso alla Corte di Cassazione per qualsiasi violazione o falsa applicazione di norme giuridiche sostanziali o processuali.

L’articolo 102 è così redatto: «Contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge».

Io penso che debba essere un po’ emendato.

Non è il caso anzitutto di parlare di sentenze ed insieme di decisioni, bastando parlare di decisioni, tale parola abbracciando, nella sua ampiezza, anche le sentenze.

Ritengo, poi, che alle parole «secondo le norme di legge» si debbano sostituire le parole «per violazione di legge». L’articolo 102 potrebbe, quindi, essere così redatto: «Contro le decisioni di ogni giudice ordinario o speciale è concesso il ricorso alla Cassazione per violazione di legge». Indico subito le ragioni dell’emendamento.

Soprattutto in conseguenza dell’ordinamento di larghissima autonomia ed autarchia regionale, adottato dal progetto di Costituzione, l’ordinamento giuridico così decentrato esige, ove si voglia evitarne lo sfaldamento, un organo giurisdizionale centrale unico, di larga autorità e di larghi poteri. Senonché nel progetto si afferma che il ricorso è ammesso «secondo le norme di legge». Ora io penso che, demandandosi alla legge la fissazione dei limiti di ricorribilità, potrebbe la legge bene limitarli, specie nei confronti di alcune maggiori giurisdizioni amministrative, ai casi di incompetenza ed eccesso di potere, casi per cui il diritto al ricorso è sempre esistito, nell’ordinamento italiano, fin dalla legge 31 marzo 1877, n. 3761. Tale limitazione non sarebbe, invece, più possibile, ove costituzionalmente si sancisse il diritto al ricorso per violazione di legge, perché così si darebbe il diritto di ricorrere sia per inosservanza delle garanzie processuali concesse ai cittadini, sia per errata applicazione al caso singolo delle leggi di diritto sostanziale.

Anche l’articolo 104 del progetto sembrami che debba essere emendato.

Dispone detta norma che «le sentenze non più soggette a impugnazione di qualsiasi specie non possono essere annullate o modificate neppure per atto legislativo, salvo i casi di legge penale abrogativa o di amnistia, grazia o indulto».

A parte ora il rilievo, sul quale richiamo l’attenzione dell’Assemblea, che non mi sembra che si possa dire che l’amnistia impropria, la grazia e l’indulto annullino o modifichino una sentenza, è certo che l’articolo 104 non tiene conto dell’istituto della revocazione, che è disciplinato sia dal codice di rito civile che da quello di rito penale. Penso, pertanto, che dopo le parole «non possono» si debbano aggiungere le altre «salvo che la legge disponga diversamente».

Io concludo, affermando che una retta amministrazione della giustizia costituisce il punto di partenza per la completa restaurazione della libertà e della democrazia in Italia. Ma una retta amministrazione della giustizia non si realizzerà, se non si darà vita ad un ordinamento, che, mentre garantisca la scelta di magistrati meritevoli, sotto ogni rispetto, di esercitare funzioni tanto elevate ed ardue, elimini ad un tempo ogni possibilità di influenze esterne. La Costituzione detti con chiarezza cristallina norme, che assicurino la libertà e la imparzialità del magistrato. Assicurerà così insieme la difesa più salda delle pubbliche libertà e dello stesso ordinamento dello Stato. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cappi. Ne ha facoltà.

CAPPI. Onorevoli colleghi, intervento breve, breve sul serio; benché il tema sia, o dovrebbe essere, appassionante, in quanto tocca un problema che riguarda insieme questioni di alto valore filosofico e morale ed interessi e diritti concreti di tutti i cittadini.

Mi occuperò di un punto solo; e voi consentirete che io prenda le mosse da uno studio pubblicato sopra una rivista da uno scrittore, figlio di un alto magistrato della Suprema Corte ed egli stesso valoroso giurista; studio acuto e profondo. Da esso prenderò le mosse, sia per il suo pregio intrinseco, sia per riguardo, che ben merita, a quella rivista, La Civiltà Cattolica, la quale, fra l’indifferenza quasi generale del pubblico, si è sempre occupata con non superficiale interessamento, con vigile cura, con sincero spirito di collaborazione, dei nostri lavori di costituenti.

Il punto di cui mi occupo è l’articolo 97, il cosiddetto «autogoverno della Magistratura».

L’autore di cui ho fatto parola è fervido sostenitore dell’assoluto autogoverno della Magistratura; ed in questo io mi permetto di dissentire da lui. Ma il suo studio, che riguarda il più ampio tema dell’indipendenza giudiziaria, ha il merito di sostenere le sue tesi non con argomenti vaghi o superficiali, bensì con rigore scientifico; con una intelaiatura logica chiara e forte.

Egli premette due considerazioni di notevole importanza.

Cerca anzitutto di individuare il punto di convergenza ed il punto di distacco fra la funzione legislativa e la funzione giudiziaria; e si esprime incisivamente così:

«In uno stabilito regime democratico, il settore proprio in cui la politica si trasforma in diritto è quello della legislazione».

Esatto. È notorio che la legge, una volta promulgata, si stacca, per così dire, dalla sua matrice, dal potere legislativo, e vive di vita autonoma. E la interpretazione, l’attuazione della legge spettano o all’esecutivo o – in materia di diritti – al potere giudiziario.

A questa prima considerazione l’autore ne fa seguire altra, la quale risponde al dubbio, sollevato qui dentro, che l’indipendenza assoluta del potere giudiziario possa costituire un elemento di conservazione, un pericolo per le libertà democratiche. L’autore – ed è convincente – ci persuade del contrario; egli, anzi, dice che è una esigenza democratica l’evitare che i poteri dello Stato straripino dai loro ambito, che l’esecutivo ed il legislativo non stiano nei confini loro assegnati, e fa, quindi, queste osservazioni: «Garantire la conservazione e l’elettiva attuazione dell’ordinamento statuale è qualcosa che non ha a che vedere con il cosiddetto conservatorismo politico, con un indirizzo o partito politico che sia elettivamente retrivo c reazionario. Conservare la democrazia non può certamente essere attività antidemocratica». Anche qui egli – a mio avviso – ha ragione.

L’autore affronta poi il nodo del problema e sostiene che l’indipendenza della Magistratura deve avere un triplice carattere: deve essere una indipendenza costituzionale, una indipendenza istituzionale ed una indipendenza funzionale. Indubbiamente questa articolazione, questa tricotomia ha un serio fondamento scientifico.

L’autore afferma – e qui dissento da lui – che il nostro progetto di Costituzione, di cui egli fa una critica serrata, violerebbe, non garantirebbe queste tre indipendenze o questi tre aspetti dell’indipendenza del potere giudiziario. Dice che, «per assicurare l’indipendenza costituzionale occorre che la Costituzione qualifichi espressamente come sovrana la funzione giurisdizionale, sovrano il potere che la esercita, sovrano l’ordine o complesso degli organi cui la funzione stessa è istituzionalmente demandata.

Inoltre: «che effettivamente non vi sia nessun potere costituzionalmente superiore a quello giudiziario».

Orbene, pare a me che questa garanzia il nostro progetto di Costituzione dia. A mio avviso, è più che altro questione di nomi. Non si è parlato nella Costituzione espressamente di potere sovrano, ma si dice però che «la funzione giudiziaria è espressione della sovranità della Repubblica», si dice che «l’ordine giudiziario è un ordine autonomo ed indipendente». E ancora qualche cosa di più e di decisivo: vi è nella nostra Costituzione un potere che sia costituzionalmente superiore a quello giudiziario? Non vi è. Quindi mi sembra che l’indipendenza costituzionale del potere giudiziario sia nella nostra Costituzione garantita, anche se non si usa la parola «potere», come non si è parlato di potere legislativo e di potere esecutivo; ma di «Parlamento» e «Governo».

Quanto alla indipendenza istituzionale della Magistratura, l’autore ritiene che «l’istituzione e la competenza dei singoli organi giurisdizionali, la carriera dei magistrati e le forme del procedimento devono essere fissate per legge e sottratte, comunque, al potere esecutivo». È vero. Noi faremo perciò una legge sull’ordinamento giudiziario, ed avendo una sua legge – il potere giudiziario non è subordinato, non è alla mercé del potere esecutivo.

Secondo punto: «che nell’esercizio concreto delle sue funzioni il giudice non dipenda che dalla legge, interpretata secondo la sua coscienza». Noi abbiamo inserito testualmente questo principio nel progetto di Costituzione.

Terzo: «Che nell’ambito di tale ordine giudiziario vi sia differenza di funzioni e non di gradi gerarchici». Anche questo è detto espressamente nel progetto.

Cosicché, se noi badiamo alla sostanza più che alla forma, questi primi due aspetti della indipendenza sono garantiti.

Ma il punto cruciale – il vero e proprio punctum dolens et pruriens – è quello dell’indipendenza funzionale. L’autore sostiene che essa importa essenzialmente – e ci siamo – l’autogoverno della Magistratura, la libera disponibilità per la stessa di tutti i mezzi necessari all’esercizio della sua funzione.

Ora, francamente, sembra a me che qui l’autore sia caduto in un equivoco. Infatti, egli che era un ragionatore, ed un logico così sottile, qui sembra a me che, più che dimostrare, si limiti ad affermare, dando per indiscutibile che l’indipendenza funzionale importi l’autogoverno della Magistratura. A me questo rapporto di conseguenzialità non riesce chiaro. A mio avviso, qui si confondono due cose: la funzione giurisdizionale e l’ordine giudiziario. L’indipendenza della prima, cioè della funzione giurisdizionale, non postula, non implica di necessità anche l’indipendenza assoluta dell’ordine giudiziario. La funzione giudiziaria, il potere giurisdizionale, consiste forse – detto in parole povere – nella nomina, nei trasferimenti, nelle promozioni dei magistrati, che sono la materia di competenza del Consiglio Superiore della Magistratura? No; l’essenza, il compito della funzione giudiziaria consiste nel dire il diritto, in una parola: nel pronunciare le sentenze.

Ora, nel nostro progetto di Costituzione vi è forse qualcosa che possa far dubitare che in questo compito essenziale, specifico, del potere giurisdizionale vi possano essere ingerenze di altri poteri, dell’esecutivo o del legislativo? Per niente affatto. Quindi, ritengo che qui l’autore sia incorso in confusione di concetti, e che, pertanto, anche nella formazione, quale noi abbiamo progettato, del Consiglio Superiore della Magistratura, sia rispettata l’indipendenza funzionale del potere giudiziario.

La realtà è un’altra. Non vi è, secondo me, una ragione scientifica, una ragione logica che imponga l’autogoverno assoluto della Magistratura a garanzia della indipendenza funzionale del potere giudiziario. Vi è qualcosa di diverso, vi è una preoccupazione, nobile ma eccessiva, del pericolo di ingerenze, di influenze che i membri elettivi del Consiglio Superiore possano esercitare sui giudici. Può darsi che questo pericolo vi sia. Però, varie osservazioni concorrono ad attenuare questa preoccupazione. Nel passato, in Italia, il Consiglio Superiore della Magistratura, con le funzioni e coi compiti che noi gli abbiamo assegnato, non esisteva. La sorte dei giudici dipendeva dal potere esecutivo, attraverso il Ministero della giustizia. Eppure, senza essere troppo ottimisti, non mi pare che la Magistratura italiana, a parte l’ultimo ventennio, sia stata in passato una Magistratura non indipendente, corrotta, serva del potere esecutivo. Vi saranno stati episodi singoli, ma non tali da legittimare un giudizio così pessimista.

Osservo ancora che, per quanto mi risulta, in nessun altro Paese, salvo la Francia nella sua recente Costituzione ma in una misura più attenuata della nostra, in nessun altro Paese vi è questo autogoverno della Magistratura. Inconvenienti si sono verificati nel ventennio fascista, ma allora non vi era un regime democratico, allora vi era una degenerazione, uno stato patologico del potere esecutivo.

Ora, senza avere l’ottimismo di Monsieur Candide, è sperabile, e dobbiamo tutti cercare, che in un regime libero, democratico, col controllo dell’Assemblea, col controllo dell’opinione pubblica, col controllo della stampa, ciascun potere – specialmente l’esecutivo – resti nel suo alveo. Pare a me che in questo punto la nostra Costituzione ha un po’ un carattere reattivo, come è destino di tutte le Costituzioni che sono fatte immediatamente dopo il rovesciamento di un ordine politico e giuridico. Si ha, cioè, guardando al recente passato, una diffidenza eccessiva verso l’esecutivo.

È poi vero che l’autogoverno della Magistratura, cioè il Consiglio Superiore composto di soli magistrati, garantisca meglio la indipendenza dei magistrati? Non ci sarà forse se non un cambiamento di forma? Le simpatie, le antipatie, i personalismi, le parzialità; e, di conseguenza, le adulazioni, le raccomandazioni, le chiesuole, i clans, non sussisteranno? È sintomatico che, nelle loro ultime manifestazioni, molti magistrati si siano dichiarati favorevoli alla composizione mista del Consiglio.

Io penso che il giudice sia meglio garantito da un Consiglio come noi lo abbiamo costituito, perché, attraverso i membri elettivi del Consiglio Superiore, si inserisce in esso il controllo del Parlamento, della stampa, dell’opinione pubblica; controllo che non si avrebbe, o si avrebbe meno largo, nel campo chiuso di un Consiglio costituito dì soli magistrati.

Vi è inoltre una considerazione più alta, per quanto io non intenda dilungarmi sul problema della divisione dei poteri. Ho la sensazione che da Montesquieu in poi qualche cosa sia mutato ed oggi prevalga il concetto della unità dello Stato, pur con molteplicità di organi e di funzioni.

Si potrebbe in questo campo teorico dire molto, ma io, ripeto, non ho specifica competenza in questa materia e mi limiterò a fare poche osservazioni pratiche. Noi, proprio in questi giorni, abbiamo deplorato certi contrasti, certi reciproci sospetti e diffidenze che si sono manifestati fra gli organi della Magistratura e gli organi politici.

Ora, questo fatto (che indubbiamente è grave ed increscioso) credete voi che non si aggraverà, se noi stacchiamo completamente il potere giudiziario dagli altri poteri? Il potere giudiziario sarà condotto ad irrigidirsi; gli urti saranno più facili; non ci saranno quei contatti che permettono una spiegazione ed una distensione; quindi, mi pare sia utile questo collegamento fra il giudiziario e il legislativo. E c’è anche una ragione più sostanziale: è stato detto qui da qualche collega che il giudice non ha bisogno di esser in contatto con la coscienza sociale e giuridica del Paese, in un dato momento storico, perché non ha che un compito tecnico, quello di applicare la legge. La legge è quella che è: il giudice non ha nessuno ambito in cui spaziare.

Questo non è vero. Se mi occupassi della Corte costituzionale, direi che le materie che saranno di sua competenza hanno carattere più politico che giuridico. Ma io mi occupo della Magistratura e osservo che necessariamente vi sono dei concetti che sono dalla legge lasciati alla discrezionalità del giudice. Vi cito il concetto di «buon costume», di «ordine pubblico», di «equità»; in materia penale, di «pudore» e altri concetti che sono necessariamente a contorni vaghi nei codici e per l’interpretazione e l’applicazione giusta dei quali è opportuno che il giudice sia in un certo contatto con quella che è la coscienza giuridica e morale del Paese, coscienza che, in regime democratico, si manifesta attraverso le Assemblee elettive. È vero che il Consiglio Superiore non ha compiti di ermeneutica; tuttavia, il contatto fra magistrati e laici può essere fecondo.

Pertanto, credo che per le ragioni che ho modestamente esposto, la nostra Costituzione non meriti il rimprovero di aver violato o di non avere con sufficiente energia tutelato l’indipendenza della Magistratura. Ripeto che lo studio al quale ho accennato, il quale pure ha tanto pregio e meriterebbe di essere preso in considerazione per vari emendamenti che suggerisce, poggia circa l’autogoverno, sulla confusione tra autonomia della funzione giurisdizionale e autonomia dell’ordine giudiziario.

Si confonde il potere giudiziario con gli organi, con le persone che devono esercitare questo potere.

Ora consentitemi, egregi colleghi, poiché credo di aver mantenuto fede alla promessa di brevità, che io concluda con qualche osservazione un po’ extra-vagante. Noi stiamo lavorando per dare alla funzione giudiziaria degli strumenti, anzi un arsenale di strumenti quanto più perfetti possibile. Ma io temo che noi faremo opera vana, se non cercheremo di lavorare anche in un’altra direzione. Opera molto più difficile, di lunga lena; quella di restaurare nel nostro Paese il senso della giustizia, l’impero della ragione sulla passione, del diritto sulla forza.

A cominciare dall’antico detto che justitia regnorum fundamentum, si può dire che la storia dell’umanità è tutta una invocazione, tutto un anelito verso la giustizia.

Vi furono, purtroppo, delusioni. Quid est veritas? domandava il Procuratore romano nel Pretorio di Gerusalemme. E forse anche noi dovremmo dire: justitia quid est?

Il Manzoni mette sulle labbra di Adelchi morente quelle sconsolate e disperate parole, che hanno tanta analogia con l’epoca nostra, con questa nostra epoca di corrucci, di sangue, di rappresaglie e di controrappresaglie.

Di Adelchi morente: «Una feroce forza il mondo possiede e fa nomarsi dritto. La man degli avi insanguinata seminò l’ingiustizia; i padri l’hanno coltivata col sangue, e ormai la terra altra messe non dà».

Eppure non dobbiamo disperare. È tormento e gloria insieme dello spirito umano questa inestinguibile speranza, questo anelito costante verso una sempre maggiore giustizia. È una cosa confortante, perché dimostra che, nonostante le tragiche delusioni, nel cuore dell’uomo è sempre viva quella divina cosa che empiva di fierezza e di ammirazione Emanuele Kant, come il cielo stellato: la coscienza morale. (Approvazioni). Oggi l’Italia è debitrice del mondo: è debitrice per tutto ciò che riguarda la nostra vita materiale; ma essa, come altre volte della storia, potrà diventare creditrice del mondo, se al mondo potremo dare il dono incomparabile del trionfo della giustizia e del bene sulle forze del male; su quelle forze che, in un suo studio recente, Benedetto Croce chiamava l’Anticristo che è in noi, quell’Anticristo che non ha un nome, non è un uomo, un popolo, un sistema economico o politico; ma il rigurgito delle forze oscure che vorrebbero far regredire l’umanità verso la ferina barbarie.

Noi italiani non vogliamo regredire; noi vogliamo, nella luce della giustizia, avanzare. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Bellavista. Ne ha facoltà.

BELLAVISTA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, anch’io mi riprometto di essere breve, brevissimo; e non è tanto questo omaggio alla concettosità verbale, quanto riconoscimento che ormai il campo, in due o tre giorni, è stato ampiamente mietuto, sì che non mi resta che da raspolare le poche spighe rimaste.

Vengo subito, perciò, ad illustrare gli emendamenti proposti a proposito del Titolo IV. Ne ho presentato uno che si riferisce alla prima parte dell’articolo 94, concernente, in particolare, la espressione: «La funzione giurisdizionale è esercitata nel nome del popolo». Io ho proposto la seguente variante: «…è esercitata in nome della Repubblica». A somiglianza infatti, di quanto si pratica nella vicina Francia, le sentenze dovrebbero darsi nel nome della Repubblica. Che cosa è la Repubblica se non il popolo italiano giuridicamente organizzato sotto l’aspetto istituzionale? Mi pare quindi che questa dizione si adegui meglio al nostro nuovo volto istituzionale.

Per quanto riguarda poi il terzo comma dell’articolo 94, io ho rilevato le osservazioni, che mi sembrano fondate, fatte ieri dal collega onorevole Ruggiero. A me pare tuttavia che il terzo comma debba comunque essere riformato quanto meno per il riferimento che fa alle associazioni segrete. Poiché infatti c’è già, nell’articolo 13, da noi approvato, tale proibizione, è evidente che le associazioni segrete sono già un illecito costituzionale, ed appare quanto meno superfluo interdirne l’appartenenza ai magistrati.

Per quanto poi riguarda l’articolo 95, io penso che la terminologia non tecnica dei passati legislatori, la cui difettosità la dottrina aveva già avvertito, abbia indotto alla repetitio d’un errore i compilatori del progetto. Ho pertanto proposto un emendamento al quinto comma dell’articolo 95. In tale comma infatti si dice: «Non possono essere istituiti giudici speciali se non per legge approvata nel modo sopra indicato. In nessun caso possono istituirsi giudici speciali in materia penale».

Io devo in proposito ricordare a me stesso la distinzione corrente e corretta che si fa in dottrina sul giudice (il diritto non si preoccupa di insegnare, jus est quod jussurn est, ma soltanto di comandare), il quale, nella legislazione abrogata, era chiamato speciale, quando era sì non solo speciale, ma soprattutto «straordinario», perché era un’eccezione stridente contro la normalità giuridica processuale. Era il caso del famigerato tribunale speciale per la difesa dello Stato. Ora, il giudice si distingue in ordinario e straordinario, in comune e speciale.

Lo spirito della legislazione, la intenzione dei compilatori del progetto ha voluto evidentemente bandire dalla Carta costituzionale il giudice penale «straordinario», come possibile bieco strumento d’una più bieca tirannide, ma non penso che si sia voluto mettere scientemente contro quella che è l’aspirazione della dottrina processuale: la specializzazione del giudice penale. E questa improprietà terminologica evidentemente deve essere corretta e si deve perciò dire rectius che «in nessun caso possono istituirsi giudici straordinari in materia penale», altrimenti la conseguenza che ne deriverebbe sarebbe, per esempio, l’abolizione del tribunale dei minorenni, che è un giudice speciale e ordinario. (Commenti). Sì, è una sezione speciale della Magistratura ordinaria, non c’è dubbio!

Una voce al centro. Più elementi estranei.

BELLAVISTA. Ma, sempre, una sezione speciale del magistrato ordinario.

Per quanto riguarda i tribunali militari, io debbo aderire agli emendamenti proposti al riguardo e all’illustrazione teorica che ha svolto così egregiamente ieri il collega onorevole Bettiol. Il principio è il seguente: se è meta, scopo, ansia della dottrina processuale, raggiungere la specializzazione del giudice, non c’è dubbio che il giudice penale militare è per eccellenza un giudice specializzato, è quello che è posto, per la natura delle sue funzioni, per la sua appartenenza alla milizia, in quelle condizioni ideali per poter svolgere magnificamente e meglio di ogni altro quell’atto constante di intelligenza e di volontà che è il giudizio. Non dovrebbe limitarsi soltanto e straordinariamente al tempo di guerra, dunque, ma dovrebbe ammettersi la giurisdizione militare penale anche nel tempo di pace.

E veniamo alla vexata quaestio, alle Corti di assise. Non ho inteso nessuna voce favorevole alla giuria; e nemmeno l’onorevole Carboni ieri ha potuto negare la lunga serie di critiche che ad essa da tutti i banchi, e specialmente dagli avvocati, sono state rivolte. Io debbo ascrivere ad onore degli avvocati, che spessissimo hanno mietuto allori facili avanti ai giurati, questo leale e disinteressato verdetto di condanna nei confronti della giuria. Io ricordo un bravo giurista e bravissimo avvocato, il quale, con le giurie romagnole, nei famosi tempi dei conflitti fra socialisti e repubblicani in Romagna, arrivò a far contrabbandare l’istituto della «legittima difesa reciproca», nel quale invece di un offensore ingiusto, se ne trovavano inopinatamente due, con quanta tranquillità per i cultori del diritto, lascio a voi d’immaginare.

Non c’è dubbio che le ripetute ed ascoltate critiche vadano condivise. Io mi sforzerò di riportare queste critiche al loro fondamento dogmatico. E qual è? Ma se noi siamo favorevoli al principio della specializzazione del giudice, non possiamo non essere contrari alla giuria, perché il giurato è il giudice qualunque (senza nessun riferimento politico a quello di Giannini), e cioè il giudice più impreparato che esista, non soltanto per quella logica mancanza di conoscenza delle scienze ausiliarie della giustizia penale, di cui ha parlato così egregiamente ieri il collega Crispo, ma anche perché è il giudice tipicamente atecnico, nella materia penale e parapenale. Il principio della specializzazione del giudice importa un continuo travaglio, un lavoro di cesello che va perfezionato continuamente, e che non può fare colui che ha la sola licenza elementare, complicandosi poi questo semplicismo giudiziario con la immissione – che va criticata! – e con l’intervento dell’elemento femminile. Mi consentano le onorevoli colleghe. Ma chi è stato qualche volta in commissione di esame di Stato con delle egregie professoresse sa come sia tipicamente femminile il giudizio dato da loro: gli idola mentis baconiani formano generalmente una costellazione nell’animo delle esaminatrici! È addirittura un’esperienza dolorosa! Se può anche ammettersi per quel che riguarda l’istruzione pubblica, non deve assolutamente ammettersi questa possibilità dannosa per l’amministrazione della giustizia!

E veniamo all’articolo 97. Io ho ascoltato, con l’attenzione che meritava, quanto ha detto l’onorevole Cappi, e speravo che riuscisse a convincermi del contrario, quando ha citato l’articolo di Lener, che noi conoscevamo ed apprezziamo per quella simpatia e per quella stima che questo dotto padre gesuita merita. Ma – mi consenta e mi perdoni – non c’è riuscito. Anzi, la sottolineata distinzione fra quella che è la funzione, la fisiologia del potere giudiziario e l’organica di esso, ha confermato quel nesso di conseguenzialità per cui, se noi non ci preveniamo nell’organica del potere, esponiamo la fisiologia di esso a diventare patologica. Siamo tutti d’accordo che debba essere un potere autonomo, ma non basta fare questa dichiarazione di principio se, scendendo al particolare, in virtù, onorevole Cappi, di quell’«anticristo» che giustamente ha richiamato, non svolgiamo tutta un’opera di profilassi e di prevenzione perché il funzionamento, cioè il potere che agisce, il potere che si muove, la dinamica di esso non venga assicurata. E dove? Nella statica, in quelle che sono le sue precause, in quella che è la sua organica. Se noi consentiamo che nell’hortus conclusus (e deve rimanere tale) si intromettano persone che all’hortus non appartengono, noi apriremo uno spiraglio, sia pure un piccolissimo spiraglio, all’anticristo, il quale farà grande la breccia. Io ho inteso quanto Cappi ha detto sulla divisione dei poteri, e anche ieri l’onorevole Bettiol ha parlato di questo principio. Siccome essi sono persone superiori ad ogni sospetto, e fieramente devoti alla causa della libertà, io posso sollecitare un ricordo, absit iniuria verbis. lo mi ricordo di aver sentito o letto qualcosa sul famoso principio della meccanicità della divisione dei poteri da un uomo che non stimo, agli inizi dell’infausto ventennio. Io ricordo anche di avere letto le dispense del senatore Pietro Chimenti, che preparava l’aggressione giurispubblicistica contro Montesquieu e la santa divisione dei poteri e che cominciava a prendere le mosse da questo: che non deve intendersi la divisione dei poteri in senso meccanico, che il potere è uno, che ci vuole un’osmosi ed un’endosmosi tra gli aspetti di questo potere statuale. Poi l’«anticristo» ha fatto il resto, la critica di Montesquieu è sboccata nel totalitarismo, la libertà si spense.

Noi dobbiamo cercare di fare tutto il possibile per premunirci dal bis in idem. Non c’è altra via che cercare di separarli questi poteri; cercare di sottrarli, il legislativo e il giudiziario, alla influenza dell’esecutivo, perché, purtroppo, fra i tre, chi è quello che ha più ampia zona di peccato originale in sé? È l’esecutivo, ché il comandare è bello ed ha maniere facili, ha maniere straordinariamente insinuose per arrivare, con tutte le armi alla corruzione, a fomentare l’ambizione degli uomini e tutto quello che l’anticristo porta nella fragile materia umana.

CAPPI. I membri sono eletti dall’Assemblea legislativa.

BELLAVISTA. Giustissimo. Chi però vorrà sostenermi che non ci sia nessuna perniciosa influenza dell’esecutivo sul legislativo, specialmente con la partitocrazia? Questo, onorevole Cappi, non me lo può sostenere, perché è contrario alla realtà delle cose. Indubbiamente l’elezione verrebbe ad essere influenzata del potere esecutivo. Queste influenze, che diventano corruzioni, noi le dobbiamo evitare. Ecco perché sono contrario anche a quella partecipazione simbolica cui accennava, in linea transattiva, riconoscendo l’esattezza delle ragioni avverse, ieri l’onorevole Dominedò. Lasciamo l’hortus conclusus. Non mi si dica che così l’ordine giudiziario si estranea dalla vita. No. Io ricordo le parole di un grande maestro, il Massari: «Il magistrato è anzitutto psiche». Non è una macchina; non è un automa; torna a casa, vive la vita del popolo: ha innegabilmente delle tendenze conservatrici; ha indubbiamente una tendenza conservatrice.

Ma questo sapete cosa è? È una grande garanzia di ordine e di libertà.

Guai se dovessimo consentire o indulgere verso quelle deformazioni filosofiche che vogliono fare della interpretazione un atto creativo. No. Il magistrato è naturalmente l’interprete dell’ordine giuridico; l’ordine giuridico ha qualche cosa di statico in se stesso; aspetta le propulsioni che vengono da fuori per trasformarsi, per modificarsi. È questa l’attività politica del legislativo che va a correggere, a modificare, che costituisce il divenire del diritto positivo. Ma fino a che non è modificato, il diritto resta qual è. E il magistrato monta la guardia perché resti – dura lex sed lex – quello che è. In questo senso è conservatore, e che sia tale rappresenta una grandiosa garanzia. Voglio però, pur riconoscendo che la materia non è propriamente pertinente alla discussione, accennare a quello che per i molti colleghi che praticano la professione penale appare un inconveniente cui si debba assolutamente porre rimedio. Noi abbiamo la possibilità che magistrati dopo vent’anni di funzioni alla requirente diventino, ad un certo punto, organi della Magistratura giudicante. Costoro molto spesso portano nella nuova funzione la deformazione mentale dell’accusatore. Chi ha pratica del processo penale non può negare questa constatata ed amara verità: invece dell’abito dell’imparzialità, quando dalla Magistratura requirente si passa alla giudicante, si portano tutte le deformazioni dell’accusatore. Questo dovrebbe evitarsi, perché, se il rapporto processuale deve essere garanzia per quello che ne è il perno centrale, cioè il giudice, questi deve essere veramente in condizioni di poter funzionare senza prevenzioni e deformazioni né in favor dell’accusa né in favor della difesa.

Altro argomento che voglio affrontare (e poi vi sollevo subito del mio intervento) è questo. Io sottoscrivo l’ordine del giorno Villabruna per quanto riguarda le Cassazioni regionali, le vecchie Cassazioni regionali. Non si opponga, il collega Persico, dicendo che si è in contraddizione quando si è stati antiregionalisti, come Villabruna, e si vuole poi ritornare alle Cassazioni regionali, perché qui veramente non siamo nel tema delle autonomie regionali, ma siamo in un tema un po’ più pedestre, quello del decentramento dell’amministrazione della giustizia. Io non voglio essere scortese o fare allusioni non degne di quest’Aula, però posso ripetere l’accennato richiamo dell’onorevole Dominedò al conflitto fra giurisprudenza dei concetti e quella degli interessi, quando sento molti avvocati, che esercitano la professione a Roma, insorgere contro un ritorno a quella nobilissima antica tradizione, che diede un contributo al progresso della giurisprudenza italiana, niente affatto disprezzabile. Io mi posso rendere conto che molti magistrati che abbiano la casa a Roma vogliano rimanere qui.

PERSICO. Volete la Cassazione a domicilio!…

BELLAVISTA. Ha detto proprio una grandiosa verità. Disse Jehring che «non c’è peggiore ingiustizia della tardiva giustizia»; non fosse altro che per questo, quando si attende lungamente per avere resa giustizia, qui a Roma, che accentra tutto, dovrebbero ripristinarsi le Cassazioni regionali.

Io, anzi, vorrei perfezionare il raffronto: noi la si vuole a domicilio la giustizia: l’onorevole Persico la vuole addirittura alla sua dimora, e questo è ancora peggiore! (Ilarità).

Noi possiamo con sicura e tranquilla coscienza rispondere alle obiezioni che sono state fatte qui contro il decentramento delle Cassazioni. Si è parlato dell’unità della giurisprudenza, ma non è mica questo un argomento che si possa confortare coi testi. È di quegli argomenti verbali che inducono spesso il giudice inglese a dire: «Avvocato, mi faccia leggere questa sentenza», quando essa è soltanto annunciata e la carta non si accompagna all’affermazione.

Purtroppo, e forse senza purtroppo, non c’è stata questa unità giurisprudenziale o, quando c’è stata una unicità giurisprudenziale, c’è stata quella che i romani chiamavano l’ignava ratio, una pigrizia di adeguamento al precedente ed il precedente ha avuto forza di legge per il susseguente.

E se così non deve essere, perché il principio basilare è che valga l’autorità della ragione e non la ragiona dell’autorità, il caso va esaminato con conforto dei precedenti, al lume dei precedenti, ma esaminato ogni volta funditus, come se fosse un caso nuovo.

Vorrei citare gli strani contrasti fra la giurisprudenza del giorno 15 e la giurisprudenza del giorno 16. Solo che a volte cambi un consigliere, cambia la giurisprudenza. Del resto, giustamente, gli onorevoli Crispo e Villabruna hanno detto: «Ammesso e concesso che esista questa unicità della giurisprudenza, è poi cosa veramente utile, è veramente utile, pur cui si debba adesso affidare il progresso del diritto?». Non lo credo affatto.

Aspetto che lo dimostri l’onorevole Persico. Cosa c’è di contrario? C’è che si obbedisce a quello che potrebbe farci entrare nel principio della concentrazione processuale. Questo va inteso non soltanto nella fase del processo, che è costituita dal procedimento di primo o secondo grado, ma anche del processo nella sua interezza. Fino a quando il giudicato viene a cristallizzare la dichiarazione del giudice, perché sfuggire a questo principio di concentrazione che è così profondamente inteso dal processo? Perché, in sostanza, aspettare tanto tempo perché si cristallizzi il giudicato? Non fosse altro per questa ragione tecnica, spaziale e cronologica, bisogna ritornare alle nostre gloriose e vecchie Corti e alle nostre vecchie e gloriose tradizioni.

E conchiudo, onorevoli colleghi. Si è detto e si è ripetuto che i magistrati meritano la fiducia della Nazione. Hanno fatto bene anche sotto la dittatura. Di questo posso darne una personale testimonianza; anche sotto il famoso ventennio, come Vittorio Emanuele Orlando ha ricordato a Firenze l’altro giorno, la toga si mantenne nella grande maggioranza dei casi dignitosa e fiera, e fu forse l’unica superstite che nei tribunali, attraverso il diritto, che è ottima trincea, poté sparare le ultime cartucce contro la tirannia.

GASPAROTTO. Soprattutto gli avvocati.

BELLAVISTA. Anche i magistrati. Ricordo un fatto che ascrivo ad onore della quinta sezione del tribunale di Palermo, presso cui ebbi l’onore di difendere nel 1937. Fu tradotto, appellante dalla Pretura di Ustica, un confinato politico che era nipote del Negus, Isacco Menghestù. Fu denunciato a Roma perché aveva parlato contro il regime; era stato condannato al confino per cinque anni. Tra le prescrizioni accessorie della legge di pubblica sicurezza, articoli 186, 189, il direttore della colonia di confino aveva inserito quella di salutare romanamente. L’abissino si rifiutò. Fu denunciato per contravvenzioni agli obblighi del confino, secondo le norme della legge di pubblica sicurezza. Il pretore, per essersi costui rifiutato di salutare romanamente gli agenti di custodia, gli diede un anno di arresto. Si appellò al tribunale di Palermo. Bene, quel tribunale ebbe il coraggio di dire che il fatto costituiva illecito amministrativo e non penale; e lo mandò assolto.

Mi piace ora ricordare quei giudici, che anche sotto le minacce e le persecuzioni, riaffermarono quelle doti di indipendenza, che sono la caratteristica di tutti coloro che indossano la toga. Garantiamo i magistrati, e da loro una sola cosa dobbiamo augurarci: che possano mantener fede alla invocazione di Cicerone: avere soltanto una obbedienza, essere schiavi di una sola cosa, maestosa, augusta, che si foggia in questa Aula: la Legge. Servi legum esse debemus, ut liberi esse possimus. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Persico. Ne ha facoltà.

PERSICO. Onorevole signor Presidente, onorevoli colleghi, non credo che, arrivati a questo punto, si possano più fare discorsi di fondo sul problema della Magistratura. Già quindici oratori hanno detto tutto quello che era possibile: ed allora io penso di seguire il consiglio dato dall’illustre Presidente, cioè dire soltanto le cose necessarie per esprimere il mio pensiero su problemi sui quali ho a lungo meditato in più di quarantacinque anni di esercizio professionale.

Svolgerò quindi uno per uno i vari emendamenti da me presentati.

Comincio dal Titolo IV: La Magistratura.

A me pare profondamente errata questa dicitura, perché «Magistratura» non vuol dire altro che una congregazione di uomini, i quali si distinguono per alcune funzioni e, direi, anche per una loro veste esteriore: la toga e il tocco.

La Magistratura è composta di organi diversi, non di organi unitari, ha sfere di competenza diverse, attribuzioni diverse.

Quindi, noi dobbiamo arrivare ad un’altra formula più chiara e più precisa. Né si dica, come la relazione del Presidente Ruini, che per il potere legislativo abbiamo adoperato la parola «Parlamento» e per il potere esecutivo la parola «Governo»; perché Parlamento e Governo sono, sì, due organi complessi, ma sono organi unitari.

Invece di «Magistratura» potremmo adoperare due diverse espressioni assai più esatte: «Potere giudiziario», oppure «Ordine giudiziario».

L’espressione «Ordine giudiziario» ricorda troppo lo Statuto albertino e ricorda le ragioni per cui quello Statuto preferì parlare di «Ordine giudiziario». La giustizia si amministrava in nome del re; l’ordine giudiziario era l’esecutore della giustizia reale.

Meglio «Potere giudiziario». Già lo Statuto belga del 1831 intitolava «Du pouvoir judiciaire» il capitolo che corrisponde perfettamente alla materia del nostro titolo. Né ci disturba il ricordo della tripartizione dei poteri di Montesquieu, perché credo che i due secoli trascorsi abbiano rinverdito la portata di tale distinzione. Si sono fatte infinite critiche alla teoria del Montesquieu; ma gli scrittori moderni dimostrano che egli fondamentalmente aveva ragione e che di fatto i poteri dello Stato non vanno distribuiti diversamente.

Il potere giudiziario, secondo me, è forse anche più importante del legislativo e dell’esecutivo, perché assicura a tutti i cittadini la tutela delle loro libertà, la difesa dei loro diritti, la protezione dei loro interessi; è il potere classico, il potere fondamentale, il più antico e il più geloso.

Non soltanto io, ma anche l’onorevole Leone, nella sua relazione, insiste perché si dica «Potere giudiziario»; ed insiste perché, in questo modo, si introduce già nel Titolo il criterio dell’autonomia del potere giudiziario rispetto agli altri poteri statali, perché in questo modo si slega l’organizzazione del potere giudiziario da quella degli altri rami funzionali, in modo che questo potere non sia una forma di burocrazia qualificata, paragonabile alle varie forme burocratiche, ma sia qualche cosa che ha un’essenza sua propria, in quanto amministra quella suprema funzione che è la giustizia, per cui un uomo acquista la facoltà di giudicare e di condannare altri uomini: quasi divina facoltà!

Questa mia idea – che del resto vedo condivisa da alcuni colleghi, i quali hanno fatto identiche proposte, come l’onorevole Romano, l’onorevole Mastino ed altri – vedrete che sarà tanto più chiara in quanto io, in quello che dirò tra breve, cercherò di dimostrarvi, che un vero e proprio «potere giudiziario» è quello al quale bisognerà arrivare, quando vi parlerò dell’elettività dei magistrati minori e delle funzioni giudicanti da dare in misura molto maggiore alla giuria.

Passo subito all’articolo 94, che è veramente un ben congegnato articolo, per la forma drastica con cui è compilato, con una frase, che potrebbe essere iscritta lapidariamente sui palazzi di giustizia: «I magistrati dipendono soltanto dalla legge, che interpretano ed applicano secondo coscienza». Vorrei proporre un’aggiunta al primo comma di questo articolo. Quando si afferma che «la giustizia è esercitata in nome del popolo», cioè che le sentenze sono intestate in nome del popolo – e si scelse questa forma come preferibile a quella «in nome della legge» – vorrei che si dicesse: «in nome del popolo italiano», perché mi pare giusto che si renda a tutti noto che «in nome del popolo italiano» – di questa comunità millenaria del popolo italiano, che risorge e risorgerà sempre indomita dalle più dure cadute, compresa l’ultima recentemente e ingiustamente subita – è data al giudice la facoltà di emanare le sue sentenze.

Mi pare inutile soffermarmi sul divieto di appartenenza alle associazioni segrete. C’è l’articolo 13, da noi già approvato, e, come l’onorevole Bellavista ha ricordato poco fa, ciò che è reato nei confronti degli altri cittadini, lo è egualmente nei confronti del magistrato, sia che si tratti di peculato, di concussione, o di altro. Se una attività è proibita per tutti, è proibita anche per il magistrato: ciò è lapalissiano.

Voglio invece dirvi qualcosa sulla negata iscrizione ai partiti politici. Si tratta di una mia vecchia idea, e molti colleghi sanno che, durante il periodo clandestino, mi dilettai a scrivere un libro sulla Magistratura, un piccolo libro molto sintetico, in cui sono accennate parecchie nuove idee che speravo i colleghi avrebbero poi sviluppato; ma la cosa non è avvenuta. In tale libro scrivevo: «I magistrati debbono considerare la loro missione come un vero e proprio sacerdozio e conseguentemente non potranno iscriversi ad alcun partito politico, in quanto deve essere evitato, come per la moglie di Cesare, anche il più remoto e lontano sospetto sulla indipendenza ed imparzialità di esercizio della loro funzione». Diceva testé l’onorevole Musotto che l’iscrizione ad un partito non fa sorgere nessun vincolo coattivo e che il giudice iscritto ad un partito rimane sempre libero nel dare le sue sentenze e nel pronunziare i suoi giudicati. D’accordo: nessuno di noi pensa che il giudice iscritto ad un partito si faccia influenzare dal partito al quale appartiene nell’esercizio delle sue altissime e delicate funzioni. Ma noi dobbiamo pensare anche alla impressione che può venir suscitata nel cittadino che chiede giustizia, il vedere che i tre giudici i quali devono decidere della sua causa hanno all’occhiello un certo distintivo di partito politico, mentre il giuspetente non lo ha, o peggio ne ha un altro diverso. Ed allora nasce il dubbio che questo fatto possa profondamente turbare l’andamento della giustizia. Si capisce, amico Musotto, che anche i magistrati appartengono idealmente ad un partito, che votano per un partito e che possono essere anche eletti deputati nelle liste di un partito, come indipendenti. Abbiamo qui un esempio: l’amico Nobile, eletto in una lista di partito senza appartenere a quel partito. Nulla di male: questo è possibile! Potranno anche i magistrati aspirare a diventar senatori attraverso il collegio uninominale, senza essere iscritti a determinati partiti.

La non iscrizione ad un partito non vincola il loro pensiero politico, ma lo vincolerebbe invece una manifestazione esterna, perché, come dicevo nel mio scritto, la Magistratura è come la moglie di Cesare, che non deve dare luogo a sospetti.

E passo all’articolo 95. L’articolo 95 è quello che stabilisce l’unicità della giurisdizione. Badate, senza unicità nella giurisdizione cessa la stessa indipendenza della Magistratura. Nel libricino da me ricordato io non ammetto nessuna giurisdizione all’infuori di quella del magistrato ordinario. Mi sono anche manifestato contrario al Consiglio di Stato, e credo che bene le sue funzioni giurisdizionali potrebbero essere attribuite a speciali tribunali amministrativi, sia regionali, sia centrale; ma sempre nell’ordine della Magistratura, sempre come una forma di Magistratura ordinaria, che sarebbe specializzata in tali determinate materie. Noi, però, abbiamo già approvato l’articolo 93, secondo il quale sia per il Consiglio di Stato, sia per la Corte dei Conti è stabilita una disciplina autonoma, e quindi non possiamo ritornare su questo argomento. Quando faremo le leggi speciali per stabilire le funzioni e l’organizzazione della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, potremo in qualche modo coordinare le loro attribuzioni con quella della Magistratura ordinaria, soprattutto attraverso il ricorso alla Corte di Cassazione unica di Roma, che dovrà decidere anche le questioni riguardanti il diritto amministrativo. E questo sarà uno dei modi per unificare la giurisdizione.

Ma vi è un punto sul quale ho creduto opportuno di presentare un emendamento, ed è quello che riguarda i tribunali militari. L’onorevole Gasparotto ha presieduto, da par suo, una Commissione, della quale ho fatto parte anche io, come Villabruna ed altri colleghi di questa Assemblea, nella quale abbiamo esaminato a lungo il problema dell’ordinamento della giustizia militare, e lo abbiamo esaminato tenendo presenti e valutando le obiezioni dell’onorevole Palermo, l’unico oppositore che parlò in Commissione. Poi, abbiamo avuto una lettera dell’onorevole Calamandrei che si è associato genericamente all’onorevole Palermo, senza dirne le ragioni, certo per la sua alla esperienza di giurista. Ma l’opposizione dell’onorevole Palermo fu respinta dalla totalità della Commissione, e non perché non riconoscessimo molle cose giuste in quello che diceva, cioè che la Magistratura militare deve essere congegnata in modo da garantire tutte le libertà del cittadino che veste la divisa del soldato, che devono essere assicurate tutte le possibilità, perché la difesa sia garantita e perché la legge sia applicata severamente ma giustamente. Lo stesso onorevole Palermo che cosa propone? Propone che si formino delle giurisdizioni miste, dei collegi composti di giudici togati con due ufficiali. Voi immaginate che cosa sarebbe entrare nel Palazzo di Giustizia, uscire da una sezione penale ed entrare in un’altra dove vi sono due ufficiali in alta uniforme che siedono a fianco dei giudici ordinari! Diceva ieri il collega Villabruna, che con la sua togata eloquenza ricorda i bei tempi dell’antico parlamento subalpino, che cosa sarebbe un collegio giudiziario, in cui uomini e donne si riunissero in camera di consiglio per emanare una sentenza? Così sembra a me che si potrebbe pensare di questo strano collegio, composto di ufficiali e di uomini di toga! In tempo di pace dovrebbe esserci un tribunale militare, creato da una legge speciale, e non vedo perché la giustizia militare non potrebbe dipendere dal Ministero della giustizia, anziché da quello delle forze armate. La giustizia militare potrebbe essere benissimo un organo dipendente dal Ministero della giustizia, cioè una delle tante forme in cui si svolge la funzione giudiziaria. Basti pensare che abbiamo dei casi nei quali, in tempo di pace, si deve applicare il Codice penale militare di guerra. Abbiamo il caso di urgente e assoluta necessità (articolo 5 del Codice penale militare di guerra), abbiamo il caso dei corpi di spedizione all’estero (art. 9), quello di operazioni militari per motivi di ordine pubblico (art. 10), quello della mobilitazione generale e parziale (art. 11). Quindi ci vuole una giustizia militare anche in tempo di pace.

E se non esiste in tempo di pace, come si può creare a un tratto quando scoppia la guerra?

Né si dica che in tempo di guerra si possa formare in tre giorni un tribunale militare. In ogni modo senza la funzione non si può creare l’organo. È vero che i tribunali militari debbono servire sopra tutto in tempo di guerra; quindi manteniamo tali tribunali in tempo di pace soltanto per i reati commessi dai militari e come una speciale giurisdizione, che rientra nelle forme di tutte le altre funzioni giudiziarie.

Comunque, l’onorevole Gasparotto ha presentalo a questo riguardo un sagace emendamento, ed egli lo svolgerà a suo tempo con la competenza che gli deriva dall’esser stato due volte Ministro della guerra e Presidente della Commissione che ha esaminato a fondo la materia.

E vengo all’argomento cruciale di questo dibattito: io non ero purtroppo presente quando ieri sera ha parlato l’amico onorevole Carboni, ma non ho inteso nessuno, finora, difendere l’istituto della giuria. Questo tormentato istituto è stato assalito da ogni parte ed è curioso che sia stato criticato sopra tutto dai suoi figli più cari e prediletti.

Ho inteso parlare a questo riguardo anche il collega Alessandro Turco, del quale sono amico da tanti e tanti anni, e che ha formato la sua fama di studioso e di avvocato battendosi con eccezionale valore dinanzi a tutte le Corti di assise della sua Calabria.

Così, o amico Porzio, lei che è anche oggi un trionfatore dinanzi a tutte le giurie d’Italia, ed è colui che ha fatto sempre prevalere le ragioni della giustizia, non credo che abbia mai captato ai giurati con le lusinghe della sua eloquenza smagliante un verdetto ingiusto.

Ora, il giurato è il giudice popolare per eccellenza: attraverso la giuria la giustizia viene amministrata dal popolo, e non perché «in nome del popolo» si pronuncia la sentenza, come diceva ieri il collega Villabruna, perché questo non significherebbe proprio niente.

La giustizia viene dal popolo solo in quanto nei processi delle Corti di assise vi è la giuria, e la giuria non è, come si è detto, un istituto solamente inglese. E vero che non possiamo dimenticare le affermazioni di Lord Brougham, il quale diceva «che Parlamento e Gabinetto non esistono se non per far raccogliere dodici indipendenti giudici in una Corte d’assise», e dello storico Karcher, il quale scriveva «che il Foro e la Magistratura, assistiti dal giurì, costituiscono il fondamento più solido nel quale sono piantate le libertà della vecchia Inghilterra». Ma non è vero che in Italia la giuria non si sia acclimatata: è entrata nel 1848 nell’amministrazione della giustizia per i delitti di stampa e nel 1859 fu estesa a tutti ì reati più gravi. E quindi quasi un secolo che funziona, salvo la parentesi fascista, che travolse con la giuria tutti gli istituti giudiziari. Anche il nostro illustre collega Calamandrei ha affermato, nell’articolo 21 del suo progetto, le necessità della giuria. E tra i nostri antichi proceduristi ricordiamo il Casorati, il quale scriveva: «non appena ad un popolo è concesso di respirarr le prime arie di libertà, tosto compare nella sua legislazione l’istituto dei giurati: se questo è combattuto e distrutto per un istante, ritorna alla vita poco dopo più rigoglioso di prima».

Del resto, il problema in Italia è già risolto. Noi abbiamo una legge pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 1946, il regio decreto-legge 31 maggio 1946, n. 546, firmato dall’onorevole Togliatti, col quale si ristabiliscono le Corti d’assise. E il collega Gullo, qui presente, ha presentato all’Assemblea tre disegni di legge, nn. 3, 4 e 5, coi quali si fissano le norme di procedura per i reati di competenza delle Corti d’assise e quelle per l’ordinamento delle Corti stesse, progetti che dovremo presto discutere.

Quindi, amico Turco, se mi dice che l’istituto della giuria è imperfetto, posso anche convenire con lei. Già, istituti perfetti non ne conosco nessuno. Forse soltanto da qui a centomila anni, in un regime di perfetta bontà, in cui ogni cittadino faccia il suo dovere per impulso del suo animo, senza bisogno di leggi e di magistrati, potremo avere istituti perfetti. Oggi abbiamo degli istituti imperfetti, ma non imperfettibili, amico Turco, anzi perfettibilissimi. Ho proposto un emendamento che farà un po’ sorridere i colleghi, perché lo troveranno avveniristico e troppo rivoluzionario.

Io propongo di sostituire le ultime parole dell’articolo 96 «nei processi di Corte di assise» con le altre «nei processi penali». Direte: che roba è questa? È una mia antica idea, che ho illustrato in quel piccolo libretto di cui vi ho fatto cenno. Eccetto la giustizia penale pretorile, che è quella delimitata dall’articolo 31 del Codice di procedura penale, più tutte le contravvenzioni, più i reati colposi, più quelli punibili a querela di parte, e che si potrebbe anche estendere ad un maggior numero di reati, ritengo che tutti gli altri processi penali dovrebbero essere giudicati da una giuria. E distinguo: quelli che oggi andrebbero alle Corti d’assise, secondo i concetti tradizionali, dovrebbero essere di competenza di una «grande giuria», mentre gli altri andrebbero davanti ad una «piccola giuria».

Una voce al centro. E l’appello?

PERSICO. Nella mia «Nuova Magistratura» c’è anche l’appello; vuol dire che il libro, per quanto breve, non è stato letto da nessuno. Piccola giuria: tre giurati, presidente e giudice relatore; grande giuria: cinque giurati, presidente e giudice relatore. Con questa specialità: che tutte le volte che, per dichiarazione delle parti o per la natura del processo, sorga una questione tecnica, almeno due dei giurati dovranno essere esperti della materia. Si tratterà di falsificazione di moneta, ci saranno due giurati funzionari della Zecca; saranno reati di falsa scrittura, vi saranno due periti calligrafici, ecc.

È complicato questo congegno? Tutti i congegni nuovi sono complicati; tutte le macchine, prima di cominciare a girare, hanno l’avvio faticoso, ma poi saranno lubrificate e si correggeranno i difetti.

Anche la Regione è ancora una cosa nuova; non sappiamo come funzionerà: chissà quante leggi dovremo fare per poterla attuare. E così sarà di queste «piccole e grandi giurie» da me ideate.

E badate, i giurati, secondo me, dovranno essere eletti e non estratti a sorte. Saranno eletti dai Consigli regionali che ne formeranno le liste, e dovranno avere un titolo di studio non inferiore alla maturità classica o tecnica, cioè dovranno essere arrivati alle soglie dell’università. Quindi saranno giudici competenti e responsabili, e non avranno soltanto la licenza elementare, come nel progetto proposto, e saranno in numero limitato. Sarà un alto onore per i cittadini italiani sedere come giudici, perché questo dovete pensare, o amici miei: noi vogliamo instaurare una nuova e moderna democrazia, ma quando c’è un dovere da compiere non la vogliamo più. Vogliamo tutti gli onori, tutti i vantaggi, ma, quando c’è un fastidio, non ne vogliamo sapere. Quando si estraevano i giurati, tutti trovavano mille scuse per essere scartati: «debbo partire», «debbo fare questo o quello», «non posso partecipare per impegni del mio ufficio», ecc. Questo significa, onorevoli colleghi, che non si è intesa l’importanza di alcune istituzioni democratiche. Molti vogliono la democrazia senza le forme democratiche! (Interruzioni).

E allora seguitiamo ad arare la terra con il pungiglione di Noè, o di Abramo. Non possiamo ripetere ad ogni novità: così faceva mio nonno. Oggi dobbiamo fare diversamente. Ecco perché non possiamo avere pochi magistrati. L’Inghilterra ha invece quindici o ventimila magistrati onorari, cioè dei giudici non professionali, che dànno la loro valida opera all’amministrazione della giustizia.

lo credo quindi che, mutato il sistema, cioè eletti i giurati, e non estratti a sorte, ridotto il loro numero, elevata la loro dignità e la loro funzione, noi potremo veramente creare un corpo di giudici popolari che non daranno più luogo a quei verdetti scandalosi, per cui, in altri tempi, si fece tanto chiasso. Ricordo però migliaia di processi nei quali la giuria fece il suo dovere; ricordo, per esempio, il processo Murri, in cui, nonostante tutte le pressioni da ogni parte esercitate, i giurati fecero giustizia coraggiosa ed esemplare.

L’istituto della giuria, onorevoli colleghi, non ha ancora fatta la sua completa esperienza: questo è il problema. Noi dobbiamo dare la possibilità a questo istituto di funzionare seriamente, nel clima della riconquistata libertà: esso sarà veramente la prova del fuoco della nuova democrazia.

E passo rapidamente all’articolo 97, che è quello che deve fissare l’indipendenza del potere giudiziario: è la vecchia questione delle guarentigie della Magistratura. Noi abbiamo avuto una legge, forse l’unica dopo quella fondamentale del 1865, che ha affrontata la questione: la legge Orlando 24 luglio 1908, n. 481. Orlando vide il problema e lo risolse col suo altissimo ingegno di giurista e di avvocato, e creò i Consigli disciplinari presso le Corti d’appello per i giudici e la Suprema Corte disciplinare per i magistrati superiori.

Tale Corte era composta di sei magistrati e di sei senatori; precorrendo cioè quella forma di collegio misto che la Commissione dei Settantacinque ha proposta. Ma poi abbiamo avuto recentemente il regio decreto-legge 31 maggio 1946 del Ministro Togliatti. Egli ha creato il Consiglio Superiore della Magistratura con soli magistrati: il primo presidente della Corte di cassazione, presidente il procuratore generale della Corte stessa, undici membri effettivi e sei supplenti eletti dai magistrati. Dunque, oggi noi, in fondo, dovremmo fare un passo indietro, in quanto abbiamo vigente la legge Togliatti, che costituisce il Consiglio Superiore della Magistratura nella forma che sarebbe desiderata dai magistrati, cioè il cosiddetto autogoverno – parola che non dice niente, perché, come osservava l’onorevole Bozzi l’altro giorno molto chiaramente, non è che si vuol governare in questo modo l’amministrazione della giustizia, ma si tratta dell’autogoverno del corpo giudiziario – che si può anche ammettere. Come arriverei ad ammettere anche l’elettività interna per le cariche della magistratura: cioè la nomina dei consiglieri di Cassazione da parte dei consiglieri di Corte d’appello, e dei consiglieri di Corte d’appello da parte dei giudici di tribunale.

Questo è un progetto che potremo discutere un giorno – forse non sarò presente – quando si dovrà deliberare sul nuovo ordinamento giudiziario e sui nuovi Codici di procedura civile e penale.

Dunque, il principio dell’autogoverno non solo è entrato nella nostra legge, ma in questo momento è in atto. Allora si tratta di vedere quale sistema si potrebbe scegliere perché questo autogoverno non diventi – come è stato detto da un autorevolissimo collega, con parola veramente plastica – un «mandarinato». Non vogliamo un corpo di mandarini; vogliamo un corpo che senta la influenza della vita; che si colleghi agli altri poteri dello Stato. Non vogliamo che il «potere giudiziario» si chiuda in una torre di avorio, ma sia confluente con gli altri poteri e ne sia anche controllato. I metodi non potrebbero essere che tre. Il metodo del «cancelliere di giustizia», che è stato adottato dalla sola Costituzione finlandese. Il cancelliere di giustizia, nominato dal Parlamento o dal Presidente della Repubblica, tra i magistrati, dovrebbe intervenire al Consiglio dei Ministri. Sarebbe una norma strana e lontana dalle nostre consuetudini e dalle nostre idee. Ma poi non credo che con questo sistema si arriverebbe ad alcun risultato pratico, in quanto il cancelliere di giustizia, l’altissimo magistrato che andrebbe a sedere nel Consiglio dei Ministri, in fondo farebbe su per giù quello che fa attualmente il guardasigilli. Allora, tanto vale affidare a lui questa funzione; ma, ripeto, così non si risolve il problema.

Quindi, bisogna ricorrere ad un organo estratto, o totalmente o parzialmente, dalla Magistratura, e allora si potrebbe ritornare a quello che ha istituito l’onorevole Orlando nella sua legge del 1908 o restare a quello della recentissima legge Togliatti. Ma sorge il problema se questo organo collegiale debba esser composto di soli magistrati, o se in esso convenga ammettere anche l’elemento cosiddetto laico.

Il progetto Calamandrei (art. 17) era perché fosse composto di soli magistrati. Anzi, nella seduta del 5 dicembre 1946 della seconda Sezione della seconda Sottocommissione per la Costituzione, l’onorevole Calamandrei, rispondendo ad una esplicita domanda dell’onorevole Targetti, ebbe a dire che, a suo avviso, il Consiglio superiore dovrebbe esser composto esclusivamente di magistrati. Poi, nella seduta del 4 marzo 1947 di quest’Assemblea, l’onorevole Calamandrei ha fatto macchina indietro, dicendo che il gesto compiuto da un altissimo magistrato gli aveva fatto cambiare completamente d’opinione.

Io ammiro l’ingegno di Calamandrei; l’altro giorno l’ho ascoltato con riverenza a Firenze, quando ha commemorato con parole veramente commoventi il martire avvocato Enrico Bocci, tormentato e trucidato dai nazifascisti; ma nella seduta del 4 marzo non l’ho riconosciuto. Un principio, o è buono, o è cattivo, che poi nella vita di un magistrato possa capitare un involontario infortunio (e non spetta a noi giudicarlo) non può costituire ragione sufficiente per cambiare un’opinione maturata, efficacemente espressa e fissata in una proposta di legge.

Ma, pur senza andare, come l’amico Calamandrei, sulla via di Damasco, ho voluto riflettere a lungo sulla questione, e mi sono convinto che un Consiglio superiore composto di soli magistrati potrebbe dar luogo a qualche inconveniente e distaccare troppo dagli altri organi dello Stato il corpo della Magistratura. Perciò ho presentato un emendamento così concepito: «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica» – e a questa Presidenza io tengo, amico Villabruna, non per un pennacchio, non per un cornicione, non per paura di conflitti, ma perché intendo che il Presidente della Repubblica non sia rinchiuso in una teca di cristallo, sia pure tersissimo, ma debba intervenire autorevolmente nella vita dello Stato e non so quale migliore funzione egli potrebbe avere se non quella di presiedere il più alto organo del potere giudiziario, che dev’essere suprema difesa e sicura garanzia di tutti i cittadini, sicché il Presidente della Repubblica qui ci sta benissimo, come è stabilito, del resto, anche nella Costituzione francese – «Il Consiglio Superiore della Magistratura, presieduto dal Presidente della Repubblica, è composto dal primo presidente e dal procuratore generale della Corte di cassazione in qualità di vicepresidenti» (perché effettivamente funzionerà, per la complessità dei compiti, diviso in non meno di due sezioni), «da sei membri eletti da tutti i magistrati della Repubblica aventi almeno il grado di giudice, o parificato; da tre membri eletti dalla Camera dei deputati e da tre membri eletti dal Senato della Repubblica fuori dal proprio seno e dagli albi forensi, in modo che sia assicurata la rappresentanza della minoranza».

Ho abolito il termine Assemblea Nazionale, perché mi pare che l’Assemblea Nazionale sia ormai morta. Del resto è inutile convocare le due Camere insieme, quando ciascuna può procedere per suo conto alle elezioni dei membri del Consiglio superiore della Magistratura.

Quindi, con questa attenuazione, che non vulnera il principio dell’autogoverno della Magistratura e che in parte sodisfa superiori esigenze, si avrebbe il completo coordinamento del potere giudiziario con gli altri poteri dello Stato: con quello esecutivo mediante la Presidenza del Consiglio da parte del Capo dello Stato; con quello legislativo, attraverso l’elezione di una parte dei membri del Consiglio Superiore fatta dal Senato e dalla Camera. Una parte dei membri, dico, e non la maggioranza, perché la maggioranza deve restare ai magistrati, e questi, essendo in numero di otto, potranno avere quel giusto peso che devono avere per la giusta tutela della necessaria indipendenza del loro Ordine.

Spero quindi che questa formula possa essere accettata dall’Assemblea. E volgo rapidamente alla fine del mio già lungo discorso.

Articolo 98. Questo articolo ha per me una speciale importanza, ed io propongo qui un nuovo sistema: quello dei magistrati elettivi. Si tratta di un tentativo limitato ai gradi minori, alla giustizia veramente popolare. Del resto non è una novità. Un progetto del guardasigilli Ettore Sacchi già proponeva questa Magistratura elettiva, che è stata nel pensiero e nei voti degli antichi maestri di democrazia, e che è stata sostenuta dinanzi alla seconda Sottocommissione dall’onorevole Targetti. Ma io limito la mia proposta a due soli gradi: il giudice di pace, al quale vorrei affidare una quantità di poteri nuovi: la tenuta dei registri delle persone giuridiche e delle società commerciali, la potestà di procedere alla ventilazione di eredità, la potestà di citare le parti per un esperimento di conciliazione, ecc.; ed il pretore, sia civile, sia penale.

Come saranno eletti? Bisognerà fare una legge speciale. Io credo che, avendo noi già stabilito l’ordinamento regionale, potrebbe essere il Consiglio regionale ad eleggere questi giudici onorari, tenendo conto di speciali requisiti: dovranno essere uomini saggi e probi, o professori, o avvocati con un certo periodo di esercizio. Essi inoltre dovranno avere un adeguato emolumento e l’alloggio gratuito; ma sono tutte cose da vedersi a suo tempo. Prima bisogna creare questa coscienza nuova dell’alto e nobile dovere di alcuni cittadini, veramente «eletti», di saper rendere giustizia.

Bisogna che in Italia si formi questa classe media, conscia dei suoi doveri e dei suoi compiti, questo corpo dirigente della Nazione, che oggi manca. Noi soffriamo di una vera crisi della classe dirigente. Tutto ciò che deploriamo in Italia dipende dal fatto che non esiste una classe dirigente, che abbia coscienza dei suoi obblighi e delle sue responsabilità. Si dice: la colpa è del fascismo; però la nuova classe dirigente non l’ha creata nemmeno la resistenza. Si è improvvisata spontaneamente e tumultuariamente dopo il 25 luglio 1943, e dopo la liberazione, ma questa classe dirigente manca ancora, perché il crollo del fascismo è stato improvviso e non si erano preparati i nuovi quadri.

Ritornando al nostro argomento, io propongo che i giudici di pace, che i pretori civili e penali siano eletti secondo le modalità stabilite dalla legge.

Certo è assai nuovo questo sistema.

TONELLO. No, v’è da tanto tempo in Svizzera.

PERSICO. V’è in tanti altri Stati. Tutta l’amministrazione giudiziaria inglese ne dà l’esempio.

Quindi spero che il principio da me proposto possa essere accettato nella Costituzione. Attraverso una legge speciale, vedremo poi come si dovrà praticamente attuare. Ed una parola sola sull’ingresso nella Magistratura delle donne.

Io sono contrario, e credo che basti pensare all’unico esempio letterario di una donna magistrato per essere contrari. (Interruzioni).

Del problema dei tribunali per i minorenni potremo parlare a parte. Anche su tale argomento ho scritto qualcosa, che può interessare.

Nei collegi dei probiviri è ammessa la donna, perché si devono risolvere controversie economiche per le quali l’ingegno femminile ha speciali attitudini. Ma io dico che la donna magistrato non può esserci e lo dico in base a quanto ha scritto magistralmente Shakespeare che, nel Mercante di Venezia, ha fatto giudicare Porzia, e Porzia ha giudicato male, perché se è vero che ha dato torto a Shylock, gli ha dato torto con un’astuzia femminile, in quanto ha detto che la libbra di carne si doveva prenderla senza il sangue. E con questa trovata, veramente femminile, con questa scappatoia, ha salvato il debitore di Shylock. Ma se fosse stato giudice un uomo, avrebbe detto: caro Shylock, tu chiedi una cosa che è vietata dalla morale; non si può vendere il proprio corpo. La tua domanda è inammissibile, è contra legem, il tuo contratto è nullo. E con una questione di diritto avrebbe risolto il problema, senza ricorrere al cavillo della carne e del sangue. E credo che Shakespeare abbia pensato con questo esempio di dimostrare come la donna non sia la più indicata per pronunciare sentenze.

V’è stata Eleonora D’Arborea, ma era giudicessa nel senso di sovrana; non ha emanato sentenze, ha governato uno Stato. Ed allora vedete che questo problema, che pur ha dei lati seducenti (basti pensare che con una legge recente la Francia ha sanzionato l’ingresso delle donne nella Magistratura), si risolve con gli aspetti pratici della vita. Non è possibile che sentenze civili e penali siano date da un collegio misto, o, peggio ancora, da un collegio composto soltanto di donne, perché questa funzione, così grave, così difficile, che procura tante ansie e tante notti insonni, non è adatta allo spirito femminile.

Noi vediamo che anche nell’avvocatura, dove le donne sono entrate da molti anni, esse non hanno dato quel contributo che si poteva sperare.

Sono stato un amico e un ammiratore della più colta donna avvocato, la professoressa Teresa Labriola. Eppure nessun notevole apporto ha potuto dare alla nostra difficile professione. La donna sarà la madre dei giudici, sarà la ispiratrice dei giudici, ma è bene che lasci questa grave e talvolta terribile responsabilità agli uomini.

Una parola sull’articolo 99. Qui bisognerà eliminare la parola «retrocessione», perché è assurdo pensare che un magistrato possa essere retrocesso.

Io avevo fatto nel mio libro un’altra proposta, cioè che quando il magistrato, all’epoca dello scrutinio per conseguire il grado superiore, non sia dichiarato idoneo, né a conseguirlo, né a restare nel grado occupato, sia collocato a riposo. Si avrebbe così una specie di selezione permanente, assai utile per il prestigio e la dignità della Magistratura.

Articolo 100. Mi pare necessario che la Magistratura sia dotata di una polizia propria: ecco perché propongo che l’autorità giudiziaria abbia alle sue dirette dipendenze un corpo specializzato di polizia giudiziaria.

Ultimo argomento, ed ho finito, è quello della cassazione unica.

Mi dispiace che non sia più presente l’amico Villabruna, ma v’è l’amico Bellavista, che ha voluto anche lui raccoglierne la faretra e lanciarmi uno strale…

BELLAVISTA. Ma non era avvelenato!…

PERSICO. Gli avvocati romani vogliono la cassazione a Roma – ha egli detto – perché fa loro comodo, perché così hanno la cassazione a domicilio.

No, non è questa la ragione: Roma è il centro pulsante della vita nazionale, perché a Roma v’è il Capo dello Stato, perché a Roma v’è il Governo. Per il decentramento amministrativo vi sono le Regioni, che snelliscono il funzionamento burocratico, che avvicinano al cittadino gli organi centrali; ma non la cassazione. È il pretore che deve essere vicino al cittadino, non la Corte suprema di cassazione, che deve regolare tutta la vita giuridica nazionale. Perfino gli Stati federali hanno una cassazione unica, gli Stati Uniti d’America hanno con la Supreme Court of the United States, l’Inghilterra con lo Appeal to the House of Lords. Io potrei farvi l’elenco di tutti gli Stati che hanno una cassazione unica. Perfino la Germania, che era federalista, aveva la cassazione unica a Lipsia.

A me pare che sia cosa che stoni anche all’orecchio parlare di cassazioni plurime in uno Stato unitario: è un vero e proprio assurdo! Solo se si arrivasse ad una Confederazione, potremmo avere le varie cassazioni: la cassazione siciliana per lo Stato siciliano, la cassazione sarda per lo Stato sardo, la cassazione milanese per lo Stato lombardo, ecc.

Io ho discusso alla gloriosa cassazione civile di Napoli. So quali preclarissimi ingegni vi hanno dominato. Tra gli ultimi ricordo i colleghi Grippo e Ianfolla, che poi hanno brillato col loro grande ingegno anche alla Corte suprema di Roma.

L’ordine del giorno dell’amico Villabruna ha carattere piemontese. Guardate le firme. Se ne sarebbero potuti fare altri tre identici: uno siciliano, uno toscano e uno napoletano; ma questo non avrebbe cambiato nulla. Dice l’onorevole Villabruna, che alle altre ragioni esposte si aggiunge il fatto del grave disagio e della rilevantissima spesa che occorre affrontare per permettere agli avvocati dell’Alta Italia di recarsi a discutere dinanzi al Supremo collegio.

Ma se con un volo di aeroplano si va e si torna in poche ore! Avremo tra poco gli aerei ultrasonori, che viaggeranno a più di 300 metri al minuto secondo.

Non noi, ma voi volete la cassazione a domicilio. Io propongo poi uno speciale sistema per gli avvocati di cassazione: l’albo chiuso unico per tutta Italia a cui si arriva per concorso attraverso titoli e, se occorre, per esame. Saranno nominati, ad esempio, cento cassazionisti per tutta Italia, i quali potranno esercitare soltanto in cassazione e verranno necessariamente a stabilirsi a Roma. A mano a mano che si farà un posto vacante, si aprirà un concorso per ricoprirlo. E non mi dite che la cassazione unica si deve ad una legge fascista, per carità! Questo è un errore grossolano. La prima legge che iniziò l’unificazione delle cassazioni è del 12 dicembre 1875: essa dette una speciale competenza per alcune materie alla cassazione di Roma. Poi venne la legge del 31 marzo 1877, che attribuì alla Corte di Roma tutti i conflitti di attribuzione e l’esame dei ricorsi per incompetenza, o per conflitti, o per eccesso di potere contro le decisioni delle giurisdizioni speciali. Poi venne la legge del 6 dicembre 1888, che ha unificato le cassazioni penali, in occasione dell’entrata in vigore del codice penale Zanardelli.

Quali cassazioni vorreste ricostituire: le penali o le civili? Non l’ho capito. Perché, quando parlate di legge fascista, parlate della legge del marzo 1923, che ha unificato le cassazioni civili. L’onorevole Bozzi ha ricordato il progetto Minghetti del 1862. Io ricordo i grandi giuristi, da Calamandrei a Mortara, il più illustre processualista italiano, che si è battuto fino all’ultimo per sostenere l’unicità della cassazione civile.

È un puro caso che, come per una strada o per un ponte costruiti antecedentemente e inaugurati dopo il 28 ottobre 1922 sotto il segno del fascio littorio, è un puro caso, onorevoli colleghi, che la legge sulla cassazione sia stata emanata nel marzo del 1923. Del resto il fascismo allora non era ancora vero fascismo: collaboravano al Governo molti partiti ed anche la Democrazia cristiana. Io ricordo di aver parlato alla Camera su quella legge proposta dall’onorevole Oviglio, per difendere alcuni tribunali che si volevano sopprimere. Quindi non si dica che gli avvocati romani fanno una questione d’interesse. Questa accusa è troppo meschina, onorevole Bellavista! (Interruzione del deputato Bellavista). Quando nell’albo speciale della cassazione vi saranno cento iscritti, come in Francia, gli iscritti in quell’albo faranno il loro dovere, e non eserciteranno più in nessuna altra sede giudiziaria. Onorevoli colleghi, ho finito; non senza notare che è doloroso constatare come questa importantissima discussione si faccia in un’Aula semi-deserta.

Noi siamo stati per tanti anni gli ammiratori della sapienza giuridica dei tedeschi. Io ricordo quando, studente, i miei professori mi parlavano della filosofia giuridica del Trendelenburg, di Jhering e del suo Der Kampf um’s Recht, la lotta per il diritto, quasi che noi non comprendessimo la lotta per il diritto. Ricordo come i miei compagni di università accorressero a Berlino, ad Heidelberg, a Bonn, per ascoltare le lezioni dei professori di diritto, quasi che noi non avessimo la nobile tradizione, che va da Beccaria a Carrara, e non avessimo le gloriose università di Pavia, di Bologna e di Napoli, fari di civiltà e di sapienza attraverso i secoli.

Non si supponeva allora, che gli Herr Professor e gli Herr Doktor, sarebbero divenuti le iene e i torturatori di Bimhenwald, che i dotti professori avrebbero affermato il Führer Prinzip, cioè che la legge la fa il Führer e che, tranne la volontà del dittatore, non vi è altra fonte legislativa.

Noi italiani amiamo il diritto, amiamo veramente la lotta per il diritto.

Appena riconquistata la libertà, abbiamo nominato primo cittadino della Repubblica un grande avvocato, intesa questa parola nel senso più alto: advocatus, cioè colui che è chiamato a difendere la libertà, la giustizia, il diritto. Per i romani l’avvocato era il vir bonus dicendi peritus; e tale è Enrico De Nicola.

Questa Assemblea è presieduta da un avvocato, il quale dimostra quotidianamente, oltre che vastità di cultura e di sapienza politica, acume e finezza giuridica, nel dirigere i nostri dibattiti.

Noi siamo in quest’Aula circa duecento fra avvocati, professori di diritto e magistrati, quasi un terzo dell’Assemblea.

Questo dimostra la passione che il popolo italiano ha sempre avuto per il diritto, la sua sete di giustizia. La nostra classe forense ha mantenuto intatta la dignità della sua nobile missione, fieramente levata contro la dittatura. Quando a Torino l’avvocato Duccio Galimberti e a Roma l’avvocato Placido Mastini venivano trucidati, essi opponevano il diritto alla tirannia, e segnavano la loro fede col sangue.

Onorevoli colleghi, facciamo di questo Titolo quarto della nostra Costituzione cosa veramente degna del popolo italiano; diamogli una Magistratura – qui possiamo adoperare il termine Magistratura – che sia garanzia di giustizia alta: serena ed eguale per tutti.

Ricordiamo il motto della sapienza romana, che oggi chiameremmo uno slogan: justitia est fundamentum rei publicae. (Applausi – Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato ad altra seduta.

Interrogazioni con richiesta d’urgenza.

PRESIDENTE. Comunico che sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:

«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se rispondano a verità le notizie apparse sulla stampa circa un imminente sblocco degli affitti; e se, nella eventualità che sia in preparazione un provvedimento del genere, non ritenga opportuno tener presenti le condizioni in cui verrebbero a trovarsi tante categorie di cittadini e in particolare quelli a reddito fisso (statali, pensionati, ecc.) e i lavoratori in genere.

«Pressinotti, Malagugini, De Michelis».

«Al Ministro dei trasporti, per sapere se si ha l’esatta sensazione della gravissima situazione cui si è ridotta la classe dei ferrovieri, essendosi trattenute, sul mensile di ottobre, tutte le anticipazioni fatte nei mesi precedenti; e per chiedere che venga immediatamente corrisposta una nuova anticipazione – proporzionalmente minore al complesso di quelle rimborsate – da restituire ratealmente in quattro o cinque mesi.

«Morini, Sampietro».

«Al Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere a che punto sono le trattative fra dipendenti e industriali delle aziende gas; e per sapere cosa intenda fare per evitare alle città italiane la iattura della sospensione della erogazione del gas; sospensione che si avrà martedì 11 a seguito dello sciopero già preannunciato per detto giorno di fronte all’ingiustificato irrigidimento padronale.

«Morini».

MORINI. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MORINI. Vorrei sottolineare l’urgenza delle due interrogazioni da me presentate, facendo presente che i Ministri cui sono dirette mi hanno dichiarato di poter rispondere lunedì prossimo.

PRESIDENTE. Sta bene. Le due interrogazioni saranno iscritte all’ordine del giorno della seduta di lunedì.

E stata anche presentata la seguente interrogazione con richiesta d’urgenza:

«Al Ministro del bilancio, per conoscere quali motivi si appongano alla abrogazione della legge fascista 25 ottobre 1941, n. 1148, con la quale si rese obbligatoria la nominatività dei titoli azionari. Invero, tale abrogazione si risolverebbe in un afflusso immediato di almeno cento miliardi di lire all’erario, in un contributo alla ricostruzione, in un disboscamento di moneta, in un sollievo alla disoccupazione, in un vantaggio, insomma, per l’economia nazionale.

«De Martino».

Comunicherò le interrogazioni testé lette ai Ministri competenti perché dichiarino quando intendono rispondere.

VARVARO. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

VARVARO. Ricordo che il 2 ottobre chiesi la risposta d’urgenza ad una interrogazione ai Ministri dell’interno e della giustizia sulla situazione della popolazione di Montelepre. I due Ministri hanno assicurato che avrebbero presto risposto. Ora la situazione denunciata in quella interrogazione perdura ancora ed è urgente che si abbia una risposta.

PRESIDENTE. Il Ministro di grazia e giustizia sarà lunedì prossimo fuori Roma. Porrò tuttavia questa interrogazione all’ordine del giorno di lunedì, con la riserva che essa sarà svolta se il Ministro dell’interno, che interesserò allo scopo, potrà darle risposta in detta seduta.

La seduta termina alle 12.55.

Ordine del giorno per la seduta di lunedì 10 novembre.

Alle ore 16:

Interrogazioni.