Come nasce la Costituzione

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ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CCLXXXVI.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 11 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI

INDICE

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Macrelli

Murgia

Sardiello

La seduta comincia alle 11.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Macrelli. Ne ha facoltà.

MACRELLI. Onorevoli colleghi, grave e delicato è il problema che l’Assemblea costituente affronta in questi giorni; problema politico e morale insieme, la cui soluzione inciderà profondamente nella vita del nostro Paese e soprattutto delle libere istituzioni repubblicane.

Molti colleghi autorevoli hanno già parlato dinanzi a voi; altri parleranno ancora, con maggiore competenza di me. Così che, solo per debito di coscienza e per un impegno d’onore assunto davanti ai magistrati, coi quali io ho, si può dire, come molti di voi, consuetudine di vita e di attività quotidiana, esprimerò il mio pensiero, facendo una rapida corsa attraverso gli articoli del progetto di Costituzione.

Veramente significative sono le lapidarie affermazioni dell’articolo 94: esse dovranno costituire non soltanto per i magistrati, ma anche per tutto il popolo italiano, sorto a libertà attraverso la Repubblica, la nuova concezione che si ha della giustizia.

Ho i miei dubbi sul capoverso dell’articolo 94, là dove si dice che «I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete». Mi sembra che questa sia una limitazione ai diritti dei cittadini e a quei principi di libertà che noi abbiamo già consacrati nella Carta costituzionale. Penso che questa affermazione potrà far parte di un altro corpo di leggi, quello che regolerà, ad esempio, l’ordinamento giudiziario; comunque vorrei che l’Assemblea non dimenticasse quello che è stato il risultato di un referendum svoltosi fra i magistrati italiani: la stragrande maggioranza dei giudici si è manifestata contraria all’iscrizione nei partiti politici.

Articolo 95. Confesso che io avrei preferito attribuire alla Magistratura ordinaria tutta la funzione giurisdizionale in ogni materia: civile, penale, amministrativa, creando magari sezioni apposite con elementi tecnici. Ma il tema è troppo vasto e porterebbe forse a sconvolgere tutto il nostro ordinamento giurisdizionale. Se ne potrà parlare in altra sede e in altro momento.

Approvo in pieno, invece, l’articolo 96, che afferma il seguente principio: «Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’Assise». Io ho ascoltato con profonda meraviglia e, vorrei aggiungere, anche con un certo senso di amarezza le parole che si sono pronunciate in quest’Aula, soprattutto (strano) da parte di valorosi colleghi penalisti che hanno – come, sia pure più modestamente s’intende, chi parla – affrontato le belle e difficili battaglie nelle aule delle Corti d’Assise. È stata proprio la crociata contro la giuria popolare. Parole aspre sono state dette, e penso che gli stessi sentimenti che oggi muovono me a parlare in favore della Corte d’Assise, abbiano un po’ agitato anche la coscienza del popolo italiano, il quale, squisitamente classico, ha avuto sempre, e credo mantenga ancora vivi, il culto ed il gusto dell’eloquenza.

Certi nomi non si dimenticano. Non c’è bisogno di risalire lontano nel tempo, onorevoli colleghi; restiamo pure nella nostra epoca. I nomi di Gaetano Manfredi, di Francesco Rubichi, di Gennaro Marciano, di Arturo Vecchini, di Genunzio Bentini, e, aggiungiamo alla schiera dei morti anche qualcuno dei viventi: di Enrico De Nicola, di Giovanni Porzio, sono ancora incisi nel ricordo, e l’eco della loro splendente oratoria rimane ancora, si può dire, nelle aule giudiziarie d’Italia. Non è facile cancellarla. E si dimentica che la giuria popolare, affermatasi nella lontana legislazione e nella coscienza del popolo britannico, trovò la sua consacrazione durante il periodo eroico della Rivoluzione francese; quella rivoluzione che proclamò per prima i diritti dell’uomo. Basti ricordare il decreto 30 aprile 1790, che istituiva la giuria popolare, trasfuso poi nella Costituzione del 3-14 settembre 1791. E tutte le legislazioni degli Stati, particolarmente di quelli retti a regime democratico, accettarono il principio. La ventata fascista in Italia, sconvolgendo il nostro ordinamento giudiziario, cancellò poi la giuria popolare, creando quell’istituto ibrido dell’assessorato, che è estraneo alla nostra concezione giuridica e alla nostra tradizione. Si è detto da qualcuno che i magistrati sono i meno idonei, per una sorta di deformazione professionale, a intendere e a valutare l’aspetto umano e morale dei casi portati al loro esame e più propensi a ricondurli negli schemi rigidi ed astratti della giuridicità. Io dico soltanto che, se nella nuova Repubblica si vuol dare una nuova educazione al popolo italiano, bisogna avvicinarlo a tutti gli istituti ed anche a quelli perciò che riguardano l’amministrazione della giustizia. Si è parlato di sentenze suicide; si è rievocato ancora una volta il caso Olivo: pare strano, ma tutti quelli che elevano un atto di accusa contro la Corte di Assise, dimenticano che la responsabilità per questi fatti risale, non alla giuria popolare ma ad altri. Ed allora voi vedete, o signori, che l’osservazione ha un valore relativo. Bisogna rendere la giustizia aderente alla realtà, e soprattutto alle nuove concezioni della vita politica e morale del nostro Paese. In questi giorni, al Congresso forense di Firenze, si è dibattuto questo problema ed ho sentito parlare di un duello oratorio fra Adelmo Nicolai e Giovanni Porzio: il primo favorevole, il secondo contrario alla giuria popolare. Duello magnifico, immagino: noi conosciamo ed ammiriamo l’ingegno e la duttilità del pensiero dell’uno e dell’altro.

Il congresso di Firenze ha però votato un ordine del giorno al quale noi della Costituente dovremo ispirare le nostre deliberazioni: ha riaffermato il principio di una maggiore adesione della volontà popolare alle più gravi decisioni giudiziarie penali. Noi accettiamo il voto che è venuto dal congresso di Firenze: là era rappresentata la classe forense che conosce le lotte, le battaglie, le amarezze di quella che è la funzione altissima e dell’avvocato e del magistrato. E quel voto penso che noi dovremo fare nostro. (Approvazioni).

Passiamo all’articolo 97, il quale parla dell’autonomia e dell’indipendenza della Magistratura, che definisce «ordine» e non «potere». Del «potere» si parla soltanto nella relazione del Presidente della Commissione; ma nel progetto questa parola è accuratamente evitata.

Senza ritornare alla classica divisione del Montesquieu, senza riferirci a degli schemi ormai accettati, io penso che sarebbe stato opportuno parlare ancora una volta di «potere», tanto più che lo Statuto albertino parlava di «ordine» ed è strano che noi nella Costituzione repubblicana ripetiamo lo stesso errore, mentre tutte le Costituzioni, le libere Costituzioni dei popoli liberi, parlano di un potere giudiziario.

Comunque, non mi preoccupo dei due nomi che, intendiamoci, non sono sinonimi. Sono fra loro, non dico in antitesi, in contrasto, ma certo non hanno uguaglianza di significato, né possono averla. Per noi l’importante è che la Magistratura abbia la sua autonomia.

Anche questa parola ha spaventato un po’, perché si è detto che autonomia significa «autogoverno», «uno Stato nello Stato», «la Magistratura avulsa dalla vita nazionale». Parole grosse, che nascondono delle piccole preoccupazioni, non aderenti alla realtà della vita.

Recentemente, in una rivista di classe inspirata a sensi dì profonda comprensione democratica dei diritti e dei doveri della Magistratura, leggevo che il problema della libertà nello Stato democratico moderno non si esaurisce nella partecipazione dei cittadini al governo della cosa pubblica, nel riconoscimento dei valori eterni ed inalienabili della personalità umana e dei diritti ad essa inerenti e nella conquista della libertà politica; ma trova più saliente espressione nella garanzia che la libertà civile sia concretamente rispettata contro qualsiasi invadenza e che tutti, cittadini e organi della pubblica autorità, siano soggetti costantemente all’osservanza della legge. Ora, siffatta garanzia è data soltanto dalla organizzazione di un forte potere giudiziario del quale siano chiaramente definiti i compiti, precisate le relazioni giuridiche con gli altri poteri dello Stato e poste in evidenza talune prerogative indispensabili per assicurare l’imparziale esercizio della giurisdizione.

Per noi autonomia vuol dire indipendenza assoluta della Magistratura, la quale indipendenza deve intendersi così dal punto di vista politico come da quello economico.

Innanzitutto, indipendenza da ogni potere politico; e mi riferisco tanto a quello esecutivo, quanto a quello legislativo, perché anche quest’ultimo può esercitare la sua influenza, soprattutto quando il sistema parlamentare traligna nel parlamentarismo: facili le influenze, facili le suggestioni.

La Magistratura deve essere invece oggi fuori di ogni pressione, perché deve essere al di sopra di ogni sospetto per l’alta missione cui deve rispondere.

Sebbene l’articolo 97 ribadisca il principio della autonomia e della indipendenza, quale concreta attuazione trovano tali solenni affermazioni? Risponde uno dei capoversi dell’articolo 97: per il progetto, tutta la carriera dei magistrati dipende dal Consiglio Superiore della Magistratura; «le assunzioni, le promozioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari e, in genere, il governo della Magistratura ordinaria sono di competenza del Consiglio Superiore secondo le norme dell’ordinamento giudiziale».

È dunque evidente che, se il Consiglio Superiore è soggetto ad influenze politiche o ad interessi comunque estranei a quelli di giustizia, il potere giudiziario è asservito e soggetto ad inframmettenze che vanno assolutamente evitate, se si vuole che la legge sia in realtà la viva tutela del diritto.

Secondo l’articolo 97, il Consiglio è costituito, come ricorderete, dal Presidente della Repubblica che lo presiede, da due vicepresidenti e così via. Il progetto, in questa sua formulazione, merita le nostre critiche, perché indubbiamente costituisce un regresso di fronte alle norme di un altro decreto, quello del 31 maggio 1946, il quale stabiliva che il Consiglio Superiore doveva essere composto soltanto di magistrati e sanciva, con alto spirito di vera democrazia, che i membri dovevano essere eletti dagli stessi magistrati.

Noi ritorniamo dunque un poco indietro. È strano, proprio oggi, in regime di democrazia e di democrazia repubblicana! Esaminiamo pure comunque questo articolo 97, rapidamente. La Presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura è assunta dal Presidente della Repubblica. Vi confesso che io sono ancora incerto sulla convenienza o meno di questa norma.

Esprimo i miei dubbi soprattutto sotto un duplice riflesso. Voi avete sentito che fra le attribuzioni del Consiglio Superiore della Magistratura ci sono anche le assegnazioni ed i trasferimenti di sede. Credete di elevare il prestigio del Presidente della Repubblica per questi atti, che vorrei definire di ordinaria amministrazione o quasi? Ma non solo. Una volta – mi insegnano i valorosi colleghi che mi ascoltano – c’era contro qualche provvedimento anche il ricorso straordinario al Re; oggi sarà il ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, il quale dovrà diventare giudice e parte in causa.

Faccio solo questi rilievi, onorevoli colleghi, e potrei aggiungerne altri da un punto di vista squisitamente costituzionale; ma non mi soffermo, perché l’ora è tarda e ne sospinge.

Per noi la cosa più importante è questa: che l’Assemblea Costituente fissi delle norme precise, per cui la Magistratura italiana possa, libera da influenze politiche, esercitare la sua grande missione al di sopra di ogni sospetto e di ogni critica. Lo storico inglese David Hume scrisse un giorno: «Tutto il nostro sistema politico o ciascuno degli organi suoi, l’esercito, la flotta, le due Camere e via dicendo, non è che mezzo ad un solo fine: la conservazione e la libertà dei dodici grandi giudici d’Inghilterra». E proprio in Inghilterra, per educare il magistrato al sentimento dell’indipendenza da ogni potere politico, si è fatto eternare dall’arte nell’aula del più alto consesso giudiziario del Regno la memoria di un giudice, di quel giudice che inviò alla Torre di Londra il principe ereditario, arrogantemente comparso dinanzi a lui per reclamare la impunità di un suo valletto. (Applausi).

Io ho detto, onorevoli colleghi, indipendenza politica; ma ho aggiunto anche: indipendenza economica. Chi come me e come molti di voi, del resto, conosce la vita dei magistrati italiani, sa quali sacrifici morali e materiali essi debbono affrontare ogni giorno. Stipendi di fame è la definizione esatta, non è un’esagerazione, onorevoli colleghi. Stipendi di fame per coloro – badate – che hanno affidata alla loro coscienza la tutela dell’onore, della libertà, dei beni dei cittadini.

Io ho già avuto occasione di trattare questo argomento davanti a voi in sede di interrogazioni: argomento doloroso e umiliante.

Il Governo si è trincerato dietro le solite esigenze di bilancio; comunque, ad un certo momento, si è rimesso anche alle decisioni di questa Assemblea. Ora, l’Assemblea Costituente, alla quale i magistrati italiani si sono rivolti con fiducia, sappia affrontare una buona volta il problema angoscioso, per risolverlo nell’interesse della giustizia e della Nazione. (Approvazioni).

Per arrivare alla meta auspicata da quanti hanno a cuore la pausa della giustizia e la sorte della Magistratura, occorre innanzitutto sganciare i magistrati dall’ordinamento degli impiegati dello Stato, approvato con regio decreto 11 novembre 1923 n. 2395. Fu infatti con quel decreto, di spirito profondamente e nettamente fascista, che i magistrati vennero inquadrati fra il personale dipendente dall’Amministrazione dello Stato. Secondo noi il Governo può e deve provvedere nel senso richiesto, tanto più che è da tutti riconosciuta ed affermata l’importanza delle funzioni dei magistrati e, anche, la diversità fra esse e quelle degli altri dipendenti statali. Certo, dovere preciso è quello di creare al magistrato una posizione dignitosa e sicura, poiché la vera indipendenza morale è strettamente legata all’indipendenza economica.

Conoscete voi, onorevoli colleghi – e mi rivolgo non ai giudici o agli avvocati che sono in quest’Assemblea – quella che è la vera situazione della Magistratura italiana? Conoscete voi le vere condizioni in cui si amministra la giustizia in Italia? Consentitemi (mi avvio rapidamente alla fine) alcune cifre: sono raccolte in una petizione diretta all’Assemblea Costituente dai magistrati dell’ordine giudiziario. Si parla ad un certo punto del numero dei magistrati che, attraverso il tempo, con gli anni, è andato diminuendo invece di aumentare con l’aumento del lavoro, con l’aumento delle pratiche, con l’aumento degli incarichi, poiché ormai il magistrato deve fare tutto, entra in tutte le manifestazioni della vita italiana, mentre il suo compito dovrebbe essere limitato soltanto ed esclusivamente a rendere giustizia, a fare giustizia. (Applausi).

Orbene, in questa petizione si dice: «Il personale della Magistratura, dal primo gennaio 1941 complessivamente in numero di 4400, al primo gennaio 1947 era ridotto al numero di 4100. Nel Tribunale di Milano, i magistrati che al primo gennaio 1940 erano 99, al primo gennaio 1947 erano 74».

Cifre inadeguate! E mi rivolgo al Ministro della giustizia che deve conoscere meglio di me questa situazione e che dovrà provvedere a suo tempo, attraverso quelle che saranno le indicazioni date dall’Assemblea Costituente.

Ma a quelle cifre io voglio aggiungerne un’altra: quella relativa agli stipendi. Un magistrato, entrato nel 1910 in carriera con un primo stipendio di 200 lire mensili, percepisce oggi, arrivato al grado di Consigliere di Cassazione, uno stipendio di lire 33.000 mensili circa, con una capacità di acquisto non superiore a lire 150 del 1911.

Un magistrato di grado ottavo che nel 1940 percepiva uno stipendio di 1500 lire, oggi percepisce 24.000 lire circa, compresa ogni indennità, nonostante che il costo dei generi di prima necessità si è moltiplicato di 30 o 40 volte.

Ora, ci sono dei rimedi? Noi pensiamo di sì. Io ho già parlato anche su questo argomento e ho richiamato l’attenzione del Governo e dell’Assemblea su quello che dovrebbe essere secondo molti di noi il rimedio per affrontare e risolvere decisamente il problema, ripeto, ancora una volta, nell’interesse della giustizia e del Paese: l’istituzione della più volte invano reclamata Cassa nazionale dei magistrati. Con questa sarebbe possibile venire incontro alle più elementari esigenze dei magistrati senza gravare sul bilancio dello Stato.

E badate che tale principio non è nuovo nella nostra legislazione. Basta ricordare la legge 7 aprile 1921 n. 355 che, fissando un’indennità annua per i magistrati, contemporaneamente aumentava ed in certi casi raddoppiava, le tasse di bollo, le tasse di sentenza, per far fronte alle nuove esigenze di bilancio. Tale indennità venne poi tolta dal famigerato decreto dell’11 novembre 1923.

Vogliate scusarmi se aggiungo ancora qualche cifra. Sapete qual è la mole enorme del lavoro giudiziario e la inadeguata corresponsione di oneri? Attualmente si può calcolare che i soli provvedimenti di volontaria giurisdizione, siano, «grosso modo» almeno trecentomila. Ebbene, qual è la tassa fissa per questi provvedimenti? Per i provvedimenti del Pretore varia da lire 25 a lire 49. Le cifre sono raddoppiate, sotto un certo punto di vista, per il Tribunale: da 49 si arriva fino a 100. Non basta. Annualmente si calcola che vengano emessi almeno 1 milione di decreti penali con una tassa fissa di lire 25 fino a poco tempo fa, ed ora portata a lire 140.

Le sentenze penali in sede di pretura si aggirano sulle cinquecento mila, con una tassa che arriva fino a lire 360 per i delitti e 150 per le contravvenzioni. Le sentenze di tribunale raggiungono le centocinquanta mila con una tassa di lire 760 o 390 a seconda che si tratti di delitti o contravvenzioni.

Dato l’attuale valore della moneta, tali cifre sono irrisorie. Basterebbe quindi aumentarle in modo corrispondente al valore della moneta, alle necessità dell’amministrazione della giustizia e alle esigenze delle stesse parti, per raggiungere quella cifra che, destinata alla Cassa nazionale, varrebbe da sola a risolvere il problema angosciante, senza incidere sulle finanze dello Stato.

Ma, si dice: voi affermereste un principio pericoloso. Domani altri funzionari dello Stato potrebbero chiedere lo stesso provvedimento e lo stesso trattamento.

Nulla di più assurdo che questa equiparazione della funzione giudiziaria a quella dei dipendenti dello Stato. A prescindere da ovvie considerazioni di prestigio e dalle peculiari esigenze di indipendenza economica, altri coefficienti differenziano nettamente la funzione giudiziaria:

1°) l’estrema varietà dei casi quotidianamente sottoposti al giudizio dei magistrati;

2°) la grave responsabilità relativa agli interessi che formano oggetto della funzione giurisdizionale;

3°) la necessità di una preparazione tecnico-scientifica di ogni giorno e di ogni ora e dell’adeguarsi quotidiano alla evoluzione ed ai ritrovati della giurisprudenza scientifica e pratica;

4°) l’ognor crescente mole di lavoro, che richiede applicazioni oltre ogni limite consueto di orario impiegatizio;

5°) l’interdizione da ogni altra attività lucrativa;

6°) la necessità professionale che il magistrato sia aperto a tutte le esperienze e a tutti gli aspetti della vita sociale.

Ecco i miei pensieri, onorevoli colleghi, su questa parte importantissima del progetto di Costituzione. Non aggiungerò altro. Le perorazioni per noi avvocati penalisti sono d’obbligo, si dice, ma io invece terminerò con le parole che Enrico De Nicola – prima di assurgere alla più alta magistratura dello Stato – pronunziava a Castelcagnano: «Io non so concepire nulla di più alto, di più solenne, di più terribile che la missione del giudice. Sorprendere la verità tra le menzogne che la inviluppano ed i cavilli che la insidiano, resistere alle basse passioni che contaminano e alle stesse austere virtù che sovente provocano la prevenzione e deviano tal volta il giudizio, essere giusti senza indulgenze e sereni senza rigore, conoscere il cuore umano nelle sue debolezze e nelle sue imperfezioni, non obbedire agli odii e non lasciasi trascinare dagli amori, restare impassibili in mezzo ai contrasti e agli urti della vita, tracciare il limite del giusto con mano sicura e con occhio esperto, essere interpreti non della parola, ma dello spirito informatore e vivificatore delle leggi, non odiare la ricchezza e la potenza e non disprezzare nel contempo la povertà e la debolezza, disporre dell’onore, degli averi, dell’avvenire, della vita stessa dei propri simili, è tale un complesso di doveri alti e solenni da strappare ancora una volta il grido accorato: quali funzioni sublimi ma ove sono le menti così vaste e i cuori così virtuosi che possano esercitarle? Eppure, attraverso oscuri eroismi, sacrifizi ignorati, abnegazioni segrete, la Magistratura italiana – che è troppo numerosa per potere essere egualmente perfetta – adempie alla sua difficile missione con zelo sproporzionato alle condizioni di carriera e di vita che le sono state create. Ed io formulo una speranza: che presto il potere giudiziario assurga anche in Italia a quella uniforme altezza intellettuale e a quel grado di prestigio sociale, a cui aspira e ha diritto».

La speranza di Enrico De Nicola, è anche la nostra, onorevoli colleghi. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È inscritto a parlare l’onorevole Murgia. Ne ha facoltà

MURGIA. Onorevoli colleghi, l’onorevole Macrelli, che mi ha preceduto, ha esordito brillantemente richiamando l’attenzione dell’Assemblea su tutti i problemi di questo titolo. È giusto. Io penso però che uno di essi sia particolarmente importante per la sua particolare gravità; gravità interpretata nobilmente proprio in quel monito solenne del nostro Presidente della Repubblica onorevole De Nicola letto or ora dall’amico Macrelli e col quale egli ha chiuso la sua bella orazione, questo: stabilire chi debbano essere i giudici del cittadino quando egli sia accusato di delitti che fino a ieri comportavano la pena suprema e oggi l’ergastolo o diecine di anni di reclusione. Problema grave al quale un altro strettamente se ne connette, per le sue conseguenze pratiche, forse ancora più grave: quello di stabilire se contro tali sentenze debba essere mantenuto solo il rimedio oggi esistente e nuovamente sancito nell’articolo 102 del nostro progetto, cioè il ricorso per Cassazione, o non invece, come io ho proposto con un emendamento specifico a tale articolo, anche il rimedio dell’appello.

Ciò perché – come voi sapete – oggi non esiste contro le sentenze della Corte d’assise che privano in perpetuo di libertà il cittadino, ne distruggono l’onore e ne confiscano i beni, il giudizio di appello, quel giudizio di appello che pure esiste, e giustissimamente, contro tutte le altre sentenze penali dei tribunali e dei pretori che infliggono pene detentive leggere di qualche anno, di qualche mese o addirittura semplici pene pecuniarie.

È qui, su questo assurdo stato di cose della nostra legislazione penale, che io invoco tutta la vostra attenzione, che io richiamo tutto il vostro senso di responsabilità perché si cancelli questa ingiustizia che è forse la più grave per le garanzie del cittadino.

Quale è stato il motivo etico, logico o giuridico che ha impedito fin qui che si istituisse il rimedio dell’appello contro le sentenze della Corte d’assise? È un motivo strettamente connesso all’istituto della giuria popolare di cui in linea principale ho proposto, con altro emendamento, la soppressione. E come e perché? La giuria popolare era considerata, simbolicamente, come il popolo stesso che giudicava, il popolo al quale anche in questa materia si davano gli attributi di infallibilità e di sovranità, portando il linguaggio politico per non dire demagogico sul terreno della scienza. Ora, si argomentava, se il popolo di cui la giuria è il simbolo è infallibile, la sua sentenza non può essere viziata da errore, e quindi l’appello è inutile, e se è sovrano, come lo è, non si può concepire un giudizio più alto, quindi ugualmente inutile, anzi assurdo.

Ma oltre queste ragioni, puramente demagogiche, un’altra ve n’è sostanziale che ha impedito finora e impedirà sempre che contro le decisioni della giuria possa istituirsi il giudizio di appello, questa: che il giudice popolare non motiva le sue decisioni, non dice per quale motivo assolve o condanna: su una scheda scrive un sì o un no dietro il quale c’è l’arcano dei motivi che lo hanno determinato. Ora, a prescinder dal fatto che la mancanza di motivazione costituisce la violazione fondamentale dei diritti del cittadino accusato e che legittima tutti gli abusi, sta l’altro fatto che essendo il giudizio di appello un giudizio di critica dei motivi messi a sostegno della sentenza impugnata, l’appello diventa impossibile per la mancanza dell’oggetto su cui deve cadere: la motivazione.

A questo riguardo si potrebbe, ma ingenuamente, obiettare: se questo è l’ostacolo acché venga istituito l’appello (poiché nessuno fino a questo momento ha osato disconoscere la giustizia di questo istituto) si disponga che anche le sentenze della giuria vengano motivate. Qualcuno dei colleghi, anzi, mi pare abbia proposto, per conciliare il mantenimento della giuria con la istituzione dell’appello contro le decisioni di essa, che si investisse la Cassazione anche del giudizio di merito. È assurdo per molte ragioni: prima di tutto perché si snaturerebbe l’istituto della Cassazione che è chiamata soltanto a un’alta e definitiva critica di puro diritto sostanziale o processuale e le è preclusa l’indagine di merito.

Secondariamente si commetterebbe una grave ingiustizia a danno degli imputati i quali, a differenza di quelli giudicati dal pretore o dal tribunale, avrebbero solo due gradi di giurisdizione e non tre, perché contro il giudizio della Cassazione non è possibile un ulteriore grado di giudizio. Ma pensate poi alle difficoltà pratiche. Poiché la Cassazione giudicherebbe sul merito di tutti i giudizi delle Corti d’assise d’Italia, non solo si dovrebbe moltiplicare per dieci il numero attuale dei magistrati di Cassazione (e fin qui non si tratterebbe forse di un male) ma si vedrebbe la Cassazione piena di imputati ammanettati di tutte le Corti della penisola, dato che l’imputato ha diritto a presenziare al giudizio di appello. Si potrebbero inoltre sentire testimoni dato che il giudice di appello può, in determinati casi, disporre nuove prove, ammettere nuovi testimoni e si potrebbe persino arrivare alla rinnovazione del dibattimento in sede di appello, sede che in questo caso, ripeto, sarebbe la Cassazione. Tutto ciò sarebbe assurdo. Ma resterebbe sempre, anche superate tutte codeste considerazioni, l’ostacolo fondamentale: come farebbe la Cassazione a giudicare sul merito in secondo grado se la sentenza della giuria manca di motivazione? O, come verrebbe proposto, si potrebbe davvero pensare che la giuria sarebbe capace di motivare? Io ho una modesta esperienza di processi di Corte d’assise e sono in grado di escludere tale possibilità. Come la motiverebbe un povero contadino, pur nobilissimo e rispettabilissimo per il suo lavoro e per la sua onestà, come la motiverebbe un fabbro, un macellaio o che so io, dato che non esiste alcun limite per la capacità di esser giudice popolare, quando si tratti di processi di straordinaria complessità e gravità, costituiti da molti volumi con perizie, relazioni tecniche, di carattere inaccessibile e direi incomprensibile per la loro mentalità e levatura?

Quindi, per queste ragioni io ritengo che sia impossibile conciliare l’istituto della giuria colla possibilità di istituire il giudizio di appello contro le sue decisioni.

Basterebbe questo motivo solo ma formidabile per legittimare la mia richiesta di soppressione dell’istituto della giuria. Ma perché non sembri che questo motivo solo sia di ostacolo al suo ripristino nel nostro diritto io illustrerò le ragioni sostanziali ancora più profonde che dimostrano l’estremo pericolo per le garanzie del cittadino del giudice popolare tanto nei reati comuni quanto nei reati politici. Chiediamoci: quale è la funzione, anzi la missione naturale del giudice sia esso popolare o togato? È quella di giudicar bene; e giudicar bene significa evitare, per quanto è nelle umane possibilità, che sia condannato un innocente, assolto un colpevole, o condannato ad una pena aberrante un colpevole, ad una pena cioè che non sia proporzionata all’entità del suo delitto, che non tenga conto della personalità del reo, dei motivi che lo hanno spinto al delitto, dell’ambiente da cui proviene, in cui del delitto è talvolta la lontana origine.

Si afferma dai sostenitori della giuria che l’indagine di fatto è facile e che, appunto perciò, il giudice popolare la può facilmente fare. Non è vera nemmeno questa affermazione, anzi essa è molto lontana dal vero e può esser fatta solo da chi o non ha nessuna esperienza o la ha molto modesta in processi di Corte d’assise. Per giudicar bene occorre anzitutto conoscere la verità di fatto; cioè distinguere il vero dal falso, il reale dall’apparente di cui i processi sono spesso intricati e commisti.

Vediamo il giurato all’atto pratico, immaginiamolo il giorno dell’udienza. Fino a quel momento egli non sa nulla, non conosce sillaba di tutto il processo scritto, quel processo scritto che è lì sul tavolo del Presidente della Corte. Ai sostenitori della giuria sembrerà che questo sia un argomento a favore, perché, essi affermano, è preferibile che il giudice abbia l’animo vergine e puro di impressioni. Sul tavolo del Presidente, dicevo, ci sono per lo meno tre volumi, uno che concerne i verbali di denunce, interrogatori degli imputati da parte degli ufficiali di polizia giudiziaria, di parti lese, confronti, la requisitoria del pubblico Ministero, la sentenza di rinvio a giudizio con tutti i motivi che la giustificano; nel secondo vi son le perizie, consulenze tecniche e altri atti; nel terzo tutti gli esami testimoniali in cui si verifica questo: che gli stessi testimoni sentiti dai verbalizzanti o dal giudice. depongono in modo contrastante fra loro; non solo, ma si verifica che uno stesso testimone, che davanti ai verbalizzanti in un primo interrogatorio aveva dato una versione dei fatti, davanti al magistrato ne dia un’altra in assoluto contrasto; aggiungete a ciò il contrasto esistente spesso fra perizia e perizia e perizia e consulenza tecnica. Tutta questa storia precedente del processo scritto, su cui il giudice popolare non sapeva nulla e su cui appunto non ha avuto modo di meditare, di esercitare il suo potere critico, viene rievocata rapidamente all’udienza, aggravata dalle nuove risultanze e contraddizioni e dalle arringhe dell’accusa e della difesa alla cui schermaglia dialettica il giudice popolare non è preparato cadendo nelle insidie oratorie del difensore o dell’accusatore. Aggiungete che il più delle volte egli non ha sufficiente tempo di meditare perché deve, per legge, decidere immediatamente dopo le arringhe, per cui il suo giudizio non può essere che affrettato e superficiale e quindi pieno di rischi fatali per chi è accusato di fatti, che ieri erano puniti colla morte e oggi colla perdita perpetua della libertà, dell’onore e dei beni.

Questi pericoli, di errori giudiziari fatali, sono infinitamente minori col giudice togato; col giudice cioè che ha consacrato la sua giovinezza agli studi nel campo specifico del diritto sostanziale e processuale, di criminologia, di psicologia giudiziaria e che ha soprattutto un enorme vantaggio sul giudice popolare: l’esperienza della continua pratica. Egli vede sfilare quotidianamente davanti a lui imputati dalla fronte aggravata dalle colpe, o col volto tranquillo dell’innocenza insidiata ma in cui brilla la fiamma della speranza nella giustizia, o altri, delinquenti incalliti nel delitto, che ostentano una sicurezza che l’acuta indagine del magistrato sconcerta; così passano davanti a lui schiere di testimoni veridici o falsi le cui deposizioni meno facilmente che il giudice popolare possono sorprendere o ingannare il giudice togato. E questo che è vero per i reati comuni è maggiormente vero per i reati politici per i quali il giudice popolare è ancor meno adatto. Non facciamo qui della demagogia ed esaminiamo freddamente quanto del resto l’esperienza recente nostra e straniera ci conferma. Supponiamo – facciamo un caso pratico – una giuria in cui la maggior parte dei suoi componenti sia di un colore politico opposto a quello dell’imputato che è chiamato a rispondere. Quell’imputato tremerà al cospetto di quella giuria perché non lo assisterà la coscienza della sua innocenza, di aver legittimamente agito, perché sa che su quei giudici più che l’imperativo della giustizia impera la faziosità, perché in quel processo sarà in gioco il prestigio stesso di un determinato partito politico. (Interruzione del deputato Macrelli).

Io mi richiamo ad esperienze recenti, caro Macrelli, esperienze nostre e non nostre.

MALTAGLIATI. E i tribunali speciali?

MURGIA. Noi li condanniamo, perché, come ho detto altra volta, sono la particolarità del vostro settore; una giuria popolare, infatti, si trasforma generalmente, nel caso di reati politici, proprio in tribunale speciale. Dobbiamo pensare che un giudice popolare può ricevere influenze dall’esterno – ed è ingenuo pensare che di fronte a delitti enormi, che comportano talvolta la responsabilità di un partito, non si facciano mille tentativi, non si cerchino di usare tutti i mezzi dalle lusinghe alle minacce come, ripeto, la esperienza dei tempi recenti ha dimostrato. Ma io dico che al di fuori delle pressioni esterne il giudice popolare trova un divieto interno, a fare obiettivamente giustizia, trova un divieto nella sua concezione etica della giustizia assolutamente soggettiva. Il giudice popolare che appartiene a una determinata corrente politica, che ritiene l’attuale ordine giuridico espressione della classe dominante, giudica questo ingiusto e ne trae la conclusione tutta rivoluzionaria che la violenza è lecita per cancellare quello che egli ritiene un ordine costituzionale, giuridico ingiusto. E se ha in privato una tale concezione non dobbiamo pensare che se ne svesta o la oblii quando siede per ufficio, giudice del suo avversario politico in Corte d’assise. Mentre, invece, per il giudice togato vi è l’applicazione della legge positiva, ed egli una volta stabilito il fatto, ne trae la conclusione rigorosa…

Una voce. Pure se ne sono fatti processi in altro modo!

MURGIA. Sta bene; ma sono stati fatti da giudici faziosi, cioè politici, e non da giudici togati; e che costituivano tribunali speciali corrispondenti pressappoco ai tribunali del popolo o a queste specie di giurie.

Quindi, riprendendo, onorevoli colleghi, dicevo questo: la concezione della giustizia per certa gente non si identifica colla legge: la legge è l’espressione del partito che ha vinto, che ha imposto il suo credo politico e ne esige il rispetto colla forza. Ciò che al giudice popolare, convinto di tale ingiustizia, consente – dato che egli non motiva e non si attiene alla legge – di commettere ogni arbitrio. Egli, appunto perché non motiva, è non solo giudice ma anche legislatore. Il giudice popolare può dire: «per me quell’imputato non ha ucciso in condizioni di legittima difesa, quindi non è meritevole di nessun beneficio e sia sterminato». Se, invece, la maggioranza della giuria sarà dello stesso colore politico dell’imputato che ha ucciso un avversario politico, egli incederà spavaldo in udienza, con la sicurezza che i suoi stessi giudici gli faranno scudo, irriderà alla giustizia e uscirà con clamore di trombe come un trionfatore.

Non lasciamoci influenzare da considerazioni politiche. In tutte le professioni, in tutti i rami dell’attività umana si esige una particolare preparazione; si esige per l’ingegnere, si esige per il medico, si esige per il giudice che deve applicare la legge e decidere della sorte di un cittadino.

Ma, ripeto, il motivo formidabile che da solo legittima la soppressione dell’istituto della giuria è quello di istituire il rimedio dell’appello.

Per non ammettere l’appello, per non ritenerlo necessario bisognerebbe che fosse vero che il popolo – che si vuole simboleggiato nella giuria – fosse, in questa materia, infallibile, che la giuria fosse una specie di consesso di numi immuni dall’errore, dalla frode, da tutte le fragilità e debolezze di cui è impastata l’umana natura.

Ma se qualcuno vi fosse che avesse questa illusione, io rievocherei in contrario, tutta la tragica statistica di uomini mandati alla morte dalla giuria popolare o di altri spentisi nel buio e nella solitudine degli ergastoli. Questi uomini furono poi – riconosciuta luminosamente la loro innocenza o per successive confessioni dei veri colpevoli o per altre prove sicure – riabilitati alla memoria ma non restituiti alle loro famiglie e alla vita. Quelle sentenze non si poterono riformale appunto perché non esisteva il rimedio, la possibilità dell’appello.

Sia questo, dunque, o colleghi, il momento di cancellare questa ingiustizia, sia un impegno d’onore della nostra Assemblea di scolpire il principio in questa Carta costituzionale che contro tutte le sentenze penali che infliggono pene detentive, comprese quelle della Corte d’assise, sia istituito il giudizio di appello.

Alcuni sostengono che questa non sia materia costituzionale e che perciò bisogna soprassedere e rimandarla al legislatore ordinario. L’amico Macrelli, a metà della sua bella orazione, ha dimostrato citando tutte le più illustri costituzioni straniere che questa è tipicamente materia costituzionale. Badate: o noi non abbiamo idee chiare su questo argomento e sarebbe molto grave per noi legislatori o le abbiamo e allora bisogna scolpire ora tale principio. Perché diversamente il legislatore ordinario potrebbe non sentirsi obbligato a istituirlo. Ciò è tanto più opportuno giacché tutti gli oratori che ho udito si son mostrati d’accordo perché sia istituito. In questo modo comincerà subito a diminuire il numero delle ingiustizie e degli errori giudiziari.

Si è detto che il motivo principale per cui il magistrato non sarebbe indicato per giudicare di determinati reati è quello che egli rappresenta una casta chiusa, reazionaria, insensibile alla evoluzione della società, sorda ad ogni nuova esigenza politica: È anche questo uno dei soliti luoghi comuni. Chi sono i magistrati, da quali ambienti, da quali ceti provengono? Sono quasi tutti figli di modesti impiegati, di piccoli possidenti, di gente che lungi dal conoscer gli agi della vita ne conosce le lotte, le angustie e i bisogni ammantati da un dignitoso decoro e appunto perciò più sensibili agli intimi comandi della evoluzione e del progresso e della giustizia sociale.

Anzi, a questo proposito, i colleghi qua presenti che esercitano la professione forense mi devono dare atto di questa verità: che i giudici più reazionari, specialmente nei reati contro la proprietà, sono proprio i giudici popolari mentre il giudice togato tortura molte volte la legge al fine di trovare una attenuante o dimenticare una aggravante per infliggere una pena più mite.

LUCIFERO. E che vorrebbe assolvere.

MURGIA. Assolvere no, ma condannare ad una pena equa, dove appunto sta la giustizia.

Detto questo io tratto del problema dell’indipendenza economica dei magistrati per i quali ho proposto il seguente emendamento: «Norme speciali regoleranno il trattamento economico dei magistrati». Lo ho formulato in questi termini e non in termini generici di autonomia economica dei magistrati come altri colleghi han fatto, perché solo nel modo da me proposto essi possono e devono essere svincolati dalla categoria degli altri impiegati statali ai fini del trattamento economico. Senza questo la elevata e decorosa funzione del magistrato che deve stare al vertice di tutta la vita pubblica non sarà sufficientemente garantita per quanto i nostri magistrati abbian data sempre una prova splendida di integrità.

Ed ora mi avvio rapidamente ad illustrare l’ultimo emendamento da me proposto per la difesa degli imputati, parti lese, attori e convenuti poveri.

Gli avvocati fanno del loro meglio; vi sono di quelli che si prodigano oltre misura e con lodevole zelo. Ciò avviene o per quelli che hanno maggiori possibilità economiche o per i giovani spronati dall’ambizione di farsi luce. Ma dobbiamo riconoscere che in molti casi l’opera dei patrocinatori è modesta per non dire scarsa, con quale conseguenza degli interessi che si tutelano è facile comprendere. Perciò io propongo che venga costituita una Cassa speciale che sia di stimolo e per lo meno di parziale interesse dei patrocinatori che devono difendere gli interessi di questa povera gente.

Detto questo onorevoli colleghi io finisco; finisco colla ferma speranza che venga istituito il giudizio di appello e con esso siano evitati per sempre alla società gli errori funesti che ho rievocato. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Sardiello. Ne ha facoltà.

SARDIELLO. Onorevoli colleghi, non recherò più fiori né di gioia né di pianto, né rose né crisantemi, alla indipendenza della Magistratura. È un’idea ormai matura, una conquista che deve avviarsi ad una sempre più concreta, definitiva realizzazione.

È piuttosto da fare l’augurio che la Magistratura ne sia sempre degna e capace di consolidare così l’idea, la sua conquista nella legge e più ancora nel costume. Faccio questo augurio con trepidazione, ma non senza speranza. Con trepidazione, onorevoli colleghi, perché, senza riprendere delle accuse, soprattutto senza farne un processo, non è possibile dimenticare quanto è stato ricordato in quest’Aula: il fenomeno doloroso del ventennio fascista, che ha piegato alla imposizione dall’alto molti magistrati. Devo dire che il fenomeno non era nuovo. Forse (non farò degli esempi) qualche alto magistrato, che ebbe in mano il più drammatico processo del regime fascista, per il delitto che più commosse l’anima nazionale, servì allora il regime fascista, come aveva servito con la stessa disinvolta audacia prima di allora altri Governi. Il fascismo in questo campo dilatò, inasprì, esasperò un male già noto della vita italiana.

Venne, dopo la liberazione, lo sbandamento delle coscienze in cui precipitò il dramma politico e spirituale dell’Italia, ed abbiamo visto dei magistrati dare segni precisi di resistenza a quella che era l’aspirazione della coscienza popolare, ad una giustizia che potremmo dire storica.

Ho detto: non facciamo un processo. Cerchiamo anzi di darci del fatto una spiegazione. Forse è qui: che non sempre alla preparazione, anche elevata, culturale e professionale corrispondono una eguale ampiezza e vastità di visione ed un eguale alto senso di responsabilità politica, nel significato più largo di questa parola. Fermiamoci qui. Non diciamo, come il collega onorevole Bozzi, che la Magistratura ha piegato… come tutti. Un’affermazione del genere sciuperebbe quella considerazione particolare che noi vogliamo tributare alla Magistratura ed alla sua speciale funzione, e che esige il presupposto di particolari qualità intellettuali e morali. Resta – a conforto – il ricordo di alcuni magistrati (e piuttosto dei ranghi meno elevati), che hanno perfino sacrificato la toga, che era non solo l’orgoglio della loro vita, ma il pane per i loro figlioli…

GASPAROTTO. Il giudice Ventura a Milano ha domandato due volte l’aspettativa per non servire il regime.

SARDIELLO. Consentitemi allora che dica, accanto a questo, il nome di un calabrese: Alfredo Occhiuto. Non si dica neppure che questi atteggiamenti, come dicevo, di resistenza, siano dovuti soltanto alla imperfezione delle leggi tecniche, particolarmente dell’amnistia Togliatti, che Dio l’abbia in gloria.

Una voce a sinistra. Chi? Togliatti?

SARDIELLO. No, l’amnistia. (Ilarità).

C’è da osservare che gli errori derivati da questi difetti… tecnici sono stati tutti soltanto… in una direzione. Ma questa difesa in nome della imperfezione delle leggi apre anch’essa la via ad un’accusa, perché ci presenta il magistrato cristallizzato nelle formule, incapace di elevarsi assurgendo ad una comprensione più vasta, penetrando lo spirito della legge; espressione quindi di una mentalità che quietamente si annida il più spesso nelle alte gerarchie; mentalità superata, che dovrebbe sparire.

Onorevoli colleghi, bisogna ben apprezzare il fatto che questo disappunto per certa condotta di magistrati, prima ancora che nel corso di questa discussione, sia stato denunciato non raramente da alcuni magistrati. Ho letto con soddisfazione – quella che procurano tutte le prove di lealtà e di coraggio – in una pubblicazione di alcuni giudici del tribunale di Milano queste parole che meritano di essere ricordate:

«Mentre ci si sta battendo per ottenere in sede costituzionale il riconoscimento di potere autonomo, in sede di ordinamento giudiziario una completa indipendenza, e dagli organi di Governo il rispetto di questa indipendenza, nonché mezzi economici adeguati alla funzione di magistrato, occorre che i magistrati diano la sensibile dimostrazione di essere degni del nome che portano, della funzione che rivestono, del prestigio, della indipendenza e della considerazione che rivendicano. Bisogna invece riconoscere onestamente che oggi è la condotta di una parte non trascurabile di magistrati che costituisce il più grave intralcio al conseguimento di quelle mete».

Non conosco il giudice che ha scritto queste parole, ma sento che deve essere un giovane. E qui sboccia la speranza: guardando a tanti nobilissimi nuclei di giovani, che sono oggi nei tribunali d’Italia e mostrano quotidianamente la sensibilità viva delle necessità della vita italiana che rinasce. Questi giovani, quando invocano l’indipendenza e l’autonomia, vi dicono, nella loro coscienza profonda (e questo ci assicura), che vogliono essere indipendenti dal potere esecutivo, anche per evitare le suggestioni delle alte gerarchie, che sempre sono state quelle direttamente e più facilmente raggiunte dal potere esecutivo nelle sue deplorate interferenze; e sperano che l’autonomia porti anche questo: la fine del «carrierismo» e che i magistrati facciano veramente tutti e sempre i magistrati! Ciò che è sperabile si ottenga, se l’autonomia libererà il Ministero di grazia e giustizia da tante soverchie attività, onde ad esso bastino soltanto i suoi funzionari.

E, dunque, fra quella trepidazione e questa speranza, affermiamo il principio dell’indipendenza della Magistratura! Ma (e il progetto mi pare che abbia il segno di questa preoccupazione) il principio – com’è di tutti i principî astratti quando vengono concretati e quindi posti a contatto con le realtà attuali morali, politiche e sociali – deve sottostare ai limiti necessari.

Questa preoccupazione mi pare espressa particolarmente là dove è disegnata la formazione del Consiglio Superiore della Magistratura.

Sorsero i contrasti, si urtarono le opinioni assolute della prevalenza rilevante dei laici, e della prevalenza rilevante dei magistrati, quando pure non si chiese – come vuole l’onorevole Bellavista – che il Consiglio Superiore sia tutto dei magistrati: hortus conclusus. Il progetto si pone in mezzo fra l’una e l’altra pretesa.

L’emendamento da me presentato, sopprimendo il superfluo secondo Vicepresidente (laico), garantisce praticamente ai magistrati la maggioranza nella composizione del Consiglio Superiore. Non ho incluso nella enumerazione dei laici e dei magistrati, ai fini di questa maggioranza, il Presidente della Repubblica. Non l’ho incluso perché, dissentendo dall’opinione apprezzabilissima del mio valoroso amico onorevole Macrelli, io invece accetto con entusiasmo la norma del progetto, che assegna al Presidente della Repubblica la presidenza del Consiglio Superiore della Magistratura, convinto che, anche quando alla più alta carica dello Stato non fosse (e sia per molti anni!) un giurista della altezza luminosa di coscienza e di dottrina di Enrico De Nicola, il Capo dello Stato rappresenterebbe sempre alla Presidenza del Consiglio della Magistratura una superiore, grande idea unificatrice di tutte le forze dello Stato, che a me pare necessaria e feconda nella nuova vita italiana.

Ho proposto un altro emendamento a questo articolo: un’aggiunta all’ultima parte, là dove si parla degli elementi laici che l’Assemblea dovrà designare a comporre il Consiglio Superiore della Magistratura. Può parere bizantinismo, lo confesso, può apparire anche un fatto di difficile realizzazione pratica. Ma ho voluto, onorevoli colleghi, fermare un principio che rapidamente illustrerò.

L’aggiunta è questa: che i componenti laici, che saranno designati «metà dall’Assemblea Nazionale fuori del proprio seno», siano scelti «fra i cittadini che non abbiano direzione o rappresentanza di partiti politici».

Muove da una premessa, che occorre tenere presente: l’affermazione dell’articolo 94 secondo cui «i magistrati non possono» far parte di «partiti politici», «non possono essere iscritti a partiti politici». Si è detto da qualcuno: è una menomazione, è un’offesa ai magistrati. Non penso sia esatto. Non si inibisce infatti ai magistrati di avere e di nutrire liberamente un’idea politica. Si inibisce ai magistrati la iscrizione ai partiti politici.

Ora, onorevoli colleghi, intendiamo tutti che questa è una cosa diversa dalla libertà di un pensiero e di una fede. L’iscrizione al partito è una milizia, l’iscrizione al partito è una disciplina, e non può escludersi che la disciplina del partito politico potrebbe venire in conflitto con la disciplina spirituale del magistrato. Non dobbiamo creare simili casi di coscienza.

Devo aprir qui una breve parentesi: devo ricordare un altro emendamento, da me proposto, all’articolo 94. All’ultimo capoverso, che vieta ai magistrati l’iscrizione ai partiti politici, aggiungo il divieto di accettare «cariche ed uffici pubblici elettivi».

Guardate, onorevoli colleghi: il giorno in cui allontaniamo dalla vita politica militante i magistrati togliendo ad essi il tesserino del partito dal portafoglio, non possiamo consentire che entrino per altre vie nella lotta rovente dei contrasti per la conquista di una carica pubblica. O accettiamo in pieno il principio o no. Altrimenti autorizzeremmo quella brutta cosa, forse la più brutta cosa nel campo morale ereditata dai recenti anni passati: il doppio gioco.

E così – chiudendo la parentesi e tornando all’emendamento sull’articolo 97 – intendete, o colleghi, che se per principio il magistrato deve essere estraneo alla politica militante, la mia proposta (con valore di indirizzo, di orientamento, con forza di legge: come volete) sia da accogliere. Dica l’Assemblea che, se i magistrati non devono andare alla politica militante, la politica militante non deve andare ai magistrati.

I magistrati intenderanno che queste preoccupazioni non suonano menomazione e tanto meno offesa; intenderanno che, per questa via, si vuole garantire ad essi una migliore condizione per l’esercizio della loro altissima – funzione di tutori e garanti dell’integrità dei diritti di tutti i cittadini. Non ne soffriranno i magistrati, specie se nello stesso tempo, in tutte le forme, sapremo dare ad essi la prova del riconoscimento dell’altezza e della nobiltà della loro funzione.

Discendiamo (il salto può parere precipitoso, ma non è) da questi vertici ideali a talune concrete considerazioni. Non c’entra, lo so, l’argomento cui sto per accennare col progetto di Costituzione; ma se ne è parlato, e non è male dunque che le idee ventilate suscitino il pensiero esplicito di tutti.

Lo Stato avverta il dovere di garantire al magistrato la indipendenza economica!

Mi scriveva recentemente un valoroso magistrato: «noi non vogliamo il trattamento dei giudici della Gran Bretagna, ma non vogliamo neppure quello dei giudici dell’Islam». Io concreto quella aspirazione in questo concetto: la condizione economica del magistrato deve essere tale che sia base e strumento per la elevazione intellettuale e sociale del giudice ed anche la espressione piena, direi il simbolo, della valutazione che lo Stato fa della funzione della giustizia.

Onorevoli colleghi, il progetto di Costituzione pone il magistrato ad un’altezza superba: tra la legge e la coscienza. Se, a questa altezza, lo condannassimo ancora, come oggi, alla battaglia quotidiana con le più essenziali necessità della vita, le enunciazioni fastose contenute nell’articolo 94 non sarebbero che una deplorevole irrisione!

Quando avremo, in tutti i modi possibili, con ogni forza, elevato moralmente e materialmente la Magistratura, nella sua libertà, nella austerità della legge, nella luce della coscienza, ed allora potremo allargare pure le file, aprire le porte alle donne.

Si è insorti contro l’ammissione delle donne nella Magistratura. Consentitemi, onorevoli colleghi, che io non condivida l’apprensione. Questi allarmi apocalittici mi riportano alla mente certi antichi versi stecchettiani contro quelli che lamentavano non so più che innovazioni letterarie: «Vennero i Goti, i Visigoti e il resto; e dopo tutto questo, che cosa venne poi? Venne il Manzoni».

Sono preoccupazioni non nuove; le abbiamo udite, le stesse, quando è sorta la questione della iscrizione della donna all’albo degli avvocati. Ogni avvocato si vide la toga strappata di dosso, perché passasse sugli omeri più gentili di una collega. Ma sono venute le donne avvocato, pochine invero, e non abbiamo sofferto di vederle impegnate quasi esclusivamente in curatele, in attribuzioni confacenti alla loro indole. E si è fatto rumore anche per la donna deputato, e sono venute le egregie colleghe, pochine o poche, ma le abbiamo ascoltate con interesse a proposito di argomenti al loro spirito tanto vicini: problemi scolastici, educativi.

Nessun allarme. La realtà della vita lima gli eccessi. Verranno così anche le donne giudici, e non mi dispiacerà di vederne qualcuna in un tribunale per minorenni.

Mi meraviglia l’emendamento proposto da una collega, la collega Federici, che si fa banditrice dell’esclusione delle donne.

FEDERICI MARIA. No. Il mio emendamento propone di sopprimere le limitazioni, non di espellere le donne dalla Magistratura.

SARDIELLO. Leggo qui una proposta pura e semplice di soppressione dell’articolo 98 e devo pensare che abbia quel significato. Comunque prendo atto della rettifica.

Onorevoli colleghi, quello che preoccupa nella funzione del giudicare non è, come si è detto da qualche collega avversario delle donne (delle donne giudici, si intende), il particolare temperamento psichico. Il pericolo più grave della funzione del giudicare è un altro, ed è l’ignoranza. Ed all’ignoranza, onorevoli colleghi, l’articolo 96 apre invece ufficialmente le porte.

Io non aggiungerei altro a quello che è stato detto. Mi induce ad insistere la passione antica di questo problema, e l’opinione già sostenuta in riviste e giornali giuridici, per cui un collega mi ha detto: «La tua opinione non conta qua dentro, perché sei già compromesso». Evidentemente una celia: l’opinione vale invece di più, perché è l’opinione di quando la giuria era in auge, di quando il fascismo l’ha poi trasformata e deformata. Ora si parla della sua resurrezione. Il problema è antico, ma è caratteristico che sempre, ed anche ora in quest’Aula, nelle parole già ascoltate dei sostenitori della giuria, alla lode si accompagni sempre la critica. Una lode incondizionata non è mai venuta. Mi piace di risalire in questo campo (che, come tanti altri, ha dato all’Italia primati incontestabili) alle nostre sperienze, anziché a voci di maestri inglesi o francesi, che possiamo ammirare per la nostra soddisfazione intellettuale, ma che sono alquanto lontani dalla nostra realtà di vita; e mi consentirete perciò di ricordare le parole di un grandissimo sostenitore della giuria: Enrico Pessina, il quale, nel 1898, in un famoso discorso non poteva fare a meno di dire: «Il giurì è un lato solo e parziale della coscienza del Paese, è la coscienza volgare del Paese, ma non è tutta la coscienza del Paese; esso è la coscienza del Paese moncata di uno dei lati più importanti, cioè della coscienza riflessi guidata dall’arte critica».

Ed Enrico Pessina, proponendosi di perfezionare il giurì, sapete a che cosa pensava e che cosa proponeva? Lo scabinato. Oggi un’eco – lontana lontana, si capisce – dell’alta parola e del profondo pensiero di Enrico Pessina mi pare di cogliere nella relazione – allegato 5 – sulla procedura per i reati di competenza della Corte di assise, presentata dal Ministro della giustizia il 12 dicembre 1946, là dove si legge che «i giurati sono in grado di emettere un giudizio di responsabilità solo a condizione che questo non coinvolga la necessità di risolvere delicate questioni di carattere tecnico».

E mi domando: quale è il giudizio che non imponga di risolvere questioni di carattere tecnico?

Pensate a quella terza domanda del famoso questionario della Corte di assise: «È colpevole l’imputato?» che involgeva tutta una valutazione di elementi tecnici e scientifici intorno al criterio della responsabilità. Come l’affidate alla giuria, dopo questa premessa che è nella vostra relazione?

Bisogna anche dire che argomenti nuovi a favore della giuria non ve ne sono. Tra quelli addotti, il più perspicuo è ancora quello del discorso dell’onorevole Togliatti nella tornata dell’11 marzo 1947, in sede di discussione generale sulla Costituzione, cioè: «Quando ad un cittadino togliete dieci, venti anni della sua vita (e allora perché non anche quando gli togliamo soltanto due o tre anni o quando gli togliamo soltanto la possibilità di trovar lavoro per una assoluzione dubitativa?…) e quando lo mandate al giudizio, o condannate per delitto politico, egli ha diritto al giudizio dei suoi pari»…

L’onorevole Togliatti anche questa volta… viene da lontano. Il concetto della parità a fondamento della giuria non è nuovo ed ha avuto quasi cento anni fa l’alta e solenne risposta di un grande giurista italiano: il Pisanelli, che scriveva così: «Fallace è da reputare l’opinione di coloro che, ponendo come fondamento del giurì l’idea della parità di condizione tra giudicabile e giudicante, da quella credono pure ne sia informata la sua indole».

Questo diceva Pisanelli quasi cento anni addietro; oggi direbbe che quel criterio della parità ha meno ragione di allora di essere preso in considerazione, perché quella parità avvisata come necessaria, quella che è pensabile tra il giudicabile e il giudicante, quella parità può dirsi ormai fissata nella nostra civiltà in principî di eguaglianza di diritti e di doveri di tutti i cittadini, in una concezione che non può e non deve spezzettarsi in distinzioni per classi o categorie esclusive, ma che, nello Stato democratico, deve pervadere tutta la vita, ed a cui non può certamente sottrarsi neanche il magistrato togato.

Ho presentato questo emendamento all’articolo 96 e non credo che alcuno possa pensarlo in contradizione con quanto ho detto sin ora: «Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria, nei processi per reati politici».

Una voce a sinistra. Questa è materia di Codice di procedura penale, non di Costituzione!

SARDIELLO. Possiamo essere di accordo; ma, fino a quando nel progetto di Costituzione rimane inserito l’articolo 96, ho il diritto di dire che, se deve risorgere la giuria, la sua funzione deve essere, a mio giudizio, limitata e condizionata come ho detto. Se nel progetto non vi fosse l’articolo 96, non verrei a recitare queste proposte all’Assemblea.

Quindi, propongo la limitazione della competenza dell’Assise ai reati politici. Il perché è intuitivo: il reato politico ha una caratteristica sua, e sia l’elemento psichico come la natura del bene giuridico tutelato dalla norma sono in esso elementi vistosi, prevalenti, quasi sempre assorbenti e danno al fatto da giudicare caratteristiche tali che, più del giudizio tecnico, si confà ad esso quello che viene dalla coscienza spontanea del popolo. Inoltre, esso è espressione quasi sempre di una corrente formata o che si va manifestando tra il popolo, e perciò posso allora intendere che sia il popolo il più idoneo a giudicare sulla responsabilità di quell’imputato.

Non penso di disegnare un conflitto permanente tra politica e giustizia.

MASTINO PIETRO. Ma l’imputabilità non entra in discussione lo stesso?

SARDIELLO. Certamente; ma ho messo apposta in rilievo le caratteristiche particolari nelle quali, direi, sfuma il giudizio tecnico giuridico anche su quella questione. V’è, insomma, una barriera che differenzia il reato comune dal reato politico. L’interruzione dell’egregio collega mi riporta alla mente il ricordo del pensiero di Francesco Carrara, il quale, giunto all’ultima pagina del suo immortale «Programma», quando avrebbe dovuto affrontare la trattazione del reato politico, vi rinunciava, non ritrovando i principî assoluti di cui il concetto giuridico penale ha bisogno, e diceva press’a poco così: se in teoria la politica impone il silenzio al giurista, nella realizzazione pratica, di fronte al reato politico, il giurista si ritira sotto la tenda. E questa differenza rimane e dà qualche luce alla distinzione che io faccio con la mia proposta di emendamento all’articolo 96.

E finirei. Ma ho bisogno, signori, ancora di un momento solo per liberarmi di una preoccupazione. Non vorrei che vi fossero sottintesi: eliminata la giuria, non vorrei che si riaffacciasse – o, purtroppo, restasse – lo scabinato. (Approvazioni). Su questo punto lo penso che non vi debbano essere divisioni.

Il giudizio… coloniale ha dato in Italia delle prove troppo note, troppo deplorate e troppo recenti perché sia necessario ricordarle ed illustrarle.

Lo scabinato riassume i difetti del giudizio della magistratura togata e di quello popolare. (Approvazioni). Il suo prodotto più espressivo è stato quello delle «sentenze suicide», vergogna della giustizia. E allora, onorevoli colleghi, che cosà faremo?

Noi veniamo da una duplice esperienza: l’esperienza della giuria che io non penso si possa rievocare con la visione rosea che animava le dolci parole del collega onorevole Persico, quando, rivolto a Giovanni Porzio, l’uomo dalle cento battaglie vittoriose davanti alla giuria, diceva: lei ha vinto sempre e con lei ha vinto sempre la giustizia.

Fuori dalla fiera delle infatuazioni: l’ora e l’argomento impongono la più grande responsabilità.

Noi veniamo dall’esperienza della giuria, la quale ha ricordi di successi e di esaltazioni per ciascuno di quanti avvocati siamo da qualche decennio oltre il mezzo del nostro cammino (e questo ci valga il riconoscimento della nostra probità, se avversiamo quello istituto!) ma ha pure ricordi di verdetti deprecati, che furono lutti della giustizia.

Ma veniamo anche dall’esperienza amara del collegio misto. Ora, sia chiaro che, se non vogliamo il volto della giuria, non ne vogliamo neppure la maschera, regalataci dal fascismo.

E allora la soluzione è in una verità profondamente umana: ogni giudizio è viziato dall’errore; in ogni giudizio umano v’è per lo meno la possibilità dell’errore. Quale rimedio contro questa eventualità? La nostra civiltà giuridica non ne conosce che uno: l’appello, il quale approfondisce il giudizio ed avvicina sempre più la pronunzia definitiva alla verità ed alla giustizia.

La giuria, l’assessorato, la stessa Corte criminale, vietano tradizionalmente la possibilità del secondo grado di giurisdizione. In una dotta relazione intorno alla riforma dei Codici elaborata dalla rappresentanza del nobile foro di Catanzaro rappresentato dall’illustre nostro collega onorevole Turco, ho letto la proposta di una Corte criminale con secondo grado di giurisdizione. Ma non mi pare che questo sia realizzabile.

E allora non v’è che una via: assegnare tutti i giudizi al magistrato ordinario consentendo per tutti il giudizio di appello. Si vedrà più tardi come dovranno essere composte le speciali sezioni dei Tribunali. Ma il principio generale – e soltanto questo ora qui disegniamo – non può essere altro. Né vedo come possano sorgere preoccupazioni. Devo dire che resto come sorpreso e perplesso quando vedo tanti valorosi colleghi derivare le loro preoccupazioni sulla opportunità di investire di tutti i giudizi i magistrati dal numero degli anni di reclusione da irrogare all’imputato. Ma non è dunque vero che, a volte, due anni di reclusione possono avere più gravi e dolorose conseguenze che non, in altri casi, quindici o venti per lo sciagurato al quale sono irrogati? Ma che dico? V’è qualche cosa che pare un niente: la formula di assoluzione, pure basta questo talvolta a precludere la via dell’avvenire ad un giovane, ad allontanare per sempre dal suo lavoro un uomo che vive del lavoro soltanto. Deve anche allora il giudice esser capace di sentire il peso di una grande responsabilità? Nessuno vorrà negarlo.

Il dramma – si potrebbe dir la tragedia – è qui, o signori: il giudice che non sia, sempre e dovunque, intellettualmente e spiritualmente preparato alla sua alta funzione. E questo addita l’obiettivo cui dobbiamo mirare. Quando avremo sempre e dovunque il magistrato moralmente, spiritualmente ed intellettualmente preparato, potremo, dovremo affidare ad esso la risoluzione di tutte le controversie.

Questa la meta cui dobbiamo mirare ora, apprestando la Costituzione e segnando l’indirizzo al legislatore di domani. Il fiore della Magistratura italiana sarà con noi. Così come ho impreso a parlare, con un augurio concludo: che la Magistratura e tutti gli italiani intendano il grande significato del fatto che qui, dove – in bassi dì – vennero esaltate – presidio degli interessi nazionali – le squadre armate e le milizie di parte, i rappresentanti del popolo, nella prima Assemblea della Repubblica italiana, affidano alla legge ed ai magistrati, che dalla legge soltanto dipendono, la tutela dei diritti di tutti i cittadini nella nuova vita italiana. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 12.55.