ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCLXXXIX.
SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Caccuri
Candela
Scalfaro
Gullo Fausto
Interrogazioni con richiesta d’urgenza (Annunzio):
Presidente
Scelba, Ministro dell’interno
Pajetta Gian Carlo
Sansone
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.
BINNI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta pomeridiana.
(È approvato).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l’onorevole Caccuri. Ne ha facoltà.
CACCURI. Onorevoli colleghi, nel momento in cui si discute e sta per decidersi della posizione costituzionale del potere giudiziario, io vorrei che fosse più vigile che mai il senso di responsabilità di tutti i componenti di questa Assemblea Costituente. Trattasi, invero, come vi è noto, di uno dei più gravi e delicati problemi, di un problema vecchio ma sempre nuovo, che non interessa soltanto – come a prima vista potrebbe sembrare – quanti fanno parte dell’amministrazione della giustizia, ma riguarda la Nazione intera, poiché, ben è stato detto, tocca le fondamenta e l’essenza stessa dello Stato democratico, che non può avere ordinato assetto se il potere giudiziario non è posto in grado di custodire liberamente le leggi e di impedire in ogni caso la violazione di esse.
È per questo che, non solo i magistrati, ma la parte più sana del popolo italiano guardano in questo momento con particolare interesse ai lavori di questa nostra Costituente, sicuri che in un risorto clima di libertà democratica sarà finalmente attuata quella riforma che da un quarto di secolo si attende, quella riforma, cioè, diretta ad assicurare la vera indipendenza della Magistratura, indipendenza imposta più che dal prestigio dei magistrati, dal diritto del popolo italiano a vivere in un regime di libertà e di giustizia.
Il progetto di Costituzione, al riguardo, in verità ha deluso: ha deluso poiché, pur affermando magnifici principî, ha trovato modo di far rientrare dalla finestra quella possibilità di ingerenze politiche che pur aveva cacciato dalla porta, e contiene delle proposte che infirmano in pieno i presupposti di un ordine giudiziario distinto: l’autonomia dei giudici e la unicità della giurisdizione. Esaminerò brevemente questi due elementi di indipendenza del potere giudiziario. L’unicità di giurisdizione, oltre che garanzia di libertà democratica, è strettamente connessa, a mio parere, con l’autonomia del potere giudiziario, poiché è ovvio che tale posizione di autonomia è indubbiamente scossa se si ammette che un altro potere, l’esecutivo o il legislativo, possa sottrarre ad esso una serie di rapporti istituzionalmente appartenenti alla Magistratura ordinaria. Creare giurisdizioni speciali, infatti, significa limitare il potere giudiziario, significa comprimere la sua autonomia, significa infirmare il concetto essenzialmente unitario della potestà sovrana di amministrare giustizia, poiché se fosse in linea di principio consentito al Governo o alle Camere di creare, senza limiti, organi speciali di giurisdizione, potrebbe ben essere sottratta alla Magistratura anche tutta o buona parte della materia ad essa demandata, svuotando così praticamente di contenuto la funzione del potere giudiziario e togliendo per conseguenza ai cittadini la garanzia di tutela dei loro diritti.
Né vanno taciuti i gravi inconvenienti che la molteplicità delle giurisdizioni porta con sé, inconvenienti che infirmano la certezza stessa del diritto, tanto necessaria alla pace sociale; inconvenienti che vanno dai conflitti di competenza alla contraddittorietà delle decisioni, all’incertezza in ordine al giudice stesso da adire, giacché è noto che col frazionamento del potere giudiziario riesce talvolta difficile agli stessi tecnici determinare con precisione la sfera di competenza degli organi speciali. Ma, è stato osservato che il giudice togato non ha la capacità per decidere su certe materie; e peraltro le giurisdizioni speciali, si è detto, sono legittimate dalla necessità di sottrarre determinati rapporti ai rigori del diritto codificato, ai quali i giudici ordinari sono naturalmente fedeli, per affidarli al giudizio di tecnici più aderenti ad eccezionali e a nuove esigenze sociali.
A dimostrare infondata la prima asserzione, non c’è in verità da spendere parole, tanto evidente appare la capacità del magistrato ad acquistare, più di un qualsiasi altro cittadino che non ha né la sua esperienza, né la sua cultura, né il suo abito giuridico, la necessaria specializzazione anche in materie diverse da quelle comuni.
In ordine alla necessità, poi, di rendere flessibile l’attività giurisdizionale, va rilevato che ciò significherebbe snaturare il concetto stesso di giustizia, significherebbe volere una prestazione di giustizia pieghevole ai criteri della politica contingente, significherebbe pretendere di sostituire alla volontà normativa una arbitraria e soggettiva valutazione. Giustizia, onorevoli colleghi, vuol dire certezza giuridica, vuol dire unità e uniformità di applicazione delle leggi vigenti, in base al principio dell’uguaglianza dei cittadini rispetto ad esse. Se nuove esigenze sociali impongono la creazione di nuove norme, si provveda pure a crearle ed il giudice, siatene certi, le applicherà fedelmente, poiché egli, fedele alle leggi, non si presta all’arbitrio, ma non vuole affatto rimanere custode di un diritto allontanatosi dalla vita. L’indole di alcuni rapporti o di determinati gruppi di controversie può pur far apparire idoneo il contributo di elementi tecnici, e questi elementi, purché in numero modesto (dico modesto per evitare che attraverso l’immissione di una troppo larga massa di estranei al potere giudiziario si possa ugualmente esautorare il principio dell’unicità di giurisdizione) possono ben essere utilizzati nei collegi giudicanti; ma io penso che tale esigenza non deve essere sopravvalutata al punto da ritenere indispensabile la creazione di organi speciali invece che di sezioni specializzate degli organi ordinari.
E se è vero che alcune categorie di giudizi debbono essere sottratte a procedure lunghe e formalistiche, io ritengo che a tale necessità si potrà ovviare con l’istituzione di norme procedurali più rapide, e non con le giurisdizioni speciali, che sono sempre perniciose per la unità del diritto e per la garanzia dei cittadini. Come invece è stato realizzato nel progetto di Costituzione il principio della unità della giurisdizione? Il progetto innanzi tutto limita la competenza del potere giudiziario soltanto all’attività giurisdizionale civile e penale, esclusa quindi quella amministrativa. Ma, anche in relazione a tale limitata attività, non viene affatto sancita l’espressa abolizione dei giudici speciali attualmente esistenti e se ne prescrive invece nelle disposizioni transitorie la revisione entro cinque anni; il che importa per implicito la possibilità, almeno per quanto riguarda le giurisdizioni civili, di conferma da parte del potere legislativo con le modalità di cui all’articolo 95, quinto comma. E quando, poi, si tiene presente che con le stesse modalità, con la maggioranza cioè assoluta delle Camere possono essere creati ad libitum nuovi giudici speciali, si comprende di leggieri quanto infirmato sia rimasto nel progetto il principio dell’unità della giurisdizione, tanto necessaria per l’effettiva tutela, come ho già detto, dei diritti dei cittadini.
Ed al riguardo degli organi speciali e della partecipazione del popolo all’attività giurisdizionale, mi corre qui l’obbligo di rilevare l’inopportunità di sancire con una norma costituzionale l’istituto della giuria nel procedimento di Corte d’assise, come è stato stabilito nell’articolo 96 del progetto.
Non starò qui ad esporre nei dettagli i numerosi difetti dell’istituto della giuria, che lo stesso Carrara accusò del vizio radicale di sostituire l’urna della giustizia: quei difetti che al Carmignani, quando fu istituito il giurì in Italia, fecero lasciare la toga in segno di protesta e fecero dire al Manzini essere la predetta istituzione il più radicale e rancido residuo delle idee, o filosoficamente ingenue, o settariamente demagogiche, della Rivoluzione francese e che l’esperienza ha condannato coprendolo di ridicolo.
Non starò, dicevo, ad esporre i numerosi difetti. Accennerò ai principali e più gravi, che riguardano i requisiti dei giudici, la natura della decisione che ne promana, e soprattutto la mancanza di ogni saldezza alla pietra angolare sulla quale dovrebbe poggiare l’edificio della giuria, cioè la pretesa netta separazione, nella materia del giudizio, tra il fatto ed il diritto.
Che non sia possibile in verità separare il fatto dal diritto è ormai quasi concordemente affermato dalla migliore dottrina, poiché in effetti una cognizione del fatto, separata dalla statuizione del diritto, disconosce quella intima connessione tra il giudizio storico ed il giudizio critico che è propria di ogni giudizio giuridico.
L’inseparabilità venne riconosciuta anche dallo stesso Casorati, che fu l’autore principale della legge del 1874, e che non potette non ammettere che, eliminato pure il nomen juris nelle questioni sottoposte ai giurati e tolta qualsiasi denominazione giuridica, non rimaneva meno insoluto il quesito della separazione del giudizio di demarcazione fra il fatto e il diritto.
Ma la dimostrazione più convincente si trova nelle parole di un insigne docente e magistrato, il professor Del Giudice, il quale rilevava che il giudizio dei giurati implica in ogni caso l’applicazione di una nozione giuridica astratta, il reato e le sue conseguenze, al fatto concreto, e che, soprattutto, la inseparabilità fra l’accertamento del fatto e la indagine del diritto è nel giudizio che deve promanare dai giurati sulla colpevolezza.
Il giurì non si limita, infatti, a giudicare se un fatto sia avvenuto o se l’abbia commesso l’imputato; ma giudica pure se l’imputato sia colpevole; e, ai sensi di legge, colpevole vuol dire imputabile e responsabile. Ora, come può affermarsi che il concetto di colpevolezza, il quale implica le nozioni giuridiche d’imputabilità e responsabilità, sia un elemento di puro fatto?
L’impossibilità di distinzione, poi, appare più chiara se si tengono presenti le disposizioni del nuovo Codice in ordine alle cause che escludono o che attenuano la imputabilità o la responsabilità, alle circostanze che aggravano o attenuano il reato, alle indagini sulla personalità del delinquente, sia per le pene, che per le misure di sicurezza, rispetto alle quali sarebbe assurdo ogni riferimento al puro fatto materiale.
Non è possibile adunque, dicevo, dividere il fatto dal diritto; ma anche se lo fosse, il solo buonsenso non basterebbe, come è stato sostenuto, a ben giudicare del fatto, giacché occorrerebbe un’opera critica a cui il giurato in genere non è adatto. Il giudice deve raggiungere e cogliere la verità nella realtà del fatto materiale mediante i mezzi di prova; al giurato manca invece ordinariamente il requisito primo ed elementare per penetrare la realtà, l’attenzione, nel cui cerchio deve il mondo esteriore essere compreso per entrare nella vita dello spirito. L’incompetente, dopo le prime vivaci impressioni, subito si stanca, non riesce a seguire con le debite cure lo svolgimento e le risultanze del dibattimento e giunge alla decisione con la mente annebbiata e confusa. È fuori dubbio, inoltre, che la valutazione delle prove è il risultato di una tecnica particolare che il giudice acquista solo dopo un lungo periodo di esercizio professionale; e qualsiasi trattato di psicologia giudiziaria dimostra che non basta l’intelligenza naturale, non esercitata, per valutare i risultati di un mezzo probatorio. Ma il giurato, oltre ad essere un giudice genericamente incapace ed il meno adatto a resistere alle pressioni che vengono dall’esterno, è specificamente incompetente, poiché per lo più in lui manca anche la minima conoscenza del diritto penale e delle scienze complementari, cui si deve pur far ricorso per poter dare un consapevole giudizio.
Né è vero, come qualcuno ha sostenuto, che il giurato rappresenti la coscienza del Paese. Questa, in realtà, abbraccia due momenti: l’uno dei quali è la coscienza comune, l’altro è la coscienza riflessiva (come dice il Carrara) guidata dall’arte critica.
La vera coscienza del Paese è l’unità di questi momenti, ed il verdetto, per esserne l’esatta emanazione, non può prescindere dalla parte critico-riflessiva.
Ora, se ciò era vero anche quando lo scriveva Pessina, lo è maggiormente oggi che il processo tende a divenire sempre più tecnico ed è in vigore un sistema penale che dà maggiore importanza alle condizioni personali del delinquente e che quindi richiede nel giudice una maggiore somma di cognizioni tecniche e giuridiche. Anzi, ciò renderebbe necessario che insieme ai giudici togati prendessero parte, in certi casi, all’emanazione della sentenza unica persone provviste di cognizioni scientifiche speciali, che sostituissero i consulenti tecnici, presso a poco come avviene nella Corte di appello inglese, che ha facoltà di aggregare a sé come assessori delle persone tecniche.
Mancano d’altra parte le giustificazioni politiche che potrebbero legittimare il ripristino della giuria. È risaputo invero che le ragioni dell’origine delle giurie nei diversi paesi e nei diversi momenti storici possono ricercarsi nella necessità di garantire la libertà individuale contro il prepotere regio, la ragione, cioè, unica, era quella di rappresentare una guarentigia dell’individuo contro il potere assorbente dello Stato.
È chiaro invece che per noi questa contrapposizione tra giudizio popolare e giudizio di magistrati non ha ragione di essere. Del resto, nella stessa Inghilterra, ove la giuria era sorta contro la tirannia del regime feudale, l’istituto cede sempre più terreno e da vari anni il giurì inglese, nel porre termine ai propri lavori, spesso formula finanche un voto per la propria abolizione. Taluni provvedimenti legislativi hanno poi intaccato l’essenza dell’istituzione e si hanno sintomi di una non lontana estinzione.
Col Criminal appeal act del 1907 infatti si ammise l’appello contro la sentenza di Corte di assise e si conferì alla Corte di appello stessa una funzione che in parte corrisponde alla nostra Corte d’appello, in parte alla nostra Corte di cassazione. Può infatti ordinare la produzione di documenti, sentire testimoni, ordinare nuove prove, e l’ultimo giudizio viene affidato non più al giudice popolare, ma al magistrato.
Altre disposizioni, sia col Criminal justicial act del 1925, sia con la legge del 1° settembre 1939, riducono il numero dei giurati, facendo perdere alla giuria la sua caratteristica e la sua finalità, dimostrando sempre più che l’istituto non più sodisfa la pubblica opinione.
Sarebbe pertanto veramente strano che, mentre la giuria tende ad essere soppressa in quegli Stati che per primi l’hanno accolta, venga da noi ripristinata.
Né la legittima la concezione storico-sociale della sovranità popolare, per cui nei casi più gravi, che maggiormente turbano l’ordine pubblico e direttamente ledono gli interessi della collettività, dovrebbe essere il popolo stesso, nella persona dei giurati, per principio di democrazia, ad amministrare la giustizia; perché, invero, l’amministrazione della giustizia sia espressione di democrazia non è affatto necessario che l’esercizio delle funzioni relative sia affidato direttamente al popolo: basta che i suoi organi traggano origine, legittimità e poteri dal popolo organizzato a Stato, in conformità alla Costituzione democratica dal popolo stesso voluta e determinata. Una volta predisposti tali organi, essi nell’esplicare le rispettive funzioni attuano indubbiamente la volontà popolare.
Se, quindi, in regime di democrazia costituzionale anche i giudici togati sono organi di designazione del popolo, il problema della giuria non è un problema di democrazia, ma un problema di giustizia, cioè di idoneità all’attuazione del massimo di giustizia. Ed allora questo problema non può che essere risolto a favore dei giudici togati, perché essi amministrano la giustizia non ex occasione, senza alcuna preparazione, ma come munus publicum, di carattere continuativo e scientifico e sono quindi preparati per l’esplicazione delle mansioni loro affidate.
Criterio preferenziale questo che dovrebbe essere tenuto fermo anche se per ipotesi il problema della giuria fosse il solo idoneo ad attuare l’idea democratica, poiché, come bene è stato rilevato da un illustre magistrato (il Jannitti Piromallo), se nella disciplina del processo penale e, del resto, di ogni altro processo, la determinazione dell’organo decidente dovesse dipendere dalla scelta fra la giustizia e la democrazia, questa dovrebbe essere sacrificata a quella e non viceversa. Alcuni hanno osservato che attraverso la giuria si può portare nel giudizio il senso dell’equità e si può quindi assicurare una migliore giustizia nel caso concreto. Senonché va rilevato innanzi tutto che introdurre indirettamente, attraverso la giuria, nel giudizio penale l’equità (la quale come fonte autonoma di norma non ha una sfera di applicazione nel campo penalistico) sarebbe contrario alle leggi, perché verrebbe meno la certezza del diritto, se si consentisse al giudice, e fra l’altro al giudice meno preparato, di ribellarsi alla norma codificata.
Ma se si potesse ammettere un correttivo alla legge mediante l’equità, indubbiamente le migliori garanzie per la determinazione della norma equa non potrebbe che offrirle il giudice togato.
In materia amministrativa il progetto, in contrasto con l’aspirazione dei più insigni giuristi italiani, consacra nella Costituzione una giurisdizione speciale che ha per proprî organi non solo il Consiglio di Stato e la Corte dei conti, ma tutti gli altri giudici speciali esistenti e quanti altri il potere legislativo e quello esecutivo per delega volessero creare. Tale sistema, a parte gli inconvenienti pratici che verrebbe a perpetuare sulla incertezza del diritto, sulla competenza del giudice e sulla imparzialità dei giudici, è in contrasto col concetto stesso di democrazia, secondo cui la legge dev’essere posta nell’interesse generale ed ogni giudizio di legittimità non può che spettare agli organi del potere giudiziario naturalmente preposto all’applicazione della legge in ogni caso di controversia.
Né ad una critica obiettiva può sfuggire lo stesso organo costituzionale a carattere generale, che pur ha raccolto le maggiori benemerenze nel campo della giustizia amministrativa, il Consiglio di Stato, le cui funzioni miste politico-giudiziarie ed il cui carattere originario di organo di fiducia delle pubbliche amministrazioni, adombrano le decisioni, anche le più giuste, di sospetto, come quelle che emanano da un giudice di parte.
Ritengo perciò che le sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato dovrebbero essere assorbite in una magistratura ordinaria specializzata, col vantaggio così di offrire al cittadino la garanzia del doppio grado di giurisdizione in ogni controversia, oltre al sindacato supremo della Corte di cassazione. Anche la certezza del diritto indubbiamente molto ne guadagnerebbe, poiché sono a tutti note fra l’altro le difficoltà che oggi sorgono per distinguere la giurisdizione su diritti dalla giurisdizione su interessi, la giurisdizione di legittimità dalla giurisdizione di merito.
Tuttavia, però, se per ragioni ambientali o per particolari esigenze di politica legislativa si volesse conservare la giurisdizione speciale del Consiglio di Stato e della Corte dei conti (in ogni caso dovrebbe rigorosamente stabilirsi il divieto di creare nuove giurisdizioni speciali e trasformare quelle esistenti in sezioni specializzate della giurisdizione ordinaria), tuttavia, dicevo, se per particolari ragioni si vuol conservare la giurisdizione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, è necessario che la materia propria di tali organi costituzionali sia limitata alla tutela degli interessi legittimi. Esclusa perciò la competenza esclusiva e restituite alla giurisdizione ordinaria le controversie di puro diritto oggi attribuite al Consiglio di Stato, va mantenuta integra la distinzione fra giurisdizione di interessi e giurisdizione di diritti, lasciando la prima agli organi giurisdizionali amministrativi e l’altra ai giudici ordinari.
Per quanto poi particolarmente concerne la posizione del Consiglio di Stato, le sezioni giurisdizionali dello stesso dovrebbero comunque staccarsi da quelle consultive e formare un separato tribunale amministrativo i cui membri però non dovrebbero essere nominati ad libitum dal potere esecutivo. Poco opportuna e proficua invece appare la separazione fra le funzioni giurisdizionali ed amministrative della Corte dei conti, se si tiene presente lo stretto collegamento che esiste fra le due funzioni, in quanto la funzione giurisdizionale in materia di responsabilità contabile e civile dei funzionari completa la funzione di controllo sulla gestione finanziaria dello Stato. Alla Corte di cassazione, inoltre, come suprema regolatrice di diritto, per maggiore garanzia di giustizia e per assicurare l’esatta osservanza della legge da parte di tutti i giudici dello Stato, con benefici effetti sulla stabilità dei rapporti sociali, va attribuito il controllo di legittimità su tutte le pronunzie giurisdizionali, da qualunque organo emesse, oltre la risoluzione dei conflitti di attribuzione e di giurisdizione. Sarebbe veramente inconcepibile che in uno stato di diritto la stessa norma di legge potesse essere diversamente applicata senza la possibilità di unificazione da parte di un organo supremo; tale funzione della Cassazione rivela nel contempo l’esigenza che quest’organo sia unico in tutto il territorio dello Stato. Le ipotesi infatti di incompetenza e di difetto di giurisdizione, le discordanze ed i contrasti di decisione dei giudici di merito dipendono dalla pluralità degli organi investiti di giurisdizione. È evidente pertanto la necessità che unico sia l’organo supremo cui sia demandato il compito di ristabilire la certezza obiettiva del diritto, di assicurare l’uniforme applicazione della norma in tutto il territorio della Nazione, e contenere così in un’unica forma giuridica le varie tendenze giurisprudenziali.
La pluralità delle Corti di cassazione, sempre deprecata da giuristi e da uomini politici, sarebbe oggi assurda ed un pericolo per l’unità del diritto, oggi che la nuova legislazione regionale ed il nuovo ordinamento giuridico fortemente decentrati esigono un sempre maggiore rafforzamento dell’unità di giurisdizione, almeno attraverso un organo giurisdizionale centrale unico.
Al riguardo del sindacato di legittimità della Cassazione, l’articolo 102 del progetto statuisce il ricorso per cassazione secondo le norme di legge. Quest’ultima riserva, con cui si demanda al futuro legislatore la fissazione dei limiti del ricorso, non è affatto tranquillante, poiché nulla esclude che esso possa essere limitato ai soli casi di incompetenza ed eccesso di potere, casi per cui il ricorso è sempre esistito nell’ordinamento italiano fin dalla legge 31 marzo 1887, n. 3761.
L’innovazione invece che va esplicitamente sancita nella Costituzione è il diritto al ricorso per violazione di legge, sia processuale che sostanziale.
Altro delicato problema in tema di unità del potere giudiziario è quello che riguarda il conflitto di giurisdizione. Secondo l’articolo 126 del progetto, è affidata alla Corte Costituzionale la risoluzione dei conflitti di attribuzione fra i poteri dello Stato. Ora, se il giudice speciale non appartiene al potere giudiziario, apparterrà a quello esecutivo; onde ogni conflitto fra giudice ordinario e giudice speciale si ridurrà ad un conflitto di attribuzioni, a dirimere il quale sarebbe competente la Corte Costituzionale e verrebbe così inficiato il principio dell’unità della giurisdizione anche nell’ultimo rimedio dell’intervento regolatore della Cassazione. Inoltre, la stessa dizione ambigua dell’articolo 126 farebbe pensare che alla medesima Corte Costituzionale fossero attribuiti i conflitti di attribuzione fra Pubblica Amministrazione ed autorità giudiziarie, demandati dalla legge 21 marzo 1877 (art. 1, 2 e 3) alle sezioni riunite della Cassazione; il che, mentre snaturerebbe la funzione stessa della Corte Costituzionale (la quale si dovrebbe occupare di controversie simili in questioni da cui esula la materia costituzionale), rappresenterebbe nel contempo una grave diminuzione di prestigio per l’ordine giudiziario ed insieme un attentato alla efficace tutela dei diritti dei cittadini nei confronti della Pubblica Amministrazione, la quale a suo beneplacito potrebbe rendere inerte l’autorità giudiziaria adita, per rimettere le decisioni ad un organo estraneo all’ordinaria giurisdizione. Forse i compilatori del progetto non intendevano pervenire a tale conseguenza, ma è per questo necessario fin d’ora eliminare ogni ambiguità al riguardo, per evitare ogni eventuale contrasto nel futuro.
Appare evidente pertanto, da quanto sopra ho esposto, la difettosa applicazione data dal progetto al principio dell’unità dell’attività giurisdizionale che, come ho accennato, è uno dei presupposti e delle condizioni per l’autonomia del potere legislativo.
Ma il colpo più grave all’indipendenza della Magistratura è dato dall’articolo 97. La premessa del progetto della nuova Costituzione era di realizzare un deciso progresso nel grave problema dell’autonomia dei giudici; nella conclusione, invece si è dimostrato di avere una concezione del tutto inadeguata dell’indipendenza dell’ordine giudiziario. Non è che il progetto di Costituzione in materia non abbia affermazioni magnifiche; non è che manchino disposizioni con cui l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura venga affermata. Si legge, infatti, nei diversi articoli, che la funzione giurisdizionale è espressione della sovranità della Repubblica; che i magistrati dipendono dalla legge; che non possono essere iscritti a partiti politici; che i magistrati costituiscono una organizzazione indipendente, che i magistrati sono inamovibili. È tutto un crescendo veramente rassicurante.
Senonché, quando si passa ad esaminare come si attua la proclamata autonomia e come si garantisce l’indipendenza del potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, non si può che rimanere perplessi ed avere la sensazione che tutto sia per tornare come prima e anzi, direi, peggio di prima.
Si è sempre lamentato come un pericolo per la vera indipendenza della Magistratura l’ingerenza della politica negli affari della giustizia. Si è cercato, pertanto, nel progetto, di estromettere dall’amministrazione della giustizia il potere esecutivo, perché portatore di interessi politici ed espressione di forze politiche. Senonché, in realtà, a tali interessi si è dato ugualmente ingresso ed in misura più efficiente, nel governo della Magistratura con la proposta formulazione del Consiglio Superiore.
Infatti, se il potere diretto del Ministro della giustizia è, indubbiamente, assai limitato, perché si riduce al solo esercizio dell’azione disciplinare, non altrettanto limitata rimane, invece, l’ingerenza che non può che essere politica, del potere legislativo, il quale per mezzo dei suoi designati, entra addirittura a far parte dell’organo di direzione e di governo della Magistratura.
Altro che progresso, signori, nell’autonomia dei giudici! C’è proprio da domandarsi se nell’attuazione del principio dell’indipendenza del potere giudiziario non si stia per fare addirittura un deciso e grave passo indietro!
Con la legge Togliatti, invero, restituite le prerogative tolte dal fascismo alla Magistratura, il Ministero di grazia e giustizia ben poca ingerenza politica poteva avere, una volta costituito un Consiglio Superiore composto esclusivamente da magistrati, eletto da essi stessi, presieduto dal loro capo e con la larga competenza che gli era attribuita. Quando invece si stabilisce, come nel progetto di Costituzione, che la metà dei componenti del Consiglio Superiore deve essere eletta dall’Assemblea Nazionale, si espone alla diretta influenza di elementi politici l’intera vita giudiziaria e lo stato giuridico stesso dei magistrati.
E che vale allora dichiarare i giudici soggetti soltanto alla legge, quando l’autonomia dei magistrati deve rimanere una semplice affermazione teorica, sia in relazione ad organi di altri poteri, sia nell’interna gerarchia giudiziaria? Che vale sancire il divieto per il giudice di iscrizione a partiti, se non si vogliono escludere dall’amministrazione della giustizia quelle ingerenze esterne che incidono in concreto sulla imparzialità e serietà dei pronunciati giudiziari? E perché, c’è da chiedersi, una volta ammesso il principio dell’autonomia, sul quale tutti sono d’accordo; e lo si rileva dai discorsi fatti qui da tanti colleghi, lo si rileva dai lavori preparatori; perché, se tutti sono d’accordo, perché tanta riluttanza a dettare una disciplina giuridica che valga a tradurre in realtà un principio ammesso da tutti? Perché? Per sfiducia nella Magistratura? Se tale sfiducia esiste, devo pensare che deriva o dalla mancata o dalla imperfetta conoscenza dei compiti e dell’attività della nostra Magistratura. Se tale sfiducia è di carattere tecnico organizzativo, a smentirla basta ricordare – come bene ha rilevato l’Associazione dei magistrati – che gli organi giudiziari sono stati i soli a non sospendere mai il loro funzionamento, malgrado gli eventi bellici e le crisi economiche e politiche che hanno martoriato il Paese. Basta ricordare che, con gli stessi organici del 1865, i magistrati hanno risposto soddisfacentemente alle esigenze di una popolazione raddoppiata.
Se tale sfiducia poi è di carattere politico, gli smemorati in buona fede dovrebbero pur ricordare che la Magistratura, anche se priva di ogni effettiva garanzia, ha resistito come ha potuto, con eroismi personali e grazie al senso di dignità della gran maggioranza dei suoi componenti, per 20 anni alla dittatura, mantenendo in complesso fede ad una tradizione di onestà e di indipendenza. Dovrebbero pur ricordare il glorioso contributo di sangue e l’opera preziosa data dai magistrati alla stessa lotta clandestina e dovrebbero non obliare altresì che i magistrati furono gli unici a rifiutare collettivamente il giuramento di fedeltà alla Repubblica sociale fascista. E il paradosso è, onorevoli colleghi, (e forse però questa è la prova migliore della loro dirittura) il paradosso è, che i magistrati italiani ebbero in tempi fascisti fama di antifascisti, sicché furono guardati con sospetto e spesso perseguitati dal regime. (È forse a tutti noto che lo stesso Mussolini ebbe a qualificare il Palazzo di Giustizia come il più temibile covo di antifascisti!). Mentre, dicevo, dal passato regime i magistrati furono guardati con sospetto, oggi magari non si esita a qualificarli fascisti e reazionari. È ingiusto pertanto, è ingiusto ed ingiurioso, affacciare dei dubbi sulla fedeltà del corpo giudiziario; e non si rende certo un buon servizio al consolidamento del regime repubblicano, tenendo sotto sospetto un ordine che esercita le funzioni più delicate e che, come tale, ha bisogno della massima fiducia sia dei cittadini che degli altri poteri dello Stato. Un ordine che nel diuturno travaglio della vita giudiziaria, nonostante un trattamento economico indegno, di miseria, offre continui esempi di sacrifizi, di senso altissimo del dovere, di dirittura e che ha in sé, nella sua austerità di vita, nella sua tradizione di onestà e di lealtà, nel suo equilibrio e nella sua saggezza, nella forza suggestiva della missione che esercita, gli elementi più certi di fiducia e la garanzia più sicura di illimitata fedeltà a tutte le istituzioni dello Stato. Se esistono eccezioni, queste non possono autorizzare generale sfiducia nella Magistratura, che ha sempre conservato la sua integrità morale, reagendo, fedele sempre alla legge, a tutti i tentativi di asservimento e di sopraffazione. Episodi isolati ed errori di uomini singoli non possono, comunque, pregiudicare la posizione costituzionale dell’amministrazione della giustizia, poiché gli uomini passano, ma la Costituzione rimane e l’indipendenza degli organi giudiziari non costituisce un ambizioso interesse dei magistrati, ma un interesse vitale del popolo italiano. Si è obiettato che con un Consiglio Superiore di soli magistrati verrebbe escluso ogni controllo sul potere giudiziario e ciò sarebbe pericoloso.
L’obiezione, però, non ha un serio fondamento. Innanzi tutto il controllo tra poteri non può essere che un controllo di natura politica; controllo che si spiega nei rapporti fra il legislativo e l’esecutivo, poiché questo ultimo ha un programma politico da attuare e per conseguenza, non può non essere sottoposto al sindacato di opportunità da parte del Parlamento, nel quale quel programma politico raccoglie la maggioranza dei consensi. Un siffatto controllo invece non sarebbe né necessario né possibile nei confronti del potere giudiziario, per la natura stessa dell’attività giurisdizionale, la quale si esaurisce come è noto in un processo di deduzione che non deve ammettere soluzioni di opportunità, se veramente si vuol fare scaturire dalla volontà generale la volontà della legge nel caso particolare. Data perciò la caratteristica di tale funzione, se si vuol garantire il principio fondamentale di ogni ordinata convivenza civile (la libertà individuale e la certezza del diritto) non deve essere consentito sull’attività del giudice alcun controllo tranne, s’intende, il rimedio della impugnazione davanti al giudice, investito di funzione superiore. Né il potere esecutivo, né il legislativo possono e devono avere ingerenza sull’attività giurisdizionale, poiché la giustizia deve erigersi assolutamente indipendente, purificata da qualsiasi interesse. La politica, come è stato rilevato anche durante i lavori preparatori, può fare sentire il suo influsso nelle leggi, fino al momento cioè in cui si trasforma in norma giuridica, ma una volta creato il diritto, la politica deve fermarsi e non può esercitare controllo e direttive sui giudici, che devono interpretare il diritto per quello che è, e non per quello che poteva o doveva essere.
Perché il potere giudiziario dunque sia autonomo, ed il giudice indipendente, questi non deve avere davanti a sé, come saggiamente si è statuito nella Costituzione, che la legge e la sua coscienza, a meno che non si voglia fare entrare la voce della politica dove deve rimaner sovrana invece la voce della giustizia.
Si è ancora sostenuto che in regime democratico sovrano è il popolo, e poiché l’espressione più schietta della sovranità popolare è il Parlamento, un’assoluta indipendenza della Magistratura dal potere legislativo la renderebbe estranea alla volontà del popolo e costituirebbe, come ormai si dice con una frase fatta, una casta chiusa, conservatrice e retriva.
Va però rilevato, innanzi tutto, che la volontà stabile e suprema del popolo è quella che si manifesta nella Costituzione. Onde, se indice e caratteristica del sistema costituzionale prescelto è l’indipendenza del potere giudiziario, è chiaro che, fino a quando la Costituzione non muta, mantenere indipendente tale potere significa mantenere in vita la vera volontà popolare, intesa, non solo quale semplice maggioranza parlamentare, ma come volontà unitaria di tutta la Nazione.
Né gli interessi vivi del popolo espressi attraverso il Parlamento possono trovare contrasto nel potere giurisdizionale estraneo all’influenza parlamentare, poiché come ben è stato da altri osservato, qualsiasi progresso sociale manifestato attraverso l’attività legislativa nei limiti della Costituzione, viene garantito non ostacolato, dalla Magistratura.
Ma soprattutto è da rilevare che al popolo, al disopra di ogni esigenza, preme che la legge sia uguale per tutti e che sia garantita a tutti i cittadini giustizia serena e imparziale. Ora, se si pensa tra l’altro che le stesse pubbliche amministrazioni sono assoggettate al diritto, tale imparzialità evidentemente non potrebbe aversi, significherebbe anzi far diventare l’organo giudiziario giudice in casa propria, se il potere giudiziario non fosse indipendente dal potere esecutivo e da quello legislativo.
Mostrati, così, speciosi ed infondati, i pretesti per un controllo sul potere giudiziario, che avrebbe soltanto perfetto di compromettere la finalità fondamentale di uno Stato libero, quella cioè di garantirei tutti i cittadini che la giustizia sia resa in modo imparziale, non restano che i gravi inconvenienti della composizione mista del Consiglio Superiore proposta dalla Commissione: il pericolo cioè di interferenze politiche e professionali, che praticamente metterebbero nel nulla l’indipendenza della Magistratura., il cui prestigio e soprattutto la fiducia che in essa deve riporre il Paese sarebbero grandemente sminuiti.
E nulla sarebbe più deleterio, onorevoli colleghi, all’affermazione di un libero ordine democratico, del sospetto di una giustizia influenzata o corrosa nei suoi organi da spirito politico o comunque messa in condizione di soggezione ad altri poteri dello Stato.
Pensate invero alle infinite pressioni da parte dei partiti attraverso i loro designati nell’organo di autogoverno; pensate agli svariati maneggi di quei professionisti poco scrupolosi che, chiamati a comporre il Consiglio Superiore, potrebbero anche continuare ad avere, a mezzo di compiacenti prestanome personali interessi nelle cause affidate a magistrati, la cui carriera ed amovibilità essi terrebbero in mano; pensate a tutto questo, o signori, e vi convincerete che il Consiglio Superiore, così come si vorrebbe costituito, rappresenterebbe tutt’altro che una garanzia di giustizia, oltre che un regresso democratico e costituzionale. Dico un regresso, poiché il Consiglio Superiore della magistratura è stato sempre in Italia composto da soli magistrati, ed il decreto 31 maggio 1946, accogliendo i voti non solo degli organi giudiziari, ma di quanti caldeggiavano i nuovi orientamenti per la democrazia, lo avevano reso elettivo da parte degli stessi magistrati.
Se si vuole perciò veramente l’indipendenza della Magistratura, occorre evitare che la nomina, la designazione ai vari uffici, la promozione, in una parola lo stato dei magistrati, dipendano da orientamenti ed influenze di organi politici, occorre evitare, quelle illecite inframmettenze, dalle quali chi amministra giustizia dev’essere messo al riparo; e perché ciò accada è necessario che l’organo supremo della Magistratura sia composto da soli magistrati, scelti attraverso il sistema della interna libera elezione.
Sarebbe veramente strano e contradittorio che, mentre ai giudici si fa divieto di appartenenza a partiti politici, e si fa divieto, badate, appunto perché si vuole che i giudicabili abbiano un senso di assoluta tranquillità e che il diritto, una volta affidato al magistrato per la sua applicazione, sia visto semplicemente come tale e non abbia neppure lontanamente a risentire di quella politica che sfocia negli organi legislativi, sarebbe veramente strano, che si affidino poi le promozioni, i trasferimenti i procedimenti disciplinari e quanto altro riguarda la vita stessa dei magistrati proprio a uomini di partiti, designati da quell’Assemblea legislativa che, appunto perché organo preposto alla creazione delle leggi, dovrebbe rimanere estraneo agli organi preposti all’applicazione della norma da essa creata.
L’onorevole Calamandrei, in tema di contrasti fra un potere giudiziario autonomo e gli altri poteri dello Stato, ha prospettato come pericolo la possibilità di un rifiuto di applicazione della legge da parte della Magistratura, la quale potrebbe, ha aggiunto, attribuirsi anche il potere di stabilire criteri generali di interpretazione della legge.
Il pericolo prospettato mi sembra in verità assai immaginario e non può sorgere in concreto, sia perché la Magistratura verrebbe meno alla sua funzione se non applicasse una legge che abbia tutti i crismi formali stabiliti dalla Costituzione (e se lo facesse si entrerebbe nel campo rivoluzionario del sovvertimento dei poteri, al modo stesso che il legislativo si arrogasse il compito di amministrare la Giustizia) sia perché la potestà di fissare i criteri generali di interpretazione spetta all’Assemblea legislativa e non all’autorità giudiziaria, che ha soltanto il compito di interpretare la norma con effetto, fra l’altro, limitato al caso concreto.
D’altra parte, se il pericolo fosse realmente esistente, non potrebbe certo essere eliminato dal Consiglio giudiziario misto, poiché nulla in concreto potrebbe impedire che il corpo giudiziario applicasse le legge nel modo da esso ritenuto più opportuno ed assumesse un determinato orientamento interpretativo; né, di fronte alle decisioni della Corte di cassazione, come è stato rilevato, vi sarebbe, come non vi è neppure oggi, la possibilità di sindacato da parte del potere esecutivo sia da parte del potere legislativo. La composizione mista cioè, lungi dall’evitare il fantasioso pericolo prospettato, avrebbe semplicemente l’effetto concreto di far penetrare la politica nelle decisioni singole; di far giungere indebite pressioni ed ingerenze professionali agli organi giudiziari. Ma non potrebbe impedire che la Magistratura, come complesso giudicante, assumesse – volendolo – un determinato atteggiamento nell’interpretazione della legge. A me pare che in realtà tutto dipenda da una decisa, per quanto ingiustificata ostilità e diffidenza verso i magistrati che sono qualificati retrivi, conservatori, insensibili ai fatti sociali, forse perché hanno il torto di essere i servitori fedeli della legge piuttosto che della politica, che non può e non deve interessare loro, finché non si traduca in norma giuridica di cui soltanto essi devono essere gli interpreti più ortodossi e più scrupolosi. Noi vogliamo che sia mantenuta, ed oggi più che mai accentuata, questa posizione conservatrice; e non possiamo concordare con coloro che la vorrebbero trasformare in attitudine politica e vorrebbero la legge aderente alla mutevole realtà della politica, sotto la speciosa pretesa che il diritto non debba essere inserito nel codice, ma nella coscienza del popolo.
L’onorevole Cappi dichiarava giorni fa che per il retto funzionamento della giustizia quello che importa è che il giudice non subisca deviazioni nella fase di interpretazione e di applicazione della legge. E per tale funzione, egli spiegava, nessun pericolo può costituire l’immissione di elementi estranei nel Consiglio Superiore. Mi dispiace di contraddire l’amico Cappi, ma non posso fare a meno di notare che il pericolo è proprio là, nella possibilità che attraverso le pressioni degli elementi estranei immessi nell’organo di autogoverno, il giudice possa risentire l’influsso della politica proprio nel processo di interpretazione e applicazione della legge, e possa così essere deviato da quella linea serena e obiettiva che dovrebbe perseguire. Questa, onorevoli colleghi, e questa sola è la ragione che fa vedere con disfavore la composizione mista del Consiglio Superiore della Magistratura. Lo stesso onorevole Cappi ebbe a rilevare che in regime democratico l’eventualità di un potere esecutivo e legislativo tirannici e invadenti deve escludersi quasi a priori, poiché tale eventualità può soltanto aversi in una situazione patologica, come nel periodo fascista, e non in condizioni normali. Va ribadito che le interferenze sulla Magistratura, in verità, non mancarono, pure se in forme meno gravi, anche prima del 1922; poiché in Italia – dobbiamo dirlo – non hanno mai i giudici goduto di una effettiva piena indipendenza; e se il funzionamento della giustizia è apparso tal-, volta turbato o se un senso di sfiducia ha investito la Magistratura, ciò è dovuto – dobbiamo pur riconoscerlo – in gran parte alle ingerenze del potere esecutivo e degli organi politici in genere, che hanno tanto contribuito a far decadere nel popolo l’idea della imparzialità dell’Amministrazione della giustizia.
E va rilevato, infine, che, fra l’altro, la partecipazione di elementi estranei nel Consiglio Superiore non può trovare neppure completa spiegazione – che peraltro ridonderebbe comunque tutto a danno dell’amministrazione della giustizia – in vere ragioni costituzionali; poiché quell’organo di autogoverno, che tante preoccupazioni dà a coloro che paventano l’autonomia della Magistratura, ha peraltro compiti puramente interni alla organizzazione giudiziaria e di carattere amministrativo, relative al personale. Con esso non si dà alla Magistratura il potere di creare la legge per la propria organizzazione e neppure quello di organizzarsi a suo arbitrio. Con l’organo autonomo di governo la Magistratura avrebbe soltanto il potere di assumere, di trasferire, di punire, in una parola di amministrarsi, ma sempre nei limiti, nelle forme e con le garanzie fissate dall’ordinamento giudiziario, che viene emanato dal potere legislativo.
Quale casta chiusa, di grazia, io vi domando?
Si può parlare di torri di avorio, di casta impenetrabile quando si ha non solo il potere di organizzarsi, ma anche quello di creare la legge per la propria organizzazione. Se tale legge invece è creata da altri, non rimane che un potere, il quale ha quasi carattere di semplice esecuzione. Non vedo perciò la ragione e non riesco proprio a vedere il pericolo del perché il Consiglio giudiziario non debba essere composto di soli magistrati.
Penso che l’intervento del potere legislativo nella formazione del Consiglio superiore della Magistratura sia stato ammesso sull’esempio della Costituzione francese; ma, a parte il gusto della importazione, anche in campi ove potremmo legittimamente esportare, va rilevato che la composizione mista può avere una certa giustificazione nel Consiglio Superiore della Magistratura francese, il quale ha, fra le altre funzioni, anche quella di esercitare il diritto di grazia, ma non ha e non può avere neppure tale legittimazione da noi, ove manca siffatta prerogativa. Ritengo pertanto che nulla possa giustificare la composizione mista dell’organo di autogoverno.
Se poi proprio non si volesse rinunziare all’ingerenza del potere legislativo nella composizione del Consiglio giudiziario, ritengo che, ad attenuare gli inconvenienti del sistema, non vi sia che una duplice soluzione: o variare l’apporto proporzionale fra i componenti magistrati ed i componenti estranei, in modo da dare ai primi una prevalenza numerica in confronto ai secondi; oppure offrire al Parlamento la facoltà di scegliere, sempre nel corpo dei magistrati, una metà dei componenti il Consiglio Superiore.
Ma, oltre che alla indipendenza dall’esterno, è necessaria una indipendenza nell’interno dell’organizzazione giudiziaria, poiché l’autonomia del potere giudiziario garantisce la Magistratura dall’influenza di altri poteri, ma non presenta alcuna garanzia nell’interno del corpo giudiziario, garanzia che non è certo meno importante. I magistrati debbono essere posti tutti sullo stesso piano, poiché tra di essi vincolo gerarchico nel senso tradizionale della parola non può e non deve esistere, in quanto la gerarchia importa il concetto di ubbidienza agli ordini che vengono dall’alto, mentre il giudice non deve obbedire che alla sua coscienza ed alle norme legislative. È l’essenza stessa della funzione giudiziaria che è in contrasto con la dipendenza gerarchica, poiché diversa può essere la sfera dell’autorità giurisdizionale, ma il potere di esercizio della giurisdizione è, nell’ambito della propria competenza, pieno ed assoluto; ciò importa che la Magistratura – come opportunamente è stato dichiarato nella Costituzione – sia distinta non per gradi, ma per funzioni e che il magistrato, una volta entrato in ruolo, abbia uno svolgimento quasi automatico di carriera senza preoccupazioni, in merito alla stessa, di beneplacito dei superiori.
Altra applicazione del principio di autonomia è la facoltà, di cui non si è fatto alcun cenno nel progetto, da parte dell’organo di autogoverno, di stabilire il trattamento economico dei magistrati nei limiti del bilancio e del gettito della tassazione sugli atti giudiziari.
È questo un lato assai importante del problema dell’indipendenza della Magistratura, poiché lasciare il trattamento economico all’arbitrio del potere esecutivo significa rendere frustranea ogni garanzia costituzionale.
Solo così, d’altra parte, attraverso una amministrazione diretta delle somme stanziate e del gettito della speciale tassazione predetta, può essere risolto il tormentoso problema economico della Magistratura, che vive le più dure miserie della vita quotidiana; solo così può essere garantita al giudice una esistenza indipendente e decorosa, e può essere nel contempo superata la pregiudiziale che ostacola il riconoscimento al magistrato, per la particolarità delle sue funzioni, di un trattamento diverso da ogni impiegato dello Stato.
Una disposizione inoltre, per lo meno inadeguata ed imprecisa, è quella che riguarda la questione dei poteri della Magistratura sulla polizia.
Non bisogna dimenticare infatti che anche per la legislazione vigente l’autorità giudiziaria può disporre direttamente dell’opera della polizia giudiziaria. Al lume però della esperienza tale astratto potere si è rivelato inefficiente, poiché spesso tarda e inidonea è stata l’esecuzione degli ordini del magistrato da parte dei funzionari di polizia, specie quando i provvedimenti giudiziari non collimavano con le vedute degli organi da cui la polizia giudiziaria direttamente dipende.
Indispensabile perciò è che almeno speciali reparti di polizia siano alle dirette dipendenze gerarchiche e disciplinari dell’autorità giudiziaria.
È opportuno altresì concedere al Magistrato le stesse prerogative dell’immunità parlamentare, poiché date le delicate funzioni da lui spiegate, un arresto infondato a carico del giudice produce, quand’anche ne fosse poi dimostrata l’innocenza, conseguenze gravi sia per la sua riputazione, sia per il prestigio del potere giudiziario che, non meno degli altri, deve godere la fiducia del Paese.
In ordine all’iscrizione del giudice ai partiti politici, io sono contrario in verità a qualsiasi divieto che non corrisponda allo spirito di una vera democrazia, a qualsiasi disposizione che limiti la libertà di opinione di un individuo, specie se è un magistrato. Questo invece deve avere ed ha in sé tanto senso di responsabilità, tanta consapevolezza del proprio dovere che l’iscrizione a qualsiasi partito non può riuscire a compromettere la sua libertà di decisione, e di apprezzamento, né tampoco a farlo deflettere da quella dirittura che è per lui un habitus di vita.
Non è l’iscrizione al partito che può far addivenire a compromessi con la propria coscienza e neppure può semplicemente valere a togliere il senso di tranquillità ai giudicabili. Nessun divieto formale potrà impedire al giudice di agire in conformità d’interesse di partito se è proclive a compromessi; tutto dipende dalla sua onestà e dalla sua coscienza. Sarebbe davvero un’inutile ipocrisia ed un’offesa anche pei magistrati introdurre una norma costituzionale come quella proposta dalla Commissione, ipocrisia poi tanto più inutile quando la vita della Magistratura dovesse essere legata, attraverso componenti estranei nell’organo di autogoverno, ad interessi politici ed affidata ad uomini di partiti, come si è proposto nell’articolo 97.
Questo, più che l’iscrizione dei Magistrati nei partiti varrebbe a circondare di sospetto l’ordine giudiziario!
Comunque, io penso che l’iscrizione o meno nei partiti politici dovrebbe essere affidata alla sensibilità ed al senso di opportunità dei magistrati stessi, più che sancita, con un divieto, in una norma costituzionale.
Per il sistema di scelta dei magistrati, a me sembra che il criterio del concorso sia la forma più democratica di scelta, poiché raggiunge lo scopo per la selezione tecnica su di un principio di eguaglianza; raggiunge lo scopo cioè di chiamare alle più importanti funzioni i più capaci, senza valutazione diverse dal merito e considerazioni di privilegi personali.
Sono però contrario all’immissione delle donne nella Magistratura.
È vero che esse hanno dato ottime prove in tanti uffici, ma l’arte del giudicare, oltre a richiedere particolari doti di equilibrio e di logica, richiede una costante serenità di giudizio che le donne, per ovvie ragioni fisiologiche e per naturali facoltà psicologiche, non possono avere, specie se si tien conto che normalmente in esse il sentimento prevale sul raziocinio, mentre nella risoluzione delle controversie deve avvenire il contrario.
Ritengo che si possa consentire alle donne di partecipare a limitate e determinate forme di giudizio nelle sezioni specializzate, ma non generalizzare fino al punto di consentire il libero accesso nella Magistratura.
Ed ho finito.
Concludo ribadendo che noi non vogliamo una Magistratura avulsa dalla vita sociale, ma la vogliamo indipendente.
Noi non vogliamo che il giudice sia una astrazione, ma desideriamo che sia sereno nell’esplicazione della sua opera. Che non abbia preoccupazioni di influenze estranee sulla sua coscienza e che sulla sua carriera non vi sia possibilità di interferenze esterne.
Noi sappiamo che l’indipendenza dell’ordine giudiziario è indice e garanzia di ogni democrazia costituzionale e che sarebbe inutile aumentare in astratto la sfera di libertà dei cittadini, sarebbe perfettamente inutile proclamare l’uguaglianza di tutti di fronte alla legge, se non si istituisse un potere giudiziario in condizioni di poter realizzare e garantire queste elementari esigenze di democrazia.
E presupposto primo di tale realizzazione, onorevoli colleghi, è l’indipendenza integrale della Magistratura, la cui funzione, se deve davvero costituire garanzia e difesa di diritti e di libertà non può e non deve risentire, a meno che non si voglia negare e tradire nel contempo lo stesso ordine democratico, non può e non deve risentire – dicevo – delle fluttuazioni di maggioranze parlamentari e dell’alternarsi dei partiti al Governo.
Potere politico, partiti, maggioranza parlamentare hanno, come ho detto, un settore proprio in cui far sentire il loro influsso, ed è quello della legislazione, a cui non si sottrae lo stesso ordinamento giudiziario dal quale è disciplinata la Magistratura; ma non possono e non debbono, in un regime di vera democrazia, influire sull’esercizio del potere giurisdizionale.
Se si è contrari al principio dell’indipendenza della Magistratura, si abbia pure il coraggio di dirlo, nell’Assemblea Costituente, di fronte al popolo; si sostenga pure esplicitamente che i giudici debbono essere dipendenti dal potere esecutivo o legislativo e debbono seguire le direttive politiche di essi; si abbia almeno la coerenza nelle affermazioni e si assumano le responsabilità relative. Ma se si dichiara che il potere giudiziario deve essere indipendente, occorre stabilire gli esatti termini di tale indipendenza, senza rinnegare, così come si è fatto con tanta disinvoltura nel progetto, il principio nel momento stesso che lo si afferma. Se si vuole perciò una Magistratura subordinata alla politica, lo si dica chiaramente, senza infingimenti e senza riserve mentali.
Si ricordi però che, come saggiamente rilevava padre Lener nell’articolo cui accennava ieri l’amico Romano, si ricordi, dico, che quando la politica entra nella giustizia, la libertà e l’uguaglianza dei cittadini sono in pericolo.
E una Costituzione che non evita tale i pericolo, non può dirsi più una Costituzione democratica; è una Costituzione che prepara l’avvento alla dittatura. L’avvento alla dittatura, sì, onorevoli colleghi, alla dittatura, poiché ben è stato scritto, che giustizia e libertà sono veramente un inscindibile binomio: esse vivono o periscono insieme! (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Candela. Ne ha facoltà.
CANDELA. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Arrivo quasi mortificato al punto della discussione, perché l’ambiente è saturo per quanto dottamente si è detto sul Titolo IV. E credo che sostanzialmente siamo tutti concordi, per assicurare alla Magistratura una piena indipendenza, perché tutti qui operiamo ed agiamo nella maggiore lealtà, per creare degli organismi veramente democratici che assicurino, per un lungo periodo, la vita futura del Paese.
La democrazia ha per fondamento la giustizia. Quindi, l’indipendenza e l’autonomia dei Magistrati, che della giustizia devono essere i sacerdoti, costituisce veramente la base di questo fattore democratico. Il progetto, ispirandosi a questi criteri, traduce nei pochi articoli quanto è stato il risultato di uno studio veramente laborioso ed accurato della Commissione dei Settantacinque. All’Assemblea i dissensi si sono manifestati principalmente sull’articolo 96: «Il popolo partecipa direttamente all’amministrazione della giustizia mediante l’istituto della giuria nei processi di Corte d’assise», perché nel problema non si è voluto distinguere, e si è dato da taluni la prevalenza al fattore politico anziché al fattore tecnico-giuridico. Si pensa che non vi è democrazia, e che non vi può essere democrazia, senza l’istituto della giuria, che, per la verità, in Italia è stata affermazione delle forme liberali nel pericolo della libertà. Ma il tempo procede ed anche il diritto e la procedura sono soggetti alla legge del tempo ed alla evoluzione. Quello che interessa garantire è il diritto del cittadino in rapporto alla società, ed il diritto della società perché il reo non vada impunito, ma soprattutto perché l’innocente non sia condannato. Noi, contrari al ritorno dell’istituto della giuria popolare, sosteniamo che il problema non dev’essere considerato dal lato politico, ma nella sua entità tecnica, quale più rispondente all’interesse sociale e all’interesse del privato.
Posto il problema in questi termini, ritengo che non vi possa essere dubbio per la risoluzione da noi indicata: la forma collegiale del giudizio con sentenza motivata e con appello che ne permetta il riesame di merito.
E poiché gli argomenti hanno una ineluttabile forza, è da pensare che i sostenitori della giuria vogliono che nella valutazione di taluni reati il giudice abbia il potere di superare la legge; in quei casi nei quali opinano che la coscienza popolare ritiene di procedere ad una assoluzione o ad una indulgenza che non potrebbe mai venire da un giudice togato o popolare obbligato a motivare la sentenza.
Il giudice, con la motivazione, ha il dovere di specificare e di documentare le ragioni del suo convincimento, cosicché questa rappresenta una indagine delle prove e deve essere espressa in maniera tale da rendere alla pubblica coscienza la serenità che giustizia si è fatta.
Le disposizioni del Codice di rito fulminano di nullità le sentenze insufficientemente motivate. Allo stato attuale, malgrado le molte doglianze sull’assessorato, vi è una maggiore garanzia. Le motivazioni insufficienti spesso hanno messo il giudice supremo nelle condizioni di annullare quelle sentenze e si è ripetuto il giudizio. Spessissimo questo è avvenuto con un solo motivo di contraddittorietà della sentenza, il che dimostra che per garantire la libertà del singolo è necessario che il giudice dia conto del suo convincimento con la motivazione serena e precisa di tutte le risultanze processuali.
È comunemente avvertita, da coloro che si occupano di materia penale, la necessità che il giudice in materia penale debba essere un giudice specializzato. La legge dà al giudice l’attributo di perito dei periti. E l’avvocato onorevole Veroni parlava stamane delle perizie di Leonardo Bianchi e di altri illustri che venivano portate al vaglio dei giurati, per sussidiare con la parola della scienza e della tecnica le insufficienze dei giudici popolari e metterli sulla via della retta decisione.
Non rilevava l’inconveniente che il fornire ad incompetenti e ad ignoranti perizie discordanti, significa abbuiare ancora di più la loro coscienza, perché l’ignorante non è in condizione di valutare perizie complesse e non potrà mai decidere con cognizione. Lo stesso giudice togato, che spesso non è all’altezza di quei tali dotti che forniscono le perizie, ma non è almeno in condizione di non capirle e non può sottrarsi al dovere imprescindibile di occuparsene nella motivazione, ha il dovere di dire perché accoglie una tesi e respinge un’altra tesi. La motivazione costituisce così in ogni caso una estrema garanzia di libertà del cittadino e deve essere tale per volontà della legge che non lasci dubbi di sorta.
MANCINI. Si combattono le perizie psichiatriche con l’interrogatorio dell’imputato.
CANDELA. Faccio l’avvocato da trenta anni in Corte di assise, e di queste assurdità non ne ho mai trovate, perché l’interrogatorio è un atto necessario, ma non è l’elemento solo che può bastare per un giudizio. S’intende che i nostri obiettivi e il nostro interesse professionale possono essere in urto con la decisione del magistrato, ma questo non conta. E la dimostrazione ampia e completa viene dal fatto che la maggior parte degli avvocati e degli studiosi sono contro il ripristino della giuria. Rinunziamo ad una facile gloria, ma serviamo il paese. Era facile ottenere dei verdetti nei quali, affermandosi il fatto, si negava la intenzionalità (Interruzione dell’onorevole Mancini). Questo offende non solo la coscienza giuridica, ma soprattutto la coscienza morale. Ed io vi dico che non più tardi di ieri ho discusso un processo a Messina per rinvio della Cassazione di un processo fatto a Palmi – perché nella motivazione non si era tenuto conto del parere del consulente tecnico…
MANCINI. Che c’entra questo con la giuria?
Una voce al centro. Se lo scabinato sbaglia, la giuria sbaglia di più.
CANDELA. Comprendo come l’onorevole Mancini possa essere attaccato alla vecchia tradizione, che risponde del resto veramente ai principî sacri della libertà…
Una voce a sinistra. E allora?
CANDELA. Allora che cosa? volete confondere una questione politica con una questione tecnico-giuridica? Questo è l’errore vostro! (Commenti). Intanto l’annullamento per difetto di motivazione ha avuto come conseguenza la ripetizione del dibattimento nel caso che ho riferito. Ma quando il giurato ha una licenza modesta, un titolo modesto di cultura, o non ha cultura affatto, perché basta l’iscrizione nelle liste elettorali per far parte della giuria, mi dite come fa il giurato ad intervenire in una questione che non sia meramente di fatto? E questioni di fatto pure e semplici non esistono: il rapporto di causalità, che sembrerebbe il più semplice, involge tante questioni giuridiche; come lo risolve ? Lo risolvi tu, vecchio ed accorto avvocato; ma non può risolverlo quel pover’uomo, che è messo di fronte ad un problema di carattere tecnico che non è in condizioni di affrontare. Il giurato assolve il suo compito e lo assolve istintivamente; risponde sì o no secondo la sua convinzione, che viene più dalle forme esteriori e suggestive anziché da quelle profonde e vere che nascono dalla conoscenza del processo e dallo studio paziente ed elaborato.
Questo ci insegna la pratica professionale. Sono intervenuto in una discussione già satura, direi, perché ho inteso gli argomenti addotti dall’onorevole Veroni questa mattina, il quale si è espresso molto garbatamente; non così audacemente come il mio interruttore, a favore della giuria. È noto agli studiosi, noi avvocati conosciamo quello che fu il conflitto tra la scuola classica e la scuola positiva. Attorno alla scuola positiva fiorì un seguito di studi di un tecnicismo speciale, che sta a provare sempre di più che il criminale spesso è un ammalato, un individuo che delinque in condizioni patologiche; il delitto è, spesso, patologia.
Ora, tutto questo va inteso e va capito da chi ha studiato seriamente; non può essere inteso dal profano, che del fatto brutale non coglie che l’attimo che lascia la conseguenza, ma non le cause intime e profonde.
Quanto ha pesato il fatale nell’atto dell’uomo che ha commesso un delitto? Tutto questo dico nell’interesse dell’imputato, di colui che dovrà essere giudicato, nell’interesse del cittadino, perché l’errore non si commetta, perché l’ammalato sia mandato al luogo di cura e il reo paghi le conseguenze.
È un complesso di cultura e di cognizioni specifiche che si domandano al giudice penale, per cui noi insistiamo per avere il giudice penale specializzato, questo giudice penale specializzato che dovrà avere conoscenza profonda soprattutto in medicina legale, perché è inammissibile una situazione come quella attuale in cui l’esame di medicina legale non è neanche obbligatorio per i laureandi in legge. Questa è la triste verità! Quindi, conoscenza di tossicologia, di traumatologia e di tutto quello che può avere una sua importanza, che pesa, col valore del tecnicismo, e non dell’empirismo. Si potrà risolvere il problema nella maniera che si crede, anche non affidandolo ai magistrati; ma evidentemente il collegio che deve giudicare il suo simile dovrà pur dire le ragioni per cui ha condannato un uomo radiandolo dalla vita materiale e morale della società.
Potrà essere il rimedio quello del magistrato togato? Io ho ritenuto e pensato sempre che tutti i giudizi devono esser fatti dal magistrato ordinario. Non vi è ragione alcuna di distinzioni. Ma questa distinzione è fatta per l’affermazione di un principio che è al di fuori dell’interesse sociale e dell’interesse dell’individuo? Non lo comprendo!
Se si vuole affermare il principio che il popolo, attraverso i suoi delegati, deve fare la legge, e che deve anche direttamente amministrare la giustizia, e allora è bene che tutti i processi siano di cognizione del popolo. Non vi è ragione di fare distinzione e di creare i privilegiati del delitto.
E, guardando ai tempi in cui viviamo, questo non è il momento per mostrare larghezze o benevole compiacenze; nella valutazione delle prove, occorrono severità, coscienza, competenza. Questo è il momento in cui la criminalità è al suo parossismo! Basta guardare le statistiche: alla Procura della Repubblica di Messina vi sono migliaia e migliaia di processi pendenti. E la provincia di Messina è quella che dà minore contributo alla criminalità; fate indagini attraverso le varie Procure della Repubblica e troverete che la situazione è veramente dolorosa.
Si dovrebbe tornare alla giuria, soltanto per seguire una ideologia, per fare una affermazione politica astratta, che in concreto si risolve in vantaggio per i criminali. E quali? I peggiori, i più pericolosi per l’ordine sociale, i rapinatori, gli sgozzatori, l’uomo del chilometro 47. Sono essi che devono beneficiare della giuria popolare? E allora, tutti i reati vadano alla cognizione del giudice popolare! E contro la giuria furono Francesco Carrara ed Enrico Ferri. Vi indico gli antesignani di due scuole diverse. Il Codice attuale deve essere applicato dal giudice tecnico; sulle aggravanti e diminuenti, quante questioni sorgono di prevalenza, di equivalenza, di coesistenza che non possono essere decise dal giudice che non è tecnicamente preparato. E così per la premeditazione, provocazione e tante altre questioni che sono proprie dei giudizi di assise.
Ma il Codice dovrà essere riformato, indiscutibilmente, e quello che spaventa taluni è la entità e la gravità della pena; è valido motivo di preoccupazione. D’accordo; il magistrato, che in questo senso è conservatore perché applica la legge ed è un esecutore della legge qualunque sia il regime che serve, non può andare al di là dei limiti di pena stabiliti dal Codice. Ma queste modifiche si possono e devono fare anche con carattere di urgenza perché, per esempio, è assurdo che per il vizio di mente, che scema grandemente l’imputabilità, la diminuzione sia solo del terzo. È necessario tornare alla vecchia distinzione tra provocazione lieve e provocazione grave. La concausa, la preterintenzione nelle lesioni e così via. Restituzione per molti capi al Codice Zanardelli. Quindi la colpa non è del collegio giudicante, in rapporto alle asprezze delle pene, ma del Codice che deve essere applicato: dategli una legge buona e il magistrato farà buona giustizia. Il magistrato non vive avulso dalla società, ma vive in mezzo alla società e di questa società sente i bisogni e le sofferenze. Egli ha la sua famiglia che gli riporta l’eco della grande famiglia della città e dell’ambiente in cui vive e si muove, è un uomo con i suoi palpiti, i suoi dolori e le sue gioie, non può essere sordo ed estraneo alla vita sociale.
Non vi è preoccupazione per la mentalità formata o deformata, come taluni hanno mostrato di temere, per il cosiddetto abito professionale che rende sordo il magistrato alle voci della vita, perché è assurdo pensare che il lavoro intellettuale abbrutisca cervelli ed anime, perché se noi questo dovessimo temere dovremmo abolire il magistrato di carriera. È la buona legge, che il giudice deve avere, perché quando il giudice avrà la legge umana avremo le sentenze consone al sentimento popolare. Quindi penso che reati comuni che possano preoccupare il popolo, preoccupare la Nazione, perché per la loro entità sono demandati al magistrato, assolutamente non ve ne sono, anzi interesse sociale è che i reati più gravi siano giudicati dai giudici tecnici. E il tribunale potrà avere una formazione speciale, potrà avere quella formazione paritetica che nella parità dei voti si risolveva in favore dell’imputato. Ma non trovate immorale ed illogico che mentre per una semplice lesione vi sono due giudizi, due esami di merito, per un delitto che importa l’ergastolo vi debba essere un solo esame di merito con un verdetto che non lascia tracce perché anche le schede, che dicono poco, andavano bruciate? Questo è il paradosso della situazione. Con i due giudizi di merito evitate l’errore giudiziario o per lo meno lo ridurrete al minimo, perché quando voi ammettete, come diceva l’onorevole Veroni, che i magistrati sbagliano anche loro, è vero, dite una grande verità. Per questo c’è il secondo grado di giudizio. Anche i magistrati sbagliano, perché sono uomini e non sono infallibili ma certamente sbagliano di meno.
Una voce a sinistra. Sbagliano due volte.
CANDELA. Ma quando si fa il secondo tentativo può darsi che non sbaglino e se sbagliano due volte c’è ancora la Corte di cassazione. E sulla scorta di quei motivi che sono stati dedotti in primo grado e secondo grado si va al terzo grado, per ricorso. In sostanza vi sono tutti quegli accorgimenti per cui il cittadino deve sentirsi garantito. L’infallibilità è di Dio e non dell’uomo. Penso pertanto, che si possa arrivare alla soppressione dell’articolo 96 senza peraltro che questa soppressione pregiudichi la questione in avvenire. Se vi opponete a quella che è la sentenza del solo magistrato perché pensate che il magistrato si sia incallito nel mestiere e possa non essere un giudice sereno, si potrà trovare in avvenire altra soluzione, ma è certo che il magistrato è il più lontano dalle pressioni, dalle sollecitazioni del Paese, del momento, dagli stimoli e passioni delle parti. Se questo uomo che volete porre al di fuori della politica, nel più alto grado della gerarchia e dell’impiego, col progetto in esame, se questo magistrato che in Inghilterra ha tanta autorità da potere umiliare anche il Sovrano e in quel Paese dove le leggi scritte sono poche, la tradizione è tale e il costume è tale per cui tutte le evoluzioni sociali e civili sono possibili, lo rifiutate per i giudizi più gravi che richiedono maggiore ponderazione create una penosa contraddizione; in Inghilterra l’evoluzione sociale avviene senza scosse perché vi è profondo il sentimento della giustizia, il rispetto per il giudice, per coloro che amministrano la giustizia con pieno concorso di tutte le parti del Paese. E quando la democrazia italiana avrà raggiunto questo grado di civiltà, sarà veramente una democrazia perenne che non potrà fallire, perché il fondamento di tutti gli Stati civili e della vera democrazia è la giustizia. Non vado oltre, e per gli emendamenti concordo con quanto ha detto nobilmente l’onorevole Sardiello e mi associo a lui. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Scalfaro. Ne ha facoltà.
SCALFARO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi, dopo tante discussioni su un problema così ampio, così appassionante e soprattutto così difficile, sia consentito a me, ultimo dei magistrati qui presenti, di portare un modesto contributo. E vorrei portarlo (mi si consenta, perché non è critica ad alcuno) non già protestando contro l’indipendenza della Magistratura che è stata nel progetto manomessa, ponendomi a difenderla quasi ad oltranza per quindi uscire dall’Aula senza aver concluso assolutamente nulla. Mi pare che il problema debba essere visto così come quando, in una qualsiasi Corte, in un tribunale, alla fine dalle arringhe di accusa e di difesa si ritirano i magistrati in camera di consiglio e discutono passo passo su questioni di fatto e di diritto, e discutono tirando le somme su quello che si è detto.
Non mi voglio arrogare il diritto e il vanto di tirare le somme su quanto hanno detto gli altri, ma vorrei vedere se fra queste due tesi dell’indipendenza da una parte e di chi, dall’altra, sostiene che l’indipendenza riduca la Magistratura ad una «casta chiusa», non vi sia una via di mezzo. Io ho presentato un emendamento in merito. Ho presentato un emendamento che parte da un interrogativo posto a me stesso e che mi permetto porre all’Assemblea: che cosa si intende per indipendenza? Ché se per indipendenza si intende di impedire qualsiasi controllo in quello che può essere il governo dell’amministrazione della giustizia in Italia, evidentemente il Consiglio Superiore della Magistratura, dovrà esser composto di soli magistrati.
In tal caso, si può anche andare al di là di una pura e semplice indipendenza. Si consenta che un magistrato ricordi che stiamo vivendo in una realtà di vita concreta, dove sono delle esigenze politiche che non possono essere trascurate né è possibile chiudere gli occhi di fronte ad una richiesta di controllo nel governo della Magistratura che viene fatta da tante parti di questa Assemblea e che non può ritenersi a priori tutta inficiata da moventi politici o peggio, da desiderio di soppiantare, di scardinare la Magistratura rendendola asservita ai partiti. Ché se anche così fosse nelle intenzioni, quello che ci interessa, è il prendere atto che solo di controllo si parla e per questo solo si fanno formali richieste. D’altro canto, ci si potrebbe fermare ad un sostanziale concetto di indipendenza ad un concetto-limite, difendendo quella che è l’indipendenza nella sua essenza, nel suo contenuto indispensabile: in tal caso si ha indipendenza fino a quando non si pongano ostacoli, non limiti che lasciando la parvenza di essa, la svuotano di ogni contenuto. Non si avrebbe indipendenza quando il Consiglio Superiore avesse una maggioranza di non magistrati, o anche quando rimanesse quello che è scritto nel progetto, dove è previsto che la metà dei membri siano magistrati e l’altra metà eletti dall’Assemblea fuori del suo seno.
Nel mio emendamento il pericolo viene a scomparire mutandosi quella composizione in queste diverse proporzioni, che cioè nel Consiglio Superiore vi siano sotto la presidenza del Presidente della Repubblica, due terzi di magistrati eletti dalla Magistratura ed un terzo di non magistrati eletti dall’Assemblea. Per quanto poi riguarda la scelta di questo terzo, ritengo indispensabile che si tratti di tecnici. Se il Consiglio superiore dell’istruzione che pure ha sola funzione consultiva, può avere nel suo seno solo insegnanti, a maggior ragione il Consiglio superiore della Magistratura deve avere esclusivamente persone tecniche, data la competenza, la funzione che al Consiglio è affidata. Mi pare tuttavia che l’emendamento Monticelli, che ammette al Consiglio Superiore ex magistrati, avvocati, docenti di diritto, pure accettabilissimo, possa anche non far parte di una Costituzione ed entrare in una legge successiva sull’ordinamento giudiziario. Nella Costituzione, è sufficiente delimitare questi campi; fissare i principî, vincere la grossa battaglia dell’indipendenza perché da una parte la Magistratura non potrà dire di non aver sufficiente libertà né che è costretta a subire volontà, o pressioni estranee; d’altra parte coloro che esigono il controllo lo hanno attraverso il terzo dei non magistrati. È questa una sintesi delle due correnti che considera giustamente e la necessità dell’indipendenza, soppressa la quale si sopprimerebbe la stessa giustizia, e questa situazione storico-politica che ha le sue esigenze e che non potrebbe essere misconosciuta senza pregiudizio della stessa Magistratura già purtroppo, sufficientemente e ingiustamente sospettata. È inutile quindi, che ci impanchiamo a pubblici ministeri di fronte ad un progetto di Costituzione, dichiarandoci pronti a lacerarlo, affermando che non è attuabile, quando poi questa affermazione di principî debba rimanere tale, senza aver saputo dare un contributo concreto. È dovere per un magistrato difendere la Magistratura nel suo prestigio, nella sua forza, nella sua opera di giustizia: tale difesa non si fa a proteste vane, a richieste che già si prevedono verranno respinte: difendiamo il difendibile purché la giustizia sia salva.
Io sono convinto, comunque, che anche qualora – e voglio porre questo «qualora» come ultima deprecata ipotesi – l’indipendenza della Magistratura non fosse salvaguardata, potremmo pur sempre credere, e confidare, nella coscienza dei singoli magistrati. È questa la garanzia più grande, più salda della giustizia. Ma si tratta appunto, in quest’opera di legislazione, di togliere gli ostacoli a che il giudice compia giustizia e far sì che questa indipendenza possa manifestarsi in una amministrazione serena e concreta di giustizia, perché lo sforzo dei singoli per l’indipendenza della propria toga, non urti contro un sistema che già questa toga ha vincolato, ha compromesso.
Io penso che da nessuna parte si voglia tornare alla proposta che si è sentita ventilare, quella di avere dei magistrati eletti dal popolo. Spero che questo non venga proposto da alcuna parte, perché sarebbe in sostanza grave offesa ai principî di giustizia; e comunque, costituirebbe gravissimo pericolo allo svolgimento di una serena amministrazione della giustizia. Ché, se è giusto che il popolo elegga i propri amministratori, i propri governanti, questo può fare scegliendo nel diverso schieramento politico, tra le varie tendenze, di rappresentanti delle diverse ideologie politiche. Tutto ciò non è possibile in tema di giustizia, che deve rimanere una e immutabile; né potrà mai esservi giustizia di destra, di centro o di sinistra. Guai a porre a fianco del sostantivo giustizia un qualsiasi aggettivo: esso sarebbe «ladro». Esso verrebbe a privare del suo contenuto il sostantivo. La giustizia, come tale, non ha mai bisogno di essere affiancata da qualsiasi aggettivo; essa non può esser qualificata; la qualifica snatura la giustizia o, quanto meno, la presenta gravata di sospetti.
L’indipendenza quindi è sottoposta a queste condizioni: che il Consiglio Superiore della Magistratura abbia due terzi di magistrati e un terzo di elementi estranei; e come Vicepresidenti, il primo Presidente della Cassazione ed il Procuratore generale (che sarebbe assurdo, fosse comunque estromesso).
Non mi pare il caso di porre una subordinata; tuttavia voglio ugualmente esprimerla. Ho visto le ultime proposte dei magistrati che scendono anche al di sotto di questa materia, quasi a ultima barriera di difesa: e cioè che comunque l’Assemblea non neghi ai magistrati una qualsiasi maggioranza nel Consiglio Superiore. Io ho chiesto una maggioranza qualificata; perché mi pare necessaria per la dignità e per la fiducia, che l’Assemblea deve avere verso la Magistratura italiana. Ma, almeno questo minimo di maggioranza sia tutelato. E l’indipendenza si rafforza nel progetto, quando nell’articolo 89 si parla di inamovibilità e allorché si afferma che i magistrati si distinguono per diversità di funzioni e non di gradi: grande conquista quest’ultima.
Sarà difficile la discussione nella riforma dell’ordinamento giudiziario, perché da una parte si cerca di impedire tutti i pericoli del carrierismo, e dall’altra non si consente una marcia avanzata, indiscriminata di magistrati senza distinzione di capacità, di doti e di preparazione.
Quello che è soprattutto indispensabile – ed unisco la mia voce a quella, più autorevole, di altri – è che i magistrati non siano considerati ed inquadrati come funzionari dello Stato.
Questa è una battaglia che, penso, ha il suo cardine, la sua origine, mi permetto dire con previsione ottimistica, la sua vittoria, nel progetto, il quale appunto parla di distinzione non di gradi, ma di funzioni. Quindi, si sposta completamente la posizione dei magistrati rispetto a quella dei dipendenti statali. Su questa battaglia il Parlamento futuro si fermerà a discutere, a vagliare, a soppesare, per trarre il più possibile il magistrato al di fuori ed al di sopra della mischia fatta di interessi contrastanti e di lotte politiche.
Articolo 94: si occupa o meglio nega l’iscrizione ai partiti politici.
L’onorevole Veroni ci ha citato una serie di magistrati. È per me, giovane magistrato, che nutro tutt’ora e penso nutrirò sinché io viva, venerazione profonda per i magistrati e per la loro opera, in particolare per i magistrati anziani, per le battaglie sofferte e combattute, è per me dico edificazione particolare il sentire questa elencazione di magistrati, che hanno saputo lottare nel campo della giustizia, senza vedere la loro attività incrinata o sospettata neppure dall’opinione pubblica, e portare qui il loro contributo particolarmente equilibrato e costruttivo.
Poiché potrebbe sembrare che io difenda una mia posizione, lascio che l’Assemblea decida. Credo che i miei colleghi, molti, io certamente, siano pronti a lasciare la toga, o la vita politica, quando, comunque, l’Assemblea lo deciderà.
Io sono pronto a farlo ed a portare la mia modestissima ed esclusiva attività non in quel campo dove possa meglio riuscire, o dove più la vocazione mi chiami, ma dove possa meglio servire la mia Patria.
È indubbio però che questo articolo dia adito a molte discussioni. Io una preghiera posso rivolgere all’Assemblea ed è questa: che non ci si fermi a discutere se l’iscrizione sia o no consentita, se la partecipazione alla vita politica debba o no esser esclusa, ma si entri nella sostanza, vi si entri profondamente, cercando, guardando l’uomo e pensando che sotto la toga siamo uomini di carne ed ossa come tutti gli altri. Si cerchi di impedire che effettivamente sorgano sospetti di interferenze politiche presso la pubblica opinione, che non deve essere turbata da interrogativi in merito all’espletamento dell’attività giudiziaria; si faccia in modo che non sorgano questi interrogativi; perché il cittadino non debba chiedersi se un atto di giustizia sia sereno ed è obiettivamente motivato o se invece sia inficiato da qualche sospetto di politica. Quindi il problema non è soltanto nel negare una iscrizione. Può darsi che questa non tolga nulla, ma è necessario entrare nella sostanza e creare le premesse perché sorga e si mantenga quella mentalità e quella psicologia nel magistrato che gli consenta di difendersi da inframmettenze politiche, da pressioni, da tutto ciò che possa comunque turbare la sua coscienza, il suo giudizio, la sua opera di giustizia. Si tenga ben presente che si ha il pieno diritto, che questa Assemblea può anche avere il dovere di chiedere ai magistrati di non iscriversi ai partiti, e di non fare politica, ma questo è il corrispettivo, per così dire, dell’indipendenza; perché o noi diamo l’indipendenza al magistrato – ed in questo caso si può giungere ad una siffatta conclusione, come l’onorevole Cortese tanto saggiamente ci ha prospettato stamattina – o noi non possiamo fargli pagare, per così dire, lo scotto dell’indipendenza che gli avessimo negata.
Ritengo inoltre che questa indipendenza debba essere rafforzata, togliendo quel secondo capoverso dell’articolo 95: «presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario». Onorevoli colleghi, ci sono varî sistemi per poter, ad un certo momento, legare l’attività di giustizia della Magistratura e se vi può essere l’inframmettenza del potere esecutivo o del potere legislativo, vi può anche essere il sistema di sottrarre continuamente della materia al giudizio del giudice togato. Basterebbe vedere come sono sorti i varî tribunali speciali per questa loro speciale competenza, fino all’ultima sottospecie di tribunale, quello annonario, che non era composto da tre magistrati, ma da due magistrati e da un tecnico, il quale, sì, avrebbe potuto giungere a portare il suo contributo oggettivo di esperto e di scientifico, vale a dire il suo specifico contributo di tecnico, ma non avrebbe mai dovuto diventare giudice, rimanendo solo consulente, solo perito. Si mantenga l’esperto nella sua vera veste e si lasci che il magistrato possa continuare a fare il magistrato.
Vi è un altro problema che ha interessato e a volte turbato, in un modo che vorrei dire anche strano, l’Assemblea: è quello delle donne, vale a dire se esse debbano o meno entrare a far parte della Magistratura.
Lasciando quel che può essere il mio parere personale, di un giovane che sarebbe certo tacciato di mentalità del ’700, io penso che l’articolo 48 da noi già votato, possa aver arato il terreno ed aperto la strada per la soluzione di un tale problema. Quando l’Assemblea ha dichiarato che «tutti i cittadini di ambo i sessi possono accedere alle cariche elettive ed agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge», è possibile che comunque il problema possa ritenersi, se non del tutto, quasi risolto. Si potrebbe obiettare che questo articolo è sotto il titolo dei Rapporti politici; comunque è stato scritto e non è facile ora andare a vedere le motivazioni che l’hanno determinato o le varie dichiarazioni di voto per cercar di restringere il più possibile il contenuto. Ormai è scritto.
Per questo ritengo che sia inutile la presentazione dell’emendamento che, firmato dall’onorevole Mattei Teresa e dalla collega Rossi Maria Maddalena dice: «le donne hanno diritto di accesso a tutti gli ordini e gradi della Magistratura», ma che sia molto più saggio mantenere le parole del progetto, che portano con sé una grande saggezza, la quale, cioè, pur di fronte a questa uguaglianza, che io credo ancora voglia essere uguaglianza che non nega, ma presuppone le diversità nell’ordine di natura, abbia posto così un principio, abbia cioè detto che se la donna è uscita di casa per la vita politica, per la vita pubblica, comunque per un’attività che non sia quella sua primaria di maternità nella casa, la donna è chiamata ad essere «donna» in questa Assemblea come in ogni altra attività, ed è grande ed è a suo posto solo se è donna, perché solo in questo modo è madre di quella maternità spirituale, profonda, dolce e dolorosa insieme. Così potrà esser chiamata anche nella Magistratura, ma per portare questo suo palpito di maternità per cui in questo ufficio, in quell’incarico, sia necessario, o più opportuno che vi sia una donna. Ma ritengo comunque, che le doti altissime del suo animo dove prevale il sentimento che più è capace di renderla eroica, si confacciano alla specifica funzione del giudicare.
Ed una parola mi sia consentita sulla giuria. Non potrei certo mettermi in lizza con avvocati che hanno decenni di esperienza. Non posso, quindi, e non avrei titoli particolari per presentarmi a dire che io non sono favorevole alla Giuria. Ma vi è il più vasto problema, della partecipazione di estranei, di laici, al giudizio. Ho fatto un anno e mezzo il pubblico ministero in quelle Corti d’assise speciali dove ho visto troppo sovente i giudici popolari prevenuti, non sereni. È vero che erano delle Corti del tutto speciali, ma è anche vero che la pressione, la lotta politica, l’incapacità al giudizio, i commenti esterni di giornali o d’interessati, turbano la coscienza del cittadino chiamato a giudicare.
Io non sono d’altra parte d’accordo con quanto ebbe a dire stamane l’onorevole Veroni dicendo che vi è un nesso, una concatenazione fra quella che può essere la vita democratica di un popolo e l’esistenza della giuria. Forse storicamente questo potrà ancora trovare elemento di prova, ma nego che nella sostanza si possa parlare di rapporto, di causa ad effetto.
Credo che il problema debba essere studiato come la maggioranza mi pare abbia detto finora, e cioè, al di fuori di qualsiasi osservazione che possa, comunque, lasciar pensare a politica contingente. Uno solo è il quesito: per quale via si raggiunge meglio il fine della ricerca della verità che è la base essenziale per fare giustizia. Comunque, io sono contrario in particolare a chi ha detto che se la giuria dovrà esser esclusa, quanto meno essa deve vivere per i reati politici. Mi pare che se vi sia un caso nel quale debba essere esclusa sia proprio questo. E mi si lasci elevare una protesta, in questo momento, di fronte a quell’opinione pubblica che va presentando il reato politico come ammantato di qualcosa che lo renda meno criminoso di un altro reato. Lo è più gravemente, più profondamente criminoso che non qualsiasi altro reato, e lo è tanto, per cui è giusto che la società si difenda, decisamente, seriamente attraverso l’opera oggettiva, serena, vigile, del giudice togato, ma non attraverso un giudizio politico che presuppone logicamente una valutazione politica del fatto. No, signori, è un reato, è uno dei peggiori reati, e guai alla coscienza di quel popolo che si ostini a valutarlo diversamente. E qui sorgerebbe un problema agganciato a quello dell’iscrizione ai partiti. Perché mai si dovrebbe chiedere che il Magistrato togato non si iscriva a nessun partito ed il cittadino chiamato a far parte della Giuria, il cittadino giudice non debba avere questa limitazione? E lascio l’interrogativo.
Ma, consentitemi che soprattutto, io difenda i magistrati da un’accusa e da una critica sorta da varie parti di quest’Aula: si è detto che la giuria sia indispensabile (e su questo punto concludo perché il problema sia rinviato in sede di legislazione) perché il Magistrato è formalista, è freddo, mentre la Giuria porta certo un coefficiente di umanità.
Consentitemi, onorevoli colleghi, di ribellarmi a questa gelida visione dell’animo del giudice; lasciate che io vi dica che sotto questa povera toga c’è sempre un cuore che soffre, una coscienza che sente il dolore, le trepidazioni, gli affanni, i dubbi, le amarezze, le incertezze, vi è un’anima che intende la sofferenza dell’uomo. Ma questo senso umano è particolarmente cosciente ed è umanità che viene integrata anche da una sapienza di studio giuridico che la rende non emotiva o passionale, ma intelligente, motivata, serena.
Onorevoli colleghi, date questa indipendenza alla Magistratura. Date l’indipendenza perché i cittadini abbiano fiducia nella giustizia, date l’indipendenza per dimostrare che c’è una fiducia profonda nei magistrati; altrimenti non garanzia del cittadino, né della democrazia noi avremo, e soprattutto costringeremo qualche magistrato, che si ostina disperatamente a credere nella giustizia, a lasciare la toga, proprio per continuare a credere in una vera giustizia. Date quindi l’indipendenza. In quest’Aula tante volte sono sorte delle critiche, anche aspre, verso la Magistratura. Io altra volta ebbi a levare la mia povera voce a questo riguardo, e da ogni parte di quest’Aula ho inteso un applauso alla Magistratura, un applauso che mi ha commosso. Si è in questi giorni parlato tanto bene dei magistrati e della Magistratura ed è profondamente vero che affidando una particolare fiducia a questa toga si dà una maggior forza alla giustizia, a quella che è la concreta giustizia, a quella che ogni giorno continuamente si genera nelle aule giudiziarie. Ho unito così la mia, a voci molto autorevoli, a voci che hanno difeso la Magistratura. Ho cercato anch’io di difendere la mia povera toga.
D’altra parte tutti in quest’Assemblea dobbiamo, dinnanzi ai cittadini italiani dimostrare che qui si crede profondamente nella giustizia, perché i cittadini italiani imparino a continuamente credervi, come a elemento indispensabile di rinascita e di redenzione.
Onorevoli colleghi, io terminerò rivolgendo a ciascuno di voi, una preghiera. Non a voi deputati, a voi politici, a voi diversamente schierati nei vari settori, ma a ciascuno di voi uomo che sente, che vive, che soffre. Da lei, onorevole Presidente dell’Assemblea, agli uomini un po’ in tutti i settori, e in qualcuno in particolare, ci sono tanti che hanno molto sofferto a cagione della giustizia; vi sono uomini che hanno profondamente e magicamente sofferto, ed io mi appello a costoro che hanno provato le più gravi sofferenze, perché chi della ingiustizia ha sofferto deve avere un credo più forte nella vera giustizia. Avete sofferto per cagione di giustizia, privata del suo fondamento: la libertà. Io mi appello a questa sofferenza, come alla sofferenza di voi, che siete deputati ed avvocati di ogni parte, voi che soffrite con la sofferenza di coloro che dovete difendere, voi che soffrite nel segreto del vostro studio per la ricerca affannosa della verità. Lasciate che anche ogni magistrato porti la sua sofferenza, come io porto la mia seppur modesta. Pure fu essa ad aprirmi più ampia la porta della comprensione fra i detenuti, a farmi salire soffrendo al banco dell’accusa a chiedere una condanna a chi fratello mi era dinnanzi, e nel dolore, più che mai fratello mi appariva. Lasciate che in nome di questa sofferenza io vi chieda: difendiamola insieme questa povera, umile, tante volte lacerata ma gloriosissima toga, difendiamola insieme da ogni parte di questa Assemblea e ricordiamo che se essa è intemerata, è garanzia di giustizia; se essa è libera è garanzia, onorevoli colleghi, è certezza di libertà. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Gullo Fausto. Ne ha facoltà.
GULLO FAUSTO. Onorevole Presidente, onorevoli colleghi! Che il problema sottoposto oggi alla discussione dell’Assemblea sia arduo e complesso è dimostrato – se ce ne fosse bisogno – dalla lunga discussione che si è svolta in questa Assemblea e, prima ancora, dall’ampio dibattito che si è svolto sulle riviste e sui giornali.
Problema arduo e complesso; ardua e complessa, quindi, la soluzione che esso richiede per la salute della nuova democrazia italiana.
Ma a rendere indubbiamente più complicati i termini del problema sono intervenuti due fatti. Il primo è che il problema non si è salvato da un veleno che, specialmente nel nostro Paese, si riscontra un po’ dappertutto: non si è salvato dalla retorica.
Non è che la retorica sia qualche cosa da escludere sempre e aprioristicamente; cadremmo così nella retorica dell’antiretorica. Un grande scrittore il quale, appunto perché grande, non poteva avere, e difatti non aveva, simpatia per la retorica, diceva però che qualche volta è giusto che essa ci sia. Ma quando ha da esserci, è necessario che sia misurata, parca, fatta con garbo, tale, insomma, che la gente non si accorga della sua presenza.
Ora, è indubbio che nei rapporti del problema giudiziario vi è stata sempre della retorica e della pessima retorica, perché i giudici sono vittime – penso che essi per i primi abbiano coscienza di questo loro stato di vittime – sono vittime di due retoriche ugualmente pessime, una che chiamerò esaltatrice e un’altra che dirò menomatrice.
C’è caso che si parli dei magistrati senza che si ricorra a frasi di questo genere: apostoli della giustizia, custodi del diritto, sacerdoti della legge? Ed è questa appunto la retorica esaltatrice.
Ma c’è anche – come dicevo – la retorica menomatrice. Vi siete mai accorti, in grazia di questa retorica, che vi sia un giudice il quale decida di cause di milioni avendo fatto un sufficiente pasto o che non venga in udienza con l’abito frustro e logoro? E accade, così, che per questi due eccessi retorici noi perdiamo di vista l’uomo che sta sotto la toga, la quale non è certo una toga da sacerdote, da apostolo, da custode, tale insomma da far venire in mente i sacerdoti della Norma o dell’Avanti! È necessario invece che noi abbiamo davanti l’uomo, l’uomo giudice, che parecchie volte ha scelto questa carriera perché spintovi dalla necessità, dal bisogno di dare alla sua vita una sistemazione, pur senza escludere coloro che la scelgono per elezione. Siamo insomma di fronte a uomini che devono essere considerati e valutati come tali.
Ma, insieme con questa retorica che falsa l’umanità del giudice, vi è un qualche altro elemento perturbatore. In realtà il problema giudiziario non è uno solo; si è erroneamente fatto di tre problemi ben distinti un problema unico. E anche ciò è valso a renderne più difficile la soluzione, il problema è triplice. Vi è il problema del potere giudiziario in se stesso. Quando si parla, per esempio, di sovranità del potere giudiziario e se ne discute come di qualche cosa che possa essere messa in dubbio, evidentemente si confondono tre problemi diversi. Si confonde il potere giudiziario con l’organo del potere giudiziario e, peggio ancora, con gli uomini che costituiscono l’organo. Ma vi può esser dubbio sul fatto che il potere giudiziario sia un aspetto della sovranità dello Stato? Anche lo Statuto albertino, affermando che la giustizia emana dal re (che era l’organo in cui si compendiava la sovranità dello Stato), riconosceva esplicitamente il carattere sovrano del potere giudiziario. Non è ammissibile che si discuta su questo. Si è sempre concordemente riconosciuto che una delle lesioni più gravi alla sovranità di un Paese è appunto quella di togliergli o menomargli la podestà di giudicare. Non può esser dubbio: il potere giudiziario è un aspetto della sovranità dello Stato. E affermare ciò significa accettare senz’altro le conseguenze di cui di qui a poco parleremo.
Vi è poi un secondo problema ed è quello dell’organo che deve esercitare questo potere. Ma a nessuno verrà in mente di affermare che quest’organo è un organo sovrano.
Non lo è alla stessa maniera che non è sovrano il Governo che pur esercita il potere esecutivo, che non lo siamo noi che esercitiamo quello legislativo. Non si vede perché dovrebbe esserlo l’organo che esercita il potere giudiziario; tanto meno ciò si vede in rapporto agli uomini che costituiscono l’organo stesso. Sono concetti semplici, ma non è forse inopportuno richiamarli alla mente allorquando ci si pone sul terreno della soluzione del problema del potere giudiziario. Triplice problema, dunque: potere giudiziario, organo giudiziario, uomini che costituiscono questo organo. È il problema degli uomini quello che abbiamo davanti? Ho già avuto cura di sottolineare la necessità che il giudice sia esaminato e valutato come uomo. Egli ha tutto da guadagnare da ciò e nulla da perdere. Io che ho avuto contatto con i giudici italiani per decenni, posso senz’altro affermare, a loro onore, che essi costituiscono una classe in cui le persone degnissime non sono affatto rare. Purtroppo il costume è tale che l’onestà, assunta nel più elementare significato della parola, diventa una nota distintiva, mentre dovrebbe costituire il fatto di tutti, la premessa sottintesa. Ma poiché è così, bisogna riconoscere che questo titolo di distinzione è consueto tra i giudici. Ognuno di noi, che ha avuto contatto con i magistrati, può senz’altro affermare, sicuro di aderire al vero, che è rarissimo il caso del giudice che ceda all’allettamento corruttore. La generalità dei giudici da questo punto di vista è sana. Ma dobbiamo senz’altro affermare, per la dignità di noi stessi e per la dignità dell’Ordine giudiziario, che questo è un elemento che non basta; perché si sia un buon giudice non è sufficiente essere soltanto onesto; l’onestà è una premessa che deve esser sottintesa.
Ma anche movendo da tale considerazione, ognuno di noi può rievocare l’immagine di qualche giudice, che costituisce un esempio veramente imitabile. Mi piace a questo punto ricordare un fatto occorsomi proprio durante il tragico ventennio, in cui tutto cedette, anche l’Ordine giudiziario. Alcuni uomini potettero resistere, ma l’Ordine cedette. Perché non dirla questa verità? Ricordo, dunque, che un sottufficiale della milizia aveva così bestialmente percosso e bastonato un detenuto, da cagionargli una polmonite traumatica, che ne determinò la morte. Si istruì il processo. Il milite era imputato di omicidio volontario.
Fatto è che si voleva, che si doveva salvarlo ad ogni costo. Furono mobilitate, starei per dire, tutte le forze dello Stato. Ho davanti la Corte di assise, in quel giorno in cui si svolse il dibattimento: era piena di ufficiali dell’arma a cui apparteneva l’imputato. Vi erano stati periti compiacenti, i quali avevano detto che, nel caso, non si trattava di una polmonite traumatica, che non c’era alcun nesso di causalità fra le percosse e la polmonite e la morte; che vi era stata soltanto una coincidenza casuale tra le innocue percosse e una polmonite infettiva. Vi era un principe del foro – del foro fascista, naturalmente – che aveva assunto la difesa del sottufficiale. Il Pubblico Ministero ritirò l’accusa e chiese l’assoluzione.
Vi era però in questa Corte di assise un Presidente, un vecchio, alto, fisicamente aitante, che dirigeva come meglio poteva il dibattimento nel clima assolutorio che si era creato. Non si affacciava nemmeno il sospetto che l’imputato non dovesse essere assolto.
Era una giornata afosissima di luglio. L’avvocato, sicuro del fatto suo, ritenne di dover dire soltanto poche parole. La Corte di assise entrò in camera di consiglio che non era ancora mezzogiorno. Era quasi il tramonto e non veniva fuori.
Dopo lunghe otto o nove ore finalmente la Corte riapparve. I giudici avevano chiari nel viso, nell’atteggiamento, nelle vesti i segni della sofferenza di una così lunga camera di consiglio con una temperatura torrida. Solo il Presidente appariva nella padronanza assoluta di tutti i suoi mezzi fisici; con voce alta, avvolto nella toga che lo rendeva ancora più solenne, lesse la sentenza di condanna per omicidio volontario. Egli ebbe il coraggio, di fronte a tutto quello sfoggio di forze che era nell’aula, in quel clima di intimidazione e di aperta minaccia, di resistere e di fare giustizia. Vi furono, non è dubbio, anche durante il fascismo, giudici che conservarono la coscienza del loro dovere.
La questione non è tanto di uomini, e questo rende il problema ancora più arduo, e ci deve convincere che non è risolvendo una questione di uomini che noi possiamo pretendere di risolvere la questione del potere giudiziario in Italia. Essa, del resto, si è sempre dibattuta, anche quando esistevano, secondo alcuni, in gran numero giudici insigni, di cui ora si sarebbe perduto lo stampo.
Ricordo un discorso di Zanardelli, che una rivista giuridica ha pubblicato in questi giorni, per notare come gli stessi problemi che si agitano ora si agitavano cinquanta anni fa, e negli stessi termini.
Ora, poiché il problema permane nonostante gli uomini, occorre riconoscere che esso è più profondo e più radicale. È un problema di sistema.
Qui si innesta senz’altro, come primo aspetto della questione, ed è l’aspetto più interessante, quello dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura. Si dice: la Magistratura deve essere indipendente ed autonoma. Badate, è qui che si inserisce l’errore di cui parlavo all’inizio, ossia di non riflettere bene che la sovranità è soltanto del potere giudiziario e non dell’organo. Evidentemente, quando si afferma con tanta risolutezza – e vedremo in quali termini e in quale misura – la necessità dell’indipendenza e dell’autonomia della Magistratura, si commette un errore, ossia si slarga il carattere di sovranità, che è proprio del potere giudiziario, attribuendolo all’organo. Si dice: «la Magistratura deve essere indipendente ed autonoma». Occorre che ci intendiamo sul significato di queste parole. Quale è il potere dello Stato che sia indipendente ed autonomo?
Non il potere legislativo, non il potere esecutivo. Né si vede che l’uno e l’altro siano menomati, e nella teoria e nella realtà, dal fatto che non sono né indipendenti né autonomi. Perché dovrebbe esserlo in così larga misura il potere giudiziario? Bisogna pur dare un fondamento teorico e pratico a questa affermata necessità della piena indipendenza e della piena autonomia della Magistratura.
E, badate, è una autonomia e una indipendenza che si postulano in maniera tale, che, se noi volessimo applicarle integralmente, avremmo un organo assolutamente scisso dagli altri organi, che sono anch’essi rappresentativi della sovranità dello Stato.
Onde si trarrebbe la ragione di tutto ciò?
Non basta dire: «noi vogliamo sottrarre l’ordine giudiziario alle illecite interferenze dell’esecutivo». Qui siamo di fronte ad un fatto illecito, direi, delittuoso, comunque eccezionale; e non è possibile, partendo da una eccezionalità, voler costruire un edificio costituzionale. Dire: noi intendiamo che l’ordine giudiziario sia assolutamente autonomo ed indipendente, significa scinderlo dagli altri poteri sovrani dello Stato; non può bastare a giustificare, ne teoricamente, né praticamente una costruzione simile, il fatto eccezionale di un Ministro, che possa imporre al giudice una sentenza. E questo lo dico prescindendo dal fatto che noi siamo in regime di democrazia. E se questa democrazia noi la intendiamo e la creiamo come attività di organi, che si rifacciano costantemente, nella esplicazione della loro funzione, a quella unica fonte di sovranità, che è il popolo, se noi questo vogliamo, e dobbiamo volerlo, se noi riusciamo a creare questa democrazia, evidentemente la pretesa necessità di assicurare l’autonomia e l’indipendenza della Magistratura in maniera tale da renderla un potere scisso da tutti gli altri, non ha alcun fondamento; perché non è più concepibile, se non come fatto assolutamente anormale, la indebita ingerenza dell’esecutivo nel giudiziario.
Il controllo che vi è da parte del legislativo sull’esecutivo, da parte del corpo elettorale e del popolo sull’uno e sull’altro deve, ripeto, rendere assolutamente eccezionale una indebita ingerenza dell’esecutivo; non parliamo del legislativo, cui qualche collega accennava. Noi possiamo in astratto ipotizzare tutto, ma non vedo come questa ingerenza del legislativo potrebbe esplicarsi come atto illecito. Se domani si esplicasse in una maniera tale, che anche la Magistratura ne sentisse il peso, ciò non avrebbe nulla di men che perfettamente lecito.
Ed allora, che cosa è questa indipendenza? Se noi togliamo ad essa questa giustificazione, che deve essere esclusa per il rispetto stesso che ognuno di noi deve avere per la democrazia nuova, cosa sarà mai questa indipendenza della Magistratura?
Indipendenza da che cosa? Dal legislativo e dall’esecutivo, nel senso che questo potere, nella esplicazione della sua attività, non debba avere rapporti costanti, continui con l’esecutivo e col legislativo? Io nego che in uno Stato veramente democratico possa aversi un fatto simile. Noi consideriamo i tre poteri, così come mostrava di considerarli, in un passo oltremodo significativo della sua Scienza della legislazione, Gaetano Filangieri. Egli scriveva:
«In ogni specie di Governo l’autorità dev’essere bilanciata, ma non divisa; le diverse parti del potere debbono essere distribuite, ma non distratte; uno deve essere il fonte del potere, uno il centro dell’autorità; ogni parte del potere, ogni esercizio di autorità deve immediatamente da questo punto partire, deve continuamente a questo punto ritornare».
Il Filangieri, con perspicuità di concetti e di parola, senz’altro definiva quale deve essere l’esercizio della sovranità costituzionale.
Ma noi, realizzando l’indipendenza e l’autonomia del potere giudiziario, così come esse vengono richieste, creeremmo un potere completamente staccato ed estraneo dagli altri poteri dello Stato. Noi consideriamo la sovranità come un tutto inscindibile; nessun potere deve essere distaccato da questa unica fonte, da cui traggono l’autorità tutti i poteri. Si dice: noi vogliamo l’indipendenza della Magistratura, perché «compito del magistrato – dicono i magistrati dell’Associazione nazionale – è l’applicazione della legge, che non ammette soluzioni di continuità». Sono parole grosse, con le quali in realtà si cade in una strana tautologia. Non credo che ci sia alcuno il quale possa mettere in dubbio questo fatto, cioè che il magistrato debba applicare la legge. Ma quando si è detto questo, non si è detto proprio nulla, e non si è avanzato di un’unghia sulla via della risoluzione del problema. Cosa vuol dire: «il magistrato deve applicare la legge»? Forse siamo di fronte ad un meccanismo automatico per cui quando avremo assicurata la fedeltà dell’operatore, avremo senz’altro la piena applicazione della legge? O non piuttosto l’applicazione della legge è un fatto del nostro spirito, della nostra mente e del nostro essere, cioè qualcosa che non può ridursi ad un meccanismo? Quando voi dite: il magistrato deve applicare la legge, dimenticate una cosa sola ed essenziale: la legge è come l’opera d’arte, che può rimanere nel suo testo immutata, ma che rinnova continuamente il suo spirito. Forse che la Divina Commedia che leggeva Giovanni Boccaccio sei secoli fa è la stessa che leggeva Francesco De Sanctis 80 anni addietro o è la stessa che leggiamo noi?
La poesia di Torquato Tasso era percepita dai suoi contemporanei ben diversamente da come la percepiamo noi, che abbiamo vissuto il romanticismo e vediamo quale filone romantico è nei suoi versi. Pure i testi della Divina Commedia e della Gerusalemme Liberata son sempre quelli. Così la legge. Potete voi dire che il Codice civile del 1865 veniva inteso allo stesso modo nel 1940? Le parole erano sempre le stesse, d’accordo, ma l’interpretazione di quel Codice, che si era protratto per 80 anni, ne aveva fatto via via una cosa diversa. Quando si dice che il magistrato intende all’applicazione della legge, si dice cosa che non ha affatto il significato che si vorrebbe attribuirle. Ne volete una prova? E sia detto questo, non solo per mostrare che questa frase non significa nulla, ma per segnalare quanto di pericoloso sia insito in essa. Sono costretto qui, volendo aderire alla realtà e guardarla con occhio scevro da ogni preconcetto e da ogni partito preso, a chiedermi se il magistrato ha creduto di applicare la legge in questi ultimi tempi– parlo di episodi recenti, perché essi hanno sempre una suggestione maggiore – dichiarando incostituzionali, uno dopo l’altro, tutti i decreti di carattere agrario, tutti, nessuno escluso, i miei e i decreti Segni. Finanche l’ultimo, sull’equo fitto, dopo soli due mesi, dalla Corte d’appello di Torino è stato dichiarato incostituzionale. Credete che questi magistrati pensino di non avere applicata la legge?
Se dovessimo fermarci a questa frase, bisognerebbe dire che essi hanno fatto il loro dovere. Ma come l’hanno fatto? Prescindo dall’aspetto strettamente giuridico, e mi domando se questi magistrati hanno avuto coscienza del fatto che con i loro giudicati venivano a porsi contro un inizio di legislazione agraria, attraverso il quale finalmente un raggio modestissimo di sole è sorto ad illuminare tutta una massa di uomini finora tenuta nelle tenebre più fitte. Ebbene, questo inizio di legislazione, pur così crepuscolare, ha trovato dei giudici che non hanno compreso nulla del suo significato sociale, che si sono chiusi in un’angusta interpretazione letterale, per giunta anche errata, perché la dichiarazione di incostituzionalità di una legge non può essere che un fatto puramente formale; ed è quindi aberrante che si dichiari incostituzionale una legge, mentre non abbiamo ancora una Costituzione. Ma, si ripete, anche se non ricorresse questo motivo giuridico, resterebbe sempre l’altro motivo più sostanziale, e cioè che la Magistratura non ha, purtroppo, avvertito nulla delle speranze, delle aspirazioni delle masse contadine, che nel clima della nuova democrazia chiedono di avere il giusto riconoscimento. Pure io so che non mancano fra i magistrati coloro che sentono queste aspirazioni e queste necessità. Ma la loro presenza non è valsa ad evitare questa dichiarazione di incostituzionalità a catena di tutti i decreti a favore dei contadini.
Quasi tutti i più alti gerarchi fascisti sono stati rimessi in libertà. Non incolpiamone l’amnistia: essa voleva essere un atto di pacificazione, che era chiesto da tutti i partiti, e fu quale dovette essere. È questione di averla interpretata in una maniera aberrante, e non solo dal punto di vista politico-sociale. Non doveva essere applicata così neanche da un punto di vista strettamente giuridico, perché il ragionamento che la Magistratura ha fatto per arrivare a quella conclusione, è giuridicamente errato e tortuoso. Ed è stata conclusione nettamente contrastante con l’aspirazione viva di quegli italiani, che hanno voluta questa nuova democrazia, e per volerla hanno affrontato carceri, martirî, dolori e hanno salvato così la dignità stessa del nostro Paese.
Ma tutto questo, evidentemente, è sfuggito alla Magistratura. Essa non è riuscita a percepire il senso di questa nuova vita.
La indipendenza del magistrato è necessario intenderla in un altro modo. Nei riguardi del potere giudiziario è indubbio che il regime assolutistico, di fronte alla polverizzazione giurisdizionale del feudalesimo, rappresentò un sicuro progresso. Il potere giudiziario si presentava come un riflesso della sovranità dello Stato, che si impersonava e riassumeva tutto nel re. L’esigenza della indipendenza della Magistratura sorse nei regimi costituzionali, quando la sovranità venne ad essere formalmente scissa tra popolo e re. Il popolo doveva garantirsi. Gli doveva essere garantita una giustizia che sfuggisse al pericolo del prepotere regio. Così sorse e si giustificò l’indipendenza della Magistratura. Ma ora, se noi creiamo sul serio una autentica e vera democrazia, non possiamo non essere contrari ad una indipendenza così intesa. Noi vogliamo che il giudice viva a continuo contatto del popolo, ossia della fonte da cui esso unicamente trae i motivi e la giustificazione della sua autorità. La Magistratura deve essere legata con tutti gli altri poteri, appunto perché l’esercizio di tutti e tre i poteri risulti quanto più si può armonico e perché nessuno di essi venga, per nessuna ragione, distratto e scisso dagli altri.
La indipendenza, invece, così com’è intesa da alcuni, verrebbe ad essere uno strumento idoneo soltanto ad isolare il magistrato, ed accadrebbe questo fatto: che la indipendenza, sorta come una guarentigia di carattere esclusivamente strumentale, verrebbe ad essere considerata invece come una guarentigia di carattere finalistico o teleologico; ossia l’indipendenza del giudice per la indipendenza del giudice. Ma perché questo? Che cosa si vuol fare del giudice? Forse un essere che viva sotto una campana di cristallo e che non senta nulla delle aspirazioni e delle speranze del popolo? Un essere che viva chiuso in se stesso, inteso a quella applicazione della legge che abbiamo visto or ora? O non è giusto invece, non è necessario che la Magistratura partecipi attivamente alla vita della Nazione? Che essa collabori strettamente con gli altri poteri, legata ad essi da vincoli che non vengano mai allentati o dispersi, perché disperderli significherebbe ferire in pieno la democrazia stessa, nella sua sostanza e nel suo profondo significato?
Intanto si ha vera democrazia, in quanto il legislatore, l’esecutore e il giudice costituiscano, sì, tre poteri distinti, ma operanti in armonica coesistenza. Soltanto così può essere intesa la indipendenza della Magistratura. E da questa premessa può e deve muovere la discussione intorno al Consiglio Superiore della Magistratura.
Perché il progetto vuole che il Consiglio Superiore della Magistratura non sia formato esclusivamente da magistrati? Perché formarlo esclusivamente di magistrati significherebbe alimentare questa strana pretesa di una indipendenza, che valga come estraneità completa dal resto dello Stato. Per la ragione contraria noi affermiamo, invece, che questo organo massimo del potere giudiziario non può essere composto esclusivamente di magistrati. Essi vedrebbero il problema del potere giudiziario attraverso le unilaterali esigenze dell’organo e confonderebbero l’uno con l’altro.
Sono due cose che, invece, devono essere tenute distinte. Il potere giudiziario non è un fatto della sola Magistratura, è un fatto di tutti gli italiani. Non può immaginarsi che il Consiglio Superiore sia formato di soli magistrati, i quali indubbiamente, per necessità di cose, porterebbero nella soluzione dei vari problemi un angusto sentimento di casta, e sfuggirebbe ad esso, invece, quella visione più larga del potere giudiziario, come attività che interessa tutti gli italiani e non soltanto i giudici.
Ecco la necessità perché di questo organo facciano parte elementi estranei, che concorrano insieme coi magistrati alla soluzione di tutti i problemi che interessano il potere giudiziario.
Si dice: ma voi li fate eleggere dalle Camere; c’è una ingerenza illecita del legislativo.
Non lasciamoci prendere dalle parole fatte. Quale ingerenza sarebbe questa? Perché la Camera dei deputati ed il Senato, nominando alcuni membri del Consiglio Superiore della Magistratura, eserciterebbero una illecita ingerenza? Chi volete che li nomini, se non le Assemblee che rappresentano direttamente il popolo, quel popolo che è la fonte unica della sovranità, e dal quale la Magistratura trae il suo potere e la sua autorità? C’è cosa più logica e più adeguata alle esigenze costituzionali dello Stato, che questi membri estranei siano appunto nominati dalle Assemblee popolari? Gli eletti entreranno in questo organo supremo della Magistratura portando, appunto, la visione che l’uomo estraneo all’ordine ha del potere giudiziario, in modo che la soluzione dei vari problemi non sarà una soluzione unilaterale, ma sarà quella che è imposta dalle esigenze di tutte le categorie del popolo italiano e non soltanto dalla categoria direttamente interessata, che è quella dei magistrati.
Da questo punto di vista noi approviamo senz’altro il testo del progetto, ed approviamo anche che a capo del Consiglio Superiore della Magistratura sia il Presidente della Repubblica, il quale darà maggior lustro a questo supremo organo del potere giudiziario e, riassumendo in sé la sovranità dello Stato, imprimerà al Consiglio Superiore l’aspetto, non di un organo proprio ed esclusivo della Magistratura, ma di un organo che presieda al potere giudiziario in nome di tutto il popolo italiano.
Ma, a mostrare quanto sia giusta la tesi che ha trovato la formulazione nel progetto, e quanto sia invece infondata e ingiustificata la richiesta della piena e assoluta indipendenza della Magistratura, soccorrono altre considerazioni, che riguardano più direttamente gli uomini che compongono l’ordine giudiziario.
Qui siamo di fronte alla parte più spinosa: quella appunto, come dicevo poc’anzi, che si è affacciata cento volte durante gli ottanta anni di vita unitaria italiana, e che non ha mai trovato l’adeguata sistemazione. Ebbene, bisogna affermare – per lo meno io l’affermo, perché sento che questa è la ragione che ha reso impossibile la soluzione del problema giudiziario finora, e la renderà impossibile sempre, se continuerà a persistere – bisogna affermare che la ragione è che il giudice non è tratto direttamente dal popolo.
Gli stessi magistrati sentono questa manchevolezza. Tanto la sentono, che, in uno stampato, che hanno fatto distribuire a tutti noi, essi, dopo aver affermato che «bisogna che la scelta avvenga solo a mezzo di concorso nazionale per esami» avvertono la necessità di aggiungere: «il che conferisce ai magistrati la qualità di rappresentanti, sia pure indiretti del popolo» Essi dunque sentono questa necessità: i giudici debbono essere rappresentanti del popolo. Ed è proprio qui la lacuna, qui il vizio del sistema. Il magistrato è ora avulso dal popolo. Egli non proviene direttamente da questa fonte; eppure ciò è quanto mai necessario in un regime di vera democrazia.
In realtà è veramente strano pensare che basti un concorso, per conferire questa rappresentanza. Ma, ripeto, è proprio qui la lacuna del sistema.
Che cos’è il concorso, questa fonte da cui i magistrati vengono tratti? Alcuni esami, e si può anche ammettere che siano esami difficili. Non sono, comunque, insuperabili, anche da chi non sia fornito di speciale intelligenza. Sappiamo tutti che cosa siano gli esami.
Ma, anche a considerare che il concorso sia uno strumento di cernita perfetto, è da chiedere: che cosa si accerta attraverso il concorso? Si accerta al massimo la capacità dottrinale. Ma basta esser colto per essere giudice? Basta avere – e magari l’avessero, dopo vinto il concorso – basta avere sul serio la capacità dottrinale, perché si possa essere un buon giudice? Può sul serio affermarsi che il concorso superato legittimi la presunzione di essere di fronte ad un giudice che sa amministrare giustizia?
Si accerta innanzi tutto, attraverso il concorso, per esempio, il carattere? E non è forse questa la prima dote del giudice, molto più che non sia la cultura? Non è forse necessario che il giudice abbia in sé il senso più vigile della propria dignità, che abbia in sé la volontà sempre ferma di difendere la propria indipendenza? Perché si potranno escogitare tutte le leggi che si vorranno, ma se non si ha l’uomo integro, che senta di dover difendere la sua dignità e la sua indipendenza contro tutto e contro tutti, il buon giudice non si avrà mai!
A tal proposito ritengo opportuno accennare ad un fatto, che concorre a mostrare che cosa possa voler dire incamminarsi verso la creazione d’una casta, di un ordine chiuso, e il fatto è il decisamente ostile atteggiamento che hanno assunto i magistrati ai fronte al profilarsi della possibilità di fare ricorso ad una Magistratura elettiva.
E perché non dovrebbe pensarsi ad una Magistratura elettiva? Perché non dobbiamo affermare nella Costituzione (si intende, senza scendere a dettagli, che rimandiamo al legislatore venturo), perché non dobbiamo affermare nella Costituzione, che la Magistratura può anche avere come sua fonte la elezione?
Io ho letto quello che il collega Persico ha scritto (egli dice che il suo libro non lo ha letto nessuno, e non è vero), cioè che possa essere opportuno ricorrere al mezzo dell’elezione, almeno per i conciliatori ed i pretori.
Si obietta che si andrebbe incontro non si sa bene a quali inconvenienti.
Ma perché pensare che il popolo non sia capace di eleggere i suoi rappresentanti? e ciò dobbiamo dirlo proprio noi?
Ma perché questa ostilità preconcetta contro le elezioni? Non vi sono nazioni dove il giudice è eletto? All’inizio potrà esservi qualche deviazione; ma si può esser certi, che l’elettività rinnoverebbe profondamente, e ci fornirebbe un mezzo efficace per dare al problema giudiziario una soluzione adeguata ed efficace. Affermiamo dunque nella Costituzione che il magistrato possa essere elettivo! Il popolo saprà eleggere persone idonee e degne!
E, del resto, noi potremmo spianargli la via, richiedendo dagli eleggibili qualità che garantiscano della loro competenza e della loro capacità.
Abbiamo fiducia nel buon senso degli italiani; nella coscienza che essi avranno di eleggere i migliori. Noi otterremmo un altro risultato, che è di natura pratica, ma che non è meno interessante, ossia questo: che riducendo il numero dei magistrati veri e propri, appunto perché lasceremmo alla fonte elettiva i pretori e i conciliatori, lo Stato potrebbe andare incontro alle loro necessità in maniera più adeguata ed efficiente, assicurando loro un trattamento degno dell’alto ufficio. Come avviene in Inghilterra, dove il corpo vero dei magistrati è composto da poche centinaia di persone.
Forse questa stessa preconcetta ostilità alla elezione del giudice non è estranea alla manifestata ostilità alla ricostituzione della giuria popolare nei giudizi di Corte di assise. Non l’ho sentito ieri, ma mi è stato riferito, che il mio amico Veroni ha detto una cosa saggia, quando ha ricordato che ogni eclissi nella libertà e nella democrazia ha senz’altro avuto come compagna una eclissi nella istituzione della giuria. È scomparsa la libertà, scompare la giuria; la libertà è risorta, risorge anche la giuria.
Non si può restare estranei e insensibili a questa esperienza storica. Ma io voglio, oltre che fare ricorso a questo motivo, che ha pure la sua grande importanza, affrontare brevemente, il problema anche nella sua sostanza. Non è inopportuno ricordare in questo momento ciò che Finocchiaro Aprile, il presentatore del Codice di procedura penale del 1913, scrive nella sua lunga e pregevolissima relazione al progetto del 1905, che poi fu il Codice del 1913, sostenendo la necessità di mantenere in vita la giuria. Egli parla giustamente della premessa che, allora una Magistratura e una sanzione raggiungono il risultato voluto, quando si constata che i delitti colpiti con quella sanzione e da quella Magistratura sono in diminuzione.
Ebbene, Finocchiaro Aprile poteva constatare che, mentre i processi di Corte di assise erano in costante diminuzione, i processi di competenza dei Tribunali erano in continuo aumento.
È un argomento di fronte al quale non si può restare insensibili, perché, o si deve negare l’efficacia della pena, ed allora quegli errori giudiziari, di cui tanto si parla, perdono molto del loro contenuto e del loro significato, oppure si afferma la necessità della pena, ed allora non si può prescindere da questo fatto statisticamente accertato.
È poi anche da considerare che l’errore del giudice popolare ha una risonanza, si capisce, molto maggiore. Domani, per esempio, si griderà senz’altro all’errore giudiziario da parte di coloro che vorrebbero condannato il Graziosi, se questi verrà assolto, e viceversa, se verrà condannato, grideranno all’errore coloro che lo vorrebbero assolto. Il processo Graziosi ha occupato non so più quanti mesi, ed è diventato un avvenimento nazionale. Ma che volete che si sappia, invece, delle dieci o più cause che oggi si sono dibattute in una sezione del Tribunale di Roma o di Napoli? Quanti errori giudiziari di cui non si sa nulla!
Lasciamo stare tutte le ragioni che giustificano storicamente l’istituzione della giuria, in Inghilterra prima e in Francia e nelle altre nazioni dopo. Facciamo capo soltanto alla nostra esperienza. Si obietta: il giurato è un incompetente; non può aver mai la capacità del giudice togato. Non può capir nulla della personalità dell’imputato.
Senonché il giudice togato può pure avere avuto da natura un cuore aperto a tutte le aspirazioni, a tutte le idealità, una mente dedita agli studi, un’anima vibrante ad ogni stormire di sentimento; ma che volete? Bisogna non essere uomini per non cedere alla terribile usura del fare costantemente le stesse cose.
Il giurato è in condizioni da intendere e da ricercar meglio quali possano essere state, in determinate circostanze di tempo e di luogo, le reazioni opposte dall’imputato. Le intende meglio, perché la legge vuole che egli sia di regola un concittadino dell’imputato, che ne conosca, quando non li senta egli medesimo, gli stessi bisogni e anche gli stessi pregiudizi; perché non c’è giustizia che sia sentita dal popolo, se essa non tenga conto delle aspirazioni ed anche, perché no dei pregiudizi del popolo. Il giudice non farà mai giustizia vera, se perde i contatti con la realtà che gli si muove intorno. Nei processi politici ed in quelli comuni di molta gravità, il giurato sente queste cose meglio che non le senta il giudice togato. Non ho letto e non ho sentito in questa Assemblea quali siano le valide ragioni che rendono sconsigliabile il ritorno ai giurati; e non ho sentito che si siano portate ragioni valide, per menomare la bontà di quelle che stanno a favore della giuria. E così come per il ritorno alla giuria, vorrò dire fugacemente qualche cosa sulle altre questioni che si sono qui dibattute. Su una soprattutto, della quale, per quanto nel progetto non se ne parli, hanno discorso quasi tutti gli oratori che mi hanno preceduto. E cioè: Cassazione unica o Cassazioni regionali?
Ritengo che può essere forse pericoloso affrontare questo problema e volerlo risolvere, mantenendosi soltanto sul terreno strettamente giuridico. Penso sia opportuno decampare da questi limiti, che possono essere angusti, e vedere se fuori di questo ambito possano esservi ragioni, che consiglino il richiamo in vita delle Cassazioni regionali.
In realtà, l’argomento centrale a favore della Cassazione unica è quello della unicità della giurisprudenza. Il diritto deve avere una sola interpretazione e questa non si può avere se non attraverso l’unica Corte di cassazione.
I fatti ci dicono che le cose vanno in maniera leggermente diversa, cioè che l’unicità di giurisprudenza non è assicurata nemmeno dalla Cassazione unica.
Ma, come dico, vorrei far capo ad argomenti non soltanto giuridici. E ricordo a me stesso che l’Italia, per la sua storia, per la sua tradizione, per la sua varia composizione sociale, è forse la Nazione che più d’ogni altra presenta aspetti diversi. Ora il diritto non è un’astrazione. Il diritto è veramente tale, quando sorge spontaneo dai bisogni e dalle necessità del popolo: allora soltanto è veramente inteso dalla universalità dei cittadini.
Indubbiamente vi è in Italia questa diversità d’aspetti; essa è stata sempre così ovviamente constatabile, che non è inopportuno ricordare che, in un progetto di riforma dell’ordinamento giudiziario presentato da Giuseppe Zanardelli nel 1903, venivano costituite le Corti di revisione, facendone un giudice di terza istanza, e restringendo, così, e di molto, i limiti di attività della Corte di cassazione.
Ma anche ad ammettere che con la Cassazione unica si riesca ad avere l’unicità di giurisprudenza, è un bene che essa si abbia? Non pensate che ci possano essere delle questioni, identiche apparentemente, le quali è ingiusto che trovino soluzioni identiche così a Torino come a Caltanissetta? Non c’è caso che si giunga allo strano risultato di non aver fatto giustizia né in un luogo né nell’altro?
Tralascio tutti i motivi di natura più specialmente pratica, come la necessità di avvicinare il giudice al cittadino e al suo difensore. Un ordine del giorno, firmato in prevalenza da deputati piemontesi, mette in opportuno risalto tali necessità.
E occorre anche aver presenti le tradizioni luminose delle Corti regionali di cassazione, le quali hanno scritto pagine splendide nella storia del diritto e della giurisprudenza. E bisogna anche dire che, ricostituendo le Corti regionali, noi ripariamo ad uno dei danni maggiori, che derivano dal fatto che la Magistratura suprema sieda nella capitale. Lasciate che io dica d’esser sorpreso dal fatto che i magistrati, nel momento in cui affermano con tanta energia l’esigenza di una piena indipendenza dal potere esecutivo e dal potere legislativo, non avvertano conseguentemente una necessità tanto più evidente, e cioè che l’organo supremo di giustizia non stia a contatto con tutto ciò che è il movimento dei Ministeri e degli uffici centrali, si sottragga alle influenze e alle suggestioni di un ambiente politicamente così arroventato com’è sempre quello della capitale. È per questo che in varie nazioni, anche grandi, la Cassazione è tenuta lontana dalla capitale.
Ebbene, cerchiamo almeno di decentrare, ridando alle Regioni le proprie Corti di cassazione. Si stabilirà in tal modo un’emulazione tra l’una e l’altra Corte, e c’è la certezza che da questo contemporaneo esercizio di attività, che si svolgerà nei centri più importanti, attraverso tutto il territorio dello Stato, verrà fuori davvero un diritto e una giurisprudenza più aderenti alla varia vita del popolo nostro.
Un’altra questione si presenta, quella se consentire o meno al magistrato di appartenere ad un partito politico. Non se ne abbiano a male i colleghi che in quest’Aula hanno sostenuta la tesi contraria, se io in questo momento faccio un richiamo, anzi poggio il mio ragionamento tutto su questo richiamo alla sincerità. Ma voi sul serio potete credere che il magistrato non abbia una sua opinione politica? In questa Assemblea siedono, mi pare, cinque o sei magistrati: a che titolo dunque essi sono in quest’Aula? Se si sostiene che il magistrato non può essere membro di un partito, come si può consentire che egli sia membro di un’Assemblea, la quale poggia tutta sui partiti? Che egli cioè eserciti una funzione che è l’espressione tipica dell’attività politica?
Pensate sul serio che ci sia un solo magistrato, il quale non abbia una sua convinzione politica? Ma io mi auguro – per il rispetto che ho dei magistrati – che in mezzo a questo agitarsi di tendenze e di correnti politiche, non vi sia un solo giudice, il quale si mantenga tetragono ad esso, e tanto quindi al di fuori della realtà. Se ci fosse un simile magistrato, io non gli affiderei mai una causa, perché un individuo il quale resta insensibile in mezzo a tanto agitarsi d’ideali e di partiti non può essere un buon giudice. Ora, se si parte, come si deve, dalla premessa che ciascun magistrato ha la sua opinione politica, è bene che egli l’abbia apertamente; questo non nuoce a nessuno. Se mai, l’opinione politica nuoce quando essa è tenuta nascosta. Il giudice, che assuma apertamente la qualità di membro di un partito, si sottrarrà più facilmente, nell’esercizio della sua funzione alla soggezione del partito stesso, di quanto non riuscirà a fare se egli tiene nascosta in se stesso la sua fede politica. Egli sente più vivo il controllo, quando la sua qualità di membro di un partito è notoria.
Non vedo la ragione dell’esclusione dei magistrati dalla vita politica. Una menomazione così grave, in tanto può essere accettata, in quanto vi sia una ragione potente che la sostenga, una ragione che si imponga a chiunque, e che non lasci luogo a dubbi o a perplessità. Ma, quando questa decisa ragione manca, io non so spiegarmi il perché di questa limitazione. L’applicazione della legge è una cosa umana, che non può, non deve straniarsi dalla realtà della vita. Soltanto allora essa cessa di essere l’astratta elucubrazione del giurista che si chiude nel suo gabinetto e che ricerca le soluzioni giurisprudenziali più o meno eleganti.
E insieme con questa necessità, ossia che venga abrogata la parte del progetto che si riferisce al divieto di appartenenza dei magistrati a partiti politici, io affermo un’altra necessità, che sia cioè consentito alla donna di essere giudice. Alessandro Dumas figlio, sostenitore eloquente del diritto delle donne ad essere immesse nella vita pubblica con tutte le prerogative degli uomini, con riferimento alla cruenta epopea napoleonica, disse da artista: «Quando passa un conquistatore e uccide alla madre un milione di figli, per questo fatto la donna acquista il diritto di partecipare al Governo politico della nazione». Che cosa avrebbe detto ora, quale accento avrebbe tratto dalla sua arte Alessandro Dumas, se avesse visto che alla madre è stato inferto uno strazio ancora più grande, nel momento in cui le è stato sulle sue stesse braccia ucciso il figlioletto poppante, travolto in una tempesta che ha atterrato tutti, vecchi, bambini, donne?
Non v’è una ragione sola che autorizzi ad affermare che la donna non debba avere una completa parità di diritti con gli uomini. Non v’è un motivo solo per dimostrare che la donna eserciti, meno bene dell’uomo, qualunque carica; potrà commettere degli errori, ma gli errori li commettono anche gli uomini. Non v’è quindi ragione, perché la donna non sia anch’essa ammessa all’esercizio della potestà giurisdizionale. Essa forse intenderà meglio di noi uomini tanti stati d’animo che a noi sfuggono, ma che invece sono appresi con quella più acuta sensibilità, che è propria della donna. La donna giudice intenderà più e meglio degli uomini ogni motivo di pietà e di sofferenza. Vi sono circostanze, fatti e sentimenti che noi uomini non sappiamo valutare pienamente così come possono e sanno le donne.
Io sentirei di affermare una inferiorità ingiustificabile, nel momento in cui, avendo dato alla donna tutti gli altri diritti, noi persistessimo a negare ad essa il diritto di essere giudice. (Approvazioni a sinistra).
Onorevoli colleghi, un montanaro che da un secolo e mezzo gode di una reputazione universale (non v’è nessuno che non lo conosca) e che ebbe una fase della sua vita piuttosto agitata, dico Renzo Tramaglino, in un momento in cui era più stretto dagli affanni e dal dolore di vedersi ostacolato nella sua legittima aspirazione, ebbe ad esclamare: «e finalmente v’è anche una giustizia a questo mondo». Alessandro Manzoni annota: tant’è vero che quando l’uomo è sopraffatto dal dolore non sa più quel che si dica.
Io non condivido questo desolante pessimismo di Alessandro Manzoni. Penso invece che una giustizia umana vi possa e debba essere; ma in tanto questa giustizia sarà degna di noi, in quanto parta dal popolo e sia appresa e riconosciuta dal popolo.
Fino a che il popolo considererà il giudice come un estraneo, o peggio ancora come un nemico, fino a quando il povero, colui che non ha i mezzi per imporsi nella vita, sentirà di avere fra i tanti visi ostili che lo circondano, anche quello del giudice, finché tutto questo non sarà cancellato, non si avrà mai giustizia. La giustizia si avrà soltanto quando essa sarà come tale appresa e sentita dal popolo. (Vivi applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato a domani alle 10. Avverto che vi sarà seduta anche al pomeriggio, sempre per il seguito della discussione del progetto di Costituzione.
Interrogazioni con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. Comunico che sono pervenute alla Presidenza le seguenti interrogazioni con richiesta di risposta urgente:
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, sull’assassinio proditorio consumato da agenti della mafia agraria siciliana in persona del compianto Vito Pipitone, vicesegretario della Confederterra di Marsala, avvenuto in quella città la sera del 9 corrente; e più precisamente per sapere:
1°) quali misure sono state prese per impedire il ripetersi dell’assassinio a tradimento di organizzatori sindacali, specialmente di contadini siciliani, dato che quello di cui è stato vittima il compianto Pipitone è il diciannovesimo della serie;
2°) se non credono indispensabile ed urgente adottare provvedimenti eccezionali per porre fine all’attività criminale della mafia, alimentata dai grandi proprietari terrieri ed avente lo scopo chiarissimo d’impedire l’applicazione delle leggi sociali della Repubblica nel campo agricolo, spezzando la rete di complicità che lega numerosi elementi delle autorità locali coi latifondisti e coi loro mafiosi assassini.
«Di Vittorio, Massini, Bitossi, Barbareschi».
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, per conoscere:
1°) se il Governo, dopo il recente brutale assassinio del vicesegretario della Federterra di Marsala, Vito Pipitone – ultimo di una lunga serie di crimini rimasti tutti impuniti – intende ancora disconoscere, con grave danno per la sicurezza e la democrazia dell’Isola, l’esistenza di una vasta associazione politica criminosa, diretta a lottare con tutti i mezzi, compreso l’assassinio, contro le organizzazioni dei lavoratori ed i partiti democratici repubblicani;
2°) se il Governo intende adottare energici provvedimenti, e quali, per assicurare alla giustizia, con la massima rapidità ed energia, i responsabili diretti ed indiretti, mandanti e mandatari, dei crimini politici siciliani, organizzati da elementi facinorosi al servizio delle cricche reazionarie dell’Isola;
3°) se il Ministro Guardasigilli intende richiamare energicamente i procuratori generali presso le Corti di appello e i procuratori della Repubblica presso i Tribunali della Sicilia, affinché provvedano a che, nei casi del genere, la legge sia applicata inesorabilmente e con esemplare sollecitudine.
«Li Causi, Montalbano, D’Amico, Fiorentino, Musotto, Cianca, La Malfa, Nasi, Varvaro, Corbi».
«Al Ministro dell’interno, per conoscere, come deputati milanesi, quali misure intenda prendere nei confronti delle organizzazioni terroristiche clandestine neofasciste che operano nel Milanese e delle organizzazioni che ne costituiscono il paravento legale.
«Gli interroganti considerano la tolleranza colpevole del Governo, le recenti collusioni della Democrazia cristiana con i fascisti del M.S.I. e la campagna contro i sindacati dei lavoratori condotta dagli organi di stampa governativi come il più pericoloso incentivo ai criminali che intensificano la loro attività delittuosa e preparano nuove insidie contro l’ordine e contro le libertà democratiche.
«Pajetta Gian Carlo, Alberganti, Scotti Francesco, Cavallotti».
«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti il Governo intenda prendere nei confronti della situazione dell’Alta Italia, caratterizzata da aggressioni e azioni delittuose, ultima delle quali la tragedia di Rubiano di Mediglia, e quali garanzie il Governo intenda fornire per l’incolumità dei cittadini e l’esplicazione della loro libertà.
«Coppa, Cannizzo, Selvaggi, Mazza, Russo Perez».
«Al Ministro dell’interno, sui luttuosi fatti verificatisi l’11 novembre a Mediglia (Milano), che condussero alla uccisione di due cittadini ed al ferimento di altri tre.
«Gli interroganti chiedono quali provvedimenti l’autorità intenda adottare perché le libertà e la sicurezza pubbliche siano garantite.
«Meda, Morelli Luigi, Gasparotto, Cairo, Arcaini, Lazzati, Clerici, Zerbi».
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri e al Ministro dell’interno, per sapere se il Governo si è reso esatto conto della allarmante situazione che si è creata nella provincia e nella città di Milano in seguito ai recenti gravissimi fatti a tutti noti e se non riconosca la necessità e l’urgenza di rinnegare quei metodi di Governo che, lasciando impunito l’incitamento a commettere fatti della natura di quelli lamentati, ne favoriscano il verificarsi da parte di elementi inadattabili al nuovo clima politico-sociale della Repubblica italiana.
«Mariani Francesco, Malagugini, Pistoia, Targetti».
«Al Ministro dell’interno, sui sanguinosi fatti avvenuti in questi giorni in Lombardia, in Sicilia e in Emilia.
«Cairo, Lami Starnuti, Di Gloria, Tremelloni, Corsi, Momigliano, Filippini, Rossi Paolo».
Chiedo al Governo quando intende rispondere.
SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò all’inizio della seduta pomeridiana di domani.
PAJETTA GIAN CARLO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PAJETTA GIAN CARLO. Nella nostra interrogazione affermiamo che riteniamo il Governo colpevole; lo è ancora di più pel modo stesso come affronta questa sera la questione. Il Ministro dell’interno si rifiuta di darci i dati che sono a sua conoscenza sulla situazione di Milano. Egli è a conoscenza che nel brevissimo lasso di tempo trascorso dal momento in cui formulavamo la nostra interrogazione, un’altra bomba, carica di tritolo, è stata lanciata contro gli uffici della federazione comunista di Milano. A Milano è stato versato del sangue perché voi del Governo tollerate una situazione insostenibile.
SCELBA, Ministro dell’interno. Ma lei tratta l’interrogazione con anticipo.
PAJETTA GIAN CARLO. Noi chiediamo che il Governo ci risponda subito.
SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò fra dodici ore.
PRESIDENTE. Onorevole Pajetta, il Ministro ha detto che risponderà domani nel pomeriggio.
PAJETTA GIAN CARLO. In questo momento mi giunge la notizia che sarebbe prossima la disposizione di mutare il prefetto di Milano. Queste sono voci sparse ad arte per incoraggiare i fascisti. (Interruzioni al centro – Rumori).
PRESIDENTE. Onorevole Pajetta, se lei desidera una risposta dal Governo sulla sostituzione del prefetto di Milano, presenti un’altra interrogazione.
PAJETTA GIAN CARLO. Noi chiediamo che il Ministro ci dica qualcosa questa sera stessa.
SCELBA, Ministro dell’interno. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCELBA, Ministro dell’interno. Ho già detto che risponderò domani nel pomeriggio. Non solo lei, onorevole Pajetta, ma anche altri colleghi hanno presentato interrogazioni sulla stessa materia. All’inizio della seduta pomeridiana di domani risponderò a tutte le interrogazioni presentate in materia di ordine pubblico.
PRESIDENTE. Sta bene.
Comunico che sono state pure presentate le seguenti altre interrogazioni con richiesta di risposta urgente:
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non ritenga necessario ed urgente – specie in vista della stagione invernale – di addivenire alla creazione di un organo per coordinare la materia dei danni di guerra e proporre ed adottare i conseguenti provvedimenti a favore dei danneggiati e sinistrati: e ciò sotto forma di Sottosegretariato o di Alto Commissariato alle dipendenze della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
«Gasparotto, Aldisio».
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non creda opportuno emettere sollecitamente provvedimenti per il riordinamento delle varie disposizioni di legge, riflettenti il risarcimento dei danni di guerra, andando così incontro alle giuste esigenze dei tanti interessati che da anni attendono.
«Sansone».
«Al Ministro della pubblica istruzione, per chiedere se – dato che la rappresentanza unitaria ed autonoma delle forze dell’arte e del pensiero, realizzabile con l’unità sindacale o con l’intesa fra libere associazioni, è indispensabile alla tutela di quelle forze e ad una saggia azione di Governo, e dato che tale rappresentanza, per malaugurata incomprensione fra Nord e Sud e per interferenze politiche, non è stata spontaneamente raggiunta – non ravvisi l’opportunità di convocare i rappresentanti delle principali Accademie storiche, dei grandi Istituti scientifici, delle organizzazioni a carattere sindacale e delle libere associazioni, al fine di studiare le forme e le norme di una loro rappresentanza unitaria, disponendo, nel frattempo, che non sia dato alcun riconoscimento ed alcuna sovvenzione a gruppi isolati, che pretendono di rappresentare gli intellettuali e gli artisti tutti d’Italia.
«Di Fausto».
«Al Ministro dei trasporti, per apprendere se e come egli intenda di rimediare alla penuria di vagoni esistente nella provincia di Reggio Calabria per il trasporto di prodotti deperibili e non deperibili, con grave danno dell’economia agricola e industriale.
«Siles».
«Al Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere le ragioni che hanno indotto la Presidenza del Consiglio dei Ministri ad anticipare dal 31 dicembre al 31 ottobre e con semplice circolare il termine per la presentazione delle proposte di ricompensa al valore ai partigiani da parte dei comandi competenti.
«Con questo atto d’arbitrio si minaccia di pregiudicare seriamente a danno dell’interesse nazionale l’equo riconoscimento del sacrificio dei caduti della guerra di liberazione.
«Foa».
Interpellerò i Ministri competenti per sapere quando intendono rispondere.
Comunico infine la seguente altra interrogazione con richiesta di risposta urgente presentata ora dall’onorevole Gian Carlo Pajetta:
«Al Ministro dell’interno, per sapere se è all’esame la sostituzione del prefetto di Milano».
Chiedo al Ministro dell’interno quando intende rispondere.
SCELBA, Ministro dell’interno. Risponderò nella seduta di lunedì prossimo.
PRESIDENTE. Sta bene. Mi consentano gli onorevoli colleghi di osservare ancora una volta che troppo spesso si presentano interrogazioni cui si attribuisce il carattere di urgenza. Fra le interrogazioni che ho letto stasera – mi perdonino i presentatori – ve ne sono parecchie per le quali l’urgenza è in relazione ad un proprio sentimento interno ma non in relazione ai problemi proposti. Vedano dunque i colleghi di adoperare con minor frequenza questo termine che, anche nel parlare comune, significa qualcosa di molto grave nel merito e non inderogabile nel tempo.
SANSONE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SANSONE. Sulle sue osservazioni in merito alle interrogazioni con urgenza, tutti abbiamo coscienza della opportunità di quanto Ella ha suggerito. Ci rendiamo conto che la richiesta di urgenza deve avere un suo carattere plausibile, ma nell’ipotesi dell’interrogazione presentata da me, come anche dagli onorevoli Gasparotto ed Aldisio, richiamante l’attenzione del Governo sui danni di guerra, sia considerato che i sinistrati di guerra aspettano da anni l’unificazione delle leggi e dei provvedimenti relativi. Io ho conferito con il Ministro del tesoro nel mese di luglio e non si è fatto ancora nulla!
Volevo aggiungere che ho presentato, quattro giorni fa, una interrogazione di urgenza per la Mostra d’oltremare di Napoli. Il termine oggetto della interrogazione scade il 18 novembre prossimo. Sono due sere che richiedo – in fine di seduta – di avere una risposta e do atto all’ufficio di Presidenza che ha svolto ogni attività presso il Ministro dei lavori pubblici. Il 18 novembre prossimo – ripeto – centinaia di ettari di terreno saranno restituiti ai proprietari, con pregiudizio della Mostra ed il Ministro non risponde ancora! Come vede, signor Presidente, la richiesta di urgenza ha talvolta veramente un serio fondamento.
PRESIDENTE. La mia osservazione non si voleva rivolgere a nessuna interrogazione in particolare, ma in generale. Occorre, da altra parte, che i singoli membri dell’Assemblea sollecitino essi stessi presso i Ministri competenti l’accoglimento della loro interrogazione. L’Ufficio di Presidenza fa solo delle comunicazioni ai Ministri interessati e deve naturalmente limitarsi a comunicare all’Assemblea le risposte ricevute. Comunque solleciteremo queste risposte.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle interrogazioni pervenute alla Presidenza.
RICCIO, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri e i Ministri della difesa e del tesoro, per conoscere se e quali provvedimenti siano allo studio circa la revisione delle disposizioni in vigore sul trattamento economico degli ufficiali in servizio permanente effettivo del ruolo comando collocati nella riserva, per limiti di età, anteriormente al 1° settembre 1946, i quali fruiscono dei beneficî economici, di cui all’articolo 5 del decreto legislativo 14 maggio 1946, n. 384, e per i quali, in base a detta legge, lo stipendio è bloccato al 15 giugno 1946, al fine di eliminare la disparità di trattamento in confronto degli ufficiali del ruolo mobilitazione e di quelli che hanno prestato servizio nella repubblica fascista, collocati nella riserva sotto la data del 2 giugno 1947, i quali fruiscono, invece, dei miglioramenti economici concessi dal 1° settembre 1946 al 1° giugno 1947.
«Bulloni».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per sapere se e quali provvedimenti intenda prendere per la repressione degli abusi di certa stampa, che, con uno specioso pretesto informativo e persino educativo, al di là di ogni diritto e limite di controllo e di critica, si è specializzata a raccogliere e a divulgare deliberatamente ed esclusivamente, con inutile abbondanza di particolari raccapriccianti e fotografie oscene, fatti scandalistici e criminosi della più bassa cronaca nera, gettando in tal modo immeritato discredito sul nostro Paese che, pur tra fatiche ed ostacoli, prosegue con proficua tenacia la sua attività ricostruttiva anche nell’ordine morale, creando una pericolosa atmosfera eccitatrice di morbose passioni, specie dove le resistenze e le difese sono più deboli, minacciando di grave ed irreparabile danno la sanità fisica e morale dei nostri figli che debbono ancora sperare e credere nelle rinnovate forze spirituali operanti nel Paese preparandosi a servirlo con propositi degni e robustezza di carattere e volontà.
«Guerrieri Filippo, Scalfaro».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro di grazia e giustizia, per conoscere:
1°) se, date le miserevoli condizioni economiche in cui trovasi il personale di custodia ed amministrativo delle carceri della Repubblica, soggetto per di più a subire un trattamento tutt’altro che umano ed a compiere turni di servizio di gran lunga superiori alle otto ore giornaliere, non ritenga opportuno di provvedere in via di urgenza:
- a) ad estendere al personale carcerario le indennità di ordine pubblico concesse con decreto legislativo 1° aprile 1947, n. 221 (Gazzetta Ufficiale 1947, n. 92) agli agenti e funzionari di pubblica sicurezza ed ai carabinieri;
- b) ad estendere egualmente a detto personale l’indennità di alloggio stabilita a vantaggio delle stesse categorie di cui sopra col decreto legislativo 1° aprile 1947, n. 222;
- c) a sostituire l’attuale indennità caro-viveri con la concessione di viveri in natura così come viene praticato con i carabinieri, la guardia di finanza e gli agenti di pubblica sicurezza;
- d) a concedere gratuitamente a tutto il personale di custodia divise decenti ed igieniche al posto di quelle sporche e lacere che attualmente indossa con grave ed evidente pregiudizio del suo prestigio verso i detenuti;
2°) se non ravvisi che sia ormai opportuno procedere ad un totale riordinamento dello stato giuridico di questa che è una fra le più abbandonate categorie dei dipendenti statali, tanto più che si deve tener conto dei delicati compiti che ad essa sono affidati e delle enormi responsabilità cui va incontro nell’esercizio delle sue funzioni.
«Varvaro, Montalbano, Mancini».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’industria e del commercio, per sapere che cosa ancora si aspetti per dare esecuzione al decreto ministeriale 10 maggio 1947, pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 10 giugno 1947, n. 129, col quale il dottor Giorgio Segre è stato nominato Presidente della Giunta della Camera di commercio, industria ed agricoltura di Vercelli. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Giacometti».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e del lavoro e previdenza sociale, per conoscere se non ritengano opportuno ridurre ragionevolmente i contributi unificati dovuti dai coltivatori diretti che hanno salariati fissi conviventi, in considerazione delle maggiori spese che detti coltivatori sostengono. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Scotti Alessandro».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare i Ministri dei lavori pubblici e della pubblica istruzione, per sapere se, nelle loro recenti visite alla provincia di Salerno, si siano resi conto dei bisogni che urgono la zona del Cilento, la quale per superficie e per popolazione rappresenta la metà circa di detta provincia ed ha una rete stradale rudimentale (è servita dalla sola strada nazionale n. 18 e da poche strade provinciali), con paesi distanti ben 80 chilometri dallo scalo ferroviario, ed altri del tutto privi di acqua potabile, ed altri ancora – e sono moltissimi – con scuole che non vanno oltre la terza classe elementare, mentre diffuso è in tutta la zona l’analfabetismo ed allarmante la disoccupazione magistrale (nel Salernitano sono circa 3000 i maestri disoccupati); e per sapere se e quale programma immediato di opere pubbliche e di istituzioni scolastiche si siano proposti di adottare per sodisfare i detti bisogni e rendere così giustizia ad una plaga tanto trascurata quanto laboriosa e benemerita della Patria. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Rescigno».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro dell’interno, per sapere se – di fronte ai reinsorgenti tentativi di creazione di una provincia di Castellammare di Stabia, cui si pretenderebbe aggregare i comuni della Costiera amalfitana (recentemente interessati, quantunque con esito negativo, ad esprimere voti in tal senso) – non intenda tranquillizzare le popolazioni della provincia di Salerno, assicurando che la detta iniqua aggregazione non avverrà. Essa sarebbe, invero, la rovina materiale e morale della provincia di Salerno, la quale, oltre a luminose tradizioni storiche, perderebbe il suo più spiccato carattere turistico ed il maggiore gettito delle sue entrate e, qualora si dovesse riesumare l’insulso progetto fascista del 1930, anche la parte più fertile del suo territorio.
«Ciò senza dire che il deprecabile tentativo non fa che accrescere la divisione degli animi in un momento in cui, per l’attuazione delle autonomie regionali e per la risoluzione degli annosi problemi del Mezzogiorno, si ha bisogno della maggiore solidarietà fra le popolazioni del medesimo. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Rescigno».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere se non ritenga ingiusto che la importante cittadina di San Cipriano Picentino in provincia di Salerno, capoluogo di mandamento e centro di intensa vita rurale, sia tuttora priva di comunicazioni telegrafiche e telefoniche, che la Direzione provinciale delle poste di Salerno non ha trovato ancora modo di ripristinare, e se non intenda provvedere con un suo diretto intervento a rimuovere le difficoltà che a tale ripristino si oppongono. (L’interrogante chiede la risposta scritta),
«Rescigno».
«La sottoscritta chiede d’interrogare il Ministro dei lavori pubblici, per conoscere se non ravvisi necessaria un’azione energica e sollecita contro la Società «Terni» la quale, pur avendo realizzato enormi profitti dalla costruzione dei due bacini idroelettrici del Salto e del Turano, cerca oggi di sottrarsi, con palese violazione della legge, all’adempimento dei suoi obblighi nei confronti delle amministrazioni e dei privati che allo scopo furono espropriati.
«I cittadini e le amministrazioni dei comuni rivieraschi considerano urgente e doveroso l’intervento diretto degli organi competenti al fine di ottenere, in conformità alle leggi vigenti:
- a) la esecuzione immediata delle opere pubbliche e la ricostruzione delle abitazioni private, sommerse all’epoca dalle acque e non ancora riedificate o non completate;
- b) il risarcimento dei danni apportati alla rete stradale ed un’equa compensazione per le strade demaniali;
- c) la definizione di tutte le altre vertenze in corso, nonché il rispetto assoluto di ogni altro diritto previsto dalla legge e dai contratti stipulati a suo tempo;
- d) la concessione agli enti della quota del canone fissato dalla legge 11 dicembre 1933, l’aggiornamento delle quote al valore attuale della moneta e il pagamento di tutti gli arretrati;
- e) la concessione, ai sensi degli articoli 52 e 53 del decreto-legge 11 dicembre 1933 – oltre i particolari diritti spettanti all’amministrazione di Rieti – del quantitativo di energia elettrica e dell’ulteriore canone, adeguato all’attuale corso della moneta;
- f) la risoluzione di tutti gli altri problemi di pubblico interesse indicati nella legge stessa;
- g) la rapida e definitiva compilazione del disciplinare i cui termini devono essere molto chiari e precisi se si vuole evitare l’ulteriore violazione della legge da parte di una società la quale, pur essendo consapevole dell’enorme disagio in cui si son venute a trovare intere popolazioni per effetto dell’esproprio, non ha esitato, fino ad oggi, di servirsi di futili cavilli per non pagare le spese delle sue costruzioni.
«A tale effetto, e in considerazione dello stato di grave indigenza in cui si trovano numerosi cittadini delle due vallate, l’interrogante fa presente l’esigenza umana e sociale di provvedere al più presto con opportune e rigorose misure governative. (La interrogante chiede la risposta scritta).
«Pollastrini Elettra».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro delle poste e delle telecomunicazioni, per sapere per quali motivi – malgrado le precise disposizioni di legge, ribadite dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri con la circolare n. 75050/12115 del 30 luglio 1946 – l’Amministrazione delle poste e telegrafi non abbia ancora provveduto a mettere in pensione i funzionari ed impiegati che hanno superato i limiti di età e di servizio; ed abbia viceversa perfino promosso al grado superiore funzionari già al di là del limite di età e di servizio. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Mazzei».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro del lavoro e della previdenza sociale, per conoscere se vi sia la possibilità di un ulteriore miglioramento delle pensioni dei lavoratori iscritti all’Istituto nazionale della previdenza sociale, in considerazione che le condizioni dei pensionati permangono misere, nonostante gli aumenti recentemente apportati. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Lami Starnuti, Cairo, Filippini, Momigliano, Canevari, Bocconi, Montemartino, Ghidini, Fietta, Binni, Pera, Rossi Paolo, Silone, Zanardi».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette saranno iscritte all’ordine del giorno e svolte al loro turno, trasmettendosi ai Ministri competenti quelle per le quali si chiede la risposta scritta.
La seduta termina alle 19.45.
Ordine del giorno per le sedute di domani.
Alle ore 10 e alle ore 16:
Seguito della discussione sul progetto di Costituzione della Repubblica italiana.