Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

ccxc.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 13 NOVEMBRE 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE PECORARI

INDICE

Congedi:

Presidente

Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):

Gasparotto

Avanzini

Castiglia

Presentazione di relazioni:

Treves

Presidente

La seduta comincia allo 10.

GABRIELI, ff. Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.

(È approvato).

Congedi.

PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo i deputati Caso e Caroleo.

(Sono concessi).

Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.

È iscritto a parlare l’onorevole Gasparotto. Ne ha facoltà.

GASPAROTTO. Al margine estremo della discussione generale, poiché voci autorevoli ci hanno fatto apprendere che oggi essa sarà chiusa, non vi è tempo né posto per fare o rifare accademia.

Riconosco che la Magistratura italiana non poteva attendersi omaggio maggiore di questa discussione, ove oratori giovani ed anziani si sono schierati in sua difesa, sfoggiando dottrina, eloquenza e soprattutto esperienza, come d’altronde devo riconoscere che apporto maggiore non poteva essere recato all’Assemblea Costituente dalla Magistratura, la quale, attraverso ordini del giorno, memoriali, articoli di riviste, lettere personali, ha portato qui la sua libera voce.

Io cercherò, come ho sempre cercato in questa discussione, di attenermi, più che sia possibile e finché sia possibile, al testo della Commissione, alla quale riconosco la ampiezza e la bontà del lavoro compiuto.

Cercherò anche di non subire l’attrazione, o suggestione che sia, del nuovo. Cercherò, invece, di tenermi aderente, anche qui finché sia possibile, alla tradizione del nostro Paese, soprattutto in quanto la tradizione giuridica del Paese abbia superato e vinto la prova del tempo.

Le discussioni più appassionate sono culminate sui problemi della giuria popolare e della partecipazione delle donne all’esercizio della Magistratura.

Non vale più la pena di parlare sulla Corte di assise. Forse anche la stessa discussione già fatta poteva essere evitata. Ognuno porta da tempo nel proprio cuore le convinzioni antiche o recenti. C’è una così vasta letteratura, una così larga fioritura di dottrina su questo argomento, che la discussione su di esso non può che convertirsi ed esaurirsi in mera accademia.

Perciò, coerente alle mie antiche convinzioni, mi dichiaro favorevole al mantenimento della giuria popolare, nei limiti indicati dal testo della Commissione, cioè demandando alle leggi particolari, alle norme comuni la disciplina dell’istituto nei suoi limiti di competenza e nella composizione della giuria.

Qui si sono evocati i grandi spiriti che hanno dominato la dottrina antica e moderna. Si è ricordato perfino lo Stuart Mill, il Montesquieu, e tra i nostri più vicini scrittori, il Pessina, il Pisanelli, il Finocchiaro Aprile, ed altri. Mi permetterò invece di ricordare il più grande spirito italiano, che ha anticipato l’istituto moderno del giudice popolare, ed è Cesare Beccaria, il quale diceva che, mentre riconosceva al giudice togato la maggiore e migliore capacità per istruire le cause, preferiva il giudice popolare, scevro da preconcetti, per il giudizio sulle cause. Vale la pena – e con questa citazione credo di aver esaurito l’argomento – di leggere quello che ha scritto in tempi tanto lontani Cesare Beccaria: egli diceva che se nel cercare le prove occorre abilità e destrezza, nel giudicare un risultato si richiede «un semplice ed ordinario buon senso, meno fallace che il sapere di un giudice assuefatto a trovare il reo, e che tutto riduce ad un sistema fattizio imprestato ai suoi studi». Si dirà che questo è già un luogo comune e fu detto da tanti oratori; ma è privilegio e gloria dei grandi precursori quello di esprimere opinioni che, a distanza di tempo, diventano luoghi comuni.

Qui, da più parti, fu rievocato il «caso Olivo», che – riconosco – a suo tempo, quarant’anni fa, provocò una larga campagna di stampa contro la giuria popolare. Poiché ho avuto la fortuna di assistere a talune di quelle sedute, alla Corte di assise di Milano, posso portare un chiarimento sul «fatto Olivo», imputato di uxoricidio. Olivo era un modello di impiegato, per rettitudine, per capacità, per assiduità. Aveva la disgrazia di avere al suo fianco, e di convivervi, una donna la quale gli rendeva la vita impossibile. Portato all’estremo limite della disperazione, un certo giorno la soppresse. Le cronache umoristiche del tempo dicevano: «non riusciva a farla tacere; per chiuderle la bocca, si decise a sopprimerla».

Il giudice popolare di Milano lo ha assolto, deponendo nell’urna 12 schede bianche. Sotto la pressione della stampa, la Corte di cassazione annullò il verdetto (e questo fu giudicato da tutti un atto di arbitrio) e trasferì la causa alla Corte d’assise di Bergamo. Quasi in via pregiudiziale, fors’anche – lo riconosco – per ribellione al giudizio del magistrato supremo, i giurati di Bergamo con 12 schede bianche confermarono il giudizio milanese. Si venne poi a conoscere il retroscena di queste assoluzioni. I giurati milanesi intendevano assolvere dall’uxoricidio, vale a dire dall’accusa più grave, l’Olivo; intendevano condannarlo per lo strazio fatto del cadavere, a scopo di occultamento del delitto. Il Presidente della Corte d’assise – e potrei farne anche il nome – il quale, badate bene, aveva scritto un libro Sui quesiti ai giurati – non credette, non volle o non poté inserire fra essi quello dello scempio del cadavere.

MACRELLI. Omicidio preterintenzionale!

GASPAROTTO. No. Il Codice Zanardelli del tempo, che regolava la materia, bensì contemplava il delitto di vilipendio, ma era un reato che aveva un ben diverso contenuto, punibile con la pena irrisoria da tre mesi a trenta mesi. Così, i giurati si trovarono nella impossibilità di giudicare in senso sfavorevole, per quanto grandemente attenuato, l’imputato.

Ebbene, che cosa avvenne? Avvenne che il successivo Codice penale ebbe ad introdurre precisamente, pur mantenendo l’antico articolo 144 del vilipendio, un nuovo articolo 411, per la distruzione del cadavere, punibile con la sensibile pena da tre a sette anni. L’errore dei giurati ha servito al legislatore.

Questa è la spiegazione del caso Olivo. Del resto, riconosco col caro amico Villabruna, che colla Corte d’assise ha consuetudine di antica data, riconosco che la questione su questo argomento si trasferisce dal campo tecnico al campo politico.

Giustamente ha detto Veroni che l’istituto della giuria rappresenta un trionfo della democrazia e della libertà. L’accostamento della giustizia al popolo, il principio di far giudicare l’uomo dai suoi pari è principio di democrazia e di libertà. Perciò, in questi gravi reati, soltanto il giudice popolare può, in un certo momento, interpretare la pubblica coscienza, e soltanto al giudice popolare è dato di assolvere nei delitti a ragion d’onore, per difesa cioè dell’onore della famiglia, mentre ciò, per il rigore della legge e per l’abito professionale, al magistrato togato non sarebbe mai consentito. Queste assoluzioni nei reati d’onore non hanno mai meravigliato l’opinione pubblica, anzi hanno trovato il pubblico consenso perché, più che una repressione, costituiscono un ammonimento per coloro che attentano all’onore delle donne e alla pace della famiglia; precedenti questi, che dimostrano che la giuria popolare è gradita all’opinione del popolo italiano. Perciò dev’essere mantenuta.

Quanto poi ai limiti di questo istituto, quanto alla scelta dei giurati, alla qualità dei reati che saranno sottoposti al suo giudizio, provvederà la nuova legge. La Costituzione è uno statuto solenne che deve avere carattere, se non di fissità, di stabilità tale da essere sottratto alle alterne fluttuazioni delle condizioni contingenti della vita politica ed economica del Paese. Tutto quello che può essere frutto del mutevole corso del tempo deve essere regolato dalla legge speciale, per non esporre il Paese, non dico alla vergogna, ma certamente al fastidio di cambiamenti frequenti alla legge costituzionale.

Partecipazione delle donne all’esercizio della Magistratura. Non vi è nulla di nuovo in materia. Dal momento che, dopo la prima guerra europea, la donna ha fatto il suo ingresso trionfale nella vita economica, del Paese, dal momento che durante quella guerra la donna è entrata nei ranghi della mobilitazione civile, dal momento che, sempre durante quella guerra, ben più terribile dell’ultima per quel che riguarda il rischio personale, perché quella era guerra di uomini e l’ultima fu guerra di macchine, dal momento che la donna, come crocerossina, è arrivata a fianco dei combattenti a raccogliere i feriti sulla linea del fuoco, dal momento che la donna molte volte ha sostituito gli uomini nei pubblici e privati uffici, non è il caso di contenderle ulteriormente questo diritto di partecipare alla Magistratura. Del resto, vi è un precedente: la legge dei probiviri, che se oggi non esiste più perché trasferita nella Magistratura del lavoro, resta come principio, ha consentito l’ingresso della donna in questi uffici: ebbene, la donna vi ha fatto ottima prova. Io vorrei frenare le impazienze della nostra gentile collega onorevole Mattei, la quale, con un emendamento, domanda addirittura la parificazione assoluta della donna magistrato al magistrato uomo. Io non vorrei che, insistendo troppo su questo emendamento, si finisse con il perdere la battaglia.

Io mi attengo invece al testo della Commissione, il quale dice che questa partecipazione sarà regolata dalla legge speciale.

Ma finora possiamo dire che, a parità con l’uomo e forse anche con un giudizio superiore a quello che dà l’uomo, la donna può intervenire in tutte le questioni che riguardano la tutela dei minori e la famiglia. Quando si è parlato della parificazione della donna all’uomo nell’esercizio dell’elettorato politico ed amministrativo – e la Camera ha votato a grande maggioranza questa parificazione – si sono rievocate vecchie dottrine circa la prevalenza del cervello dell’uomo su quello della donna. Si sono addirittura dosate con la bilancia le cellule del cervello dell’uomo rispetto a quelle del cervello della donna. Ma si è concluso poi che queste discussioni sono oziose: la verità è che la donna è diversa dall’uomo.

Ma, appunto perché è diversa, essa deve entrare negli uffici, proprio per recare un elemento nuovo, equilibratore e integratore di altri elementi di giudizio.

Ma il tema che maggiormente mi attrae per l’ufficio che ho recentemente ricoperto, tema che è già stato trattato più o meno ampiamente e nobilmente sia dall’onorevole Bettiol che dall’onorevole Villabruna, è quello che riguarda la proposta soppressione della cosiddetta giustizia militare. La Commissione parte da un principio basilare: l’unicità della funzione giurisdizionale. Essa dice che tutti i giudizi debbono essere sottoposti all’alto esame della Magistratura.

Ora, io faccio un’osservazione preliminare: secondo una notizia anticipatami dal collega, onorevole Ghidini, il Capo IV della Costituzione non si intitolerà più «Magistratura», ma «Giustizia». Ottima innovazione, perché il principio supremo è la giustizia, della quale la Magistratura è l’organo: l’organo che l’amministra. Ma questo principio dell’unicità della giurisdizione, che ha trovato una vastissima letteratura, trova già delle eccezioni nel testo stesso della Commissione.

Ci sono infatti delle evidenti evasioni a questo principio, in quanto si permette la sussistenza, a fianco della Magistratura, del Consiglio di Stato, organo di giudizio di legittimità e di merito in materia legislativa, e della Corte dei conti, organo di legittimità nelle questioni di contabilità e di pensioni, al quale è sottoposto lo Stato stesso.

Inoltre, vi è un articolo del progetto di Costituzione che non è stato ancora oggetto di esame: il 102. Esso dispone testualmente che «contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per Cassazione secondo le norme di legge».

Dunque signori della Commissione, voi ammettete la presenza, nella Costituzione, di organi speciali, e così il principio dell’unicità della giurisdizione, che avete così solennemente posto a base del Capo II, viene ad essere da voi stessi profondamente ferito. Tuttavia, in relazione a questo principio base e come sua logica conseguenza, per quanto in contradizione con gli organi speciali che avete riconosciuto, voi intendete sopprimere quella che si chiama volgarmente la giustizia militane.

A questo proposito dichiaro subito che i tecnici militari si propongono di opporsi virilmente e concordemente a questa proposta, al fine di tener salda la compagine delle Forze armate, non solo in tempo di guerra, ma anche in tempo di pace.

A tal fine il Ministero della guerra – come ha ricordato, per quanto fuggevolmente, il collega Persico – ha nominato una Commissione che ha studiato con larghezza di indagini il problema dell’ordinamento della giustizia militare. E mentre non si è trovata unanime, per il difforme parere dell’onorevole Palermo, sul principio del riconoscimento esplicito della necessità di mantenere il Magistrato militare, e cioè i Tribunali militari, si è trovata unanime, anche con Palermo, nel riconoscere che questa materia deve essere sottratta alla Costituzione ed essere regolata da norme speciali, perché si tratta di materia in via di successiva elaborazione, che può subire l’influsso del tempo e delle circostanze, e quindi non trova sede opportuna nella Costituzione, che ha e deve avere carattere di stabilità.

Quali sono le ragioni per le quali la Commissione (dissenziente, ma non intervenuto alle sedute, l’onorevole Calamandrei) insiste sulla necessità di mantenere questo organo speciale giurisdizionale?

Lo stesso progetto della Commissione ammette la Magistratura militare, e cioè la giustizia militare, in tempo di guerra; ma questa presuppone un’attrezzatura già in funzione anche in tempo di pace, perché la giustizia militare non è un organo – data la delicatezza del suo congegno e la gravità delle pene alle quali può arrivare (perfino alla sentenza di morte, in tempo di guerra) – che si possa improvvisare al momento dello scoppio spesso fulmineo delle ostilità, perché anche in tempo di guerra la giustizia militare presuppone un vasto concorso di funzioni tecniche e l’organizzazione di complessi uffici e servizi che non possono essere attuati sotto le incalzanti pressioni del momento.

Del resto – onorevole relatore Ghidini, mi segua su questo punto, perché non è più, questa, discussione accademica – il diritto positivo vigente prevede già l’applicazione della legge penale di guerra anche in tempo di pace, ad esempio per i corpi militari di spedizione all’estero, per le operazioni militari (art. 9 del Codice penale militare di guerra). E, ripeto, non faccio dell’accademia, il fatto si è verificato: nel 1900 l’Italia ha onorevolmente partecipato con un Corpo di spedizione, a fianco delle maggiori nazioni civili, alla repressione dei «boxers» in Cina. Eravamo in tempo di pace, ma in quella occasione fu applicata la legge militare in tempo di guerra e furono messi in funzione i tribunali militari.

Del resto, senza ricorrere all’esempio di quello che è avvenuto nella lontana Cina, la nave militare navigante in tempo di pace, quando esce dalle acque territoriali, allontanandosi dal lido della Patria, porta con sé la bandiera della Patria, e con essa le leggi della Patria, e le applica. E nessuno mai proporrebbe ad una nave della marina italiana in crociera nell’alto Oceano di tornare indietro per far giudicare dal magistrato borghese il reato di ammutinamento, che esige una pronta repressione, soprattutto allo scopo di esempio e di ammonimento.

Per modo che avviene che, per amore della teoria, per l’affetto che portate al principio astratto dell’unità giurisdizionale, voi siete costretti a riconoscere che anche in tempo di pace quella Magistratura militare che volete abolire si trova, per necessità di cose, direi comandata a funzionare, a dispetto della vostra tesi.

Del resto, i reati che offendano la fedeltà, la difesa, i piani militari di guerra o di pace, le piante delle fortificazioni, la disciplina e il servizio militare, esigono l’istituzione di un giudice specializzato, tecnicamente preparato all’esatta conoscenza dell’ordinamento delle tre Forze armate, che hanno speciali caratteristiche, speciali esigenze, speciali necessità, alla conoscenza delle quali non è certamente predisposto il magistrato ordinario.

E poiché ovunque e da tutti i banchi di questa Assemblea si parla di democrazia, dirò che chi ha professato avanti i tribunali militari ha sempre riconosciuto che procedimento più democratico in materia di giudizi non vi è, perché si tratta del militare giudicato, a parte la gerarchia, dai suoi compagni, dai suoi simili; si tratta del militare giudicato da militari; e quindi si tratta di una forma di giustizia aderente alla vita e alla classe cui appartiene il giudicando.

Inoltre, per poter applicare con giustizia, con efficacia soprattutto, la giustizia fra i militari, occorre l’immediatezza del giudizio, occorre repressione immediata, non tanto a scopo punitivo, quanto a scopo educativo, come esempio agli altri, tanto più, colleghi, che con le ferme brevi oggi adottate che trattengono i soldati alle armi soltanto per un anno, che spesso si riduce ad otto mesi, se voi affidaste la giustizia militare al magistrato ordinario, già tanto oberato di lavoro e di funzioni, si finirebbe col cadere nel grottesco di veder giudicato un militare quando non è più militare, quando ha ripreso il suo posto di cittadino nella vita civile, e sarebbe allora veramente curioso e inefficace rimandarlo al carcere militare.

Vi ha di più. Si è sparato, e non a salve, contro il Tribunale Supremo militare. Ma bisogna conoscere l’organizzazione di questa giustizia, chiamatela pure straordinaria, per poterla condannare. Il Tribunale militare supremo giudica anche in via amministrativa per quanto riguarda la reintegrazione nel grado militare per condanna, giudica per i provvedimenti disciplinari riguardanti la cancellazione dai ruoli, l’infrazione delle leggi sul matrimonio, tutte cose per le quali occorre una esatta conoscenza della vita militare, che difficilmente può apprendere il magistrato, che, come dico, deve spaziare in campi tanto vasti e diversi, che non ha tempo e modo e – direi quasi – non ha attitudine, per scendere alla particolare visione e conoscenza della vita militare.

Vi è poi, a conforto della nostra proposta, il largo presidio dell’esperienza. Signori, i codici militari italiani sono in vigore dal 1869 e – salva qualche eccezione di cui parlerò subito – essi hanno funzionato con piena soddisfazione di quanti avvocati vi si sono accostati. (Approvazioni).

Fra la Magistratura ordinaria (non se ne offendano i magistrati!), e la Magistratura militare, gli avvocati più volte preferiscono quella militare (Approvazioni), per il senso di indulgenza che vi trovano, per la larga e umana comprensione dei moventi, dei motivi del delinquere. Qualche volta certi moventi, sforzando la legge, portano i giudici militari all’assoluzione, in casi cioè pietosi ai quali non potrebbe arrivare per abito professionale il magistrato comune!

Giustamente perciò un uomo di non dubbia fede democratica, Genunzio Bentini, ha fatto, prima di morire, l’esaltazione della giustizia militare. Non vi è, infatti, avvocato che, uscendo dal tribunale militare dopo la sentenza, abbia avuto una parola di rimprovero verso i giudici.

Cosa è avvenuto, invece, dopo il 1869? Ci fu, è vero, una proposta votata e deliberata dalla Camera nella seduta del 26 novembre del 1900 per la soppressione dei tribunali militari, ma essa obbedì alla passione del tempo: erano avvenuti i fatti clamorosi del 1898, i fatti del maggio di Milano, le repressioni severe di Sicilia, Turati condannato a 12 anni, De Andreis condannato a 14 anni; e c’era ancora nell’aria la risonanza del fatto Dreyfus, per cui allora i tribunali militari furono chiamali «tribunali giberna». Quindi, per reazione contro la giustizia militare, prona allora al Governo e per forzare la mano alla giustizia comune (ma anche la Cassazione allora tenne bordone al Governo!), per reazione politica la Camera votò la proposta di abolizione dei tribunali militari. Ma quella proposta è caduta nel vuoto: ricordate quanti anni sono passati, oggi siamo al 1947, e la proposta è rimasta senza eco. Il che è certamente significativo!

Insomma, io dico che la passione del nuovo non ci deve sedurre. Io, per mio conto, resto fedele alla nostra tradizione, alla sana e salda tradizione italiana; e notate, tradizione italiana che trova la sua origine niente meno che nelle leggi di Roma, alle quali ancor oggi, nella riforma della giustizia militare che ci proponiamo di fare, si dovrà far capo, perché Roma insegna che il militare, in quanto delinqua uti miles, deve essere giudicato dalla giustizia militare, ma in quanto delinqua uti civis deve essere giudicato dalla giustizia civile.

Perciò, nella prossima riforma della giustizia militare, noi dovremmo separare dai reati essenzialmente militari tutti quei reati nei quali il militare, pur delinquente, pur mancando al rispetto della legge nella sua qualità di soldato, offende non la legge militare, ma la legge civile. Quando, con una legge speciale, sottratta quindi alla Costituzione, noi verremo a riformare il vigente Codice militare, provvederemo certamente ad una sensibile diminuzione delle pene che, ripeto, ebbero la loro vigilia ed ispirazione dalle leggi piemontesi, di rigore eccessivo, tanto eccessivo, per non dire feroce, che il giudice militare fu costretto a ricorrere molto spesso al rimedio della forza irresistibile per non relegare per trent’anni in carcere il militare colpevole di colpe non gravi.

Inoltre, per quanto io non sia schiavo della tirannia degli esempi (la parola è bella, perché viene da Mazzini), per quanto riconosca che occorra svincolarsi una volta tanto dalla tirannia degli esempi, non posso non tenere presente che tutte le legislazioni europee, anche le ultime e più recenti, sono per il mantenimento della giustizia militare. Vi fu un’eccezione soltanto in Germania, dopo la guerra perduta del 1918, ma fu subito ripristinata da Hitler. Ho in mano la pubblicazione nostra, che fu distribuita a tutti i deputati, la quale porta il riferimento di tutte le legislazioni, le quali, eccettuata quella Danese, anche le più recenti, anche le legislazioni di paesi di acceso spirito repubblicano, come la Spagna al tempo della Repubblica, dovendo legiferare in materia di giustizia militare, hanno mantenuto l’ordine speciale, e lo ha mantenuto e lo mantiene, soprattutto, la Russia, che ha applicato al proprio valoroso esercito una disciplina veramente superiore ad ogni nostra aspettativa.

Dunque, riassumendo: necessità di mantenere la giurisdizione militare: 1°) perché si tratta di una giustizia più aderente ai rapporti della vita militare, che non può essere affidata che al giudizio dei militari; 2°) per la natura particolare dei reati militari, la quale esige una speciale sensibilità come, ad esempio, nel caso, non infrequente anche in tempo di pace, delle mutilazioni volontarie per evadere agli obblighi militari; 3°) per la necessità della immediatezza della repressione, dato le ferme brevi applicate dall’ordinamento militare odierno. Ché se contro questa nostra proposta si opponesse, come si è opposto da più parti, la possibilità di integrare la Magistratura ordinaria con dei giudici militari, ricorrendo a quelle forme di scabinato che sono state, se non erro, condannate da tutti, vi prevengo che questa forma di ibridismo processuale è condannata da ogni parte e condannata soprattutto dalla unanime dottrina.

Una volta fissato nella Carta costituzionale, come vorrebbe il testo della Commissione, la soppressione della giustizia militare, ed affidata la stessa ai magistrati ordinari, vi domando: se questo vostro esperimento non facesse buona prova, dovremmo modificare la Costituzione per ritornare alla Magistratura militare? Basti questo pericolo, basti questo rischio per fare comprendere quanta responsabilità la Commissione si è assunta e quanta responsabilità si assumerebbe la Camera ove adottasse il principio della Commissione stessa. Perciò, mentre io personalmente, interprete del pensiero dell’ambiente militare (perché non per nulla il mio emendamento è stato firmato dai quattro Sottosegretari di tutti i partiti)…

GHIDINI. E in caso di connessione o di concorso?

GASPAROTTO. Ne parlerà la legge speciale.

Dunque, stavo dicendo, io ho voluto che il mio emendamento soppressivo in questa ultima parte, ultimo capoverso dell’articolo 95, fosse firmato dai quattro Sottosegretari di Stato, un comunista, due democristiani, un socialista, per dimostrare che noi, più che esprimere un pensiero personale, interpretavamo il pensiero degli ambienti militari. E di ciò me ne ha dato autorevole conferma un momento fa l’onorevole Cingolani, mio successore nel Dicastero della difesa.

E non crediate che ciò si faccia per spirito tradizionalistico, perché l’Esercito italiano si è democratizzato di molto. Abbiamo recentemente unificato tre Ministeri, senza incontrare difficoltà. Tutte e tre le forze armate vi hanno lealmente aderito; ma questi tre Ministeri, queste tre forze armate distinte ma non separate, devono costituire un tutto organico, devono costituire un corpo omogeneo, e perché venga mantenuta questa omogeneità non si può toglierle uno dei suoi organi che riteniamo essenziale al mantenimento della disciplina.

L’Esercito, signori, è una cosa seria. Non si può sul suo corpo fare sperimentazioni avventate. L’Esercito vive di fede e di disciplina: la fede innanzitutto, ma fede regolata dalla disciplina, perché un esercito senza disciplina è un corpo che facilmente si sfalda. E l’esempio di una disciplina, che non consente eccezioni, ci viene dalla Russia. La Russia è una organizzazione militare delle più ferree. Ma è stata la ferrea disciplina militare russa quella che è valsa ad infrangere e schiantare il possente urto delle forze germaniche a Stalingrado.

E recentemente, La Flotta Rossa, un giornale sovietico destinato ai soldati, scriveva che pur attraverso l’accorciamento delle distanze fra capi e gregari (il che avviene anche oggi in Italia) la disciplina deve essere rigidamente praticata. «Disciplina basata sull’alta coscienza del dovere militare. Essa non ammette liberalismi verso i violatori di ordini, verso i vacillanti».

Se dalla Russia ci viene questo esempio, proprio da noi si deve praticare qualche cosa di diverso, per non dire di opposto?

Da più parti si sono alzati al cielo accenti di poeti e filosofi. Un nostro speciale gruppo parlamentare aspira all’unità federativa europea, con la costituzione di un nuovo Stato internazionale che allarghi le sue braccia a tutto il mondo.

Pur non correndo dietro a questi sogni troppo alti e troppo lontani, bisogna riconoscere che se questi sogni si propongono di assicurare al mondo la pace, si può salvare la pace solo con la creazione dell’esercito internazionale a garanzia della libertà e dell’ordine fra le nazioni.

Nel 1940 il Partito laburista inglese ha espresso un esplicito voto a questo proposito. L’esperienza, come ho detto, della spedizione internazionale della Cina del 1900 vale ancora oggi, ed è non inutilmente ricordata. Soltanto attraverso la creazione di questa grande gendarmeria internazionale, al servizio di un organo superiore delegato a difendere la pace anche degli Stati minori, soprattutto degli Stati minori, contro il pericolo delle aggressioni, si può raggiungere questo generoso obiettivo. E l’Italia deve contribuire e contribuirà col suo contingente, col suo piccolo esercito. E come già nel lontano 1900 e con pieno onore della sua Marina, dovremo farci onore anche in queste prossime occasioni. Ma per far questo, occorre mantenere all’Esercito salda e omogenea la sua compagine, e tenerlo lontano, per l’amore del nuovo, dal pericolo di avventate improvvisazioni. (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Avanzini. Ne ha facoltà.

AVANZINI. Onorevoli colleghi, il tema è tanto alto da rifiutare ogni conformismo. Così può e deve accadere che voci diverse e discordi si elevino dallo stesso settore di questa Camera. Inteso dunque, che esprimerò idee personali, le quali non impegneranno il Gruppo, al quale appartengo.

Tanto più che quelle idee mi saranno vele per navigare contro corrente, dissentendo dagli oratori più validi, che mi hanno preceduto e hanno parlato di tre argomenti: l’indipendenza della Magistratura, la giuria, la Cassazione unica. L’indipendenza della Magistratura! Chi, pensoso delle sorti della libertà, della democrazia e del Paese può non volerla? Quando giorni addietro l’onorevole Bozzi, parafrasando l’articolo 94 del progetto, affermava che il giudice deve dipendere soltanto dalla legge e dalla sua coscienza, proclamava una verità, che è nel pensiero e nel sentimento di tutti, qui dentro.

Il problema è un altro. È piuttosto il problema della garanzia, che la Carta costituzionale deve prestare al giudice per quella sua indipendenza, avallando proprio quelle due ubbidienze, al disopra delle interferenze e delle influenze, delle suggestioni e delle preoccupazioni.

A questo dovrebbe intendere il Consiglio Superiore della Magistratura, quale lo compone l’articolo 97, che al Consiglio Superiore della Magistratura affida le assunzioni, le promozioni, le assegnazioni ed i trasferimenti di sede, i provvedimenti disciplinari; in genere il governo della Magistratura. Così si vorrebbe dunque disancorare completamente la Magistratura dal potere legislativo e da quello esecutivo. Essa andrebbe per la sua via, a testa alta oltre tutti i richiami. E non dubito che quella sarebbe la diritta via. Anch’io, anch’io come l’onorevole Bozzi, non partecipo neppure al remoto sospetto che domani la Magistratura, fatta casta chiusa, possa erigersi contro lo Stato, e magari rifiutare l’applicazione della legge.

Però in me c’è un dubbio, un dubbio solo, anche se non irragionevole. E proprio per quanto ha detto l’onorevole Bozzi: il giudice deve essere indipendente anche nei confronti delle sue gerarchie interne. Se non la Magistratura, i magistrati nel nuovo organamento della vita giudiziaria forse non si troveranno garantiti nella pienezza dei loro diritti.

Certo non accadrà più quello che accadeva in tempi non distanti. Un Presidente della Corte di Cassazione, che in sede di concorsi o di promozioni si presentava, traeva il suo fogliettino, e gli assunti e i promossi dovevano essere quelli iscritti in quel fogliettino.

Non accadrà più che un magistrato munitissimo di titoli, degno di ritrovarsi nei primi posti della graduatoria, si ritrovi invece relegato negli ultimi posti.

Pure in me risuonano le parole antiche: homo sum, nihil humani a me alienum.

Nel Consiglio Superiore della Magistratura entreranno dunque alcuni avvocati, i quali però dovranno interrompere l’esercizio della professione. E per sette anni! Una vacanza lunga, destinata, se sarà reale e compiuta, a distruggere lo studio professionale più florido!

Lo sappiamo un po’ noi avvocati costituenti. E la nostra vacanza, pur non completa, dura soltanto da un anno e mezzo!

Allora è certo che nel Consiglio Superiore della Magistratura non entreranno né i maggiori, né i migliori, coloro cioè che nel pensiero della Commissione avrebbero dovuto rappresentare garanzia alta e degna per il buon governo della Magistratura.

Vi entreranno alcuni magistrati, i quali non giudicheranno più. Sia per la grave mole dell’impegno, che andranno ad assumere, sia perché venga allontanato anche il lontano sospetto che quelli, i quali hanno ancora aperta una carriera, possano giovarsi in causa propria. Dunque i magistrati non giudicheranno più: giudicheranno invece i loro colleghi. Allora – ecco la eco delle parole antiche homo sum ecc. –: amicizie, rivalità, solidarietà più impensate, ricordi di scuola, consuetudini di sede, ammirazioni magari ingiustificate, lieviti insomma, che non si possono sopprimere. E tutto questo per sette lunghi anni, al di sopra ed al di fuori di ogni controllo; perché non può rappresentare un controllo la presenza di uomini non appartenenti alla Magistratura; tanto più se il numero di questi sarà ridotto, secondo chiede l’onorevole Dominedò, a una rappresentanza meramente simbolica.

Oggi, onorevoli colleghi, un magistrato, che sia vittima di una soperchieria, può trovare, e trova certamente, in qualunque settore questa Assemblea un deputato, che denunzi quella soperchieria e gli ottenga giustizia.

È questo il grande, democratico controllo della Assemblea, espressa dalla volontà popolare. C’è una realtà insopprimibile: distinti i poteri ma non separati decisamente, come compartimenti stagni per nessun verso comunicanti. Son necessari pur sempre un collegamento, un coordinamento di vita tra i diversi poteri.

Il potere esecutivo è o non è chiamato a rendere conto di sé ogni giorno al potere legislativo? Io non dico che questo debba accadere quotidianamente, per il terzo potere; dico soltanto che questo non può, non deve essere avulso, rigidamente e compiutamente, dalla complessa vita dello Stato.

Ed allora? Lo so: l’onda ormai è troppo alta. Questa istanza di autogoverno della Magistratura è troppo ormai diffusa. Quello che è non può restare. Qualche correttivo deve essere però cercato; sarà cercato in sede di emendamenti.

Per esempio. Il capoverso dell’articolo 97 recita che il Ministro della giustizia promuove l’azione disciplinare contro i magistrati secondo le norme dell’ordinamento giudiziario. E perché allora non consentire una facoltà di reclamare al Ministro da parte del magistrato, il quale senta e dimostri di essere stato offeso nelle sue libertà e nei suoi diritti? Si dirà: ecco sopravvivere allora quella subordinazione, che vogliamo cancellare. Nossignori! Il Ministro risponderà di sé all’Assemblea. Allora, eccola la più alta e più compiuta garanzia; quella che deriva dalla concorde e coordinata azione di tutti i poteri dello Stato.

Credetemi, nessuna diffidenza ha ispirate le mie parole. Io sono tra coloro che per lunghi anni hanno imparato ad ammirare ed ad amare i magistrati. Soltanto la esigenza di quella più alta e compiuta garanzia e la maturata conoscenza dei fermenti deteriori di quasi e nostra umanità, mi hanno indotto a parlare, come ho parlato.

La giuria: tema arroventato. E non potrebbe non esserlo, se il bravissimo amico onorevole Turco ha detto che tale tema attiene alla torrida zona della criminalità umana.

Poche voci in favore della giuria, qui dentro. Dirò la mia modestissima e la trarrò non dell’astrazione e dalla dilettazione teorica.

Vedete: se noi vogliamo incidere la figura del giudice perfetto, o più vicino alla perfezione, dobbiamo certo concludere che il giurato è il giudice più imperfetto. Ma c’è un giudice, non dico perfetto, ma che si avvicini alla perfezione? Ciò non può dirsi neppure del giudice togato. Quante volte sbaglia! Basti pensare al numero delle sentenze che quotidianamente vengono riformate in sede di impugnazione.

Quante cose poi dovrebbe sapere il giudice? Se egli è chiamato a decidere in processi di bancarotta dovrebbe intendersi di contabilità e della complessa vicenda commerciale e industriale; se è chiamato a giudicare nei processi di aggiotaggio dovrà conoscere il minuto e complesso, talora insidioso funzionamento delle borse; se sarà chiamato a giudicare in processi di omicidio, di lesioni, di aborto dovrà intendersi di medicina legale, di psichiatria, di psicologia. Tante e tante cose insomma, per cui, non ricordo chi, volendo dimostrare l’assurdo che è nel motto notissimo: «il giudice è il perito dei periti», scriveva che allo scopo, ciascun giudice dovrebbe avere il cervello poderoso di Leonardo.

Allora il problema è un altro. È davvero il giurato, pur giudice imperfetto, del tutto incapace di rendere giustizia, o quanto meno di renderla quale la renderebbe il giudice togato? Io sento il problema, onorevoli colleghi, non secondo quanto ho letto nelle riviste o nei libri – del resto poche cose, quasi sempre uguali e non del tutto suadenti – ma secondo la mia pratica professionale. Perché la teoria non è sempre la vita, come la vita non sempre si può inquadrare negli schemi rigidi imposti dalla teoria. Consentite dunque anche a me di partire da un ricordo professionale

1921! Una frotta di giovani fascisti percorre un argine del Po nella mia terra mantovana. Dai lati della strada partono colpi di rivoltella: tra quei giovani un morto e due feriti gravi. È arrestato un giovane del paese: ne ricordo ancora, il nome. Istruttoria e rinvio a giudizio. I due feriti sopravvissuti ed altri che erano in loro compagnia riconoscono senz’altro nell’arrestato lo sparatore. Al dibattimento i confronti si ripetono fermi, precisi, senza esitazioni, mentre io rivivevo la disperazione del vecchio padre dell’imputato, il quale nel mio studio mi scongiurava di salvargli il figlio innocente. Il vecchio soffriva d’asma, vegliava tutta la notte: giurava quindi che il figliolo, quando il delitto veniva commesso, dormiva nel letto, che gli era vicino! Cosa dovevo fare? Dovevo citarlo come testimonio? Già il codice di procedura del tempo non lo consentiva. E anche se lo avessi potuto fare chi gli avrebbe creduto? Un padre può mentire per salvare la sua creatura. Io non ricordo quel che dissi allora ai giurati. Ricordo solo che alla fine l’urna rivelò cinque schede per l’assoluzione e cinque per la condanna. E fu l’assoluzione! L’assoluzione di un innocente! Si ripeté la solita storia: dopo anni, un uomo venne a morire, ma prima si confessò autore di quel delitto, indicò i complici, escludendo la partecipazione di colui che aveva, innocente, azzardato l’ergastolo.

Onorevoli colleghi, di fronte a quella imponenza di riconoscimenti il giudice togato non avrebbe mai assolto. Ai miei argomenti sulla possibile fallacia del riconoscimento, sulla possibilità dell’equivoco, sulla suggestione dell’ora avrebbe risposto: «ferravecchi del mestiere». E avrebbe condannato un innocente!

Potrei aggiungere altri casi: ma basta uno. Perché anche da quest’uno deriva un grande ammonimento! Gonzales, che ha tanta pratica di vicende giudiziarie ha scritto:

«Pur abrogata fin dal 1944 la pena capitale per i reati comuni del codice penale, le lunghe pene sono comunque pene capitali; 20-30 anni di reclusione, l’ergastolo, annichiliscono le ragioni di vivere. Allora, affidare tanto destino di uomini alla routine professionale, all’ossequio formale ed intransigente per le regole cristallizzate del diritto, in confronto delle molteplici esigenze di vita, dei molti problemi di equità e di responsabilità sociale, che affiorano nei drammi umani, ripugna al sano istinto popolare di giustizia».

Lo so, amico Scalfaro, che ti do un dispiacere, ma è certo che il giudice togato ha sempre in sé una insidia, che alla lunga non riesce a vincere: l’abito professionale. Dopo i primi fervori, se pur, come te, li ha avuti, il giudice finisce per procedere per schemi, per convinzioni ed idee acquisite. La logica delle prove nel fatto – e, badate, che in Corte d’assise è soprattutto questione di logica delle prove nel fatto – diventa in lui come anchilosata, onde perde quella duttilità, quella elasticità che sono postulate dalla diversità dei casi.

La pratica professionale insomma ottunde la sensibilità! E allora che mi importa se il giurato non sarà un pozzo di scienza giuridica, quando egli nel giudizio porta invece come una freschezza, una spontaneità, oserei dire una innocenza di indagine? Se egli procede con una sensibilità più aperta, con una comprensione, certamente non professionale, ma indubbiamente più umana?

Amico Bettiol, il giurato se tu lo interroghi non ti saprà definire, secondo i testi, in che consista la preterintenzione, non ti spaccherà l’argomento, ridotto ad un capello, nelle innumeri distinzioni dei giuristi. Così, in tema di premeditazione, non saprà dirti se per essa basta il proposito, o se ci si deve aggiungere la riflessione, e quindi alla riflessione la deliberazione, e ancora la pervicacia nella deliberazione. No, queste cose non te le saprà dire, ma nel caso concreto il giurato saprà dirti se colui, che attende il suo giudizio, ha colpito o non oltre l’intenzione, ha premeditato o non, e te lo saprà dire di istinto, per intuizione, con una comprensione umana, proprio quale è richiesta dalla gravità del giudizio!

Per questo indubbiamente grandi Presidenti di Corte d’assise: Campolongo, Vaccaro, Raimondi, Fanelli, che hanno vissuto la loro vita fra i giurati, che hanno presieduto tante giurie, quando si trattò della loro abolizione si ribellarono e proclamarono che, per i più gravi delitti, la giuria popolare è somma garanzia per la giustizia.

SCALFARO. Non c’è anche una coscienza anchilosata di difesa?

AVANZINI. Non immiseriamo il problema, onorevole collega. In questo momento io non parlo da avvocato, ma parlo da uomo che guarda al problema della giustizia: perché al problema della giustizia sia data la soluzione che più conviene alla tradizione italiana ed a quelle che sono le supreme esigenze del diritto.

Devo anche dissentire da altro collega che ha parlato da questi banchi, ed ha guardato con orrore a quella, che definì la nefasta influenza del fattore politico nei giudizi affidati alle giurie. Potrei ricordare che uno dei più fieri oppositori della giuria, l’Altavilla, finì per riconoscere che alla giuria devono almeno essere riservati i giudizi nei processi politici e in quelli passionali.

Anche qui dentro mi affiorano ricordi personali e in quest’Aula vi sono uomini che possono rendere testimonianza di quanto io dico. L’onorevole Villani, innocente, allora seduto tra gli imputati. Gli onorevoli Targetti e Grilli con me al banco della difesa. Fu nel processo chiamato allora dell’eccidio di Castello Estense. Le colonne fasciste avevano investito il Castello, in cui i socialisti si orano asserragliati per difenderlo. Scaricate le armi dall’una e dall’altra parte sul terreno, fra i fascisti, cinque morti e numerosi feriti.

Il processo non si poté celebrare a Ferrara: si celebrò a Mantova per legittima suspicione. Agguerritissima la parte civile: i migliori avvocati del foro penale ferrarese ed altri ancora. Ma non essa ci impauriva. Ci impauriva altro fatto: tra i giurati ben sette erano iscritti al fascio. Per due mesi, tutti i giorni quei sette dischetti tricolori innanzi agli occhi! Dove andiamo? Come finirà? ci domandavamo.

Ebbene, la conclusione fu che, di quindici imputati, dodici furono assolti e degli altri tre uno, il più accusato da me difeso, fu condannato a 7 anni di reclusione, altro a 4, altro a due. Condanne miti quindi, quali nessun giudice togato, nel caso, avrebbe pronunciate. È vero dunque che quei giudici popolari avevano sentito che la giustizia era un qualche cosa di più alto sul loro spirito di parte.

Potrei citare altri casi. Lo sa l’onorevole Ghidini. Lo sa l’onorevole Cappi che tratto a Cremona davanti alla Corte d’assise, domino Farinacci, quale imputato di vilipendio alle istituzioni, fu assolto.

Non vogliamo dunque esser così pessimisti.

C’è e resta sempre in fondo all’anima umana un sedimento di nobiltà e di responsabilità. Sovrattutto di responsabilità!

Fuori delle ore più convulse e arroventate della storia, nella ritornata normalità della vita, sedete sul banco del giudice il più acceso uomo di parte. Nel momento in cui dovrà decidere la sorte di un suo simile – ergastolo, trent’anni, vent’anni – quel senso di responsabilità risorgerà in lui prepotente e obbligante!

L’altro giorno l’onorevole Villabruna mi ha stupito, poi che in lui parlava un penalista di così alta statura.

Egli ha detto che per correggere la giuria fu creato l’assessorato, e fu un passo avanti. Ma non certo per la giustizia! Lasciamo il caso delle sentenze suicide.

Gli assessori eccezionalmente impongono l’assoluzione dell’imputato e allora il Presidente scrive una sentenza volutamente contradittoria e carente di motivazione, così da assicurarne l’annullamento. Ho detto eccezionalmente, perché la caratteristica più grave dell’assessorato è la subordinazione del giudice popolare al giudice togato. Così, proprio nei processi più gravi, si arriva al giudice unico.

Sì, può essere accaduto che i giurati abbiano assolto forse chi non lo meritava. In fondo, non è un gran male. «Purché il reo non si salvi il giusto pera e l’innocente». È un verso di un poeta epico italiano, che l’ha posto però sulle labbra di un saraceno. Non è un gran male. Certo, però, nei miei ricordi professionali c’è questo: io ho sicura coscienza che mai sia stato condannato un innocente dalla giuria popolare. Ho la sicura certezza, invece, che durante l’assessorato, due innocenti mi sono stati condannati. E da uno di questi sciagurati a tanto a tanto mi giunse una lettera disperata, quasi come un triste rintocco di campana! È il più funesto ricordo della mia vita professionale. E anche allora, per quella deprecata subordinazione del giudice popolare. Cinque ore di camera di consiglio, finché il Presidente impose la sua convinzione. Il giorno dopo la sentenza tre assessori, fra cui un ingegnere e un professore, si presentavano al presidente del Tribunale per chiedere di essere cancellati dalla lista degli assessori. Tanto era il peso che ingombrava la loro coscienza.

Ecco perché son sorto a parlare sovrattutto per il ripristino della giuria. Certo, vedete, bisognerà rendere la giuria più rispondente ai suoi compiti. Basterà selezionarla.

Un magistrato eletto, il Serena Monghini, il quale non è certo tenero per la giuria, al riguardo scrive: «Secondo i principî della sana democrazia, il potere è esercitato dai migliori per designazione diretta o indiretta di tutti i cittadini… Questo criterio dovrebbe estendersi progressivamente all’amministrazione della giustizia anche in Italia. Se si ritiene pertanto, che nei casi di reati più gravi l’elemento popolare debba concorrere all’amministrazione della giustizia, è opportuno che tali giudici siano scelti tra i cittadini che per le loro qualità intellettuali e morali appaiono al popolo suoi legittimi rappresentanti come i più idonei all’esercizio di tale funzione». E qui una serie di proposte, fra cui quella di elevare il titolo di studio, che consente l’ammissione al corpo dei giurati.

C’è però l’ultimo argomento, quasi il fortilizio, degli avversari della giuria. Dicono: «Ma non la sentite la iniquità? Chi viene condannato soltanto ad un mese di reclusione o a 2.001 lire di multa, può ricorrere in appello, mentre ciò è negato al condannalo all’ergastolo o a trent’anni!».

È argomento questo che può essere superato; una soluzione può essere trovata in sede di legislazione. Un’idea che mi è venuta ieri sera, pensando a queste poche cose che dovevo dirvi, e che questa mattina ho incontrata anche in qualche autore. Se, per esempio, fosse disposto che un verbale di dibattimento, rigorosamente e diffusamente redatto, raccogliesse tutte le prove dibattimentali, che cosa potrebbe vietare alla Corte di cassazione o ad una sua Sezione, di essere ammessa al riesame del fatto? In presenza cioè e delle prove dibattimentali, compiutamente raccolte, e delle prove istruttorie, essere ammessa a giudicare se anche il monosillabo, il semplice monosillabo che afferma o che nega ha corrisposto e corrisponde alla logica delle prove e alle supreme ragioni del diritto e della giustizia? E questo, non solo in ordine all’affermazione o alla negazione della responsabilità, ma in ordine anche alla più esatta definizione giuridica dei fatti contestati e delle conseguenze che ne possono derivare?

Un’idea che potrà essere elaborata.

L’altro giorno l’onorevole Bettiol diceva: tutte le norme devono essere dettate a garanzia dell’innocenza dell’imputato. È vero, è vero: questa dev’essere la meta. Ma non è men vero che questa meta la giuria popolare non allontana se essa, in fondo, esaudisce un prepotente desiderio di giustizia, ansia indomita da secoli, di tutti gli uomini, di tutte le genti.

La Cassazione unica: tema pacato, che non domanda accenti di passione.

Vediamo, su questo argomento, di non essere incantati più dalla suggestione che dalla sostanza di una formula. Cassazione unica, si dice, perché sia mantenuta l’uniformità della giurisprudenza e la sua costanza.

Innanzi tutto è possibile una uniformità di giurisprudenza? E poi, la costanza della giurisprudenza, contraddicendo al principio del continuo divenire, gioverà al progredire del diritto?

Uniformità della giurisprudenza! Essa esige l’unicità del giudice. Ora la Cassazione è unica, ma distinta in Sezioni. Tale distinzione in Sezioni compromette proprio quella uniformità. Vedete in penale, dove la materia è più angusta, dove sono sconosciuti i vasti orizzonti del diritto civile.

Il tramviere delle aziende municipalizzate è un pubblico ufficiale? Ebbene ci fu un tempo in cui una Sezione diceva sì, l’altra diceva no. Più recentemente: il ladro, che spoglia l’albero recidendone i rami, commette furto semplice o furto aggravato per aver usata violenza sulla cosa? Una Sezione diceva: furto semplice, e l’altra: furto aggravato. Ci vollero le Sezioni unite per dirimere il dissenso.

Anche i civilisti potrebbero denunciare casi di dissenso nei giudizi delle diverse Sezioni della Cassazione civile.

E badate: dovrà giungere prossimo il tempo in cui bisognerà pur guardare a questo lavoro della Cassazione.

I ricorsi sono tanti, affluiscono da tutta Italia: la decisione è lenta: impiega degli anni. Converrà dunque alla fine aumentare le Sezioni. E ciò aumenterà le possibilità di dissonanza e di dissenso nelle decisioni. Che importa allora che il dissenso e la dissonanza siano fra le diverse Sezioni della così detta Cassazione unica, piuttosto che fra le diverse Corti istituite nelle varie città d’Italia, che prima le ospitavano?

In fine: la costanza delle decisioni gioverà alla elaborazione giurisprudenziale e quindi al diritto? Certo, eletti magistrati compongono la Cassazione romana. Ma non dimentichiamo – mi scusi l’onorevole Cappi se gli rubo troppe citazioni latine – che quandoque bonus dormitat Homerus. E allora badate che la norma giurisprudenziale, uniforme e costante, considerata perfetta e immutabile, non diventi una comoda poltrona per un sonno troppo prolungato, inimico di quella necessità di progrediente elaborazione in una continua ansia di ascesa e di perfezione, senza la quale si ha la stasi, il regresso e la morte.

Le diverso Corti di cassazione, invece, ricostituite, emule dovranno essere in un grande compito di vita del diritto.

Dagli anni lontani mi viene il ricordo della più antica Cassazione d’Italia, quella di Torino. Quale stimolo essa era per il divenire del diritto!

Ci sono poi ragioni pratiche, che non devono trascurarsi. Tutti i ricorsi da essere decisi a Roma. La distanza, la spesa! Questa oggi assurge a un patrimonio. Ne consegue che il ricorso diventa privilegio di pochi; e, in regime di democrazia, onorevoli colleghi, la giustizia, il ricorso alla giustizia dev’essere possibile per tutti!

Ho certamente abusato della vostra pazienza, onorevoli colleghi, ma il tema era alto, altissimo, e domandava tutte le voci: le voci della scienza, che io non ho potuto dare, le voci dell’esperienza, che io ho tentate, ma ad un solo scopo: quello che il diritto e la giustizia, e la Magistratura che deve assicurare l’uno e l’altra, siano sempre alte e degne nelle nostre coscienze e nelle nostre mete! (Applausi – Congratulazioni).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Castiglia. Ne ha facoltà.

CASTIGLIA. Onorevoli colleghi, dopo tutto quello che sull’argomento è stato detto e ripetuto in quest’Aula, dopo le molte pubblicazioni che su questa parte della Costituzione sono state fatte – dalla pubblicazione del padre Lener a quella di Angeloni e Santoni, a quella di Borghese, Brescia e altri; dalle proposte della Corte suprema di cassazione, alle varie relazioni, ai lavori approntati dalla Commissione nominata dal Ministero per la Costituente – non si può sperare di dire cose nuove e di portare argomenti che non siano stati già trattati.

Ad ogni modo, se è vero che la giurisdizione è la funzione che ha per oggetto l’attuazione e la tutela dell’ordinamento giuridico, l’importanza di tale funzione è troppo evidente. Ed è per questo che l’argomento ancora merita un ulteriore esame, anche se questo esame porti necessariamente alla ripetizione di temi già svolti, ma che possono essere guardati da un punto di vista forse diverso.

La giurisdizione, dunque, mira alla stessa conservazione dell’ordinamento giuridico e, quindi, alla conservazione dei presupposti che regolano la vita politica e garantiscono la libertà del Paese.

Non è dubbio che il potere giudiziario, attraverso i suoi organi, costituisca il miglior presidio e la migliore garanzia alla realizzazione della giustizia, senza della quale non può parlarsi di libertà.

Dall’esame panoramico della parte del progetto di Costituzione che riguarda il potere giudiziario, balza evidente che essa non risponde in pieno a queste superiori esigenze di giustizia, soprattutto per la violazione di due punti, di due esigenze fondamentali: la violazione della indipendenza della Magistratura, indispensabile ai fini della sovranità del potere giudiziario, e la violazione del principio della unità della giurisdizione.

L’onorevole Cappi si è dichiarato soddisfatto di questo sistema adottato nel progetto di Costituzione, specialmente per quanto riguarda la composizione del Consiglio Superiore della Magistratura. È perfettamente logico, perché io ricordo che nella seconda Sottocommissione fu il più strenuo assertore di questi principî, che poi trovarono la loro consacrazione nell’articolo 97 nel progetto di Costituzione. Egli, prendendo le mosse dallo scritto del Lener e rifacendosi alla sistematica da questi adottata, ha affermato che il progetto di Costituzione è in grado di assicurare alla Magistratura sia l’indipendenza costituzionale, che quella istituzionale, e funzionale. Ma è proprio nello scritto del Lener, citato dall’onorevole Cappi, che si contengono gli argomenti fondamentali, che combattono la stessa tesi propugnata, in un primo momento in sede di Sottocommissione ribadita in questa Assemblea dall’onorevole Cappi.

Io non condivido questa visione ottimista dell’onorevole collega perché, per esempio, osservo che, a proposito della indipendenza costituzionale, manca nel progetto di Costituzione una formulazione, che consacri il principio della sovranità della funzione giurisdizionale stessa nel quadro della divisione dei poteri e conseguentemente la sua indipendenza dagli altri poteri. Come è noto, si parla di giurisdizione, ma il termine giurisdizione, in dottrina, è usato sia in senso sostanziale, come potestà sostanziale, sia anche come complesso dei poteri procedurali necessari per attuare la giurisdizione stessa. E quando più tardi, nell’articolo 97 del progetto di Costituzione, si parla di autonomia, il termine è assolutamente inadeguato ad esprimere il concetto di sovranità, che, secondo noi, dovrebbe essere espresso, perché, come osserva appunto il Lener nel suo scritto, l’autonomia è una categoria diversa ed inferiore alla sovranità. Senza dire poi che la frase usata all’articolo 94 del progetto di Costituzione, cioè «espressione della sovranità della Repubblica», si appalesa priva di valore effettivo, perché, a proposito della indipendenza dei magistrati, al capoverso successivo dello stesso articolo 94, si consacra, non quella che il Lener chiama indipendenza costituzionale, ma solo una indipendenza istituzionale. Possiamo allora dire che il progetto di Costituzione così come è formulato, non soltanto non garantisce la indipendenza della Magistratura, ma sancisce una vera e propria subordinazione della Magistratura al potere legislativo e alle vicissitudini politiche del Paese. Diceva l’onorevole Fausto Gullo, ieri, che non bisogna confondere fra la sovranità, che è del potere, e una sovranità, che si vorrebbe attribuire all’organo. Perfettamente d’accordo. Ma non è possibile arrivare alla sovranità del potere se non attraverso una indipendenza dell’organo, che è chiamato all’attuazione, all’esplicazione delle funzioni proprie del potere, vale a dire, nel nostro caso, attraverso l’indipendenza costituzionale, oltre che funzionale e istituzionale, della Magistratura.

La prima violazione dell’indipendenza. della Magistratura è costituita dalla formulazione del quarto capoverso dell’articolo 95, il quale costituisce nello stesso tempo violazione del principio di indipendenza della Magistratura e offesa all’unità della giurisdizione, dato che con esso si dà la possibilità di sottrarre qualsiasi controversia alla Magistratura ordinaria, tranne che in materia penale, la sola per la quale sia sancito il divieto di istituzione di magistrature speciali.

Ma il punto fondamentale, la questione veramente grave, che si è agitata e dibattuta da tutti i settori dell’Assemblea e che dimostra, attraverso questa molteplicità di discussioni, come sia veramente sentita, come essa debba essere affrontata e risoluta, è quella della costituzione del Consiglio Superiore della Magistratura. Io non starò a ripetere tutto quello che è stato detto, ma sono del parere (e l’ho espresso anche in sede di seconda Sottocommissione) che il Consiglio Superiore della Magistratura non debba comprendere elementi estranei alla Magistratura; che la Magistratura debba essere governata da un Consiglio Superiore composto esclusivamente di magistrati, appunto per evitare quella influenza, che è influenza del legislativo, ma è anche influenza politica che può esercitarsi sul magistrato. Che cosa importa che si faccia divieto in sede di progetto di Costituzione ai magistrati di appartenere a partiti politici quando poi – come ha giustamente osservato un altro collega – la carriera, la promozione, la sede a cui dovrà essere assegnato il magistrato sono soggetti a questo giudizio, che sarà fatto, sempre secondo il progetto di Costituzione, in parte da magistrati, ma in parte da elementi estranei? I quali ultimi devono essere nominati dal Parlamento, e pertanto saranno espressione di una maggioranza parlamentare necessariamente fluttuante, che costringerà il magistrato a quello speciale abito mentale di adattamento, per cui cercherà di non essere mai né da una parte né dall’altra e cercherà di barcamenarsi, con quanto danno per l’amministrazione della giustizia è facile intendere Che dire, poi, dell’enormità di proporre che un estraneo all’Ordine giudiziario, nominato dal Parlamento, sia Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura? Lasciare che la Magistratura si governi da sé a me sembra, non soltanto un atto di riconoscimento della coerenza e della indipendenza, di cui la Magistratura ha sempre dato prova. Non è soltanto atto di omaggio e di fiducia che la Magistratura merita. È anche esigenza superiore di giustizia e necessità politica. So benissimo che non da tutti si condivide questa idea, ma in fondo è la vicenda a cui tutti gli uomini sono sottoposti.

Durante il regime fascista i magistrati si ritenevano come i più fieri antifascisti e si guardava ad essi con sospetto; adesso, perché qualche sentenza può non essere giusta, e non rispondere a esigenze di giustizia, alcuni ritengono i magistrati i più fieri reazionari. Questo è il giudizio degli uomini, il quale può essere determinato e ispirato da una serie di considerazioni che non sono sempre serene ed oggettive, ma possono essere determinate e ispirate da particolari stati di animo.

Contro questo principio, contro questa necessità, ieri parlava l’onorevole Gullo, quando diceva che l’ordine giudiziario non può essere scisso dagli altri poteri, che non è pensabile nemmeno in linea d’ipotesi alla eventualità di una ingerenza illecita degli altri poteri, per il rispetto che dobbiamo alla democrazia. Perfettamente d’accordo! Ma, nel formulare una legge che dovrà regolare l’istituto non soltanto per oggi, ma per l’avvenire, non possiamo escludere preventivamente la eventualità di una possibile degenerazione, di una deviazione e di un qualsiasi inconveniente.

E allora è assolutamente necessario che si ritorni al concetto dell’indipendenza delia Magistratura. Divisione di poteri non deve essere isolamento, diceva l’onorevole Gullo. Giustissimo! Ma altro è parlare d’indipendenza della Magistratura, che è condizione necessaria per la sovranità del potere giudiziario, altro è parlare d’isolamento. Si può arrivare a questa armonizzazione dei tre poteri attraverso altre forme; per esempio, con la nomina di Presidente del Consiglio Superiore della Magistratura del Capo dello Stato, il quale partecipa dei vari poteri dello Stato.

Potrebbe essere questo un modo di armonizzare le varie attività, le varie competenze ed i vari poteri; ma non più di questo io credo che si possa dire e si possa fare.

Altro argomento contrario. Si diceva: se c’è una vera democrazia, non c’è ragione di preoccuparsi eccessivamente dell’indipendenza della Magistratura. Il problema della indipendenza della Magistratura poteva essere sentito nel regime monarchico costituzionale (diceva l’onorevole Gullo), quando c’era questa posizione di antagonismo fra re depositario del potere giudiziario e popolo.

Io credo che non isolare la Magistratura, ma renderla assolutamente indipendente possa essere utile, in tutti i regimi e climi politici, per la garanzia che la Magistratura deve dare alla libertà del cittadino, che non può essere una libertà condizionata alle esigenze politiche del momento.

Diceva l’onorevole Calamandrei in altro discorso che, pur essendo convinto della esigenza che la Magistratura sia resa assolutamente indipendente, si deve al famoso caso Pilotti se la Magistratura oggi non può avere la sua completa indipendenza.

In fondo, il caso singolo – che non discuto, ma che è il caso di un solo magistrato – come i vari episodi e ricordi professionali che si sono citati in quest’Aula, non possono e non debbono influire su una questione di carattere generale che è di giustizia superiore.

Se c’è un magistrato, per esempio, che non dia garanzia di onestà, non si dirà che tutti i magistrati non compiono il loro dovere. Perché da questo esempio, per altro ingigantito e gonfiato, si deve discendere a questa conseguenza?

Altra menomazione a questa esigenza dell’indipendenza della Magistratura è costituita dal modo di composizione della Corte costituzionale, la quale, secondo il progetto, è composta solo per metà di magistrati; non solo, ma tutti i membri, tutti i giudici, tutti i componenti della Corte devono essere nominati dal Parlamento. È troppo evidente, o signori, che, se questa formulazione dovesse restare, noi avremmo una illogicità grave: la Corte costituzionale cadrebbe sotto la influenza di quel potere legislativo, che essa stessa, a sua volta, deve controllare, a proposito del giudizio sulla costituzionalità delle leggi.

Mi pare sia troppo evidente la mostruosità giuridica, troppo grande la contradizione. Ed è per ciò che questa formulazione non può e non deve essere consacrata definitivamente nella Costituzione dello Stato.

Evidentemente, bisogna correggere tutti questi difetti, bisogna colmare tutte le lacune, che non sono soltanto queste, cui ho accennato panoramicamente, se si vuole contribuire efficacemente al consolidamento di quelle libertà democratiche, che sono aspirazione di tutti.

Occorre provvedere a quel complesso di norme, che garantiscano alla Magistratura, oltre all’indipendenza dall’esecutivo, anche la indipendenza dal legislativo e l’indipendenza da qualsiasi influenza politica.

Come? Prima di tutto, riformando la Costituzione nella parte che riguarda il Consiglio Superiore della Magistratura (ho presentato in proposito un emendamento). Riformare poi la Corte costituzionale in modo da farne un organismo prevalentemente tecnico-giuridico e non un organismo prevalentemente politico, così com’è invece nella formulazione attuale. Estendere il divieto di cui all’articolo 95, quarto capoverso, circa la istituzione di giudici speciali, anche alle altre materie che non siano la materia penale. Ribadire il principio, di cui all’articolo 94, ultima parte, circa il divieto di appartenenza a partiti politici.

So che le obbiezioni a quest’ultimo principio sono molteplici. Si è detto che questo costituirebbe la rinuncia a certi diritti politici, quale quello dell’elettorato passivo. Ebbene, non rispondo io, a questa argomentazione: hanno risposto i magistrati della Cassazione, quando hanno detto che l’astensione dal porre candidature (naturalmente non essendo inscritti a un partito politico, non si può porre una candidatura politica) è conseguenza logica della particolare funzione dei magistrati, i quali sicuramente non si dorranno della privazione di questo particolare diritto.

Altra obiezione che si è fatta è che l’appartenenza ad un partito politico non può e non deve turbare la serenità e l’imparzialità del giudice. Neanche questo è esatto. Anche a ciò hanno risposto i magistrati della Cassazione, i quali hanno detto che, viceversa questi vincoli di subordinazione, i quali si creano fra i partiti a cui si appartiene e i dirigenti del partito e delle sue organizzazioni, in fondo debbono per forza di cose creare un vincolo di subordinazione che, anche indirettamente, può turbare la serena amministrazione della giustizia.

Contro tutto questo si è argomentata ancora ieri da parte dell’onorevole Fausto Gullo: la Magistratura così è avulsa dal popolo, non sente le pulsazioni della vita sociale.

Si tratta di frasi le quali possono creare un certo allarme, ma in ultima analisi, non mi pare che rispondano per nulla alla realtà oggettiva dei fatti. Così egli ha citato l’esempio dell’applicazione estensiva del decreto di amnistia sui reati politici, dicendo come questa applicazione estensiva abbia violato lo spirito della legge e turbato la coscienza popolare. Io vi dico: signori, non dimenticate quella che era la formulazione di quel famoso articolo 3 del decreto 22 giugno 1946, che ha dato luogo poi a tante polemiche, con il quale si escludevano dal beneficio dell’amnistia coloro, i quali avevano rivestito «una elevata funzione di direzione civile e politica». Io mi chiedo se con una formulazione così equivoca, così generica e così poco felice dal punto di vista tecnico, non si dovesse dar luogo a delle interpretazioni che, per taluni, sono perfettamente rispondenti allo spirito del decreto, mentre per taluni altri possono non esserlo. Ma il giudice deve essere al di sopra di queste competizioni. Di che cosa vi lagnate? Voi stessi avete detto che l’amnistia era uno strumento di pacificazione generale, e se questo strumento di pacificazione è stato applicato con una certa larghezza – eccessiva secondo il vostro punto di vista, non secondo il nostro – in tutto questo cosa c’entra la considerazione che il magistrato sarebbe avulso dalle pulsazioni della vita sociale? Il magistrato applica la legge secondo la formulazione che voi gli avete data; questa è la legge che voi avete data al magistrato perché l’applicasse, ed egli l’ha applicata secondo la sua coscienza, secondo la sua competenza e secondo il suo convincimento: secondo lo spirito di giustizia che lo anima.

Si dice: il magistrato è avulso dal popolo, come se il magistrato non fosse il popolo, come se il magistrato non vivesse la vita quotidiana, la vita della collettività e come se il magistrato fosse un essere diverso da quello che forma tutta l’umanità e tutto il complesso dei cittadini. Se, poi, sotto il velo di questa accusa si vuole imputare ai magistrati di non volersi uniformare ai desideri di parti politiche che prevalgono in determinati momenti, io vi dico che questa accusa è la migliore e più ambita lode che si possa fare alla Magistratura italiana.

Ora, la verità è che con queste affermazioni sbalorditive, ma inconsistenti, si vuole giustificare la negazione della indipendenza della Magistratura, per arrivare a quello al quale voi mostrate di voler arrivare: a quella subordinazione della Magistratura a esigenze che non sono di carattere puramente giuridico, ma di carattere sociale, e più che sociale, politico, per cui ad un certo momento il magistrato dovrebbe superare anche la lettera e lo spirito della legge, per creare un nuovo diritto aderente a chissà quali nuovi criterî e nuovi concetti, di opportunità contingente e di interesse non collettivo, ma partigiano e quindi fazioso.

A tutto questo, evidentemente, non possiamo aderire. Ed è per questo: perché si profila già, fin da questo momento, il pericolo contro l’indipendenza della Magistratura, il pericolo contro quella che dev’essere la disarticolazione del potere giudiziario, e quindi della Magistratura, dall’influenza politica, e bisogna insistere su questo concetto, perché il pericolo è grave, come si desume da tutto quello che è stato detto in questa Aula.

E così, le stesse ragioni militano contro i tentativo di inserire nel progetto di Costituzione l’istituto dell’elettorato per la scelta dei magistrati: i magistrati non dovrebbero più venire alla Magistratura attraverso il concorso, ma attraverso l’elezione. Certamente questa conseguenza è coerente con il punto di vista espresso ieri dall’onorevole Gullo, ma altrettanto coerente, dal nostro punto di vista, è il rifiuto di aderirvi. L’elezione del magistrato comporterebbe e aggraverebbe tutti gli inconvenienti di cui abbiamo parlato, e che sono determinati dalla subordinazione della Magistratura alle influenze politiche. Si diceva ieri che il concorso, in fondo, non serve a niente, tranne che a saggiare la preparazione culturale del magistrato. E vi sembra poco? Vi sembra cosa da niente che il magistrato sia già preparato ad affrontare la vita del giudice con quel corredo di cognizioni e di conoscenze che sono indispensabili, perché la sua missione venga esercitata con quello spirito di serenità, di intransigenza, di diligenza, che tutti noi ci auguriamo? Vi sembra poco? E perché non ricordiamo tutti che i vari reclutamenti di magistrati fatti fuori dei concorsi hanno dato degli esiti, nella maggior parte dei casi, addirittura disastrosi? I magistrati che sono stati reclutati senza concorso, molto spesso si sono arenati ai primi gradi, appunto a causa della loro scarsa preparazione, della loro scarsa attitudine alla funzione di giudice.

Vogliamo estendere questi inconvenienti alla totalità, o quasi, della Magistratura, con l’altro grave incommensurabile inconveniente della soggezione del magistrato al corpo elettorale? Perché non vi è dubbio che ogni eletto è soggetto alla pressione, diretta o indiretta, del corpo elettorale. E tutto questo non quanto beneficio della amministrazione della giustizia, con quanto beneficio per l’assoluta obbedienza alle leggi, è facile immaginare!

La verità è sempre quella: si vuol creare una Magistratura obbediente, in luogo di una Magistratura che, come la nostra, ha dato sempre prova di indipendenza contro tutte le intimidazioni, da qualsiasi parte venute, in ogni tempo.

Ed allora, grosso errore sarebbe quello di aderire a questa tesi, grosso inconveniente, che anche questa volta si risolverebbe in una grave offesa a quel principio di giustizia, a quel principio di indipendenza della Magistratura, che dev’essere assolutamente, integralmente, pienamente consacrato nella Carta costituzionale della nuova Italia.

Ma il problema dell’indipendenza della Magistratura, o signori, non ha soltanto un aspetto giuridico, ha anche un aspetto economico. Io so benissimo che in sede di Costituzione non si possa risolvere il problema, che, badate, influisce enormemente sulla serenità spirituale del giudice, e quindi sulla realizzazione della sua missione; problema che influisce sul reclutamento dei magistrati, perché, se i magistrati dovessero continuare a dibattersi nelle strettoie di queste difficoltà quotidiane, come vi si dibattono i nove decimi dell’umanità, avverrebbe un vero esodo, giacché molti sarebbero costretti a lasciare la toga, e i migliori elementi, domani, non si presenterebbero più ai concorsi per iniziare una vita, che indiscutibilmente è, dal punto di vista morale, degna del più grande sacrifizio, ma che in sostanza comporterebbe una continua lotta contro i bisogni materiali, ai quali il magistrato, rappresentante di un potere dello Stato e alla cui opera di giustizia sono affidati la vita, la libertà, l’onore, gli averi dei cittadini, deve essere assolutamente sottratto.

Io credo che, sia pure in forma indiretta, l’Assemblea Costituente potrebbe e dovrebbe porsi il problema della libertà dal bisogno del magistrato e dare, se non altro, un certo avvio alla soluzione di esso. Ho presentato in tal senso una proposta di emendamento, secondo cui – non è, intendiamoci bene, la mia una proposta originale, in quanto l’ho desunta dai voti di parecchie associazioni di magistrati – secondo cui, dicevo, al Consiglio Superiore della Magistratura si commetterebbe il compito di determinare il trattamento economico da farsi al magistrato, entro i limiti dei fondi gravanti sul bilancio dello Stato e valendosi di speciali proventi da ricavarsi mediante speciali tassazioni sugli alti processuali. Dei modi per l’attuazione concreta di tale proposta, si dovrebbe naturalmente, parlare in sede opportuna.

Comunque, signori, teniamo conto che l’eroismo non può essere senza limiti e non può durare all’infinito.

Unicità della giurisdizione, dicevo. L strano che il progetto di Costituzione, mentre si preoccupa di riaffermare questo principio, con il quarto capoverso dell’articolo 95, viceversa lo vulnera in pieno e si occupa di due questioni che sicuramente, a mio modo di vedere, non influiscono per nulla sul principio dell’unità della giurisdizione e tanto meno lo menomano.

Si parla infatti di soppressione dei tribunali militari e si parla poi di una questione per noi particolarmente grave, quella della Cassazione unica e del conseguente divieto di costituire le Cassazioni regionali. A proposito dei tribunali militari, non potrei aggiungere molto a quello che ha detto così efficacemente poco fa l’onorevole Gasparotto. Egli ha delineato un quadro veramente completo della situazione e ci ha addirittura illuminati su questo problema, che non è un problema di carattere affettivo e sentimentale, come qualcuno può credere. Io non ho ragione di nascondere i miei sentimenti, e se anche il problema ha uno sfondo affettivo, esso è soprattutto di carattere tecnico e giuridico.

Osservo innanzi tutto, per amore della chiarezza, che così come è formulato, ed inquadrato nella materia del progetto di Costituzione, il problema della soppressione dei tribunali militari dà luogo ad equivoci. Invero, l’articolo 95, sesto comma, dice che «i tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra»; l’articolo VII delle disposizioni transitorie afferma che «entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione si procede alla revisione degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, salvo le giurisdizioni del Consiglio di Stato e della Corte dei conti. Tale termine è ridotto a tre anni per i tribunali militari».

Questo articolo delle disposizioni transitorie, dunque, si occupa della revisione di questi organi speciali di giurisdizione. Capoverso: «Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente discussione si provvede con legge alla soppressione del Tribunale Supremo militare e alla devoluzione della sua competenza alla Cassazione».

Dunque, nello stesso articolo si parla di soppressione del Tribunale Supremo e di devoluzione della sua competenza alla Corte di cassazione; ma a proposito dei tribunali militari di prima istanza non si parla di soppressione e della conseguente devoluzione, che sarebbe automatica, ad altro organo giurisdizionale: si parla unicamente di revisione, che non si sa in che cosa debba poi praticamente ed esattamente consistere.

Signori, la questione, il problema, non è però questo. Da tutto lo spirito del progetto di Costituzione si rileva come la direttiva sia la soppressione; anche se quell’articolo VII delle disposizioni transitorie è formulato in maniera così equivoca, come ho esposto all’Assemblea.

Noi conosciamo su per giù gli argomenti che si formulano in favore della tesi della soppressione: non ultimo quello esposto nella relazione di minoranza della Commissione per lo studio dell’ordinamento della giustizia militare, del componente, avvocato Palermo, che dovrebbe essere l’obiezione, vorrei dire, fondamentale, quella cioè che dovrebbe addirittura togliere qualsiasi dubbio in proposito, e cioè che essendo la giustizia militare «alle dirette dipendenze del potere esecutivo, e, più particolarmente, del Ministero della difesa e della autorità militare» offre al potere da cui dipende la possibilità di essere usata come «organo di giustizia politica, come arma liberticida, e strumento di governi autoritari».

È strano che ci si preoccupi che la giustizia militare sia soggetta all’esecutivo, nello stesso momento in cui non ci si preoccupa che la Magistratura ordinaria, la quale giudica dei fatti che possono essere commessi da tutta la collettività, sia soggetta al legislativo, e sia soggetta anche e soprattutto a quelle influenze politiche di cui ho parlato, che potrebbero renderla, più che organo di giustizia politica, organo di protezionismo di una faziosità intollerante.

Ma, signori, se anche questo fosse vero, tutto ciò non inciderebbe sull’opportunità, sulla necessità direi, di conservare i tribunali militari anche in tempo di pace, perché basterebbe riformare questa parte dell’ordinamento della giustizia militare là dove questo inconveniente può essere denunciato.

Unità della giurisdizione offesa dall’istituzione dei tribunali militari? Errore, signori, errore gravissimo, perché prima di tutto noi sappiamo, nella pratica, che tutto questo non è vero e non è esatto.

Ma, d’altra parte, se vogliamo esaminare la questione da un punto di vista strettamente giuridico, possiamo dire che, se riduciamo – questo sì – la competenza dei tribunali militari in tempo di pace alla conoscenza soltanto dei reati oggettivamente indiziari, senza quei tali casi di connessione che, secondo l’attuale Codice militare, estendono la competenza sino ai reati comuni commessi dai borghesi, possiamo considerare i tribunali militari come una vera e propria giurisdizione parallela a quella ordinaria, dotata di leggi proprie.

Si è detto che il militare, per tale sua qualità transitoria, non perde la qualità di cittadino, e pertanto deve essere giudicato, alla stregua di tutti gli altri cittadini, dal giudice ordinario, con la procedura ordinaria. L’errore di questa teoria, consiste in una concezione eccessiva dei diritti del cittadino, concezione che trascura quelle che sono le esigenze preminenti del servizio militare, perfettamente conciliabili coi diritti individuali. La questione del resto non è nuova: fu agitata, in Francia, e tenne il cartello per molto tempo. Si tentò la soppressione dei tribunali militari, ma poi si riconobbe la necessità di ricostituirli. Così come l’onorevole Gasparotto ha esposto, in tutti i Paesi esistono i tribunali militari. Né c’è bisogno di ricorrere al solito esempio della Russia, come se fosse quello l’unico Paese da prendere ad esempio. Tutti i Paesi europei hanno i tribunali militari anche in tempo di pace.

Si dice che i tribunali militari avevano la loro ragion d’essere quando l’organizzazione militare era molto più imponente di quella che non sia ora. La risposta è semplice: la disciplina, che viene indiscutibilmente garantita, maggiormente rafforzata, e resa valida, dai tribunali militari, è necessaria tanto in un grosso, quanto in un piccolo esercito. Anzi in un periodo come quello dal quale noi usciamo, in cui i vincoli disciplinari e il sentimento di coesione sono notevolmente allentati, considerata la situazione caotica nella quale ci siamo trovati, dobbiamo riconoscere che il problema è addirittura di ricostruzione, e quindi il freno, il vincolo della disciplina dev’essere più efficacemente tenuto. E credo che nessuno possa dissentire da una simile considerazione.

Si dice che la giurisdizione militare è conquista della casta militare di cui costituirebbe quasi un privilegio. Anche questa è una inesattezza, perché se è vero che il servizio militare obbligatorio è un dovere del cittadino verso la società, la giurisdizione penale militare non ha la caratteristica del privilegium fori, e diviene una specialità della giurisdizione penale, giustificata anche dalla specialità della legge da applicare.

Si è lamentata la preponderanza dei giudici di fatto, perché, come sono costituiti oggi i tribunali militari, del collegio giudicante fa parte un solo giudice tecnico, mentre gli altri sono giudici di fatto. Questa osservazione viene proprio da quelli che parlano della ricostituzione della giuria, che deve giudicare in maniera preponderante sul fatto.

Se v’è questo inconveniente, che i giudici di fatto hanno preponderanza sui giudici tecnici, anche questo può essere oggetto di riforma nell’ordinamento della giustizia militare. Anziché un giudice tecnico, si insedieranno due tecnici nel collegio giudicante; ma tutto questo non inficia per nulla l’esigenza del mantenimento della giurisdizione militare.

Altra obiezione: riducendo i quadri si ridurrebbero praticamente i tribunali militari a sei in tutta Italia, con grave danno dell’immediatezza fra le parti e il giudice.

Ma neanche questa è un’obiezione seria e consistente, perché si possono istituire, come sono stati istituiti durante il periodo testé trascorso, delle sezioni distaccate di tribunali militari che adempiano perfettamente alla loro funzione e alla loro missione.

Per converso, vi sono delle esigenze etiche por la conservazione, e sono quelle inerenti alla coesione della compagine militare, alla saldezza dei principî di gerarchia e di disciplina, alla esigenza della immediatezza della repressione che sono sempre valevoli sotto qualsiasi regime o spirito politico che possa dominare il Paese.

Avete sentito l’inconveniente denunciato dall’onorevole Gasparotto nel caso in cui la competenza del reato militare fosse sottratta al giudice militare per essere affidata al giudice ordinario, oberato già di lavoro, col risultato di giudicare il militare colpevole quando sarà tornato alla vita civile. E v’è anche la giusta osservazione che chi non vive nell’ambiente militare e chi è lontano dalla mentalità militare non può avere una esatta conoscenza delle cose militari, e pertanto non è in grado di valutare convenientemente i fatti, riportandoli all’ambiente nel quale sono avvenuti e alla mentalità di chi ha commesso il reato. Questo riporto può farlo molto meglio il magistrato militare – che vive nell’ambiente e che partecipa della mentalità militare – che non il magistrato civile.

Altri colleghi hanno portato la voce della loro esperienza e dei loro ricordi professionali. Io non ne porto. Ma, come giustamente è stato osservato, è molto difficile che noi avvocati ci siamo qualche volta lamentati di una sentenza del tribunale militare, perché, ad onor del vero, devo dire che quasi sempre (salvo eccezioni trascurabili che non possono che confermare la regola) i tribunali militari hanno adempiuto veramente e con senso di consapevolezza a questa missione di giustizia che è stata loro affidata.

Altra questione: le Cassazioni regionali. Mi ci fermerò brevemente perché il collega Avanzini ha detto le ragioni che militano per l’istituzione delle Cassazioni regionali.

Unità della giurisdizione offesa? Nemmeno per idea, perché fra le varie sezioni della Cassazione unica vi sono divergenze nella soluzione di taluni problemi giuridici, tanto che si è dovuto costituire l’ufficio del massimario per il coordinamento delle varie massime della Cassazione, senza che per questo possa dirsi violata l’unità del diritto o della giurisdizione. Che cosa vieta dunque che vi sia, accanto – per esempio – alla terza sezione penale, una quarta sezione che risieda a Napoli, una quinta che risieda a Torino e una sesta che risieda a Palermo?

Invece di Cassazioni regionali, si potrà parlare di sezioni della Cassazione unica, sezioni la cui esigenza è troppo evidente per le ragioni già dette dal collega Avanzini e perché rispondono alla necessità di decentramento della giustizia che è esigenza della moderna complessa dinamica vita sociale.

Consentite, o signori, che mi trattenga ora brevemente sull’ultimo argomento che ha formato oggetto della più appassionata discussione in questa Assemblea: il problema della giuria.

Il collega Avanzini – in fondo – ha argomentato (così come ha argomentato ieri l’onorevole Fausto Gullo) soprattutto su quelli che sono i suoi ricordi personali e professionali.

Ma, o signori, chi di noi avvocati non ricorda di aver vinto una causa che credeva di dover perdere e di aver perduto una causa che credeva di dovere vincere? Chi di noi non si è lamentato, durante la vita professionale, di una sentenza che ha ritenuto ingiusta e quindi ha – vorrei dire – solidificato una sua impressione su questa, che ha ritenuto una grande ingiustizia?

Ma, così come vi sono state giurie che hanno assolto innocenti che sembravano raggiunti da prove imponenti, vi sono state giurie (e non vi affliggerò con dei ricordi personali che non hanno poi nessuna importanza), che hanno condannato, senza possibilità di previsione, senza possibilità di appello, degli innocenti a delle pene che vanno fino a trent’anni, che vanno all’ergastolo. Perché noi nel ricordare questi episodi della vita professionale ricordiamo soltanto quelli che fanno comodo alla nostra tesi personale? Quante volte la giuria è caduta in errore, ha giudicato male per influenze o politiche o paesane o di interessi più o meno larvati, confessabili o non confessatibi per tutto quel complesso di elementi che formano un ambiente tanto pericoloso nel quadro della giustizia amministrata dal giudice popolare che non può essere serena come deve essere quella amministrata dal giudice togato? Signori, dice il collega Avanzini: siccome il giudice togato sbaglia pure lui e lo dimostra il fatto del gran numero di sentenze in grado di appello, così può sbagliare il giurato. Ma l’errore del giudice togato lo potete correggere, se v’è una Corte di appello che giudichi in secondo grado, ma l’errore del giurato, del giudice non togato, non potete rimediarlo perché non v’è e non vi può essere nessuna possibilità di revisione di fatto, perché l’espediente suggerito dal collega Avanzini, quello di conferire alla Cassazione la potestà di una revisione del fatto, attraverso un verbale di dibattimento che sia completo, non è espediente che possa essere attuato. Nemmeno per sogno! Del resto l’idea non è nuova, perché è stata attuata anche in Inghilterra fin dal 1908 quando si istituì una Corte di revisione che rivedeva i giudicati della giuria. Ma è assurdo e questo ha segnato una grande decadenza dell’istituto della giuria popolare. L’idea suggerita dal collega Avanzini è inattuabile per due ragioni soprattutto: come possiamo affidare alla Cassazione, la quale è una giurisdizione che deve occuparsi esclusivamente delle violazioni di diritto, una giurisdizione di merito, di fatto, snaturando quella che è la natura dell’organo che noi vorremmo investire di questa conoscenza? E poi non vi accorgete che proprio così verreste ad annullare questo principio della sovranità popolare della giuria, conferendo al giudice togato (proprio a quel giudice togato al quale voi vorreste sottrarre la conoscenza dei delitti affidati alla competenza della giuria popolare) questo giudizio di revisione il quale potrebbe naturalmente ritornare sulla decisione del sì o del no della giuria e fare precipitare nel nulla questo principio della sovranità popolare della giuria?

Proprio in questo preteso rimedio si rivela il più forte, il più grosso inconveniente della giuria popolare. Ma poi, signori, non vi sono due ragioni, v’è una serie di ragioni, una quantità enorme di ragioni le quali sono tutte contro il ripristino della, giuria popolare. Lasciamo stare tutto il patrimonio di ricordi di ingiustizie più o meno volontarie da parte della giuria popolare.

Ma quando mi si dice, per esempio, come ha fatto l’onorevole Avanzini, che il magistrato togato, appunto per quella routine professionale alla quale è abituato non è più sensibile come dovrebbe essere il giudice non togato, il giudice popolare, io protesto, signori, contro questa affermazione e mi sorprende che venga da un collega che è anche avvocato. Noi viviamo la vita delle nostre corti, dei nostri tribunali, partecipiamo a questa amministrazione della giustizia.

Non mi sono mai accorto che il giudice togato non fosse all’altezza della situazione, non soltanto riguardo alla conoscenza, alla preparazione, ma anche in quanto a sensibilità, a quello scrupolo che si accompagna sempre nello sforzo del giudice che deve giudicare il suo simile. Non posso lasciar passare sotto silenzio una affermazione che lede la dignità della Magistratura. Io devo rendere atto di omaggio – io che non sono magistrato – ai magistrati, a quelli che possono essere considerati nella nostra vita professionale, per certi riguardi, i nostri antagonisti. Io rendo omaggio a questo spirito di serenità, che non è affatto insensibile a tutte le esigenze di vita vissuta.

Il giurato – dice il collega Avanzini – non saprà definire in termini giuridici un istituto giuridico, ma lo saprà praticamente applicare.

Vorrei vedere come farebbe il giurato ad applicare, per esempio, quella famosa disposizione dell’articolo 133 del Codice penale, secondo cui la valutazione del reato deve essere, fra le altre cose, desunta dall’intensità del dolo o dal grado della colpa. Vorrei vedere come si può spiegare ad un giudice popolare, ad un complesso di giudici popolari i quali saranno lasciati soli tra loro a decidere, come si potrà fare a spiegar loro e a far applicare, per esempio, il capoverso dell’articolo 56, a proposito della desistenza volontaria, e far definire i confini fra gli atti non punibili della desistenza e il tentativo punibile. Tutto ciò affatica coloro che hanno una preparazione giuridica che si è consolidata attraverso gli anni, come il non tecnico potrà affrontare problemi di questa specie? Ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi all’infinito. Diceva ieri l’onorevole Fausto Gullo che Finocchiaro Aprile nel 1905 affermava che i processi di Corte d’assise erano in diminuzione e da parte sua aggiungeva che se è vero che la pena ha una funzione educativa, evidentemente bisogna dedurre che la giuria aveva efficacemente contribuito a questa riduzione giudicando bene.

Oh signori, ma la riduzione di certi reati o l’aumento di essi viene da tali e tante circostanze, viene da molteplici moventi che agiscono in un senso o nell’altro, per cui non si può dire che la diminuzione di processi annunziata cinquanta anni fa da Finocchiaro Aprile dipendesse unicamente dal fatto che la Corte di assise avesse giudicato bene o male, e dir ciò è assolutamente arbitrario. Il punto fondamentale su cui si fondano i sostenitori della giuria popolare, è la necessità della separazione tra il giudizio di fatto e il giudizio di diritto.

Ma, signori, come si fa a distinguere l’esame di fatto dall’esame di diritto se fatto e diritto non sono due entità che possono nettamente separarsi, ma che inevitabilmente si amalgamino e si confondono? Ogni valutazione di fatto importa di necessità una valutazione di diritto. Basti pensare all’articolo 133 del Codice penale già da me citato, o al congegno dell’articolo 62 dello stesso Codice, sulle circostanze attenuanti comuni, e così via. Io non starò a ripetere quello che hanno detto giuristi di chiara fama. Si sono fatti dei nomi qui ai quali potremmo aggiungere quelli di Carrara, Carnelutti, Pessina, Del Giudice, Altavilla, Maraviglia e Jannitti Piromallo, che ha scritto un pregevole opuscolo sulla abolizione delle Corti d’assise, tutti contro l’istituzione della giuria popolare. E vi ricordo le parole di Pessina a proposito di questo argomento, che cioè non è sempre possibile separare la questione di fatto dalla questione di diritto e spesso su problemi giuridici deve sentenziare il giudice popolare. Sono parole sacrosante sulle quali dobbiamo convenire come quelle di Del Giudice: «La distinzione tra fatto e diritto in Corte di assise è artificiosa e non rispondente a verità». Ed allora viene meno uno dei pilastri fondamentali su cui si vuol poggiare l’esigenza della istituzione della giuria popolare.

L’equità. Qualcuno ravvisa la ragion d’essere della giuria popolare nella sua funzione equitativa, come se fosse possibile svincolare il giudizio, sia pure fatto dal giurato, dalle norme fondamentali e dai principî di diritto. Se la giuria facesse questo, dimostrerebbe di aver fallito la sua missione.

Possiamo parlare di equità come una fonte di diritto autonoma? È assurdo. Violerebbe con ciò il principio della certezza della norma giuridica. Ma se per equità s’intende quel complesso di considerazioni che possono attenuare un giudizio e determinare quella che noi chiamiamo comunemente la benevolenza nei riguardi dell’imputato, la comprensione più umana e benigna di certi fatti delittuosi, in questo il giudice togato, che ha a sua disposizione il rimedio, perché nel giuoco delle diminuenti può benissimo fare entrare quella sua considerazione, può attenuare di molto la responsabilità secondo le particolari condizioni di ambiente, di mentalità, di educazione.

Quante volte noi abbiamo fatto appello a questa equità, a questo senso di benevolenza e di umana comprensione, che non è privilegio del giudice popolare ma anche e soprattutto del giudice togato! Quante volte abbiamo visto sentenze rispondenti a questo criterio di equità, anche se da un punto di vista strettamente giuridico potessero presentare lacune, anche se fossero state superate delle concezioni giuridiche strettamente rigorose! Eppure, questo è stato fatto dai magistrati togati. «Per fare direttamente partecipare il popolo all’amministrazione della giustizia», si è detto.

Signori, in nome del popolo si possono fare e soprattutto dire tante cose; ma se la funzione di amministrare giustizia in regime democratico deriva, come tutti i poteri dello Stato, dalla investitura popolare, che cosa vogliamo di più?

«Il popolo deve direttamente giudicare». Come se il magistrato non fosse il popolo. Solo per il fatto di aver frequentato le Università e superato il concorso si dovrebbe ritenerlo avulso dal popolo come un essere che viva una vita autonoma e diversa da quella della comunità. Anche questa obiezione, consentitemelo, ha un carattere non serio, ma semplicemente demagogico, che deve assolutamente essere bandito.

Le ragioni, viceversa, che militano per l’abolizione, sono molte e sono state tutte esposte. Le influenze politiche vi sono e vi saranno sempre, onorevole Avanzini. Se l’influenza politica è in noi, immaginiamo quella che può essere nel giudice popolare che della sua funzione non fa norma di vita e che non ha acquistato quella sensibilità, quella abitudine a giudicare, quella certa mentalità e quella particolare tendenza a valutare i fatti degli uomini senza lasciarsi fuorviare da considerazioni diverse da quelle che non siano le esigenze di una rigida applicazione della norma giuridica. Pensate voi che cosa potrebbe essere il giudizio nel processo Graziosi, tanto per citarne uno, e in tutti quei processi che appassionano la stampa. Pensate come il clima rovente della passione sia alimentato da certa stampa che attualmente specula sui più bassi istinti dell’uomo. Questa stampa, la quale tenta di orientare l’opinione pubblica in un senso o nell’altro, quanto male fa e potrebbe fare sulle decisioni di una giuria popolare che non fosse corazzata contro questa seduzione, contro questa influenza deleteria! A tutto questo bisogna pensare, specialmente in questo clima di sovvertimento morale, in questa epoca spaventosamente piena di delitti. La stampa può essere orientata in certo modo, per ragioni intuitive. E la giuria popolare può a sua volta essere irresistibilmente influenzata dalla campagna di stampa, nel suo giudizio.

Quindi: pressione e impreparazione. Non soltanto impreparazione giuridica, ma impreparazione in quel complesso di cognizioni, le quali molto spesso sono insufficienti al giudice, che pure ha percorso tutti i gradi della carriera; immaginate se non debba essere insufficiente anche in colui il quale occasionalmente viene chiamato a prestare la sua opera di giudice, e normalmente non possiede il curriculum di studi di un magistrato. Impreparazione in quella particolare capacità di spersonalizzazione, tanto necessaria per riportare ciò che si apprende alla mentalità e alla personalità dell’imputato, sempre diversa da quella di chi giudica.

Mancanza di responsabilità: il «sì» o il «no», puro e semplice, sottrae spesso il giudice popolare al dovere di un processo logico, specialmente quando questo sia complesso e difficile; e spesso la risposta è determinata da impressioni superficiali, da sensazioni errate, o da ragioni indipendenti da una convinzione, formatasi attraverso la raccolta delle prove ed attraverso un procedimento logico non soltanto formale ma anche sostanziale.

Queste sono alcune delle ragioni che militano contro l’istituzione della giuria popolare; problema, questo, che non dovrebbe riguardare nemmeno la Costituzione. Ma poiché v’è un articolo, il quale consacra questo principio, è opportuno proporne, come io ho fatto, la soppressione, per i motivi esposti.

Onorevoli colleghi, non ho la pretesa di avere passato in rassegna tutti i problemi; ho voluto esaminare più rapidamente possibile taluni aspetti di questo problema fondamentale della giustizia, che è problema anche di libertà; perché – sia detto ancora una volta e non per fare un’affermazione la quale abbia carattere demagogico – non v’è libertà senza giustizia. Mi auguro che dallo sforzo e dalla collaborazione di tutti, come anche dall’urto delle più disparate opinioni ed idee possa sorgere quella direttiva, che possa ispirare la nostra Costituzione a questi principî di libertà e di giustizia, in modo che questo complesso di norme possa salvaguardare le istituzioni democratiche del Paese e possa dimostrare ancora una volta che l’Italia è la culla del diritto. (Applausi).

PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.

Presentazione di relazioni.

TREVES. Chiedo di parlare per la presentazione di due relazioni.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

TREVES. Ho l’onore di presentare le relazioni ai seguenti disegni di legge:

1°) Approvazione del Trattato di amicizia e relazioni generali fra la Repubblica italiana e la Repubblica delle Filippine, firmato a Roma, il 9 luglio 1947;

2°) Approvazione del Trattato di pace e relativo scambio di note fra la Repubblica italiana e la Repubblica di Cuba, firmato all’Avana il 30 giugno 1947.

PRESIDENTE. Queste relazioni saranno stampate e distribuite.

La seduta termina alle 12.35.