ASSEMBLEA COSTITUENTE
CCLXXXVIII.
SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 12 NOVEMBRE 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TARGETTI
INDICE
Progetto di Costituzione della Repubblica Italiana (Seguito della discussione):
Abozzi
Cortese
Veroni
La seduta comincia alle 11.
MATTEI TERESA, Segretaria, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
È iscritto a parlare l’onorevole Abozzi. Ne ha facoltà.
ABOZZI. Onorevoli colleghi, prendo la parola in sede di discussione generale, non per esaminare i numerosissimi problemi, che si riferiscono all’ordine giudiziario, ma soltanto per coordinare ed illustrare gli emendamenti che ho avuto l’onore di presentare, i quali si riferiscono tutti o quasi tutti all’indipendenza della Magistratura.
Non vi sembri che io mi scosti dall’argomento se mi riferisco all’articolo 50 del progetto di Costituzione il quale, nel secondo comma non ancora approvato dall’Assemblea, suona così: «Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino». Questa formulazione non è che l’eco un po’ affievolita dell’articolo 35 della Costituzione francese del 1793, il quale diceva: «Quando il Governo violi il diritto del popolo, l’insurrezione è per il popolo il più sacro dei diritti, il più indispensabile dei doveri».
Io mi domando, onorevoli colleghi, che cosa significhi, che cosa rappresenti questo diritto alla resistenza di cui parla il testo italiano, questo diritto all’insurrezione di cui parla la Costituzione francese del 1793. Si tratta evidentemente dell’ultima ratio, della suprema sanzione cui può far ricorso la massa del popolo oppresso. Ma, nel vivere quotidiano, nel vivere normale, quando non sono offesi i diritti della massa, ma quando è offeso il diritto del singolo e soltanto del singolo, quando un cittadino è offeso da un altro cittadino o dai poteri dello Stato e non può insorgere da solo, chi difende il singolo? La risposta è facile: il singolo è difeso dalla Magistratura. La massa difende se stessa con l’insurrezione; il singolo si affida alla Magistratura, la quale però, per adempiere al suo compito, deve essere assolutamente autonoma, assolutamente indipendente.
Questa è una verità che, almeno in astratto è riconosciuta da tutti, anche da quelli che praticamente la negano; come la nega il nostro progetto di Costituzione, il quale, dopo aver solennemente – pomposamente, vorrei dire – affermato che il magistrato dipende soltanto dalla legge, che la Magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente, propone un Consiglio Superiore formato in gran parte di cittadini estranei all’ordine giudiziario ed eletti da un’Assemblea politica; cosa che tronca alla base qualunque idea di autonomia, qualunque idea di indipendenza. C’è, dunque, una tesi: la Magistratura deve essere autonoma e indipendente; e questa tesi, ripeto, è accettata da tutti.
Ma da questa tesi nasce un problema – il problema che è stato così ampiamente discusso in quest’Aula: com’è che la Magistratura può essere indipendente? Come si arriva alla indipendenza? Questo è il punto, questo il problema.
Onorevoli colleghi, io sono perfettamente d’accordo con quegli studiosi, tra cui uno squisitissimo scrittore francese, i quali dicono che per arrivare all’indipendenza della Magistratura non vi sono che tre vie. San Tommaso diceva che vi sono cinque vie per arrivare a Dio; io dico che vi sono tre vie per arrivare all’indipendenza della Magistratura. E le tre vie sono queste: la prima: il magistrato compra la sua carica; la seconda: il magistrato è eletto dal popolo; la terza: la Magistratura sceglie se stessa.
In Francia, nell’antico regime, il cittadino comprava la carica di magistrato, e naturalmente non dipendeva che da se stesso; e nell’antica monarchia, prima ancora che le cariche si potessero o comprare o vendere, il re integrava il Parlamento, scegliendo in una lista tre membri. Ma è da notare che il Parlamento era arbitro di comprendere nella lista anche persone non accette, non ligie al sovrano: quindi, chi sceglieva era il Parlamento; il sovrano sceglieva soltanto formalmente. E anche in questo caso, bisogna dire il vero, l’indipendenza della Magistratura era sufficientemente garantita. Ma io comprendo perfettamente che a metà del secolo XX non si può neppure concepire che il magistrato compri il suo ufficio; non si può concepire, anche se il cittadino avesse provato perfettamente la sua capacità e la sua moralità.
Vi è allora la seconda via, da tutti conosciuta e in qualche Stato applicata: il popolo elegge i magistrati. Il magistrato eletto sarà, forse, indipendente dal potere esecutivo e dal potere legislativo; ma non è indipendente dal cittadino, non è indipendente dai suoi elettori. Dipende dai suoi elettori, con i quali deve far i conti ogni quattro o cinque anni, come un deputato; ma, mentre la dipendenza del deputato non è né una colpa né un’insigne virtù, ma un fatto che si sottrae a ogni giudizio di valore, la dipendenza del magistrato dall’elettore non è cosa che giovi alla sua dignità.
Il deputato può anche rappresentare le idee e le passioni degli elettori; ma il giudice non li può rappresentare; può accogliere le idee, ed anche le passioni della folla, ma come convincimento proprio, come idee che nascono in lui, come passioni da lui sentite, indipendentemente dal pensare e dal sentire della massa. D’altra parte mal si comprende che il magistrato faccia la corte – sia pure riguardosa – all’elettore che può essere privato del patrimonio o della libertà quando la giustizia lo imponga.
La terza via: la Magistratura sceglie se stessa. Questa pare la via buona. Ma come la Magistratura può scegliere se stessa? È semplicissimo; la Magistratura sceglie se stessa così: i giudici eleggono la Suprema Corte di cassazione e la Suprema Corte di cassazione a sua volta nomina i giudici. La Corte di cassazione sarebbe dunque eletta da tecnici e, d’altra parte, questo Supremo consesso eletto da tecnici avrebbe tutti i titoli per giudicare le capacità e la dirittura morale di giudici. E così, poiché l’inamovibilità del giudice non è neppure discussa, si arriva veramente alla perfetta indipendenza dal potere legislativo, dal potere esecutivo e dal cittadino: quindi alla vera autonomia ed alla vera indipendenza.
Ma qualunque cosa si possa pensare di questa mia tesi, che può apparire ardita a un primo giudizio, non penso che si possa discutere il principio elettivo applicato al Consiglio Superiore della magistratura. E questo principio elettivo è accolto anche dalla nostra Costituzione, ma è accolto male. Il Consiglio Superiore non deve essere nominato da Assemblee politiche, ma da magistrati, e soltanto da magistrati. Le Assemblee politiche non possono rinunciare ai loro criteri politici, non possono rinunciare a quello che in loro c’è di necessariamente, di fatalmente politico. Se tale rinunzia facessero non sarebbero Assemblee politiche. Ed allora per evitare che il Consiglio Superiore diventi un qualunque campo di competizioni politiche, si formi il Consiglio Superiore, come ho avuto l’onore di dire nel mio emendamento, con otto membri eletti per cinque anni da tutti i magistrati, fra gli appartenenti alle diverse categorie, sotto la Presidenza del primo Presidente della Corte di cassazione. E sempre per ottenere la totale esclusione della politica è anche necessario che l’azione disciplinare non sia promossa dal ministro, ma dal primo Presidente della Corte di cassazione. Il magistrato dev’essere un organo di raccordo fra i magistrati e lo Stato, ma non deve lanciare anatemi né far lusinghe politiche. Un deputato dell’Assemblea legislativa francese nel 1790 diceva che nei tempi d’oro della Magistratura francese il magistrato non poteva entrare al Louvre e neppure nelle Camere dei grandi. Sarebbe desiderabile che i magistrati italiani non frequentassero il gabinetto del Ministro né per ricevere anatemi, né per accettare lusinghe. Qualcuno pensa che la Magistratura autonoma possa diventare una casta o una fazione. A me pare che queste paura sia vana: avrebbe un fondamento se il magistrato, oltre che applicare la legge la formasse, ma il magistrato non crea il diritto, lo dice. Egli è soggetto alla legge che lo difende quando la legge difende, lo colpisce quando la legge colpisce. La sua sorte – di fronte alla legge – è quella del comune cittadino.
D’altra parte, io non so capire questa ingiustificata paura, anche per un altro verso. Noi viviamo in un tempo in cui la parola autonomia è di moda; non soltanto la parola, ma anche la cosa. Si sono regalate vaste autonomie regionali, larghe possibilità di legislazione alle Regioni. Perché si dovrebbe aver paura dell’autonomia concessa alla Magistratura? Non ho mai sentito che gli Stati possono morire perché non si sono accordate le autonomie regionali, ma in tutti i secoli si è detto che gli Stati muoiono quando la Magistratura è corrotta. L’asservimento è una forma di corruzione, forse la peggiore.
È detto nel progetto che dal Consiglio Superiore della magistratura possono essere destinati all’ufficio di consigliere di cassazione gli avvocati dopo quindici anni di servizio. È fatto incontestabile che l’avvocato coopera all’amministrazione della giustizia, ma poiché al grado di Consigliere di cassazione il magistrato arriva dopo una vita impiegata a servir la giustizia, è giusto che l’avvocato sia designato all’alta funzione dopo una vita spesa a servir la giustizia.
Per questo a me pare che il termine di venti anni di esercizio sia più opportuno di quello di quindici voluto dal progetto.
D’altra parte, non sembra che il criterio del tempo sia decisivo o, per lo meno, sia l’unico criterio da adottare. Non è il numero degli anni consacrati all’ufficio professionale, che deve decidere, ma la dignità della vita professionale, la fama guadagnata, l’avere onorato la toga con la capacità e la dirittura morale.
Per me, onorevoli colleghi, il problema della giuria è strettissimamente legato a quello d’importanza giuridica; ed è per la difesa integrale dell’indipendenza del giudice che io penso che il progetto di Costituzione debba accettare il principio della Corte criminale, rifiutando l’istituto della Giuria.
Onorevoli colleghi, il giurato, nella migliore delle ipotesi, è un dipendentissimo cittadino: dipende almeno dalla propria incompetenza.
Il magistrato che ha consacrato la vita alla missione da giudicare, che ne sente la dignità e non l’abbandona, di norma, che per collocamento a riposo o per morte, può veramente vivere in quella torre di avorio di cui si è parlato in quest’Aula. Ma il giurato è un giudice saltuario, episodico, occasionale. Non dico che l’occasione fa l’uomo ladro, Dio me ne guardi. Dico che il giurato non consacra la vita alla giustizia: l’ordine di sedere come giurato è accolto dal cittadino che ha da sbrigar i suoi affari, come un mandato di comparizione – peggio, come un ordine di arresto. Egli cerca medici compiacenti per certificati compiacenti.
È non è tutto: i congiunti dell’imputato tendono le reti all’improvvisato giudice: il giurato Tale è minacciato del protesto di una sua cambiale, il giurato Tal altro della propalazione di uno scandaletto familiare; al terzo si promette una onorificenza, della quale si occuperà l’onorevole deputato del collegio, il quale normalmente non ne sa niente; si lusinga il quarto con la promessa del sospirato trasferimento di un congiunto. Il giurato non solo non può entrare nella famosa torre di avorio del magistrato, ma non può stare in nessuna torre, qualunque ne sia la materia.
L’onorevole Macrelli diceva ieri che in quest’Aula si erano pronunciate parole aspre contro i giurati; oggi le sente anche più crude. E non voglio affatto concludere che non possano esistere giurati onesti. Ce ne furono e ce ne saranno.
Io penso che il problema della giuria non è da esaminare con gli occhiali colorati; voglio parlare di colori politici; non è da esaminare sotto la specie della democrazia o della non democrazia; ma soltanto sotto il punto di vista tecnico del migliore giudizio che si possa ottenere nelle Corti di assise. Questo è l’unico punto di vista valido e corretto.
Penso che nessuno può spingere il proprio sentimento democratico fino a pretendere che si formi un collegio di medici, di avvocati o di ingegneri, i quali abbiano la caratteristica di non conoscere la medicina, l’avvocatura o l’ingegneria; mi sembrerebbe una non leggera esagerazione.
Si tratta di un problema tecnico. È vero che qualche volta si nasce con una struttura mentale logica che rende possibile un giudizio istintivo abbastanza corretto. C’è anche l’istinto del musico, del melodista: ma armonista si diventa, contrappuntisti non si nasce. E così l’ottimo tecnico del giudizio non nasce, diventa.
La vecchia banalità del giurato giudice sul fatto e non sul diritto non è creduta ormai più da nessuno, anche se si ammette che, in qualche tempo, qualcuno, nel fondo della sua coscienza l’abbia creduta veramente.
Il giudice giudica l’imputato di un reato, nel quale sono fusi indissolubilmente fatto e diritto.
Esistono casi facili nella storia giudiziaria: ma nei processi di assise i casi facili non si trovano. Difficile seguire l’intrico degli indizi, difficile, per l’insipiente, valutare gli estremi di un reato, difficile giudicare le perizie tecniche che il buon giudice accetta o respinge per ragioni cercate nella propria cultura; difficile l’indagine psicologica. Solo il magistrato sa scrutare l’animo del testimone, ed entrare nell’invisibile mondo delle intenzioni.
Un poeta francese, di purissima ispirazione, diceva che bisognerebbe torcere il collo all’eloquenza, strozzarla: ebbene, il giurato non è di quelli che mettono le mani al collo della eloquenza.
In un tempo in cui si crede che la risoluzione dei problemi sia affidata all’arte dell’indurre e del dedurre, la Corte di assise non è che un campo per il giuoco delle emozioni: qualche volta volgarmente eccitate, e volgarmente accolte.
L’onorevole Togliatti ha detto in un suo discorso che il cittadino deve essere giudicato dai suoi pari. Non capisco bene il significato di questa parola: «pari». Mi sembra equivoco. Il vero pari di un cittadino imputato di omicidio dovrebbe essere un altro cittadino imputato ugualmente di omicidio.
MACRELLI. Ma no!
ABOZZI. Capisco perfettamente, amico Macrelli, che l’onorevole Togliatti non ha voluto dir questo, ma semplicemente che l’imputato deve esser giudicato dal cittadino come tale, dal popolo in una parola. Io non credo però che si possa dividere la Nazione in popolo e non popolo, comprendendo nel non popolo i magistrati. I magistrati fanno parte del popolo: sono i cittadini che hanno appreso a giudicare. È soltanto questo saper giudicare che distingue il magistrato dal comune cittadino.
L’onorevole Bozzi nel suo discorso diceva che il problema della Magistratura non è risolto con la indipendenza del magistrato dal potere esecutivo: occorre, egli disse, che il giudice sia libero ed indipendente anche dalle gerarchie dei superiori. Io sono perfettamente d’accordo, ma a me pare che non sia facile stabilire norme speciali le quali tutelino l’indipendenza dei magistrati dalle gerarchie superiori. A me pare che si tratti di un problema di carattere psicologico, di buon costume gerarchico, di comune onestà. Capisco perfettamente quanto sia difficile sottrarsi alle pressioni del potere politico. Talvolta è necessario uno sforzo morale che non voglio dire eroico, ma quasi eroico. Ma non è davvero difficile sottrarsi al timore reverenziale esagerato o alla paura di una nota informativa o poco lusinghiera o sfavorevole.
Se il presidente del tribunale viola quella norma la quale vuole per prima la pronunzia del più giovane, dicevo, che non sarà un gran danno. Una discussione ha da esserci, e il presidente dirà il suo parere come lo dicono tutti gli altri. Guai se si dovesse veramente credere che in una qualunque causa che riguarda un qualunque rapinatore ladro, il Presidente si lega al dito il dissenso del giudice e il giudice sacrifica le sue convinzioni per non dispiacere al suo presidente. Se questo fosse, se di tanta pavidità, di tanta codardia si macchiasse l’anima del magistrato italiano, si dovrebbe dire che l’animo umano è irrimediabilmente sconcio: e sarebbe suonata l’ultima ora della santa giustizia. Giudici siffatti giudicherebbero male anche se fossero garantiti come corpo e come singoli. Sarebbe evidente in essi un impedimento dirimente a ben giudicare. Ha detto anche l’onorevole Bozzi che non sempre la Magistratura è rimasta sul piedistallo sul quale si sarebbe voluto che fosse rimasta. E sarà. Ed è.
Onorevoli colleghi, non c’è esercito che non abbia almeno un disertore; ma se ha un solo disertore o pochi, può ben dirsi ancora valoroso. Ognuno di noi conosce indirettamente la vita nazionale e direttamente quella della piccola patria nella quale vive e lavora. Ebbene, io affermo che nella mia piccola patria Sarda, il presidente che si vendica del giudice dissenziente o il giudice che regola il voto su quello del presidente o che si mette in ginocchio dinanzi alla potenza politica, non li ho mai conosciuti. Ho conosciuto soltanto uomini che hanno seguito la coscienza e la legge.
Un pensatore italiano, Giuseppe Rensi, in un suo libro ha dedicato un capitoletto alla impossibilità di essere giusti. L’idea della giustizia, egli diceva, manca del meglio, manca della universalità, e quindi non ha nessun fondamento razionale ed obiettivo. Non solo, ma Giuseppe Rensi dice che tutto quello che si può dire della giustizia, è racchiuso in quella facezia del giudice che udita una parte diceva: «hai ragione», udita l’altra diceva: «anche tu hai ragione». E al bambino che osservava: «tu dai ragione a tutti e due», rispondeva: «anche tu hai ragione». Io penso che forse Giuseppe Rensi è nel vero e l’idea di giustizia non ha l’universalità. Ma noi non dobbiamo fare la metafisica della idea di giustizia. Dobbiamo soltanto tentare di realizzare quel minimum di giustizia che è realizzabile quaggiù. Una luce piena di giustizia non illuminerà mai il mondo, ma un raggio di giustizia è lecito sperarlo. Occorre pure che i servitori della legge, che sono anche i servitori dell’ordine del mondo, abbiano un’assoluta indipendenza, un’assoluta autonomia. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Cortese. Ne ha facoltà.
CORTESE. Onorevoli colleghi, si dice che un letterato, Ferdinando Martini, allorché entrò, in visita ufficiale quale governatore, in un’aula del tribunale dell’Eritrea, leggendo quella scritta che sta in tutte le aule di giustizia «La legge è uguale per tutti», commentasse: Non basta che la legge sia eguale per tutti, la giustizia deve essere eguale per tutti. Ed infatti, non basta che sia eguale per tutti la formula astratta: la legge vivente, la legge a contatto con i fatti e con gli uomini, la legge che genera la sentenza: la giustizia deve essere «eguale per tutti».
A tal fine, poiché è soprattutto compito del legislatore costituzionale quello di garantire al massimo l’eguaglianza della giustizia, al legislatore costituzionale si pongono allo studio taluni temi fondamentali: l’indipendenza della Magistratura, la scelta del giudice, l’unità della giurisdizione, l’unità della interpretazione.
Non c’è più una giustizia feudale, una giustizia delegata dal principe; non c’è più il principe, ma c’è una forza nuova, sempre più espansiva, che l’esasperazione della lotta politica e la tecnica della organizzazione estendono e rinvigoriscono sempre di più: ci sono i partiti.
Mettere il giudice al riparo delle pressioni e dalle interferenze dei partiti deve essere una delle nostre preoccupazioni maggiori.
Quando noi diciamo che è pericoloso inserire nel Consiglio Superiore della Magistratura, ed in così larga misura, dei membri estranei, espressioni di correnti politiche che portano nel Consiglio Superiore della Magistratura l’espressione di tendenze politiche contrastanti, le pressioni di interessi politici, il contagio d’una politicità che si può propagare anche ai membri del Consiglio Superiore attinti dalla Magistratura; quando noi diciamo che con questa larga inserzione di elementi attinti dal potere politico è praticamente violato il proclamato principio della indipendenza e dell’autonomia della Magistratura sancito nell’articolo 96, – con tanto maggior danno quanto più è esasperata – come è ora – la lotta politica che tende di invadere ogni campo della vita italiana – ci si presentano talune obiezioni. Si dice: volete fare della Magistratura una casta avulsa da ogni altro potere.
Il Consiglio Superiore della Magistratura non è un organo che autonomamente detta le norme per la vita interna della Magistratura, ma applica quelle dettate dal potere legislativo con la legge sull’ordinamento giudiziario. Non dunque la «casta» che si dà un proprio statuto, ma un organismo che si amministra da sé applicando lo statuto che gli proviene dal di fuori. È pur sempre il potere legislativo che disciplina, organizza, ordina la vita interna della Magistratura. Noi chiediamo soltanto che per le promozioni, le assegnazioni, i trasferimenti, la disciplina, la Magistratura – applicando le norme dettate dal potere legislativo – si amministri da sé, mediante un suo organo elettivo disciplinato dalla Carta costituzionale, al fine di evitare che attraverso le pressioni e l’ingerenza da parte di elementi politici sulla carriera del magistrato si possa politicamente influire sulla condotta del magistrato nell’esercizio della sua funzione.
Ci si muove poi, un’altra obiezione: è benefico – affermano i comunisti – smuovere con l’intervento dell’elemento politico, più aderente al moto perenne della vita economica e sociale, il conservatorismo che mantiene immobile il magistrato nell’applicazione della legge. L’obiezione, per tanti versi contestabile, muove da un errore.
Il Consiglio Superiore della Magistratura non interviene né vigila per l’attuazione della legge, non censura e non approva le sentenze, non guida e non suggerisce nell’elaborazione giurisprudenziale. L’applicazione della legge è sottratta al suo compito e al suo esame. Comunque composto il Consiglio Superiore della Magistratura non ha in questo campo alcuna ingerenza. Il giudice sta libero tra la sua coscienza e la legge. L’obiezione infondata rivela però una pericolosa tendenza di fronte alla quale tanto più necessaria appare la esclusione degli elementi politici dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Onorevoli colleghi, il sistema è questo, il potere legislativo impone al giudice il binario con la legge processuale; lo lega alla attuazione della sua volontà sovrana con le leggi sostanziali con un legame tanto più solido e preciso, in quanto nel nostro sistema giuridico le norme sono rigorosamente codificate, a differenza di altri sistemi nei quali il magistrato può, con maggiore libertà, muoversi fra le fonti non codificate del diritto; il potere legislativo regola infine con l’ordinamento giudiziario la vita interna della Magistratura.
È questo il sistema, né il potere legislativo né quello esecutivo hanno la potestà di sindacare, d’influenzare l’applicazione giudiziaria della legge. Si accetti o no questo sistema, ma non si cerchino accorgimenti per esercitare influenze e controlli mascherati, presidiando con l’elemento politico l’organo regolatore della vita della Magistratura.
Per essere indipendenti dai partiti è necessario essere anzitutto al di fuori dei partiti. Io aderisco pienamente al principio per il quale i magistrati non devono essere iscritti a partiti politici. Il magistrato che milita in un partito, il magistrato che partecipa alla vita del partito, che dirige il partito, che assume responsabilità di partito, può essere compromesso nella sua serenità e nella sua indipendenza, sia pure inconsapevolmente, o – perlomeno – può apparire tale nella superficiale e sospettosa valutazione del pubblico. Ma quando si pongono certi principî, bisogna con coerenza portarli alle loro ulteriori conseguenze. Il magistrato nel fuoco della campagna elettorale, il magistrato candidato, il magistrato che diventa il centro di un attrito politico intensificato dalla lotta elettorale, il magistrato che diventa la bandiera di un movimento politico in una determinata zona, ed esaspera – com’è inevitabile in tutte le campagne elettorali – i toni del suo atteggiamento politico, il magistrato alla ribalta politica in primo piano, nella Camera e nel Senato, non si concilia col divieto fatto al magistrato d’appartenere a partiti politici.
Occorre avere una coerenza e noi, preoccupati profondamente dell’indipendenza di questa funzione, preoccupati affinché essa sia ed appaia libera, autonoma, agli occhi dei cittadini, stabiliamo il principio – specialmente in un momento in cui i partiti diventano milizia, e taluni partiti hanno delle ferree discipline – che il magistrato, per essere ed apparire indipendente dal potere politico, debba essere innanzi tutto di fuori dai partiti politici, ed allora ne discende, come conseguenza evidente, che il magistrato non potrà neppure essere eleggibile al Consiglio comunale, al Consiglio regionale, alla Camera come non potrà esserlo al Senato. Ond’è che io esplicitamente propongo un emendamento che completa la proposizione già inserita nella Carte costituzionale.
E sempre per coerenza ai principî, mi induco a proporvi il seguente quesito: se il magistrato non può essere iscritto a un partito politico, può esservi iscritto un componente del Consiglio Superiore della Magistratura? Se il magistrato non può essere iscritto ad un partito politico per quelle ragioni sostanziali che ho segnalato e perché deve dare a tutti la sensazione precisa di essere indipendente da ogni vincolo politico, può il giurato – se la giuria sarà accolta – chiamato a decidere in un giudizio particolarmente grave che può chiudersi anche con una condanna all’ergastolo, sedersi al suo banco in aula di giustizia col distintivo politico all’occhiello?
MANCINI. Si toglie il distintivo: è semplice.
CORTESE. E sarà una ipocrisia. Il giurato che partecipa ai partiti politici, il giurato capo cellula, il giurato segretario della locale sezione della Democrazia cristiana o del Partito comunista o del Partito liberale, non basta che si tolga il distintivo nemmeno per evitare nel pubblico il sospetto fondato o infondato della sua influenzabilità per ragioni politiche, specialmente in giudizi aperti, per la particolarità della materia, all’influsso delle passioni, prima fra esse la passione politica.
MANCINI. Il giurato iscritto a un partito politico ha anzi la coscienza più serena degli altri. Ella, esprimendosi in questo modo, reca offesa ai partiti politici: mi meraviglio di lei.
CORTESE. Lei perde di vista la realtà e non coglie il senso di quello che io dico. Bisogna soprattutto non dare l’impressione che il giurato iscritto ad un partito politico…
MANCINI. C’è la disciplina dei partiti, c’è l’onestà dei partiti.
CORTESE. Ma c’è la lotta politica.
MANCINI. La lotta politica è al di sopra dei partiti. In una Assemblea che è l’espressione dei partiti politici non si offendono i partiti!
CORTESE. La lotta politica non è affatto al di sopra dei partiti. Io non offendo i partiti, ma colui che è iscritto ad un partito politico…
MANCINI. Ma è un onore, è un grande onore appartenere ad un partito politico!
CORTESE. Noi non diciamo che la direzione dei partiti possa influire sulla decisione del giurato o del magistrato in genere; noi diciamo però che il singolo il quale sia direttamente partecipe alla vita politica può essere trascinato ad una malintesa interpretazione del suo vincolo politico, può, soprattutto, essere oggetto di un sospetto in tal senso – magari infondato – mentre è invece indispensabile che il cittadino sia perfettamente convinto dell’imparzialità del giudice.
Giustizia uguale per tutti; l’unità della giurisdizione è una garanzia di giustizia eguale per tutti. L’autonomia del potere giudiziario è manomessa quando un altro potere, sia pure quello legislativo, può sottrarre ad esso, creando giurisdizioni speciali, una serie di rapporti, ferendo così il concetto sostanzialmente unitario dall’amministrazione giudiziaria e discreditando anche la Magistratura ordinaria, ritenuta inidonea al suo compito. D’altra parte, si accentua così l’incertezza circa il giudice competente; si facilitano i conflitti di competenza e le contradittorietà dei giudicati; viene meno spesso, il doppio grado di giurisdizione, si riduce, si mutila spesso il controllo della Corte di cassazione.
Io non mi nascondo che vi sono delle gravi perplessità in rapporto alla Corte dei conti e al Consiglio di Stato circa la soppressione delle loro funzioni giurisdizionali; ma anche qui mi sembra che il principio stabilito dell’unità della giurisdizione debba essere condotto alle sue conseguenze, devolvendosi al magistrato ordinario anche la decisione delle controversie fra il cittadino e la pubblica amministrazione. Si supereranno così anche delle difficoltà, talvolta insormontabili, di identificazioni giuridiche e si ripareranno radicalmente talune vistose deviazioni dai principî, come ad esempio quella per la quale il Consiglio di Stato giudica anche su diritti soggettivi. Parimenti non si comprende perché debba essere sottratto al giudice ordinario e debba essere affidato alla Corte dei conti il giudizio di responsabilità colposa per danni dei funzionari e degli impiegati statali; e perché – arrivando ad una deviazione nella deviazione – una contestazione che sorga dal rapporto di lavoro di un impiegato della Corte dei conti debba essere decisa dalla stessa Corte.
Se per talune materie si richiede una particolare competenza tecnica nel giudice, a questa esigenza si potrà venire incontro con particolari disposizioni; ma importa riaffermare che premessa di giustizia uguale per tutti è l’unità di giurisdizione, che assicura appunto l’eguaglianza della giustizia nelle sue garanzie, nelle sue forme, nelle sue possibilità di gravame.
Molti si sono dichiarati favorevoli – ed anche dei miei amici di Gruppo – alla conservazione del tribunale militare in tempo di pace. Si è detto: vi sono sì molti difetti; tutti li conosciamo; ma sono difetti riparabili, rimediabili. Si potrà dare maggiore respiro alla difesa, si potrà limitare la competenza dei tribunali ordinari, si potrà vedere di sottrarre i borghesi alla competenza dei tribunali militari. (Io non so fino a qual punto questo sia possibile, in caso di concorso di più persone nel reato o di connessione).
Ma, onorevoli colleghi, di fronte al mio pensiero – al mio pensiero di liberale, soprattutto – si pone questa verità innegabile: che nei tribunali militari giudica il potere esecutivo; vi sono dei cittadini giudicati dal potere esecutivo. Nei tribunali militari vi sono degli egregi, insigni, apprezzabili magistrati militari, che dipendono dal Ministero della difesa; vi sono degli ufficiali che dipendono dai loro superiori gerarchici. Per quei giudizi è escluso ogni altro controllo che non sia il controllo militare e politico. Quando noi riaffermiamo l’indipendenza della Magistratura, il principio della giustizia uguale per tutti, di cui è garanzia l’unità della giurisdizione, noi non possiamo sottrarci a questa ultima necessità ideologica e pratica: cioè quella della soppressione in tempo di pace di un tribunale che non è amministrato da giudici, intendendosi per giudici i magistrati del potere giudiziario, ma dal potere esecutivo.
Se vi sono delle esigenze di disciplina, di servizio, potremo ampliare il numero delle infrazioni disciplinari. Non comprendo, per esempio, perché l’addormentarsi della sentinella, il rifiuto d’obbedienza, la violata consegna, debbano essere considerati come reati, e non invece soltanto quali sono, gravi infrazioni disciplinari. Queste infrazioni disciplinari saranno colpite dai superiori gerarchici, e, quando ne sia il caso, si potranno anche istituire delle Corti disciplinari presso i comandi.
Ma quando siamo di fronte ad un reato, cioè al caso di un cittadino che deve saldare il suo conto con la giustizia con anni e decenni di reclusione, il cittadino, vesta o non vesta la divisa, ha il diritto di reclamare che la giustizia sia applicata nei suoi confronti con le stesse garanzie e con gli stessi gravami che tutelano gli altri cittadini, e quindi ha il diritto di essere giudicato dal potere giudiziario e non dal potere esecutivo.
Nel periodo di transizione, se si aboliscono i tribunali militari, sarà necessario stabilire che il Tribunale supremo militare giudice del diritto, sia subito sostituito dalla Corte di cassazione. Appare infatti ancora più enorme l’assurdo d’un giudizio esclusivamente di diritto sottratto alla Corte di cassazione e affidato ad organo composto da militari.
Si osserva che la legge penale militare è una necessità per la vita stessa dell’Esercito. Io non chiedo affatto che la legge penale militare sia abolita; io chiedo che sia applicata da organi del potere giudiziario e così, come per altre materie il potere giudiziario si avvale di esperti, si potrà del pari provvedere per questa materia particolare.
Si osserva ancora che il Tribunale supremo militare ha competenze anche amministrative, come per lo svincolo delle doti militari. È facile rispondere che nulla vieta di creare un organo apposito a cui affidare questa speciale competenza.
In materia penale la Costituzione ha affermato in modo preciso il divieto di istituire organi speciali e straordinari. Io però sono preso da una perplessità di fronte all’articolo 95. Comprendo che dal punto di vista giuridico si tratta di concetti perfettamente diversi; ma quando si dice che presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi per determinate materie sezioni specializzate con la partecipazione anche di cittadini esperti, io vorrei una garanzia in rapporto alla materia penale.
Non vorrei infatti che fosse possibile, attraverso questo binario, arrivare a delle Corti d’assise speciali, a dei collegi coi quali, modificando profondamente la composizione dell’organo ordinario, si crei un organo sostanzialmente speciale.
Occorre precisare che presso gli organi giudiziari ordinari possono istituirsi, per determinate materie, delle sezioni specializzate, quando ciò sia reclamato dalla «particolarità tecnica» dell’oggetto del giudizio.
Soltanto l’aspetto particolarmente «tecnico» della materia può giustificare una particolare composizione dell’organo giudicante con la partecipazione di «esperti» che integreranno il collegio, la cui presidenza e la cui maggioranza saranno sempre rappresentate da magistrati ordinari.
La materia penale è particolarmente degna d’attenzione. Ed io lo dico non solo per l’interesse che ad essa portiamo noi che proveniamo dall’avvocatura penale, ma per tante ragioni ovvie. Ora io vorrei sottoporre all’attenzione degli onorevoli colleghi qualche rilievo che deriva dall’esperienza pratica. Si è stabilito nel progetto che l’autorità giudiziaria «può disporre direttamente dell’opera della polizia in materia giudiziaria». Non basta. La pratica insegna che proviene all’autorità giudiziaria un telegramma con la notizia che in un dato paese si è verificato un delitto, e poi il più delle volte, per giorni e giorni l’autorità giudiziaria non sa più nulla e rimane completamente avulsa dalle indagini, le quali si svolgono esclusivamente ad opera della polizia giudiziaria, che raccoglie gli interrogatori, le testimonianze, procede ai confronti, e registra anche talvolta clementi generici, in seguito non più rilevabili, accerta tracce non più constatabili; arriverà poi l’autorità giudiziaria, dopo quindici o venti giorni, e troverà un verbale in cui si è cristallizzata già la prova, in cui l’indagine s’è già quasi esaurita, il convincimento già s’è quasi stratificato, sì che spesso tutto il processo penale non è che una spirale, alla fine della quale, nella sentenza, non si ritrova che il verbale che era nella radice.
È indispensabile, quindi, che la polizia giudiziaria sia posta alla diretta ed esclusiva dipendenza del potere giudiziario; che il potere giudiziario abbia praticamente la possibilità di assumere fin dall’inizio la direzione, la sorveglianza, il controllo delle indagini di polizia giudiziaria.
Desidero ora sottoporre all’Assemblea una esigenza che mi sembra fondamentale e cioè che ogni provvedimento giurisdizionale debba poter ricevere il controllo della Suprema Corte di cassazione.
L’articolo 102 dice che contro le sentenze o le decisioni pronunciate dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali è sempre ammesso il ricorso per cassazione secondo le norme di legge.
Secondo le norme di legge, può significare anche soltanto per incompetenza o eccesso di poteri. Io vorrei che fosse con precisione stabilito nella Costituzione che contro tutti i provvedimenti giurisdizionali di qualunque magistratura è dato ricorrere per cassazione «per violazione di legge». Le parole «per violazione di legge» le vorrei sostituite a quelle «secondo le norme di legge». I codici di procedura stabiliranno poi le modalità, ma il principio è questo: per qualunque sentenza di giudici speciali o ordinari deve essere consentito il ricorso alla Suprema Corte di cassazione per eccepire una violazione di legge sostanziale o processuale; non potrà in alcun caso il legislatore limitare il ricorso ai casi di incompetenza e di eccesso di potere.
L’unità dell’interpretazione è garanzia di «giustizia eguale per tutti».
Il problema della Cassazione unica o multipla non può essere influenzato dal gioco di interessi particolaristici. Né è esatto dire che le Cassazioni regionali furono soppresse dal fascismo, poiché già da decenni da più parti si chiedeva l’unicità della Cassazione; né deve dimenticarsi che soltanto motivi di politica contingente consigliarono, ai primordi dell’unità nazionale, la conservazione delle cinque gloriose Cassazioni.
Certo è preferibile, per andare alla Cassazione, prendere il tram anziché prendere il treno… ma «Cassazione», la Cassazione, già all’orecchio suona al singolare. È difficile dire: le Cassazioni. La logica stessa della funzione indica l’unicità dell’organo. La Cassazione garantisce l’unità dell’interpretazione delle varie leggi e riunisce al vertice i vari organi giurisdizionali sparsi sul territorio dello Stato.
La funzione, ripeto, la postula unica.
Si dice: «Abbiamo fatto un ordinamento regionale». Ebbene, il Codice, la legge dello Stato, devono essere interpretate da un organo supremo che riaffermi l’unità nel diritto: affermazione tanto più necessaria, in quanto appunto vi sono le Regioni. Nei lavori preparatori ho trovato citato Michele Pironti, il quale fece un discorso sulle Corti regionali. Ricordo il titolo di quel discorso: «I caratteri delle Cassazioni regionali». Questo titolo è per me la condanna delle Corti regionali. Egli infatti poneva in rilievo proprio le particolari caratteristiche che si andavano formando in rapporto alle singole Cassazioni regionali, le differenziazioni che sempre più si accentuavano nell’interpretazione delle leggi da parte delle singole Cassazioni regionali.
Ora, la interpretazione della legge trascende il caso concreto; la interpretazione difforme determina l’incertezza della legge stessa. L’errore di diritto è un errore che può rimbalzare dalla controversia, può influire sulla condotta dei cittadini, in quanto può far ritenere che una determinata legge abbia una determinata portata e un determinato significato. Se è necessario dare una legge sempre più certa al cittadino, è necessario che l’organo supremo che interpreta la legge sia un organo unico.
Riconosco che noi, quando sfogliamo i repertori della Cassazione, incontriamo delle interpretazioni mutevoli. Ma questo non significa già portare un argomento per le Cassazioni plurime, poiché è certo che gli stessi difetti si accentuano, si esasperano, si moltiplicano con le Cassazioni multiple.
La scelta del giudice deve essere garanzia di giustizia eguale per tutti.
La scelta del giudice mediante concorso è garanzia di preparazione e di competenza. Concorso anche interno per selezionare il magistrato durante lo svolgimento della sua carriera. Oserei forse dire, per distinguere magistratura penale da magistratura civile.
Noi nella pratica vediamo i giudici penali che chiedono di andare a fare delle piccole escursioni in civile, per poter scrivere delle sentenze ed acquistare un titolo, quasi che la funzione di amministrare la giustizia in campo penale fosse una funzione degradata in confronto a quella nel campo civile. Eppure, tutto il movimento della scienza moderna, tutte le elaborazioni giurisprudenziali, i congressi internazionali, sempre più dimostrano quanto il giudice debba essere preparato, padrone perfino di scienze ausiliarie, ove egli voglia cimentarsi nel difficile compito di giudicare gli uomini e di amministrare la legge penale, che diventa sempre più complessa. Ma mentre io parlo di tecnica e complessità di preparazione e di scienze sussidiarie, io vedo affacciarsi dall’articolo 94 aureolata di incompetenza e di ignoranza, la figura della giuria.
Vi è qualcosa di paradossale, consentitemelo dire col massimo rispetto anche per chi sostiene la tesi avversa. Il giudice più incompetente per il giudizio più grave, il giudice ritenuto il più infallibile, senza il doppio grado di giurisdizione, senza appello, in quanto più incompetente; ed a lui si consente di essere il più dispotico, cioè lo si svincola dall’obbligo dalla motivazione; gli si consente di poter esprimere il suo giudizio con un dispotico monosillabo, sulla cui punta oscilla tutta la vita di un uomo, che può essere condannato all’ergastolo.
Voi, onorevoli colleghi, sapete quali gravi indagini occorre svolgere nelle Corti di assise in rapporto ai delitti più gravi.
Si dice: democrazia; ma democrazia è questa: eguaglianza delle possibilità per tutti nell’assunzione delle carriere; quando vi sono compiti tecnici da svolgere la selezione è affidata soltanto alla preparazione tecnica.
Che cosa è questa democrazia del «sorteggio»? Si dice: coscienza popolare, come se il sorteggio esprimesse la coscienza popolare; scelta cieca, della sorte. Capirei magari una elezione.
VERONI. Mancini, Finocchiaro Aprile, Pisanelli hanno fatto discorsi memorabili.
CORTESE. I discorsi memorabili dei maggiori esponenti della nostra dottrina, da Francesco Carrara a Pisanelli, sono contro la giuria. Io ho letto Pisanelli, ricordato nella relazione del Guardasigilli; ho voluto sfogliare questo antico libro intitolato Istituzione dei Giurati. Quando parlava del trapianto di questo istituto dall’Inghilterra, Pisanelli scriveva: «I giurati, destituiti di cultura, nel Continente non si appoggiano ad antiche consuetudini e non sono sorretti dalla tradizione e non rappresentano altra cosa che l’ignoranza; ossia ciò, che negli odierni giudizi (la vivacità dell’espressione è sua) nulla ci può essere di più laido, di più abietto, di più esiziale nel giudicare». Soggiungeva: «la mancanza di una motivazione priva certamente la sentenza dei giurati degli altri vantaggi, che potrebbe presentare». Perché la motivazione è la dignità della sentenza. Una sentenza non motivata, che non consente appello e riesame del procedimento logico, delle valutazioni giuridiche, delle premesse di fatto che hanno condotto alla decisione, sospende nel vuoto un dispositivo, lascia senza risposta ogni interrogativo che investa il suo fondamento.
D’altra parte il giudizio dell’inesperto è tanto più assurdo in quanto, come ho già avuto occasione di rilevare, nel nostro Paese la sentenza deve applicare la legge, che è sempre scritta, codificata, tecnicamente formulata, e non già consuetudini ed usi, principî non scritti affidati alla tradizione, come in Inghilterra, che è la patria della giuria.
Soprattutto voi, colleghi del campo penale, ben conoscete quale movimento di pensiero, di indagine, di critica, di dottrina, quale feconda, ricca elaborazione giurisprudenziale vi sono state da quando, con la soppressione della giuria, le sentenze della Corte d’assise hanno avuto una motivazione e la Corte di cassazione ha potuto pronunciarsi sui problemi giuridici che frequentemente si presentano nelle Corti d’assise.
Pensate agli ardui temi affrontati dalla dottrina e dalla giurisprudenza. La nozione di premeditazione, conciliabilità della premeditazione col vizio parziale di mente, conciliabilità della premeditazione con la provocazione; provocazione e motivi morali sulla base dello stesso fatto o di due fatti distinti. Se non ci fosse stata la motivazione delle sentenze, tutto questo lavoro di ermeneutica e di giurisprudenza non ci sarebbe stato. E noi avvocati, che spendiamo la nostra fatica in questi studi e in queste indagini, dovremmo poi portare i risultati della nostra preparazione tecnica, le nostre tesi giuridiche dinanzi al banco dove siede sì un cittadino, al quale può andare tutta la nostra simpatia e la nostra stima, ma che è un uomo che non può seguirci nell’arduo cammino. La giustizia diventa una lotteria, come diceva Francesco Carrara, una lotteria tanto più pericolosa nei piccoli centri, dove più agiscono le suggestioni, le pressioni, le amicizie, i timori riverenziali, le clientele elettorali dell’avvocato; le animosità o le cordialità dei gruppi familiari, le avversioni della piccola politica locale. Né può tacersi del fenomeno degli eccessi della stampa in tema di cronaca nera, eccessi che pur possono avere un’influenza suggestiva sul giudice popolare meno corazzato ed attrezzato.
Tutta la dottrina, la Magistratura e gran parte degli avvocati penali sono contro l’istituzione della giuria, la quale, infine, non garantisce la «umanità» del giudizio più di quanto possa garantirlo il magistrato, che è uomo esperto fornito di sensibilità, e non è certo chiuso alle voci del sentimento, che non è certo incapace di valutare gli aspetti, i motivi, le giustificazioni umane del delitto. Il magistrato, che è anch’egli «popolo», figlio del popolo, lavoratore, che con un modesto stipendio spende la sua vita al servizio del Paese, della legge, per garantire le libertà e i diritti di tutti.
Le Corti di assise dei giurati sono le Corti delle grandi prevenzioni e delle grandi indulgenze. Arbitrarie le une e le altre.
Onorevoli colleghi, soltanto con un giudice indipendente, esperto, preparato, si garantirà il cittadino, il cui onore, i cui beni, la cui libertà dipendono dall’amministrazione della giustizia, e si potrà forse garantire al massimo quella eguaglianza della giustizia che è l’esigenza fondamentale di un popolo civile. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Veroni. Ne ha facoltà.
VERONI. Onorevoli colleghi, l’Assemblea non abbia preoccupazioni; sarò assai breve nel prospettare alla vostra attenzione alcuni rilievi che, se non sono esclusivamente desunti dalla mia lunga carriera professionale di oltre quarantacinque anni, sono da riportarsi ad un non breve periodo di tempo, durante il quale ebbi l’onore di collaborare con due Ministri Guardasigilli di opposte tendenze politiche: l’onorevole Tupini e l’onorevole Togliatti, ambedue animati dalla passione fervida di dare sollecito e solido assetto alla vita giudiziaria, nel nuovo clima politico successo alla tirannide nazi-fascista. E per questo vorrei ricordare all’Assemblea che, dopo la liberazione di Roma, l’onorevole Tupini costituì quattro Commissioni di studio per la riforma dei Codici di diritto sostanziale e diritto formale. E nel discorso inaugurale che tenne alle quattro Commissioni riunite, egli delineava eloquentemente su quali nuove basi si sarebbe dovuto assidere la giustizia, e penale e civile, nel nuovo ordinamento democratico. Io voglio ricordare all’Assemblea che il Ministro Guardasigilli riconobbe soprattutto la necessità inderogabile di provvedere alla creazione di un nuovo ordinamento giudiziario, il quale, riportandosi per sommi capi a quell’ordinamento giudiziario che Vittorio Emanuele Orlando, Ministro Guardasigilli nel 1908, aveva presentato e fatto approvare dal Parlamento, avrebbe dovuto risolutivamente allontanarsi da quell’altro ordinamento giudiziario che recò nel 1941 la firma del Ministro Grandi.
E lo stesso Ministro Guardasigilli, onorevole Tupini, dette alle Commissioni per la riforma dei Codici, e particolarmente a quella cui venne affidato lo studio per meglio garantire la Magistratura, Commissione per la riforma dell’ordinamento giudiziario, le linee sulle quali la Commissione avrebbe dovuto procedere per realizzare questa auspicata riforma reclamata dalla classe dei magistrati e dalla coscienza del Paese.
Non meno di lui, onorevoli colleghi, il Ministro Togliatti, che arrivò al Ministero della giustizia circondato da una certa prevenzione della classe dei magistrati, i quali naturalmente non erano perfettamente convinti che potesse essere Ministro Guardasigilli il maggiore esponente del Partito comunista, l’onorevole Togliatti, dico, fu preso dallo stesso ardore per la soluzione dei problemi di giustizia. E riprendendo il lavoro che la crisi ministeriale aveva fatto interrompere all’onorevole Tupini, creò delle Commissioni interne, alle quali parteciparono insieme a chi ha l’onore di parlarvi, il presidente della Cassazione, il procuratore generale della Cassazione, quattro presidenti di sezione della Cassazione, il Capo dell’ufficio legislativo, avvocati insigni, come Giovanni Selvaggi e Federico Comandini, dell’ordine degli avvocati di Roma, Commissioni che prepararono quel decreto del 31 maggio 1946 che reca il titolo: «Guarentigie sulla Magistratura».
Io voglio ricordare che uomini di partiti diversi: l’onorevole Leone, nei lavori della seconda sezione della seconda Sottocomissione, presieduta dal nostro Vicepresidente onorevole Conti, l’onorevole Turco in questa Assemblea, un magistrato, l’onorevole Romano, hanno ricordato che questo decreto 31 maggio 1946, approvato dal Consiglio dei Ministri su proposta del Ministro Guardasigilli del tempo, è veramente una conquista per la classe dei magistrati, talché esso fu accolto dalla Magistratura con pieno plauso. I magistrati si ritennero soddisfatti ed esauditi nelle loro richieste, perché per la prima volta questo decreto affrontava e risolveva in pieno e conclusivamente il problema della inamovibilità del giudice, estendendola al pubblico ministero, e garantiva al magistrato l’esercizio delle sue alte funzioni lontano da ogni e qualsiasi influenza; perché, per questo decreto veniva creato un Consiglio Superiore della Magistratura, non come propone il progetto di Costituzione, che rappresenta un regresso di fronte a quello che è il voto e il desiderio dei magistrati, ma come era stato ardentemente reclamato dalla classe, un Consiglio, cioè, composto esclusivamente di magistrati. Così che nei lavori preparatori della Commissione competente si poté dire: «Ma che cosa di più la Magistratura potrà ottenere con il sospirato autogoverno? Che cosa può avere di meglio, quando il decreto sulle sue guarentigie tutto ha dato e tutto ha concesso?».
Il nostro collega onorevole Leone, politico apprezzato e profondo studioso di problemi giuridici, diceva che, per effetto del decreto del 31 maggio 1946, la Magistratura ha i Consigli giudiziari eletti per libera votazione della classe; ha il Consiglio Superiore della Magistratura costituito esclusivamente di magistrati eletti per libera elezione; ha al Consiglio Superiore della Magistratura attribuito i più larghi poteri, sì da far ritenere giustamente che esso rappresenti il frutto della costante e lunga lotta che la Magistratura aveva affrontato, sostenuto, superato.
Ma, onorevoli colleghi, i magistrati ora non si dimostrano più pienamente soddisfatti.
Dopo essersi dichiarati sostanzialmente soddisfatti nelle loro aspirazioni, esaudite attraverso la collaborazione data alla formazione del decreto sulle loro guarentigie (e nella Commissione erano infatti presenti, fra gli altri, altissimi magistrati come Pagano, Pilotti, Piga, Manca, Spallanzani, Azzariti, ecc.), i magistrati chiedono il completo autogoverno, dopo aver ottenuta la completa sospirata autonomia.
L’onorevole Bozzi ha detto che per autogoverno si deve intendere soltanto quello amministrativo; ma ciò non è completamente esatto: quando i magistrati chiedono l’autogoverno vanno molto al di là di questa funzione amministrativa che l’onorevole Bozzi vorrebbe riconoscere all’autogoverno stesso. 1 magistrati vogliono con l’autogoverno poter provvedere essi alle nomine, alla destinazione e alla rimozione dei magistrati, avere l’iniziativa e il controllo della disciplina della classe, governare, insomma, su tutto quello che attualmente costituisce il potere del Ministro della giustizia. Ora nessuno può e deve contestare, alla classe dei magistrati, piena autonomia ed indipendenza, senza pervenire però a quell’autogoverno, che farebbe di essi una casta chiusa, quasi appartata dal vivere civile.
Una tale tendenza, che non tutti i magistrati possono volere e possono desiderare, dovendo anch’essa, la classe dei giudici, considerarsi uno degli elementi essenziali della vita febbrile del Paese, condurrebbe il giudice e la sua classe ad appartarsi, per governare unicamente il proprio ordine, per provvedere alla propria disciplina, per amministrarne le finanze, per regolarne l’andamento, ecc.
Ecco perché noi diciamo che il decreto 31 maggio 1946 sulle guarentigie della Magistratura, che prevede la soluzione del problema dell’indipendenza attraverso l’inamovibilità del giudice, ed estendendola anche al pubblico ministero, questo decreto è – secondo l’opinione nostra e secondo quella che era, allora, l’opinione della classe dei magistrati – quanto di più può desiderarsi e concedersi, oltre di che, nelle condizioni attuali del nostro Paese, non è consentito andare.
Ma, onorevoli colleghi, qui conviene, in riferimento alla nostra concezione giuridica o politica esprimere liberamente il pensiero di questa parte dell’Assemblea sovra alcuni altri problemi, possibilmente senza ripeter male le cose dette sinora bene.
Partecipazione del magistrato alla vita pubblica: chi vi parla è forse tra i pochi che da più anni seggono in quest’Aula: vi entrai per la prima volta nel 1912, e vi trovai magistrati insigni, Edoardo Cimorelli, Tommaso Mosca, Michelangelo Vaccaro, Giuseppe Mendaia, Giulio Venzi, e più tardi vi pervennero altri, fra cui ho caro il ricordo di un compagno di Gruppo, Alessandro Marracino, giurista insigne e spirito superiormente colto: tutti ebbero la nostra fraterna ammirazione e la estimazione del Paese, per aver saputo sempre fedelmente militare nella propria parte politica, pur conservando incontaminata l’altezza della loro funzione di magistrati.
E per andare un pochino più in là, prima che io entrassi, negli anni lontani, in quest’Aula, vi aveva seduto un altro altissimo magistrato romano, Antonio Gui, che rappresentò qui la nostra terra e che fu l’amatissimo presidente di tutte le Corti d’assise della regione laziale.
Ebbene, tutti questi magistrati, da Gui a Venzi, a Mendaia, a Mosca, tutti questi magistrati dettero prova di non sapere affatto prescindere dagli interessi supremi della giustizia, quando esercitarono la loro non mono nobile funzione di uomini politici; fecero, insomma, magnificamente i deputati e i magistrati.
Ora, vi è un nostro collega veramente valoroso e avvocato insigne, l’onorevole Sardiello, che ieri ha parlalo eloquentemente, il quale ha presentato un emendamento con cui vuole persino inibire al magistrato di poter aspirare a cariche pubbliche: non consigliere comunale o regionale, non deputato, non senatore. Che cosa è questo?
Noi siamo fermamente convinti che la Magistratura debba ritenersi paga di aver ottenuto le sue piene autonomie col decreto 31 maggio 1946 sulle sue «guarentigie» da me più volte ricordato; ma non vogliamo, per questo, privare, distogliere il giudice dal godimento di quei diritti elementari che la Costituzione riconosce a ciascun cittadino.
Se spetta al magistrato il diritto all’elettorato attivo, deve essergli anche riconosciuto il diritto all’elettorato passivo.
Ed io penso, conseguentemente, che sia un errore, che sia un’evidente esagerazione, che sia una pericolosa deformazione anche la preoccupazione che un magistrato possa far parte di un partito politico.
MANCINI. Imponiamo anche la castità al magistrato.
VERONI. Il magistrato ha il senso dell’ordine, il magistrato ha il senso del limite; anche quando, pertanto, egli appartenga ad un partito politico, saprà certamente conservare una linea di sobrietà e di prudenza nella lotta dei partiti; ma nessuno gli può contestare d’inscriversi, se voglia, ad un partito, perché è un diritto basilare di tutti i cittadini di vivere pienamente e attivamente la vita politica secondo i propri intendimenti, secondo il proprio pensiero, diritto che noi abbiamo universalmente riconosciuto nella Costituzione.
Se diversamente facessimo, andremmo evidentemente contro i principî della rinata democrazia.
E da ultimo consentitemi brevi rilievi sull’odierno problema, che tanto appassiona l’Assemblea: la Corte d’assise deve essere ripristinata, deve essere conservato l’assessorato o scabinato, deve essere affidata soltanto al magistrato la materia che per l’innanzi era affidata alle nostre Corti d’assise? Un nostro collega, che non appartiene a partiti di sinistra – l’onorevole Turco, che è un avvocato eminente – ha potuto dire che, quando l’onorevole Togliatti propose col suo noto decreto di ripristinare l’istituto della giuria, egli evidentemente lo aveva fatto, perché non si era potuto sottrarre a quella che era in quel momento la particolare situazione politica del Paese, uscito dalla tirannide fascista e dalla occupazione nazista.
Diceva l’onorevole Turco che fu forse quello un gesto di «mimetismo integrale»; frase un po’ oscura, che forse voleva significare questo: il Ministro Guardasigilli volle far sentire di essere l’espressione massima della democrazia e ridonò al popolo il diritto di giudicare attraverso l’istituto della giuria.
La verità è un’altra, onorevoli colleghi; a me consta personalmente, per essere stato in due Gabinetti il collaboratore di quel Ministro, che prima di presentare al Consiglio dei Ministri del tempo il decreto che ripristinava la giuria, furono interpellati i Consigli dell’ordine, le magistrature; gli studiosi, e, se voi volete consentire ad uno dei vostri più modesti colleghi un ricordo personale, potrei dirvi che fu dato proprio a me l’incarico di assaggiare, di vedere, di assaporare, quale era nel nuovo regime l’intenzione, il pensiero della classe forense e dei magistrati. E fui a Treviso, a Venezia, a Padova, a Milano, ecc. ed ho, nell’adempimento del mio stretto dovere, raccolto degli elementi concreti, che furono poi consolidati dal pensiero di buona parte della Magistratura, invitata a far sapere alle sfere dirigenti della vita giudiziaria quale fosse l’intendimento suo sopra l’istituto della giuria. Ebbene, caro amico Turco, o perché – come tu pensi – tutti eravamo invasi allora dal desiderio insopprimibile di ridare alla vita giudiziaria del Paese quell’aria salubre e respirabile che non aveva avuto per il passato, o perché tale era l’obiettivo convincimento di avvocati, di magistrati e di studiosi; sta di fatto che la giuria non trovò contrasti. E allora, nel maggio 1946, il Ministro Guardasigilli portò al Consiglio dei Ministri, presieduto dall’onorevole De Gasperi, il suo decreto, e il Consiglio dei Ministri – con decreto 31 maggio 1946, n. 560, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 4 luglio 1946 – senza sollevare discussioni od obiezioni gravi, ripristinò la giuria. Quindi, quando l’onorevole Fausto Gullo, succeduto al Ministro Togliatti, presentò un progetto di legge, correttivo soltanto dal punto di vista formale del primo, l’onorevole Gullo non faceva niente di decisamente nuovo e si orientava, dal punto di vista giudiziario, giuridico, politico, sulla linea che aveva seguito il suo predecessore.
Nella sua relazione, infatti, egli scriveva che, nel corso degli studi legislativi per la redazione delle norme da lui proposte, si era ravvisata l’opportunità di introdurre alcuni emendamenti diretti a potenziare la riforma, pur lasciandone inalterata la struttura fondamentale.
Giova a questo punto ricordare che sorse viva discussione in seno alla Commissione degli esperti – creata dal Guardasigilli Togliatti – sul requisito che si doveva chiedere al giurato, e non sull’utilità o sulla necessità di ripristinare o meno la Corte d’assise. Fu allora che la Commissione, in difformità da quello che il Ministro Guardasigilli aveva proposto, sostituì al requisito della licenza elementare, la licenza media inferiore o altro titolo equipollente.
Gli argomenti di natura strettamente giuridica contro il ripristino della giuria s’infrangono, onorevole Villabruna, di fronte al modificato clima sociale e politico, perché ogni volta che è insorta la tirannide, quel giorno è caduta la giuria (Approvazioni a sinistra), e ogni volta che è risorta la libera democrazia ed è caduta la tirannide, quel giorno è risorta la giuria. (Applausi vivissimi a sinistra). Segno è questo, onorevoli colleghi, che fra la giuria e la concezione politica del Paese vi è una connessione, per la quale un collega dell’estrema – mi sfugge ora chi – poteva dire che proprio non si può esaminare il problema della giuria, senza considerarlo nel quadro e nel tono della vita politica, nel momento in cui essa si ripristina o si rimuove.
Onorevoli colleghi, quest’Aula, e quella più angusta che abbiamo da molti anni abbandonata, hanno intese voci potenti sostenere la giuria. Pasquale Stanislao Mancini ha fatto dei discorsi mirabili – che io rileggevo nei giorni scorsi – per dire tutti i motivi e tutte le ragioni per cui nel regime di libertà e di democrazia s’impone l’istituto della giuria.
Ma Giuseppe Zanardelli, e nella relazione del Codice del 1889, e in Parlamento, e più tardi durante il suo ultimo Ministero ha ratificato con la sua alta autorità di giurista, e col suo alto pensiero di politico, che la giuria s’impone in regime di democrazia. Da ultimo Camillo Finocchiaro Aprile, fra le figure più luminose di questa Camera – io ero nel 1913 componente della Commissione di riforma del Codice di procedura penale – ha nei suoi magnifici discorsi esaltato l’istituto della giuria che volle conservato nel suo nuovo Codice di rito.
Dunque, se in regime di libertà lungamente vissuta uomini così insigni ed esperti sostennero e giustificarono pienamente l’istituto della giuria, dovremmo proprio noi, dopo aver tanto sofferto e patito, e dopo aver visto restituito in libertà il nostro Paese, dobbiamo proprio noi allontanarcene?
Io sono veramente lieto che chi presiede stamane la nostra Assemblea, l’onorevole Targetti, abbia potuto dare proprio lui il sigillo, lui socialista, alla restaurazione della giuria nella Costituzione. Fu proprio, infatti, nell’ultima seduta di quella operosa seconda Sezione della seconda Sottocommissione, presieduta dall’onorevole Conti, che la giuria fu riconsacrata dalla proposta dell’onorevole Targetti.
Riconsacrato col nostro voto il ripristino dell’istituto, dovrà la legge comune e procedurale fermarsi su gli argomenti qui ripetuti sulla impreparazione del giurato: verrà così stabilito chi dovrà essere giurato, quali requisiti dovrà avere, e quale rimedio dovrà essere approntato per riparare alle deficienze che la giuria popolare può presentare dal punto di vista tecnico per essere pienamente rispondente alle esigenze del giudizio penale.
E qui io voglio ricordare da vecchio avvocato che la tecnicità della prova, a cui sarebbe inadatto il giudice popolare, ha accompagnato sempre il giudizio penale vivificato dal sussidio di perizie mediche, psichiatriche, calligrafiche, balistiche, ecc. Avveniva per il passato che il giurato trovava, se inesperto, un concludente sussidio nella trattazione delle parti e un correttivo nel riassunto del presidente destinato a mettere in luce le risultanze generiche e specifiche delle prove raccolte, sicché il giurato finiva per orientarsi notevolmente anche di fronte ai problemi tecnici.
Né sarà male ricordare, infine, che alla compilazione delle liste dei giurati provvedevano commissioni, presiedute dal Presidente del tribunale, che esaminavano le domande di iscrizione col sussidio dei rapporti dell’arma dei carabinieri, dei rapporti della pubblica sicurezza, delle informazioni dei sindaci e della Procura, ecc. Si facevano così delle buone liste di giurati, e quando finalmente si arrivava al pubblico giudizio si faceva lo scarto dei giurati, che dava la possibilità di eliminare i meno idonei.
È avvenuto, onorevoli colleghi, che in questa Aula è stato facile ricordare gli errori della giuria, ma pochi hanno ricordato che anche la Magistratura, composta di uomini, è incorsa ed incorre in errori spiegabili.
Ma forse sarà utile riproporre in questa Assemblea una proposta, che anche con l’intervento del collega onorevole Cevolotto è stata approvata al Congresso forense di Firenze, una proposta la quale, pur affermando il principio della giuria, rimandi alla legge ordinaria quello di esaminare come, quando e perché, e su quali reati abbia la sua competenza.
Ora, onorevoli colleghi, io vorrei dire una ultima parola, per esprimere il mio dissenso nei confronti di coloro che ostacolano l’entrata delle donne nella vita giudiziaria. Io non capisco come si possa dire che la donna non sia matura per la vita giudiziaria, quando invece è matura per esercitare la professione di avvocato, quando soprattutto è matura per fare l’elettrice e per fare l’eletta. E così, mentre in regime di democrazia, il primo Gabinetto Bonomi concedeva alle donne il diritto elettorale passivo ed attivo, talché molte sono venute in questa Aula ed hanno fatto e fanno bene il loro dovere, io non capisco perché, potendo fare le leggi, potendo collaborare a dare al Paese la sua nuova Costituzione, non possano disimpegnare le funzioni giudiziarie.
In fondo non saranno molte a dedicarsi alla vita giudiziaria, non perché non siano capaci di farlo, ma perché avverrà ciò che è avvenuto per la professione forense, ove non si è ravvisata fervida passione per l’esercizio dell’avvocatura da parte delle donne. Avverrà probabilmente lo stesso se riconosceremo alle donne il diritto di accedere alla vita giudiziaria. Ma la considerazione che le donne non saranno in folla a poter chiedere di entrare nell’ordine giudiziario è ben diversa dalla considerazione che voi vogliate estraniarvele, dopo che sono state ritenute capaci a sedere e a legiferare in quest’Assemblea sovrana.
Ora, onorevoli colleghi, ho finito, e vorrei che potesse partire da questa Assemblea una voce ed un augurio che già è partito dalla Commissione di preparazione del progetto. Esiste da qualche tempo una specie di dissenso fra la vita politica del Paese rinnovato e la Magistratura. Si dolgono i magistrati che il potere esecutivo non abbia saputo provvedere al miglioramento delle loro condizioni economiche; si dolgono i magistrati che si permetta alla stampa, senza che nessuno la censuri, di criticare asprissimamente l’opera della Magistratura; si dolgono i magistrati che talvolta sia, da esponenti della vita politica del Paese, censurato il loro giudizio per l’applicazione dell’amnistia politica. Di molte altre cose, e talvolta non ingiustamente, si rammaricano. Si è creata indubbiamente, così, una specie di frattura fra la rinnovata vita politica del Paese risorto a libera vita democratica e la vita giudiziaria. Ebbene, onorevoli colleghi, la frattura si risanerà, il vuoto si colmerà e consentite ch’io mi ripeta qui finendo l’augurio, che in me è certezza, espresso dall’onorevole Conti, autorevole Presidente della seconda Sezione della seconda Sottocommissione, in occasione di un evento che dolse al Paese: «Auguriamoci che i magistrati italiani sappiano essere degni della vita democratica e repubblicana del Paese». Io ne sono certo! (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito di questa discussione è rinviato alla seduta pomeridiana.
La seduta termina alle 12.55.