ASSEMBLEA COSTITUENTE
cxxv.
SEDUTA DI MERCOLEDÌ 14 MAGGIO 1947
PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI
indi
DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedi:
Presidente
Progetto di Costituzione della Repubblica italiana (Seguito della discussione):
Presidente
Cimenti
Carmagnola
Canevari
Marina
Bibolotti
Macrelli
Dominedò
Caroleo
Canevari
Ghidini, Presidente della terza Sottocommissione
Colitto
Einaudi
Quintieri Quinto
Perrone Capano
Malvestiti
Camangi
Nobili Tito Oro
Villani
Puoti
Gortani
Corbino
Sansone
Taviani
Scoccimarro
Micheli
D’Aragona Gronchi
Di Vittorio
Selvaggi
Angelini
De Caro Raffaele
Interrogazione (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 9.
RICCIO, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta antimeridiana.
(È approvato).
Congedi.
PRESIDENTE. Comunico che hanno chiesto congedo gli onorevoli: Germano, Lettieri, Ambrosini, Pignatari, Cairo e Dossetti.
(Sono concessi).
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.
Dobbiamo esaminare l’articolo 42:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione; ne favorisce l’incremento e la sottopone alla vigilanza, stabilita con legge, per assicurarne i caratteri e le finalità».
A questo articolo sono stati presentati vari emendamenti.
Il primo è quello dell’onorevole Colitto, che lo ha già svolto:
«Sostituirlo col seguente:
«È promossa ed agevolata l’impresa cooperativa di lavoratori o consumatori, che si associano, su basi di mutualità, per provvedere alla tutela dei proprî interessi o per scopi di utilità generale».
Gli onorevoli Cimenti, Dominedò, Montini, Belotti, Cappugi, Gortani, Carratelli, hanno presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, ne favorisce l’incremento e ne assicura il carattere mutualistico con apposite norme di legge».
L’onorevole Cimenti ha facoltà di svolgerlo.
CIMENTI. Affrontare il problema della cooperazione in sede di Carta costituzionale significa, onorevoli colleghi, concedere finalmente, ciò che non era mai stato fatto, un riconoscimento essenziale all’importanza di un fenomeno economico e sociale, che investe quasi tutti i rami dell’attività umana, che costituisce un sostanziale elemento di fraternità, che non può essere frutto di una semplice formula economica – in cui si sommano aritmeticamente gli egoismi individuali – ma di una superiore ispirazione in cui l’uomo si sente vicino all’altro uomo nell’impresa comune, in cui si risolvono i problemi del lavoro, in cui si attua la difesa del consumatore attraverso l’aiuto solidale e la reciproca collaborazione.
Intervenendo, come membro di questa Assemblea, nella discussione di questo articolo, non posso naturalmente dimenticare di essere l’esponente del movimento cooperativo che si ispira ai principî ed al metodo della scuola sociale-cristiana.
Questo movimento, che non riconosce soltanto la cooperazione proletaria ed operaia, che non vuole tendere alla statizzazione dei mezzi di distribuzione, alle grandi cooperative monopolizzatrici, alla cooperazione di categoria, in cui il socio naufraga e perde la propria personalità, vuole invece affermare l’utilità delle piccole e delle medie cooperative, largamente e territorialmente distribuite, in cui il socio sia sempre presente, cosciente e partecipe, e le quali possono a loro volta essere collegate nelle imprese di grado superiore.
La cooperazione così intesa rende corresponsabile il lavoratore e ne eleva la personalità, emancipandolo dalla condizione proletaria.
La cooperazione così intesa non può che essere sottratta all’ingerenza diretta dello Stato, seppure abbisogna di una accurata vigilanza, attraverso la periodica obbligatoria revisione, eseguita dalle stesse associazioni che inquadrano e assistono le cooperative, a ciò abilitate dallo Stato.
La cooperazione così intesa si presenta come una forma dignitosamente autonoma, che non si sottomette ad essere strumento politico, e non vuole essere divoratrice del pubblico denaro.
La risoluzione del problema del latifondo, l’affermazione della solidarietà cooperativa fra i piccoli agricoltori per mezzo delle Casse rurali, il ritorno dei consorzi agrari alla forma cooperativa, la protezione della piccola pesca artigianale, ordinata in aziende cooperative, il contributo al calmieramento dei prezzi, il contributo alla ricostruzione del paese dilaniato dalla guerra, sono tanti aspetti dell’importante problema che oggi nella Carta costituzionale trova la consacrazione della sua importanza e della sua funzione, che è funzione di solidarietà squisitamente democratica.
Ora, analizzando l’articolo 42 del progetto di Costituzione, noi troviamo esser contenute in esso le seguenti tre dichiarazioni:
1°) La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione.
2°) Ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei.
3°) La sottopone alla vigilanza stabilita per legge, al fine di assicurarne i caratteri e le finalità.
Sulla opportunità di inserire nella Carta costituzionale un riconoscimento della funzione sociale della cooperazione dobbiamo dunque essere concordi. Posto questo riconoscimento e riaffermato che lo Stato deve «favorire» l’incremento del movimento cooperativo, non si comprende chiaramente perché si senta il bisogno di parlare nella Costituzione del servizio di vigilanza sulle imprese cooperative.
Il riconoscimento della necessità di una vigilanza sulle società cooperative, espresso solennemente nella Carta costituzionale, o è suggerito da una sfiducia nella maturità e nella serietà del movimento cooperativo italiano – così profonda, da non potersi tacere nel momento stesso in cui si riconosce la funzione sociale della cooperazione – o è suggerito dal desiderio di affermare il principio della ingerenza del potere esecutivo nella vita e nella gestione amministrativa delle cooperative.
Nell’una e nell’altra ipotesi questo accenno alla vigilanza governativa è inopportuno e – secondo me – da respingersi.
Parlare nella Costituzione della vigilanza sulle cooperative solo per riaffermare che i limiti e le forme di questa saranno stabiliti dalla legge, mi sembra perfettamente superfluo. Questo accenno alla vigilanza governativa sulle imprese cooperative deve avere evidentemente un significato più sostanziale, per quanto oscuro ed equivoco.
Si vuol suggerire, attraverso la Costituzione, al futuro legislatore la necessità di provvedimenti di polizia diretti a cautelare il pubblico interesse dal danno che potrebbe essergli arrecato dal cattivo funzionamento delle cooperative?
Questo monito non potrebbe trovare sede opportuna nella Costituzione ed inserito subito dopo una valorizzazione della cooperazione, rappresenta una stonatura.
L’articolo 42 potrebbe essere interpretato come l’affermazione di un principio, secondo il quale la gestione delle società cooperative è sottoposta ad un organico controllo dello Stato, per cui l’iniziativa privata cooperativa s’innesta a quella statale.
Ritengo che i compilatori del progetto non volessero andare così lontano e dare questo significato all’articolo 42; però l’equivoco c’è ed occorre eliminarlo.
O nella Costituzione non si parla affatto della vigilanza sulle cooperative, oppure, se se ne volesse parlare, occorrerebbe definirne più esattamente i limiti e le forme.
Si può ammettere che lo Stato, in quanto favorisca l’incremento di talune cooperative, possa sentire il bisogno di esercitare su di queste una certa vigilanza; ma nella Carta costituzionale occorre affermare la regola generale, cioè la libertà dell’associazione cooperativa, e non l’eccezione rappresentata da una vigilanza posta come condizione alla concessione di determinati privilegi.
Vi è nel testo della Costituzione, che si discute, una evidente contrapposizione: mentre l’articolo 40 stabilisce che l’iniziativa economica privata è libera, purché non si svolga in contrasto con l’utilità sociale ed in modo da arrecare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, l’articolo 42 stabilisce invece che l’iniziativa cooperativa, che è collettiva ma sempre privata, è sottoposta ad una speciale vigilanza.
I cooperatori non possono ammettere che nel campo economico l’iniziativa privata debba essere più libera che non quella cooperativa.
Nessuno contesta allo Stato il diritto di condizionare come crederà più opportuno i favori ed i privilegi che esso vorrà concedere alle cooperative; ma i cooperatori non sono disposti ad abdicare alla libertà delle loro società per assicurarsi qualche agevolazione fiscale in materia di tasse di bollo e di registro.
Non è il caso di discutere qui se certi favori e certi privilegi concessi dallo Stato alle cooperative siano utili o dannosi all’incremento della sana cooperazione, ma devo osservare che troppo caro costerebbe al movimento cooperativo il favore statale, se questo, che è causa prima del sorgere di false cooperative, dovesse portare anche un’ingerenza ed un controllo diretto dello Stato sulla gestione delle cooperative.
I cooperatori non si rifiutano ad una revisione periodica, che sia esercitata da organismi collegiali, che potrebbero essere espressi direttamente dal loro seno: è interesse degli stessi cooperatori stroncare le speculazioni troppo frequenti fatte nel nome della cooperazione: ma essi non desiderano che le loro libere società diventino istituti parastatali. L’ingerenza ed il controllo governativo, spinti oltre un certo limite, snaturerebbero le cooperative.
È per queste considerazioni che ho proposto di togliere ogni accenno alla vigilanza governativa sulle cooperative dal progetto di Costituzione, sostituendo all’articolo 42 la seguente dichiarazione: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, ne favorisce l’incremento e ne assicura il carattere mutualistico, con apposite norme di legge».
Questi concetti sono stati in fondo accolti anche nell’emendamento proposto dagli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, Costantini, De Michelis, Merlin Lina e Merighi; debbo rilevare però che quando si dice: «la legge stabilisce le norme per assicurarne i caratteri e le finalità» è bene definire che questi caratteri debbono essere mutualistici, mentre trovo superfluo che si parli di finalità, le quali infatti non possono che essere quelle proprie dell’attività cooperativa; ché – se così non fosse – si tratterebbe allora di qualche altra cosa, ma non di cooperazione.
È evidente che, date le premesse da me esposte, io non possa concordare con l’emendamento proposto dagli onorevoli Canevari, Cairo, Zanardi e Filippini: non mi pare il caso di parlare di speculazione privata in una Carta costituzionale: la speculazione privata non è più cooperazione. Così come non mi pare, per i motivi già addotti, che siano da includere gli «opportuni controlli» contenuti nell’emendamento.
L’onorevole Marina concorda con l’emendamento da me proposto nella prima parte: ho ragione di ritenere che egli non abbia motivi così sostanziali da non accogliere anche la seconda.
L’emendamento Bibolotti ha pure notevoli punti di contatto con la formula da me suggerita: non credo di poter concordare con l’onorevole collega quando egli suggerisce che la Repubblica debba «promuovere» l’incremento della cooperazione.
Non è lo Stato che deve fare le cooperative, sono i cooperatori: lo Stato deve favorire il più possibile la costituzione ed il funzionamento delle cooperative, ma la loro costituzione è un atto di volontà spontaneamente associato, e tale è opportuno rimanga.
Non posso naturalmente trovarmi d’accordo con l’emendamento proposto dai colleghi Corbino, Quintieri Quinto, Colonna e Bonino: in esso la cooperazione non è neppure nominata, e vi si affronta un argomento che, seppure importante, riguarda un solo settore dell’attività economica e nulla ha a che fare col problema cooperativo.
PRESIDENTE. Mi sembra, onorevole Cimenti, che lei stia assolvendo il compito riservato all’onorevole Ghidini: sta discutendo infatti gli emendamenti presentati.
CIMENTI. Onorevoli colleghi, nell’additare alla vostra attenzione l’emendamento che con me i colleghi Dominedò, Montini, Belotti, Cappugi, Gortani e Carratelli hanno voluto sottoscrivere, richiamo la vostra benevola comprensione sui motivi ideali che lo hanno ispirato. Essi trovano il loro riscontro nella speranza comune a tutti i sinceri cooperatori, i quali sanno che la loro fatica non aspetta il suo premio da capovolgimenti improvvisi, ma se lo conquista giorno per giorno: la cooperazione, forza viva e operante, in cui si assommano desiderio di rinascita, fede nell’avvenire, dignità del lavoro, deve essere riconosciuta dal popolo e dallo Stato come elemento di vita democratica, di progresso sociale.
La vostra approvazione non tradirà questa speranza, che è segno di fiducia nel futuro della Patria. (Applausi).
PRESIDENTE. Gli onorevoli Barbareschi, Carmagnola, Mariani, Vischioni, Costantini, De Michelis, Merlin Lina e Merighi hanno presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione e rne favorisce l’incremento.
«La legge stabilisce le norme per assicurarne i caratteri e la finalità».
Poiché non è presente l’onorevole Barbareschi, ha facoltà di svolgerlo l’onorevole Carmagnola.
CARMAGNOLA. Noi socialisti siamo veramente sodisfatti che la Commissione abbia incluso nella Carta costituzionale questo articolo che si riferisce alla cooperazione.
Questa attività è stata attentamente seguita e sviluppata per decenni dal nostro movimento, in quanto ha fatto parte delle tre attività: il sindacato, la mutualità e la cooperazione ed ha concorso a elevare le condizioni di vita della classe lavoratrice. E noi siamo, ripeto, lieti che finalmente la cooperazione trovi posto nella nuova Carta costituzionale della Repubblica italiana.
Questo movimento, sorto per iniziativa dei lavoratori sin dal 1857 – ricordo la Cooperativa dei vetrai di Altare – si è sviluppato di anno in anno, raggiungendo una posizione notevole non solo per il miglioramento delle condizioni dei lavoratori, ma anche per il suo sensibile benefico apporto alla economia del Paese. Esso venne stroncato, come voi conoscete, dal regime tramontato e noi ci dedichiamo ora all’intento di farlo risorgere più forte e più potente di prima. Naturalmente desideriamo che questo movimento cooperativistico risponda ai veri concetti della cooperazione; e noi socialisti siamo d’accordo nel ritenere che la cooperazione debba sottostare a certe garanzie perché possa ottenere quegli aiuti che lo Stato deve dare.
Queste garanzie potranno arrivare anche alla vigilanza, come reca appunto il testo proposto dalla Commissione. Ma riteniamo che questo termine «vigilanza» sia piuttosto un compito che entri nelle attribuzioni del legislatore e non già nella Costituzione. La Commissione che ha formulato questo articolo è già quindi entrata, a nostro avviso, nel campo del legislatore, mentre invece la Costituzione deve unicamente affermare dei principî, lasciando poi al legislatore di svilupparli con le dovute leggi e con i dovuti regolamenti.
L’oratore che mi ha preceduto ha già messo in evidenza l’altra preoccupazione, che è stata anche la nostra, nel proporre la cancellazione della parola «vigilanza»; cioè di evitare che il potere esecutivo entri nella vita della cooperazione e infirmi anche il suo carattere, per delle ragioni che potrebbero contrastare con quelle dei cooperatori.
Faccio osservare agli onorevoli colleghi che il movimento cooperativistico, quando sorge dalla libera spontaneità e dalla libera volontà dei cooperatori, è sempre un movimento sano, come è stato sano il vecchio movimento cooperativistico: basti riferirsi a quel grande esempio che abbiamo avuto nel Ravennate, creato dalla mente fervida ed operosa di Nullo Baldini.
Siamo d’accordo che in questi due anni sono sorte cooperative che hanno soltanto il nome senza averne il contenuto, in quanto sotto tale appellativo nascondono degli interessi di speculazione privata. E noi stiamo svolgendo appunto un’attività attenta per iscoprire queste false cooperative e farle scomparire.
Se vogliono svolgere dell’attività che appartiene alla speculazione privata, prendano il loro vero nome, prendano la loro giusta qualifica, e non usurpino quella che a loro non spetta, offendendo un movimento così nobile e così elevato.
Ma noi desideriamo che la vera cooperazione venga effettivamente aiutata. Già nel mio intervento in questa Assemblea, a nome del Gruppo del quale faccio parte, il 19 settembre dello scorso anno, segnalai al Governo le tristi condizioni nelle quali si trova la cooperazione.
Abbiamo infatti delle cooperative formate da giovani ed intelligenti operai, i quali desiderano di emanciparsi e di portare, con le loro attività, un contributo alla ripresa economica della Nazione, cooperative che vivono una vita impossibile perché non trovano le finanze adeguate, tanto da essere costrette a cadere nelle mani della speculazione privata.
E vi sono uomini i quali vanno per settimane e settimane a casa senza denaro, perché vogliono condurre a buon porto il loro esperimento; ed è veramente doloroso che lo Stato sia ancora indifferente di fronte a ciò. Non possiamo abbandonare queste cooperative, costrette a vivere degli aiuti della speculazione privata, alla quale debbono corrispondere il 10 o il 12 per cento sui denari avuti in prestito.
Bisogna quindi crearlo e aiutarlo questo movimento; e noi ci compiacciamo dell’articolo 44, che verrà poi in discussione, il quale dice che la Repubblica tutela il risparmio; disciplina, coordina e controlla l’esercizio del credito. In questo «disciplina, coordina e controlla» noi speriamo che si intenda dire anche di usare quei provvedimenti che possono veramente aiutare la ripresa del movimento cooperativo italiano.
Egregi colleghi, non ho altro da dire. Noi vogliamo che il movimento cooperativo risponda a dei principî sociali; intendiamo per cooperazione quella associazione libera di lavoratori, che si uniscono per difendere e per elevare le condizioni dei soci, ma che abbiano una visione più ampia, più vasta: di portare la loro attività a beneficio di tutta la Nazione. Questo è il movimento cooperativo, e negli statuti nuovi delle cooperative che sorgono si introducono appunto tali norme, perché i soci abbiano come mèta questa finalità superiore.
Io quindi confido che l’Assemblea Costituente vorrà ratificare questo articolo proposto dalla Commissione, con l’emendamento che noi abbiamo presentato, per togliere ogni dubbio di ingerenze inutili nella vita delle cooperative. E sono certo, come siamo certi tutti noi socialisti, che il movimento cooperativo, se verrà aiutato e sviluppato, porterà un notevole vantaggio all’intelligente operosità, alla feconda iniziativa dei lavoratori, e sarà di notevole vantaggio alla nostra ricostruzione e alla ripresa economica della Nazione. (Applausi).
PRESIDENTE. Segue l’emendamento degli onorevoli Canevari, Cairo, Zanardi e Filippini:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione a carattere mutualistico e senza fini di speculazione privata. La legge ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei, facilita lo svolgimento della sua funzione e ne assicura il carattere e le finalità attraverso gli opportuni controlli».
L’onorevole Canevari ha facoltà di svolgerlo.
CANEVARI. Onorevoli colleghi, sulla cooperazione esistono ancora molte incertezze e si hanno idee poco precise e poco chiare. Alcuni considerano la cooperazione come un mezzo per risolvere alla meno peggio i problemi più assillanti della vita quotidiana; altri vedono nella cooperazione la soluzione di tutte le ingiustizie umane. Molti sono gli amici della cooperazione; ma forse essi sono molti, appunto perché molte sono le incertezze e poco chiare le idee che si hanno in proposito. Vi è chi pensa la cooperazione come una forma di organizzazione a carattere di conservazione sociale. Se l’iniziativa riesce, essi pensano, la cooperativa finisce presto col tramutarsi in una organizzazione di artigiani; se l’iniziativa fallisce, la cooperativa si scioglie e gli aderenti ritornano presto alla loro servitù economica. Vi sono altri invece che vedono la cooperazione come un mezzo di lotta contro le ingiustizie sociali e una possibilità di trasformazione della società contemporanea in un nuovo ordinamento basato sulla solidarietà umana.
Non è facile definire la cooperazione. A noi preme non di darne definizione, ma di affermare in modo chiaro i caratteri, gli scopi e le finalità della cooperazione. È più facile intenderci quando noi abbiamo chiarito che cosa intendiamo per cooperazione e ci siamo intesi sulle sue finalità e sui suoi compiti.
La cooperazione non è un’associazione politica, come sono i partiti; non è un’associazione professionale, come sono i sindacati: è un’associazione economica a fini sociali.
Dal punto di vista economico essa si propone di realizzare ogni impresa senza scopo di lucro. In essa ogni utile è appropriabile collettivamente. La cooperativa si propone la subordinazione del capitale al lavoro, la soppressione dell’imprenditore come individuo. Dal punto di vista sociale la cooperativa è una organizzazione volontaria di attività associate su base mutualistica e solidaristica.
Possiamo riassumere i caratteri della cooperazione e le sue finalità quali devono essere considerate nella Costituzione, nel modo seguente.
La cooperazione deve essere basata sui principî della mutualità e deve essere ispirata ad alte finalità di libertà umana. In tal modo essa costituisce un efficace mezzo di difesa dei produttori e dei consumatori dalla speculazione privata, e di elevazione morale e materiale delle classi lavoratrici. Perciò essa deve essere considerata dallo Stato e dagli enti pubblici:
1°) nella produzione e nel lavoro, come mezzo di controllo nei confronti delle imprese capitalistiche interessate nella esecuzione dei lavori pubblici; onde la possibilità di moralizzare gli appalti pubblici;
2°) nell’agricoltura, come la forza del lavoro impegnata nelle trasformazioni culturali che stanno alla base della auspicata riforma agraria;
3°) nel consumo, come lo strumento più efficace per la distribuzione delle merci di più largo consumo popolare e di difesa contro l’usura;
4°) nella edilizia, per facilitare alle classi lavoratrici, e particolarmente alle classi impiegatizie, il modo di procurarsi una abitazione igienica e confortevole;
5°) nelle industrie dei pubblici servizi, come preparazione dei lavoratori ad assumere la responsabilità diretta della produzione e delle gestioni più complesse nell’interesse generale;
6°) nella pesca, come il mezzo più idoneo per la utilizzazione razionale delle acque demaniali e per la gestione dei centri di raccolta del pesce, nell’interesse del consumo popolare;
7°) nel credito e nell’assicurazione, per risuscitare attorno alle banche popolari, alle casse rurali e alle mutue assicuratrici la fiducia e l’attaccamento dei piccoli risparmiatori;
8°) infine nella emigrazione, per valorizzare l’opera degli emigranti italiani all’estero.
Ciò premesso, lo Stato deve aiutare con i mezzi più efficaci il sorgere, il innovarsi e lo svilupparsi di un sano movimento cooperativo basato sui principî e sulle finalità sopra esposte. Da qui il controllo da esercitarsi, direttamente o per mandato, da parte dello Stato sul movimento cooperativo. Non si può chiedere l’intervento dello Stato, se contemporaneamente allo Stato non è consentito di esercitare il dovuto controllo. Nessuna preoccupazione per il controllo e la vigilanza da esercitarsi sulla cooperazione che voglia essere tutelata, difesa e sorretta dallo Stato per i suoi fini sociali. Tale controllo e tale vigilanza non possono essere esercitati che dallo Stato direttamente o per delega. Vediamo quello che avviene nelle altre Nazioni. Brevemente vi dirò che l’Italia, quando noi respingessimo dalla Carta costituzionale il principio del controllo sulla cooperazione, fra tutte le Nazioni civili sarebbe l’unica eccezione.
La Germania, col testo unico 20 maggio 1898, stabilì le ispezioni, almeno ogni due anni, di tutte le operazioni sociali nei rami delle amministrazioni delle cooperative, da effettuarsi da un revisore esperto non appartenente alla società. Si ammetteva che le cooperative potessero unirsi in consorzio, che avessero il compito di eseguire direttamente il controllo sulle cooperative consorziate. Ma questi consorzi a loro volta erano soggetti al controllo da parte dello Stato.
Il conferimento di tale facoltà era fatto dallo Stato federale e dal Consiglio federale e tale facoltà poteva essere revocata dalla stessa autorità che l’aveva concessa.
Per le cooperative non consorziate la stessa legge tedesca ammetteva che il controllo dovesse essere esercitato direttamente dal tribunale.
L’Austria vi provvedeva con la legge 1° giugno 1903, fondata sugli stessi principî della legge germanica.
Così per la Jugoslavia.
In Gran Bretagna, la madre della cooperazione (perché noi abbiamo, dal punto di vista non teorico, ma pratico, appreso molte cose dal movimento cooperativistico di quella Nazione), in Gran Bretagna, che ha molto da insegnare anche oggi, la revisione delle cooperative è obbligatoria ed è affidata all’Ufficio di Revisione statale. Tutte le società cooperative hanno i seguenti obblighi: registrazione; verifica annuale delle entrate, dei fondi e degli effetti sociali; inoltre, più ancora, un resoconto triennale dell’avere nella società di ogni socio, in titoli e mutai.
I revisori sono nominati dal Tesoro. E vi faccio presente, onorevoli colleghi, che la cooperazione in Gran Bretagna accetta questo rigido controllo cui è sottoposta, non perché abbia bisogno o richieda aiuti, sovvenzioni, protezione da parte dello Stato, di cui non ha e non ebbe mai bisogno, ma perché vede che soltanto attraverso questo controllo la cooperazione può dare la dimostrazione contante al pubblico, ai propri soci, a se stessa della sua funzione sociale, e che non viene mai meno al suo compito.
Nella Spagna, la revisione è affidala al Servizio della cooperazione presso il Ministero del lavoro e al Servizio di ispezione tecnica della previdenza sociale, nonché alla «Obra de corporación», che è una istituzione parastatale autonoma.
In Francia, la vigilanza è esercitata in modo permanente dagli Uffici Dipartimentali dell’Agricoltura.
In Portogallo, le leggi in vigore stabiliscono una vigilanza rigorosa per le cooperative che ottengono prestiti dalle banche di credito agricolo.
In Romania, la revisione è obbligatoria ed è esercitata dall’istituto Nazionale della Cooperazione con pieni poteri di controllo sulle cooperative.
Le cooperative devono essere ispezionate almeno due volte all’anno se sono di primo grado, ed almeno 4 volte all’anno se sono di secondo grado.
In Italia, del resto, il principio della vigilanza sulla cooperazione (come principio, perché purtroppo non è stato messo in atto; magari lo fosse stato! Non avremmo portato in questa Aula la nota del nostro rammarico su quello che è avvenuto nel campo della cooperazione, come ha ricordato l’onorevole Carmagnola)…
SCOCCIMARRO. Se ci fosse stato il controllo le cooperative nostre sarebbero state in condizione migliore.
CANEVARI. Sono perfettamente d’accordo con l’onorevole Scoccimarro, che potrebbe aggiungere qualcosa in proposito. Dicevo dunque che in Italia il principio della vigilanza sulla cooperazione è ammesso da oltre 40 anni, ma purtroppo non è stato sufficientemente applicato.
Basti ricordare, prescindendo dal 1926, (quando il fascismo al governo creò l’Ente nazionale fascista della cooperazione, ente che dipendeva dallo Stato), la legge del 30 dicembre 1909 sulle cooperative pescatori; la legge 25 giugno 1909 sulla cooperazione di lavoro; il testo unico del 1919 sull’edilizia popolare; la legge 7 febbraio 1923 sugli istituti di credito; ed infine il Codice civile. Come disegni di legge che prevedono il controllo obbligatorio per le cooperative devo qui ricordare quello Vivante del 1896, che non ha avuto attuazione; il progetto Luzzatti del 1° ottobre 1905 (entrambi sulle orme della legislazione tedesca ed austriaca, con l’aggiunta prevista dal Ministro Luzzatti di deferimento al tribunale per tutte le cooperative che non ottemperassero all’obbligo della revisione); il progetto Labriola presentato alla Camera dei deputati il 22 novembre 1920, simile in questo al progetto del nostro presidente della Commissione onorevole Ruini; per i quali le revisioni ed ispezioni erano da esercitarsi o dal Ministero del lavoro, o dalle Federazioni di cooperative all’uopo riconosciute, e a loro volta controllate dallo stesso Ministero.
Dal che si desume:
1°) che la revisione obbligatoria, affidata allo Stato, è praticata anche all’estero ed in Paesi che sono classici per la libertà e per lo sviluppo della cooperazione;
2°) che anche nei Paesi nei quali essa è demandata ad organizzazioni cooperative, l’intervento della Stato è sempre sancito, perché spetta allo Stato di concedere o di revocare tale facoltà, di dettarne le norme e di provvedere per le eventuali sanzioni.
A tutto questo dovrà quindi provvedere la legge. Siamo perfettamente d’accordo che non la Carta costituzionale ma la legge deve dettare tali norme; però, se la Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, la stessa Carta costituzionale deve di conseguenza riconoscere allo Stato il diritto al relativo controllo.
È da tener presente che su questo articolo era già avvenuto un completo accordo fra tutti i partiti; e mi sono meravigliato che all’ultimo momento gli amici della democrazia cristiana siano stati presi da tanti scrupoli e da tanta preoccupazione per le parole «vigilanza» o «controllo». Nella Commissione plenaria abbiamo presentato questo articolo, quale appare nel testo della Commissione, ottenendo l’unanimità. Nessuno ha parlato contro.
Ora, nell’articolo sostitutivo da noi proposto si afferma il riconoscimento da parte della Repubblica della funzione sociale della cooperazione a carattere mutualistico e senza fini di speculazione privata. Bisogna fare questa affermazione, perché non è possibile il riconoscimento della cooperazione nella sua funzione sociale, se non ci troviamo d’accordo su questi due principî, sui quali poggia tutta la struttura e l’architettura della cooperazione: la mutualità da una parte, e l’assenza assoluta di ogni speculazione privata dall’altra. Ho detto speculazione privata; ma con questo non si esclude, anzi si ammette, che la cooperazione possa fare le sue speculazioni, se legittime e controllate. Cessa la cooperazione di essere un’organizzazione a carattere mutualistico e sociale, quando vi si infiltrino elementi che possano esercitarvi speculazioni personali. La Costituzione deve limitarsi a queste affermazioni e a queste direttive, lasciando alla legge di provvedere alla disciplina del movimento cooperativo, in relazione agli sviluppi che la cooperazione assumerà nel tempo, ed in relazione alle particolari situazioni dalle quali emergeranno le necessità dei provvedimenti da adottarsi. (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Marina ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione e ne favorisce l’incremento».
Ha facoltà di svolgerlo.
MARINA. Rinuncio al mio emendamento, e mi associo a quello proposto dall’onorevole Bibolotti, perché mi sembra letteralmente più chiaro del mio.
PRESIDENTE. L’onorevole Bibolotti ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, ne promuove l’incremento e la tutela, allo scopo di assicurarne i caratteri e le finalità sociali».
Ha facoltà di svolgerlo.
BIBOLOTTI. Onorevoli colleghi, su questo problema della cooperazione non è male che la nostra Assemblea si intrattenga un po’ perché lo sviluppo di una sana cooperazione è garanzia, non solo di democrazia politica, ma di democrazia economica. Noi abbiamo bisogno, nel nostro Paese, non soltanto di veder sorgere delle cooperative, ma anche di potenziare la nostra economia con un vero e sano movimento cooperativistico. Quando ci troviamo di fronte alla iniziativa di lavoratori che si associano al fine di esercitare una attività produttiva, noi vediamo in questo un atto di coraggio e di fede. Lo Stato democratico e repubblicano di fronte alle iniziative cooperativistiche non può rimanere indifferente e non può considerare le cooperative come associazioni qualsiasi, né dal punto di vista economico, né da quello morale e giuridico.
La finalità sociale della cooperazione in che cosa consiste? Quando siamo d’accordo nel riconoscere questa finalità sociale, cosa intendiamo dire? Intendiamo dire che, nello sviluppo incessante della società, la cooperazione rappresenta un ponte di passaggio tra una economia interamente privatistica ed un’economia associata, che per noi è il socialismo. Ma la cooperativa non è il socialismo; è quel tanto di realizzazione di socialismo possibile nella società capitalistica, è quel qualche cosa che permette ai lavoratori di mettere in comune le loro energie, le loro intelligenze, i loro risparmi, le loro capacità di produzione.
Qui, noi comunisti, non abbiamo mai avuto indulgenza per una concezione della cooperazione direi avveniristica. Noi non ci siamo mai fatte illusioni, né ce ne facciamo, che, attraverso la cooperazione, si possa operare una profonda e radicale trasformazione della società e del suo sistema di produzione; ma non vi è dubbio che, specie in fase di transizione e di trapasso, tutte le iniziative dei lavoratori tendenti ad associarsi contro la speculazione nel campo del consumo sono un qualche cosa che deve essere guardato non soltanto con generica simpatia da parte di quanti amano il progresso e lo sviluppo sociale, ma, nella nuova Repubblica democratica, queste iniziative e questi sforzi devono considerarsi come una delle forze, come una delle vie che conducono veramente al progresso sociale.
Già nel passato il movimento cooperativo ha trovato dei legislatori che l’hanno considerato con una certa simpatia; ci voleva il ciclone del fascismo a farci ripiombare indietro anche in questo campo, ma è anche vero – come ho avuto occasione di dire ieri – che il fascismo non ha soltanto distrutto le cooperative, non le ha soltanto incendiate, saccheggiate e soppresse, ma ha corrotto lo stesso concetto della cooperazione. Nel Codice civile fascista c’è un capitolo che riguarda la cooperazione; nelle leggi fasciste si parla di cooperazione, e noi abbiamo ereditato l’ente fascista della cooperazione che non ha nulla a che fare con i principî della cooperazione, vale a dire coi principî mutualistici, coi principî solidaristici della cooperazione.
Ora, noi abbiamo bisogno di questo movimento ed abbiamo bisogno che questo movimento trovi in se stesso il risanamento necessario. Se malauguratamente in Italia non ci fosse la divisione nel campo delle organizzazioni cooperative, se il movimento della cooperazione, come il movimento sindacale, avesse trovato uguale unità associativa, l’autocontrollo, l’autovigilanza, avrebbero già notevolmente risolto l’assillante problema della necessaria distinzione fra la vera e la falsa cooperazione.
Oggi nuoce alla cooperazione l’esistenza di tutto un assai vasto settore di cooperative di speculazione, di cooperative improvvisate, di cooperative che, sotto il manto e l’etichetta della cooperazione, perseguono fini antimutualistici, antisolidaristici e di pretta marca speculativa. Ora, noi dobbiamo essere contro questa cooperazione spuria; ho fatto dei tentativi con gli amici degli altri settori per venire ad una formulazione comune. Io potevo anche accedere all’idea che della vigilanza e del controllo non si parlasse nel testo della Costituzione, per rimandarli alla legge. Ma, dal momento che la questione è posta, non si può più escludere il controllo, perché votare contro l’emendamento Canevari significherebbe respingere il controllo. Ora, io devo dichiarare che il controllo è il pensiero assillante di ogni buon cooperatore. Ogni nomo che ha responsabilità nel campo delle cooperative desidera, invoca, esige, il controllo. Quindi, io debbo ritirare il mio emendamento, debbo ritirarlo per dire che, sebbene il testo della Commissione sia per me il più soddisfacente, di fronte alle richieste del collega e compagno Canevari intendo associarmi al suo emendamento.
Così ritiro anche la mia firma all’altro emendamento formulato dagli onorevoli Dominedò e Cimenti.
Noi tutti oggi sentiamo la necessità del controllo, ed io domando agli amici della corrente democratico-cristiana…
CIMENTI. Qui nessuno nega il controllo.
BIBOLOTTI. Noi siamo alla ricerca della soluzione migliore. Sto svolgendo il mio pensiero e lo sto precisando. Dicevo che io potevo accedere all’idea che del controllo non si parlasse nel testo della Costituzione, perché appunto è la legge che deve regolare la forma, i limiti, i mezzi del controllo; ma, essendosi posto il problema se si debba o no introdurre il controllo, è necessario affermare che esso rappresenta una esigenza fondamentale per la sanità del lavoro cooperativo e di tutta la cooperazione.
SCOCCIMARRO. Effettivamente le cooperative sane lo vogliono, le cooperative non sane non lo vogliono.
CIMENTI. Io ho già affermato che vi sono già quattro controlli per la cooperazione.
SCOCCIMARRO. La verità è che ci sono di quelli che non lo vogliono né nella Costituzione, né nella legge.
CIMENTI. Non siamo certo noi che non lo vogliamo.
BIBOLOTTI. Per quale ragione noi dovremmo insistere per dire che non si parli di controllo? Io non vedo questa necessità.
È vero che in Italia ci sono molte false cooperative? È vero o non è vero che-quando si va nei Ministeri per chiedere qualche cosa di giusto per le cooperative ci si sente dire: Oh, la cooperazione, noi sappiamo che cosa è la cooperazione! C’è effettivamente una burocrazia anticooperativistica che si avvale appunto della esistenza delle cooperative non sane per mettersi contro le cooperative sane; e noi vogliamo togliere a questa burocrazia un’arma insidiosa che ci colpisce ingiustamente.
Noi dobbiamo auspicare che nella Costituzione, così come nella legge (c’è già un decreto in corso di esame che prevede ed organizza appunto il controllo), vi sia questa affermazione di un controllo che è stato concepito in seguito a nostre ripetute richieste, sia presso il Ministero delle finanze, sia presso il Ministero del lavoro. Io insisto dunque su questo: dal momento che se ne parla, credo che nessuno potrà votare contro il controllo. Io rendo omaggio alla tenacia del collega Canevari che è stato sordo alle nostre considerazioni di opportunità ed ha mantenuto il suo emendamento; comunque io mi associo all’emendamento più preciso, che meglio formula questa esigenza del controllo, perché votandolo non resta alcun dubbio.
Detto questo, io vorrei (poiché ad un certo momento si è ritenuto non fosse più il caso di parlare della proprietà cooperativa) che nella formulazione dell’articolo, ove si parla di questa esigenza di controllo e di vigilanza da parte dello Stato, si desse anche il significato del riconoscimento alla cooperazione della sua funzione sociale, non nel senso astratto e generale, ma nel senso di un tipo di proprietà che avvii il lavoratore all’autoproprietà, cioè alla creazione della proprietà per la via del risparmio associato; concetto questo che dovrebbe essere caro anche agli amici democristiani. Perché, l’idea che la proprietà sia basata sul concetto del risparmio, non è nostra, ma vostra. La proprietà cooperativa che si può creare attraverso il risparmio, ossia attraverso il concorso volontario di masse di cooperatori, specialmente nel campo del consumo, dovrebbe essere una idea cara anche a voi. Ora, se tutti noi, per una ragione o per un’altra, amiamo la cooperazione ed amiamo che sia garantita ed agevolata quando è sana, se vogliamo tutelare ed incoraggiare la creazione del risparmio cooperativistico e quindi della proprietà cooperativistica, io penso che dobbiamo trovare un accordo perché il concetto del controllo statale non venga oggi messo in dubbio, attraverso una votazione pro o contro. È un tentativo ingenuo che io faccio, ma io penso che ormai, posto il problema, come noi comunisti abbiamo accettato la formulazione dell’onorevole Canevari, chiedo che anche gli amici della democrazia cristiana, i quali hanno dichiarato di non esservi contrari, prendano insieme con noi, unanimi, questa risoluzione, in modo che si possa essere tutti d’accordo contro le false cooperative, contro la cooperazione spuria, e risulti che tutti insieme vogliamo che lo Stato incoraggi e promuova la cooperazione.
E ciò non vuol dire che lo Stato debba creare le cooperative: promuovere la cooperazione non significa infatti questo, ma significa che lo Stato non deve se non creare le condizioni che permettano ai cooperatori di non urtare contro un’ostilità preconcetta, come quella che c’è ancora in molta parte della burocrazia statale, sia al centro che alla periferia.
Si tratta insomma di creare un clima, di creare un’atmosfera di simpatia (che è certamente nelle nostre intenzioni di legislatori, ma che deve anche diventare patrimonio ideale) nei ministeri, nell’animo di chi deve decidere della vita o della morte di una cooperativa.
Molte volte, infatti, la sentenza di morte di una cooperativa si ha non già per mancanza in essa di spirito mutualistico, ma unicamente perché delle muraglie burocratiche si frappongono, nei ministeri e nei servizi delle opere pubbliche, fra le cooperative e la volontà progressiva del legislatore e del ministro. In generale, oggi si è piuttosto ostili alle buone cooperative e indulgenti con le false, ma più frequentemente ostili verso tutte le cooperative dei lavoratori.
Ora, l’idea della cooperazione deve trovare nello Stato democratico e repubblicano la piena comprensione. È per questa ragione che mi associo all’emendamento presentato dall’onorevole Canevari e ritiro il mio. (Applausi).
PRESIDENTE. Gli onorevoli Macrelli, Spallicci, Martino Enrico, Bernabei, Magrini, Paolucci, Azzi, Della Seta, Conti e Perassi, hanno presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, basata sui principî della mutualità, e ne favorisce l’incremento, conformemente alla legge».
L’onorevole Macrelli ha facoltà di svolgerlo.
MACRELLI. Onorevoli colleghi, la Lega Nazionale delle cooperative, fino dal gennaio dell’anno scorso, aveva chiesto, in forma solenne, che nel progetto di Costituzione da discutersi in questa Assemblea fosse riconosciuto il principio della cooperazione. E giustamente ha fatto la Commissione dei settantacinque ad accogliere tale principio.
Io penso che l’Assemblea Costituente darà, in quelle forme che crederà più opportune, il consenso all’affermazione di un principio importantissimo per la vita sociale, politica e morale del nostro Paese. Ben a ragione ha voluto qualcuno ricordare quelle figure che hanno lasciato una traccia nella storia della cooperazione. L’amico Carmagnola ha ricordato Nullo Baldini, pioniere della cooperazione nella mia terra di Romagna, ed io mi associo al doveroso omaggio per quest’uomo che ha combattuto, ha lottato, ha sofferto per la redenzione della terra e dei lavoratori attraverso la cooperazione. Accanto a lui però voglio mettere anche le figure di umili, modesti operai, che in Romagna, attorno alle cooperative create, potenziate, animate dal partito repubblicano, hanno redento, bonificandole, terre su cui dominava la morte. Noi li ricordiamo tutti e il loro ricordo è sempre presente in noi, specialmente in quest’ora.
D’altro canto, io non so dimenticare, parlando di questo problema, quella che è la tradizione nostra. Il movimento cooperativistico ha sentito l’anima, la fede del Partito repubblicano. E nonché l’amico Canevari ricordava – soprattutto ad esempio e a monito nostro – quello che si è fatto nella lontana, democratica Inghilterra, io vorrei rammentare all’Assemblea che ad un certo momento nella vita del popolo inglese ha influito il pensiero di Giuseppe Mazzini per il movimento cooperativistico. Basta ricordare quello che in proposito ha scritto Bolton King. Consentitemi questo legittimo sfogo, che spero voi comprenderete e apprezzerete. E andiamo oltre.
La Commissione ha proposto l’articolo 42, formulato come voi sapete. Sul principio siamo tutti d’accordo: nessuno può venire qui a contrastare, sotto qualsiasi pretesto di fede, di idea, di tradizione, il principio della cooperazione. Il dissidio, se così si può chiamare, sorge invece sul modo del riconoscimento della cooperazione, basato sulla «vigilanza», ossia sul controllo da parte dello Stato.
L’onorevole Canevari, che è un valoroso cooperatore, accetta la formula della Commissione, salvo alcune varianti che voi avete sentito spiegare e illustrare. Mi consenta però di dirgli che io non so se il suo atteggiamento si identifichi in pieno con quello dei cooperatori che sono nella Lega Nazionale delle cooperative, da lui presieduta. Comunque, io non metto in dubbio soprattutto le premesse da cui egli parte, tanto più che non posso dimenticare che in fondo il suo orientamento risponde a quello che egli ed ì suoi compagni si sono fatti e si fanno dello Stato; in contrasto è l’onorevole Cimenti, il quale – se non erro – è Presidente della Confederazione delle cooperative italiane, che si ispira ai. principîi della dottrina sociale cristiana, la quale dice: «Niente controlli da parte dello Stato; via i controlli e, per il resto, riportiamoci alle disposizioni di legge».
CIMENTI. Noi vogliamo i controlli!
MACRELLI. Ora, noi conosciamo i termini della questione, onorevoli colleghi. Se da una parte gli amici che fanno capo all’onorevole Cimenti si turbano di fronte all’idea dell’intervento dello Stato, gli altri non se ne preoccupano. E allora vediamo se ci può essere una forma intermedia che concili l’aspirazione degli uni con quella degli altri.
L’articolo 42 è un po’ anodino; mi permetterete di dirlo: risente un po’ dello stile delle Costituzioni superate. Prendete un articolo dello Statuto albertino, per esempio, e vi troverete: «La stampa è libera». Questa è l’affermazione di principio; ma subito dopo ecco il correttivo: «la legge però ne reprime gli abusi».
E allora non bisogna esagerare né da una parte né dall’altra. Io ho presentato un emendamento firmato da parecchi colleghi del mio Gruppo. Non crediate che io ne voglia rivendicare in pieno la paternità. Non è germinato dal mio cervello… cooperativista. Io mi sono riferito – e stavo per dire che l’ho tradotto alla lettera – ad un articolo della Costituzione recentissima della Confederazione elvetica. La formula adoperata dalla Costituzione svizzera dice: «La Confederazione garantisce gli sviluppi delle organizzazioni economiche fondate sul principio della mutualità». Qui, in fondo, si dice tutto. La cooperazione non è tale se non è fondata sulla mutualità; e siamo perfettamente d’accordo con l’amico Canevari: è un’affermazione precisa e categorica che bisogna comprendere nel testo della nostra Costituzione.
S’intende che, fissato il principio, il resto sarà materia della legge e non può essere materia della nostra Magna Charta. Dirà la legge se e quando e in quali condizioni e che cosa lo Stato farà per garantire, sviluppare e controllare le cooperative. Questo io dico perché, fra l’accettazione incondizionata del controllo dello Stato – cui si riferisce un poco l’onorevole Canevari – ed il ripudio quasi assoluto dell’onorevole Cimenti, vi è la terza formula alla quale io mi riferivo: cioè quella per la quale l’ispezione, che potremmo definire ordinaria, sia fatta dagli organi centrali cooperativi e quella eccezionale sia fatta dallo Stato.
In conclusione, onorevoli colleghi, io ho cercato di riassumere questi miei principî nella formulazione di quell’emendamento di cui avete sentito dar lettura: «La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, basata sui principî della mutualità, e ne favorisce l’incremento, conformemente alla legge».
Perché non sorga alcun dubbio su questo mio emendamento, e soprattutto sulle ragioni e sul principio che l’hanno ispirato, vi dirò che io – e credo di non dire una cosa nuova, germinata solo dalla mia convinzione particolare e personale – sono favorevole a che anche in Italia si istituisca il Ministero della cooperazione.
E badate, onorevoli colleghi, non è la prima volta che in Italia si parla di questo Ministero. È un voto, starei per dire, unanime – espresso ai congressi della cooperazione – di tutti i partiti, di tutte le idee e di tutte le correnti. Quest’affermazione ha trovato una concreta estrinsecazione in altri Stati: per esempio, in Cecoslovacchia, Romania, Bulgaria, Ungheria e in molte Repubbliche Sudamericane.
Quando voi pensate che la materia relativa alla cooperazione è divisa in Italia fra sei Ministeri, molto spesso in contrasto fra di loro – anzi, sempre in contrasto fra di loro – voi comprendete forse che questa necessità s’impone alla nostra attenzione.
Ho finito, onorevole Presidente. Ma prima di finire mi consenta l’Assemblea che io approfitti di questa occasione per aggiungere alcune considerazioni.
Stiamo affrontando un tema importante e delicato, ed è bene che approvato il principio della cooperazione, sorga da noi, da questa libera Assemblea di rappresentanti del popolo, qualche altra affermazione. I futuri legislatori dovranno, ed anche noi dovremo pure, nella possibilità del tempo messo a nostra disposizione, affrontare questi problemi.
L’onorevole Bibolotti ha accennato al credito per le cooperative. C’è una Banca Nazionale del Lavoro, che avrebbe dovuto avere questa funzione; forse non ha potuto esplicarla. Bisognerà che tale funzione si esplichi veramente nei confronti e nell’interesse delle cooperative, non solo, ma occorrono disposizioni mitigative per quanto riguarda l’imposta generale sulla entrata che esenti dal pagamento della imposta il passaggio di merci e prodotti successivi a quelli di primo acquisto; è una necessità assoluta, richiesta dalle nostre cooperative.
E poi in ultimo – lo abbiamo invocato a piena voce qui in Assemblea, io, l’amico Canevari, e tanti altri colleghi che conoscono la vita di dolore delle nostre cooperative – noi abbiamo chiesto che finalmente il Governo provveda a far restituire alle cooperative i beni rapinati dal fascismo. Abbiamo parlato, non solo delle cooperative, ma anche dei comuni, degli enti pubblici, dei partiti politici. Vi è stata una vera razzia: la violenza morale e materiale si è abbattuta sulle nostre case e sulle nostre cose. È bene, è sopratutto dovere morale che il Governo provveda per una ragione elementare di giustizia. (Applausi).
PRESIDENTE. Gli onorevoli Cimenti e Dominedò hanno presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione. La legge ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura il carattere e le finalità».
L’onorevole Dominedò ha facoltà di svolgerlo.
DOMINEDÒ. Mantengo l’emendamento e lo illustrerò brevemente.
Mi associo allo spirito delle proposte già svolte da alcuni colleghi, e particolarmente dagli onorevoli Carmagnola e Macrelli, salvo qualche rilievo che sottoporrò subito all’Assemblea.
La cooperazione dev’essere riconosciuta nella sua funzione sociale, in forza della quale, per dirla con Mazzini, capitale e lavoro si riuniscono nelle stesse mani: tutti possiamo in ciò convenire. La funzione sociale della cooperazione, come tale, risulterà garantita, in quanto sia assicurato il carattere mutualistico che ne sta alla base: pure qui d’accordo. Infine, è conveniente che la legge favorisca l’incremento del fenomeno con i mezzi più idonei, acciocché si abbia una sana cooperazione, bastevole a se stessa: anche su questo aspetto possiamo trovarci perfettamente d’intesa.
A tali scopi e in vista di tali presupposti, la legge dovrà assicurare i caratteri e le finalità proprie della cooperazione. Questa ci sembrerebbe una disposizione costituzionalmente appropriata alla materia. Il divario sorge solamente in relazione all’ulteriore sviluppo del concetto, poiché anche noi conveniamo che allo scopo di assicurare i caratteri e le finalità di una sana cooperazione, non spuria né parassitaria, domani debbano operare idonei controlli.
In concreto, questi controlli potranno più o meno allontanarsi dagli schemi attualmente vigenti. La legge stabilirà, per quanto riguarda i controlli di legalità, eventuali ritocchi o innovazioni al sistema oggi affidato dal Codice civile al Tribunale.
Per quanto concerne invece i controlli di merito nella vita dell’azienda, dal punto di vista intrinseco dell’attività cooperativa, sorge un delicato problema che la legge potrà e dovrà risolvere in aderenza alle reali esigenze della materia, per assicurare vitalità al fenomeno e per apprestare alla cooperazione l’incremento che essa effettivamente meriti. Ma, se si vorrà definire il complesso tema, allo scopo che la cooperazione cammini per il naturale binario, secondo i propri caratteri e per il raggiungimento delle proprie finalità, noi pensiamo che non si possa oggi, in sede costituzionale, ipotecare il domani raffigurando fin da oggi il controllo come una funzione di Stato. Questo è il nostro dissenso; ma poste chiaramente le idee, le formule si trovano.
Noi prospettiamo, ad esempio, una soluzione la quale ha già dalla sua l’esperienza e la storia. Per quanto riguarda i controlli di merito, mi limito a prospettare un’ipotesi: se domani si potesse andare verso forme di autocontrollo, le quali rispondessero allo stesso principio di autogoverno della categoria, che abbiamo già affermato nel settore sindacale e che intendiamo rivendicare anche nel settore cooperativo, noi faremmo opera di vera democrazia. All’associazione rappresentativa della cooperazione potrebbe la legge affidare la vigilanza sugli organismi rappresentati: ciò sarebbe razionale e vantaggioso insieme.
Sotto questo aspetto io proporrei, riprendendo l’emendamento che aveva anche l’originaria firma dell’onorevole Bibolotti, una formula, in forza della quale la necessità del controllo risulta già affermata e prospettata costituzionalmente, sia pure come esigenza generica. Non si spiegherebbe altrimenti la formula proposta, secondo la quale la legge dovrà assicurare e «il carattere e le finalità» della cooperazione. Ammessa infatti questa necessità d’ordine economico e sociale, evidentemente essa deve essere realizzata attraverso strumenti idonei al fine: ed i mezzi rispondenti allo scopo saranno appunto i controlli da istituire democraticamente secondo la stessa volontà delle categorie e in aderenza all’interesse della collettività.
Ecco così risolto il problema in linea di principio. Di qui una formulazione generica, ma rispondente alla tecnica costituzionale: «la legge ne favorisce l’incremento, e ne assicura con i mezzi più idonei il carattere e le finalità». Di qui il riconoscimento dell’interesse pubblico legato alla gestione cooperativa; ma insieme la garanzia per la libertà delle iniziative, contro il pericolo dello statalismo.
Peraltro le formule proposte dai colleghi Macrelli e Carmagnola finiscono per rispondere al nostro concetto, in quanto le prospettive del controllo sono aperte, ma ad un tempo non ne compromettono le modalità ed i caratteri entro schemi obbligati in partenza.
Ricordando Maxwell, vorremmo evitare che la politica entri nella cooperazione, auspicando invece che la cooperazione inspiri la politica.
Sotto questi aspetti, noi crediamo umilmente di offrire un contributo per la rinascita viva e feconda della cooperazione italiana. (Applausi).
PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Cassiani, già svolto:
«Sostituire la parola: riconosce, con la parola: afferma».
CAROLEO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CAROLEO. Domando all’onorevole Canevari se abbia difficoltà di aggiungere dopo la parola «controlli» la parola «giudiziari» per determinare la natura della vigilanza. Questa deve sussistere, è indubbio, ma è bene precisare fin da ora ch’essa va sottratta al potere esecutivo, se vogliamo liberare le cooperative dal pericolo permanente della gestione commissariale. Indubbiamente, aggiungendo questa qualifica, si potrà anche arrivare a quella considerazione di autonomia di controllo a cui accennava poco fa l’onorevole Dominedò; perché il controllo giudiziale si potrebbe estendere in sede di esame degli statuti delle cooperative, stabilendo che questi enti debbano avere determinati controlli autonomi per conseguire il riconoscimento legale.
PRESIDENTE. Accetta, onorevole Canevari, la proposta dell’onorevole Caroleo?
CANEVARI. Mi dispiace di non potere accettare: se aggiungessimo quella parola, verremmo a rendere impossibile il controllo autonomo, che la legge potrebbe conferire alle organizzazioni sindacali.
DOMINEDÒ. D’accordo.
PRESIDENTE. Onorevole Caroleo, ella ha facoltà di presentare un emendamento, se intende insistere nella sua proposta.
Prego l’onorevole Relatore di esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti presentati.
GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Comincio dall’ultimo emendamento, quello dell’onorevole Cassiani, il quale propone di sostituire alla parola «riconosce» la parola «afferma».
È un mutamento di forma, che la Commissione non ritiene di accettare.
L’onorevole Colitto propone:
«È promossa ed agevolata l’impresa cooperativa di lavoratori o consumatori, che si associano, su basi di mutualità, per provvedere alla tutela dei propri interessi o per scopi di utilità generale».
Io non so se questa disgiuntiva «o» sia un errore del proto o se rappresenti il pensiero del proponente. In questo caso, la Commissione è recisamente contraria.
Secondo l’emendamento, lo Stato dovrebbe concedere agevolazioni anche alle cooperative che non abbiano altro scopo che quello della tutela e dell’incremento dei propri interessi; mentre invece, in tanto lo Stato agevola e favorisce, in quanto le cooperative abbiano scopi di utilità generale.
E vengo agli altri emendamenti.
A parte qualche mutamento di forma, che ha valore molto relativo, ciò che è sostanziale in tutti questi emendamenti e che li differenzia dal testo è che gli emendatori propongono la soppressione del «controllo» o della «vigilanza». L’onorevole Cimenti, che ha aperto il fuoco, è stato il più reciso nell’affermazione del proprio pensiero; pensiero che poi si è attenuato durante la discussione, fino ad arrivare alle ultime concessioni dell’onorevole Dominedò, che, mentre tace della vigilanza da esercitarsi dallo Stato, parla invece di autovigilanza da parte degli stessi cooperatori.
Con questo l’onorevole Dominedò ammette pur sempre la necessità d’una vigilanza.
In questa sua affermazione, egli era stato preceduto dall’onorevole Carmagnola, il quale aveva detto che il movimento dei cooperatori italiani è movimento sano e che essi stessi avrebbero vigilato, affinché la cooperazione non degenerasse in forme speculative.
Dunque, in sostanza, non si nega che vi sia la necessità di vigilare, di controllare.
Il dubbio che assillava lo spirito dell’onorevole Cimenti, mi pare si debba considerare svanito. Egli poneva questa domanda: perché la vigilanza? È forse suggerita da un senso di sfiducia nella cooperazione? Evidentemente no, rispondiamo, tanto vero che nella sua prima parte l’articolo 42 «riconosce» senz’altro «la funzione sociale della cooperazione» e si propone di favorirne «l’incremento».
Dice ancora l’onorevole Cimenti: si vogliono con questa vigilanza suggerire provvedimenti di polizia? Nemmeno per sogno. Si vuole solamente ovviare al pericolo che delle cooperative che hanno soltanto la veste di cooperative e sono invece società di speculatori, possano godere di vantaggi e favori che a loro non spettano e quindi frodarli. Questo è lo scopo che ci proponiamo.
L’onorevole Cimenti dice che c’è una contradizione in termini fra un articolo e l’altro, perché mentre qui sottoponiamo a vigilanza l’impresa cooperativa, che è una espressione della iniziativa privata, proclamiamo invece all’articolo 39 che «l’iniziativa privata è libera». Gli rispondo che è in errore. L’articolo 38 tratta precisamente il tema della «proprietà privata» dichiarando che «la legge ne determini i modi e i limiti»; il che vuol dire che la legge interviene allo scopo di impedire che l’iniziativa privata, degenerando, venga meno alla sua «funzione sociale».
Insisto quindi nel nostro concetto: perché lo Stato favorisca la cooperazione è giusto che eserciti su di essa la necessaria vigilanza e che tale vigilanza sia stabilita con legge.
DOMINEDÒ. Mi permetta, anche l’autocontrollo di categoria sarà stabilito per legge ed emanerà dalla volontà dello Stato.
GHIDINI, Presidente della terza. Sottocommissione. Devo aggiungere, a chiarimento, che nell’articolo 42 abbiamo di proposito usato la parola «vigilanza». L’emendamento dell’onorevole Bibolotti originariamente invece parlava di «tutela».
Le due espressioni non sono equivalenti. La «tutela» è più che la «vigilanza», perché mentre la prima si estrinseca in un’attività, positiva, l’altra invece si manifesta piuttosto in un’attività negativa. Nel caso della prima è più facile un intervento dello Stato che limiti la libertà dell’impresa, mentre nel caso della seconda lo Stato si limiterà alla difesa del suo diritto impedendo che le agevolazioni e i favori destinati alla vera cooperazione vadano a beneficio di coloro che non li meritano.
Per queste ragioni la Commissione insiste nel concetto di «vigilanza» e mantiene integralmente l’articolo 42, così come nel testo. Con questo non intendo, io personalmente, negare la mia simpatia per l’emendamento Canevari, che forse meglio precisa i caratteri della nostra cooperazione. Ad ogni modo, siccome tutto ciò che è necessario e sufficiente è già racchiuso nel testo, la Commissione, nella sua maggioranza, vi insiste.
PRESIDENTE. Come l’Assemblea ha udito, l’onorevole Ghidini ha dichiarato che la Commissione mantiene il testo dell’articolo 42.
Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?
COLITTO. Non lo mantengo ed aderisco all’emendamento, che è stato testé svolto dall’onorevole Dominedò.
Vorrei pregare, però, l’onorevole Dominedò di aggiungere, se lo crede opportuno, dopo le parole «e ne assicura», le altre: «con opportuni controlli», di modo che la chiusa dell’articolo suonerebbe così: «La legge ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura, con opportuni controlli, il carattere e le finalità». Infatti, come ha detto dianzi l’onorevole Ghidini, lo Stato dà del proprio alle cooperative e fa loro delle agevolazioni. Per questa ragione a me sembra che, dato che esiste sempre un pericolo di danno per lo Stato, sarebbe opportuno mantenere i controlli.
PRESIDENTE. Onorevole Cimenti, mantiene il suo emendamento?
CIMENTI. Vi rinuncio e mi associo a quello proposto dal collega Dominedò, e subordinatamente a quello dell’onorevole Macrelli, qualora questi vi insista.
PRESIDENTE. Onorevole Carmagnola, mantiene il suo emendamento?
CARMAGNOLA. Non ho difficoltà, dopo le spiegazioni che ho dato sulle ragioni che mi consigliavano di chiedere la soppressione della parola «vigilanza» – per cui ero favorevole al «controllo» –, ad associarmi all’emendamento Canevari, e ritiro senz’altro il mio.
PRESIDENTE. Onorevole Canevari, lei mantiene il suo emendamento?
CANEVARI. Lo mantengo accogliendo l’invito fattomi dì togliere le parole: «facilita lo svolgimento della sua funzione». Vorrei fare però una dichiarazione, rivolta direttamente alla osservazione fatta dall’onorevole Macrelli, e già svolta in questo emendamento, anche a nome e secondo le deliberazioni unanimemente assunte dal Consiglio direttivo della Lega nazionale delle cooperative. Faccio presente all’onorevole Macrelli che la relazione che ho presentata alla terza Sottocommissione era stata precedentemente approvata dal Consiglio direttivo della Lega, nella forma seguente: «Lo Stato favorisce con i mezzi più idonei lo sviluppo delle cooperative fondate sul principio della mutualità, e ne vigila il funzionamento».
PRESIDENTE. Onorevole Macrelli, mantiene il suo emendamento?
MACRELLI. Lo mantengo, ma non vorrei che attorno ad esso si creasse un’atmosfera di leggenda. (Rumori). Rispondo subito all’amico Canevari, che non metto in dubbio quanto egli ha dichiarato in questo momento. Ci sono state voci di dissenso, di cui si è avuto eco oggi in quest’Assemblea, ma il testo della Lega nazionale delle cooperative non è perfettamente uguale all’emendamento presentato dall’onorevole Canevari, e su quella formulazione forse avremmo potuto metterci tutti d’accordo. Per queste ragioni mantengo il mio emendamento.
PRESIDENTE. Onorevole Dominedò, lei mantiene il suo emendamento?
DOMINEDÒ. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Poiché l’onorevole Cassiani non è presente, il suo emendamento si intende decaduto.
Procediamo ora alla votazione dell’articolo e degli emendamenti.
Pongo in votazione la prima parte dell’articolo 42, comune anche a tutti gli emendamenti mantenuti:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione».
(È approvata).
L’emendamento Canevari, introducendo due concetti nuovi, si discosta maggiormente dal testo della Commissione, e pertanto procediamo alla votazione nelle sue varie parti.
Pongo in votazione l’espressione: «a carattere. mutualistico e senza fini di speculazione privata».
DOMINEDÒ. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DOMINEDÒ. In base ai concetti già esposti, e per quelle ragioni, voteremo contro, essendo il concetto della mutualità compreso anche nel nostro emendamento.
(Segue la votazione per alzata e seduta).
PRESIDENTE. Dato l’esito incerto della votazione per alzata e seduta, procediamo alla votazione per divisione.
(L’Assemblea approva – Applausi a sinistra).
Passiamo alla votazione della seconda parte dell’emendamento Canevari, così formulato dopo la soppressione, chiesta dallo stesso onorevole Canevari, delle parole: «facilita lo svolgimento della sua funzione»:
«La legge ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura il carattere e le finalità attraverso gli opportuni controlli».
EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
EINAUDI. Se ho votato la parte precedente dell’emendamento presentato dall’onorevole Canevari, ciò non accadde perché fossi persuaso della bontà del contenuto intrinseco di quell’inciso. Non posso dimenticare per dovere professionale un celeberrimo articolo di tanti anni fa, scritto da Maffeo Pantaleoni, in cui era dimostrato essere logicamente impossibile trovare un significato tecnico-economico al concetto della cooperazione. Fino ad oggi, che io sappia, nessuno è stato in grado di confutare quello studio del Pantaleoni. (Commenti). Ma ho votato quella prima parte dell’emendamento dell’onorevole Canevari perché vi era aggiunto quest’altro concetto che afferma il principio del controllo sulla natura delle cooperative e perché mi auguravo e mi auguro che il concetto sia interpretato nel senso che il controllo sia compiuto dai medesimi cooperatori (Commenti) al fine di poter accertare che nella cooperazione esiste sul serio la vera e sola caratteristica che la costituisce.
La caratteristica speciale della cooperatone è invece esclusivamente il senso di apostolato e di eroismo dei cooperatori. (Approvazioni). Tutti noi ricordiamo, ripensando all’epoca passata, il nome di Nullo Baldini, il quale apparteneva alle schiere socialiste. Non so a quali schiere appartenesse il Bizzozzero, il fondatore delle cooperative agrarie nel Parmense, del quale un altro cooperatore, il Guerci, narrò l’opera in un volume memorando; non so a quali schiere appartenesse il Buffoli, fondatore ed animatore dell’unione cooperativa di Milano. So che, finché questi uomini sono vissuti, la cooperazione si è ingrandita ed ha adempiuto ai suoi uffici, perché questi uomini erano uomini probi, perché erano uomini che non badavano al lucro, erano uomini che tutti gli imprenditori sarebbero stati felici di assumere ai loro stipendi, pagandoli molto più di quello che essi lucravano adempiendo ad un ufficio di apostolato.
Io mi auguro che coloro i quali dovranno esercitare questo controllo lo eserciteranno nel senso di escludere dal novero delle cooperative quelle nelle quali non esista il senso di sacrificio e di apostolato, che è la sola e vera anima, la sola caratteristica non misurabile e non calcolabile della cooperazione. (Applausi).
PRESIDENTE. Pongo in votazione la seconda parte dell’emendamento Canevari:
«La legge ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura il carattere e le finalità attraverso gli opportuni controlli».
(È approvata).
Restano così assorbiti gli emendamenti degli onorevoli Dominedò e Macrelli.
L’articolo 42 risulta, nel suo complesso, così approvato:
«La Repubblica riconosce la funzione sociale della cooperazione, a carattere mutualistico e senza fini di speculazione privata. La legge ne favorisce l’incremento con i mezzi più idonei e ne assicura il carattere e le finalità attraverso gli opportuni controlli».
Presidenza del Presidente TERRACINI.
PRESIDENTE. Passiamo all’esame dell’articolo 43:
«I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera».
A questo articolo sono stati presentati vari emendamenti. Il primo è quello dell’onorevole Marina, che propone di sopprimere l’articolo.
L’onorevole Marina ha facoltà di svolgerlo.
MARINA. Signor Presidente, onorevoli colleghi, ho chiesto col mio emendamento la soppressione dell’articolo 43 così come è stato formulato dalla Commissione, non perché io sia contrario in genere a quelle istituzioni od a quei provvedimenti che hanno lo scopo di migliorare sempre più le condizioni sociali dei lavoratori, ma perché sono persuaso che, per ragioni strettamente obiettive di carattere tecnico, l’articolo 43 tende principalmente a dar vita al consiglio di gestione, che per me e per i produttori nella loro generalità è dannoso all’azienda, anche se ha innegabilmente qualche aspetto che, in via tutto affatto teorica, possa sembrare utile.
La sua dannosità scaturisce principalmente dal fatto che, anziché essere strumento propulsivo e migliorativo della produzione, è quasi sempre ragione di inceppo e spesse volte di disordine, specialmente quando i membri che rappresentano i lavoratori lo usano demagogicamente come arma politica per raggiungere finalità che spesso nulla hanno a che vedere col buon andamento della produzione.
Ho detto che ragioni strettamente tecniche militano a favore della soppressione della attuale formula dell’articolo 43, che statuisce il diritto dei lavoratori di partecipare alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, diritto che non può che esercitarsi attraverso il consiglio di gestione o, peggio ancora, mediante l’inserimento dei lavoratori stessi negli organi di comando dell’azienda.
Non vi è chi abbia pratica di vita lavorativa e di conduzione di impresa che non riconosca come chi dirige un’azienda si avvalga quasi sempre, nel campo tecnico, di tutte le osservazioni, di tutti i consigli che il personale dipendente crede di suggerire nell’interesse e per il miglioramento della produzione, e come questo fatto sia avvenuto ed avvenga quotidianamente.
Ma questo fatto è ben diverso dal dover mettere al corrente i rappresentanti del lavoro di ogni particolare tecnico, amministrativo e commerciale che sono la essenza stessa della vita dell’azienda, la quale si giova e prospera specialmente in forza di questi accorgimenti tecnici, commerciali ed amministrativi che sono spesse volte veri e propri segreti; e non può né deve consentirsi questa conoscenza nell’interesse stesso dei lavoratori, verso i quali il capo dell’azienda, ossia l’imprenditore, ha delle responsabilità morali e materiali che possono paragonarsi a quelle che egli ha verso il capitale.
Perché esso imprenditore possa per intero assumere queste responsabilità, deve essere libero di governare l’impresa, mentre non si può non ammettere che il consiglio di gestione verrebbe a menomare la sua figura di dirigente responsabile dell’impresa, dato che la sua azione di comando sarebbe continuamente inceppata o ritardata dai pareri spesso discordi dei vari membri del consiglio di gestione, anche se essi esprimono pensieri in piena buona fede.
Ciò è perfettamente umano, perché si può certo parafare il detto che per ogni testa si ha un parere più o meno diverso. Viceversa l’azione di comando deve avere tutta intera la sua libertà; l’imprenditore, che per definizione è elemento dinamico, preoccupato più del domani dell’azienda che dell’oggi, è per questo fatto l’elemento propulsivo e direttivo dell’azienda medesima e pertanto sovrasta in lui il pensiero che l’impresa abbia vita lunga continuativa e tranquilla e in sempre crescente sviluppo.
Spesso egli deve prendere delle decisioni fulminee, che qualche volta – ad osservatori che non possono mettersi dal punto della sua visuale panoramica che abbraccia tutto il ciclo produttivo e direttivo – possono sembrare contrastanti e non producenti, così da far rimanere essi osservatori per lo meno perplessi nell’esprimere un parere.
Il lavoro che, di contro, in teoria, ha quasi le medesime finalità ed i medesimi intendimenti dell’imprenditore, è, per sue ragioni strettamente obiettive, più portato a preoccuparsi dell’oggi, ossia del vivere quotidiano e degli assillanti bisogni e piccoli problemi che innegabilmente tormentano i lavoratori di cui egli è l’immagine viva ed operante. Questo suo assillo lo porta quasi con fatalità a dare una straordinaria importanza a problemi che, visti nel quadro generale dell’interesse collettivo dell’azienda, hanno, sì, un posto non disprezzabile, ma non possono né debbono prevalere su quelli che sono la vita e l’essenza stessa dell’organismo aziendale.
Dobbiamo convenire che in tutti i dopoguerra, e particolarmente in questo, per noi italiani i problemi relativi al vivere quotidiano dei lavoratori si sono esasperati, e la duplice invasione di eserciti stranieri li ha ancora maggiormente aggravati. Dobbiamo convenire altresì che questi problemi sono ancora oggi sul tappeto, perché, per varie ragioni, non si è potuto o non si è voluto arrivare rapidamente alla loro soluzione.
Il problema fondamentale sta nell’ingrandire la torta e non nel modo di dividerla.
Il problema sta nel sollecitare tutte le energie produttive del Paese, nell’esasperarne le loro possibilità; e a mio avviso, l’ingerenza del lavoro nella gestione dell’impresa porta fatalmente ad una stasi nella sua vita e non ad una sollecitazione, quindi allontana sempre più la risoluzione del problema italiano, che è quello di produrre di più, consumare di meno ed esportare di più.
Abbiamo avuto purtroppo esempi – anche recenti – che i consigli di gestione, non solo hanno arrecato stasi nelle aziende ma hanno portato al collasso dell’azienda stessa. È a tutti noto che molte ed importanti aziende vivono una vita faticosa e precaria proprio per il fatto che gli organi di comando non hanno modo di operare liberamente.
Sono recenti i continui richiami fatti dalle stesse maestranze perché i vecchi imprenditori abbiano a riprendere il loro posto direttivo.
Io opino che l’azione di comando non si può esercitare a mezzadria, senza svuotarla di ogni significato e senza intralciare ogni attività aziendale; non vi può essere scissione fra la responsabilità, che cade piena ed intera sul capo dell’azienda, e l’azione di comando, che verrebbe così a scindersi se il lavoro fosse immesso nella gestione dell’impresa come è formulato nell’articolo 43.
Dalle esemplificazioni che abbiamo in atto in Italia ho tratto il convincimento che il consiglio di gestione tende ad essere o si presta a divenire organo a carattere prevalentemente politico e, come tale, elemento di continua agitazione e di continuo disordine nella vita dell’azienda che, viceversa, per rendere e progredire, ha bisogno di tranquillità e di continuità nell’azione direttiva.
Per me il consiglio di gestione non rappresenta neppure un elemento di elevazione sociale dei lavoratori, ma soltanto una conquista da parte di pochissimi di essi degli strumenti della produzione.
Nego che, nella generalità, detti lavoratori componenti i vari consigli di gestione possano avere la competenza e la esperienza adatte per manovrare le delicatissime leve di comando, e che le sappiano adoperare utilmente nell’interesse dei lavoratori che essi rappresentano.
Vediamo nella prassi costante della vita quotidiana di lavoro che man mano che un lavoratore si mette in evidenza perché, per doti naturali di intelligenza, di laboriosità e di volontà riesce ad acquisire le qualità necessarie per elevarsi e progredire, passa fatalmente di categoria in categoria, fino a divenire egli stesso imprenditore.
Di fatto le aziende che sono ben dirette e ben gestite hanno sempre modo di far progredire il personale che più si distingue per capacità, per assiduità e per intelligenza lavorativa.
Oserei dire che le aziende hanno sempre sete di personale capace e sono liete di poterlo rimunerare adeguatamente.
È ormai superata da tempo la mentalità che raffigura l’imprenditore intento a formare la propria fortuna sfruttando e danneggiando il lavoratore.
Da quando Ford, che fu certamente uno dei più grandi, se non il più grande industriale del mondo, enunciò e mise in pratica la sua teoria di pagar bene l’operaio, e farlo lavorare poche ore al giorno, affinché egli abbia il tempo e la volontà di godere i frutti del suo lavoro, perché nel contempo esso operaio è produttore e consumatore dei suoi prodotti, si è fatta strada ed è divenuta la universale teoria che il lavoratore è parte inscindibile ed operante nella vita e nella fortuna dell’azienda, pertanto, come tale, deve goderne i frutti attraverso il ben remunerato suo lavoro.
Dobbiamo serenamente riconoscere che alla evoluzione di questa mentalità molto abbiano contribuito nel passato le lotte intraprese dai partiti socialisti in favore dei lavoratori; ma dobbiamo altresì ammettere che ormai la lotta fra capitale e lavoro è superata dal fatale evolversi dei tempi e dal progresso, che è il regolatore supremo della vita economica lavorativa.
Pertanto la concezione moderna del lavoro vuole che i tre elementi della produzione, il capitale, l’idea impersonata dall’imprenditore, ed il lavoro, operino in modo ben distinto nei loro campi, se pur armonicamente fusi nello sforzo comune e con l’intendimento precipuo di dare al lavoratore il massimo benessere che la situazione economica dell’impresa e del Paese consente; ma esclude però che questo possa e debba avvenire attraverso il consiglio di gestione.
Se mi permettete, onorevoli colleghi, vorrei fare un’ultima osservazione politica che ha sapore paradossale, ma che serve anch’essa in certo qual modo a dimostrare che il consiglio di gestione, costringendo l’azione di comando ad operare a mezzadria, rende inefficiente e spesso dannosa l’azione stessa.
Sembra che col 15 maggio sarà abolito il prezzo politico del pane, che ha inutilmente gravato per tanto tempo sul bilancio dello Stato in misura di circa 8 miliardi al mese.
Fin dal passato settembre, nel mio primo discorso all’Assemblea, consigliai di abolire, e subito, detto prezzo politico: si sarebbero così risparmiati ad oggi circa 70 miliardi. Dicono le male lingue che ciò sia uno dei tanti dannosi frutti del comando a mezzadria cui fu costretto l’onorevole De Gasperi nell’amministrare e dirigere il Paese, da quella specie di consiglio di gestione che hanno formato in seno al Gabinetto i rappresentanti social-comunisti.
In questa mia immagine l’onorevole De Gasperi riveste la funzione dell’imprenditore nella conduzione dell’azienda Stato, che ora funziona purtroppo come noi conosciamo.
Abbiamo da una parte il Paese che si difende magnificamente col suo faticoso lavoro di ricostruzione, con la sua tetragona volontà di produrre sempre più e sempre meglio, onde poter dare ai propri figli quanto basti oggi per una vita biologicamente sana e domani per una vita migliore e più adeguata alla decorosità di un popolo civile e moderno.
È in tutti noi, in tutta la popolazione economicamente produttiva, la persuasione che si possano e si debbano superare tutte le odierne difficoltà, perché la produzione industriale per nostra fortuna tende lentamente a riportarsi nel suo complesso al livello dell’anteguerra, frenata solo dalla carenza di combustibili e di materie prime.
La produzione agricola, pur soffrendo per le condizioni stagionalmente non favorevoli, tende pure a riportarsi alla media del quinquennio anteriore alla guerra.
Dall’altra parte, invece, abbiamo un Governo che non ha saputo e non sa difendere adeguatamente il segno indispensabile per il moderno trasferimento della ricchezza, che è la moneta.
Si deve obiettivamente ammettere che la causa prima di questa grave iattura sia dovuta a quel comando a mezzadria voluto ed imposto per ragioni politiche dai partiti social-comunisti, e che queste ragioni hanno impedito o enormemente ritardato l’azione di drastici provvedimenti che soli avrebbero evitato il concretarsi dell’attuale preoccupante stato delle pubbliche finanze.
Ma, lasciando da parte questo importante argomento e le amare considerazioni che sgorgano spontanee dai nostri animi preoccupati e pensosi, come lo sono quelli di tutti gli italiani che come noi hanno a cuore i destini del Paese, mi sembra di aver esposto, se pur brevemente, le ragioni che m’indussero a proporre l’emendamento soppressivo dell’articolo 43.
Voglio però concludere che, amante come sono del lavoro in tutte le sue manifestazioni, sono pronto ad aderire a quelle norme che permettano la diffusione del benessere materiale e spirituale e la elevazione di tutte le categorie di lavorazione, e pertanto ritiro il mio emendamento e propongo il seguente altro sostitutivo:
«Ai fini del potenziamento dell’attività produttiva delle aziende e della elevazione dei lavoratori, la legge stabilisce le norme per attuare la più efficace collaborazione tra il lavoro ed il capitale».
Con l’articolo così formulato restano aperte tutte le strade che la esperienza passata ed il progresso avvenire ci suggeriranno di seguire con tutte quelle cautele che il delicatissimo problema sociale impone per il sempre maggiore benessere spirituale e materiale della collettività.
PRESIDENTE. Segue l’emendamento dell’onorevole Colitto, già svolto:
«Sostituirlo col seguente:
«I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse».
Segue l’emendamento degli onorevoli Corbino, Quintieri Quinto, Colonna e Bonino:
«Sostituirlo col seguente:
«La Repubblica favorisce le iniziative dirette alla più efficace collaborazione fra il capitale ed il lavoro per il potenziamento della produzione».
L’onorevole Quintieri Quinto, secondo firmatario, ha facoltà di svolgerlo, in assenza dell’onorevole Corbino.
QUINTIERI QUINTO. Ho poche parole da dire. Per noi liberali l’efficienza economica ha la precedenza su tutto. Il nostro Paese è povero di materie prime, di capitali e di territorio. Occorre evitare qualsiasi sperpero di energie e di mezzi. Ecco perché nel nostro emendamento proponiamo che la Repubblica faccia ogni sforzo e prenda tutti quei provvedimenti che possano ridurre la lotta fra il capitale ed il lavoro che rappresenta uno dei maggiori sperperi di forze, e porta con sé una diminuzione di efficienza. Presto o tardi la necessità di ottenere nell’interesse generale il massimo di produzione possibile con il minimo di mezzi s’imporrà al nostro Paese. La guida dell’azienda industriale italiana, con la scarsezza di materie prime nazionali, di capitali e di tutto, è un compito duro e difficile; è una battaglia continua contro ogni specie di difficoltà e di ostacoli che premono da ogni parte. Noi pensiamo che ancora per qualche tempo si debba restare con le nostre organizzazioni industriali sulle vecchie linee, su quei sistemi cioè che hanno assicurato a questo paese, fra tante deficienze e tante avversità, un livello di organizzazione tecnica e produttiva che può stare a fronte di quello degli Stati più progrediti di Europa. Noi pensiamo che la responsabilità di tale azione di guida, dalla quale dipende in larga misura l’avvenire delle aziende, non possa essere frazionata fra diversi elementi che se la palleggerebbero tra di loro. Ciò equivarrebbe ad annullarla ed a paralizzarla. E le nostre aziende vivono tanto per le indiscutibili qualità di intelligenza, di operosità, di abnegazione, dell’operaio, del contadino, dell’impiegato italiano, quanto per la ingegnosità e la capacità dei loro dirigenti. Togliete o limitate uno di questi due fattori e la efficienza economica del paese si abbasserà. Le conseguenze di ciò sono troppo evidenti perché si possa rubare del tempo con l’esporle a questa Assemblea, specialmente in un momento come quello attuale e quando innanzi a noi vi sono tanti compiti, tanti doveri e tanto lavoro da assolvere. Fino a tanto che la nostra ricostruzione e riorganizzazione industriale non avranno raggiunto un grado tale da permetterci senza pericolo ulteriori trasformazioni amministrative, siamo convinti che i consigli di gestione costituirebbero un serio intralcio alla ripresa.
Ecco perché noi voteremo contro i consigli di gestione, mentre siamo favorevoli a qualunque altra disposizione di legge od organizzazione, che valga a diminuire l’attrito e la lotta tra capitale e lavoro, attrito e lotta che non sono inevitabili e fatali, e che giudichiamo un fenomeno dannoso, se pur passeggero, dato che rappresentano una diminuzione della potenzialità economica. Ed anche per un’altra conseguenza ancor più grave e deleteria che essi apportano, cioè per la posizione di dipendenza in cui la suddetta diminuzione di potenzialità finirebbe col mettere necessariamente il nostro paese nel confronto delle altre Nazioni. (Applausi a destra).
PRESIDENTE. L’onorevole Romano ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«I lavoratori partecipano alla vita delle aziende, ove prestano la loro opera, a mezzo di rappresentanti elettivi aventi funzioni consultive, nei modi stabiliti dalle leggi».
Poiché l’onorevole Romano non è presente, si intende che abbia rinunciato a svolgerlo.
L’onorevole Perrone Capano ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«La legge stabilisce i modi e i limiti della partecipazione dei lavoratori agli utili dell’attività produttiva».
Ha facoltà di svolgerlo.
PERRONE CAPANO. Ritiro l’emendamento.
PRESIDENTE. Gli onorevoli Malvestiti, Cappugi, Zerbi, Belotti, Balduzzi, Avanzini, Morelli, Pat, Sampietro, Cotellessa, Bianchini Laura, Benvenuti, Castelli Avolio, Gui, Quarello, Meda, Delli Castelli Filomena, Gortani, Clerici, Baracco, Angelini, Arcaini, Bovetti e Monticelli, hanno presentato il seguente emendamento:
«I lavoratori hanno diritto di compartecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione ed al capitale delle grandi imprese capitalistiche. A tal fine la legge riconoscerà il diritto delle categorie lavoratrici di essere rappresentate nei consigli di amministrazione delle rispettive imprese, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria: e favorirà l’accesso all’investimento azionario del libero risparmio dei lavoratori».
L’onorevole Malvestiti ha facoltà di svolgerlo.
MALVESTITI. Onorevoli colleghi, non mi faccio molte illusioni sulla possibilità che il mio emendamento sia approvato. Vi sono alcuni principî dottrinali che sono difesi addirittura con furore teologico. Vi è anche una realtà parlamentare che non si può negare.
Ho presentato questo emendamento, perché risponde ai postulati ed alla tradizione di tutta la dottrina cristiano-sociale, che è basata sul solidarismo.
Noi riteniamo che anche nel più piccolo baratto ricorra un principio di solidarietà umana, che non si può negare. Riteniamo che un giorno avremo ragione, perché il cuore ha sempre ragione.
Perché ho presentato l’emendamento? Anzitutto, per una ragione logica, direi addirittura grammaticale.
Sull’articolo 43, com’è formulato dalla Commissione, si impone subito una domanda: a favore di chi i lavoratori hanno diritto di partecipare alla gestione delle aziende? E poi si pone un problema preciso: se l’attuale organizzazione sociale risponde a principî assolutamente insuperabili e se, quindi, ogni volontarismo economico sia assolutamente fuori di posto, oppure se dobbiamo almeno tentare di trasformarla e di superarla, perché risponda, non solo al principio della massima produttività, ma altresì a quello della giustizia sociale.
Come superarla? Noi non crediamo nella palingenesi finale, nel rovesciamento dell’economia capitalistica. Non crediamo che l’economia capitalistica si possa rovesciare in un nuovo ordinamento sociale, anche perché temiamo tutto ciò, non tanto perché si rovescerebbe colle sue gerarchie già pronte e colle sue strutture tecniche, ma altresì si rovescerebbe nel nuovo ordinamento collettivistico, col suo spirito faustiano, che è spirito di negazione sostanziale dei beni spirituali dell’uomo.
D’altra parte, c’è una questione di tempo. Se dobbiamo aspettare questa famosa palingenesi, aspetteremo forse dei secoli, certamente dei decenni.
Il lavoratore ha, invece, il diritto di partecipare subito a quello che si è chiamato il banchetto comune. Vi sono obiezioni fatte da tutte le parti. Chi le ha fatte con maggiore efficacia è un grande maestro, Maffeo Pantaleoni.
Egli faceva due osservazioni: prima, che se ciò che si dà all’operaio eguaglia almeno il suo contributo di lavoro, l’azienda può vivere, altrimenti no; la seconda: che egli non riesce a rendersi conto come vi possano essere più impresari in una unica azienda.
Ora a me sembra, con tutto il rispetto per l’insigne maestro, che egli non abbia messo esattamente a fuoco il problema.
Non si tratta di una questione di utilità marginale del lavoro, ma di far partecipare i lavoratori al profitto delle aziende. Quando si dice profitti sembra che si dica una cosa molto semplice; si dice invece una cosa molto complessa, che non è stata neanche esplorata a sufficienza dagli stessi economisti; si dice una cosa misteriosa.
Possiamo analizzare costi, interesse sul capitale, compenso per il rischio, compenso per il lavoro di direzione, ma non basta; vi sono le rendite di tipo marxiano, quelle famose rendite che si formano non si sa come, che non sono dovute all’abilità, al rischio dell’impresario, quanto a una serie di numerosi elementi: popolazione, struttura tecnica e tante altre cose che non dipendono affatto dall’azienda. Ora, quando si domanda di far partecipare il lavoratore a una più equa ripartizione del profitto, si risponde ad una necessità, ad una giustizia che perfino Stuart Mill aveva affermata e nello stesso tempo si accresce la produttività dell’azienda.
Impresario unico. Anche qui ho l’impressione che l’insigne maestro non si rendesse ben conto di quello che si voleva.
Comunque, noi abbiamo detto che «a tal fine la legge riconoscerà il diritto delle categorie lavoratrici di essere rappresentate, nei consigli di amministrazione delle rispettive imprese, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria».
Questo perché vogliamo che il lavoro sia rappresentato al solo titolo di essere lavoro; ma abbiamo parlato prima della gestione e dei capitali delle grandi imprese capitalistiche. Ci rendiamo conto che nelle piccole e medie imprese la figura dell’imprenditore è ancora essenziale. Siamo molto perplessi davanti alla essenzialità di questa grande figura nelle grandi imprese, dove non c’è più l’impresario, l’imprenditore, ma semplicemente azionisti; dove la struttura delle imprese è complessa e diversa di quella delle piccole e medie imprese.
Finalmente abbiamo parlato di favorire «l’accesso all’investimento azionario del libero risparmio dei lavoratori», perché siamo convinti che si dovrà un giorno arrivare all’azionariato del lavoro, a questa collaborazione del capitale e del lavoro, che dovrà portare ad una più equa e più giusta società; perché, ripeto, può darsi che la dottrina di oggi ci dia torto, ma i fatti ci daranno ragione, perché il cuore, la fraternità umana hanno sempre ragione. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. L’onorevole Camangi ha presentato il seguente emendamento:
«Sostituirlo col seguente:
«I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione e agli utili delle aziende ove prestano la loro opera».
L’onorevole Camangi ha facoltà di svolgerlo.
CAMANGI. Onorevoli colleghi, come probabilmente avrete rilevato dal fascicolo, il mio emendamento è di una semplicità estrema. Io ho semplicemente e puramente inserito nel testo del progetto il principio della partecipazione agli utili accanto a quello della partecipazione alla gestione. Si tratta quindi, direi, di prendere o lasciare; si tratta di porre il problema ed il quesito e di accettarne la soluzione.
Ritengo perciò che non sia necessario né opportuno che io mi dilunghi in una illustrazione di questo principio. Sarebbe, oltre tutto, una pretesa assurda da parte mia voler fare un discorso, un esame approfondito del problema. Il problema è ormai sentito da tutti, e non si può pensare di esaminarlo e analizzarlo in dieci minuti.
Nel momento in cui – e soltanto su questo voglio richiamare la vostra attenzione – affermiamo nella Carta costituzionale della Repubblica il diritto dei lavoratori, che in un certo senso diventerebbe una specie di dovere, a partecipare, a contribuire alla gestione dell’azienda presso la quale prestano la loro opera, io ritengo che sarebbe gravissimo errore non affermare contemporaneamente il sacrosanto diritto dei lavoratori a partecipare agli utili prodotti dal loro lavoro, che in questo caso aumenterebbero di valore perché accanto al lavoro puramente manuale, particolare, che danno all’azienda, essi darebbero qualche cosa di più, perché verrebbero a contribuire all’indirizzo della gestione generale dell’azienda stessa. Sarebbe un gravissimo errore ed i lavoratori non ci capirebbero. I lavoratori non capirebbero quella sottile spiegazione o quella sottile distinzione che si fa da taluno per cui la partecipazione alla gestione dovrebbe rappresentare soltanto un avviamento, una preparazione, direi una educazione, per avere domani diritto alla partecipazione agli utili. I lavoratori resterebbero con la bocca amara, perché essi attendono da noi che finalmente venga affermato questo principio. Essi attendono da noi l’attuazione, finalmente, di questa secolare loro aspirazione e noi, onorevoli colleghi, non possiamo deludere questa aspettativa senza mancare, io credo, gravemente al nostro dovere. E dobbiamo fare tranquillamente questo passo sulla via dell’emancipazione del lavoro, anche perché abbiamo fede non soltanto nella giustizia del principio, ma anche nell’utilità della realizzazione, e perché dobbiamo essere sicuri che essa rappresenterà, oltre tutto, un valido contributo al potenziamento, all’aumento della produzione nazionale di cui abbiamo tanto bisogno, ed anche un validissimo contributo alla pacificazione sociale di cui, credo, abbiamo certamente non minore bisogno. Non si commetta, d’altra parte, onorevoli colleghi, l’errore di ripetere le viete e vecchie obiezioni, offensive anche per i nostri lavoratori, circa la pretesa loro immaturità a godere di questo nuovo diritto e circa la generica, direi generale, immaturità del problema per la sua soluzione. Permettetemi, a questo proposito, di sottoporre alla vostra meditazione un ordine del giorno che fu votato nel 16° congresso delle Società operaie affratellate, che si tenne in Firenze il 24 giugno del 1886, ben 61 anni fa! È un ordine del giorno brevissimo, non vi allarmate. Lo sottopongo alla vostra meditazione, anche perché vorrei richiamare la vostra attenzione su di un particolare aspetto dell’ordine del giorno che, come ho detto, si votava 61 anni fa. In questo ordine del giorno non erano contenute, come potrebbe aspettarsi, le solite affermazioni utopistiche, o avveniristiche, ma si affrontava il problema con un senso di concretezza che deve farci riflettere, come deve far riflettere molti scopritori ed inventori odierni.
L’ordine del giorno diceva testualmente così: «Il Congresso dichiara che la partecipazione agli utili del lavoro si può verificare in modo perfetto soltanto con la cooperazione; che però essa deve riconoscersi attuabile e raccomandarsi anche in tutte le altre forme di produzione, come strumento di garanzia dell’armonico svolgimento degli interessi coesistenti del capitale e della mano d’opera, mediante liberi patti fra lavoranti ed imprenditori…». E, badate, si scende anche al dettaglio e si propongono persino soluzioni concrete. «E come provvedimento attuabile, che sfugge all’iniziativa e all’opposizione degli interessati, il Congresso, mentre afferma che per i lavori ordinati dallo Stato, provincie e comuni e da ogni altro ente che amministra il patrimonio pubblico, sia contemplato nei capitolati di appalto un minimo delle mercedi, afferma pure che per i suddetti lavori i capitolati di appalto contengano il principio della partecipazione dei lavoratori negli utili dell’impresa».
Vi ho pregati, onorevoli colleghi, di meditare sul senso di concretezza e di attuabilità di questo ordine del giorno che i nostri amici di 61 anni fa votarono con tanta consapevolezza e tanto slancio per il raggiungimento delle conquiste sociali. Non aggiungo altro; vi dico soltanto che quel Congresso era presieduto da Aurelio Saffi e che, fra gli organizzatori di esso vi era Antonio Fratti, di cui ricorre in questi giorni il cinquantenario della morte gloriosa. Celebriamo, onorevoli colleghi, questo cinquantenario con un atto di fede, celebriamolo con l’adempimento di quel voto. (Applausi).
PRESIDENTE. L’onorevole Nobili Tito Oro ha presentato il seguente emendamento:
«Dopo le parole: I lavoratori hanno diritto di partecipare, inserire: per mezzo di propri rappresentanti in un comitato paritetico coi rappresentanti dell’impresa».
Ha facoltà di svolgerlo.
NOBILI TITO ORO. Mi si consenta, onorevoli colleghi, di manifestare subito la mia profonda sorpresa ed il mio rammarico di fronte alla preoccupazione, alla diffidenza, al senso di paura, da cui una parte di questa Assemblea si è dimostrata pervasa di fronte alla enunciazione dell’articolo 43, che riconosce ai lavoratori il diritto di partecipare alla gestione delle aziende presso le quali prestano l’opera propria.
A me pare che qui non si tenga conto della situazione presente, dalla quale la nostra industria e la nostra economia hanno bisogno di risorgere; e che non si consideri l’impossibilità di riuscirvi fuori della reale collaborazione fra masse lavoratrici e imprese.
A me pare che non si sia tenuto conto nemmeno di altre enunciazioni che abbiamo già approvate, per le quali la Repubblica si è già ormai impegnata, per nostro mezzo, a chiamare i lavoratori alla partecipazione effettiva alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese e a garantire la rimozione degli ostacoli che si frappongono all’attuazione dell’uguaglianza fra i cittadini; noi abbiamo anche fondato il principio che la Repubblica garantisce ai meritevoli ed ai capaci, anche se privi di mezzi, il raggiungimento dei gradi più alti dell’istruzione. E con ciò abbiamo reso operante un principio di eguaglianza potenziale per tutti che garantisce il trampolino di lancio verso la vita e che permetterà a ciascuno, al figlio del diseredato come al figlio del ricco, di partire alla pari verso la conquista della medesima meta. Non possiamo prescindere da questo elemento, pel quale molti figli di operai potranno domani pervenire alla dirigenza delle grandi imprese e a gradi eminenti nella vita politica del Paese. A questa possibilità individualistica deve corrisponderne altra analoga sul terreno di massa: anche alle masse lavoratrici dobbiamo, ormai, concedere quella elevazione cui da tempo giustamente aspirano; e non la concederemo per spirito di liberalità, per puro senso di dovere sociale, ma perché in contraccambio le masse ci assicurano di associarsi allo sforzo delle imprese per lavorare in fusione d’intenti, per garantire il maggiore rendimento e il più esatto sviluppo del lavoro.
Questi sono i problemi che noi affidiamo ai consigli di gestione, tutti problemi che riguardano la produzione, indipendentemente da quelli sindacali, per i quali funzionano da tempo le Commissioni interne. Come dal riconoscimento del diritto di tutti a raggiungere i gradi più alti dell’istruzione dipende per ciascuno la possibilità di farsi il proprio avvenire, di trasformarsi veramente in artefice della propria sorte e della propria fortuna, così, dando alle maestranze il diritto di partecipare alla gestione delle imprese, noi le facciamo arbitre della sorte di questa, cui è legata la loro e quella delle rispettive famiglie, nonché la fortuna delle zone in cui vivono e quella dell’economia del Paese.
Tale è la funzione sociale dei Consigli di gestione; e la proposta di questo istituto non rappresenta alcunché di nuovo e di inesplorato, perché essi sono già stati sperimentati largamente in Europa. In Germania essi funzionano dal 1905 e a nessuno può venire in mente che la Germania non ne abbia tratto profitto e che le industrie tedesche non debbano anche ad essi lo sviluppo raggiunto. E così le industrie inglesi hanno tratto da essi altrettanto profitto: in Inghilterra sono stati attuati sin dal 1921 ed esistono oltre mille consigli di fabbrica e più di 300 consigli distrettuali. In Francia essi sono stati istituiti fin dal novembre 1944 e una ordinanza del 22 febbraio 1945 li disciplina e li potenzia, rendendoli così popolari che con provvedimento del maggio 1946 sono stati estesi anche alle amministrazioni pubbliche.
Ed allora, perché proprio noi dobbiamo paventare la soluzione di questo problema? Io penso che nessuno possa negare a se stesso i risultati che da questa realizzazione sono destinati a svilupparsi: essa trasformerà l’operaio da cieco strumento di lavoro materiale, da leva di comando nelle mani dell’impresa in elemento consapevole del processo della produzione, desideroso di migliorare l’industria nella collaborazione intelligente, volenterosa ed assidua colle dirigenze. Ho il piacere di poter riferire sulla recente sperimentazione dei consigli di gestione nell’ambito della Società «Terni», che fin dal 1945 aveva incluso nel proprio Consiglio di Amministrazione, con voto deliberativo, rappresentanze di operai, d’impiegati e di tecnici. Le maestranze di questa Società chiesero poi anche l’istituzione dei consigli di gestione; dopo qualche esitazione, la Società li concesse sulla base di una disciplina accuratamente studiata. Per circa un anno le commissioni interne assistite dalle Camere del lavoro ponderarono la proposta, opposero rilievi e richieste di emendamenti; e finalmente l’accordo fu raggiunto con reciproca soddisfazione su tutti i punti di dissenso. E nel marzo passato, presente anche l’onorevole Pesenti, per la Presidenza dell’I.R.I., fu celebrata in Terni, nel grande e luminoso salone della biblioteca di quelle acciaierie la cerimonia d’insediamento di ben sette Comitati di stabilimento e del Comitato centrale aziendale. Dopo i discorsi dei Presidenti della «Terni» e dell’I.R.I., ciascun consiglio di gestione ha fatto le proprie dichiarazioni; e sono state tutte dichiarazioni di fede nella istituzione e di fermo proposito di collaborare intensamente e fedelmente con l’industria, nella perfetta consapevolezza che da questa collaborazione si devono sviluppare la fortuna di questa e la rinascita del Paese, nel miglioramento economico e nella elevazione morale e sociale dei lavoratori.
La solennità dell’ora era sentita da tutti; ci furono momenti di profonda emozione; era in ciascuno la convinzione di una illimitata reciproca sincerità. E le previsioni non sono andate deluse: perché l’esperimento, per quanto ancor breve, ha avuto già per risultato un sensibile aumento di rendimento e un più sensibile miglioramento della disciplina. Se un’atmosfera di collaborazione, di comunanza di interessi si sviluppa in tal modo dalla discussa istituzione, per quale motivo essa dovrebbe essere contrastata anziché incoraggiata? Questo, onorevoli colleghi, è, e io ve lo segnalo, terreno fertilissimo dei più insperati, dei più utili risultati economici e sociali: andiamo, con animo fiducioso, con spirito di fratellanza, con amore di bene, in mezzo ai lavoratori, accontentiamoli nelle richieste oneste e ormai mature che essi avanzano, dimostriamo loro la nostra volontà d’innalzarli nella scala sociale, di immetterli nella classe dirigente; apriremo le vie alla conquista di un mondo nuovo, sopiremo le passioni sociali, assicureremo all’avanzata progressiva delle forze del lavoro, la valvola di sicurezza contro le discordie intestine.
Il mio emendamento, onorevole Presidente, mirava ad affermare il principio di collaborazione nella rappresentanza paritetica delle maestranze e dell’impresa in seno ai consigli di gestione; ma non voglio con esso causare maggiore divisione in mezzo ad una Assemblea che appare già tanto disorientata e divisa; e perciò lo ritiro e dichiaro fin d’ora che voterò pel testo della Commissione non senza l’augurio che l’Assemblea, nel suo senso di responsabilità, voglia, coll’invocato istituto, conferire ulteriore pregio alla Costituzione che stiamo apprestando, dalla quale l’Italia attende il perfezionamento del conquistato ordine repubblicano e democratico e tutto il popolo, ma specialmente il popolo lavoratore, la garanzia della pace sociale. (Applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Segue un emendamento dell’onorevole Villani:
«Sopprimere le parole: ove prestano la loro opera».
L’onorevole Villani ha facoltà di svolgerlo.
VILLANI. Dice l’articolo 43:
«I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera».
Ora, a me è parso che quest’ultima parte, «ove prestano la loro opera», contenga un concetto restrittivo che sarebbe forse opportuno togliere; un concetto limitativo, che io ritengo inopportuno, perché, se noi crediamo che i lavoratori abbiano diritto di partecipare alla gestione delle aziende, noi dobbiamo anche riconoscere che questo loro diritto non può di necessità limitarsi soltanto ad un intervento in quella che è la sede del loro lavoro.
Questo concetto, ripeto, potrebbe anche essere dannoso in determinati casi; esso finisce infatti con il limitare la cognizione del fenomeno della produzione, anche rispetto a quella che è la branca della produzione in cui il lavoratore dà la sua opera.
Ritengo, in altri termini, che, se abbiamo fede, come io ho in questa istituzione, abbiamo il dovere di far sì che il consiglio di gestione sviluppi la propria opera in un senso più lato, anche per offrire ai lavoratori una visione più complessiva di quello che è il fenomeno produttivo. Un lavoratore, per esempio, della Montecatini non saprà gran che di quello che è il complesso industriale di tutta l’azienda se partecipa soltanto alla conoscenza del processo produttivo del suo stabilimento.
C’è, d’altra parte, un’esperienza in corso, dalla quale non si può completamente prescindere. Vi sono infatti i consigli di gestione di aziende che si tengono in contatto anche con altre aziende che sono fuori dalla loro sede di lavoro.
Sarà pertanto opera saggia se noi non vorremo limitare l’opera del consiglio di gestione a quella che è l’azienda nella quale il lavoratore dà la sua opera.
Io avrei finito di dire le ragioni del mio emendamento; debbo però aggiungere qualche parola sull’opportunità dei consigli di gestione, perché da più parti è stata qui messa in dubbio l’opportunità di dar vita a questi organi. Io sono convinto che buona parte di quelle diffidenze che si sono manifestate nel nostro Paese, quando sono sorti i consigli di gestione durante la liberazione del Nord, sono dovute al fatto che essi hanno assunto un nome che in una certa guisa può anche spaventare.
Però noi dobbiamo ricordarci – come ha detto poco fa il collega onorevole Nobili, che i Consigli di gestione, sotto altro nome, esistono dappertutto: in Inghilterra si chiamano «Comitati misti di produzione»; negli Stati Uniti «Commissioni paritetiche di produzione»; in Germania e in Austria press’a poco con lo stesso nome; in Francia «Consigli misti». Ora, io non vorrei che si badasse tanto alla parola, quanto alla sostanza del problema. Se noi non teniamo tanto conto del nome che è stato dato a questo nuovo organo, che è sorto spontaneamente durante la liberazione, e che oggi vive – dobbiamo tener conto di questa realtà! – ma guardiamo viceversa alla funzione che deve svolgere, credo che questa diffidenza dovrà venir meno. D’altra parte però ricordo che le stessissime diffidenze che esistono in determinate zone nei confronti dei consigli di gestione, noi le conoscemmo in altri tempi anche nei confronti delle commissioni interne. Quando sorsero le commissioni interne sembrava che dovesse prodursi, a danno del padronato italiano, una vera e propria rivoluzione nell’ordinamento delle aziende, se non una rivoluzione sociale. Nulla di questo è avvenuto, invece, onorevoli colleghi. Le commissioni interne oggi funzionano non soltanto a soddisfazione degli operai che lavorano nelle aziende, ma trovano anche intero e perfetto riconoscimento da parte del padronato italiano.
Ritengo quindi che queste diffidenze non siano giustificate; ragione per cui spero che anche i colleghi della Democrazia cristiana potranno accedere al nostro punto di vista e quindi approvare, nella Carta costituzionale, il riconoscimento dei consigli di gestione; e che questo principio nuovo di democrazia faccia il suo ingresso anche là dove il lavoratore dà l’opera sua e non soltanto nelle altre istituzioni dello Stato.
PRESIDENTE. L’onorevole Puoti ha presentato il seguente emendamento:
«Aggiungere il seguente comma:
«La retribuzione tenderà, nei limiti stabiliti dalla legge, ad attuare anche la forma della partecipazione agli utili».
Ha facoltà di svolgerlo.
PUOTI. L’onorevole Malvestiti prima e l’onorevole Camangi poi hanno intrattenuto l’Assemblea, ma in modo non deciso, sul concetto di inserire nella nuova Costituzione italiana il principio della partecipazione del lavoratore agli utili dell’azienda, presso la quale presta la sua opera.
Questo è un concetto vecchio per il quale si sono scritti volumi, che sembra giungere nuovo in questa nostra Costituzione o anche strano alle orecchie di alcuni colleghi; mentre, invece, noi sappiamo che tutti i lavoratori italiani attendono da questa Costituzione il riconoscimento di quella loro aspirazione, che da anni essi nutrono, e che peraltro non hanno visto riconoscere da parte delle amministrazioni ufficiali dello Stato e delle organizzazioni sindacali.
Ora, l’occasione è buona per inserire il riconoscimento di questa, che, per me, è una santa rivendicazione dei lavoratori, in quanto che io vedo nelle partecipazioni agli utili dei lavoratori il motivo principale che deve servire a dirimere ogni questione che sorge – e specialmente in questi ultimi tempi è sorta – tra il capitale e il lavoro. Questa è una legittima aspettativa dei lavoratori. Affermato questo principio, debbo dire che è stata una delusione per gli stessi lavoratori il dover constatare che nel progetto di Costituzione non si è parlato affatto di partecipazione agli utili. Ed, anzi, debbo dire che, esaminando i lavori preparatori del progetto di Costituzione, mi sono meravigliato – ma non troppo – nel leggere alcune affermazioni della onorevole collega Teresa Noce, la quale non accettava, a nome del suo Partito, questo concetto che, invece, secondo me, dovrebbe stare a base di tutti i programmi economico-sociali dei partiti che dicono di voler difendere e rappresentare gli interessi dei lavoratori.
Ed ecco che io, da quest’altro settore dell’Assemblea, ho sentito il bisogno di chiedere l’inserimento di questo concetto e l’ho chiesto per primo a proposito dell’articolo 32, perché, secondo il mio concetto, era più opportuno parlare in quel luogo della partecipazione agli utili, inquantoché essa dovrà rappresentare una integrazione della retribuzione base.
Ora, noi vogliamo affermare il concetto della vera partecipazione agli utili. Ecco perché ne parliamo qui allorché trattiamo del Consiglio di gestione. Il Consiglio di gestione è per me qualche cosa di diverso dal concetto che si vuole qui affermare.
Secondo me, il lavoratore che quotidianamente è a contatto con le macchine e che, svolgendo il suo lavoro, acquista una esperienza sul modo di affinare e migliorare la produzione, è il migliore collaboratore dell’imprenditore, allorché si tratta di dover migliorare la produzione. Quindi è giusto dire che il lavoratore può e deve essere chiamato a collaborare con i dirigenti dell’impresa nel campo tecnico.
Ma se vogliamo portare tale collaborazione anche nel campo amministrativo, andiamo incontro inevitabilmente ad inconvenienti. Bisogna procedere per gradi.
Non è opportuno, in un momento in cui tutti siamo tesi verso la ricostruzione, portare innovazioni tali che possono essere dannose alla ricostruzione stessa, perché dannose alla ripresa economica e industriale della Nazione.
Quindi io ritengo che, nella partecipazione del lavoratore all’impresa, bisogna in un primo momento fermarsi alla collaborazione tecnica.
Per la partecipazione alla collaborazione amministrativa c’è un Consiglio di amministrazione, al quale possono accedere anche i lavoratori, qualora si verifichino determinate condizioni. Ai lavoratori dobbiamo aprire la porta, ma non bruscamente e in un modo troppo ampio, al fine di evitare dannosi rivolgimenti per la mancanza della necessaria preparazione.
Una voce a sinistra. Già, la porta di servizio!
PUOTI. No, tutt’altro! Una partecipazione del lavoratore all’amministrazione, qualora egli diventi un azionista dell’azienda stessa, sarebbe la perfezione; perfezione, però, che, per ovvi motivi, ci sembra irrealizzabile immediatamente. E allora, il primo gradino per arrivare a questa collaborazione del lavoro col capitale lo dobbiamo vedere nel rendere compartecipe il lavoratore dei benefici economici dell’azienda. Noi dobbiamo tendere al miglioramento costante delle condizioni di vita dei lavoratori, se abbiamo interesse che l’azienda non venga dissanguata senza una contropartita per essa. E quindi è necessario che questo miglioramento si ottenga interessando il lavoratore allo sviluppo dell’azienda e allo sviluppo della produzione. Solamente in questo modo noi possiamo ottenere una ripresa dell’economia italiana, ripresa necessaria e indispensabile dopo una dura guerra, che ha sconquassato il Paese intero.
Noi parliamo dei Consigli di gestione in un modo molto strano, perché c’è quasi uno slogan che si vorrebbe usare: come un tempo si diceva «vogliamo la Costituente perché ci darà pane e lavoro», così oggi si dice: «vogliamo i Consigli di gestione».
Ma bisogna vederci più chiaramente in questi Consigli di gestione, per evitare ancora una volta che il popolo italiano rimanga deluso dalle molte promesse troppo vaghe e troppo demagogiche.
Noi vogliamo fare veramente l’interesse del popolo lavoratore, e vogliamo perciò dire qual è la vera situazione e concedere ciò che è possibile concedere.
Quindi, ritengo che l’emendamento da me proposto, o, comunque, i concetti espressi nel mio emendamento, che è appoggiato dall’emendamento dell’onorevole Camangi e dalla prima parte dell’emendamento Malvestiti, possa trovare accoglimento nell’Assemblea; in questa Assemblea dove tanto spesso si parla a nome e nell’interesse dei lavoratori. E credo che questo sia il momento buono, necessario, ed opportuno, perché una volta tanto si giunga alla realizzazione di ciò che sta a cuore dei lavoratori stessi.
Non sembri strano se da questo settore si leva una voce a chiedere la tutela degli interessi dei lavoratori; perché, come abbiamo più volte affermato, noi ci sentiamo più lavoratori di quanto altri voglia demagogicamente affermare in contrario. Noi sentiamo da vicino qual è il palpito costante di questa categoria, che comprende la quasi totalità del Paese. Perché il popolo italiano non è formato da ricchi, non è formato da grandi industriali, ma da uomini che, lavorando o col braccio o colla mente, tirano avanti la vita a stento.
Per essere il popolo italiano tutto composto di lavoratori, io mi sono levato a chiedere a nome di questi lavoratori, che non vogliono saperne di destra e sinistra, il riconoscimento che è loro dovuto; il riconoscimento di quel diritto a cui essi aspirano da anni e a cui oggi dobbiamo dare la massima realizzazione. Perché, solamente eliminando il motivo principale che oggi è alla base della lotta di classe fra capitale e lavoro, noi possiamo contribuire efficacemente al miglioramento dell’azienda e, di conseguenza, alla ripresa industriale ed economica di tutta l’Italia, di quell’Italia che ha bisogno, oggi più che mai, di concordia interna per poter provvedere alla ricostruzione e per poter riprendere il posto che le spetta nel campo internazionale. (Applausi a destra – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Gli onorevoli Gortani, Franceschini, Di Fausto e Andreotti, hanno presentato il seguente emendamento:
«Aggiungere il seguente comma:
«Apposite provvidenze legislative assicurano la tutela e lo sviluppo dell’artigianato».
L’onorevole Gortani ha facoltà di svolgerlo.
GORTANI. Onorevoli colleghi, perdonate se con le brevi parole che dirò per svolgere il mio emendamento, io apro una specie di parentesi nella importante discussione in corso. Tuttavia non credo sia inutile che in sede di discussione riguardante le aziende maggiori, si aggiungano alcune parole intorno a quei minori organismi che sono le piccole aziende.
L’artigianato, antica gloria d’Italia, è insidiato dal prepotere della macchina e dalla invadente e prepotente organizzazione industriale moderna. Il suo campo di azione si è venuto man mano restringendo, soffocato dalla concorrenza delle lavorazioni meccaniche in serie, allo stesso modo – se mi è lecito un paragone – allo stesso modo in cui le tradizioni, gli usi, i costumi, i dialetti si sono venuti mano mano contraendo e attenuando sotto il dilagare della modernità livellatrice. Ma l’artigianato italiano ha una sua vitale ragione di persistere e di riaffermarsi, per ragioni essenziali della nostra stirpe; perché è troppo legato alla nostra storia, alla nostra possibilità di lavoro e di produzione, alla nostra economia individuale e nazionale. E deve anche continuare a persistere e prosperare (l’artigianato nostro) per ragioni etiche, onorevoli colleghi: perché l’artigianato consente all’operaio, più che ogni altra forma di lavoro industriale, di conservare e sviluppare la propria personalità; personalità che nelle grandi officine è necessariamente soffocata dallo strapotere della macchina e dalla monotonia del lavoro ultrasuddiviso, che richiede all’operaio un’attività quasi automatica, comprimendone l’iniziativa individuale, e trasformando l’uomo nell’elemento di una macchina gigantesca. Per continuare a vivere e per riaffermarsi e consolidarsi, l’artigianato ha bisogno di essere aiutato: 1°) nella produzione; 2°) nella organizzazione economica e commerciale; 3°) nella libera espansione.
Cominciamo dalla produzione. Nella produzione l’artigianato ha bisogno di essere aiutato sotto un duplice aspetto: dell’insegnamento tecnico-professionale, e delle direttive tecnico-artistiche intese a conservargli la sua originalità, ad assicurarne e migliorarne i pregi tradizionali, e a indirizzarne la produzione verso le esigenze del mercato interno, del mercato estero e dell’industria del forestiero.
Quest’ultimo fine rientra già nel secondo tema: quello della organizzazione economica e commerciale, che deve essere diretta a coordinare le iniziative singole, a stimolare e favorire la cooperazione, ad organizzare le vendite all’interno ed all’estero ed a facilitare il credito artigiano, ridotto oggi a termini addirittura irrisori.
Infine l’artigianato deve essere aiutato per ciò che riguarda la sua libera espansione; sottraendolo agli eccessi del fisco che oggi è sempre pronto a piombargli addosso come una piovra soffocatrice; e, facilitando specialmente nelle zone montane, la concessione di energia a basso prezzo.
Soltanto così l’artigianato potrà risorgere e dare equilibrato sviluppo alle attitudini geniali dei nostri artieri ed efficace apporto alla rinascita del Paese.
Pertanto, proponiamo che l’Assemblea, riconoscendo la funzione sociale ed economica dell’artigianato e venendo incontro alle richieste formulate dagli artigiani di tutta Italia, sancisca nella Carta costituzionale della Repubblica una norma che ne assicuri la tutela; norma, che abbiamo concretata nel seguente comma aggiuntivo:
«Apposite provvidenze legislative assicurano la tutela e lo sviluppo dell’artigianato».
CORBINO. Chiedo di parlare per mozione d’ordine.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Prego gli onorevoli colleghi di esaminare la possibilità di un rinvio della discussione alla ripresa dei lavori dell’Assemblea.
Noi stiamo discutendo di un argomento, che investe profondamente tutta la struttura economica del Paese. Credo che sia interesse di tutti che la decisione su questo argomento avvenga con un’Assemblea molto più numerosa di quella che non ci si presenti in questo momento; in modo che la maggioranza fosse notevole e non di uno o due voti, il che lascerebbe sempre il dubbio, non sulla legalità della deliberazione, ma sulla estensione dei consensi.
Siamo con la crisi di governo; molti dei nostri colleghi, calcolando che la seduta di stamani sarebbe terminata a mezzogiorno, sono già partiti o sono sul punto di partire.
Pertanto, ritengo che tutte queste considerazioni dovrebbero essere sufficienti per indurci a sospendere almeno la votazione sull’articolo 43, per rimandarla all’inizio della ripresa dei nostri lavori, quando l’Assemblea sarà più numerosa di quella odierna.
SANSONE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SANSONE. Dichiaro di essere contrario al rinvio.
TAVIANI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
TAVIANI. Onorevole Presidente, lei ieri disse esplicitamente che la seduta si sarebbe svolta dalle 9 alle 12. Le 12 sono già passate; molti colleghi stanno partendo.
Possiamo pure completare la discussione; ma domando se sia il caso di procedere alla votazione in queste condizioni.
SCOCCIMARRO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SCOCCIMARRO. Mi pare che l’Assemblea non sia così poco numerosa, da non poter discutere; vedo che tutti i settori sono abbastanza affollati. Quindi, mi pare che siamo in condizione di poter discutere e deliberare. Perciò siamo contrari alla proposta Corbino.
NOBILI TITO ORO. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
NOBILI TITO ORO. La proposta Corbino è sopraggiunta in un momento in cui tutte le condizioni, che si denunciano, erano già note. Fin da ieri sera, quando fu fissata la seduta di stamani, si decise di giungere colla discussione fino alle prime ore del pomeriggio.
Una voce. Fino alle 12.
NOBILI TITO ORO. Fin da ieri si conosceva la crisi e si sapeva che stamane non saremmo stati certamente in numero superiore a quello di adesso. Era dunque ieri sera, alla formazione dell’ordine del giorno, che si sarebbe dovuto proporre il rinvio della discussione; e non attendere che questa si iniziasse e arrivasse al momento conclusivo.
Il mio Gruppo, come ha già detto il collega Sansone, insiste, pertanto, perché si continui la discussione, respingendo la proposta dell’onorevole Corbino.
PRESIDENTE. Ricordo la dichiarazione fatta da me ieri sera al momento di stabilire il rinvio dei lavori ad oggi. Proposi di tenere seduta dalle 9 alle 12, aggiungendo che ciò avrebbe permesso ai colleghi di poter partire nelle primissime ore del pomeriggio. Ma osservo solo una cosa: che quando si fissano le ore delle nostre sedute, l’indicazione non viene mai considerata letteralmente, come in un orario ferroviario. L’ora ha un valore di approssimazione, e consente un certo margine di superamento. Questo ricordo per precisare i termini della questione come sono stati posti da me ieri sera.
Comunque, preciso che l’onorevole Corbino ha proposto soltanto di rinviare la votazione alla seduta di lunedì mattina; quindi dovremo portare a termine la discussione.
MICHELI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
MICHELI. Onorevole Presidente, ella potrà proporre all’Assemblea se rinviare la votazione a lunedì mattina o pomeriggio e l’Assemblea deciderà.
PRESIDENTE. Personalmente proporrò, proprio per la ragione, poco fa invocata, della crisi, di non rinunciare non dirò ad una seduta, ma neanche ad un’ora dei nostri lavori costituzionali. L’Assemblea deciderà.
Siccome l’onorevole Corbino ha proposto che la votazione sia rinviata alla ripresa dei nostri lavori, gli rammentò che tale ripresa, secondo una decisione già presa dall’Assemblea, è stata stabilita per lunedì, sospendendoli a partire da mercoledì sera e di ciò fanno testo i verbali. Pertanto, io non ho fatto che tradurre in termini di calendario la proposta dell’onorevole Corbino. L’Assemblea può sempre modificare le proprie decisioni. Ma io, in questo momento, non posso parlare che nei termini che l’Assemblea stessa ha già deciso.
D’ARAGONA. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
D’ARAGONA. Vorrei far rilevare ai colleghi che la proposta dell’onorevole Corbino tende ad ottenere che a questa votazione partecipi un maggior numero di deputati di quelli che sono ora presenti nell’Aula, ma penso che se questa votazione sarà rimandata a lunedì mattina, noi avremo meno deputati di ora.
PRESIDENTE. Anche lunedì pomeriggio i deputati saranno in numero inferiore di oggi, onorevole D’Aragona!
GRONCHI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Onorevoli colleghi, lo scopo che ha indotto il collega Corbino a chiedere il rinvio io non sospetto neppure che sia identificabile con un tentativo calcolato di dilazione. Ritengo che egli abbia pensato, come molti di noi pensano, che una questione di tale peso ed importanza, che avrà notevoli ripercussioni, valga la pena di essere votata da un’Assemblea nella pienezza del suo numero. Però noi osserviamo che se il differimento dovesse essere fissato alla mattina di lunedì, ci troveremmo praticamente nelle stesse condizioni o in condizioni forse peggiori di oggi. Quindi, faccio presente essere per noi indifferente, in un certo senso, il rinvio o meno, perché è lontana da noi ogni intenzione di rimandare una decisione di questo genere. Però, se si dovessero prendere in considerazione le ragioni che militano per un rinvio, bisognerebbe stabilire la prossima seduta non per la mattina, ma per il pomeriggio di lunedì.
PRESIDENTE. Non si saprebbe a che cosa destinare la seduta di lunedì mattina.
Comunque, pongo in votazione la proposta di rinviare la votazione a lunedì.
(Segue la votazione per alzata di mano).
Poiché, dopo prova e controprova, l’esito della votazione è incerto, procediamo alla votazione per divisione.
(La proposta non è approvata).
Riprendiamo l’esarne degli emendamenti proposti all’articolo 43.
Gli onorevoli Gronchi, Pastore Giulio, Storchi e Fanfani hanno presentato il seguente emendamento.
Sostituire l’articolo 43 con il seguente:
«Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro, ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
L’onorevole Gronchi ha facoltà di svolgerlo.
GRONCHI. Onorevoli colleghi, è questa una delle questioni che esige, da parte di tutti i gruppi e partiti rappresentati in quest’Aula, una piena coscienza della sua importanza al di là di ogni desiderio o preoccupazione di popolarità.
La nostra posizione rispetto ai problemi del lavoro è sintetizzata nella frase che noi siamo risoluti a non mantenere nel vuoto sostanziale delle affermazioni oratorie, ma a riempire di un contenuto di progressive riforme sociali. Intendo dire: «la preminenza del lavoro». Questo, nella sua attuale posizione, è uno strumento della produzione, più che un suo collaboratore. Da una tale inferiorità noi vogliamo elevarlo. Ma in ogni fase della vita economica occorre che noi teniamo realisticamente conto della progressività, attraverso la quale le trasformazioni si attuano. Senza di questa progressività l’inserzione del lavoro nei posti direttivi della vita economica si tradurrebbe in un pericolo per gli stessi lavoratori. Non ci sono che due vie: o il capovolgimento totale e completo di un sistema economico, oppure la sua graduale modificazione che tenga razionalmente conto di certe leggi e di certe esigenze da cui non si può prescindere, in primo luogo per gli interessi del lavoro medesimo.
Il nostro emendamento contiene due concetti. Il primo si rifà esplicitamente alle esigenze della produzione. Noi non siamo di quelli che sul tavolo anatomico della teoria distinguono e separano il processo della produzione in due fasi nettamente distinte e quasi per sé stanti: la prima produttiva e la seconda distributiva. Noi siamo però convinti che l’imperativo categorico – come si diceva, in tempi che fortunatamente furono – sia in primo luogo, in ogni tipo di sistema economico, quello di produrre di più affinché vi siano più utili, più frutti da distribuire, sia nel senso finanziario che nel senso più largamente economico e sociale. È per questo che noi, finalizzando lo scopo di questo articolo, abbiamo posto in primo luogo la nostra mira di elevare economicamente e socialmente il lavoro; ma vi abbiamo associato anche il concetto dell’armonia con le esigenze della produzione.
Il secondo concetto che abbiamo voluto affermare è quello della collaborazione, la quale, lo diciamo con piena lealtà, non rispecchia soltanto il nostro concetto di una solidarietà che comunque si pensi, nella fase attuale dell’economia dei paesi ancora, chiamiamoli così, capitalistici è anch’essa imposta dallo stesso interesse della classe lavoratrice; ma vuole altresì indicare, per quella progressività di trasformazioni da noi ritenuta necessaria, che debbono essere salvi taluni principî senza dei quali non vi è ordinata e perciò feconda attività produttiva; primo fra tutti quello che potrebbe essere nella unità di comando delle aziende produttive.
Questo non presuppone né un paternalismo anacronistico nella realizzazione di tale collaborante solidarietà, né una subordinazione che menomi il prestigio del lavoro; ma indica una certa posizione gerarchica di compiti e di responsabilità della quale sarebbe assurdo e contrario agli interessi stessi del lavoro non tenere conto nel momento presente.
Una Costituzione non è eterna, e chi la crea non può illudersi di regolare la vita sociale ed economica di un paese per secoli; una Costituzione deve inserirsi soprattutto nella realtà del momento nel quale essa è studiata e promulgata. Ecco le ragioni per le quali noi, al di là di ogni prudenza, di cui sarebbe facile ma ingiusto accusarci, abbiamo creduto di accentrare questi due concetti nel testo della Commissione e proporre l’emendamento che ho avuto l’onore di firmare per primo.
PRESIDENTE. Chiedo all’onorevole Ghidini di esprimere il parere della Commissione sugli emendamenti.
GHIDINI, Presidente della terza Sottocommissione. Sono certo che l’Assemblea non si dorrà se sarò molto breve rispondendo ai vari emendamenti.
L’onorevole Marina ha dichiarato che rinuncia al suo emendamento di soppressione, ma la rinuncia è più apparente che reale, perché si associa all’emendamento dell’onorevole Corbino.
L’onorevole Corbino propone la seguente formulazione:
«La Repubblica favorisce le iniziative dirette alla più efficace collaborazione fra il capitale ed il lavoro per il potenziamento della produzione».
L’onorevole Marina dice invece: «Ai fini del potenziamento dell’attività produttiva delle aziende e dell’elevazione dei lavoratori, la legge stabilisce le norme per attuare la più efficace collaborazione fra il lavoro e il capitale».
In sostanza il contenuto dei due emendamenti è uguale, ma sono entrambi profondamente diversi dal testo. Infatti gli emendamenti sono generici, mentre il testo specifica l’istituto che s’è voluto creare, senza però indicarne la finalità per l’ovvia ragione che non ne sono determinate le funzioni. La Commissione pertanto respinge i due emendamenti.
Vi è poi l’emendamento dell’onorevole Colitto, così formulato:
«I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera, per cooperare allo sviluppo tecnico ed economico di esse».
Anche in esso è indicato lo scopo pel quale vengono istituiti i Consigli di gestione. Riconosco, ponendo in esso la finalità di «cooperare allo sviluppo tecnico ed economico» delle aziende, che è uno dei più progressivi; ma la Commissione non intende di accogliere alcuna specificazione per le ragioni che ho sopra esposto.
Gli onorevoli Malvestiti, Cappugi e altri hanno formulato il seguente emendamento:
«I lavoratori hanno diritto di compartecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge, alla gestione ed al capitale delle grandi imprese capitalistiche. A tal fine la legge riconoscerà il diritto delle categorie lavoratrici di essere rappresentate nei Consigli di amministrazione delle rispettive imprese, a prescindere da qualsiasi partecipazione azionaria: e favorirà l’accesso all’investimento azionario del libero risparmio dei lavoratori».
Abbiamo inoltre l’emendamento degli onorevoli Camangi e Puoti, i quali parlano invece di una partecipazione agli utili. Avverto che sia dell’investimento azionario, che della partecipazione agli utili, si è ampiamente discusso prima, in sede di Sottocommissione, e penso anche – per quanto non ne sia ben certo essendo stato assente – in sede di Commissione plenaria.
Posso dire che l’opposizione di una parte della Sottocommissione è stata molto viva, ed è questa una delle ragioni per cui abbiamo mantenuto un testo il quale lasciasse ampia libertà al legislatore futuro di fissare al Consiglio di gestione quelle attribuzioni e quelle funzioni che potessero sembrare più opportune in relazione al tempo e all’economia del Paese.
Credo con questo, onorevoli colleghi, di avere risposto anche all’emendamento presentato dall’onorevole Gronchi. Il testo della Commissione reca semplicemente: «I lavoratori hanno il diritto di partecipare, nei modi o nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende ove prestano la loro opera».
È evidente che la parola «gestione» è usata in senso generico, e non nel suo significato letterale. La parola «gestione» vuole avere il significato che convenzionalmente le si attribuisce, tanto vero che è stata accettata da tutti, pure essendo diversi gli orientamenti politici dei componenti la Commissione. Abbiamo detto: «Nei modi e nei limiti stabiliti dalla legge», perché la partecipazione può essere consultiva, oppure deliberativa; può essere classista, oppure collaborativa; può essere partecipazione all’amministrazione, oppure alla direzione ecc., ecc.
Non abbiamo voluto determinare a priori la forma e il modo di questa partecipazione, e ciò allo scopo di non confiscare a nostro profitto quella libertà di decisione che deve essere lasciata intatta al legislatore futuro.
Per queste ragioni raccomandiamo l’articolo 43, nel testo integrale proposto dalla Commissione.
Vi sono poi gli emendamenti degli onorevoli Gronchi e Villani che concordano nel chiedere la soppressione delle parole: «ove prestano la loro opera». Si è infatti pensato, da entrambi questi nostri colleghi, che sia pericoloso restringere l’istituzione dei Consigli alle singole aziende. Non ripeto le ragioni da loro addotte, poiché le avete ascoltate, e per mio conto mi limito a dichiarare, che, se io personalmente posso accedere al loro punto di vista, la maggioranza della Commissione è del parere di non accogliere la proposta modificazione.
Rimane da ultimo l’emendamento proposto dall’onorevole Gortani, nei confronti del quale non posso che ripetere ciò che ho detto in altre occasioni consimili. Che l’onorevole Gortani abbia posto a sussidio del suo emendamento argomentazioni serie ed apprezzabili non lo contesto, ma debbo avvertire che l’artigianato è una figura tipica di piccola impresa individualistica la quale sopravvive o perisce, fiorisce oppure decade, in virtù di fattori che generalmente sono al di fuori delle provvidenze legislative. Ed io non so se sia possibile, ed anche raccomandabile, reagire alle leggi dell’economia.
Ma non è tanto per questa ragione che la Commissione respinge l’emendamento dell’onorevole Gortani, quanto in considerazione che si tratta di una particolare forma o specie dell’economia, e questo scendere ai particolari non ci sembra giustificato, perché dovremmo, allo stesso titolo, occuparci anche del piccolo commercio e così via: ed è evidente che allora non finiremmo più.
Noi diciamo invece che tutto è compreso nel testo dell’articolo 43 che proponiamo all’approvazione dell’Assemblea, per questo insistiamo nel raccomandarne l’approvazione nel suo testo integrale.
PRESIDENTE. Chiederò ai presentatori di emendamenti se intendano mantenerli.
Onorevole Marina, mantiene il suo emendamento?
MARINA. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Colitto, mantiene il suo emendamento?
COLITTO. Lo ritiro.
PRESIDENTE. Onorevole Corbino?
CORBINO. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Non essendo presente l’onorevole Romano, il suo emendamento si intende decaduto.
Onorevole Malvestiti, mantiene il suo emendamento?
MALVESTITI. Volevo fare soprattutto un’affermazione ideale. Mi associo all’emendamento dell’onorevole Gronchi e ritiro il mio.
PRESIDENTE. Onorevole Camangi?
CAMANGI. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Villani?
VILLANI. Lo ritiro e aderisco all’emendamento dell’onorevole Gronchi.
PRESIDENTE. Onorevole Puoti?
PUOTI. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Gortani?
GORTANI. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Onorevole Gronchi?
GRONCHI. Lo mantengo.
PRESIDENTE. Passiamo alla votazione.
In realtà i due soli emendamenti sostitutivi dell’intero articolo 43 sono quelli dell’onorevole Corbino e dell’onorevole Gronchi.
Nel primo, escludendosi nettamente ogni accenno alla gestione, si parla semplicemente della collaborazione fra capitale e lavoro; nel secondo si riprende il concetto della Commissione, sia pure sotto alcune considerazioni particolari, specialmente riguardo ai fini.
Devo, quindi, porre in votazione per primo l’emendamento dell’onorevole Corbino, che si allontana maggiormente dal testo della Commissione:
«La Repubblica favorisce le iniziative dirette alla più efficace collaborazione fra il capitale ed il lavoro per il potenziamento della produzione».
GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Avendo presentato un emendamento che rappresenta, in forma più organica, la posizione del Gruppo democratico cristiano di fronte a questo problema, è evidente che dovremo votare contro l’emendamento dell’onorevole Corbino, il quale non esprime un concetto diverso dal nostro, ma lo esprime in una forma troppo generica.
DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DI VITTORIO. Il Gruppo comunista vota contro l’emendamento dell’onorevole Corbino. Il Gruppo comunista sarebbe favorevole a mantenere il testo approvato dalla Commissione; però, siccome noi vogliamo ricercare dei punti di incontro con altri Gruppi che rappresentano larghe correnti dell’opinione pubblica e di lavoratori, voteremo l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Gronchi, attribuendo al concetto di collaborazione il significato di partecipazione attiva dei lavoratori alla gestione dell’azienda, e quindi allo sviluppo dell’azienda stessa nell’interesse dei lavoratori e del Paese.
PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Corbino.
(Non è approvato).
Pongo in votazione l’emendamento sostitutivo dell’onorevole Marina, che riprende lo stesso concetto di quello dell’onorevole Corbino:
«Ai fini del potenziamento dell’attività produttiva delle aziende e dell’elevazione dei lavoratori, la legge stabilisce le norme per attuare la più efficace collaborazione fra il lavoro e il capitale».
(Non è approvato).
Passiamo alla votazione dell’emendamento sostitutivo Gronchi:
«Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».
Avverto che su questo emendamento è stata chiesta la votazione per appello nominale dagli onorevoli Gronchi, Pastore Giulio, Togni, Storchi, Fanfani, Benvenuti, Franceschini, Codacci Pisanelli, Firrao, Salizzoni, Bianchini Laura, Mannironi, Federici Maria, Saggin e Montini.
Poiché però è stato dichiarato che non si insiste in questa richiesta, pongo in votazione l’emendamento per alzata e seduta.
(È approvato).
Passiamo alla votazione dell’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Puoti.
«La retribuzione tenderà, nei limiti stabiliti dalla legge, ad attuare anche la forma della partecipazione agli utili».
Faccio notare che in questo emendamento è ripreso il concetto contenuto nell’emendamento dell’onorevole Camangi.
CAMANGI. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CAMANGI. Vorrei far notare che nell’emendamento Puoti si parla di tendenzialità nel senso che vi è detto che la retribuzione «tenderà ad attuare anche la forma della partecipazione agli utili». Per semplicità di discussione, il mio emendamento aggiuntivo potrebbe essere inserito nel testo presentato dall’onorevole Gronchi, subito dopo l’affermazione della partecipazione alla gestione.
PRESIDENTE. Sta bene. Faccio notare un’altra diversità fra i due emendamenti. Per l’onorevole Puoti la partecipazione agli utili deve essere assorbita nella retribuzione; nella proposta dell’onorevole Camangi, la partecipazione agli utili nulla ha che fare con la retribuzione del lavoro dei lavoratori.
GRONCHI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
GRONCHI. Per le ragioni che ho brevemente esposte a sostegno del nostro emendamento, noi non siamo favorevoli alla specificazione delle varie forme di partecipazione, fra cui questa di partecipazione agli utili. Noi vorremmo mantenere a questo articolo della Costituzione il carattere di un principio da attuare poi nelle varie riforme che dovranno essere condizionate dal momento in cui si realizzeranno.
EINAUDI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
EINAUDI. Voto contro questo emendamento dell’onorevole Puoti e credo di essere soprattutto d’accordo con quella parte (Accenna alla sinistra) nel votare contro l’emendamento Puoti, in quanto – se la memoria non mi falla – tutto il movimento operaio del secolo scorso e di questo è indirizzato contro la partecipazione degli operai ai profitti. Le leghe operaie e le associazioni operaie hanno sempre ritenuto che la partecipazione ai profitti fosse il cavallo di Troja introdotto nella loro organizzazione allo scopo di distruggere la solidarietà operaia. Molte altre critiche possono essere mosse contro la partecipazione ai profitti: mi basti ricordare i pericoli che esso presenta per gli operai e per la collettività. Troppi pericoli corre questa, a causa del prepotere dei monopoli; non occorre incoraggiare in aggiunta gli operai ad accordarsi con gli imprenditori per taglieggiare la collettività.
Sono favorevole alla partecipazione al profitto, quando essa sia un fatto volontario, un fatto che sorga dalla collaborazione volontaria da parte degli imprenditori e degli operai, non mai un fatto che sia imposto dalla legge; perché, se fosse imposto dalla legge, si creerebbe uno stato di disuguaglianza e di contrasto fra una categoria e l’altra degli operai. Le maggiori conquiste operaie sono sempre state realizzate sul principio della eguaglianza di remunerazione fra tutti i lavoratori contro i privilegi particolari a favore di gruppi distinti di lavoratori. (Vivi applausi a sinistra).
PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Puoti:
«La retribuzione tenderà, nei limiti stabiliti dalla legge, ad attuare anche la forma della partecipazione agli utili».
(Non è approvato).
Pongo in votazione l’emendamento Camangi:
«I lavoratori hanno diritto di partecipare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione e agli utili delle aziende ove prestano la loro opera».
(Non è approvato).
Passiamo all’emendamento Gortani:
Aggiungere il seguente comma:
«Apposite provvidenze legislative assicurano la tutela e lo sviluppo dell’artigianato».
DI VITTORIO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DI VITTORIO. Il Gruppo comunista vota a favore.
D’ARAGONA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
D’ARAGONA. Dichiaro che il mio Gruppo vota a favore.
CARMAGNOLA. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CARMAGNOLA. Dichiaro a nome del Gruppo parlamentare socialista che voteremo a favore dell’emendamento aggiuntivo.
CORBINO. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
CORBINO. Anche il nostro Gruppo voterà a favore.
SELVAGGI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
SELVAGGI. Dichiaro che voteremo a favore dell’emendamento aggiuntivo.
ANGELINI. Chiedo di parlare per dichiarazione di voto.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
ANGELINI. È superfluo dire che il Gruppo democristiano voterà a favore.
PRESIDENTE. Pongo in votazione l’emendamento Gortani.
(È approvato).
L’articolo 43 risulta, nel suo complesso, approvato nel seguente testo:
«Ai fini della elevazione economica e sociale del lavoro ed in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori di collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende.
«Apposite provvidenze legislative assicurano la tutela e lo sviluppo dell’artigianato».
Domando all’Assemblea di pronunziarsi se lunedì debba aver luogo o meno la seduta antimeridiana, facendo presente tutta la opportunità di non mandarla a vuoto, dopo la sospensione di questi giorni. (Commenti).
DE CARO RAFFAELE. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
DE CARO RAFFAELE. Propongo che lunedì si tenga seduta nel pomeriggio e la sera.
PRESIDENTE. Pongo in votazione questa proposta.
(È approvata).
Il seguito della discussione è rinviato a lunedì alle 15, con l’intesa che la seduta sarà ripresa, dopo un intervallo, nella serata.
Interrogazione.
PRESIDENTE. Si dia lettura di una interrogazione pervenuta alla Presidenza.
RICCIO, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri dell’agricoltura e foreste e dell’industria e commercio, per sapere se intendano al più presto porre un riparo alle notorie insufficienze del Consorzio nazionale canapa, denunciate anche dalla stampa e causa di grave malcontento tra i produttori agricoli, finora sacrificati, sia per la recente difettosa somministrazione del seme, sia per la fissazione dei prezzi di conferimento all’ammasso e per la sperequazione di trattamento dei medesimi in ordine al periodo di emergenza e successivamente, sia infine per la rovinosa disparità introdotta fra i prezzi pagati ai produttori e quelli lucrati dall’industria canapiera nelle vendite all’interno e specialmente in quelle di esportazione.
«Bertini».
PRESIDENTE. L’interrogazione testé letta sarà iscritta all’ordine del giorno e svolta al suo turno.
La seduta termina alle 13.5.
Ordine del giorno per la seduta di lunedì 19 maggio.
Alle ore 15:
Seguito della discussione del progetto di Costituzione della Repubblica italiana.