ASSEMBLEA COSTITUENTE
CLIII.
SEDUTA DI MARTEDÌ 17 GIUGNO 1947
PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI
INDICE
Congedo:
Presidente
Interrogazioni (Svolgimento):
Presidente
Tupini, Ministro dei lavori pubblici
Silipo
Pella, Ministro delle finanze
Molè
Grassi, Ministro di grazia e giustizia
Montalbano
Volpe
Comunicazioni del Governo (Seguito della discussione):
Marina
Molè
Nitti
Interrogazioni (Annunzio):
Presidente
La seduta comincia alle 16.15.
MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della precedente seduta.
(È approvato).
Congedo.
PRESIDENTE. Ha chiesto congedo il deputato Villani.
(È concesso).
Interrogazioni.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni.
La prima è dell’onorevole Caroleo, al Ministro dei lavori pubblici, «per conoscere se sia edotto delle tragiche condizioni delle popolazioni calabresi colpite dal recente disastro tellurico e se non creda di dare urgenti disposizioni al Provveditorato delle Opere pubbliche per la Calabria per la ricostruzione nel periodo estivo di case o almeno di ricovero ai senza tetto, ora ammucchiati in attendamenti provvisori».
Non essendo presente l’onorevole Caroleo, si intende che vi abbia rinunziato.
Seguono altre due interrogazioni sul medesimo argomento, che possono essere svolte congiuntamente:
Silipo, Gullo Fausto, Musolino, Bei Adele, ai Ministri dei lavori pubblici, delle finanze, del tesoro e all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità pubblica, «per sapere come intendano affrontare e risolvere il gravissimo problema che si è posto in conseguenza del recente terremoto, che sconvolse una parte della costiera ionica calabrese, col suo retroterra, arrecando danni non lievi, in modo particolare a ben 16 paesi, tra i quali Isca sul Ionio, che ebbe danneggiato gravissimamente o distrutto il 35 per cento dell’intero agglomerato urbano e si trova attualmente con ben 350 famiglie (in complesso 1870 persone, circa la metà della popolazione) senza tetto e prive di tutto. Giacché, dopo i primi soccorsi, nulla di concreto si è fatto fino ad oggi; giacché, appunto per questo, un grave malumore serpeggia tra gli abitanti dei paesi terremotati, i quali insistentemente chiedono che si provveda in tempo utile, affinché tutte le famiglie colpite dal disastro – in tutto 1244 per complessive 5342 persone – riabbiano un tetto; giacché infine si temono anche gravi conseguenze per la salute pubblica per le condizioni antigieniche in cui si è costretti a vivere, si chiede che la presente interrogazione sia discussa con carattere di urgenza».
Molè, Turco, ai Ministri dell’interno e dei lavori pubblici, «sui provvedimenti che intendono adottare per venire incontro ai senza tetto, disastrati dal terremoto in provincia di Catanzaro».
L’onorevole Ministro dei lavori pubblici ha facoltà di rispondere.
TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Onorevoli colleghi, già gli onorevoli Lucifero, Priolo, Cassiani ed altri mi avevano verbalmente e per iscritto interessato a questo grave problema del terremoto del maggio ultimo in quella striscia di terreno costiero della parte finale della Calabria. Già avevo dato loro, per iscritto e verbalmente, alcune informazioni ed altrettante assicurazioni.
Oggi sono lieto che, a seguito delle interrogazioni pubbliche presentate dagli onorevoli Caroleo, Silipo, Gullo Fausto, Musolino, Bei Adele, Molè e Turco queste informazioni e queste assicurazioni io possa confermare all’Assemblea.
Subito dopo il terremoto, gli onorevoli interroganti forse lo sanno, (ed infatti nella loro interrogazione non si lamentano del passato), il Prefetto di Catanzaro con tutti i mezzi a sua disposizione ed anche mediante l’incitamento del Ministero dei lavori pubblici si è recato sul posto. Il Genio civile e tutte le organizzazioni interessate hanno provveduto, lì per lì, a rendere meno gravi le conseguenze del disastro, fornendo i primi soccorsi che sembravano ed appaiono a tutt’oggi, a quanto risulta, sodisfacenti, al fine di fronteggiare la disgrazia abbattutasi su quella striscia di territorio nazionale.
Furono subito apprestate le tende per i ricoveri della popolazione civile. Cinquemila furono le persone rimaste prive del loro tetto e le tende furono messe a disposizione anche grazie al concorso del Comando alleato, perché la popolazione rimasta senza tetto potesse avere un ricovero momentaneo.
Furono anche distribuite circa duemila coperte e furono prestati tutti i soccorsi che l’urgenza del caso richiedeva. Si provvide subito con mezzi adeguati alla demolizione delle case o dei residui di case divenuti pericolosi. Anche a questo riguardo taluno ha osservato che si è proceduto e si procede con sistemi troppo spicciativi, ed ebbi già a dire all’onorevole Lucifero che, interrogato il Genio civile, questo, mentre mi ha assicurato che userà la necessaria cautela, mi ha, d’altra parte, comunicato che le condizioni di queste case sono così fatiscenti che sarà difficile poterne salvare anche una minima percentuale. Comunque questo appartiene al passato: gli onorevoli interroganti mi hanno domandato cosa si intende fare per l’avvenire. Il settembre è prossimo e le prime piogge potranno rendere ancora più gravi e insopportabili le condizioni di vita delle popolazioni colpite. Di questo si è preoccupato fino ad oggi il Ministero dei lavori pubblici, ed in modo speciale chi vi parla in questi giorni ha dato disposizioni perché venissero approntati i mezzi necessari, idonei per fronteggiare, nel modo migliore possibile, l’imminente autunno e ancor più il prossimo inverno.
Sono già stati messi a disposizione 70 milioni per la costruzione dei primi ricoveri e delle prime case: a questo riguardo ho dato istruzioni perché i ricoveri non abbiano una consistenza di carattere provvisorio ma stabile e definitivo. Abbiamo all’uopo cercato di provvederci del materiale necessario onde assicurare, con una certa proiezione nel tempo, la stabilità del tetto a coloro che hanno perduto la casa a seguito del terremoto.
Sono poi in corso dei progetti nuovi per altri 70 milioni di lavori. Ho dato disposizioni perché questi progetti siano esaminati con la massima rapidità, perché il Consiglio Superiore dei lavori pubblici vi porti il più sollecitamente possibile il suo esame per affrettarne la realizzazione e l’esecuzione. Intanto, in attesa dell’approvazione del Consiglio Superiore, anche in ordine ai primi progetti che riguardano il primo stanziamento di 70 milioni, mi sono preoccupato di creare le condizioni necessarie perché si addivenga alla immediata costruzione delle prime case, con le riserve di legge, in modo da poter affrontare nel modo migliore la stagione delle piogge.
Ma l’Assemblea deve sapere a questo riguardo che anche questi 70 milioni che abbiamo stanziato con i mezzi che sono a nostra disposizione, distogliendoli da altri Capitoli, e quegli altri 70 milioni che ancora potremo mettere a disposizione per la costruzione di un nuovo lotto di case il più possibilmente stabili, sono poca cosa in confronto del fabbisogno, che si prospetta con la cifra macroscopica di circa un miliardo. Evidentemente, non dipende soltanto dal mio Dicastero poter disporre di questa somma e dovrò fare i conti col Ministro del tesoro perché, preoccupato anche lui di questa esigenza, possa, con la massima comprensione consentita dall’attuale situazione di emergenza, venire incontro a questi bisogni.
L’Assemblea poi, deve sapere che in questa materia, purtroppo, non abbiamo una legislazione di carattere organico, capace di far fronte alla serie di disgrazie che periodicamente si abbattono sul nostro Paese o per terremoti, o per alluvioni, o per eruzioni vulcaniche e via di seguito. Ho domandato se già vi fosse una legge apposita; non l’ho trovata. Ho trovato invece delle leggine che volta a volta sono state fatte a seconda degli eventi calamitosi che si sono verificati nel nostro Paese. Così, la legge del 1919 per il terremoto calabro-siculo, legge che poi fu assorbita da quella del 1926. Ma anche questa ultima legge, che pure ha un contenuto in carattere ed una finalità specifica, e cioè prende soltanto di mira quei particolari disastri ai quali si intendeva provvedere, non è una legge di competenza, nel senso cioè che attribuisca al Ministero dei lavori pubblici delle capacità, e quindi delle risorse tali da poter sodisfare queste particolari esigenze; ma è una legge di coordinamento delle attività dei vari Ministeri, per i quali si suppone talvolta una competenza che i Ministeri stessi non hanno.
Evidentemente, una legislazione organica a questo riguardo è necessaria ed io ho dato disposizioni ai miei uffici perché preparino gli elementi necessari per una legge adeguata a provvedere a tutte le eventualità, deprecate e deprecabili, che possano comunque abbattersi sulle nostre contrade. Ma, intanto, dobbiamo preoccuparci concretamente di disporre i mezzi di cui hanno bisogno le vittime colpite dal recente terremoto calabrese.
E qui le ipotesi sono due: o applicare la legge del 1926, che, come vi ho detto, è una legge di natura formale, che non contempla provvidenze di carattere concreto; o senz’altro fare una leggina – il che rappresenta il mio punto di vista – che, modellandosi su quella del 1946, che si è fatta in occasione, per quanto tre anni dopo, del terremoto di Teramo, Macerata ed Ascoli Piceno del 1943, possa dare veramente al Ministero dei lavori pubblici, sempre che il Ministro del tesoro lo consenta, i mezzi idonei per fronteggiare la grave situazione, ricordata, dagli onorevoli interroganti. A questo riguardo vi do pieno affidamento, che, per quanto dipende da me, metterò tutto l’impegno perché a questa situazione sia provveduto nel modo migliore, più concreto e positivo. Penso che il mio collega del tesoro vorrà fare buon viso a queste istanze e che non ostacolerà la legge da me preparata, in modo che io possa presto annunciarla alla Camera.
Frattanto, utilizzando i mezzi, sia pure modesti, dei quali dispongo, farò di tutto perché le esigenze rappresentate da queste interrogazioni siano sodisfatte nel miglior modo e nel più breve tempo possibile. Se saremo onorati dalla fiducia della Camera, e io rimarrò a questo posto e le cure di Governo me lo consentiranno, mi propongo più in là di fare addirittura un sopraluogo sul posto per rendermi conto personalmente della reale situazione e per poter dare di persona quelle disposizioni che meglio rispondano alla necessità di alleviare i disagi delle popolazioni colpite. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. L’onorevole Silipo ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.
SILIPO. Ringrazio l’onorevole Ministro dei lavori pubblici per la cortese sollecitudine con la quale ha risposto alla mia interrogazione; però mi dichiaro insoddisfatto delle misure sin qui prese. Anzitutto debbo osservare che l’interrogazione era rivolta non solo al Ministro dei lavori pubblici, ma anche a quelli delle finanze, del tesoro e all’Alto Commissario per l’igiene e la sanità. Ora né il Ministro delle finanze, né quello del tesoro né l’Alto Commissario per l’igiene e la sanità hanno ancora detto una parola per la parte che li riguardava.
Per quanto si riferisce poi alle affermazioni fatte dall’onorevole Ministro dei lavori pubblici, queste appaiono troppo generiche. Nelle regioni terremotate sono stati colpiti in modo particolare ben 16 paesi e fra questi Isca sul Ionio, che ha avuto danni gravissimi e, avendo subito una distruzione del 35 per cento dell’intero agglomerato urbano, si trova attualmente con ben 350 famiglie senza tetto. Assieme ad Isca, Badolato, S. Andrea Ionio, Chiaravalle Centrale, Pellizzi, Satriano, Soverato, S. Caterina Ionio, Palermili, Squillace, Satriano, Centrache, Olivadi S. Sostene, Girifalco, Staletti, Montepaone sono stati i comuni più duramente colpiti. In complesso nei 16 paesi le famiglie colpite dal disastro ammontano a 1244 per complessive 5342 persone, e queste sono alloggiate attualmente sotto le tende. Oggi siamo in primavera, ma noi dobbiamo pensare seriamente all’inverno prossimo. Io ho inteso parlare l’onorevole Ministro di costruzione di baracche, ma noi non possiamo sentire parlare di baracche oggi, dopo essere stati ammaestrati dalla esperienza del passato. Infatti in molti comuni, dopo la sciagura del 1908, si vive ancora in quelle baracche che furono costruite allora e che avrebbero dovuto costituire un ricovero temporaneo a chi conobbe tutti gli orrori di quello sconvolgimento tellurico.
Ecco perché non vogliamo più sentir parlare di baracche.
D’altra parte, è vero che la somma occorrente per fronteggiare questa situazione è di circa un miliardo ma, di fronte ad un miliardo, 70 milioni stanziati sono ben poca cosa.
TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Questo tanto per incominciare.
SILIPO. E ancora non si è nemmeno incominciato! Dicevo, noi paventiamo l’inverno, e lei, onorevole Ministro, sa meglio di me o quanto me come si vive in quei paesi rurali della provincia di Catanzaro che sono estremamente poveri. Che cosa direbbe lei, onorevole Ministro, se io le dicessi che tutte le terre intorno ad Isca sul Ionio appartengono ad un solo proprietario, e che è sulla miseria di tutta la popolazione che si sono formate immense ricchezze? Io voglio augurarmi che il Ministro del tesoro provveda immediatamente a stanziare la somma necessaria, tanto più che, così facendo, la Calabria non riavrebbe che la millesima parte di quello che ha dato, anche tenendo conto di quella imposta straordinaria sul patrimonio che grava particolarmente sul Mezzogiorno d’Italia, come ha rilevato ieri l’onorevole Scoccimarro; non avrebbe – ripeto – che una millesima parte di quello che essa offre alle casse dello Stato.
Lei dice che non esiste una legge: ebbene, si faccia, e subito e, se vuole un suggerimento, io potrei anche darglielo: dia la facoltà al Provveditorato delle opere pubbliche per la Calabria affinché, stimolando da un lato l’iniziativa privata ed intervenendo direttamente nel resto, provveda a restituire una casa a chi ne ha tanto bisogno.
TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. L’ho già fatto.
SILIPO. Non credo, almeno fino a questo momento!
Pensi, onorevole Ministro, che lì si vive di nulla. È già molto se quei poveri diavoli sono scampati dal terremoto, e sono scampati dal terremoto per un puro caso, e cioè per il fatto che la scossa violenta, durata ben 13 secondi (si fa presto a dire 13 secondi e fanno anche presto a passare; ma quando debbono passare, mentre la terra ondeggia e sobbalza sotto i piedi, allora sono lunghi quanto secoli!) fu preceduta da due scosse leggere e da un boato premonitore, sicché, quando essa avvenne, si può dire che le case erano vuote. Se così non fosse stato, molti di coloro che dormono sotto quelle tende che lei ha mandato, dormirebbero a quest’ora il sonno della morte, e molti, purtroppo, cominciano a desiderare questo secondo sonno!
E quando chi vive di nulla ed è contento di nulla, desidera la morte, vuol dire che la vita è impossibile. Si dia alla Calabria quella modesta sodisfazione che deve avere per un complesso di ragioni e non solo per principî di solidarietà umana, ma anche per motivi di carattere politico. Onorevole Ministro, la Calabria ha dato alla Repubblica il 40 per cento dei voti, mentre gli ambienti monarchici si aspettavano il 96 o il 98 per cento. La Repubblica si rafforza continuamente, ma guai se si dovessero fare dei paragoni tra il presente e il passato qualora quello dovesse essere come questo: non lo dobbiamo permettere, onorevoli colleghi.
Lei, onorevole Ministro, ha buona memoria: noi calabresi avremo buona memoria e fra un mese mi permetterò di ricordarle quello che ha detto di fare per constatare quello che ha fatto. (Applausi a sinistra).
PELLA, Ministro delle finanze. Chiedo di parlare.
PRESIDENTE. Ne ha facoltà.
PELLA, Ministro delle finanze. Desidero assicurare l’onorevole Silipo che il Ministero delle finanze, immediatamente dopo i tragici eventi che hanno sconvolto la vita della provincia dei cui bisogni si è reso interprete l’onorevole interrogante, ha immediatamente telefonato all’Intendente di finanza perché provvedesse alla sospensione di tutte le imposte, a partire dalla prima rata in scadenza.
Siccome il Ministero non era in condizione di valutare quali erano i comuni danneggiati, si è lasciata all’Intendenza di finanza locale questa facoltà di sospensione, in relazione alle indagini di fatto che lo stesso Intendente avrebbe dovuto svolgere.
Davanti a questo sciagurato avvenimento, in nome di quella umanità che trascende le concezioni politiche che possono dividere un Governo dai banchi dell’opposizione, vorrei veramente pregare l’onorevole Silipo di controllare sul posto quale possa essere l’applicazione pratica di questa disposizione che abbiamo dato; e se, per avventura, in sede di applicazione pratica, il provvedimento ministeriale, indipendentemente dalla buona volontà degli uffici locali, desse luogo a qualche inconveniente, pregherei l’onorevole Silipo di rendersi interprete presso il Ministero degli opportuni rilievi. Il Ministero non ha che il desiderio di venire veramente incontro ai Comuni danneggiati.
PRESIDENTE. L’onorevole Molè ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.
MOLÈ. Ringrazio il Ministro dei lavori pubblici e il Ministro delle finanze per il tono cordiale e il senso di comprensione che hanno dimostrato nel promettere tutto il loro interessamento per la soluzione di un problema, che è assolutamente indifferibile.
Penso tuttavia che, data la sproporzione fra le somme stanziate e il fabbisogno necessario, sarebbe opportuno, come in altri casi, provvedere con una leggina speciale.
Senza disturbare la Camera con vani discorsi, io vorrei, insieme con i colleghi della deputazione catanzarese, fissare dei colloqui con i Ministri competenti per preparare questi provvedimenti di legge che ritengo assolutamente necessari.
TUPINI, Ministro dei lavori pubblici. Sono già in preparazione.
MOLÈ. Va bene. Allora li esamineremo. E preso atto di tali propositi, ringrazio.
PRESIDENTE. Seguono due interrogazioni che, riguardando lo stesso argomento, possono essere abbinate:
Montalbano, al Ministro di grazia e giustizia, «per conoscere: 1°) come mai il Risorgimento liberale in data odierna (12 giugno 1947) in una corrispondenza da Palermo dal titolo: «Lo scandalo di Sciacca» e dal sottotitolo: «L’inesplicabile atteggiamento di un deputato comunista», dopo aver messo in rilievo presunti rapporti dell’interrogante con funzionari di polizia della provincia di Agrigento, ha potuto affermare quanto segue: «A meglio illuminare il morboso clima di speculazione politica, che ha gravitato intorno all’episodio di Sciacca, vale la pena ricordare l’inesplicabile atteggiamento di un teste molto importante, l’onorevole Montalbano Giuseppe, citato a comparire innanzi alla Sezione istruttoria e non ancora comparso probabilmente per sottrarsi ad un confronto pericoloso con qualche ufficiale di polizia giudiziaria». La verità è che l’interrogante è stato citato due volte a comparire dinanzi alla Sezione istruttoria presso la Corte di appello di Palermo e tutte e due le volte si è presentato all’ora stabilita (ore 9) alla Sezione istruttoria; ha trovato l’Ufficio col solo cancelliere, ha atteso più di un’ora invano, l’arrivo di qualche consigliere istruttore e poi ha dovuto andar via, d’intesa col cancelliere che sarebbe stato citato per altro giorno; 2°) quali provvedimenti intenda proporre contro quei consiglieri della Sezione istruttoria presso la Corte di appello di Palermo, colpevoli sia di recarsi molto tardi in ufficio, sia di fornire alla stampa notizie arbitrarie e tendenziose su un processo ancora in corso di istruzione; 3°) per quale ragione l’istruttoria per l’assassinio del ragionier Miraglia sia ancora affidata al consigliere Merenda, che, alcuni mesi fa, firmò l’ordinanza di scarcerazione degli imputati Curreri, Di Stefano e Rossi, senza motivare l’ordinanza, come ne aveva l’obbligo; 4°) quali disposizioni intenda dare affinché la deposizione dell’interrogante possa essere raccolta veramente ed al più presto dal magistrato inquirente; 5°) se è vero che siano stati sottratti dei verbali dal processo Miraglia e, nell’affermativa, quali provvedimenti siano stati presi contro i responsabili; 6°) se è vero che la polizia abbia estorto mediante sevizie la confessione dell’imputato Marciante e quali provvedimenti intenda disporre perché sia fatta piena luce al riguardo».
Volpe, Salvatore, Adonnino, ai Ministri dell’interno e di grazia e giustizia, «per conoscere della fondatezza o meno delle notizie pubblicate dalla stampa sul cosiddetto scandalo giudiziario di Sciacca ed in particolare sulla denunciata sottrazione di verbali dell’istruttoria del processo Miraglia e sulle sevizie inflitte ad imputati, i quali hanno, davanti il magistrato penale, denunziato le sevizie medesime. Per conoscere ancora, quali provvedimenti, nell’affermativa delle circostanze precedenti, si siano presi o s’intendano prendere contro i funzionari che si sarebbero resi colpevoli di tali gravi reati».
L’onorevole Ministro di grazia e giustizia ha facoltà di rispondere.
GRASSI, Ministro di grazia e giustizia. Onorevoli colleghi, rispondo anche per conto del Ministro dell’interno alle interrogazioni dell’onorevole Montalbano e degli onorevoli Volpe, Salvatore, Adonnino, le quali sono, per quanto diverse su alcuni punti, strettamente connesse fra di loro.
Incomincio da quella dell’onorevole Montalbano, per la parte specifica che lo riguarda. L’onorevole Montalbano vuol sapere dal Ministro di grazia e giustizia come mai un giornale di Roma, in data 12 giugno 1947, abbia potuto, in una corrispondenza da Palermo dal sottotitolo «Inesplicabile atteggiamento di un deputato comunista», dopo aver messo in rilievo presunti rapporti dell’onorevole Montalbano con funzionari di polizia della provincia di Agrigento, affermare che l’onorevole Montalbano, citato a comparire dinanzi alia Sezione istruttoria di Palermo non è ancora comparso, probabilmente per sottrarsi ad un confronto pericoloso con qualche ufficiale di polizia giudiziaria.
L’onorevole Montalbano, nel seguito della sua interrogazione, smentisce la notizia e chiede provvedimenti contro il consigliere istruttore della Corte di appello di Palermo, colpevole di recarsi molto tardi in ufficio e di fornire alla stampa notizie arbitrarie e tendenziose su di un processo ancora in corso di istruzione.
Su questo primo punto posso precisare all’interrogante e all’Assemblea quanto mi risulta da un rapporto della Procura Generale di Palermo in data 13 giugno 1947:
«L’onorevole Giuseppe Montalbano fu regolarmente citato una prima volta a comparire innanzi al Consigliere delegato della Sezione istruttoria per essere inteso quale testimone nel procedimento penale contro Curreri e C.i, imputati dell’omicidio in persona di Accursio Miraglia, il 17 maggio 1947, per il 19 dello stesso mese alle ore 10. Il Consigliere delegato alle ore 9.45 era già nel suo ufficio, ed apprese dal cancelliere della Sezione Istruttoria che l’onorevole Montalbano si era presentato alle ore 9 e minuti, si era soffermato per un quarto d’ora e si era allontanato dicendo al cancelliere stesso che si sarebbe recato a visitare il Procuratore Generale è sarebbe quindi tornato alla Sezione Istruttoria ove, invece, non fece più ritorno.
«Il Consigliere delegato rimase quel giorno in ufficio ad attendere l’onorevole Montalbano fino alle ore 13.
«La citazione dell’onorevole Montalbano era stata fatta per le ore 10, essendosi tenuto conto delle occupazioni che avrebbero potuto impedirgli di comparire per le ore 9, ora che di solito viene indicata per la comparizione dei testimoni.
«Il Cancelliere della Sezione Istruttoria fu incaricato dal Consigliere delegato di telefonare in casa dell’onorevole Montalbano per conoscere se questi si sarebbe presentato, ed avendo telefonato, apprese dalla moglie dell’onorevole Montalbano che l’ufficiale giudiziario aveva segnato sulla cedola relativa le ore 9 e non le ore 10.
«Pertanto, non essendo stato possibile escutere l’onorevole Montalbano per detto giorno, questi fu nuovamente e regolarmente citato a comparire per le ore 10 del 24 maggio 1947. In detto giorno l’onorevole Montalbano non si presentò e però il Consigliere delegato fece nuovamente telefonare dal Cancelliere in casa dell’onorevole Montalbano, in assenza del quale conferì con la moglie, pregandola d’avvertire il marito di fissare egli stesso un giorno e un’ora per la comparizione, compatibilmente con i suoi impegni politici. La signora Montalbano promise che avrebbe riferito al marito, ma sta di fatto che nessuna comunicazione né dall’onorevole Montalbano né dalla moglie è stata più data all’ufficio.
«Poiché ai fini istruttori è assolutamente indispensabile l’esame dell’onorevole Montalbano, il signor Procuratore Generale incaricato del processo, con richiesta del 7 giugno 1947, insisteva per l’audizione dell’onorevole Montalbano, richiesta alla quale non si è potuto dare subito corso perché l’ufficio si dovette trasferire a Sciacca per altri atti di istruzione.
«È da augurarsi, pertanto, che l’onorevole Montalbano, in relazione alla precedente comunicazione telefonica, faccia conoscere alla cancelleria della Sezione istruttoria il giorno e l’ora in cui egli è disposto ad essere sentito, mentre da parte del Consigliere delegato si è rinnovata la citazione a comparire per il giorno 21 giugno alle ore 10».
Da quanto esposto risulta evidente che l’onorevole Montalbano ha il modo come rendere presto la sua deposizione, ritenuta indispensabile ai fini istruttori, e così potrà smentire la notizia stampata da alcuni giornali che egli voglia sottrarsi a confronti pericolosi. D’altra parte appare infondato l’addebito mosso ai magistrati di recarsi tardi in ufficio. Escludo poi, date le informazioni raccolte, nella maniera più assoluta che da parte della Magistratura inquirente possano essere state fornite alla stampa notizie attinenti a procedure coperte da rigoroso segreto istruttorio. Tali notizie potrebbero essere pervenute alla stampa da parti diverse da quelle della magistratura, ossia da persone non vincolate dal segreto d’ufficio.
Circa il fatto che l’istruttoria sia affidata al Consigliere che in un primo tempo dispose la scarcerazione degli imputati, devesi far presente che la scarcerazione non fu disposta dal Consigliere istruttore, ma collegialmente, su conforme richiesta della Procura generale, dalla Sezione istruttoria, che è composta da un Presidente e due Consiglieri, secondo il disposto dell’articolo 57 dell’ordinamento giudiziario.
È poi da rilevare che nessuna incompatibilità esiste perché lo stesso giudice continui a svolgere un procedimento penale di cui ebbe ad occuparsi in una precedente fase della istruttoria; anzi, questo suole costantemente avvenire, quando emergono nuovi elementi di prova a carico delle persone prima escarcerate per insufficienza di indizi, essendo il giudice, già in precedenza informato su tutti gli elementi del procedimento, nelle condizioni più adatte per istruire le nuove prove emerse a carico delle stesse persone.
Del resto, la scelta del Consigliere delegato entra nella competenza insindacabile ed esclusiva della Sezione istruttoria (articolo 297 Codice procedura penale) ed è sottratta nella maniera più assoluta alla facoltà del Ministero.
Per quanto si riferisce agli ultimi punti (5° e 6°) dell’interrogazione, che sono connessi all’interrogazione degli onorevoli Volpe, Salvatore, Adonnino, rispondo che non è affatto vero che siano stati sottratti verbali o altri atti del processo Miraglia e che soltanto dopo il pronunciato giurisdizionale della Sezione istruttoria si potrà conoscere se sia vero o no che la polizia abbia estorto la confessione dell’imputato Marciante o di altri mediante sevizie, ed in caso affermativo l’autorità giudiziaria non mancherà di esercitare l’iniziativa penale e disciplinare in ordine ad eventuali reati che fossero stati commessi.
In tale eventualità – e qui voglio riportare le testuali parole del Procuratore generale – «le iniziative che saranno prese formeranno oggetto di serena ed obiettiva indagine giudiziaria, che sarà scevra, come del resto è nelle tradizioni della Magistratura, da preconcetti e da pietismi».
Onorevoli colleghi, da questo banco io non posso che rivolgere a voi tutti ed al Paese la preghiera che si lasci, con ogni tranquillità, svolgere l’istruttoria in corso, confermando nella Magistratura la fiducia necessaria perché essa eserciti la sua funzione in piena indipendenza.
Soltanto sulla giustizia, assicurata da una Magistratura libera ed indipendente, possiamo fondare il nuovo ordinamento della Repubblica italiana. (Applausi al centro).
PRESIDENTE. L’onorevole Montalbano ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.
MONTALBANO. Desidero anzitutto far notare che, mentre la mia interrogazione è diretta a sodisfare le due esigenze fondamentali del processo penale – una diretta alla punizione del colpevole, la seconda a tutelare l’innocenza – invece l’interrogazione dei colleghi democristiani è diretta solamente a tutelare l’innocente, cioè l’imputato che si presume tale fino a prova contraria, e che comunque non deve essere sottoposto a sevizie.
Evidentemente io avrei piacere che i colleghi democristiani facessero anche loro opera perché non solo venga tutelata l’innocenza dell’imputato, qualunque sia, ma anche venga fatta opera perché vengano puniti i veri colpevoli e i veri responsabili dell’assassinio di Miraglia.
Cultore di diritto penale e memore delle sevizie riportate nel periodo fascista, sono stato sempre avversario – come dimostrano le mie pubblicazioni – di qualsiasi forma di tortura quale strumento per estorcere confessioni all’imputato.
Se oggi in alcuni casi la polizia adopera la tortura per indurre gli imputati a confessare, ciò dipende innanzi tutto dal fatto che gli organi dello Stato, il Ministero dell’interno e la Magistratura in generale sono essi per primi ancora disposti a tollerare lo sconcio che le sevizie siano usate, e dipende in secondo luogo dalla tradizione infausta per cui si protraggono ancora oggi, ai nostri giorni, i metodi della Santa Inquisizione (Commenti) che elevò la tortura a perfetta regola d’arte per assicurare la confessione dell’imputato e ritenne la confessione estorta con la tortura il più valido mezzo di prova.
Occorre dunque che, da parte del Ministro dell’interno e da parte della Magistratura, si diano severe disposizioni perché i funzionari di polizia vengano sottoposti essi stessi a procedimento penale tutte le volte che adoperano le sevizie contro gli imputati.
Però quella di oggi non è una questione da risolversi in astratto, bensì in concreto; cioè si tratta di sapere se sia vero o no che l’imputato Marciante sia stato sottoposto a sevizie e che la sua confessione sia stata estorta mediante torture. Questo è il punto.
Il Ministro della giustizia ha detto che bisogna avere fiducia nella Magistratura, e che la Magistratura deve decidere. Noi vogliamo avere questa fiducia, e speriamo che la questione sia risolta al più presto.
Per quanto riguarda l’accusa che mi è stata rivolta di aver avuto rapporti con funzionari di polizia, posso assicurare che coloro i quali hanno rapporti con la polizia, cercano di corromperla e la spingono a commettere azioni illegali; a volte a compiere sevizie a carico degli imputati, a volte a stendere verbali falsi o a sopprimere gli esistenti. Costoro non siedono nei banchi di sinistra, ma eventualmente appartengono a quei partiti che sono l’espressione dei ceti plutocratici, i quali alimentano la delinquenza e ne sono i veri protettori.
PRESIDENTE. Onorevole Montalbano, sono passati cinque minuti, concluda.
MONTALBANO. Per quanto riguarda l’incidente mio personale, ripeto che ero stato citato a comparire alle ore 9, e alle 9 mi sono presentato alla sezione istruttoria. Ma c’era soltanto il cancelliere. Sono stato ad attendere la prima volta fino alle 10 e poi fino alle dieci e un quarto (Interruzioni – Commenti)… Recatisi a casa mia hanno parlato con mia moglie… (Interruzioni – Rumori) rimanendo d’accordo che sarei stato citato una terza volta.
RUSSO PEREZ. Sono fatti che non interessano la Camera.
MOLTALBANO. Sono stato io a sollecitare di essere interrogato per svelare una circostanza che forse sarà decisiva per l’accertamento della verità. (Interruzioni).
PRESIDENTE. Non interrompano. Vi sono pochi minuti dedicati alle interrogazioni. Non perdiamo altro tempo.
MOLTALBANO. Io sono convinto che scandali nel processo di Sciacca non ci sono stati. Si è verificata soltanto qualche indelicatezza durante il periodo di istruttoria. C’è stata qualche indiscrezione e la stampa ne ha approfittato per scrivere cose non conformi alla verità e creare un’atmosfera completamente diversa da quella che dovrebbe esserci perché sia fatta completamente luce e perché vengano scoperti i colpevoli. Noi miriamo a questo: che siano assicurati alla giustizia i veri colpevoli. Concludo dicendo che la risposta del Ministro è in parte sodisfacente, ma in parte no. Per quanto riguarda il fatto Merenda, evidentemente il Ministro non può provvedere alla sostituzione. Però è bene, secondo me, che non sia più lui a dirigere l’istruttoria del processo Miragli, perché c’è da presumere che, se qualche indiscrezione è trapelata dalla stampa, questa indiscrezione proviene da parte sua. Per questa ragione è bene che sia fatta la sostituzione da parte del Presidente della Sezione Istruttoria.
PRESIDENTE. L’onorevole Volpe ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.
VOLPE. Desidero ringraziare il Ministro di grazia e giustizia; e desidero dire, anche a nome dei miei colleghi, che siamo in attesa fiduciosa dell’esito delle indagini che la Magistratura sta per svolgere. Ci riserviamo di tornare a interrogare il Ministro di grazia e giustizia ad inchiesta ultimata. Desidererei dire qualche cosa all’onorevole Montalbano che mi ha preceduto; e precisamente questo: l’onorevole Montalbano ha rimproverato a noi del gruppo democratico cristiano di non aver accennato alla necessità di una inchiesta, né incitato alla scoperta dei colpevoli dell’assassinio Miraglia. Desidererei dire all’onorevole Montalbano che chi parla è figlio di lavoratore delle miniere; che è cresciuto nelle miniere di zolfo tra i minatori; che ha perduti due suoi zii nel fondo della miniera, schiacciati dal minerale che su di loro è precipitato. Parla quindi un lavoratore, e l’onorevole Montalbano sa che in tutte le battaglie, nelle quali i lavoratori di Sicilia sono stati impegnati, sono stato sempre al loro fianco. Era implicito, quindi, che nella nostra interrogazione si chiedesse vivissimamente agli onorevoli Ministri interessati tutto il loro interessamento a che gli autori del barbaro delitto Miraglia fossero scoperti; e noi qui solennemente dichiariamo che siamo contro tutte le azioni di violenza, siamo contro tutti i fatti di sangue che vengano commessi contro chicchessia.
Desideravo sottoporre ancora all’attenzione dell’onorevole Montalbano quanto leggo su un giornale: lo sottopongo all’onorevole Montalbano il quale diceva di aver fiducia nella Magistratura. Desideravo leggergli quello che è riportato in un articolo sulla Voce della Sicilia di giorni fa, e precisamente l’ordine del giorno votato dalla Camera del lavoro di Sciacca nel quale si dice che da parte delle autorità inquirenti non si vuol tener conto delle prime dichiarazioni fatte dagli imputati… ma si vogliono prendere in considerazione gli alibi degli imputati, creati coi milioni degli agrari assassini, con cui si pretende di far figurare presente a Padova l’imputato Marciante.
Questo, onorevole Montalbano, vuol significare far pressione sulla Magistratura. La Magistratura deve essere libera.
Sulla Magistratura non si deve neppur pensare di fare la benché minima pressione, di qualsiasi specie.
La Magistratura deve tutelare tutte le libertà, tutti i cittadini.
Sulla Magistratura nessuna influenza di piazza deve mai verificarsi.
Noi, onorevole Montalbano, dobbiamo stare accanto ai lavoratori, insieme con loro combattere la grande battaglia, che è la nostra battaglia; ma non spingiamo i nostri lavoratori ad azioni, che pregiudicano la serietà e la dignità nostra.
Noi ci prefiggevamo di chiedere notizie circa quanto riportato dalla stampa e cioè sulle sevizie commesse contro gli attuali imputati.
Non si parla in Sicilia di sevizie soltanto in questo caso.
Sevizie contro gli inquisiti, onorevoli colleghi, se ne commettono da parte della autorità di Pubblica Sicurezza giornalmente, in tutte le caserme di Sicilia.
Io avrei un documentario di sevizie contro inquisiti in Sicilia da sottoporre all’onorevole Ministro dell’interno, ma penso che non sia questo il momento opportuno.
Mi riservo, quindi, di abbinare le due questioni quando l’onorevole Ministro per la grazia e la giustizia ci avrà dato ulteriori, definitive notizie circa il caso Miraglia.
PRESIDENTE. È così trascorso il tempo regolamentare assegnato alle interrogazioni.
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.
PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.
È iscritto a parlare l’onorevole Marina. Ne ha facoltà.
MARINA. Non avrei chiesto la parola, per aderire al desiderio espresso da numerosi onorevoli colleghi di abbreviare questa discussione sulle dichiarazioni del Governo, se non avessi ritenuto opportuno aggiungere alcune osservazioni particolari a quanto già ampiamente hanno esposto gli oratori che mi hanno preceduto e coi quali di massima convengo; altrimenti non farei che ripetere cose già note, sugli accorgimenti che si dovrebbero prendere per porre un freno all’aumento dei prezzi ed allo slittamento della lira.
A mio avviso, però, nessuno degli oratori precedenti ha fatto presente che forse la causa principale di questa situazione è agganciata alla mancata tregua salariale, che continua a persistere tuttora, cosicché invece di aversi un equilibrio fra spese, paghe e stipendi, abbiamo continuamente in agitazione questo settore della vita nazionale.
Infatti, se noi vogliamo, d’accordo, fissare i prezzi, come possiamo farlo se notiamo lo squilibrio fra i prezzi attuali e i prezzi anteguerra in modo così difforme che non sappiamo su quale di questi basarci?
Per i generi alimentari – riferisco i dati dell’aprile 1947 tolti dalla rivista diretta dal nostro collega Parri – il vino è cresciuto, per esempio, 50 volte, il latte 47, il burro 45, l’olio d’oliva 43, lo zucchero 24, la pasta 20 e la farina 14.
Quali di questi prezzi potranno trovare il loro equilibrio e formare la base su cui fermarci? Le 50 volte del vino, o le 14 volte della farina? E così dicasi per gli oggetti di vestiario. I tessuti di lana sono cresciuti 100 volte, le calzature 75, i tessuti misti 45, gli autoveicoli 30, i giornali 27, le lampadine 25, le sigarette normali almeno 24 volte, e così potrei continuare a fare osservare quali punte altissime si sono raggiunte in certe qualità di merci e come bassissime viceversa siano le tariffe telegrafiche, del gas, dell’abbonamento alla radio, le tariffe postali che superano appena 10 volte quelle dell’ante-guerra, mentre gli affitti non sono neppure raddoppiati.
Onorevoli colleghi, di questo continuo perturbamento che noi abbiamo sul mercato dobbiamo osservare quali sono le cause fondamentali che portano a questo squilibrio, e non solo gli effetti, e contro queste cause agire con drastica energia.
Tutti coloro che si occupano di economia sanno che un prodotto finito, quando giunge al consumo e al consumatore, è costituito da vari elementi di costo; il più importante di essi è la spesa per la mano d’opera, che assorbe in definitiva il 60-70 per cento del costo globale, mentre il resto è costituito dalle spese dei trasporti, dall’energia trasformatrice e dagli utili dell’imprenditore, oltre le spese dei vari servizi accessori, come assicurazioni, ecc.
Così, ad esempio, il banco dove sediamo è costituito, come voi vedete, da legname. Il legname all’origine non costa niente, o tutt’al più la piccola spesa di mano d’opera per la messa a dimora della pianta, se questa non è nata spontaneamente: però incomincia a costare il giorno in cui andiamo a tagliare quell’albero: occorre la mano d’opera per l’abbattimento e per la spoliazione dei rami, per il rotolamento del tronco a fondo valle, occorre la spesa di trasporto dalla montagna al piano, ove nella segheria subisce il processo di trasformazione in tavole e travi.
Anche per far ciò occorre la mano d’opera ed una piccolissima spesa per l’energia elettrica necessaria per azionare le macchine. Le tavole e le travi passano successivamente in vari magazzini di rivenditori con spese di mano d’opera per il carico e lo scarico e spese di trasporto. Giunte le tavole e le travi al mobilificio, altra mano d’opera le trasforma in quel banco su cui noi sediamo e per il quale, una volta costruito, sono occorse altre spese per il suo trasporto e mano d’opera per il collocamento in quest’aula. Potrei darvi altre dimostrazioni, ma ritengo non occorra. Vi posso però assicurare che il dato di incidenza della mano d’opera e delle altre spese stipendiali è esatto, cosicché il costo di un prodotto ha un carico definitivo per quelle del 60-70 per cento.
Infatti lo potete controllare attraverso questo conto sommario. Si dice che nell’industria italiana siano impiegati 6 milioni di lavoratori; ciascun lavoratore costa all’industria all’incirca 250 mila lire l’anno: abbiamo così una spesa globale annua di 500 miliardi per mano d’opera e stipendi, contro una produzione che viene valutata a prezzi odierni dai 2200 ai 2500 miliardi.
Come vedete, il calcolo sopraindicato vi dimostra la approssimativa incidenza delle spese di paga e stipendi, che raggiunge quel 60-70 per cento che ho sopramenzionato. Ed allora, se noi vogliamo mettere un punto fermo a questa nostra economia oscillante e disordinata dalla guerra, dobbiamo effettivamente partire da questo che è il dato fondamentale e di gran lunga più importante di ogni altro.
Vi dirò subito che a me non importa conoscere se convenga fissare le paghe a 25 o a 30 piuttosto che a 40 volte quelle dell’anteguerra, perché questo non ha grande importanza; se mai ha grande importanza la differenziazione salariale che si deve stabilire fra le categorie di lavoratori, categorie che in questo momento, attraverso quel processo di revisione salariale che conoscete, si sono venute invece parificando, con differenziazioni minime nei loro rispettivi guadagni. Ed è questa la causa prima del grave disturbo che noi abbiamo nel campo dei lavoratori, è questo il motivo per cui i nostri operai specializzati non rendono come rendevano nel periodo anteguerra, perché sono male pagati in confronto alle altre categorie, come pure gli impiegati ed i dirigenti, che, a parer mio, non ricevono un compenso sufficiente né proporzionale alle altre categorie di lavoratori. E chi ne soffre è la produzione e coloro che la godono, che sono in definitiva i lavoratori stessi.
Ora, in effetti, quando l’onorevole De Gasperi ha detto che bisogna arrivare a salvare la lira e a salvare la situazione economica del Paese, ha detto delle cose note, ma ha pure detto delle parole esatte dicendo che bisogna aggredire tutti i settori dell’economia italiana. Tra questi settori vi è precisamente quello delle paghe e degli stipendi che è per me, come vi ho dimostrato più sopra, il più importante e sul quale noi dobbiamo agire.
Io ebbi già occasione, nello scorso settembre, in una seduta preliminare nella sede della Confederazione Generale dell’industria, di suggerire, in materia di tregua salariale, quanto vi ho accennato poco fa, e gli onorevoli Lizzadri e Bitossi, che qui non vedo, mi possono essere testimoni: arrivare cioè a far sì che i salari fossero equamente corrisposti e fosse stabilita la base che biologicamente si riteneva necessaria e indispensabile per compensare l’operaio tipo (che ritengo sia il manovale specializzato e l’impiegato di terza categoria) e dopo differenziare tecnicamente, come pressappoco anteguerra, questi stipendi e queste paghe fra tutte le varie categorie di lavoratori. Non mi si è voluto ascoltare.
Ho dimostrato pure che la scala mobile, nel modo come funzionava allora e come funziona ora, è controproducente e dannosa all’economia del Paese.
Difatti voi vedete questo. La scala mobile viene variata ogni due mesi in base ai prezzi che si sono modificati nel bimestre precedente. Che cosa avviene? Avviene che aumentando i salari di quanto è aritmeticamente necessario per far fronte agli scivolamenti dei prezzi che a volte si sono verificati per ragioni diverse, stagionali e di speculazione, si viene così a rendere definitivo un aumento che, per la sua causalità, col tempo sarebbe scomparso e si sarebbe corretto da solo, specialmente in base alla legge della domanda e dell’offerta.
Appena le paghe vengono aumentate, anzi nelle more della discussione fra le parti interessate a trattare le rettifiche, il mercato reagisce ed i prezzi riprendono a salire in forza ed in causa degli aumenti dei salari che si stanno concordando.
Difatti, se voi ricorderete, nel marzo di quest’anno, appena si fece cenno che la tregua salariale non si sapeva ancora se si sarebbe rinnovata o meno, nel dubbio, i prezzi scapparono rapidissimamente in su, spintivi anche da cause politiche. Per quale motivo? È un motivo mercantile logico, perché colui che detiene un determinato prodotto ed è costretto a venderlo per rinnovarlo, onde mantenere nel suo stabilimento il lavoro, deve necessariamente aumentare il prezzo in modo tale (ammesso che questo sia un industriale onesto) da ricavare il medesimo quantitativo di danaro che gli serve per riprodurre l’oggetto che è costretto a vendere. Ma parallelamente all’industriale onesto, che aumenta il prodotto di quel tanto che è necessario per cautelarsi come vi ho detto più sopra, vi sono anche quella serie di speculatori che noi conosciamo, i quali al minimo cenno della salita dei prezzi nel mercato nazionale, e oserei dire nel mercato mondiale, approfittano ed accentuano tale fenomeno: e noi vediamo che le materie prime base scompaiono subito dal mercato per riapparire però otto, dieci, quindici giorni dopo aumentate di prezzo di gran lunga di più di quello che è il coefficiente di aumento che a loro spetterebbe in proporzione a quello che si deve applicare nelle paghe e negli stipendi, in base alla oscillazione che si è verificata nei prezzi indici.
E allora voi direte: così facendo, se noi ci fermiamo, chi si sacrifica? Si sacrificano certamente i salariati e gli stipendiati, ed è questo il contributo che essi devono dare per la difesa della lira e per la stabilizzazione dei prezzi. Mentre le classi abbienti debbono, allo stesso scopo, sacrificare gran parte dei loro redditi e dei loro capitali.
Io ho ventisette anni di esperienza. Ho partecipato all’altra guerra mondiale, ho vissuto il dopoguerra e dal 1920 ad oggi ho diretto diverse aziende, ho vissuto i processi economici e sociali di quel dopoguerra e che si ripetono ora in modo pressoché identico. A mio avviso, se si vuol fare qualche cosa di veramente utile, occorre metterci tutti in trincea: prestatori d’opera e datori di lavoro, poveri e ricchi. Così solo si potrà veramente difendere e salvare questa nostra economia.
Il sacrificio che dobbiamo chiedere ai prestatori d’opera è precisamente quello di cercare di fermarsi nella richiesta di aumenti di paga: dico fermarsi nel senso relativo, perché a fianco del dato «paga», voi sapete che opera in modo correttivo l’indennità di contingenza, che dovrà però essere riveduta nel suo funzionamento.
Sono del parere che a questa indennità di contingenza dovrebbe essere applicato un coefficiente, che io chiamerei coefficiente di sicurezza, ragguagliato ad uno scarto del 20 per cento in più o in meno. Questo coefficiente dovrebbe funzionare nel senso che, qualora i dati indici del bimestre precedente segnassero una oscillazione inferiore a questo dato da me indicato, non si dovrebbe far luogo a nessun aumento o a nessuna diminuzione della indennità di contingenza. Se viceversa questo dato fosse superato, si dovrebbe aumentare o diminuire l’indennità di contingenza di quel tanto che eccede il 20 per cento sopra indicato.
È un modo tecnico sicuro per fermare il dato fondamentale della produzione che si ravvisa nel costo della mano d’opera e degli stipendi.
Confesso che ciò sarebbe veramente un sacrificio per le categorie lavoratrici, che vivono esclusivamente del frutto del loro lavoro, in quanto che le loro paghe e i loro stipendi attuali non consentono di poter acquistare beni nella stessa misura anteguerra perché essi possano vivere la passata vita, biologicamente sana e sodisfacente.
La ragione fondamentale ed obiettiva è che i beni di consumo e strumentali che si trovano oggi sul mercato mondiale, sono in quantità molto minore di quelli anteguerra e pertanto nessun aumento di paga permetterebbe ai lavoratori una migliore e maggiore distribuzione di questi beni a loro favore.
Ma a questo stato di cose si potrà portare un effettivo miglioramento solo attraverso una precisa e paziente volontà da parte di tutti di aumentare la produttività nazionale.
Per riformare le nostre scorte in tutti i settori merceologici, occorreranno 3, 4, 5 anni ancora.
Nell’altra guerra, occorsero ben otto anni per riformare le scorte nei vari stabilimenti e nei vari magazzini.
In effetti questo può sembrare un suggerimento a carattere conservatore, come si usa dire oggi, ma non è così. Noi dell’Uomo Qualunque che rappresentiamo anche noi, modestamente, una certa quantità di lavoratori, abbiamo la volontà precisa di far sì che al lavoratore sia dato tutto il possibile, cioè quel compenso che, ragguagliato all’attuale situazione economica del Paese, consenta ad esso lavoratore di avere il massimo dei guadagni. La ragione è ovvia e tutti la conoscono; ognuno di noi sa, infatti, che il lavoratore è il consumatore del prodotto del proprio lavoro. Se lo mettiamo in condizioni di guadagnare e di guadagnare bene, e lo facciamo lavorare poche ore al giorno perché egli possa nelle rimanenti godere i frutti del proprio lavoro, mettiamo in pratica il principio della rapida circolazione del capitale; sollecitando così il consumo si aumenta la produzione e conseguentemente diminuiscono i prezzi dei prodotti. Più rapidamente si svolge questo processo e più rapidamente si raggiungerà il vero benessere nel nostro Paese.
Noi abbiamo un solo divario fondamentale con la concezione comunista, ed è che riteniamo più utile e meno costoso e più producente il capitale privato in confronto al capitale di Stato.
Il nostro asserto è confortato dai significativi esempi che abbiamo oggi qui in Italia.
Superata questa ideologia, credo che sul maggiore benessere possibile da dare ai prestatori d’opera siamo tutti d’accordo e specialmente, credo, il Partito democratico cristiano che avendo avuto 8 milioni di voti, rappresenta senza dubbio tutta la gamma delle categorie produttrici del Paese. Non vedo quindi perché questo partito, che oggi ha creduto opportuno governare da solo, non debba essere sorretto dalla fiducia, per lo meno condizionata, di tutta la Camera. Non vedo perché non si debba lasciar fare un esperimento di qualche mese a questo Governo, che l’onorevole De Gasperi ha formato, come l’onorevole Giannini, fin dallo scorso giugno, aveva suggerito in un suo intervento alla Camera. Costituire cioè un Gabinetto con uomini del Partito più numeroso, il democristiano, che evidentemente aveva riscosso la maggiore fiducia nel Paese, integrandolo con tecnici di capacità indiscussa e di provata esperienza, che potesse amministrare il Paese, il quale, in questo momento, come tutti i paesi d’Europa, sta attraversando la parte più tragica e pericolosa della sua vita economica. Ma noi siamo dei dilettanti e non dei politici professionali e ragioniamo solo colla logica del buon senso, che evidentemente in politica non basta.
Ora io vorrei che venisse trattato con urgenza il problema della effettiva tregua salariale, perché, non più tardi di qualche giorno fa, come rappresentante di una categoria industriale, ebbi occasione di fare completare un contratto nazionale salariale e stipendiale di categoria che doveva far luogo alla sostituzione, con una unica regolamentazione, delle varie sperequazioni salariali che nella stessa categoria si riscontrano nelle diverse zone industriali.
Per addivenire a questa regolamentazione si è finito per stipulare un contratto nazionale che prevede un aumento medio dei salari e degli stipendi di circa il 32 per cento.
E questo non sarebbe un male, perché, come dicevo prima, è mia opinione che l’operaio debba essere ben pagato. Il guaio è che gli stessi rappresentanti dei lavoratori, dopo avermi pregato di smussare tutti gli ostacoli per la conclusione di questo contratto, mi preannunciarono che fra non molti giorni si sarebbero messi in agitazione per la revisione del contratto normativo di categoria. Ora, è possibile che il Paese debba continuare a vivere in agitazioni permanenti, che non hanno nessuna ragione…
Una voce a sinistra. La ragione è che aumentano i prezzi tutti i giorni.
MARINA. …per il fatto obiettivo che ho detto prima, e cioè che a noi non interessa sapere quale sia il livello tecnico che realmente si vuole fissare a base degli stipendi e delle paghe? Questo livello lo si potrebbe fissare anche cento volte superiore a quello che era prima della guerra. Ciò non ha nessuna importanza, perché tutto si adeguerebbe poi su questa nuova base.
Ma in questo momento, onorevoli colleghi, siamo o non siamo in una situazione grave per cui dobbiamo dire: «fermiamoci»? Da dove dobbiamo incominciare a fermarci? Dai prezzi? Vi ho già dimostrato che vi sono sperequazioni tali che non si sa dove cominciare: comprimere i prezzi è una parola, e voi lo sapete. Però vi assicuro che se noi avessimo il coraggio di dire che la tregua salariale è effettiva, vera, reale e che sarà procrastinata almeno per un anno, potete essere certi che fra quindici giorni voi vedreste i prezzi scendere, e scendere violentemente in tutte le categorie merceologiche, e i signori speculatori ed i disonesti ne pagherebbero lo scotto.
Voi potete avere la prova di ciò, esaminando l’andamento dei bollettini di Borsa. Basta un minimo di tranquillità perché tutto scenda ad un livello più adeguato.
Io vorrei – e credo sia necessario farlo – che si arrivasse anche ad una tregua politica, oltre che salariale. Come la tregua salariale agisce indubbiamente in modo drastico sui prezzi e li fa scendere, così la tregua politica darebbe garanzia a quelle Nazioni che ci possono e ci debbono aiutare, ma che in questo momento non ci aiutano appunto perché non diamo loro alcun affidamento politico di tranquillità.
Badate che attualmente questo stato di continua agitazione mantiene lontani anche quei turisti stranieri che, con la loro permanenza nel nostro Paese, alimentano una delle entrate invisibili e cospicue della nostra bilancia commerciale.
TEGA. Siete voi che create queste cose. Dove sono le agitazioni?
MARINA. Io non so cosa lei faccia nella sua vita privata, ma vorrei vedere, caro signore, se siamo noi o se siete voi. Ho detto prima, e lo confermo, che noi abbiamo un programma che forse sopravanza il vostro sul terreno economico sociale.
Quando voi dite che siamo noi, informatevi chi sono io presso la Camera del lavoro di Milano e saprete quali sono i miei concetti, concetti che qui esprimo e confermo nell’interesse non del mio partito, ma della Nazione.
Ora, ho detto che, oltre la tregua salariale, credo occorra anche la tregua politica.
Vorrei dare ora qualche suggerimento di carattere finanziario e produttivo.
Io vorrei chiedere all’onorevole Pella, se non abbia esaminato la possibilità di far pagare anche un’altra tassa che il contribuente sarebbe lietissimo di pagare: la tassa cioè sul ritorno dei titoli da nominativi al portatore.
Ella mi insegna, onorevole Pella, che tutti i portatori di titoli, chissà perché, non gradiscono essere conosciuti. Ed appunto per questo, per questa psicologia particolare, mi parrebbe opportuno un provvedimento che permettesse a questi signori di trasformare da nominativi al portatore i titoli in loro possesso, facendo pagare per questo una tassa, ad esempio del 15 per cento sul prezzo di Borsa.
Mi parrebbe, che, grosso modo, oltre 200 miliardi potrebbero entrare nelle casse dello Stato, ed entrarvi in modo dolce e spontaneo, se è esatto che il valore dei titoli azionari ammonta oggi a circa 1500 miliardi.
Le tasse, voi sapete, il contribuente le paga malvolentieri; ma questa, parrebbe strano, è come la tassa sul fumo, una tassa che il contribuente è lietissimo di pagare.
Io non sono un fumatore, ma ho visto, a proposito di tabacchi, che in questa congiuntura economica, lo Stato è arrivato a vendere il doppio del quantitativo di tabacco in confronto all’anteguerra, perché ai fumatori piace fumare e pagano volentieri la tassa relativa.
Io ho qui una rivista economica nella quale si legge che nel 1945, nel mese di luglio, le quantità prodotte di generi da fumo erano 1862 tonnellate e nel marzo del 1947 sono arrivate a circa 2850 tonnellate; oltre al tabacco che viene dall’estero contrabbandato, ecc. Pertanto si ha oggi un quantitativo doppio di consumo in confronto all’anteguerra.
PELLA, Ministro delle finanze. È il 110 per cento.
MARINA. Un’altra tassa, che ha segnato un benefico incremento, è la tassa di scambio, il cui coefficiente è stato ridotto dal 4 al 3 per cento. Questa riduzione ha già provocato un maggiore introito; ma, a mio avviso, anche il 3 per cento è ancora troppo elevato. Voi sapete che i prodotti di grande consumo, prima di arrivare al consumatore girano almeno tre o quattro volte, il che vuol dire che con questi trapassi essi pagano una tassa complessiva del 12 per cento.
Un prodotto che ha un forte consumo non può sopportare questo onere del 12 per cento, ed ecco perché abbiamo evasioni su larga scala della tassa di scambio: vendite senza fattura, e tanti altri accorgimenti che gli esperti conoscono.
Riducendo dal 3 al 2 per cento questa tassa, sono d’avviso che si ridurranno fortemente le evasioni e che lo Stato finirà per beneficiarne.
Gli uomini che sono ora al Governo, esperti quanto me e più di me, sanno che questa è la strada da seguire perché le tasse indirette diano il massimo gettito possibile. Quando il coefficiente è basso, l’interessato non ha convenienza ad evadere la tassa per il forte rischio cui dovrebbe andare incontro.
Ritornando alla tregua, quando nello scorso settembre discussi sulla tregua salariale, prospettai la possibilità di cogliere l’occasione in quel momento per abolire tutti i prezzi politici, e specialmente quello del pane: con pochissime lire di più al giorno corrisposte all’operaio noi potevamo fin d’allora abolire quel prezzo politico che viene tolto solo oggi, e così lo Stato avrebbe risparmiati circa 70 miliardi.
Allora suggerii pure di abolire un altro prezzo politico che, a parer mio, è una vera ingiustizia sociale per una larghissima categoria di cittadini.
Un altro oratore di questa Camera ne fece un larvato cenno in riferimento alla imposta straordinaria sul patrimonio, che tanto preoccupa specialmente i piccoli proprietari di immobili.
Dissi allora: «Amici! cerchiamo di abolire anche il prezzo politico degli affitti. Portiamolo con velocità, non dico al prezzo giusto, ma ad un prezzo bloccato e condizionato che sia tale da compensare il proprietario dell’immobile e da indurre i costruttori a riprendere le costruzioni edilizie di cui si ha tanto bisogno».
La cosa essendo politicamente poco accettabile per certi partiti, non venne accolta, per quanto i conti da me fatti fare, in riferimento a quel famoso limite relativo alla indennità di contingenza, mi dicevano che con sole 80 lire di aumento al giorno ai salariati avremmo potuto abolire il prezzo politico del pane e portare questo al giusto livello di mercato, aumentare gli affitti urbani a 10, 12 volte l’anteguerra, e di conseguenza a 15-20 volte gli affitti industriali e commerciali.
Perché, con questo modesto accorgimento non si è voluto affrontare un problema che ha una importanza grandissima nell’economia nazionale? Io oserei dire che lo si potrebbe e lo si dovrebbe affrontare ancora oggi, perché siamo ancora in tempo. Voi vedete che ogni due mesi aumentiamo le indennità di contingenza agli operai di 100 lire al giorno. Che male ci sarebbe, se questo operaio facesse da passamano di un altro biglietto da cento che dalla sua mano passasse a quella del proprietario dello stabile di cui egli gode una parte? Si verrebbe a cancellare quella che io ritengo una grave ingiustizia sociale, perché è ingiusto che ci siano dei cittadini che si sacrificano non a favore di una collettività ma di singoli individui, quando gli altri cittadini questo non fanno: non solo non è giusto, ma è anche delittuoso che ci siano coloro che beneficiando di questi beni quasi gratuiti ne facciano anche una larga speculazione.
Ora, signori miei, può continuare questo stato di cose?
A me parrebbe di no, nell’interesse della collettività.
Voi vedete qui in Roma una quantità di locali, come bar e cinematografi, che pagano sciocchezze di affitto e che pure guadagnano fior di quattrini. È giusto questo?
L’attuale Governo aggredisca questo problema: è un problema interessante; è un problema fondamentale per l’economia della nazione; è un problema di ricostruzione che ha un peso notevolissimo.
L’industria edilizia, voi lo sapete, è la più grande industria italiana: essa è arrivata ad impiegare sino ad un milione di lavoratori, mentre ora – stando per lo meno agli ultimi miei dati – non occupa che 120 mila operai. Non dico certo che immediatamente questa industria possa passare dai 120 mila lavoratori impiegati attualmente al milione dell’anteguerra. Affermo però che centinaia di migliaia degli attuali disoccupati troverebbero un lavoro, perché voi mi insegnate che proprio nell’industria edilizia trova occupazione quella mano d’opera non qualificata e non specificata che abitudinariamente e stagionalmente passa dall’agricoltura all’industria e viceversa: proprio quel tipo di mano d’opera disoccupata che grava specialmente sul meridione d’Italia, ove non sappiamo come si possa risolvere il problema della disoccupazione se non con la lenta emigrazione, perché non vi sono che modestissime possibilità industriali.
Io che sono milanese posso dirvi con piacere che nell’Italia settentrionale la ripresa è così rapida e così incoraggiante nel settore industriale, da poter affermare che la disoccupazione non esiste più, o esiste solo sulla carta, tanto che, oso dire, se si indagasse a fondo su questo problema, probabilmente si scoprirebbe che molti di coloro i quali attualmente godono del sussidio di disoccupazione e sono elencati come disoccupati, non hanno diritto al sussidio, perché non sono disoccupati veri e lo Stato potrebbe risparmiare in tal modo decine e decine di miliardi.
È dunque un problema di carattere nazionale, che deve essere affrontato, e che va affrontato e risolto in sede comunale, perché quella è la sua sede. È là che i sindaci e gli assessori debbono guardare a fondo e rendersi personalmente responsabili della lista dei disoccupati dei loro paesi.
Vi ricorderò un piccolo episodio: a Milano, nello scorso inverno, avemmo quella nevicata che voi sapete. Ebbene, non si trovò la mano d’opera sufficiente per lo spalamento. Similmente le imprese che dovevano provvedere allo sgombero delle macerie non trovarono neppure esse la mano d’opera bastante per operare rapidamente questo sgombero. Chi vive a Milano ne sa qualche cosa.
Dico questo perché è interesse di tutti, e non è interesse soltanto del partito dell’Uomo Qualunque, o del partito socialista, o del partito comunista o di qualsiasi altro partito che siede in questa Camera. È un interesse della ricostruzione, è un problema di moralità che si inserisce nelle questioni che più ci stanno a cuore, quella della sistemazione delle finanze dello Stato e quella di provvedere lavoro ai disoccupati. Ma il padrone di casa che riceve, non dico un giusto affitto, ma qualche cosa che si avvicini al giusto, sarebbe ben lieto di pagare quella tassa di fronte alla quale oggi violentemente si ribella perché non ne ha i mezzi, e la sua proprietà non glieli fornisce.
Io so che al professor Einaudi è stata mandata, da parte dell’Associazione dei proprietari di case, una lettera implorante un qualsiasi accorgimento che permetta, sì, di pagare le tasse, ma in modo che i proprietari di questi immobili, e specialmente dei più modesti, non abbiano a dover subire il grave danno di ipotecare le loro case o, peggio ancora, di dover ricorrere a prestiti che hanno qualche volta carattere di esosità per il loro alto tasso, dato che gli istituti bancari si rifiutano di aiutarli.
Non vi pare che l’accorgimento ci sia e sia quello da me indicato? Invito pertanto il Governo a porsi con urgenza il problema ed a risolverlo nell’interesse di una cospicua categoria di cittadini, anch’essi meritevoli di considerazione, che non lesineranno, ne sono sicuro, aiuti allo Stato, se questo Stato li aiuterà e non si mostrerà loro nemico come fa oggi, anche in contrasto con gli interessi veri della collettività.
Passando al tesseramento, credo che il Governo sia entrato nell’ordine di idee di toglierlo al più presto: è necessario, per fare ciò, disporre di una massa di manovra di generi alimentari cospicua. Solo così si potrà presto arrivare alla sua abolizione.
Ma per poter acquistare sul mercato mondiale i viveri occorrenti per formare questa massa, ci necessitano degli ingenti prestiti esteri; e qui mi riallaccio a quanto dicevo prima circa la tregua politica: questa tregua politica è indispensabile in modo assoluto, perché dando tranquillità alle Nazioni che ci devono aiutare con prestiti, ci permetterebbe di avere quel danaro, in una misura non di 100 milioni di dollari, coi quali chiuderemmo appena un buco, un piccolo buco delle nostre grandi necessità, ma non risolveremmo mai il problema in modo completo. A mio avviso almeno mille milioni di dollari ci occorrono. E perché dico mille milioni di dollari?
A parte il fatto che bisogna risanare il deficit della nostra bilancia commerciale, come è stato dimostrato dalla relazione Campilli, abbiamo un bisogno indispensabile, fondamentale: quello di riformare le scorte: quello di acquistare in larga misura i generi alimentari che ci occorrono: perché con poche decine di migliaia di tonnellate di generi alimentari buttate sui grandi mercati di Milano, di Roma, di Napoli, di Genova e di tutte le grandi città, vedreste che i prezzi dei generi alimentari scenderebbero velocissimamente a tutto sollievo del modesto consumatore, oggi spesse volte impossibilitato a comperare da prezzi eccessivamente alti e spareggiati.
E che ci sia in questo campo uno spareggio, che non è giustificato, ve lo può provare un piccolo fatto, che mi è capitato dieci giorni fa.
Dieci giorni fa ero in quel di Bergamo, ospite di un modesto contadino, il quale, oltre ad avere in proprietà poche pertiche di terreno, ne coltiva, a fianco del suo campicello, altre otto.
Questo uomo mi disse, facendomi vedere i suoi campi, queste precise parole: «Le otto pertiche che lei vede, sono in vendita: il proprietario so che chiede dalle 250 alle 300 mila lire. Io sarei disposto a comperarle subito».
Dico io; meravigliato: «Certo che l’acquisto di questo terreno ti sarebbe utile, perché ti amplia il fondo, ma come fai ad avere il danaro necessario?»
So che è un povero diavolo che fa l’operaio durante il giorno e il coltivatore nel tempo libero. «Molto semplice» mi ha risposto, «prendo una delle tre mucche che ho qui nella stalla, e che mi è di troppo perché non ho sufficiente mangime per tutte e tre, la vendo e ricavo il denaro che mi basta per comperare questo terreno, e ne ho la convenienza. Questo fatto non mi poteva avvenire nell’anteguerra, perché con l’importo ricavato dalla vendita di una mucca si comperava allora, sì e no, una pertica di terreno».
Ora, egregi colleghi, abbiamo da una parte una mucca che vale oggi 8 volte quello che vale una pertica di terreno, e un terreno che proporzionalmente, dall’altra parte, non vale quello che valeva nell’anteguerra.
Quale sarà il prezzo giusto di queste due cose? Non certo quello della mucca! Ecco perché – dicevo – bastano poche diecine di migliaia di tonnellate di generi alimentari per far scendere fortemente i prezzi di questi generi che ora sono alla libera disponibilità dei produttori, per la massima parte contadini, che ne stabiliscono il prezzo secondo la loro mercantile convenienza. Quel prezzo che noi, oggi come oggi, troviamo esagerato, specialmente per le carni, e che è quello che incide in modo così sfavorevole sul costo della vita.
Ho citato questo esempio, ma si potrebbe continuare ancora perché esempi similari ce ne sono parecchi altri.
Voglio però avviarmi rapidamente alla fine del mio dire, per esporvi ancora qualche osservazione di carattere fondamentale.
Il dollaro, inteso nel suo vero valore venale, che dovrebbe essere la media di compenso fra il dollaro di borsa nera e il dollaro che deve essere versato allo Stato, è cresciuto circa da 25 a 30 volte rispetto all’anteguerra. Mi parrebbe che queste quote dovrebbero essere quelle che ci devono dare la misura ed il limite sul quale fissare la nostra economia, perché un limite qualunque, una vera trincea, dobbiamo pur porcela se vogliamo tentare di mettere fine al più presto all’attuale anarchia economica della Nazione.
Dobbiamo dire a quale limite si vuol fare la resistenza, e su questo limite tutti dobbiamo operare concordi affinché la nostra economia sia veramente difesa. Gli italiani debbono oggi costruire quella che io chiamerei «la linea del Piave dell’economia italiana».
Avrei parecchie altre cose da dire ed altri suggerimenti da dare, ma per aderire al desiderio generale di chiudere sollecitamente la discussione sulle dichiarazioni del Governo, dirò che quando l’onorevole Giannini, nello scorso anno, invitò la Democrazia cristiana ad assumere da sola la direzione del Governo, essendo essa il Partito più numeroso, cui evidentemente il popolo italiano aveva concesso la fiducia, egli parlò non come rappresentante del partito dell’Uomo Qualunque, ma come italiano pensoso delle sorti del Paese, alle quali il partito, cui io mi onoro di appartenere, pospone e posporrà sempre i suoi particolari interessi.
Come italiano anch’io parlo oggi agli italiani che siedono su tutti i settori della Camera, e chiedo loro – rivolgendomi particolarmente ai componenti del partito social-comunista – se non sia possibile per qualche mese, anzi fino alla vigilia delle prossime elezioni, addivenire, tra i vari partiti, ad una tregua politica, che unitamente alla tregua salariale da me invocata come pilastro essenziale per la difesa della lira e la stabilizzazione dei prezzi, consenta al Paese un periodo di operoso raccoglimento, e alle Nazioni che ci vogliono aiutare dia quelle garanzie politiche ed economiche necessarie perché il loro aiuto ci venga dato in modo largo e continuativo, e ci giunga al più presto.
L’attuale Ministero De Gasperi, integrato da tecnici di indiscusso valore, risponde al nostro concetto politico, e pertanto, nell’interesse della Nazione e dei prestatori d’opera, ritengo che possa e debba avere una vita tranquilla, anche se limitata nel tempo, perché la sua azione sia efficace e produttiva di benessere per il Paese.
Così consigliando, da dilettante politico, quale io dicevo prima di essere, esprimo un concetto che trascende l’interesse del mio partito, anzi direi che va contro di esso, perché è a tutti noto che al partito dell’Uomo Qualunque giovano politicamente, e lo irrobustiscono, tutte le manchevolezze (e per dirle in termine qualunquista, tutte le «fesserie») che i Governi passati non potevano non commettere nel campo economico e finanziario. Noi uomini qualunque saremo paghi che le nostre idee politiche si siano fatte strada ed abbiano contribuito alla ricostruzione della Patria nostra, che deve essere in cima ai nostri pensieri, più dei nostri particolari interessi.
Gli uomini qualunque (gli uomini comuni, come ebbe l’amabilità di chiamarli l’onorevole Calosso), che sono l’infinita maggioranza del popolo italiano, non chiedono di meglio e di più che vivere in pace, in una pace serena fatta di lavoro e di concordia, che permetta loro di godere questa breve vita terrena e di sentirsi cittadini liberi in un mondo libero e felice. (Applausi a destra e al centro).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Molè. Ne ha facoltà.
MOLÈ. Onorevoli colleghi. Farò un’esposizione semplice, pacata, serena del mio pensiero e del pensiero dei miei amici, senza atteggiamenti gladiatorii, che non si addicono a chi, non avendo dietro di sé forze strabocchevoli, capaci da sole di determinare una situazione, è consapevole del suo ruolo modesto di complementarietà, di mediazione, di conciliazione nella lotta fra i grandi partiti protagonisti della vita civile, che si contendono il primato. Senza atteggiamenti gladiatorii e senza eccessivi toni polemici, i quali non fanno che aggravare gli urti, esasperare le passioni, intossicare i contrasti politici, trasferendoli dalla serena atmosfera del dissenso ideale sul terreno mortificante del personalismo.
Parlerò sine ira ac studio. Tanto più senza ira e senza passione ostile, in quanto, se noi oggi dobbiamo criticare e dichiarare inefficiente e pericolosa la formula, in base alla quale è sorto il quarto ministero De Gasperi, non possiamo – d’altra parte – perché sarebbe contrario alla verità, allo schieramento delle forze e alla funzione dei partiti – non possiamo e non dobbiamo dimenticare che il partito democratico cristiano, se ha nelle sue file anche i rappresentanti delle classi privilegiate, è tuttavia partito di popolo; e in quanto tale, ha una funzione non transitoria, una funzione di primo piano nella vita italiana.
Dirò quello che a noi pare il difetto veramente essenziale di questa formazione governativa, senza entrare nella questione economico-finanziaria. Come i clinici al letto dell’ammalato, tutti gli specialisti dell’economia e della finanza hanno suggerito rimedi e cure per superare i pericoli di una situazione quanto mai paurosa. La grande ammalata è la lira. E per salvare la grande ammalata sono intervenuti tutti o quasi tutti i Baccelli, i Murri, i Marchiafava di primo e di secondo piano. Noi non apparteniamo al novero dei clinici, che forniscono le ricette miracolose. Ma, giunti alla fine del dibattito, possiamo rilevare che intorno a questo problema finanziario – che è alla base del problema politico, perché è il problema del pane quotidiano, della vita, del lavoro, della produzione, dalla cui risoluzione dipende l’avvenire e la sicurezza della Repubblica – intorno a questo problema, dal quale sorse la crisi, non abbiamo assistito a dissensi spettacolari. Anzi, intorno a questo problema, a me pare si sia fatto un certo consenso.
Lo stesso onorevole Scoccimarro, che ha portato la parola della censura più severa, si è riferito più a le responsabilità del passato che al programma dell’avvenire. Egli ha detto che criticava più quello che non è scritto che quello che è scritto. Ma quello che è scritto, è, in fondo, il programma del terzo Ministero De Gasperi, e avendo il partito dell’onorevole Scoccimarro partecipato al terzo Ministero De Gasperi, e approvato quel programma, non poteva di quel programma rinnegare la validità.
E allora, se è vero che si verifica una specie di consenso fra i suggerimenti, le cure, le ricette per guarire la grande ammalata, fra i vari metodi per cercare di risollevare la lira, fra quelle che devono essere le provvidenze per il risanamento del bilancio e la ricostruzione economica, dov’è il dissenso? Il dissenso è nella formazione del governo. Problema di uomini e di forze politiche: non di direttive tecniche. Problema di base, non urto di programmi. La questione non è più economico-finanziaria: è una questione politica. È il problema squisitamente politico, agganciato al problema economico-finanziario. Chi eseguirà il programma? Lo stesso programma eseguito da una parte o dall’altra è accettabile o inaccettabile: può suscitare la fiducia o la sfiducia.
Voi avete detto, per criticare la nostra opposizione: qui è un programma di cose, non di persone. Giudicate le cose, non le persone.
Ebbene, i programmi di cose non esistono, politicamente. Esistono coloro che li attuano. I partiti non si equivalgono; i gruppi sono uno diverso dall’altro; un ministro non vale un altro, anche a parità di programma. Sono gli uomini che impersonano i programmi: è l’esecuzione dei programmi che può produrre dissensi. E ce ne date la prova voi, proprio voi, signori della destra. Perché appoggiate la quarta incarnazione De Gasperi, mentre non appoggiavate la terza formazione De Gasperi, malgrado che avesse lo stesso programma? La diversità del vostro atteggiamento di fronte ai due governi si spiega unicamente con la diversità delle due composizioni. (Approvazioni a sinistra).
Problema squisitamente politico, dunque. Ed io mi propongo di trattarlo in termini semplici, per esprimere non solo il pensiero degli uomini del mio partito ma anche il pensiero di quelli che sono affini, per concezione della vita e della politica, al mio partito.
Non è il programma che ci divide. Lasciamo da parte il programma. È la formula governativa che ha prodotto il dissenso. Parliamo della formula governativa.
Perché riteniamo che questa composizione di Governo non risponda alla logica, alla necessità del momento, al bene del Paese, ai vostri precedenti impegni, onorevole De Gasperi?
Risaliamo alla crisi. Vale anche in questo campo la eterna verità di Giovan Battista Vico. Nascimento di cosa è spiegazione di essa.
Come sorse la crisi? Perché sorse la crisi? Che cosa è, anzitutto, una crisi? La crisi è l’impostazione di un problema di direzione politica, di organizzazione amministrativa, di azione sociale ed economica, che un Governo, per debolezza propria o per sfiducia dell’Assemblea, si è dimostrato incapace di risolvere; e per cui, bisogna ricorrere a un altro Governo.
Che cosa è la soluzione della crisi? È la formazione di questo nuovo Governo.
Che cosa è la formula di Governo? È la ricerca degli uomini più capaci e delle forze più idonee a formare il nuovo Governo, per risolvere i problemi che non può più risolvere il vecchio Governo, inadatto o incapace.
Ed allora a me pare che, se vogliamo risalire alle origini, non ci sia da perdere molto tempo per trovare perché sorse la crisi, come sorse la crisi, e quale formula governativa questa crisi doveva risolvere. La risposta è tanto più agevole quanto più la indagine è facile. Noi non dobbiamo perscrutare gli orientamenti, spesso complicati, di una coscienza collettiva, ma raccogliere la espressione di un proposito individuale. Qui, non è stato il voto di un’Assemblea a rovesciare un Governo: è stata ed è bastata la volontà di un solo uomo: dell’uomo che era a capo del vecchio Governo e che doveva poi formare il nuovo Governo: l’onorevole De Gasperi.
Perché l’onorevole De Gasperi fu violento contro se stesso? Per quale motivo, diciamo così, suicidò il suo terzo Ministero?
L’onorevole De Gasperi pose risolutamente il dilemma: «rinnovarsi o perire».
Di fronte ad una situazione economico-finanziaria sempre più grave, di fronte alla visione catastrofica di una sproporzione sempre crescente fra ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri, di fronte all’incolmabile divario fra salari, stipendi e prezzi, di fronte al continuo slittamento della lira, di fronte alla necessità di eliminare alcune forme di indisciplina interna, di fronte all’urgenza di provvedere ai bisogni dell’erario con prestiti esteri e con drastici provvedimenti fiscali, di fronte alla minaccia, del crack, del fallimento, della bancarotta statale, l’onorevole De Gasperi aveva già posto, nel discorso del 25 febbraio, le premesse, i problemi e la formula di un nuovo Governo. Il Governo che allora non poté formare, si propose di formarlo adesso.
Egli disse su per giù: Qui i problemi diventano sempre più paurosi. Qui occorre un’azione governativa più forte, più omogenea, più coraggiosa. Qui occorre un Governo che, per le forze su cui poggia nell’Assemblea, e per i consensi che riscuote nel Paese, sia capace di quest’azione e possa risolvere questi grandi problemi. Allargare, dunque, il Governo. Ampliare la formula del tripartito, rivelatasi debole e inefficace.
Senza essere profeti o figli di profeti, nel dibattito sulle comunicazioni del terzo Ministero De Gasperi, che definimmo l’alleanza dei contrari, avevamo previsto che il matrimonio fra i partiti di massa era destinato a finire nella separazione e nell’adulterio. E non occorrevano virtù profetiche per prevedere quel ch’è avvenuto. Bastava ricordare il principio che due forze uguali e contrarie si elidono, per il fatto stesso d’essere uguali e contrarie.
Noi accogliemmo perciò, con evidente favore, il proposito dell’onorevole De Gasperi, che voleva immettere fra le due grandi forze contrarie altre forze, forze medie, forze schiettamente democratiche e repubblicane, che potessero esercitare un’azione conciliatrice, eliminare gli urti, comprimere i dissidi, diluire le ragioni di dissenso, servire di cemento alla formazione governativa. Era questa, del resto, la communis opinio.
Quando fummo consultati per la crisi, sentimmo ripetere la stessa formula. La formula passò in eredità all’onorevole Nitti.
Era la formula, onorevole De Gasperi, di cui avevamo avuto le avvisaglie. nella precedente crisi col nostalgico richiamo a questa parte della Camera.
Questa formula di coalizione democratica, perché la maggioranza, già salda, diventasse formidabile, e raccogliesse quasi la totalità di quest’Assemblea (si trattava di aggiungere 91 deputati ai 378 del tripartito), questa formula, in un’ora particolarmente delicata della nostra storia, doveva essere l’appello a tutte le forze schiettamente repubblicane, ed era l’espressione di un pensiero nobilissimo, nel quale, insieme col proposito di dare soluzione ai gravissimi problemi di politica interna, estera e finanziaria, era la preoccupazione di consolidare la Repubblica. Perché, o signori, non lo dimenticate, se noi non possiamo giudicare favorevolmente questa formazione governativa di minoranza, inaspettata, imprevista, sparuta ed equivoca, se condanniamo questo esperimento, che sarebbe pericoloso se non fosse infelice, la ragione è che certi esperimenti si possono fare in periodi normali e in momenti tranquilli. Ma, mentre viviamo ancora in un periodo critico, quando in un’ora oscura della nostra storia si accavallano i problemi della fame e della miseria, e si fa leva sul malcontento e si tentano le inversioni scellerate delle responsabilità per accusare la Repubblica dei mali, di cui essa ha soltanto ricevuto l’eredità paurosa, quando, nel giorno anniversario della Repubblica, vediamo riapparire sui giornali e sulle cantonate i ritratti dinastici, quando in questa stessa Aula è ancora possibile, e lecito, che si levi il saluto alla maestà del Re assente, ma presente – la Repubblica, che è appena nata, che deve fare le ossa, si deve difendere, si deve consolidare.
E per difenderla e consolidarla, per superare le difficoltà che l’angustiano, per respingere gli assalti che la minacciano, per assolvere i problemi da cui dipende il suo avvenire, dobbiamo raccogliere, non possiamo dividere, non dobbiamo disgregare le forze schiettamente repubblicane e democratiche. (Vivi applausi a sinistra).
Era questo il proposito dell’onorevole De Gasperi, era questo il pensiero nel quale fummo tutti concordi. Formula obbligatoria. Soluzione di rigore. Qui non c’era nemmeno un’alternativa o un dilemma: aut aut. Un solo corno: secundum non datur. Governo di concentrazione. Allargamento di base. Altro che restrizione! Nemmeno lo status quo del tripartito. Ci vuole anche la piccola intesa. Se no, no. Tanto vero che, quando sembrò impossibile che questo allargamento avvenisse e l’onorevole Nitti pensò ad una resurrezione del tripartito con in più l’adesione del suo piccolo gruppo parlamentare, vi fu il veto espresso della democrazia cristiana. (Interruzioni al centro). Non interrompete. Non è materia opinabile. Ci fu il vostro veto, ci fu il vostro no. Ne faceste una deliberazione esplicita che i giornali riprodussero. Ritengo che il documento ancora esista, e che le collezioni dei giornali non siano scomparse. Voi riaffermaste la formula De Gasperi: vogliamo l’allargamento. Se no, no. E fu no per l’onorevole Nitti, e fu no per l’onorevole Orlando. Ora, come mai il no per Orlando e per Nitti è diventato sì per l’onorevole De Gasperi, il quale aveva trovato la formula, il quale è stato il padre di questa formula, il quale, per non disconoscere la sua paternità, in un primo momento aveva anche nobilmente detto: se io non posso attuare questa formula, venga fuori l’uomo imparziale, fuori partito, che più facilmente possa attuarla? Perché De Gasperi ha rinnegato De Gasperi? Perché la formula necessaria per gli altri non è stata necessaria per lui? Perché dal governo allargato siamo passati al governo, non di maggioranza, com’era il tripartito, ma di minoranza, senza comunisti – e sia! – senza socialisti ufficiali – e transeat! – ma anche senza la piccola intesa? È questo capovolgimento integrale che produce un senso di disorientamento e di meraviglia.
Perché l’idillio con la piccola intesa, già cominciato con il discorso del 25 febbraio, era – come dire? – giunto alle soglie del fidanzamento nei giorni che precedettero questa crisi.
Quando nel mese di aprile, sembrò – ricordate? – che Annibale fosse alle porte e si convocò, in sede di Commissione della finanza, una specie di comitato di salute pubblica, che sedette in permanenza, quasi dovesse decidere ad horas, e non ci fece rispettare nemmeno il riposo cristiano della Pasqua, noi vedemmo accentuarsi l’idillio fra il finanziere, diciamo così, ufficiale della democrazia cristiana e i finanzieri della Piccola Intesa, un idillio, un accordo, una identità di vedute, di cui dura il ricordo e avemmo qualche eco anche nell’attuale dibattito. Quando Annibale…
Voci a destra. Ma chi è Annibale?…
MOLE. La miseria, il crollo della lira, il crack economico che avanza.
Quando dunque sembrava che Annibale fosse alle porte, e l’annunziatore di Annibale fu l’onorevole Nitti con la sua famosa interpellanza e la richiesta di immediata discussione nell’Aula, questa corrispondenza di amorosi sensi (Si ride) fu aperta, palese, attraverso i rapporti cordiali fra Campilli, La Malfa, Lombardi, Tremelloni che lavorarono nella Commissione gomito a gomito. La Malfa e Campilli trovarono la maniera di accordarsi sugli emendamenti da apportare ai provvedimenti fiscali. Ci fu qualcosa di più. Una specie di pezzo a quattro mani: l’ordine del giorno Gronchi-La Malfa a chiusura della discussione. Non parliamo di Tremelloni, l’innocente Tremelloni che doveva poi essere la pietra dello scandalo per la mancata combinazione dell’onorevole Nitti. (Si ride).
Tremelloni. Chi era costui? Domandava l’onorevole Nitti, con la impronta del suo genio incorreggibilmente ironico. Ma Tremelloni, l’homo novus che, in un suo quadrato discorso, aveva rivelato l’equilibrio del suo intervenzionismo economico, era stato solennemente laureato e proclamato uomo di governo dall’onorevole De Gasperi, nella replica al dibattito sulle sue comunicazioni.
Tremelloni fu allora la vostra trouvaille, la vostra scoperta, onorevole De Gasperi, e voi non gli lesinaste lodi e consensi e vi trovaste d’accordo in tutto con lui. Programma ragionevole. Visione realistica. Anche la pianificazione non vi faceva paura.
Una qualche riserva – del resto momentanea – voi faceste, mi pare, sulla proposta di un super Ministro coordinatore dell’economia nazionale. Ma la proposta che, al quarto giorno della crisi, non accettaste di attuare a sinistra, l’avete attuata, il quinto giorno, a destra, con la creazione di un superministero del bilancio, affidato all’onorevole Einaudi.
Dunque questi erano gli uomini che dovevano collaborare con voi e dovevano partecipare al nuovo governo omogeneo.
Di chi la colpa se questo non avvenne? E perché sorse invece la formula inaspettata dei «tecnici non politici», presi dai gruppi parlamentari, ma senza partecipazione e responsabilità dei gruppi parlamentari, come se i tecnici che sono politici non fossero politici? Io vi dico qualche cosa di più: che non esiste un tecnico che non sia politico: perché ogni uomo è uomo politico, anche se non lo sappia. E per questo, onorevole Scoccimarro, io non sono d’accordo con voi, nella visione lungimirante che voi avete tracciato ieri. La politica è e sarà e continuerà ad esistere, anche in quella vostra «città del sole» nella quale voi sognate che, cessate finalmente le ingiustizie sociali, una umanità redenta possa semplicemente amministrare, senza fare della politica, per la fine delle classi e dei partiti.
Perché questa vostra ipotesi o utopia generosa presuppone la fine della storia e l’immobilità della famiglia umana. L’uomo è uomo politico perché uomo sociale e perché nella socialità e negli sviluppi delle consociazioni umane non vi sono soste. Il destino dell’umanità è di non fermarsi mai dinanzi a un’ultima Thule. L’uomo camminerà sempre, come il mistico Aasvero, e cercherà sempre il meglio ed avrà sempre nuove e diverse concezioni della vita e della storia. E non ci sarà mai un tecnico che non sia uomo politico, che non abbia cioè una sua opinione del divenire umano.
Io ricordo l’alto insegnamento dell’onorevole Orlando sulla vecchia questione dei rapporti fra tecnica e politica. Tutte le soluzioni sono tecniche, in quanto hanno bisogno dell’accorgimento, della preparazione, della competenza dell’uomo del mestiere, dell’arte della professione; ma sono politiche in quanto agiscono in una direzione o nell’altra: non c’è un solo problema che si sottragga alla politica e alla tendenzialità delle opinioni politiche.
Vi è la politica estera del partito socialista che è diversa dalla politica estera del partito conservatore; la politica scolastica del mio partito ch’è diversa dalla politica scolastica di altri partiti; e questa diversità è tanto più evidente per la politica economica, finanziaria, che ubbidisce agl’interessi di classi, di ceti, di categorie. Ora per il solo fatto che voi avete adottato la formula impensata dei «tecnici non politici», nella quale sembra che abbia trionfato il qualunquismo dell’onorevole Giannini (Si ride) col suo «stato amministrativo», sarebbe lecito pensare, onorevole De Gasperi, che voi abbiate mutato la direzione della vostra politica e che non è più da questa parte (Indica la sinistra) che voi vogliate ricevere sostegno e orientamento.
Di questo cambiamento di fronte che ci preoccupa, voi rigettate la colpa, affermando che non lo volevate. Ed allora, onorevole De Gasperi, di chi la colpa? Non voglio fare il processo delle responsabilità. Voi sapete che io vidi il pericolo di uno slittamento a destra e cercai, a tutti i costi, qualche volta con un realismo spregiudicato, non condiviso dagli altri gruppi affini, di facilitare la formazione di un governo schiettamente repubblicano. Potrei, dunque, per questo atteggiamento specifico, negare la mia responsabilità, per quanto la mia responsabilità ci sia, se poi ho obbedito, per dovere di solidarietà alla decisione degli altri gruppi della Piccola Intesa. Ma io non voglio fare il processo delle responsabilità. Non so se possa esserci stata una manifestazione imprudente di pensiero, una inabilità di negoziatori da parte nostra, o l’impazienza, il nervosismo da parte vostra: non so nemmeno se possa essere stata qualche altra pressione di forze estranee. Ma io vi dico, onorevole De Gasperi, che potevate attendere 24 ore prima di rompere le trattative con i partiti di sinistra. Le 24 ore di attesa per avere una risposta affermativa del Ministro Merzagora dai confini di un altro mondo, potevano essere anche impiegate per continuare le trattative e per non dichiarare frettolosamente all’onorevole D’Aragona che le sue condizioni erano inaccettabili. Quali condizioni? La manifestazione di una opinione personale, diffusa per la stampa, dell’onorevole Saragat fece pensare che il suo partito pretendesse un certo numero di Ministri, mentre l’esigenza esposta dall’onorevole D’Aragona era un’altra: l’omogeneità dei Ministeri economici per un’azione di governo efficace, lasciando a voi la scelta dei Ministri fra i partiti affini.
Ma questa esigenza di omogeneità era tanto ragionevole che voi stesso la riconosceste, attuandola a destra anziché a sinistra. Come dunque è sorto l’equivoco? Di chi la colpa? Io non so, perché non sono hinc inde riuscito ad assodare la circostanza. Ma se non faccio il processo delle responsabilità, io vi dichiaro, comunque, onorevole De Gasperi, che voi non potevate, non dovevate formare il Ministero, in contrasto con le vostre premesse e con la vostra formula originaria. Io avrei preferito che questo esperimento governativo lo avesse – se mai – fatto un uomo politico isolato, che poteva anche bruciarsi, senza pericolo per l’avvenire delle forze democratiche; e che non si fosse bruciato, nel tentativo infelice, il capo di un grande partito che ha un ruolo non transitorio nella nostra vita politica.
Perché il capo di un grande partito non può impersonare una formula opposta e contraria a quella per cui ha fatto la crisi. L’esponente di un indirizzo politico è legato alla coerenza del suo passato, alla logica continuità della sua tendenza e della sua idea. Non può formare questo o quel governo, ma quello conforme alle sue idee, al suo passato, alla tendenza del suo partito.
Per la prassi parlamentare, per la dottrina dei partiti, per la logica politica non si possono cambiare formule, come si cambia cravatta o camicia. Non si può essere l’uomo di tutte le formule. Quando si dice che per salvare il paese è necessaria la grande maggioranza dell’Assemblea, quando si dice che per consolidare la Repubblica è necessario un Governo di concentrazione di tutte le forze repubblicane, non si può poi passare dalla formula del Governo di maggioranza, della concentrazione repubblicana, del Governo forte, del Governo di sinistra, alla formula del Governo di destra, del governo di minoranza, del Governo di divisione delle forze repubblicane. Altrimenti si rinnova il malcostume del governare comunque, con un Governo qualunque, su una base purchessia: cioè del Governo per il Governo, non del Governo come mezzo per attuare una definita e non equivoca concezione politica.
Questo, e non altro che questo, fu il fenomeno del trasformismo, che operò la violazione del principio rappresentativo e il disconoscimento delle più elementari norme democratiche. Io non penso che voi vogliate risuscitare il trasformismo, onorevole De Gasperi. Io non ho dimenticato né il mio né il vostro passato, né il nostro lavoro comune, nei momenti più foschi della vita italiana, quando insieme con noi erano coloro che ora sono delle ombre, Turati, Amendola, Treves, Donati, quelli che noi consideriamo come i grandi spiriti tutelari della nuova democrazia italiana. E se vi dico quello che vi dico, vi dichiaro con uguale lealtà che non ho nessun sospetto sull’onestà dei vostri propositi.
Ma appunto per questo non posso capire questo vostro esperimento che turba e offende la logica. E la politica è logica. In fondo, avviene a me (voglio seguire l’onorevole Cappi nel gusto delle citazioni umanistiche) quello che avveniva al povero Renzo, quando don Abbondio, per convincerlo o confonderlo, ricorreva al suo latinorum. Diffidava perché non capiva. Ciò che non si capisce non persuade. Ciò che non persuade produce lo stato d’animo della perplessità e della legittima suspicione. La perplessità e la suspicione ingenerano la diffidenza; che è lo stato d’animo contrario alla fiducia.
Questa formazione governativa è una contradizione in termini. Non si giustifica perché non si capisce. Ingenera la sfiducia. La quale si conferma ed aggrava, quando dalla scelta degli uomini passiamo a esaminare la formulazione del programma. Perché avete preso a nolo i 14 punti di Morandi; avete accettato gli emendamenti di La Malfa ai provvedimenti fiscali; avete convenuto nella pianificazione di Tremelloni; avete mandato in America – nell’America che, secondo voi, teme il rosso, come il toro: il rosso di tutte le gradazioni, dal rosso scarlatto al rosso sbiadito – il «compagno» Ivan Matteo Lombardo, che è almeno roseo come l’alba del sole dell’avvenire.
E allora che cosa vediamo? Che passando dal Governo di concentrazione repubblicana al Governo di divisione repubblicana; dal Governo di maggioranza al Governo di minoranza, mandate via gli uomini di sinistra e accogliete gli uomini di destra, ma nello stesso tempo fate accettare agli uomini di destra il programma degli uomini di sinistra. E fate – con una inversione logica prima che politica – eseguire il programma di sinistra dagli uomini di destra.
Così per andare, come voi promettete, incontro al lavoro, chiamate un industriale – capace, capacissimo, preparato, preparatissimo ma sempre un industriale – ed escludete i rappresentanti qualificati delle classi lavoratrici… (Interruzioni al centro e a destra).
Una voce al centro. Basta col monopolio.
MOLÈ. Voi contestate agli uomini delle sinistre il diritto di rappresentare il lavoro. Ebbene: anche noi siamo lavoratori, anche noi rappresentiamo il lavoro e lo rappresentate anche voi o alcuni di voi. Ma come possiamo negare che socialisti e comunisti sono i rappresentanti più diretti e qualificati delle classi lavoratrici? O volete la testimonianza dei numeri? L’aritmetica non è un’opinione. Guardate le statistiche: il numero degli elettori e degli operai organizzati nella Confederazione del Lavoro che appartengono a questi partiti. (Interruzioni al centro).
Potete protestare quanto volete, ma il fatto è questo.
Sono la grande maggioranza delle classi lavoratrici e degli impiegati di ogni categoria.
Voi dite dunque di andare incontro al lavoro, e viceversa chiamate un industriale al governo, nel momento che ne escono i partiti socialisti. Voi dite di accettare l’interventismo statale e di voler fare l’economia controllata e mettete alla testa dei dicasteri finanziari ed economici un uomo insigne, al quale è andato, malgrado ogni dissenso, il saluto dell’Assemblea, ma che è il caposcuola del liberismo. Voi dite che volete consolidare la Repubblica ma allargate la rappresentanza monarchica nel vostro nido repubblicano. (Proteste al centro – Commenti – Applausi all’estrema sinistra).
Una voce a sinistra. Lasciatelo parlare!
FUSCHINI. Voi sapete che non siamo monarchici.
MOLÈ. Voi no, certamente, onorevole Fuschini. Ma fra i vostri ci sono coloro che hanno votato per la monarchia come ci sono coloro che hanno volato per la Repubblica. Comunque, io parlo dei nuovi ministri, che votarono apertamente per la monarchia. Ora, intendiamoci bene. Absit iniuria verbis. Sarei indegno di sedere in quest’Assemblea se mettessi in dubbio il lealismo perfetto dei ralliés gentiluomini, che sono nostri colleghi, se soltanto sospettassi che, dopo aver giurato fedeltà alla Repubblica, costoro siano capaci di tradirla o di mancare alla fede giurata…
Una voce al centro. E allora?
MOLÈ. Ma quando si tratta di consolidare e difendere la Repubblica con le unghie e con i rostri, quando si tratta di assicurare l’intangibilità della Repubblica, che noi amiamo ma che tutti devono rispettare, io non chiamo al Governo coloro che hanno accettato come un pis aller la Repubblica ma preferivano la monarchia, e forse in altre situazioni ancora la preferirebbero: io chiamo coloro che ci hanno creduto, ci credono e ci crederanno. (Applausi a sinistra).
Io chiamo coloro che appartengono al numero dei 13 milioni d’italiani che prima del 2 giugno erano convinti assertori della superiorità civile e politica e della necessità morale della nuova forma istituzionale, non coloro che sono diventati repubblicani dopo il referendum; chiamo quelli che sono repubblicani, non per necessità ma per libera elezione, perché, quando si tratta di difendere la Repubblica con le unghie e con i rostri, quando si devono cercare gli strumenti umani che devono difendere ed eseguire un programma, bisogna ricorrere a quegli uomini che in questo programma hanno fede. Non ai ralliés, ma ai credenti che hanno questa passione di convinzione repubblicana.
Occorre la fede. La fede che compie i miracoli e muove gli uomini, se non le montagne. Perché la lotta politica è come la guerra. E noi sappiamo che cosa significa far combattere i soldati per una causa alla quale non credono. Io vi ricordo una pagina immortale: «La Messa dell’ateo»: è una di quelle pagine di Balzac che sembrano scolpite non nel bronzo, ma nel cuore degli uomini; l’ateo che va ad ascoltare la Messa per omaggio alla memoria del suo benefattore, perché il suo benefattore, un umile uomo del popolo, colui che l’ha sottratto alla miseria e si è tolto il pane di bocca per farlo studiare e l’ha fatto diventare un grande scienziato, era una candida anima religiosa. Ma fra la Messa dell’ateo e la Messa del credente, io preferisco la Messa del credente. La Messa dell’ateo è una concessione al sentimento, la Messa del credente è una necessità di ordine morale. Chi non crede, assiste al rito senza la convinzione di colui che crede.
Guai a noi se affidiamo la difesa della Repubblica a chi non crede nella Repubblica. (Applausi a sinistra).
Ed allora, signori, scusate: tutto ciò premesso e valutato, potete meravigliarvi se, dopo aver cercato di aiutare in tutti i modi la formazione di un Governo di maggioranza e di concentrazione delle forze democratiche, siamo rimasti estranei a questo Governo di minoranza che minaccia di aprire un solco, non facilmente colmabile, fra le forze democratiche e repubblicane?
Che cosa vi avremmo portato? Un numero di voti uguale alle dita delle due mani: un po’ di colore vivo che il grigio della formazione governativa avrebbe neutralizzato; ma ci saremmo isolati da tutti i partiti di sinistra. Peggio ancora, dalle nostre convinzioni, che sono la nostra forza e a cui saranno (o l’Italia avrà periodi tragici) conformi, in buona parte, le vostre stesse convinzioni. Non potevamo farlo. Avremmo mancato alla nostra funzione. Noi abbiamo pure una funzione specifica, signori. Non ci stanchiamo di ripetere che questa funzione è necessaria e abbiamo la coscienza della sua necessità. E se non siamo i rappresentanti della grande massa lavoratrice, non possiamo metterci contro questi partiti di massa, di popolo, di moltitudini, perché le moltitudini, anche quando si muovono con la maschera della rivolta, esprimono una sofferenza umana e nella sofferenza umana è sempre un’anima di verità e una sete di giustizia. E noi, uomini di democrazia progressiva, dobbiamo seguire gl’impulsi, accogliere il grido di sofferenza, secondare le giuste rivendicazioni delle moltitudini lavoratrici, cercando di inalveare nei confini delle leggi questi torrenti umani che minacciano di rompere gli argini, per modo che la rivolta contro lo Stato diventi la conquista graduale, pacifica dello Stato.
Non siamo nemmeno contro di voi (Accenna al centro), in quanto anche voi siate partito di popolo. Noi non ripetiamo la definizione ironica del partito democristiano che è venuta da alcuni dei vostri avversari di destra, divenuti improvvisamente entusiastici amici, di un entusiasmo così delirante che non può essere sincero: noi non vi chiamiamo «partito pipistrello, metà topo, metà uccello». Ricordiamo invece la immagine di Claudio Treves: il vostro partito è un albero, i cui rami si allargano anche nel clima delle classi privilegiate; ma il grande tronco affonda le radici nell’humus del popolo, del popolo che lavora, che soffre, di quella parte del popolo lavoratore che ha la felicità di credere, oltre la transitoria vicenda della vita terrena, nella certezza di una vita futura.
E appunto per la nostra funzione di complementarietà e mediazione fra i partiti di massa, noi non siamo sodisfatti di questa illogica soluzione della crisi, ch’è un errore del vostro partito e presenta molti pericoli per voi, per noi e per il Paese.
Il primo pericolo per voi deriva dal fatto che siete un governo di minoranza. I governi di minoranza non hanno vita autonoma e possibilità di decisioni e di azione indipendenti. Voi vivete di vita provvisoria, legata al filo dei pochi voti di maggioranza che vi concedono forze a voi estranee, che vi sostengono come la corda sostiene l’impiccato. Sono i partiti di destra. Il patto che avete con loro è il patto di Faust. Essi vi centellinano un appoggio, che vi possono togliere da un momento all’altro, ma vi chiedono l’anima, spingendovi verso destra, orientandovi verso le forze della reazione, anche contro la vostra volontà. Voi cercherete di resistere, ma la situazione è più forte della vostra volontà e l’istinto di conservazione è più forte di ogni logica. Già, questa compagnia di fortuna vi ha, come si dice, guastato i connotati. Deputati di centro, apparite governo di destra.
Non per nulla ammoniva Emilio Castelar che sono le maggioranze che qualificano i governi. La maggioranza conservatrice vi mimetizzerà. Non avete fatto un buon’affare, amici della democrazia cristiana. Non credo che ne saranno contenti gli umili, che costituiscono la forza vitale del vostro partito.
Voi avete oggi l’entusiasmo – poco fa vi dicevo – di quelli che prima vi erano avversi. È un entusiasmo di cui non è difficile scoprire le origini. Timeo danaos et dona ferentes. L’origine è l’interesse. Quale? C’è stato un oratore che con imprudente candore ha rivelato il gioco. Il gioco della reazione. Dopo avervi votato sempre contro, egli vi ha dichiarato che avrebbe votato a favore, onorevole De Gasperi, perché era sicuro che voi avreste avuto la «mano forte».
Ma che cos’è la mano forte? Parliamone pure, di questa cosidetta politica della «mano forte». Io sono d’accordo: bisogna restituire l’autorità allo Stato, bisogna che la forza pubblica non sia una debolezza, bisogna che funzioni la magistratura, che funzioni la polizia. Ma dove è fame e miseria, la fame e la miseria non si sopprimono con la polizia. Non è con la polizia che si calmano i crampi dello stomaco vuoto. E la mano forte deve prima colpire i privilegiati, i più ricchi, e poi i più poveri, gli umili. (Applausi a sinistra).
Non dovete dimenticare che in questa grande famiglia umana dei disagiati e degli affamati – che è costituita dai quattro quinti del Paese e potrebbe essere forse identificata in una figura: Oronzo E. Marginati – ci sono gli agenti della forza pubblica e, ahimè – lo dico con dolore – anche i magistrati che scioperano.
Il secondo pericolo per voi e per il Paese è nell’opinione diffusa che il vostro Governo sia così sorto, perché avete ceduto all’imposizione di una potenza straniera. Non è vero: voi lo avete smentito e noi vi crediamo. Ma intanto questa opinione esiste ed è offensiva e ci diminuisce all’interno ed all’estero, perché l’indipendenza del Paese è una cosa sacra, che non è lecito non dico barattare, ma sospettare che sia capace di baratto.
Noi dobbiamo esser grati a quelli che ci aiutano; ma noi vogliamo e voi attuerete – ne ho piena fiducia – una politica estera che non sia né di destra né di sinistra, né di ovest né di est, né di oltre monte né di oltre mare, che resti al di fuori dei blocchi imperiali, e non ci trascini, come strumenti occhiuti dell’altrui rapina, nella guerra dell’avvenire, nella contesa dei grandi rapaci.
Ma un altro pericolo è per voi attuale: che questa opinione faccia sorgere delle aspettative messianiche, che noi sappiamo che nessuno – non solo voi, ma nessuno – potrà mai soddisfare: aiuti generosi, pingui prestiti, grandi stock di merci e di viveri. E questo è anche un pericolo contro la tranquillità del Paese, perché la delusione inevitabile aumenterà il malcontento degli italiani, che non sono ancora guariti né della psicosi guerresca, né della mentalità miracolistica!
Il quarto pericolo – e questo è il più grave – per il Paese, per noi, per voi, che siete e vi definite come noi democratici, è nella convinzione, alimentata da molti giornali, che il vostro Governo di minoranza derivi la sua autorità non dal Parlamento ma dal Paese e sia legittimo e possa esser legittimo perché l’ha imposto il Paese, contro e malgrado la volontà dell’Assemblea, estranea e sorda alla volontà del Paese. Questa mentalità antidemocratica, antirappresentativa, che pone il Paese contro il Parlamento, come due termini antitetici, e da cui muovono gli assalti contro il solo istituto legittimo di sovranità popolare, prepara e giustifica i regimi autoritari. (Applausi a sinistra). Noi lo sappiamo, onorevole De Gasperi, noi che ne facemmo la prova dolorosa, noi che insieme ci opponemmo al fascismo e insieme difendemmo il Parlamento. Io mi rifiuto di accettare questa opinione, che voi stesso rinnegate, e riconosco subito che l’avete rinnegata, nel momento stesso in cui siete venuto in quest’Aula a chiedere il voto dell’Assemblea. Ma il giorno in cui si affermasse il principio che ci possa essere una rappresentanza legittima del Paese al di fuori del Parlamento, della maggioranza del Parlamento, sarebbe il proemio della dittatura.
Il vostro passato ci conforta e assicura. Voi non rappresentate per noi né un sospetto, né un pericolo. Ma il pericolo è che una siffatta mentalità si diffonda nel Paese, in cui fermentano tanti lieviti di dissoluzione, nell’ora stessa in cui i relitti del regime passato tentano l’audace manomissione di ogni verità, per mettere sotto processo il regime repubblicano. Bisogna reagire a questi tentativi scellerati di mettere il Parlamento contro il Paese. Il Parlamento è il Paese. Il Parlamento è lo specchio del Paese. Se ci sono passioni esasperate nel Parlamento è perché ci sono passioni esasperate nel Paese. Se il Parlamento è in crisi è perché è in crisi il Paese. Ma nessuno ha il diritto di sostituirsi al Parlamento. Il Parlamento è l’unica rappresentanza legittima del Paese. (Vivi applausi a sinistra).
Ma chi è poi il Paese? Vi siete domandato voi, quando certi giornali dicono: «noi siamo la voce del popolo, o la voce del Paese», chi è il popolo, chi è il Paese che rappresentano?
Io mi metto al di sopra della mischia. Chi è il Paese? La folla che dimostrava contro l’onorevole De Gasperi, il 2 giugno? O quella del 9 giugno che lo applaudiva? La stampa che impreca a Togliatti o quella che osanna a Togliatti? Chi è il Paese?
TOGLIATTI. Quello che elegge il Blocco del Popolo a Torre Annunziata!
MOLÈ. Gli speculatori di Borsa o i milioni di affamati? (Interruzioni a destra e al centro)…
Voci a destra: Frasi fatte!
MOLÈ. Signori, domandate agli operai e agli impiegati se la fame è una frase o una realtà (Applausi a sinistra).
Io non dico nemmeno quali sono le mie preferenze – e se sono uomo politico, debbo pure averle – io vi pongo il problema. Il Paese può avere un rappresentante che non sia il Parlamento? Chi è il Paese? Le migliaia d’industriali della Confederazione dell’industria o i milioni di operai della Confederazione del Lavoro?
Una voce a destra. Tutti e due.
MOLÈ. Ogni corrente, ogni movimento, ogni interesse ha una voce. Sono tutte e ciascuna voce del Paese che, anche se non rispettabili, quando sono imponenti, devono essere ascoltate. E tutte le voci del Paese debbono giungere qui dentro. Qui e solo qui si compongono gli interessi e le manifestazioni di volontà del Paese. Qui e solo qui è la rappresentanza del Paese. Le altre sono voci isolate o discordi, voci di questa o di quella corrente. Ma la voce del Paese è la voce del Parlamento. L’unico rappresentante organico del Paese è il Parlamento.
Noi non possiamo indulgere a questo slogan di una stampa indipendente – di cui conosciamo l’indipendenza, perché sappiamo che dipende e da chi dipende (Ilarità a sinistra) – che altri possa impersonare legittimamente la volontà del Paese perché se no può avvenire che un bel giorno, o un brutto giorno, arrivi colui che afferma: «Io sono il paese», e agisce in conseguenza. E può essere Napoleone il Grande, che manda Luciano a congedare la Camera degli Anziani e a sbarrare la Camera dei Cinquecento. Può essere Napoleone il piccolo che prepara il colpo di stato col suo Duca di Morny. Può essere il dittatore (di cui dopo la fine terribile e miseranda, non è necessario dire parole di esecrazione) che viene qui a dirci, nell’Aula «sorda e grigia»: «Signori Deputati, mi avete seccato, avete troppo chiacchierato! Io sono il Paese»!
Ecco il pericolo! (Applausi a sinistra).
Io ammetto – intendiamoci – che ci siano anche discrasie fra Parlamento e Paese. Ci possono essere. È questa la volta? Non credo. Ma quale sarebbe il rimedio? Un Governo di unione o un Governo di affari (quando sia possibile e in questo momento non è possibile) con un Presidente imparziale, se non può essere il Presidente dell’Assemblea, che abbia il mandato d’interrogare, attraverso le elezioni, il Paese.
Ma, signori, a fare le elezioni non può essere il governo di un solo partito, non perché io mi rifiuti all’idea che un governo d’un solo partito possa fare le elezioni – questo è normale quando abbia, beninteso, una maggioranza cospicua – ma sapete perché? Perché ora, con il governo di un solo partito orientato verso destra, e un’opposizione di estrema sinistra, di forze pressoché pari, il gioco elettorale si ridurrebbe a un contrasto fra i maggiori partiti e si conchiuderebbe, per la psicologia popolare che si polarizza ai due estremi, con l’affermazione di due sole correnti, la democristiana e la comunista. E ne andrebbero di mezzo i partiti minori, i partiti medi. Il che sarebbe pernicioso, per la democrazia e per il paese.
Onorevole De Gasperi, ho finito.
Credo di aver parlato con la lealtà dell’amico non consenziente, che denuncia l’errore all’amico. Ho ragione? Ho torto? Non so. Io so questo soltanto: che denunciando i pericoli della situazione che il vostro errore ha creato, credo fermamente in quello che dico, senza passione di parte o con la passione di un convincimento che ritengo corrisponda alla verità.
Meditate su questa situazione, onorevole De Gasperi.
Perché forse nelle mie parole voi sentirete anche un poco la voce della vostra coscienza. (Vivissimi applausi – Molte congratulazioni).
PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Nitti. Ne ha facoltà.
NITTI. (Segni di attenzione). Mi propongo oggi di fare soltanto un esame sincero e calmo della situazione attuale del nostro paese, situazione che io giudico particolarmente grave.
Devo però prima di tutto chiarire la mia situazione personale.
Io sono stato la parentesi involontaria fra due Ministeri De Gasperi. È necessario che spieghi quindi la mia condotta.
Fui chiamato inaspettatamente dal Presidente della Repubblica il 16 maggio, ed improvvisamente, senza che io sospettassi, senza che nulla mi designasse ai miei occhi come invitabile, il Presidente mi chiese di fare un Ministero e di studiare la possibilità di avere un Ministero di carattere nazionale.
Gli fui grato della fiducia. Io ho per lui molta deferenza e anche sincera affezione. Egli, come molti in quest’Aula, fra i più interessanti uomini del Mezzogiorno, fu mio discepolo. Conosco la sua intelligenza, la sua bontà, valuto tutte le sue attitudini. Mi parlò con sincerità: mi invitò a fare uno sforzo di conciliazione nazionale. Io non aspettavo compito così spiritualmente gradevole. Ero stato, tornando dopo lunga assenza in Italia, un po’ contro tutti. Ero stato sempre all’opposizione. Non avevo mai voluto essere di alcun partito, né fondare un nuovo partito. Avevo dopo solo pochi mesi dal mio arrivo gittato le basi di una Unione Nazionale per la Ricostruzione. Fra tante distruzioni e tanti odi io mi proponevo, dimenticando gli odi e non volendo vendette, di costruire. Come mai si ricorreva a me? Dopo avere ringraziato il Presidente, accettai di esaminare la situazione prima di prendere impegno alcuno. E così cominciai la mia ricerca. Grande fu la mia sorpresa per l’entusiasmo che si mostrò in tutto il Paese. Nelle città più lontane d’Italia, sopratutto del Nord, dove il mio nome pareva a qualcuno che non fosse popolare, vi furono da tutte le parti manifestazioni di simpatia, di consenso e, se mi permettete di dirlo, di entusiasmo. Ebbi da ogni parte gente che venne a posta di lontano ad incitarmi di riuscire in questa impresa, e tutti si offrivano di aiutarmi e di collaborare. E allora io cercai di osare. L’entusiasmo fu tale che si videro subito le conseguenze immediate. La situazione in borsa mutò improvvisamente e anche le borse straniere ne risentirono vantaggiosamente. Perfino i cambi stranieri migliorarono. Avevo vissuto tanto all’estero, avevo grandi amici dovunque, ed essi mi manifestarono la loro fiducia e il loro consenso.
Dunque io cominciai i miei tentativi il 16 maggio, ma dopo cinque giorni rinunciai. Vidi uomini di quasi tutti i partiti e di tutte le tendenze più diverse. Dopo essermi reso conto della situazione reale e aver tutto meditato, mi decisi a rinunciare. Pure io avevo la maggioranza.
I tre partiti di massa, democrazia cristiana, comunisti e socialisti si erano dichiarati favorevoli e, io credo, in buona fede.
Avevo discusso con i loro rappresentanti la forma e i modi della partecipazione. Non avevo trovato alcuna vera resistenza. Il tripartito formava o pareva formasse in quel momento una maggioranza solida e dato il fatto che io avevo nell’Assemblea molti amici personali, almeno per i primi tempi non era il numero che doveva preoccuparmi.
Ma era una grande maggioranza che per le opposte tendenze dei partiti che la componevano, avendo diverse e anche opposte tendenze, poteva ben facilmente rompersi nell’affrontare alcuni problemi essenziali di cui la soluzione si impone.
L’Italia va incontro a tali tremende difficoltà, che aumenteranno nella seconda metà dell’anno e saranno ancor più gravi nell’anno prossimo, che occorre unione spirituale e una comune volontà di sacrificio per uscirne senza troppo danno.
Io ritenevo necessari l’adesione e il consenso di quei partiti che rappresentano le classi medie e che divisi fra loro più che da idee e da programmi, da lotte e divergenze del passato, possono, se riuniti da propositi comuni, esercitare una influenza notevole. Ma la coesione fra essi era senza dubbio difficile. Le richieste che direttamente o indirettamente manifestavano erano anche contrarie alla loro efficienza e gruppi poco numerosi mostravano il desiderio di dirigere da soli i tre o quattro ministeri della produzione.
Quei partiti furono definiti o si definirono «la piccola intesa», e furono in realtà il grande malinteso.
Vi sono anche nell’Assemblea attuale piccoli gruppi di nove o dieci o dodici membri, i quali non certo per desiderio, ma per mantenere la loro coesione sono obbligati quasi in ogni crisi ministeriale, quando è loro possibile, a fissare il loro atteggiamento e a decidere se partecipare e come al governo, con qualche ministro e perfino con qualche sottosegretario. Ciò pare necessario per fare un ministero…
Una voce. E anche per non farlo.
NITTI. E anche, se volete, per non farlo!
Le classi medie che vogliono governare l’Italia non fanno spesso a traverso i loro rappresentanti opera di coesione. All’infuori di ogni preoccupazione di numero, io desideravo la loro cooperazione, perché volevo veramente un gran movimento nazionale. Io avevo la maggioranza; ma, prevedendo i tempi difficilissimi che ci attendono, io volevo non già dei voti soltanto, ma una cooperazione basata sui sentimenti ancor più che sui programmi.
Con atto amichevole, degno e credo sincero, quando De Nicola mi ebbe dato l’incarico e i tre partiti di massa avevano aderito, l’onorevole Orlando si presentò spontaneamente a De Nicola, non richiesto da me, non pregato da me, e disse che egli accettava di entrare nel Ministero che io componevo, per servire la Nazione in momento difficile. (Approvazioni).
Atto degnissimo e che io non dimenticherò perché, più anziano di me e con il suo passato, accettava di avere un capo, non dirò più giovane ma meno vecchio (Ilarità) e che era stato nel suo Ministero come Ministro. Io sono molto grato all’onorevole Orlando di questo atto di dignità morale e voglio pubblicamente ringraziarlo.
E perché non fece il Ministero? Voi mi domanderete. Me lo sono domandato io stesso, quando presi la decisione. Non ho difficoltà a dirlo. In quel momento io giudicavo come giudico ora – ed ancor più ora – (è passato un mese da allora) la situazione dell’Italia di tale gravità che abbisogna di un concorso di volontà tenaci. So con assoluta certezza che la situazione del Paese sarà grave dopo l’ottobre, gravissima economicamente nel prossimo anno e forse anche peggiore che non nei tempi che abbiamo sopportati. E mi dispiacque che questo aggruppamento non abbia voluto aiutarmi. Io desideravo che le classi medie nelle loro manifestazioni politiche si riunissero per dare al Paese la sensazione di una volontà vivente. Dovetti rinunciarvi. Non trovai il consenso. Me ne duole anche ora che il fatto è passato. Ma ebbi anche – ve lo confesso – un’altra preoccupazione, per un intuito politico di vecchio uomo di battaglia. Io sentii che il fatto che più tardi si è prodotto, la rottura fra i comunisti e i democristiani, si sarebbe prodotta inevitabilmente sotto il mio governo.
Niente mi autorizzava in apparenza a questa convinzione. Ma il senso politico è come il senso musicale: o si ha o non si ha. Io sentii ciò che sarebbe avvenuto e non volevo che accadesse quando io ero a capo del Governo. Quando un capo politico ha dietro di sé il voto di un partito di massa, si può fare, in assemblee come l’attuale, un Governo senza troppe difficoltà; ma quando ci si deve agitare nei contrasti, e quando vi sono difficoltà di ordine personale oltreché di ordine materiale, difficile è il consenso di una maggioranza sicura, difficile se non anche impossibile.
Adottando l’espressione di Mussolini, le quadrate legioni del partito democristiano consentono al Presidente del Consiglio di fare alcuni atti ed alcuni gesti che non sono consentiti a chi non ha dietro di sé un grande partito di massa e ha invece tante gelosie e vanità in contrasto. Quindi, dopo aver consultato quanti dovevo, rinunciai alla prova. Vi rinunciai con dolore, e fu soprattutto per l’azione di quei partiti medi ai quali mi ero rivolto con fiducia. E non rinunciai per calcolo di voti, ma perché mancò ciò che io desideravo di più, il sentimento dell’opera che mi proponevo di compiere. Io ero preoccupato della situazione dell’Italia, tanto più grave quanto più grande è la incoscienza del pericolo. Alla fine dell’anno corrente e nel 1948 dovremo affrontare periodi difficilissimi con mezzi inadeguati. Dissi altra volta in quest’Aula che l’Italia è come una fortezza assediata, nella quale o periremo tutti o ci salveremo tutti con uno sforzo comune. Io sono contro ogni disunione, e detesto tutte le vane ideologie che mettono l’Italia in pericolo. Ripeto ora ciò che dissi con ancora più ferma convinzione, e niente mi par peggiore che mentire la realtà e nascondere o dissimulare il pericolo. Montesquieu scrisse che noi abbiamo il dovere di servire la patria, non di mentire per la patria.
Anche nel nostro tempo, vi sono senza dubbio molti disposti a morire per la patria, ma sono assai più coloro disposti a mentire per la patria, tanto più se la patria si confonde con la fazione o col partito.
Noi abbiamo avuto finora nelle nostre sventure un periodo relativamente facile anche nelle privazioni e nel dolore: abbiamo avuto un periodo in cui siamo stati aiutati e sorretti sopra tutto dall’America. Ora l’America, compiuto un grande sforzo in Europa e in Asia, deve necessariamente rivedere il suo programma e, se vuole evitare una grandissima crisi americana, deve lentamente ritirarsi.
Proprio ora, che avremmo maggior bisogno di alimenti, abbiamo, quest’anno, il peggiore raccolto di grano che negli ultimi anni si ricordi. (Commenti).
Una voce. Non è esatto!
NITTI. Vi possono nei dettagli essere opinioni diverse, ma tutti i competenti si trovano d’accordo nel dire che il raccolto di questo anno è uno dei peggiori e anche il peggiore degli ultimi anni.
Sarà soltanto di 40 milioni o di 45, se non ancor meno; è comunque un pessimo raccolto. Si può sperare un qualsiasi aiuto dalla Russia? Si può sperare in aiuti durevoli e massicci dall’America, tipo U.N.R.R.A? Certamente no.
Io sono stato sempre avversario dei comunisti: ho scritto in tutti i miei libri, in tutti i miei articoli che il comunismo è un sogno irrealizzabile. Antica aspirazione di utopisti, di religiosi e di filosofi, non si è mai realizzata veramente in una società civile e forse non poteva. Il bolscevismo è invece una realtà, cioè uno Stato unico grande capitalista e un socialismo di Stato, in condizioni assolutamente eccezionali e non riproducibili altrove.
Dunque non possiamo contare che su una cooperazione limitata dell’America, e sempre oramai guidata da una concezione economica.
Il pubblico segue nei giornali le notizie economiche come gli sono somministrate, cioè male e quasi sempre secondo la convenienza politica. E però non si rende conto della realtà.
Viceversa sono le notizie politiche, e sopra tutto quelle che riguardano l’azione dei partiti, che formano il pascolo di tutte le discussioni che interessano il pubblico.
La grande notizia che ha più interessato l’opinione pubblica è che l’onorevole De Gasperi e il Governo attuale si sono distaccati dai comunisti e dai socialisti. E ciò è veramente fatto interessante e che si poteva ben prevedere. Appunto perché io prevedevo la rottura prossima come inevitabile fui esitante se comporre un Ministero che poteva anche decomporsi per la rottura fra i tre partiti di massa.
La rottura è fatto importante per le sue conseguenze e bisogna considerarla non come un episodio, ma come un mutamento di rotta.
Con quali conseguenze?
Il bolscevismo fuori della Russia non è stato mai una realtà, ma ha una forza di attrazione fuori della Russia, sopra tutto su coloro che non si rendono conto che la sua natura non può adattarsi ai paesi di civiltà occidentale.
La notizia della rottura fra il Governo e i comunisti ha determinato in Italia, in alcuni ceti, un senso di viva soddisfazione e anche un senso di euforia che credo esagerato.
In tutte le cose che ci riguardano noi dobbiamo contare sopra tutto su noi stessi.
Nelle illusioni che si sono diffuse, vi è da un lato la illusione della Russia, che ci possa essere utile e, nello stesso tempo, in parti opposte, la illusione che l’America ci deva durevolmente aiutare, come e più che in passato, sopra tutto se seguiremo la sua linea politica.
Non è vera né l’una cosa né l’altra.
Ora e per non pochi anni, anche volendo, la Russia, che è essa stessa in enormi difficoltà, non potrà darci alcun aiuto e né meno essere di apprezzabile vantaggio per la ripresa del nostro commercio. Non ci darà nulla, né può essere, e non sarà, un grande mercato; né pure essendo il più vasto paese del mondo, potrà e vorrà accogliere anche una minima parte della nostra emigrazione.
La uscita dei comunisti dal Governo, che può essere giudicata diversamente secondo i diversi punti di vista dei partiti, non muta sostanzialmente la nostra situazione economica attuale.
Certo, l’ordine essendo condizione essenziale per la produzione, se l’uscita dei comunisti fosse maggiore garanzia per quell’ordine che spesso manca, il fatto sarebbe apprezzabile.
Ma non pochi ammettono senz’altro che l’uscita dei comunisti dal governo basti da sola a procurarci aiuto dall’America. Vi è in Italia chi guarda a oriente, vi è chi guarda a occidente. Vi sono quelli che aspettano, come si dice, il vento dal nord, che non viene e non può venire.
La Russia, immenso paese e con risorse naturali grandissime, soffre essa stessa delle più gravi difficoltà. Essendo un continente più che uno Stato, vive ora in grandi difficoltà e in molta parte del suo territorio le popolazioni devono accettare dure privazioni.
La Russia è il paese che ha più sofferto e che è stato più terribilmente sterminato dalla guerra da cui usciamo.
Quante diecine di milioni di uomini la Russia ha perduto in guerra o a causa della guerra? Quanti dei suoi più fertili territori per parecchio tempo non potranno produrre? Quante delle ricchezze industriali della Russia (lo sforzo di tanti anni) sono state distrutte? La Russia ha avuto contro di sé in piena efficienza tutto il grande esercito tedesco e col suo sacrifizio ha salvato anche noi: ma è uscita assai malconcia dalla guerra. La Russia non ci dà e non ci darà per molti anni nulla e nemmeno un grande contributo alla ripresa dell’economia europea.
La illusione che qualche volta è nel popolo, a causa della propaganda comunista, che la Russia possa aiutarci è da scartare: la Russia non potrà far nulla per noi e deve anzi soffrire per la propria sua ricostituzione.
La Russia non può dare ciò che non ha. La sola cosa che potrebbe fare la Russia non ora, ma quando fra due anni si dovranno pagare le riparazioni, è la rinunzia ai cento milioni di dollari che le dobbiamo dare. (Si ride). Non vedo altra cosa che la Russia possa fare per noi…
Una voce. Magro conforto.
NITTI. …e forse a suo tempo l’opera degli amici della Russia ci può essere utile. Ma la Russia non può dare nient’altro.
In quanto all’America, bisogna finirla con le grossolane illusioni che si diffondono. L’America ora si preoccupa sopra tutto di se stessa. Fa troppo grande sforzo e continuando nel sistema attuale potrebbe anche essere minacciata da una grandissima crisi, come e peggio di quella che venne dopo il 1929. L’America ha fatto miracoli per aiutare nella generale caduta l’Europa e l’Asia. Questo paese, che rappresenta uno sforzo di volontà tenace, che ha fatto la guerra senza aver mai fatto prima di ora grandi guerre, ha trovato nello stesso tempo energie di produzione superiori a ogni previsione. Ma non è in condizioni di continuare in quello che si è proposto e che ha seguito finora per noi, nel nostro interesse e per le sue visioni di avvenire anche nel suo.
Si dice: l’America, ora che non vi sono i comunisti al governo d’Italia, ci darà ciò che ci occorre. Credo che in America abbia prodotto gradevole impressione il fatto che i comunisti non siano al Governo. Ammetto per la stessa ragione, senza difficoltà, che alla Russia farebbe piacere se i conservatori uscissero dal Governo d’Italia. Sono sentimenti legittimi, ma non bisogna confondere la realtà economica con le illusioni.
Qual è la situazione della Russia? Si vede in tanti documenti ufficiali e di studiosi e di viaggiatori, e io non ho nessun desiderio di somministrarvi una enorme quantità di documenti e di cifre.
Devo premettere una cosa: tutti aspettano da me molte cifre e discussioni finanziarie. Io voglio ragionare invece molto semplicemente, senza apparato di cifre e senza apparato scientifico, sempre con un discorso di buon senso e di realtà.
Il Governo d’Italia, mutando nella sua formazione, almeno nella forma esteriore, l’America svilupperà i suoi propositi amichevoli nella politica economica? Certo se ne potranno avere vantaggi nel senso di una maggiore fiducia. Senza che la politica economica dello Stato americano muti, vi sarà da parte dei privati minore diffidenza. Ma non vi sarà perciò nulla di mutato nella politica economica e finanziaria dello Stato, perché l’Italia non è che un piccolo scacchiere dell’Europa e dell’Asia; e ora l’America adotta per necessità una politica verso l’Europa e l’Asia che è determinata da necessità e per i bisogni stessi del popolo americano.
Di ciò tutti i documenti ufficiali sono la prova più chiara. Noi possiamo, se vogliamo, mutare la nostra politica, l’America non muterà oramai la propria vera politica economica che ha scelto per necessità.
Il dottor Dean Acheson, sottosegretario permanente al Ministero degli esteri, ha pronunciato l’8 maggio a Cleveland, nel Mississippi, un discorso molto importante. Ha detto alcune cifre che bisogna ricordare e ha autorevolmente indicato il programma americano. La nostra produzione, egli ha detto, si svolge nel 1947 in ragione di 210 miliardi di dollari all’anno.
Non si è mai avuta idea nel mondo di una produzione così enorme: 210 miliardi di dollari in un anno.
Ora, egli ha detto, di questa produzione dell’anno in corso noi esportiamo 16 miliardi di dollari in Europa ed in Asia. Importiamo da questi continenti per otto miliardi di dollari, né è possibile importare di più perché né l’Asia né l’Europa possono nella loro limitata produzione esportare di più. Il problema dell’Europa è dunque di esportare. L’America è messa in pericolo dalla deficiente esportazione. Non ha potuto riprendersi. Tutta l’Europa e l’Asia dovrebbero esportare di più, ma l’Europa e l’Asia sono stanche e non possono esportare che limitatamente.
Per l’Europa e l’Asia, ha detto Acheson, il problema della mancanza di dollari per avere esportazioni americane è assolutamente fondamentale. L’Europa deve produrre di più per potere esportare e ottenere prodotti americani. L’Europa non può fare a meno di importazioni americane in misura molto importante. Ma l’America si trova in difficoltà perché o esporta consentendo il prestito a lunga scadenza per sedici miliardi, come è ora, o deve limitare le esportazioni da sedici miliardi a otto. L’America non può a lungo esportare come ora senza danno. Deve quindi ridurre le esportazioni nella misura delle importazioni, cioè a otto miliardi. Ma questa improvvisa mutazione non può che produrre crisi, una crisi per lo meno eguale nel mercato interno dell’America eguale a quella del 1929, la crisi Hoover. La crisi del 1929 produsse conseguenze terribili in America. Durò fino al 1936, vi furono fino a oltre 10 milioni di disoccupati e fu la più grande crisi interna del mercato americano. Dunque, l’Europa dovrebbe esportare in America in assai più grande misura, per rendere possibile all’America di continuare la sua esportazione: altrimenti, l’America deve ridurre la sua esportazione a metà, ciò che equivale a provocare la crisi in America. Perché, se l’America non esporta avrà sovrabbondanza all’interno, ma non può esportare se viceversa l’Europa non esporta. L’Europa e l’Asia, dunque, si trovano in condizione che devono esportare, cioè produrre esse stesse, se vogliono i prodotti americani che sono loro necessari.
In Europa si sono proposti vari tentativi per rendere più facile l’esportazione. Le difficoltà sono grandi, perché la mancanza di materie prime o la mancanza di lavoro rendono all’Europa difficilissime le esportazioni.
Ad ogni modo, questa è la situazione reale. L’America vuole aiutare l’Europa, ma nella misura conveniente alla sua vita ed al suo sviluppo.
In Italia vi sono molte illusioni che bisogna eliminare. Che cosa noi abbiamo avuto dall’America? Adesso si esagera ciò che può essere l’azione dei prestiti dell’Import Export Bank. Sono 100 milioni di dollari che, come i coristi dei teatri, compaiono, scompaiono, ricompaiono e che, essendo modesta cosa nella realtà, servono a creare nuove illusioni. Questa comica esagerazione dei giornali, senza dubbio voluta, crea nuove ridicole illusioni e nuovi equivoci.
L’America, attraverso l’Export Import Bank, concorre nel proprio interesse alla ricostruzione industriale dell’Europa: naturalmente con prudenza e secondo un piano.
Accorda quindi prestiti alle industrie in forma tale che vi siano garanzie di restituzione e il prestito non abbia rischio.
Per l’Italia è previsto un prestito alla industria di 100 milioni di dollari. Questo contributo alla ricostruzione è limitato da una serie di condizioni che oramai tutti conoscono: lo Stato garantisce tutti i prestiti ottenuti, e questa situazione è regolata da una serie di norme inderogabili. Lo Stato non fa prestiti direttamente agli industriali, se non attraverso alcune condizioni: bisogna che la Banca stessa sia sicura che il Paese è in tale situazione che l’operazione non presenti alcun rischio. Bisogna che le condizioni della situazione di ciascuna industria siano separatamente considerate: una casa italiana, ad esempio, chiede 20 o 30 milioni di dollari. Essa è sottoposta all’esame da parte della Direzione della Export-Import Bank, la quale si riserva anche un giudizio politico sulla situazione generale del Paese.
Non si tratta di somme enormi e tanto meno d’impegni d’avvenire; si tratta di una utile cosa che può domani anche essere migliorata, ma che non modifica sostanzialmente la nostra situazione. E quindi tutte queste illusioni che l’America, soprattutto in seguito alla nostra politica attuale, venga a cambiare il suo indirizzo, sono singolarmente esagerate e anche un po’ ridicole.
E se venisse la guerra? Parecchi amici italiani mi hanno domandato che cosa io pensi della guerra. Signori, soprattutto mi auguro e spero che la guerra non venga. Fino a poco tempo fa l’ho completamente esclusa; ora non sarei così sicuro, perché vi è in qualche paese una vera eccitazione di guerra, una psicosi politica diffusa, soprattutto in alcune classi, un vero stato di preoccupazione assillante. Io spero nondimeno, e credo, che difficilmente l’America vorrà entrare in guerra. Anche se sicura della vittoria non lo desidera e nulla ha da guadagnare. Nemmeno la Russia può desiderare la guerra dove non ha probabilità di vittoria. Ma io spero che quest’atto di follia, una più grande guerra, non si verifichi. Comunque, se venisse la guerra non facciamoci illusioni: noi Italiani saremmo certamente sacrificati. Che cosa potremmo sperare e cosa potremmo attendere? che cosa potremmo offrire nella terribile situazione di adesso?
Coloro che per triste tradizione di bellicità fascista, o per semplice follia sperano che la guerra possa farci uscire dalle difficoltà attuali, non sanno ciò che dicono o sono fatui e dissennati.
La guerra, se venisse, sarebbe per noi il crollo di quello che ancora ci resta.
Io dissento dal Presidente del Consiglio e dal Ministro degli esteri i quali sinora non hanno fatto ancora ratificare il Trattato di pace. Non occorreva aspettare il voto di fiducia al nuovo Governo. Anzi ho fondato motivo di credere che di fronte all’America e di fronte all’Inghilterra ci nuoccia. Noi abbiamo troppi cattivi ricordi per aver mancato di lealtà e di parola, per effetto del passato regime. Perché suscitare incertezze e sospetti e diffidenze? È doloroso accettare e ratificare il Trattato di pace; ma lo dobbiamo ratificare. Se abbiamo già firmato la pace dobbiamo ratificarla, perché ormai non vi è niente altro da fare. Il fare gesti eroici in questa situazione è cosa non conveniente e anche ridicola. Ciò può essere ammesso solo se siamo decisi a respingere la pace. Quindi dobbiamo ratificare, senza troppo discutere, il Trattato di pace. Occorre, senza dubbio, che nel giorno della ratifica il Presidente dell’Assemblea, in nome di tutti, dica il nostro dolore profondo per le amare e ingiuste condizioni che ci sono imposte, e dica che noi le accettiamo come una necessità, ma che spiritualmente manteniamo tutti i nostri diritti e tutte le nostre speranze. E che, soffrendo, attendiamo in atmosfera di pace e con il concorso stesso dei nostri vincitori, che ci sia resa giustizia.
Ora non vi sono difficoltà alla ratifica: ma vi sono situazioni mutevoli e diffidenze che possono sorgere. Anche fra un mese possono sorgere difficoltà per contrasti fra i vincitori o per altre cause.
Dal momento che le basi del Trattato non possono essere mutate (e purtroppo non possono) perché tardare?
Ma il non ratificare non servirebbe a nulla, non ci gioverebbe; anzi sarebbe causa di diffidenza. E allora perché ritardare?
Vi dicevo che la situazione che noi dobbiamo risolvere in questo periodo è dolorosa, sotto tutti i punti di vista. Le cifre che vi ha esposto parcamente (anche troppo parcamente) l’onorevole De Gasperi e che io accetto, dicono tutto l’imbarazzo in cui egli si trova. L’onorevole De Gasperi, senza dubbio, è in un vero imbarazzo. Egli è l’erede di sé stesso e deve fare la critica a sé stesso. Di ogni situazione del passato che egli giudichi come non utile o dannosa, egli è responsabile. Ed è responsabile anche del distacco dai comunisti.
Vi ricordo che io irritavo i miei amici di quella parte (Indica la sinistra) quando essendo essi troppo in amore con i democristiani e dicendo perfino di credere in Dio come concezione etica e sociale, io dicevo loro che cristianesimo e marxismo sono due cose completamente diverse, e prevedevo che si dovesse necessariamente arrivare al conflitto fra comunisti e democristiani.
Avete accettate tutte quelle formule (la così detta democrazia progressiva!) che sembravano comode per l’occasione, ed ora mi spiegate perché anche il distacco dai comunisti ha qualcosa che l’opinione pubblica non si spiega? Dopo i casti amplessi fra l’onorevole Togliatti e l’onorevole De Gasperi, seguiti dopo da diffidenti conversazioni nei rispettivi giornali, i due leaders tornano a distaccarsi. L’opinione pubblica non si spiega questa improvvisa mutazione e non vede le ragioni proprie di questo distacco che pure è naturale e doveva prima o poi avvenire. L’onorevole De Gasperi non è stato forse abilissimo. Ora pare che faccia uno sforzo per continuare i governi precedenti combattendoli. E in fatto egli ha dichiarato che il programma del Governo attuale è il programma del 4 aprile, cioè il programma combinato di accordo con i comunisti e i socialisti: programma, che io non accettavo allora e non accetto nemmeno adesso, e che l’onorevole De Gasperi ha detto, presentandosi, di mantenere ancora nelle linee generali. È difficile cosa passare da un programma all’altro rimanendo assieme; più difficile, dividendosi, conservare lo stesso programma.
La situazione del Paese è grave; ed è diventata ancor più grave dopo che l’onorevole Campilli ha fatto quella prima esposizione di carattere finanziario, che fu rivelatrice a molti anche di questa Assemblea che non la conoscevano, e che rappresenta un documento di notevole importanza.
Quando giunsi dalla deportazione in Germania, dopo una breve sosta in Francia, l’unico documento di carattere finanziario che mi capitò nelle mani fu quello del mio amico Soleri. Era uomo onesto e probo e io lo chiamai ancor giovane nel mio governo. Ma anche egli, pubblicando il suo primo documento finanziario, aveva fatto scrivere sopra «segreto». L’onorevole Campilli per primo ha dato cifre che ci hanno fatto vedere la situazione reale, ed io di questo lo lodo volentieri. Utilizzerò le cifre che lo stesso Governo ha pubblicato. Ma non desidero darvi cifre che non sono necessarie. Mi limiterò a poche constatazioni; mi basta fissare chiaramente ciò che è più essenziale.
Cominciamo per constatare che noi spendiamo tre volte di più di quello che abbiamo come entrate. Se in una famiglia la spesa supera più di tre volte le entrate e non si trova modo né di diminuire le spese, né di aumentare le entrate; se, dopo aver fatto tutte le forme possibili di debito e nella maggior misura possibile, si vuole continuare a far debiti, dove si arriva? Lo Stato deve abusare della carta moneta e quindi arriva alla minaccia d’inflazione.
Secondo l’esposizione dell’onorevole Campilli, vi sono spese dello Stato per 896 miliardi e vi sono soltanto 286 miliardi di entrate, cioè 610 miliardi di deficit. Da qui la necessità di far debiti in continuazione e i debiti, in tutte le forme, hanno sorpassato nell’insieme i 1390 miliardi; ed allora si è abusato delle ultime formule dei buoni del tesoro a breve termine. In questi ultimi tempi, mentre si era cercato prima in tutti i modi di non aumentare la circolazione, abbiamo dovuto aumentare anche la circolazione.
Il 28 febbraio scorso la nostra circolazione, già in aumento, era arrivata a 504 miliardi, il 9 aprile a 540 ed ora forse raggiunge i 560 miliardi.
Di quanto potrà aumentare la continua minaccia per la lira? Bisogna affrontare il problema monetario. È necessario ridurre le spese più che si può. La prima necessità è che il pubblico senta, senza illusione, che non è vero che la nostra situazione finanziaria possa rapidamente e intensamente migliorare. Se la resurrezione italiana è legata alla resurrezione finanziaria noi dobbiamo volere a ogni costo la resurrezione finanziaria. E perciò, prima di tutto, non illuderci e non illudere.
Ma l’onorevole Ruini e l’onorevole Scoccimarro non si dorranno della mia esitanza nell’ammettere che nelle loro dichiarazioni ho trovato una fiducia che mi pare eccessiva nella ripresa finanziaria dello Stato e, perfino, che si possa arrivare al pareggio già fra qualche anno.
Io ho molta stima per l’onorevole Scoccimarro, per la sua irruenza e per la passione che l’anima; ma l’onorevole Scoccimarro, mi permetta, ha un difetto fondamentale: che egli è stato a lungo Ministro delle finanze e voleva invece funzionare sempre come Ministro del tesoro. (Si ride).
Una voce a sinistra. Non è vero,
NITTI. La funzione del Ministro delle finanze è assai diversa. Il Ministro del tesoro è il grande amministratore dello Stato, il grande banchiere dello Stato e dirige tutta la politica finanziaria; il Ministro delle finanze ha la funzione di riscuotere tutte le entrate dello Stato, di amministrarle nel modo migliore e di provvedere ai bisogni di nuove entrate, sempre d’accordo col Ministro del tesoro.
L’onorevole Scoccimarro, di cui non nego la volontà e le attitudini, voleva spesso funzionare da Ministro del tesoro: in ogni occasione egli presentava un programma che doveva essere invece di competenza del Ministro del tesoro e promuoveva o eccitava, anche in questa forma, speranze che non potevano tradursi in realtà.
Ora, tanto l’onorevole Ruini quanto l’onorevole Scoccimarro dicono che si può arrivare relativamente presto al pareggio, dividendo il bilancio ordinario e il bilancio straordinario dello Stato. E che cosa sono questi bilanci? Quando io insegnavo ai miei modesti allievi, facevamo la differenza fra le entrate ordinarie e le entrate straordinarie, tra bilancio ordinario e bilancio straordinario. Si parlava allora in Parlamento di entrate ordinarie e straordinarie e anche di ultrastraordinarie. Queste sono nei bilanci attuali, disordinati e iperbolici, distinzioni accademiche. Adesso siamo in un periodo in cui in questo enorme calderone ove entra tutto non si possono fare differenze sicure. Quando dite: ciò che serve per la ricostruzione rappresenta il bilancio straordinario e ciò che serve per la vita quotidiana è il bilancio ordinario, non avete detto nulla. Se il bilancio straordinario fosse soltanto quello di uno o due anni, si potrebbe ancora capire: ma quanto dureranno in Italia queste spese per la ricostruzione? È vano credere che tra qualche anno avremo esaurito le conseguenze della guerra e del disordine del dopo guerra. Spese che si faranno per molti anni è inutile dichiararle straordinarie per il loro scopo se si ripetono continuamente; come si può? Non differiscono dal punto di vista finanziario dalle ordinarie. E le chiamate straordinarie per dare una illusione che non può essere realtà.
In realtà, la cassa è unica: al pubblico non interessa niente la nostra classifica. Vuol sapere quanto si incassa realmente e quanto si spende. Il resto è superfluo.
Io ho l’abitudine dei conti della serva: quando ero al Ministero del tesoro e i direttori generali mi venivano con tutto quell’apparato dottrinario e logico, io dicevo: queste cose io le insegno e quindi le capisco, facciamo però i conti della serva, mettiamo tutto in cifre semplici e in modo che il pubblico possa comprendere.
Io non ci credo a questa storiella del bilancio straordinario e del bilancio ordinario: bisogna vedere la cassa, tutto il resto è parvenza. Spese ordinarie e spese straordinarie sfociano nella stessa cassa e bisogna pagarle.
Può darsi che un bilancio che appaia in regola non abbia niente dietro se la cassa è vuota. Quindi, noi dobbiamo vedere non già le situazioni fantastiche ma le situazioni reali. Se una spesa deve durare cinque o sei anni poco importa che la dichiariate straordinaria, perché questo nulla muta.
Constatiamo che la situazione attuale è per i prossimi anni veramente preoccupante. Noi abbiamo bisogno di lavorare e di risparmiare, di produrre e di esportare. Le esportazioni non tendono ad aumentare.
L’onorevole Merzagora ci dirà poi qual è la situazione del commercio internazionale, quale quella del commercio di esportazione, e quale la situazione reale della bilancia dei pagamenti e dei cambi. Noi dobbiamo lì concentrare il nostro sforzo, e vedere che cosa si può fare, su quali entrate possiamo contare, quali possiamo migliorare. Non vi mentirò dicendovi che allo stato attuale noi abbiamo una bilancia di pagamenti internazionali preoccupante e che non tende a migliorare. L’onorevole Merzagora – che è uomo di fine intelligenza – potrà dirci, quando crederà, la gravità di questa situazione internazionale, che bisognerà con tutti gli sforzi modificare presto nella misura del possibile.
Bisogna trovar modo di utilizzare tutte le risorse, senza alcuna volontà di tacere la verità. Non vi meravigliate della mia modestia quando io vi dico: contate, per quanto riguarda lo Stato, sulla semplicità e sulla economia. I francesi, che sono il popolo più avaro d’Europa – li conosco bene, sacrificano tutto all’avarizia – hanno un proverbio che non è poi ingiusto: «il n’y a pas de petites économies».
Noi, nella vita dello Stato, dobbiamo portare questo principio: economizzare, semplificare il meccanismo dello Stato, produrre di più. È la vecchia formula che io avevo lanciato nel 1919 e che fece sorridere gli ignoranti: produrre di più e per quanto si può, consumare di meno.
Noi abbiamo una popolazione passiva enorme che pesa sul bilancio dello Stato. La chiamo popolazione passiva non perché sia inutile – gli impiegati non sono certo inutili – ma perché è una popolazione che non ha una produzione economica diretta e che è pagata per i servizi che rende. Sono servizi necessari e utili; ma il numero degli impiegati è troppo grande e i servizi sono troppo costosi.
Vi sono ora in Italia masse enormi di impiegati (Commenti), e invece di diminuire aumentano. Alla data del 31 marzo di questo anno vi erano in Italia un milione e centomila impiegati dello Stato, i quali gravavano sul bilancio nella misura di 230 miliardi.
Oltre a questa enorme massa di impiegati dello Stato e di stipendiati dello Stato, vi sono almeno 300 mila impiegati locali per province e comuni, oltre quelli delle opere pie e delle istituzioni parastatali in genere: una massa simile di impiegati come non era mai esistita, ed io non ne avevo l’idea nel nostro paese. Dovunque si spende troppo. Nel Comune di Roma, ad esempio, mentre alcuni anni fa si spendevano per stipendi 5 miliardi, ora se ne spendono 15.
E dappertutto è la stessa cosa: impiegati che non sanno che cosa fare. Nominati spesso senza che fossero necessari, rimangono in posti dei quali non vi è bisogno senza che si possano toccare. Appartengono tutti a partiti e han difesa nel partito e diventano, sopra tutto nei piccoli comuni, intangibili. Io so di un piccolo comune della provincia di Roma che aveva pochissimi impiegati e che ora ne ha invece 40. Essi non fanno altro che passeggiare, discutere e litigare.
Si è pagati per fare ma anche per non fare. In non poche fabbriche industriali noi abbiano, sia pure per necessità, due operai che lavorano e uno che non lavora. Abbiamo in tutto oltre un milione e 700 mila impiegati o stipendiati dallo Stato e dalle pubbliche amministrazioni. Su una popolazione di 46 milioni di uomini: uomini adulti, vecchi, donne, fanciulli, questa enorme massa di popolazione preme e certamente rende più pesante la produzione.
Io non credo, come vi dicevo, che tutto questo possa improvvisamente mutare ma deve essere cura del Governo arrestare il male e limitarlo e cominciare dal non fare altre nomine non urgenti e indispensabili. Ora basta esaminare ogni giorno la Gazzetta Ufficiale per vedere sempre nuovi concorsi e in gran numero senza tener conto delle nomine avvenute o che avvengono senza concorso.
Noi viviamo, vorrei dire la parola amara, in un’atmosfera satura di sostanze stupefacenti. E illudiamo e vogliamo illudere noi stessi. Quante illusioni e, senza rendercene conto, quante menzogne!
Noi affermiamo, per esempio, che tutti pagano le imposte: non è vero. Grande è il numero di coloro che non pagano le imposte. Noi abbiamo promesso sistemazioni monetarie che non possono avvenire; noi annunciamo ogni giorno opere pubbliche in grande quantità, che non si possono fare per mancanza di materiali, per mancanza di mezzi; noi annunciamo ciò che non si può fare, e che non può da parte nostra essere in buona fede promesso. È bugia dunque che vi sono imposte regolari per tutti; è bugia che noi possiamo fare quei lavori pubblici che si promettono. Quando voi pensate che il prezzo di un chilo di ferro passa oramai le cento lire, che un quintale di cemento si paga fra 1.000 e 1.200 lire (Commenti), che tutti i materiali hanno prezzi inverosimili (un mattone in fornace da 8 a 9 lire), come promettere questi programmi di costruzioni? Quando vi trovate di fronte a questa situazione, che cosa noi possiamo seriamente promettere? Molto poco. Noi dobbiamo promettere soprattutto di lavorare seriamente alla ripresa. Il male è dovunque ma il malo esempio viene sopratutto da Roma. Roma, fatemi usare la parola brutale, è un immenso scandalo per l’Italia! Si fanno tutte le cose che si dicono di vietare, ed è spesso lo stesso Governo che ne dà l’esempio!
Poco dopo che giunse alla Presidenza della Repubblica l’onorevole De Nicola, io fui sorpreso che gli si desse a firmare un decreto col quale si aumentava il personale dei Gabinetti dei ministri da quello che era ai tempi del fascismo. Non mi seppi spiegare la cosa. Però l’aumento non era grave; passò inosservato. E da allora tutte le cose più inverosimili sono accadute: un numero grandissimo di Ministri, di Sottosegretari, di Commissari, introduce nei Gabinetti folle di funzionari o di privati ed è un’opera continua di allargamento ed una elefantiasi di gabinettisti. Vi è una spesa di Gabinetti e vi è un numero di gabinettisti così enorme e paradossale che danneggia l’amministrazione dello Stato e la disgrega. Il numero enorme dei gabinettisti è la caduta dell’amministrazione. I Gabinetti numerosi sono il covo del disordine e l’ambiente per la preparazione di tutti gl’intrighi e anche per fomentare la corruzione. Nei Paesi onestamente amministrati, com’era anche ai nostri tempi l’Italia, che cos’era il Gabinetto del Ministro? Cinque, sei o sette persone. Io ho avuto un tempo un Ministero che comprendeva cinque Ministeri attuali: agricoltura, industria e commercio. Era a via della Stamperia, fra la fontana di Trevi e il Tritone. Locale modesto. Noi eravamo chiusi in quelle piccole stanze e ci parevano sufficienti. Dunque, avevo alle mie dipendenze l’agricoltura, l’industria e commercio (adesso c’è anche il commercio estero). Ed io avevo anche il lavoro e tutti i servizi speciali. Vi erano il credito, la monetazione, la statistica, il servizio minerario, la pesca, ecc. Massa imponente di servizi di ogni natura. Nel mio Gabinetto erano uomini di prim’ordine: l’onorevole Giuffrida, per esempio, che era il mio capo di gabinetto. In tutto però pochissime persone. Andate a vedere gli annuari: quant’era il Gabinetto? E i locali non erano che modesti, tali che ora il più umile Sottosegretario non vorrebbe.
Il Gabinetto è la depravazione dell’amministrazione, se troppo esteso, perché tutte le pratiche devono andare agli uffici competenti, non al Gabinetto! Il Gabinetto serve ora quasi sempre ad interessi elettorali e politici immediati, non all’amministrazione. Ogni Gabinetto considera le cose dal punto di vista della situazione politica e del partito e non dal punto di vista degli interessi dello Stato, di cui pochi si occupano veramente.
Questo scandalo è aggravato poi dal fatto delle abitudini indecenti di dissipazione che sono entrate nei Ministeri.
Quando noi eravamo Ministri avevamo fra il 1910 e il 1915 una carrozza a un cavallo (Commenti). Quando furono introdotte le automobili e Giolitti volle la prima automobile, le automobili erano limitate al Ministro; più tardi al Sottosegretario di Stato. Ma nei Ministeri attuali l’uso dell’automobile è comune, ed è tale lo scandalo che – vi sembrerà strano e inverosimile – questa è la cosa che più offende gli americani! Essi che sanno le nostre difficoltà a procurarci dollari, vedono con stupore come si dissipa proprio là donde dovrebbe venire l’esempio della parsimonia e della dignità. Si vedono non solo Ministri e Sottosegretari, ma funzionari di Gabinetto, disporre di automobili e fare giri per l’Italia e preoccuparsi sin da ora di elezioni! Si vede lo spettacolo di impiegati di Gabinetto che la sera vanno al cinema in automobile con la moglie o l’amante, lasciando fuori la macchina per riprenderla a spettacolo finito.
Americani autorevoli, constatando queste cose mi hanno detto: – Come credete che sia tollerabile, dato che ogni goccia di benzina dovete comperarla a caro prezzo e non avete dollari da sciupare? –
Io mi rivolgo all’onorevole Einaudi e gliene faccio un preciso dovere: egli deve, fra le altre cose, regolare la materia dei Gabinetti. I Gabinetti dissolvono l’amministrazione e non solo fanno danno allo Stato dal punto di vista economico, ma abbassano con il loro disordine la dignità dell’amministrazione stessa.
E un’altra cosa deve essere presa subito in esame: l’uso, l’abuso dei locali requisiti per servizi dell’amministrazione dello Stato. In ogni occasione si requisiscono locali: dove prima c’era un grande Ministero non è bastato il locale a un semplice Sottosegretario che ha avuto bisogno di altri locali.
L’onorevole Sforza era – credo – Capo di Gabinetto del mio amico di San Giuliano: ricorderà come la Consulta era bastevole per tutti i servizi del Ministero degli esteri, che era un grande ministero e dava anche grandi ricevimenti. Noi stavamo in locali molto modesti, mentre ora la smania della grandezza e del lusso è dappertutto, eredità anche peggiorata del fascismo. Ogni nuovo Sottosegretario vuole nuovi e più grandi locali. Noi dobbiamo tornare alla serietà e alla dignità. Io invito dunque l’onorevole Einaudi non solo a fare delle indagini sui Gabinetti e a ridurre il numero dei funzionari che vi sono addetti, ma a rivedere tutti i locali abusivamente occupati, spesso col pretesto di uffici di stralcio che non finiscono mai il loro lavoro e rischiano di diventare eterni. Il Tesoro deve vietare tutte queste spese insane. Ora tutti sentiamo la necessità di economie. Tutti vogliono che il Governo abbia modo di difendere la lira. Ma dipende innanzi tutto dalla nostra sincera intenzione di economia e dalla nostra serietà, e il governo deve dare l’esempio della decenza e della sincerità.
Qual è il programma finanziario del Governo? Io sono un poco inquieto su questo punto. Nella sua dichiarazione l’onorevole De Gasperi ci ha detto con molta cortesia quelli che gli parevano i punti principali. Ma qual è il programma del Governo? L’onorevole De Gasperi ha detto che il programma del Governo rimane in fondo quello del 4 aprile cioè il programma fissato insieme coi comunisti e i socialisti, e che si basa su alcune cose che non potrei accettare senza mettermi in dissenso con me stesso.
De Gasperi ricorda che in quel programma sono compresi i 14 punti di Morandi. Devo dire che io mi sento in imbarazzo quando odo parlare di punti. Oggi tutto è elencato con cifre: anche l’onorevole Giannini ci ha detto che l’uomo qualunque ha dei punti, cominciando col rispetto di Dio. (Si ride). I 14 punti di Morandi mi fanno una certa paura. Clemenceau, che era uomo di spirito, detestava Wilson, e non osava dirlo perché anche allora tutti avevano bisogno dell’America. Ma tutte le volte che parlava con me di Wilson, sorrideva e diceva: «Dio ha dato i dieci comandamenti, Wilson ne ha dati 14». (Si ride).
Anche l’onorevole Morandi ha fatto 14 comandamenti, che sono accettati in gran parte, o totalmente, credo, dal Ministero perché fanno parte del programma del 4 aprile.
Devo dire che per quanto abbia simpatia per l’onorevole Morandi, i 14 punti mi pare che debbano essere quasi interamente accantonati. Einaudi è certamente più imbarazzato di me ad accettarli, perché essi sono la negazione di tutte le sue idee. (Si ride).
Vediamo la realtà com’è. Noi dobbiamo applicare delle vere imposte, noi dobbiamo sottomettere il Paese a gravi sacrifizi, noi dobbiamo far sì che tutti contribuiscano. Ma dobbiamo parlare e fare sul serio? O dobbiamo continuare a mentire per demagogia, da qualunque parte venga?
Tutti si son trovati d’accordo sulla necessità di aumentare il prezzo del pane. Ma poi siamo arrivati subito all’assurdo, quando per demagogia si è voluto il prezzo differenziale del pane, cioè il prezzo secondo la situazione personale di ciascuno e il suo guadagno.
Vi è nulla di più assurdo, di più fatuo e di più irritante? Ogni persona mediocremente colta in cose economiche sa come il pane abbia sulla tavola del ricco una minima importanza di fronte a quella del povero.
Ma poi si è creato con questo un dissidio più vasto, perché il fatto che la moglie dell’uomo, non dirò ricco ma agiato, che va con una carta di diverso colore a comprare dove altri devono comprare, non fa che esasperare.
La lotta di classe può essere una necessità, ma l’esasperazione volontaria di contrasti è cosa stupida e malvagia. La differenziazione del prezzo del pane non fa che urtare e offendere le folle. Speravo che questo punto fosse abbandonato. In realtà non è stato applicato. Come in gran parte delle cose italiane, le leggi si fanno per non applicarle, e la non applicazione è sempre a discredito dello Stato. Poi ora si parla di prezzo differenziato della pasta, dei grassi e di altri generi alimentari. Signori, vi rendete conto di quello che dovrebbe essere un’amministrazione che dovesse compiere seriamente queste cose assurde? Nuovi Ministeri, masse enormi di impiegati ed una organizzazione sempre più sconvolta e che disordinerebbe sempre più la nostra vita sociale.
Vi devo anche dire che io sono rimasto perplesso di fronte alla imposta patrimoniale. Signori, non mi potete dire che io ne sia l’avversario: io sono proprio il solo capo politico che ha ideato e dopo la prima guerra ha applicato l’imposta patrimoniale in Italia. L’ho voluta io e l’ho adottata io non senza difficoltà. Ma ho cercato di applicare questa difficile imposta in modo tale che fosse veramente applicata e che non fosse materia soltanto di cialtroneria e di promesse al popolo che non potevano essere mantenute. L’onorevole De Gasperi ha detto nella sua relazione che la patrimoniale, nell’idea del Governo, è un contributo necessario delle classi abbienti alle spese di guerra.
Vi ricordate proprio adesso delle spese di guerra? E come c’entrano? La patrimoniale è soltanto una grande imposta temporanea ed occasionale. Perché vogliamo cercare spiegazioni non vere e non necessarie? E perché le spese di guerra proprio adesso sarebbero pagate con la patrimoniale?
Ma perché io giudico questa imposta con avversione e con severità?
Perché si vuole applicarla senza serietà nel momento meno opportuno, meno logico. Ma è ora il tempo di una simile politica? Io ho applicato la patrimoniale anche in condizioni politiche difficili. Vi era il re ed il Papa ed ho dovuto chiedere all’uno e all’altro di pagare l’imposta sul patrimonio. Vi assicuro che non era impresa senza difficoltà. Ebbene, ho regolato anche questa materia in tal modo che ho potuto applicare l’imposta patrimoniale senza avere nemmeno la resistenza del Vaticano.
Non volli fare alcuna speculazione politica sulla patrimoniale: io volevo una buona entrata ma non volevo una affermazione politica. Le imposte vanno trattate sempre come entrate, non come argomenti di propaganda.
La imposta che ci vien mal congegnata, viene nel peggiore momento: adesso che dobbiamo applicare rudemente le imposte esistenti, introdurre la patrimoniale è cosa assurda e senza risultato utile. Nella situazione sociale dell’Italia attuale la patrimoniale deve essere necessariamente inquisitiva e si può ben calcolare come questo carattere inquisitivo debba creare le diffidenze. Sarà il modo di aumentare le resistenze dei contribuenti.
Veniamo ora ad istituire la «patrimoniale», perché, si dice, (e ha detto nella sua relazione l’onorevole De Gasperi) così i ricchi pagano le spese di guerra. Nessuno si ricorda più di imposte di guerra. Tutte le imposte si istituiscono allo scopo di avere nuove entrate. Quindi anche «la patrimoniale» è istituita da noi in realtà per avere delle entrate. Quanto più rende, tanto più è utile.
Solo gli ignoranti possono concepire che la «patrimoniale» sia per rappresentare una grande entrata.
Io ho studiato la «patrimoniale» in tutti i paesi dove è stata applicata e ho visto che comunque applicata può essere solo una entrata temporanea e di produttività limitata.
Noi vogliamo introdurre la «patrimoniale» nello stesso tempo in cui dobbiamo applicare le imposte antiche e nuove. Con quale risultato? Solo fra qualche anno diventerà somma apprezzabile, quindi di effetto importante. Un piccolo aumento invece sulle imposte dirette attuali darebbe un gettito immediato, ben più grande.
La patrimoniale che si vuole imporre si presenta senza fini ben chiari, senza possibilità di grandi risultati. Irriterà i contribuenti, aumentandone la diffidenza; darà risultati molto scarsi dal punto di vista finanziario e in definitiva sarà dannosa e tutti cercheranno evaderla nella maggiore misura possibile.
Se tenete la patrimoniale nei limiti in cui, con sacrificio, può essere pagata dal reddito in una serie di anni, può essere facilmente sopportabile. Se la volete introdurre come imposta, che deve produrre rapidamente una notevole entrata allo Stato, voi rovinerete moltissimi senza risultato.
Se moltissimi sono costretti a vendere e pochi possono comperare è il disordine e la caduta dell’economia del paese intero.
La «patrimoniale» deve essere attuata in tal modo che possa essere pagata dal reddito, sia pure con molto sacrificio; ma non tale da obbligare tutti a vendere tutto e da produrre il disordine e la caduta di tante economie private.
In fondo l’onorevole De Gasperi si è proposto, costituendo il governo di destra, di avere un programma di sinistra. Io odio queste parole «destra» o «sinistra»…
DE GASPERI, Presidente del Consiglio dei Ministri. Anch’io.
NITTI. …che sono senza significato ma che qui dentro bisogna accettare per quello che non sono: come espressioni di idee e di programmi. Le idee, espresse in questo programma del Governo sono in contrasto completo con le idee dell’onorevole Einaudi e dell’onorevole Del Vecchio e dei loro collaboratori. Sono anche in contrasto con le mie idee.
Noi dobbiamo applicare un’imposta che non sia spettacolare, ma che dia veramente un gettito.
Non possiamo contare che su noi stessi. Il domani sarà ben più aspro dell’oggi. La popolazione attuale è di 45 milioni e 600 mila abitanti. Ho sentito dire da qualcuno – Dio lo perdoni – che ammirava ancora le idee di Mussolini sulle famiglie numerose, senza pensare alla catastrofe cui ci ha portato questo equivoco delle famiglie numerose, che è stata la causa originaria più profonda della guerra.
Quel povero folle che fu Mussolini credeva che l’Italia, aumentando di abitanti, diventasse più potente perché era obbligata a «fare esplosione» e quindi guerre sempre vittoriose, che l’avrebbero resa ricca e potente. Si esaltavano le madri prolifiche come benemerite della patria, si davano loro premi e sussidi. Chi non aveva figli appariva come un disertore e non poteva essere nell’amministrazione in situazione seria e non poteva far carriera.
Stravaganti follie e non scomparse del tutto anche ora da quelle povere menti che il fascismo ha intorbidato e che non ancora hanno perduto il veleno della stupidità fascista.
In Italia la fecondità naturale è elevata e rappresenta anche essa sola grande preoccupazione, se le vie del mondo non ci sono aperte. Eccitarla artificialmente è demenza.
L’Italia viveva nel passato, oltre che delle risorse e della sua attività, in buona parte anche dell’emigrazione. Noi abbiamo mandato all’estero fino a un milione di uomini all’anno, di cui metà tornava e l’altra metà restava. L’emigrazione all’estero si aggirava, in generale, intorno ad una cifra importante, che compensava il disquilibrio fra le nascite e i morti. In Italia nascono oltre un milione di uomini e muoiono circa seicento mila uomini. Pensate alla situazione terribile che, non per l’avvenire, ma anche ora, chiusa in gran parte l’emigrazione, si sta producendo. Abbiamo in Italia 400-450 mila uomini che nascono ogni anno in più dei morti; quindi su questo territorio così angusto dell’Italia, così piccolo, e così insufficiente, devono viver ogni anno 450 mila uomini nuovi. Sapete che cosa significano 450 mila uomini nuovi?
Una voce a sinistra. Si creano le industrie.
NITTI. Me lo deve spiegare dopo come si creano le industrie senza materie prime. E proprio in questa fase che è difficile sorreggere le vecchie industrie anche migliori.
Una voce a sinistra. Lo ha affermato anche l’onorevole Einaudi.
NITTI. Non ha potuto dire cosa simile. Se lo avesse detto in un momento di buon umore, sarebbe stato solo per ridere.
La situazione è questa: che vi sono 400-450 mila uomini in più ogni anno. Sapete che significa 400-450 mila uomini? La Provincia di Forlì o la Provincia di Avellino ogni anno.
Forlì ha proprio 444 mila, uomini, Avellino ne ha 450 mila.
Dunque nasce ogni anno una provincia intera, senza territorio. Pensate quanto è aumentata (se avessimo statistiche esatte, ma non le abbiamo) la popolazione d’Italia anche dopo il fascismo, e soprattutto dopo il fascismo, a causa dei ritorni, dei rimpatri degli emigrati, degli aumenti spontanei! È una massa di popolazione nuova che noi dobbiamo nutrire e che noi non possiamo dimenticare. Dobbiamo andare per il mondo in cerca di mezzi da vivere. Non dobbiamo dimenticare e non dobbiamo illuderci nemmeno sulla facilità della emigrazione che praticamente ci è molto limitata.
Sento con leggerezza parlare di centinaia di migliaia di uomini, di milioni che possiamo mandare all’estero. Come? Dove? Quali sono questi paesi ospitali? E in che misura hanno mezzi per darci ospitalità? E in che misura ci desiderano e ci accolgono?
Noi dobbiamo soffrire in questo duro periodo e riunire qui le nostre forze per vivere e utilizzarle tutte. Se io odio ogni divisione dell’Italia, se io odio tutti i tentativi di disgregazione, è perché tutti i nostri sforzi devono essere rivolti all’unione. L’Italia deve essere prima di tutto il nostro grande mercato. Ogni separazione dell’Italia, dal nord al sud, ogni separazione determinata da contrasti o da diffidenze non farà che immiserire tutti.
Quando è venuto qui il mio amico La Guardia, così festosamente accolto, ha voluto, mentre ci parlava dell’U.N.R.R.A., darci savi avvertimenti. Uomo intelligentissimo ed esperto, egli non è un tecnico, non è un erudito, ma è un uomo di senso politico notevole e spirito acutissimi e pratico. Egli ci ha raccomandato di vivere sopra tutto di noi stessi. «Badate soprattutto al vostro mercato – egli ha detto – e rimanete uniti. Non vi illudete. L’America non potrà essere ciò che voi credete. Voi dovete sviluppare la vostra attività nel vostro mercato e con i vostri vicini».
Noi dobbiamo considerare ogni cosa che divida l’Italia e la metta in contesa con se stessa come malefica. Perciò la mia profonda, invincibile avversione per le autonomie regionali. Io non ho pace da quando questa follia minaccia l’Italia. Ne misuro tutte le conseguenze, so che inizierà, se accolta, il dissolvimento e la caduta del nostro paese. (Commenti).
Economicamente l’Italia, nella situazione attuale dell’Europa e del mondo, deve avere in se stessa il suo grande mercato e deve trovare in se stessa molte delle sue più grandi risorse.
Io ho una grande preoccupazione per l’avvenire della lira. Per un Paese non vi è niente di più dannoso della caduta della moneta. Rivolgo formale invito all’onorevole Einaudi di studiare se in queste minacce che sono sulla lira vi sia soltanto un fenomeno economico spontaneo dipendente dal disordine finanziario, o se vi siano anche interessi italiani che considerano, senza avversione e forse con qualche simpatia la caduta della lira. (Applausi).
Io non voglio fare della demagogia, ma affermo che la lira va difesa con tutti i mezzi da malefiche speculazioni. L’onorevole Einaudi e l’onorevole Merzagora meriteranno la nostra riconoscenza se non esiteranno e se ogni speculazione che essi troveranno illegale e quindi anche immorale colpiranno nella forma più aspra, anche attraverso il magistrato penale.
La lira dev’essere difesa. Io oso ripetere che vi sono anche interessi italiani che per ragioni diverse sono in contrasto con il pubblico interesse. Vi sono persone evidentemente che, avendo potuto accumulare fuori d’Italia grosse fortune in valuta straniera, possono più facilmente conquistare l’Italia se avverrà la caduta della nostra moneta.
L’onorevole Einaudi faccia ricerche a fondo: troverà forse ciò che cerca e forse anche persone che non sospetta.
Io non devo dire nulla di più. Devo aggiungere soltanto che l’onorevole Einaudi ha questo preciso dovere. Mi permetto di usare questo linguaggio nei confronti di un amico come Einaudi. Fui io che nel 1919 lo introdussi nella politica nominandolo senatore. L’onorevole Einaudi ha bisogno anche, oltre a quello che ho detto della moneta, di preoccuparsi di un altro problema urgente, insieme con l’onorevole Merzagora e col Ministro dell’agricoltura: cioè, della questione del grano. Nei rapporti del Segretario dell’agricoltura americano e nelle pubblicazioni ufficiali vedo che grande preoccupazione dell’America è anche per il fatto che essa non potrà sodisfare, di fronte alla fame del mondo (così dicono i rapporti!) le richieste grandissime di grano, cioè non potrà offrire che quantità molto inferiori alla richiesta. Il raccolto del grano, come ho detto, è stato in generale scarso. L’anno passato il grano non mancava e noi l’avevamo a traverso l’U.N.R.R.A. e non dovevamo pagarlo. Quest’anno il raccolto è minore e noi dovremo pagarlo. Lasciamo le valutazioni per l’Italia. Ho avuto le cifre più diverse ma tutte concordano nel ritenere un cattivo raccolto e peggiore degli anni precedenti.
Ebbene, noi dobbiamo affrontare la questione del grano con vedute prospettive per tutto l’anno fino al raccolto dell’anno venturo. Se facciamo ora degli sperperi, se per condiscendenza elettorale, se per cedere alla demagogia dei partiti che ci domandano di aumentare le razioni, e che ci domandano di largheggiare, noi non avremo rigidità nel concedere, avremo per risultato di affamare il Paese.
Noi dobbiamo fare un’organizzazione tale che dia sicurezza, almeno relativa, che fino all’anno prossimo al popolo il pane non mancherà. Se il popolo ha il pane è tranquillo: in Francia si dice che il popolo per essere tranquillo, deve avere il pot au feu. Noi dobbiamo più modestamente organizzarci in modo che almeno il pane non manchi. Dobbiamo ordinare la nostra agricoltura in guisa che abbia interesse a produrre. E quindi il prezzo del grano e la materia degli ammassi devono essere organizzati seriamente e vorrei dire ragionevolmente, perché troppo si è mancato non solo di idee economiche, ma anche di logica.
Basta con le minacce, che in materia economica non servono a nulla. Minacciare in materia economica è quasi sempre ottenere un effetto contrario. Bisogna creare l’interesse nei coltivatori di grano. Debbono essere interessati a produrre il grano nella maggiore quantità possibile, e se permettete, concedendo loro di guadagnare il più possibile.
Dovete fare che i coltivatori di grano abbiano fin da quest’anno interesse che l’anno venturo la produzione sia più alta. E per ottenere un risultato, a cominciare dal prossimo ottobre, coltivando ne avranno i vantaggi. Guadagnino più o meno, importa relativamente poco; importa che il grano ci sia. Il modo più semplice è di cointeressare i produttori di grano all’aumento della quantità del prodotto.
Abbiamo le notizie di quello che è stato portato agli ammassi negli ultimi due anni, un anno buono e un anno cattivo. Aboliamo inutili uffici, ricerche di burocrati improvvisati. Bisogna adottare forme semplici di accertamento. Ogni coltivatore di grano potrà essere obbligato a dare agli ammassi la media degli ultimi due anni, e non essere soggetto ad alcuna inutile investigazione. Se egli darà grano nella misura indicata (la media degli ultimi due anni) tutto quello che potrà raccogliere in più avrà diritto di vendere per suo conto, dovunque gli piaccia, anche al mercato nero se vorrà e al prezzo che vorrà. Se si vuole seguire invece il sistema amministrativo peggiorato dalle minacce non si otterrà nulla.
L’onorevole Einaudi si è giustamente preoccupato dei Ministeri finanziari. Vi erano prima due Ministri finanziari, poi ridotti a uno solo: ora sono aumentati a tre, con il relativo numero dei Sottosegretari. Tanto meglio, se questo vuol dire uno studio più accurato ed un’azione più definita. Però anche qui cominciano le superfetazioni; si è pensato perfino a costituire un comitato economico affidato all’onorevole Vanoni. Perché una istituzione nuova, un nuovo Comitato? Come sarà composto? quale sarà il suo compito? quale la sua efficienza?
Si è pensato, se ho ben letto la relazione dell’onorevole De Gasperi, che l’onorevole Vanoni sarebbe utilizzato per dirigere questo Comitato mentre l’onorevole Campilli sarebbe mandato all’estero per cercare fortuna e prestiti per l’Italia. (Si ride). Vi sarebbe quindi, se mi permettete la espressione, un praetor peregrinus da una parte ed un praetor urbanus dall’altra: praetor urbanus l’onorevole Vanoni, e praetor peregrinus l’onorevole Campilli. (Si ride). Non so se queste istituzioni siano veramente necessarie.
L’onorevole Einaudi, dal momento che ha il titolo, non perfettamente spiegabile in Italia, di Ministro del bilancio, vuol dire che si vuol occupare del bilancio.
In verità il bilancio merita particolare cura, perché nessuno se ne è mai occupato. (Si ride). Sistemi di controllo ora non esistono.
I capitoli sono estremamente larghi – e questo è materia di grandi abusi e d’arbitri spesso scandalosi. I Ministri possono fare tutto quello che vogliono. La serietà del bilancio è data in gran parte dalla sua conformazione. Vi devono essere capitoli brevi, in modo che si sappia come il denaro dello Stato viene realmente speso; quando si fanno capitoli di somme enormi, non vi è alcuna sicurezza d’ordine. Voi dovete mettere il Ministro in condizioni che nessun abuso gli sia possibile e ciò si può fare con la specificazione dei capitoli. Adesso accadono le cose più strane e inverosimili: un Ministro uscente prima di andar via concede spesso un premio a tutti gli impiegati del suo Gabinetto e il Ministro che gli succede dà un altro premio. Vi potrei citare una diecina di questi casi ridicoli. Del denaro dello Stato si dispone non con criteri di economia pubblica ma con criteri di economia privata e personale. Questo accade anche oggi. Il galantuomo che dirigeva la Corte dei conti, valorosissimo studioso di diritto pubblico e sopratutto o di diritto finanziario, l’onorevole Ingrosso, fu licenziato senza alcun motivo e senza nemmeno che gli fosse notificato il provvedimento. Aveva il difetto, mi dissero, di essere sordo. Ed infatti era vero in parte, ma pareva che fosse sordo alla volontà del Governo.
Io credo che l’Italia, passata attraverso grandi sofferenze, debba risorgere; bisogna però, nell’ora attuale, calmare i nervi e bisogna lavorare. Io sono lieto di aver contribuito a far prorogare la durata della nostra Assemblea Costituente fino al 31 dicembre dell’anno in corso. In realtà non vi era né meno un vero abbozzo di Costituzione e si era perduto un anno in discussioni estranee allo scopo che era quello di dare al paese una Costituzione. Quante unioni si fanno e quante disunioni si producono con scopi più o meno ideologici di partiti, che qualche volta quasi non esistono, ma che in realtà si propongono soltanto una partecipazione al Governo!
Gran parte degli studi e delle discussioni sulla Costituzione sono stati inutili e superflui e riguardano ideologie fuori della realtà o visioni di avvenire o impegnano a fare cose non realizzabili. Una Costituzione non è un programma e tanto meno un mezzo di propaganda di partito.
Ora dobbiamo fare la vera Costituzione e occorre che ciò sia fatto nel termine di proroga che ci è stato consentito, cioè per il 31 dicembre.
Niente di ciò che è stato fatto nei due ultimi anni dallo Stato per mezzo del Governo indica una via sicura di rinnovamento, se anche opere lodevoli si siano parzialmente realizzate.
Ma il popolo (e intendo per popolo tutta la nazione) ha mostrato molta resistenza, molta capacità di adattamento, di fronte alle difficoltà della vita e sopra tutto nei lavoratori è fiducia nell’avvenire e in non pochi desiderio di lavoro.
I grandi terremoti lasciano nei paesi colpiti un senso di atonia e per qualche tempo poca voglia di lavorare. Le grandi guerre (è fenomeno sempre constatato) sono seguite da periodi di disordine e da diminuzione nella capacità di lavoro.
Anche ora fenomeni di questa natura si verificano nei grandi paesi di Europa e di America. Vi è meno voglia di lavorare e si disertano le occupazioni più faticose che sono anche le più necessarie.
Ciò non avviene in Italia.
Anche spesso malamente nutrito, il popolo è disposto al lavoro e se trova da lavorare non esita anche dinanzi al lavoro più duro. Sopratutto i contadini sono egualmente frugali e laboriosi. Gli americani e gli inglesi che vengono in Italia dicono (e spesso mi hanno detto) che sentono che l’Italia risorge perché in Italia vi è una cosa che non è in tutti i paesi: il lavoratore italiano. Questa povera gente, che spesso non ha avuto istruzione sufficiente, composta da lavoratori frugali, resistenti e tenaci. Purtroppo nelle condizioni attuali l’emigrazione ci sottrae molti elementi preziosi. I paesi industriali vogliono ciò che di meglio noi abbiamo. Quanta ricchezza perduta per noi! Ma la grande massa dei lavoratori unskilled è disposta sempre a lavorare anche in opere faticose, ciò che non accade in non pochi paesi, dove il rendimento del lavoro diminuisce. Molti americani hanno rilevato come i nostri contadini, gli operai e i nostri lavoratori cercano con ogni mezzo di costruire e la loro attività è rivolta sempre ad uno sforzo continuo. Questi americani mi hanno detto: il vostro Paese non può cadere perché ha questa massa di ottimi lavoratori, che nelle privazioni e turbati da propagande di ogni natura non si allontanano dal lavoro…
CALOSSO. È cattiva la classe dirigente. Bisognerebbe provarsi a cambiarla.
NITTI. Purtroppo perdiamo lavoratori eccellenti e tra i migliori. Dicevo che gli americani prendono il meglio e così gli altri paesi; perché essi distinguono tra lavoratori scelti e quelli che non lo sono, distinguono tra unskilled e skilled, e naturalmente scelgono questi ultimi. Ma rimangono a noi tanti lavoratori solidi, tenaci e di vere attitudini.
Io vorrei scrivere, se avessi il tempo, dei lavoratori italiani con cui sono stato in contatto in un centro difficile come Parigi. Non erano amati dagli operai francesi e spesso diffidati. E perché non erano amati? Perché li consideravano «crumiri». Non si ubriacavano, risparmiavano e cercavano farsi con il risparmio una posizione che li mettesse al sicuro. Quando fu introdotta la settimana di 40 ore, i lavoratori italiani che venivano a vedermi ne facevano 48 o 50. Non per crumiraggio, bensì agivano e lavoravano con lena pensando all’avvenire. Ho visto operai che dal sabato al lunedì, non uscivano per costruirsi, associandosi a loro parenti, una casa di abitazione, per abitarla e anche in parte per affittarla. Quanti di questi operai ho conosciuti e che erano muratori, falegnami, perfino un marinaio di Salerno. Quegli operai italiani che sono andati per il mondo e che vanno ancora per il mondo rappresentano, quando è loro possibile, un grande esempio di laboriosità e di capacità. Un popolo così resistente nelle privazioni, così tenace nel lavoro come può soccombere? Lavoratori siffatti che vivano in Italia o siano già all’estero sono la grande forza di resurrezione.
Io credo fermamente nella resurrezione dell’Italia. Essa giungerà a salvarsi dopo tante delusioni e dopo tanti dolori.
Io sono stato spesso accusato di pessimismo, eppure nessuno ha più di me fiducia nell’avvenire. Ma la mia passione della realtà domina sempre la illusione. Sono spesso aspro perché resisto alle illusioni che avvelenano il paese, e le mie constatazioni sono penose. Ma nessuna delle previsioni che ho fatto e che sono solo constatazioni è stata mai smentita dai fatti!
A questo punto una domanda legittima mi può essere rivolta: come io voterò? La domanda è lecita e vi devo dire che sono in imbarazzo. Aspettavo ed aspetto le dichiarazioni dei Ministri responsabili che mi illuminino sui propositi del nuovo e in tanta parte vecchio Ministero. Io odio le crisi, e l’onorevole De Gasperi sa che mai ho cercato di creargli imbarazzo, come pure non l’ho creato al suo predecessore. Le crisi ministeriali in un’Assemblea come la nostra fanno spesso più male che bene: succede un Governo peggiore di quello che va via. Per me il Governo non ha nessuna personale attrazione e sono lieto di servire il Paese modestamente, semplicemente, spesso anche antipaticamente, per l’amore della verità che mi costringe a essere severo.
Ora, come voterò? Io aspetto le dichiarazioni dei Ministri responsabili. Certamente non voterò contro il Governo, perché non credo prudente in quest’ora darci il lusso di una nuova crisi ministeriale.
Dunque certamente non voterò contro il Governo: ma aspetto dalle dichiarazioni dell’onorevole Einaudi e dei suoi collaboratori di sapere quale è il vero programma del Governo. Allora, se non potrò votare in favore del Governo, io mi asterrò. (Applausi – Congratulazioni).
PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato a domani.
Interrogazioni con richiesta d’urgenza.
PRESIDENTE. Sono state presentate le seguenti interrogazioni con richiesta d’urgenza:
«Al Ministro dell’interno, per conoscere quali provvedimenti sono stati presi contro i violatori della libertà di riunione e di parola che provocarono i noti incidenti del 15 corrente a Livorno in cui Beverelli Paolo, della locale sezione del Partito cristiano sociale, accorso in difesa dell’onorevole D’Aragona che commemorava Giacomo Matteotti, venne selvaggiamente aggredito, malmenato e denudato.
«Bruni».
«Al Ministro dell’interno, per conoscere in base a quali disposizioni e da chi emanate i carabinieri di Quarto di Marano (Napoli) nella mattina del giorno 28 maggio scorso hanno proceduto, senza esibire alcun mandato di autorità giudiziaria né ordini superiori, a una serie di perquisizioni domiciliari nella casa di numerose famiglie di iscritti al Partito socialista italiano, perquisizioni tutte compiute con esito negativo e dirette, a detta dei procedenti, al rinvenimento di armi.
«E per conoscere se non ritenga che tale atto, non conforme alle norme procedurali e avente carattere di prevenzione di parte e che ingenera sfiducia e discredito verso gli organi incaricati dell’ordine pubblico, non meriti la sanzione disciplinare opportuna.
«Sansone, Cacciatore, Mancini».
«Al Ministro dei lavori pubblici, per sapere se è a sua conoscenza che, a circa un chilometro da Colleferro, i lavori di ricostruzione del ponte sul fiume Sacco, iniziati da oltre un anno, sono condotti con lentezza, disinteresse e noncuranza della pubblica incolumità, sì da provocare, in questi ultimi tempi, ben sei seri gravi incidenti automobilistici; e per sapere quali provvedimenti intenda adottare per punire i responsabili di tali trascuraggini e prevenire, con opportuni servizi di segnalazione, altri disastri.
«De Martino».
Prego i membri del Governo presenti di comunicare queste interrogazioni ai Ministri cui sono rivolte, affinché possano far conoscere quando intendano rispondere.
Domani vi sarà seduta alle 10, per lo svolgimento di alcune interrogazioni urgenti, e alle 16.
Interrogazioni.
PRESIDENTE. Si dia lettura delle altre interrogazioni pervenute alla Presidenza.
SCHIRATTI, Segretario, legge:
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Ministro della pubblica istruzione, per sapere quando verrà approvato il decreto che disporrà la fusione dell’Istituto degli orfani dei maestri elementari con l’Istituto nazionale di assistenza magistrale. Tale fusione è attesa da tutta la classe magistrale d’Italia fin dal novembre 1945, sia per far cessare la gestione commissariale che dura da oltre 7 anni, sia per la riforma dei due Istituti e per il potenziamento delle forme assistenziali in questo difficile periodo d’emergenza, in cui si sente più forte il bisogno d’una efficace assistenza. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Persico».
«Il sottoscritto chiede di interrogare i Ministri della pubblica istruzione e del tesoro, per conoscere se non ravvisino l’opportunità di riesaminare il provvedimento, approvato di recente dal Consiglio dei Ministri, concernente la carriera del personale di ruolo dei Convitti nazionali.
«Il provvedimento ha peggiorato la carriera di codesta categoria di educatori, e non ha tenuto in alcun conto le richieste da essi avanzate.
«Se si tenga presente l’attuale stato del ruolo del personale direttivo dei Convitti, gli istitutori – e specialmente quelli entrati in ruolo nel 1942 – dovrebbero attendere ben 40 anni per essere promossi ai gradi di vicerettore e di rettore, seguendo le norme del provvedimento citato; mentre, per le disposizioni ancora vigenti, essi potrebbero, dopo sei od otto anni di servizio, mediante concorso per merito distinto o idoneità, aspirare al posto di rettore, capo d’Istituto. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Bozzi».
«I sottoscritti chiedono d’interrogare il Ministro delle finanze, per sapere se non ritenga un dovere d’urgente giustizia distributiva accontentare i numerosi piccoli proprietari ed affittuari, i quali segnalano l’impossibilità di sostenere l’onere dell’imposta straordinaria proporzionale sul patrimonio, testé posta in riscossione; e chiedono che, previa determinazione di un «minimo imponibile esente», venga «procrastinata la riscossione» dell’imposta medesima, «dilazionandone congruamente il pagamento».
«Se si consideri che l’imposta predetta colpisce anche i piccoli patrimoni (da lire 100 mila in su), che le piccole proprietà rappresentano oltre il 54 per cento dei patrimoni inscritti a ruolo e che tali patrimoni sono costituiti da piccole estensioni di terreno o da modesti appartamenti, risulta evidente la fondatezza della richiesta che venga riconosciuto un minimo valore patrimoniale esente, analogamente a quanto la legge ha previsto agli effetti dell’imposta patrimoniale straordinaria progressiva.
«L’iniquità dell’imposizione in parola nei confronti dei piccoli patrimoni, di quelli – soprattutto – costituiti da beni rustici, a carico dei quali è in corso di riscossione anche il raddoppio dell’imposta erariale e delle sovrimposte provinciali e comunali, in conseguenza della rivalutazione degli estimi predisposta con decreto legislativo presidenziale 12 maggio 1947, n. 356, si manifesta in tutta la sua gravità, solo che si consideri che, mentre agli effetti della straordinaria progressiva sono stati stabiliti dei minimi esenti, e anche più o meno congrue dilazioni per il pagamento del tributo, non altrettanto si è ritenuto di fare nel campo di un’imposta straordinaria, alla quale sono assoggettati, praticamente, i patrimoni che sui ruoli dell’anno 1946 figuravano compresi per cifre di lire 10 mila in su. Ciò significa il sacrificio della piccola e media proprietà, gravata da oneri fiscali e da pesi di carattere sociale, che nel loro complesso hanno ormai raggiunto il massimo limite di tollerabilità.
«Se a questi gravami si aggiunga l’imposta proporzionale del 4 per cento senza una doverosa discriminazione delle entità patrimoniali oggetto del tributo, si finirà per condannare ad un inevitabile indebitamento o, peggio, ad un’espropriazione di beni, proprio tutti quei piccoli risparmiatori e lavoratori che, a prezzo di gravi sacrifici e col frutto di un’intera vita di lavoro, hanno costituito per sé e per i propri figli un modesto peculio familiare, ben degno di rispetto e di tutela.
«È dunque doveroso che le condizioni di gravissimo disagio dei piccoli e medi proprietari ed affittuari vengano tenute in conto agli effetti di una giusta modificazione delle norme stabilite dal decreto legislativo presidenziale 29 marzo 1947, n. 143.
«Gli interroganti fanno presente che l’accoglimento della predetta richiesta con l’urgenza del caso è consigliato anche dalla considerazione che il vivissimo malcontento determinatosi in seno alle categorie interessate può determinare forme di protesta che è indispensabile evitare. (Gli interroganti chiedono la risposta scritta).
«Scotti Alessandro, Perrone Capano».
«Il sottoscritto chiede d’interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri, per conoscere se non intenda:
1°) rivedere la situazione dei pensionati dello Stato che, non avendo raggiunto i 60 anni di età ed essendo stati allontanati dal servizio attivo per ragioni indipendenti dalle loro volontà (esempio, ragioni di salute), vengono privati della intera corresponsione degli aumenti, che per ragioni contingenti il Governo ha concesso dall’aprile 1945 a tutto oggi;
2°) modificare l’articolo 18 del decreto Parri, 21 novembre 1945, n. 722, nel senso di ripristinare a favore dei pensionati stessi il trattamento e gli aumenti che a questa categoria competono e vengono o verranno concessi. (L’interrogante chiede la risposta scritta).
«Rodinò Mario».
PRESIDENTE. Le interrogazioni testé lette, per le quali è stata chiesta la risposta scritta, saranno trasmesse ai Ministri competenti.
La seduta termina alle 20.30.
Ordine del giorno per la seduta di domani.
Alle ore 10:
- – Interrogazioni.
- – Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.
Alle ore 16:
Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.