Come nasce la Costituzione

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 18 GIUGNO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

CLIV.

SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 18 GIUGNO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE CONTI

INDICE

Interrogazioni (Svolgimento):

Presidente                                                                                                        

Marazza, Sottosegretario di Stato per l’interno                                                  

Pignatari                                                                                                         

Zotta                                                                                                                

Reale Vito                                                                                                       

Segni, Ministro dell’agricoltura e delle foreste                                                     

Perugi                                                                                                               

Gonella, Ministro della pubblica istruzione                                                        

Macrelli                                                                                                          

Cavallotti                                                                                                       

Comunicazioni del Governo (Seguito della discussione):

Foresi                                                                                                               

Rodi                                                                                                                  

Roselli                                                                                                             

Quarello                                                                                                         

Zerbi                                                                                                                 

La seduta comincia alle 10.

MOLINELLI, Segretario, legge il processo verbale della seduta antimeridiana del 14 giugno.

(È approvato).

Interrogazioni.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Interrogazioni. Le prime quattro, riguardano il medesimo argomento e possono essere svolte congiuntamente:

Fioritto, Lopardi, Mancini, al Ministro dell’interno, «sugli incidenti avvenuti il 29 aprile a Potenza durante una manifestazione di contadini, nella quale la forza pubblica, facendo uso delle armi, provocava la morte di un cittadino e il ferimento di altri»;

Reale Vito, al Ministro dell’interno, «per sapere il modo con cui è stata preparata e si è svolta la dimostrazione dei contadini il 29 aprile in Piazza Prefettura in Potenza; se conosce i paesi di provenienza dei dimostranti, le cause che hanno determinato la manifestazione, il contegno della polizia in tale circostanza»;

Pignatari, Canevari, Zanardi, Rossi Paolo, Morini, Carboni, Gullo Rocco, Paris, al Ministro dell’interno, «sui sanguinosi incidenti avvenuti a Potenza il 29 aprile 1947, durante i quali fu fatto fuoco sulla folla provocando la morte di due cittadini ed il ferimento di altri quattordici. E per sapere se siano state accertate le cause della sommossa, se ne siano stati individuati i fomentatori e se siano state acclarate le responsabilità dell’eccidio»;

Zotta, Colombo Emilio, al Ministro dell’interno, «sul grave e sanguinoso incidente del 29 aprile a Potenza, che ha causato la morte di due cittadini e il ferimento di altri quattordici, per sapere se siano stati individuati i provocatori della sommossa e i responsabili dell’eccidio».

L’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno ha facoltà di rispondere.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Immediatamente dopo i luttuosi avvenimenti ai quali si riferiscono le interrogazioni, il Ministero ha inviato sul posto un Ispettore generale, dalla cui diligente inchiesta è risultato quanto segue:

Nella zona serpeggiava da tempo un grave malcontento causato dall’obbligo di consegnare agli ammassi i residui di grano e, in genere, da tutti i vincoli posti all’agricoltura.

La sera del 28 di aprile si sparse la notizia che, il mattino del giorno successivo, coltivatori della zona sarebbero discesi in paese per una dimostrazione. Devo, a questo proposito, dire che la zona di Potenza è considerata una delle più tranquille, in quanto la popolazione è ritenuta una delle meno turbolente. In effetti, questo è il primo caso luttuoso, di questo genere, che si è verificato a Potenza e in provincia, dall’unità d’Italia in poi.

Interpellate, da parte della Prefettura, le organizzazioni sindacali e le direzioni dei partiti, le une e le altre hanno escluso che, da parte loro, fosse stata organizzata tale dimostrazione. Soprattutto energiche le dichiarazioni del Segretario della Federterra. Con tutto ciò, le autorità hanno predisposto un servizio di protezione alle sedi dell’U.P.S.E.A. e dell’U.C.E.A., che venne ritenuto sufficiente.

Il mattino la notizia fu confermala; si seppe che, da alcuni centri della provincia, stavano marciando verso la città di Potenza gruppi di contadini. Erano armati di randelli, di attrezzi da lavoro, di roncole, e il loro atteggiamento era minaccioso. Questi gruppi andavano ingrossando lungo la strada, sia per il convergere di parecchi di essi, sia perché quanti venivano incontrati, erano costretti ad unirsi ai gruppi.

Avvertita la Prefettura, essa mandò incontro a quei contadini uno dei funzionarî più benvoluti della zona, nella speranza che riuscisse a distoglierli da qualsiasi intenzione meno che pacifica. Purtroppo il funzionario non ottenne lo scopo che si proponeva, e non poté che accompagnarsi a questi gruppi di contadini nella marcia verso la città.

Intanto, però, nella città erano state raccolte le poche forze di polizia disponibili ed erano state messe a disposizione degli uffici della Prefettura.

Quando i contadini arrivarono sulla piazza della Prefettura, il loro numero poteva valutarsi intorno ad un migliaio. Il loro atteggiamento era minacciosissimo: le urla, i fischi, e soprattutto i gesti, mostrarono che la situazione era molto grave. Gli agenti di pubblica sicurezza si sentirono subito in numero insufficiente per resistere e per mantenere l’ordine. Furono chiamati sul posto tutti gli agenti di cui era possibile disporre in quel momento, ma con tutto ciò la forza pubblica era rappresentata da una sessantina di elementi e non più; infine fu chiuso anche il portone della Prefettura. Gli agenti si erano disposti fuori, naturalmente, a protezione.

Crescendo le minacce e le urla, non intendendosi bene neanche che cosa la folla richiedesse, riusciti vani i tentativi dei rappresentanti dei partiti e delle organizzazioni sindacali di ottenere la calma per discutere tranquillamente quelli che potevano essere gli argomenti della manifestazione, si cercò di organizzare una commissione la quale potesse parlare direttamente col Prefetto e con gli altri dirigenti e cercare di risolvere amichevolmente la cosa.

La commissione risultò di una quindicina di persone, fra le quali si insinuò uno dei violenti più conosciuti della zona, che venne successivamente trovato armato di pistola con cartuccia in canna e col cane alzato.

Naturalmente nessuna discussione fu possibile. Le richieste trascendevano quelle che potevano essere le possibilità delle autorità locali: si voleva l’abolizione degli ammassi, la libertà di macinazione, l’abolizione di tutti i vincoli posti all’agricoltura.

Intanto che la commissione discuteva nel gabinetto del Prefetto, la folla, anziché placarsi, continuava a tumultuare. Ed anche gli interventi conciliativi di alcuni elementi di questa commissione riuscirono completamente vani. Avvenne che ad un certo punto, ad iniziativa di non si sa chi, la folla cominciò ad esercitare una violenta pressione contro il portone della Prefettura. Fatto sta che gli agenti posti a difesa del medesimo credettero opportuno di rientrare, mantenendo però aperto il portoncino di uno dei battenti, attraverso cui pensavano di poter controllare la situazione. Viceversa, la folla agì a catapulta contro il portone cercando di demolirlo con tutti gli strumenti di cui era in possesso. Un giovane, arrampicatosi, abbatté i cristalli della lunetta sovrastante il portone. I cristalli caddero sugli agenti della forza pubblica che erano collocati a difesa nell’interno, e che rimasero anche leggermente feriti. Infine, la folla riusciva a penetrare attraverso il portoncino che inutilmente dall’interno si era tentato di mantenere chiuso, e che era stato scardinato. Fatto sta che, ad un certo momento, una settantina di facinorosi, seguiti poi da una parte di dimostranti, penetrava nella prefettura e tentava di raggiungere le scale della medesima, per salire minacciosissima negli uffici del Prefetto. Naturalmente gli agenti tentarono di resistere quanto più poterono, ma ad un certo momento furono travolti. Avvenne così – ed io riferisco esattamente quello che risulta al Ministero, attraverso questa diligente relazione dell’ispettore generale colà inviato – che alcuni di essi, senza ordine ricevuto, sparassero con le armi di cui erano muniti.

I colpi sembra – dico sembra in quanto non ho visto, ma ci credo – siano stati sparati in alto: confermerebbe questo il fatto che i feriti che si sono trovati in quel luogo furono feriti tutti da proiettili di rimbalzo. Lo dimostra anche il fatto che i fori del portone, le tracce lasciate sul soffitto dell’atrio, ecc., sono tutti ad una altezza tale che sembra escludere che i colpi siano stati diretti contro la folla. Questo servì a sbandare gli assalitori, i quali si ritirarono.

All’esterno intanto veniva tentata la scalata alla facciata del palazzo. Un agente che si trovava nel gabinetto del prefetto, presentandosi alla finestra, esplodeva anche lì quattro colpi in aria. Devo aggiungere, però, che nel corso di questo tumulto si sentirono altri colpi di cui non si poté precisare la provenienza. Quando, finalmente, la folla fu respinta, ed una certa calma riuscì a stabilirsi, purtroppo furono raccolti 14 feriti, due dei quali poco dopo morirono all’ospedale. Uno di costoro, un giovane studente di venti anni, non faceva nemmeno parte della folla dei manifestanti; anzi risulta che, trovatosi nella piazza, aveva cercato di uscirne, ma non vi era riuscito perché i dimostranti avevano bloccato tutte le uscite.

Il fatto è stato naturalmente dolorosissimo, particolarmente grave, anche perché, nonostante tutto quello che ho descritto, la folla non si calmò e si ebbero successivamente altri ritorni offensivi, ma senza importanza; tanto che ad un certo punto, finalmente, i rappresentanti dei partiti e delle organizzazioni sindacali, che fino a quel momento erano stati minacciati – (la folla urlava che non voleva più saperne di Camera del lavoro, di Federterra, di partiti, ecc.) – furono ascoltati; ed i dimostranti si lasciarono persuadere a recarsi alla Camera del lavoro, dove il Segretario della Federterra, che già aveva concorso con gli agenti alla difesa del palazzo, arringava i dimostranti e li persuadeva a tornarsene alle loro case.

Così questa manifestazione, che aveva avuto inizio verso le dieci del mattino, si concludeva, nel modo che ho detto, verso le tredici del pomeriggio.

Devo dire che il Procuratore della Repubblica aveva assistito a tutti gli avvenimenti dalle finestre dei propri uffici.

Naturalmente l’autorità giudiziaria ha immediatamente aperto una istruttoria.

I partiti hanno sconfessato la manifestazione, pubblicando manifesti, e altrettanto hanno fatto le organizzazioni sindacali. Si tratta ora di scoprire i promotori. Furono arrestati da principio otto, poi undici persone, che si trovano tuttora in stato di arresto. A piede libero furono imputate altre 33 persone (almeno così a me risulta da una comunicazione dì ieri); infine 265 fra i dimostranti, che sono stati riconosciuti, sono stati pure denunciati. Degli arrestati, 9 sono considerati promotori della manifestazione, due sono imputati di violenza. Dei 9 promotori in istato d’arresto, 3 sono capizona della Federterra; altri 7 capizona sono fra gli imputati a piede libero. Costoro, a detta del Segretario della Federterra, avrebbero tutti agito completamente di propria iniziativa, all’insaputa della organizzazione centrale.

Quanto al comportamento dell’autorità, e in modo particolare della polizia, esso è stato, dall’inchiesta che ho riferito, riconosciuto perfettamente adeguato alla gravità delle circostanze. Se la polizia non si fosse comportata nel modo che ho detto, gli assalitori avrebbero certo avuto ragione di essa, avrebbero invaso i locali della Prefettura, li avrebbero distrutti, avrebbero certamente, eccitati come erano, arrecato gravi violenze alle persone. Con tutta probabilità ne sarebbero derivati altri conflitti e i danni sarebbero stati certamente più gravi.

L’autorità giudiziaria, da parte sua, ha concluso, almeno fino a questo momento, in conformità e contro gli agenti della polizia non è stato proceduto. Devo però dichiarare che l’istruttoria è ancora in corso e che, da parte di chi la conduce, non si ritengono ancora esaurite le indagini circa i responsabili della manifestazione e dell’eccidio.

Ho accennato, nel corso della mia esposizione, a colpi che si sono sentiti all’esterno della Prefettura e che non si sono potuti individuare. Devo aggiungere che si è ritenuto anche alcuni dei manifestanti fossero in possesso di armi. Non voglio dichiarare in modo preciso che i colpi siano partiti da loro, però credo di poter escludere con certezza assoluta che anche questi colpi siano partiti da agenti dell’ordine pubblico.

PRESIDENTE. L’onorevole Pignatari ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

PIGNATARI. Non posso dichiararmi sodisfatto delle dichiarazioni dell’onorevole Sottosegretario all’interno, principalmente per quello che si riferisce alle responsabilità dell’eccidio e per le notizie che ha fornito circa l’emissione di mandati di cattura contro numerosi contadini, che si vogliono far passare come i promotori e gli organizzatori della manifestazione, mentre i veri organizzatori non si sono potuti o non si sono voluti trovare.

Vi era indubbiamente un grave malcontento tra la classe rurale del potentino, acuito da un provvedimento preso dall’Alto commissariato per l’alimentazione, col quale si disponeva che, senza alcuna discriminazione, tutti i rurali avrebbero dovuto conferire le quote di grano trattenute per i bisogni familiari per un’intera mensilità.

Ora bisogna tener presente che, nell’agro di Potenza, la principale, se non l’unica coltura, è quella granaria, e che i nostri contadini vivono in condizioni miserrime, onde non è una frase fatta l’affermare che molti di essi, la grande maggioranza, vivono di solo pane. Data l’altitudine della zona (il grano si coltiva fra gli 800-1000 metri) la trebbiatura avviene molto tardi, nell’agosto avanzato. Quando si è preso questo provvedimento, col quale si obbligavano i contadini a versare l’intera quota di un mese e per di più si davano disposizioni ai molini di non molire il grano, se non a coloro che avessero dimostrato di aver versato la quota richiesta, è sorto naturalmente un profondo malcontento, del quale, per fini economici o per fini politici, indubbiamente qualcuno ha voluto approfittare. Ma non si vada alla ricerca degli organizzatori fra i capi zona della Federterra, non si vada alla ricerca dei sobillatori fra i contadini, i quali hanno partecipato alla manifestazione sol perché, nell’urgenza dei lavori agricoli, temevano di rimanere privi di farina e privi di pane. Gli organizzatori non sono lì! Cercateli altrove e, se sarete animati da onesti propositi, indubbiamente li troverete! La stessa Questura di Potenza e lo stesso Ispettore mandato dal Ministero debbono aver accertato che vi è stato chi ha girato a cavallo nei giorni precedenti, per le masserie dell’agro di Potenza e dei paesi limitrofi, per preparare questa manifestazione, che si è svolta fino ad un certo punto così come l’onorevole Sottosegretario ci ha riferito. Ma l’inchiesta è stata vana, perché i due obiettivi principali, accertare cioè chi fossero stati i sobillatori ed individuare i responsabili dell’inutile eccidio, non sono stati raggiunti.

Io stesso posso testimoniare come si sono svolti i fatti, perché sono accorsi subito dopo gli spari ed ho contribuito a calmare la folla, a condurla alla Camera del lavoro ed a raccogliere i feriti, che si trovavano a non meno di 40 metri dal portone della Prefettura, mentre altri erano ad una distanza anche maggiore. Nessuno è stato colpito nei pressi del Palazzo della Prefettura. Quando la forza pubblica ha sparato in aria nell’interno del Palazzo, ha fatto bene. Ma posso assicurare l’onorevole Sottosegretario che, dopo questa scarica in aria, la folla è scappata. Subito dopo si è avuta una sventagliata di mitra, che ha provocato 2 morti e 14 feriti. Non si venga a dire che i colpi sono partiti dalla folla. Noi dobbiamo respingere con sdegno questa versione, che è un travisamento della verità allo scopo di salvare i responsabili dell’eccidio!

Si abbia il coraggio di riconoscere che si è sparato senza alcuna necessità contro la folla che, dopo i colpi sparati in aria, si era data alla fuga e, in conseguenza, si colpisca severamente chi, forse per sola brutale malvagità, ha con la inutile strage, gettato seme di fermento e di rancore in una laboriosa popolazione, che, come ha riconosciuto l’onorevole Sottosegretario, è stato sempre tranquilla, pacifica e paziente.

Ciò è provato dal fatto che i feriti furono colpiti a distanza notevole dal portone della Prefettura, e questo perché, subito dopo i primi colpi sparati in aria, la folla si era allontanata. Gli agenti hanno sparato in un primo momento, pur senza averne l’ordine, nell’interno del palazzo, ma anche alle finestre, come ha riconosciuto lo stesso onorevole Sottosegretario. Ora, quando si tenga presente che lo studente colpito alla testa ed ucciso, si trovava a quaranta metri di distanza dal palazzo della Prefettura, mentre altri che si trovavano a circa cento metri, sono stati colpiti alle gambe, si ha la prova che la traiettoria dei colpi è stata dall’alto in basso e che i colpi sono indubbiamente venuti dai piani superiori del palazzo della Prefettura. Ma, mentre non si scoprono gli autori della strage e non si individuano i sobillatori della sommossa, si arrestano undici disgraziati padri di famiglia e non si concede loro nemmeno la libertà provvisoria. Eppure non vi era stato un solo agente ferito, né alcun tentativo di incendio, ma solo pochi vetri rotti, mentre due morti e quattordici feriti tra la folla stanno a testimoniare la ferocia della reazione e l’inutilità della strage. Ma il Mezzogiorno d’Italia non è una colonia. Certi ingiusti provvedimenti di rigore contro contadini innocenti, non debbono essere presi. Bisogna venire incontro a questa umile gente, intervenuta alla manifestazione sol perché spintavi ed eccitata per oscuri moventi da coloro che son rimasti nell’ombra, bisogna dimostrare generosità verso i contadini del Mezzogiorno che sono e devono essere una delle forze più salde della Repubblica. (Applausi a sinistra).

PRESIDENTE. L’onorevole Zotta, ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

ZOTTA. Comincio col dire che sono sodisfatto delle dichiarazioni del Sottosegretario. Soltanto vorrei pregare l’onorevole Sottosegretario di dare disposizioni perché non si desista dalle ulteriori indagini, in quanto, in questo fatto, si impone soprattutto un’opera sottile, delicata di investigazione. E fermo la mia attenzione soltanto sulla ragione che ha determinata la sommossa. L’onorevole Sottosegretario diceva dianzi che Potenza è tra i paesi più tranquilli; diceva che non vi sono precedenti di eventi turbolenti. Ebbene questo fatto deve invitare a riflettere.

Io conosco a fondo l’anima del popolo lucano, particolarmente dei contadini sparsi per de campagne nei dintorni di Potenza, che hanno partecipato alla sommossa e so bene che essi non sono usi ad atti di sedizione e di violenza e che obbediscono ad un’intima disciplina morale, prima che giuridica, e quindi, non so trovare un motivo plausibile che dia ragione di questa sommossa, la quale doveva terminare in maniera così tragica.

In effetti, non vi è stato precedente di fatti analoghi, né prima, né dopo questa guerra; eppure, Potenza è fra le città più duramente colpite dalla guerra. Pochi sanno forse che, solo per bombardamenti, questa città, che conta 25 mila abitanti, ha perduto 1500 uomini, ed ha avuto la distruzione della quarta parte dell’abitato.

In questa zona, le condizioni sono misere e l’agricoltura, unica risorsa, è praticata in terreni aspri, infecondi, come diceva esattamente l’onorevole Pignatari testé, ad una altitudine superiore ai sette-ottocento metri.

La sommossa fu determinata dal motivo degli ammassi? Mai più. Se si constata la statistica dei conferimenti agli ammassi, in tutti gli anni, si ha da osservare che Potenza è fra le prime città in questo periodo di doverosa e generosa solidarietà nazionale. Ed allora, se una sommossa vi è stata – si noti, in una popolazione sparsa per la campagna, in un raggio di 60-70 chilometri, fra paesi senza vie di comunicazioni – e se si sono viste persone a cavallo, come diceva l’onorevole Pignatari, che hanno girato di masseria in masseria, allora bisogna assolutamente ritenere che vi sia stato un piano studiato da abili sobillatori i quali, sfruttando le particolari condizioni di miseria di questa povera gente, l’hanno aizzata fino al furore, non fosse che con la prospettiva di travolgere questa pacifica popolazione nel gorgo comune della indisciplina e del disordine.

Ecco la preghiera che intendo rivolgere – ed ho finito – all’onorevole Sottosegretario. Bisogna continuare l’indagine, bisogna ricercare questi professionali sobillatori e fomentatori, perché non si trovano le cause psicologiche che possano spiegare una sommossa in Lucania, né per ragioni subiettive, né per ragioni obiettive. Questi elementi turbolenti bisogna rintracciarli, forse nella Lucania stessa, se si vuole assicurare veramente la pace e la tranquillità al nostro Paese. (Applausi).

MARAZZA, Sottosegretario di Stato all’interno. Chiedo di parlare.

PRESIDENTE. Ne ha facoltà.

MARAZZA, Sottosegretario di Stato per l’interno. Vorrei aggiungere una sola cosa alla mia esposizione di poco fa, in relazione all’ultima dichiarazione dell’onorevole Pignatari. È stata immediatamente fatta, in un modo più diligente, l’ispezione alle armi, ed è stato constatato che i colpi complessivamente sparati dalla forza pubblica, in quell’occasione, furono ventisette. Devo escludere, in modo assoluto, che vi sia stata alcuna raffica di mitra, perché i mitra, manco a farlo apposta, in quella occasione si sono inceppati.

Quanto poi all’invito che ho ricevuto dall’una e dall’altra parte, devo dire che il Ministero dell’interno ha fatto e farà tutto il possibile perché, con la collaborazione degli organi a sua disposizione, sia fatta definitivamente la luce su questi avvenimenti. Ad ogni modo, l’inchiesta è oggi deferita all’autorità giudiziaria.

L’onorevole Pignatari ha affermato – e mi è dispiaciuto – che i colpevoli, gli organizzatori, non si sono potuti o voluti trovare. Su questo «voluti», io mi fermo per escluderlo in modo assoluto ed anche per protestare molto amichevolmente, ma anche molto energicamente. (Approvazioni al centro).

PRESIDENTE. L’onorevole Reale Vito ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

REALE VITO. Sono spiacente di essere arrivato in ritardo e di ignorare quindi il contenuto della risposta dell’onorevole Sottosegretario di Stato per l’interno. Mi preme di chiarire un punto, su cui mi pare che la discussione si è già svolta: di accertare cioè il modo come le manifestazioni si sono svolte, perché ogni organizzatore che prepari una manifestazione del genere, ha il dovere di dirigerla e di conoscere esattamente le finalità che la manifestazione stessa si propone; per poter contemperare le richieste e sapere come le cose si svolgono.

Per quanto si riferisce alla responsabilità della pubblica sicurezza, mi sembra che, per lo meno, si è agito un po’ confusamente. È necessario accertare se la pubblica sicurezza abbia effettivamente agito per un pericolo evidente o semplicemente per un pericolo immaginario. Le ultime parole dell’onorevole Sottosegretario di Stato ci danno, comunque, affidamento che la verità sarà accertata.

PRESIDENTE. Segue l’interrogazione dell’onorevole Perugi al Presidente del Consiglio dei Ministri «per conoscere: 1°) perché il Ministro dell’agricoltura e delle foreste ha ritenuto di disporre che i produttori agricoli della provincia di Viterbo possano versare grano ai granai del popolo dietro il corrispettivo del doppio, di granoturco; 2°) se corrisponde al vero che personale dell’Unione cooperative di Roma si sia recato nel territorio della provincia di Viterbo per acquistare a prezzi di mercato nero 800 quintali di grano dai vari detentori, consenziente l’Alto Commissariato per l’alimentazione; 3°) se sia compatibile, con le vigenti disposizioni di legge che hanno duramente e giustamente colpito tanti contravventori, legalizzare l’abusiva detenzione e vendita di grano di alcuni produttori e consentire la compravendita di genere contingentato per legge e quindi fuori commercio».

L’onorevole Ministro dell’agricoltura ha facoltà di rispondere.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Risponderò su tutti i punti della interrogazione, anche su quelli che non riguardano direttamente il mio Ministero. La disposizione, per la quale i produttori conferenti grano, a partire dalla fine di aprile, potevano acquistare del granoturco in proporzione di due quintali di granoturco per ogni quintale di grano, consegnato agli ammassi, è di carattere generale e non fu limitata soltanto alla provincia di Viterbo; fu estesa bensì a tutta Italia.

Il motivo di questa disposizione è il seguente: nel mese di aprile gli invii in Italia di cereali furono composti quasi esclusivamente di granoturco, cosicché noi ci siamo trovati a mancare quasi completamente di grano o a dover distribuire in quasi tutte le regioni d’Italia farina di granoturco, che non veniva ritirata perché non era gradita dalla popolazione.

Da questa situazione alimentare – che nel mese di aprile era diventata catastrofica – siamo stati indotti ad accelerare le operazioni di reperimento dei pochi residuati di semina, ma sopratutto dell’anticipata scadenza delle carte di macinazione, che erano già in corso fin dal mese di aprile, ma che avevano dato dei risultati fino allora poco soddisfacenti, permettendo a coloro che, in omaggio agli obblighi loro imposti, consegnavano del grano, di poter acquistare dagli ammassi due quintali di granoturco per ogni quintale di grano consegnato. Si sono in tal modo favorite le consegne di grano e si è ottenuto un gettito giornaliero fino a otto a dieci mila quintali, in una misura quindi assolutamente insperata.

Il risultato è stato così, nel complesso, soddisfacente, in quanto ha permesso di superare un periodo difficile, mentre nel frattempo sopravvenivano i carichi di grano dall’America. Si è trattato quindi di una situazione non particolare di Viterbo, ma estesa a tutta l’Italia e a favore di quei produttori che sono venuti a consegnare sia i residui delle semine, sia la decurtazione della loro trattenuta legale.

Questo fu il motivo del provvedimento che è stato tuttora mantenuto. Non vi è quindi alcun premio, nelle disposizioni del Ministero dell’agricoltura, per i contravventori alla legge sugli ammassi.

Non è nemmeno esatto che sia stata autorizzata l’Unione delle cooperative dei dipendenti dal comune di Roma ad acquistare sul mercato libero del grano.

Il provvedimento preso dal Ministero dell’agricoltura, in seguito a richiesta dell’Alto commissariato dell’alimentazione è un provvedimento che autorizza questa cooperativa, della quale fanno parte quattromila impiegati del comune di Roma, a versare dei quantitativi di grano che la cooperativa assicurava di avere acquistato.

È un provvedimento che è stato preso del resto anche nei confronti di altre cooperative di impiegati. Nei casi di cooperative di impiegati di Roma trovate in contravvenzione alla legge sugli ammassi, abbiamo sempre avuto insistenza da parte di diversi ministeri perché le sanzioni contro di esse venissero limitate al versamento all’ammasso dei cereali illecitamente acquistati.

La cooperativa veniva così ad essere punita perché veniva a rimetterci il maggior prezzo pagato nell’acquisto sul libero mercato. E non si credette mai di infierire maggiormente contro queste cooperative, perché esse non facevano altro, in definitiva, se non quello che il 95 per cento dei cittadini comuni compie a piazza Vittorio o altrove.

Queste sono d’altronde cooperative di impiegati di enti pubblici, che si trovano certo in condizioni finanziarie e quindi alimentari veramente disastrose. Allo stesso criterio ci si è informati per quanto riguarda la cooperativa degli impiegati del Comune di Roma.

Successive indagini hanno però portato a conoscere che un certo signor X – non voglio nominarlo, per non intralciare le indagini che sono in corso – si è presentato a Viterbo, dicendosi autorizzato ad acquistare grano per conto di tale cooperativa. Poiché invece questa autorizzazione non esisteva, il Ministero ha dato ordine che venisse proceduto contro questo signore a norma di legge in modo che, se il fatto veramente esisteva, venisse denunziato all’autorità giudiziaria.

Lo sciopero dell’U.P.S.E.A., che si è chiuso solamente l’altro ieri, ha impedito di sapere se questa indagine sia stata compiuta. Ad ogni modo, il Prefetto di Viterbo e tutte le autorità dipendenti sono state subito informate che nessuna autorizzazione ad acquistar grano è stata rilasciata dal Ministero dell’agricoltura, il quale non poteva evidentemente rilasciarne, perché sarebbe andato in tal modo contro legge.

Per ora non ci consta dunque altro che questo: la cooperativa, la quale asseriva di avere del grano, non lo ha versato all’ammasso di Viterbo, come le era stato consentito. Le indagini, che noi abbiamo esperite, non ci hanno però nemmeno permesso di accertare se questa cooperativa detenesse questo grano in effetti. Sono in corso delle indagini e, se questa cooperativa verrà trovata in possesso di grano, questo grano verrà confiscato, perché io, con una lettera di otto giorni or sono, e l’Alto Commissario per l’alimentazione qualche giorno fa, abbiamo rivolto una viva preghiera a tutti i colleghi di non interessarsi più di favorire le cooperative trovate in contravvenzione alla legge sugli ammassi; e abbiamo formalmente dichiarato che queste cooperative subiranno la sorte di qualunque altro contravventore. E la prima applicazione di questo principio si è avuta otto giorni or sono, quando alla cooperativa del Ministero dei lavori pubblici è stato confiscato un vagone di riso e sono stati denunciati gli autori della contravvenzione all’autorità giudiziaria.

Quindi, questo sistema che noi avevamo adottato temporaneamente, in seguito alle richieste che ci venivano da parte dei funzionari e dei loro rappresentanti legittimi, cioè i Ministri, e che era diretto a non punire in modo eccessivamente grave le cooperative composte di impiegati, è ormai un sistema che abbiamo revocato, perché troppi inconvenienti esso aveva originato. E ormai, anche queste cooperative sanno che non possono aspettarsi più nessun atto di pietà da parte del Ministero dell’agricoltura e da parte dell’Alto Commissariato per l’alimentazione e che subiranno la legge comune, sia per il grano, sia per l’olio, sia per qualunque altro genere soggetto all’ammasso.

Le ragioni, però, della mitigazione precedente erano anch’esse giustificate, perché non si poteva permettere che singoli cittadini andassero a comperare liberamente generi contingentati a piazza Vittorio – cosa che nessuno è riuscito e riuscirà ad impedire – mentre invece, solamente perché l’organismo della cooperativa aveva acquistato globalmente quello che i singoli potevano acquistare liberamente, la merce fosse confiscata.

Ad ogni modo, questo sistema, non dico di favore, ma che ritengo fosse equo, è stato abbandonato, perché troppi inconvenienti sono sorti successivamente. Comunque, tengo a riaffermare che per il caso specifico di Viterbo è in corso da parte dei carabinieri e dell’U.P.S.E.A. un’indagine, e se i signori che sono andati ad acquistare grano, vantando dei permessi che non avevano, verranno trovati colpevoli, saranno denunciati all’autorità giudiziaria, e se si troverà che il grano è stato illegalmente acquistato, esso verrà confiscato, come la legge stabilisce.

PRESIDENTE. L’onorevole Perugi ha facoltà di dichiarare se sia soddisfatto.

PERUGI. Ringrazio l’onorevole Ministro dell’agricoltura dei chiarimenti che ha fornito; chiarimenti dei quali, però, non sono soddisfatto, perché ciò che risulta a me non è in relazione a quanto ha detto il Ministro. E mi spiego. Per quanto riguarda l’autorizzazione data dal Ministero dell’agricoltura che i produttori della provincia di Viterbo potessero avere in corrispettivo del grano versato il doppio di granoturco, essa è stata data ai primi di maggio, quando cioè i produttori, in base alle disposizioni di legge, avevano il dovere – perché contrariamente sarebbero incorsi in un reato – di versare il seme avanzato ai granai del popolo. Ciò non è stato fatto.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Ma non la decurtazione della carta annonaria; per quella non c’era nessun obbligo.

PERUGI. Ciò non è stato fatto. Il Ministero dell’agricoltura, autorizzando la concessione di due quintali di granoturco per ogni quintale di grano versato, ha sanato il reato commesso, ed ha favorito la borsa nera, nel senso che, mentre un quintale di grano viene pagato in media 3200 lire all’atto del versamento all’ammasso, due quintali di granoturco costano diecimila lire al prezzo di borsa nera.

La questione alla quale accenna il Ministro, l’avere cioè io confuso questo versamento con il versamento del grano che ciascun produttore aveva ritenuto – e che poteva ritenere fino al 15 luglio – è diversa, ed è molto precedente alla disposizione telegrafica data dal Ministero dell’agricoltura.

Il Ministero dell’agricoltura autorizzò, invece, per lettera tutte le Prefetture e tutti i Consorzi agrari della Repubblica – dispose anzi – che fosse versato il grano trattenuto dai produttori fino al 15 luglio; e siccome era stato trattenuto fino al 15 agosto, ogni produttore doveva versare quindici chili di grano.

E questo grano è stato pagato in contanti, sulla base del prezzo di ammasso. Quindi sono due cose distinte e senza relazione l’una con l’altra. E che ciò corrisponda a verità è dimostrato dal fatto che il Procuratore della Repubblica del Tribunale di Viterbo, che ha chiesto al direttore del Consorzio e ai vari consegnatari dei granai del popolo i nomi di coloro che avevano fatto questo scandalo, non è riuscito ad ottenere i nomi, perché i consegnatari degli ammassi si sono chiusi nel segreto professionale.

Quindi io trovo necessario che le leggi siano rispettate da tutti, perché, se è vero che il popolo è assetato di giustizia, è anche vero e indispensabile che l’esempio dell’osservanza delle leggi deve venire dall’alto.

Riguardo poi agli 800 quintali di grano che l’Unione cooperative di Roma sarebbe andata ad acquistare a prezzo di borsanera in provincia di Viterbo, sta di fatto che l’incaricato di questa Unione cooperative ha versato centinaia di migliaia di lire anticipatamente a molti individui che detenevano illegalmente il grano.

Una voce. È un reato. Denunciatelo!

PERUGI. Senonché questo incaricato non è stato arrestato dai carabinieri quando è andato a fare il contratto, perché deteneva (ciò che risulta alle autorità della provincia) un’autorizzazione che chiamerei generica (perché non precisava i termini dell’incarico) ad acquistare 800 quintali da vari granai del popolo.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Di chi era l’autorizzazione?

PERUGI. Dell’Alto Commissariato per l’alimentazione.

Si creava così una condizione di privilegio fra una categoria e un’altra di cittadini. Io lascio ai colleghi di pensare se tutto ciò significa rispetto della legge da parte delle autorità che devono tutelare la vita della popolazione.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Vorrei precisare una cosa: per quanto mi consta, nessuna autorizzazione ad acquistare grano è stata data.

PERUGI. I carabinieri li avrebbero arrestati!

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Smentisco che alcuna autorizzazione sia stata data da parte del Ministero dell’agricoltura. Lo smentisco in modo formale.

PERUGI. Io non vengo qui a fare insinuazioni.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Io smentisco in modo formale e la invito a produrre copia di questa lettera, se c’è.

PERUGI. Domandate alle autorità della provincia di Viterbo perché i carabinieri non hanno arrestato queste persone.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Mi consta che nessuna autorizzazione è stata rilasciata dal Ministero dell’agricoltura. Chiedo che l’interrogante precisi chi ha rilasciato l’autorizzazione.

PRESIDENTE. È detto nell’interrogazione.

PERUGI. L’Alto Commissariato per l’alimentazione.

SEGNI, Ministro dell’agricoltura e delle foreste. Io affermo che nessuna autorizzazione ad acquistare grano era stata rilasciata dal Ministero dell’agricoltura. Ora lei mi dice che è l’Alto Commissariato per l’alimentazione. Constato che è caduto in equivoco.

PERUGI. Io non ho parlato di Ministero, ma di Alto Commissariato. Ho diviso le questioni.

PRESIDENTE. Le seguenti interrogazioni riguardano uno stesso argomento e possono essere abbinate:

Macrelli, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere se non creda doveroso e urgente provvedere alla sistemazione giuridica e morale degli insegnanti delle scuole pubbliche, che – per non essere inscritti al partito nazionale fascista – furono esclusi da ogni possibile inizio e avanzamento di carriera»;

Cavallotti, al Ministro della pubblica istruzione, «per sapere se intende prendere in considerazione le richieste formulate da maestri e funzionari della scuola elementare, mai iscritti al partito fascista, nel convegno di Bologna (15 marzo 1947). Tali richieste tendono a ricostruire la carriera di coloro che rinunciarono, o furono costretti a rinunciare, ad avanzamenti per non piegarsi alle imposizioni del fascismo. L’urgenza è motivata dall’immediatezza dei concorsi».

L’onorevole Ministro della pubblica istruzione ha facoltà di rispondere.

GONELLA, Ministro della pubblica istruzione. Ringrazio gli onorevoli interroganti di avere attirato l’attenzione su un problema di particolare delicatezza morale, perché si tratta di riparare ad evidenti ingiustizie commesse in passato.

Le questioni cui si riferiscono le interrogazioni si riassumono in due gruppi: 1°) mancato avanzamento nella carriera, durante il passato regime, di funzionari della scuola elementare non iscritti al partito fascista; 2°) mancato avanzamento, per gli stessi motivi, di insegnanti elementari.

Sul primo gruppo di questioni, ritengo sufficiente osservare che i funzionari della scuola elementare hanno uno stato giuridico pienamente analogo a quello di tutti gli altri dipendenti delle pubbliche amministrazioni.

Sono pertanto ad essi applicabili, e sono state di fatto applicate, le note disposizioni legislative (Regio decreto legislativo 6 gennaio 1944, n. 9; decreto-legge legislativo 19 ottobre 1944, n. 301; decreto-legge legislativo 30 novembre 1945, n. 880) concernenti la revisione delle carriere dei personali civili dello Stato. Numerosissime sono infatti le domande di riammissione in servizio e di ricostruzione della carriera, esaminate ed accolte dal Ministero della pubblica istruzione, nei confronti di funzionari scolastici dispensati dal servigio o pretermessi nelle promozioni durante il passato regime, perché non iscritti al partito fascista.

In merito al secondo gruppo di questioni riguardanti gli insegnanti elementari, osservo, in via preliminare, che la carriera del maestro si svolge nei gradi gerarchici dello Stato soltanto del 1942. Durante il regime fascista, la carriera magistrale si sviluppava soltanto attraverso una serie di aumenti periodici di stipendio, sui quali non interferivano in alcun modo l’iscrizione al partito fascista o altre valutazioni di carattere politico. Gli «avanzamenti», cui allude l’interrogante, non potevano consistere quindi in promozioni di grado, nel senso che a questo termine si attribuisce per gli altri personali civili dello Stato, bensì in mutamenti di ruolo, cioè nel passaggio da un ruolo di categoria inferiore a un ruolo di categoria superiore, ovvero nel passaggio dal ruolo magistrale al ruolo di Direttori didattici.

Poiché per ottenere tali mutamenti di ruolo era prescritto un concorso, e per partecipare al concorso era prescritta l’iscrizione al partito fascista, non vi è dubbio che l’interrogante, accennando a mancati «avanzamenti» di insegnanti elementari non iscritti al partito fascista, alluda appunto all’impossibilità, in cui tali insegnanti si trovarono durante il regime fascista, di partecipare ai concorsi a posti di Direttore didattico, ovvero ai concorsi per sedi considerate di categoria superiore.

Sia l’uno che l’altro gruppo di insegnanti, che furono così danneggiati dal passato regime, trovano nella legislazione vigente ampia e soddisfacente tutela dei loro diritti. Per quanto riguarda i concorsi a posti di Direttore didattico, il recentissimo decreto legislativo 21 aprile 1947, n. 373, prevede all’articolo 17 il bando di uno speciale concorso riservato ai perseguitati politici e razziali. Il concorso, che sarà indetto quanto prima, non avrà limitazione di posti.

Per quanto riguarda i concorsi a sedi di categoria superiore, poiché la distinzione delle sedi in categorie è stata abolita, non si è potuta adottare analoga soluzione. Tuttavia, poiché l’oggetto di quei concorsi era il trasferimento a sedi di maggiore importanza, e poiché ora, in forza dell’articolo 14 del decreto legislativo, n. 373 sopra citato, tale trasferimento può aver luogo nel normale movimento magistrale senza bisogno di uno speciale concorso, l’ordinanza ministeriale del 22 aprile ultimo scorso, sul movimento magistrale che ha luogo in questi giorni, dispone, all’articolo 10, che spetti nei trasferimenti la precedenza assoluta «ai maestri che comprovino di essere stati, per interferenze politiche, trasferiti per servizio o pretermessi nella loro domanda di trasferimento» durante il passato regime.

PRESIDENTE. L’onorevole Macrelli ha facoltà di dichiarare se sia sodisfatto.

MACRELLI. Prendo atto delle dichiarazioni fatte dal Ministro della pubblica istruzione. Devo però aggiungere che non sono completamente sodisfatto. È opportuno rilevare che, nella risposta data dal Ministro, si è fatto accenno a due recenti provvedimenti, del 21 e del 22 aprile 1947. Ma soprattutto si è fatto accenno al decreto 19 ottobre 1944, n. 301.

Questi provvedimenti effettivamente riguardano tutti i danneggiati dal fascismo, sia per ragioni politiche sia per ragioni razziali: provvedimenti che comprendono anche coloro che, allontanati in un primo momento perché non avevano la tessera fascista, successivamente però, per motivi che io non voglio indagare, entrarono in possesso di questo documento.

Noi non ci occupiamo ora di tutti i danneggiati, ma soltanto di quelli che non hanno mai piegato davanti al fascismo, che non hanno mai avuto in tasca la tessera del partito nazionale fascista: maestri elementari, direttori didattici, ispettori; e badate, numero esiguo, un centinaio appena, uomini che ormai si trovano al limite della pensione, perché sono fra i sessanta e i settant’anni.

Ci sono dei casi-tipo che meriterebbero di essere esaminati e sui quali richiamo l’attenzione, non soltanto del Ministro della pubblica istruzione, ma anche dei colleghi.

Accenno ad uno: noi abbiamo qui, nell’Assemblea Costituente, rappresentante della mia circoscrizione emiliana-romagnola, un modesto, ma valoroso deputato di parte socialista: l’onorevole Renato Tega, condannato più volte, confinato. Ebbene, è ancora maestro elementare, non ha potuto avere nessuna promozione, non ha mai potuto aumentare di grado, perché la sua coscienza gli rifiutava di accettare quella tessera che era il segno o della vigliaccheria o della umiliazione. Anche l’onorevole Tonello (mi dispiace di non vederlo presente) si trova nello stesso caso. Io ho già avuto occasione di segnalare al Ministro della pubblica istruzione, posizioni personali che era opportuno esaminare e per le quali era necessario prendere dei provvedimenti. Ricordo il caso del professore Domenico Bazzoli di Forlì. Laureato in lettere e filosofia, incaricato dell’Ispettorato di Forlì dal Comitato di Liberazione nazionale e dagli Alleati, si mantiene in posizione di ispettore incaricato e dovrebbe ora iniziare la carriera da direttore, cioè ritornare indietro. Ricordo il caso di Riccardo Campagnoni, direttore didattico a Ravenna, già presidente della Unione magistrale nazionale dal 1920 al 1925. Non ha mai potuto sviluppare la sua carriera perché mai iscritto al partito nazionale fascista.

E così Cervi Ugo, direttore didattico a La Spezia, mai iscritto al partito nazionale fascista. Ha chiesto ed ottenuto dal Consiglio di amministrazione la riassunzione, ma la pratica giace da oltre un anno al Ministero. Non sappiamo perché ancora non abbia avuta applicazione. E poi Giuseppe Grossi, maestro a Ferrara. Trasferito dalla città, dopo trentaquattro anni di servizio, in una frazione di campagna dove rimane fino ad oggi.

E termino, noblesse oblige, con una donna, Barbieri Borri Gemma, maestra a Torino, mai iscritta al partito nazionale fascista, già ordinaria di ruolo dal 1919 al 1929. Domanda di riassunzione in data 8 ottobre 1946 trasmessa dal Provveditore di Torino. Finora non si è provveduto. Ed altri casi potrei citare sui quali mi limito a richiamare particolarmente l’attenzione del Ministro.

Io non so se è noto all’onorevole Gonella che recentemente a Bologna si sono convocati questi dispersi da tutte lo parti d’Italia; poche diecine di uomini che hanno mantenuto fede alla loro idea, non si sono mai piegati davanti alla violenza morale e materiale del fascismo.

In quel convegno si è votato un ordine del giorno, nel quale si sono formulate delle richieste: non tutte sono state accolte.

Merita ricordarle perché sono rivendicazioni di carattere fondamentale. Eccole:

1°) che i maestri non di ruolo, non tesserati, vengano assunti per concorso di soli titoli in qualità di straordinari e vengano poi considerati ordinari dopo un anno di servizio, con anzianità retrodatata al primo concorso dopo il conseguimento del diploma;

2°) che i maestri, i direttori, gli ispettori, mai tesserati, forniti di abilitazione vengano ammessi, a mezzo concorso per soli titoli, all’avanzamento di carriera da retrodatarsi secondo la norma di cui al punto 5;

3°) che ai maestri non tesserati e sforniti di diploma di abilitazione alla vigilanza scolastica sia concesso un concorso speciale per esami ai posti di direttori didattici;

4°) che ai maestri licenziati per motivi politici venga riconosciuto, agli effetti dell’anzianità e della pensione, il periodo della subita sospensione;

5°) che ai funzionari d’ogni ordine e grado, non tesserati, della scuola elementare, vengano riconosciuti gli avanzamenti di carriera e il mantenimento degli incarichi loro affidati dai Comitati di liberazione e dagli Alleati a liberazione avvenuta, pur che abbiano i titoli di studio richiesti.

Inoltre si chiede per tutti che l’anzianità di servizio decorra dalla data del primo concorso bandito durante il periodo fascista con l’obbligo di presentazione della tessera.

Fin qui la parola degli interessati.

Ma una richiesta, l’ultima, definitiva, desideravo fare. Ci sono molti ricorsi, centinaia di ricorsi, che riguardano non soltanto questi casi ma anche molti altri insegnanti, le cui pratiche sono ancora giacenti presso il Ministero. Da quali Commissioni sono esaminati questi ricorsi? Io mi auguro (e vorrei un’assicurazione attraverso la parola del Ministro dell’istruzione pubblica) che queste Commissioni non siano composte da quegli ex fascisti, che purtroppo si moltiplicano in tutti gli uffici dei Ministeri compreso quello della pubblica istruzione. Noi chiediamo una risposta rassicurante anche a questo proposito. Prendiamo atto di quello che ha dichiarato il Ministro onorevole Gonella, ma insistiamo perché si provveda una buona volta sui casi particolari che noi abbiamo esposto. Si tratta di una causa di giustizia e di moralità. (Applausi).

PRESIDENTE. L’onorevole Cavallotti ha facoltà di dichiarare se è sodisfatto.

CAVALLOTTI. La mia soddisfazione, per quanto ha risposto l’onorevole Ministro della pubblica istruzione, è parziale e ne dirò subito il perché. Sono, onorevole Ministro, sodisfatto per il 38 per cento ed insoddisfatto per il 62 per cento. In quel convegno al quale alludeva l’onorevole Macrelli c’erano più di cento maestri e di questi, circa 38 erano maestri di ruolo e maestri in possesso del diploma di abilitazione alla vigilanza scolastica, mentre il 62 per cento erano maestri non di ruolo e non in possesso di quel diploma di abilitazione. Ai concorsi banditi dal Ministero della pubblica istruzione mi pare che non possa partecipare quel 62 per cento, cioè quei maestri non di ruolo e sforniti del diploma di abilitazione alla vigilanza scolastica. Mi pare, invece, che il problema sia proprio per questi maestri, prima di tutto perché sono più numerosi degli altri, e poi soprattutto perché hanno più di tutti sofferto, ed io avrei voluto dire all’onorevole Ministro la delusione e la sfiducia che vi è fra questi maestri, che, tuttavia, moralmente ed anche intellettualmente non hanno niente a che invidiare agli altri. Questi maestri si son visti passare avanti per le vie normali gli altri maestri che avevano potuto esibire nel corso della loro carriera, i così detti meriti fascisti, cioè sciarpa littorio, marcia su Roma, ecc., dal concorso del 1928 in poi. Ma quale è stata la tragedia di questi maestri? I Comitati di liberazione nazionale, subito dopo la liberazione, hanno dato incarico a parecchi di questi maestri di ricoprire il posto di direttore didattico. Successivamente, dopo l’opera di discriminazione, non so come sia avvenuto, i maestri fascisti, che in quei giorni si erano allontanati, sono tornati a prendere i loro posti e questi maestri antifascisti, questi bravi italiani, si sono trovati ancora in subordine.

Spero che l’onorevole Ministro voglia fare tutto il possibile per provvedere a questi maestri antifascisti. Come dicevo, i maestri che sono rimasti antifascisti durante il periodo fascista non hanno avuto la possibilità di migliorare la loro capacità didattica e c’è un numero di questi poveri vecchiotti rimasti fuori, o ai limiti dell’insegnamento, che non hanno avuto… i vantaggi riservati ai maestri fascisti.

Sono sicuro che l’onorevole Ministro mi comprenderà. Lo credo, e qui ce ne danno l’esempio il compagno Tonello ed il compagno Tega: credo che questi maestri, riammessi al ruolo che loro spetta, potranno insegnare agli scolari qualcosa che gli altri maestri non possono più insegnare. Essi potranno insegnare nozioni di storia, di geografia, di aritmetica e d’italiano, ma potranno insegnare con l’esempio della loro vita, che bisogna avere dirittura di carattere e non curvare la schiena davanti alle imposizioni della dittatura; ed amare la libertà, ed avere rispetto per la propria coscienza e non mercanteggiarla. (Applausi).

PRESIDENTE. Le interrogazioni all’ordine del giorno di oggi sono così esaurite.

Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo.

PRESIDENTE. L’ordine del giorno reca: Seguito della discussione sulle comunicazioni del Governo. È iscritto a parlare l’onorevole Foresi. Ne ha facoltà.

FORESI. Onorevoli colleghi, l’onorevole Presidente del Consiglio, nella esposizione del suo programma di Governo, ha sottolineata la necessità di dare impulso alla emigrazione che tanto può contribuire alla rinascita del Paese. Difatti le condizioni economiche dell’Italia in questo tragico dopoguerra, hanno acuita la necessità di esaminare il problema emigratorio con la massima attenzione e con il più largo favore.

È noto a tutti voi che l’emigrazione costituisce una valvola di sfogo della nostra pressione demografica, notevolmente superiore alle possibilità economiche del territorio nazionale e che, con la favorevole impostazione di questo problema, il nostro Paese potrà nuovamente ed efficacemente inserirsi nel consorzio internazionale, mettendo a disposizione del mondo il lavoro italiano, unica forza ed unica ricchezza del nostro popolo e sicuro strumento di rinnovato clima fraterno fra tutti i popoli.

È necessario, quindi, che in questo momento speciale, in cui tutti parlano, troppo – (almeno le parole sono abbondantissime nelle loro affermazioni di collaborazione internazionale) – si cerchi di valorizzare giustamente il nostro lavoro e di potenziarlo al massimo, elevando la capacità lavorativa degli operai attraverso corsi professionali ed assicurando agli espatriandi la massima garanzia economica, sociale e morale.

Per questo ritengo opportuno portare il mio modesto contributo, non tanto per criticare l’opera fin qui svolta, ma per mettere in rilievo alcuni aspetti di questo complesso problema e per farli valutare nella loro importanza e possibilmente nella loro interezza. Sino ad oggi il problema della emigrazione è stato affrontato, voglio dire, dal Ministero del lavoro e dal Ministero degli esteri. L’emigrazione deve essere, invece, secondo me, impostata e risolta in modo unitario. Sarebbe indubbiamente utile creare di nuovo il vecchio Commissariato dell’emigrazione, che il fascismo distrusse; ma nel frattempo non si dovrebbe ulteriormente indugiare nell’istituire quel Consiglio superiore della emigrazione che, come già nel passato, dovrebbe riprendere la sua funzione di ispiratore della politica emigratoria, studiare e formulare i programmi di massima e dare le sue direttive unitarie agli organi esecutivi in questo delicato settore ed in tutti quei problemi che sono strettamente ad esso connessi. In tal modo, il Consiglio sarebbe l’organo superiore direttivo e dovrebbe essere costituito da coloro che per la loro preparazione scientifica e per la loro competenza, fatta di pratica esperienza, potrebbero fornire un valido contributo. Con la sua costituzione saranno anche delimitati i rapporti fra il Ministero del lavoro ed il Ministero degli esteri: il primo dovrà provvedere alla istituzione delle scuole di perfezionamento della mano d’opera ed al regolamento del lavoro; l’altro all’assistenza dei lavoratori, dal momento dell’imbarco fino a tutto il periodo della loro permanenza all’estero. Delimitando tali compiti si preciseranno le responsabilità dei due organismi, e sicuramente avremo fatto il primo passo nell’interesse dei lavoratori.

Per quanto riguarda l’istituzione di scuole di perfezionamento per i lavoratori, è ovvio rilevarne tutta l’importanza, poiché essa potrebbe significare anche la risoluzione di moltissimi e difficilissimi compiti che oggi si presentano. Infatti, finora, onorevoli colleghi, nei vari accordi di emigrazione conclusi – accordi che, insieme a quelli di ordine culturale, auspico sempre più frequenti, anche di quelli di carattere strettamente politico – i diversi paesi di emigrazione hanno dimostrato il loro desiderio di avere una mano d’opera specializzata, qualificata. Purtroppo, di fronte a questa richiesta noi abbiamo più volte dovuto ripiegare a sistemi che non sono stati sempre seri, ed anche poco vantaggiosi per gli stessi lavoratori. Gli emigranti si lamentano che i salari ricevuti non sono corrispondenti a quelli stabiliti dagli accordi. La ragione di ciò viene prevalentemente dal fatto che i paesi di emigrazione si riservano, una volta che è giunta la nostra mano d’opera, di esaminare le qualità dei nostri operai, perché spesso (e qui bisogna dire la verità) queste qualità risultano inferiori a quelle dichiarate, dando poi luogo a retrocessioni di categorie, il che apporta differenze sensibili nei salari, e di conseguenza anche le rimesse alle famiglie non possono essere effettuate con vantaggio né per le famiglie stesse, né per il Paese.

Bisogna perciò istituire immediatamente scuole professionali ed evitare le squalificazioni della nostra mano d’opera, per non correre il rischio, più volte giustamente lamentato, di depauperare oltre un certo limite il patrimonio nazionale delle maestranze specializzate, così utile e necessario anche alle nostre industrie nazionali.

Nell’era della macchina noi dobbiamo formare lavoratori qualificati, che conoscano il meccanismo produttivo moderno e che possano intelligentemente imporsi sul mercato del lavoro mondiale. Le scuole di perfezionamento potranno essere veri centri di produzione nazionale ed inserirsi efficacemente nella vita economica del nostro Paese. Potremo così assorbire anche una parte della nostra mano d’opera disoccupata e dare a questi lavoratori il necessario e giusto aiuto.

Altro problema che si presenta è quello dell’arruolamento degli emigranti: fino ad oggi alla sua risoluzione non è stata riposta tutta l’attenzione necessaria. Si sono troppe volte indicati come operai qualificati delle persone che non conoscevano il mestiere, e così dei barbieri sono stati ingaggiati come minatori, dei maestri elementari come muratori, ecc. Tutto ciò significa ingannare i lavoratori, perché se è spiegabile che il miraggio di una occupazione possa indurre degli operai, spinti dalla necessità, a dichiarare e ad impegnarsi per attività diverse da quelle che essi praticano, a fatiche superiori alle loro forze, è invece una colpa degli organi preposti al reclutamento di non predisporre tutti gli accurati accertamenti per la verifica delle dichiarate attitudini di ciascun lavoratore che espatria.

Io penso che non debba essere difficile per tali organi conoscere la situazione delle varie categorie operaie della propria circoscrizione ed avere mezzi sufficienti per poter vagliare se effettivamente il lavoratore appartenga alla categoria dichiarata. In altre parole, gli Uffici provinciali del lavoro debbono essere meglio attrezzati per portare un effettivo contributo alla buona riuscita del reclutamento, e le organizzazioni sindacali, che anche in tale campo intendono di collaborare e vi insistono giustamente, mantenendosi al di sopra di ogni considerazione politica o di parte nella scelta dei lavoratori, debbono fornire tutti quei ragguagli tecnici che sono necessari.

Per quanto riguarda l’assistenza agli emigranti ben poco si è fatto fino ad oggi. I centri di raccolta degli espatriandi sono stati spesso improvvisati e sono privi delle più elementari attrezzature per le necessità di vita. Occorre, invece, che nei porti d’imbarco e nei luoghi vicini al confine siano istituiti appositi centri permanenti per gli emigranti. Questi centri debbono essere attrezzati convenientemente e devono essere dotati di tutto ciò che è necessario ad una vita dignitosa. Non dovranno, cioè, essere luoghi d’infezione fisica, morale e sociale, ove l’uomo viene molto spesso ridotto allo stato di bruto, ma bensì dovranno essere costituiti da case accoglienti, provviste almeno dei più elementari conforti. Ed è questa una esigenza di rudimentale umanità!

L’emigrante che lascia la sua terra perché non può dare da vivere a tutti i suoi figli deve sentirsi sicuro che la Patria ha fatto e farà per lui tutto il possibile e che nel penoso lavoro gli sarà sempre vicina.

D’altra parte questo è il minimo che noi potremmo e dovremmo fare per quei lavoratori che, con la loro opera contribuiranno – autorevolissimi ambasciatori italiani di vera pace e di fecondo bene – alla ripresa dei nostri contatti con il mondo e alla risoluzione del nostro problema economico.

Altro importante problema, sul quale mi riprometto di parlare in momento più opportuno, è la sistemazione di tutti gli espulsi rimpatriati dall’estero. Sono parecchie decine di migliaia che non riescono ad inserirsi nella vita economica nazionale, sia per le difficoltà dell’attuale situazione, sia perché aspirano ancora a rientrare nei vecchi luoghi di residenza. Solo poche migliaia di essi ricevono un sussidio che va dalle venti alle quarantasei lire al giorno o sono ricoverati nei campi dell’assistenza post-bellica o del Ministero degli esteri; mentre è vivo in loro il desiderio di trovarsi una dignitosa occupazione e di dare un apporto alla ricostruzione del Paese. Sono anch’essi vittime di questa guerra non voluta dal popolo italiano, vittime innocenti che non dobbiamo abbandonare ed alle quali dobbiamo rivolgere ogni nostra cura e tutta la nostra attenzione.

Gli espulsi rimpatriati dall’estero dovrebbero, quindi, secondo i loro desideri, essere avviati con preferenza verso i paesi d’immigrazione, oppure, compatibilmente con le possibilità, verso quei luoghi ove essi hanno interessi, amicizie, conoscenze. In tal modo, potremo accontentare nelle loro aspirazioni questi figli che, per essere rimasti fedeli alla Madre Patria e per essersi creati con la loro laboriosità delle attività fiorenti, sono stati costretti ad allontanarsi dall’abituale luogo di lavoro, assai spesso tutto perdendo!

Ho voluto dare questo mio modesto contributo sull’azione futura del Governo, solo spinto dal desiderio di vedere lenite le pene che oggi travagliano tanti nostri lavoratori.

Al tempo stesso, sono sicuro che i problemi che ho qui accennato saranno affrontati con la maggior cura e col maggior impegno dall’attuale Governo, il quale offre la necessaria garanzia di contribuire in modo tangibile, con amorosa ed oculata azione, al benessere delle masse lavoratrici; e ciò non solo per avere nel suo seno lavoratori autentici come il Ministro Corbellini, o apostoli purissimi dell’ideale sociale cristiano come il collega professor Fanfani, ma soprattutto per il fatto che in esso è rappresentato un partito che ha le sue profonde radici nel popolo lavoratore e che si ispira alle massime morali e sociali davvero indefettibili del Vangelo di Cristo. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Rodi. Ne ha facoltà.

RODI. Onorevoli colleghi, noi siamo chiamati ad esprimere un giudizio, a muovere una libera critica, ad accettare o respingere il programma esposto dal Governo, prima ancora che questo abbia praticamente dato la prova della sua capacità o della sua inettitudine. Le nostre osservazioni pertanto sono in un certo senso affette da presunzione aprioristica, ma non cessano di avere egualmente valore di contributo al perfezionamento di un programma e alla sua pratica attuazione.

Sono perciò rimasto perplesso il giorno in cui, al primo annuncio ufficiale della formazione del quarto Governo De Gasperi, un giornale di sinistra, ignaro ancora del programma e delle intenzioni del Governo stesso, affermava l’assoluta necessità di rovesciarlo immediatamente. E il direttore di quel giornale, noto per i suoi drammatici dilemmi, parlando in una grande città italiana, non solo ribadiva quella necessità, ma faceva addirittura allusione alla minaccia di ricorrere ai movimenti di piazza per raggiungere l’intento.

Tutto ciò, signori, è veramente strano e comunque denuncia l’esistenza di una mentalità estremistica, che deve destare le nostre preoccupazioni, se non altro per il fatto che essa minaccia di trascinare l’Italia in una assurda avventura rivoluzionaria.

Il quarto Governo De Gasperi è un tentativo politico audace e storicamente individuabile: esso, difatti, rappresenta un netto e meditato distacco dal tripartito, cioè da un sistema politico e amministrativo che non ha dato buoni risultati e che appariva ed era ormai esautorato dall’equivoco, da una forte ispirazione demagogica e dal fallimento di un compromesso.

Si è detto che il nuovo Governo è un Governo di emergenza. Io non so se esso tale sia veramente, perché l’attribuzione di un simile carattere è dipendente dal punto di vista dal quale ci si pone: dico soltanto che il voto di fiducia non può essere, come ha affermato l’onorevole Ruini, un voto di emergenza, perché l’attuale Governo è chiamato ad assolvere compiti di eccezionale importanza in un momento cruciale della nostra storia. La sua vita dovrà essere breve, in quanto è legata a quella dell’Assemblea Costituente, ma ogni suo atto può trovare consistenti ripercussioni in un lungo futuro.

Ad ogni modo la nascita di questo Governo ha modificato favorevolmente la nostra prospettiva politica. Ieri, difatti, abbiamo sentito che c’era un penoso distacco tra il Governo tripartito e il popolo italiano; oggi possiamo constatare che un distacco c’è ancora, ma questa volta esso corre tra il Governo ed un settore della classe politica italiana. Prova ne sia che mentre in quel settore si è manifestata subito una sorda e intransigente ostilità nei confronti del nuovo Governo, nel popolo si è invece diffuso un largo senso di fiducia.

L’onorevole Nitti ha parlato in verità non di fiducia, ma di euforia: ed io trovo strano che l’illustre uomo abbia chiamato euforia un orientamento spontaneo dell’opinione pubblica, di quella stessa opinione pubblica già estremamente stanca del compromesso tripartito ed ora atteggiata ad una benevola attesa nei confronti del nuovo Ministero. Codesta attesa pertanto non può essere interpretata come un segno di euforia, ma piuttosto come una prova di saggezza.

Per quanto riguarda l’atteggiamento dell’estrema sinistra ho parlato deliberatamente di ostilità e non di opposizione, perché tra l’una e l’altra corre un notevole divario. L’ostilità, spesso ispirata da motivi personali o da interessi di partito, si estrinseca sul piano dell’insidia, della montatura scandalistica e delle sorprese di piazza, per costringere un Governo a dimettersi; invece l’opposizione, pur nel contrasto delle idee, si concilia nel comune interesse nazionale e tende comunque a sostenere criticamente l’azione del Governo. Gli uomini del nuovo Governo sono coscienti della responsabilità che si assumono, coscienti della drammatica situazione che comprime e agita il nostro popolo, coscienti della qualità degli avversari e dei nemici: codesta consapevolezza è già motivo sufficiente a determinare una disposizione d’animo e d’intenti consona alla difficoltà dell’impresa, ma debbo qui ricordare che la sfiducia intorno al tripartito si è formata non solo a causa della cattiva amministrazione della cosa pubblica, ma anche per il mancato adempimento delle promesse fatte al popolo in ogni circostanza e con imperdonabile faciloneria,.

Gli oppositori della sinistra hanno già posto una singolare pregiudiziale: cioè che i tecnici immessi nel governo, pur essendo stati unanimemente riconosciuti come uomini di alto valore e di indiscussa integrità morale, sono elementi asserviti alla plutocrazia. Si tratta evidentemente di uno dei tanti luoghi comuni di cui si serve l’estrema sinistra per alimentare un’ormai contorta demagogia e può derivare anche da quella morbosità politica che un’accesa concezione estremista ha distillato nella coscienza degli italiani.

Da parte mia penso che un tecnico di valore e dotato di spiccate qualità morali non può che recare vantaggi al Paese.

Credo però che il primo compito del nuovo governo sia quello di identificare la psicologia del popolo italiano, di intendere nella sua essenza il momento politico del quale siamo protagonisti e di individuare la realtà nel seno stesso di quel movimentato scenario che è la stampa: e cito la stampa in considerazione del fatto che essa è nel suo complesso tanto l’espressione dell’opinione pubblica quanto l’incrocio delle più disparate correnti politiche. A me sembra che codesto compito sia di estrema importanza, perché non si può governare senza conoscere i governati e la storia ci dice quali fatali conseguenze abbiano subito quei popoli i cui sovrani non riuscirono ad intendere infatti contemporanei.

Aristotele condannò l’usura senza aver compreso che da essa andava nascendo il prestito commerciale; Machiavelli non sentì l’importanza delle armi da fuoco di recente invenzione e trattò di arte militare prendendo ad immagine della realtà i vecchi strumenti e le vecchie formazioni di battaglia; Luigi XVI non comprese le profonde modificazioni avvenute nel popolo francese e fu travolto dalla rivoluzione; Thiers non intese l’importanza delle ferrovie che cominciavano allora a solcare i suoli europei e le ignorò nelle sue concezioni politiche; Victor Hugo, avendo visto sparare un cannone, sentenziò che l’artiglieria avrebbe ucciso la guerra e pertanto non intuì quale sviluppo avrebbero avuto le armi fortemente distruttive; Napoleone non comprese lo spirito italiano dei suoi tempi e calpestò l’Italia da padrone, preparando con ciò anzitutto il danno della Francia; l’ultimo Zar non comprese che dalla coscienza del popolo russo era caduta la credenza nella monarchia di diritto divino e non poté opporsi ad una sanguinosa rivoluzione. Così i dittatori moderni non hanno ancora compreso che la dittatura è un fenomeno storico ormai superato dai tempi e che perciò oggi ogni dittatura è destinata a finire tragicamente; così gli uomini politici non intendono spesso gli effetti sociali del progresso scientifico e restano fedeli alla mentalità e ai metodi dei loro colleghi che operarono nel Settecento e più in là; così alcuni partiti che si dicono espressione dei lavoratori non sanno sovente comprendere e interpretare i bisogni dei loro rappresentati.

Onorevoli colleghi, noi siamo usciti da una guerra di immense proporzioni e dobbiamo tener conto che ogni guerra produce profonde modificazioni, che presuppongono ad ogni modo un processo evoluzionistico. Dice uno storico inglese: «L’uomo è ancora nell’età dell’adolescenza. I suoi tormenti non sono i tormenti della senilità e dell’esaurimento, ma della sua forza crescente e ancora indisciplinata. Se guardiamo a tutta la storia come ad un unico processo, se consideriamo la costante lotta ascensionale della vita verso la luce e il controllo, allora vedremo nelle sue proporzioni le speranze e i danni dell’ora presente».

Ebbene noi dobbiamo inserire nella nostra azione politica il concetto di codesta irrequietezza giovanile, poiché penso che questa sia in gran parte colpevole delle nostre agitazioni presenti. Comunque la guerra, sebbene abbia investito l’intera umanità e l’abbia sconvolta nell’orrore delle grandi stragi e delle grandi distruzioni, non ha risolto i problemi europei, che anzi sembrano diventati più acuti. E dobbiamo purtroppo constatare che l’egoismo organizzato e la passione imperialistica sono ancora alla base della politica internazionale, la quale appare totalmente dimentica delle cause che generarono la guerra.

Io ricordo il tempo in cui la propaganda bellica degli Alleati era tutta intessuta di aspirazioni pacifiche, di fraterne promesse, di conciliazioni superiori, di perdoni cristiani, di impulsi generosi: di tutto ciò oggi non rimane che un astioso contrasto tra vinti e vincitori e quel pugno di uomini politici divenuti inopinatamente arbitri delle sorti del mondo, sembrano la reincarnazione di coloro che trattarono la pace di Westfalia o che sedettero al Congresso di Vienna: cioè come ieri il duello politico trae il suo alimento dall’egoismo e si continuano ad ignorare le reali esigenze dei popoli.

Per cui quando sento dire, con esasperante monotonia, che bisogna distruggere il monopolio economico, penso che bisogna distruggere anzitutto il monopolio politico, che è cosa ben peggiore e trascina le folle inconsapevoli nelle guerre civili, dopo aver deformato gli ideali dell’umanità.

Per quanto riguarda particolarmente l’Italia è facile constatare che, nonostante il marasma politico, abbiamo dimostrato di possedere inesauribili risorse, una notevole capacità di recupero ed una tenace volontà di rinascita. Sono perciò nettamente contrario al pessimismo manifestato dall’onorevole Nitti, che, nonostante la sua autorità di esperto politico, non riuscirà a farci vedere tutto il nero ch’egli crede di scorgere nel nostro avvenire.

Da noi trionfa ancora il senso dell’universalismo, cioè quel misterioso senso che ci ha consentito e ci consente di essere primi anche quando gli avvenimenti storici ci sospingono nella retroguardia dei popoli. Errano perciò gli uomini politici italiani quando rendono piccoli e angusti i nostri fatti interni: tali uomini hanno per lo meno la colpa di ignorare la nostra tradizione universalistica nell’intento di sostituirla con il meschino interesse della fazione.

Questo senso universalistico noi lo abbiamo ereditato dall’impero Romano, dalla Chiesa Cattolica, ed è nel genio stesso del popolo italiano.

Noi abbiamo civilizzato i barbari invasori, universalizzando i nostri costumi e la nostra cultura; quando audaci e ambiziosi sovrani tentavano l’anacronistica ricostruzione dell’impero Romano, noi universalizzammo l’idea di una repubblica che traesse dal popolo la sua sovranità; quando gl’italiani compirono i primi sforzi nazionalistici, scaturì l’universalizzazione delle libertà comunali; un’Italia invasa dallo straniero creò nel Mezzogiorno una monarchia che doveva universalizzarsi secondo il concetto della costituzionalità; nell’irrequietezza delle Signorie gl’italiani inventarono e universalizzarono la rivoluzione sociale e fiscale, intesa come eguaglianza di diritti e come aspirazione ad una più equa distribuzione della ricchezza; quando in Italia vacillò la coscienza del diritto e la Penisola fu gettata in una grave decadenza politica, il genio italiano creò il Rinascimento, universalizzando la maestà dell’arte italiana, e un italiano scoprì nuove terre oltre Atlantico; la rivolta luterana non toccò gl’italiani, non soltanto a causa della nostra coscienza religiosa, ma anche perché quella rivolta fu angusta e non poteva investire tutta l’umanità credente; molto prendemmo invece dalla Rivoluzione francese, che ebbe carattere universale e segnò la fine di un’epoca; lo stesso nostro Risorgimento, che a tutta prima può apparire come un fatto puramente italiano, è invece, nei suoi eroismi militari, artistici e filosofici, l’interpretazione dell’universale esigenza di libertà e di indipendenza.

Oggi non possiamo rimpicciolire l’Italia con una politica interna che s’isterilisca nell’angustia delle posizioni personali e muoia nell’ambito di inqualificabili ambizioni. L’Italia deve inserirsi nella politica internazionale con tutto il suo ricco patrimonio e dobbiamo intanto convincerci che le nostre crisi governative non sono un fatto che si esaurisce in se stesso, ma un fatto che appartiene al congegno mondiale.

Non è lecito consigliare, per un malinteso desiderio di pace e di neutralità, l’ignoranza o il disinteresse per quanto avviene intorno a noi, oltre i nostri confini: e le altrui cose dobbiamo vederle non nella veste di semplici e indifferenti osservatori, bensì come esperti che dai fatti internazionali possano trarre esperienza e insegnamento.

Un giovane deputato ha affacciato il dubbio che alla base di quest’ultima formazione ministeriale vi siano l’ingerenza e la pressione dello straniero. Un vecchio parlamentare ha fatto suo quel dubbio e lo ha tradotto in sospetto. Ora io deploro che, per discutibili interessi di partito e per una più discutibile esigenza di opposizione, si possa gettare una simile ombra sul governo testé costituitosi. Ed anche ammesso che il dubbio e il sospetto siano scaturiti da un’intima e sincera convinzione, si è caduti comunque nell’errore di deformare la natura dei nostri rapporti internazionali, dopo averli individuati in maniera del tutto arbitraria.

Onorevoli colleghi, noi viviamo in una straordinaria epoca rivoluzionaria e c’è di particolare il fatto che un’ideologia politica vorrebbe dare la sua impronta al nostro secolo. Ma la rivoluzione non sorge ora da un fenomeno politico, bensì dal progresso scientifico, dall’evoluzione sociale, dal trapasso da un’età all’altra: è dunque un travaglio pacifico e non un sovvertimento violento.

La dottrina politica cui ho fatto cenno nacque nella mente di un filosofo greco, fu vagheggiata da Tommaso Moro e dal Campanella, manifestò i suoi primi sintomi nelle violenze compiute da alcuni epigoni di Lutero in Sassonia e nella Westfalia. La stessa dottrina, resa socialmente reale dalla Rivoluzione francese, divenne un «Manifesto» nel 1848 e intorno al 1870 si tramutò in una serie di «centri d’azione». Dopo lo slogan di Proudhon, secondo il quale la proprietà è un furto, quella dottrina produsse nuove intemperanze. Tra la congiura di Babeuf, i primi opifici nazionali creati da Luigi Blanc e demoliti dalla logica economica della nazione francese, i falliti esperimenti canadesi di Owen, i falansteri del Fourier, si pervenne al rivoluzionarismo di Carlo Marx e alla grande tragedia bolscevica del 1917.

Ora il comunismo, singolare alleato di alcune Potenze democratiche, ha al suo attivo una grande vittoria militare: cioè tanto quanto basta per metterlo alla testa di una straordinaria corrente imperialista.

Ebbene, signori, taluni credono che il comunismo sia una nuova dottrina e che la sua storia dai primi movimenti dei luterani tedeschi ai giorni nostri si possa identificare con un processo evolutivo destinato a rendere lungamente e universalmente stabile la sua attuale affermazione politica.

Secondo me, il fenomeno è grandemente diverso. La lotta tra lo spirito e la materia è antica quanto la società umana. Nel corso dei secoli la materia ha assunto atteggiamenti diversi e l’ultimo di codesti atteggiamenti, realizzato politicamente dalla Rivoluzione francese, si chiama comunismo. Ritengo pertanto assurda l’aspirazione del materialismo a salire sul trono del mondo.

Vero è che l’umanità ha subito sovente la dittatura del materialismo, ma si è trattato sempre di fenomeni fugaci, destinati comunque a preparare una più luminosa vittoria dello spirito. Pertanto il comunismo, che è una rinnovata immagine delle forze materialistiche, non può essere considerato come una nuova dottrina sociale, politica ed economica, ma corme il termine di contrasto nell’eterna lotta dell’umanità travagliata.

A questa grande lotta tra la libertà e il totalitarismo noi partecipiamo attivamente: l’ultima crisi governativa, dalla quale le sinistre sono uscite sconfitte, è un episodio di codesta nostra partecipazione, un episodio che altri ne presuppone e più salienti ancora.

I deputati dell’Assemblea Costituente rappresentano tutto il popolo italiano e ciascuno di noi reca in sé l’immagine di un gruppo, di una categoria, di una classe di elettori. Perciò qui si amalgamano i più disparati sentimenti, le più diverse ideologie: voglia Iddio che la fusione di tutti questi elementi pervenga a dare l’immagine del Paese quale veramente è e non un’immagine deformata dalla passione politica.

Qui siedono contadini, operai, giuristi, filosofi, maestri, artisti, medici, scienziati, economisti, tecnici, apostoli, martiri, credenti e atei, conservatori e rivoluzionari. Qui esplodono le passioni e si estrinseca il pensiero di un popolo; qui convergono tutte le aspirazioni e tutte le ostilità, tutti i fremiti della lotta e tutte le ambizioni; qui tengono il campo il pessimismo e l’ottimismo, la moderazione e l’estremismo, il desiderio di veder giganteggiare l’Italia e il timore di vederla cadere nell’abisso.

Ora io mi auguro che dal contrasto di tutti questi elementi il nuovo Governo saprà saggiamente trarre quel termine medio che la storia destina come strumento della nostra rinascita. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Roselli. Ne ha facoltà.

ROSELLI. Rinuncio a parlare per abbreviare le discussioni sulle comunicazioni del Governo. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Quarello. Ne ha facoltà.

QUARELLO. Rinuncio a parlare. (Applausi).

PRESIDENTE. È iscritto a parlare l’onorevole Zerbi. Ne ha facoltà.

ZERBI. Onorevoli colleghi, autorevoli oratori che mi hanno preceduto hanno in vario modo rimproverato al quarto Gabinetto De Gasperi la mancanza di un organico piano economico inteso alla difesa degli interessi vitali delle classi popolari con quella varietà e complementarità di provvedimenti che la gravità del problema richiederebbe.

L’onorevole Morandi opina che non basta a tale intento la riaffermata fedeltà del nuovo Governo alle direttive contenute nei 14 punti del programma d’aprile. Egli ritiene che il programma economico di questo Governo non è quello che ci è stato esposto» ed in ogni caso è d’avviso ch’esso ci avvia ad un disastro proponendosi di difendere la lira coni mezzi semplicemente finanziari.

Con riferimento ai problemi alimentari, nei quali egli è particolarmente versato, l’onorevole Cerreti asseriva che il quarto Gabinetto De Gasperi non saprà resistere alle rivendicazioni di libertà le quali si levano vivaci da ogni parte del settore annonario, che il Ministro del bilancio «non sarà l’uomo il quale prenderà misure coercitive contro la speculazione», che, insomma, «il Governo non ci garantisce dalle minaccie degli accaparratori».

L’onorevole Tremelloni appare invece preoccupato che l’accentuazione dei motivi di risanamento finanziario e monetario portino il nuovo Governo a sottovalutare l’importanza dei problemi di priorità d’investimenti e di produzioni, di stimolo a migliori rendimenti tecnici e di quelli attinenti il regolamento e la difesa del tenore di vita delle classi popolari.

L’onorevole Tremelloni ha invitato il Governo «a bandire risolutamente ogni controllismo il quale non abbia precise finalità»; ma al tempo stesso – col suo apologo dei semafori – ha egli pure sottolineata la propria viva preoccupazione contro eventuali esperimenti di liberismo intempestivo. Senonché lo stesso apologo dei semafori, concludendo con l’invito a spegnere quelli accecanti, alleava sostanzialmente l’oratore al programma del Governo.

Esprimendo un dubbio, che ho motivo di ritenere diffuso nei settori di mezz’ala sinistra di questa Assemblea, l’onorevole Foa ha creduto di poter interpretare come disarmonia politica il fatto che il programma economico contenuto nelle dichiarazioni del Governo non abbia dato agli strumenti non monetari o finanziari dell’intervento di Stato quel rilievo che egli si sarebbe atteso dalla Democrazia cristiana, la quale annovererebbe non pochi deputati le cui opinioni in argomento vanno ben oltre l’uso dei soli strumenti monetari e finanziari di politica economica.

In realtà il dissenso fra noi ed i colleghi di mezz’ala sinistra non verte tanto sull’attuale necessità dell’intervento diretto ed indiretto dello Stato nel congegno della produzione, nel sistema dei prezzi, nella rete circolatoria dei prodotti, del credito, dei mezzi di pagamento, quanto piuttosto sul contingente giudizio di merito dei vari strumenti di siffatto intervento.

Se proprio volessimo riassumere in vocaboli diversi, sia pure sinonimi, posizioni diversificate, se pure convergenti, diremmo che in questo nostro settore di centro siamo per una economia «disciplinata», piuttosto che per una economia «pianificata».

La diversificazione è motivata anzitutto dal nostro attuale scetticismo rispetto a taluni strumenti della pianificazione, la quale nel nostro Paese povero di talune materie prime essenziali e deficiente di talune essenziali derrate alimentari, postula ammassi totalitari, assegnazioni di materie prime, fissazione di prezzi d’imperio, non già in via sussidiaria, o come tentativo di estremo rimedio, ma come strumenti preminenti o per lo meno consueti e caratteristici di un efficace intervento dello Stato nella produzione, ai fini del bene comune.

Tale nostro scetticismo circa l’efficacia strumentale di taluni metodi, in taluni settori, nella contingente situazione del nostro Paese, è maturato al diretto contatto con la prassi italiana sia dell’ammasso che dell’assegnazione e dei prezzi d’imperio.

Como già nel passato, così tuttora, i nostri piani d’assegnazione sono abitualmente frutto della collaborazione fra uomini della burocrazia statale e commissioni di tecnici del mondo produttivo.

Siffatto sistema, mentre assicura alla pianificazione statale il continuativo apporto di specifiche competenze, rende però accessibili delicatissime leve di comando – quali sono i piani di assegnazione – ad uomini che bene spesso sono esponenti di concreti interessi aziendali e che dovrebbero essere sempre dei santi e degli eroi per non piegare mai ad altra preoccupazione che non sia l’utilità collettiva quale viene a loro segnalata dalla profonda conoscenza tecnica dei problemi.

Era lamento spesso giustificato negli anni del corporativismo fascista, che le singolari fortune di taluni complessi aziendali fossero dovute – non tanto a vantaggi acquisiti in libera competizione organizzativa e produttiva – quanto all’efficace patronato economico loro assicurato dagli emissari diretti ed indiretti che tali gruppi aziendali avevano potuto insinuare negli organismi della macchina corporativa e del regime politico.

Ma il lamento – a diritto o a torto – ed io insisto a credere che per lo più sia a torto – affiora e serpeggia tuttora in più di un settore nei confronti di taluni gruppi aziendali ed a volte esplode vivacissimo anche nella stampa, come è accaduto, ad esempio, giorni or sono in un diffuso quotidiano milanese a proposito di certe assegnazioni straordinarie ed ordinarie di zucchero, disposte nello scorso maggio.

Un’economia pianificata con largo uso del sistema delle assegnazioni tende a perpetuare situazioni di privilegio per le aziende vecchie in danno delle nuove, lascia che talune aziende continuino ad ingrassare su comode prebende assegnatizie, mentre aziende nuove e tese al miglioramento dei propri rendimenti tecnici sono costrette ad accanirsi sulle magre quote residuanti dal banchetto dei nobili della categoria, quando pur non debbano abitualmente alimentarsi attingendo al cosidetto mercato libero di borsa nera.

Abbiamo numerose aziende industriali o commerciali che da lunghi anni prosperano nella comoda poltrona o per contro si dibattono nella angusta strettoia di quote d’assegnazione rapportate alle importazioni od ai consumi effettuati da ciascuna nel tale o nel tal’altro semestre del 1937 o del 1939. Si giunge talvolta al paradosso che assegnatari neghittosi trovino più espediente di speculare sulla rivendita a prezzo libero di parte delle proprie laute assegnazioni anziché alimentare il lavoro delle proprie aziende. La concreta esperienza italiana ci porta a concludere che sovente, laddove si è più rigidamente pianificato, più si è mortificato lo sviluppo del settore. Basti citare l’Ente Nazionale Metano, creato con legge 2 ottobre 1940, del quale un’autorevole Commissione di riforma ha riconosciuto che «non ha saputo o potuto realizzare quel compito di aiuto e sviluppo dell’attività produttiva del gas metano che era negli intenti dei fondatori, ed anzi ne ha in vari casi depressa la forza propulsiva, riuscendo solamente a vivere in perenne ed acuto contrasto con produttori e consumatori di metano».

A 600 metri di profondità nel sottosuolo lodigiano è stato scoperto un largo giacimento di metano, lungo una trentina di chilometri e largo all’incirca sei. Secondo pubbliche dichiarazioni dell’assessore competente, dall’immediata valorizzazione di tale giacimento e dal suo razionale coordinamento con gli esistenti impianti di produzione di gas combustibili, il Comune di Milano potrebbe trarre di che normalizzare i servizi del gas per la città, non solo con totale soddisfacimento dei consumi casalinghi, ma con possibilità di devolvere non trascurabili eccedenze ad utilizzazioni industriali. Senonché il Comune di Milano avrebbe trovato finora gravi ostacoli all’accennata sistemazione, proprio nelle riserve opposte dall’Ente Nazionale Metano.

Taluno degli accennati lauti privilegi è stato ricostituito non molto tempo addietro. È il caso dell’Ente Approvvigionamento Carboni, attraverso il quale i vecchi grossisti nostrani importatori – in rapporto ai quantitativi da essi rispettivamente importati nel 1939 – hanno assicurato a sé medesimi il monopolio della distribuzione del carbone estero in Italia, impedendo che le industrie nazionali consumatrici, per quanto forti acquirenti e quand’anche abbiano proprie disponibilità valutarie, possano direttamente approvvigionarsi all’estero.

E come possiamo qui tacere che non una delle 100.000 tonnellate mensili di carbone Sulcis sia finora direttamente accessibile – neppure con la debita assegnazione – alle industrie italiane consumatrici? Io non credo che, nella fattispecie, le accennate bardature siano le più adatte ad attuare quella graduatoria o quella priorità di impieghi che i passati Governi certo intesero di conseguire per il bene comune del Paese.

Mi giunge invece da autorevoli personalità dell’accennato settore la segnalazione che fra i massimi beneficiari di quei privilegi – e per difetto organico del sistema adottato, ossia per il riferimento alla base 1939 – figurano ancora uomini che di analogo privilegio godettero negli anni del passato regime, al quale rimasero tanto lungamente fedeli da meritarsi, se non una condanna, un clamoroso processo per collaborazionismo. (Applausi).

Constato, ancora, che il carbone Sulcis, tariffato legalmente a lire 6.800 la tonnellata cif continente, viene offerto a Milano per riscaldamento casalingo a 3.000 lire il quintale.

Non è chi non veda quale formidabile trasposizione di redditi sia possibile con lo strumento delle assegnazioni e quale somma di rettitudine si richieda negli assegnanti e negli assegnatari perché l’assegnazione non diventi preoccupante fomite di corruzione e di ingiustizia sociale!

A volte il privilegio dell’assegnazione poggia anche sul fatto che, all’epoca dei censimenti i quali servirono di base alle graduatorie, talune aziende più scaltre o meglio prevenute di altre ebbero a gonfiare artificiosamente i dati delle loro potenzialità.

In questi casi il sistema non soltanto consacra un privilegio, ma continua a premiare una menzogna.

La mia critica non vuole proporre di abolire sic et simpliciter il vigente sistema di assegnazioni: ciò sarebbe puerile.

Essa mira soltanto a sottolineare che nulla di dannoso dobbiamo temere se l’onorevole Togni, Ministro particolarmente chiamato in causa, porrà mano ad una coraggiosa potatura dell’attuale apparato assegnatario sfrondandolo del «troppo» e del «vano».

Né avremo di che temere per il costo della vita delle nostre masse popolari se – non appena vengano maturando possibilità interne ed estere – il Ministro dell’agricoltura, con tempestiva sollecitudine, passerà dal superstite ammasso totalitario del grano ad ammassi per contingenti e da questi alla libertà.

Una sconfortante constatazione di fatto s’impone a chiunque osservi con occhio spregiudicato il panorama economico italiano: il regime vincolistico malamente pianificatorio tuttora superstite, ma sbrecciato e claudicante, è vecchio di molti anni, ha scaltrito produttori ed intermediari nei più estrosi espedienti d’evasione e qualsiasi disciplina incardinata prevalentemente sui criticati strumenti d’interventismo statale, ha fatto sorgere e prosperare una intera classe parassitaria di professionisti del millantato credito, di speculatori improvvisati, di intrallazzatori di ogni specie, conoscitori di tutti gli anfratti procedurali, e di tutti gli espedienti di altra indole, che consentono di manipolare ai fini degli egoismi particolari il congegno della raccolta e della distribuzione pianificata con strumenti tipicamente non monetari o creditizi.

I cosiddetti borsaneristi sono oggi legione senza numero, sono la sabbia quarzifera gettata a piene mani negli ingranaggi della delicatissima macchina dell’intervento dello Stato nell’economia. E la macchina stride ormai tanto nel suo malo funzionamento, che l’eco degli stridori è risuonato più volte in quest’aula medesima.

L’onorevole Morandi ci ricordava come lo Stato controlli, attraverso l’I.R.I., circa il 45 per cento dell’industria siderurgica ed altra notevole quota ne gestisca direttamente. Ma neppure questo largo controllo di Stato ha consentito al Ministro Morandi di mantenere la siderurgia nazionale in disciplina di produzioni, di distribuzioni, di prezzi. Lo Stato controlla direttamente oltre i due terzi dell’apparato bancario del Paese. Ma ciò non è bastato ad evitare che non poche banche – pur fra quelle direttamente controllate – facessero una loro politica del credito, che in misura più o meno larga, più o meno palese, cercassero di riequilibrare il proprio conto esercizio con profitti di partecipazione alla speculazione di borsa e con gli arrotondati saggi reali attivi consentiti dall’arrendevole clientela rialzista, e perciò accumulatrice di larghi stocks ed affamata di sempre maggiori finanziamenti, qualunque ne sia il costo. Questo accade, onorevoli colleghi, non solo o non tanto per carenza del controllo di Stato sul credito, ma per legge di legittima difesa: in tempi di rapida svalutazione monetaria i depositi bancari non aumentano con ritmo adeguato alla svalutazione della moneta; i saggi passivi sui depositi tendono, invero, a diminuire; incrementano però massicce le spese economali ed i costi del personale; l’incremento di tali costi ingoia ben presto anche l’aumentato gettito delle consuete operazioni attive di credito commerciale; anche le banche, e vorrei dire tutte le banche, che non si rassegnino a sacrificare nel corso stesso della inflazione le proprie riserve di bilancio, sono allora sospinte a ricercare in lucri di speculazione il riequilibrio del proprio conto di perdite e profitti.

La svalutazione monetaria è irresistibile fomite di speculazione eccezionale anche per le banche.

In tempo di svalutazione monetaria, sotto il pungolo della speculazione altrui, l’istinto della sopravvivenza sospinge anche le aziende oneste a speculare. In tal clima economico il numero dei giusti decresce quotidianamente in ogni settore, mentre cresce in ogni settore la legione dei reprobi: e fra i reprobi potremmo oggi individuare anche aziende di conclamata castità antispeculativa: cooperative toscane trafficanti baccalà d’assegnazione od altri enti analoghi, qua e là in Italia, speculanti su tonno all’olio o su aggiudicazioni ARAR.

In regime di moneta svalutantesi, non è sperabile di ricondurre la produzione e lo scambio a disciplina economica, se lo Stato non premette degli interventi finanziari atti ad arrestare lo svilimento della moneta.

Alla luce di queste realistiche constatazioni, il programma economico di emergenza delineato nelle dichiarazioni del Governo appare logico, organico e concreto, proprio perché affronta anzitutto la situazione con gli strumenti monetari e finanziari. (Commenti a sinistra).

Il problema pregiudiziale è uno e ben definito: arrestare lo slittamento della lira; tale arresto significherà per molti settori inversione della tendenza dei prezzi, l’inversione di tendenza stroncherà l’indisciplina ed attuerà l’arresto dei salari nominali e l’incremento dei salari reali; l’una e l’altra cosa aiuteranno il consolidamento. dei costi di produzione; ciò rallenterà il rialzo dei prezzi anche nei settori carenti di materie prime; e là dove s’arrestano i prezzi dei prodotti aumentano gli sforzi per incrementare i rendimenti tecnici della produzione; e con alti rendimenti tecnici si conquistano i mercati esteri. È questa, onorevoli colleghi, la successione logica dei fatti che avvieranno la nostra economia al risanamento.

L’onorevole Tremelloni ebbe a dire che questo Governo è nato sotto la stella del bilancio.

Il Paese pensa che questo Governo è nato per salvare la lira: il Paese pensa che questo Governo può salvare la lira.

Il Governo attacca sul terreno finanziario e monetario: il Governo avrà successo.

Il favore psicologico del Paese, il suo avallo. morale al Governo è premessa necessaria per il consolidamento della lira. Il Paese ha già dato questo avallo, ma il Governo deve fornire sollecitamente al Paese taluni segni d’avvio al consolidamento della lira, in quanto tali segni sono a loro volta indispensabili, affinché si prolunghi nel tempo l’avallo modale del Paese, perché il fatto psicologico diventi fatto economico, l’avallo morale avallo politico.

Questi sogni che il Paese sollecita sono da un lato un chiaro programma per l’assestamento del pubblico bilancio, dall’altro lato un persuasivo programma d’attacco per ottenere l’inversione di tendenza, almeno di taluni sistemi di prezzi, e soprattutto nei prezzi annonari.

Non mi soffermerò sui problemi attinenti all’equilibrio del bilancio e alla bilancia dei pagamenti, temi già lungamente dibattuti, temi sui quali, d’altronde, i dissensi non sono molti né forse inconciliabili e sui quali ho motivo di credere che l’alta competenza degli uomini di governo cui viene affidata la gestione dell’uno e dell’altra vorranno ulteriormente intrattenere l’Assemblea.

Mi limiterò invece, ad alcune brevi considerazioni sulla linea d’attacco ai prezzi interni delineata dalle dichiarazioni del Governo.

Nell’immenso campo dei prezzi interessano soprattutto tre nuclei, più degli altri significativi in ordine al complicato problema psico-economico che ci preoccupa: i cambi esteri, le quotazioni di Borsa, i prezzi annonari.

I cambi sono oggi meno tesi di quanto non fossero anteriormente alla crisi di governo: e non è questo di cattivo auspicio. Conosco la estrema complessità delle questioni che trovano la loro sintesi nelle fluttuazioni del cambio della lira con le valute estere e non intendo affrontarle con i brevi cenni che mi sarebbero consentiti dai brevissimi minuti che la cortesia del Presidente vorrà ulteriormente accordarmi: ne diranno meglio di me i ministri Einaudi, Del Vecchio e Merzagora.

A me sia lecito sottolineare che la maggioranza dei nostri cittadini, che l’italiano qualsiasi, se volete, l’italiano qualunque, non sembra condividere certe esitazioni o paure affiorate in taluni settori di quest’Assemblea in ordine agli sperati finanziamenti esteri, ai quali è connesso, insieme con tanti altri anche il problema dei cambi.

Io credo di non illudermi quando penso che ai milioni di dollari che ci auguriamo in prestito dall’occidente daranno il benvenuto anche i lavoratori, così come lo darebbero anche gli imprenditori ad altri milioni che ci venissero dall’oriente.

La Borsa. La Borsa fornisce oggi il più letto bollettino di prezzi che si pubblichi nel nostro Paese. Non molto tempo addietro alcuni nostri colleghi hanno sollecitato dal Governo interventi drastici intesi a mortificare quotazioni di Borsa ritenute prettamente «speculative». Anche allora non ho condiviso l’opinione di tali nostri colleghi. Io ritengo che la Borsa abbia una sua utile funzione, e che non convenga interferire con provvedimenti mutilatori nel funzionamento della Borsa stessa, allo scopo di mutare gli indici del suo funzionamento. Tanto più sono contrario oggi, in quanto la Borsa ha dato, attraverso le flessioni dei suoi prezzi, una dimostrazione dell’atteggiamento di favorevole aspettativa di non trascurabili settori del risparmio nazionale nei confronti della politica monetaria prospettata dal nuovo governo.

Si dice che la Borsa non sia un termometro sincero. Ho sentito paragonare la Borsa ad un termometro la cui ampollina poggi su di una fiamma, sulla fiamma della cosiddetta speculazione occasionale. Sono d’opinione – come lo ero durante il boom di qualche mese fa – che non convenga rompere il termometro, quand’anche si fosse in fase di termometro poggiante sulla fiamma; meno che meno converrebbe romperlo nell’attuale contingenza di mercato.

Sono moltissimi, ben più che di consueto, gli italiani i quali oggi leggono le quotazioni di Borsa; essi sono molto più numerosi di quanti non siano i risparmiatori o gli «speculatori» direttamente interessati alle fluttuazioni di tale preziario.

La scarsa competenza finanziaria ed economica di una larga quota di coloro che leggono il listino di Borsa induce moltissimi ad attribuirgli un eccessivo valore segnaletico, ne porta moltissimi ad interpretare semplicisticamente gli andamenti delle quotazioni azionarie come reciproci dell’andamento del potere d’acquisto della lira.

Se l’attuale Governo sopprimesse le negoziazioni di Borsa a termine, o ne prescrivesse la totale copertura per contanti, cioè le sopprimesse asfissiandole, od anche solo se ne aumentasse notevolmente il già prescritto deposito cauzionale del 25 per cento, il Governo stesso romperebbe con le proprie mani quel tal osservatissimo termometro, proprio quando, con le sue quotazioni decisamente orientate al ribasso, esso induce gran numero di italiani a riprendere fiducia nella lira, a credere nella possibilità del suo consolidamento, e, con ciò solo, a contribuire alla realizzazione del consolidamento stesso. In verità, se fossi chiamato a proporre nell’attuale momento qualche forma di intervento sulle borse valori intesa a secondare il programma del Governo, proporrei di potenziarne il funzionamento tecnico. Uno dei difetti delle nostre Borse sta proprio nel fatto che esse non siano delle grandi Borse, perché il flottante di molti dei titoli in esse quotati, ossia la quantità di titoli che in Borsa può essere realmente scambiabile è spesso una assai piccola frazione del capitale nominale dell’azienda quotata, il quale rimane sedentario nei cosiddetti portafogli di comando o nelle mani dei risparmiatori «cassettisti». A differenza delle borse merci, le quali tanto meglio adempiono a funzione «antispeculativa» – intesa la «speculazione» nel significato deteriore e volgare – quanto più raramente conducono a reale consegna di grano o di cotone, la borsa valori è abitualmente anche mercato di realizzo e di approvvigionamento effettivo di titoli azionari ed obbligazionari ed ha – per ragioni tecniche che sarebbe lungo analizzare, ma che in parte sono intuitive – un regime di prezzi tanto più influenzabile dalla cosiddetta «speculazione» quanto più limitato è il «flottante» del titolo «speculato». Questo handicap delle nostre Borse potrebbe facilmente essere attenuato nell’attuale momento quando nelle mani di banche e di nuovi e di vecchi azionisti trovansi i certificati provvisori rappresentativi degli ingentissimi aumenti di capitale attuati di recente da gran numero delle società che hanno le proprie azioni quotate in borsa.

Tali certificati provvisori non sono ammessi alla stanza di compensazione in esecuzione di contratti a termine, e vengono negoziati ai margini della borsa a prezzi inferiori alle quotazioni ufficiali, le quali si riferiscono ad azioni rappresentate da titoli definitivi.

Io ritengo che gioverebbe non poco all’efficienza delle nostre borse valori l’ammettere anche i certificati provvisori all’esecuzione dei contratti a termine, salvo, bene inteso, l’eventuale conguaglio del godimento, ove occorresse. Così facendo noi accresceremmo la massa dei titoli consegnabili nel mercato borsistico, ossia incrementeremmo il cosidetto «flottante»; contribuiremmo a rendere più difficile l’attuazione di eventuali manovre sui corsi, senza peraltro incidere sulla euritmia tecnica della Borsa, quando si abbia l’avvertenza d’annunciare il provvedimento al primo giorno di negoziazione a fine prossimo.

Non va dimenticato che un’attiva negoziazione di Borsa è oggi fonte di non trascurabile gettito fiscale attraverso la sovrimposta di negoziazione del 2 più 2 per cento. Ho motivo di credere, anche per riconoscimento di esperti della Borsa, che tale aliquota di sovrimposta possa considerarsi un «optimum», nel senso che essa forse rappresenta empiricamente il massimo che il fisco possa prelevare sulla negoziazione di Borsa con un minimo relativo di inconvenienti nel buon funzionamento tecnico del delicato congegno del mercato borsistico.

Un’imposta di questo tipo può paragonarsi ad un gradino inserito ad interrompere il piano inclinato lungo il quale scorre la biglia della quotazione di Borsa sospinta dalle contrarie forze della domanda e dell’offerta. Tale gradino costituisce ostacolo iniziale ad ogni nuova negoziazione e tende di sua natura ad arrestare il pronto scorrere della biglia: potremmo dire – continuando nell’accennata figurazione – che la biglia si muove ora con uno strappo o salto per superare l’ostacolo iniziale del gradino fiscale, strappo il quale tende fatalmente a deviare la biglia dal piano inclinato della quotazione ufficiale a quello della quotazione clandestina evasiva dell’imposta.

Non nego che già l’aliquota del 2 più 2 per cento abbia forse costituito ostacolo sufficiente a sospingere non pochi all’evasione. Si dice, infatti, che degli agenti di cambio, invece di redigere il «fissato bollato» e corrispondere l’imposta per ciascuna negoziazione conclusa, rinviino più o meno lungamente tale compilazione entro il termine del calendario borsistico all’intento di compensare nel mese stesso le operazioni opposte ed omogenee reciprocamente negoziate e di evadere pertanto il «fissato» e la «sovrimposta» per tutte le operazioni in tal modo clandestinamente compensate.

Senonché tale evasione può essere facilmente ed energicamente stroncata. Le negoziazioni di Borsa avvengono mediante lo scambio dei cosiddetti «interinali», ossia di appunti di contratto staccati da speciali blocchetti vistati dal Comitato di Borsa, il quale dovrebbe tenere distinta nota di tutti siffatti carnets rilasciati col visto a ciascun agente di cambio. Sulla scorta di tali distinte dei «visti» sarebbe facile controllare il numero degli «interinali» staccati dai carnets e se ciascuno abbia riscontro in un regolare «fissato». Le Borse non sono numerose; non sono numerosissimi nel Paese gli agenti di cambio: il controllo fiscale delle negoziazioni in Borsa ed anche fuori Borsa può giovarsi della possibilità di concretare la vigilanza in poche località e su di un numero relativamente esiguo d’aziende. Un siffatto controllo opportunamente concentrato su punti strategici di mercato potrebbe consentire di recuperare forse ingenti somme di sovrimposta evasa, mentre, a modesto parer mio, la legge dovrebbe colpire d’ora innanzi, con la decadenza dal mandato, quegli agenti di cambio che evadessero o comunque collaborassero all’evasione della sovrimposta, dimentichi della delicata funzione fiduciaria che lo Stato loro affida.

Così la negoziazione di Borsa contribuirà col proprio gettito fiscale al risanamento dell’erario pubblico, mentre negli andamenti del proprio listino ci sottolinea da alcune settimane la favorevole aspettativa del mercato del risparmio e potrà segnalarci domani il concreto plauso dei risparmiatori agli specifici utili provvedimenti che il nuovo Governo adottasse.

L’altro tema che l’attività del Governo dovrebbe immediatamente affrontare per fornire all’opinione pubblica taluni altri di quei segni di avvio alla stabilizzazione che ritengo indispensabile, è l’arresto e la compressione dei prezzi dei generi di prima necessità.

Il costo della vita è imperniato su tre capitoli: affitto, vestiario, cibo.

La stragrande maggioranza degli affitti per abitazione è controllata dallo Stato con energico mordente, nei modi che noi tutti conosciamo. La meccanicità di tale controllo è anzi controproducente per più di un aspetto in ordine alla soluzione del problema delle abitazioni. Sono risapute certe esose speculazioni di inquilini uscenti o subaffittanti di vecchi appartamenti; è universalmente riconosciuta l’iniqua disparità di regime economico e giuridico fra proprietari di vecchie e nuove case di affitto. Queste ed altre incongruenze dovranno pur essere affrontate e rimosse quando si vorrà energicamente avviare a normalizzazione il mercato delle abitazioni. Ma intanto gioverebbe non poco il rendere immediatamente revisionabili, senza limite alcuno, i canoni di affitto relativi a quelle porzioni dei vecchi appartamenti a canone bloccato, le quali eccedono un vano per ogni persona della famiglia locataria, oltre i servizi. Nonostante lo zelo e le angherie dei Commissariati alloggi ed i nefasti della coabitazione, abbondano tuttora dei casi che solo la forza del prezzo riuscirà a stanare: casi di vecchi inquilini soli o con famiglia ridotta a due o tre persone, i quali continuano ad occupare i vasti appartamenti di un tempo, sol perché col blocco dei canoni e con lo svilimento della lira tali esuberanti appartamenti costano ora un’inezia d’affitto. Daremmo in tal modo un parziale sollievo economico alla vecchia proprietà edilizia e sicuramente procureremmo una immediata e non trascurabile disponibilità di vani abitabili, il cui canone, benché non bloccato, contribuirebbe a moderare il prezzo dei vani di nuova costruzione.

Per quanto attiene il settore del vestiario, sarà titolo di onore per il Ministro Togni se egli riuscirà finalmente a riversare a fiotti sul mercato al dettaglio i manufatti ritraibili dalle materie prime dell’U.N.R.R.A.-Tessile. Sono comunemente noti gli ingenti quantitativi delle accennate donazioni U.N.R.R.A.: 30 milioni di chili di lana nuova, 8 di stracci e 2 di cascami di lana, 35 milioni di cotone sodo, 500.000 pelli per calzature; un complesso i cui manufatti, assegnati per circa un terzo a titolo gratuito e per circa 2 terzi a modico prezzo, interesseranno circa 25 milioni di italiani delle classi meno abbienti e ne copriranno i consumi di quasi un anno. Finora per un complesso di circostanze che sarebbe lungo analizzare, non siamo riusciti a riversare ai consumatori i prodotti ottenibili da queste materie prime.

Una voce a sinistra. Perché gli industriali hanno preferito esportare.

ZERBI. Ma il Ministro aveva per legge e poteva usare della facoltà di mobilitare determinate aliquote di attrezzature industriali per costringerle alle lavorazioni dell’U.N.R.R.A.-Tessile.

In ogni caso quello che non si è fatto sinora può essere fatto da oggi. È necessario che i manufatti dell’U.N.R.R.A.-Tessile vengano riversati al più presto ed in massa al consumo popolare. La mole di tali prodotti è così ingente che non potrà non esercitare una notevole azione calmieratrice su tutto il mercato interno dei tessili e delle calzature, anche ben oltre la ristretta gamma dei manufatti di più largo consumo popolare, sulla cui produzione opportunamente l’U.N.R.R.A.-Tessile ha voluto concentrare l’impiego delle proprie materie prime. L’immissione al consumo, specie se attuata con distribuzione massiccia e pressoché contemporanea in tutto il Paese, può saturare pro tempore importanti settori della domanda con diffusa azione depressiva dei prezzi di libero mercato; azione che, insieme ad altri concomitanti provvedimenti depressivi del costo della vita, varrà più e meglio di ogni regolamentazione, più e meglio di un esercito di poliziotti, a stanare molte delle laute scorte di manufatti che intasano non pochi magazzini.

Sarà problema di un prossimo domani lo studiare se e quale strumento necessiterà per dilungare nel tempo l’azione depressiva dei prezzi ora conseguibile attraverso le distribuzioni dell’U.N.R.R.A.-Tessile: se attraverso un’ulteriore azione dell’U.N.R.R.A.-Tessile medesima o di altro organismo di Stato, oppure attraverso l’opera di Consorzi fra industriali, grossisti, dettaglianti, cooperative ecc. opportunamente controllati dallo Stato.

Quello che urge al momento è di pungolare con mezzi energici le imprese industriali ad esaurire a tappe forzate le lavorazioni per conto U.N.R.R.A.-Tessile, è di dare subito la stura alla distribuzione massiccia dei manufatti U.N.R.R.A.

Settore annonario. La spesa del vitto è incardinata soprattutto sui prezzi dei cereali, dei grassi e della carne. Il capitolo dei cereali è il più doloroso dei tre: per la sua mole, per le condizioni della produzione interna, per il regime del mercato granario internazionale. Il popolo italiano è gran consumatore di pane, perché è un popolo frugale. Ma purtroppo il rendimento medio nazionale per ettaro è quest’anno singolarmente scarso rispetto alle medie di anni non lontani; tale superficie diminuirà ancora largamente, anticipando quella revisione nella distribuzione delle colture in funzione dei costi comparati internazionali che le contingenti necessità alimentari del Paese avrebbero voluta dilazionata a quando fossero completamente liberi gli scambi internazionali delle derrate. Fintanto che un ettaro coltivato a patate nelle campagne asciutte dell’Alto milanese, col rendimento di 150 quintali venduti fra le 4 e le 6 mila lire darà dalle 600 alle 900 mila lire di ricavo lordo annuale, fintanto che l’erbaio od il prato consentiranno, direttamente od attraverso la stalla, redditi di gran lunga maggiori di quelli consentiti dalla destinazione a frumento, è vano opporsi alla rapida restrizione della superficie frumentaria.

Confesso il mio scetticismo circa l’ammasso granario in corso. Sarà fatica improba e forse per gran parte fatica vana lo sforzo dello Stato per nuovamente potenziare l’ammasso dei cereali, in un Paese in cui i produttori agricoli da ricondurre in disciplina sono forse milioni ed in una congiuntura di prezzi liberi e d’imperio per la quale i cereali di alimentazione umana sono vivacemente contesi dall’allevamento zootecnico, dentro e fuori, dell’azienda cerealicola.

Dubito pure che un raddoppio del prezzo legale di conferimento possa oggi valere a realizzare in Italia l’efficienza dell’ammasso granario, se non nell’ipotesi che tale raddoppio lasci inalterati gli attuali prezzi agricoli e zootecnici: la quale mi sembra ipotesi poco probabile.

È invece fuori dubbio che maggiori importazioni di cereali esteri – opportunamente coordinate con altre importazioni intese ad inflettere gli attuali prezzi zootecnici e caseari, di cui dirò in seguito – modificherebbero gli stimoli che attualmente sospingono gli agricoltori ad evadere l’ammasso.

Non ignoro che i piani internazionali di assegnazione di cereali esigono dall’Italia un’effettiva disciplina di ammasso interno e di razionamento. Ma i realistici rilievi dianzi fatti parmi dimostrino che tale disciplina può essere riottenuta, soprattutto in conseguenza di più larghe importazioni cerealicole dall’estero.

Il raccolto frumentario dei grandi mercati esportatori – che specie negli Stati Uniti ed in Australia si annuncia di molto superiore ad ogni precedente – autorizza a sperare che le maggiori importazioni granarie dianzi auspicate si riducano soprattutto ad un problema di disponibilità valutaria: il che sarebbe già non poco.

Credo tuttavia che il successo degli sforzi diplomatici e valutari del Governo per conseguire la sufficienza del pane e della pasta per tutti gli italiani sia condizionato, per le accennate condizioni economiche dei nostri prezzi e delle nostre produzioni alimentari, al successo che meno difficilmente e più rapidamente lo stesso Governo potrebbe conseguire, con alcuni ben assestati colpi d’ariete sul meno largo ma pur vulnerabile fronte dei prezzi zootecnici e caseari.

Pressoché in tutta la Valle Padana ed in larghe zone del resto del Paese, il piccolo cosmo dell’azienda agraria è incardinato sulla stalla, e sulla stalla punta l’inflazionismo che caratterizza oggi la forma mentis di milioni di nostri agricoltori. Perduta la fiducia nella moneta e negli investimenti monetari, l’agricoltore, il quale non investe in immobili per timore del fisco, o perché non trova il venditore, o perché pensa di avere la terra a minor prezzo attraverso l’agitazione, fa della propria stalla l’investimento di rifugio dei propri guadagni monetari. Alleva il maggior numero possibile di capi, ne compera a prezzi iperbolici, accaparra mangimi a qualsiasi costo, ha esteso il prato e l’erbaio a detrimento delle colture granarie, destina all’alimentazione del bestiame il raccolto dei mais e forse porzioni non indifferenti di altri cereali macinati clandestinamente ed abburattati a basso tasso. Ciò è spiegato dai rapporti di prezzo: il bestiame d’allevamento come quello da macello, così come il burro e gli altri grassi, sono aumentati nell’ultimo novennio da 100 a 130 volte e più, mentre i cereali sono abitualmente inferiori a tale parametro anche nella cosidetta borsa nera.

L’agricoltore nutre sfiducia nella lira, e là dove l’economia aziendale è incardinata sulla stalla, la stalla diventa il salvadanaio nel quale egli investe a costi di affezione i propri risparmi monetari, quei risparmi che spesse volte gli sono consentiti dall’evasione alla disciplina dei conferimenti.

Noi abbiamo oggi, almeno nella Valle Padana, un sovraccarico notevole di stalle, specialmente per quanto attiene alla popolazione bovina, la quale di certo supera quella pre-bellica. Il supero ritengo che sia così grande da compensare anche i residui vuoti delle zone dove la guerra ha particolarmente indugiato. Tuttavia noi abbiamo una scarsità notevolissima di carne e prezzi altissimi del latte e dei prodotti caseari.

Per le accennate connessioni con la crisi cerealicola, ma soprattutto per la loro medesima ipertensione, i prezzi della carne e dei grassi alimentari costituiscono, a parer mio, il punto sul quale conviene subito incidere all’intento di avviare un’inversione di tendenza dei prezzi annonari. Il bisturi utile a siffatta incisione non può essere che l’acquisto all’estero e l’immissione al consumo interno, a prezzi calmieratori opportunamente controllati dallo Stato, di stocks correttivi della offerta nazionale. I nefasti della sedicente disciplina decisa di nuovo lo scorso autunno per il settore caseario e dei grassi suini, stanno a dimostrare come gli altri bisturi rechino sempre i germi patogeni di ulteriore tumefazione dei prezzi.

Onorevoli colleghi, nell’iperteso nostro mercato alimentare già il solo annuncio di provvedimenti come quelli che andiamo sollecitando può avere favorevoli ripercussioni immediate. Così i brevi cenni contenuti nel discorso dell’onorevole Presidente del Consiglio sono stati commentati dal mercato con un’inflessione delle quotazioni maggiormente tese.

Il prezzo del burro nel mercato all’ingrosso di Milano è sceso. Era sulle 1200-1300 lire, si quota ora a 930-950. Anche il prezzo della carne all’ingrosso è sceso di una settantina di lire al chilo. Sono primi sintomi, direi, che sono degli affidamenti del mercato interno, i quali andrebbero subito consolidati ed amplificati con partite d’importazione, le quali non sarebbero poi straordinariamente ingenti e gravi per la nostra bilancia commerciale: 10.000 tonnellate di polpa bovina congelata, ai prezzi correnti sul mercato argentino ed in quello dei noli, costerebbero circa 6 milioni di dollari, in ragione di circa 60 centesimi al chilo cif  Genova, e potrebbero affluire al consumo italiano ad un prezzo pari all’incirca alla metà degli attuali prezzi interni.

Diecimila tonnellate di polpa bovina riversate sui consumi delle grandi convivenze militari e civili, ed immesse al tesseramento attraverso le Sepral di Milano, Torino e Genova e di ben pochi altri grandi centri industriali, basterebbero a far sì che prima dell’autunno in molti luoghi d’Italia l’agricoltore torni dal mercato rurale traendosi dietro il bue invenduto. La carne diminuirebbe spontaneamente di prezzo anche là dove non giungesse quella d’importazione. Il sopraggiungere dell’autunno, il venir meno dei foraggi estivi, le necessità della cosiddetta rimonta della stalla e sovratutto la forza persuasiva dell’avvenuto ribasso aiuterebbero e prolungherebbero gli effetti calmieratori del colpo d’ariente assestato dall’importazione.

Analogamente è possibile operare al ribasso dei grassi alimentari con importazioni di copra che l’industria nazionale è ora attrezzata a trasformare in ottima margarina con costi che pare rendano già rimunerativo il prezzo di 250-300 lire al chilo. Favorevoli opportunità per importazioni di burro e di formaggi duri, ma congiuntamente con caseina, offre anche il mercato argentino a condizioni che, stante il favorevole prezzo della caseina, rispetto al nostro mercato interno, risultano nel complesso convenienti. Proficui scambi di nostri salumi pregiati sono attuabili contro strutto ed altri grassi, e, ad esempio, la Svizzera offre in baratto tre chili di grassi per ogni chilo di salame nostro.

L’inversione della tendenza dei prezzi eliminerà anche gran parte degli inconvenienti che tuttora si lamentano negli organi di distribuzione, perché ritengo che nessuna circostanza meglio della tendenza al ribasso dei prezzi valga a garantire l’onestà delle categorie commerciali nella distribuzione delle merci. Io credo che se il Governo, secondo l’annuncio dato quasi per inciso nelle sue dichiarazioni, affronterà questi problemi con l’indirizzo dianzi caldeggiato, riuscirà presto a dare quei tali indici segnalatori i quali consolideranno quella fiducia che il Paese ha già spontaneamente fornito, fidente nei nuovi orientamenti della politica monetaria ed economica del Paese.

Se l’austerità di quest’Aula me lo consentisse, io direi che molto del successo di questo Governo è localizzato nella borsa della spesa delle nostre massaie.

Sugli accennati ultimi settori, con sacrifici di valuta relativamente modesti, è possibile, a parer mio, consolidare degli indici di netta inversione di tendenza dei prezzi annonari. L’inversione decongestionerà le stalle delle aziende agricole, il che da un lato favorirà l’ulteriore ribasso dei prezzi zootecnici e dall’altro favorirà la ripresa della disciplina granaria.

Potenziati i primi indici, invertita la tendenza dei prezzi nei settori particolarmente delicati e tesi, sarà possibile puntare efficacemente su fronti più vasti per un ulteriore compressione dei fattori inflazionistici.

In questo secondo tempo della lotta uno strumento, a parer mio, efficacissimo, dovrebbe essere il controllo del credito: ed in ciò convengo con talune tesi espresse dai settori di sinistra di questa Assemblea.

Le banche sono state indotte, per le ragioni già dianzi accennate, a finanziare largamente la politica di magazzino. Non è vero che in Italia i magazzini siano vuoti. Sempre in conseguenza della tendenza svalutatrice della lira, i nostri magazzini sono in genere ben riforniti, ed in taluni settori si dice che siano addirittura intasati. Non c’è polizia che sappia stanare le merci dai magazzini meglio della tendenza dei prezzi al ribasso: tale tendenza, nel quadro di una politica generale di governo intesa a salvare la moneta può essere efficacemente amplificata da restrizioni del credito le quali secondino lo sfollamento dei magazzini e l’afflusso al consumo.

Le banche stesse, ripeto, attraverso il consolidamento della moneta sarebbero distolte da certi impieghi cui furono indotte dalla precedente fase inflazionista. Ma un ben congegnato controllo statale sulla destinazione dei finanziamenti bancari può conferire al governo uno strumento potente d’indiretto controllo della produzione e degli scambi e quindi dei prezzi. A misura che l’opera del governo riuscirà a diffondere da un settore all’altro la stasi dei prezzi, e poi l’inversione di tendenza, anche il residuo sistema di controllo statale con assegnazioni e vincoli diretti riprenderà mordente e, se coraggiosamente potato di ogni bardatura superflua, potrà veramente servire al bene comune.

Non dunque sottintesi o contradizioni o visioni unilaterali o compromessi o baratti, come si accennava da qualche precedente oratore, sono l’antefatto, il substrato, su cui poggia il programma del governo. Siamo partiti dal rifiuto di certi strumenti come non efficaci per affermare la priorità strumentale dei mezzi finanziari e monetari e ritorniamo ora agli strumenti dei quali in principio criticammo gli abusi e sottolineammo le disfunzioni.

Ecco, onorevole Foa, in che consiste l’armonia del programma di governo, e, attraverso questa sua armonia logica ed economica, la sincerità di quel programma, il quale, a parer mio ha chiare possibilità di successo, di quel successo che, evidentemente, è un mio augurio. (Applausi Molte congratulazioni).

PRESIDENTE. Il seguito della discussione è rinviato alle 16.

La seduta termina alle 13.5.