Come nasce la Costituzione

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ANTIMERIDIANA DI SABATO 25 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

19.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI SABATO 25 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Comunicazione del Presidente

Presidente.

Divieto di stampa e di altre manifestazioni di pensiero a tutela della morale pubblica

Presidente – Nobile – Lussu – Merlin Umberto – Moro – Terracini – Lucifero – Tupini – Fabbri – Giua – La Rocca– Rossi Paolo – Codacci Pisanelli – Laconi – Dominedò – Cevolotto – Perassi – De Vita.

Divieto di concessione e di uso di titoli nobiliari

Presidente – Nobile – Grieco – Lucifero – Moro – Mannironi – Terracini – Lussu – Perassi – Targetti – Laconi – Fabbri.

Tutela della salute e igiene pubblica

Presidente.

Responsabilità penale e pene

Presidente – Nobile – Cevolotto – Bozzi – Rossi Paolo – Moro – Targetti – Bulloni – Tupini – Fuschini –Terracini – Grassi – Cevolotto – Mastrojanni – Dominedò – Lussu.

La seduta comincia alle 10.30.

Comunicazione del Presidente.

PRESIDENTE comunica che, in sostituzione degli onorevoli Caristia e Vanoni, sono stati chiamati a far parte della Commissione gli onorevoli Froggio e Gotelli Angela.

Divieto di stampa e di altre manifestazioni di pensiero a tutela della morale pubblica.

 

PRESIDENTE avverte che occorre esaminare l’ultimo comma dell’articolo 15 delle Disposizioni generali, nel testo approvato dal Comitato di redazione:

«A tutela della morale pubblica e contro le oscenità, la legge può consentire misure preventive e limitazioni per le manifestazioni di pensiero compiute con la stampa e con altri mezzi di diffusione».

Gli onorevoli Nobile e Terracini hanno proposto di sostituire il comma col seguente:

«Sono vietate la stampa e la diffusione di giornali, riviste e libri pornografici. La legge stabilirà a tale scopo le misure adeguate».

L’onorevole Lussu ha poi proposto di sopprimere le parole: «e contro le oscenità».

NOBILE non è per spirito di puritanismo che egli ed il collega Terracini si sono indotti a presentare questo emendamento. In questi anni di dopoguerra si è verificato un vero dilagare di stampa pornografica: giornali, riviste, libri, il cui successo finanziario riposa sull’attrazione maggiore o minore che essi esercitano sugli istinti più bassi dell’uomo. È questo veramente uno dei cattivi usi che il popolo italiano ha fatto e fa della riconquistata libertà. In un periodo di tempo in cui non si stampavano libri scolastici per mancanza di carta, la carta si trovava invece in abbondanza per siffatte sconce pubblicazioni.

Come italiano si è sentito umiliato che un Paese di antica e grande civiltà, e per di più cattolico, sia, in questo campo, superato da altri Paesi, come, ad esempio dalla Russia sovietica. Perché in Russia, per quello che gli consta personalmente, non si ha alcun esempio di libri, riviste o giornali pornografici, e nemmeno di spettacoli scurrili teatrali o cinematografici.

Si dirà che sarebbe stata sufficiente la formula proposta dal Comitato di redazione, che prevede la possibilità di misure restrittive. Ma gli sembra che se nella Costituzione si parla di oscenità e pornografia, se ne deve parlare soltanto per condannare e proibire tassativamente.

L’onorevole Mortati ha giustamente osservato in altra occasione che la Costituzione deve avere anche un carattere pedagogico e deve riflettere la situazione attuale del Paese.

Egli e il collega Terracini vogliono che la Costituzione stabilisca una norma, la quale dica chiaramente che la Repubblica italiana non tollererà che la privata iniziativa si possa esplicare in imprese pubblicistiche che cerchino facili guadagni corrompendo e depravando la gioventù.

Confida, dunque, che la Commissione vorrà approvare l’emendamento presentato; e ad ogni modo chiede che esso sia votato per appello nominale.

LUSSU non vede l’opportunità che nella Costituzione si parli di oscenità, di pornografia, come non si parla di tratta delle bianche, di prostituzione, di borsa nera. Sono stati introdotti nel progetto elementi che daranno luogo senza dubbio a critiche. Pensa, in sostanza, che la dizione: «a tutela della morale pubblica» sia sufficiente e risponda alle esigenze morali che tutti sentono.

MERLIN UMBERTO dichiara di essere favorevole all’emendamento presentato dagli onorevoli Nobile e Terracini, anzitutto per la forma precisa del divieto. Una Costituzione deve essere letta, intesa subito da tutti, con chiarezza. Quanto alla opportunità di tale norma rileva che oggi in Italia si stampano quarantadue riviste pornografiche – il calcolo è stato fatto da un giornalista di «Civiltà Cattolica» – una peggiore dell’altra, con illustrazioni addirittura oscene. Se qualcuno avesse la pazienza di mettersi vicino ad un’edicola per osservare chi sono gli acquirenti di queste riviste pornografiche, vedrebbe che sono purtroppo per lo più giovinette e giovinetti delle scuole medie, i quali leggono poi avidamente quelle riviste e se le rubano l’uno con l’altro. Qui non è questione di libertà, ma di licenza: esclude in modo assoluto che qualcuno possa ammettere l’esistenza di queste riviste che non hanno alcun pregio dal punto di vista dell’arte, e che portano conseguenze esiziali per la gioventù, eccitandone i sensi ed insegnando le peggiori brutture. Ritiene pertanto che la formula degli onorevoli Nobile e Terracini interpreti pienamente, sotto questo riguardo, l’aspettativa del Paese.

Osserva soltanto che qui si parla esclusivamente di stampa e diffusione di giornali, riviste e libri pornografici. Siccome vi possono essere altri mezzi di diffusione, pensa che si debba trovare una formula più comprensiva. Non si possono ammettere, per esempio, spettacoli cinematografici immorali. Quindi si riserva di proporre un emendamento aggiuntivo.

MORO accetta sostanzialmente l’emendamento presentato dagli onorevoli Terracini e Nobile, in quanto corrisponde alla esigenza chiara ed urgente di porre un freno alla stampa pornografica e agli spettacoli osceni. L’onorevole Lussu vorrebbe che non si parlasse di queste cose cattive; ma, purtroppo, nella vita esistono ed è compito della legge di reprimerle.

Accoglie altresì la proposta dell’onorevole Merlin di estendere il divieto ad altre manifestazioni. Osserva però che non si tratta soltanto di stabilire il carattere illecito della stampa pornografica; bisogna dare alla pubblica sicurezza la possibilità di reprimerla drasticamente, impedendo che queste licenziose manifestazioni raggiungano il loro effetto nei confronti del pubblico. Pensa pertanto che non sarebbe soddisfatta l’esigenza altamente morale, di cui si sono fatti espressione gli onorevoli Nobile e Terracini, se non si stabilissero criteri molto precisi per realizzare, almeno con il sequestro preventivo, lo scopo cui si tende.

TERRACINI, a proposito delle osservazioni che sono state mosse allo scopo di adeguare l’emendamento proposto ad altre forme di manifestazione del pensiero, pensa che si potrebbe adottare questa formula: «La legge stabilirà, a tale scopo, le misure adeguate, disponendo misure preventive e limitazioni nei confronti di altri mezzi di diffusione». Si riprenderebbe in tal modo la formulazione precisa proposta dalla prima Sottocommissione.

NOBILE propone di aggiungere al comma: «Sono altresì vietate le altre manifestazioni di oscenità».

LUCIFERO ricorda che già in sede di Sottocommissione votò contro il comma in esame e non già perché non sia perfettamente d’accordo che le oscenità vadano vietate; ma perché ricorda, come nel caso di Madame Bovary, che vere opere d’arte, le quali non avevano nulla di immorale, furono bollate con questo mezzo. Ora, l’emendamento dell’onorevole Terracini aggrava sempre di più la questione. Si associa, pertanto, alla proposta dell’onorevole Lussu.

TUPINI, senza ripetere le ragioni che il collega Merlin e il collega Moro hanno addotto a favore dell’emendamento proposto dagli onorevoli Nobile e Terracini, né quelle per le quali essi hanno invocato un’integrazione della formula, propone che la prima parte del comma proposto sia così completata: «Sono vietate la stampa e la diffusione di giornali, riviste e libri pornografici ed ogni altra forma di manifestazione contraria alla pubblica moralità».

FABBRI chiede quali provvedimenti siano previsti contro i divieti abusivi.

PRESIDENTE. La legge stabilirà a tale scopo le misure adeguate.

FABBRI osserva che contro le pubblicazioni di cui si parla nel comma sarebbero previste misure preventive: occorrerebbe, quindi, l’imprimatur per i libri!

Dichiara di essere contrario non solo all’emendamento, ma anche al testo proposto.

GIUA riconosce che si trova in una posizione difficile, dovendo opporsi all’emendamento, poiché dal punto di vista morale è pienamente d’accordo con tutti i Commissari. In realtà non si tratta di discutere di morale; si preoccupa piuttosto che nell’emendamento si accenna ai libri. Ora un uomo della sensibilità dell’onorevole Terracini dovrebbe rendersi conto delle conseguenze che una norma di tal genere avrebbe nei confronti di tutta la letteratura passata. Ha pensato l’onorevole Terracini all’impossibilità per uno studioso di consultare una edizione completa del Decamerone? Evidentemente, qualora si approvi la formula proposta, non solo i libri che si pubblicheranno, ma anche quelli pubblicati, devono essere messi fuori circolazione, o anche distrutti completamente. Come si può pensare, d’altra parte, di annullare alcuni periodi storici nei quali si sia manifestata, sia pure in forma patologica, l’arte di alcuni autori?

Pensa, in conclusione, che si debbano vietare soltanto i giornali e le riviste.

LA ROCCA pensa che non si debba confondere l’arte con la pornografia, che devono essere tenute nettamente distinte. Ricorda che Flaubert, in una lettera a Maupassant a proposito di un processo intentato contro quest’ultimo per una famosa novella, scrisse una frase che, a suo parere, decide la questione: «La poesia, come il sole, mette dell’oro anche sul letamaio». Non bisogna confondere l’arte con la sua degenerazione. Non intende parlare dell’Orlando Furioso, né delle novelle del Boccaccio o di tutta la novellistica della Rinascita, che è espressione schietta della vita italiana di quel tempo. Egli va oltre: potrebbe dire della Mandragola di Machiavelli, o addirittura di certe pagine dell’Aretino, ricche d’immagini così plastiche e carnali e che tuttavia, a chi è fornito di senso estetico, non sentono di pornografia. Si tratta di due cose nettamente distinte. La pornografia alla quale accenna l’emendamento è eccitamento per l’eccitamento, è pervertimento. Su questo punto bisogna essere nettamente contrari. Ma occorre anche badare a non imbavagliale l’arte, solo perché vi sono dei nasi a cui puzzano le rose e le viole.

Diversamente, bisognerebbe mettere sotto il moggio il meglio, forse, della letteratura greca e di quella latina, e occorrerebbe avere degli scrupoli avanti di entrare in una galleria o in un museo. Non la materia sensuale è pericolosa; è il modo di sentirla e di trattarla.

ROSSI PAOLO non crede che la distinzione tra l’arte e la pornografia sia facile; si tratta, al contrario, di una questione che ha affaticato le menti superiori in tutte le epoche. Vi è una tale confusione fra pornografia e arte che anche oggi, dopo secoli, di fronte a talune opere, nessun giudice è in grado di dire se si tratti di pornografia o di arte.

Ricorda soltanto il ridicolo di cui si coperse l’intera Francia ufficiale non solo con il processo Flaubert, ma con il processo Baudelaire, che fu il più grande poeta del secolo scorso in Francia e che fu condannato.

Ora non si preoccupa tanto dell’emendamento, perché pornografia e oscenità possono trovare una definizione giuridica la cui applicazione dovrebbe essere lasciata alla sapienza e al senso estetico dei commissari di pubblica sicurezza; ma del fatto che nel testo non si parla soltanto di oscenità, ma si parla di tutela della morale pubblica.

È poi da considerare la gravità della questione sotto un altro profilo: vi sono dei Paesi, per esempio la Svizzera, dove è stata proibita nei Cantoni la diffusione delle teorie marxiste, perché considerate immorali. Richiama quindi l’attenzione sulla gravità del problema che la Commissione è chiamata a risolvere.

CODACCI PISANELLI pensa che si potrebbe richiamare un vecchio concetto molto diffuso nei precedenti legislativi, usando l’espressione: «ed ogni altra forma di manifestazione contraria al buon costume».

LA ROCCA osserva che l’espressione «buon costume» può dar luogo ad arbitrio.

LACONI pensa che le considerazioni esposte da alcuni colleghi per quanto riguarda i libri siano fondate. Gli esempi addotti non sono, a suo parere, molto felici, perché, riferendosi ad opere del passato, portano ad escludere istintivamente tali opere che sono decorate dalla qualifica dell’arte. È invece da considerare tutta la letteratura moderna, contemporanea. È noto che molte opere della letteratura francese possono essere introdotte in Italia soltanto nella lingua originale e non nella traduzione integrale. Ritiene pertanto sia preferibile introdurre il concetto dello scopo che porta gli autori a scrivere in un determinato modo, per distinguere le pubblicazioni che hanno fine artistico e culturale dalle altre che hanno scopi di eccitazioni dei sensi.

NOBILE formulerebbe il comma nel seguente modo:

«Sono vietate la stampa e la diffusione di giornali, riviste e libri pornografici. Sono altresì vietate tutte le altre forme di manifestazione pornografica a scopo di speculazione, compresi i libri».

DOMINEDÒ pensa che sia opportuno affidare al Comitato di redazione la stesura dell’articolo, perché vi è qualche aspetto della dizione che può suscitare delle perplessità.

ROSSI PAOLO propone, in via pregiudiziale, la soppressione del comma in esame.

LUCIFERO dichiara di associarsi.

CEVOLOTTO dichiara di essere favorevole alla proposta e si associa alle osservazioni dell’onorevole Rossi. In realtà si sta commettendo l’errore di introdurre nella Costituzione tutto quello che dovrebbe formare oggetto di leggi particolari. Vi è una situazione di stampa pornografica in questo momento, ed è sperabile che sia transitoria, come vi è una esplosione di criminalità contro le persone, che ha anch’essa un carattere contingente; ma ciò non vuol dire che se ne debba tener conto nella Costituzione.

FABBRI voterà per la proposta di soppressione, anche perché è già previsto il sequestro preventivo delle pubblicazioni senza bisogno dell’autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, ma che deve essere seguito da un regolare giudizio. Non vede pertanto la necessità di introdurre nella Costituzione una norma che non sarebbe rispondente ad un ordinamento libero di stampa.

NOBILE chiede la votazione per appello nominale.

PERASSI si associa alle osservazioni fatte dagli onorevoli Cevolotto e Fabbri.

DE VITA si associa.

LUSSU voterà in favore della soppressione del comma.

LA ROCCA è favorevole alla soppressione.

MORO dichiara di votare contro la proposta di soppressione.

PRESIDENTE pone ai voti per appello nominale la proposta di soppressione dell’ultimo comma dell’articolo 15.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Bocconi, Cevolotto, De Vita, Fabbri, Farini, Finocchiaro Aprile, Giua, Lami Starnuti, La Rocca, Lucifero, Lussu, Mancini, Mastrojanni, Rossi Paolo, Targetti.

Rispondono no: Ambrosini, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Dominedò, Federici Maria, Fuschini, Gotelli Angela, Grieco, Laconi, La Pira, Mannironi, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Ravagnan, Ruini, Taviani, Terracini, Tosato, Tupini, Uberti.

Si astengono: Bozzi, Marinaro, Perassi.

Comunica il risultato della votazione nominale:

Presenti e votanti     44

Voti favorevoli        15

Voti contrari                        26

Astenuti                    3

(La Commissione non approva).

Si potrebbe ora, come ha proposto l’onorevole Dominedò, affidare al Comitato di redazione la stesura di una norma, che la Commissione esaminerà.

(Così rimane stabilito).

Divieto di concessione e di uso di titoli mobiliari.

PRESIDENTE avverte che vi è da esaminare il secondo comma dell’articolo 16, cosi formulato:

«È vietata la concessione di titoli nobiliari. I predicati di quelli attualmente esistenti valgono soltanto come parte del nome».

L’onorevole Nobile propone che si dica: «È vietata la concessione e l’uso dei titoli nobiliari».

NOBILE non avrebbe immaginato, quando ha presentato questo emendamento, di sollevare una così vivace reazione; a giudicare dai commenti della stampa ed anche da qualche telefonata anonima giuntagli, ritiene di aver messo le mani in un vespaio. Dichiara che non ha nulla contro i quarantamila gentiluomini che sono iscritti nel Libro d’oro che la Consulta araldica pubblica, come è noto, a spese dell’erario; e non ha nemmeno nulla contro gli altri, assai più numerosi, che, pur non avendo l’onore di comparire in quell’aureo libro, tuttavia si compiacciono di fregiarsi di titoli altisonanti. Non gli preme affatto che uno si faccia chiamare visconte, o marchese, o duca, o principe, o magari grande di Spagna, o conte palatino.

Se la prima Sottocommissione avesse taciuto su questo argomento, non se ne sarebbe meravigliato e non avrebbe trovato nulla da ridire, perché è convinto che quel fondamentale rinnovamento del nostro Paese, che pur deve avvenire, spazzerà via come cosa morta tutte queste cianfrusaglie di titoli ed orpelli da salotto. Ma la Sottocommissione ha sentito il bisogno di occuparsene; essa ha creduto di vietare che la Repubblica democratica possa, niente di meno, seguendo l’andazzo dei tempi fascisti, concedere titoli nobiliari. Un tale divieto è perfino superfluo, perché sarebbe veramente ridicolo ed assurdo che ad una Repubblica, e ad una Repubblica fondata a metà del secolo ventesimo, fosse riconosciuta tale facoltà. Ma allora è ovvio che si debba aggiungere il divieto altresì dell’uso dei titoli esistenti, perché, se questo non avvenisse, si giungerebbe alla conclusione assurda di conferire un maggior valore a quelli elargiti con tanta generosità dal fascismo. I vari conti, marchesi, duchi e principi creati da Mussolini sarebbero invero riconoscenti della sicurezza loro data dalla Costituzione che altri non possono aggiungersi nel Libro d’oro della nobiltà italiana. Questo certamente non era, e non è, nelle intenzioni della Sottocommissione che ha formulato questa norma costituzionale, e perciò gli è sembrato ovvio che si dovesse aggiungere che, non solo è vietato concedere nuovi titoli, ma anche usare quelli esistenti.

Purtroppo vi è ancora tanto spagnolismo nel sangue e nei costumi italiani che sarebbe davvero ora di fare uno sforzo per liberarsene. In Italia chi non è eccellenza, o onorevole, o duca, o marchese, o commendatore, o magari cavaliere, è davvero un pover’uomo. Sarebbe ora che si usassero esclusivamente quei titoli che sono conquista della propria attività e che in tal senso sono i soli che veramente siano onorifici. In Italia si è giunti a questo anacronismo, che esiste un solenne organismo ufficiale, la Consulta araldica, che si occupa della nobiltà, e nientemeno essa è presieduta dal Primo Ministro. Non riesce davvero ad immaginarsi che il Capo del Governo di una Repubblica fondata essenzialmente sul lavoro, come è stato dichiarato in un articolo già approvato, si debba occupare di cose che, piaccia o non piaccia, sono un avanzo di tempi feudali.

Questa Consulta araldica è una cosa seria come è organizzata: è costituita da quattordici Consultori ed ha alle proprie dipendenze ben dodici Commissioni regionali: servizio importante se si deve giudicare dalle numerose pubblicazioni da essa edite. Non si è voluto chiamare la Repubblica «Repubblica dei lavoratori», ma nemmeno si può ammettere che essa diventi Repubblica di nobili. In pieno regime fascista, nel 1929, si poteva leggere nella «Rivista Araldica» che la nobiltà italiana doveva nientemeno essere considerata come un vero e proprio corpo giuridico e morale, con funzioni e prerogative speciali, e come conseguenza si chiedeva che essa avesse il suo posto di diritto e di fatto nei gradi supremi dello Stato e della società nazionale, e si invocavano a tale scopo provvidenze morali ed economiche. Una tale richiesta era la logica conseguenza di ciò che aveva dichiarato Mussolini nella sua relazione al re sull’ordinamento dello stato nobiliare italiano, ordinamento che i nobili italiani considerano come la Carta costituzionale della nobiltà italiana.

«Questo nuovo ordinamento – diceva Mussolini nella relazione – costituirà uno strumento validissimo per la maggiore elevazione spirituale e morale dell’aristocrazia italiana, la quale, attraverso una gloriosa storia millenaria, conserva le più elette virtù della stirpe e continua a tenere il primo posto nell’ascensione della Patria ai più alti destini».

Quello che le famiglie nobili italiane hanno fatto nei secoli scorsi è compito della storia di stabilire e ricordare; ma i discendenti di quelle famiglie l’Italia democratica del secolo ventesimo li deve giudicare per quello che essi daranno di contributo alla vita politica e sociale del Paese.

Confida che l’aggiunta proposta sia approvata dalla Commissione; ma nel caso che la proposta non fosse accolta, chiederà che sia messo in votazione, per appello nominale, un altro emendamento che presenta in via subordinata e che suona cosi: «Tutti i titoli nobiliari concessi dal Governo fascista sono abrogati. Una legge sancirà pene contro chi ne faccia uso».

PRESIDENTE, circa la questione della Consulta araldica, ricorda all’onorevole Nobile che si era deciso che il problema sarebbe stato trattato nella discussione delle norme transitorie.

GRIECO dichiara di non essere favorevole all’emendamento dell’onorevole Nobile, ritenendo che la norma proposta dal Comitato di redazione sia più che sufficiente. Quando si dice che «è vietata la concessione di titoli nobiliari», è evidente che, come logica conseguenza, si arriverà alla soppressione della Consulta araldica, e basterà che se ne occupino le disposizioni transitorie.

All’onorevole Nobile dispiace che vi sia della gente la quale faccia uso di titoli nobiliari; ma se un cittadino italiano ama farsi chiamare principe, ciò rappresenta una piccola vanità, un trastullo, e fra le libertà che sono state conquistate vi è anche quella di trastullarsi, senza che per questo sia necessario introdurre un divieto nella Costituzione. Forse l’onorevole Nobile è preoccupato della inflazione di titoli nobiliari nel Mezzogiorno, in gran parte forse non legittimi ai tempi in cui la verifica della legittimità nobiliare era in uso; ma si tratta di un problema di costume politico.

Si consideri, poi, che ad un eventuale divieto dovrebbe corrispondere una sanzione. Ed allora, che cosa succederebbe in Italia? Sarebbe una cosa difficile perseguire i contravventori di questa norma costituzionale.

LUCIFERO non si preoccupa eccessivamente dell’una o dell’altra formula, convinto come è che la storia non si cancella. Vorrebbe soltanto fare una osservazione di carattere tecnico, cioè che la Repubblica non potrebbe mai concedere titoli nobiliari, perché questa concessione è un residuo storico, è un fatto feudale. Quindi il pericolo di questa concessione non esiste, perché manca nella Repubblica la possibilità di dare titoli.

Quanto all’uso, alla proibizione o non proibizione, occorre considerare – come è accaduto in Francia – che si tratta di disposizioni che nella pratica sono difficilmente applicabili; e ciò esautora non quella determinata legge, ma la legge in generale. Siano o no aboliti i titoli nobiliari, pensa che non si sposti nulla nella realtà dei fatti, perché la tradizione storica impegna le persone sulla via più difficile, non sulla più facile.

MORO richiama l’attenzione sul fatto che il divieto dell’uso dei titoli nobiliari, senza che vi sia una sanzione, creerebbe una situazione per la quale si manifesta inopportuno l’emendamento Nobile. In sostanza, con la formula adottata, dopo lunga discussione, nella prima Sottocommissione, si è voluto soltanto, del titolo nobiliare, garantire il nome, come una applicazione particolare del principio generale sancito per cui il diritto al nome è costituzionalmente garantito. Si è voluto, in fondo, che il predicato del titolo nobiliare, che è nome, sia garantito come parte del nome. Ora, se si vuole stabilire una norma che abolisca la Consulta araldica, demandando la tutela del nome alle norme generali, non ha alcuna difficoltà che sia posta nelle disposizioni finali della Costituzione.

MANNIRONI, poiché ritiene che la materia non debba far parte della Costituzione, propone che il secondo comma dell’articolo 16 sia soppresso.

NOBILE chiarisce che non avrebbe sollevato la questione, se il secondo comma dell’articolo 16, così come è stato formulato, non si risolvesse in una valorizzazione dei titoli elargiti dal Governo fascista.

TERRACINI dichiara che voterà contro la soppressione, poiché ritiene che questa disposizione, come alcune altre del testo costituzionale, che in altri ambienti storici e politici potrebbero apparire superflue, siano necessarie proprio per il loro valore storico e politico.

LUSSU dichiara di essere contrario alla soppressione della norma, ma prega il Comitato di redazione di trovare una formulazione più chiara. Si parla di «predicati», termine non facilmente intelligibile da tutti.

PRESIDENTE ricorda che la formula adottata aveva raccolto l’adesione delle varie correnti sia in sede di Sottocommissione, che di Comitato di redazione. Ad ogni modo si potrebbe modificare.

Pone ora ai voti la proposta di soppressione del secondo comma.

(Non è approvata).

PERASSI sopprimerebbe la prima parte del secondo comma: «È vietata la concessione di titoli nobiliari», che non ritiene necessaria, formulando il comma stesso nel seguente modo: «I predicati dei titoli nobiliari attualmente esistenti valgono soltanto come parte del nome».

PRESIDENTE osserva che si tratta di un nuovo emendamento.

Pone intanto ai voti l’emendamento Nobile.

TARGETTI dichiara di votare contro l’emendamento, riservandosi, però, di proporre, fra le norme transitorie, la dichiarazione di nullità di tutti i titoli nobiliari concessi dal regime fascista.

LACONI, pur votando contro l’emendamento Nobile, ritiene che debba essere non soltanto vietata la concessione di nuovi titoli nobiliari, ma anche il riconoscimento da parte della Repubblica di quelli esistenti. Pensa che questa seconda parte sia implicita nell’abolizione della Consulta araldica, che sarà stabilita nelle norme transitorie.

PRESIDENTE mette in votazione l’emendamento Nobile.

(Non è approvato).

PERASSI pensa che sia da escludere che la Repubblica possa concedere titoli nobiliari. Si potrebbe, pertanto, sopprimere la prima parte del comma, adottando la formula: «I predicati dei titoli nobiliari attualmente esistenti valgono soltanto come parte del nome».

TERRACINI osserva che il significato dell’emendamento Perassi è che, non essendo stato indicato alcuno che abbia la competenza di concedere i titoli, manchi l’esercizio di questa facoltà. Ora, se è vero che nel passato il diritto di concedere titoli era riconosciuto al re, e che nelle attribuzioni del Presidente della Repubblica non si è accennato a nulla di analogo, resta sempre la possibilità che domani, per iniziativa parlamentare o del Governo repubblicano, si presenti un progetto di legge che conceda il titolo nobiliare ad una determinata persona, per speciali benemerenze. Occorre pertanto stabilire che non è possibile una tale concessione e che quindi iniziative legislative di questo genere non possono essere ammesse. Ritiene quindi che la prima parte del comma debba essere mantenuta.

MORO si associa alle osservazioni dell’onorevole Terracini.

LUCIFERO osserva che non vi è più in Italia l’autorità che possa dare titoli nobiliari. Vorrebbe evitare che nella Costituzione si riscontrassero delle inesattezze tecniche. Crede quindi che la proposta dell’onorevole Perassi sia giustissima proprio dal punto di vista tecnico e darà voto favorevole.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Perassi di sopprimere l’espressione: «È vietata la concessione di titoli nobiliari» e lasciare la formula: «I predicati dei titoli nobiliari attualmente esistenti valgono soltanto come parte del nome».

(La proposta è approvata).

NOBILE dichiara che lo scopo del suo intervento non riguarda i vecchi titoli nobiliari, ma quelli creati dal fascismo. Perciò ha presentato, in via subordinata, il seguente emendamento, che può essere inserito tra le disposizioni transitorie:

«Tutti i titoli nobiliari concessi dal governo fascista sono abrogati. Una legge sancisce pene contro chi ne faccia uso».

LACONI ritiene che il secondo comma, con la soppressione della prima parte, debba essere fuso con l’articolo già previsto nelle norme transitorie per l’abolizione della Consulta araldica. Conseguentemente potrà parlarsi di abolizione dei titoli nobiliari concessi dal fascismo.

NOBILE non crede che abolendo la Consulta araldica cadano i titoli nobiliari concessi dal fascismo.

FABBRI pensa che il secondo comma trovi la propria sede opportuna nell’articolo 16. Essendosi nel primo comma affermato che nessuno può essere privato per motivi politici del proprio nome, si specifica in che modo si deve intendere il predicato dei titoli nobiliari attualmente esistenti.

È poi favorevole ad una disposizione, da inserire fra le norme transitorie, in base alla quale siano soppressi i titoli nobiliari concessi in regime fascista, poiché egli ritiene che in quel periodo le funzioni del re siano state obliterate dalle passioni popolari del fascismo.

MORO è d’accordo che occorra una disposizione per abolire i titoli nobiliari concessi dal fascismo; però non nasconde una certa ripugnanza a che una norma di tal genere compaia nella Costituzione, per quanto vi siano disposizioni finali che si riferiscono a fatti contingenti.

LACONI pensa che con la introduzione della norma proposta dall’onorevole Nobile si venga ad ammettere un riconoscimento dei titoli nobiliari da parte dello Stato. Ora è stato ammesso che non vi possa essere concessione di titoli del genere da parte dello Stato repubblicano. Resta la questione del riconoscimento o meno dei titoli esistenti, questione che si risolve attraverso l’abolizione della Consulta araldica e con la specificazione che i predicati attualmente esistenti sono considerati soltanto come parte del nome. Conseguentemente si potrà stabilire l’abolizione dei titoli nobiliari concessi dal fascismo.

PRESIDENTE. Come è stato rilevato, l’emendamento dell’onorevole Nobile per l’abolizione dei titoli nobiliari concessi dal fascismo fa sorgere il dubbio che tutti gli altri titoli abbiano ancora vigore; mentre lo spirito della disposizione approvata, sia pure nella forma più ellittica dell’onorevole Perassi, è che i titoli del passato non valgono più come titoli nobiliari. Pensa pertanto che la questione dei titoli nobiliari fascisti possa essere regolata, con opportuna norma, in sede transitoria. L’onorevole Laconi sostiene, d’altra parte, che ridotta la disposizione alla formula che riguarda soltanto i predicati dei titoli nobiliari, è opportuno che sia messa in relazione a tutto ciò che riguarda il riconoscimento dei titoli nobiliari in sede di Consulta araldica.

NOBILE non ha difficoltà a rimettere la sua proposta al Comitato di redazione perché trovi la formula opportuna che si ispiri al concetto da lui sostenuto.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di rinviare la questione al Comitato perché esamini quali norme potranno essere introdotte, sentiti naturalmente i proponenti, onorevoli Nobile e Laconi.

(La proposta è approvata).

Tutela della salute e igiene pubblica.

PRESIDENTE avverte che il Comitato di redazione è stato officiato dai colleghi che fanno parte del gruppo parlamentare medico di prendere in esame alcune disposizioni relative alla tutela della salute e dell’igiene pubblica.

L’onorevole Ambrosini ha, in proposito, proposto di inserire dopo l’articolo 16 i seguenti tre articoli:

  1. – «Lo Stato tutela la salute come un diritto essenziale e fondamentale di ogni essere umano e come interesse della collettività; promuove lo sviluppo della coscienza igienica; assicura le condizioni necessarie perché l’assistenza sanitaria si effettui in modo adeguato per tutti».
  2. – «Lo Stato assolve tali compiti per mezzo dei sanitari, mediante appositi istituti di previdenza facenti capo ad un unico organo centrale tecnico-sanitario, distinto dagli altri organi del potere esecutivo».
  3. – «Nessun cittadino può essere sottoposto a pratiche sanitarie non autorizzate dalla legge; la quale non potrà mai consentire che le pratiche sanitarie siano esplicate oltre i limiti imposti dal rispetto della personalità umana».

Pensa che sia opportuno rinviare la questione all’esame del Comitato di redazione.

(Così rimane stabilito).

Responsabilità penale e pene.

PRESIDENTE passa all’esame dell’articolo 19, così formulato:

«Nessuno può essere distolto dal suo giudice naturale, precostituito per legge; né può essere punito se non in virtù di una legge già in vigore prima del fatto commesso e con la pena in essa prevista, salvo che la legge posteriore sia più favorevole al reo».

L’onorevole Leone Giovanni ha proposto di dividere l’articolo in due commi, trattandosi di concetti ben distinti. Si tratta di concetti che hanno un valore attuale, dopo le dolorose esperienze fatte in tanti anni.

Pensa che la proposta possa essere accolta.

(È approvata).

Segue l’articolo 20, del seguente tenore:

«La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole, fino alla condanna definitiva.

«Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato e non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani.

«Non è ammessa la pena di morte. Possono far eccezione soltanto i Codici militari di guerra».

Gli onorevoli Nobile e Terracini hanno proposto di sostituire gli ultimi due commi con i seguenti:

«Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società.

«Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di quindici anni.

«La pena di morte potrà essere ammessa solo nei Codici militari, limitatamente al periodo di guerra; ed eccezionalmente anche per reati comuni, nel caso di omicidi efferati che sollevino la pubblica indignazione».

L’onorevole Lussu ha poi proposto di sopprimere l’ultimo comma che prevede l’abolizione della pena di morte. Crede pertanto che egli intenda riammettere tale pena.

Seguono alcuni emendamenti proposti dall’onorevole Leone Giovanni:

Il primo ha un valore puramente formale; egli propone infatti di sostituire le parole: «e non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani» con le seguenti: «e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

Col secondo emendamento propone che la pena di morte sia abolita soltanto per i reati politici.

Col terzo emendamento propone di aggiungere all’articolo il seguente comma: «La detenzione preventiva è ammessa solo per i delitti più gravi e non può ledere la dignità della persona umana».

Si presenta anzitutto la questione delle pene. Si propone cioè di sostituire al divieto delle pene crudeli e disumane, la formula che: «le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana. Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società». A questo proposito vi è l’emendamento di forma dell’onorevole Leone: «e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

NOBILE. È sembrato che parlare di «trattamenti crudeli e disumani» dia quasi il pretesto per usarli, e ritiene perciò molto più rispondente ed ampia la formula: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana».

Nell’articolo proposto dal Comitato di redazione si dice che: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Ha creduto di dire in modo più chiaro ed esplicito: «Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società».

CEVOLOTTO intende chiarire perché – a parte le formule che possono essere accettate o meno – in seno alla prima Sottocommissione non si è voluto risolvere la questione della finalità della pena. La pena ha – secondo alcuni – un fine di intimidazione; secondo altri, un fine di prevenzione; secondo altri ancora, deve avere soltanto il fine della rieducazione del colpevole. Si è voluto evitare di accettare nella Costituzione una di queste teorie, trattandosi di materia di Codice penale. Ecco perché si è usata la parola: «tendere»; perché si è voluto dire, in un senso altamente sociale e umano, che una delle finalità della pena in tutti i casi deve essere la rieducazione del condannato.

BOZZI pensa che la formula proposta dagli onorevoli Nobile e Terracini non sia molto felice, perché il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Ora il concetto che si deve esprimere, a suo parere, riguarda, quasi direbbe, il trattamento fisico; cioè che la pena deve essere scontata con modalità tali che non siano disumane, crudeli.

ROSSI PAOLO trova che la prima parte dell’emendamento degli onorevoli Nobile e Terracini: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana» è, nella sua formulazione, molto più elevata dell’altro testo. Dove non è d’accordo, è nel periodo che segue: «Esse debbono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società». È bene che la Costituzione sia ottimista; ma bisogna che non sia ingenua. È noto, infatti, che la rieducazione è uno degli scopi della pena, ma purtroppo né l’unico, né il principale. Lo scopo principale della pena è scientificamente la difesa sociale, e tutti sanno che è impossibile parlare seriamente di rieducazione, quando si tratti di condannati a venti o trenta anni. Non vorrebbe quindi che fosse introdotto un concetto così ingenuo e roseo nella Costituzione. Si potrebbe pertanto dire: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana e debbono tendere alla rieducazione del condannato, in quanto possibile».

MORO ritiene che si debba adottare la formula proposta dal Comitato di redazione: «Le pene devono tendere alla rieducazione del condannato». Nella seconda parte pensa che sia bene mettere in rilievo che sono le pene, in quanto eseguite, che non debbono essere in contrasto con la dignità umana. È perciò favorevole all’emendamento dell’onorevole Leone, che sostituisce al vocabolo «ricorrere» l’altro «consistere», e adopera l’espressione più felice: «in trattamenti contrari al senso di umanità».

TARGETTI prende occasione dalla seconda parte dell’emendamento, relativa alla finalità delle pene, per richiamare l’attenzione dei proponenti sull’opportunità di rinviare le loro proposte all’Assemblea costituente, per la semplice ragione che le discussioni in sede di Commissione debbono necessariamente essere brevi, per disposizione di regolamento. Ora crede che ciascun Commissario, quale che sia il suo orientamento, debba riconoscere che con la proposta in esame si risolvono con una discussione affrettata questioni annose. Quando i colleghi che hanno proposto l’emendamento hanno accennato, ad esempio, al limite massimo della detenzione, che hanno previsto in quindici anni, essi hanno toccato un problema della più grande importanza, che non si può discutere se non inquadrandolo in tutto l’ordinamento penitenziario.

BULLONI è favorevole all’emendamento Nobile-Terracini, in quanto considera anche l’esenzione dalle pene, giacché si richiama il futuro legislatore alla necessità di considerare il trattamento del detenuto che sta espiando una pena. Non solo, infatti, la pena può in se stessa offendere la dignità umana, ma anche, qualche volta, il modo come il detenuto è trattato. È contrario al testo proposto dal Comitato di redazione: «e non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani», perché ciò è entrato ormai nella coscienza universale.

PRESIDENTE pensa che nella espressione: «senso di umanità» sia compreso anche il concetto della dignità umana. D’altronde questa ultima espressione è stata già usata in materia di diritti dell’uomo. Ritiene, pertanto, che gli onorevoli Nobile e Terracini possano accedere alla formula: «e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità». Si potrebbe, se mai, aggiungere: «e di dignità».

NOBILE non intende rinunziare all’espressione: «lesive della dignità umana», perché ognuno può commettere un errore e incappare nel codice: la dignità umana deve essere tuttavia rispettata.

TUPINI è contrario alla formula proposta dagli onorevoli Nobile e Terracini, in quanto ritiene che l’espressione adottata dal Comitato di redazione: «Le pene… non possono ricorrere a trattamenti crudeli e disumani» sia il modo migliore per salvaguardare la dignità umana.

PRESIDENTE pone ai voti la formula: «Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana».

(Non è approvata).

Pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Leone Giovanni: «e non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità».

TUPINI voterà contro l’emendamento, perché prospetta una forma molto più generica di quella approvata dalla prima Sottocommissione.

(È approvato).

È da esaminarsi ora il secondo comma dell’emendamento Nobile-Terracini: «Le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di quindici anni».

Osserva che si tratta di questione che dovrà essere risolta in sede di Codice penale e prega i proponenti di rinviarla. Tutt’al più potrebbe essere tenuto presente che insieme all’abolizione della pena di morte si stabilisca anche l’abolizione dell’ergastolo, perché sono entrambi sullo stesso piano d’idee.

FUSCHINI non crede che si possano risolvere, in sede di Commissione, questioni così gravi ed importanti che implicano la necessità di un esame approfondito e ponderato, e quindi di una seria preparazione.

TERRACINI pensa che l’argomentazione dell’onorevole Fuschini non possa accettarsi: altrimenti in sede di Assemblea costituente non sarà possibile presentare alcun emendamento, mentre è evidente che ogni membro può proporre emendamenti, anche sulle materie che hanno formato oggetto di accurato esame da parte delle Sottocommissioni. Si è rimasti d’intesa, e l’Assemblea costituente lo ha detto chiaramente, che la Commissione dei settantacinque doveva proporre un progetto di Costituzione. Ciò significa che durante lo sviluppo dei lavori i membri della Costituente possono fare proposte di modifica anche su materie scartate dalle Commissioni o non prese in considerazione.

Non ha nulla in contrario a che si rinvii questa discussione, se ventiquattro o quarantotto ore possono servire ad una migliore preparazione; ed è pronto a veder respinto l’emendamento; ma non crede che esso sia stato proposto in sede incompetente.

Non è esatto che si tratti di una questione riguardante esclusivamente il Codice penale, perché altrimenti anche l’abolizione della pena di morte dovrebbe essere riservata al Codice penale. Vi sono problemi i quali, pur dando origine a disposizioni del Codice penale, sono da inserire nella Costituzione. Così è stato fatto per la questione dei figli illegittimi, che è stata considerata innanzi tutto per la sua portata di carattere generale.

Il problema particolare che ha affrontato insieme con l’onorevole Nobile, proponendo la sostituzione degli ultimi due commi dell’articolo 20, sta soprattutto nel capoverso, in cui si afferma «che le pene restrittive della libertà personale non potranno superare la durata di quindici anni».

È un’affermazione che può parere di carattere nuovo, per lo meno in un consesso legislativo italiano, ma rientra in un ordine di problemi già affrontati da altri Paesi e verso la cui soluzione crede che si orienterà il progresso sociale nel mondo.

La proposta, d’altra parte, si ricollega alle affermazioni or ora approvate. Visto che si è parlato di una tendenzialità educativa delle pene, intende affermare che se le pene detentive superano un certo limite, non soltanto cessa la possibilità che esse abbiano una capacità educativa, ma, al contrario, sono fonte di un processo di abbrutimento progressivo. Bisogna dire schiettamente che le pene sono una ritorsione della società di fronte al delitto e togliere quel velame moralistico di cui si vorrebbero coprire. Si dica pure che sono forme di difese sociali, che giungono fino alla soppressione e all’uccisione dell’individuo. Ma se si vuoi dare un contenuto umano alle pene, occorre che esse abbiano anche questo elemento fondamentale. Basterebbe visitare una casa penale per constatare che le persone rinchiuse, dopo vent’anni, sono completamente abbrutite. Prolungata per tanto tempo, la pena detentiva porta a questo processo di deformazione.

Si tratta, dunque, di evitare questo gravissimo inconveniente e di essere coerenti con la prima affermazione. Ha proposto che le pene non superino 15 anni, ma questo termine può essere modificato, purché si affermi il principio che le pene debbano avere un limite commisurato alla durata della vita umana e allo scopo per cui sono inflitte.

Se si crede di non doverne parlare nella Costituzione, sarà bene tener presente che non se ne parlerà nemmeno in alcun’altra sede. Si stabilisca allora soltanto il diritto della difesa sociale contro la violazione delle leggi.

GRASSI nota che le parole eloquenti e sincere dell’onorevole Terracini mostrano l’importanza e la gravità dell’argomento. Ritiene che in sede di Costituzione non si possa entrare nei particolari del sistema di pene, perché altrimenti bisognerebbe modificare tutti i Codici, e in questa materia non sono possibili improvvisazioni.

Vorrebbe, pertanto, pregare l’onorevole Terracini, pur rendendo omaggio alle sue abili argomentazioni, di tener presente che in questo momento si è in tema di affermazione delle libertà, di cui sono stati stabiliti i principî fondamentali. Il legislatore di domani dovrà affrontare i problemi concreti. Quindi sarà bene rinviare l’argomento alla legislazione penale, tenendo conto delle osservazioni fatte.

FUSCHINI intende chiarire all’onorevole Terracini che il tema da lui proposto merita la massima considerazione da parte del legislatore; ma siccome i componenti della Commissione dei settantacinque non hanno avuto la possibilità di esaminare preventivamente le proposte della prima Sottocommissione, a cui è stato affidato il primo studio sui problemi dei diritti e delle libertà, ritiene opportuno che la Sottocommissione medesima esprima anche su questo argomento il suo parere.

Si rende conto della nobiltà dei sentimenti che animano la proposta dell’onorevole Terracini, proposta che apprezza ed ammira. Pensa peraltro che una decisione sia presa sulla scorta di un nuovo parere della prima Sottocommissione che ha discusso tutto il problema.

CEVOLOTTO ricorda che la prima Sottocommissione ha preso in esame, sotto certi aspetti, anche questo problema, perché ha discussa la questione dell’ergastolo ed ha ritenuto che il problema non sia materia di Costituzione. Il problema è di una gravità enorme e molte delle considerazioni dell’onorevole Terracini hanno un valore essenziale; ma osserva che, limitando le pene detentive ad un massimo di 15 anni, non vi sarebbe più relazione con gli articoli che regolano l’amnistia e l’indulto. È evidente che, con un paio di indulti, i 15 anni si ridurrebbero a due o tre soltanto.

Si è dunque di fronte ad un problema che implica tutto il sistema delle pene, e che è per conseguenza problema di legislazione penale. Non ritiene che sia il caso di discuterlo in sede di Costituzione, anche perché sarebbe una questione che dovrebbe essere dibattuta a lungo, e per la quale ritiene che nemmeno l’Assemblea costituente sia la sede più adatta, perché è una questione che ha troppi lati tecnici.

Ad ogni modo questo non è in contradizione col fatto che si sia riaffermato il principio dell’abolizione della pena di morte. L’abolizione della pena di morte è una delle conquiste della civiltà italiana, ed è stato un male che ad un certo momento ciò si sia dimenticato. Si è voluto riaffermare la necessità della pena di morte di fronte all’efferatezza di certi delitti; ma il legislatore italiano considera con serenità anche i fatti contingenti, riaffermando il principio che non si ha il diritto di disporre della vita degli altri.

NOBILE rileva che il principio contenuto nell’emendamento proposto è talmente rivoluzionario che, come ha messo in rilievo l’onorevole Terracini, deve dare tutto un indirizzo nuovo alla legislazione e non può non formare oggetto della Costituzione. Tuttavia non si tratta di un salto nel buio. Vi è un grande esempio in questo campo, ed è proprio quello della Russia. Il Codice penale russo, se non è stato modificato in quest’ultimo tempo, non comporta una pena superiore ai 10 anni. Questa è la massima pena che si può infliggere per un delitto comune. La pena di morte era prevista soltanto per i delitti di tradimento verso lo Stato. Orbene, i risultati che si sono avuti in Russia sono veramente sorprendenti e tali da costituire un esempio degno di considerazione.

MORO non può non essere sensibile ai motivi altamente umani che hanno ispirato la proposta degli onorevoli Terracini e Nobile, ma d’altra parte crede che questo sia un problema sociale ed umano. Occorre considerare la situazione del Paese. Non si risolve in sede di legislazione penale un problema umano di questa portata. Non si tratta di definire una pena entro certi limiti, ma di creare una tale struttura sociale, un tale costume, per cui il sistema degli illeciti e delle pene venga ad essere configurato in una luce nuova, nell’ambito di una società diversa da quella attuale. La legislazione dovrà registrare e, come noi si spera, anche promuovere, entro certi limiti, una diversa situazione sociale del Paese e prendere tutte le misure adeguate.

Diceva l’onorevole Terracini che se si pone la possibilità di una pena estremamente lunga nel tempo, si dà in sostanza alla pena il valore di una pura difesa sociale, e nell’ambito della difesa sociale ogni cosa è possibile, anche la soppressione della persona colpevole. Non crede che ciò sia del tutto esatto. Certamente le finalità della difesa sociale entrano nella considerazione del legislatore penale. Pur essendo sostenitore delle finalità emendative della pena, ritiene che la rieducazione del reo si compia attraverso la detenzione, in quanto attraverso la pena si realizza un emendamento della personalità umana. Ora, determinare fino a che punto la pena debba punire allo scopo di emendare è compito di dosaggio talmente delicato e legato ad un tale complesso di elementi, che si può dare soltanto una indicazione di massima, lasciando al legislatore di valutare il problema.

MASTROJANNI in sede di prima Sottocommissione fece delle raccomandazioni anche per quanto tratta l’abrogazione della parte generale del Codice penale vigente, specie riguardo all’imputabilità, alla recidiva, ecc. Condivide appieno quanto ha affermato l’onorevole Terracini, cioè che in sede costituzionale si debba fissare il limite massimo della pena afflittiva, perché avendo discusso delle libertà individuali, non vi è, a suo parere, sede più adatta per potere fissare il limite massimo entro il quale la libertà privata può essere tolta.

Nega poi che si tratti di un istituto che debba essere considerato dai tecnici esclusivamente, perché il legislatore, allorché si tratta di irrogare le pene più gravi, ha voluto che insieme ai tecnici sedessero i giurati, segno evidente che non solo i tecnici, ma anche i cittadini debbono poter intervenire con la loro sensibilità per mitigare i rigori della pena. Ora le preoccupazioni che sono state affacciate in relazione all’eventualità dell’amnistia o dell’indulto, che possono ridurre al minimo la pena afflittiva da scontarsi, non hanno consistenza, perché l’indulto e l’amnistia saranno dati in limiti esigui e sempre condizionati alla pena massima.

Che i limiti attualmente fissati dal Codice siano aberranti e crudeli, è un fatto. La personalità umana, quando è a contatto con tristi ambienti, si corrode, si disgrega, specie se la sensibilità è accentuata. Solamente coloro che sono corazzati resistono alla corrosione di quell’ambiente. Qualora si dovesse rimandare lo studio e lo svolgimento di questo problema importantissimo ai tecnici, non si caverebbe un ragno dal buco, perché i tecnici, legati alle dottrine, sono nell’impossibilità di adeguare il sistema delle pene a quelle che sono le esigenze spirituali dell’umanità, ma devono necessariamente attenersi, per non tradire il loro insegnamento e i loro orientamenti, a determinate esigenze.

Conclude dichiarando di essere favorevole all’emendamento Nobile-Terracini.

PRESIDENTE avverte che vi è una proposta dell’onorevole Grassi, di rinviare l’argomento al sistema delle leggi penali, in quanto ritiene che non rientri nella materia costituzionale.

NOBILE, per le considerazioni esposte dall’onorevole Mastrojanni, ritiene che si tratti di materia costituzionale.

DOMINEDÒ, in linea di principio, pur ritenendo che la materia della irrogazione della pena nei suoi sistemi e nei suoi dettagli appartenga alla sede legislativa, deve dire per schiettezza che, a suo parere, un aspetto potrebbe essere considerato in sede costituzionale, cioè quello della eventuale determinazione di un limite onde si possa rivedere in sede costituzionale il problema dell’ergastolo.

LUSSU, coerentemente alla proposta di abolizione della pena di morte, voterà a favore del rinvio al legislatore penale.

TUPINI, votando a favore della proposta Grassi, intende approvare la formula proposta dalla prima Sottocommissione ed accolta nella successiva formula del Comitato di redazione, in quanto, essendosi sufficientemente discusso in seno alla prima Sottocommissione il problema ed essendosi persino proposta dall’onorevole Togliatti l’abolizione dell’ergastolo, si ritenne che non fosse materia da definire in sede costituzionale e che fosse sufficiente stabilire il concetto generale che le pene tendono alla rieducazione del reo ed escludono trattamenti inumani e crudeli.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta Grassi.

(È approvata).

La seduta termina alle 13.10.

Erano presenti: Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, De Vita, Dominedò, Fabbri, Farini, Federici Maria, Fuschini, Giua, Gotelli Angela, Grassi, Grieco, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Tosato, Tupini, Uberti.

Assente giustificato: Ghidini.

Erano assenti: Amadei, Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Castiglia, Colitto, Conti, Di Giovanni, Di Vittorio, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Finocchiaro Aprile, Froggio, Iotti Leonilde, Leone Giovanni, Marchesi, Merlin Lina, Molè, Mortati, Paratore, Piccioni, Porzio, Rapelli, Togliatti, Togni, Zuccarini.

VENERDÌ 24 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

18.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 24 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Disposizioni generali del progetto di Costituzione (Esame degli articoli)

Presidente – Targetti – Fabbri – Lussu – Togliatti – Fanfani – Conti – Dominedò – Perassi – Dossetti – Einaudi – Tosato – Grassi – Leone Giovanni – Moro – Cevolotto – Terracini – Nobile – Giua – Fuschini – Laconi – Uberti – Mancini – Lucifero – Bozzi – Cappi – La Pira – Corsanego.

La seduta comincia alle 10.20.

Esame degli articoli delle disposizioni generali del progetto di Costituzione.

PRESIDENTE avverte la Commissione che essendo stata rinviata la discussione sulla questione generale concernente la composizione della seconda Camera, ed essendo in corso di elaborazione l’articolo riguardante i rapporti dello Stato con le altre Chiese, affidato agli onorevoli Terracini e Dossetti, si prosegue nell’esame dell’articolazione, iniziato nella seduta di mercoledì.

Ricorda che con un ordine del giorno Conti, Togliatti e Cevolotto, approvato dalla Commissione, si stabilì che il Comitato di redazione dovesse provvedere soltanto ad un coordinamento formale, lasciando le questioni di sostanza all’Assemblea, mentre la Commissione plenaria avrebbe cercato di non entrare troppo in dettagli per non ritardare il lavoro.

Si stabilì altresì che gli emendamenti dovessero essere presentati per iscritto. Dove non vi fossero stati emendamenti, gli articoli si sarebbero ritenuti senz’altro approvati.

Proseguendo nella discussione sul primo articolo, riepiloga le ragioni che hanno indotto il Comitato di redazione a stabilire la formulazione proposta.

Il Comitato di redazione ha riscontrato che il testo approvato dalla prima Sottocommissione presentava notevoli pregi. Sono stati però sollevati alcuni dubbi, soprattutto di forma, poi riconosciuti fondati dalle varie parti. Si è, per esempio, riconosciuto opportuno dire nel primo comma: «L’Italia» invece di: «Lo Stato italiano», adottando perciò la formula: «L’Italia è Repubblica democratica», in quanto dicendo: «Stato italiano» l’idea della Repubblica era già compresa. Avverte in proposito che il Comitato di redazione ha ritenuto opportuno che si parli sempre di Repubblica, in modo che questa parola rimanga come espressione generale in sostituzione di «Stato italiano».

TARGETTI direbbe meglio, nel primo comma: «L’Italia è una Repubblica».

PRESIDENTE fa presente che le questioni puramente letterarie potranno essere rinviate ad una successiva definizione.

Il secondo comma era stato proposto dalla prima Sottocommissione nei seguenti termini:

«Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori all’organizzazione economica, sociale e politica del Paese».

Nel Comitato di redazione, però, si è ritenuto opportuno dire che il lavoro è il fondamento dell’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica e non che lo Stato italiano ha per fondamento il lavoro. È una questione di forma, che però ha un certo valore.

Nel secondo articolo, poi, il testo della prima Sottocommissione diceva:

«La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico formato dalla presente Costituzione e dalle altre leggi ad essa conformi».

È sembrato al Comitato di redazione che il richiamo alla sovranità dello Stato potesse dar luogo ad equivoci ed essere interpretata nel senso fascista, per cui tutto deriva dallo Stato. È stata quindi adottata l’espressione: «La sovranità emana dal popolo», esprimente un concetto che è alla base di tutte le Costituzioni.

Riguardo all’ultima parte del secondo articolo della Sottocommissione: «Tutti i poteri emanano dal popolo, che li esercita direttamente o mediante rappresentanti da esso eletti», è sembrato che questo concetto fosse compreso già nell’altro: «La sovranità emana dal popolo».

D’altra parte, si è ritenuto necessario fare anche riferimento alle leggi, cosicché l’articolo adottato dal Comitato di redazione, ha avuto la seguente formulazione comprensiva dei concetti accennati, espressi nei due articoli della prima Sottocommissione:

«L’Italia è Repubblica democratica.

«La sua sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi.

«Il lavoro è l’essenziale fondamento dell’organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica italiana».

Personalmente, non avrebbe difficoltà ad adottare anche la formula: «Repubblica dei lavoratori»; osserva però che essa, essendo usata nelle Costituzioni russa e jugoslava, si riferisce ad una forma particolare, che non è propria dell’Italia. Comunque, la Commissione ha già deciso in merito.

FABBRI ricorda che nella seduta di mercoledì, dopo l’approvazione del primo comma, si era passati a discutere sul secondo. Qualche Commissario aveva proposto di tornare al testo originario della prima Sottocommissione. In questa ipotesi, egli aveva proposto di sostituire la parola «cittadini» alla parola «lavoratori».

Non essendo stato deciso se debba rimanere il testo del Comitato di redazione o quello della prima Sottocommissione, la questione è ancora impregiudicata.

PRESIDENTE fa presente la necessità di non soffermarsi troppo sulle questioni formali, aggiungendo che nel Comitato di redazione si era rimasti d’accordo di trovare una formula che esprimesse in breve i concetti della sovranità popolare e del lavoro come base della organizzazione dello Stato, fondendo i due articoli proposti dalla prima Sottocommissione.

LUSSU precisa che la sua proposta era di adottare come secondo comma il testo proposto dalla prima Sottocommissione: «Essa ha per suo fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori alla organizzazione economica, sociale e politica del Paese», e come terzo comma il secondo proposto dal Comitato di redazione e cioè:

«La sua sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

Aveva proposto infine la soppressione dell’ultimo comma del testo del Comitato e dell’articolo 2 proposto dalla Sottocommissione.

L’onorevole Tosato, a sua volta, proponeva dopo il comma: «L’Italia è Repubblica democratica» di ripristinare gli articoli 1 e 2 proposti dalla Sottocommissione.

A questo punto la discussione è stata sospesa.

PRESIDENTE sottopone alla Commissione la proposta dell’onorevole Lussu, salvo la formulazione del comma, che potrebbe essere: «L’organizzazione economica, politica e sociale della Repubblica ha per fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori».

TOGLIATTI sottolinea la necessità di tener conto della sostanza, evitando che, con il pretesto della forma, la Commissione sia messa continuamente di fronte a nuove formulazioni, ognuna differente dalle altre.

Vi sarà poi un Comitato che curerà la forma.

PRESIDENTE osserva che la questione si riduce a decidere se deve essere prima espresso il riferimento al lavoro o quello alla sovranità popolare.

Ricorda che al Comitato di redazione è parso che storicamente, poiché la sovranità popolare è base dell’ordinamento di tutte le Repubbliche democratiche, questo concetto dovesse andar prima; e dovesse accentuarsi dopo, il concetto del lavoro.

TOGLIATTI ricorda che nella prima Sottocommissione, dopo lungo dibattito, essendo stata respinta la formula: «Repubblica di lavoratori», venne considerato opportuno aggiungere, immediatamente dopo la definizione di Repubblica democratica, la formula riferentesi al lavoro come fondamento dello Stato, ed in questo tutti si trovarono d’accordo dal momento che era stata respinta la formula precedente.

In ciò sta il motivo della connessione fra il primo ed il secondo comma.

PRESIDENTE risponde all’onorevole Togliatti che il Comitato di redazione si inspirò invece al concetto che la sovranità popolare è la base fondamentale della Repubblica, e che la qualificazione del lavoro dovesse essere aggiunta dopo, per dare un tono particolare alla Repubblica italiana.

FANFANI è d’avviso che la novità nella Costituzione non sia tanto il concetto della sovranità che risiede nel popolo, quanto la caratterizzazione della Repubblica con il suo fondamento sul lavoro. Insiste quindi perché si torni al testo della prima Sottocommissione, con qualche eventuale modifica.

PRESIDENTE, riassumendo le varie proposte presentate, rileva che il testo dell’articolo potrebbe essere il seguente:

«L’Italia è Repubblica democratica. Essa ha per fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese. La sovranità emana dal popolo e si esercita nella forma e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

CONTI osserva che l’aggettivo «concreta» è inutile.

PRESIDENTE fa presente che esso potrebbe essere sostituito con «effettiva».

Rimane in sospeso l’emendamento Fabbri, il quale propone di sostituire la parola «cittadini» alla parola «lavoratori».

FABBRI non ha nessuna difficoltà ad ammettere che il fondamento dello Stato è il lavoro, e la necessità del suo emendamento non sarebbe sorta se fosse rimasto il testo proposto dal Comitato di redazione, secondo il quale il lavoro è l’essenziale fondamento dell’organizzazione dello Stato. Quando invece si viene a parlare dei soggetti dell’organizzazione economica, sociale e politica, questi non possono essere soltanto i lavoratori, ma sono tutti i cittadini. Quando si tratta di andare sotto le armi, o di pagare le imposte, il manifesto si rivolge ai cittadini; quando il lavoratore va a riposo o l’impiegato in pensione, non perde la qualità e non deve perdere i diritti del cittadino.

La Repubblica democratica deve – a suo avviso – comprendere l’universalità dei cittadini; l’emendamento proposto risponde appunto alla necessità di affermare questo principio.

DOMINEDÒ preferisce l’espressione «cittadini» a quella «lavoratori», perché meglio rispondente all’esigenza di affermare una concezione solidarista in luogo di quella classista.

PRESIDENTE pone ai voti per alzata di mano l’emendamento dell’onorevole Fabbri.

(Segue la votazione per alzata di mano).

FABBRI domanda la votazione per appello nominale.

PRESIDENTE osserva all’onorevole Fabbri che, poiché si è già in votazione, la sua richiesta non può essere accolta.

Constata che l’emendamento Fabbri è respinto avendo avuto parità di voti favorevoli e contrari.

Pone ai voti l’articolo 1 nel seguente testo definitivo:

«L’Italia è Repubblica democratica. Essa ha per fondamento il lavoro e la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori alla organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

«La sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

(È approvato).

PERASSI si riserva di proporre, in altra sede, la dizione: «nei limiti della Costituzione e delle altre leggi ad essa conformi», come era nel testo della prima Sottocommissione.

PRESIDENTE avverte che, non essendovi proposte di emendamenti od osservazioni sull’articolo 2, questo si intende approvato nel testo proposto dal Comitato di redazione.

Segue l’articolo 3:

«Le norme del diritto delle genti, generalmente riconosciute, sono considerate parte integrante del diritto italiano».

Avverte che su questo articolo, gli onorevoli Perassi, Ambrosini, Cevolotto, Tosato, Mortati, Targetti, Terracini, Grassi e Bozzi hanno presentato un emendamento tendente a sostituire l’articolo con il seguente:

«L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute».

PERASSI dà ragione dell’emendamento facendo presente anzitutto come da esso esuli qualsiasi significato politico. L’articolo 3, comunque formulato, tende ad istituire quello che si può chiamare un dispositivo di adattamento automatico del diritto interno al diritto internazionale generale. Questo concetto – sul quale ritiene che tutti siano d’accordo – è stato espresso nell’articolo 3, proposto dalla Sottocommissione e dal Comitato di redazione adottato, riprendendo testualmente la formulazione dell’articolo 4 della Costituzione di Weimar.

L’emendamento sostitutivo presentato da lui e da altri colleghi non ha se non una portata formale. Osserva al riguardo che la stessa dottrina tedesca rilevò che l’articolo 4 della Costituzione di Weimar ha una formulazione impropria, in quanto non è esatto che una norma di diritto internazionale passi così come è nel diritto interno di uno Stato. Porta il tipico esempio di una di quelle poche norme internazionali generalmente riconosciute, quella cioè che obbliga gli Stati ad esentare gli agenti diplomatici dalla giurisdizione civile e penale. Ora, qual è la norma che in corrispondenza con quella norma del diritto internazionale si inserisce automaticamente nell’ordinamento giuridico interno per effetto dell’articolo della Costituzione del quale si discute? È una norma processuale che si indirizza agli organi giurisdizionali dello Stato ed ai privati. Non si tratta, quindi, di un passaggio della stessa norma da un ordinamento all’altro. Si ha, invece, la creazione nel diritto interno di una norma che è bensì correlativa a quella internazionale, ma non è identica. Infatti, l’articolo 4 della Costituzione di Weimar, nonostante la sua formulazione, è stato definito un «trasformatore permanente».

Ciò posto, ferma restando l’idea fondamentale, cioè che si vuole fare in modo che l’ordinamento giuridico italiano si adatti automaticamente, ossia senza bisogno di un atto legislativo al diritto internazionale generale, è opportuno che questo concetto sia espresso con una norma formulata in maniera tecnicamente appropriata. A ciò i proponenti dell’emendamento hanno ritenuto provvedere con la formulazione proposta: «l’ordinamento giuridico italiano si conforma (è sottinteso automaticamente) alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute». Rileva che è stata adottata la dizione: «diritto internazionale», anziché quella di: «diritto delle genti», perché quest’ultima non corrisponde alla nostra terminologia usuale. Anche la Francia, in cui più generalmente è usata questa espressione, nella sua Costituzione usa invece la dizione di diritto internazionale. La formula proposta si trova anche nel preambolo della nuova Costituzione francese.

Ritiene che la Commissione, tenute presenti le spiegazioni date, vorrà accogliere l’emendamento che, per ragioni di pura tecnica giuridica, egli ed i suoi colleghi hanno creduto opportuno presentare.

DOSSETTI premette che egli non ha alcuno speciale attaccamento alla formula proposta dalla prima Sottocommissione, facendo presente che, come Correlatore su questo argomento, aveva presentato una formula diversa che avrebbe evitate le giuste osservazioni fatte dall’onorevole Perassi alla formula definitivamente adottata. Tale formula era modellata sullo schema di quella proposta dai professori Ago e Morelli nella relazione su questo argomento della Commissione del Ministero della Costituente.

Esprime peraltro il dubbio che la formula proposta con l’emendamento affermi sì l’adattamento necessario del diritto interno al diritto internazionale, ma non serva invece all’adattamento automatico, se per adattamento automatico si intenda un adattamento del diritto interno al diritto internazionale che operi senza bisogno di una norma specifica che trasporti la norma del diritto internazionale nel diritto interno. Gli sembra che la formula che viene ora proposta affermi la necessità di una conformazione del diritto interno al diritto internazionale, senza operare necessariamente un adattamento automatico sì da far ritenere necessaria una norma la quale operi il trapasso per la singola disposizione.

Se l’onorevole Perassi esclude questo dubbio, si rimette al suo giudizio; purché sia ben chiaro che si vota per un adattamento automatico che operi all’infuori di una norma specifica che travasi la norma del diritto internazionale nel diritto interno.

EINAUDI osserva che nelle parole: «si conforma» non v’è niente di automatico; e gli sembra che con la dizione proposta nell’emendamento si richieda sempre una legge interna che di volta in volta operi questo travasamento.

L’espressione potrebbe dunque, a suo avviso, dar luogo in avvenire a dei dubbi.

DOSSETTI ricorda che la formula accennata, da lui ripresa nella relazione, era approssimativamente la seguente:

«Le norme di diritto internazionale generalmente riconosciute fanno parte dell’ordinamento interno dello Stato, senza che occorra emanarle con apposito atto».

Gli sembra questa una formula forse anche un po’ contorta, ma che riproduce il principio non solo dell’adattamento necessario, ma anche quello dell’adattamento automatico.

TOGLIATTI ricorda che la questione fu discussa lungamente nella prima Sottocommissione, e ne sottolinea l’importanza per l’avvenire dello Stato italiano, in quanto si tratta di adottare una formula che, automaticamente, porta alcune norme di diritto internazionale ad entrare a far parte del nostro diritto.

A suo avviso; la formula dell’onorevole Perassi che si riferisce al diritto internazionale, è più elastica, e – in sostanza – lascia aperta la possibilità di un atto interno di volontà sovrana; mentre adottando la formula Dossetti, riferentesi al diritto delle genti in generale, e non a norme concrete di diritto internazionale quali possono risultare da strumenti internazionali di altre Potenze o anche di una associazione di altre Potenze, occorrerà un atto della nostra volontà per l’adesione.

PERASSI osserva che sostanzialmente non vi è differenza tra le due espressioni: con esse si intende alludere esclusivamente alle norme del diritto internazionale generale, non alle norme che siano poste da accordi internazionali bilaterali o collettivi. L’adattamento del diritto interno italiano a norme derivanti da trattati bilaterali o collettivi non è regolato da questo articolo; sarà attuato secondo altri procedimenti.

Ciò che si vuole qui stabilire – e su questo punto non comprende perché sia sorto equivoco – è precisamente l’adattamento automatico del diritto interno a quello internazionale generale. Questo era il significato dell’articolo 4 della Costituzione di Weimar. Ed egli crede che nel suo emendamento sia espressa in maniera sufficientemente chiara il carattere automatico dell’adattamento, nel senso che questo si compie per effetto diretto della norma della Costituzione, senza, cioè, che occorra di volta in volta un atto interno di legislazione. L’articolo, che si inserisce nella Costituzione, è un dispositivo tale che, funzionando automaticamente, tiene l’ordinamento giuridico in un equilibrio continuo e perfetto col diritto internazionale generale. Per modo che, il giorno in cui per ipotesi si avesse una modificazione della norma citata come esempio, cioè dell’obbligo internazionale di concedere le esenzioni dalla giurisdizione civile e penale agli agenti diplomatici, automaticamente l’ordinamento interno italiano si conformerebbe alla nuova disposizione.

TOSATO è d’accordo con l’onorevole Perassi.

Ritiene che il termine «diritto internazionale» sia più esatto che non quello «diritto delle genti» e che vi sia il concetto di adattamento automatico nelle parole «si conforma». Soltanto, per maggiore chiarezza, domanda se non sarebbe opportuno modificare le parole «si conforma» nelle altre «è conforme».

GRASSI crede che il termine «si conforma» dia maggiormente l’idea della continuità del dispositivo.

LEONE GIOVANNI è d’avviso che per affermare il concetto dell’ingresso automatico delle norme di diritto internazionale riconosciute nel nostro ordinamento giuridico, la formula più idonea sia quella adottata nel testo della prima Sottocommissione, sostituendo peraltro l’espressione «diritto delle genti» con quella «diritto internazionale».

PRESIDENTE chiede all’onorevole Perassi se accetta la modifica proposta dall’onorevole Tosato: «è conforme», anziché «si conforma».

PERASSI non accetta la modifica in quanto ritiene più rispondente l’espressione «si conforma», facendo rilevare che essa si riferisce all’ordinamento giuridico interno, non allo Stato, onde esprime in maniera indubbia il carattere automatico dell’adattamento.

LUSSU è favorevole alla proposta di tornare al testo proposto dalla Sottocommissione che ritiene esprima meglio il pensiero dell’onorevole Perassi che non l’emendamento dallo stesso presentato. Il diritto internazionale non è infatti una creazione estranea alla volontà, nella fattispecie, dello Stato italiano, perché, quand’anche ciò fosse, lo Stato italiano avrebbe un dovere interno di farlo suo. Osserva che i trattati internazionali possono influire sul diritto internazionale senza che siano la stessa cosa: così, nel 1815, il Congresso di Vienna; così, nel 1919-20, il Trattato di Versailles hanno influito sul diritto internazionale, pur essendo distinti da esso. Il diritto internazionale è una creazione alla quale prendono parte tutti gli Stati civili; ma se anche uno Stato civile non vi intervenisse, esso ha l’obbligo verso la civiltà di un adattamento interno, e non già di una applicazione automatica. È chiaro allora che l’emendamento dell’onorevole Perassi risponde sì al pensiero che ha espresso, ma ciò è chiarito già nell’articolo 3 proposto. Dichiara pertanto che voterà a favore dell’emendamento dell’onorevole Perassi, interpretandolo però nel senso che esso non abbia valore di automatismo.

PERASSI fa presente che può essere strano che il presentatore di un emendamento debba essere costretto a fare una dichiarazione di voto. Ma, dopo la dichiarazione dell’onorevole Lussu, dichiara a sua volta di votare l’emendamento presentato da lui e da altri colleghi, precisando che con esso si è precisamente inteso creare un dispositivo di adattamento automatico del diritto italiano al diritto internazionale generalmente riconosciuto.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Perassi, tendente a sostituire l’articolo 3 proposto con il seguente:

«L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme del diritto internazionale generalmente riconosciute».

(È approvato).

Segue l’articolo 4:

«L’Italia rinunzia alla guerra come strumento di conquista e di offesa alla libertà degli altri popoli e consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad un’organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia per i popoli».

Avverte che su questo articolo l’onorevole Lussu ha presentato un emendamento, consistente nel sostituire all’espressione: «organizzazione internazionale» l’altra: «organizzazione europea ed internazionale».

LUSSU chiarisce lo spirito del suo emendamento, che è l’espressione del desiderio manifestato da alcune correnti politiche esistenti in Italia ed anche da parecchi colleghi dell’Assemblea costituente. Il desiderio è quello di non escludere la possibilità che, in un futuro prossimo o lontano, sia possibile dare un’organizzazione federalistica all’Europa. Per questa esigenza, appunto, sarebbe opportuno introdurre nella Costituzione questo riferimento ad una concezione federalistica limitata eventualmente anche all’ambito europeo.

MORO, mentre è d’accordo sulla sostanza della proposta Lussu, in quanto tutti desiderano un’organizzazione internazionale, limitata magari all’Europa, non crede che fare nell’articolo un richiamo espresso a questa concezione sia conveniente. Dicendo infatti. «internazionale», sono già comprese tutte le ipotesi, e quindi anche quella prospettata dall’onorevole Lussu.

LUSSU osserva che il testo dell’articolo trova rispondenza in quanto è detto, sia pure con formula differente, nel preambolo della Costituzione francese, ove si stabilisce che la Francia consente a tutte le limitazioni della sua sovranità che sono necessarie all’organizzazione della difesa della pace. Si sa però che in Francia le correnti federalistiche non esistono, mentre sono esistite e tuttora esistono in Italia. È spiegabile quindi che in Francia questo concetto non sia stato fissato nella Carta costituzionale, mentre in Italia, se non vi si facesse espresso riferimento, si darebbe l’impressione che tali aspirazioni non trovino alcun consenso.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento presentato dall’onorevole Lussu.

(Non è approvato).

Ricorda che, per quanto riguarda il successivo articolo 5 – approvato in una delle ultime sedute – era rimasta sospesa l’aggiunta di un ultimo comma relativo ai rapporti tra lo Stato e le Chiese diverse dalla cattolica. Era stato presentato in proposito un comma aggiuntivo dall’onorevole Terracini, la cui definitiva formulazione era stata deferita ad un piccolo Comitato.

Dà lettura del testo:

«Le altre confessioni religiose hanno il diritto di organizzarsi secondo proprî statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese, ove lo richieggano, con le loro rappresentanze».

Pone ai voti l’ultimo comma dell’articolo 5 così formulato.

(È approvato).

MORO solleva una eccezione circa la collocazione del comma. Se esso viene posto alla fine dell’articolo 5, sta bene; altrimenti occorrerà dire: «le confessioni», anziché: «le altre confessioni».

CEVOLOTTO è d’opinione che il comma approvato debba essere collocato al termine dell’articolo 5, altrimenti perderebbe tutto il suo significato.

TERRACINI dichiara anch’egli di essere convinto che il posto idoneo del comma sia alla fine dell’articolo 5.

MORO, dopo la dichiarazione dell’onorevole Terracini, ritira la sua eccezione.

DOSSETTI propone si faccia riserva del definitivo collocamento dell’articolo.

CEVOLOTTO è d’accordo. Propone di mantenere per ora l’attuale collocamento dell’articolo, salvo a spostarlo nel caso dovesse sorgere una questione di carattere generale.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE sottopone all’esame della Commissione l’articolo 6 così formulato:

«Per tutelare i principî sacri ed inviolabili di autonomia e dignità della persona, e di umanità e giustizia fra gli uomini, la Repubblica italiana garantisce ai singoli ed alle formazioni sociali ove si svolge la loro personalità i diritti di libertà e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale».

Avverte che l’onorevole Cevolotto ha presentato un emendamento tendente a sopprimere il presente articolo, nonché il successivo articolo 7, rinviando al preambolo le dichiarazioni in essi contenute.

CEVOLOTTO, senza rinunciare alla sua proposta, si propone di riprenderla, se del caso, quando sarà stata adottata una decisione sulla questione di premettere o meno un preambolo alla Costituzione.

PRESIDENTE comunica che, all’articolo 6, vi è un emendamento dell’onorevole Nobile che vorrebbe la soppressione delle parole: «autonomia e».

Ricorda all’onorevole Nobile che su questo articolo è intervenuto un accordo in sede di Comitato di redazione fra le varie correnti ivi rappresentate e che il significato dato alla parola «autonomia» è quello letterale, nel senso, cioè, che l’uomo può agire secondo coscienza; il che non toglie però che lo Stato possa imporre dei limiti.

NOBILE fa presente che nel proporre il suo emendamento è stato mosso dalla considerazione che la Costituzione deve essere intelligibile per tutti i cittadini di qualsiasi classe sociale e grado di cultura. Invece il testo dell’articolo in discussione lascia perplessi anche persone di cultura. Con l’occasione, richiama l’attenzione sull’ultima parte dell’articolo dove è detto: «e richiede l’adempimento dei doveri di solidarietà politica, economica e sociale», rilevando come anche questa dizione sia poco chiara.

Comunque, non insiste nel suo emendamento.

DOSSETTI desidera avanzare una riserva circa quelle limitazioni che nel nuovo articolo sono state poste dal Comitato di redazione rispetto al testo originario formulato dalla Sottocommissione. Si dichiara d’accordo su tutte le modificazioni ad eccezione di quella finale, là dove è detto: «ove si svolge la loro personalità i diritti di libertà», in quanto la ritiene una modificazione più di sostanza che di forma. Le garanzie previste dal testo della Sottocommissione investivano tutti i diritti e non soltanto quelli strettamente qualificati secondo la classificazione tradizionale «diritti di libertà» così come risulterebbe dal nuovo testo.

Pur accettando la formulazione proposta dal Comitato di redazione – alla quale riconosce una maggiore giuridicità – è d’avviso che sarebbe opportuno tentare di trovare una formula che tenesse conto delle sue osservazioni.

PRESIDENTE esprime l’opinione che il Comitato di redazione abbia voluto maggiormente specificare e non limitare.

DOSSETTI osserva che se si è d’accordo sulla sostanza, la questione potrebbe senz’altro essere risolta in sede di ulteriore revisione degli articoli.

NOBILE, dovendosi procedere ad una revisione sia pure formale, prega di tener presenti anche le sue osservazioni.

PRESIDENTE dichiara che l’articolo 6 si intende approvato, salvo a procedere successivamente ad una revisione formale tenendo conto delle osservazioni degli onorevoli Dossetti e Nobile.

(Così rimane stabilito).

Avverte che l’articolo 7, sul quale non sono stati proposti emendamenti, si intende approvato.

Pone in discussione l’articolo 8:

«La libertà personale è inviolabile.

«Non è ammessa forma alcuna di detenzione, di ispezione e perquisizione personale o del domicilio, di sequestro e controllo della corrispondenza, né qualsiasi altra restrizione della libertà, se non per atto dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge.

«In casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge, la polizia può prendere misure provvisorie di sicurezza, che devono essere comunicate entro quarantotto ore all’autorità giudiziaria; e se questa non le convalida nei termini di legge, sono revocate e restano prive di ogni effetto.

«È punita ogni violenza fisica o morale a danno delle persone comunque sottoposte a restrizioni di libertà».

Informa che su questo articolo l’onorevole Perassi aveva proposto il seguente emendamento:

Nel secondo comma, sopprimere le parole: «di sequestro o controllo della corrispondenza».

Inserire, come articolo separato (8-bis) l’articolo approvato in merito dalla prima Sottocommissione:

«La libertà e la segretezza di comunicazione e di corrispondenza in qualsiasi forma sono garantite.

«Può derogarsi a questa disposizione solo per motivata decisione dell’autorità giudiziaria.

«La legge può stabilire limitazioni ed istituire censure per il tempo di guerra.

«La divulgazione di notizie per tal modo conosciute è vietata».

Con tale emendamento, l’onorevole Perassi tendeva a dividere ancora una volta i tre tipi di inviolabilità: della persona, del domicilio, della corrispondenza. Ha fatto osservare peraltro al proponente che l’unificazione ha il vantaggio di considerare un istituto fondamentale, che è una novità per la Costituzione, per cui la polizia non potrà prendere nessun provvedimento, ad esempio, di sequestro di corrispondenza senza darne notizia all’autorità giudiziaria che esercita un sindacato.

Poiché però nel testo proposto dall’onorevole Perassi vi era il principio che l’atto dell’autorità giudiziaria deve essere motivato, ritiene si possa in questo senso modificare il secondo comma dell’articolo 8, dicendosi nell’inciso: «se non per atto motivato dell’autorità giudiziaria».

L’emendamento Perassi considerava anche il caso di guerra, ma è evidente che in tal caso verranno modificate tanto le norme sulla corrispondenza, quanto quelle sull’arresto e sulle perquisizioni. Quindi è inutile parlarne in un testo costituzionale.

L’onorevole Perassi, accettando il suo punto di vista, ha limitato il suo emendamento alla modifica al secondo comma relativo alla specificazione della motivazione per l’atto dell’autorità giudiziaria.

GIUA ritiene che il terzo comma dell’articolo 8 sia confuso ed inutile, e fa osservare che, in pratica, le cose si svolgono ben diversamente. Difatti, ognuno sa quello che avviene in materia di corrispondenza, e tutti coloro che hanno subito processi in periodo fascista sanno che la corrispondenza era controllata, ma che regolarmente i destinatari ricevevano le lettere che erano state loro spedite, beninteso dopo che la polizia ne aveva dedotte le notizie che le interessavano.

Quindi in questo articolo – a suo avviso – si dà prova di una grande ingenuità, perché quando si dà la possibilità alla polizia di aprire la corrispondenza privata, gli organi di pubblica sicurezza non hanno più alcun interesse a trasmetterla alla Magistratura.

Occorre quindi decidere: o stabilire che la polizia non può violare il segreto epistolare, oppure dire che la Magistratura sarà garante per il cittadino italiano di questa violazione della corrispondenza privata.

Propone di eliminare il terzo comma dell’articolo.

PRESIDENTE osserva all’onorevole Giua che, non essendo stato presentato un emendamento scritto, la sua proposta non può essere presa in considerazione.

Fa presente comunque che, per i casi di assoluta urgenza, non si può negare alla polizia la facoltà di adottare misure provvisorie di sicurezza, con la cautela di una comunicazione all’autorità giudiziaria. Stabilire che la polizia non possa arrestare o perquisire il domicilio o aprire eventualmente una corrispondenza per poter scoprire un delitto, sarebbe una ingenuità che non può essere affermata. Ciò che importa è che di questi atti sia data immediatamente notizia all’autorità giudiziaria.

GIUA osserva che quanto ha detto il Presidente è affermato nel secondo comma, mentre il terzo gli sembra inutile.

PRESIDENTE è d’avviso che anche il terzo rappresenti una conquista, perché in sostanza asserisce che la polizia non può compiere un atto senza il controllo dell’autorità giudiziaria.

GIUA insiste nella sua osservazione, per quanto si riferisce alla corrispondenza privata, rilevando che non si può dare alla polizia la possibilità di aprire corrispondenza privata inviandola alle autorità giudiziarie, in considerazione anche del fatto che potrebbe trattarsi di desumere dalla corrispondenza notizie politiche.

CONTI si associa alle considerazioni fatte dall’onorevole Giua. È convinto che la polizia continuerà in pratica a fare quello che ha sempre fatto, violando tutte le corrispondenze che crederà; ma ritiene che sia inopportuno ammettere il principio. La violazione della corrispondenza è un delitto che non può essere ammesso e sancito dall’Assemblea costituente.

EINAUDI si associa anch’egli alle preoccupazioni dell’onorevole Giua, e fa presente l’opportunità di aggiungere nell’articolo un riferimento alle intercettazioni telefoniche.

FUSCHINI si associa, sottolineando la necessità che l’articolo si riferisca tanto alla corrispondenza, quanto alle comunicazioni in genere.

PRESIDENTE constata che l’avviso di molti Commissari è per il ritorno alla proposta Perassi di compilare un nuovo articolo. Propone di accogliere tale proposta dando mandato per la compilazione dell’articolo stesso al proponente insieme con i componenti del Comitato di redazione.

(La Commissione concorda).

LACONI richiama l’attenzione sulla necessità di dire: «di sequestro o controllo» anziché: «di sequestro e controllo».

PRESIDENTE avverte trattarsi di un errore di stampa che è stato già corretto.

DOSSETTI sottolinea la necessità di fissare un principio che serva di norma direttiva al Comitato di redazione.

FANFANI è d’avviso che la Commissione debba decidere subito se è il caso di accettare o meno il testo formulato dalla prima Sottocommissione.

UBERTI osserva che con la proposta della Sottocommissione si stabilisce l’assoluta segretezza della corrispondenza, e non si può ammettere che la polizia, in qualsiasi momento, possa intervenire ad intercettare la corrispondenza. Si tratta di difendere una garanzia sostanziale, altrimenti la Costituzione verrebbe meno ad una delle esigenze essenziali per cui viene creata.

MANCINI ricorda l’esigenza di tutelare anche la segretezza delle comunicazioni telefoniche.

PRESIDENTE, constata che la Commissione concorda dal principio e propone che la formulazione sia demandata al Comitato di redazione.

(Così rimane stabilito).

Comunica che l’articolo 9, sul quale non vi sono emendamenti, si intende approvato.

Segue l’articolo 10:

«La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in conformità delle norme e dei trattati internazionali. Lo straniero cui vengono negati nel proprio Paese i diritti di libertà garantiti dall’Italia, ha diritto di asilo nel territorio italiano».

Avverte che su questo articolo l’onorevole Perassi ha presentato un emendamento, proponendo di sostituire le parole: «diritti fondamentali di libertà» oppure: «i diritti di libertà sanciti dalla presente Costituzione», alle altre :«i diritti di libertà garantiti dall’Italia».

LUCIFERO preferirebbe la formula: «i diritti di libertà garantiti dalla presente Costituzione», che ritiene tecnicamente più esatta e che è del resto la dizione classica che si ritrova in tutte le Costituzioni moderne.

BOZZI propone: «i diritti di libertà sanciti dalla Costituzione», togliendo: «presente».

TERRACINI sottolinea la necessità di esaminare attentamente, nei suoi risultati concreti e possibili, la disposizione dell’articolo.

Dirà subito che egli è per il più largo diritto di asilo. Pensa, tuttavia, che questa latitudine non debba essere assolutamente senza confini. Si domanda chi possa vedersi negati nel proprio Paese i diritti di libertà garantiti dalla nostra Costituzione, e risponde che oggi non si tratta soltanto di uomini che abbiano combattuto per questi diritti di libertà. È nota la situazione dell’Italia, e si sa quanto numerose siano le persone le quali, avendo combattuto nei loro Paesi contro i diritti di libertà democratica, e non trovandosi perciò a loro agio in quei Paesi dove questi diritti hanno finito per trionfare, hanno cercato invece asilo in Italia ove, legalmente od illegalmente, sono tollerate.

Esprime il timore che con una formula della Costituzione così ampia ed indeterminata, praticamente ci si ponga nella condizione di essere obbligati ad accogliere in Italia tutti quegli elementi i quali, in altri Paesi, avendo combattuto contro la democrazia, vengano poi in Italia a cercare protezione.

Richiama l’attenzione sulla formula contenuta nel preambolo della Costituzione della Repubblica francese. La Francia è sempre stata terra di asilo, e di questo anche innumerevoli italiani, che hanno combattuto contro il fascismo, hanno goduto. Non c’è da preoccuparsi quindi che in quel Paese si debba restringere questo diritto. Ora, la formula adottata nel preambolo della Costituzione francese dice: «Ogni uomo il quale è perseguitato a causa della sua azione a favore della libertà ha diritto di asilo sul territorio della Repubblica». Questa dizione – che egli adotterebbe – autorizza eventualmente a quelle discriminazioni che ritiene saranno necessarie proprio per garantire agli italiani quelle libertà democratiche che altri possano venire giustamente od ingiustamente ad invocare da noi.

UBERTI teme che una discriminazione in materia di libertà non sia possibile. La libertà non si può difendere che integralmente e senza alcuna limitazione. Il giorno in cui il potere politico potesse in qualsiasi modo discriminare, si aprirebbe la tomba alla libertà.

TERRACINI osserva che l’onorevole Uberti ha sbagliato l’oggetto della discussione: qui si parla non della libertà, ma del diritto di asilo.

CAPPI chiede all’onorevole Terracini se la sua preoccupazione non potrebbe svanire di fronte a questa considerazione: l’Italia può concedere il diritto di asilo a tutti, ma questo non significa che sia concessa allo straniero piena libertà di esplicare attività politiche nel nostro Paese. Nulla vieta che si adotti, come in Svizzera, una norma per cui lo straniero, e particolarmente quello a cui è stato dato un asilo politico, non possa esplicare attività politiche nel Paese che lo ospita.

LUSSU osserva che chi è stato in esilio è particolarmente sensibile alla questione ed è d’avviso che la nostra Costituzione non possa contenere un articolo più restrittivo di quello contenuto nella Costituzione francese. Questa dice che qualunque uomo perseguitato a causa della sua azione a favore della libertà ha diritto di asilo sul territorio della Repubblica. Lo stesso pensiero è nell’articolo 10 proposto. Ritiene che la nostra Costituzione debba adottare un ampio criterio al riguardo, rimanendo naturalmente, per tutti, l’obbligo di rispettare la legge del Paese che concede l’asilo.

È pertanto favorevole al testo Perassi.

LACONI, in aggiunta a quanto ha esposto l’onorevole Terracini, nota che nella nostra Costituzione sarà negata una libertà che nella Costituzione di altri Paesi, per diverse ragioni storiche, è riconosciuta: la libertà cioè per i fascisti e per il fascismo. In altri Paesi, per le diverse situazioni storiche in cui sono venuti a trovarsi, questa libertà, nei confronti del fascismo, o di altri movimenti politici, non è e non sarà negata. Ed egli si domanda come si possa non tener conto di particolari esigenze storiche che, come hanno costretto l’Italia ad introdurre nella sua Costituzione una misura del genere, possano costringere altri Paesi ad introdurre altre misure di un genere analogo. Ritiene impossibile non prospettare l’eventualità che, ad un determinato momento, l’Italia, vincolata da un articolo della sua Costituzione, debba costituire asilo per determinati gruppi politici i quali rappresentano un pericolo per il loro Paese. Ciò rende indispensabile l’introduzione nella Costituzione di una modificazione, che la stessa Francia – che non ha avuto l’esperienza fascista – ha introdotto, che renda positiva la valutatone dei casi particolari che possono essere oggetto di esame.

Non si può riconoscere a chiunque, per qualsiasi atteggiamento politico, il diritto di asilo indiscriminato nel nostro Paese. Si può riconoscerlo a coloro che si sono battuti per la libertà, a coloro che hanno partecipato alla lotta contro istituzioni reazionarie che legavano o vincolavano la libertà, contro le dittature, ma non è opportuno introdurre nella Costituzione una formula che sia assolutamente indiscriminata.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Terracini ha così formulato la sua proposta di emendamento della seconda proposizione dell’articolo: «Lo straniero perseguitato a causa della sua azione in favore della libertà, ha diritto di asilo nel territorio italiano».

Comunica inoltre che l’onorevole Perassi ha proposto il seguente comma aggiuntivo: «Non è ammessa l’estradizione per reati politici».

LUSSU osserva che questo comma aggiuntivo è pleonastico, in quanto è una conseguenza del diritto di asilo.

TERRACINI sottopone alla Commissione un esempio pratico. Nella eventualità di un crollo del regime franchista, se si stabilisse in Italia un diritto di asilo indiscriminato, vi sarebbero migliaia di spagnoli compromessi in qualche modo col franchismo che abbandonerebbero la Spagna inondando il nostro Paese. Ritiene che, per fronteggiare tale eventualità, bisognerebbe adottare misure precauzionali: e poiché non vorrebbe fossero misure di polizia, pensa che sarebbe opportuno inserire nella Costituzione una norma generale limitativa.

LUSSU osserva che l’esempio dell’onorevole Terracini non è sufficiente a chiarire il problema, poiché è certo che se il regime franchista cade, non verrà negato nella Spagna il diritto di libertà; altrimenti sarebbe inutile che cadesse il regime franchista.

UBERTI ritiene pericolose le esemplificazioni. L’onorevole Terracini ha fatto l’esempio della Spagna, egli potrebbe fare quello della Jugoslavia. Cittadini jugoslavi fuggono dal loro Paese; ed allora bisognerebbe discutere se v’è o no la libertà in Jugoslavia. Si domanda come lo Stato italiano potrebbe dichiarare se esiste o meno la libertà in un determinato Paese.

GRASSI pensa che la libertà o si concepisce per tutti, o non ha alcun senso ed alcuna ragione politica. Come ha giustamente osservato l’onorevole Lussu, se il regime franchista in Ispagna crolla, dovrà stabilirsi in quel Paese un regime di libertà e non un sistema totalitario in senso diverso. Sostiene l’impossibilità e l’inopportunità di addentrarsi in una discussione sui sistemi totalitari di destra o di sinistra: occorre dire nella Costituzione che il diritto d’asilo vige per tutti i perseguitati politici nel loro Paese, o non parlarne affatto. Se si vuole però fare un passo avanti nella Costituzione e mostrarsi generosi, si deve ammettere che tutti gli uomini, di qualunque credo politico, perseguitati nel loro Paese, possano trovare asilo nel nostro Paese, altrimenti è meglio non parlare affatto della questione perché si verrebbe a vulnerare il principio fondamentale della libertà, compiendo un atto anti-giuridico ed anti-politico.

LA PIRA aderisce alle osservazioni dell’onorevole Grassi, anche per una ragione umana. Ricorda l’origine del diritto d’asilo: come anticamente tutte le persone, qualunque fosse il loro colore, appena giungevano in quel tale recinto della chiesa, avevano la vita garantita, così anche ora vi deve essere questo senso di libertà per ogni creatura. Il concetto d’asilo è legato a questo concetto del valore sacro degli uomini.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Perassi, che riguarda una semplice chiarificazione, nella seguente formulazione definitiva: sostituire le parole: «i diritti di libertà sanciti dalla Costituzione italiana», alle altre: «i diritti di libertà garantiti dall’Italia».

(È approvato).

Pone ai voti l’emendamento Terracini, tendente a sostituire l’ultima proposizione dell’articolo con la seguente:

«Lo straniero, perseguitato a causa della sua azione in favore della libertà, ha diritto di asilo nel territorio italiano».

(Non è approvato).

Vi è infine il comma aggiuntivo proposto dall’onorevole Perassi: «Non è ammessa l’estradizione per reati politici». Avverte che alcuni commissari suggeriscono, e l’onorevole Perassi accetta, di completarlo così: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici». Ricorda che l’onorevole Lussu ha osservato che nella concessione del diritto di asilo è compresa anche l’esclusione dell’estradizione. La formula – egli ha detto – potrebbe essere pleonastica e toglierebbe qualche cosa all’ampiezza del diritto d’asilo, con tutto il suo alone giuridico, sentimentale e politico. Comunque, pone in discussione l’emendamento aggiuntivo Perassi così formulato: «Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici».

LACONI domanda che cosa si intenda per reati politici, osservando che non è chiara la dizione in quanto potrebbe far pensare anche a reati commessi in Italia.

PERASSI dà ragione del suo emendamento, ricordando come nel Codice penale Zanardelli questo principio fosse solennemente affermato, mentre è scomparso nel Codice attuale, dovuto al regime fascista. Oggi, dunque, secondo il Codice, l’estradizione per reati politici sarebbe ammessa. Questa affermazione, fortunatamente, non ha trovato riscontro nella prassi, in quanto tutti i trattati internazionali, stipulati dopo l’entrata in vigore del Codice fascista, hanno espressamente incluso nelle loro disposizioni il principio che l’estradizione per reati politici non è consentita.

Per rispondere ad una domanda fatta dall’onorevole Laconi, ricorda che l’estradizione ha luogo soltanto nell’ipotesi di un reato commesso o nello Stato che richiede l’estradizione o in un terzo Stato; non mai in Italia, perché in questa ipotesi è lo Stato italiano che punisce il fatto secondo la sua legge penale. Su questo non vi è dubbio.

Dichiara di aver fatto la sua proposta non sapendo se in sede di prima Sottocommissione la questione sia stata sollevata o meno.

CORSANEGO osserva che la questione non fu nella prima Sottocommissione sollevata, perché il principio è così universalmente ammesso che non si ritenne necessario occuparsene.

CAPPI si associa alle ragioni esposte dall’onorevole Perassi. Fa presente che il diritto d’asilo, oltre a riguardare stranieri venuti in Italia perché perseguitati per ragioni politiche, può comprendere anche stranieri da anni trasferitisi nel nostro Paese, e per i quali potrebbe essere richiesta l’estradizione per un reato politico anche a distanza di anni.

PRESIDENTE osserva che con l’aggiunta delle parole «dello straniero», non si contempla il caso dell’italiano che abbia commesso reati politici.

CORSANEGO fa presente che l’estradizione del cittadino è proibita dal Codice anche nel caso di reati comuni.

PERASSI ricorda che nel vecchio Codice Zanardelli il principio era stabilito in maniera assoluta: «non è ammessa l’estradizione del cittadino». Nel Codice attuale questo principio è stato attenuato, disponendosi che: «Non è ammessa l’estradizione del cittadino, salvo che sia espressamente consentita nelle convenzioni internazionali». Osserva che, in massima, i trattati internazionali escludono l’estradizione dei rispettivi cittadini; e anche quelli conclusi dopo l’entrata in vigore del Codice nuovo contengono questo principio. Non è però esclusa in maniera assoluta la possibilità che si faccia qualche trattato di estradizione con Paesi esteri nei quali questo principio non vige. Recentemente, anzi, un’eccezione a questo principio è stata introdotta nei confronti degli Stati Uniti, in quanto si è chiarito un accordo internazionale, già esistente da tempo e che di questa questione non parlava, nel senso di ammettere reciprocamente l’estradizione dei cittadini. Questo si ricollega a tutto il sistema penale anglo-americano, che è diverso dal nostro.

Comunque, è una questione che merita di essere posta, qualunque ne sia la soluzione, tanto più se essa non è stata ancora sollevata in sede di prima Sottocommissione. Si tratta, pertanto, di due problemi diversi: uno riguarda il divieto dell’estradizione per reati politici, l’altro l’affermazione o meno del principio dell’esclusione dell’estradizione, in qualunque caso, per il cittadino.

MORO chiarisce che il secondo problema, quello cioè dell’estradizione del cittadino, è stato sollevato in sede di prima Sottocommissione e risolto in senso negativo per una ragione di opportunità, in quanto all’atto stesso in cui esso veniva sancito, si sarebbero dovuti consegnare i criminali di guerra; e quindi il principio sarebbe stato infirmato nello stesso momento in cui veniva formulato.

PRESIDENTE osserva che la questione potrà essere sollevata in altra sede. Pone ai voti il comma aggiuntivo dell’onorevole Perassi:

«Non è ammessa l’estradizione dello straniero per reati politici».

EINAUDI e NOBILE dichiarano che voteranno a favore dell’emendamento.

LUSSU sottolinea la necessità di un riferimento alla attività per cui è stato concesso il diritto di asilo.

LUCIFERO dichiara di astenersi dalla votazione. È d’accordo sulla necessità di concedere il diritto d’asilo per colui che sia perseguitato, per colui a cui sia negata la libertà. Ma di fronte alla questione del reato politico ci si trova in una posizione dottrinale ampiamente discussa. È difficile definire dove il reato diventa essenzialmente politico o dove resta essenzialmente reato.

Pensa comunque che si tratti più di una materia riguardante i Codici che non la Costituzione.

(L’emendamento aggiuntivo dell’onorevole Perassi è approvato).

PRESIDENTE comunica che gli articoli da 11 a 14 non sono stati oggetto di emendamenti ed osservazioni e pertanto si intendono approvati.

(La Commissione concorda).

La seduta termina alle 12.40.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Giua, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Pesenti, Perassi, Piccioni, Repelli, Ravagnan, Rossi, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Erano assenti: Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Caristia, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Lami Starnuti, Marchesi, Merlin Angelina, Molè, Paratore, Porzio, Taviani, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

GIOVEDÌ 23 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

17.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 23 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica (Discussione)

Presidente – Cevolotto – Moro – La Pira – Lussu – Calamandrei – Togliatti – Einaudi – Basso – Fabbri – Perassi – Terracini – Lucifero – Canevari – Cappi – Mortati – Giua – Ambrosini – Grassi – Mastrojanni – Dossetti – Fuschini.

La seduta comincia alle 10.20.

Rapporti fra lo Stato e la Chiesa cattolica.

PRESIDENTE ritiene opportuno, in assenza del Presidente onorevole Ruini, tuttora indisposto, prendere in esame la questione dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa, sospesa ieri.

Tali rapporti sono disciplinati dall’articolo 5 delle disposizioni generali, approvato dal Comitato di redazione.

L’articolo dice:

«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani.

«I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualunque modificazione di essi, bilateralmente accettata, non richiederà un procedimento di revisione costituzionale».

Si è proposto da alcuni componenti del Comitato di redazione di sostituire al primo comma il seguente: «Lo Stato riconosce l’indipendenza della Chiesa cattolica nei suoi ordinamenti interni»; e al secondo comma: «I rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati da patti concordatari»; oppure: «I rapporti fra Stato e Chiesa cattolica continuano ad essere regolati dai patti concordati».

Pone in discussione il primo comma dell’articolo.

CEVOLOTTO, quale Relatore, insieme all’onorevole Dossetti, su questa materia, fu contrario alla formula adottata dalla prima Sottocommissione e poi dal Comitato di redazione: «Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani». Fu, quindi, uno dei proponenti dell’emendamento che è stato portato nel Comitato di redazione: «Lo Stato riconosce l’indipendenza della Chiesa cattolica nei suoi ordinamenti interni».

Pur ritenendo che, nell’opinione e nella volontà dei proponenti del testo adottato dalla Sottocommissione, la sovranità della Chiesa si riferiva all’ordinamento interno, osserva che si tratta di una distinzione sottile che non si rileva facilmente. Questa parificazione dello Stato e della Chiesa, come enti sovrani entrambi ed indipendenti, non risponde alla concezione liberale e democratica che ha della funzione liberissima, alla quale si vuole garantire tutta l’indipendenza, della Chiesa nello Stato.

A suo parere è lo Stato che riconosce e garantisce l’indipendenza delle Chiese; e dice non «della Chiesa», ma «delle Chiese», perché in questa materia il principio di libertà di religione porta alla conseguenza che, per quanto enormemente differenti possano essere nella loro struttura e nella loro importanza le varie Chiese, nell’ordinamento positivo e amministrativo – e di ciò si deve tener conto – per quello che si riferisce alla sfera individuale, il diritto di libertà religiosa di un fedele di una Chiesa che abbia scarsi seguaci è uguale al diritto di libertà religiosa della grande massa di fedeli raggruppati in una enorme e soverchiante Chiesa. Lo Stato è nella stessa posizione rispetto a queste diverse Chiese, e ne riconosce l’indipendenza e la libertà.

Si tratta, in sostanza, di una questione di principio che si riallaccia ad una vecchia formula. Sono ricordi sorpassati, di posizioni sorpassate che noi stessi abbiamo superato, ma che ritornano; è la formula di Luzzatti che diceva: «Libera Chiesa nello Stato sovrano».

Su tale questione – che non intende illustrare più a lungo – deve pronunziarsi la Commissione plenaria.

MORO ricorda che, fin dalla prima redazione di questa parte della Costituzione, fu contrario alla tesi sostenuta dall’onorevole Cevolotto, e con piacere ebbe a constatare che l’onorevole Togliatti ed altri colleghi si associarono a lui nella formulazione di questo articolo, che è una formulazione di compromesso.

La prima richiesta non era per il riconoscimento della sovranità della Chiesa, bensì della originarietà del suo ordinamento. Questa espressione fu scartata, perché si ritenne che avesse un valore scientifico e fosse meno chiara e indicativa che non la parola «sovranità». Ora, se la difficoltà fosse per la parola, si potrebbe ritornare sulla vecchia proposta, la quale importava che lo Stato riconoscesse l’indipendenza e l’originarietà dell’ordinamento della Chiesa; se invece la richiesta andasse al di là della parola, non esprimesse soltanto un disagio di fronte ad una espressione che può sembrare meno adatta ad indicare la realtà delle cose, se si tendesse ad infirmare, cioè, il principio di una effettiva indipendenza della Chiesa nei confronti dello Stato, allora non si potrebbe che tener ferma la propria posizione.

Ha detto l’onorevole Cevolotto che l’indipendenza della Chiesa deve essere riconosciuta e garantita dallo Stato sovrano. Ritiene che l’indipendenza della Chiesa sia realmente garantita per quella che è la sua natura, solo quando si riconosca il carattere originario del suo ordinamento. È stato già chiarito, e ripete ora, che questo riconoscimento che lo Stato fa dell’ordinamento della Chiesa non è un richiamo alle singole norme dell’ordinamento canonico, le quali non sono, quindi, ricevute tutte quante nell’ambito dell’ordinamento dello Stato; è semplicemente il riconoscimento che lo Stato dà alla particolare natura di questo organismo che è la Chiesa, la quale ha effettivamente una sua competenza per regolare le materie che sono corrispondenti alle finalità che essa persegue nell’ambito della vita sociale, e per regolarle in perfetta indipendenza quando si tratti di materie di puro interesse ecclesiastico, ed invece attraverso pattuizioni bilaterali, quando si tratti di materie di interesse comune per lo Stato e la Chiesa.

Non c’è bisogno di dire che il carattere originario, ed in questo senso sovrano dell’ordinamento della Chiesa, non è una innovazione dell’ultima ora che si prospetta, ma è un costante riconoscimento della dottrina e della filosofia del diritto, le quali unanimemente ormai riconoscono che il diritto non è soltanto il diritto dello Stato, ma è il diritto di tutti gli organismi che entro o fuori lo Stato hanno una effettiva competenza per regolare in modo autonomo le materie di loro spettanza.

Ora, a questa posizione scientifica, alla quale si possono richiamare in modo non sospetto persone che sono lontane e dalla Chiesa cattolica e dallo stesso pensiero cristiano, si aggiunge una considerazione, che è di carattere sociale e politico: volere in questo momento disconoscere il carattere originario e sovrano in questo senso della Chiesa, significa contrastare alla diffusa coscienza sociale del popolo, il quale ritiene davvero che alla Chiesa non si possa fare il trattamento che si fa ad una qualsiasi associazione privata. La Chiesa ha tale una maestà, tale una larga competenza per quanto riguarda essenziali rapporti umani, ed ha una tale sfera di influenza che va al di fuori e al di là dello Stato singolo, che parificarla ad una qualsiasi associazione privata significherebbe forzare indebitamente la realtà delle cose.

È a questo sicuro prodotto della scienza, è a questa voce della coscienza popolare che si richiama per chiedere ai colleghi di riconoscere questa realtà, che è la Chiesa indipendente, con una potestà originaria di regolare le materie di propria competenza, con la conseguenza unica che le materie di interesse comune per lo Stato e per la Chiesa debbano essere regolate attraverso forme concordatarie e non attraverso un’arbitraria regolamentazione unilaterale da parte dello Stato.

Come espressione di buona volontà e di spirito liberale, e come omaggio a questa realtà di organizzazione sulla quale lo Stato non può incidere trattando la Chiesa come organismo puramente privato, dichiara, e crede di rendersi interprete di alcuni almeno dei suoi colleghi, che in linea di massima è disposto ad accettare un emendamento proposto dall’onorevole Terracini, il quale vorrebbe estendere una regolamentazione in largo senso concordataria per quanto riguarda i rapporti fra lo Stato e le altre confessioni religiose.

Per queste ragioni, invita i colleghi a dare il loro sereno giudizio su questo punto, che è di straordinaria importanza per la coscienza cristiana del popolo italiano.

LA PIRA osserva che per i cattolici, e quindi per un gran numero di creature di tutto il mondo, la Chiesa è il corpo mistico visibilmente strutturato attraverso la sua gerarchia. È un ordinamento giuridico originario ed indipendente. In virtù di quel principio cui alludeva il collega Moro, non soltanto lo Stato è un ordinamento giuridico, ma vi sono anche ordinamenti anteriori, fra i quali la Chiesa ha il primo posto. Dato che per i cattolici la Chiesa rappresenta questo immenso organismo che aduna le creature umane e le avvia non soltanto verso una via di santità, ma verso obiettivi di pace, chiede a tutta l’Assemblea che voglia essere unanime nell’approvare questa prima parte dell’articolo, poiché si tratta non di un’affermazione arbitraria, ma del riconoscimento di una situazione giuridica concreta, che ha un immenso peso nelle coscienze individuali e nella vita collettiva.

LUSSU, in coscienza, non può dichiararsi convinto degli argomenti portati dall’onorevole Moro a sostegno della indipendenza della Chiesa e della originarietà del suo ordinamento. Basterebbe pensare alla posizione della Chiesa ebraica, la quale dovrebbe essere ugualmente sovrana, anzi più sovrana perché primieramente originaria. Non è, pertanto, favorevole al testo del Comitato di redazione.

PRESIDENTE, circa il riferimento ad altre Chiese, prega l’onorevole Lussu di tener presente un emendamento presentato dall’onorevole Terracini, che l’onorevole Moro, interpretando il pensiero anche dei suoi colleghi, ha dichiarato di essere disposto ad approvare. L’esigenza dell’onorevole Lussu potrebbe, quindi, essere soddisfatta quando si discuterà l’emendamento Terracini.

LUSSU conferma le conclusioni alle quali è giunto dopo aver ascoltato le parole pronunciate dall’onorevole Moro. È peraltro ben lontano dal misconoscere l’importanza che ha la Chiesa cattolica in Italia; sarebbe un cieco se non vedesse questa realtà.

CALAMANDREI, convinto che una questione così grave, che non coinvolge soltanto la formulazione di un articolo, ma si riferisce ad una serie di articoli sparsi in diverse parti della Costituzione, possa essere discussa in maniera degna e seria soltanto davanti l’Assemblea costituente, non avrebbe parlato – come non ha mai parlato in questa sede, che ritiene inadeguata a discussioni di problemi gravi, come quello che ora si affronta – se non sentisse il bisogno di dire all’onorevole La Pira, il quale ha fatto una specie di mozione degli affetti, che per il grande affetto che lo lega a lui non rimarrebbe sordo, qualora si trattasse soltanto di farsi guidare da motivi sentimentali. La ragione per la quale voterà l’emendamento Cevolotto non è di sostanza, ma di forma. Infatti l’articolo formulato dalla prima Sottocommissione è un articolo, non di una Costituzione, ma di un trattato, nel quale due enti si riconoscono vicendevolmente sovrani, ciascuno dei quali stabilisce in qual modo modificare gli accordi già stipulati tra essi. Ora che in una Costituzione, nella quale l’unica sovranità che si esprime è quella dello Stato italiano, si possa ammettere l’ingresso di un altro ente, sia pure augusto come è la Chiesa, che faccia delle dichiarazioni di reciprocità, è un metodo giuridico talmente nuovo e inusitato che lo induce a votare una formula diversa, nella quale l’unica persona ammessa a parlare in prima persona nella Costituzione – e cioè lo Stato italiano – riconosca eventualmente la sovranità della Chiesa.

Non nega che la Chiesa sia un ordinamento giuridico autonomo con una propria sovranità, ma gli ordinamenti giuridici sono tanti: ad esempio, gli Stati stranieri. Ora si domanda che cosa si penserebbe di un articolo in cui fosse detto che lo Stato italiano e, per ipotesi, la Repubblica degli Stati Uniti d’America sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani. Per le stesse ragioni per cui nella Costituzione italiana non si ammette questo riconoscimento giuridico, ritiene che non si possa approvare il comma in esame.

TOGLIATTI desidera spiegare perché darà voto favorevole al comma in discussione.

Gli argomenti dell’onorevole Calamandrei non lo hanno persuaso e soprattutto l’ultimo esempio ne dimostra, a suo parere, l’erroneità, in quanto è evidente che lo Stato italiano e la Repubblica degli Stati Uniti d’America appartengono allo stesso ordine: quindi, se noi diciamo che questi Stati sono ciascuno, nel proprio ordine, indipendenti e sovrani, facciamo una tautologia. Sono due Stati, due organizzazioni terrene le quali si muovono nello stesso ambito e sono differenziati territorialmente; mentre lo Stato e la Chiesa cattolica sono due organizzazioni, le quali appartengono a due ordini diversi, pur avendo la stessa giurisdizione territoriale. La norma quindi, a suo avviso, per questo rispetto non è giuridicamente difettosa.

Politicamente bisogna porsi la questione nei suoi termini esatti. Se noi respingiamo questa norma, qual è la sua alternativa? Pensa che sia l’ammissione della possibilità che lo Stato italiano detti norme per l’organizzazione della Chiesa. L’alternativa, cioè, è quella che in Francia fu la legge Combes, la quale, sotto il termine di «associazioni culturali», indicava quale doveva essere l’organizzazione ecclesiastica perché potesse essere riconosciuta dallo Stato.

Possiamo noi oggi in Italia fare ciò? No, perché significherebbe aprire in Italia una lacerazione religiosa, con una conseguente lotta che potrebbe sconvolgere tutta la società italiana e mettere in serio pericolo la democrazia. Per questo ritiene che la formulazione che viene proposta debba essere accettata. Giuridicamente essa corrisponde ad altre formule famose adottate in passato e che potrebbero essere rievocate anche da uomini di parte liberale; politicamente corrisponde agli obiettivi che ci si propone quando si voglia muoversi per una strada che consolidi la democrazia in Italia.

CEVOLOTTO dichiara che voterà a favore dell’emendamento al primo comma, anche dopo le parole dell’onorevole Togliatti, proprio perché tale emendamento risolve i dubbi e i pericoli ai quali prima ha alluso. In base ad esso lo Stato rinuncia ad intervenire nell’ordinamento interno della Chiesa e quindi garantisce proprio quelle condizioni che l’onorevole Togliatti desidera.

EINAUDI dichiara di votare a favore del comma così come è proposto, perché, come ha rilevato l’onorevole Togliatti, la Chiesa e lo Stato si muovono in ordini che sono completamente diversi. Vorrebbe sperare che si votasse un articolo del genere in riconoscimento anche dell’indipendenza della scienza.

PRESIDENTE avverte che un articolo del genere esiste nel progetto.

BASSO voterà l’emendamento anche per le ragioni dette dall’onorevole Cevolotto. Quando si dice che lo Stato riconosce l’indipendenza della Chiesa cattolica nei suoi ordinamenti interni, si fa un’affermazione che dà una piena garanzia.

Una formula invece in cui lo Stato e la Chiesa cattolica sono riconosciuti ciascuno indipendenti e sovrani non trova una base logica nella Costituzione. L’indipendenza e la sovranità dello Stato sono un presupposto che non v’è ragione di introdurre nella Costituzione. È invece giusto riconoscere l’indipendenza della Chiesa nell’ambito dello Stato.

Le preoccupazioni dell’onorevole Togliatti, che condivide, sono meglio garantite dall’emendamento.

FABBRI dichiara di non poter votare il primo comma come è stato proposto. Non ha difficoltà a riconoscere l’ordinamento originario della Chiesa e la sua indipendenza, ma non è d’accordo che a tale ordinamento originario si possa riconoscere un carattere di sovranità. Una volta ammesso il concetto di sovranità della Chiesa cattolica, la quale, appunto in quanto cattolica, pretende di regolare la vita dei cittadini, si verrebbe ad una contradizione in termini con la sovranità dello Stato, in quanto si potrebbe determinare una invadenza della Chiesa nella sfera di libertà di coloro che non siano cattolici.

PERASSI è d’accordo con l’onorevole Togliatti che non si debba menomamente pensare all’eventualità di lotte religiose; ma da questo atteggiamento netto e preciso non discende affatto la necessità di votare l’articolo così come è stato proposto.

Condivide alcune delle osservazioni fatte dall’onorevole Calamandrei, ma particolarmente osserva che il primo comma in tanto avrebbe un senso giuridico, in quanto esistesse una norma superiore allo Stato ed alla Chiesa, la quale delimitasse la sfera dell’ordinamento dell’uno o dell’altra. Una tale norma non esiste, come, del resto, non esiste neppure fra gli Stati.

Aggiunge che, in ogni caso, una formula come quella del primo comma non si comprenderebbe se non come dichiarazione reciproca fra i due enti, e perciò non può trovar posto nella Costituzione dello Stato.

Per queste ragioni voterà l’emendamento proposto.

TERRACINI nota che, attraverso tutte le dichiarazioni di voto, non è stata bene rilevata la differenza sostanziale dei due testi in esame, nonostante l’illustrazione fattane dall’onorevole Togliatti.

Nel primo testo si parla di «ordine»; nel secondo testo si parla di «ordinamento». Sono due cose diverse. L’ordine di cui si parla nel testo proposto dal Comitato di redazione non è la struttura interna della Chiesa. Si tratta di sottolineare il fatto che esiste un piano di spiritualità che è quello caratteristico nel quale la Chiesa si muove ed esiste. Vi è poi il piano della vita ordinaria dei cittadini italiani.

Da questo discende ciò che è messo in rilievo nell’emendamento, perché, in quanto la Chiesa ha una propria indipendente sovranità nel piano che le compete, essa si dà un libero ordinamento interno. Pensa che, in definitiva, non si tratti di due concetti che si elidano a vicenda, ma che, al contrario, si integrino.

La prima affermazione sta a cuore alla Democrazia cristiana, e l’emendamento non serve che a metterla in rilievo.

Non ritiene, dunque, che vi sia contradittorietà fra le due affermazioni, ma la seconda è una deduzione naturale della prima, e quindi, insieme con l’onorevole Togliatti, voterà contro l’emendamento.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento al primo comma:

«Lo Stato riconosce l’indipendenza della Chiesa cattolica nei suoi ordinamenti interni».

Su di esso è stata chiesta la votazione per appello nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bocconi, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, De Vita, Fabbri, Finocchiaro Aprile, Giua, Lombardo, Lussu, Perassi, Targetti, Zuccarini.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Di Vittorio, Dominedò, Einaudi, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Si astiene: Noce Teresa.

Comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     57

Voti favorevoli        16

Voti contrari                        40

Astenuti                    1

(La Commissione non approva).

PRESIDENTE pone ai voti il primo comma dell’articolo 5:

«Lo Stato e la Chiesa cattolica sono ciascuno nel proprio ordine indipendenti e sovrani».

È stata chiesta la votazione per appello nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Di Vittorio, Dominedò, Einaudi, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Rispondono no: Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Fabbri, Lussu.

Si astengono: Amadei, Bocconi, Finocchiaro Aprile, Giua, Lombardo, Noce Teresa, Targetti, Zuccarini.

Comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     52

Voti favorevoli        39

Voti contrari                        5

Si astengono            8

(La Commissione approva).

PRESIDENTE pone in discussione il secondo comma dell’articolo 5: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualunque modificazione di essi bilateralmente accettata non richiederà un procedimento di revisione costituzionale». A tale comma sono stati proposti da alcuni in seno al Comitato di redazione due emendamenti:

1°) I rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati da patti concordatari.

2°) I rapporti tra Stato e Chiesa cattolica continuano ad essere regolati dai patti concordati.

CEVOLOTTO, ricorda che, come uno dei due Relatori nella prima Sottocommissione, fu contrario all’introduzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione. E dice a ragion veduta «introduzione dei Patti Lateranensi nella Costituzione», perché in verità, con tale articolo, i Patti Lateranensi – Trattato e Concordato – verrebbero a far parte della Costituzione italiana. Intende pertanto, sia pure brevemente, di esporre alla Commissione le ragioni per le quali fu contrario.

Vi è innanzi tutto una questione assolutamente di sostanza. L’articolo primo del Trattato Lateranense reca che la religione cattolica è la sola religione dello Stato. Approvando ora il comma in esame, introduciamo nella Costituzione questo principio, del quale non starà a rilevare l’importanza e la portata, dati i ristretti limiti di tempo della discussione.

Afferma soltanto che se, per una serie di disposizioni legislative e per un fenomeno di desuetudine, si poteva ritenere che, all’epoca del Trattato Lateranense, l’articolo primo dello Statuto albertino fosse ormai da considerarsi svuotato del suo contenuto – e c’è stato anzi chi ha sostenuto che esso doveva considerarsi come abrogato – dopo l’affermazione del primo articolo del Trattato Lateranense, la conseguenza inevitabile fu che lo Stato italiano divenne uno Stato confessionale. Importa poco lo sceverare quale sia la portata del fatto, ma è certo che le altre religioni si trovarono in una condizione di inferiorità, anche se esiste per esse una garanzia rappresentata dalla legge sui culti ammessi. Ora le conseguenze si sono viste subito perché, ad esempio, il Codice penale ha previsto per i reati commessi contro l’esercizio del culto cattolico pene maggiori che per quelli commessi contro gli altri culti. Altre conseguenze si sono avute per la legge, del resto liberalissima, che concerne gli altri culti ammessi. Cita, ad esempio, una risposta dell’ufficio del Genio civile di Livorno del luglio 1946, relativa alla riparazione dei danni di guerra alla chiesa del culto valdese, in cui si dice che l’ufficio, interrogato se nelle chiese da riparare debbano comprendersi anche quelle di culto valdese, precisa che debba farsi riferimento soltanto a quelle di culto cattolico.

Ma, indipendentemente da tale questione, prettamente politica, un’altra ne prospetta, inerente alla struttura della Costituzione. Perché, infatti, in una Costituzione si debbono includere trattati di diritto internazionale, quali il trattato e il concordato con la Santa Sede? La duplice conseguenza di tale inclusione è che, anzitutto, si viene a cristallizzare ciò che deve invece essere essenzialmente mutevole, sia pure con la denunzia reciproca; in secondo luogo questa cristallizzazione conduce anche a far sì che ogni possibilità di modificazione della Costituzione su questo punto è limitata dall’accordo con un altro Stato.

Oltre a ciò, si viene ad incidere sul contenuto stesso del Concordato, che subisce la medesima cristallizzazione, e importa poco se, per modificazioni bilateralmente accettate, non si chiederà il procedimento di revisione costituzionale, perché bisogna appunto che siano bilateralmente accettate, ossia occorre l’accordo della Chiesa.

Ora, a questo proposito, ritiene che sia opportuno, e più ancora necessario, regolare i rapporti fra Stato e Chiesa con accordi bilaterali, data l’importanza politica e morale della Chiesa cattolica in Italia. Ma che non si possa modificare il Concordato Lateranense, che fu stipulato in circostanze particolarissime, da un Governo che aveva, in quel momento, particolari ragioni per stipularlo in quel determinato modo – e non si tratta certo di un Governo cui vadano le nostre simpatie – è una cosa veramente grave. È certo che, prima o poi, si dovrà pure addivenire alla modificazione dell’articolo 5, al quale dobbiamo il caso Buonaiuti, poiché non è ammissibile che debba esser messo al bando come un paria un ministro del culto cattolico solo perché sia colpito da scomunica. È, peraltro, convinto che la Chiesa cattolica ha troppo una vecchia sapienza per non accedere a proposte di modificazioni su questo punto. Essa lo farà: ma poiché potrebbe anche non farlo, non dobbiamo rinunciare al nostro diritto di provvedere in estrema ratio unilateralmente.

Altra questione che, prima o poi, dovrà pure venire sul tappeto è quella della giurisdizione sulle cause matrimoniali, in cui lo Stato ha rinunciato all’espressione massima della sua sovranità, che è quella di amministrare la giustizia, ed ha devoluto a tribunali non suoi la giustizia su questo punto. È evidente che anche qui si dovrà pur raggiungere un accordo; ma, posto che l’accordo non si raggiunga, perché lo Stato si deve spogliare del suo diritto?

È da osservare poi che anche i trattati, quando pure non intervengano delle modifiche esplicite, molte volte si attenuano, perché vi sono nelle relazioni internazionali degli accordi taciti per cui essi si modificano con leggi interne che dall’altra parte si lasciano passare, senza arrivare a delle denunzie, così da favorir meglio i rapporti reciproci. Non ricorda, d’altra parte, che vi siano Costituzioni le quali immettano trattati nei loro testi, a meno che ciò non sia avvenuto in qualche caso particolarissimo per imposizione, come dopo l’altra guerra a Weimar, ove fu imposto dal vincitore al vinto di assumere determinati impegni internazionali nella Costituzione.

Concludendo, non avrebbe nulla in contrario ad adottare l’emendamento proposto che «I rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati da patti concordatari», trattandosi di una formula di compromesso e di adattamento che manifesta la decisa volontà di tutti di andare, finché è possibile, d’accordo.

TOGLIATTI dichiara di essere, nel complesso, d’accordo con le considerazioni esposte dall’onorevole Cevolotto, le quali sono su per giù le stesse che avevano spinto l’oratore a presentare, in sede di Sottocommissione, un emendamento leggermente diverso e che non comprende per quale ragione sia stato modificato.

L’emendamento, infatti, era del seguente tenore: «I rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati in termini concordatari».

MORO intendo chiarire brevemente le ragioni che hanno indotto lui ed i suoi amici a presentare e sostenere la norma approvata dalla prima Sottocommissione. Ha affermato l’onorevole Cevolotto che, accettando che siano inclusi i Patti Lateranensi nella Costituzione dello Stato, richiamiamo in vita il principio della religione cattolica come sola religione dello Stato. Basterà osservare che la portata della norma è da considerare in relazione al complesso delle norme, le quali regolano la posizione delle varie confessioni religiose nell’ambito dell’ordinamento italiano. Richiama, in proposito, l’estrema larghezza con la quale è stato regolato il principio della libertà di ogni culto, con riferimento alle altre Chiese, nel progetto di Costituzione, con l’esplicito riconoscimento di quel diritto di propaganda sul quale poteva cadere prima il dubbio. È stato, d’altra parte, espresso il nostro consenso all’emendamento aggiuntivo proposto dall’onorevole Terracini, riguardante il regolamento concordatario dei rapporti dello Stato con le altre confessioni religiose. Ed allora, il senso della norma in esame è che la religione cattolica è la religione della stragrande maggioranza del popolo italiano.

Chiedeva l’onorevole Cevolotto perché vogliamo cristallizzare, in ordine ai rapporti fra Stato e Chiesa, la situazione quale è stata definita attraverso i Patti Lateranensi, e citava alcuni casi che, a suo parere, dovrebbero costituire un motivo di disagio per noi nell’accogliere questa cristallizzazione. Egli aggiungeva che questi patti furono sanciti in un’epoca oscura della nostra storia da un Governo al quale non vanno le nostre simpatie. Certamente, non vanno le nostre simpatie al Governo che stipulò il Trattato ed il Concordato con la Chiesa cattolica, ma è certo che, sia pure per finalità oscure, esso in quel momento non faceva che condurre a termine un lungo processo che si era già svolto ed era già in maturazione nella coscienza degli italiani. Quindi non possiamo, per una ragione formale, pur dando debito peso al motivo politico, del quale si fece espressione l’onorevole Togliatti nell’ambito della prima Sottocommissione, ripudiare dei patti che hanno una straordinaria importanza per avere realizzato la pace religiosa nell’ambito del popolo italiano.

Richiamava l’onorevole Cevolotto l’articolo relativo al caso della giurisdizione sulle cause matrimoniali; ma egli ha aggiunto, e possiamo ripetere che, nella sua saggezza, la Chiesa rivedrà alcune disposizioni concordatarie per adeguarle alle esigenze mutate dei tempi.

Non possiamo però, per alcuni punti di dettaglio, sui quali non è stabilito evidentemente nulla di definitivo, rifiutare questi patti, cioè non possiamo, per ragioni formali, trascurare la questione di principio alla quale tutti quanti dobbiamo essere estremamente sensibili.

Evidentemente, se noi oggi rifiutassimo di accogliere i Patti Lateranensi nella nostra Costituzione, il nostro gesto sarebbe dalla coscienza popolare italiana interpretato al di là della portata che a questo gesto l’onorevole Cevolotto ed altri vorrebbero attribuire. Non intenderebbe il popolo italiano che con ciò si voglia riformare l’articolo 5 del Concordato, ma riterrebbe che la nuova democrazia italiana voglia allontanarsi da un orientamento in virtù del quale lo stesso popolo italiano, attraverso i Patti Lateranensi, ha trovato veramente la sua pace religiosa nella quale intende restare, come garanzia di costruttività nello sviluppo democratico della vita italiana.

Non voterà pertanto l’emendamento dell’onorevole Togliatti, emendamento vago per sua natura, il quale certamente non permette nella lettera e nello spirito che esso esprime, di richiamarsi a quella disciplina concordataria che è stata confermata da alcuni anni di applicazione con soddisfazione dalla stragrande maggioranza del popolo italiano. Afferma, concludendo, che è necessario su questo tema di straordinaria importanza, essere veramente chiari e non eludere, con ragioni di forma e con argomenti di carattere accessorio, il problema grave e serio che è proposto oggi alla Commissione.

LUCIFERO osserva che la ragione delle grandi difficoltà nelle quali ci si trova per questo articolo è contenuta nella osservazione che l’onorevole Togliatti fece dopo due giorni di discussione in sede di prima Sottocommissione, cioè che si tratta di una materia che stricto jure non è costituzionale.

A suo avviso, il problema fondamentale sarebbe di stabilire se si debba fare una menzione particolare nella Costituzione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Esso è ormai superato, tanto è vero che è stato approvato il primo comma dell’articolo, ma può spiegare le divergenze e difficoltà sorte. Nelle altre Costituzioni, un articolo del genere non si trova. Quindi, noi torniamo ad esaminare la situazione da un punto di vista di politica contingente, cioè in ordine alla particolare situazione della Chiesa cattolica ed alla esistenza dello Stato della Città del Vaticano in Italia.

Crede che la formula suggerita dalla prima Sottocommissione, dopo lunghe discussioni nelle quali si è cercato di tener conto delle varie esigenze, sia accettabile nella Costituzione italiana; perché ricordare i Patti Lateranensi significa stabilire una base definitiva per dei rapporti che rispondono ad un’esigenza morale, sociale e politica: ad un’esigenza morale perché il popolo italiano è prevalentemente cattolico; ad un’esigenza sociale in quanto si dà effettivamente un indirizzo di umanità a tutta la vita del nostro Paese, poiché nessuno, anche non cattolico, potrà affermare che non sia profondamente umano il cattolicesimo; ad un’esigenza politica, perché è un atto di pacificazione nazionale di un Paese già diviso in tanti campi, e che bisogna cercare di unire.

Fu proprio l’oratore a cercare di attenuare la formula che poteva sembrare troppo drastica proponendo – e la Sottocommissione fu d’accordo – che qualunque modificazione dei rapporti fra Stato e Chiesa, bilateralmente accettata, non richiederà un procedimento di revisione costituzionale. Si consacra così la stabilità dei rapporti che le due parti potranno modificare, ma resta fermo che l’Italia è Paese cattolico e non può e non deve essere vittima di contrasti fra lo spirito degli italiani e lo Stato, che deve essere l’interprete di questo spirito e, quindi, anche espressione di questo senso cattolico e cristiano del popolo.

È, quindi, del parere che l’articolo debba essere approvato così come è stato proposto dalla prima Sottocommissione.

CANEVARI ricorda che l’onorevole Cevolotto aveva proposto di sopprimere il secondo e terzo comma dell’articolo proposto dalla prima Sottocommissione, e che il Comitato di redazione ha unificato. Qualora egli non insistesse nella proposta, la farebbe sua e nel caso che questa fosse respinta, voterebbe il primo emendamento proposto in sede di Comitato di redazione.

EINAUDI prende atto della fiducia manifestata dall’onorevole Moro che la disposizione dei Patti Lateranensi che aveva condotto al caso Buonaiuti in avvenire possa essere modificata, perché considera veramente che il caso Buonaiuti sia stato uno di quelli che hanno offeso di più la coscienza degli studiosi italiani. La scienza nel suo campo è per lo meno altrettanto indipendente e sovrana come la Chiesa e la religione e, quindi, quell’interferenza che vi è stata in quel caso dovrà, a suo parere, essere eliminata, attraverso una revisione bilaterale dei Patti Lateranensi.

Rileva poi che le considerazioni dell’onorevole Cevolotto, per quanto riguarda l’inserzione di disposizioni relative a trattati internazionali in una Costituzione, non lo hanno convinto, perché pensa che l’idea della sovranità dello Stato sia un’idea falsa, anacronistica, che deve essere abbandonata. Ritiene, quindi, che la disposizione in esame, caso mai, precorre i tempi e sarà un esempio che dovrà essere seguito. Si dovrà in avvenire nelle Costituzioni dei singoli Paesi introdurre delle norme riguardanti trattati internazionali. L’esistenza degli Stati sovrani non è più tollerabile nel mondo moderno. Quindi considera questa disposizione singolarmente felice., tale da aprire la via ad altre disposizioni del genere, per cui le Costituzioni vengano ad essere legate in forme durature a trattati internazionali.

LUSSU chiede all’onorevole Einaudi se, riconoscendo ormai antiquata la formula della sovranità dello Stato, e poiché ogni Stato ha la sua sovranità limitata, in rapporto ad altri Stati egualmente sovrani e indipendenti, egli applichi questo concetto anche alla sovranità della Chiesa.

EINAUDI. La Chiesa è sovrana nel suo ordine spirituale.

PRESIDENTE osserva che l’onorevole Einaudi, in sede di votazione del primo comma, ha rilevato che la Chiesa e lo Stato si muovono in ordini diversi e che la Chiesa nel suo ordine è indipendente e sovrana.

LUSSU. Allora vi è contradizione.

CEVOLOTTO avverte che il progetto di Costituzione non è così insensibile a quelle alte ragioni che l’onorevole Einaudi ha esposto, se nell’articolo 4 dice che «l’Italia consente, a condizione di reciprocità e di eguaglianza, le limitazioni di sovranità necessarie ad un’organizzazione internazionale che assicuri la pace e la giustizia per i popoli».

CAPPI osserva che, negandosi che oggi i rapporti fra Stato e Chiesa siano regolati dai Patti Lateranensi, si viene praticamente ad ammettere che il Concordato deve ritenersi abrogato. Né vale stabilire nell’emendamento che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati da patti concordatari, in quanto, se si vuole mantenere il Concordato, quale bisogno vi è di questa affermazione?

Non nega che la formula in discussione aveva destato in lui una certa perplessità in rapporto all’articolo 1 del Trattato Lateranense, che l’onorevole Cevolotto ha ricordato, articolo il quale ribadisce che la religione cattolica è la sola religione dello Stato, perché personalmente non sa concepire che uno Stato possa avere una sola religione. Ma la sua perplessità è però scomparsa non solo per quello che ha detto l’onorevole Moro, ma perché la formula: «I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi» – per quanto non felicissima – esclude che possano derivare conseguenze lesive della libertà delle altre Chiese. Personalmente crede che la Chiesa cattolica abbia in sé tanta virtù e vitalità da non aver bisogno di nessuna situazione di privilegio che si traduca in situazioni di inferiorità delle altre Chiese.

Per queste ragioni, salvo qualche modifica di forma, voterà l’emendamento.

MORTATI non si rende ragione del contrasto suscitato dal comma in esame, che è una logica e necessaria conseguenza del primo già approvato. Infatti, se è vero che lo Stato e la Chiesa cattolica, ciascuno nel proprio ordine, sono indipendenti e sovrani, la conseguenza che ne discende dal punto di vista giuridico e politico è questa: che i loro rapporti non possono essere regolati se non da convenzioni bilaterali. Se lo Stato, infatti, potesse intervenire unilateralmente in questi rapporti, se cioè potesse regolare unilateralmente le cosiddette «res mixtae», potrebbe disconoscere le esigenze della Chiesa stessa: quindi, è necessario che siano regolati dal Concordato.

Posta questa premessa, quale Concordato potrà attuarsi? Evidentemente quello in vigore. Non è possibile infatti che, mentre si ammette il principio che lo Stato e la Chiesa regolano i loro rapporti con patti concordatari, non si riconoscano quelli in atto. L’emendamento potrebbe avere proprio questo significato: di non riconoscere i Patti Lateranensi e di rimandare all’avvenire la regolazione dei rapporti fra Stato e Chiesa. Ma questo è assurdo ed è in contradizione con le premesse. Se invece si ammette che siano i Patti Lateranensi in atto a regolare questi rapporti, pensa che la ragione dell’emendamento venga meno. Se, d’altra parte, per un’ipotesi assurda, si dovesse pensare ad un irrigidimento della Chiesa in materie che riguardano la sovranità dello Stato, vi sarebbe sempre la possibilità di revisione del Concordato.

GIUA non intende entrare nello spirito dei Patti Lateranensi, né discuterne gli articoli; né si preoccupa del caso Buonaiuti, il quale del resto, nel terzo volume della sua «Storia», lo ha già chiarito; ma si pone da un punto di vista storico: i Patti Lateranensi sono stati stipulati fra un governo fascista – che non era emanazione del popolo italiano – e i rappresentanti del Vaticano. Ora i colleghi della Democrazia cristiana, accettando in pieno questi Patti, vengono a stabilire, anche senza volerlo, dei legami con l’opera del fascismo. Ma in essi è anche la preoccupazione che in avvenire il popolo italiano possa modificare i Patti Lateranensi. Ora, se ritengono che i Patti Lateranensi sono diretta manifestazione della volontà del popolo italiano, perché non accettano la formula che i rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati in termini concordatari? Evidentemente, se il popolo ha già manifestato la sua volontà, indietro non si torna. Ma allora, perché si vuol chiudere la porta a nuovi patti che potranno sorgere fra il Vaticano e lo Stato italiano e che potranno anche migliorare quelli esistenti?

In realtà ritiene che la posizione dei colleghi democristiani sia diretta ad affermare che i Patti Lateranensi non si dovranno più discutere. Personalmente dichiara di non poter accettare questo principio. I Patti Lateranensi significano politica fascista, e quando il popolo italiano discuterà più seriamente quella politica, avrà diritto anche di rivedere quei Patti.

PERASSI dichiara che voterà il primo emendamento proposto, prescindendo in maniera assoluta da qualsiasi apprezzamento di merito relativo al Concordato e al Trattato Lateranense, nel loro insieme e nelle loro singole parti: sono questioni che in questo momento non si pongono. Intende restare sul terreno strettamente giuridico e costituzionale, e non intende neppure rilevare quanto è stato detto dall’onorevole Moro per cercare di attenuare la portata che, secondo lui, avrebbe oggi quell’articolo 1 del Trattato del Laterano, in base al quale l’Italia si sarebbe obbligata a riconoscere ed a riaffermare il principio consacrato nell’articolo 1 dello Statuto del 1848. Per quanto l’onorevole Moro sia persona di molta autorità, questo è indubbiamente un problema che supera la sua competenza.

Ad ogni modo prescinde da tutti questi problemi estremamente delicati per rimanere sul terreno strettamente giuridico. Non ritiene che sia il caso di inserire nella Costituzione un richiamo concreto ai patti attualmente esistenti, perché pensa che non vi siano ragioni per fare agli accordi Lateranensi un trattamento giuridico costituzionale diverso da quello che si fa ad altri trattati internazionali.

È d’accordo in parte con quanto esprimeva l’onorevole Einaudi, però egli consentirà di dire che non c’è ragione di applicare il principio, da lui accennato, in maniera particolare, ma se mai bisognerebbe affermarlo in maniera generale.

D’altra parte, qual è la portata dell’emendamento che voterà? È evidente che il non richiamare nella Costituzione i patti attualmente esistenti, e adottare la frase più generale che i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati in termini concordatari, non significa affatto toccare tali patti. È principio di diritto internazionale consacrato da dichiarazioni solenni che neppure una Costituzione può toccare le norme convenzionali esistenti, le quali restano in vigore fino a quando non siano modificate o si estinguano, secondo i principî da cui è regolata la loro vita.

La ragione essenziale, di non includere questo richiamo esplicito, sta nel fatto che si verrebbe a usare verso questo gruppo storico di accordi e di trattati un trattamento giuridico che, sotto diversi aspetti, diversifica da quello che si usa verso altri trattati.

Per questa ragione voterà a favore dell’emendamento proposto, formula che tra l’altro già costituisce una notevole concessione sotto altri punti di vista e che, del resto, è consacrata anche nella Costituzione di un piccolo Stato eminentemente cattolico: il Cantone di Friburgo.

TERRACINI attendeva dalla prima affermazione dell’onorevole Mortati che egli giungesse alla logica conseguenza di chiedere la soppressione di tutto il secondo comma dell’articolo. L’affermazione iniziale, che la Chiesa e lo Stato sono indipendenti e sovrani, implica che si stabiliscano bilateralmente degli accordi volontari sui loro rapporti, e poiché tra lo Stato e la Chiesa questi patti si chiamano concordati, non vi sarebbe bisogno di dire altro.

L’onorevole Mortati ha invece tratto la conseguenza che adottare la formula: «I rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati in termini concordatari» non significa dichiarare la caducità dei Patti Lateranensi, ma che questi patti non sono più in vigore oggi.

Ora noi non vogliamo dire che i termini concordatari esistenti, in quanto regolano oggi i rapporti tra Stato e Chiesa, non esistono più; anzi, diamo una maggiore sostanza al modo con cui oggi essi si esplicano.

Riconosce che per ragioni politiche, nonostante la superfluità del secondo comma, sia necessario parlare appunto dei rapporti concordatari, ma non, come dice l’onorevole Moro, perché oggi il popolo italiano vuole avere la certezza che questi rapporti concordatari sono quelli in vigore. Al popolo italiano ciò che importa sapere è che fra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica i rapporti saranno sempre regolati sulla base dell’armonia e del consenso reciproco; il popolo vuole essere sicuro che non si ritorni più alla situazione precedente.

Occorre, quindi, parlare dei patti concordatari e non di quelli Lateranensi, che sono caduchi, come tutti i patti che si basano su trattative adeguate a determinate situazioni. La Costituzione contiene delle norme e non fissa una situazione di fatto, come si fa invece nella formula del primo comma. Ad ogni modo, se anche si venisse a questo criterio assurdo, che la Costituzione possa limitarsi a registrare una situazione di fatto, bisogna cercare di registrare quella situazione che ha in sé una garanzia di durata.

A questo proposito ricorda che i Patti Lateranensi non sono un tutto unitario, per quanto un interprete molto augusto ed autorizzato abbia affermato, all’epoca in cui sono stati redatti, che costituivano un insieme unitario. Ora, che cosa è che ha un carattere di continuità nei Patti Lateranensi? È il riconoscimento del sorgere di questo nuovo Stato, nei confronti del quale l’Italia democratica avrà lo stesso atteggiamento che nei confronti di tutti gli Stati che esso riconosce e rispetta, e sulla cui esistenza non solleverà mai il più piccolo dubbio. Evidentemente non si può richiamare il patto territoriale nella Costituzione e tacere del Concordato, ma non bisogna parlare dello Stato del Vaticano e nemmeno del Concordato fra Chiesa cattolica e Stato italiano.

Perciò, poiché questa rescissione delle due parti non è possibile, bisogna che esse seguano lo stesso destino, che è quello di non avere un carattere di stabilità. Di fronte alla continuità che deve avere la Costituzione italiana, ogni altro dato contrattuale ha un carattere caduco ed a questa stregua bisogna considerare i Patti Lateranensi.

L’onorevole Moro, del resto, ha riconosciuto che alcuni articoli del Concordato, i più preoccupanti, in fondo sono già da considerarsi come inficiati. E allora è da chiedersi se sia possibile immettere nella Costituzione un patto che già a priori è riconosciuto che non esiste più nella sua interezza e continuità. Per queste ragioni dichiara di accettare l’emendamento proposto.

LUSSU avrebbe preferito, nella sua coscienza democratica, che dei rapporti fra lo Stato e la Chiesa si facesse cenno brevemente in un preambolo, nel senso che la religione cattolica è la religione della maggioranza degli italiani e che lo Stato ispira a questa realtà la sua azione politica.

Pensa, in ogni caso, che non si possano introdurre nella Costituzione i Patti Lateranensi, che furono stipulati dal regime fascista, ma che non sono stati discussi e approvati dal popolo italiano.

A proposito dell’articolo 5 del Concordato, oltre al caso Buonaiuti, citato dall’onorevole Cevolotto, ricorda il caso di un prefetto designato dal Comitato di liberazione, perché fu capo eroico di una divisione partigiana e che si voleva allontanare, in quanto sacerdote che aveva abbandonato la Chiesa.

Dichiara, in conclusione, che qualora la proposta di soppressione dell’onorevole Canevari non fosse approvata, voterà a favore dell’emendamento proposto.

MORO, parlando per fatto personale, in risposta all’onorevole Terracini, il quale ha ricordato a scopi polemici la sua precedente esposizione, non ha bisogno di chiarire che non ha inteso inficiare alcuna norma del Concordato, né affermare che si debba includere nella Costituzione un patto ormai superato. Ha detto soltanto che per alcune ragioni di dettaglio non possiamo rifiutare di riconoscere i motivi che impongono di includere il Concordato nella Costituzione.

AMBROSINI osserva che, poiché la questione è posta, bisogna risolverla; ed essa non può, per coerenza, essere risolta se non nel modo proposto dalla prima Sottocommissione e dal Comitato di redazione. Non c’è alcun contrasto fra il secondo ed il primo comma, essendo ambedue strettamente connessi, giacché il secondo comma non è che l’applicazione e la precisazione del primo. Non si può prescindere dal richiamo tassativo dei Patti Lateranensi. Il riferimento generico ad un regolamento dei rapporti tra Stato e Chiesa in «termini concordatari» sarebbe assolutamente insufficiente. Occorre proclamare esplicitamente che tali rapporti sono regolati dai «Patti Lateranensi». Essi costituiscono una realtà alla quale è legato il mantenimento della pace religiosa dell’Italia: quando parliamo di Patti Lateranensi, intendiamo richiamarci sia al Trattato che al Concordato.

Si dice che il Trattato e il Concordato, richiamati nella Costituzione, verrebbero quasi a cristallizzare una situazione. Ma ciò non è nella natura delle cose, e non è neppure nello stesso sistema proposto dalla prima Sottocommissione e dal Comitato di redazione, giacché l’ultima parte del secondo comma prevede tassativamente la possibilità, quando intervenga il consenso delle due Alte Parti contraenti, che le disposizioni di questi patti siano modificati; non solo, ma facilita l’accettazione delle eventuali modifiche nel sistema del diritto positivo italiano, stabilendo che non occorrerà, a tale scopo, una revisione costituzionale, ma basterà il procedimento legislativo ordinario.

Per questi motivi voterà a favore del secondo comma dell’articolo, così come è stato proposto dal Comitato di redazione.

GRASSI ricorda che, dopo una lunga discussione in seno alla prima Sottocommissione, si arrivò alla formula in esame, che ha il dovere di difendere per averla votata. Dal punto di vista giuridico, pensa che non costituisca incrinatura il fatto che per questi casi particolari si faccia un’applicazione di principî generali, che sono ormai comuni a tutti, e stabiliti anche in un articolo della nostra Costituzione.

Per quanto riguarda i rilievi dell’onorevole Perassi, osserva che il Trattato Lateranense non può essere considerato alla stregua dei normali trattati che si stipulano con altri Stati. Dobbiamo riconoscere, come italiani, che con esso è stata superata una fase storica che i nostri predecessori trovarono insoluta e senza possibilità di soluzione. E non è esatto che a tale conclusione si sia giunti come conseguenza di una situazione soltanto fascista: l’avvenimento poté realizzarsi in quel periodo, ma il desiderio degli uomini politici italiani precedeva di molto il periodo fascista, e tentativi furono fatti da parte di tutti per cercare una soluzione, che trovava resistenze specialmente nell’ordinamento della Chiesa, che aveva le sue ipoteche su Roma e sul vecchio Stato pontificio. Quindi, per gl’italiani questi patti rappresentavano non soltanto la pace religiosa riacquistata, ma anche la soluzione storica definitiva in rapporto al territorio, che è uno degli elementi costitutivi dello Stato italiano.

Vi sono poi altre considerazioni di ordine politico: lo Stato e la Chiesa in Italia rappresentano due comunità interferenti fra di loro, in quanto agiscono sugli stessi individui, che nella grandissima maggioranza appartengono alla Chiesa cattolica. Quindi, sono due sfere di sovranità che si incontrano in tutta una materia mista che deve essere necessariamente regolata. Ora, i sistemi per regolare questi rapporti sono: o quello giurisdizionale, o quello concordatario. Si ha il sistema giurisdizionale, quando lo Stato con sue leggi regola questa materia mista; quello concordatario, quando tale materia è regolata in forme bilaterali.

In sostanza, la formula sostenuta dall’onorevole Togliatti nella prima Sottocommissione che i rapporti sono regolati «in termini concordatari», riguarda soltanto il Concordato. Più logica appare, da questo punto di vista, la proposta di non parlare di questa materia nella Costituzione: ma dal momento in cui – e l’onorevole Togliatti, con spirito che fu ammirato, dichiarò che le discussioni della prima Sottocommissione dovessero essere liberate da preoccupazioni anticlericali, in quanto riconosceva questa esigenza del popolo italiano (e su questa linea fu possibile trovare l’accordo) – si stabilisce il principio costituzionale che gli accordi fra lo Stato e la Chiesa debbono essere regolati in forma concordataria, non capisce perché non si debba parlare dei Patti Lateranensi che attualmente regolano i rapporti tra lo Stato e la Chiesa.

È stato chiarito poi che eventuali modifiche, stabilite con nuovi accordi fra la Santa Sede e l’Italia, non dovranno esser fatte in forma di revisione costituzionale, ma con l’ordinario procedimento legislativo e, quindi, ogni preoccupazione dovrebbe scomparire.

MASTROJANNI. Le stesse ragioni che hanno determinato l’onorevole Grassi a difendere l’articolo così come è stato formulato ed approvato dalla prima Sottocommissione, lo inducono a sostenere con identico calore la stessa tesi.

È un fatto indiscutibile che il fenomeno storico che maggiormente e meglio identifica e caratterizza la spiritualità del popolo italiano è quello che si riferisce al Concordato. Che questo grandioso evento storico si sia maturato durante un’epoca, la quale è giustamente avversata dalle nostre coscienze, non inficia né diminuisce l’importanza che esso ha.

Le osservazioni fatte da diverse parti non hanno, a suo parere, fondamento, perché si riferiscono più a situazioni formali che sostanziali. Quello che a noi interessa di ribadire è che, ad un certo momento della vita del Paese, la spiritualità del popolo italiano ha trovato soddisfazione tangibile nella realizzazione dei famosi patti. Noi, che siamo i depositari di questa spiritualità, la quale si proietta nel futuro, abbiamo il dovere, nel momento in cui redigiamo la Carta fondamentale della nostra Costituzione, di non disconoscere quello che il nostro popolo ha unanimemente approvato e che in nessuna occasione ha dimostrato di non voler osservare.

Se dovessimo accedere alle opinioni dell’onorevole Lussu, per le stesse ragioni dovremmo aggredire tutta la legislazione precorsa e dire che essa, essendo nata in un periodo che è stato avversato dalle nostre coscienze, non ha nessuna consistenza giuridica né morale. Al contrario, rivediamo ed abroghiamo tutte quelle leggi che non rispondono più ai nostri ordinamenti; ma le stesse ragioni ci consentono di affermare che anche per quanto si riferisce al Concordato e al Trattato Lateranense abbiamo la possibilità di rivederli, nelle forme previste dall’articolo in esame, lasciando integra quella che è ormai conquista immutabile del popolo.

Né le ragioni addotte dall’onorevole Perassi hanno consistenza dal punto di vista dell’opportunità politica e della coscienza collettiva del nostro popolo; perché, se è vero che i trattati, al di sopra e al di fuori di ogni Costituzione, continuano a mantenere il loro valore e la loro efficacia, e devono essere regolati dagli accordi in essi previsti, è d’altra parte vero che non possiamo considerare lo Stato della Città del Vaticano e la Chiesa cattolica alla stregua di qualsiasi altro Stato.

È da aversi per fermo – e su questo punto gli sembra che non vi siano ragioni che possano contrastare la sua opinione – che i rapporti fra lo Stato italiano e la Chiesa hanno una natura squisitamente spirituale, che sovrasta qualsiasi nostra concezione giuridica. Il contenuto di tali rapporti non può essere coercito da alcuna artificiosa costruzione giuridica. Se facciamo astrazione da questa concezione, ci poniamo su un terreno che snatura l’essenza stessa del contenuto del Trattato e del Concordato. Ed è per questo che, nei confronti della Chiesa, dobbiamo avere un orientamento che prescinda da sofistiche considerazioni giuridiche, ed è per questo che dobbiamo solennemente dire che quanto fu finalmente acquistato dalla coscienza collettiva, in un periodo storico caratterizzato da questo grandioso evento, deve trovare il suo posto nella Costituzione italiana, e deve ritenersi immutabile, perché immutabile è nel tempo lo spirito cattolico del popolo italiano.

BASSO non ha sentito nessun argomento che incida sul significato dell’emendamento, perché tutti gli argomenti portati a sostegno dell’articolo della prima Sottocommissione in realtà trovano piena soddisfazione anche nell’emendamento.

La sola preoccupazione che, a suo parere, è stata legittimamente espressa, è che si debba nella Costituzione affermare il principio che lo Stato non ritorni al vecchio giusnaturalismo, cioè che alla Chiesa è vietato di legiferare in una materia di sua stretta competenza ed anche nelle materie miste. Pensa che il primo comma approvato e l’emendamento in esame diano alla Chiesa l’assoluta garanzia. La materia spirituale è riservata alla sola Chiesa; con l’emendamento che egli sostiene, si afferma che i rapporti fra Stato e Chiesa sono regolati per via di concordato. Non vi è nessun argomento serio che possa condurre ad andare al di là di questa affermazione, che dà la massima garanzia alla Chiesa cattolica.

Non vi è dubbio che in linea giuridica gli argomenti addotti dimostrano che questa non è materia da inserire nella Costituzione; ma pensa che vi possono essere preoccupazioni politiche. Ritiene però che la proposta della prima Sottocommissione sia inaccettabile per la nostra coscienza giuridica. Vi sono nel Trattato e nel Concordato alcuni articoli che contradicono a norme della Costituzione già approvate. Vi è nel Concordato l’articolo 5 che ferisce l’indipendenza dello Stato, in quanto lo Stato è obbligato ad allontanare da determinati uffici quelle persone che la Chiesa intende colpire con suoi provvedimenti. Quando si dice che determinate persone, per motivi religiosi, non possono concorrere a determinati impieghi dello Stato, si ferisce il principio della eguaglianza dei cittadini.

Vi è l’articolo sull’insegnamento religioso che viola il principio dell’eguaglianza, in quanto stabilisce, a favore dei cittadini cattolici, il diritto di avere dallo Stato l’insegnamento cattolico nelle scuole, diritto che non è riconosciuto alle altre religioni: così nelle scuole valdesi vi è l’insegnamento cattolico, mentre non vi è l’insegnamento delle religioni che veramente si professano in quella zona.

Voterà pertanto l’emendamento che dà le più ampie garanzie di tutela per la religione.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta dell’onorevole Canevari di sopprimere il secondo comma.

(La Commissione non approva).

Pone ai voti l’emendamento: «I rapporti fra lo Stato e la Chiesa sono regolati in termini concordatari». Su di esso è stata chiesta la votazione per appello nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bocconi, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, De Vita, Di Vittorio, Farini, Giua, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Rocca, Lombardo, Lussu, Marchesi, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Togliatti, Zuccarini.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Grassi, La Pira, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     59

Voti favorevoli        27

Voti contrari                        32

(La Commissione non approva).

Il secondo emendamento, sostanzialmente uguale al primo non approvato, s’intende abbandonato.

Pone in votazione il secondo comma dell’articolo 5:

«I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualunque modificazione di essi bilateralmente accettata non richiederà un procedimento di revisione costituzionale».

È stata chiesta la votazione per appello nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Grassi, La Pira, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro Mortati, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Rispondono no: Amadei, Basso, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, De Vita, Farini, Giua, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Rocca, Lombardo, Lussu, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Terracini, Zuccarini.

Comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     51

Voti favorevoli        31

Voti contrari            20

(La Commissione approva. È così approvato l’articolo 5).

Avverte che rimane da esaminare il seguente comma aggiuntivo proposto dall’onorevole Terracini: «Le altre Chiese sono regolate dalle proprie norme, che lo Stato riconosce in quanto non contengano disposizioni contrarie alla legge. I rapporti fra lo Stato e le altre Chiese sono regolati per via legislativa, d’intesa con le loro rappresentanze legittime».

LUCIFERO è d’accordo sul contenuto della formula; ma osserva che l’articolo testé approvato regola i rapporti tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica, che è anch’essa Stato, mentre le altre Chiese non sono Stati. La sede opportuna del comma proposto sarebbe, a suo parere, l’articolo 13 che disciplina la libertà religiosa.

TERRACINI osserva che è necessario includere una statuizione del genere nel testo costituzionale. Non ha pertanto difficoltà ad accettare la proposta dell’onorevole Lucifero.

CAPPI, circa la frase: «in quanto non contengano disposizioni contrarie alla legge», rileva che vi sono materie che non rientrano nelle positive disposizioni giuridiche dello Stato; per esempio, il concetto di ordine pubblico e di buon costume.

TERRACINI nota che, per quanto si riferisca alla morale e al buon costume, v’è già una norma di carattere generale che vale per ogni Chiesa e per ogni culto.

LUSSU sopprimerebbe l’espressione: «in quanto non contengano disposizioni contrarie alla legge», poiché ritiene ciò implicito nei concetti che sono a fondamento delle altre Chiese.

TERRACINI osserva che, siccome l’articolo che propone si riferisce essenzialmente alla struttura interna delle Chiese e non alle forme del culto, è necessario affermare che non devono avere disposizioni contrarie alla legge. È vero che nella situazione attuale non vi sono Chiese che abbiano disposizioni di questo genere. Ma qui si tratta di formare una norma costituzionale, e, quindi, di lasciar aperta la via alla regolamentazione di eventualità avvenire.

DOSSETTI nota che l’espressione che «lo Stato riconosce» le norme che regolano le altre Chiese, suppone una realtà strutturale di vita interna che soltanto alcune Chiese e non la maggior parte di esse posseggono. Si suppone cioè un ordinamento giuridico interno, l’esistenza di organi legislativi e di funzioni che non si trovano in moltissime Chiese, le quali hanno più che altro una struttura di fatto, che non costituisce un proprio e vero ordinamento giuridico.

Quindi, se l’onorevole Terracini ha l’intenzione di avvalorare una parificazione fra la Chiesa cattolica e le altre Chiese per quel che riguarda i rapporti fra l’ordinamento interno delle Chiese e quello dello Stato, possiamo anche condividerla; ma indubbiamente v’è una diversa situazione di fatto strutturale interna delle singole Chiese: per esempio, la Chiesa ebraica, la protestante e certe Chiese evangeliche non hanno concretizzazioni strutturali.

Quando si dice che le Chiese sono riconosciute, in quanto non siano regolate da norme contrarie alla legge, bisogna vagliare il complesso di queste norme: per esempio, quelle riguardanti la disciplina familiare.

Non crede pertanto che l’articolo così formulato possa essere accolto, pur accettando il principio che lo ha ispirato e che richiede una formulazione più precisa e specifica.

FUSCHINI ritiene che sia opportuno rimandare l’ulteriore esame della proposta dell’onorevole Terracini, affidando a lui e all’onorevole Dossetti il compito di predisporre la formula più opportuna da portare all’esame della Commissione.

PRESIDENTE. Resta allora inteso che gli onorevoli Terracini e Dossetti concorderanno il testo da sottoporre all’esame della Commissione, testo che sarà opportunamente collocato secondo le osservazioni dell’onorevole Lucifero.

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Giua, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

Assenti giustificati: Ghidini, Ruini.

Erano assenti: Bordon, Cannizzo, Caristia, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Lami Starnuti, Mancini, Merlin Lina, Molè, Paratore, Porzio.

MERCOLEDÌ 22 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

16.

RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 22 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Sui lavori della Commissione

Presidente – Terracini – Togni – Lussu.

Sulla rieleggibilità del Capo provvisorio dello Stato

Cevolotto – Presidente – Fabbri – Tosato – Leone Giovanni.

Disposizioni generali del progetto di Costituzione (Esame degli articoli)

Presidente – Moro – Togliatti – Grassi – Cappi – Terracini – Lussu – La Rocca – Fanfani – Nobile – Lucifero – Tosato – Merlin Umberto – De Vita – Cevolotto – Fabbri – Bulloni – La Pira.

La seduta comincia alle 10.

Sui lavori della Commissione.

PRESIDENTE avverte che è all’ordine del giorno della seduta il tema della composizione della seconda Camera.

TERRACINI, per incarico della seconda Sottocommissione, prega di sospendere la discussione su tale problema, poiché la Sottocommissione stessa è in procinto di elaborare una formula relativa alla composizione della seconda Camera, di cui ha iniziato l’esame nella seduta di ieri.

TOGNI, data l’importanza dell’argomento, sul quale si delinea una sensibile divergenza di opinioni ed in considerazione del fatto che la Sottocommissione competente sta procedendo ad una nuova formulazione, ritiene opportuno che anche l’Adunanza plenaria della Commissione dia il proprio contributo alla discussione. Propone quindi che nella presente seduta si svolga almeno una discussione di massima sull’argomento.

LUSSU crede invece opportuno, per economia di tempo e di discussione, aderire alla richiesta fatta, a nome della seconda Sottocommissione, dall’onorevole Terracini, poiché ritiene necessario che la questione sia portata in seduta plenaria soltanto dopo essere stata discussa il più ampiamente possibile in seno alla Sottocommissione competente ed al Comitato speciale.

PRESIDENTE mette a partito la proposta dell’onorevole Terracini di rinviare la discussione sul tema concernente la composizione della seconda Camera.

(È approvata).

Fa presente che, secondo l’ordine del giorno, si dovrebbe ora passare alla discussione sulla questione dei rapporti fra Stato e Chiesa.

Comunica che l’onorevole Dossetti, che è stato Relatore su tale materia nella prima Sottocommissione, e che oggi è assente, gli ha fatto pervenire la richiesta di rinviare l’esame della questione.

Mette a partito tale richiesta.

(È approvata).

Sulla rieleggibilità del Capo provvisorio dello Stato.

 

CEVOLOTTO fa presente che nella seduta di ieri si è discusso l’articolo 78, concernente la forma di elezione del Presidente della Repubblica e la questione della sua rieleggibilità. Ora nel capitolo «Osservazioni» si accennava alla necessità di chiarire che la disposizione della non rieleggibilità non è applicabile nei confronti dell’attuale Capo provvisorio dello Stato. Tale punto, però, è rimasto senza decisione. Crede pertanto opportuno che la Commissione si pronunci al riguardo.

PRESIDENTE richiama l’attenzione della Sottocommissione sull’osservazione dell’onorevole Cevolotto.

FABBRI, per mozione d’ordine, fa presente che nella seduta di ieri fu approvato a maggioranza di non escludere la rieleggibilità per il Presidente della Repubblica. Gli sembra perciò che il caso speciale sollevato dall’onorevole Cevolotto rientri nella regola generale.

PRESIDENTE osserva che qui si tratta di un caso transitorio, per quanto riguarda il Capo provvisorio dello Stato; si deve, cioè, decidere se si ritiene che qualunque disposizione concernente il Presidente della Repubblica possa implicitamente applicarsi al Capo provvisorio dello Stato o se è necessario formulare al riguardo un’esplicita dichiarazione.

FABBRI non è convinto dell’argomento addotto dal Presidente; comunque, per semplificare, ritira la sua osservazione.

TOSATO osserva che la preoccupazione di introdurre una disposizione transitoria relativa alla posizione dell’attuale Capo provvisorio dello Stato non ha ragione d’essere in quanto, in ogni caso, è stabilito che il Capo dello Stato è rieleggibile. Non vi è quindi alcun ostacolo per la elezione dell’attuale Capo provvisorio a Presidente della Repubblica.

LEONE GIOVANNI concorda esprimendo l’avviso che sulla rieleggibilità del Capo provvisorio dello Stato non vi possano essere dubbi. Reputa quindi superfluo inserire una disposizione al riguardo.

PRESIDENTE constata che da quanto i colleghi intervenuti nella discussione hanno argomentato è risultato chiaro che l’attuale Capo provvisorio dello Stato può essere eletto alla Presidenza della Repubblica.

(La Commissione concorda).

Esame degli articoli delle disposizioni generali del progetto di Costituzione.

 

PRESIDENTE apre la discussione sugli emendamenti proposti agli articoli delle disposizioni generali.

MORO, per mozione d’ordine, fa notare che, oltre agli emendamenti stampati e distribuiti a cura della Presidenza della Commissione, sono indicati, nella colonna delle osservazioni del progetto di Costituzione, altri emendamenti, presentati in sede di Comitato di coordinamento e non ancora discussi, in quanto non investivano questioni di principio.

Ritiene che tali emendamenti debbano essere anch’essi presi in esame.

PRESIDENTE rileva che si tratta di osservazioni, più che di veri e propri emendamenti i quali debbono essere presentati e firmati dai proponenti.

MORO osserva che la Commissione ha cominciato col prendere in esame alcune parti del progetto particolarmente controverse e di speciale importanza; lasciando impregiudicata ogni decisione circa gli articoli per i quali vi erano proposte di emendamenti, che non erano però considerati di tale importanza, da dovere essere sottoposti immediatamente all’esame della Commissione plenaria.

PRESIDENTE fa presente che la procedura finora seguita è stata quella di portare l’esame sui punti che il Presidente della Commissione aveva sottoposti a speciale considerazione.

Si tratta ora di procedere all’esame dei singoli articoli, tenendo conto delle osservazioni formulate in merito a ciascuno di essi.

Pone in discussione l’articolo 1, nel testo approvato dal Comitato di redazione:

«L’Italia è Repubblica democratica. La sua sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi.

«Il lavoro è l’essenziale fondamento dell’organizzazione politica economica e sociale della Repubblica italiana».

Avverte che su quest’ultimo comma sono state proposte formulazioni diverse e precisamente le due seguenti:

«La sua organizzazione politica economica e sociale è fondata sul lavoro e sull’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori».

«Il lavoro è il titolo di partecipazione all’organizzazione politica economica e sociale della Repubblica italiana».

Comunica che l’onorevole Togliatti ha inoltre presentato un emendamento, tendente a sostituire il primo comma con il seguente:

«L’Italia è una Repubblica democratica di lavoratori».

Ricorda che nell’ultima seduta si era raggiunto l’accordo su questo punto: che sulle formulazioni approvate dal Comitato di redazione, in base alle proposte pervenute dalle varie Sottocommissioni, la Commissione non si sarebbe dovuta fermare (rimandando naturalmente l’articolazione all’esame definitivo dell’Assemblea costituente), salvo il caso in cui le formulazioni avessero dato luogo a discussioni o controversie in seno al Comitato stesso.

In base a tale accordo, si era rimasti intesi che l’esame dell’Assemblea plenaria della Commissione avrebbe dovuto limitarsi a quelle parti degli articoli che avevano dato luogo ad osservazioni accennate nel progetto distribuito, o a proposte di emendamenti presentati secondo la prescritta procedura.

Dato però che nella odierna seduta si procede all’esame degli articoli senza che ciò fosse all’ordine del giorno, si può, in via eccezionale, consentire la presentazione immediata di emendamenti.

(La Commissione concorda).

Apre la discussione sull’emendamento al primo comma presentato dall’onorevole Togliatti.

TOGLIATTI precisa che il suo emendamento tende a specificare giuridicamente e politicamente nella Costituzione, in termini concreti, la parte che si intende riservare al lavoro nella organizzazione della Repubblica democratica italiana.

GRASSI ricorda che nella prima Sottocommissione, in seno alla quale si è svolta la discussione, furono ascoltate tutte le ragioni addotte dall’onorevole Togliatti per portare ad una specificazione del carattere della Repubblica democratica. La maggioranza, però, ritenne che questa specificazione fosse superflua o troppo specifica e togliesse il carattere, effettivamente fondamentale, che si doveva dare alla Repubblica, ossia il carattere democratico.

TOGLIATTI osserva che, sulla questione, non ci fu maggioranza, ma parità di voti.

GRASSI rileva che l’onorevole Togliatti si riservò di presentare nuovamente la questione in sede di Commissione e di Assemblea costituente. Osserva che la questione può dirsi fondamentale, in quanto stabilisce il tipo di Repubblica. Sembrò sufficiente alla prima Sottocommissione stabilire che l’Italia è una Repubblica democratica, nel senso che nel passato e nel presente ha la parola democrazia. Con la specificazione «di lavoratori» si verrebbe a dare la sensazione di voler formare una Repubblica democratica «specializzata», cioè di una sola categoria, di una sola classe.

Richiamando l’attenzione della Commissione sulla gravità della questione, mantiene la sua posizione contraria all’emendamento proposto.

CAPPI si associa alle considerazioni svolte dall’onorevole Grassi, rilevando che pur essendo tutti d’accordo che il lavoro è l’attività preminente, che dà diritto a partecipare alla vita pubblica, bisogna tener presente che la parola «lavoratore», correntemente, ha un significato diverso da quello etimologico, significa cioè lavoratore materiale, tanto vero che della Confederazione del lavoro fanno parte prevalentemente i lavoratori manuali.

TERRACINI osserva che vi sono anche i maestri.

CAPPI risponde che non tutti i cittadini, comunque, fanno parte della Confederazione del lavoro, mentre della Repubblica democratica debbono poter far parte tutti i cittadini.

Parlare di Repubblica dei lavoratori significherebbe, a suo avviso, dare a questa Repubblica un carattere classista, contrario, cioè, alla sua concezione.

Pertanto si oppone all’emendamento Togliatti.

LUSSU dichiara che aderirebbe alla proposta Togliatti, se essa avesse un riscontro nella realtà. L’accetta come aspirazione ideale di democrazia, non come realtà d’oggi. La Repubblica dei lavoratori oggi non esiste. Oggi la Repubblica democratica dei lavoratori o del lavoro, in ogni senso, dell’intelligenza e della mano, è insidiata in molteplici forme, tanto che i democratici più onesti ne sono vivamente preoccupati e allarmati. Non può, in coscienza, votare a favore dell’emendamento Togliatti. Se accettasse la formula da lui proposta, avrebbe l’impressione di riportare nella Costituzione italiana la menzogna dell’articolo 1 della Costituzione spagnola del 1931. Quella Repubblica dei lavoratori, non esisteva; era insidiata molto più gravemente che non la nostra; e cadde, appunto perché non esisteva.

Ritiene che la dizione proposta dalla prima Sottocommissione, in cui pure è fatta menzione dei lavoratori, rispecchi meglio le aspirazioni di democrazia sociale, e che sarebbe un errore trasformarla.

LA ROCCA osserva che dal punto di vista storico, parlare di Repubblica democratica non significa nulla. Anche le Repubbliche greche e la Repubblica romana si dicevano democratiche. Se si è tutti d’accordo sulla esigenza di dare una determinata impronta alla Costituzione, la quale, non potendo rispecchiare delle grandi trasformazioni avvenute alla base, deve essere un orientamento per l’avvenire, è necessario dare assolutamente ad essa questo carattere distintivo del nuovo indirizzo politico italiano.

Occorre affermare che questa è la Repubblica degli uomini che lavorano.

Non ritiene che questa affermazione abbia un carattere classista. Nella Confederazione del lavoro non è concentrato solo il lavoro materiale.

Si domanda che cosa significhi il voler escludere che la Repubblica democratica italiana è Repubblica di lavoratori. Si vuol forse accettare il principio che è anche di coloro che non lavorano e vivono del lavoro altrui?

Conclude esprimendo l’avviso che la specificazione proposta dall’onorevole Togliatti dia una schietta impronta alla Costituzione, rivendicando il concetto che il lavoro è fondamento e titolo di nobiltà per la vita avvenire del Paese.

TERRACINI ricorda all’onorevole Lussu, il quale ha obiettato che la formulazione proposta dall’onorevole Togliatti contradirebbe con la realtà, che, in sede di Comitato di coordinamento, un collega di parte democristiana aveva formulato una proposta che non fu accettata proprio perché essa tendeva a specificare troppo questa caratteristica di Repubblica di lavoratori e creava una impossibilità tecnica di pratica attuazione; e fu quando si propose che il diritto di voto era riservato soltanto a coloro che lavoravano. In quel caso si obiettò che una tale decisione avrebbe portato ad una ricerca di assoluta impossibilità materiale, quella di distinguere tra gli italiani che non lavorano e coloro che lavorano. Riconosce che quella proposta fu giustamente respinta. La proposta dell’onorevole Togliatti, invece, ha tutt’altro carattere: essa non ha necessità di tradursi in una norma di carattere concreto, ma è semplicemente una indicazione di certe direttive sulle quali dovrebbero poi orientarsi le disposizioni legislative normali.

FANFANI è d’avviso che la proposta dell’onorevole Togliatti ed i chiarimenti dati dagli onorevoli La Rocca e Terracini dimostrino come ci sia il proposito di fare risaltare fin dal primo articolo una preoccupazione che investe ormai tutta la nostra Costituzione, la preoccupazione cioè di tendere a realizzare un ordinamento in cui il lavoro sia il titolo essenziale, fondamentale per la partecipazione alla vita politica.

Ora si domanda se questa aspirazione sia meglio espressa dalla dizione proposta dall’onorevole Togliatti quando dice «Repubblica democratica di lavoratori», o non piuttosto dal terzo capoverso, in cui si specifica a quale titolo si vuole che il lavoro sia il fondamento essenziale per la partecipazione alla vita pubblica.

All’onorevole Togliatti osserva che la parola «lavoratore», posta nel primo capoverso, dovrebbe essere immediatamente seguita da una definizione per impedire, per lo meno, malintesi o necessità di interpretazioni esplicative.

Ritiene che per sottolineare l’aspirazione manifestata dall’onorevole Togliatti sia più conveniente insistere nel perfezionare il terzo capoverso, che specifica l’importanza del lavoro nella organizzazione politica, economica e sociale della Repubblica.

NOBILE è invece d’avviso che il comma dell’articolo sia pleonastico, in quanto è impossibile pensare ad una società moderna che non sia basata sul lavoro. La formula dell’onorevole Togliatti, invece, dice qualche cosa di nuovo, e perciò si dichiara favorevole alla modificazione del comma da lui proposta.

TOGLIATTI nega anzitutto che l’espressione «lavoratori» abbia un carattere limitativo; se così fosse, eguale carattere limitativo avrebbe l’espressione «lavoro». Difatti, la Confederazione del lavoro si chiama così e non Confederazione dei lavoratori. Comunque, se vi è questo timore, si può usare la formula «lavoratori di tutte le categorie», oppure «lavoratori del braccio e della mente». All’onorevole Lussu, il quale afferma trattarsi della formulazione di una aspirazione, risponde che si è già fatto presente che nella Costituzione alcune formulazioni avrebbero avuto questo speciale carattere di dare una impronta particolare alla futura organizzazione della società italiana.

L’onorevole Fanfani pensa che il concetto possa essere meglio espresso nel terzo comma dell’articolo; come spiega allora che l’onorevole Grassi, il quale è contrario al concetto, accetti invece il capoverso e non accetti l’emendamento proposto? Non si tratta di una contradizione dell’onorevole Grassi, ma si tratta del fatto che la formulazione è un po’ confusa e facilmente può essere intesa in un modo o nell’altro, ossia non è impegnativa. È necessaria, invece, una formulazione incisiva con cui si apra la Costituzione, come una affermazione di principio da imprimersi nella mente di tutti i cittadini: questo è ciò che conta, questo ha un valore non soltanto politico, ma anche storico. Ritiene che coloro i quali sono d’accordo sulla sostanza di tale principio, dovrebbero accettare anche che venisse chiaramente formulato.

GRASSI risponde all’onorevole Togliatti che la formula proposta potrebbe dare l’impressione di una direttiva che non voglia comprendere nella Repubblica tutti gli italiani. Egli pensa invece che tutto il popolo debba partecipare alla vita politica del Paese.

Evidentemente la democrazia ha oggi questo significato; e quando si è detta la parola «democrazia» nel senso storico attuale, non si può andare oltre. Specificare significherebbe dividere il popolo in diverse classi, ed egli si oppone a questo classismo, poiché ritiene che il lavoro debba essere la base fondamentale della democrazia, e quindi non vi possano essere classi particolari capaci di arrogarsi un titolo al lavoro.

PRESIDENTE pone in votazione l’emendamento dell’onorevole Togliatti, sostitutivo del primo comma dell’articolo 1.

(Non è approvato).

Avverte che si intende allora approvato il primo comma nel testo proposto dal Comitato di redazione: «L’Italia è Repubblica democratica».

Comunica che al primo capoverso: «La sua sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi», l’onorevole Lucifero propone di sostituire alle parole: «emana dal popolo», le parole: «risiede nel popolo».

LUCIFERO ripropone in questa sede – come ne aveva fatto esplicita riserva – quella che fu la sua tesi in sede di Sottocommissione. Afferma che sovrano è il popolo, che tale resta permanentemente; la sovranità risiede nel popolo e in esso sempre rimane. Vi possono essere degli organi delegati che per elezione popolare esercitano la sovranità in nome del popolo; ma la sovranità è del popolo e resta del popolo. Dire pertanto che la sovranità emana dal popolo dà – a suo avviso – la sensazione, che può essere domani interpretazione giuridica, che il popolo, con l’atto con cui ha eletto coloro che eserciteranno la sovranità in suo nome, si spoglia di questa sovranità, investendone i suoi delegati. Ciò gli sembra antidemocratico e – sia concesso dirlo a lui monarchico – soprattutto antirepubblicano; poiché proprio il far risiedere la sovranità nel popolo, dovrebbe costituire la distinzione fondamentale fra repubblica e monarchia.

TOSATO non ritiene esatto il concetto della sovranità che risiede nel popolo, secondo la spiegazione data dall’onorevole Lucifero. Osserva che l’applicazione della formula potrebbe essere giustificata qualora tutti gli atti emanati dagli organi dello Stato dovessero essere sottoposti all’approvazione popolare. In questo caso essa avrebbe un valore, quando cioè qualsiasi decisione politica derivasse direttamente dal popolo. Ma poiché questo non avviene nella Costituzione, a base parlamentare rappresentativa, con solo qualche caso di referendum, la formula: «la sovranità emana dal popolo» è – a suo avviso – molto più esatta.

MERLIN UMBERTO fa presente che la Costituzione della Repubblica francese usa l’espressione: «la sovranità nazionale appartiene al popolo francese». Domanda se questa formula non sia più precisa dal punto di vista storico e giuridico, e non risponda meglio ad esprimere il concetto.

PRESIDENTE rileva che in sede di Comitato di redazione fu anche esaminata questa formula, e si ritenne che il concetto fosse espresso nel modo migliore con la formula: «La sua sovranità emana dal popolo».

Avverte che l’onorevole Bulloni propone che al posto di: «emana dal popolo» si dica: «promana dal popolo».

DE VITA è favorevole alla formula: «La sua sovranità risiede nel popolo». Ricorda che in seno alla prima Sottocommissione, quando fu proposta la dizione: «La sovranità dello Stato si esplica nei limiti dell’ordinamento giuridico, ecc.», osservò che con questa formula si veniva a personificare lo Stato e a porlo al di sopra del popolo. Anche la nuova formula: «La sua sovranità emana dal popolo», non lo soddisfa. Si associa pertanto alla proposta dell’onorevole Lucifero.

NOBILE si associa anch’egli alla proposta dell’onorevole Lucifero. Osserva inoltre che l’obiezione mossa dall’onorevole Tosato cade, allorquando si tenga presente che la parola «risiede» è precisata dalle successive parole: «e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

TOSATO risponde che la formulazione è contradittoria, in quanto che dicendo «risiede» si esprime un concetto di permanenza, per cui la sovranità non potrebbe essere delegata.

LUSSU è d’avviso che la formula del Comitato di redazione sia preferibile.

CEVOLOTTO anch’egli è favorevole alla formula adottata dal Comitato di redazione. Osserva che comunque, per andare incontro all’obiezione dell’onorevole Tosato bisognerebbe modificare la formula dicendo: «emana dal popolo che la esercita (anziché «e si esercita») nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

TERRACINI domanda la chiusura della discussione generale.

(È approvata).

PRESIDENTE mette ai voti l’emendamento Lucifero, secondo il quale dovrebbe dirsi: «La sua sovranità risiede nel popolo e si esercita», ecc.

(Non è approvato).

MERLIN UMBERTO propone si dica: «La sua sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti», ecc.

FABBRI si dichiara contrario alla formula dell’onorevole Merlin, e favorevole al testo del Comitato di redazione, che gli pare assolutamente il più preciso.

Osserva che quella parte che è favorevole alle dizioni «risiede» o «appartiene», è anche la parte la quale desidera che questa Costituzione non venga sottoposta all’approvazione del popolo, ritenendo sufficiente l’elaborazione che se ne fa nell’Assemblea, cosicché la Costituzione risulterebbe una notizia che si invia ai sovrani per informarli che la loro sovranità è stata regolata.

MERLIN UMBERTO non insiste nel suo emendamento.

BULLONI dichiara anch’egli di non insistere nell’emendamento presentato.

PRESIDENTE avverte che allora rimane approvato il secondo comma dell’articolo nel testo proposto dal Comitato di redazione.

LUSSU è d’avviso che il testo originariamente approvato dalla prima Sottocommissione sia preferibile, e propone di tornare a tale testo.

CEVOLOTTO, per mozione d’ordine, ricorda che la Commissione aveva stabilito un sistema di lavoro consistente nel non prendere in esame punto per punto i singoli articoli ma di discutere soltanto gli emendamenti scritti.

LUSSU precisa il suo emendamento nei seguenti termini: Ritornare all’articolo 1 proposto dalla prima Sottocommissione, cioè: «Lo Stato italiano è una Repubblica democratica. Essa ha per fondamento il lavoro e la partecipazione concreta di tutti i lavoratori alla organizzazione economica, sociale e politica del Paese».

Aggiungere successivamente, il secondo comma dell’articolo proposto dal Comitato di redazione:

«La sua sovranità emana dal popolo e si esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione e delle leggi».

LA PIRA aderisce alla proposta dell’onorevole Lussu, in quanto l’articolo 1, elaborato dalla prima Sottocommissione, fu il frutto della diversità di opinioni che si erano manifestate a proposito della formula Togliatti: «Repubblica democratica di lavoratori».

Ritornare a tale formulazione significherebbe riaffermare concetti sui quali tutta la Sottocommissione si trovò d’accordo, dare cioè alla vita del Paese il volto del lavoro.

FABBRI, nell’ipotesi in cui si tornasse al testo della prima Sottocommissione, propone di sostituire la parola «cittadini» alla parola «lavoratori». Ritiene infatti che qualunque cittadino deve poter partecipare alla organizzazione economica, sociale e politica del Paese senza avere bisogno di appartenere alla categoria dei lavoratori, in quanto oggi, nel concetta comune, la parola «lavoratori», dal punto di vista politico, ha un significato di organizzazione di classe e di categoria.

TOSATO propone che, oltre a lasciare l’articolo 1 nel testo approvato dalla prima Sottocommissione, si conservi l’articolo 2, sempre nel testo proposto dalla stessa Sottocommissione. Infatti, l’articolo proposto dal Comitato di redazione rappresenta – a suo avviso – una deviazione da quella linea logica di concetti che era stata espressa molto precisamente nei due articoli della prima Sottocommissione.

TOGLIATTI si associa alla proposta dell’onorevole Tosato.

DE VITA si dichiara, invece, contrario a tale proposta, poiché parlare di «sovranità dello Stato» è – a suo avviso – una enormità. Una cosa è l’esercizio dei poteri, ed un’altra è la sovranità.

LUSSU fa presente che nel secondo articolo proposto dalla prima Sottocommissione vi sono parole superflue che giustamente il Comitato di redazione ha soppresse. Mentre è d’accordo per ripristinare il primo articolo, non lo è per quanto riguarda il secondo.

TERRACINI, parlando per una mozione d’ordine, fa presente ai colleghi che l’onorevole Ruini, che ha presieduto il lavoro del Comitato di redazione, non è presente, e pensa che sarebbe opportuno attendere il ritorno del Presidente prima di procedere ad una votazione sull’articolo.

TOGLIATTI si dichiara contrario alla proposta di rinvio.

PRESIDENTE pone ai voti la proposta di rinvio presentata dall’onorevole Terracini, al quale si associa.

(È approvata).

Rinvia la seduta alle ore 10 di domani.

Avverte che sarà all’ordine del giorno la questione dei rapporti fra Chiesa e Stato.

La seduta termina alle 11.15.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Vittorio, Dominedò, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lombardo, Lucifero, Lussu, Marchesi, Marinaro, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Assenti: Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Caristia, Castiglia, Colitto, Di Giovanni, Dossetti, Einaudi, Giua, Lami Starnuti, Mancini, Mannironi, Mastrojanni, Merlin Lina, Paratore, Porzio, Rossi Paolo, Zuccarini.

Assenti giustificati: Ghidini, Ruini.

MARTEDÌ 21 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

15.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 21 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL VICEPRESIDENTE TUPINI

INDICE

Elezione del Presidente della Repubblica

Presidente – Terracini – Lucifero – Cappi – Perassi – La Rocca – Grassi – Tosato – Targetti – Lussu – Bozzi – Colitto – Mastrojanni – Nobile – Bulloni – Fabbri – Togliatti – Moro.

La seduta comincia alle 9.30.

Elezione del Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE avverte che l’argomento in discussione è quello riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica, per cui si è manifestato un dissenso in seno al Comitato di redazione. Ricorda che l’articolo predisposto dal Comitato speciale della seconda Sottocommissione, approvato poi dalla Commissione stessa, è il seguente:

«Il Presidente della Repubblica è eletto, a scrutinio segreto, dall’Assemblea Nazionale con la partecipazione dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali.

«Per l’elezione è richiesta la maggioranza di due terzi dei membri componenti il collegio.

«Dopo il terzo scrutinio l’elezione ha luogo a maggioranza assoluta».

TERRACINI osserva che in realtà la seconda Sottocommissione non approvò il testo di cui è stata data lettura. La votazione diede risultato pari. La Sottocommissione non fu d’accordo sulla partecipazione dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali alla elezione del Presidente della Repubblica. Il problema rimase in sospeso e si disse espressamente che sarebbe stato risolto dalla Commissione plenaria.

PRESIDENTE rileva che questa osservazione fu fatta dall’onorevole Terracini in sede di Comitato di redazione, che stabilì di lasciare inalterata la prima parte dell’articolo: «Il Presidente della Repubblica è eletto dall’Assemblea Nazionale». Poi furono avanzate altre proposte: 1°) che il Presidente fosse eletto dal popolo a suffragio universale (diretto o indiretto) nei modi stabiliti dalla legge; 2°) che fosse eletto dall’Assemblea Nazionale, con l’aggiunta non soltanto dei Presidenti dei Consigli regionali (che potrebbero essere una quarantina), ma di altri e più numerosi elementi. La questione è ora sottoposta alla Commissione plenaria.

LUCIFERO è del parere che il Capo dello Stato, il quale in un certo senso deve essere al di sopra della lotta politica e deve rappresentare una garanzia generale, non può essere emanazione diretta di quella Assemblea politica, di fronte alla quale deve avere una certa posizione di indipendenza e di serenità. Colui il quale deve esercitare la più alta funzione dello Stato e rappresenta quasi il simbolo dell’unità dello Stato e del popolo, deve derivare la sua autorità dal suffragio popolare. Ritiene quindi che il problema debba essere risolto nel senso che il Presidente sia eletto direttamente dal popolo a suffragio universale. Si potrà discutere sulla forma diretta o indiretta; ma pensa che la suprema autorità dello Stato debba emanare direttamente dal popolo, nel quale risiede la sovranità.

TERRACINI pensa che nell’ultima frase pronunziata dall’onorevole Lucifero vi sia la condanna della sua tesi, là dove egli ha detto che la elezione del Presidente può essere fatta in forma diretta o indiretta. Pur non condividendola, capirebbe la tesi di chi volesse una elezione a suffragio universale diretto; ma quando si ammette la forma indiretta, è evidente che le caratteristiche di questo Collegio elettorale indiretto non sarebbero diverse da quelle che sono proprie della prima e seconda Camera. Si riprodurrebbero approssimativamente le stesse correnti di carattere politico.

D’altra parte, se è vero che il Capo dello Stato deve in certi momenti costituire un elemento al di sopra dei vari poteri, per essere in grado di esercitare una funzione di equilibrio, di moderazione o risoluzione di certi contrasti, è altrettanto vero che egli non può considerarsi così staccato dal sistema generale degli altri poteri, come risulterebbe dalla proposta dell’onorevole Lucifero. E non intende richiamare i varî precedenti che sconsigliano di dare al Capo dello Stato questo potere con una investitura di carattere diretto, che troppo spesso nel passato ha finito per sboccare in una netta contrapposizione del Capo dello Stato con le Assemblee legislative, le quali sono le vere rappresentanti della volontà delle masse popolari.

Circa la questione della partecipazione alla elezione, insieme all’Assemblea Nazionale, delle Assemblee regionali e delle Deputazioni, si limita a dire che la seconda Camera è, per la sua struttura e formazione, già espressione in parte delle Assemblee regionali, e non vi è quindi nessun motivo che giustifichi una duplicazione di questa rappresentanza nel momento in cui si deve eleggere il Capo dello Stato. Le Regioni, per quel poco che devono pesare sul funzionamento generale dello Stato, già vi pesano per il modo come la seconda Camera è costituita. Nulla giustificherebbe una aggiunta a questo loro peso, che finirebbe per mettere in una situazione di minoranza la prima Camera, che è l’espressione del suffragio universale.

LUCIFERO fa notare all’onorevole Terracini che la proposta dell’elezione a suffragio universale non è sua, ma del Comitato di redazione, del quale non fa parte.

Non ha, peraltro, difficoltà a dichiarare che è del parere che l’elezione del Capo dello Stato debba avvenire a suffragio universale. Si potrà, se mai, discutere se sarà diretto o indiretto; ma l’investitura deve venire direttamente dal popolo.

CAPPI, in ordine al rilievo dell’onorevole Terracini che, facendo partecipare alla elezione del Presidente della Repubblica i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali si verrebbe a mettere in minoranza la prima Camera, osserva che la prima Camera è composta di un numero molto maggiore di membri della seconda e pertanto la inclusione di una quarantina di membri delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali non influirebbe sulla preminenza numerica che essa mantiene. Osserva poi anche che non vi è una duplicazione di rappresentanza, in quanto i membri della seconda Camera devono essere scelti in determinate categorie di cittadini, mentre invece questa restrizione non vi è per i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali.

Ritiene, pertanto, che il sistema proposto contemperi le due esigenze di non rendere troppo dipendente il Presidente della Repubblica dall’Assemblea Nazionale come corpo politico, e l’altra di non allargare la elezione a tutti i cittadini. Si tratta, insomma, di estendere, sia pure in limitata misura, la base del Collegio elettorale, che deve eleggere il Presidente della Repubblica, dando a questi un maggior prestigio. Perciò, personalmente, sarebbe per il mantenimento del testo della seconda Sottocommissione.

PERASSI si dichiara nettamente contrario all’emendamento sostenuto dall’onorevole Lucifero, nel senso che il Presidente della Repubblica debba essere eletto a suffragio universale diretto. È favorevole alla formulazione adottata dalla seconda Sottocommissione, che si è ispirata al concetto di attribuire la elezione del Presidente all’Assemblea Nazionale, integrata con altri elementi, soprattutto al fine di assicurare una maggiore indipendenza al Presidente stesso. Si è voluto, in sostanza, non accentuare l’influenza delle Regioni, ma allargare il Collegio che elegge il Presidente, al fine di mettere la sua figura in una posizione di maggiore indipendenza.

LA ROCCA pensa che sia da scartarsi che il Presidente sia eletto a suffragio universale, perché ciò verrebbe a mutare la caratteristica del sistema parlamentare, così come è stato concepito. In fondo, con questa modifica si verrebbe ad introdurre l’elemento del sistema presidenziale in quello parlamentare, senza poi parlare del pericolo che, ove il Capo dello Stato fosse eletto direttamente dal popolo, in determinate circostanze egli si sentirebbe come un potere a sé, sentirebbe di essere l’espressione della volontà nazionale, indipendentemente dai due rami del Parlamento, pericolo che qui non è il caso di esaminare dettagliatamente, poiché c’è tutta l’esperienza di altri Paesi, e basterebbe quella di Weimar.

È poi da escludersi, a suo parere, che alle elezioni del Capo dello Stato possano partecipare i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali, perché anche questo sarebbe un elemento di contaminazione del sistema così come è stato concepito. È sempre stato dell’opinione che la prima Camera sia l’espressione diretta ed immediata della volontà popolare. Dal momento che si è posta la seconda Camera sul piano di parità della prima, non bisogna né diminuirne, né accrescerne le attribuzioni. Ne è il caso di dire che il Presidente debba avere questa investitura dalle Regioni, le quali sono già rappresentate dalla seconda Camera. Conclude affermando che il Capo dello Stato debba essere l’espressione dei due rami del Parlamento, riuniti in Assemblea Nazionale.

GRASSI riconosce che l’importanza del Presidente della Repubblica, il quale dovrebbe essere l’espressione del potere esecutivo, attraverso la elezione dell’Assemblea parlamentare, viene ad essere diminuita. Però non intende sollevare questa questione, che poteva essere teoricamente studiata da principio, in quanto tutto il sistema della seconda Sottocommissione è avviato verso la forma a tipo parlamentare.

Per la stessa considerazione non sarebbe contrario al testo formulato dalla seconda Sottocommissione, la quale, mantenendo la forma parlamentare, ha leggermente allargato la base dell’elezione presidenziale, e da questo punto di vista il potere esecutivo viene ad essere meno legato alle Assemblee legislative.

Le preoccupazioni dell’onorevole Terracini possono avere il loro peso. Egli dice, in fondo, che la seconda Camera è stata concepita come esponente delle Regioni, che vengono a portare il loro peso effettivo nell’elezione del Presidente; ma, allo scopo di dare maggior respiro democratico al Paese, di creare un maggior contatto del popolo alla vita locale e alla vita nazionale, è bene che gli esponenti delle Regioni partecipino alla elezione del Capo dello Stato.

TOSATO è favorevole al testo proposto dalla seconda Sottocommissione. Le ragioni per cui la seconda Sottocommissione ha ritenuto di allargare le basi del corpo elettorale del Presidente della Repubblica sono fondamentalmente due. Anzitutto siamo partiti dalla concezione stessa della funzione o della posizione del Presidente della Repubblica, il quale non deve concepirsi soltanto come un Capo dell’Assemblea Nazionale, ma come un Capo dello Stato. Ed appunto per fissare ed affermare questa posizione del Capo dello Stato, si è ritenuto opportuno allargare il Collegio elettorale, dal quale il Presidente della Repubblica è eletto. La seconda ragione è data dalla considerazione della nuova entità regionale che viene ad attuarsi nella struttura dello Stato italiano. Si è ritenuto opportuno che le Regioni siano collegate alla struttura costituzionale dello Stato attraverso la presenza dei loro rappresentanti in questo Collegio elettorale. Non è vero che, per tal modo, le Regioni saranno rappresentate due volte nella organizzazione costituzionale dello Stato: una volta attraverso la Camera dei Senatori, un’altra volta attraverso il Collegio che dovrà eleggere il Presidente della Repubblica. Infatti, la Camera dei Senatori rappresenta la Nazione intera, mentre i Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali partecipano alle elezioni del Presidente della Repubblica come rappresentanti delle Regioni; sicché non si ha un doppione, ma una posizione diversa, e questo serve a rendere più stabile ed a precisare la figura giuridica del Capo dello Stato.

TARGETTI si associa ai rilievi dell’onorevole Terracini e non condivide il parere dell’onorevole Cappi che non si possa parlare di un duplicato di rappresentanza regionale, in quanto per la nomina dei senatori vi sono dei limiti di eleggibilità, costituiti dalle categorie nelle quali devono essere scelti, mentre questi limiti non vi sono per la nomina dei Presidenti delle Assemblee regionali e delle Deputazioni regionali. La Regione, mentre in un primo tempo partecipa alla nomina di un terzo dei Senatori, torna a partecipare alla nomina del Capo dello Stato con la sua rappresentanza diretta. Non ritiene poi esatto il rilievo dell’onorevole Cappi, che questo allargamento del corpo elettorale non porti come conseguenza ad un indebolimento dell’efficienza del voto della prima Camera. Infatti fra la prima e la seconda Camera vi sarà sempre un divario di un centinaio di voti, e quando si pensi che fra i Presidenti delle Assemblee regionali ed i Presidenti delle Deputazioni regionali si possono raggiungere 50 voti, si ha che su un totale di 100, possono esercitare una decisa influenza.

LUSSU in sede di Comitato speciale aderì alla proposta così come è stata presentata nel testo, e l’argomento principale che lo convinse fu che, partecipando i rappresentanti diretti delle Assemblee regionali alle elezioni del Capo dello Stato, si dà ad esse un carattere più unitario. Circa le obiezioni che sono state sollevate, e che in parte sono serie, crede che si potrebbero superare, se alla elezione del Presidente della Repubblica intervenissero soltanto i Presidenti delle Assemblee regionali.

TERRACINI tiene a precisare che l’articolo figurante come proposta della seconda Sottocommissione non può considerarsi tale, poiché in seno alla Sottocommissione i voti favorevoli e quelli contrari si equilibrarono.

BOZZI, poiché si è rilevato, circa la partecipazione dei rappresentanti regionali all’elezione del Presidente della Repubblica, che le Regioni sono già espresse dalla seconda Camera, osserva che, in punto di fatto, non si è raggiunto ancora un accordo sulla composizione della seconda Camera.

Ricorda, anzi, che in seno al Comitato speciale, presieduto dall’onorevole Perassi, è stato espresso l’avviso di abbandonare la proposta della elezione di un terzo dei senatori da parte dei Consigli regionali e di costituire, invece, un Collegio unico, sia pure regionale o interprovinciale, composto di delegati di Collegi più piccoli: cioè il Senato sarebbe eletto da grandi elettori di secondo grado.

Se così fosse, verrebbe meno l’argomentazione degli onorevoli Terracini e La Rocca e non vi sarebbe duplicato di rappresentanza.

Anche per questa considerazione, si dichiara favorevole al testo proposto dalla seconda Sottocommissione.

PRESIDENTE dopo la precisazione dell’onorevole Terracini, invita i Commissari a non parlare di testo, ma di concetto espresso da una parte della seconda Sottocommissione.

COLITTO ritiene preferibile che il Presidente della Repubblica sia eletto dal popolo a suffragio universale e diretto.

Non v’ha dubbio che solo derivando il proprio potere direttamente dal popolo, il Presidente sarà al di fuori e al di sopra delle parti e potrà meglio esercitare la funzione di moderazione e di regolamento di contrasti, che gli è propria.

Solo in tal modo il Presidente sarà davvero, non il Capo dell’Assemblea Nazionale, ma il Capo dello Stato.

Contesta l’affermazione dell’onorevole Terracini, che attraverso l’elezione diretta da parte del popolo si manifesterebbero le stesse correnti politiche che attraverso l’elezione da parte dell’Assemblea Nazionale, perché il popolo potrà ispirarsi a determinati criteri nell’eleggere i deputati e i senatori ed a criteri diversi nell’eleggere il Capo dello Stato.

MASTROJANNI, associandosi alle considerazioni svolte dall’onorevole Colitto, esprime anch’egli l’opinione che, se in regime democratico il Capo dello Stato debba rappresentare l’espressione delle aspirazioni del popolo, questo debba eleggerlo direttamente. Col sistema proposto, attraverso le Camere elettive ed i Consigli regionali, si arriverebbe ad un duplicato di nomina: quella del Capo dello Stato e quella del Capo del Governo; ossia il Capo dello Stato sarebbe il rappresentante del partito politico prevalente; il che è in contrasto con le sue funzioni, poiché il Capo dello Stato deve stare al di sopra di tutte le competizioni, per equilibrare le forze e moderare i contrasti. Solo se egli è rappresentante di tutto il popolo, e non di alcune categorie, può avere l’alto prestigio che gli compete.

NOBILE nota che, se i rappresentanti delle Assemblee regionali partecipassero alla elezione del Capo dello Stato, il loro voto verrebbe a pesare più di quello d’un deputato delle due Camere: il che non è ammissibile; sarebbe come ammettere un voto plurimo. Circa l’osservazione dell’onorevole Grassi, che il Presidente della Repubblica non debba essere strettamente legato all’Assemblea che lo ha eletto, ricorda che la durata in carica del Presidente della Repubblica è fissata in sette anni, mentre l’Assemblea legislativa ha cinque anni di vita; quindi, per lo meno per un periodo di due anni, il Presidente della Repubblica non è diretta emanazione dell’Assemblea che lo ha eletto; e questo gli assicura maggiore indipendenza. D’altra parte, non si deve dimenticare che gli è stato attribuito il potere di scioglimento delle Camere.

BULLONI di dichiara contrario alla nomina diretta del Capo dello Stato da parte del popolo e favorevole all’allargamento della base elettorale, con la partecipazione di rappresentanti regionali, proponendo, però, che alla elezione partecipino i presidenti delle Assemblee regionali ed un membro delle stesse nominato a maggioranza assoluta.

PRESIDENTE ritiene di dover mettere ai voti la proposta che più si discosta dal concetto espresso da una parte della seconda Sottocommissione: cioè che il Presidente della Repubblica debba essere eletto dal popolo a suffragio universale diretto.

PERASSI chiede se, nella seduta odierna, la Commissione sia chiamata a votare definitivamente il testo dell’articolo riguardante l’elezione del Presidente della Repubblica o semplicemente pronunziarsi, come è detto nella lettera di convocazione, sulla questione di principio: se, cioè, il Presidente debba essere eletto a suffragio universale diretto, oppure dall’Assemblea Nazionale sola o integrata con rappresentanze regionali (lasciando, per ora, impregiudicate le modalità di nomina di queste rappresentanze, da stabilire in sede di esame dei singoli articoli).

PRESIDENTE, lasciando impregiudicata tale questione, pensa che si possa intanto mettere ai voti la proposta che il Presidente della Repubblica sia eletto a suffragio universale diretto.

(La Commissione non approva).

Si potrebbe ora porre ai voti il principio se per l’elezione del Presidente della Repubblica l’Assemblea Nazionale debba essere integrata con una rappresentanza delle Regioni, salvo poi a vedere in che modo.

TERRACINI, poiché allo stato dei fatti la struttura della seconda Camera è quella che risulta dal testo sottoposto all’esame della Commissione e le osservazioni fatte dall’onorevole Bozzi su una possibile modificazione del sistema riguardano soltanto una ipotesi, mentre si ha la certezza che la seconda Sottocommissione per ora è giunta a questi risultati, dichiara, basandosi sui risultati acquisiti, che voterà contro la inclusione dei rappresentanti regionali nell’Assemblea destinata ad eleggere il Presidente della Repubblica.

LUCIFERO, pur essendo contrario a qualsiasi forma di elezione che non sia a suffragio diretto, in linea subordinata voterà a favore di qualunque formula che allarghi in qualsiasi modo il corpo elettorale.

GRASSI lamenta che non si abbia un testo completo della Costituzione per poter dare a ragion veduta un giudizio su una sola parte. Ad ogni modo è favorevole al completamento dell’Assemblea Nazionale per l’elezione del Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE pone ai voti il principio che l’Assemblea Nazionale sia integrata da rappresentanti delle Regioni per l’elezione del Presidente della Repubblica.

(La Commissione approva).

Occorre ora esaminare la pregiudiziale dell’onorevole Perassi che la Commissione, approvato il principio della integrazione, non passi a discuterne le modalità.

FABBRI dichiara di essere contrario a questa sospensiva.

PERASSI osserva che si tratta di una questione di puro regolamento. Esiste una lettera del Presidente della Commissione nella quale si dice che prima di passare all’esame dettagliato degli articoli del progetto occorre che la Commissione si pronunci su alcune questioni di principio, che nelle Sottocommissioni erano rimaste indecise e sulle quali, in seno al Comitato di redazione, si è manifestato dissenso sostanziale. Fra tali questioni vi è quella relativa alla nomina del Presidente della Repubblica, che è stata ora risolta dalla Commissione.

La pregiudiziale sollevata è connessa con questo procedimento.

PRESIDENTE osserva che nella lettera di convocazione ricordata dall’onorevole Perassi sono soltanto indicati, in ordine di successione, gli argomenti che avrebbero dovuto essere trattati dalla Commissione plenaria, in quanto su tali argomenti nel Comitato di redazione erano sorti dissensi.

Contro l’interpretazione che dà l’onorevole Perassi stanno anche le decisioni delle sedute precedenti. Il Presidente ha indicato gli argomenti, ma sugli argomenti la Commissione ha deciso approvando o meno i relativi articoli, come si è fatto per lo sciopero, per il matrimonio, ecc., nei quali si concretavano i principî in discussione.

Ritiene pertanto che la Commissione possa entrare anche nel merito degli articoli.

TERRACINI dichiara che su tale questione, come sulle successive, si asterrà, perché si riserva di presentare la questione di principio in sede di Assemblea plenaria della Costituente.

BULLONI voterà contro la proposta di sospensiva, perché le modalità della integrazione sono connesse col principio già affermato.

PERASSI non insiste.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Lussu, firmato anche dagli onorevoli Targetti e Canevari, che tende a sopprimere, al primo comma dell’articolo in esame, le parole: «e delle Deputazioni regionali».

(La Commissione non approva).

Pone ai voti l’emendamento dell’onorevole Bulloni:

Al primo comma sostituire le parole: «e delle Deputazioni regionali», con le altre: «di un membro delle stesse eletto a maggioranza assoluta».

(La Commissione approva).

Il testo del primo comma dell’articolo in esame risulterebbe pertanto così modificato:

«Il Presidente della Repubblica è eletto, a scrutinio segreto, dall’Assemblea Nazionale con la partecipazione dei presidenti delle Assemblee regionali e di un membro delle stesse nominato a maggioranza assoluta».

GRASSI osserva che le parole del primo comma: «a scrutinio segreto» dovrebbero essere soppresse, in quanto la modalità della votazione è stabilita nel successivo articolo.

PRESIDENTE pone ai voti il primo comma con la soppressione delle parole: «a scrutinio segreto».

(La Commissione approva).

Avverte che un altro punto sul quale si è manifestato un dissenso in seno al Comitato di redazione è quello della rieleggibilità o meno del Presidente della Repubblica. Dice l’articolo proposto dal Comitato di redazione:

«Il Presidente della Repubblica è eletto per 7 anni e non è rieleggibile».

È stato proposto da alcuni di ammettere la rieleggibilità alla carica di Presidente una solta volta, o almeno per i periodi non immediatamente successivi.

TOGLIATTI pensa che la norma, come è stata formulata adesso, sia troppo restrittiva. Per essere chiamato alla carica di Presidente della Repubblica occorrono qualità particolari e non si può, a suo parere, escludere per sempre una persona già eletta. Ammetterebbe, se mai, la non rieleggibilità immediata per una volta.

MORO è contrario a porre il limite della non rieleggibilità immediata, perché pensa che il periodo di durata è di 7 anni e che dopo i 7 anni ne dovrebbero trascorrere altri 7. Praticamente, si verrebbe ad annullare la rieleggibilità. Non parlerebbe, pertanto, di rieleggibilità o meno nell’articolo.

TOSATO propone che sia adottato il testo che fu in origine proposto dal Comitato speciale della seconda Sottocommissione:

«Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni».

PRESIDENTE pone ai voti la formula proposta dall’onorevole Tosato: «Il Presidente della Repubblica è eletto per sette anni».

(La Commissione approva).

La seduta termina alle 11.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Colitto, Corsanego, De Michele, Di Vittorio, Dominedò, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Finocchiaro Aprile, Fuschini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lucifero, Lussu, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Targetti, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Assenti giustificati: Ghidini, Ruini.

Erano assenti: Basso, Bocconi, Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Caristia, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, De Vita, Di Giovanni, Dossetti, Giua, Lami Starnuti, Lombardo, Mancini, Mannironi, Merlin Lina, Paratore, Porzio, Rossi Paolo, Taviani, Zuccarini.

VENERDÌ 17 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

14.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI VENERDÌ 17 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Le autonomie locali (Discussione)

Perassi – Presidente – Ambrosini – Bozzi – Laconi – Lucifero – Lami Starnuti – Togliatti – Colitto – Einaudi – Lussu – Nobile – Mortati – Piccioni – Codacci Pisanelli – Mannironi – Togni – Terracini – Fabbri.

La seduta comincia alle 10.

Discussione sulle autonomie locali.

PERASSI desidera far rilevare che nella attuale seduta, in cui saranno discussi argomenti di notevole importanza riguardanti l’ordinamento regionale, i deputati del gruppo repubblicano sono per la maggior parte assenti, in quanto impegnati nel congresso di Bologna.

PRESIDENTE ricorda che, in base a quanto è stato deciso dalla Commissione, questa esaminerà le questioni che hanno implicato un dissenso sostanziale in seno al Comitato di redazione.

Per quanto riguarda le autonomie locali, in seno al Comitato di redazione vi è stato accordo pieno sul punto che, essendo state già concesse o promesse a quattro Regioni (le due grandi Isole, il Trentino-Alto Adige e la Val d’Aosta) forme di autonomia particolarmente ampie, non era il caso di estendere tali forme a tutte le altre Regioni italiane per le quali si sarebbe dovuto adottare nella Costituzione un tipo comune di autonomia. Dissenso si è invece determinato sui poteri da dare alla Regione, e soprattutto su un punto, sul quale il Comitato di redazione richiama l’attenzione della Commissione. La seconda Sottocommissione, su relazione dell’onorevole Ambrosini, che ha particolarmente curato questa materia, ha stabilito che alla Regione siano date facoltà legislative.

Queste facoltà di legislazione nel primo progetto Ambrosini avevano due manifestazioni: una per così dire esclusiva, ed una integrativa dei principî e dei criteri direttivi stabiliti dallo Stato nelle sue leggi. La Sottocommissione, ampliando questa casistica, ha creato tre tipi di legislazione: un primo tipo che può sempre chiamarsi di legislazione esclusiva, un secondo di legislazione suppletiva o concorrente, nel senso che lo Stato può, in determinati casi, stabilire i criteri entro i quali la Regione dovrà legiferare; un terzo infine di carattere integrativo, quando cioè la Regione ha facoltà di integrare con proprie norme i principî stabiliti dalle leggi dello Stato.

Si sarebbe voluto aggiungere anche un quarto caso, quello della facoltà regolamentare, ma il Comitato di redazione si è trovato di fronte a deliberazioni sostanziali che non ha potuto modificare. Ha dovuto, perciò, conservare le tre forme anzidette, salvo a far rientrare la facoltà di emanare regolamenti nella terza categoria proposta.

Queste le proposte che vengono ora portate all’esame della Commissione.

Osserva che, in primo luogo, occorre risolvere la questione di principio, cioè se sia opportuno o meno concedere alla Regione potestà legislativa esclusiva in determinate materie.

I sostenitori della prima tesi, che è stata quella che ha prevalso nella seconda Sottocommissione, hanno fatto rilevare che anche con il loro testo si tengono presenti delle limitazioni che valgono a non intaccare l’unità dello Stato. Infatti, anche per la legislazione esclusiva, è prescritto che essa deve svolgersi in armonia con la Costituzione e con i principî generali dell’ordinamento dello Stato, e con il rispetto degli interessi e degli obblighi internazionali dello Stato.

Dall’altra parte è stato risposto che una tale legislazione, sebbene entro questi limiti generali, implicherebbe una funzione legislativa vera e propria di cui verrebbe spogliato lo Stato, ed è stata sostenuta l’opportunità di concedere alla Regione soltanto una facoltà legislativa di integrazione e di attuazione «per adattare alle condizioni locali le norme generali direttive stabilite con leggi della Repubblica».

Un emendamento in tal senso, sostitutivo degli articoli 4, 5 e 6 del testo predisposto dal Comitato di redazione, è stato presentato dagli onorevoli Laconi, Lami Starnuti e Bozzi. Esso è così formulato:

«La Regione ha facoltà legislativa di integrazione e di attuazione per adattare alle condizioni locali le norme generali e direttive stabilite con leggi della Repubblica.

«Tale facoltà si esercita, oltreché nelle materie i cui servizi sono di competenza della Regione (di cui al successivo articolo), nelle altre che, pur sempre entro i limiti dell’interesse regionale, concernono:

l’agricoltura, l’industria e il commercio;

le miniere e cave;

le acque pubbliche e l’energia elettrica;

l’istruzione;

le altre materie indicate da leggi speciali».

Apre la discussione generale sulla questione di principio, invitando l’onorevole Ambrosini a voler riassumere il punto di vista che ha prevalso in seno alla seconda Sottocommissione.

AMBROSINI fa presente che, senza dubbio, dal punto di vista teorico, appare una differenza profonda tra i vari sistemi progettati e specialmente tra quelli che erano stati presentati dal Comitato di redazione e dalla maggioranza della Sottocommissione da una parte e l’emendamento proposto dagli onorevoli Lami Starnuti, Laconi e Bozzi dall’altra. Senonché questa differenza, in fatto, può ridursi a ben poco quando le materie di competenza cosiddetta esclusiva della Regione siano limitate nel numero o, comunque, circondate da garanzie tali da salvaguardare in modo assoluto i principî generali della legislazione statuale e quando, d’altra parte, si estenda di molto la categoria delle materie per le quali la Regione può emanare delle norme cosiddette di integrazione o di applicazione, secondo il sistema dell’emendamento in discussione.

Ricorda che la seconda Sottocommissione, durante la prima discussione generale in materia, si pronunciò in modo nettamente e decisamente favorevole alla concessione alla Regione di una vera facoltà legislativa, tanto che a grande maggioranza respinse una proposta secondo la quale la Regione avrebbe avuto soltanto la facoltà di emanare norme giuridiche. Il fatto stesso di avere differenziato nettamente le espressioni «facoltà legislativa» e «facoltà di emanare norme giuridiche», e di avere adottato la prima espressione, sta a indicare qual era il pensiero della maggioranza della Sottocommissione; pensiero al quale si attenne il Comitato di redazione per l’autonomia regionale e che la stessa Sottocommissione ribadì nell’approvare il testo definitivo, sia pur con una ulteriore differenziazione delle categorie di leggi regionali rispetto a quella più semplice che era stata proposta dal Comitato di redazione.

Non crede di dover scendere ai particolari; personalmente sarebbe stato per il mantenimento del sistema proposto dal Comitato di redazione, ma l’integrazione fatta dalla Sottocommissione può costituire una ulteriore specificazione che conferma il principio di tale sistema.

Esprime l’avviso che l’emendamento proposto dagli onorevoli Lami Starnuti, Laconi e Bozzi non sia da accettare, in quanto contrasta col carattere che si è voluto dare alle Regioni. Mette in rilievo che, costituendole come enti autonomi dotati di funzioni e poteri propri, si è voluto differenziarle e porle in un piano superiore a quello degli enti autarchici.

Se quindi oggi si concedesse alla Regione soltanto la potestà di emanare norme giuridiche eli integrazione, dal punto di vista concettuale e pratico si arriverebbe a non porre il nuovo ente nella categoria in cui la Sottocommissione ha deciso di collocarlo. Per compiere una effettiva riforma adeguata agli sforzi prestabiliti, bisogna compiere un deciso passo innanzi, dando alla Regione la potestà legislativa.

I sostenitori della riforma non si sono nascosti le preoccupazioni e le apprensioni che la concessione di una siffatta potestà potrebbe suscitare ed hanno esaminato la questione da tutti i punti di vista, arrivando all’elaborazione di un sistema che, pur affermando l’autonomia della Regione, non pregiudica affatto i diritti e l’interesse superiore dello Stato anche nel campo legislativo.

Rileva anzitutto che impropriamente si è parlato di una potestà legislativa esclusiva, la quale si ha soltanto quando un determinato ente può dettare, su una determinata materia, norme senza alcuna limitazione od alcun controllo.

Qui, invece, la Regione non è completamente libera di dettare norme giuridiche in quanto vi sono dei limiti i quali sono precisi e tassativi: si è detto infatti che alla Regione compete questa potestà legislativa in armonia con la Costituzione ed inoltre con i principî fondamentali dell’ordinamento giuridico dello Stato. Questa aggiunta, che a taluno può esser sembrata superflua, è stata espressamente introdotta perché i principî generali che regolano la vita dello Stato non possono essere tutti compresi nella Costituzione. Non solo, ma è stata aggiunta una limitazione ancora più significativa e che dovrebbe – a suo avviso – eliminare qualsiasi perplessità: quella che le norme emanate dalle Regioni debbono rispettare gli interessi nazionali e delle altre Regioni e gli obblighi internazionali dello Stato. Ora si domanda: se sono state poste queste limitazioni, se la potestà legislativa della Regione, pur nelle materie limitate, è così infrenata, ci può essere il pericolo che la Regione esorbiti da questi limiti e violi i principî generali che vigono nello Stato o danneggi gli interessi delle altre Regioni? Crede che questo pericolo non vi sia.

Aggiunge che questa disposizione fondamentale deve essere riguardata insieme con le disposizioni successive concernenti l’interferenza del Governo centrale sulla vita delle Assemblee regionali e sul procedimento di formazione della legge regionale. Bisogna infatti riguardare il sistema nel suo complesso, per accertare se sussistano o meno tali pericoli di un’eventuale esorbitanza della Regione nell’esercizio del potere legislativo.

Quanto alla vita dell’Assemblea regionale, è stato attribuito al potere centrale il diritto di scioglierla, quando essa compia atti contrari all’unità nazionale o gravi violazioni di legge. Passando all’esercizio della potestà legislativa della Regione, espone il sistema concreto adottato dal progetto, che dà al Governo, anzitutto, il diritto di rinviare con le sue osservazioni all’Assemblea regionale i disegni di legge da essa approvati, e successivamente, nel caso che questa li approvi nuovamente, di ricorrere contro di essi alla Corte costituzionale per motivi di legittimità e al Parlamento per il merito, arrestando in ambedue i casi l’entrata in vigore della legge.

Occorre dunque tener presente che la legislazione della Regione è imbrigliata da vari limiti: rispetto dei principî della Costituzione e dell’ordinamento giuridico dello Stato; obbligo di non interferire e violare non solo i diritti, ma anche gli interessi dello Stato o di singole altre Regioni; sindacato dell’esercizio della potestà legislativa da parte del Parlamento. Si domanda perciò se veramente questo potere legislativo attribuito alla Regione presenti pericoli per l’unità, son solo politica, ma giuridica dello Stato, tali da dover indurre a respingere il testo della Sottocommissione e ad accettare l’emendamento proposto.

Ritiene che la costituzione del nuovo ente sia stata progettata in una forma così precisa e marcata da fargli sentire tutto il peso della propria responsabilità. Conclude invitando la Commissione a voler tener conto delle osservazioni svolte e respingere l’emendamento proposto dagli onorevoli Laconi, Bozzi e Lami Starnuti.

BOZZI, premesso che in seno alla seconda Sottocommissione, tutti i colleghi, tranne l’onorevole Nobile, il quale assunse una posizione isolata rigidamente unitaria, furono d’accordo nel senso che si dovessero ammettere le autonomie regionali, come reazione a quell’accentramento statale per tanto tempo invalso in Italia e come garanzia per la democrazia e la libertà, fa presente che tutti furono pure d’accordo sulla necessità di creare un sistema il quale desse garanzia e sicurezza che l’unità nazionale non verrebbe infranta. Ha però l’impressione – ed è per questo che ha presentato con altri colleghi l’emendamento in discussione – che il sistema di competenza amministrativa della Regione incida sull’unità dello Stato per quella che è la manifestazione prima di tale unità, cioè la funzione legislativa.

Orientamento della nuova Costituzione dovrebbe essere quello di far sì che il Parlamento nazionale non si occupasse di leggi troppo particolari, ma commettesse invece ad altri organi, come appunto la Regione, l’ufficio di integrare queste norme per adattarle alle esigenze locali. Ma il sistema adottato dalla seconda Sottocommissione va molto al di là, in quanto prevede quattro tipi di competenza legislativa da attribuire alla Regione. Il primo tipo è quello che si fonda sul principio del non intervento dello Stato in determinate materie, nei confronti delle quali lo Stato può solo intervenire successivamente con una potestà di annullamento e di impugnativa; il secondo tipo concerne la sfera di competenza in cui lo Stato, come legislatore, concorre con la Regione; il terzo concerne la sfera inerente alla potestà integrativa assegnata alla Regione; il quarto la sfera in cui invece la Regione ha una potestà regolamentare. Ora, già il determinare diverse sfere di competenza crea – a suo avviso – in tale materia delicatissima, una estrema incertezza, soprattutto fra la competenza della Regione e quella dello Stato, con tutte quelle conseguenze che facilmente si possono immaginare in un sistema in cui è prevista una facoltà di impugnativa. Per questo ritiene che tutto il sistema vada semplificato. Crede altresì che, per mantenere veramente l’unità dello Stato sul piano politico e su quello economico – sottolinea il piano economico – lo schema proposto dagli onorevoli Laconi e Lami Starnuti e da lui risponda alla giusta esigenza di tutelare l’unità dello Stato e dare insieme un giusto riconoscimento ad una sfera di competenza della Regione.

Illustra lo schema proposto, rilevando che, con esso, si stabilisce il principio che non vi possono essere materie per le quali sia negata allo Stato la potestà di dire una sua parola in materia legislativa. Alla Regione è commessa quella che si è chiamata competenza di attuazione e di integrazione. Questo è infatti il compito precipuo che deve avere la Regione: adattare le norme direttive e generali che lo Stato intende emanare alle esigenze particolari della Regione. Ma al di là non si deve andare.

Il problema è – a suo parere – veramente fondamentale. Nella nuova struttura che si vuol dare alla Nazione, occorre mantenere l’unità dello Stato nel decentramento e non creare un sistema come quello proposto che, anche se oggi non lo è, possa scivolare domani in un sistema federale.

Ritiene che accogliendo l’emendamento si darà al nuovo ente che sorge una giusta competenza con largo decentramento amministrativo, con larga sfera di attribuzioni, mantenendolo però sempre nel campo dell’attuazione delle norme e delle direttive generali che lo Stato intende emanare.

LACONI premette anch’egli che nessuno, in seno alla seconda Sottocommissione, pose in discussione la questione di principio della opportunità di creare un ordinamento fondato sulle Regioni, e tutti furono concordi nel riconoscere che la Provincia era una circoscrizione artificiale che non rispondeva a nessuna analoga unità organica esistente in Italia. Da questo, però, si è passati ad una concezione così avanzata e così nuova, che offre indubbiamente un vasto campo di discussioni e di dissensi.

Pensa che per apportare una variazione tanto profonda alla struttura costituzionale ed all’ordinamento di un Paese come l’Italia, che ha così laboriosamente concretato la sua unità politica e realizzata la sua unità economica, culturale e sociale, dovrebbero sussistere ragioni immensamente gravi. Si domanda ora se tali ragioni sussistano veramente.

A chi cita i nomi di Minghetti, Mazzini e Cattaneo, come quelli di persone favorevoli ad un sistema autonomista, fa presente che i motivi che allora li spingevano ad una tale concezione non possono più essere fatti valere oggi che l’unità nazionale in Italia è realizzata. Oggi il problema non può essere posto negli stessi termini in cui si poneva un secolo fa. Non può comprendere che vi siano oggi degli autonomisti i quali, soltanto per il fatto che hanno determinate tradizioni di partito da difendere o determinate concezioni arretrate rispetto alla situazione politica italiana, vogliano attuare una innovazione così profonda, che non risponde affatto al sentimento popolare italiano e che non trova la sua ragione in una situazione politica, sociale ed economica quale è quella attuale dell’Italia.

Osserva che se si esamina lo sviluppo dell’unità italiana, ci si può convincere che, in sostanza, soltanto per alcune Regioni il problema sussiste tuttora. Vi sono infatti Regioni in Italia che sono rimaste avulse dal processo formativo dell’unità nazionale: ciò vale per la Sardegna, per la Sicilia, per la Regione mistilingue, che hanno veramente delle ragioni per poter rivendicare una autonomia. Ma altrove, nella maggior parte delle regioni di Italia, il problema viene introdotto nel modo più artificiale.

Perciò egli ed altri Commissari proposero in sede di Sottocommissione un trattamento differente per le diverse Regioni.

Tenuto presente che esiste realmente in Italia una necessità di decentrare l’unità statale, egli era d’avviso che si dovesse accedere ad un ordinamento fondato sulle Regioni, limitando però l’ordinamento autonomista soltanto a quelle Regioni in cui questa esigenza si era manifestata in modo più profondo. Il progetto in esame prevede invece un ordinamento che, se venisse domani attuato, porterebbe ad una completa disintegrazione dello Stato italiano.

All’onorevole Ambrosini, il quale ha affermato che non si può parlare di una potestà legislativa di carattere esclusivo per le Regioni, fa presente che, quando al legislatore regionale si fissano come limiti le norme costituzionali, gli interessi nazionali e l’ordinamento giuridico dello Stato, non si fa in sostanza che porgli gli stessi limiti che ha il legislatore statale.

Pensa che con il sistema proposto si andrebbe verso una Costituzione federale dello Stato, creando inoltre un enorme appesantimento della burocrazia.

Si sono già viste le prime conseguenze del progetto. Non appena se ne è avuta notizia in Italia, ci si è trovati dinanzi ad una pletora di richieste, provenienti da zone che non avevano mai avuto rivendicazioni autonomistiche; si sono visti gruppi di politicanti locali richiedere per le loro Regioni strane ripartizioni.

Ritiene che le conseguenze di un sistema quale è stato proposto non possano essere se non conseguenze anarchiche, e che con una soluzione del genere si aprirebbe in Italia una fonte continua di conflitti mentre il Paese, perduto il suo carattere unitario, finirebbe con il restare diviso in una serie di piccoli Stati.

Invita pertanto la Commissione a rivedere con molta attenzione il progetto, soprattutto nelle sue parti essenziali, e ad accedere ad una soluzione che risponda realmente alla situazione reale della democrazia italiana.

LUCIFERO dichiara di condividere in gran parte il pensiero degli onorevoli Bozzi e Laconi, e di aderire alla soluzione da essi proposta, unitamente all’onorevole Lami Starnuti, soluzione che considera la meno cattiva.

Non condivide peraltro l’opinione espressa dall’onorevole Laconi, secondo il quale l’unità italiana politica ed economica sarebbe perduta con l’adozione del progetto, perché l’unità economica deve ancora essere raggiunta in un Paese come il nostro, geograficamente diviso da una parte in un mercato di produzione e dall’altra in un mercato di consumo. Ed egli teme appunto che un regionalismo troppo spinto finisca con il creare in Italia uno stato di disintegrazione, che è altamente deprecabile.

Deve infine fare una riserva. Vede con preoccupazione la creazione delle marche di frontiera, di quattro Cantoni, cioè, di quattro zone italiane privilegiate, le quali si troverebbero in confronto alle altre in una situazione di maggiorascato. Non entra in dettagli, non essendone questa la sede, ma ritiene opportuno fare tale riserva su una questione che un giorno forse potrà risultare più grave di quanto non sembri oggi.

LAMI STARNUTI, associandosi alle osservazioni dei colleghi Bozzi e Laconi, aggiunge di aver concepito con essi la Regione come lo strumento ed il mezzo per quel decentramento amministrativo di cui vi è tanto bisogno in Italia per svincolare le attività locali dal centralismo dello Stato.

Ricorda che nel Comitato di redazione egli aveva proposto una formula più attenuata di quella contenuta nell’emendamento, formula che dava alla Regione la facoltà di applicare la legge dello Stato secondo i bisogni locali. Aderisce a questa formula più ampia, non per addivenire ad un compromesso, ma perché gli sembra che questa formula salvi anch’essa le ragioni essenziali per le quali si era opposto alla soluzione sostenuta dall’onorevole Ambrosini, soluzione secondo la quale – a suo credere – si mette veramente in pericolo la sovranità dello Stato. Quando infatti, per alcune materie, si esclude interamente lo Stato da ogni facoltà di intervento e di disciplina, si giunge ad uno Stato unitario sui generis e ci si avvicina veramente alla forma dello Stato federale.

Per questa ragione, mantiene la sua contrarietà sia alla formula adottata dalla seconda Sottocommissione, sia al testo predisposto dal Comitato di redazione, e dichiara che voterà l’emendamento proposto a sostituzione degli articoli 4, 5 e 6 del progetto.

PERASSI non si richiama né a Minghetti né a Mazzini né a Cattaneo, poiché non crede sia l’ora di fare della letteratura o della rettorica. Per restare al tema concreto, osserva che il punto di cui oggi si discute è se alla Regione, una volta che tutti sono d’accordo nel creare questo ente nell’ambito dello Stato, si debba attribuire una competenza legislativa e di quale tipo. Ora, nel testo elaborato dalla Sottocommissione, si sono formulati diversi articoli che indicano vari tipi di legislazione regionale. L’articolo che ha dato luogo a maggiore discussione è il 4; ma egli rileva che le critiche mosse dai precedenti oratori si sono fermate alla prima parte dell’articolo senza tener conto del seguito. L’onorevole Laconi, ad esempio, ha osservato – e giustamente in un certo senso – che anche la legge dello Stato è una legge che incontra dei limiti nei principî costituzionali. Ma l’articolo 4 non si limita al primo comma: la parte essenziale dell’articolo sta nei commi successivi, che specificano le materie nelle quali la Regione è chiamata ad esplicare una potestà legislativa.

A coloro che affermano che con il nuovo ordinamento si andrebbe incontro alla disgregazione dello Stato, domanda se effettivamente l’unità dello Stato possa essere compromessa dalla facoltà concessa alla Regione di legiferare in materia di ordinamento degli uffici ed enti amministrativi regionali, di modificazioni delle circoscrizioni comunali, della polizia urbana e locale, di fiere e mercati, di beneficenza pubblica, di scuola artigiana, urbanistica, ecc.

L’onorevole Ambrosini ha già esaurientemente illustrato la portata del sistema e quali sono le cautele e le garanzie per assicurare che l’esplicazione di questa potestà legislativa della Regione non porti ad alcun pericolo.

È stato rilevato che con i diversi articoli del progetto si crea una serie di tipi diversi di leggi regionali. Riconosce giusta l’osservazione, ma rileva che in questo non v’è nessun pericolo. Vi sono infatti questioni di interesse strettamente locale, nelle quali una legislazione regionale può essere più direttamente competente; vi sono invece materie nelle quali l’interesse regionale non è esclusivo od assolutamente prevalente e per queste è concepito un tipo di legislazione che consiste nella fissazione da parte di una legge dello Stato di principî generalissimi, lasciando alle Regioni un’ampia libertà di legislazione. Vi è poi un terzo tipo di legislazione che consiste nell’attribuire allo Stato la fissazione di norme abbastanza larghe e nel lasciare alle singole Regioni una competenza legislativa di integrazione e di adattamento.

Vi è infine un’altra formula sulla quale non vi è discussione: ed è la disposizione che leggi dello Stato possano demandare alle Regioni il potere di emanare le norme regolamentari per la loro esecuzione. Inserire quest’ultima formula nella Costituzione potrebbe essere, da un punto di vista strettamente giuridico, superfluo, ma l’inserzione nella Costituzione è suggerita da una ragione per dir così di incitamento, in quanto è opportuno richiamare volta per volta gli organi dello Stato, quando si fa una legge, a questa possibilità ed opportunità.

Per le considerazioni svolte, ritiene opportuno mantenere in pieno l’adesione ai risultati cui è giunta la seconda Sottocommissione, attraverso un esame molto approfondito, compiuto con gran senso di responsabilità e partendo dal concetto che l’unità nazionale non si discute né si mette in pericolo.

TOGLIATTI, associandosi alle considerazioni svolte dal collega onorevole Laconi, prende in esame il progetto presentato all’approvazione della Commissione, rilevando come ci si trovi di fronte ad un complesso di norme che, lungi dall’essere coerenti, sono, anzi, contradittorie ed alcune volte vanno persino – senza voler offendere coloro che vi hanno faticosamente lavorato – a cadere nel ridicolo. Ciò deriva – a suo avviso – dal fatto che, probabilmente, si sono trovate di fronte due concezioni diverse, una federalistica e una di decentramento amministrativo. Un compromesso di principî non è stato trovato; è stato trovato invece un compromesso di formule, il quale poi si è spostato da una parte o dall’altra, a seconda delle vicende delle presenze nella Sottocommissione. Questo ha portato a singolari decisioni quale, ad esempio, quella che fa rientrare i provvedimenti circa la torba nella facoltà legislativa della Regione; mentre lo stesso non avviene per il carbone.

Osserva che nel complesso di norme presentate come testo v’è un difetto fondamentale: vi rimangono profonde le tracce del federalismo, mentre non esiste il decentramento; anzi si hanno norme che appesantiscono in modo molto grave l’apparato amministrativo.

Rileva come si sia sentita la necessità di inserire nella Costituzione una norma che vieti l’istituzione di dazi di importazione e di esportazione o di transito tra una Regione e l’altra; ed osserva che una norma del genere è assurda, poiché non dovrebbe nemmeno essere presupposta l’eventualità di un attentato alla libertà di circolazione nel Paese.

All’articolo 8 è poi detto che le Regioni hanno autonomia finanziaria; anche su questo punto chiede spiegazioni. Egli è favorevole alle autonomie, ma vorrebbe che la questione della autonomia finanziaria venisse spiegata meglio, poiché egli trova nella norma la traccia di quella che chiamerebbe una economia regionale.

Sostiene, invece, la necessità di venire incontro alle esigenze delle singole Regioni sul piano dell’economia nazionale, evitando il pericolo di creare una divisione economica fra le singole Regioni.

Aggiunge che il progetto si risolve in una misura antimeridionalistica: viene sbarrata la strada per la quale la ricchezza del Nord potrebbe andare ad elevare il livello economico del Sud.

Gli sembra che, accettando i criteri contenuti nel progetto, si darà modo inevitabilmente agli egoismi regionali di manifestarsi e si impedirà la circolazione, verso il Mezzogiorno, delle ricchezze, accumulate oggi prevalentemente nel Nord. Lo sviluppo economico d’Italia, per un certo periodo di tempo, rimarrà cristallizzato al punto in cui è arrivato, mentre invece è necessario favorire la elevazione del Sud, mediante un più stretto contatto con le Regioni settentrionali, attraverso quel sistema di vasi comunicanti, che può essere dato da una unità economica indivisibile.

Ritiene inaccettabile il progetto, poiché con esso non vi è decentramento, ma si crea un’altra istanza, senza sopprimere nessuna di quelle precedenti; si crea l’istanza legislativa subordinata, vastissima: si crea il vero staterello federale. Con il nuovo sistema sarà possibile, è vero, attuare la riforma agraria in Emilia; tale riforma però va attuata in tutte le Regioni, sia pure più modestamente, ma tuttavia su un piano nazionale, onde elevare il livello dell’economia generale.

Inoltre il funzionamento di questa nuova istanza è legato ad una serie tale di controlli, per cui, alla fine, sarà la Corte costituzionale a decidere; il che potrà paralizzare il funzionamento delle Regioni.

Accennando infine alla facoltà che verrebbe concessa alle Regioni di emanare norme legislative in materia di fiere e mercati o di porti lacuali, fa presente che alle amministrazioni comunali spetta il compito delle relative decisioni.

Mette in guardia contro il pericolo di fissare barriere, che non corrispondono alla necessità di sviluppo della vita nazionale. È d’accordo con l’onorevole Perassi, quando questi afferma la necessità di salvaguardare l’unità nazionale, che è una conquista; ma osserva che non è ancora una conquista concreta, e sovrattutto, non è così solida come dovrebbe essere.

Conclude dichiarandosi favorevole sì al più largo decentramento amministrativo ed alle autonomie dei Comuni, ma contrario ad un apparato macchinoso, come quello progettato, che rende più pesante la nostra organizzazione amministrativa; e sovrattutto è in funzione antimeridionale, è una barriera allo sviluppo economico del Mezzogiorno, e stimola contro il Mezzogiorno gli egoismi delle Regioni settentrionali più ricche.

Per questi motivi, ritiene che tutta la questione debba essere profondamente riveduta.

COLITTO dichiara che, personalmente, non ha grandi simpatie per la progettata ripartizione del territorio dello Stato in Regioni e non sa quanto il costituendo nuovo ordinamento gioverà a mantenere salda l’unità politica, economica e morale della Patria.

Ha, d’altra parte, l’impressione che il nuovo ente non giovi a rendere migliore, nei suoi vari aspetti, la vita delle singole parti del Paese. Non si nasconde, inoltre, di aver ricevuto notevole impressione dalle ragioni, per le quali da ogni parte d’Italia si è, in questi giorni, affrontata la difesa dell’ente Provincia.

Pensa comunque che, nel caso in cui l’esperimento dell’ente Regione si voglia fare, sia necessario attribuire alla Regione, senza scendere ad inutili specificazioni, soltanto un potere legislativo di integrazione ed in funzione delle leggi dello Stato.

Afferma che la legge deve essere, non può non essere, la stessa per tutti gli italiani, quale che sia la materia, più o meno importante che disciplina. Potrà essere la legge adattata alle diverse condizioni dei vari settori del territorio nazionale e completata; ma deve asserirsi, ovunque e in ogni momento, che una è la legge regolatrice della vita nazionale.

È perciò d’avviso che debba approvarsi – nel caso in cui l’esperimento s’intenda fare – l’emendamento proposto agli articoli 4, 5, 6.

EINAUDI ricorda che, nel corso della discussione in seno alla Sottocommissione, manifestò talvolta il suo dissenso da alcuni dei principî stabiliti nel progetto. Le ragioni di tale dissenso stanno nella sua impressione che il progetto, in alcune parti, vada contro alle esigenze più profonde dell’economia moderna. Crede inutile affermare che le Regioni possono legiferare sia in maniera esclusiva, sia in maniera concorrente su alcune materie le quali necessariamente tendono ad essere regolate non soltanto dallo Stato, ma da enti che sono superstatali. Ha visto, ad esempio, con grande sospetto parlare di regolamentazione regionale delle acque pubbliche e dell’energia elettrica, anche se si è aggiunta la limitazione «in quanto il loro regolamento non incida sull’interesse nazionale e su quello di altre Regioni». Crede che la Regione non debba avere ingerenza nella materia delle acque pubbliche, in quanto esse debbono essere per la loro utilizzazione – nell’interesse del Paese e della singola Regione – unificate, e non si può dare una utilizzazione razionale in nessun paese alle acque pubbliche, se questa utilizzazione non è di carattere nazionale.

Così non vede come sia possibile regolare nelle Regioni il credito, l’assicurazione, il risparmio, le miniere: sono tutti argomenti che devono essere regolati dallo Stato.

Dal punto di vista economico, si è trovato perciò in disaccordo nella discussione in seno alla Sottocommissione con coloro che sostenevano che di questa materia si dovesse occupare la Regione. Da questo punto di vista, approva le considerazioni fatte dall’onorevole Togliatti. Non comprende però perché egli abbia criticato la norma dell’articolo 8, dall’oratore proposta, relativa al divieto di porre ostacoli alla circolazione delle merci.

TOGLIATTI osserva di essersi soltanto meravigliato del fatto che si sia stati costretti a proporre una norma simile.

EINAUDI fa presente che si tratta di una necessità legislativa riconosciuta in tutte le legislazioni federali: svizzera, americana, ecc., e che se non si afferma esplicitamente tale principio, si corre il rischio che ogni singola Regione, ogni singolo Cantone, ogni singolo Stato, adottino dazi di importazione e di esportazione, stabilendo divieti per il commercio interregionale, che sono funesti non solo per l’unità del Paese, ma anche per la ricchezza e la prosperità delle medesime Regioni che li stabiliscono.

Detto questo, e quindi spiegato come egli si sia trovato in disaccordo per alcune materie contemplate negli articoli 5 e 6, non vede ragione di non dare il suo voto all’articolo 4, il quale si riferisce a materie che, come ha rilevato l’onorevole Perassi, sono assolutamente locali. Non c’è nessuna ragione che lo Stato venga ad interferire negli argomenti elencati in tale articolo e che possono essere regolati molto meglio sul luogo da un Consiglio regionale, che conosce come nella propria Regione debbano essere amministrati tanti piccoli servizi i quali hanno caratteristiche esclusivamente regionali. Sono così diverse in Italia le condizioni di clima, economiche, ecc., che – ad esempio – la legislazione sull’urbanistica deve necessariamente essere una legislazione locale.

Rileva poi come non sia stato posto nella dovuta luce un elemento fondamentale dell’attività regionale, quello riferentesi all’insegnamento, che afferma appartenere sia nel ramo elementare, che in quello medio e superiore, alla Regione, e più ancora ad enti che sorgono entro la Regione e che possono essere regolati localmente in base a principî generali. Osserva essere stato un danno grave che durante il periodo fascista l’istruzione elementare sia passata dai Comuni allo Stato, ed afferma che la creazione di una burocrazia ufficiale di maestri e professori, i quali dipendono tutti da un Ministero della pubblica istruzione che risiede a Roma, è una delle piaghe della vita italiana. Sostiene quindi la necessità, non solo di un decentramento, ma di un’amministrazione locale di tutto ciò che appartiene alla intelligenza ed alla cultura. Lo Stato in questa materia non deve avere alcuna ingerenza.

Conclude che voterà a favore dell’articolo 4 e non degli altri articoli, che gli sembrano pericolosi dal punto di vista economico e manchevoli dal punto di vista intellettuale.

LUSSU si dichiara convinto che la massima parte delle disgrazie che attraversa il Paese è dovuta principalmente alla organizzazione centralista dello Stato, e che se si fosse potuti arrivare ad una organizzazione federalistica dello Stato, ci si troverebbe oggi in una situazione molto migliore. Ma egli non ha posto il problema federalistico come attuale in seno al Comitato per le autonomie, come non l’ha posto in seno alla seconda Sottocommissione, perché riconosce che una coscienza federalistica non esiste in Italia.

In questo problema egli si trova quasi isolato nelle sinistre; è d’accordo peraltro con qualche corrente che ha i suoi esponenti nel movimento socialista, nonché comunista alla periferia, mentre si trova in gran parte d’accordo con la Democrazia cristiana, e crede che il concetto autonomistico di questa sia espressione di una profonda esigenza democratica.

È d’opinione che la riforma autonomistica non sia soltanto una riforma di carattere amministrativo, giuridico o tecnico, ma soprattutto un problema di organizzazione democratica, di creazione di una coscienza democratica; ed è convinto che se il Paese fosse stato organizzato negli anni precedenti in questo modo, sarebbe stato impossibile al fascismo impadronirsi di tutta l’Italia. La coscienza democratica deve, può avere ed avrà grandi basi nell’organizzazione autonomistica dello Stato, per cui anche alla periferia il cittadino, l’organizzazione comunale, regionale, ecc. si sentono partecipi e quindi difendono e presidiano le conquiste democratiche locali e sono partecipi insieme della vita e della costruzione dello Stato.

Ritiene errata l’opinione dell’onorevole Togliatti che vede nel progetto un attentato alla vita del Mezzogiorno; afferma invece che da quando l’Italia esiste è stata l’organizzazione centralistica dello Stato che ha trattato il Mezzogiorno, più o meno consapevolmente, come una colonia, ciò che ha portato non soltanto alla rovina del Mezzogiorno, ma ai grandi disastri nazionali.

Il movimento autonomistico, che è ricerca di vita nuova nel campo politico, amministrativo e sociale, è sorto proprio nel Mezzogiorno ed è sorto attraverso l’elemento intellettuale e la massa dei contadini che intendevano, attraverso una organizzazione autonomistica, di crearsi la base di partenza per futuri progressi.

Movimento di avanguardia della democrazia, quindi, e non movimento di reazione.

Egli che ha partecipato, subito dopo l’altra guerra, ad un movimento autonomistico non soltanto per la Sardegna, ma per tutto il Mezzogiorno, dichiara che il problema autonomistico non è soltanto un problema che possa riguardare le Isole, ma è un problema di esigenza nazionale.

A chi parla di un pericolo per l’unità nazionale, risponde che è stato proprio il centralismo unitario che ha fatto piombare il Paese nei più grandi disastri.

Crede anche che siano infondate le preoccupazioni di una riforma federalistica, ed esprime la certezza che da un ordinamento siffatto nessun ostacolo potrà venire alle grandi riforme e soprattutto a quella agraria, che non potrà non essere nazionale e che sarà data per tutta l’Italia dal Parlamento italiano, senza nulla togliere alle Regioni, e senza impedire che queste attuino nel loro interno quelle riforme che crederanno più opportune.

Termina rilevando che nessun pericolo questa riforma può presentare per l’unità nazionale. L’unico pericolo può essere che la burocrazia, convinta in buona fede di difendere nella organizzazione centralizzata la migliore organizzazione del mondo, tenti di sabotare questa grande riforma dello Stato italiano.

NOBILE, rilevando come la concezione regionalistica affiori e si affermi soltanto nei periodi di tempo in cui lo Stato è debole, osserva che da qualche mese la situazione in Italia è mutata ed egli, che nel difendere la tesi antiregionalistica era in compagnia di pochi, constata con compiacimento che col ricostituirsi dello Stato le tendenze regionalistiche si sono andate affievolendo.

Avrebbe capito che si fosse proposto un ordinamento federalistico. Esso, certo, sarebbe stato un anacronismo storico, ma tuttavia sarebbe stato un ordinamento, forse anche efficiente. Invece il progetto in esame non rappresenta un ordinamento statale; ma, al contrario, è la disorganizzazione dello Stato, è l’anarchia.

Tutti sentono l’esigenza di attuare un serio radicale decentramento amministrativo, ed egli la sente non meno degli altri. Non comprende invece come si possa parlare di un decentramento economico nel mondo moderno, in cui le tendenze sono tutte verso un ordinamento mondiale dell’economia.

È contrario anche alle autonomie che si vorrebbero dare alle Isole. Riconosce che lo Stato italiano debba attuare ordinamenti speciali per le Regioni che sono ai confini, perché questo è imposto dagli accordi internazionali; ma non vede perché si voglia dare un’autonomia speciale alla Sardegna e alla Sicilia. Le esigenze di carattere politico, che sono alla base del riconoscimento di questa speciale autonomia alle Isole, hanno un carattere temporaneo: tra qualche tempo saranno dimenticate e sorpassate; e quelle stesse ragioni, così acutamente messe in evidenza dall’onorevole Togliatti, le quali portano a concludere che un’autonomia regionale, così come è intesa nel progetto, si risolverebbe in un danno per il Mezzogiorno, valgono anche – a suo avviso – per la Sardegna e per la Sicilia.

All’onorevole Ambrosini, il quale ha accennato alle limitazioni poste dal progetto alla potestà legislativa regionale, osserva che vi è anche una parte negativa, cioè che la Regione potrebbe omettere di fare certe cose che sarebbe nell’interesse nazionale di fare. Su questo punto importante il progetto tace, e viene così a mancare la doverosa tutela dell’interesse nazionale.

MORTATI, riferendosi alla affermazione dell’onorevole Laconi, secondo il quale il progetto non sarebbe attuale, rileva come lo stesso cada in una contradizione, quando subito dopo afferma che il problema è attuale per la Sardegna e per la Sicilia. Non vi sono infatti due problemi, ma vi è solo il problema del Mezzogiorno. Riconoscere che esiste una situazione particolare per le Isole e non riconoscerla per le altre terre del Mezzogiorno, è una contradizione.

In sostanza, il problema regionale nasce da questa frattura che c’è fra Regione e Regione italiana, e la costituzione della Regione autonoma deve tendere appunto a modificare e ad eliminare questa frattura.

Contesta l’affermazione dell’onorevole Togliatti, secondo il quale la situazione del Mezzogiorno verrebbe aggravata dalla costituzione dell’Ente Regione, rilevando come ad essa l’onorevole Lussu abbia esattamente risposto.

Afferma che l’esigenza di un decentramento si fonda sul bisogno attuale di adattare la legislazione generale alle necessità locali derivanti dalle differenze di struttura delle varie Regioni.

In proposito si sono fatte affermazioni contradittorie, poiché si è detto che la Regione impedisce una politica unitaria, ed insieme il regionalismo pregiudica le autonomie locali. In realtà, l’intervento del potere centrale deve servire semplicemente per fissare le direttive, nell’ambito delle quali deve svolgersi il potere legislativo della Regione, adattando le direttive generali alle esigenze dei singoli istituti giuridici nella sfera locale. Così può dirsi, ad esempio, per la mezzadria. Bisogna che il regionalismo serva ad educare il sentimento civico, serva ad avviare la partecipazione dei cittadini alla pubblica amministrazione. Anche la finanza regionale deve tener conto delle differenze di situazioni economiche e finanziarie delle singole Regioni. Fa presente, poi, un’ultima esigenza fondamentale, quella di far sentire agli organi centrali dello Stato i bisogni locali. A questo deve provvedere il Senato regionale, ma non potrebbe farlo se non avendo alle spalle il complesso unitario della Regione che, in certi limiti autonomi, ha meglio la possibilità di sondare e di approfondire le proprie esigenze.

Questi i motivi che, a suo avviso, giustificano l’ordinamento regionale.

Riconosce, naturalmente, la necessità di pervenire ad un organismo armonico e, quindi, conviene in alcune delle critiche che sono state mosse. Gli articoli che sono stati predisposti risentono, come osservava l’onorevole Togliatti, del fatto che le votazioni sono avvenute in momenti successivi. Ma non è difficile armonizzare le disposizioni del progetto; l’importante è che rimanga il principio fondamentale.

PICCIONI dichiara che non avrebbe chiesto di parlare, se la base della discussione non si fosse spostata dall’esame tecnico particolareggiato dei singoli articoli a tutta l’impostazione del problema regionale. Sull’argomento si è parlato in maniera molto diffusa in seno alla seconda Sottocommissione, e la Commissione plenaria dei 75, non appena nominata dalla Costituente, prese in esame in linea pregiudiziale, come primo argomento, rispetto a tutti gli altri problemi, quello delle autonomie regionali. Ciò sta a dimostrare, anche dal punto di vista storico, se così si può dire, che effettivamente l’argomento risponde ad un sentimento largamente diffuso nell’Assemblea costituente. Aggiunge che, a conclusione della prima larga discussione – svoltasi in seno alla seconda Sottocommissione – fu approvato alla quasi unanimità un ordine del giorno, da lui proposto, che costituisce il fondamento essenziale di tutto l’ordinamento regionale attraverso tutti gli elementi che sono stati poi contradetti da coloro che hanno manifestato parere contrario. Rilegge tale ordine del giorno:

«La seconda Sottocommissione,

presa in esame la questione delle autonomie locali, sulla cui larga attuazione si è trovata concorde per il rinnovamento democratico e sociale della nazione, in aderenza alla sua tradizionale naturale struttura;

riconosciuta la necessità di dar luogo alla creazione, sancita dalla nuova Costituzione, dell’Ente Regione (persona giuridica territoriale):

  1. a) come ente autarchico (cioè con fini propri d’interesse regionale e con capacità di svolgere attività propria per il conseguimento di tali fini;
  2. b) come ente autonomo (cioè con potere legislativo nell’ambito delle specifiche competenze che gli verranno attribuite e nel rispetto dell’ordinamento giuridico generale dello Stato);
  3. c) come ente rappresentativo degli interessi locali su basi elettive;
  4. d) come ente dotato di autonomia finanziaria;

demanda ad una propria sezione la formulazione di un progetto di ordinamento regionale, tenute presenti le situazioni particolari esistenti (Sicilia, Sardegna, Val d’Aosta, Trentino-Alto Adige) e gli altri criteri informatori risultati dall’ampia discussione svoltasi in seno alla Sottocommissione».

Osserva che su questi principî, che furono accettati da tutti, anche dai colleghi comunisti, si è orientato l’ordinamento generale del nuovo ente. Se mai, si può osservare che nell’ordinamento effettivo si è avuta un’applicazione restrittiva – e non più ampia – delle basi accettate da tutti. Tutti oggi sono liberi di cambiare opinione; ma non si può dire che l’impostazione del problema da parte della Costituente sia l’espressione di una singola parte o di una visione particolaristica o personale, anziché di un problema fondamentale della vita nazionale.

A prescindere da questo, concorda pienamente con alcune delle osservazioni fatte dal collega Lussu. E innanzitutto ritiene necessario affermare che l’ordinamento regionale risponde ad una profonda esigenza democratica. La nota più profondamente democratica, più originale della nuova Costituzione italiana sarà data precisamente – a suo avviso – dall’ordinamento regionale, se esso sarà condotto a fondo, e seriamente.

Il Partito democratico cristiano concepisce l’esigenza democratica come una partecipazione sempre più attiva e più vasta del popolo a quelli che sono i suoi interessi. Questa partecipazione, già riconosciuta nell’ambito della vita amministrativa locale, con l’autonomia comunale, non può non essere riconosciuta anche nell’ambito più vasto della Regione.

Ritiene inutile parlare di decentramento amministrativo, quando, in mancanza di una specificazione più esatta e concreta, questo deve intendersi enunciato come decentramento di amministrazione nel quale gli interessi della Regione e del Comune sono affidati ad organi burocratici, emanazione diretta di un lontano potere centrale, mentre l’educazione politica dei cittadini si può fermare esclusivamente facendoli partecipi diretti della pubblica amministrazione e lasciando ad essi il compito di risolvere i propri problemi e di tutelare i propri interessi.

Senza scendere ad un esame particolare dei singoli articoli del progetto, fa presente che una dimostrazione che il progetto abbia in sé le tracce del federalismo non è stata, e non poteva essere data.

Il progetto, infatti, lascia al potere centrale tutte le funzioni sostanziali dello Stato e nulla vi è che possa ferire l’unità fondamentale dello Stato, della quale si dichiara geloso come chiunque altro.

Quanto al carattere antieconomico o antimeridionale che si vorrebbe attribuire alla struttura regionale, così come è stata progettata, osserva che l’onorevole Lussu ha già chiaramente dimostrato l’inconsistenza della critica. L’Italia meridionale ha sperimentato per 70 anni l’accentramento statale; si vorrebbe continuare su questa strada, sia pure con intenzioni diverse. Ma i risultati dell’esperimento fatto sono tali che non possono suggerire nessuna continuazione del genere, proprio nell’interesse dell’Italia meridionale. Questa richiede, più che qualsiasi altro settore d’Italia, un ordinamento politico ed amministrativo diverso, che valga, oltre tutto, ad eccitare quelle energie locali che invano si cercherebbe di valorizzare con un ordinamento centralizzato.

Rileva che somma meraviglia ha destato oggi in lui la constatazione del fatto – del resto già vagamente previsto anche in precedenti discussioni – che vi siano degli autonomisti o dei regionalisti in partibus, ed osserva che non vi è coerenza logica né politica nel sostenere l’autonomia per la Sardegna, per la Sicilia, per la Val d’Aosta e nel rifiutarla per le altre Regioni italiane.

Un’altra critica che ha udito muovere alla riforma pretende che questa sia stata concepita per deviare l’attenzione o l’interesse del popolo. A questa critica risponde che le riforme, e specialmente quelle sociali, non si realizzeranno in Italia soltanto per imposizione dall’alto da parte del potere centrale, bensì con la comprensione della loro necessità e della loro utilità, anche dal punto di vista economico e sociale, e questa comprensione non la si raggiunge se non attraverso l’esperienza locale, regionale, che è quella che deve riuscire a modellare la riforma stessa secondo le esigenze particolari.

Termina esprimendo la certezza che, attuando il progetto per l’autonomia locale, si potrà tranquillamente guardare all’avvenire democratico del Paese, anche dal punto di vista economico e sociale.

PRESIDENTE comunica che è stata chiesta la chiusura della discussione generale, riservando la parola ai deputati già iscritti ed al Relatore. Pone a partito tale richiesta.

(È approvata).

CODACCI PISANELLI, dopo le dichiarazioni dell’onorevole Piccioni, rinuncia a parlare.

MANNIRONI, ricollegandosi agli argomenti già accennati dall’onorevole Piccioni, rileva la profonda contradizione in cui si sono posti i colleghi comunisti, quando hanno voluto sostenere che era giustificata una larga autonomia per quattro Regioni e non per tutte le altre. Osserva che se si riconosce che la Sicilia e la Sardegna, per potere uscire dallo stato di inferiorità economica e sociale in cui si trovano, hanno bisogno di una larga autonomia, vuol dire che si riconosce all’autonomia il carattere di mezzo politico efficiente perché le Regioni – tutte le Regioni – possano essere messe in grado di fare da sé.

Aggiunge che non è esatto che l’autonomia, così come è stata formulata nel progetto della Sottocommissione, non contenga tracce di un compromesso sostanziale, perché, tra coloro che aspiravano a dare alla Regione un’ampia autonomia (più ampia di quella che è stata prevista) e coloro che invece vi si opponevano, ci si trova di fronte ad una soluzione che non può non essere di compromesso, e che non risulta affatto pericolosa per l’unità dello Stato, in quanto si ammette che il Governo centrale abbia la possibilità di controllare tutta l’attività della Regione. È d’avviso, anzi, che il potenziamento delle autonomie regionali si trasformerà in un potenziamento dell’economia della stessa Regione e, non esistendo compartimenti stagni, dell’economia nazionale.

AMBROSINI intende aggiungere all’esposizione già fatta alcune delucidazioni dal punto di vista tecnico, poiché dal punto di vista politico il problema è stato dibattuto e, dai difensori del progetto, sono state chiaramente esposte le ragioni che militano in suo favore.

Desidera sottolineare che le ragioni sostenute da Mazzini, Cavour e Minghetti, a favore delle autonomie locali, non hanno perduto la loro ragion d’essere, poiché i pericoli dell’accentramento statale, già gravi nel 1860, quando le funzioni dello Stato erano molto ridotte, oggi sono diventati gravissimi, appunto in proporzione delle aumentate funzioni statali.

Prendendo in esame il congegno approvato dal Comitato per l’ordinamento regionale, respinge la critica mossa da alcuni colleghi secondo i quali il progetto presenterebbe forti tracce di federalismo, e fa presente che nella distribuzione delle competenze, mentre nel sistema federale si affermano quelle del potere centrale rimandando tutte le altre agli Stati membri, qui si è fatto completamente il contrario, determinando tassativamente le materie di competenza delle Regioni e lasciando tutte le altre allo Stato. E inoltre non solo non si è parlato, neanche lontanamente, di alcuna cittadinanza regionale, ma non s’è data alla Regione la benché minima parte di potere giudiziario. Manca quindi una delle funzioni fondamentali che, seppure in forma ridottissima, devono appartenere ad una entità politica, perché si possa, sia pure lontanamente, metterla sullo stesso piano o su un piano simile a quello degli Stati membri di uno Stato federale.

Quanto alle critiche di eccessiva complicazione mosse al sistema adottato dalla Sottocommissione con la creazione di quattro categorie di norme giuridiche regionali, rileva che non possono derivarne i pericoli prospettati, poiché sono state configurate in modo preciso le competenze delle Regioni di fronte allo Stato. Ad ogni modo, sarebbe sempre possibile procedere ad una semplificazione, tornando alla doppia divisione che era stata proposta dal Comitato di redazione.

È stato osservato non essere sufficiente che il progetto preveda dei limiti ed un sindacato sulla potestà legislativa della Regione, perché in sostanza la Costituzione metterebbe l’Assemblea legislativa delle Regioni nella stessa posizione giuridica del potere legislativo dello Stato. Dissente da questa opinione, perché il progetto contempla un limite alla Assemblea regionale, uguale al limite posto al legislatore ordinario, in quanto l’una e l’altro non possono, con le loro norme giuridiche, violare la Costituzione, ma pone per il resto i due organi legislativi, cioè l’Assemblea regionale da un lato e il Parlamento dall’altro, su un piano assolutamente diverso. Richiama in proposito le delucidazioni date nel precedente intervento, ed osserva che basterebbe il fatto della sottoposizione dell’attività legislativa dell’Assemblea regionale al sindacato del Parlamento per dimostrare l’infondatezza della suaccennata opinione.

Non si addentrerà in altri particolari di carattere tecnico; non può tuttavia esimersi dal dichiarare che l’ordinamento regionale è stato concepito non solo e non tanto nell’interesse delle Regioni, quanto nell’interesse dello Stato e dell’unità nazionale.

PRESIDENTE dichiara chiusa la discussione generale.

Avverte che l’onorevole Togliatti ha presentato il seguente ordine del giorno:

«La Commissione dei 75, d’accordo sulla necessità di un ampio decentramento amministrativo e sul più ampio sviluppo delle autonomie locali; d’accordo sulla necessità di un regime di ampia autonomia per la Sicilia, la Sardegna e le zone mistilingui; è però contraria a che vengano introdotti nella Costituzione elementi anche indiretti e attenuati di federalismo.

«La creazione dell’ente Regione dovrà essere fatta attenendosi a questa direttiva, e in questo senso debbono essere riveduti gli articoli relativi alle autonomie locali».

Vi è poi un ordine del giorno presentato dall’onorevole Grieco tendente a limitare la legislazione speciale nella Val d’Aosta, ed inoltre un ordine del giorno Targetti per la conservazione della Provincia. Questi ordini del giorno potranno essere discussi in seguito, poiché ora si tratta di risolvere la questione di merito.

Pone in votazione l’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti, che significa negazione del sistema seguito dal progetto e rinvio per una revisione degli articoli.

TOGNI chiede che la votazione per questo ordine del giorno, come per l’emendamento testé discusso, abbia luogo per appello nominale.

PICCIONI dichiara che, in coerenza con le dichiarazioni precedentemente fatte e in considerazione del carattere negativo che presenta l’ordine del giorno Togliatti, voterà contro l’ordine del giorno stesso.

LAMI STARNUTI dichiara che voterà contro l’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti, poiché riteneva che su una parte almeno del concetto fondamentale dal quale la seconda Sottocommissione era partita per la istituzione delle Regioni, intese come organi di decentramento amministrativo autarchico, tutti fossero d’accordo. L’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti suona, invece, in modo diverso, e le sue enunciazioni generiche riportano in discussione tutto il problema. Dichiara però di riservarsi di prendere in esame, volta per volta, gli articoli di mano in mano che verranno in discussione, per attenuarne o modificarne le singole disposizioni, poiché su alcune di esse non concorda.

LUSSU dichiara che voterà contro l’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti; essendo però tale ordine del giorno composto di tre parti, dichiara di consentire con quanto è affermato nella parte centrale, concernente la necessità di concedere ampia autonomia alle quattro Regioni indicate.

TOGLIATTI, allo scopo di dissipare un equivoco che gli pare sia stato suscitato dalla dichiarazione di voto dell’onorevole Lami Starnuti, chiede di aggiungere, al principio del suo ordine del giorno, la parola «regionale», dopo le parole «decentramento amministrativo».

PRESIDENTE avverte che l’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti viene posto in votazione con questa modifica.

BOZZI dichiara che voterà contro l’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti, perché il problema dell’autonomia regionale, a suo avviso, non va ristretto soltanto al campo amministrativo, ma va anche esteso ad un campo di decentramento legislativo misurato e contenuto; ciò che ritiene si realizzi con gli emendamenti proposti da lui e dai colleghi Lami Starnuti e Laconi.

LUCIFERO, premesso che non sarebbe contrario ad una revisione di tutto il sistema, dichiara però che, essendo nell’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti contenute delle direttive per il futuro che non condivide completamente, si asterrà dal voto.

(Segue la votazione per appello nominale).

Rispondono sì: Basso, Di Vittorio, Farini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, La Rocca, Marchesi, Merlin Lina, Noce Teresa, Pesenti, Ravagnan, Targetti, Terracini e Togliatti.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Grassi, Lami Starnuti, La Pira, Lussu, Mannironi, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Perassi, Piccioni, Rapelli, Ruini, Togni, Tosato, Tupini e Uberti.

Si astengono: Bocconi, Cevolotto, Colitto, Lucifero, Marinaro e Rossi.

PRESIDENTE comunica che l’ordine del giorno dell’onorevole Togliatti è stato respinto con 15 voti favorevoli, 32 contrari e 6 astenuti.

Pone ai voti la proposta di emendamento presentata dagli onorevoli Bozzi, Laconi e Lami Starnuti.

PICCIONI dichiara di votare contro la proposta di emendamento, perché il carattere distintivo dell’autonomia locale e regionale è, secondo un principio comunemente accettato, la potestà legislativa sia pure limitata, potestà che l’emendamento nega riducendola ad una semplice funzione di integrazione o applicazione delle norme generali dello Stato.

TERRACINI dichiara che, coerentemente a tutto l’atteggiamento mantenuto nel corso dei lavori di preparazione del progetto, voterà a favore dell’emendamento.

FABBRI fa una dichiarazione analoga a quella dell’onorevole Terracini.

(Segue la votazione per appello nominale).

Rispondono sì: Basso, Bozzi, Canevari, Cevolotto, Di Vittorio, Fabbri, Farini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lucifero, Marchesi, Merlin Lina, Molè, Pesenti, Ravagnan, Rossi, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti.

Rispandono no: Ambrosini, Bulloni, Cappi, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Grassi, La Pira, Lussu, Mannironi, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Perassi, Piccioni, Rapelli, Togni, Tosato, Tupini, Uberti.

Si astengono: Colitto, Marinaro.

 

PRESIDENTE comunica che l’emendamento sostitutivo presentato dagli onorevoli Bozzi, Laconi e Lami Starnuti è stato respinto con 23 voti favorevoli, 26 contrari e 2 astenuti.

Constata che, essendo stato respinto l’ordine del giorno Togliatti di rinvio globale del progetto; essendo stata egualmente respinta la proposta di limitare la potestà legislativa della Regione ad una funzione di integrazione e di attuazione, resta approvato di massima, salvo i dettagli di forma, il sistema proposto nel progetto presentato.

Rinvia la seduta a martedì 22 alle ore 9.

La seduta termina alle 13.15.

Erano presenti: Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Corsanego, De Michele, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Lucifero, Lussu, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini e Uberti.

Erano assenti: Amadei, Bordon, Calamandrei, Cannizzo, Caristia, Castiglia, Conti, De Vita, Di Giovanni, Finocchiaro Aprile, Giua, Leone Giovanni, Lombardo, Mancini, Mastrojanni, Paratore, Porzio, Taviani, Vanoni e Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

GIOVEDÌ 16 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 16 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

La condizione dei figli nati fuori del matrimonio (Discussione)

Presidente – Lucifero – Togliatti – Merlin Umberto – Mastrojanni – Colitto – Nobile – Terracini – Dossetti – Grassi – Fabbri – Lussu – Molè.

La seduta comincia alle 10.15.

Discussione sulla condiziono dei figli nati fuori del matrimonio.

PRESIDENTE sottopone all’esame della Commissione l’articolo 17 predisposto dal Comitato di redazione, per la parte riguardante la condizione dei figli nati fuori del matrimonio. Ricorda che il testo della prima Sottocommissione era stato così formulato:

«La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio».

In seno alla stessa Sottocommissione e, poi, al Comitato di redazione, fu proposto di sostituire il comma con il seguente:

«Nessuna norma di legge può far ricadere sui figli le conseguenze di uno stato familiare che non sia conforme alla legge».

L’onorevole Nobile, infine, ha ora presentato il seguente altro emendamento:

«La legge prevederà la ricerca della paternità fissandone le norme. I genitori sono tenuti al riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio con le limitazioni e le norme che la legge prevederà».

Apre la discussione sul comma dell’articolo 17 e sugli emendamenti proposti.

LUCIFERO osserva che l’emendamento proposto in seno al Comitato di redazione è uguale ad altro emendamento che fu presentato a suo tempo davanti alla prima Sottocommissione dall’onorevole Togliatti e da lui.

I presentatori dell’emendamento partirono dal concetto che i figli i quali sono stati messi al mondo illegittimamente, non debbono portare le conseguenze degli errori della generazione che li ha preceduti e che la legge deve tutelare questo loro diritto alla uguaglianza. Se si vuole fare uno Stato democratico, occorre stabilire una uguaglianza fin dalla nascita nei diritti come nei doveri futuri dei cittadini.

Si dichiara profondamente convinto della bontà del principio contenuto nell’emendamento, non solo da un punto di vista morale e pratico, ma anche da un punto di vista altamente sociale.

Non è favorevole invece alla inserzione nella Costituzione del principio della ricerca della paternità: si tratta di un problema molto complesso e l’esperimento, tentato in alcuni Paesi europei, fra cui l’Austria, ha avuto risultati molto dubbi. Crede che esso possa costituire materia di discussione in sede di elaborazione legislativa, ma non essere adottato come un principio costituzionale.

TOGLIATTI si associa alle dichiarazioni dell’onorevole Lucifero.

MERLIN UMBERTO, richiamandosi a quanto ebbe già a far presente nel corso della discussione sull’emendamento Togliatti, in seno alla prima Sottocommissione, ritiene sia impossibile inserire l’emendamento stesso nella Costituzione, perché inattuabile sia dal punto di vista giuridico che da quello morale.

Trascurando la questione patrimoniale, si occupa di quella morale, facendo presente che il patrimonio maggiore che un padre tramanda ai figli è indubbiamente il cognome. Ora del cognome hanno diritto di disporre, oltre il marito, la moglie ed i figli legittimi, ed essi hanno il sacrosanto diritto di difenderlo. Si immagini quindi quale turbamento verrebbe nella famiglia legittima ove il figlio adulterino avesse il diritto di portare il cognome del genitore. Quanto ai figli incestuosi, essi sono i primi a non desiderare di conoscere la loro origine.

Dire che non è logico far ricadere sui figli innocenti la colpa dei padri, è tesi bellissima, da romanzo, ma non è argomento persuasivo per il legislatore e soprattutto per il legislatore costituente, il quale deve formulare gli articoli con il cuore, sì, ma soprattutto con la ragione.

Invoca dalla Commissione una meditazione adeguata alla gravità della questione, ma soprattutto all’impossibilità di attuazione pratica e giuridica del principio contenuto nell’emendamento, la cui formula non difende la famiglia monogamica, la quale non ammette e non può ammettere alcuna deviazione.

Osserva che con la formula proposta si arriverebbe ad una parificazione della famiglia illegittima con quella legittima perché si permetterebbe, soprattutto agli uomini, di generare figli con numerose donne certi poi di poter dare anche ai figli della colpa uno stato giuridico di parità.

Crede che la formula proposta dalla prima Sottocommissione e dal Comitato di redazione: «La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio», dica tutto quanto possa esser detto, lasciando al legislatore il compito di applicarlo. In questa formula vi è tutto il sentimento di amore e di generosità che si può avere per gli infelici figli della colpa, senza arrivare al turbamento della famiglia, che si deve invece rafforzare e rendere sicura.

MASTROJANNI si associa alle considerazioni svolte dall’onorevole Merlin, sottolineando anch’egli che se si ha intenzione di rafforzare l’istituto della famiglia e se si deve provvedere a tutelare la sorte dei figli nati fuori dal matrimonio, non conviene però inserire nella composizione familiare elementi di turbamento, scardinandone la consistenza.

COLITTO concorda con l’onorevole Merlin, osservando che la formulazione, piuttosto poetica, dell’emendamento, non deve, facendo leva sul sentimento, vietare un ragionamento rigidamente sereno.

La vigente legislazione fa alla prole nata in costanza di matrimonio, un trattamento diverso che ai figli naturali, ed egli crede che questa disparità di trattamento non possa essere eliminata, se si vuole, come in altra parte della Costituzione è detto, tutelare l’unità e rafforzare la saldezza dell’istituto familiare, come è nel pensiero di tutti. Ed allora non può essere approvato l’emendamento proposto perché, sotto una vernice sentimentale, esso finisce, in sostanza, con l’imporre quella parità di trattamento che è invece da evitare.

Ritiene pertanto che l’emendamento debba essere respinto e che sia da approvarsi il testo proposto alla Commissione, che rimanda alla legge la disciplina della materia.

La legge saprà ben contemperare con cautela le esigenze della mente con quelle del cuore.

Non crede, infine, che si possa approvare l’emendamento dell’onorevole Nobile, perché tutti i Codici civili vigenti disciplinano sia la ricerca della paternità sia il riconoscimento dei figli nati fuori del matrimonio, per il solo fatto che si occupano della famiglia, donde la inutilità di parlarne nella Costituzione, dato che appunto in essa è parola della famiglia.

NOBILE rileva di essere stato spinto a proporre il suo emendamento perché, esaminate attentamente le proposte della Sottocommissione e del Comitato di redazione, ha trovato che nessuna delle due soddisfaceva alle esigenze del problema.

Osserva che la formula predisposta dal Comitato di redazione è troppo vaga e generica, in quanto nulla dice, ad esempio, sull’obbligo dei genitori di alimentare, educare ed istruire i loro figliuoli, in qualsiasi condizione questi siano nati.

D’altra parte la legge attuale è insufficiente in quanto l’articolo 250 del Codice civile dice che i genitori possono riconoscere i figli naturali (ed in questo riconoscimento è implicito il dovere del mantenimento e dell’educazione), mentre bisognerebbe sostituire alla parola «possono» la parola «devono». Quando si pensa che ogni anno nascono in Italia 40 mila bambini fuori del matrimonio, si vede che il problema è veramente grave.

 

 


Quanto all’altra formula proposta: «Nessuna norma di legge può far ricadere sui figli le conseguenze di uno stato familiare che non sia conforme alla legge», osserva trattarsi di un principio che, dal punto di vista etico, non può far nascere dubbi. Ritiene però che tale formula sia troppo rigida. Se approvata e introdotta nella Costituzione, la legge non potrebbe fare alcuna discriminazione, né considerare alcun caso speciale, ciò che porterebbe a conseguenze assurde.

L’onorevole Merlin si è fermato sulla questione del cognome. Questo però – a suo avviso – non è l’argomento più importante. L’argomento serio è un altro: evitare di creare situazioni familiari impossibili quale quella che deriverebbe, ad esempio, dall’introdurre nella famiglia i figli incestuosi che, una volta riconosciuti, ne avrebbero il diritto in base all’articolo 259 del Codice attuale.

È chiaro perciò che la legge deve poter prevedere alcune eccezioni, pur ammettendo, in linea di massima, il diritto dei figli nati fuori dal matrimonio di essere riconosciuti e quindi di avere gli alimenti, l’istruzione, l’educazione ed eventualmente anche l’eredità.

Quanto alla ricerca della paternità, che pure è oggetto del suo emendamento, fa presente che la sua proposta non deve recare meraviglia: essa gli sembra una logica conseguenza delle premesse contenute nella Costituzione. A tale proposito osserva che non è vero, come è stato asserito, che pochi sono i paesi che ammettono la ricerca della paternità. Essa infatti è ammessa dalla legislazione dei seguenti Stati: Inghilterra, Scozia, Finlandia, Svezia, Norvegia, Danimarca, Germania, Austria, Ungheria, Cantoni svizzeri tedeschi, Stati Uniti, Perù, Argentina e Grecia.

TERRACINI ritiene che al problema sia stata data una errata impostazione, quella cioè della pietà, della misericordia e dell’amore. Non è il sentimento della commiserazione per queste, che sono certamente delle infelicissime creature, che deve imporre l’adozione di idonee misure.

Il problema va posto diversamente: bisogna difendere la famiglia. Si domanda se gli istituti debbano salvarsi a prezzo della rovina di certi uomini, e – nel caso particolare – se l’integrità della famiglia esiga che certe creature che tuttavia nascono debbano essere moralmente e civilmente uccise. È d’avviso che quanti hanno tanto avversato la concezione che poneva lo Stato al disopra degli individui non possano desiderare che anche la famiglia debba esser posta al di sopra degli individui. Ove si debba scegliere fra la salvezza dell’istituto familiare e la salvezza morale e civile degli individui viventi, crede sia necessario decidere per questi ultimi.

Ai colleghi democristiani fa presente che è inutile parlare tanto del rispetto della dignità umana quando poi, di fronte ad un problema concreto di salvare questa dignità umana, ci si dimentica di questa.

Il problema è questo: si scardina la famiglia riconoscendo i figli illegittimi? Ritiene che la famiglia, nel suo complesso, non possa essere insidiata da una disposizione del genere.

Anche la questione dei figli incestuosi, dolorosa piaga fortunatamente limitatissima nella nostra società, non deve preoccupare. Pensa che una equiparazione per legge dei figli legittimi agli illegittimi rappresenterà un freno alla figliolanza illegittima, tanto più tenendo presente che, in generale, gli illegittimi sono figli non dell’amore, ma del vizio e dell’inconsapevolezza.

Per queste ragioni, è d’avviso che il problema debba essere impostato diversamente. In realtà, negando l’equiparazione dei figli illegittimi si mantiene ancora una barriera in difesa soltanto del patrimonio familiare; e se fosse possibile concepire una equiparazione dei figli legittimi a quelli illegittimi che lasciasse salvo il patrimonio familiare, vi sarebbe forse l’unanimità per questa soluzione. (Commenti). Può anche inchinarsi a questa preoccupazione quando essa significhi tutela della posizione sociale dei figli legittimi: pensa tuttavia che bisogna anche preoccuparsi della posizione sociale degli illegittimi, dando la consapevolezza, a chi è nato da uno stesso sangue, di avere, nei confronti del patrimonio familiare, uguaglianza di diritti. Ora che si sta incidendo, per quanto cautamente, l’istituto della proprietà e quindi anche quello della proprietà familiare, questa piccola incisione aggiuntiva è indispensabile.

Per queste ragioni, si dichiara favorevole alla proposta di modifica presentata dai deputati Laconi, Bozzi e Lami Starnuti.

MASTROJANNI ricorda che in seno alla prima Sottocommissione propose una formula per stabilire che ai figli naturali venisse riconosciuto eguale trattamento economico rispetto ai figli legittimi: ciò per dimostrare che non era il fatto patrimoniale che doveva preoccupare nell’adottare una norma di equiparazione, ma unicamente l’esigenza di non turbare la compagine familiare.

DOSSETTI domanda una breve sospensione della seduta per permettere ai componenti la Commissione di concertarsi.

(La seduta è sospesa per alcuni minuti).

PRESIDENTE comunica che gli onorevoli Grassi, Marinaro, Colitto, Mastrojanni e Bozzi hanno presentato il seguente emendamento:

«La legge assicura ai figli nati fuori del matrimonio un trattamento ispirato a criteri di eguaglianza economica e civile con i figli legittimi».

TOGLIATTI potrebbe accettare l’emendamento ove si sopprimessero le parole «ispirato a criteri».

MASTROJANNI osserva che, in tal modo, si vincolerebbe troppo il legislatore, al quale invece deve essere lasciato un certo potere discrezionale.

GRASSI illustra le ragioni dell’emendamento presentato. Osserva che il testo approvato dal Comitato di redazione parla di una efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio; nel corso della discussione però è stato rilevato che la parola «protezione» non è sufficiente, mentre d’altra parte nella Costituzione non si deve riformare tutto l’istituto, ma dare soltanto al legislatore i criteri ai quali possa informarsi per eventuali modifiche.

Fa presente la necessità di esortare il legislatore perché cerchi una soluzione equa, ispirata per quanto possibile a criteri di uguaglianza, senza peraltro legarlo con una formula troppo rigida.

NOBILE chiede ai proponenti dell’emendamento se sarebbero disposti a mutare l’espressione «figli legittimi» con l’altra «figli nati nel matrimonio».

GRASSI fa presente che la modifica è superflua, in quanto nell’articolo 232 del Codice civile si specifica che è figlio legittimo il nato nel matrimonio.

PRESIDENTE informa la Commissione che l’onorevole Togliatti ha proposto la seguente formula:

«I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso i figli nati nel matrimonio. La legge garantirà ad essi uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali».

MASTROJANNI osserva essere assurdo ed inattuabile che entrambi i genitori concorrano alla educazione dei figli, mentre, d’altra parte, anche per il diritto romano, la paternità è tale perché le nozze l’hanno riconosciuta. Non si può quindi parlare di un genitore se questi non assume tale figura giuridica attraverso il matrimonio.

FABBRI è d’avviso che non si debba partire dai genitori, ma dai figli naturali riconosciuti, stabilendo un’accentuazione del trattamento di favore nei confronti del genitore che li ha riconosciuti. Per investire di un diritto i figli naturali, bisogna che essi abbiano avuto preventivamente un riconoscimento.

GRASSI rileva che la prima parte dell’emendamento Togliatti è compresa nei doveri generali che i genitori hanno verso i figli. Quanto alla seconda parte, essa si avvicina molto ai concetti espressi nella formula presentata da lui e da altri Commissari.

PRESIDENTE osserva che la votazione sulla proposta dell’onorevole Togliatti potrebbe aver luogo per divisione, onde permettere a coloro che hanno dubbi sulla prima parte di votare contro; mentre per la seconda parte si potrebbe anche avere l’unanimità dei consensi.

LUCIFERO dichiara di non poter accettare nessuna delle formulazioni presentate, perché nessuna di esse risponde a quelle esigenze che avevano condotto l’onorevole Togliatti e lui a proporre l’emendamento in seno alla prima Sottocommissione, esigenze così felicemente espresse dall’onorevole Terracini. Osserva che nel presentare la sua formulazione, egli si è preoccupato non già dello stato familiare del cittadino, ma del suo stato soggettivo, giuridico e sociale, cercando di risolvere un problema nuovo, che significava effettivamente una rivoluzione nella prassi giuridica da molti anni seguita. Intendeva cioè far sì che scomparisse nello stato soggettivo dell’individuo una condizione di inferiorità di fronte agli altri cittadini; che scomparisse, in ogni sua forma, la traccia di una nascita triste e dolorosa, e che questa traccia non accompagnasse l’individuo per tutta la vita. Questa, del resto, non è una preoccupazione nuova: essa si trova già in un vecchio progetto Gianturco, presentato alla Camera nel 1911.

Ricorda che, araldicamente, i bastardi – anche se venivano nobilitati – conservavano nel loro stemma una sbarra: questa sbarra egli vuol togliere dalla vita di ogni cittadino italiano.

PRESIDENTE avverte che la formula Togliatti sarà posta in votazione per divisione.

MASTROJANNI chiede sia messa in votazione la formula proposta da lui e da altri commissari, e presentata prima di quella dell’onorevole Togliatti.

PRESIDENTE fa presente che se quest’ultima sarà respinta, verrà posta in votazione l’altra formula presentata.

Pone ai voti la prima parte della formula proposta dall’onorevole Togliatti:

«I genitori hanno verso i figli nati fuori del matrimonio gli stessi doveri che verso i figli nati nel matrimonio».

MERLIN UMBERTO dichiara che voterà a favore, perché con la formula proposta non si ferisce il rispetto dei diritti della famiglia legittima.

(La prima parte della formula dell’onorevole Togliatti è approvata).

PRESIDENTE avverte che porrà ora in votazione la seconda parte della formula:

«La legge garantirà ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili e sociali».

GRASSI aderisce alla formula dell’onorevole Togliatti.

MERLIN UMBERTO vorrebbe che dopo la parola: «escluda» fosse inserito il seguente inciso: «col rispetto della famiglia legittima».

TOGLIATTI dichiara che nessuno può dubitare che egli voglia ledere la solidità e la stabilità dell’istituto familiare. Non può accettare l’emendamento Merlin perché, dopo la distinzione fatta nel comma precedente, sembrerebbe quasi che, con l’emendamento, si volesse distruggere quanto è stato detto in precedenza, compiendo perfino un passo indietro rispetto al Codice civile attuale.

FABBRI domanda se l’onorevole Togliatti vorrebbe stabilire il diritto per un figlio naturale di essere introdotto nella famiglia legittima.

TOGLIATTI risponde che l’obbligo imposto riguarderà unicamente gli alimenti, l’istruzione e l’educazione.

LUSSU propone la soppressione nella formula Togliatti delle parole: «civili e sociali», ed insiste perché tale sua proposta sia messa ai voti.

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento Lussu.

(Non è approvato).

Pone ai voti la seconda parte della formula Togliatti nel testo da questi proposto:

«La legge garantirà ai figli nati fuori del matrimonio uno stato giuridico che escluda inferiorità civili o sociali».

COLITTO dichiara di votare contro poiché preferisce la formula presentata da lui e da altri Commissari.

MASTROJANNI si associa alla dichiarazione dell’onorevole Colitto.

MERLIN UMBERTO dichiara che voterà contro perché, in coerenza con quanto ha dichiarato in precedenza, ritiene inapplicabile la disposizione.

(La seconda parte della formula Togliatti è approvata).

NOBILE domanda che sia posta in votazione la prima parte della sua formula:

«La legge prevederà la ricerca della paternità fissandone le norme».

PRESIDENTE osserva che il concetto è già compreso nell’altro emendamento.

NOBILE rinuncia alla sua richiesta e presenta il seguente nuovo emendamento:

«Nella denuncia allo stato civile dei nati fuori del matrimonio, è obbligatoria la dichiarazione dei genitori».

PRESIDENTE apre la discussione sulla nuova proposta dell’onorevole Nobile.

MOLÈ osserva che è norma giuridica che chi ha commesso un reato non sia costretto a confessarlo; e l’adulterio è un reato.

PRESIDENTE mette ai voti l’emendamento dell’onorevole Nobile.

(Non è approvato).

Avverte che nella seduta di domani sarà iniziata la discussione sull’ordinamento regionale.

La seduta termina alle 12.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Colitto, De Michele, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Grassi, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Pira, La Rocca, Leone Giovanni, Lucifero, Lussu, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Noce Teresa, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Erano assenti: Bordon, Cannizzo, Caristia, Castiglia, Codacci Pisanelli, Conti, Corsanego, De Vita, Di Giovanni, Einaudi, Finocchiaro Aprile, Giua, Lombardo Ivan Matteo, Mancini, Paratore, Porzio, Zuccarini.

Assente giustificato: Ghidini.

MERCOLEDÌ 15 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

12.

RESOCONTO SOMMARIO
DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 15 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Sulla famiglia (Discussione)

Presidente – Moro – Iotti Leonilde – Merlin Lina – Cevolotto – Terracini – Dossetti – Mancini – Taviani – Togliatti – Rossi Paolo – Lussu – Marinaro – Canevari – Lucifero – Basso – Mastrojanni – Federici Maria – Conti.

La seduta comincia alle 11.30.

Discussione sulla famiglia.

PRESIDENTE avverte che la materia da esaminare è quella relativa alla famiglia, sulla quale si è manifestato in seno al Comitato di redazione un dissenso sostanziale, che già, peraltro, si era determinato in seno alla prima Sottocommissione.

Gli articoli che disciplinano la famiglia nel testo predisposto dal Comitato di redazione sono tre: uno riguarda più propriamente la famiglia stessa; il secondo riguarda il matrimonio, il terzo la prole.

Il primo dice:

«La famiglia è una società naturale, e come tale lo Stato ne riconosce i diritti e la tutela allo scopo di assicurare l’adempimento della sua missione ed insieme la saldezza morale e la prosperità della Nazione.

La Repubblica aiuta il cittadino bisognoso a formarsi una famiglia ed a sostenerne gli oneri, con speciale riguardo alle famiglie numerose».

Per quanto riguarda il primo comma di quest’articolo è stata proposta da alcuni la formula:

«Lo Stato riconosce i diritti naturali della famiglia e tutela l’adempimento della sua missione».

Altri invece hanno proposto:

«Lo Stato riconosce il diritto della famiglia e tutela l’adempimento della sua missione».

Il secondo articolo dice:

«Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

«La legge regola la loro condizione allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

Il dissenso si è manifestato sull’indissolubilità del matrimonio. È da avvertire che anche da coloro i quali sono stati contrari alla formula approvata in seno alla prima Sottocommissione, la questione non è stata presentata, secondo loro esplicite dichiarazioni, come desiderio di introdurre il divorzio nella legge italiana, ma soltanto nel senso che, a loro avviso, la indissolubilità del matrimonio non è argomento di natura costituzionale.

La questione, in sostanza, non è oggi di pronunziarsi pro o contro il divorzio; ma di stabilire che, se si volesse togliere l’indissolubilità del matrimonio, oggi vigente nel nostro diritto, non basterebbe una legge normale; ma, attesa l’importanza che il problema ha nella coscienza popolare, e le conseguenze che ne verrebbero nei rapporti con la Chiesa, sarebbe necessaria una revisione o legge di valore costituzionale; il che, si noti, è richiesto per altre norme, come quella sull’ordinamento giudiziario.

In seno al Comitato di redazione alcuni hanno proposto la seguente formula:

«La legge regola la loro condizione allo scopo di garantire la stabilità e l’unità della famiglia.

Segue l’articolo terzo:

«È dovere e diritto dei genitori alimentare, istruire, educare la prole. Nei casi di una loro provata incapacità morale o economica la Repubblica cura siano adempiuti tali compiti.

«La legge detta le norme per l’efficace protezione dei figli nati fuori del matrimonio.

«La Repubblica provvede ad un’adeguata protezione della maternità, dell’infanzia e della gioventù, favorendo ed istituendo gli organismi necessari a tale scopo».

In seno al Comitato di redazione è stato da alcuni proposto di sostituire il secondo comma col seguente:

«Nessuna norma di legge può far ricadere sui figli le conseguenze di uno stato familiare che non sia conforme alla legge».

Pone ora in discussione il primo articolo, per il quale, come ha già detto, esiste dissenso soltanto per l’espressione: «La famiglia è una società naturale».

MORO ricorda che la formula: «La famiglia è una società naturale» fu adottata dalla prima Sottocommissione quasi all’unanimità. Precisa che essa fu proposta dall’onorevole Togliatti, il quale, dopo discussione, concordò su questo punto che nella Costituzione si dovesse dichiarare il carattere naturale della famiglia in quanto società. E poiché da taluni si obietta che si verrebbe a inserire nella Carta costituzionale una definizione, precisa che, sostanzialmente, non è affatto una definizione, anche se ne ha la forma esterna, in quanto si tratta in questo caso di definire la sfera di competenza dello Stato nei confronti di una delle formazioni sociali alle quali la persona umana dà liberamente vita.

A questo proposito ricorda che nel Comitato di redazione, nei riguardi della magistratura, si è adottata la formula: «La funzione giudiziaria è espressione della sovranità della Repubblica», volendosi con ciò inserire il potere giudiziario nella struttura dello Stato.

Qualche cosa di analogo avviene qui; ma per chiarire meglio la portata di questo articolo, bisogna rifarsi ad altri articoli approvati dalla prima Sottocommissione nei quali è stato sancito, come garanzia di una democraticità effettiva dello Stato, che questo ha appunto limiti costituiti dalla persona umana e dalle formazioni sociali alle quali la persona umana dà vita. Si tratta di una gradualità per cui si ascende man mano dalla persona umana fino allo Stato, passando attraverso quelle formazioni sociali intermedie che sono una realtà naturale ed etica di cui lo Stato deve tener conto. Quindi l’articolo in esame è perfettamente coerente alle premesse.

La famiglia è una società naturale. Che significa questa espressione? Escluso che qui «naturale» abbia un significato zoologico o animalesco, o accenni ad un legame puramente di fatto, non si vuol dire con questa formula che la famiglia sia una società creata al di fuori di ogni vincolo razionale ed etico. Non è un fatto, la famiglia, ma è appunto un ordinamento giuridico, e quindi qui «naturale» sta per «razionale».

D’altra parte, non si vuole escludere che la famiglia abbia un suo processo di formazione storica, né si vuole negare che vi sia un sempre più perfetto adeguamento della famiglia a questa razionalità nel corso della storia; ma quando si dice: «società naturale» in questo momento storico si allude a quell’ordinamento che, perfezionato attraverso il processo della storia, costituisce la linea ideale della vita familiare.

Quando si afferma che la famiglia è una «società naturale», si intende qualche cosa di più dei diritti della famiglia. Non si tratta soltanto di riconoscere i diritti naturali alla famiglia, ma di riconoscere la famiglia come società naturale, la quale abbia le sue leggi e i suoi diritti di fronte ai quali lo Stato, nella sua attività legislativa, si deve inchinare. Vi è naturalmente un potere legiferante dello Stato che opera anche in materia familiare; ma questo potere ha un limite precisamente in questa natura sociale e naturale della famiglia.

Si dice poi nella formula: «e come tale lo Stato ne riconosce i diritti»: vi è quindi una sequenza logica e si completa il pensiero che per noi è caro e sul quale si è avuto anche l’accordo dell’onorevole Togliatti e di altri colleghi di parte comunista.

È detto poi che lo Stato «tutela la famiglia allo scopo di assicurare l’adempimento della sua missione ed insieme la saldezza morale e la prosperità della Nazione». Il punto di partenza di questa seconda parte dell’articolo è nella proposta della onorevole Iotti, la quale desiderava che si mettesse in luce che la tutela che lo Stato dà alla famiglia è indirizzata a permettere alla famiglia di inserirsi nell’ambito dello Stato, di dare il suo contributo al raggiungimento delle finalità sociali che lo Stato, come suprema garanzia della vita sociale, persegue. La formula fu, con l’accettazione della onorevole Iotti, completata da parte nostra, facendo riferimento ad una tutela che lo Stato dà alla famiglia per se stessa considerata nell’adempimento della sua missione ed al contributo che la famiglia dà, non solo alla prosperità materiale, ma anche alla saldezza morale della Nazione.

Questi emendamenti furono accolti dai colleghi comunisti.

Tutto ciò non vuol dire che la famiglia resti a sé, estranea alla vita dello Stato.

Noi ammettiamo che vi sia un coordinamento fra i vari ordinamenti giuridici e lo Stato; ma questo coordinamento deve essere fatto su questa base di rispetto, che permetta a ciascuno degli ordinamenti di assolvere la sua missione.

A questa esigenza di chiarezza e concretezza appunto corrisponde la seconda parte dell’articolo, nella quale è detto che lo Stato tutela la famiglia allo scopo di assicurare l’adempimento della sua missione, mentre, in quanto la famiglia ha finalità proprie, le quali sfociano nelle finalità più ampie che lo Stato persegue, questa tutela serve a salvaguardare la saldezza morale e la prosperità della Nazione.

IOTTI LEONILDE rileva che non era molto favorevole alla formula, che appare dottrinaria, specie nella sua prima parte; comunque non ne fa una questione di principio.

MERLIN LINA ricorda che in seno alla terza Sottocommissione si è sempre opposta a che si inserissero nella Carta costituzionale definizioni destinate a cristallizzare determinate situazioni.

In materia di famiglia avrebbe preferito che non si fosse detto nulla, in quanto non è di carattere costituzionale. Se mai, lo Stato potrebbe limitarsi a garantire le persone che debbono costituire la famiglia e le condizioni materiali sulle quali essa deve basarsi.

CEVOLOTTO rileva che nella prima Sottocommissione l’onorevole Basso si è principalmente opposto a questa formula. Siccome ha aderito pienamente alle sue idee, nella sua momentanea assenza, dirà le ragioni di questa opposizione. Non è che si sia mai pensato che con questa formula si voglia confondere la società naturale con una società animale; la famiglia nel regno animale non esiste, o per lo meno ha un periodo molto limitato. Si è opposto per due ragioni: prima di tutto perché dire che la famiglia è una società naturale è dare una definizione che, in fondo, è l’unica esistente, in tutta la Costituzione, e costituirebbe una stonatura; in secondo luogo perché la famiglia, a suo parere, non è una società naturale, ma una società costituita in base alla legge dello Stato, che ha un suo contenuto etico.

Dichiara però di accettare la formula proposta da alcuni componenti del Comitato di redazione: «Lo Stato riconosce i diritti naturali della famiglia», in quanto più aderente a tutto lo stile della Costituzione e più confacente agli altri articoli proposti.

TERRACINI pensa che l’affermazione contenuta nell’articolo in esame sia contradetta dall’articolo nel quale si parla della legge che interviene per regolare il sistema organico interno della famiglia. È evidente che questo articolo nega che la famiglia sia una società naturale. La famiglia sorge in quanto certe norme date dalla legge sono osservate; qualora ciò manchi, la semplice convivenza non costituisce la famiglia. Nella famiglia, tuttavia, si vengono a fissare alcuni elementi che precedono la stessa legge, e sono quei diritti naturali considerati nell’emendamento. Ritiene, pertanto, che si coordini meglio agli altri articoli dedicati alla famiglia la formula: «Lo Stato riconosce i diritti naturali della famiglia».

DOSSETTI, dopo le affermazioni di una notevole gravità fatte in questa discussione, ritiene necessarie alcune precisazioni.

L’onorevole Merlin Lina ha osservato che riteneva più opportuno che della famiglia non si dovesse assolutamente parlare nella Costituzione. Ritiene invece che della famiglia non solo si possa, ma si debba parlare, perché non si può pensare di dar vita ad uno Stato nuovo, il quale veramente risponda alle esigenze del popolo, se non si comincia a disciplinare uno dei punti basilari della vita sociale o della vita politica del popolo, cioè la famiglia.

Quanto poi alla possibilità che questa determinazione di principî relativa alla famiglia porti ad una cristallizzazione, non la vede in misura diversa di quella che è genericamente la funzione della Costituzione. In quanto si crea una Costituzione garantita da determinate condizioni per la sua eventuale modificazione, si vogliono appunto definire dei punti fissi, che non siano irrigidimenti della nostra vita sociale, ma che siano fondamento sicuro per ulteriori sviluppi costruttivi.

Che poi si tema una cristallizzazione per il fatto che l’articolo del quale si discute dà la sensazione che si tratti di una definizione, osserva che l’onorevole Moro ha già precisato che in realtà non si tratta di definizione e che analogamente per la magistratura il Comitato di redazione ha adottato la formula: «La funzione giudiziaria è espressione della sovranità della Repubblica»; formula che non è una definizione, ma una norma giuridica che determina conseguenze ben precise e molto chiare.

Quanto poi alle osservazioni dell’onorevole Cevolotto, il quale ha avuto il merito di far sentire con schiettezza che si tratta di una questione di sostanza, osserva che la materia – ed è questa opinione non soltanto sua, ma anche di molti colleghi – riguarda un problema fondamentale della nuova Costituzione.

Pensa che non si possa edificare un nuovo Stato accontentandosi di stabilire certe particolarità del potere legislativo, del potere esecutivo, del potere giudiziario: bisogna scendere alle radici dello Stato e definire i diritti fondamentali della persona, non solo nei riguardi del singolo, ma anche della comunità sociale.

Riferendosi, infine, alle osservazioni dell’onorevole Terracini, pensa che la famiglia, considerata come società naturale, non può disconoscere il potere legiferante dello Stato per tutto quello che attiene ai diritti fondamentali che alla famiglia stessa competono. La legge positiva, disciplinando la realtà familiare, deve salvaguardare in parte la società naturale, ma, per il resto, completarla con la dottrina positiva, secondo una determinata situazione storica.

MANCINI pone in rilievo il contenuto etico ed affettivo della famiglia, nella quale tutti gli elementi voluti dalla legge e dai riti confluiscono, anche senza un’espressa articolazione. Sotto questo aspetto pensa che la famiglia non possa essere definita una società, parola che dà l’idea del contratto, del mercato, delle tavole nuziali che regolano soltanto interessi. Nella famiglia non si tratta soltanto di interessi, ma di due cuori, di due affettività che si muovono attraverso l’etica ad obiettivarsi nei fini.

La famiglia non è poi una società naturale. Se mai si potrebbe parlare di società storica.

TAVIANI invita l’onorevole Mancini a valutare secondo la più recente dottrina il fondamento della famiglia come società naturale.

PRESIDENTE avverte che l’onorevole Conti ha proposto il seguente emendamento, che dovrà avere la precedenza nella votazione:

«La Repubblica tutela la famiglia e ne riconosce i diritti allo scopo di assicurare l’adempimento della sua missione ed insieme la saldezza morale e la prosperità della Nazione».

Su questo emendamento è stato chiesta la votazione nominale.

TOGLIATTI dichiara che non ha nessun ostacolo, né di carattere dottrinale, né di carattere politico, a riconoscere che la famiglia è una società naturale. Le forme sono storicamente determinate; ma nella sua coscienza accetta che sia una società naturale, e che esista il riconoscimento giuridico dello Stato. Voterà pertanto la formula della Sottocommissione.

MORO voterà contro l’emendamento Conti, in quanto abbandona la disciplina della famiglia allo Stato.

ROSSI PAOLO dichiara di votare a favore della formula dell’onorevole Conti.

LUSSU voterà a favore della formula dell’onorevole Conti.

MARINARO aderisce all’emendamento Conti.

CANEVARI dichiara che voterà a favore della formula Conti.

MANCINI dichiara che voterà a favore.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bordon, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Colitto, Conti, Fabbri, Grieco, Lami Starnuti, Lussu, Mancini, Marchesi, Marinaro, Merlin Lina, Perassi, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Iotti Leonilde, La Rocca, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Si astengono: Laconi, Mastrojanni, Ruini.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     53

Voti favorevoli        21

Voti contrari                        29

Astenuti                   3

(La Commissione non approva).

Pone ai voti l’emendamento proposto da alcuni componenti del Comitato di redazione:

«Lo Stato riconosce i diritti naturali della famiglia e tutela l’adempimento della sua missione».

Su di esso è stata chiesta la votazione nominale.

ROSSI PAOLO, per le medesime ragioni per le quali ha votato a favore dell’emendamento Conti, dichiara di votare a favore di quest’altro emendamento che si discosta dal testo dalla prima Sottocommissione.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bordon, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Colitto, Fabbri, Farini, Grieco, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Marchesi, Marinaro, Merlin Lina, Perassi, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Terracini.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Iotti Leonilde, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Valloni.

Si astiene: Conti.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     52

Voti favorevoli        23

Voti contrari                        28

Astenuti                   1

(La Commissione non approva).

Avverte che si deve ora porre ai voti il testo proposto dalla prima Sottocommissione:

«La famiglia è una società naturale e come tale lo Stato ne riconosce i diritti e la tutela allo scopo di assicurare l’adempimento della sua missione ed insieme la saldezza morale e la prosperità della Nazione».

In via conciliativa, è stato proposto di modificare la prima parte nel modo seguente: «Lo Stato riconosce i diritti della famiglia come società naturale, ecc.».

LUSSU non concorda.

TOGLIATTI preferisce la formula proposta dalla prima Sottocommissione.

LUCIFERO si associa all’onorevole Togliatti.

BASSO dichiara che si asterrà insieme con i suoi amici.

MASTROJANNI dichiara di votare favorevolmente alla formula proposta dalla prima Sottocommissione, intendendo però che con la dizione: «La famiglia è una società naturale» non si voglia riconoscere il concubinato.

PRESIDENTE pone ai voti il testo proposto dalla prima Sottocommissione, avvertendo che è stata chiesta la votazione nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bordon, Bozzi, Bulloni, Cappi, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Iotti Leonilde, Laconi, La Rocca, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Marchesi, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Rispondono no: Calamandrei, Cevolotto, Grieco, Lussu.

Si astengono: Amadei, Basso, Canevari, Colitto, Conti, Lami Starnuti, Mancini, Marinaro, Merlin Lina, Perassi, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Terracini.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     54

Voti favorevoli        35

Voti contrari                        4

Astenuti                 15

(La Commissione approva).

Avverte che è da porre ai voti il secondo comma dell’articolo, così formulato:

«La Repubblica aiuta il cittadino bisognoso a formarsi una famiglia ed a sostenerne gli oneri, con speciale riguardo alle famiglie numerose».

FEDERICI MARIA ricorda che la terza Sottocommissione aveva approvato un articolo del seguente tenore: «La Repubblica assicura alla famiglia condizioni economiche necessarie alla sua difesa ed al suo sviluppo».

A questo primo comma seguivano altri due, riguardanti l’educazione, che magari possono trovar posto in altra sede. Ma con sua sorpresa nota che tale articolo non è stato riprodotto dal Comitato di redazione. Né si vede traccia del lavoro accuratissimo svolto dalla terza Sottocommissione riguardo alle garanzie di carattere sociale da dare alla famiglia, sulla base delle relazioni della Relatrice onorevole Merlin Lina e delle Correlatrici Noce Teresa e Federici Maria.

La formula approvata era, in fondo, la sintesi di molti concetti analitici, che si richiamavano specialmente alle necessità della famiglia che viene a costituirsi; agli assegni familiari del disoccupato, proporzionati al numero dei componenti e tali da potere costituire veramente una base di tranquillità familiare; al salario familiare; alla possibilità di superare i concetti parziali in tema di previdenza e di assicurazione ed alla proposta di realizzare un reddito familiare contro il rischio sociale. Si trattava di una garanzia economica data alla famiglia. La politica edilizia sviluppata in questo senso rientrava nelle relazioni, come pure l’assistenza alle madri di famiglia gestanti, gli sgravi fiscali a favore dei capi di famiglia aventi il minimo reddito e delle famiglie con maggior numero di componenti.

Per quanto la onorevole Noce volesse scendere a precisazioni, si credette opportuno rinviarle alla legislazione normale.

Alla formula ampia e comprensiva proposta, è stata sostituita la seguente: «La Repubblica aiuta il cittadino bisognoso a formarsi una famiglia ed a sostenerne gli oneri, con speciale riguardo alle famiglie numerose».

Dichiara di essere contraria a questa formulazione, troppo generica, che considera due soli casi (il cittadino bisognoso che vuole formarsi la famiglia e le famiglie numerose), mentre si era pensato anche ai cittadini aventi il salario minimo o che vengano a trovarsi in un determinato momento nel bisogno o nel pericolo del bisogno.

Quindi trova parziale la formulazione in esame e tale da non garantire veramente ai capi-famiglia una qualsiasi tranquillità dal punto di vista economico.

Propone, concludendo, di sostituire la formula con l’altra approvata dalla terza Sottocommissione.

PRESIDENTE osserva che il Comitato di redazione ritenne di sostituire alla formula proposta dalla terza Sottocommissione, sintetica ma anche generica, una formula più concreta. Trova legittimo il punto di vista della onorevole Federici, ma la modifica fu fatta a ragion veduta e di comune accordo, perché, ripete, si credette di dare con questa maggiore concretezza. Nell’espressione: «con particolare riguardo alle famiglie numerose» si è appunto tenuto presente la necessità degli assegni familiari.

ROSSI PAOLO pensa che la formula approvata dal Comitato di redazione, più che ad una Costituzione, sia adatta al regolamento di una congregazione di carità. Non ritiene opportuno introdurre una disposizione di questo genere nella Carta costituzionale, anche perché riecheggia un po’ la propaganda demografica. Propone quindi la soppressione del secondo comma dell’articolo 15.

LUCIFERO si associa alla proposta dell’onorevole Rossi per gli stessi motivi da lui esposti. Ritiene sufficiente che la Costituzione tuteli la famiglia. Appartiene alla legislazione ordinaria l’applicazione di questo principio.

IOTTI LEONILDE si associa alle dichiarazioni fatte dalla onorevole Federici e dichiara di essere contraria alla soppressione del secondo comma. Vorrebbe, se possibile, una forma di contaminazione fra le due formule proposte, con un richiamo alle famiglie numerose e bisognose. Contrariamente a quanto ha detto l’onorevole Rossi, pensa che non vi sia in questo richiamo un riferimento demografico.

CONTI si associa ai rilievi dell’onorevole Rossi. Non gli sembra, infatti, opportuno riecheggiare nella Costituzione una politica demografica. Si richiama alle premesse dottrinarie dei repubblicani, i quali sono per la misurata figliolanza e non accettano il concetto del crescite et multiplicamini. Non è poi d’accordo con la onorevole Iotti, perché ritiene che nella Costituzione non si debba far menzione delia miseria avvenire: noi speriamo che la miseria non ci sarà più; che i bisognosi non ci saranno più.

FEDERICI MARIA si associa alla proposta della onorevole Iotti di una contaminatio delle formule proposte dal Comitato di redazione e dalla terza Sottocommissione.

TAVIANI è contrario alla proposta dell’onorevole Rossi e dichiara di essere d’accordo con la proposta presentata dalla onorevole Iotti. Ritiene anzi che, in una breve sospensione della seduta, si possa addivenire alla contaminatio fra i due articoli.

PRESIDENTE osserva che ciò si potrà fare in sede di Comitato di redazione.

Pone ai voti la proposta dell’onorevole Rossi relativa alla soppressione del secondo comma.

(La Commissione non approva).

Pone ai voti la proposta della onorevole Iotti Leonilde, alla quale si è associata la onorevole Federici Maria, di deferire al Comitato di redazione la formulazione del secondo comma, tenendo conto dell’articolo approvato dalla terza Sottocommissione.

(La Commissione approva).

Pone in discussione l’articolo che concerne l’indissolubilità del matrimonio:

«Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi.

«La legge regola la loro condizione allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

Alcuni componenti del Comitato di redazione hanno proposto che al secondo comma si dica: «allo scopo di garantire la stabilità e l’unità della famiglia».

LUSSU chiede la soppressione del secondo comma, poiché ritiene che il problema dell’indissolubilità del matrimonio non sia attuale e che potrà discutersi nel futuro Parlamento. L’agitarlo oggi non può servire ad altro che a dividere la Commissione. Non nasconde, poi, l’impressione che esso serva di base per contrasti alle future elezioni.

MORO osserva che lo scopo dell’articolo è duplice: da un lato si vuole consacrare nella nuova Costituzione il principio, ormai maturo nella coscienza sociale italiana, della parità morale e giuridica dei coniugi; dall’altro si vuol garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia.

L’onorevole Lussu ha affermato che il problema non è attuale e che pertanto nella Costituzione non se ne dovrebbe parlare. D’altronde, anche in sede di discussioni precedenti, si è detto che, da parte del partito socialista e del partito comunista, non si sarebbe sollevato nella Costituzione il problema del divorzio. È evidente che queste osservazioni coincidono nel voler significare che il problema dell’indissolubilità del matrimonio non è presente alla coscienza sociale italiana. Ora, l’indissolubilità del matrimonio non è solo un portato della dottrina cristiana, cui il suo partito aderisce, ma rappresenta anche una tradizione che è, in pari tempo, un fondamento essenziale della famiglia e della stabilità sociale che su questa è fondata. E allora, se nella Costituzione si deve dichiarare ciò che è vivo nella coscienza italiana, non ci si può sottrarre all’esigenza di regolare questo punto.

Precisa, peraltro, che questo non è il portato di una concezione religiosa; è vero, sì, che religiosamente i democratici cristiani tengono ferma questa concezione, ma, da un punto di vista puramente naturale, anche, ritengono che la saldezza e la stabilità del vincolo matrimoniale siano la condizione essenziale per garantire la famiglia e, attraverso di essa, la società. Lo ritengono da un punto di vista naturale, perché per essi il matrimonio è caratterizzato dalla definitività di un impegno che investe molteplici interessi e incide non solo su coloro che hanno ricevuto il vincolo, ma anche su coloro che da questo vincolo hanno ricevuto la vita.

Quindi, il carattere serio ed impegnativo del vincolo matrimoniale deve essere garantito dalla Costituzione.

La seconda espressione sull’unità della famiglia serve per completare la dichiarazione sulla parità giuridica e morale dei coniugi, in quanto, pur essendo i democratici cristiani favorevoli all’emancipazione della donna, che costituisce una meta del progresso sociale, ritengono tuttavia che un certo indirizzo unitario della famiglia debba essere garantito attraverso la disciplina legale. Pertanto le due espressioni sull’uguaglianza morale e giuridica dei coniugi e sulla finalità di indirizzo unitario della famiglia si combinano insieme. Garantire la parità dei coniugi è garantire al tempo stesso l’unità di indirizzo della vita familiare. Così, le due parti dell’articolo sono coordinate fra di loro e non sembra indispensabile che nella Costituzione tutti e tre questi principî siano indicati e consacrati.

CEVOLOTTO ritiene superfluo fare una questione sulla dissolubilità o indissolubilità del matrimonio. Tutti hanno delle idee precise, e parlare per convincersi reciprocamente sarebbe una cosa assolutamente assurda.

Si limita a dire che se è stato contrario alla formula adottata dalla prima Sottocommissione non è soltanto perché dissente sulla questione della indissolubilità, ma perché ritiene che non sia questa la sede opportuna per una affermazione di tal genere.

Mentre è d’accordo con l’onorevole Lussu che la questione non è posta – e lo hanno dichiarato del resto in seno alla prima Sottocommissione i rappresentanti del Partito comunista e quelli del Partito socialista, che cioè non intendevano in nessun modo di porre la questione del divorzio – a suo parere la questione fondamentale è che si tratta di materia di Codice civile, non di Costituzione.

Pensa che, se non altro, per questa ragione, si possa essere tutti d’accordo, senza pregiudizio di quel che avverrà in seguito in materia legislativa, quando si discuterà di una eventuale riforma totale o parziale del Codice civile, nel senso che non sia il caso di inserire questa formula nella Costituzione. Si eviterebbero così delle divisioni su questioni sostanziali, nella Commissione e nella Assemblea costituente. Non è, peraltro, alieno, pur dichiarando che preferirebbe che non se ne parlasse affatto e che fosse soppresso il capoverso, dall’adottare la formula conciliativa che è stata proposta in seno al Comitato di redazione, cioè sostituire alla formula sull’«indissolubilità del matrimonio» l’altra formula: «allo scopo di garantire la stabilità e l’unità della famiglia». Questa è una formula intermedia che in fondo potrebbe, in un certo senso, appagare tutti.

DOSSETTI osserva che le argomentazioni svolte dall’onorevole Cevolotto sono la conferma della tesi che un rinvio o una eliminazione di questo principio fondamentale dalla Costituzione assume appunto quel significato di merito che invece formalmente si vorrebbe escludere, tanto è vero che l’onorevole Cevolotto ha riconosciuto che questa soluzione è senza pregiudizio di quello che avverrà in seguito in sede di legislazione ordinaria.

Ora, se si ritiene che fondamento del nuovo Stato debba essere la stabilità del matrimonio, è necessario che debba essere detto nella Costituzione; perché non dirlo e voler sostenere che il principio riguarda piuttosto il Codice civile, significa togliere quella garanzia costituzionale che è fondamentale per il riconoscimento del principio stesso. In altre paiole, sotto la questione di forma sorge necessariamente la questione di sostanza.

Perciò, riteniamo che qualunque proposta diretta ad escludere il riconoscimento costituzionale dal principio stesso, voglia appunto essere il presupposto per vulnerare tale principio.

TERRACINI rileva che la Commissione è d’accordo sul primo comma: «Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi». La divergenza è relativa al secondo comma. Ora, a questo proposito, richiama l’attenzione sul movimento, non travolgente, di organizzazioni divorzistiche, che non hanno nessun precedente nel nostro Paese e che da diversi mesi cercano di affermarsi. Crede che gli amici democratici-cristiani vadano per l’appunto stimolando l’accendersi di un fuoco, il che non è desiderabile né da loro, né da noi.

Ora, se si riconosce che il fondamento dello Stato è la stabilità della famiglia, occorre garantire questa stabilità. A questo tende l’emendamento proposto in seno al Comitato di redazione.

Pensa pertanto, conformemente alla tesi sostenuta in sede di prima Sottocommissione, che non si debba porre la questione della indissolubilità del matrimonio, la quale si allargherebbe al di fuori dell’Assemblea Costituente e determinerebbe un problema di più da risolvere.

Dichiara che voterà l’emendamento: «allo scopo di garantire la stabilità e la unità della famiglia».

PRESIDENTE, poiché dalla discussione si rileva che la Commissione è concorde nell’approvare il primo comma dell’articolo: «Il matrimonio è basato sull’eguaglianza morale e giuridica dei coniugi», lo pone ai voti.

(È approvato).

È stato proposto di sopprimere il secondo comma: «La legge regola la loro condizione allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia». Pone ai voti la proposta, avvertendo che è stata chiesta la votazione nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bocconi, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, Di Vittorio, Farini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Marchesi, Merlin Lina, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Togliatti.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Colitto, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Leone Giovanni, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Piccioni, Rapelli, Ruini, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     53

Voti favorevoli        25

Voti contrari                        28

(La Commissione non approva).

Pone ai voti l’emendamento proposto da alcuni in seno al Comitato di redazione:

Sostituire alle parole: allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia», le altre: «allo scopo di garantire la stabilità e l’unità della famiglia.

È stata chiesta la votazione nominale.

DOSSETTI dichiara di votare contro l’emendamento perché, pur avendo la parola «stabilità» un suo preciso significato giuridico, tuttavia questo significato è di portata generale, e non di portata strettamente tecnica, come invece è la parola «indissolubilità».

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Basso, Bocconi, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, Di Vittorio, Farini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Marchesi, Merlin Lina, Nobile, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Togliatti.

Rispondono no: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Colitto, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Leone Giovanni, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Piccioni, Rapelli, Ruini, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione.

Presenti e votanti     54

Voti favorevoli        26

Voti contrari                        28

(La Commissione non approva).

Pone ai voti il secondo comma dell’articolo nel testo proposto dalla prima Sottocommissione:

«La legge regola la loro condizione allo scopo di garantire l’indissolubilità del matrimonio e l’unità della famiglia».

È stata chiesta la votazione nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bozzi, Bulloni, Cappi, Colitto, Dominedò, Dossetti, Einaudi, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Leone Giovanni, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Piccioni, Rapelli, Ruini, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Rispondono no: Basso, Bocconi, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, Di Vittorio, Farini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Marchesi, Merlin Lina, Nobile, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Togliatti.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Presenti e votanti     53

Voti favorevoli        28

Voti contrari                        25

(La Commissione approva. L’articolo è così approvato nel suo complesso).

La seduta termina alle 13.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Colitto, Conti, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Moro Aldo, Nobile, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Assente giustificato: Ghidini.

Erano assenti: Cannizzo, Caristia, Castiglia, Codacci Pisanelli, Corsanego, De Michele, De Vita, Di Giovanni, Einaudi, Finocchiaro Aprile, Giua, Grassi, La Pira, Lombardo, Molè, Mortati, Noce Teresa, Paratore, Porzio, Zuccarini.

MARTEDÌ 14 GENNAIO 1947

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

ADUNANZA PLENARIA

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MARTEDÌ 14 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE RUINI

INDICE

Sul diritto di sciopero (Discussione).

Presidente – Tupini – Ghidini – Di Vittorio – Bulloni – Cappi – Canevari – Fabbri – Togni – Dominedò – Tosato – Basso – Codacci Pisanelli – Zuccarini – Lussu – Colitto – Molè – Mancini – Fanfani – Bordon – Lucifero – Ambrosini – Piccioni – Terracini – Di Giovanni – Dossetti – Targetti.

La sedata comincia alle 9.45.

Sul diritto di sciopero.

PRESIDENTE informa che il Comitato di redazione ha già predisposto la prima parte della Costituzione, comprendente 49 articoli relativi ai diritti e doveri dei cittadini. Ha poi coordinato e redatto il Titolo della seconda parte che riguarda il potere legislativo. È in corso la parte che riguarda il potere esecutivo (Capo dello Stato e Governo), dovendo la seconda Sottocommissione ancora definire la questione dello scioglimento delle Camere da parte del Presidente della Repubblica, e quella del voto di sfiducia al Governo.

È stata pure distribuita la parte che riguarda le autonomie regionali, secondo le proposte della seconda Sottocommissione, rivedute e coordinate dal Comitato di redazione.

Rimane ancora da coordinare – e si potrà farlo in questi giorni, poiché la seconda Sezione della seconda Sottocommissione ha già finito i suoi lavori – il testo relativo all’ordinamento giudiziario. La seconda Sottocommissione deve ancora definire la materia che riguarda la revisione costituzionale, la Corte costituzionale, il referendum ed alcuni elementi che rientrano nella parte del potere esecutivo.

In via preliminare la Commissione è chiamata a risolvere alcune questioni, per le quali si è manifestato un dissenso sostanziale in seno al Comitato di redazione, cioè le questioni concernenti lo sciopero, la famiglia, la formazione e composizione della seconda Camera, la nomina del Presidente della Repubblica ed infine le attribuzioni, specialmente le potestà legislative, della Regione.

Quanto allo sciopero, la prima Sottocommissione ha formulato il seguente articolo:

«È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero.

«La legge ne regola le modalità di esercizio unicamente per quanto attiene:

  1. a) alla procedura di proclamazione;
  2. b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
  3. c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva».

La terza Sottocommissione ha votato il seguente ordine del giorno:

«La terza Sottocommissione, riconosciuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

Vi è stata infine una terza proposta, formulata in sede di Sottocommissione, che ammette il diritto di sciopero senza alcun limite.

TUPINI rileva che l’articolo relativo al diritto di sciopero, da lui proposto e approvato a maggioranza dalla prima Sottocommissione, è il tentativo di accordare le esigenze di chi sosteneva che si proclamasse il diritto di sciopero in senso assoluto, senza alcuna limitazione, né sostanziale, né procedurale, e di chi sosteneva che non se ne parlasse affatto nella Costituzione. La Sottocommissione ha ritenuto che il diritto di sciopero debba essere riconosciuto, in quanto il diritto di offrire il proprio lavoro appartiene alla natura dell’uomo; quindi, non si può impedire all’uomo di negare la propria opera quando vi siano ragioni che giustifichino questo rifiuto. La Sottocommissione si è però preoccupata di disciplinare l’uso nell’interesse stesso di coloro che potranno farvi ricorso.

Si è ritenuto, in sostanza, che l’esercizio del diritto di sciopero è un po’ come l’esercizio della guerra fra le Nazioni, perché appunto l’attuazione dello sciopero è una specie di guerra portata sul piano sociale. Ora, se ci si è tanto preoccupati di disciplinare persino l’uso del diritto di guerra al punto da strapparlo alla volontà di una persona o del Governo e da affidarlo alla Assemblea Costituente, perché non ci si deve altrettanto preoccupare dell’esercizio del diritto di sciopero?

Lo sciopero è, infatti, un’arma a cui ricorre la classe operaia quando ha esaurito tutte le sue risorse per evitarlo, ma è un’arma che può essere anche produttiva di conseguenze negative e dannose per la stessa classe operaia. Ed allora, per far sì che la classe operaia ricorra allo sciopero in condizioni tali da valutarne nel modo più efficiente possibile tutte le conseguenze, si è ritenuto, col riferimento alla procedura di proclamazione, di eliminare la possibilità che lo sciopero sia proclamato per il capriccio di poche persone. È una preoccupazione di carattere democratico, per cui la stessa classe operaia deve valutare nel suo seno la convenienza di ricorrere o no all’arma dello sciopero.

In secondo luogo, se lo sciopero è la risorsa suprema alla quale ricorre la classe operaia per la difesa dei suoi diritti, non vi si può far ricorso senza avere prima sperimentati tutti quei tentativi di conciliazione ed eventualmente di arbitrato che possano, sul piano della valutazione del mezzo adoperato per la tutela dei propri interessi, rappresentare lo strumento meno dispendioso, meno grave e meno produttivo di conseguenze dannose.

Vi è poi un terzo punto, dove si parla del «mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva». Si è voluto, con l’adozione a maggioranza di tale formula, evitare la difficoltà, se non anche il pericolo, di una elencazione delle categorie dei prestatori d’opera ai quali fosse o meno consentito il diritto di scioperare. È parso, ai sostenitori di questa formula, che fosse preferibile un’affermazione di carattere generico, la quale eludesse anche il problema abbastanza grave della distinzione fra servizio pubblico e servizio privato. Il che, implicitamente, ammette anche la possibilità che per taluni servizi, che volta a volta si determineranno in quanto attengono alle esigenze della vita collettiva, si può anche riconoscere il diritto di sciopero. Qualcuno ha opposto che occorre tener conto della maturità della classe operaia, che agisce come auto-limite in circostanze eccezionali.

Malgrado ciò, la prima Sottocommissione ha ritenuto a maggioranza che una disciplina dell’esercizio del diritto di sciopero, anche sotto questo riflesso, fosse necessaria. Resta, peraltro, la possibilità che la Commissione plenaria apporti all’articolo proposto quegli emendamenti che riterrà opportuni, e che si riserva di esaminare se verranno presentati.

GHIDINI rileva che, con l’ordine dei giorno proposto, la terza Sottocommissione ha cercato di eludere il contrasto che si era manifestato, in quanto taluni accedevano all’articolo già approvato dalla prima Sottocommissione, magari con specificazioni più precise e, forse, anche più restrittive e gravi, mentre altri accedevano al concetto del diritto di sciopero senza limiti da affermarsi nella Carta costituzionale sic et sempliciter, riservando, se mai, alla legge ordinaria la determinazione dei limiti.

Quanto all’articolo approvato dalla prima Sottocommissione, pur non dubitando affatto delle intenzioni manifestate dall’onorevole Tupini nell’illustrarlo, poiché conosce la sua onestà e quella dei componenti la prima Sottocommissione che lo hanno redatto, avverte però che esso è formulato in modo da costituire un pericolo gravissimo, perché, mentre nella prima parte si afferma incondizionatamente che «è assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero», nella seconda vi sono tali limitazioni per cui questo diritto è non soltanto mutilato, ma può essere praticamente soppresso.

Si dice, infatti: «La legge ne regola le modalità di esercizio unicamente per quanto attiene:

  1. a) alla procedura di proclamazione;
  2. b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
  3. c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva».

In ordine alla procedura di proclamazione, l’onorevole Tupini afferma che si è voluto sottrarre i lavoratori al capriccio di pochi, o magari di uno solo, che sovrapponesse il suo interesse politico o morale all’interesse della classe lavoratrice. Ottimo scopo; ma si comprende che con una frase di tal genere, coloro che non sono animati dalle stesse intenzioni oneste dell’onorevole Tupini, potrebbero arrivare a rendere non solo difficile, ma addirittura impossibile o intempestiva la proclamazione dello sciopero.

Per quanto riguarda l’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione, osserva che non v’è alcun bisogno di farne menzione in un articolo, poiché i tentativi di conciliazione si fanno sempre. I lavoratori non hanno nessuna smania di scioperare; scioperano quando si trovano nella necessità di farlo, perché manca loro il pane, il salario è insufficiente, ecc. In ogni caso hanno una remora in se stessi, nella loro capacità di resistenza necessariamente scarsa. Ora, l’accenno in un articolo della Costituzione all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione sta ad indicare che si richiede qualche cosa di più di quello suggerito dalle esigenze dei lavoratori. Il comma b) appare, peraltro, altrettanto pericoloso.

Per quanto riflette, infine, la lettera c): «al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva», è evidente l’imprecisione della formula. Quali siano i «servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva» è assai difficile stabilire a priori; dipende dalla contingenza, ma soprattutto dall’apprezzamento personale di chi deve giudicare sull’essenzialità o meno di un servizio. Trattandosi, quindi, di un criterio soggettivo, sarebbe pericoloso abbandonarlo, senza limitazioni precise e senza specificazioni, ad un legislatore futuro, il quale, se non fosse animato dalle stesse aspirazioni nobilmente sociali dell’onorevole Tupini, potrebbe dare alla parola «mantenimento» un’ampiezza tale, da negare implicitamente il diritto di sciopero ai lavoratori addetti ai pubblici servizi o a quelli «assolutamente essenziali alla vita collettiva».

Per le ragioni anzidette una parte della terza Sottocommissione ha ritenuto che, mantenendosi le limitazioni di cui al secondo comma dell’articolo, sarebbe, in sostanza, rimasta puramente e semplicemente platonica l’affermazione che «è assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

Fra le due correnti si è adottato, pertanto, un compromesso, con l’approvazione del seguente ordine del giorno: «La terza Sottocommissione, riconosciuto urgente ed indispensabile che una legge riconosca il diritto di sciopero dei lavoratori, abrogando i divieti fascisti in materia, non ritiene necessario che la materia sia regolata dalla Carta costituzionale».

In realtà – se ben ricorda – soltanto la Costituzione francese nel preambolo e quella estone parlano del diritto di sciopero; ma, d’altra parte, si è osservato – e giustamente, a suo parere – che, mentre in altri Paesi il diritto di sciopero è ormai talmente entrato nel costume politico che è stato accettato universalmente senza contrasti, in Italia si esce da un periodo ultra ventennale durante il quale era stata vietata e colpita con gravi sanzioni qualsiasi forma di sciopero. Si riteneva, quindi, necessario che fosse inclusa nella Costituzione quest’affermazione, per significare che si ritornava all’antico diritto, e si riaffermava questa rivendicazione del lavoro.

Ciò premesso, quale Presidente della terza Sottocommissione e ritenendo che, nel seno della Commissione plenaria, ognuno riprenda in pieno la libertà di espressione del proprio pensiero e del proprio sentimento, personalmente non ha nessuna difficoltà a che si affermi nella Carta costituzionale, sic et simpliciter, che a tutti i lavoratori è assicurato il diritto di sciopero. Non è detto, con questo, che non vi debbano essere dei limiti: essi saranno segnati dalla legislazione ordinaria, secondo che le contingenze consiglieranno. Per conto suo, ritiene che la valutazione di tali limiti – se limiti vi saranno – potrà dipendere anche da quella che sarà la Carta costituzionale. È in tutti il desiderio che la Carta costituzionale sia profondamente democratica, che si ispiri soprattutto alla tutela del lavoro, che è il fondamento della Repubblica italiana; che sancisca ampiamente il Consiglio di gestione, ponendosi così il lavoratore in grado di conoscere esattamente quali sono le condizioni dell’industria nella quale esplica la sua opera, per modo che trovi in questa situazione una remora c un incitamento a fare uno sciopero.

Qualora non si ritenga di affermare puramente e semplicemente il diritto di sciopero in un articolo della Costituzione, preferirebbe che tale affermazione fosse inclusa nel preambolo o consacrata in un ordine del giorno.

DI VITTORIO ritiene che la Commissione commetterebbe un gravissimo errore sia se negasse di sancire il diritto di sciopero, sia se cercasse di eludere il problema rinviandolo alla legislazione ordinaria. Una tale decisione sarebbe contraria alle aspettative della grande massa lavoratrice. Pensa, peraltro, che sia necessario inserire nella Costituzione il riconoscimento puro e semplice del diritto di sciopero. L’argomento che questo riconoscimento non vi sia in molte altre Costituzioni non regge, poiché tale diritto è ormai universalmente riconosciuto, mentre l’Italia esce da un regime tirannico che aveva negato il diritto di sciopero e stabilito pene severe contro chi vi facesse ricorso. È necessario, dunque, che la nuova Costituzione si caratterizzi come veramente democratica, e rispondente alle esigenze delle grandi masse popolari italiane, riconoscendo puramente e semplicemente questo diritto.

È del parere che da parte di quei colleghi che tendono a limitare il diritto di sciopero, a controllarlo, a sottoporlo ad una procedura speciale, vi sia una mentalità di carattere un po’ paternalistico. Essi pensano che questa povera classe operaia, minorenne, inesperta, che può commettere tanti errori, ha bisogno di un potere superiore, estraneo, che le indichi come essa deve regolare le sue cose, ponendo per conseguenza dei freni e dei limiti alla sua libertà di movimento. Bisogna invece, a suo avviso, riconoscere il diritto di sciopero, come in tutti Paesi veramente democratici, con la maggiore ampiezza. Il fatto di precisare in qual modo, in quali momenti, con quali procedure, questo diritto debba essere esercitato dai lavoratori, appartiene ai lavoratori stessi, e sono i lavoratori che devono determinarlo. Che qualcuno nell’interno dei sindacati dei lavoratori sostenga che per ricorrere allo sciopero si debba seguire una particolare procedura è legittimo, perché la classe operaia ha il diritto di regolare essa stessa la propria azione; ma non è ammissibile che un potere estraneo, superiore, voglia imporre limitazioni alla libertà delle classi operaie.

Quanto al tentativo di conciliare le tesi opposte, il Presidente della terza Sottocommissione ha accennato agli argomenti trattati. Sta di fatto che, eccettuato qualche caso veramente accidentale, non esistono esempi per cui si possa dire che gli operai si mettano in sciopero senza precisare le loro richieste, e senza aver prima esperito tentativi di conciliazione. Da tutta la storia del movimento operaio europeo e mondiale si rileva che nella quasi totalità dei casi gli scioperi sono preceduti da trattative e da tentativi di conciliazione, e che allo sciopero si ricorre soltanto quando non rimane altra risorsa.

All’onorevole Tupini, il quale ha insistito sul concetto di determinare la procedura di proclamazione dello sciopero per evitare che alcuni possano imporre la propria volontà ai più, osserva che ciò non avviene e non può avvenire. Chiunque abbia un’esperienza diretta di vita in seno alla classe operaia, e in seno alla classe lavoratrice in generale, sa benissimo che in regime di libertà non vi può essere nessuno che possa imporsi a milioni di lavoratori. La verità è che, se lo sciopero è sentito come un bisogno per raggiungere un determinato obiettivo, riesce; ma se non è sentito, anche se è votato da una maggioranza formale, non riesce, e la storia degli scioperi ne registra molti falliti, perché non rispondenti al vero sentimento della maggioranza dei lavoratori.

Bisogna, pertanto, precisare: 1°) che devono essere i lavoratori stessi a determinare la procedura se credono di dover ricorrere allo sciopero. Tutti gli statuti delle organizzazioni operaie prevedono questa procedura. 2°) Che bisogna togliersi di mente che gli scioperi possano essere il risultato delle manovre di caporioni e di mestatori. Quando gli scioperi riescono, essi sono l’espressione di una esigenza profondamente sentita dalla massa lavoratrice.

Quanto poi alle limitazioni che si possono porre per i servizi pubblici o per alcuni servizi di pubblica utilità, pensa che non si possa in nessun caso accettare il concetto di dividere i cittadini in due categorie, ad una delle quali è riconosciuto il diritto di sciopero, mentre all’altra è negato. Una limitazione per i lavoratori di servizi pubblici è, a suo avviso, una mutilazione della libertà personale. Il lavoratore deve avere il diritto di scioperare quando lo crede opportuno.

L’onorevole Tupini dice che la società ha il diritto di garantirsi il funzionamento dei servizi essenziali alla vita collettiva. Ebbene, quante volte non è avvenuto che gli scioperanti abbiano tenuto conto per moto spontaneo della necessità di assicurare questi servizi? I lavoratori italiani, specialmente in questo ultimo periodo, hanno dimostrato un alto senso di civismo, e non vi è stato uno sciopero solo che abbia prodotto danni alla collettività con l’abbandono di servizi essenziali.

Perché tali servizi essenziali siano assicurati bisogna, pertanto, fare affidamento sul senso di civismo dei lavoratori, di cui essi hanno dato amplissime prove. Ma bisogna anche fare affidamento sul senso di responsabilità dei dirigenti di questi servizi. La minaccia dello sciopero deve servire a smuovere le ruote burocratiche di chi dirige e costringerlo a sentire l’opportunità di andare incontro alle richieste dei lavoratori e di giungere alla conclusione delle vertenze, anche senza che i lavoratori ricorrano allo sciopero.

Negare, quindi, il diritto di sciopero agli impiegati statali ed ai lavoratori dei servizi pubblici significherebbe rispondere con un atto di diffidenza alle innumerevoli prove di alto civismo che essi hanno dato.

Se ci si riferisce alla cronaca degli scioperi in Paesi europei dove le condizioni di vita sono incomparabilmente superiori a quelle italiane, si vede come numerosissimi scioperi si siano avuti anche da parte degli impiegati statali e dei lavoratori dei pubblici servizi. In Italia, invece, nonostante le angosciose condizioni di questo dopoguerra, non si è avuto nessun grande sciopero del genere, e non si sono avuti letteralmente scioperi in servizi pubblici, nonostante che molte volte i dipendenti statali abbiano urtato contro resistenze non sempre ragionevoli da parte dello Stato.

A queste prove di alto civismo, di dedizione degli impiegati dello Stato, si vorrebbe rispondere con un atto di diffidenza. Ciò, a suo parere, non è giusto, e starebbe a dimostrare che non si apprezza debitamente un fatto importantissimo: per la prima volta nella storia d’Italia vi è un’adesione libera, spontanea, unanime delle grandi masse lavoratrici allo Stato democratico, e questo fatto fa bene sperare per i destini del Paese.

Ora, se nella Costituzione, che deve riassumere le conquiste del popolo italiano, delle grandi masse lavoratrici italiane, si rispondesse con un atto di diffidenza, di paternalismo, di imposizione dall’esterno al libero esercizio di un preciso diritto della classe operaia, non soltanto si farebbe cosa contraria a questo diritto, ma si indebolirebbe la formazione del nuovo Stato democratico repubblicano.

D’altra parte, è bene tener conto che mentre nei partiti, nella stampa, nelle frazioni parlamentari esistono divergenze sul diritto di sciopero, in seno alle masse lavoratrici non vi è nessun dissenso.

Tutte le organizzazioni di lavoratori, a cominciare dagli statali, dalla categoria cioè, per la quale l’influenza comunista non è né determinante né decisiva, all’unanimità, compresi i lavoratori cattolici, liberali, e di altri partiti, hanno deciso di domandare alla Costituente di riconoscere il diritto di sciopero. Non vi è un solo sindacato italiano nel quale si sia formata una minoranza fra i lavoratori che chieda limitazioni a questo diritto. Ed è significativo il fatto che, mentre i diretti interessati, cioè i lavoratori appartenenti a qualsiasi partito politico, sono concordi su questo problema, i dissensi si sono manifestati fra i vari partiti.

Conclude affermando che sia un atto saggio, giusto e doveroso da parte della Commissione e dell’Assemblea costituente di inserire il diritto di sciopero nella Costituzione, adottando la formula che aveva proposto nella terza Sottocommissione, cioè: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

BULLONI esprime il parere personale che la legge costituzionale non debba accennare al diritto di sciopero, né nella formulazione proposta dalla prima Sottocommissione, né, per coerenza logica e giuridica, attraverso l’ordine del giorno proposto dalla terza Sottocommissione. Giudica lo sciopero un rapporto di forza che, come tale, non può essere considerato e disciplinato dalla legge, particolarmente dalla legge costituzionale, che è la legge per eccellenza.

La legge interviene per punire la ragion fattasi e solo in via eccezionale si limita a dichiarare non punibile chi ha agito per difendere l’integrità personale o altra diretta ingiustizia minacciata, sostituendosi alla tutela che lo Stato, nel momento, non ha potuto prestare.

Lo sciopero, a suo avviso, è un fatto sociale la cui disciplina deve essere rimessa al libero giuoco delle forze sociali, e che trova il suo limite nel senso di responsabilità di chi lo proclama e la sua sanzione nella stessa coscienza sociale.

Se lo sciopero è un rapporto di forza, ne deriva la ingenuità delle procedure e delle garanzie con cui si vuol circondare. Ad quid, ad esempio, stabilire che lo sciopero dei ferrovieri con la solidarietà delle altre categorie di lavoratori è stato proclamato senza la preventiva sperimentazione dei tentativi di conciliazione ed in contrasto ed in violazione con l’interesse essenziale della vita collettiva, quando la forza si è imposta ed ha travolto ogni resistenza nei confronti della controparte? Lo sciopero non deve trovare nella legge né riconoscimento, né condanna; e dice sciopero genericamente, con la precisa intenzione che nella legge non debba trovare condanna nemmeno lo sciopero politico.

CAPPI non condivide il nichilismo giuridico e sociale dell’onorevole Bulloni, che renderebbe vana qualunque legge. Ritiene che il diritto di sciopero debba essere affermato nella Costituzione per le ragioni che anche altri hanno esposto. Siccome la convivenza sociale è una continua ricerca di un equilibrio fra il diritto dell’individuo e il diritto e l’interesse della collettività, pensa che il diritto di sciopero non possa essere disgiunto da una qualsiasi regolamentazione.

Premesso questo, non ritiene che sia opportuno fissare tale regolamentazione nella Costituzione. In proposito, giudica che anche in questa materia si è vittime di un certo daltonismo e non comprende questa diffidenza dell’intervento dello Stato nei rapporti sociali. Si ha ancora davanti alla mente, a suo avviso, quello stato patologico determinato dalla degenerazione del potere legislativo e del potere esecutivo rappresentata dal fascismo; ma quando si pensa che domani vi sarà uno Stato veramente democratico, in cui i due poteri, esecutivo e legislativo, rappresenteranno la volontà genuina e gli interessi della nazione liberamente manifestati, non è giustificata questa diffidenza preconcetta dell’intervento dello Stato in una materia come quella dello sciopero, che può dar luogo a gravissime conseguenze. Concludendo, propone che nella Costituzione sia inserito il seguente articolo: «È riconosciuto il diritto di sciopero. Una legge sui rapporti di lavoro ne regola l’esercizio».

CANEVARI si associa alle considerazioni fatte dall’onorevole Ghidini. Osserva che non vi è dissenso – anche per l’esposizione fatta dall’onorevole Tupini – nel riconoscere il diritto di sciopero a tutti i lavoratori; sorge, invece, il dissenso per quanto si riferisce alle limitazioni. Rileva, in proposito, che ogni limitazione contenuta nella Carta costituzionale sarebbe infranta indubbiamente quando le condizioni economiche o politiche fossero tali da indurre i lavoratori a ricorrere all’arma dello sciopero.

È pertanto favorevole all’approvazione del primo comma dell’articolo proposto dalla prima Sottocommissione; in subordine voterà per l’ordine del giorno proposto dalla terza Sottocommissione.

FABBRI, soltanto per amore di chiarezza, desidera precisare che non ritiene regolabile nella Costituzione il fatto dello sciopero; e dice deliberatamente «fatto» dello sciopero e non «diritto», in quanto allo sciopero corrispondo un rapporto di lavoro bilaterale in base ad un contratto, che sarà di varia natura – giornaliero, settimanale, mensile – ma tale comunque da mettere in essere un vero e proprio stato giuridico, come quello del pubblico impiego. L’interruzione rapida, immediata, violenta, della prestazione di lavoro in moltissimi casi è una rottura di contratto; per ciò solo lo sciopero deve essere considerato un fatto e non può essere definito un diritto; perché nel momento in cui si definisce un diritto dal punto di vista del prestatore di lavoro, si disconosce la posizione del datore di lavoro.

Ritiene, quindi, che si debba evitare qualunque concetto di paternalismo e che ci si possa affidare completamente al senso di responsabilità, all’educazione politica delle organizzazioni sindacali. In nessun caso, pertanto, si può parlare di diritto di sciopero senza mettere in essere una contraddizione in termini, senza adoperare una espressione incompatibile con quelle stesse definizioni che sono state date dall’onorevole Di Vittorio, il quale certamente esclude, per esempio, che i fornai di una grande città possano fare contemporaneamente uno sciopero.

Ed allora si domanda come possa egli qualificare diritto quest’arma quando si preoccupa che possa essere usata in forma contraria al diritto o quando esclude che possa essere usata in determinati casi? Per conseguenza, non si tratta di un diritto, ma di fatto eventuale, la cui attuazione deve essere lasciata alla consapevole responsabilità dei prestatori di lavoro.

D’altra parte, lo sciopero è egualmente riconosciuto qualche volta come sciopero politico e qualche volta come sciopero economico. Le due cose sono così profondamente diverse che ritiene sia un assoluto controsenso parlare di un riconoscimento del diritto di sciopero. Quindi per ragioni analoghe, e in qualche punto soltanto lievemente diverse, a quelle esposte dall’onorevole Bulloni, dichiara di essere personalmente contrario a che nella Carta costituzionale sia riconosciuto il diritto di sciopero.

TOGNI si limita ad intervenire brevemente come membro della terza Sottocommissione, per aggiungere qualche cosa a quanto ha detto il Presidente onorevole Ghidini. Precisa anzitutto che l’ordine del giorno è stato approvato dalla terza Sottocommissione a grandissima maggioranza (11 voti contro 2) e, quindi, il riconoscimento del diritto di sciopero non era il risultato della volontà della maggioranza di una determinata corrente, ma il risultato di un laborioso esame durato tre giorni. Tutti i componenti della Sottocommissione furono allora d’accordo nel riconoscere l’inevitabilità dello sciopero in determinati casi; tutti erano d’accordo, come lo sono tuttora, nel riconoscere che questo dato di fatto non può essere soppresso, ma che invece deve essere o favorito, o consentito, o tollerato, a seconda dei punti di vista. Ed aggiunge che la grandissima maggioranza fu d’accordo nel riconoscere che, ove questo diritto fosse stato incluso nella Costituzione, si sarebbe dovuto limitare per quanto riguarda l’iniziativa politica e lo sciopero in determinati settori indispensabili alla vita della Nazione.

A proposito di quanto ha detto l’onorevole Ghidini, e per evitare equivoci, tiene a chiarire che non si parlò di consigli di gestione, ma di partecipazione alla gestione, il che è molto diverso.

Ad ogni modo è dell’opinione di non comprendere il diritto di sciopero nella Costituzione, anche per il fatto che esso è in fondo la manifestazione di qualche cosa di dinamico che si trasforma e che, come è da augurarsi, in relazione ai miglioramenti dei rapporti sociali, si potrà arrivare a renderlo, se non impossibile di fatto, almeno limitato, eliminando tante cause le quali oggi lo determinano.

Per questo ritiene che, mentre non si debba comprendere il diritto di sciopero nella Costituzione, si debba provvedere, con un complesso di norme organiche, alla disciplina completa dei rapporti di lavoro, per quanto riguarda sia il contratto collettivo sia la conciliazione e l’arbitrato, evitando il ricorso a quest’arma, a vantaggio dell’economia generale e dei rapporti di vita del Paese.

DOMINEDÒ si ricollega all’atteggiamento già assunto nella terza Sottocommissione, che deve ribadire per motivi sia giuridici che sociali.

Pensa che un’arma di fatto, come lo sciopero, che può indubbiamente diventare strumento di lecita difesa del lavoratore, in quanto sia determinato da una situazione di prepotere del datore di lavoro contro la quale nessun altro rimedio risulti possibile, non può, in linea generale, essere configurata come diritto illimitato ed incondizionato. Se pretendessimo di trasformare costituzionalmente un’arma di fatto in istituto giuridico, dovremmo includere una serie di tali specificazioni e limitazioni, inerenti alla esigenza della realtà giuridica sociale, che entreremmo in un campò più propriamente legislativo che non costituzionale: basti pensare alle distinzioni fra sciopero economico e politico, privato e pubblico, relativo a servizi essenziali o accessori, e via dicendo. Ciò che risponde storicamente al fatto che le Costituzioni moderne tacciono di regola in materia.

Resta il punto, su cui ha insistito l’onorevole Di Vittorio nella terza Sottocommissione: cioè il motivo specifico che peserebbe in Italia, dove preesisteva il divieto di sciopero e di serrata definiti come reato. Ma, a parte che il divieto è caduto per una disposizione internazionale, alla cui osservanza l’Italia è tenuta, ed è superato nella realtà sociale, appare evidente che il silenzio della Costituzione lascia la via aperta per l’ulteriore disciplina dell’istituto sul piano legislativo, in corrispondenza delle correnti politiche, che si svolgeranno nel prossimo domani: e qui noi pensiamo alla sostituzione graduale d’un’arma di fatto con un istituto giuridico, all’avvento di un arbitrato o di una conciliazione delle vertenze di lavoro, da sperimentarsi obbligatoriamente nell’interesse della collettività, secondo l’evoluzione storica di ogni popolo civile.

TOSATO dichiara di essere personalmente favorevole al testo della prima Sottocommissione. La ragione addotta dall’onorevole Di Vittorio è determinante. Dopo una legislazione, che ha considerato reato il diritto di sciopero, la nuova Costituzione non può che riconoscerlo. Né può ritenersi valida, a suo parere, l’osservazione dell’onorevole Fabbri, che si riconosce in tal modo un diritto essenzialmente antigiuridico. Lo sciopero è fenomeno sociale, che va al di là dei rapporti regolati dal contratto di lavoro.

Ora, nel caso che la Costituzione contenga il riconoscimento esplicito del diritto di sciopero, se ne potrebbe dedurre che, appunto per questo, lo sciopero è un diritto costituzionale, garantito e riconosciuto, e che nessuna legge potrà intervenire per regolarne l’esercizio. Crede che nessuno voglia accettare questa conseguenza, perché, se vi sono diritti della classe lavoratrice, vi sono anche diritti della collettività; e come vi è diritto di autodifesa della parte, vi sarà anche diritto di autodifesa del tutto.

D’altra parte, se la Costituzione riconosce puramente e semplicemente il diritto di sciopero, ed anche se si ammette, in contrasto con la prima ipotesi, cui ha accennato, che la legislazione successiva possa intervenire in questa questione, ritiene sia molto più garantita la classe lavoratrice, qualora la Costituzione contenga dei limiti alla futura attività del legislatore, nel senso che questa attività non elimina in pratica il riconoscimento giuridico del diritto di sciopero.

Pensa, quindi, che la Costituzione debba riconoscere il diritto di sciopero; ma, proprio a garanzia dei lavoratori, debba stabilire le direttive al futuro legislatore per regolarne l’esercizio, condizione di carattere obiettivo per evitare qualsiasi discrezionalità non solo della pubblica amministrazione, che sarebbe estromessa, ma del potere legislativo.

BASSO ricorda che, nella prima Sottocommissione, votò favorevolmente alla prima parte dell’articolo e contro la seconda parte. Non ritiene si possa affermare che il riconoscimento del diritto di sciopero nella Costituzione, senza specificazioni, tolga al legislatore la possibilità di regolarne l’esercizio; ma che sia normale che la legge regoli l’esercizio dei diritti sanciti dalla Costituzione.

Qualora si accettasse il testo proposto dalla maggioranza della prima Sottocommissione, si sopprimerebbe praticamente il diritto di sciopero, poiché non v’è dubbio che i tre limiti posti dalla seconda parte dell’articolo sostanzialmente uccidono la prima parte.

Il solo fatto di dire che la legge regola le modalità per la procedura di proclamazione dello sciopero, significa che si viene a negare, in radice, la possibilità di abbandono spontaneo del lavoro da parte dei lavoratori, cioè la forma più semplice e più democratica di sciopero.

Voterà, pertanto, contro questa seconda parte. È anche contrario al silenzio della legge, e non ritiene valido l’argomento che lo sciopero è un fatto sociale ed un rapporto di forza, non un fatto giuridico. Tutti i rapporti sociali sono rapporti di forza. Per questo la Costituzione interviene a regolarli, al fine di impedire che vadano oltre un certo segno; altrimenti, si tornerebbe alla legge della giungla.

Considerando appunto lo sciopero un rapporto di forza, si è impedito alla classe lavoratrice l’esercizio del diritto di sciopero.

Ora, se nella Costituzione si vogliono proclamare determinati diritti sociali, il primo e fondamentale è il diritto di sciopero, per cui la classe lavoratrice lotta da un secolo e mezzo.

Conclude affermando che voterà a favore del solo primo comma: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

CODACCI PISANELLI pensa che, reagendo ad un eccesso del passato, si rischi di cadere nell’eccesso opposto. Si dice: siccome il legislatore precedentemente aveva condannato lo sciopero come reato, si deve ora espressamente sancire questo diritto nella Costituzione. Questo orientamento porterebbe da un estremo all’altro. È d’avviso, invece, che la questione vada considerata da un punto di vista spassionato: tenere conto del diritto di sciopero e degli inconvenienti del suo riconoscimento.

Lo sciopero è reso necessario dalla situazione attuale imperfetta, perché l’organizzazione sindacale è ancora allo stato embrionale. Come nei conflitti fra abitanti di due Comuni, sono questi a rivolgersi al magistrato per la risoluzione della questione, così in uno Stato bene organizzato deve la Magistratura risolvere le controversie fra le diverse categorie partecipanti alla produzione.

Come le controversie fra privati, in una organizzazione sociale completa, non possono essere risolte con la forza, così le controversie sociali, che hanno importanza maggiore, non possono essere risolte dagli interessati, che non hanno l’imparzialità necessaria. Perciò, bisogna risolvere in maniera organica la questione.

Propone, pertanto, che non si pregiudichi con un articolo di Costituzione un più ampio sviluppo del nostro sistema. Ritiene, anzi, che da questo punto di vista il progetto della Costituzione lasci anche a desiderare, perché non prevede un’organizzazione sindacale adeguata alla nostra posizione, in quanto lascia la necessità di ricorrere a volte a questo estremo rimedio.

In sostanza, propone che non si parli del diritto di sciopero, altrimenti si pregiudicherebbe la possibilità di giungere all’arbitrato obbligatorio, che è la meta cui tendono i sistemi industriali più progrediti: cita quello australiano e quello attuale in America; senza tener conto che lo sciopero non è ammesso in altri sistemi, salvo quello dell’Unione sovietica, dove lo sciopero non si verifica affatto.

Subordinatamente, nel caso in cui non fosse accettata tale proposta, ritiene che non si debba nemmeno pregiudicare la possibilità d’una soluzione delle controversie di lavoro, diversa da quella dello sciopero. Sarebbe come dire al lavoratore: «Se chi ha dato lavoro non ti paga, puoi farti ragione da te». Questo non si può ammettere.

Lo stesso vale per il lavoratore che non abbia condizioni di lavoro sufficienti per vivere. Non si può dirgli di ricorrere a questo estremo; ma bisogna dare i mezzi necessari perché lo Stato cerchi di soddisfare le sue legittime aspirazioni.

Pensa che il riconoscimento del diritto di sciopero, e l’esercizio di esso nelle controversie di lavoro, non sarebbe prova di fiducia nella democrazia; anzi starebbe a significare che lo Stato non ha poteri sufficienti per risolvere queste controversie.

ZUCCARINI desidera precisare l’opinione sua e dei suoi amici su questa particolare questione.

Se il diritto di sciopero non fosse stato nel passato contestato e se non lo fosse ancora oggi – tanto è vero che si parla d’una regolamentazione, che praticamente ne elimina la libertà di esercizio – sarebbe del parere che nella Costituzione non se ne parlasse, tanto esso rientra nei diritti naturali del cittadino. Ma siccome, evidentemente, la omissione presuppone la intenzione o di eliminarlo, o di regolarlo, dichiara di essere favorevole all’affermazione pura e semplice del diritto di sciopero. Pensa, peraltro, che l’esercizio del diritto di sciopero trovi in se stesso, nelle sue conseguenze, tutte le sue limitazioni, in bene come in male.

Se in altri tempi, quando eravamo in una situazione di educazione politica e soprattutto di educazione sociale molto più bassa, il diritto di sciopero ha trovato manifestazioni di eccessi condannabili, e che, in fondo, hanno nociuto agli stessi operai, il fatto che i risultati negativi hanno nociuto ha servito a limitarlo. Né si può dimenticare che lo sciopero, come è stato esercitato, ha costituito non solo un mezzo di educazione e di autodifesa degli operai, ma ha servito anche a dare maggiore sviluppo e perfezionamento al processo produttivo.

Crede che non sia errato dire che molti dei progressi compiuti nel campo della produzione sono dovuti proprio a questi interventi operai. In fondo, era l’espressione dei loro diritti legittimi, della loro aspirazione a trovare, attraverso la retribuzione del lavoro, una migliore soddisfazione dei loro bisogni.

Afferma, concludendo, di essere favorevole alla formula: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero», senza alcuna limitazione, poiché nessun diritto può essere affermato per essere poi negato attraverso la regolamentazione.

LUSSU voterà la prima parte dell’articolo: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero». Non condivide totalmente il pensiero della terza Sottocommissione, la quale ritiene che si debba parlare del diritto di sciopero non adesso, ma successivamente. A suo parere se ne deve parlare adesso, poiché il parlarne rientra nell’armonia del testo della Costituzione.

Pensa, peraltro, che lo Stato abbia il diritto di intervenire in materia. Non si tratta di una imposizione dall’esterno. Lo Stato agisce dall’interno, specialmente questo Stato che differisce radicalmente dallo Stato liberale pre-fascista. Questo è lo Stato democratico, imperniato su conquiste sociali, per cui può definirsi lo Stato dei lavoratori.

Circa la questione se impiegati dello Stato abbiano diritto di scioperare, ricorda che venticinque anni fa votò favorevolmente, perché era contro lo Stato monarchico; oggi invece è perplesso, perché pensa che gli impiegati non abbiano diritto di ergersi contro lo Stato repubblicano.

Se, per esempio, un giusto provvedimento esonerasse il Procuratore Generale della Corte di cassazione, hanno diritto i magistrati di scioperare? Ecco il problema estremamente delicato.

In sostanza sono capovolti i termini dello Stato liberale. Lo Stato democratico repubblicano è lo stato dei lavoratori e, quindi, deve essere difeso contro tutti.

COLITTO dichiara che non sarebbe sincero se affermasse di essere favorevole al riconoscimento di un «diritto» in materia di sciopero. È inutile sottolineare di nuovo che la ragion fattasi ha costituito sempre e costituisce un illecito: giova, invece, ricordare che lo sciopero reca sempre danni enormi alla collettività, sia al lavoro, sia al capitale, come appare in modo evidente da quello che è avvenuto non solo in Italia, ma anche in altre parti del mondo. È, quindi, più che sia possibile, da evitare. I rilievi, del resto, che da ogni parte si formulano per circoscrivere l’esercizio di quel diritto, dividendo, come giustamente ha detto l’onorevole Di Vittorio, gli italiani in due categorie, costituiscono la riprova della esistenza in tutti della grande preoccupazione che dallo sciopero non vantaggio derivi alla collettività, ma pregiudizio. Ed è del bene collettivo che bisogna sempre preoccuparsi.

Ora, se c’è in Italia una organizzazione sindacale, la quale va sempre più consolidandosi e perfezionandosi, non comprende perché non possa tale organizzazione intervenire con i suoi congegni arbitrali per comporre ogni vertenza di carattere collettivo nel campo dei rapporti di lavoro.

Non si rende conto, poi, del perché nella Costituzione si debba parlare di un diritto di sciopero e non di un diritto di serrata. Così operandosi, si dividerebbero di nuovo gli italiani in due categorie, con diversi diritti e diversi doveri, il che da tutti si vuole evitare.

Egli è, quindi, dell’opinione che nella Costituzione non si faccia parola del diritto di sciopero.

MOLÈ desidera spiegare rapidamente le ragioni del suo voto. Ammette il diritto di sciopero, come legittimo strumento di lotta nelle competizioni fra capitale e lavoro. Repugna alla concezione di sciopero come violazione di un contratto bilaterale, per cui il prestatore d’opera viene meno all’obbligo assunto verso il datore d’opera.

Non è possibile confondere lo sciopero con la violazione di un contratto individuale. Qui si tratta di un fenomeno collettivo che ha la spiegazione nella necessità di rompere contratti onerosi, che le esigenze mutate della vita economica impongono di rivedere, quando i prestatori si rifiutano alle revisioni; onde la presunzione di equità è per le masse lavoratrici che agiscono in stato di necessità, disertando il lavoro, che è il loro unico mezzo di vita.

Non è perciò possibile disconoscere il diritto di sciopero ai lavoratori, come mezzo di difesa nella lotta fra capitale e lavoro. Ma non può rientrare nel concetto della lotta di classe – cioè nella lotta fra capitale e lavoro – il rapporto che intercede fra lo Stato, che rappresenta la collettività dei cittadini, e quelle categorie dei funzionari che rappresentano ed attuano la volontà sovrana dello Stato, e però s’identificano con lo Stato e la legge dello Stato, di cui sono l’organo esecutivo.

Anche quei funzionari vivono di lavoro, ma non sono di fronte sul piano del contrasto economico. E però il diritto di sciopero, che questo contrasto presuppone, non può essere loro concesso.

Il Magistrato, il Prefetto, il carabiniere, l’agente di pubblica sicurezza non possono scioperare. Se concedesse loro questo diritto, nel formare la sua Costituzione, lo Stato sanzionerebbe il diritto di ribellione, cioè la legittimità della rivoluzione contro se stesso, e consacrerebbe il suo suicidio.

Egli voterà perciò la proposta della terza Sottocommissione, di rinviare all’Assemblea legislativa l’esame approfondito della materia. E se tale proposta venisse respinta, voterà la prima parte dell’articolo proposto dalla prima Sottocommissione, che sancisce il diritto generico di sciopero dei lavoratori, nel cui concetto classistico non possono essere compresi i funzionari che attuano la volontà sovrana dello Stato. E non voterà altre formule che accennano a future regolamentazioni legali dell’esercizio dello sciopero, che sembra accennino alle modalità dello sciopero non regolamentabili, o sanciscono divieti indiscriminati di sciopero per addetti a pubblici servizi, dizione troppo ampia e imprecisa, nella quale sono anche comprese gestioni industriali dello Stato che esulano dalle sue funzioni di sovranità.

MANCINI è favorevole all’affermazione pura e semplice del diritto di sciopero, come ebbe a sostenere in seno alla prima Sottocommissione, perché le limitazioni non farebbero altro che falsare il contenuto sociale, morale e giuridico del diritto di sciopero e non agirebbero come freno, perché lo sciopero dal suo carattere economico passa a quello politico.

Questo convincimento si basa su una ragione dottrinaria, su una ragione sociale e su una ragione politica.

La ragione dottrinaria è che il diritto di sciopero, a suo parere, non è un rapporto di forze e neanche un rapporto economico, ma un diritto naturale che non può essere vulnerato da nessuno.

La ragione sociale è che il diritto di sciopero non è, come diceva l’onorevole Tupini, l’arma della guerra, ma della difesa, la garanzia dell’organizzazione. Lo sciopero diventa l’arma della guerra quando passa dal movimento economico al movimento politico; ma quando resta ristretto nei limiti del movimento economico, lo sciopero è difesa ed è diritto sacro del lavoratore e della organizzazione. Senza di esso non si può concepire il sindacato.

La ragione politica e che, in questo momento, le nostre coscienze dovrebbero essere unite, anche se diversamente valutano il diritto di sciopero. Il passato regime ha dichiarato lo sciopero un reato punibile.

Questa nuova Italia, sorta sulla catastrofe del fascismo con nuovi intendimenti, deve affermare che lo sciopero non è un reato, ma il diritto invulnerabile delle nuove masse lavoratrici italiane.

FANFANI pensa che, per risolvere questo problema, occorra considerare se nella Costituzione, quale si intravede già dal progetto in via di formazione, un articolo che riconosca il diritto di sciopero sia in armonia con tutto il sistema.

Ora, il progetto, quale finora si conosce, stabilisce che la Repubblica italiana non poggia su una concezione individualistica e, quindi, non aderisce all’idea che l’equilibrio sociale ed economico si raggiunge attraverso una lotta permanente tra i cittadini, ma invece si rifà ad una concezione solidaristica, come si dimostra attraverso tutti i vari articoli che la terza Sottocommissione ha votato quasi sempre all’unanimità e che, in gran parte, sono stati trasfusi nel progetto del Comitato di redazione.

Dal testo del progetto risulta che la Repubblica italiana riconosce ai lavoratori tutti i diritti economici necessari a portarli al primo piano della vita sociale, senza eccezioni, e che la Repubblica italiana vuole abolire posizioni di privilegio di ogni genere a favore di qualsiasi cittadino, gruppo, categoria, classe.

Infine la Repubblica italiana rivendica a sé piena capacità di rendere giustizia a tutti i cittadini, anche nel settore economico.

Ora, nel quadro di questa Costituzione, un articolo sul diritto di sciopero potrebbe voler significare una negazione della capacità della Repubblica di rendere giustizia a tutti, anche sul terreno economico.

La rinuncia da parte della Repubblica ad esercitare quella funzione di coordinamento e di armonizzazione di tutti i fenomeni economici contraddittori, in vista di un fine sociale e soprattutto in vista di quella elevazione dei lavoratori, quale è stata affermata esplicitamente in alcuni articoli, che costituiscono, a suo parere, la parte più originale della Costituzione, rispetto a tutte le costituzioni che finora sono state formulate, menoma completamente la facoltà del nostro Stato democratico.

Ma, di fatto, si deve riconoscere che ancora oggi il ricorso allo sciopero è tutt’altro che superfluo come strumento per portare i lavoratori al pieno riconoscimento dei loro diritti. E, per questo, è una concessione alla realtà l’arrivare all’esercizio dello sciopero in base a norme sui rapporti di lavoro, in attesa che i lavoratori stessi possano riconoscere che il mezzo dello sciopero è tra i più dispendiosi. Quel giorno, evidentemente, la evoluzione storica renderebbe anche nel nostro Paese superfluo il ricorso all’arma dello sciopero.

In conclusione, per ragioni di armonia, ritiene opportuno che la Costituzione non parli del diritto di sciopero. Però, l’Assemblea potrebbe anche decidere nel senso già accettato alla quasi unanimità della terza Sottocommissione. Tuttavia, nell’ipotesi che si ritenga conveniente, anche per ragioni politiche che giudica fortissime, di proclamare il diritto di sciopero, naturalmente la Repubblica che, in base alla nuova Costituzione, deve armonizzare tutti i fenomeni economici, deve anche armonizzare gli scioperi con il complesso della vita economica nazionale, e, pertanto, si rende indispensabile il rinvio ad una legge che regoli l’esercizio del diritto di sciopero.

PRESIDENTE avverte che l’ordine delle proposte da votare dovrebbe essere il seguente. Vi è, in primo luogo, la proposta di non parlare del diritto di sciopero nella Costituzione. Segue la proposta dell’onorevole Di Vittorio di approvare il primo comma dell’articolo votato dalla prima Sottocommissione: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero». Vi è poi la proposta dell’onorevole Cappi di aggiungere a questo comma la formula: «Una legge sui rapporti di lavoro ne regola l’esercizio». Infine si dovrebbe porre in votazione il secondo comma dell’articolo approvato dalla prima Sottocommissione.

BORDON, circa l’ordine della votazione, osserva che non è accettabile che la formula proposta dall’onorevole Di Vittorio preceda quella dell’onorevole Cappi, perché la prima ha un valore risolutivo, mentre invece la formula dell’onorevole Cappi è più ampia, e, pertanto, dovrebbe precedere, anche se dovesse votarsi per divisione.

TUPINI osserva che nell’ordine normale dei lavori della Commissione occorre tener conto del regolamento della Camera. Ora, poiché l’onorevole Bulloni ha fatto una proposta pregiudiziale, bisogna votarla per prima. Nel caso che sia respinta, si passa all’esame delle proposte che più radicalmente si discostano da quelle delle Sottocommissioni.

L’onorevole Di Vittorio ha proposto di approvare un articolo così formulato: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

Richiama l’attenzione dell’Assemblea sul fatto che la proposta Di Vittorio corrisponde al primo comma dell’articolo votato dalla prima Sottocommissione; e, poiché in sede di prima Sottocommissione si fece la votazione per divisione, si deve fare lo stesso anche in questa sede.

L’onorevole Cappi ha poi proposto di aggiungere la formula: «Una legge sui rapporti di lavoro ne regola l’esercizio».

Ritiene, quindi, che, qualora sia respinta la pregiudiziale Bulloni, si debba votare prima la proposta Di Vittorio, poi quella Cappi e, infine, il secondo comma proposto dalla prima Sottocommissione.

PRESIDENTE. Resta dunque inteso che si pone ai voti la proposta dell’onorevole Bulloni di non parlare del diritto di sciopero nella Costituzione. Su di essa è stato chiesto l’appello nominale.

GHIDINI dichiara di votare a favore dell’affermazione, pura e semplice, del diritto di sciopero, senza alcuna limitazione.

CANEVARI si associa.

CONTI voterà per la formula: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

LUCIFERO dichiara di votare a favore della pregiudiziale, perché ritiene che questa non sia materia costituzionale. Il diritto di sciopero, anche se lo si vuole intendere come diritto, è una esigenza prettamente liberale. Ritiene che in una Costituzione, come quella che viene proposta, che non è di natura liberale, esso non abbia più ragione di esistere.

Voterà contro la prima parte dell’articolo proposto dalla prima Sottocommissione; voterà a favore di quella disposizione che stabilisca che la legge debba regolare l’esercizio del diritto di sciopero, qualora fosse ammesso.

BULLONI dichiara che la sua pregiudiziale non vuole significare né limiti, né condanna del diritto di sciopero.

AMBROSINI vota a favore della proposta Bulloni, perché ritiene che la complessa materia debba essere opportunamente disciplinata da una legge speciale. Subordinatamente, voterà per la proposta Cappi.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bulloni, Codacci Pisanelli, Colitto, Dominedò, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Leone Giovanni, Lucifero, Mastrojanni, Marinaro, Molè.

Rispondono no: Amadei, Basso, Bocconi, Bordon, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Conti, De Michele, Di Giovanni, Di Vittorio, Dossetti, Farini, Fuschini, Ghidini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Merlin Lina, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Nobile, Perassi, Pesenti, Piccioni. Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione nominale:

Votanti                    60

Voti favorevoli        13

Voti contrari                        47

(La Commissione non approva).

Pone ai voti il primo comma dell’articolo proposto dalla prima Sottocommissione, fatto proprio dall’onorevole Di Vittorio: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

Anche su questo comma è stato chiesto l’appello nominale da parte dell’onorevole Di Vittorio.

PICCIONI dichiara di votare favorevolmente a questa proposta, nel concetto che essa sia integrata nella seconda parte.

TERRACINI in questa sede ritiene che non si tratti tanto di salvare delle apparenze politiche, quanto di andare direttamente alla sostanza. Non è una legge che andrà ad un’Assemblea legislativa: è la Costituzione, e di fronte alle disposizioni della Costituzione, nessuno dovrebbe cercare di trovare, attraverso la votazione, il salvataggio di qualche preoccupazione che non sia quella schietta di dire quello che pensa.

La formulazione dell’onorevole Di Vittorio ha un suo significato e così pure la formulazione della prima Sottocommissione. La prima Sottocommissione ha votato che sia assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero, solo in quanto vi fossero limitazioni nella seconda parte.

La Commissione è in maggioranza di avviso che bisogna parlare del diritto di sciopero ed ora bisogna scegliere fra le due posizioni e cioè: che il diritto di sciopero sia affermato puramente e semplicemente, oppure che sia affermato in condizioni inscindibili. Pertanto, non si dovrebbe dire di volare la formulazione della prima Sottocommissione per divisione. Non è divisibile la formula della prima Sottocommissione. V’è una proposta dell’onorevole Di Vittorio. Chi l’accetta, vota secondo un preciso intendimento; coloro che non l’accettano voteranno poi la formula della prima Sottocommissione. Altrimenti questa votazione non sarà una espressione chiara, com’è necessario invece che sia.

DI GIOVANNI si rende conto dello scopo politico dell’intervento dell’onorevole Terracini: si vuole entrare nel campo delle intenzioni e ci si vuole costringere a votare quasi contro il diritto di sciopero. Si potrebbe, a suo parere, votare prima sul diritto di sciopero e poi, se la maggioranza accederà, votare sul l’emendamento.

DOSSETTI non accetta il dilemma proposto dall’onorevole Terracini, e si attiene all’articolo formulato dalla prima Sottocommissione, che fu votato secondo la logica, nella prima parte e successivamente nella seconda.

PRESIDENTE ritiene che questa chiarificazione di posizioni sia indispensabile ed ottenibile, votando dapprima la formula: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero», sulla quale vi potrà essere il consenso di tutti. La chiarificazione avverrà nella seconda parte proposta dall’onorevole Cappi.

Pone pertanto ai voti la prima parte dell’articolo: «È assicurato a tutti i lavoratori il diritto di sciopero».

BULLONI dichiara che voterà contro per i motivi e con gli intendimenti da altri svolti.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Conti, De Michele, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Ghidini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

Rispondono no: Bulloni, Codacci Pisanelli, Colitto, Lucifero, Marinaro, Mastrojanni.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Votanti                    60

Voti favorevoli        54

Voti contrari                        6

(La Commissione approva).

Pone in votazione l’aggiunta proposta dall’onorevole Cappi: «Una legge sui rapporti di lavoro ne regola l’esercizio», sulla quale è stato chiesto l’appello nominale.

LUSSU voterà contro, pur intendendo che lo Stato ha diritto di intervenire in materia.

CODACCI PISANELLI voterà in senso favorevole, pur avendo votato contro la precedente proporzione, perché ritiene che l’aggiunta provochi una modificazione.

CANEVARI si associa alla dichiarazione dell’onorevole Lussu.

(Segue la votazione nominale).

Rispondano sì: Ambrosini, Codacci Pisanelli, Colitto, De Michele, Dominedò, Dossetti, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Piccioni, Rapelli, Ruini, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Rispondono no: Amadei, Basso, Bocconi, Bordon, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, Di Giovanni, Di Vittorio, Farini, Ghidini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Marchesi, Merlin Lina, Molè, Nobile, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Targetti, Terracini, Togliatti, Zuccarini.

PRESIDENTE comunica il risultato della votazione:

Votanti                    59

Voti favorevoli        27

Voti contrari                        32

(La Commissione non approva).

Avverte che resta da votare il secondo comma dell’articolo proposto dalla prima Sottocommissione:

«La legge ne regola le modalità di esercizio unicamente per quanto attiene:

  1. a) alla procedura di proclamazione;
  2. b) all’esperimento preventivo di tentativi di conciliazione;
  3. c) al mantenimento dei servizi assolutamente essenziali alla vita collettiva».

DI VITTORIO osserva che, avendo la Commissione respinto a maggioranza l’emendamento Cappi, si rende completamente inutile e superflua la votazione delle limitazioni proposte dalla prima Sottocommissione.

TUPINI rileva che, non essendo stato approvato l’emendamento Cappi, risorge la necessità di votare sulla proposta della prima Sottocommissioni, anche perché i membri di essa in certo modo sono impegnati su questo testo e si deve vedere se l’impegno assunto in quella sede verrà mantenuto anche in questa.

TARGETTI si associa a quanto ha dichiarato l’onorevole Di Vittorio e richiama l’attenzione sulle dichiarazioni fatte dall’onorevole Terracini, che hanno bene illustrato il significato delle votazioni.

PRESIDENTE è del parere che la votazione sull’emendamento Cappi non esclude che si possa votare un emendamento che rinvia con particolari indicazioni ad un’altra legge. Deve, pertanto, ammettere la votazione.

Personalmente dichiara che voterà contro, perché mentre era favorevole ad una legge che avesse regolata la materia nel suo complesso, non crede che si debbano determinare i punti particolari.

Anche per questa votazione è stato chiesto l’appello nominale.

(Segue la votazione nominale).

Rispondono sì: Ambrosini, Bozzi, Cappi, Codacci Pisanelli, Colitto, De Michele, Dominedò, Dossetti, Fabbri, Fanfani, Federici Maria, Fuschini, Leone Giovanni, Lucifero, Mannironi, Mastrojanni, Merlin Umberto, Moro, Mortati, Piccioni, Rapelli, Taviani, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni.

Rispondono no: Amadei, Basso, Bocconi, Bordon, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cevolotto, Conti, Di Giovanni, Di Vittorio, Farini, Ghidini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mancini, Marchesi, Merlin Lina, Nobile, Perassi, Pesenti, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Terracini, Togliatti, Zuccarini.

Comunica il risultato della votazione:

Votanti                    59

Voti favorevoli        27

Voti contrari                        32

(La Commissione non approva).

La seduta termina alle 12.35.

Erano presenti: Amadei, Ambrosini, Basso, Bocconi, Bordon, Bozzi, Bulloni, Calamandrei, Canevari, Cappi, Cevolotto, Codacci Pisanelli, Colitto, Conti, De Michele, Di Giovanni, Di Vittorio, Dominedò, Dossetti, Fabbri, Fanfani, Farini, Federici Maria, Fuschini, Ghidini, Grieco, Iotti Leonilde, Laconi, Lami Starnuti, La Rocca, Leone Giovanni, Lucifero, Lussu, Mancini, Mannironi, Marchesi, Marinaro, Mastrojanni, Merlin Lina, Merlin Umberto, Molè, Moro, Mortati, Nobile, Perassi, Pesenti, Piccioni, Rapelli, Ravagnan, Rossi Paolo, Ruini, Targetti, Taviani, Terracini, Togliatti, Togni, Tosato, Tupini, Uberti, Vanoni, Zuccarini.

Assente giustificato: Caristia.

Erano assenti: Cannizzo, Castiglia, Corsanego, De Vita, Einaudi, Finocchiaro Aprile, Giua, Grassi, La Pira, Lombardo, Noce Teresa, Paratore, Porzio.