Come nasce la Costituzione

Come nasce la Costituzione
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POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

13.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Presidente – Calamandrei, Relatore – Bozzi – Di Giovanni – Ambrosini – Leone Giovanni, Relatore – Laconi – Uberti.

La seduta comincia alle 16.55.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE prega l’onorevole Calamandrei di riferire sulle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

CALAMANDREI, Relatore, aggiungerebbe all’articolo relativo alla revisione, entro 5 anni, degli organi speciali di giurisdizione, il seguente capoverso:

«Nello stesso termine si procederà a trasformare le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, la Giunta provinciale amministrativa, la Corte dei conti in funzione giurisdizionale e le Commissioni del contenzioso tributario in sezioni specializzate degli organi ordinari, includendo le norme ad esse relative nella legge sull’ordinamento giudiziario».

Dirà, il più brevemente possibile, le ragioni per cui è favorevole alla abolizione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

Richiama innanzi tutto l’attenzione dei colleghi sul fatto che la questione, oltre che dal punto di vista dell’ingerenza del potere esecutivo nelle funzioni giudiziarie, deve essere esaminata dal punto di vista dell’ingerenza che il potere giudiziario può esercitare nelle funzioni amministrative. Si tratta quindi anche di un problema di rapporti tra il potere esecutivo e quello giudiziario. Il regolamento di questi rapporti – poiché nella Costituzione non può farsi senz’altro rinvio alla legge 31 marzo 1865, che abolì il contenzioso amministrativo – qualunque sia la soluzione che si voglia attuare, dovrà essere definito da un apposito articolo che riproduca le soluzioni adottate da quella legge.

Fatta questa premessa, afferma che se il Consiglio di Stato ha finora funzionato bene, anche nelle sue Sezioni giurisdizionali, ciò si è dovuto, a suo avviso, principalmente al fatto che questo istituto si è andato formando attraverso tempi e circostanze successive, per rispondere di volta in volta alle esigenze che si presentavano. Per questo motivo non è un organo disciplinato in maniera armonica, simmetrica e razionale, ma un organo venuto su come una vecchia casa che fosse stata a mano a mano riattata e ampliata per rispondere alle nuove necessità della famiglia.

Dovendosi rifare la Costituzione dello Stato, anche sotto questo punto di vista, crede che non sarebbe male ricostituire l’istituto in base a criteri più razionali e, considerando esaurite le ragioni storiche per cui erano state create le sue Sezioni giurisdizionali, trasferire alla Magistratura ordinaria le funzioni che quelle hanno finora adempiuto.

Facendo una cronistoria del Consiglio di Stato, ricorda che, abolito con la legge 31 marzo 1865 il foro privilegiato istituito a favore della pubblica Amministrazione, e stabilito il principio della giurisdizione unica, dopo qualche decennio si cominciò a sentire la necessità di avere, oltre la tutela giurisdizionale, anche una tutela di legalità nei confronti della pubblica Amministrazione, per impedire qualsiasi violazione di legge. Si cominciò, cioè, a vedere che, se da un lato vi sono leggi che mirano a garantire interessi individuali, per trasformarli in diritti soggettivi, vi sono, d’altro lato, leggi fatte nell’interesse della collettività e per il buon funzionamento della pubblica Amministrazione. Lasciando alla tutela giurisdizionale soltanto i casi in cui fosse in giuoco la lesione di un diritto civile o politico, rimaneva priva di tutela l’attività amministrativa nella quale poteva verificarsi da parte dell’Amministrazione la violazione di norme poste non nell’interesse individuale, ma nell’interesse collettivo. Così, per tutelare i cittadini da qualsiasi arbitrio dell’Amministrazione, si arrivò alla creazione della IV Sezione del Consiglio di Stato, la quale ebbe il potere di annullare gli atti amministrativi che, indipendentemente dalla violazione di un diritto soggettivo, apparissero illegittimi. Tra i vari sistemi escogitati per stabilire la persona o l’ente che doveva mettere in moto il potere di annullamento del Consiglio di Stato, si pensò di usare, come organo promotore, l’interesse del cittadino che si trovasse personalmente leso non in un suo diritto, ma in un semplice interesse, il quale veniva in tal modo a trovare – come corrispettivo del servizio che rendeva all’interesse pubblico – una sua particolare tutela. Cosi sorse la IV Sezione del Consiglio di Stato, a cui si aggiunse nel 1907, con funzione in parte analoga, la V Sezione.

In un primo momento, la funzione di queste due Sezioni non fu generalmente considerata come giurisdizionale, ma fu ritenuta come un controllo amministrativo, sia pure avente certe forme di contraddittorio, appunto perché non si ammetteva che organi giudiziari potessero arrogarsi il potere di annullare atti amministrativi. La legge sull’abolizione del contenzioso amministrativo aveva, infatti, fissato il principio che anche quando un atto amministrativo ledeva un vero e proprio diritto soggettivo, l’autorità giudiziaria ordinaria dovesse limitarsi a constatare la lesione, condannando eventualmente ai danni, ma non potesse annullare l’atto amministrativo. Quando, poi, con la legge del 1889, che creò la IV Sezione, si ammise la possibilità di annullamento degli atti amministrativi, si cercò di giustificarla con l’affermazione che quella Sezione non era un organo giudiziario, ma una espressione della stessa pubblica Amministrazione.

A poco a poco, tuttavia, si vide che le funzioni della IV e V Sezione non erano amministrative, ma giurisdizionali. Questa realtà, affermata prima dalla dottrina, fu consacrata poi dalla legge del 1907, che riconobbe ad esse la denominazione di «Sezioni giurisdizionali». Da allora, nessuno più dubita che queste due Sezioni siano veri e propri organi giudiziari, ammettendosi così implicitamente ciò che nel 1865 sembrava una enormità, ossia che un organo giudiziario, com’è il Consiglio di Stato in funzione giurisdizionale, possa annullare un atto amministrativo.

L’evoluzione delle Sezioni del Consiglio di Stato da organi para-amministrativi in veri e propri organi giurisdizionali, porta oggi come conseguenza, secondo quanto è richiesto dal Consiglio di Stato stesso, che ai magistrati che compongono la IV e la V Sezione si diano le stesse garanzie di nomina, di indipendenza e di inamovibilità e che saranno date ai magistrati ordinari. Ora, se si ritiene che non si possano avere delle garanzie assolute di indipendenza, se non attraverso il sistema di moderato autogoverno che si sta escogitando per la Magistratura ordinaria, non vede come si potrebbe dare al Consiglio di Stato quello stesso complesso di garanzie, se non trasformando le attuali sue Sezioni giurisdizionali in sezioni specializzate dell’ordinamento giudiziario ordinario.

All’adozione di questa soluzione ritiene si possa obiettare che le questioni attinenti alla legittimità degli atti amministrativi, di competenza delle Sezioni giurisdizionali, possono essere risolte in maniera idonea soltanto da magistrati che abbiano una preparazione specializzata, come sono appunto i consiglieri delle Sezioni giurisdizionali che, prima di arrivare a quel posto, hanno compiuto un lungo tirocinio attraverso l’esercizio delle funzioni consultive. Ma a questa obiezione, di cui riconosce il valore, risponde che, qualora si creassero delle sezioni specializzate degli organi giudiziari ordinari, nulla vieterebbe che in queste fossero immessi dei magistrati che avessero compiuto il loro tirocinio nel Consiglio di Stato. Per rendere possibile questo passaggio, nell’articolo 20-bis del suo progetto aveva inserito la seguente norma:

«Qualora per certi uffici della Magistratura sia necessaria una preparazione apposita su determinate materie, possono essere banditi concorsi per l’ammissione a questi uffici tra candidati forniti di speciali titoli scientifici o professionali, o provenienti da altri uffici pubblici».

Indipendentemente dalle ragioni storiche a cui ha accennato, si domanda se fra queste funzioni giurisdizionali e quelle dei giudici ordinari vi sia una demarcazione così netta da consigliare di continuare a mantener separati gli organi che le esercitano. A suo giudizio tra le due funzioni vi sono tali legami e tante sovrapposizioni di questioni che è difficilissimo capire esattamente dove finisca il compito della Magistratura ordinaria e dove cominci quello delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. La differenza tra diritto soggettivo ed interesse legittimo, infatti, va diventando sempre più capillare e sottile. Una differenza sostanziale vi poteva essere, quando vi era una netta distinzione tra il diritto pubblico e il diritto privato; ma quando, come avviene attualmente in una quantità sempre maggiore di rapporti, gli istituti di diritto pubblico si vanno rivestendo di carattere privato, e in istituti che erano prima di puro interesse privato si va sempre più infiltrando l’interesse collettivo, riesce difficilissimo vedere fin dove arrivi il diritto soggettivo e dove invece cominci l’interesse occasionalmente protetto.

La difficoltà di arrivare a distinguere tra queste due competenze è stata talmente riconosciuta nella pratica, che ad un certo momento, con una legge del 1923, si è incominciato ad assegnare al Consiglio di Stato anche la tutela di alcuni diritti soggettivi che avrebbe dovuto rientrare nella competenza della autorità giudiziaria ordinaria. Ciò è avvenuto sopra tutto nel campo del pubblico impiego, dove è difficilissimo sapere quando l’impiegato abbia un diritto la cui tutela spetti ai giudici ordinari e quando trattisi di un interesse che invece debba essere portato dinanzi al Consiglio di Stato.

Un altro inconveniente può sorgere inoltre in relazione alla eventualità che una stessa questione, a seconda del modo con cui venga configurata, possa essere portata avanti all’Autorità giudiziaria ordinaria o alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, con la conseguenza di una eventuale disformità di decisioni. A suo parere, invece, tutti gli inconvenienti potrebbero essere eliminati il giorno in cui le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato diventassero sezioni specializzate degli organi giudiziari ordinari, con la competenza a risolvere tutte le controversie fra i cittadini e la pubblica Amministrazione.

Ribadisce, infine, il concetto che, in relazione alla sempre maggiore portata che assumono i riflessi pubblicistici in quasi tutte le questioni, tanto da divenire da eccezioni, come erano nel 1876 e 1889, quasi una vera e propria regola, le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato devono considerare come esaurito storicamente il loro compito.

Per la Corte dei conti non ritiene opportuno dilungarsi, in quanto la sua sorte dovrà essere analoga a quella del Consiglio di Stato.

BOZZI ritiene che il Consiglio di Stato non abbia compiuto la sua funzione storica e che abbia invece una sua precisa ragion d’essere.

Cominciando dall’ultimo argomento dell’onorevole Calamandrei, la difficoltà cioè di distinguere tra diritto e interesse, non può negare che questi due elementi spesso si presentassero in una situazione di tale intima connessione che effettivamente ne derivava una incertezza sul giudice che si doveva adire; ma ricorda che nel 1923, con una legge che rappresenta la conclusione legislativa di tutto un pensiero lungamente elaborato in tempi non fascisti, riconoscendosi che in realtà si erano determinati rapporti per i quali la interferenza era così intima che non conveniva fissare due giudici, si stabilì nei loro riguardi la competenza esclusiva del Consiglio di Stato. Si veniva a creare così una forma di attrazione giurisdizionale anomala, in quanto un giudice speciale attraeva per determinate materie la competenza del giudice ordinario.

A questo proposito desidera citare alcune cifre. Da una statistica dei ricorsi presentati e decisi dalle due Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato dal 1926 a tutto il 1945, risulta che su 27.608 ricorsi, vi sono state solo 428 dichiarazioni di incompetenza, numerose delle quali derivanti dalla molteplicità delle giurisdizioni speciali e non da eventuali dubbiezze circa l’interesse e il diritto. Questo sta a dimostrare che oggi i criteri distintivi fra diritto e interesse sono abbastanza chiari, specialmente dopo la legge del 1923 che rappresenta in questo campo un vero e proprio punto fermo.

Tiene poi a far rilevare all’onorevole Calamandrei che tutte le questioni ed incertezze non si eliminerebbero con la creazione delle Sezioni specializzate nella Magistratura ordinaria, perché in ogni caso i giudici specializzati dovranno sempre compiere una indagine per sapere se si trovano di fronte ad un interesse o di fronte ad un diritto.

La vera ragione della necessità della sopravvivenza del Consiglio di Stato sta, a suo avviso, nel fatto che le funzioni che esplicano le due Sezioni giurisdizionali sono diverse da quelle che esplica il giudice ordinario. Precisa anzi tutto che il Consiglio di Stato non ha mai tolto nulla al giudice ordinario, che non ha avuto mai competenza in materia di interesse. Il giudice ordinario, infatti, giudica solo di diritti, anche pubblici, subiettivi, e di situazioni giuridiche nelle quali vi sia un conflitto fra due parti vincolate da precise norme di legge. In questa situazione però trovasi alle volte anche la pubblica Amministrazione, e quindi si spiega la necessità del giudice ordinario, che è il più idoneo a compiere i necessari accertamenti sul diritto e sul dovere delle parti. La giurisdizione del Consiglio di Stato è dominata invece dal criterio del pubblico interesse; non vi sono più un creditore e un debitore in senso lato; qui si tratta di valutare la discrezionalità della pubblica Amministrazione, che nello svolgimento della sua attività libera, ma tuttavia discrezionale (libertà, cioè, e non arbitrio), può ledere l’interesse di un cittadino. In questo campo il giudice deve espletare una indagine particolare, squisitissima, che è ben differente da quella che deve compiere normalmente il giudice ordinario.

Non ritiene poi assolutamente che la funzione del Consiglio di Statoci possa assimilare a quella della Magistratura ordinaria, dove in una sezione specializzata si avrebbe una forma di contaminazione del giudice togato il quale, abituato all’applicazione rigida della legge civile e commerciale, dovrebbe invece decidere in una materia nella quale domina la valutazione del pubblico interesse. Potrebbe comprendere le Sezioni specializzate per le altre giurisdizioni speciali – come ad esempio il Tribunale delle acque – nelle quali si pongono problemi di carattere tecnico, ma non ne vede l’utilità per il Consiglio di Stato, che opera in un campo diversissimo da tutte le altre giurisdizioni speciali.

D’altra parte, pone in evidenza che la giurisdizione del Consiglio di Stato, per la sua particolare natura, non è costituita – come ha detto anche l’onorevole Calamandrei – a tutela di diritti, ma a difesa dello Stato e dei cittadini anche contro lo Stato. Per mezzo di essa, il cittadino diventa uno strumento per l’attuazione di quella che con frase felicissima è stata detta «la giustizia nell’amministrazione». È quindi lo Stato stesso che sente la necessità di organizzare questa forma di controllo giurisdizionale per attuare nel suo seno la giustizia nell’amministrazione, che è un problema essenziale di ogni Stato veramente democratico. Crede di non esagerare, affermando che oggi uno dei difetti fondamentali della politica è il difetto del sentimento di legalità, che è limite e proporzione. Se l’Amministrazione erra nell’applicare una norma, il Consiglio di Stato, valendosi dell’interesse individuale leso, ripristina la situazione giuridica, reintegrando così, non solo la situazione individuale, ma sopra tutto l’ordine giuridico leso e la legalità nell’amministrazione. Questa è la funzione del Consiglio di Stato.

Nega perciò che esso abbia esaurito il suo ciclo storico ed anzi è convinto che la soppressione del Consiglio di Stato susciterebbe nella coscienza giuridica nazionale una pessima impressione. Si potrebbe infatti pensare che quella che è stata una conquista liberale-democratica di controllo della discrezionalità dell’Amministrazione, a garanzia degli interessi dei cittadini, venga oggi soppressa e portata nel gran mare della giurisdizione ordinaria, con la necessaria prevalenza dei giudici togati, portati per la loro conformazione mentale ad applicare rigidamente la legge anche in materia dove è necessario invece contemperarne l’applicazione con la valutazione del pubblico interesse, unendo cioè, alla rigidità del giudice, quella che chiamerebbe la «duttilità dell’amministratore».

D’altra parte, bisogna tener conto che il Consiglio di Stato esplica un duplice ordine di funzioni, cioè consultive e giurisdizionali. Secondo il suo punto di vista, che è quello di illustri giuristi, queste funzioni diverse rappresentano due manifestazioni di un’unica funzione, che non è suscettibile di divisione. In altri termini, quando il Consiglio di Stato, nella sua funzione consultiva, dà pareri al potere esecutivo, quando collabora col Governo dando l’apporto della sua esperienza tecnico-amministrativa, già concorre in questa sua prima fase preventiva a stabilire la giustizia nell’Amministrazione. La stessa funzione esplica con diversi poteri e con diversa efficacia in sede successiva, quando decide della legittimità degli atti amministrativi. Funzione unica, dunque, complessa ed inscindibile, per quanto conformabile alle esigenze democratiche. Sotto questo profilo ricorda che il Consiglio di Stato, in oltre cento anni di vita, ha dimostrato veramente uno spirito notevole di adattamento. Nato come Consiglio del Re nel 1831, come una forma limitativa del potere assoluto del sovrano, si è andato successivamente adattando ai tempi, dimostrando sempre un grande spirito di indipendenza, tanto da essere considerato come un modello al quale si ispiravano anche Stati stranieri. Il modo come esso ha funzionato potrebbe anche essere l’unico argomento a sua difesa. Infatti, come è stato da tutti riconosciuto e come è stato affermato dall’onorevole Ambrosini, se questo istituto ha sempre funzionato bene, se ha dato prova di indipendenza, se ha concorso a mantenere la legalità nella pubblica Amministrazione, non vi è alcuna necessità di portarvi un così profondo rinnovamento.

Anche a questo proposito può citare alcune cifre significative. Nel periodo fascista, su 16.090 ricorsi decisi in merito – quindi, esclusi quelli respinti per incompetenza, abbandonati, perenni, ecc. – ne sono stati accolti circa 10.000 e respinti 6.000. Questo significa che per diecimila volte il Consiglio di Stato ha annullato atti dell’Amministrazione, dando così una delle migliori dimostrazioni di indipendenza.

Se il tempo lo permettesse potrebbe ricordare qualcuna delle decisioni più importanti e più coraggiose del Consiglio di Stato, specie in materia di razza, di stampa e di insegnamento, prese anche nei periodi in cui il fascismo era più in auge.

A suo modo di vedere, il problema essenziale non è quello di trasferire le funzioni del Consiglio di Stato ad una sezione specializzata del giudice ordinario, ma quello di considerare il Consiglio di Stato come l’organo di controllo della pubblica Amministrazione. Lo Stato democratico ha bisogno di organi di controllo indipendenti, perché in tanto un controllo è efficace, in quanto l’organo che lo esercita è posto in una situazione di indipendenza rispetto all’organo controllato.

Come il Parlamento, pure accordando la sua fiducia al Governo, esercita un controllo su di esso nell’attuazione della direzione politica e nelle manifestazioni singole nelle quali tale direzione si attua, così, attraverso il Consiglio di Stato, questo stesso organo, quale rappresentante del popolo e quindi dell’interesse collettivo alla legalità dell’azione amministrativa, dovrebbe esercitare anche un controllo sull’attività amministrativa del Governo. I Consiglieri, i Presidenti di Sezioni ed il Presidente, anche se formalmente nominati dal Presidente della Repubblica, dovrebbero essere designati dalle Camere. In tal modo si darebbe veramente al Consiglio di Stato una struttura democratica e si andrebbe verso la creazione di uno Stato di diritto, che rappresenta un comune ideale.

Dichiara, infine, che non sarebbe alieno dal concedere anche al potere giudiziario il potere di annullamento di atti amministrativi; ma ripete che la questione fondamentale è mantenere il Consiglio di Stato nelle sue funzioni tradizionali, salvo limitarle ed inquadrarle democraticamente, facendo dell’istituto un organo di controllo dell’attività amministrativa del Governo.

DI GIOVANNI, dopo quanto è stato detto dall’onorevole Bozzi, ritiene che siano da mantenere le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, più che per ragioni di opportunità, per ragioni di necessità, che del resto, costituendo una eccezione, non gli sembra intacchino il concetto a cui fondamentalmente si ispira l’onorevole Calamandrei, quello cioè della unità della giurisdizione.

Non gli sembra parimenti che la Sezione si debba occupare della disciplina delle nomine, della indipendenza e della carriera dei membri del Consiglio di Stato, perché, per quanto si debba riconoscere la necessità di assicurare a quest’organo una maggiore indipendenza per sottrarlo all’influenza diretta del potere esecutivo, essa non può entrare in un campo che non è quello del potere giudiziario. La Sezione dovrebbe pertanto limitarsi all’esame della conservazione o meno delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, le cui funzioni incidono sugli organi giudiziari.

AMBROSINI non ritiene di dover trattare ampiamente la questione, sia perché è stata già largamente discussa, sia perché in una precedente seduta ha già svolti gli argomenti per cui era favorevole al mantenimento delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

A suo avviso, le ragioni che consigliano la soppressione di questa giurisdizione speciale sono ispirate, più che altro, ad un desiderio di euritmia generale, al proposito cioè di razionalizzare tutti gli istituti che riguardano l’amministrazione della giustizia. Non si nasconde che, dal punto di vista dei principî generali, forse potrebbe sembrare utile un sistema unico di amministrazione della giustizia; ma dal punto di vista del merito non vi è dubbio che all’adozione rigida di un tale sistema potrebbero muoversi fondate obiezioni, sopra tutto in relazione alla natura speciale della giurisdizione in discussione.

Osserva che le esigenze particolari che hanno portato all’instaurazione di talune giurisdizioni speciali sono riconosciute anche da coloro che propugnano rigidamente il principio della giurisdizione unica, come è riprovato dal fatto che essi sono disposti quasi a conservarle in concreto, trasformandole in sezioni specializzate della Magistratura ordinaria.

A prescindere dalle ragioni di merito, per le quali si può con fondatezza sostenere la necessità di mantenere le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, pensa che vi sia sempre una ragione di opportunità che consiglia di adottare questa soluzione, in quanto l’esperienza dimostra che esse hanno funzionato ottimamente nell’interesse dei singoli che hanno potuto rapidamente ottenere la definizione dei loro ricorsi.

Indubbiamente un organo chiamato ad esercitare una funzione giurisdizionale occorrerebbe fosse composto di persone fornite di garanzie simili a quelle di tutti gli altri magistrati. Crede che non possa tuttavia negarsi, secondo quanto è dimostrato dalle statistiche citate dall’onorevole Bozzi, che anche l’attuale modo di formazione del Consiglio di Stato ha garantito, anche in un periodo di gravi deviazioni, l’indipendenza dei Consiglieri di Stato assegnati alle Sezioni giurisdizionali.

Circa l’inconveniente a cui ha accennato l’onorevole Calamandrei, della possibilità che una stessa questione possa prospettarsi, a seconda dei diversi punti di vista, avanti all’Autorità giudiziaria ordinaria, o avanti alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, con la conseguenza di una eventuale disformità di decisioni, ritiene che vi si possa porre rimedio ammettendo che tutte le sentenze, anche se pronunciate da giurisdizioni speciali, possano essere impugnabili con ricorso avanti alla Suprema Corte di cassazione. In tal modo, non soltanto si eviterebbe l’inconveniente, ma si affermerebbe ancor più il principio dell’unità della giurisdizione, in quanto la Suprema Corte di cassazione costituirebbe l’organo unico e supremo per l’interpretazione del diritto. Conferma di essere favorevole alla conservazione della giurisdizione amministrativa affidata alle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato.

LEONE GIOVANNI, Relatore, osserva che la principale ragione che militava per l’abolizione delle giurisdizioni speciali era quella di creare un’armonica costruzione dell’unità della giurisdizione, così come era stata proposta dall’onorevole Calamandrei. Tale costruzione, però, non è stata mantenuta, perché si è arrivati al compromesso dell’abolizione delle giurisdizioni speciali in materia penale e del mantenimento, in determinati casi e con certe cautele, delle altre giurisdizioni speciali. Sarebbe quindi dell’avviso di adottare nella Costituzione una formula molto semplice, in cui si dica che la giurisdizione del Consiglio di Stato e della Corte dei conti rimangono in vita, così come sono attualmente congegnate, salvo poi a rivederne la struttura in un successivo periodo di tempo per adeguarle alle nuove condizioni della vita nazionale.

LACONI, premesso che le osservazioni dell’onorevole Bozzi lo hanno persuaso, ritiene opportuno fare alcune considerazioni di ordine politico, per meglio lumeggiare la questione.

Considera di particolare rilievo l’affermazione dell’onorevole Calamandrei che, più si procede nel campo delle riforme sociali ed economiche e sempre più numerosi sono i casi in cui l’interesse pubblico viene a riflettersi nei rapporti di natura privata. Non dubita, infatti, che il nuovo Stato democratico si troverà sempre maggiormente costretto, per la evoluzione stessa delle cose, ad intervenire nel campo dei rapporti privati, e quindi la pubblica Amministrazione avrà sempre maggiore necessità di ampliare la sfera della propria discrezionalità. Proprio per questo motivo non è d’avviso, però, che il sindacato sull’operato della pubblica Amministrazione possa essere attribuito alla Magistratura ordinaria, cioè ad un ordine che rappresenta il diritto non nel suo divenire, quale rispondenza schietta alla volontà popolare, ma nella sua forma codificata. Questo controllo dovrebbe essere, a suo parere, rimesso invece a quegli organi che rappresentano nel modo più genuino, direttamente o indirettamente, la volontà popolare. Personalmente perciò sarebbe favorevole ad affidare il controllo sull’amministrazione addirittura al Parlamento; ma, essendo una tale soluzione contraria alle tradizioni italiane, ritiene che difficilmente sarebbe accettata. Aderisce, pertanto, alla soluzione prospettata dall’onorevole Bozzi, per cui la nomina, sia dei Consiglieri che dei Presidenti di Sezione e del Presidente del Consiglio di Stato, venga rimessa al potere legislativo, naturalmente con le opportune cautele, in modo che la scelta sia fatta entro determinate categorie.

CALAMANDREI, Relatore, rileva che l’onorevole Laconi – del quale tuttavia ammira la precisione e l’acutezza delle osservazioni – forse non ha una pratica giudiziaria che gli permetta di rendersi conto di quella che è effettivamente una realtà storica, cioè che la giurisdizione ordinaria non è più, e forse non è mai stata, una giurisdizione ristretta che tenga conto soltanto dell’interesse individuale e che si limiti alla applicazione formale delle leggi cristallizzate, ma va diventando sempre più una giurisdizione di diritto pubblico e anche di interessi. Non è quindi affatto vero che la tutela dell’interesse pubblico sia esclusiva del Consiglio di Stato, in quanto ogni giorno di più i giudici ordinari si trovano di fronte a casi per i quali è loro necessario tener conto di quell’interesse. Così, quando afferma la funzione sociale cui deve adempiere la proprietà e tutte le volte che decide secondo equità, il giudice ordinario fa, nel suo campo, quello che il Consiglio di Stato fa quando giudica sulla discrezionalità.

Ad ogni modo, l’argomento fondamentale per il quale è favorevole alla abolizione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato è proprio costituito dal fatto che la giurisdizione ordinaria si è andata trasformando sempre più da giurisdizione di diritto in giurisdizione di interessi. Ritiene inoltre che si farebbe offesa ai giudici, considerando il loro cervello come anchilosato nell’applicare rigidamente e semplicemente le leggi.

Dà quindi lettura del seguente brano della relazione presentata dal Consiglio di Stato: «Ad assicurare la completa indipendenza del Consiglio di Stato, condizione inderogabile per l’efficace e sereno esercizio dell’alta funzione, pare necessario svincolare l’istituto da ogni rapporto di subordinazione o da ogni ingerenza del potere esecutivo, collocando questa Magistratura fuori dell’ordinamento gerarchico dello Stato». Da questo brano, a suo avviso, risulta che, mantenendo in vita puramente e semplicemente le Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, come sono ora costituite, si conserverebbero degli organi che, per riconoscimento dello stesso Consiglio di Stato, non hanno attualmente quell’indipendenza che è stata ritenuta essere requisito essenziale del potere giudiziario.

BOZZI riafferma il concetto che la Magistratura amministrativa dovrebbe essere formata in modo diverso da quella ordinaria, data la diversità della competenza.

La questione della indipendenza potrebbe essere risolta, secondo la sua proposta, facendo derivare la composizione del Consiglio di Stato, non dal potere esecutivo, ma dal potere legislativo, che è l’organo che esercita istituzionalmente il controllo sul Governo.

Proporrebbe, pertanto, salvo modificazioni di forma, la seguente dizione:

«Al Consiglio di Stato, alla Corte amministrativa regionale, spetta l’esercizio delle funzioni giurisdizionali nelle materie e nei limiti stabiliti della legge.

«Il Presidente, i Presidenti di Sezione, i Consiglieri del Consiglio di Stato e della Corte dei conti, nonché il Procuratore generale di questa, sono nominati dal Presidente della Repubblica, su proposta dell’Assemblea nazionale, sentite rispettivamente l’Adunanza generale del Consiglio di Stato e le Sezioni riunite della Corte dei conti».

CALAMANDREI fa rilevare che il fatto di conservare nella forma attuale il Consiglio di Stato non risolve la questione dell’inserimento nella Costituzione dei principî contenuti nella legge del 1865.

PRESIDENTE propone di rinviare al giorno seguente il seguito della discussione e l’eventuale votazione delle proposte.

(Così rimane stabilito).

AMBROSINI desidera dire poche parole per la chiarezza delle posizioni. Tiene a mettere in evidenza che il criterio che deve essere seguito nell’interpretare la legge, non è diverso a seconda che si tratti di giudici ordinari o di giudici delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato. Gli è sembrato di capire che si voglia quasi rimproverare alla Magistratura ordinaria di non seguire a volte l’evoluzione della coscienza giuridica. Ora, i magistrati ordinari devono interpretare la legge, ma non possono sostituirsi al dettato della legge. E questo, che è il compito della Magistratura ordinaria, deve essere il compito di qualsiasi giudice. In caso contrario si snaturerebbe l’esercizio della funzione del giudice. Non può alcun criterio diverso d’interpretazione essere preso in considerazione, se non si vuole che ne venga scossa tutta la certezza dell’ordinamento giuridico, ponendo in forse anche gli stessi diritti dei cittadini. Il magistrato, perciò, sia ordinario che speciale, non può arrogarsi il diritto di apportare modifiche al dettato della legge, credendo di interpretare l’evoluzione della coscienza sociale, della quale l’unico che può rendersi interprete deve essere l’organo legislativo, in quanto è il diretto rappresentante della volontà popolare e quindi della coscienza giuridica nazionale. È solo questo organo che, con la sua sensibilità e col suo senso di responsabilità, avvertendo gli eventuali mutamenti che si siano verificati nella coscienza giuridica popolare, deve senz’altro modificare, abrogare o rinnovare ab imis la legge.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone di aggiungere all’articolo relativo alla revisione, entro 5 anni dall’entrata in vigore della Costituzione, degli organi speciali di giurisdizione attualmente esistenti, le seguenti parole:

«Entro il medesimo tempo si provvederà alla soppressione dei Tribunali militari. Entro sei mesi dall’entrata in vigore della presente Costituzione si provvederà per legge alla soppressione del Tribunale Supremo Militare ed al conseguente trasferimento del medesimo alla Corte Suprema di cassazione».

UBERTI crede eccessivo stabilire l’obbligo della revisione di tutti gli organi di giurisdizione speciale, anche nei casi in cui il Parlamento non lo ritenesse opportuno.

LEONE GIOVANNI, Relatore, ricorda che in un precedente articolo si è stabilito che «non possono essere istituiti organi di giurisdizione speciale, se non per legge votata a maggioranza assoluta dall’Assemblea. In nessun caso possono essere istituiti giudici speciali in materia penale». Con l’articolo in discussione si vuole intendere che entro cinque anni il legislatore ordinario deve rivedere le giurisdizioni speciali esistenti, per esaminare l’opportunità delle sopravvivenze che devono essere consacrate con leggi votate a maggioranza assoluta delle due Camere.

UBERTI proporrebbe allora la formula:

«Il Parlamento dovrà, entro cinque anni, dichiarare quali sono le giurisdizioni che devono permanere ed eventualmente riformarle».

LEONE GIOVANNI, Relatore, riterrebbe più adatta, salvo modificazioni di forma, la seguente dizione:

«Entro cinque anni dall’entrata in vigore della Costituzione, cesseranno le giurisdizioni speciali esistenti, a meno che con la legge di cui all’articolo 6 non siano mantenute in vigore».

PRESIDENTE fa presente che la prima parte dell’articolo, essendo già stata oggetto di una votazione, non può essere modificata.

Propone di rinviare anche per questo articolo la discussione alla seduta successiva.

(Così rimane stabilito).

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone di aggiungere all’articolo, di cui prima ha dato lettura, il seguente comma:

«I Tribunali militari possono essere istituiti solo in tempo di guerra».

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento aggiuntivo.

(È approvato).

La seduta termina alle 19.15.

Erano presenti: Ambrosini, Bozzi, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan e Uberti.

Assenti: Bocconi, Bulloni, Porzio e Targetti.

ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(SECONDA SEZIONE)

12.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Presidente – Ambrosini – Targetti – Calamandrei, Relatore – Castiglia, Relatore – Bozzi – Leone Giovanni, Relatore – Cappi – Ravagnan – Laconi – Di Giovanni – Uberti.

La seduta comincia alle 9.30.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

PRESIDENTE dichiara di essere fermamente convinto che il potere giudiziario debba veramente autogovernarsi, senza intromissioni dei poteri esecutivo o legislativo. Il problema da risolvere è piuttosto quello del collegamento fra i tre poteri; ma, mentre fra il legislativo e l’esecutivo i punti di contatto sono più facilmente ravvisabili, per il giudiziario si presentano maggiori difficoltà, e il fatto di aver pensato di porre il Presidente della Repubblica a capo del Consiglio superiore della Magistratura sta a dimostrarlo.

Non ravvisa il pericolo del crearsi di una casta chiusa della Magistratura, bensì l’inconveniente del formarsi di un potere quasi del tutto avulso dalla vita dello Stato; e ritiene che il punto più delicato sia quello dell’indipendenza del giudice nell’interno dell’organizzazione del potere giudiziario, perché anche i magistrati sono uomini e, come tali, soggetti alle debolezze dell’umana natura.

Ritiene quindi che, dopo aver stabilito l’autogoverno della Magistratura, debbano essere fissate norme per le quali il giudice, nello svolgimento della sua carriera, sia sottratto ad ogni subordinazione, imposizione o prevalenza.

Concludendo, dichiara di essere favorevole al testo proposto dall’onorevole Calamandrei.

AMBROSINI è d’avviso che nella Carta costituzionale ci si debba limitare ad affermare il principio generale dell’indipendenza della Magistratura. Pur rendendosi conto delle considerazioni fatte da vari colleghi sulla necessità di garantire l’indipendenza del giudice, soprattutto per quello che si riferisce alle promozioni, trasferimenti, ecc., ritiene che questi problemi non debbano essere risolti dalla Costituzione.

Dichiara quindi che voterà a favore dell’articolo 16 della relazione Calamandrei, che è, a suo avviso, il più sintetico e il più chiaro. Subordinatamente accetterebbe la formulazione proposta dagli onorevoli Cappi e Uberti, in quanto sostanzialmente riguardante il concetto dell’indipendenza della Magistratura, non solo dal punto di vista dell’affermazione del principio, ma anche da quello del congegno speciale per il quale il principio stesso può essere tradotto in atto; e sarebbe anche favorevole ad affidare la presidenza del Consiglio superiore della Magistratura al Primo Presidente della Corte di cassazione, includendovi due membri nominati del Presidente della Repubblica.

TARGETTI non è favorevole all’articolo 16 proposto dall’onorevole Calamandrei, che implicitamente e in via incidentale risolve anche la questione di particolare rilievo delle funzioni del Pubblico Ministero, in quanto non fa distinzione alcuna fra giudici e magistrati, ma, parlando in genere della Magistratura, comprende anche i rappresentanti del Pubblico Ministero.

CALAMANDREI, Relatore, insiste sull’articolo da lui proposto, di cui il primo comma è così formulato:

«Autogoverno della Magistratura. – La Magistratura, della quale fanno parte i magistrati ed i loro ausiliari di tutte le categorie specificate dalla legge sull’ordinamento giudiziario, costituisce un ordine autonomo che provvede da sé, e senza alcuna ingerenza del potere esecutivo, al proprio governo».

Crede che questo sia preferibile, anche perché contiene l’esplicita enunciazione del principio dell’autogoverno, che negli articoli degli onorevoli Leone, Bozzi e Cappi è invece sottinteso. Attira poi l’attenzione sulla frase: «e senza ingerenza alcuna del potere esecutivo», con la quale si viene ad escludere che il Consiglio superiore della Magistratura possa esser presieduto dal Presidente della Repubblica, in quanto capo del potere esecutivo, e che il Pubblico Ministero possa essere alle dipendenze del Ministro Guardasigilli.

CASTIGLIA, Relatore, è favorevole all’articolo 16 dell’onorevole Calamandrei, perché lo ravvisa coerente, nei confronti della relazione Patricolo, con il principio dell’assoluta divisione dei poteri e dell’indipendenza del magistrato.

BOZZI ritiene che si dovrebbe innanzitutto decidere sulla sostanza del sistema, per poi stabilire se sia o meno il caso di fare un’enunciazione di principio in relazione alle norme fissate. Propone quindi che l’articolo 16 dell’onorevole Calamandrei sia temporaneamente accantonato, dichiarando tuttavia di essere personalmente contrario ad inserirlo nella Costituzione, in quanto enunciativo e non normativo.

Fa poi osservare che, oltre alla questione sollevata dall’onorevole Targetti sul Pubblico Ministero, vi è il fatto che, parlando di «ausiliari in tutte le categorie», si potrebbe pensare che questi facciano parte del potere giudiziario organizzato ed essere comuni funzionari amministrativi.

LEONE GIOVANNI, Relatore, è d’avviso che sarebbe preferibile stabilire innanzitutto le funzioni e la composizione del Consiglio superiore della Magistratura, per poi decidere se sia il caso di inserire una definizione di principio.

CALAMANDREI, Relatore, propone di sospendere provvisoriamente l’esame dell’articolo 16, per decidere se sia o meno opportuno, e in quale forma, fare un’enunciazione di principio programmatica riguardante l’autogoverno; studiare un primo articolo che dicesse che la Magistratura è governata da Consigli giudiziari regionali e dal Consiglio superiore: un secondo articolo che stabilisse la composizione dei Consigli regionali (con magistrati eletti fra essi stessi, secondo le norme sull’ordinamento giudiziario) e del Consiglio superiore; e un terzo articolo che ne fissasse i poteri. Si dovrebbero inoltre prevedere altri tre articoli relativi all’inamovibilità e alle promozioni e trasferimenti dei magistrati.

AMBROSINI dissente dalla proposta Calamandrei, ritenendo che sia necessario inserire innanzitutto un’enunciazione di principio (come si è fatto in tutte le Costituzioni quando si è trattato di impostazione di istituti), particolarmente necessaria in Italia dopo il ventennio fascista. Ritiene perciò che, dopo approvata la prima parte dell’articolo 16 dell’onorevole Calamandrei (la quale tuttavia, a suo avviso, dovrebbe essere modificata nel modo seguente: «La Magistratura costituisce un ordine autonomo non soggetto ad alcuna ingerenza del potere esecutivo»), si potrebbe senz’altro passare alla proposta Cappi-Uberti, alla quale, dopo aver stabilito nella prima parte che le nomine devono avvenire per pubblico concorso e che le promozioni, i trasferimenti e, in genere, il governo della Magistratura sono affidati al Consiglio superiore della Magistratura, si dovrebbe aggiungere una seconda parte così formulata:

«Il Consiglio superiore è composto di venti membri, dei quali dieci nominati dai magistrati, otto dall’Assemblea Nazionale e due dal Presidente della Repubblica. Il Consiglio è presieduto dal Presidente della cassazione».

CAPPI sarebbe favorevole ad inserire, come inizio dell’articolo da lui proposto, la frase: «La Magistratura costituisce un ordine autonomo», ma è contrario a precisare il numero dei componenti del Consiglio superiore che dovrebbe, a suo avviso, essere fissato dalla legge sull’ordinamento giudiziario. Fa inoltre osservare che, mentre si pensa di escludere l’ingerenza del potere esecutivo, far nominare due membri dal Presidente della Repubblica equivarrebbe a farli designare dal Governo.

TARGETTI ritiene che la presenza di due membri in più nominati dal Presidente della Repubblica, oltre a quelli designati dal Parlamento, potrebbe evitare che il carattere e la natura del Consiglio stesso dipendessero esclusivamente dalla scelta e dalla decisione del potere legislativo.

Non sarebbe inoltre contrario a che fosse designato alla Presidenza il Primo Presidente della Corte di cassazione in luogo del Ministro della giustizia, quando fosse stabilito che rimarrà, secondo il recente decreto Togliatti, se non la direzione, la vigilanza del Ministro sul funzionamento della giustizia, della quale questi dovrà rispondere davanti alle Camere. Altrimenti non approverebbe la sostituzione.

AMBROSINI non può aderire alla proposta Targetti che del Consiglio superiore facciano parte due membri nominati dal Presidente della Repubblica oltre quelli designati dall’Assemblea, in quanto con ciò si porrebbero i magistrati in minoranza e di tutte le decisioni resterebbe arbitro il potere esecutivo.

Insiste quindi affinché sia posta in votazione la sua formula:

«La Magistratura costituisce un potere autonomo non soggetto ad alcuna ingerenza del potere esecutivo».

RAVAGNAN non trova opportuna la parola «ingerenza».

PRESIDENTE fa osservare che qui ha il significato di indebita interferenza.

LACONI ritiene che la formula Ambrosini dovrebbe essere limitata alla sola affermazione dell’autonomia, in quanto aggiungere l’esclusione di ogni ingerenza da parte del potere esecutivo significherebbe fare una affermazione di indole storica e di carattere polemico rispetto ad una situazione passata.

AMBROSINI non pensa che ciò sia esatto, perché con la formula proposta si intende riaffermare un principio già esistente nella legislazione e in tutta la vita dello Stato moderno. Si tratta sostanzialmente di una esigenza che cominciò a manifestarsi nello stesso Stato assoluto, ove il sovrano si valeva di un potere superiore a quello odierno, dell’esecutivo, per ingerirsi nell’operato del potere giudiziario. Con l’affermazione generica «non soggetto ad ingerenza alcuna del potere esecutivo» non si fa altro che affermare quello che è stato negli ultimi tempi conclamato da tutte le tendenze, senza eccezione alcuna; specialmente in considerazione che il testo di questo, che sarebbe il primo comma di un unico articolo, è immediatamente seguito dalla proposta Cappi-Uberti, nella quale viene concretata l’essenza del contenuto effettivo del divieto di ingerenza del potere esecutivo.

DI GIOVANNI ritiene che la formula: «La Magistratura è un potere autonomo» sia sufficiente, in quanto precisa e concreta.

CAPPI osserva che dicendo che la Magistratura è un potere autonomo, è pleonastica l’aggiunta «non soggetto ad ingerenze», in quanto un organo soggetto ad ingerenza non è autonomo.

AMBROSINI ritiene che, per maggior chiarezza, sia opportuna la precisazione, anche se ciò possa costituire un pleonasmo.

CAPPI propone allora di dire: «non soggetto ad ingerenze di altri poteri».

AMBROSINI replica che ciò non è possibile, perché in pratica il potere legislativo, oltre a quello costituente, hanno sempre il potere di modificare le leggi.

BOZZI aderisce sostanzialmente alla formula Ambrosini, comprensiva di un concetto giuridico – quello dell’autogoverno – e di un concetto politico – quello della non soggezione a ingerenze di vario genere. Ritiene tuttavia che, per attenuare l’affermazione categorica dell’indipendenza dal potere esecutivo, sarebbe preferibile la seguente formula:

«La Magistratura costituisce un ordine autonomo, indipendente da ingerenze politiche o di Governo».

AMBROSINI è contrario ad accentuare un richiamo specifico alle ingerenze politiche e di Governo.

TARGETTI pensa che il punto di dissenso non sia l’autonomia e neppure l’autogoverno, bensì i limiti da porre a questo. Quindi, non ritenendo necessario fissare nella Costituzione i limiti, propone la dizione: «La Magistratura costituisce un ordine autonomo che si governa secondo legge», rimandando alle norme della legge sull’ordinamento giudiziario il regolamento di tale autonomia e conseguentemente anche le sue limitazioni.

CASTIGLIA, Relatore, dato che tutti sono d’accordo sul principio fondamentale dell’indipendenza del potere giudiziario dal potere esecutivo, non comprende perché non si debba fissare questo concetto – che a suo avviso è fondamentale – nella Costituzione.

Dichiara quindi di aderire alla formulazione Ambrosini e chiede che sia messa in votazione.

PRESIDENTE avverte che la formula proposta dall’onorevole Ambrosini sarà votata per divisione.

Pone quindi ai voti la frase: «La Magistratura è un ordino autonomo…».

(È approvata).

Pone ai voti l’aggiunta: «…e indipendente»…

UBERTI dichiara di votare contro, ritenendola superflua.

(È approvata).

PRESIDENTE pone ai voti l’ultima frase: «…dal potere esecutivo».

(Con 6 voti favorevoli e 7 contrari, non è approvata).

Dà lettura della proposta degli onorevoli Bozzi e Leone:

«Il Consiglio superiore della Magistratura garantisce la indipendenza dei magistrati; attua l’alta sorveglianza sugli organi giudiziari; provvede, secondo la legge sull’ordinamento giudiziario, all’ammissione dei magistrati, alle promozioni e ai trasferimenti; esercita la giurisdizione disciplinare; delibera sulle spese nei limiti di assegnazione del bilancio.

«I Consigli giudiziari regionali, costituiti di magistrati eletti a norma della legge sull’ordinamento giudiziario, esprimono il loro parere in materia di promozioni, di trasferimenti e di fatti disciplinari».

Crede opportuno che sia messa in votazione prima la formula Cappi-Uberti, così concepita:

«La nomina, per pubblico concorso, dei magistrati, le promozioni, i trasferimenti, i provvedimenti disciplinari, ed in genere il governo della Magistratura, sono affidati al Consiglio superiore della Magistratura».

BOZZI ritiene che dovrebbe essere posta in votazione per prima la proposta sua e dell’onorevole Leone, in quanto più ampia e completa. Pur apprezzando moltissimo, infatti, la brevità delle formulazioni, fa osservare che, dai dieci articoli proposti dall’onorevole Calamandrei nella relazione, ora si pensa di scendere ad uno solo e molto stringato; e dichiara di trovare strana tale tendenza alla brevità sul problema in esame, quando per altri argomenti si è proceduto in senso inverso.

PRESIDENTE pone in votazione la formula proposta dagli onorevoli Bozzi e Leone.

TARGETTI dichiara di votare contro, preferendo l’articolo proposto dagli onorevoli Cappi e Uberti, più conciso e informato a concetti che maggiormente rispondono alla sua concezione.

(Non è approvata).

BOZZI chiede che cosa si voglia intendere con l’inciso «per pubblico concorso» nella formula Cappi-Uberti, in quanto, se si vuole affermare il principio che tutti i magistrati debbono essere ammessi per pubblico concorso, la frase è indiscutibilmente breve ma egualmente equivoca, perché può essere interpretata nel senso che l’attribuzione è affidata al Consiglio superiore per i magistrati da nominarsi per pubblico concorso.

Desidera inoltre sapere che cosa si voglia esattamente significare con la frase «e in genere il governo della Magistratura».

CALAMANDREI, Relatore, vorrebbe a sua volta avere due chiarimenti, il primo dei quali coincide con quello chiesto dall’onorevole Bozzi sulla nomina dei magistrati. Infatti, mentre per l’ammissione in carriera la nomina viene fatta per concorso, ve ne sono altre che possono essere fatte da un grado all’altro, come quelle alla Cassazione, e altre per cooptazione, le quali avvengono senza concorso. Vi sono d’altra parte una quantità di partecipanti agli organi giudiziari – assessori, giurati, vice-pretori onorari, conciliatori – i quali non vengono nominati per concorso.

Il secondo chiarimento concerne i Consigli regionali, dei quali nell’ordine del giorno Cappi non si fa cenno.

CAPPI, per quanto riguarda il primo chiarimento, risponde che si rende conto che vi possono essere anche nomine non fatte per pubblico concorso e dichiara di non avere difficoltà a modificare la dizione con la frase «la nomina a norma di legge», lasciando alla legge sull’ordinamento giudiziario di stabilire quali magistrati dovranno essere nominati per pubblico concorso e quali no.

Per quanto riguarda i Consigli regionali, ritiene che la materia non sia da inserire nella Costituzione, ma nella legge sull’ordinamento giudiziario, in quanto i Consigli regionali saranno degli organi decentrati della Magistratura, nei quali forse non saranno rappresentanti del potere legislativo, mentre nel concetto attuale vi è il principio che deve esistere una certa partecipazione di tale potere.

Quanto alla richiesta dell’onorevole Bozzi sull’espressione «il governo della Magistratura», dichiara di non aver difficoltà a toglierla, facendo presente di averla inserita solamente per accentuare l’indipendenza della Magistratura.

TARGETTI pensa che sia più esatto dire, più che altro per una questione di forma, che la nomina è affidata al Consiglio superiore, in quanto in realtà è questo Consiglio che fa la proposta, mentre è il Presidente della Repubblica che fa la nomina.

BOZZI, associandosi a quanto ha detto l’onorevole Targetti, osserva che provvedere alla nomina significa in pratica compiere l’atto formale. Ora, se è il Ministro della giustizia, ossia il potere esecutivo, a compierlo e a stabilire che bisogna fare un concorso, il Consiglio provvederebbe solo formalmente alla nomina, in quanto si sostituirebbe al decreto presidenziale il decreto del Consiglio stesso; mentre, a suo avviso, dovrebbe essere effettivamente il Consiglio superiore a governare e a stabilire il se e il «quantum» per l’amministrazione e tutta la procedura che ad essa attiene.

CALAMANDREI, Relatore, chiede se con la formula proposta si intenda assorbire l’articolo 20 del suo progetto, dedicato alle nomine; perché, ove non lo si ritenesse assorbito, le modalità potrebbero essere rinviate a quella sede.

CAPPI ritiene che le modalità debbano essere demandate alla legge.

BOZZI è d’avviso che il problema non riguardi soltanto le nomine. Infatti, per l’articolo 20 dell’onorevole Calamandrei, mentre il Consiglio superiore detta le regole per l’ammissione, l’atto formale della nomina è devoluto al Presidente della Repubblica. Ora, al Consiglio superiore non si deve affidare solamente la nomina dei magistrati, ma tutto quel complesso di attività che costituiscono l’ammissione in carriera.

PRESIDENTE pone ai voti la formula Cappi-Uberti, così modificata:

«Le assunzioni, le assegnazioni di sede, le promozioni, i trasferimenti di magistrati, i provvedimenti disciplinari, ed in genere il governo della Magistratura, sono demandati, a norma della legge sull’ordinamento giudiziario, al Consiglio superiore della Magistratura».

(È approvata).

Avverte che si passa all’esame della proposta Cappi-Uberti nella parte relativa alla composizione del Consiglio superiore della Magistratura:

«…composto di membri nominati per metà dai magistrati stessi, per metà dall’Assemblea Nazionale…».

LEONE GIOVANNI, Relatore, ritiene che qui si debbano porre dei limiti per non correre il rischio di avere un Consiglio superiore composto esclusivamente di magistrati inferiori. Quindi, la necessità di ammettere anzitutto come membri di diritto il Primo Presidente della cassazione ed il Procuratore generale, lasciando elettivo il resto dei membri. Qui si può scegliere tra una formulazione più analitica oppure più sintetica; ma occorre sempre una norma diretta a stabilire che ciascuna categoria abbia nel Consiglio la sua rappresentanza.

UBERTI ritiene che ciò non sia possibile, in quanto, se si dovesse nel futuro fare un ordinamento sulla materia, bisognerebbe modificare la Costituzione. Pensa quindi che debba spettare alla legge di stabilire le modalità.

LEONE GIOVANNI, Relatore, propone la formula: «dei quali cinque eletti tra le categorie dei magistrati indicati dalla legge sull’ordinamento giudiziario».

LACONI preferirebbe dire: «eletti da tutti i magistrati».

UBERTI osserva che si dovrà fare una specie di legge elettorale per il modo di elezione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, fa presente che quando si è trattato della Camera dei Deputati si è parlato soltanto di elettori.

CALAMANDREI, Relatore, rileva che, dato che si è stabilito che i componenti la seconda Camera sono eletti dalle Assemblee regionali, si potrebbe stabilire anche che i Consigli regionali nominano in secondo grado i magistrati per il Consiglio superiore.

AMBROSINI fa osservare che fino ad ora dei Consigli regionali non si è parlato.

PRESIDENTE pone ai voti la seguente formulazione, concordata fra gli onorevoli Cappi-Uberti e Targetti:

«Il Consiglio superiore della Magistratura è composto di membri eletti per metà da tutti i magistrati, e scelti fra le loro diverse categorie stabilite dalla legge e per metà dall’Assemblea nazionale».

CASTIGLIA, Relatore, dichiara di votare contro, partendo dal principio che il Consiglio superiore dovrebbe essere composto soltanto ed esclusivamente di magistrati.

PRESIDENTE e CALAMANDREI si associano all’onorevole Castiglia.

(È approvata).

PRESIDENTE avverte che si passa a discutere della Presidenza del Consiglio superiore.

UBERTI propone di stabilire come Presidente il Presidente della Repubblica e Vicepresidente il Ministro della giustizia.

TARGETTI non esclude di potersi decidere a votare la proposta degli onorevoli Cappi e Uberti che il Presidente sia il Ministro della giustizia, in mancanza di una soluzione migliore. Osserva, tuttavia, che con ciò si verrebbe a dare la prevalenza all’elemento estraneo e ad accentuare il carattere politico della Presidenza stessa. Bisogna invece, a suo avviso, evitare che la Magistratura abbia l’impressione che si voglia affermare una sua soggezione al potere esecutivo; il che sarebbe l’opposto di quanto tutti pensano. Per tali ragioni, propone un emendamento alla proposta Cappi, nel senso che Presidente del Consiglio superiore sia il Presidente della Repubblica, Vicepresidente il Ministro di grazia e giustizia e che ne facciano parte di diritto il Primo Presidente e il Procuratore generale della cassazione. In tal modo si darebbe più larga rappresentanza alla Magistratura, mentre la Presidenza e la Vicepresidenza non spetterebbero a magistrati e si ottempererebbe così alle varie esigenze, evitando i temuti inconvenienti.

DI GIOVANNI è favorevole alla proposta Uberti.

AMBROSINI, in coerenza al principio da lui sostenuto, voterà perché la Presidenza del Consiglio superiore sia affidata al Primo Presidente della Corte di cassazione.

CASTIGLIA, Relatore, per coerenza con la relazione Patricolo, propone che la Presidenza sia affidata al Capo del potere giudiziario.

CAPPI ritiene che in caso di parità dei voti debba prevalere il voto del Presidente.

LEONE GIOVANNI, Relatore, è d’avviso che la proposta Uberti non risponda a nessuna esigenza, in quanto, se si ritiene esatto il dare la Presidenza al Presidente della Repubblica per la serie di ragioni enunciate, a suo avviso non si comprende la Vicepresidenza concessa al ministro. Pensa infatti che a questi o si concede la Presidenza o non si concede nulla, in quanto la Presidenza creerebbe l’elemento di legame tra il potere esecutivo e il giudiziario, mentre con la Vicepresidenza, non essendo il ministro il capo del Consiglio superiore, da una parte esso verrebbe posto allo stesso livello degli altri componenti, e dall’altra non gli sarebbe concesso nessun potere in quanto non avrebbe responsabilità politica alcuna.

UBERTI ritiene che estraniare del tutto dal Consiglio superiore il Ministro Guardasigilli sarebbe eccessivo ed illogico. Non è esatto, a suo avviso, che con la nomina a Vicepresidente la sua figura verrebbe svalutata, in considerazione che il Presidente della Repubblica presiederà effettivamente il Consiglio superiore nei casi eccezionali, mentre in linea di massima spetterà al Ministro Guardasigilli la presidenza effettiva.

LACONI propone di modificare la proposta Targetti nel senso che membro di diritto del Consiglio superiore dovrebbe essere solamente il Presidente della Corte di cassazione.

AMBROSINI insiste perché la Presidenza sia affidata ad un magistrato, e precisamente al Primo Presidente della Corte di cassazione.

PRESIDENTE pone in votazione la proposta dell’onorevole Ambrosini, consistente nell’affidare la Presidenza al Primo Presidente della Corte di cassazione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, chiede che la votazione sia fatta per appello nominale.

PRESIDENTE indice la votazione nominale.

Rispondono Sì: gli onorevoli Ambrosini, Calamandrei, Castiglia, Conti.

Rispondono No: Cappi, Di Giovanni, Farini, Laconi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Si astengono: Bozzi, Leone Giovanni, Mannironi.

(Con 4 voti favorevoli, 7 contrari e 3 astensioni, non è approvata).

PRESIDENTE pone in votazione per appello nominale la proposta che la Presidenza sia conferita al Presidente della Repubblica con la Vicepresidenza del Primo Presidente della Corte di cassazione.

CASTIGLIA dichiara di votare a favore come subordinata.

Rispondono Sì: Ambrosini, Bozzi, Castiglia, Conti, Leone Giovanni.

Rispondono No: Calamandrei, Cappi, Di Giovanni, Farini, Laconi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

(Con 5 voti favorevoli e 8 contrari, non è approvata).

PRESIDENTE pone in votazione la proposta che la Presidenza sia conferita al Presidente della Repubblica con la Vicepresidenza del Ministro Guardasigilli e membro di diritto il Primo Presidente della Corte di cassazione.

LEONE GIOVANNI, Relatore, dichiara di astenersi dal voto.

AMBROSINI dichiara di votare contro.

(Con 8 voli favorevoli, 4 contrari e un’astensione, è approvata).

La seduta termina alle 11.50.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Mannironi, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Erano assenti: Bulloni, Porzio.

GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

9.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI GIOVEDÌ 9 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Lussu – La Rocca, Relatore – Perassi – Fabbri – Nobile – Tosato, Relatore – Mortati – Einaudi – Fuschini – Piccioni – Codacci Pisanelli.

La seduta comincia alle 16.45.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE propone che si discuta la formula proposta dall’onorevole Fuschini – alla quale ha aderito anche l’onorevole Mortati – in quanto ritiene che in gran parte rispecchi le opinioni manifestate nel corso delle ultime sedute. Ne ricorda quindi il tenore:

«L’Assemblea Nazionale è convocata ogni volta che si debba procedere alla formazione del Governo.

«La persona designata dal Capo dello Stato per la carica di Primo Ministro espone innanzi all’Assemblea le direttive politiche dell’azione governativa e i principali mezzi proposti per la loro attuazione.

«Nel caso che tale programma sia approvato con il voto nominativo della maggioranza dei componenti l’Assemblea, il Capo dello Stato investe nella carica il designato e su proposta di questi procede alla nomina dei Ministri».

LUSSU esprime l’avviso che questo modo di procedere faccia perdere del tempo e ritardi la conclusione. Ricorda che, prima ancora che gli onorevoli Mortati e Fuschini presentassero le loro proposte, si è lungamente discusso, senza arrivare ad una decisione, sulla formula del Comitato, che si ispira al criterio di considerare il Capo del Governo, non come il primus inter pares, ma come una figura preminente in quanto responsabile della direzione e dell’attuazione della politica del Governo. Crede pertanto che, prima di prendere in considerazione nuovi progetti, accumulando materiale e complicando la questione, si debba decidere definitivamente sullo schema del Comitato.

PRESIDENTE fa presente che la formula in parola rappresenta un emendamento al progetto del Comitato e, come vuole la prassi, su di esso si deve anzitutto decidere. Appunto per questa ragione si è già votato sull’emendamento Nobile, come quello che maggiormente si allontanava dal progetto stesso.

LA ROCCA, Relatore, entrando nel merito, dopo aver ricordato che già a suo tempo ebbe a fare le sue riserve sul modo come è stato concepito il sistema bicamerale e particolarmente sugli inconvenienti che derivano dall’aver posto le due Camere su un piede di parità, osserva che lo schema dell’onorevole Fuschini, in quanto prevede la convocazione dell’Assemblea Nazionale per procedere alla formazione del Governo, si discosta dal sistema parlamentare che è stato approvato. Infatti, mentre si è ritenuto di dover dividere il Parlamento in due rami, lo si fa poi funzionare a Camera unica, oltre che per determinate deliberazioni di particolare importanza (dichiarazione di guerra, amnistia, ecc.), anche per il voto di fiducia o sfiducia al Governo, senza considerare che vengono così a riunirsi due organi che hanno un’origine diversa, poiché l’uno è eletto a suffragio universale diretto e l’altro con elezioni di secondo grado. Se non si vuole minare alla radice il sistema bicamerale, è necessario che le due Camere funzionino separatamente nell’accordare o negare la fiducia al Governo, ovvero che promanino entrambe dal suffragio diretto.

PERASSI, per mozione d’ordine, dichiara che, quando nella seduta precedente si è votata la proposta dell’onorevole Nobile, secondo la quale il Primo Ministro è nominato dal Presidente della Repubblica su designazione dell’Assemblea Nazionale, si è inteso mantenere la discussione sul sistema della designazione, prescindendo dall’organo incaricato della designazione stessa. Per proseguire col metodo già iniziato, si dovrebbe attualmente esaminare della proposta Fuschini soltanto la parte relativa al procedimento per la nomina del Primo Ministro, e decidere se la nomina stessa da parte del Capo dello Stato debba essere subordinata alla presentazione come candidato di fronte all’organo parlamentare, che in seguito si indicherà, e ad un voto di tale organo.

PRESIDENTE non crede che si possa economizzare del tempo seguendo il metodo consigliato dall’onorevole Perassi e ritiene che debba essere presa in considerazione la questione pregiudiziale sollevata dall’onorevole La Rocca.

FABBRI esprime l’avviso che si possa considerare acquisito il risultato di una votazione, nel senso che l’incarico al Primo Ministro viene conferito dal Capo dello Stato, e che quindi l’alternativa che ora si pone è la seguente: se il Primo Ministro debba presentarsi all’organo parlamentare che sarà in seguito indicato prima o dopo aver composto il Ministero.

Personalmente ritiene che la ratifica da parte dell’organo parlamentare possa intervenire soltanto dopo che il Primo Ministro abbia composto il Gabinetto e precisato il programma politico. In questo senso non può approvare il sistema proposto dall’onorevole Fuschini, che non consentirebbe un voto utile e obiettivo da parte dell’organo parlamentare e renderebbe l’esposizione del candidato Primo Ministro un soliloquio gravido di incognite, per esprimere propositi vaghi, nel disagio di dover prendere impegni verso gruppi parlamentari.

NOBILE aderisce pienamente alla mozione d’ordine dell’onorevole Perassi.

TOSATO, Relatore, considera come una complicazione inutile il sistema secondo il quale il Primo Ministro deve essere designato dal Capo dello Stato, approvato dall’organo parlamentare e nominato quindi definitivamente dal Capo dello Stato stesso. Trova invece concepibile soltanto una nomina da parte del Capo dello Stato, sottoposta successivamente all’approvazione del Parlamento; e quindi insiste sulla formula del Comitato, per la quale il Primo Ministro e i Ministri vengono nominati dal Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE dissente recisamente dall’opinione dell’onorevole Lussu, il quale è favorevole ad una posizione di preminenza del Capo del Governo, e aderisce invece alla vecchia formula – risultato di una saggia elaborazione degli uomini di Stato italiani nei primi sessanta anni di vita unitaria del Paese –– di un Presidente del Consiglio dei Ministri primus inter pares. Ritiene che la figura del Primo Ministro possa balzare in primo piano unicamente per le doti personali di un uomo c per ciò che rappresenta in seno al gruppo politico al quale appartiene, ma non sia opportuno rendere costituzionalmente il Primo Ministro simile ad un Cancelliere. È infatti una caratteristica propria del cancellierato quella di un Capo del Governo che risponde personalmente al Capo dello Stato, mentre i Ministri rispondono a lui.

A questo proposito, osserva che anche la successione, prevista nell’articolo 19 del Comitato, nei momenti della nomina del Primo Ministro e di quella dei Ministri, corrisponde ad una prassi che si è ormai affermata nella vita costituzionale italiana, ma, introdotta nel testo della Costituzione, sembra voler sottolineare la preminenza del Primo Ministro e l’investimento nella sua persona di una autorità alla quale egli è contrario. È ormai universalmente accettato il sistema di procedere in primo luogo alla designazione del Presidente del Consiglio dei Ministri, lasciando a questi di condurre le trattative per la scelta dei Ministri, ed è assurdo pensare che il Presidente della Repubblica possa presumere di scegliere egli stesso i Ministri. A suo avviso, si dovrebbe trovare una formula che, senza indicare questa successione di momenti nelle varie nomine, sottolineasse il concetto della responsabilità collegiale.

LUSSU fa osservare che il principio di una autorità prevalente del Primo Ministro non è una sua idea personale – come il Presidente sembra ritenere – ma un’opinione unanime del Comitato (tranne la contrarietà dell’onorevole La Rocca), che ha avvertito questa esigenza in vista di quel complesso di difficoltà che tutti hanno notato nella vita politica italiana dopo la liberazione.

La stessa preoccupazione è stata sentita in Francia ed ha portato, nella nuova Costituzione, a dare maggior rilievo alla figura del Primo Ministro ed a stabilire per la sua nomina un sistema analogo a quello proposto dall’onorevole Fuschini. Secondo la Costituzione francese, al principio di ciascuna legislatura il Presidente della Repubblica, dopo le consultazioni d’uso, designa il Presidente del Consiglio. Questi non può costituire il suo Gabinetto che dopo essere stato investito della fiducia dell’Assemblea. Il Comitato di redazione si è discostato nel suo progetto dal sistema francese di nomina del Primo Ministro, non ritenendolo rispondente alle abitudini costituzionali e alle tradizioni politiche italiane, ed ha elaborato un testo – sulla cui approvazione personalmente insiste – perfettamente aderente alle esigenze di una moderna democrazia.

Riconosce che in un Governo di coalizione come l’attuale ben poco gioverebbe al Primo Ministro, anche se circondato da un notevole prestigio personale, l’autorità che gli conferirebbero norme costituzionali come quelle in esame. Fa tuttavia presente che nell’esposizione del suo punto di vista intende riferirsi ad un Governo con una struttura omogenea, che risulti magari dalla coalizione di più partiti, purché si propongano le stesse finalità. Né può considerarsi lesivo dei principî democratici il concetto di un Capo di Governo che abbia l’autorità che ha quello inglese come leader del partito di maggioranza. Democrazia significa organizzazione politica dello Stato, con autorità e prestigio e sovrana possibilità di guidare il Paese, anche in momenti difficili, senza i tentennamenti e le confusioni caratteristiche nella decadenza parlamentare dei Paesi occidentali.

TOSATO, Relatore, rispondendo ad una osservazione del Presidente, avverte che con la formula dell’articolo 19 non si è inteso sottolineare la posizione del Presidente del Consiglio, ma solo tradurre in una norma una prassi costituzionale. Desidera altresì chiarire che anche con la dizione dell’articolo 20 («il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo») non si è pensato di dare una preminenza assoluta al Primo Ministro, nel senso di attribuire esclusivamente a quest’ultimo la determinazione dell’indirizzo generale politico del Governo. Si può ammettere la eguale competenza di tutti i Ministri a concorrere alla determinazione della politica generale del Governo. Ma non si può non ammettere al tempo stesso e riconoscere la necessità che la politica del Governo, approvata dal Parlamento, venga poi realizzata e attuata con quella continuità, tempestività e soprattutto con quella unità che sono universalmente sentite come una esigenza imprescindibile dell’azione di Governo. La concezione del Primo Ministro come di un primus inter pares è superata e inaccettabile. Nelle condizioni presenti, e in particolare nei Governi di coalizione, essa significa la dissoluzione dell’idea e della funzione di Governo. Questo ha bisogno di un capo che abbia la responsabilità e quindi i poteri necessari all’attuazione del programma politico del Governo stesso. Si dichiara quindi disposto soltanto a precisare che il Primo Ministro è responsabile «dell’attuazione» della politica generale del Governo, restando così sottinteso, ma chiaramente comprensibile, che, giusta le regole normali dei Governi parlamentari, la politica stessa deve essere deliberata dal Consiglio dei Ministri e approvata dal Parlamento.

MORTATI ripete quanto ebbe a rilevare in una precedente seduta; cioè che negli articoli in esame si pongono due problemi: quello dell’ordinamento interno del Gabinetto e quello dei rapporti tra Governo e Parlamento. Se si vuole giungere rapidamente ad una conclusione, è necessario scindere i due argomenti ed affrontarli uno alla volta. Personalmente ritiene opportuno esaminare anzitutto il secondo.

Ricorda che la proposta dell’onorevole Fuschini – alla quale egli aveva aderito – stabilisce la seguente procedura: designazione da parte del Capo dello Stato della persona candidata alla carica di Primo Ministro; esposizione innanzi all’Assemblea Nazionale delle direttive politiche dell’azione governativa e dei principali mezzi proposti per la loro attuazione; voto di fiducia; investitura, da parte del Capo dello Stato, del designato nella carica ed infine nomina dei Ministri su proposta del Primo Ministro. Avverte quindi che, in seguito alle considerazioni svolte nel corso dell’odierna seduta, particolarmente dall’onorevole Tosato, ritiene opportuno proporre il seguente nuovo testo che si avvicina di più a quello del Comitato:

 

«Art. 19. – Il Capo dello Stato, effettuate le necessarie consultazioni, nomina il Primo Ministro. Su proposta di questo, procede alla nomina dei Ministri.

«Entro quindici giorni dalla formazione, il Governo promuove la convocazione dell’Assemblea Nazionale, allo scopo di esporre ad essa le direttive politiche dell’azione del Governo ed i principali mezzi proposti per la loro attuazione.

«La pronuncia dell’Assemblea sul programma governativo deve avvenire su una mozione motivata con voto nominativo della maggioranza dei suoi componenti».

Fa osservare che questa sua formula risolve il problema dei rapporti tra Gabinetto e Parlamento e si discosta da quella del Comitato soltanto per ciò che, mentre quella tace sulla questione del voto di fiducia preliminare, in quanto non lo ritiene elemento necessario per la composizione del Gabinetto, soffermandosi invece sul voto di sfiducia, la sua proposta rovescia la situazione, tacendo sul voto di sfiducia e accentuando gli effetti del voto di fiducia.

EINAUDI, per le considerazioni già esposte nelle precedenti sedute, si dichiara favorevole all’articolo 19 del Comitato, che senza dir nulla intorno alla questione della preminenza o meno del Primo Ministro nei confronti degli altri Ministri, afferma tuttavia una cosa importante, cioè che tra questi e il Primo Ministro deve esistere una reciproca fiducia. Con l’espressione: «I Ministri sono nominati e revocati dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo Ministro», si afferma appunto questo concetto, che è necessario per l’unità del Gabinetto ed implica che i Ministri non possono essere proposti – se non indirettamente – dai partiti al Primo Ministro; ma questi li sceglierà da sé tra i rappresentanti dei partiti politici che gli possano assicurare una maggioranza.

LA ROCCA, Relatore, nel riaffermare il suo parere favorevole ad un sistema che preveda la designazione (non la nomina), da parte del Capo dello Stato, del Primo Ministro e dei Ministri, e il voto di fiducia dei due rami del Parlamento in seguito all’esposizione del programma e la successiva investitura nella carica, insiste nella sua proposta che la designazione da parte del Capo dello Stato sia preceduta dalle consultazioni di uso, in modo da rispecchiare gli orientamenti politici, i rapporti di forze dei partiti e la volontà delle Assemblee legislative.

FABBRI nota che l’intervento dell’onorevole La Rocca rileva un nuovo aspetto del problema: prima del voto di fiducia delle due Camere non esisterebbero né un Primo Ministro né dei Ministri; esisterebbero soltanto persone designate. Quindi potrebbe esservi un lungo intervallo di tempo, richiesto dalla esigenza stessa di predisporre il programma, in cui praticamente si rimarrebbe senza Governo.

Una tale concezione, oltre a sorprenderlo, lo trova completamente contrario, in quanto egli ritiene che la funzione del potere esecutivo debba essere permanente. A suo avviso, la nomina del Ministero, seppure condizionata al voto di fiducia, deve preesistere a questo; s’intende peraltro che, dopo la formazione del Gabinetto, il Parlamento deve essere immediatamente convocato.

NOBILE concorda con l’onorevole La Rocca e non condivide la preoccupazione dell’onorevole Fabbri circa un intervallo di tempo in cui il Paese rimarrebbe senza Governo. Ritiene che ciò non possa avvenire, perché fino a quando il nuovo Governo non entrerà in funzione, resterà in carica il precedente.

Per quanto concerne il voto di fiducia, è del parere che dovrebbe darsi all’intero Ministero e non al solo Primo Ministro.

TOSATO, Relatore, rileva che alla esigenza fatta presente dall’onorevole Nobile soddisfa l’articolo 22 del progetto, il quale, dicendo che il Primo Ministro e i Ministri debbono godere la fiducia dell’Assemblea Nazionale, implica che, secondo la prassi, il Governo, una volta costituito, debba presentarsi alle due Camere per ottenerne il voto di fiducia. Affinché questo risulti ancor più chiaramente, propone la presente formula:

«Il Governo, costituito a norma dell’articolo 19, deve presentarsi all’Assemblea Nazionale di fronte alla quale è responsabile, per ottenerne la fiducia».

PRESIDENTE riassumendo la discussione, constata che ci sono due questioni da risolvere: 1°) se il Capo dello Stato sia tenuto a far precedere la sua scelta dalle consultazioni d’uso (ciò che è previsto anche nell’ultima formula dell’onorevole Mortati); 2°) se tra la nomina del Primo Ministro e dei Ministri debba esservi una successione di tempo, per cui si abbia anzitutto l’investitura del Primo Ministro con la sua presentazione alla Assemblea per ottenere personalmente il voto di fiducia, e successivamente la nomina dei Ministri.

Pone quindi in votazione la formula dell’onorevole Nobile così concepita:

«Il Primo Ministro e i Ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica, dopo essersi consultato con i Presidenti delle due Camere e con i capi dei vari gruppi politici che fanno parte di queste».

(Non è approvata).

Pone in votazione il primo comma dell’articolo proposto dall’onorevole Mortati, quale risulta in seguito a piccole modifiche di forma che egli suggerisce:

«Il Presidente della Repubblica, effettuate le normali consultazioni, nomina il Primo Ministro. Su proposta di questo, procede alla nomina dei Ministri».

(È approvato).

Ricorda che, in merito al voto di fiducia delle Camere, esistono varie proposte: una prima dell’onorevole Mortati, secondo la quale il Governo, entro quindici giorni dalla formazione, promuove la convocazione dell’Assemblea Nazionale allo scopo di esporre ad essa le direttive politiche dell’azione del Governo ed i principali mezzi proposti per la loro attuazione; una seconda, dell’onorevole Nobile, a tenore della quale il Governo, entro tre giorni dalla data della nomina, deve esporre davanti a ciascuna Camera il suo programma, provocando un voto di fiducia; una terza, dell’onorevole Tosato, per cui il Governo deve presentarsi all’Assemblea Nazionale per ottenerne la fiducia; una quarta dell’onorevole Fuschini.

FUSCHINI dichiara di ritirare la sua proposta e di accedere alla formulazione dell’onorevole Mortati.

PRESIDENTE, circa il termine per la presentazione del Governo di fronte all’organo parlamentare, aderisce alla proposta dell’onorevole Nobile.

MORTATI ritiene necessario un intervallo di tempo maggiore per consentire al Governo di predisporre il suo programma.

FABBRI si associa.

PRESIDENTE replica che il programma è già delineato in precedenza, in quanto i partiti non accetterebbero di mandare i loro rappresentanti al Governo, se non fossero a conoscenza delle intenzioni del designato alla carica di Presidente del Consiglio.

FUSCHINI obietta che l’accordo preventivo verte su di un programma tracciato in maniera generica, ma di fronte alle Camere le direttive generali del Governo debbono essere precisate in modo più concreto.

TOSATO, Relatore, propone di portare il termine per la presentazione del Gabinetto all’organo parlamentare ad otto giorni.

(Così rimane stabilito).

PRESIDENTE, dovendosi decidere dell’organo parlamentare competente per l’investitura di fiducia al Governo, pone in votazione il principio che questo, entro 8 giorni dalla sua composizione, si debba presentare dinanzi all’Assemblea Nazionale, cioè alle due Camere riunite, per ottenere il voto di fiducia.

(Con 6 voti favorevoli e 6 contrari, non è approvato).

Mette ai voti il principio che il Governo debba presentarsi davanti alle due Camere separatamente per ottenere il voto di fiducia.

(Con 6 voti favorevoli e 6 contrari, non è approvato).

Crede opportuno lasciare ora in sospeso la decisione in merito all’organo parlamentare che dovrà accordare la sua fiducia al Governo e di esaminare un’altra questione: se sia da preferire la formula dell’onorevole Mortati (secondo la quale il Ministero già composto deve esporre «le direttive politiche dell’azione del Governo ed i principali mezzi proposti per la loro attuazione. La pronuncia dell’Assemblea sul programma governativo deve avvenire su una mozione motivata con voto nominativo della maggioranza dei suoi componenti») o quella più sintetica dell’onorevole Nobile («deve esporre il suo programma, provocando un voto di fiducia»).

MORTATI chiarisce il suo punto di vista. Premesso che le formule in esame rappresentano più che disposizioni legislative vere e proprie, dei precetti pedagogici che possano servire di incitamento a promuovere un determinato costume, esprime l’avviso che l’avvenire della democrazia dipenderà dai contatti tra il Parlamento e il Paese. Non si è più in quella fase del parlamentarismo in cui il Capo del Governo poteva fare ciò che riteneva più opportuno; la nuova democrazia mira a far partecipare il popolo in modo più completo alle direttive del Governo ed a fargli esercitare, sul mandato rappresentativo, un maggiore controllo, che valga ad aumentare il senso di responsabilità del Parlamento di fronte al Paese. Ora, la specificazione che l’esposizione deve riguardare, non solo le direttive politiche, ma anche i mezzi proposti per la loro attuazione e che la pronuncia dell’Assemblea deve avvenire su una mozione motivata con voto nominativo della maggioranza dei suoi componenti, accentua appunto il senso di responsabilità dell’Assemblea e la impegna maggiormente di fronte al Paese a rispettare l’indirizzo politico solennemente approvato, evitando altresì quelle crisi che spesso sono il risultato di manovre dei partiti.

PRESIDENTE è favorevole alla formula più concisa dell’onorevole Nobile, anche per la considerazione che la dizione dell’onorevole Mortati, ove fosse approvata, finirebbe per essere modificata dal Comitato di coordinamento, che ha appunto il compito di sfrondare gli articoli elaborati dalle Sottocommissioni di tutte le espressioni che non appaiano assolutamente indispensabili a chiarire il valore di una norma.

TOSATO, Relatore, modificando la sua precedente proposta, suggerisce la seguente formula:

«Il Governo, costituito a norma del comma precedente, deve presentarsi entro 8 giorni all’Assemblea Nazionale, per ottenerne la fiducia».

LA ROCCA, Relatore, insiste sul concetto che il voto di fiducia dovrebbe essere dato dalle due Camere distintamente

FUSCHINI obietta che in questo caso occorrerebbe prevedere anche l’ipotesi che una Camera accordi la sua fiducia e l’altra la neghi. Fa presente quindi che si è preferito affermare il concetto che è competente a dare il voto di fiducia o di sfiducia l’Assemblea Nazionale, e che pertanto una mozione di sfiducia di una sola Camera non è sufficiente per far cadere un Governo, appunto per introdurre nella Costituzione una remora contro il frequente ripetersi delle crisi. Riconosce che è un’utopia quella che si possa garantire sicuramente la continuità del Governo, tuttavia è convinto che, se non altro, il sistema in discussione possa rappresentare un correttivo ed una di quelle norme pedagogiche che possono facilitare la creazione di un costume politico.

NOBILE ritiene infondata la preoccupazione che una Camera possa tenere un atteggiamento diverso dall’altra, posto che tra le due Camere non v’è più quella differenza che avrebbe potuto esservi se la seconda avesse avuto durata diversa dalla prima (6 anni) e si fosse rinnovata parzialmente ogni tre anni. L’unica diversità che ancora rimane tra le due Camere è nel diverso modo di elezione dei rispettivi membri; ma, poiché anche nella elezione di secondo grado i partiti eserciteranno la loro influenza, sarà difficile che l’una dia la sua fiducia al Governo e l’altra tenti di rovesciarlo.

FABBRI si dichiara d’accordo sull’opportunità che le due Camere funzionino separatamente e si rammarica che, con la modifica della durata e la soppressione del rinnovamento parziale, si sia alterata la fisionomia della seconda Camera, facendole perdere alcune caratteristiche che prima aveva, sì che l’onorevole Nobile giustamente ha potuto pervenire alla conclusione che ha ora esposto.

Esprime l’avviso che un rimedio contro la frequenza delle crisi si abbia nel far sì che il voto di sfiducia non rappresenti una sorpresa, prescrivendo per esso una procedura che richieda un intervallo di tempo tale da consentire al Governo di richiamare tutte le forze politiche che sono con lui solidali. Non ritiene assolutamente ammissibile che, data la diversa composizione numerica delle due Camere, la mancanza di una maggioranza favorevole in una Camera possa essere surrogata dalla pletora della maggioranza nell’altra.

D’altro canto, dal sistema proposto deriverebbe la conseguenza che ogni qualvolta, durante lo svolgimento dei lavori parlamentari, si profilasse in una Camera l’eventualità di una mozione di sfiducia al Governo, sarebbe necessario sospendere i lavori dei due rami del Parlamento per proseguire la discussione a Camere riunite. Da queste considerazioni deriva che, attribuendo il voto di sfiducia alla competenza dell’Assemblea Nazionale riunita per prendere un’unica deliberazione, si comprometterebbe seriamente tutto il sistema bicamerale.

LUSSU riconosce che la riunione delle due Camere per esprimere il voto di fiducia o di sfiducia al Governo rappresenta un sistema totalmente nuovo, che trova un precedente solo nella recente Costituzione francese. Tuttavia, a tale sistema aderisce con entusiasmo, in quanto ritiene che approvare o rovesciare il Governo sia un atto non meno importante della nomina del Presidente della Repubblica. Per contro, non ammetterebbe che la seconda Camera – la quale non trae origini dal suffragio universale – potesse avere la facoltà di costringere il Governo alle dimissioni. Accettando il criterio di convocare per il voto di fiducia o di sfiducia l’Assemblea Nazionale, non si verrebbe meno al principio della parità delle funzioni tra i due rami del Parlamento e si consentirebbe ad essi di svolgere in modo perfettamente autonomo le funzioni legislative.

PRESIDENTE osserva che vi sarebbe un sistema più drastico – che personalmente preferirebbe – per giungere ad una soluzione: che della fiducia e della sfiducia al Governo fosse investita soltanto la prima Camera. Non si nasconde peraltro che così riaffiorerebbe il tanto discusso problema della parità delle due Camere che ad ogni piè sospinto si riaffaccia.

FABBRI ricorda che, con la Costituzione approvata dopo il 1870, il Senato e la Camera francesi hanno avuto entrambi il potere di concedere o negare la fiducia al Governo e più volte il Governo francese è caduto per voto di sfiducia del Senato, senza che la Nazione avesse a subirne dolorose conseguenze.

PRESIDENTE crede che non sia il caso di richiamarsi alla storia parlamentare francese susseguente alla restaurazione della Repubblica, perché invero non è storia di vicende molto tranquille. Soggiunge che, per quanto possa esservi una notevole diversità tra il Senato di nomina regia e la seconda Camera di formazione elettiva – anche se con elezioni di secondo grado – che verrà istituita, sarà sempre avvertita dall’opinione pubblica una certa differenza tra la prima e la seconda Camera, in quanto quest’ultima richiamerà in parte taluni elementi della struttura e del funzionamento del vecchio Senato.

TOSATO, Relatore, avverte che l’osservazione del Presidente non può essere accolta, anche perché la Sezione è vincolata ad un ordine del giorno, che è servito di guida ai lavori del Comitato, per il quale deve essere creato un Governo parlamentare con dispositivi che ne garantiscano la stabilità e l’unità. A suo avviso, il meccanismo più acconcio per garantire la continuità del Governo è quello di sottrarre la vita del Governo stesso alla volontà dell’una o dell’altra Camera, prese separatamente. È convinto che solo con questo criterio può essere risolto il problema che più assilla gli italiani, quello di un Governo stabile, e che l’idea di regolare i voti di sfiducia, in modo che siano discussi qualche giorno dopo la presentazione, sia un palliativo inefficace.

PERASSI rileva che, col sistema della convocazione dell’Assemblea Nazionale, si rispetta formalmente il criterio della parità delle due Camere, quantunque praticamente si dia una preminenza alla prima per il numero maggiore dei suoi componenti. Conviene con l’onorevole Tosato che sia questo l’unico meccanismo idoneo a dare maggiore stabilità al Governo e dissente nettamente dalla proposta del Presidente, tenuto conto del modo come è stata concepita la seconda Camera. A sostegno del suo punto di vista, ricorda che negli Stati ove esiste una seconda Camera composta in maniera sostanzialmente analoga (ad esempio, il Belgio) la competenza dei due rami del Parlamento è eguale, anche agli effetti del voto di fiducia.

NOBILE si dichiara d’accordo con l’onorevole Tosato sulla mèta da raggiungere – la continuità del Governo – ma fa osservare che il piccolo espediente di riunire in una stessa aula i membri dell’una e dell’altra Camera si rivelerebbe fallace, qualora fosse attuato. Crede che, se mai, l’intento meglio sarebbe raggiunto prescrivendo per la mozione di sfiducia una maggioranza qualificata che ne rendesse più difficile la presentazione.

PICCIONI premette che una delle peggiori conseguenze del parlamentarismo passato è stata la frequenza e la leggerezza con le quali si provocavano le crisi e che quindi la preoccupazione di ogni Commissario deve essere quella di mettere il Paese al riparo dal ripetersi di un tale malcostume, che ripugna al sentimento popolare. A tal uopo crede che nessun sistema sia migliore di quello che comporta la riunione delle due Camere, per decidere della instaurazione di un Governo o della sua permanenza al potere, posto che la seconda Camera è pur essa il riflesso della volontà popolare, anche se eletta mediante un suffragio di secondo grado, ed esiste una tale parità di legittimazione fra le due Camere che si è approvata la parità dei loro poteri. A ciò va aggiunto quanto l’onorevole Lussu ha giustamente ricordato: che per l’elezione del Presidente della Repubblica si è prevista la convocazione dell’Assemblea Nazionale; e la nomina del Ministero è un fatto che riveste una importanza certamente non minore. Esiste dunque un precedente a cui si può far richiamo.

All’onorevole Fabbri, che ha accennato all’inconveniente di una discussione in una delle due Camere che sbocchi in un voto di sfiducia al Governo e faccia interrompere i lavori della Camera stessa, fa osservare che questo non è esatto; tale Camera potrà compiere tutto il ciclo della propria discussione ed arrivare a formulare ed a votare una mozione di sfiducia; ma questa non sarà sufficiente per obbligare il Governo alle dimissioni, perché sarà necessario convocare l’Assemblea Nazionale per riproporre lo stesso problema.

Peraltro, lo scopo principale della proposta non è tanto quello di mettere il Governo al sicuro contro qualsiasi possibilità di voti di sfiducia e di evitare qualsiasi mutamento della compagine governativa, quanto quello di dare ai membri delle due Camere un senso di maggiore responsabilità nel trattare la materia della fiducia al Governo ed a questo una più ampia legittimazione dei suoi poteri.

Per queste considerazioni, raccomanda il criterio proposto, il quale tra l’altro rappresenta un’espressione ancor più coordinata del sistema parlamentare, rendendo più stretti i rapporti tra le due Camere.

EINAUDI rileva che il problema è molto grave, in quanto si crea un metodo di attività parlamentare diverso da quello esistente in ogni altro Paese e si dà vita ad un terzo organo competente a discutere dei problemi fondamentali della vita nazionale. Si tratta dunque di un esperimento, che potrà anche dare buoni risultati, ma del quale la Commissione non può ignorare la gravità. Personalmente è del parere dell’onorevole Fabbri circa la sospensione della discussione nella Camera, ove sia proposta una mozione di sfiducia al Governo, per riprenderla dinanzi all’Assemblea Nazionale.

Quanto all’opinione dell’onorevole Piccioni, che col sistema in parola si accresca il senso di responsabilità delle Camere, dichiara di dubitare che essa corrisponda alla realtà e di temere anzi che possa verificarsi il contrario, perché una Camera potrà essere portata a votare con maggior leggerezza la sfiducia al Governo, quando sappia che la sua decisione non è irrevocabile e, se avventata, potrà essere modificata dal nuovo organo. Si chiede inoltre se, dati i nostri costumi parlamentari che non è facile cambiare, un Governo potrebbe resistere al voto di sfiducia di una sola delle due Camere, ed in quale posizione morale si verrebbero a trovare quei Ministri che fanno parte della Camera che ha votato la sfiducia.

Conclude invitando i colleghi a riflettere attentamente, prima di approvare un sistema che potrebbe dare risultati opposti a quelli desiderati.

CODACCI PISANELLI nota che l’onorevole Einaudi ha trattato dell’argomento più interessante, ossia quello dell’opportunità o meno di istituire questo nuovo organo. Crede anche che non sia stata ancora sottolineata abbastanza l’importanza politica e pratica di siffatta innovazione. Importanza politica, perché porta ad una corrispondenza tra la specializzazione delle funzioni e la specializzazione degli organi, con la creazione di un organo particolarmente competente a svolgere un’attività politica; di guisa che la normale attività legislativa sarebbe svolta dalle due Camere e l’attività politica di maggiore rilievo dall’Assemblea Nazionale. Importanza pratica, perché un tempo alcune leggi venivano approvate da una Camera unicamente per la considerazione che il loro rigetto avrebbe rappresentato un voto di sfiducia al Governo, mentre con la separazione delle due attività le leggi che non siano ritenute soddisfacenti potranno essere respinte, senza con ciò obbligare il Governo a dimettersi.

Per le su esposte considerazioni, esprime parere favorevole all’accoglimento della proposta in esame.

PRESIDENTE mette ai voti la formula Tosato:

«Il Governo, costituito a norma del comma precedente, deve presentarsi entro otto giorni all’Assemblea Nazionale per ottenere la fiducia».

Dichiara che personalmente voterà contro, nel convincimento che sia più opportuno che il Governo ottenga la fiducia dalle due Camere separatamente anziché dall’Assemblea Nazionale.

LA ROCCA, Relatore, si associa alla dichiarazione di voto del Presidente.

(È approvata).

PRESIDENTE pone ai voti la formula dell’onorevole Mortati:

«La pronuncia dell’Assemblea sul programma governativo deve avvenire su una mozione motivata, con voto nominativo della maggioranza assoluta dei suoi componenti».

(È approvata).

Comunica che l’argomento della formazione del Governo può ritenersi concluso con l’approvazione del seguente articolo:

«Il Presidente della Repubblica, effettuate le normali consultazioni, nomina il Primo Ministro. Su proposta di questo, procede alla nomina dei Ministri.

«Il Governo, costituito a norma del comma precedente, deve presentarsi entro otto giorni all’Assemblea Nazionale per ottenere la fiducia. La pronuncia dell’Assemblea deve avvenire su una mozione motivata, con voto nominativo della maggioranza assoluta dei suoi componenti».

Passando alle mozioni di sfiducia, invita i colleghi a pronunciarsi sulle tre formule, presso a poco corrispondenti, dell’onorevole Nobile («Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una proposta del Governo non importa come conseguenza le dimissioni di questo»), dell’onorevole Fuschini («Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su un determinato disegno di legge non importa come conseguenza le dimissioni del Governo o del Ministro interessato») e del progetto («Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera sull’operato del Governo non importa come conseguenza le dimissioni del Governo o del Ministro interessato»).

PERASSI trova pericolosa la formula del Comitato, la quale fa pensare che in una Camera possa svolgersi una discussione tendente ad un voto «sull’operato» del Governo. Ritiene che ciò sia da escludere, una volta approvato il principio che la competenza a dare il voto politico spetta all’Assemblea Nazionale. A suo avviso, l’ipotesi da prevedere è un’altra: che, cioè, in una delle due Camere, in occasione dell’approvazione di un disegno di legge o di altro oggetto di discussione, si dia un voto contrario ad una proposta governativa o comunque esprimente una opinione divergente da quella del Governo. A meglio precisare questo concetto, prospetta la opportunità di far ricorso alla espressione contenuta nel decreto del 16 marzo 1946 sull’Assemblea costituente: «Il rigetto di una proposta governativa non porta come conseguenza le dimissioni del Governo».

LUSSU ritiene superflua qualsiasi specificazione del genere, essendosi affermato il principio che la sfiducia al Governo può essere votata soltanto dall’Assemblea Nazionale.

CODACCI PISANELLI trova preferibile la formula dell’onorevole Fuschini (…su un determinato disegno di legge) in quanto rende i membri delle Assemblee legislative consapevoli del fatto che possono votare contro un disegno di legge, senza provocare le dimissioni del Governo.

FUSCHINI, illustrando il suo emendamento, informa che esso si ispira appunto al criterio – già richiamato dall’onorevole Codacci Pisanelli – di mantenere distinte le due funzioni delle Camere: quella legislativa e quella politica. Ha preferito riferirsi soltanto al voto negativo su un disegno di legge, in quanto questo potrebbe essere determinato da ragioni formali e contingenti, senza investire affatto l’operato del Governo. Peraltro, può verificarsi l’ipotesi di una discussione sulle dichiarazioni fatte dal Governo in conseguenza di un determinato avvenimento politico interno o internazionale. In questo caso è l’attività politica dei due rami del Parlamento che si esplica e non quella legislativa, e l’eventuale mozione di sfiducia di una Camera al Governo deve poter essere riveduta mediante un riesame politico da parte dell’Assemblea Nazionale, che può portare ad una chiarificazione. Crede che non possano sussistere dubbi sull’utilità di un tale riesame.

Coglie l’occasione per ricordare che, a norma del regolamento interno delle Camere, una mozione, per essere posta in discussione, deve essere motivata e iscritta all’ordine del giorno, per evitare quegli attacchi improvvisi che possono far cadere Governi poco esperti nel giuoco parlamentare, come è accaduto un tempo al Ministero Sonnino. Perciò ritiene opportuno prescrivere che la discussione della mozione di sfiducia non possa aver luogo prima di un certo numero di giorni da quando è stata presentata.

PERASSI osserva che non può farsi una netta distinzione tra funzioni legislative e funzioni politiche delle Camere, e che il riservare all’Assemblea Nazionale la competenza ad esprimere la fiducia o la sfiducia al Governo non implica che alle Camere non resti altra competenza che quella di votare le leggi. Esse potranno sempre esercitare un controllo politico.

Frattanto, dal momento che si è stabilito che il voto di sfiducia è di competenza della Assemblea Nazionale, logicamente le singole Camere non possono votare una mozione di sfiducia al Governo. A suo parere, qualora in una Camera venisse sollevata la questione della fiducia, il Presidente dovrebbe dichiarare incostituzionale la presentazione di una mozione del genere. Una Camera potrebbe respingere un disegno di legge, adottare un provvedimento che fosse contrario al punto di vista del Governo o comunque compiere uno di quegli atti che secondo la prassi parlamentare del passato portavano ad una crisi governativa, senza che il suo atteggiamento avesse rilevanza ai fini della persistenza in carica del Governo, il quale sarebbe libero di dimettersi, ma non avrebbe l’obbligo costituzionale di farlo. Ove venga sollevata una questione che può sfociare in un voto di sfiducia al Governo, per raggiungere questo risultato è necessario che un certo numero di componenti la Camera presenti una mozione di sfiducia al Presidente dell’Assemblea Nazionale, il quale sarà tenuto a convocare l’Assemblea stessa entro un certo termine.

EINAUDI confuta il punto di vista dell’onorevole Codacci Pisanelli, che uno dei pregi del nuovo sistema consista nel distinguere la materia legislativa da quella politica, rilevando che tutti i disegni di legge di una certa importanza rivestono un carattere squisitamente politico e non si possono considerare che nel quadro della politica generale del Governo. Non vede come il voto contrario di una Camera su un disegno di legge di interesse nazionale potrebbe non intaccare la politica generale del Governo: al contrario, la votazione su un qualunque disegno di legge importante implica un giudizio su tale politica e porta materialmente ad una espressione di fiducia o di sfiducia, la quale, col sistema attuale, determinerebbe la discussione del problema davanti all’Assemblea Nazionale. Ciò autorizza a concludere che anche l’attività legislativa viene trasferita a questo nuovo Corpo politico che si è creato. Può quindi affermarsi, senza tema di smentita, che un tale sistema sia contrario alla tradizione politica e parlamentare italiana.

PRESIDENTE invita i colleghi a non allargare il campo della discussione e ad esprimere il loro parere sull’argomento in esame: se sia preferibile parlare di un voto contrario di una delle due Camere su un disegno di legge (formula Fuschini), ovvero su una proposta del Governo (formula Perassi e Nobile).

PERASSI insiste sulla espressione: «su una proposta dei Governo», che ha una portata più ampia.

LA ROCCA, Relatore, condivide l’opinione dell’onorevole Einaudi. Può quindi convenire che il voto contrario di una Camera su un disegno di legge di secondaria importanza non determini necessariamente la caduta di un Governo; ma il voto contrario ad un disegno di legge che coinvolga l’interesse nazionale assume il significato di non approvazione dell’indirizzo generale della politica governativa. Con un tal voto la Camera esprimerebbe dunque la sua sfiducia al Governo.

FUSCHINI replica che in pratica il Governo, di fronte ad un caso simile, si dimetterà, pur non avendo l’obbligo costituzionale di farlo.

PRESIDENTE pone ai voti la formula:

«Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una proposta del Governo non importa come conseguenza le dimissioni di questo».

FABBRI dichiara che voterà contro, in quanto ritiene la disposizione superflua, dal momento che si è stabilito che competente a dare il voto di sfiducia al Governo è esclusivamente l’Assemblea Nazionale.

LUSSU dichiara che voterà in favore, pur avendo la stessa convinzione dell’onorevole Fabbri.

(È approvata).

LUSSU domanda se non sia il caso di precisare – per quanto lo si possa ritenere implicito – che la convocazione dell’Assemblea Nazionale può essere provocata anche dal Governo, per porre la questione di fiducia.

PRESIDENTE avverte che la questione prospettata dall’onorevole Lussu potrà essere presa in esame dopo che sia stato approvato il procedimento che la Camera dissenziente sulla politica del Governo dovrebbe seguire per provocare le dimissioni del Ministero.

A tale proposito ricorda la dizione suggerita dall’onorevole Fuschini:

«Qualora una delle due Camere, in seguito a discussione provocata dal Governo o da una mozione sulla politica generale del Governo, esprima, con voto palese della sua maggioranza, la sfiducia al Governo, si deve convocare immediatamente l’Assemblea Nazionale, per il riesame della situazione. Nel caso in cui l’Assemblea, a maggioranza assoluta dei suoi componenti, confermi la sfiducia nel Governo, si addiviene alle dimissioni del Governo stesso».

E quella del Comitato:

«Le dimissioni sono obbligatorie solo in seguito ad una espressa e motivata mozione di sfiducia approvata da parte dell’Assemblea Nazionale con la maggioranza assoluta dei suoi membri. La mozione di sfiducia sarà discussa non prima di tre giorni dalla presentazione».

NOBILE insiste affinché sia posta ai voti la sua formula sulla mozione di fiducia:

«La mozione di fiducia dovrà essere approvata dalla maggioranza assoluta di ciascuna Camera. Nel caso che ciò non avvenga, il Governo è obbligato a dimettersi».

PRESIDENTE la pone ai voti, dichiarando che personalmente voterà in favore, in quanto non ritiene ammissibile che il Governo resti in carica quando anche una sola delle Camere gli abbia negato la sua fiducia.

LA ROCCA, Relatore, si associa.

(Non è approvata).

PRESIDENTE, premesso che la formulazione dell’onorevole Fuschini complica la procedura, perché implica una votazione di sfiducia di una delle due Camere che promuove la convocazione dell’Assemblea Nazionale, invita i Commissari a rivolgere la loro attenzione alla proposta del Comitato.

FABBRI esprime parere contrario a tale formulazione, in quanto, reputando sufficiente a costringere il Governo alle dimissioni la sfiducia di una sola Camera, a maggior ragione trova eccessivo richiedere la maggioranza assoluta dell’Assemblea Nazionale per l’approvazione di una mozione di sfiducia. Si rende così talmente remota la possibilità di provocare una crisi, che tanto varrebbe nominare un Governo a termine.

PERASSI, aderendo all’idea dell’onorevole Fabbri, propone un temperamento nel senso di prescrivere la maggioranza relativa, purché si raggiunga un determinato quorum, che potrebbe essere rappresentato dai due quinti dei membri dell’Assemblea.

NOBILE suggerisce di stabilire che la mozione di sfiducia deve raccogliere i voti dei tre quinti dei componenti l’Assemblea Nazionale.

LUSSU ritiene che possa accettarsi il criterio che la mozione di sfiducia debba essere approvata dalla maggioranza assoluta della Assemblea, perché è da prevedere che in una seduta in cui si decida una questione di tale importanza non saranno numerosi i deputati assenti, e quindi la maggioranza dei componenti l’Assemblea sarà di poco superiore alla maggioranza dei presenti.

PRESIDENTE pone ai voti la seguente formula:

«Le dimissioni sono obbligatorie solo in seguito ad una espressa e motivata mozione di sfiducia approvata da parte dell’Assemblea Nazionale con la maggioranza assoluta dei suoi membri».

(È approvata).

Comunica che, per quanto concerne il procedimento per arrivare ad una mozione di sfiducia, è stata presentata dall’onorevole Perassi la seguente proposta:

«L’Assemblea Nazionale è convocata dal suo Presidente, quando una mozione di sfiducia sia firmata da almeno un quarto dei membri dell’Assemblea.

«La mozione di sfiducia sarà discussa non prima di cinque giorni dalla presentazione».

Peraltro può essere presa in considerazione anche la formula dell’onorevole Fuschini, di cui ha già dato lettura, secondo la quale deve convocarsi immediatamente l’Assemblea Nazionale, quando nella discussione in una delle due Camere venga espressa, con voto palese della maggioranza, la sfiducia al Governo.

PERASSI trova incoerente con le decisioni già adottate il sistema proposto dall’onorevole Fuschini, a tenore del quale la convocazione dell’Assemblea Nazionale dovrebbe essere richiesta dal Presidente della Camera in cui si è manifestata la sfiducia.

A suo avviso, dato il risultato delle votazioni precedenti, non si può parlare di un voto di sfiducia di una Camera, e l’iniziativa di mettere in moto il meccanismo della fiducia dovrebbe spettare ai membri delle due Camere, mediante la presentazione di una mozione sottoscritta da un certo quorum di deputati, al Presidente dell’Assemblea Nazionale.

FUSCHINI ritiene che la convocazione dell’Assemblea Nazionale dovrebbe essere il risultato di una discussione già avvenuta in una delle due Camere. Perciò è contrario alla mozione sottoscritta da un quarto dei componenti l’Assemblea, che può invece essere il risultato di un’attività che si sia svolta all’infuori delle Camere.

FABBRI osserva che la convocazione della Assemblea Nazionale per la proposizione della fiducia potrebbe essere richiesta anche dal Governo.

FUSCHINI domanda all’onorevole Perassi come dovrebbe regolarsi il Governo nell’ipotesi che nel corso di una discussione su una sua comunicazione (per esempio, sulla politica estera) fosse espressa da una Camera la sfiducia sul suo operato.

PERASSI risponde che su di una comunicazione del Governo le Camere potranno dare voto favorevole o contrario, ma questa loro manifestazione di parere non costituirà un voto di sfiducia vero e proprio. Il Governo quindi, qualora ritenga che la sua situazione sia divenuta insostenibile, si dimetterà; in caso contrario, provocherà la convocazione della Assemblea Nazionale ponendo la questione di fiducia; a meno che la convocazione stessa non venga richiesta da quei membri della Camera (se in numero sufficiente) che non approvano il suo indirizzo politico. Se né l’uno né gli altri prendano l’iniziativa, ciò significherà che da nessuna delle due parti si è ritenuto opportuno provocare la crisi.

LUSSU aderisce perfettamente al punto di vista dell’onorevole Perassi che semplifica il problema, in quanto parte dal principio che una Camera può esprimere, con voto o senza voto, una sua opinione di cui il Governo dovrà tener conto, senza con ciò mettere in moto il meccanismo della mozione di fiducia. Questo viene posto in azione soltanto obbedendo a determinate norme procedurali, cioè con una esplicita richiesta di un quorum dei componenti l’Assemblea Nazionale, i quali si risolveranno a compiere questo passo solo quando siano in giuoco questioni di vitale interesse pel Paese.

FUSCHINI avverte che, in ogni caso, deve rimanere inteso che anche il Governo può convocare l’Assemblea Nazionale perché gli confermi la fiducia.

NOBILE dissente dalla tesi degli onorevoli Lussu e Perassi, che trova contraria allo spirito democratico, in quanto non consente ad una Camera di manifestare la sua sfiducia al Governo. Aggiunge che, mentre si aspira a porre il Governo al riparo dalle ostilità dei gruppi parlamentari, in realtà lo si lascerebbe in loro balia, qualora fosse approvato il criterio che un quarto dei membri dell’Assemblea Nazionale possa presentare una mozione di sfiducia.

La seduta termina alle 20.10.

Erano presenti: Codacci Pisanelli, De Michele, Einaudi, Fabbri, Fuschini, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Piccioni, Terracini, Tosato, Vanoni, Zuccarini.

Assenti: Bordon, Cannizzo, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, Rossi Paolo.

MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 1947 (seconda sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE
(SECONDA SEZIONE)

11.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA DI MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE CONTI

INDICE

Sul comportamento del Procuratore generale della Corte di cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario

Laconi – Calamandrei – Presidente – Di Giovanni – Cappi.

Potere giudiziario (Seguito della discussione)

Leone Giovanni, Relatore – Presidente – Cappi – Ambrosini – Calamandrei, Relatore – Targetti – Di Giovanni – Bozzi – Laconi – Uberti.

La seduta comincia alle 16.45.

Sul comportamento del Procuratore generale della Corte di cassazione in occasione dell’inaugurazione dell’Anno giudiziario.

LACONI, anche a nome del suo gruppo politico, dichiara di trovare deplorevole il comportamento del Procuratore generale della Corte di cassazione, che, in occasione della inaugurazione dell’Anno giudiziario, non ha rivolto neppure un saluto al Capo provvisorio dello Stato, presente alla cerimonia, né ha fatto alcun cenno all’avvento della Repubblica.

Non ritiene di dover presentare un ordine del giorno di protesta, dato il carattere di studio della Sezione, ma intende far rilevare la gravita del fatto, che può influire sull’opinione pubblica e indurre i deputati costituenti a considerazioni sul carattere dell’attuale Magistratura, che potrebbero influenzare l’esame dei problemi in discussione.

CALAMANDREI si associa alle parole dell’onorevole Laconi, comunicando di aver presentato in proposito al Ministro Guardasigilli un’interrogazione, per sapere quali provvedimenti intenda prendere, anche per consentire alla Costituente di discutere con serenità il problema del potere giudiziario.

PRESIDENTE si associa agli onorevoli Laconi e Calamandrei, rilevando che il fatto assume particolare importanza nel momento in cui la Costituente, ed in particolare questa Sezione, si sta occupando del problema del potere giudiziario e dell’indipendenza della Magistratura. Ritiene tuttavia che la cosa non possa influire sui lavori della Sezione, anche perché l’atteggiamento di un singolo può non essere condiviso, ma essere anzi deplorato, dagli altri magistrati. Esprime quindi la speranza che i magistrati italiani sappiano meritare la fiducia della democrazia e della Repubblica.

DI GIOVANNI si associa.

CAPPI ritiene di interpretare il pensiero dei colleghi del suo gruppo politico, associandosi alle dichiarazioni fatte. A suo avviso, se si può scusare il non aver fatto cenno all’avvento della Repubblica, in quanto fatto politico e non giudiziario, è imperdonabile che da parte del Procuratore generale sia stata ignorata la presenza del Capo provvisorio dello Stato.

Seguito della discussione sul potere giudiziario.

LEONE GIOVANNI, Relatore, richiamandosi all’ultimo articolo approvato nella precedente seduta, propone che, in luogo della formulazione: «I magistrati non possono essere iscritti ad alcun partito politico o ad alcuna associazione segreta», si dica: «I magistrati non possono essere iscritti a partiti politici o ad associazioni segrete».

PRESIDENTE, dato che sulla modifica proposta – di pura forma – non vi sono obiezioni, crede che il testo definitivo dell’articolo possa essere quello proposto dall’onorevole Leone.

(Così rimane stabilito).

In attesa che l’onorevole Calamandrei esponga le sue ragioni per la soppressione delle Sezioni giurisdizionali del Consiglio di Stato, apre la discussione sull’autogoverno della Magistratura, e cioè sugli articoli 16 e seguenti della relazione Calamandrei, 4, 6, 8 di quella Leone e 5 di quella Patricolo.

LEONE GIOVANNI, Relatore, ricorda che sull’argomento aveva già ampiamente parlato nell’illustrare la sua relazione; ma dichiara di aver meditato sul problema, sopra tutto dopo aver ancora ricevuto segnalazioni che risalirebbero ad esponenti delle categorie interessate e specialmente dell’Associazione dei magistrati.

Rileva che lo scopo da raggiungere è quello di sganciare il potere giudiziario dagli altri poteri dello Stato, per evitare qualsiasi ingerenza, ma nello stesso tempo di impedire il crearsi di una casta chiusa della Magistratura. Per poter realizzare un equilibrio tra l’indipendenza della Magistratura ed il collegamento con gli altri poteri dello Stato, ritiene che occorra riprendere in esame la costituzione del Consiglio superiore della Magistratura. Tale Consiglio, al quale sarebbero affidati i poteri direttivi della vita giudiziaria (sorveglianza, giurisdizione disciplinare, provvedimenti in materia finanziaria, provvedimenti attinenti ai bandi di concorso, mutamenti di sede dei magistrati, ecc.), dovrebbe essere formato da rappresentanti dei magistrati e da elementi estranei al potere giudiziario, eletti dalle due Camere, ma non facenti parte di esse e non esercitanti l’attività professionale. La Presidenza dovrebbe essere affidata al Capo dello Stato il quale, non potendo partecipare a tutte le riunioni, dovrebbe essere affiancato dal Primo Presidente della Corte di cassazione come Vice Presidente. Ritiene che in tal modo si assicurerebbe alla Magistratura il massimo riconoscimento di prestigio e di autorità.

Dà quindi lettura del testo da lui proposto che riassume gli articoli della sua relazione, di quella dell’onorevole Calamandrei e dell’onorevole Leone, sulla materia:

«L’alta sorveglianza sugli uffici giudiziari, la giurisdizione disciplinare, l’emanazione dei provvedimenti concernenti lo stato giuridico degli organi del potere giudiziario, le deliberazioni sulle spese nei limiti dell’assegnazione iscritta nel bilancio, i bandi dei concorsi per l’assunzione dei giudici, le promozioni, le assegnazioni ed i mutamenti di sede spettano al Consiglio superiore giudiziario.

«Il Consiglio superiore giudiziario è presieduto dal Presidente della Repubblica, ed è composto: 1°) del Primo Presidente della Corte suprema della cassazione, che esercita e funzioni di Vice Presidente; di dieci membri, di cui due supplenti, eletti da tutti gli organi del potere giudiziario, scelti in numero di cinque (4 effettivi ed un supplente) tra i Primi Presidenti di Corte d’appello o Presidenti di sezione della Cassazione, in numero di tre (due effettivi ed un supplente) tra i Consiglieri di cassazione, uno tra i consiglieri di appello ed uno tra i giudici; 2°) di dieci membri, di cui due supplenti, eletti dalla Assemblea Nazionale e scelti fuori della medesima e tra le persone non iscritte in albi professionali.

«In caso di parità di voti, prevale la decisione votata dal Presidente.

«Il Consiglio superiore dura in carica per cinque anni, ed i componenti del medesimo sono rieleggibili».

Per quanto riguarda la disciplina del Pubblico Ministero, ritiene che a questo debbano essere affidate soltanto le mansioni tipiche della sua funzione. Salvo a stabilire che tale organo debba essere assunto con le stesse garanzie di preparazione richieste per i magistrati, il Pubblico Ministero dovrebbe essere prettamente organo del potere esecutivo; presiedere cioè all’attività della polizia giudiziaria, per evitare che il suo intervento (come accade di regola attualmente) abbia luogo quando la polizia con le indagini preliminari ha già dato un’impronta, che può essere anche errata, alla ricerca giudiziaria.

Riconosce che questo progetto presenta il pericolo che, essendo il Pubblico Ministero titolare dell’azione penale ed organo nello stesso tempo del potere esecutivo, questo potere possa intervenire in qualche caso per non far promuovere l’azione penale: donde l’impossibilità di intervento da parte della giustizia in quei casi in cui il potere esecutivo non lo ritenesse opportuno. Per ovviare a tale pericolo, o si inseriscono in altra parte della Costituzione garanzie per tutelare i cittadini dagli eventuali arbitri degli organi di governo, o si arriva alla infrazione del principio tradizionale del carattere monopolistico dell’azione penale stabilendo che il potere giudiziario, in caso di negligenza o di mancato esercizio dell’azione penale da parte del Pubblico Ministero, può instaurare «ex officio» il processo penale stesso.

CAPPI dichiara di essere personalmente contrario a che venga concesso alla Magistratura un assoluto autogoverno, pensando che la tendenza che si manifesta a rivendicare in pieno l’indipendenza del potere giudiziario dipenda dal fatto che si è ancora alla presenza di una situazione patologica del potere legislativo ed esecutivo come quella del regime fascista. A suo avviso, invece, nel costruire la nuova Costituzione si deve partire dal presupposto che in regime democratico il potere esecutivo e quello legislativo non sono tirannici né invadenti, ma rispecchiano la coscienza e la volontà del popolo e si esplicano nell’interesse del Paese. Non vi è quindi ragione di creare un potere giudiziario completamente avulso dagli altri poteri, anche perché, se le funzioni possono essere distinte, esse sono sempre interdipendenti e connesse tra loro.

Si deve inoltre considerare che, mentre il potere esecutivo e il legislativo promanano direttamente o indirettamente dal popolo, il potere giudiziario avrebbe origine diversa.

Ritiene quindi che si dovrebbe stabilire un collegamento fra i tre poteri, per evitare anche il crearsi di una casta chiusa della Magistratura, che potrebbe trovarsi, in determinati momenti, in contrasto con la volontà e la coscienza popolare. Propone, di conseguenza, che il Consiglio superiore della Magistratura sia formato da rappresentanti eletti dai magistrati e, in pari numero, da rappresentanti eletti dall’Assemblea legislativa, con la presidenza del Ministro della giustizia.

Anche per quanto riguarda il timore che un potere politico possa paralizzare il Pubblico Ministero nell’esercizio dell’azione penale, ritiene che in un regime democratico simile eventualità non possa verificarsi, in quanto vi saranno sempre le reazioni della stampa e la volontà popolare ad esigere che l’azione sia esercitata.

Bisogna infine considerare che in determinati casi, come in quello di complicazioni internazionali per la persecuzione di determinati reati politici contro stranieri, che potrebbe portare anche a conflitti armati, non si deve togliere al potere politico la possibilità di intervenire nella sfera di esercizio dell’azione penale.

AMBROSINI, pur riconoscendo che non si deve tener conto delle interferenze del potere esecutivo nella Magistratura verificatesi durante il ventennio fascista, fa presente che anche prima del 1922 tali interferenze, se pur meno gravi, si verificavano; e ve ne sono famosi esempi.

Sul timore di creare una casta chiusa con il concedere l’autogoverno alla Magistratura, fa osservare che anche oggi il potere esecutivo non ha ingerenza alcuna sull’operato della giustizia, la quale applica la legge nel modo che ritiene più opportuno: di fronte alle decisioni della Corte di cassazione non vi è possibilità alcuna di sindacato, né da parte del potere esecutivo, né da parte del legislativo. A suo avviso, quindi, l’inconveniente che un corpo giudiziario possa assumere un determinato atteggiamento nell’interpretazione della legge sussisterà sempre, sia che si conceda l’autogoverno alla Magistratura, sia che si mantenga l’ordinamento attuale. Ritiene pertanto che siano da preferirsi gli eventuali inconvenienti derivanti dall’assoluta indipendenza a quelli che potrebbero sorgere dall’ipotesi opposta.

Dichiara quindi di dissentire dall’onorevole Leone, che mostra di considerare il pubblico Ministero soltanto come organo specifico del potere esecutivo. Né ritiene idoneo il rimedio proposto di dare al magistrato giudicante, in caso di inazione del Pubblico Ministero, la possibilità di esercitare l’azione penale direttamente, in quanto esso deve essere investito della risoluzione di una questione o dai privati nelle controversie civili o dal Pubblico Ministero nell’azione penale: e sarebbe grave se l’iniziativa fosse presa dallo stesso giudice, perché potrebbero determinarsi intralci alla sua assoluta libertà di decisione. Bisogna infine considerare che con ciò si verrebbe a ferire uno dei principî fondamentali di differenziazione delle singole funzioni.

Dissente d’altra parte da quanto ha detto l’onorevole Cappi sulla necessità di lasciare al potere politico la possibilità di intervenire nella sfera di esercizio dell’azione penale in casi di interesse internazionale, in quanto ritiene che in tal modo ci si porrebbe su una via pericolosa, ricordando che le dittature cominciano sempre con casi particolari per giungere agli estremi. Sarebbe inoltre estremamente difficile stabilire a priori chi debba essere il giudice dell’opportunità o della necessità di esercitare il supremo potere di impedire al Pubblico Ministero di svolgere l’azione penale.

Concludendo, pensa che si debba in linea di massima affermare il principio dell’autogoverno della Magistratura, salvo poi a riesaminare il congegno completo ed a formulare le disposizioni dei singoli articoli.

CALAMANDREI, Relatore, riafferma innanzi tutto la sua netta convinzione della necessità di concedere l’autogoverno alla Magistratura. Per avere una giustizia effettivamente funzionante e distaccata dalla politica, è necessario, a suo avviso, avere organi che siano in grado di applicare il diritto in modo eguale in tutti i casi, tecnicamente preparati e in condizione di giudicare con serenità e imparzialità. A questo fine occorre adottare il sistema dell’autogoverno; lasciare cioè ai giudici la facoltà di nominarsi, promuoversi e governarsi.

Riconosce che un tale sistema può presentare inconvenienti vari, come quello di fare apparire la Magistratura come avulsa dalla vita dello Stato; ma ritiene che, fra tutte le soluzioni, questa sia pur sempre da preferirsi.

Sull’articolo proposto dall’onorevole Leone, osserva innanzi tutto che, quando si parla del Consiglio superiore della Magistratura, non bisogna dimenticare di dire che, oltre ad esso, esistono i Consigli giudiziari regionali.

LEONE GIOVANNI, Relatore, desidera chiarire subito che nella sua proposta si ha un’omissione puramente formale, essendo implicita l’ammissione della sopravvivenza dei Consigli regionali. Ritiene, tuttavia, che sarà necessario stabilire successivamente quali compiti assegnati al Consiglio superiore debbano essere attribuiti anche ai Consigli regionali.

CALAMANDREI, Relatore, fa presente che il punto veramente grave e delicato è quello riguardante la Presidenza del Consiglio superiore della Magistratura. Infatti, affidare tale presidenza al Capo dello Stato, come è stato fatto in Francia, fa sorgere seri dubbi rispetto alla responsabilità politica da conservare o meno al Ministro della giustizia per l’attività della Magistratura. Con la proposta Leone, il Ministro Guardasigilli risponderebbe davanti agli organi legislativi dell’operato della giustizia ed eventualmente anche degli atti deliberati dal Consiglio superiore della Magistratura; quindi si sottoporrebbero a controllo anche provvedimenti nei quali sarebbe coinvolto il Presidente della Repubblica e di conseguenza si verrebbe meno al principio per cui questi deve essere organo superiore a responsabilità di carattere politico.

L’affidare invece la presidenza al Ministro della giustizia, come ha proposto l’onorevole Cappi, comporterebbe l’annullamento dell’indipendenza della Magistratura, in quanto, dipendendo questa dal Consiglio superiore composto per metà di uomini politici e per metà di magistrati, la maggioranza sarebbe determinata dal voto del Ministro Guardasigilli, il quale in tal modo praticamente disporrebbe della giustizia. Se ciò potrebbe essere comprensibile in uno Stato nel quale vigesse il principio per cui i giudici sono i formulatori diretti di una politica che diventa diritto quando si trasforma in sentenza, non è concepibile in un Paese, come il nostro, nel quale i giudici devono essere indipendenti dalla politica e le leggi sono scritte.

Rileva inoltre che, sempre secondo la proposta Leone, la metà dei componenti il Consiglio superiore dovrebbe essere costituita da giuristi non esercitanti la professione di avvocato. Ora, costoro, che pur potrebbero essere dei professori universitari di storia del diritto, non porterebbero quel contributo di esperienza che è necessario per la decisione di questioni che hanno costante attinenza con la pratica e la vita della società.

Passando ad esaminare la questione del Pubblico Ministero, data l’ambiguità di tale organo, pensa che ad esso dovrebbe essere riconosciuta la posizione di magistrato e concessa l’inamovibilità, e che gli dovrebbe essere imposto l’obbligo di procedere ogni qual volta venga a conoscenza di fatti configuranti un reato. Ritiene che la funzione del Pubblico Ministero non sia amministrativa, bensì giurisdizionale; la distinzione fra quest’organo e il giudice è sorta da una ragione di ordine psicologico, dal fatto, cioè, che non è possibile concentrare in una sola persona il momento del porre il problema e il momento del risolverlo; da tale incompatibilità delle due funzioni sono sorti i due organi distinti.

Ricorda che nel sistema anglosassone il Pubblico Ministero ha gli stessi poteri dell’imputato ed ha il compito di fornire le prove dell’accusa: il giudice deve essere assolutamente imparziale tra i due antagonisti, applicando il detto latino «actore non probante, reus absolvitur». Non ritiene che in Italia si possa giungere a tal punto, ma pensa che non sia possibile mantenere il Pubblico Ministero nella sua situazione attuale, se si vogliono evitare i gravi inconvenienti verificatisi sotto il regime fascista e che potrebbero rinnovarsi sotto qualsiasi Governo: che si verifichi cioè che gli stessi fatti siano considerati reati per appartenenti ad una determinata tendenza politica e per altri no.

TARGETTI rileva che lo scopo che si vuole raggiungere è di assicurare l’indipendenza del giudice, non tanto nell’interesse del giudice stesso quanto in quello superiore della collettività. A suo avviso, seguendo l’esempio di tutte le altre Costituzioni che si limitano ad affermare il principio della indipendenza della giustizia, senza dettare norme relative all’ordinamento giudiziario, dopo aver affermato tale indipendenza si dovrebbero fissare soltanto norme relative al principio stesso.

Fa osservare che l’indipendenza del giudice dipende in gran parte dall’individuo singolo; se ciò non fosse vero, la Magistratura non avrebbe al suo attivo i bellissimi esempi di resistenza alle infinite pressioni subite durante il regime fascista. Ritiene però che si debbano creare condizioni tali da facilitare questa indipendenza. Migliorare la situazione economica dei magistrati rappresenterebbe un gran passo avanti anche per il loro prestigio. Inoltre il magistrato non dovrebbe aver nulla da temere o da sperare, nella sua carriera, dal potere esecutivo. Siccome l’assegnazione di una sede o un trasferimento hanno grande importanza nella sua vita, occorre sottrarre questo provvedimento all’arbitrio governativo.

A suo avviso, la costituzione del Consiglio superiore, con tutti i poteri previsti, deve servire a concedere le massime garanzie alla Magistratura, senza però porla in grado di opporsi eventualmente agli altri poteri. Questo potrebbe accadere se la maggioranza dei suoi componenti appartenesse alla Magistratura. Ritiene che, affidando la vicepresidenza al Ministro della giustizia, non si venga a togliere ogni libertà alla Magistratura in quanto, avendosi nel Consiglio superiore una forte rappresentanza di magistrati, il Ministro avrà una libertà d’azione molto vincolata, a parte la considerazione che in un regime democratico vi è il controllo del Parlamento e della stampa, che provvedono a limitarla più di qualsiasi disposizione di legge. Ciò posto, dichiara di riservarsi di presentare una proposta su questo punto.

Dichiara quindi di non essere favorevole a concedere un assoluto autogoverno alla Magistratura, facendo osservare che, se è vero che con esso i magistrati non dipenderebbero più dal Ministro della giustizia, si deve tener presente che essi diventerebbero soggetti ad altre pressioni in seno alla Magistratura stessa.

Conclude dichiarando di ritenere che, da una parte, si debba prevedere il massimo delle cautele per difendere il giudice da ingerenze governative e dall’altra limitare l’autogoverno.

Per quanto riguarda il pubblico ministero, prega i colleghi di voler considerare l’opportunità di non proporsi, in questa sede, il problema tanto delicato e complesso e di rimandarne la soluzione integrale alla legge sull’ordinamento giudiziario.

CALAMANDREI, Relatore, fa osservare che vi è la questione dell’inamovibilità, che è necessario stabilire se debba essere o meno riconosciuta.

TARGETTI osserva, in proposito, che la Costituzione francese stabilisce l’inamovibilità soltanto per i magistrati giudicanti. Ritiene che la situazione che è stata creata al Pubblico Ministero dal decreto Togliatti del maggio 1946, che gli ha esteso l’inamovibilità, sia pure in forma meno piena che ai giudici, non sia facilmente migliorabile senza creare inconvenienti.

Pur ritenendo che sarebbe pericoloso stabilire il principio che il potere esecutivo possa sospendere l’azione penale, osserva che in pratica può presentarsene la necessità. In certi casi di movimenti popolari, ritardare o sospendere l’azione penale può essere l’unico modo di ristabilire la legalità.

DI GIOVANNI si associa completamente a quanto ha dichiarato l’onorevole Targetti.

BOZZI ritiene che, oltre all’indipendenza della Magistratura dal potere esecutivo, ci si debba occupare e preoccupare dell’effettiva indipendenza del Magistrato – comprendendo in tale termine anche il Pubblico Ministero – in quanto questa è forse più importante della prima. A suo avviso, è necessario congegnare un sistema per cui il singolo si senta veramente dipendente solo dalla legge; fare, cioè, in modo che tutto ciò che attiene all’organizzazione della Magistratura (ammissione, avanzamenti, trasferimenti, trattamento economico) sia regolato dagli stessi magistrati, che dovrebbero esser posti tutti su uno stesso piano. Non dovrebbero esistere né superiori né inferiori, in quanto tutti esplicano una stessa funzione e dipendono nello stesso modo dalla legge, che va applicata secondo i dettami della coscienza e intelligenza. Per tradurre in atto tali principî, non è, a suo avviso, sufficiente la creazione del Consiglio superiore della Magistratura, che assicura quella che può definirsi l’indipendenza esterna, ma è necessario concedere ai magistrati il potere di autogovernarsi effettivamente.

Dichiara quindi di dissentire dalla proposta dell’onorevole Leone sulla costituzione del Consiglio superiore coi primi Presidenti, Procuratori generali o Presidenti di sezioni: ammesso il principio dell’eguaglianza di tutti i giudici e del valore della carriera come esplicazione di funzioni diverse e non come gerarchia nel senso tradizionale della parola, tutti i Consigli della Magistratura dovrebbero essere costituiti in base ad elezione di Magistrati di qualsiasi grado.

Accede invece all’idea che la composizione del Consiglio superiore sia paritetica, per metà di magistrati eletti dai Consigli regionali fra le categorie che dovranno essere indicate dalla legge sull’ordinamento giudiziario; e per l’altra metà di membri eletti dal Parlamento al di fuori della Magistratura e degli esercenti la professione forense. La prima cautela è necessaria per impedire che il Parlamento possa esercitare la funzione di controllo nell’interno dello stesso corpo giudiziario, mentre le ragioni che determinano la seconda sono ovvie. Non crede, come ha detto l’onorevole Calamandrei, che non esistano giuristi non esercenti la professione che abbiano aderenza con la realtà; tuttavia ritiene che si potrebbe ovviare all’eventuale inconveniente con una norma che stabilisse che la designazione a membro del Consiglio superiore della Magistratura fa automaticamente decadere dall’appartenenza all’albo professionale.

Sul problema della presidenza del Consiglio superiore, concordando con quanto ha detto l’onorevole Calamandrei sui pericoli insiti nel concederla al Ministro della giustizia, ritiene che sarebbe preferibile affidarla al Presidente della Repubblica. Alle obiezioni mosse sulla possibilità che la figura di questo sia coinvolta in questioni sollevate dal Parlamento al Ministro della giustizia, risponde che anche oggi il Ministro può essere chiamato a rispondere davanti alla Camera, ma solo per gli aspetti amministrativi e non per ciò che attiene al funzionamento della giustizia nel senso sostanziale del termine, in quanto, se i magistrati non hanno reso bene giustizia, il Ministro non ha titolo per risponderne. Bisogna inoltre considerare il fatto che, con la partecipazione al Consiglio superiore di membri eletti dalle Camere, si trasferisce in sede preventiva il controllo politico che il Parlamento di regola esercita in sede successiva. Quindi, ove le Camere si accorgessero che il Consiglio superiore non funziona come dovrebbe, avrebbero il potere di sostituire quei membri che non avessero adempiuto soddisfacentemente al loro compito.

Dichiara infine di considerare il Pubblico Ministero come un magistrato e non come un organo rigidamente dipendente dal potere esecutivo. Considerando il Pubblico Ministero come magistrato, munito di tutte le garanzie, pensa che sia necessaria la sua partecipazione sia al Consiglio superiore che a quelli regionali.

LACONI fa presente che molti magistrati si sono dichiarati contrari a che venga concesso l’autogoverno assoluto alla Magistratura, ritenendo appunto che la questione essenziale sia quella della vera indipendenza dei singoli giudici. Personalmente, non ritiene che si possa rivendicare l’assoluta autonomia del potere giudiziario per impedire ingerenze del potere esecutivo o pericoli di dittature. Se dittatura dovesse esservi, la Costituzione sarebbe senz’altro violata o addirittura annullata. Occorre quindi esaminare il problema avendo presente la realtà di uno Stato democratico, che sta costruendo la sua Costituzione per tradurla poi in realtà viva e concreta, con l’esigenza di dare al giudice nella sua alta funzione la completa indipendenza.

Osserva che con il concedere la completa autonomia al potere giudiziario molti ritengono di realizzare il mezzo per assicurare al giudice l’indipendenza; ma ciò, a suo avviso, è errato, in quanto l’autogoverno garantisce la Magistratura dalle influenze di altri poteri – influenze che del resto in un regime democratico non avrebbero modo di esercitarsi – ma non presenta alcuna garanzia per quell’indipendenza all’interno del corpo giudiziario, che è certamente la più importante.

Né, d’altra parte, ritiene realizzabile la possibilità di creare una eguaglianza fra tutti i magistrati, come ha proposto l’onorevole Bozzi: sebbene il principio sia pieno di attrattive, in realtà non sarebbe possibile sopprimere improvvisamente qualsiasi gerarchia tra i giudici, in quanto ciò porterebbe ad un capovolgimento troppo radicale e forse inadeguato al grado di progresso sociale e politico realizzato fino ad ora nel Paese.

A suo avviso, l’appunto sostanziale da fare ai difensori dell’assoluta autonomia della Magistratura è quello di riferirsi in sostanza ad un concetto astratto, in quanto non si può affermare, dal punto di vista politico, che i giudici, anche se indipendenti dalle influenze di altri poteri, siano effettivamente indipendenti nel senso astratto ed assoluto. Essi sono degli uomini come tutti gli altri, che vivono e provengono da una particolare classe sociale, con un cospicuo patrimonio culturale e legati da mille vincoli alla società: sono quindi uomini che hanno una posizione conservatrice, che potrebbe tradursi in una attitudine politica, quando fosse loro concessa un’assoluta autonomia nell’applicazione della legge. La quale legge è accettata come tale dall’opinione pubblica, non in quanto separata ed avulsa dal processo politico che l’ha formata, ma in quanto aderente alla mutevole realtà politica. Ora, a suo avviso, se si attribuisse ai magistrati la completa autonomia, essi sarebbero del tutto separati dal resto della vita nazionale e si avrebbe nella compagine della democrazia un ordine avulso dalla vita del Paese, che potrebbe nuocere al suo stesso sviluppo.

Ritiene quindi che si debba lasciare al potere esecutivo e legislativo la possibilità, attraverso determinate cautele e garanzie, di controllare e dirigere, in senso generale, la vita dell’ordine giudiziario, tramite il Ministero della giustizia, che deve sopravvivere, oltre che come organo supremo del Pubblico Ministero, con questa potestà di controllo.

Per quanto riguarda il Consiglio superiore della Magistratura, ritiene che questo dovrebbe essere composto pariteticamente di membri eletti dalle due Camere – ma estranei a queste e fuori dell’ordine forense – e di magistrati scelti dai diversi gradi; mentre per i Consigli regionali, prima che ne sia decisa la composizione, se ne dovrebbero stabilire i poteri e le funzioni, in quanto, ove si decidesse di concedere loro l’autonomia, si porrebbe inevitabilmente l’esigenza di non comporli esclusivamente di magistrati.

Dichiara infine di considerare il Pubblico Ministero come un magistrato non unicamente dipendente dal potere esecutivo, come puro e semplice rappresentante dello Stato, in quanto ritiene che il controllo del potere esecutivo debba esistere su tutto l’ordinamento giudiziario ed in particolar modo sul Pubblico Ministero. Pensa che questo non possa essere posto sullo stesso piano dell’imputato, com’è nell’ordinamento anglosassone, in quanto interprete della collettività; e ritiene che a lui spetti la cautela dell’inamovibilità affinché ne sia garantita l’indipendenza politica.

UBERTI è contrario all’autogoverno della Magistratura, in quanto con esso non si raggiunge la vera indipendenza, ma soltanto la separazione dei poteri; mentre, come già è stato rilevato, il problema essenziale è quello di realizzare l’interna indipendenza del giudice.

Sulla questione del Pubblico Ministero vedrebbe volentieri attuato il sistema seguito dall’ordinamento anglosassone, per mezzo del quale si toglierebbe questa ibrida figura dal procedimento penale.

Dissente invece dall’onorevole Laconi sul controllo del potere esecutivo esplicato su tutto il potere giudiziario, ritenendo che si debba realizzare la massima indipendenza di un potere dall’altro. Addivenendo alla rappresentanza paritetica in seno al Consiglio superiore, si avrebbe il risultato che i magistrati, con la loro particolare tecnica e capacità, influirebbero maggiormente nelle decisioni che non il Ministro Guardasigilli, il quale, pur rimanendo il supremo moderatore, non graverebbe più del dovuto e non avrebbe nelle sue mani il controllo di tutto ciò che attiene ai trasferimenti, le nomine, le promozioni e le punizioni.

LEONE GIOVANNI, Relatore, rispondendo a talune osservazioni dell’onorevole Laconi, rileva che quando si parla di autogoverno o di indipendenza della Magistratura non si vuole intendere quella che è l’indipendenza della funzione del giudice, in quanto essa è già acquisita ed è indubbio che il giudice è sovrano nell’amministrare la giustizia, senza possibilità di intervento da parte di organi esterni; bensì l’indipendenza del giudice da realizzare mediante un complesso congegno di garanzie.

A suo avviso, si tratta cioè di vedere in concreto quali siano i limiti entro i quali può essere esercitato l’autogoverno della Magistratura. Dato che già esiste, ed è stata riconosciuta anche nella Costituzione, l’inamovibilità del giudice, e che l’ammissione alla carriera giudiziaria è fatta attraverso concorsi e le promozioni avvengono anche per concorso o per anzianità, rimane soltanto la materia disciplinare e la questione dell’autogoverno finanziario. Per la prima è già stato fatto un passo avanti con la legge Togliatti del maggio 1946: mentre per la seconda, a suo avviso, con la creazione del Consiglio superiore della Magistratura, composto per metà di magistrati e per metà di estranei alla Magistratura stessa, si può senz’altro riconoscere a tale Consiglio la facoltà di amministrare le somme stanziate appositamente dallo Stato. Si verrebbe così a sganciare la carriera dei magistrati, in quella parte in cui dipende tuttora dal potere esecutivo.

Per quanto riguarda le ammissioni e le nomine, osserva che il potere esecutivo ha ingerenza soltanto per le alte cariche: anche in questo campo si può tendere a creare una disciplina che renda possibile l’indipendenza della Magistratura, nel senso che nessuna nomina debba essere soggetta a forze estranee, ma abbia luogo attraverso il Consiglio superiore. Soltanto il Presidente della Cassazione dovrebbe essere nominato dal Presidente della Repubblica.

Osserva, per quanto riguarda la disciplina, che i magistrati, nell’esercizio del potere giurisdizionale, devono essere assolutamente sovrani e la competenza del Ministro si deve limitare alla nomina delle Commissioni; mentre per i trasferimenti la responsabilità verrà assunta dal Consiglio stesso e sarà quindi collegiale. In tal modo si verrà molto a ridurre la responsabilità politica, in quanto le decisioni verrebbero prese da magistrati e da elementi nominati dalle Camere, per i quali potrebbe anche essere stabilito un limite nella durata in carica.

Concludendo, ritiene che con la creazione del Consiglio superiore composto pariteticamente, si sia trovato effettivamente il sistema per rendere indipendente il giudice. La Presidenza di tale Consiglio rappresenta, a suo avviso, un aspetto di dettaglio; ma ritiene che affidarla al Capo dello Stato rappresenterebbe un riconoscimento per la Magistratura e non diminuirebbe certamente l’autorità di quello, in quanto la Presidenza sarebbe assunta da lui soltanto nei casi solenni, mentre di regola il Consiglio potrebbe essere presieduto dal Presidente della Cassazione. Per i Consigli regionali nota che già esiste una particolare disciplina: a suo avviso, però, si dovrebbe evitare di stabilire dei collegi disciplinari aventi larga autonomia e a tal fine sarebbe necessario fissarne i poteri, specie per la parte riguardante il loro decentramento, in quanto, ad esempio, per le promozioni è bene che le decisioni vengano dall’alto e siano sottratte alle influenze locali.

PRESIDENTE comunica che l’onorevole Bozzi ha presentato la seguente proposta:

«Il Consiglio superiore della Magistratura è presieduto dal Presidente della Repubblica ed è composto di 14 membri effettivi, dei quali 7 eletti dai Consigli giudiziari nazionali fra le categorie di magistrati indicati dalla legge sull’ordinamento giudiziario e 7 dall’Assemblea nazionale, fuori dai propri membri e dagli albi professionali forensi.

«Il Consiglio superiore della Magistratura garantisce l’indipendenza dei magistrati; provvede, secondo la legge sull’ordinamento giudiziario, all’ammissione in carriera, alle promozioni e ai trasferimenti, nonché si pronuncia definitivamente nei procedimenti disciplinari.

«I Consigli giudiziari regionali, costituti di magistrati a norma della legge sull’ordinamento giudiziario, esprimono il loro parere per quanto attiene alle promozioni, ai trasferimenti e ai fatti disciplinari».

Comunica inoltre che gli onorevoli Cappi e Uberti hanno proposto la seguente formulazione:

«La nomina, per pubblico concorso, dei magistrati, le promozioni, i trasferimenti ed in genere il governo della Magistratura, sono affidati al Consiglio superiore della Magistratura, composto di membri nominati per metà dai magistrati stessi, per metà dall’Assemblea nazionale, presieduto dal Ministro della giustizia».

La seduta termina alle 19.45.

Erano presenti: Ambrosini, Bocconi, Bozzi, Calamandrei, Cappi, Castiglia, Conti, Di Giovanni, Farini, Laconi, Leone Giovanni, Ravagnan, Targetti, Uberti.

Erano assenti: Bulloni, Mannironi, Porzio.

POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

8.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL DEPUTATO PERASSI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Tosato, Relatore – Nobile – Zuccarini – La Rocca, Relatore – Einaudi – Mortati – Fabbri – Fuschini – Lami Starnuti – Lussu.

La seduta comincia alle 18.

(Nell’assenza del Presidente, la Sezione invita l’onorevole Perassi ad assumere la Presidenza).

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE fa presente che la Sezione deve pronunciarsi sul modo di nomina dal Primo Ministro, del quale si parla nel secondo comma dell’articolo 19 del progetto, che è così formulato:

«Il Primo Ministro è nominato e revocato dal Presidente della Repubblica».

Ricorda che gli onorevoli Mortati e Nobile hanno presentato a tale riguardo degli emendamenti:

Emendamento Mortati: Art. 19-bis. – «All’inizio della legislatura l’Assemblea Nazionale è convocata per procedere alla formazione del Governo.

«La persona designata dal Capo dello Stato per la carica di Primo Ministro espone innanzi all’Assemblea le direttive politiche dell’azione governativa ed i principali mezzi proposti per la loro attuazione.

«Nel caso che tale programma sia approvato con voto nominativo dalla maggioranza dei componenti l’Assemblea, il Capo dello Stato investe nella carica il designato e, su proposta di questi, procede alla nomina dei Ministri.

«Se entro un mese da tale nomina l’Assemblea non revoca la fiducia al Governo, questo rimane in carica per la durata di due anni, salvo non sia stata elevata accusa contro il Primo Ministro e salvo il caso di accettazione delle dimissioni da questi presentate.

«Durante tale periodo il Capo dello Stato, su richiesta e designazione del Primo Ministro, può procedere alla sostituzione di uno o più Ministri».

Emendamento Nobile: «Il Primo Ministro è nominato dal Presidente della Repubblica, su designazione dell’Assemblea Nazionale».

Rileva che quest’ultimo emendamento si discosta dalla formulazione del Comitato più di quanto non faccia quello dell’onorevole Mortati, che, seguendo un sistema analogo a quello francese, stabilisce che l’investitura nella carica da parte del Capo dello Stato abbia luogo dopo che l’Assemblea Nazionale abbia approvato l’esposizione – fatta dalla persona designata per la carica di Primo Ministro – sulle direttive politiche dell’azione governativa.

TOSATO, Relatore, riconosce che la proposta dell’onorevole Mortati è bene elaborata e tende a soddisfare varie esigenze vivamente sentite; ma crede che non sia opportuno accoglierla – e già il Comitato si pronunciò in tal senso – perché stabilisce un procedimento eccessivamente complicato.

Tralasciando per il momento di considerare l’altra questione risultante dal progetto Mortati per la quale, una volta formato, il Governo resterebbe in carica per un periodo fisso di due anni, osserva che la nomina del Gabinetto, secondo tale proposta, si compirebbe in quattro tempi (designazione del Primo Ministro da parte del Presidente della Repubblica; esposizione, da parte della persona designata, del programma di Governo dinanzi all’Assemblea Nazionale e voto di fiducia di questa; investitura formale del Primo Ministro da parte del Presidente della Repubblica; nomina dei Ministri da parte del Capo dello Stato, su proposta del Primo Ministro); ed anche così formato il Governo non sarebbe ancora definitivo, perché l’Assemblea Nazionale potrebbe, entro il termine di un mese – elevabile a sei – revocare la fiducia al Governo.

Non rileva una differenza sostanziale tra il fatto che il Primo Ministro sia senz’altro nominato dal Capo dello Stato e successivamente si presenti per il voto di fiducia dinanzi all’Assemblea Nazionale, e l’altro che il Primo Ministro venga designato e, soltanto dopo il voto di fiducia, sia investito nella carica, poiché – come è noto – la nomina del Primo Ministro da parte del Capo dello Stato ha il valore di una designazione, condizionata all’approvazione delle Assemblee Parlamentari.

Più che sulla questione del programma che, a suo avviso, ha scarso rilievo, ritiene che il voto di fiducia del Parlamento al Governo debba costituire un giudizio integrale sulla persona del primo Ministro e dei suoi collaboratori, perché soltanto dalla conoscenza dell’insieme del Governo la Camera avrà tutti gli elementi necessari per esprimere il suo voto.

Quanto alla proposta dell’onorevole Nobile – che scinde il momento della scelta del Primo Ministro da parte dell’Assemblea Nazionale da quello della nomina da parte del Capo dello Stato – osserva che, se formalmente questa si allontana molto dal progetto del Comitato, dal punto di vista sostanziale gli è molto più vicina, perché il Capo dello Stato, procedendo alle consultazioni di rito prima di designare una determinata persona, potrà ascoltare e tenere nel dovuto conto il parere degli esponenti delle varie correnti parlamentari, le quali saranno poi chiamate a pronunciarsi, con il loro voto, sulla nuova formazione governativa.

Fa presente però che l’accettazione dell’emendamento proposto dall’onorevole Nobile intaccherebbe uno dei principî basilari del Governo parlamentare, in forza del quale non solo la nomina, ma anche la scelta del Primo Ministro è di competenza del Capo dello Stato. Rileva che il Presidente della Repubblica, il quale è al di sopra, per quanto è possibile, dei partiti, si trova appunto per questo – nei momenti di incertezza politica durante i quali le Camere non sono le più indicate per procedere ad una rapida scelta della persona da designare – nella posizione migliore per nominare il Primo Ministro; ed è quindi opportuno lasciare al Capo dello Stato un maggior potere discrezionale.

Dichiara perciò di insistere nella formula proposta dal Comitato.

NOBILE fa rilevare che la sua proposta – molto più semplice di quella dell’onorevole Mortati – mira a conferire maggior prestigio alla figura del Primo Ministro, ed a evitare l’inconveniente di reiterate crisi governative, non potendosi più verificare l’eventualità che il Governo, appena nominato, venga rovesciato dal Parlamento, dal momento che è appunto questo che ne ha designato il Capo.

ZUCCARINI è favorevole a che la designazione del Primo Ministro sia fatta dalle Camere – il potere esecutivo non è altro che l’espressione delle Camere e deve sentirsi ad esse legato – perché essa potrà aver luogo con maggior libertà di scelta e con maggiore comprensione di quanto non possa fare il Capo dello Stato. Osserva che nella designazione da parte di quest’ultimo possono entrare, oltre ad elementi di carattere politico, anche elementi di valutazione personale, per cui tale scelta potrebbe avere un risultato diverso da quella fatta dalle Camere.

Rileva altresì che, mentre il Capo dello Stato, dovendo scegliere tra rappresentanti di partiti tra loro contrastanti, sarà portato a designare il capo del partito più forte, l’Assemblea potrà scegliere l’uomo politico che, pur non essendo capo di un partito, raccolga, per le qualità personali e per la fiducia che ispira, il consenso anche di altri gruppi politici e dia quindi garanzia di una maggiore stabilità del Governo.

Concludendo, dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole Nobile, nella quale, peraltro, occorrerebbe fare talune precisazioni dei vari problemi che la questione in esame coinvolge.

LA ROCCA, Relatore, una volta ammesso che il potere è unico e promana dalla volontà del popolo, osserva che il principio della sovranità popolare sarebbe intaccato, se si conservasse il sistema tradizionale della scelta e della nomina del Primo Ministro da parte del Capo dello Stato. Pur riconoscendo che anche quest’ultimo è emanazione dell’Assemblea Nazionale, ritiene che non gli si possa concedere la facoltà di nominare senza alcuna riserva il Primo Ministro, in quanto questi deve riscuotere sopra tutto la fiducia delle Assemblee parlamentari.

PRESIDENTE rileva che la designazione da parte dell’Assemblea Nazionale, di cui parla la proposta Nobile, non ha il valore giuridico di una nomina, bensì di una proposta, a cui deve seguire l’investitura formale da parte del Capo dello Stato.

NOBILE pone in rilievo il fatto che, con la sua proposta, alle consultazioni – limitate e di carattere privato – che il Capo dello Stato ha con le varie personalità politiche, si sostituisce la discussione, più ampia e pubblica, in seno all’Assemblea Nazionale, la quale con una votazione designerà la persona del Primo Ministro.

EINAUDI, premesso che tutti sono d’accordo nel ritenere che il Primo Ministro e l’intero Gabinetto devono avere la fiducia dell’Assemblea Nazionale, secondo alcuni, o delle due Camere – separatamente l’una dall’altra – secondo altri, e che tale fiducia ha per oggetto non solo la persona e il programma di Governo del Primo Ministro, ma anche l’insieme dei suoi collaboratori e i progetti che questi ultimi si ripromettono di attuare, rileva che il disaccordo si manifesta circa il sistema da seguire nella designazione. Fa presente che, infatti, alla tendenza la quale vorrebbe che la designazione provenisse rigidamente, anche dal punto di vista esteriore, dal Parlamento, fa riscontro l’altra più elastica, secondo la quale la scelta dovrebbe esser fatta dal Capo dello Stato, il quale nominerebbe la persona che supponesse avere la fiducia del Parlamento, persona che soltanto dopo aver raccolto il voto di fiducia delle Camere potrebbe considerarsi senz’altro investita nella carica di Primo Ministro.

Dichiara che, a suo avviso, il sistema elastico è il più efficace. La scelta da parte del Capo dello Stato di una determinata persona ha luogo dopo consultazioni ed accordi tra personalità e gruppi politici, e il designato, prima di accettare, si assicura la collaborazione di un certo numero di membri del Parlamento, i quali alla loro volta hanno un certo seguito in seno alle Camere. In tal modo è prevedibile che la persona designata avrà un voto favorevole dal Parlamento.

Rileva che il sistema rigido offre l’inconveniente che il Primo Ministro finisce con l’essere nominato direttamente dal Parlamento, perché il Capo dello Stato deve seguire obbligatoriamente la designazione; in secondo luogo fa presente l’inopportunità che la designazione sia fatta dall’Assemblea Nazionale (che non è un corpo organico, ma una riunione accidentale di uomini che non hanno una volontà unitaria), anziché dalle due Camere separatamente, perché potrebbe darsi che un Primo Ministro, designato dall’Assemblea Nazionale, non godesse la fiducia di una dello Camere, con la conseguenza di generare conflitti tra un ramo e l’altro del Parlamento.

Fa poi una considerazione di carattere psicologico: un’Assemblea che deve scegliere il Primo Ministro non designerà l’uomo migliore, ma, nella maggior parte dei casi, colui che incontra minori ostilità e minori opposizioni da parte dei componenti l’Assemblea stessa, con grave detrimento degli interessi del Paese. Quando invece l’Assemblea si trovi di fronte ad una designazione fatta dal Capo dello Stato, essa può dare il suo giudizio facendo astrazione da simpatie o antipatie individuali e, mentre più difficilmente sarà indotta a dare un voto di sfiducia, più facilmente darà la sua fiducia al migliore uomo di Stato, anche se non ha il seguito più numeroso, così come è accaduto non molto tempo fa in Inghilterra, quando il Parlamento approvò la designazione fatta dal Re a Primo Ministro del Capo del Partito laburista, che alle elezioni aveva avuto il secondo posto. Ricorda a questo proposito che nella pratica costituzionale inglese esiste un segretario privato del Re, il quale è depositario delle regole tradizionali ed indica al Re il modo come esercitare la propria discrezionalità, appunto secondo tali tradizioni.

Dichiara quindi di essere favorevole alla formula dell’articolo 19 del progetto, la quale si limita ad indicare il modo in cui si deve procedere alla nomina; aggiunge che in un articolo successivo potranno essere indicate le modalità soltanto del voto di sfiducia, non essendo, a suo avviso, necessario distinguere i due momenti del voto di fiducia e di sfiducia, i quali vengono a sommarsi in uno soltanto.

Ritiene poi inopportuno codificare nella Costituzione quanto è prospettato nella formula suggerita dall’onorevole Mortati, cioè che l’Assemblea Nazionale possa, entro un mese dalla nomina del Governo, revocare la fiducia in un primo tempo accordata.

Concludendo, ribadisce il concetto che il punto fondamentale del problema è che nessun Governo possa essere costituito senza la fiducia delle Camere.

ZUCCARINI rileva che quanto ha osservato l’onorevole Einaudi, cioè che la designazione da parte dell’Assemblea Nazionale potrebbe cadere sulla persona più accomodante perché desta minori antipatie, si può verificare anche per la nomina fatta dal Capo dello Stato, la cui funzione è più che altro decorativa; ma egli è convinto che, trattandosi del Primo Ministro, l’Assemblea designerà l’uomo più energico e più capace, in quanto gli affida il compito di governare la Nazione. Ricorda che appunto questo difetto del sistema parlamentare di affidare la nomina del capo del potere esecutivo al criterio di scelta del Capo dello Stato ha reso possibile l’avvento del fascismo.

D’altra parte, il fatto che il Primo Ministro sia venuto ad assumere una funzione molto importante rende, a suo avviso, sempre più necessario che la designazione per questa nomina sia affidata all’Assemblea Nazionale: gli inconvenienti derivanti da tale sistema di nomina sono preferibili a quelli che inevitabilmente derivano da una scelta fatta dal Capo dello Stato. Riconosce che in quest’ultimo caso sarà sempre possibile all’Assemblea rovesciare il Governo con un voto di sfiducia; ma rileva che la persona designata dal Capo dello Stato si verrà a trovare in una condizione di privilegio per il fatto di essere già al potere e quindi difficilmente avrà dalle Camere un voto di sfiducia.

Dichiara perciò di essere favorevole all’emendamento proposto dall’onorevole Nobile.

MORTATI rileva che il problema consiste nel decidere se il Governo possa assumere il potere con o senza l’espresso voto di fiducia delle Camere. Aggiunge che, prima di addivenire ad una decisione sul sistema proposto dall’onorevole Nobile, è necessario conoscere quali sviluppi avrà questa designazione – che è l’atto col quale si inizia il procedimento – e se abbia o meno carattere vincolante.

PRESIDENTE rileva che a fondamento della proposta dell’onorevole Nobile è il principio che la designazione del Primo Ministro – a suo avviso, vincolante – debba essere fatta da parte di un organo parlamentare, salvo poi a determinare in seguito se tale organo sarà l’Assemblea Nazionale o sarà costituito dalle due Camere, separatamente l’una dall’altra.

NOBILE, pur ritenendo nella sostanza vincolante tale designazione, è del parere che sia più opportuno non parlare di questo.

EINAUDI è contrario alla proposta fatta dall’onorevole Nobile, la quale pregiudicherebbe, se accolta, il prestigio del Capo dello Stato.

FABBRI è anch’egli contrario alla proposta Nobile, che considera pregiudizievole al prestigio della Camera, la quale dovrà limitarsi a fare una designazione molto generica, senza conoscere la composizione e il programma del Governo. Rileva inoltre che tale proposta è in certo senso superflua, perché il Capo dello Stato potrà essere egualmente informato delle tendenze dominanti in seno alle Camere dai Presidenti delle due Assemblee, che non mancherà di consultare prima di affidare ad una determinata persona l’incarico della formazione del Governo.

PRESIDENTE dichiara, come ha già fatto in seno al Comitato, di essere contrario all’emendamento proposto dall’onorevole Nobile.

LA ROCCA, Relatore, insiste nel manifestare il suo favore alla proposta dell’onorevole Nobile: a suo avviso, la nomina del Primo Ministro dovrebbe essere fatta direttamente dall’Assemblea Nazionale, che è emanazione della volontà popolare.

Ad ogni modo, per il caso che la proposta dell’onorevole Nobile non fosse accolta, propone che, in linea subordinata, si chiarisca il testo del progetto stabilendo che il Capo dello Stato procede alla nomina del Primo Ministro dopo «le consultazioni d’uso», sia per rendere obbligatoria con una norma costituzionale la prassi – finora seguita dal Capo dello Stato, il quale si uniformava al metodo seguito negli altri Paesi retti a sistema parlamentare – di udire, prima di procedere alla nomina, i vari esponenti dei gruppi parlamentari e i Presidenti delle Camere, sia per affermare la necessità di tener presente la espressione della volontà delle Camere nel momento della scelta del Primo Ministro. In tal modo si eviterà il pericolo che il Capo dello Stato faccia una politica personale o proceda alla nomina secondo criteri personali.

FUSCHINI obietta che la nomina del Primo Ministro è in ogni caso sottoposta all’approvazione del Parlamento attraverso il voto di fiducia.

LA ROCCA, Relatore, replica che l’esperienza recente dimostra che tale disposizione non è sufficiente a garantire che la nomina fatta rispecchi i pareri dominanti nel Parlamento.

ZUCCARINI concorda con l’onorevole La Rocca nel ritenere che la pratica deve insegnare più della teoria. Il fatto che il Re, pur procedendo nelle consultazioni di rito, abbia nel 1922 nominato Mussolini Presidente del Consiglio, pose quest’ultimo in una posizione di privilegio, poiché era ormai divenuta un’abitudine che la nomina da parte del Capo dello Stato dovesse essere senz’altro accettata. Ricorda anche il caso analogo verificatosi in Germania con la nomina di Hitler a Cancelliere del Reich da parte del Presidente Hindenburg.

Riconosce che la proposta Nobile può offrire il fianco alle critiche, ma dichiara che, a suo avviso, essa risponde alle necessità della situazione e a quello spirito nuovo di cui deve essere permeata la nuova Costituzione del popolo italiano.

TOSATO, Relatore, fa presente che la proposta subordinata dell’onorevole La Rocca fu presentata in seno al Comitato, ma fu respinta perché si ritenne che non potesse inquadrarsi nel sistema costituzionale adottato. Spiega infatti che, una volta costituzionalmente stabilita la forma di Governo parlamentare, l’esercizio dei poteri da parte del Capo dello Stato deve essere inquadrato nell’insieme dell’ordinamento di cui il Capo dello Stato è una parte; e quindi, nel caso in discussione, la nomina del Primo Ministro deve essere preceduta da quelle consultazioni che sono ritenute necessarie affinché la scelta fatta dal Capo dello Stato soddisfi le esigenze della maggioranza parlamentare. Del resto, ritiene che quest’obbligo del Capo dello Stato sia costituzionalmente garantito dalla norma, già approvata, che dichiara il Presidente della Repubblica responsabile qualora, nell’esercizio delle sue funzioni (cioè anche nel caso che proceda alla nomina di un Governo non assolutamente a base parlamentare), violi la Costituzione.

Dichiara infine di condividere le preoccupazioni manifestate dagli onorevoli La Rocca, Nobile e Zuccarini, ma ritiene che non possano essere rimosse con la introduzione nella Costituzione di una norma prescrivente l’obbligo della designazione del Primo Ministro da parte dell’Assemblea Nazionale anziché del Capo dello Stato, in quanto tali pericoli possono purtroppo sorgere con qualsiasi sistema costituzionale.

LAMI STARNUTI è favorevole all’emendamento proposto dall’onorevole Nobile, che tende ad eliminare l’eventualità, sia pure remota e concettuale, di una politica personale da parte del Capo dello Stato. Aggiunge che, se è vero che la nomina del Primo Ministro da parte del Capo dello Stato potrebbe essere invalidata dal voto contrario del Parlamento, è altrettanto vero che il Capo dello Stato potrebbe sciogliere le Camere e convocare gli elettori, nei confronti dei quali non mancherebbero di esercitarsi le pressioni delle autorità costituite.

LUSSU condivide anch’egli le preoccupazioni testé manifestate, ma ritiene che non sia difficile trovare una formula che sancisca l’obbligo da parte del Capo dello Stato di interpellare le varie correnti politiche prima di procedere alla nomina del Primo Ministro; per quanto non creda tutto ciò necessario, perché pensa che, malgrado ogni garanzia, quando il Paese è corrotto sia sempre possibile al Capo dello Stato innestare nell’azione politica del Governo un’azione politica personale. Appunto per questo dissente dall’onorevole Zuccarini, il quale invece ha affermato che nel 1922 fu possibile a Mussolini di raggiungere il potere, perché nella Costituzione non erano contenute garanzie sufficienti circa l’esercizio dei poteri del Capo dello Stato.

Dichiara quindi di essere contrario alla proposta fatta dall’onorevole Nobile, la quale, a suo modo di vedere, sconvolge il sistema predisposto dal Comitato e riporta allo schema della Costituzione francese, fondata su una diversa concezione.

NOBILE, rispondendo all’onorevole Lussu, osserva di non comprendere perché, se la Francia, la quale non ha avuto la triste esperienza del fascismo, ha sentito il bisogno di introdurre innovazioni del genere nella Costituzione, l’Italia non dovrebbe riscontrare la necessità di fissare norme analoghe nello Statuto.

TOSATO, Relatore, concorda con l’onorevole Lussu nel ritenere che la proposta dell’onorevole Nobile sconvolga il sistema concretato nel progetto.

Ribadisce poi il concetto che si tratta di materie che si collegano una all’altra; quindi l’adozione del sistema della designazione parlamentare del Primo Ministro verrebbe a svuotare di ogni contenuto la figura del Capo dello Stato, non solo, ma porterebbe alla conclusione che in nessun caso le Camere potrebbero essere sciolte, se non per volontà delle Camere stesse: si arriverebbe, cioè, ad una forma di Governo di Assemblea, perché il Governo dipenderebbe dalle Camere per quanto riguarda non solo la sua durata, ma anche la sua nascita e la sua funzionalità.

Fa presente quindi l’alternativa: o si instaura un Governo parlamentare e si accetta il principio contenuto nel progetto; o si abbandona la tesi del Governo parlamentare, ed allora bisogna incamminarsi su un’altra via; ma una contaminazione non è possibile.

LUSSU è del parere che si possa conservare il sistema del progetto, introducendovi però il concetto della consultazione preventiva delle forze politiche del Parlamento.

TOSATO, Relatore, non ha nulla in contrario a tale soluzione.

MORTATI domanda se il voto negativo nei riguardi della proposta dell’onorevole Nobile precluda la possibilità di una successiva votazione su questo punto: se il Ministero, per poter rimanere al Governo, debba avere il voto di fiducia delle Camere.

PRESIDENTE risponde che il voto negativo non preclude né la possibilità di una successiva votazione nel senso indicato dall’onorevole Mortati, né l’esame della proposta presentata dall’onorevole Mortati stesso o di quella subordinata fatta dagli onorevoli Lussu e La Rocca.

Pone ai voti il concetto contenuto nella proposta dell’onorevole Nobile, cioè che la nomina del Primo Ministro debba essere preceduta da una designazione parlamentare.

(Con 5 voti favorevoli ed 8 contrari, non è approvato).

LUSSU ricorda la proposta subordinata, formulata anche dall’onorevole La Rocca, di rendere obbligatorie le consultazioni d’uso da parte del Presidente della Repubblica, prima di procedere alla nomina del Primo Ministro.

FABBRI fa presente la necessità di formulare tale emendamento aggiuntivo in modo preciso, poiché egli si riserva di votare in un senso o nell’altro a seconda del modo in cui tale proposta sarà formulata.

PRESIDENTE dà lettura di una proposta presentata dagli onorevoli Fuschini e Mortati, la quale assorbe quella precedentemente fatta dall’onorevole Mortati:

«L’Assemblea Nazionale è convocata ogni volta che si debba procedere alla formazione del Governo.

«La persona designata dal Capo dello Stato per la carica di Primo Ministro espone innanzi all’Assemblea le direttive politiche dell’azione governativa ed i principali mezzi proposti per la loro attuazione.

«Nel caso che tale programma sia approvato con voto nominativo dalla maggioranza dei componenti l’Assemblea, il Capo dello Stato investe nella carica il designato, e, su proposta di questi, procede alla nomina dei Ministri».

MORTATI fa presente che il punto fondamentale da considerare è il seguente: se occorra un voto esplicito di fiducia alla persona designata dal Capo dello Stato per la funzione di Primo Ministro, prima che sia investita in tali funzioni.

Aggiunge che col sistema da lui proposto il Capo dello Stato si limita in un primo tempo a fare una designazione della persona incaricata a ricoprire il posto di Primo Ministro, la quale sarà formalmente nominata dopo che l’organo o gli organi parlamentari, ascoltato il programma di Governo, avranno dato il loro voto di fiducia.

PRESIDENTE rileva che tale sistema differisce da quello attuale, in virtù del quale la persona scelta, una volta formato il Gabinetto, è nominata alla carica di Primo Ministro e si presenta innanzi al Parlamento per la discussione del programma di Governo, alla quale fa seguito il voto delle Camere che decide la permanenza in carica o le dimissioni del Gabinetto.

ZUCCARINI è del parere che, prima di considerare la questione del voto di fiducia, si debba risolvere il problema – concretando la proposta in tal senso già fatta in seno alla Sezione – dell’opportunità di stabilire che la nomina del Primo Ministro da parte del Capo dello Stato debba essere preceduta dalle consultazioni d’uso.

PRESIDENTE ritiene che, secondo un criterio logico da seguire nella discussione, si dovrà esaminare anzitutto la proposta degli onorevoli Mortati e Fuschini e quindi quella subordinata ricordata ora dall’onorevole Zuccarini.

Invita intanto l’onorevole Lussu a formulare in termini precisi la proposta subordinata, aggiuntiva all’articolo 19 del progetto.

La seduta termina alle 20.

Erano presenti: Codacci Pisanelli, Einaudi, Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Rossi Paolo, Tosato, Vanoni, Zuccarini.

Assenti: Bordon, Castiglia, De Michele, Finocchiaro Aprile, Grieco, Piccioni, Terracini.

 

ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 1947 (prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

7.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MERCOLEDÌ 8 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Fuschini – Nobile – Tosato, Relatore – Fabbri – Mortati – Einaudi – La Rocca, Relatore.

La seduta comincia alle 11.05.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE riapre la discussione sull’articolo 22, riguardante le mozioni di sfiducia. Ricorda che era stata anzitutto trattata la questione se le mozioni di sfiducia debbano o no essere sottoposte all’Assemblea Nazionale formata dalla riunione delle due Camere, e sottolinea l’importanza di questo problema.

FUSCHINI fa presente che la delicatezza del problema, cui ha accennato il Presidente, deriva dal fatto, già ammesso, della parità delle due Camere. Ricorda che, per consuetudine e tradizione, il voto di fiducia o di sfiducia sull’attività del Governo era sempre dovuto a una manifestazione della Camera dei Deputati, eletta a suffragio universale, non essendosi mai dato il caso di crisi determinate da un voto del Senato, che non era elettivo.

Non crede che questa consuetudine della nostra storia parlamentare possa essere applicata alla nuova Costituzione, la quale ha creato un sistema bicamerale con parità di poteri.

Rilevato come le discussioni di carattere politico partano quasi sempre dal presupposto che il Governo faccia delle dichiarazioni, e si concludano con un ordine del giorno sulla politica generale governativa e con un voto che può essere di sfiducia, prospetta il caso che la discussione avvenga in una delle due Camere e che il voto di sfiducia sia dato solo da questa Camera, senza che sia interpellata l’altra. In questo caso il Governo può dare senz’altro le dimissioni. Ma può anche – e qui è l’aspetto nuovo della questione offerto dall’articolo in esame – riunire le due Camere in Assemblea Nazionale, invitandole a riesaminare le sue dichiarazioni e a decidere se il voto di sfiducia formulato da una Camera debba essere mantenuto o corretto.

Non ritiene però che questo sistema di appello all’Assemblea Nazionale, valevole, a suo avviso, per le discussioni sulla politica generale del Governo, possa essere applicato alle discussioni particolari delle leggi, a meno che non siano leggi che importino la firma di tutti i componenti del Ministero. Non crede, cioè, che un voto di non approvazione di un determinato disegno di legge possa considerarsi un voto di sfiducia.

Fa notare, a questo proposito, che l’articolo in esame parla di mozione di sfiducia, e non di mozione di fiducia che è sempre proposta dal Governo, e osserva che bisogna distinguere tra mozione di sfiducia originata da una discussione provocata dal Governo, e mozione di sfiducia non preceduta da una discussione del genere. Solo nel primo caso, quando la mozione di sfiducia sia stata votata da una Camera sola, il Governo può avere facoltà di chiamare le due Camere riunite a un riesame della situazione politica. Quando invece l’eventuale mozione di sfiducia sia stata provocata da un disegno di legge presentato a una determinata Camera, le dimissioni del Governo non debbono essere obbligatorie, ma il Governo potrà chiedere il riesame della situazione da parte delle due Camere riunite in Assemblea Nazionale. Deve anche restare inteso che i disegni di legge siano discussi separatamente dalle due Camere, all’infuori di quelli pei quali la Costituzione stabilisce che vengano discussi dalla Assemblea Nazionale; altrimenti il sistema bicamerale sarebbe svuotato del suo contenuto.

Dichiara che l’articolo in esame va preso in considerazione come un modo per impedire che i Governi possano essere soggetti a crisi troppo frequenti, essendo la stabilità del Governo un’esigenza sentita da tutti. Ma questa stabilità deve essere frutto di una evoluzione del costume politico, e per aiutare siffatta evoluzione occorre evitare che ogni singolo problema diventi motivo di dissidio così profondo col Governo che questo possa essere messo in mora con una mozione di sfiducia. Il voto contrario capace di provocare una crisi deve essere diretto contro la politica generale del Governo, lasciando la possibilità a questo di appellarsi all’Assemblea Nazionale. E, anche quando l’Assemblea Nazionale avrà manifestato la sua fiducia, dovrebbe rimanere aperta al Governo la scelta: o le dimissioni o, d’accordo col Presidente della Repubblica, lo scioglimento del Parlamento. E ciò dovrebbe essere detto con chiarezza.

Concludendo, dichiara di ritenere necessario trovare una soluzione che mantenga la parità delle due Camere, ma nello stesso tempo dia loro la possibilità di risolvere i conflitti che potranno sorgere fra loro. L’appello del Governo all’Assemblea nazionale è uno dei mezzi per risolvere tali conflitti.

Non ha formulato alcuna proposta a questo riguardo, ma si riserva di formularla, se sarà il caso, dopo la discussione.

NOBILE osserva che nel sistema bicamerale, del resto già accettato, le due Camere si equivalgono in tutto, anche politicamente. Infatti, nonostante la loro diversa origine elettorale, non è da aspettarsi che la fisionomia della seconda Camera sia molto diversa da quella della prima. Saranno sempre i grossi partiti che presenteranno le liste dei candidati, e quindi le forze politiche saranno egualmente bilanciate nell’una e nell’altra Camera. In realtà si è creato con la seconda Camera un doppione della prima, rendendo così meno efficace il sistema legislativo. Queste critiche postume non hanno importanza, ma servono a rilevare che non è da aspettarsi che, se il Governo non gode la fiducia di una Camera, possa godere quella dell’altra. L’appello dell’Assemblea Nazionale rappresenta una formalità di più, non essendo da attendersi che essa dia un parere diverso da quello dato da una qualunque delle due Camere, poiché la formazione politica è la stessa.

Per quanto riguarda la convocazione automatica dell’Assemblea Nazionale per presentare un voto di sfiducia, propone di dire che la mozione di sfiducia dovrà preliminarmente essere presentata all’Assemblea Nazionale da almeno un terzo del numero complessivo dei membri delle due Camere. Fa rilevare che quest’ultima parte della sua proposta considera il caso, ammissibile soltanto teoricamente, che un certo numero di membri delle due Camere chieda la convocazione dell’Assemblea Nazionale per presentare una mozione di sfiducia senza averla già presentata in una Camera.

PRESIDENTE osserva che la prima parte della proposta dell’onorevole Nobile, che mira a modificare la disposizione del secondo comma, dicendo: «un voto contrario su una proposta del Governo», richiama alla mente quanto è stabilito nel decreto del marzo 1946 che regola l’attuale Assemblea costituente. Infatti quel decreto, all’articolo 3, dice: «Il rigetto di una proposta governativa da parte dell’Assemblea Nazionale non porta come conseguenza le dimissioni del Governo». È dunque una idea che si avvicina a quella dell’onorevole Nobile.

TOSATO, Relatore, avverte che nel testo distribuito manca una frase, e che bisogna aggiungere le parole: «sull’operato del Governo».

NOBILE preferirebbe dire: «su proposta», o: «su atto del Governo».

PRESIDENTE, quanto alla proposta dell’onorevole Nobile, di prevedere che una mozione di fiducia sia prima votata da una delle due Camere e poi portata all’Assemblea Nazionale, chiarisce che, dicendo che una mozione di sfiducia è di competenza dell’Assemblea Nazionale, si esclude che sia di competenza delle singole Camere. Secondo questo sistema, se in una Camera avviene una discussione che in qualche modo metta in evidenza un dissidio fra la Camera e il Governo, la conseguenza è che un certo numero di deputati e di senatori presenta la mozione di sfiducia, la quale dovrebbe importare la convocazione dell’Assemblea Nazionale. Oppure potrebbe darsi che lo stesso Governo, di fronte ad un disagio manifestatosi in una Camera, prendesse esso l’iniziativa di promuovere in sede di Assemblea Nazionale una discussione che portasse alla questione di fiducia. Le due ipotesi, così prospettate, rispondono anche a quanto è stabilito nella Costituzione francese, in cui si prevede il caso che il Governo stesso prenda l’iniziativa di porre la questione di fiducia. L’altra ipotesi prevista dalla Costituzione francese è che qualcuno proponga una mozione di censura.

Quindi occorrerebbe, forse, considerare le due ipotesi, quando si voglia introdurre una norma che preveda la convocazione dell’Assemblea Nazionale, precisando che l’Assemblea si dovrà convocare dal Presidente quando sia presentata una mozione di sfiducia firmata da un certo numero di componenti dell’Assemblea stessa; o che la convocazione dell’Assemblea possa avvenire su richiesta del Governo, quando questo intenda porre la questione di fiducia.

TOSATO, Relatore, osserva che questa seconda ipotesi nel progetto è senz’altro scartata. Ottenuto il voto di fiducia, il Governo entra in carica e dura in carica, finché l’Assemblea Nazionale non lo revochi. L’Assemblea Nazionale può revocarlo in qualsiasi momento, ma solo l’Assemblea Nazionale. Quindi le discussioni sulla politica generale del Governo in seno alle Camere, con possibilità di crisi, sono estranee allo spirito del progetto.

Se le Camere respingono i progetti di legge presentati dal Governo, il Governo potrà, ma non è obbligato a dimettersi; e, se le due Camere che hanno dato la loro fiducia al Governo ritengano modificata la situazione politica, oppure ritengano che il Governo abbia dato così prova nell’uso dei suoi poteri, presenteranno una mozione di sfiducia all’Assemblea Nazionale.

Si ha così una semplificazione notevole, perché si ha l’abolizione concreta di tutte le discussioni generiche, che non sono altro che tentativi di provocare disordini in qualsiasi momento con danno del Paese, che invece ha bisogno della stabilità del Governo.

FABBRI dichiara, come fautore del sistema bicamerale, di ritenere che questo sia vulnerato sostanzialmente e diminuito nei suoi vantaggi peculiari, ogni qualvolta le due Camere votino contemporaneamente.

Vi possono essere casi in cui ciò sia necessario, come la nomina del Presidente della Repubblica, per la quale si comprende che sia affidata all’Assemblea Nazionale; ma per il resto il funzionamento abbinato delle due Camere è una contradizione in termini.

La pretesa di surrogare l’eventuale mancanza di fiducia da parte delle Camere elette a suffragio universale con una maggioranza che si vada a ricercare in una sola Camera costituita dalla riunione delle due, è letale per il sistema parlamentare ed è contraria al sistema bicamerale.

Il Governo deve godere la fiducia di ciascuna delle due Camere, appunto perché il sistema è bicamerale. Se invece si stabilisce a priori che la fiducia è data soltanto dall’Assemblea Nazionale, è naturale che si debba andare dinanzi all’Assemblea stessa per ogni eventuale conferma di tale fiducia.

Ritiene un controsenso l’ipotesi di un voto di sfiducia da parte di una delle Camere che non provochi una crisi del Governo. Egli è naturalmente disposto ad ammettere che ciò non debba avvenire se non con piena consapevolezza di tutte le possibilità di difesa da parte del Governo e che il voto contrario non importi l’obbligo delle dimissioni, se non quando sia preceduto da una discussione preannunziata con un dato intervallo di tempo; ma, una volta che vi siano questi accorgimenti e queste cautele, se il voto di una Camera si palesa contrario al Governo, bisogna che il Governo modifichi la sua composizione, o si dimetta, o faccia appello al Paese attraverso lo scioglimento della Camera che gli ha dato il voto contrario.

Conclude osservando che concepisce il principio bicamerale come un sistema di equilibrio, in quanto si è stabilito che la seconda Camera debba essere diversa dalla prima, e per l’origine e per la durata, e per il rinnovamento. Invece, strada facendo, si sono venute sovvertendo tutte le decisioni che erano già state prese al riguardo, cosicché si è ridotta la seconda Camera ad una copia della prima, non si capisce per quali reconditi fini.

TOSATO, Relatore, per quanto si riferisce alla questione in discussione, dichiara che il sistema proposto nei riguardi dell’Assemblea Nazionale non lede il sistema bicamerale. Questo ha una sua propria ragion d’essere per l’esercizio della funzione legislativa; trova invece un limite logico per quanto attiene alla concessione e alla revoca della fiducia al Governo.

FABBRI afferma che il sistema bicamerale presuppone un lavoro distinto per cui una Camera deve essere indipendente dall’altra. Quando si stabilisce che il voto di fiducia deve essere dato dalle due Camere riunite insieme, il sistema bicamerale si trasforma in sistema unicamerale.

NOBILE ancora una volta dichiara la necessità di ammettere che ciascuna Camera possa votare una mozione di sfiducia. Se questa è approvata, si tratterà poi di riunire eventualmente l’Assemblea delle due Camere per decidere. Nel caso che la mozione di sfiducia venisse presentata direttamente all’Assemblea Nazionale, dovrebbe essere necessaria per la proposta una forte percentuale dei membri dell’Assemblea stessa.

MORTATI osserva che presupposto della stabilità del Governo è un certo equilibrio risultante da un’intesa tra i partiti, Quando non vi sono gruppi saldamente formati, la stabilità è rimessa alle iniziative di gruppetti isolati che cercano di provocare un voto di sfiducia allo scopo di impadronirsi del Governo: fenomeno che in Italia si può considerare superato, grazie alla formazione dei partiti cosiddetti di massa, risultato benefico dell’applicazione del sistema proporzionale.

Pertanto la speranza che con il Collegio uninominale e con un sistema maggioritario si possa rafforzare la compagine ministeriale è un assurdo: in un regime in cui l’azione dei partiti fosse frantumata attraverso i piccoli collegi, si avrebbe una diminuzione delle forze dei grossi partiti e una moltiplicazione di gruppetti irresponsabili che determinerebbe un aggravamento della situazione e quindi una maggiore instabilità.

Premesso ciò, rileva che l’articolo in esame solleva varie questioni. La prima è se debba essere, oppure no, attribuita al Governo una fiducia preventiva. Il progetto non fa alcuna menzione di come si conferisca la fiducia, ma parla solo di mozioni di sfiducia. Questo rappresenta una lacuna e un’incongruenza, perché, mentre un Parlamento è costretto a subire un Governo a cui non ha accordato alcuna fiducia con un suo voto esplicito, per liberarsene deve emettere un voto di sfiducia a maggioranza qualificata. Ritiene pertanto conveniente, per rendere evidente l’accordo tra l’Assemblea e il Governo e impegnare una certa responsabilità dell’Assemblea nel mantenimento del Governo stesso, di stabilire che l’Assemblea si pronunci espressamente sul programma che il Governo intende attuare. Tale voto preventivo di fiducia dovrebbe essere emesso dalle due Camere riunite, cioè dall’Assemblea Nazionale nel suo complesso.

All’onorevole Fabbri, il quale ha detto che questo sistema distruggerebbe il sistema bicamerale, fa osservare che invece con esso rimane integra quella esigenza di parità che è appunto messa a base del sistema bicamerale, il quale viene utilizzato più efficacemente.

Emesso questo voto di fiducia preventiva da parte delle due Camere riunite su un programma esplicito di Governo, le singole Camere, come tali, non avrebbero il potere di provocare la caduta del Governo. L’affermazione del sistema bicamerale comporta che le due Camere funzionino come organi distinti nella votazione delle singole leggi, per le quali egli si dichiara contrario all’intervento dell’Assemblea Nazionale. Agendo separatamente, le due Camere potranno votare o respingere le singole leggi loro sottoposte, senza che questo agisca sul rapporto di fiducia nei riguardi del Governo. Anche se la votazione negativa da parte delle Camere su singole proposte di legge dovesse essere sistematica, spetterà al Governo di valutare l’opportunità di dimettersi. Finché non vi ha l’iniziativa del Governo, il rigetto delle singole leggi non dovrebbe portare alla caduta. Questa è una delle armi maggiori al servizio della stabilità che si vuole raggiungere, e a questo punto si innesta un altro problema: quello della possibilità del referendum su singole leggi. Un correttivo dell’attrito, che si verificasse su singole misure legislative fra Camera e Governo, potrebbe trovare il suo sbocco precisamente nel ricorso al referendum.

Fa osservare che, nel sistema da lui previsto, trascorso un certo tempo dal voto preventivo di fiducia (tempo fissato in un mese, ma che potrebbe essere protratto fino a sei mesi), il Governo dovrebbe rimanere in carica per un minimo di due anni, entro i quali non potrebbe essere mai revocato. In questi due anni verrebbe meno la possibilità di un espresso voto di sfiducia, salva invece la possibilità dello scioglimento del Parlamento, quando l’antitesi tra questo e il Governo divenisse così grave da compromettere la vita normale dello Stato.

Dichiara a questo proposito che, ove non venisse accolta la soluzione della durata rigida, egli ripiegherebbe sulla soluzione che la sfiducia dovesse essere votata in Assemblea Nazionale, con la stessa maggioranza qualificata richiesta per l’attribuzione della fiducia; ma escluderebbe in ogni caso la tesi sostenuta dagli onorevoli Nobile e Fuschini, perché incongrue col sistema. Infatti, una volta posto il principio che la caduta del Governo possa essere provocata solo da un voto di sfiducia espresso dall’Assemblea Nazionale, non vi sarebbe più luogo per manifestazioni di sfiducia da parte delle singole Camere, che pregiudicherebbero il funzionamento del sistema nel senso di influire preventivamente sulla decisione dell’Assemblea plenaria. Nel caso che si manifestasse la necessità della votazione su una mozione di fiducia o di sfiducia, la discussione dovrebbe essere sospesa per convocare l’Assemblea Nazionale.

Conclude facendo presente la necessità di affrontare, anzitutto, il problema nel modo come si attribuisce la fiducia, se cioè essa si presuma per il semplice fatto che l’Assemblea non la neghi, o se debba essere richiesta in modo espresso. Dichiara di ritenere opportuno di richiedere il modo espresso, anche per vincolare di fronte al Paese il Governo e le stesse Camere, e quindi aumentare le responsabilità di questi organi nei confronti di eventuali dissensi.

PRESIDENTE, circa il modo con cui il Governo ottiene la fiducia una volta nominato, osserva che nell’articolo 22 è detto che «il Primo Ministro e i Ministri devono godere la fiducia dell’Assemblea Nazionale», e che quindi in questa formula è sottinteso evidentemente che è l’Assemblea Nazionale quella che esprime la fiducia. Invece l’onorevole Mortati vorrebbe che l’Assemblea Nazionale, una volta costituito un Governo, gli manifestasse la sua fiducia in modo esplicito.

FABBRI rileva che quindi le discussioni sulle comunicazioni del Governo si farebbero nelle Camere riunite.

PRESIDENTE conferma il rilievo dell’onorevole Fabbri, e fa presente che, inoltre, l’onorevole Mortati ha sollevato anche il problema se il voto di fiducia iniziale al Governo debba essere dato con una maggioranza qualificata o no. Osserva che questo problema si collega con la questione più generale, se nel meccanismo del giuoco parlamentare la fiducia e la sfiducia debbano essere pronunciate dall’Assemblea Nazionale e dalle Camere separatamente; questione che deve essere risolta prima di ogni altra.

EINAUDI rileva che la tesi che la fiducia debba essere data o tolta dall’Assemblea Nazionale discende dalla premessa che sia desiderabile ottenere per mezzo di legge che i Governi siano stabili, e che sia un danno la instabilità dei Governi; premessa che egli ritiene priva di consistenza sostanziale.

Dichiara di considerare desiderabile la stabilità se spontanea, ma dannosa se ottenuta per forza di legge, perché la stabilità non esiste oggettivamente, dipendendo da condizioni che stanno al di fuori dei Governi, e sono invece insite in quelle forze che hanno condotto alla loro formazione. L’instabilità dei Governi è un vantaggio quando essi non hanno una salda radice nelle forze del Paese.

Inserendo nella Costituzione norme dirette a rendere forzatamente stabili dei Governi per loro natura instabili, si fa cosa dannosa, perché si apre la via a colpi di Stato e a rivoluzioni.

Osserva quindi che altra premessa che si pone alla necessità di una votazione solenne di fiducia o di sfiducia al Governo, è la fiducia nei programmi invece che nei capi. Ora, i programmi possono essere formulati da chiunque, e non si distinguono mai l’uno dall’altro: badando ad essi non si costruisce niente. Se v’è una costruzione solida, essa dipende dalle persone che rappresentano il programma e vogliono attuarlo. Figurarsi che soltanto con una votazione fatta su un programma si possa assicurare stabilità al Governo, è figurarsi qualcosa che può stare sulla carta, ma che non ha alcun rapporto con la realtà.

Si dichiara dubbioso sulla convenienza che il voto di fiducia sia dato dall’Assemblea Nazionale, composta di due Camere d’origine diversa, e prive di quel valore che ogni Camera acquista solo col tempo, col permanere nelle successive legislature di un certo numero di deputati e di senatori che, rimanendo in carica, danno a quella Camera uno spirito di corpo che non può essere trasmesso ad un’Assemblea convocata improvvisamente.

Per queste ragioni dichiara di non aver fiducia in una fiducia imposta da una Costituzione, e di avere invece fiducia in una fiducia che nasce spontaneamente verso un Governo in un corpo chiamato prima o seconda Camera.

MORTATI risponde all’onorevole Einaudi che vi sono due forme di instabilità. Una è quella alla quale egli ha accennato, che deriva dal mutamento dello spirito pubblico e dalla modificazione della situazione politica del Paese. Su questa, evidentemente, non v’è niente da fare. È stata prevista l’esistenza di un Capo dello Stato che ha la funzione peculiare di accertare quando questi mutamenti dello spirito pubblico si verifichino, ed appunto al suo intervento è affidato il mutamento del Governo e comunque le decisioni che devono servire a mantenere omogeneo lo spirito pubblico con l’azione di Governo.

Ma vi è anche un’instabilità provocata da una serie di crisi che non trovano fondamento nel Paese, il quale non solo non le approva, ma anzi ne è estraneo e le critica. Tutti sanno che queste crisi sono determinate da situazioni particolari che si verificano nei Parlamenti, dove manca quella composizione che può assicurare la stabilità di un Governo; crisi provocate da manovre di partiti che hanno interesse a rovesciare il Governo in certi momenti, e che non sono sentite nel Paese. Contro questo genere di crisi sono dirette le disposizioni legislative da lui progettate.

Si può dubitare, come ha fatto l’onorevole Einaudi, dell’efficacia di tali espedienti legislativi; ma essi si affidano all’influenza della Costituzione sul costume. Se questa influenza dovesse essere scarsa, sarebbe inutile fare una Costituzione e basterebbe affidarsi agli usi.

EINAUDI replica che tali manovre parlamentari v’erano anche prima del fascismo, e quanto meno leggi si fanno, tanto meglio è.

MORTATI osserva che, comunque, è opportuno che le crisi artificiose provocate da certi gruppi trovino dei limiti nel congegno costituzionale, in modo che siano ridotte al minimo.

Quanto alla distinzione fatta dall’onorevole Einaudi tra programmi e persone, fa osservare che nel sistema da lui progettato vi è una proposizione rivolta a vedere il modo come un programma si attui, in maniera che il giudizio possa riguardare non solo il programma astratto, ma anche quello concreto. Non si tratta di un generico programma di un partito, ma di programmi di Governo su singole misure pratiche e particolari.

EINAUDI osserva che, in tal caso, bisognerebbe scrivere nella Costituzione che i Governi, quando presentano un programma, lo presentano su un punto solo.

MORTATI replica che i programmi dovranno riguardare problemi attuali, di urgente soluzione. Trova degni di molta attenzione i rilievi dell’onorevole Einaudi circa lo spirito di corpo delle due Camere, ma osserva che la confluenza dei due spiriti diversi nell’Assemblea Nazionale potrà dar luogo ad uno scambio proficuo.

LA ROCCA, Relatore, dichiara di concordare con l’onorevole Einaudi nel rilievo che le formule costituzionali, gli accorgimenti tecnici e gli espedienti legislativi non possono creare una realtà inesistente. Osserva quindi che le funzioni che si vogliono attribuire alla Assemblea Nazionale annullano praticamente il sistema bicamerale, dando luogo a una Camera sola. Se il rigetto di una legge da parte di un ramo del Parlamento non deve determinare la crisi del Governo, a che cosa si riduce il compito della seconda Camera? Ritiene che la questione della seconda Camera dovrebbe essere regolata o rivedendo il principio della parità, o dando alla seconda Camera una diversa origine.

NOBILE presenta il seguente emendamento:

«Il Governo, appena nominato, deve esporre davanti a ciascuna Camera il suo programma, provocando un voto di fiducia. La mozione di fiducia dovrà essere approvata dalla maggioranza assoluta di ciascuna Camera. Nel caso che ciò non avvenga, il Governo è obbligato a dimettersi. Il voto contrario dell’una o dell’altra Camera su una proposta del Governo non importa, come conseguenza, la dimissione di questo. Le dimissioni sono obbligatorie solo in seguito ad una espressa mozione di sfiducia approvata dalla maggioranza assoluta di una delle due Camere. La mozione dovrà essere motivata e sottoscritta da almeno un terzo dei membri della Camera. Essa non potrà essere discussa prima che siano trascorsi tre giorni dalla data della sua presentazione».

PRESIDENTE fa presente che il solo quesito che si pone è se il Governo inizialmente abbia bisogno di un voto di fiducia espresso dalla maggioranza semplice o no. Secondo la prassi attuale è sufficiente la semplice maggioranza. Secondo il sistema qui indicato, dato che la sfiducia dovrebbe essere pronunziata a maggioranza qualificata, si domanda se anche il voto iniziale di fiducia debba essere dato a maggioranza qualificata. Il problema fondamentale è quello di decidere se questo voto debba essere espresso dall’Assemblea Nazionale o da una delle due Camere.

FABBRI osserva che la questione è molto grave, e che forse non conviene deciderla in piccolo Comitato.

NOBILE ritiene utile procedere ad una votazione, poiché un voto rappresenta sempre una indicazione.

LA ROCCA, Relatore, esprime il parere che i presenti alla riunione non possano assumersi da soli la responsabilità di una decisione così importante.

La seduta termina alle 12.50.

Erano presenti: Cannizzo, Codacci Pisanelli, Einaudi, Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Rossi Paolo, Terracini, Tosato, Vanoni.

Assenti: Bordon, Castiglia, De Michele, Finocchiaro Aprile, Grieco, Piccioni.

 

POMERIDIANA DI MARTEDÌ 7 GENNAIO 1947 (Prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

6.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI MARTEDÌ 7 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL DEPUTATO PERASSI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Fabbri – Vanoni – Nobile – La Rocca, Relatore – Tosato, Relatore – Mortati – Lussu.

La seduta comincia alle 18.40.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE, in attesa che venga concordato il nuovo testo degli articoli 19, 20 e 21, il quale tenga conto delle discussioni avvenute e degli emendamenti presentati, pone in discussione l’articolo 22, di cui dà lettura:

«Il Primo Ministro ed i Ministri debbono godere la fiducia dell’Assemblea Nazionale.

«Un voto contrario dell’una o dell’altra Camera non importa come conseguenza le dimissioni del Governo o del Ministro interessato. Le dimissioni sono obbligatorie solo in seguito ad una espressa e motivata mozione di sfiducia, approvata da parte dell’Assemblea Nazionale con la maggioranza assoluta dei suoi membri. La mozione di sfiducia sarà discussa non prima di tre giorni dalla presentazione».

Fa notare come, per dare ordine e chiarezza alla discussione, sarebbe opportuno trattare separatamente due punti: 1°) quale sia l’organo competente ad esprimere la sfiducia sul Governo, organo che nell’articolo è indicato in quello delle due Camere riunite; 2°) quali siano le modalità per giungere ad un tale voto ed in particolare quale sia la maggioranza necessaria.

FABBRI non crede che l’organo competente per esprimere la sfiducia nel Governo debba essere l’Assemblea Nazionale. A suo parere, ciò sarebbe in contraddizione col criterio fondamentale del sistema bicamerale, in quanto i lavori di una Camera si trasformerebbero, per tale oggetto, nei lavori delle due Camere riunite. Ritiene che ciascuna delle due Camere debba avere questa competenza; ma che praticamente – in quanto a cautele – non si possa andare oltre il fatto di far precedere il voto da un congruo intervallo di tempo, per dar modo al Governo di convocare la sua maggioranza.

VANONI pensa che la disposizione debba essere considerata nel quadro di quello che sarà il futuro Governo. Se tale Governo dovesse essere come i precedenti, che potevano esser rovesciati su una singola questione portata all’uno o all’altro ramo del Parlamento, avrebbe ragione l’onorevole Fabbri; ma se invece si ritiene che si debba fare un passo per assicurare al Governo la necessaria stabilità e tentare che esso riproduca l’equilibrio che si è manifestato nelle elezioni del Parlamento, la proposta contenuta nell’articolo deve essere considerata con favore, perché non permette crisi se non per un fatto eccezionale, per una grave disfunzione del meccanismo governativo.

Ritiene sia necessario affermare che funzione del Parlamento è quella di far leggi, e funzione del Governo è quella di governare; e che il Governo non può essere rovesciato ad ogni stormir di foglia, perché ciò determina impossibilità di funzionamento nel Governo e malcontento nel Paese. Afferma pertanto che il requisito richiesto nell’articolo, qual è quello della convocazione dell’Assemblea Nazionale, sia una garanzia contro le crisi improvvise dovute a situazioni del tutto transitorie.

NOBILE ritiene che si debba ammettere che una mozione di sfiducia possa essere presentata separatamente nelle due Camere, e soltanto quando queste l’avessero accettata separatamente si dovrebbe arrivare alla convocazione dell’Assemblea Nazionale. Osserva che accettando la formula proposta dal Comitato, le proposte di mozioni di sfiducia si potrebbero ripetere molto spesso, determinando una specie di ostruzionismo, di cui in passato si sono avuti ben noti esempi. Si deve, a suo parere, evitare che un piccolo gruppo di minoranza di una Camera si unisca ad un piccolo gruppo dell’altra Camera per formare il numero richiesto per la presentazione della mozione di sfiducia. Dichiara che la stabilità del Governo gli sta particolarmente a cuore, perché i frequenti mutamenti non consentono di ben governare: vede quindi con simpatia tutti quegli accorgimenti che possano condurre ad un tale risultato.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Nobile nel ritenere che sarebbe necessario colmare una lacuna che si riscontra nell’articolo, inserendo in esso una norma procedurale, la quale determinasse come e quando l’Assemblea Nazionale sia investita della proposta riguardante la sfiducia nel Governo. Aggiunge però, che, a suo parere, se una mozione di sfiducia sia sottoscritta da un certo numero di deputati, questo implichi automaticamente la convocazione dell’Assemblea Nazionale.

LA ROCCA, Relatore, è d’accordo nel ritenere che si debbano conferire al Primo Ministro poteri prevalenti, come pure che si debba assicurare maggiore stabilità al Governo; ma dichiara la sua preoccupazione per il modo con cui lo si vuole ottenere, cioè con la semplice enunciazione di una formula costituzionale. A suo parere, si esce in tal modo dal concetto di un sistema parlamentare, dove l’esecutivo è espressione della volontà del legislativo e si crea un esecutivo che può agire indipendentemente dal legislativo. Non crede bastante la preventiva approvazione del programma governativo per dare al Primo Ministro questo potere prevalente, perché nell’applicazione del programma si può appunto dare a questo un’impronta e un’interpretazione personali: mentre, d’altra parte, il Governo può servirsi di questo potere por irrigidirsi in un determinato atteggiamento, creando così nuove cause di attrito.

Si domanda da chi debba essere promossa la mozione di sfiducia, chi possa provocare la riunione dell’Assemblea Nazionale; e poiché ritiene sia sempre facile raccogliere il numero di oppositori occorrenti a tale scopo, pensa che il Governo potrà trovarsi nelle mani di una minoranza. Non vede come, con la proposta in esame, si possa raggiungere lo scopo di assicurare stabilità al Governo, perché questa deve esser fondata non su vane formule, ma su fatti concreti, cioè sul consenso e sull’appoggio della maggioranza. Se questo non avviene, si corre il rischio di creare un meccanismo costituzionale che impedisce di abbattere un uomo al quale è stato conferito un potere preminente, rendendolo quasi inamovibile, e spianandogli la via a quella dittatura che da tutti si vuole evitare.

A proposito della solenne riunione dell’Assembla Nazionale richiesta per votare la mozione di sfiducia, riferisce, a puro titolo di cronaca, una voce udita poc’anzi, secondo la quale si pensa ad un innesto della forma presidenziale sul sistema parlamentare con l’elezione diretta del Capo dello Stato da parte del popolo.

VANONI osserva all’onorevole La Rocca che non è esatto che le formule costituzionali non abbiano importanza nella formazione della educazione politica di un Paese: ritiene che una formula possa modificare l’ambiente, purché sia razionale e risponda a determinate esigenze. Nota poi che le aspirazioni di cui si è fatto eco l’onorevole La Rocca si muovono intorno alla esigenza di un Governo stabile: se, infatti, il Presidente della Repubblica fosse eletto direttamente dal popolo, ciò vorrebbe significare che esso è messo al di sopra degli organi parlamentari, per potere in certi momenti affermare la propria volontà anche in contrasto ad essi. Ed allora si domanda: se tale esigenza esiste, perché non andarle incontro, senza esautorare gli organi parlamentari, mettendoli anzi in condizioni di far valere il proprio dissenso rispetto all’azione di Governo, e al tempo stesso creare una forma di Governo stabile e entro certi limiti indipendente dalla immediata volontà degli organi parlamentari?

Ricorda il sistema della democrazia americana, ove Parlamento e Governo svolgono due attività distinte che interferiscono tra loro il meno possibile, con buoni risultati positivi. Senza arrivare a questo – sulla cui opportunità si è del resto già discusso – si può introdurre nella Costituzione l’elemento nuovo di un Governo indipendente, entro certi limiti, dall’azione del Parlamento, riservando però a questo la possibilità di intervenire in modo decisivo, quando ciò sia necessario; il che rappresenta una garanzia per il principio democratico. L’essenziale è creare un Governo relativamente stabile; altrimenti è certo che non si farà opera atta al consolidamento dell’ordine che si vuole instaurare.

TOSATO, Relatore, non ritiene possibile che un piccolo gruppo di oppositori possa assumersi la responsabilità di una crisi. Comunque, qui non si tratta di toccare il principio della bicameralità, ma, al contrario, di attenuare le possibili divergenze tra le due Camere ed evitarne i conflitti.

NOBILE non crede che si evitino tali conflitti, perché non è detto che sia incostituzionale che un gruppo politico di una delle due Camere presenti una mozione di sfiducia.

TOSATO, Relatore, ritiene che si debbano evitare i due estremi: uno di un’eccessiva severità, che porta alla quasi impossibilità di convocare l’Assemblea Nazionale; l’altro di una eccessiva facilità per la presentazione di una mozione di sfiducia. Non trova esatto quanto ha detto l’onorevole La Rocca, che si voglia costituire un Governo praticamente inamovibile, perché esso sarà tale finché avrà la sua maggioranza; si tratta invece di stabilire il modo attraverso il quale la negazione della fiducia al Governo debba essere presa in considerazione con la dovuta serietà; e ciò lo porta a ritenere che sia più competente l’Assemblea Nazionale. Non ritiene necessaria una norma di carattere tecnico, perché, se è vero che un piccolo gruppo di deputati può mettere il Governo in difficoltà, bisogna pur scegliere tra l’ostruzionismo quotidiano da parte delle singole Camere o l’ostruzionismo più ridotto da parte dell’Assemblea Nazionale. Rileva infine come si debba tener presente che la mozione di sfiducia deve essere sempre motivata, ciò che costituisce una ulteriore garanzia di serietà.

MORTATI osserva che, se una Camera vota la sfiducia attraverso una mozione, questo fatto determina un preludio di crisi.

Domanda all’onorevole Tosato se, con questo articolo, si escluda la possibilità di sciogliere la Camera che compia questo atto di sfiducia; perché dalla lettera dell’articolo ciò non risulta chiaro.

TOSATO, Relatore, afferma che non lo esclude.

MORTATI rileva allora che lo scioglimento della Camera potrebbe essere stabilito per un Governo che fosse in maggioranza ed escluso per un Governo che risultasse in minoranza.

LA ROCCA, Relatore, trova che il dissenso, il quale pareva fondato su un procedimento tecnico, si sposta invece nel campo della sostanza. A suo parere il punto fondamentale è nella concezione del Parlamento come organo che concentra in sé il controllo politico. Afferma che la radice del potere è nel popolo, e non in senso astratto, perché il popolo trasferisce il suo potere sovrano ai suoi rappresentanti liberamente eletti: e come non si può ammettere che essi possano spogliarsi di questo loro diritto, anche dopo aver dato il voto di approvazione al programma del Governo, così non si può pensare di impedire con delle formule il loro esercizio di controllo e di critica. Non potrà mai accettare un criterio simile, quantunque comprenda e concordi in tutte le garanzie previste, quali la motivazione della mozione di sfiducia, l’intervallo di tempo frapposto alla discussione della mozione, ecc.

Confessa poi che l’affermazione dell’onorevole Mortati, secondo la quale un Governo che resti in minoranza ha pur sempre nelle mani l’arma dello scioglimento delle Camere, gli fa pensare ad un Governo che vuol rimanere al potere ad ogni costo; ad un esecutivo che si vuol sovrapporre al legislativo. Anch’egli vuol creare un esecutivo forte, ma che sia sempre sottoposto al controllo dell’organo da cui deriva e di cui è l’espressione. Ricorda, per contrasto, quanto ha detto l’onorevole Vanoni a proposito di questo aspetto della Costituzione americana e l’affermazione fatta di ritener vantaggioso che l’esecutivo agisca indipendentemente dal legislativo.

VANONI ha riferito l’esempio dell’America per dimostrare che esso va molto al di là del presente progetto.

LA ROCCA, Relatore, rileva che, invece, la nostra Costituzione concepisce l’esecutivo come espressione della volontà del legislativo: non può quindi approvare che si ricorra ad alterazioni, le quali deformano il sistema parlamentare nella sua concezione fondamentale, con l’attribuire poteri eccessivi al Primo Ministro e col creare un meccanismo che rende difficile all’organo, che in un primo momento ha investito della sua fiducia il Governo, di potergli poi negare quella fiducia.

LUSSU, pur essendo favorevole alla limitazione delle crisi, non può difendere questo articolo, alla redazione del quale non fu presente.

Dubita che possa ripetersi quanto si è in passato lamentato, cioè che la sovranità del Parlamento sia esercitata un po’ troppo leggermente. Ritiene che si debba salvaguardare la sovranità popolare, ma al tempo stesso circondare di molte cautele la possibilità di rovesciare un Governo.

Ricorda gli articoli 49 e 50 della Costituzione francese (nella quale però il Senato è stato soppresso come Corpo legislativo e sostituito da un Consiglio della Repubblica che dà pareri soltanto consultivi), i quali consentono la possibilità di un voto di sfiducia, mentre l’articolo 51 stabilisce che, se il Parlamento vota la sfiducia, nel termine di 18 mesi l’Assemblea Nazionale può essere sciolta: ciò che costituisce un grande freno alle crisi.

Nel progetto attuale la disposizione si presenta assai drastica, perché si richiede che le due Camere debbano riunirsi per emettere un voto di sfiducia. Pensa che, una volta stabilito che la seconda Camera ha la stessa potestà della prima, essa potrebbe da sola rovesciare il Governo: ma, dal momento che non si può più proporre che tale facoltà sia concessa soltanto alla prima Camera, non vede con eccessiva preoccupazione il fatto che sia accordata alle Camere riunite. Siccome poi con la riforma autonomistica – che si augura venga approvata – il Ministro degli interni non può fare le elezioni, vede estremamente diminuita ogni possibilità di corruzione del corpo elettorale da parte del potere esecutivo.

NOBILE ripete le difficoltà di ordine tecnico, le quali nel progetto che si esamina rendono complicato il meccanismo che porta al voto di sfiducia e quindi alla crisi del Governo. Non condivide le preoccupazioni derivanti dalla diversa fisonomia delle due Camere, perché in fondo sono sempre i partiti che presentano le liste dei candidati. Del resto, se si volesse, si potrebbe rendere difficile la presentazione della mozione di sfiducia nelle due Camere, richiedendo, ad esempio, che la presentazione di essa avvenisse da parte di almeno tre decimi dei componenti.

Ricorda poi all’onorevole La Rocca che in America l’ostruzionismo non è fatto dall’esecutivo al legislativo, ma viceversa: spesso è l’azione del Presidente che trova ostacoli da parte del potere legislativo.

TOSATO Relatore, non ritiene fondate le preoccupazioni affacciate, anzitutto perché il Governo, per la sua costituzione, ha bisogno della fiducia delle Camere (le Camere riunite lo possono rovesciare solo quando si è determinata una vera modificazione nella situazione parlamentare); in secondo luogo, perché molte attribuzioni, che prima erano di competenza esclusiva del Governo, oggi sono di competenza esclusiva della Camera; ed infine perché il fatto che un voto contrario delle Camere non determini sempre la crisi del Governo significa un effettivo rinsaldamento della indipendenza delle Camere di fronte al Governo. Infatti le Camere, una volta, quando era posta la questione di fiducia, per non provocare continue crisi erano portate ad approvare progetti anche non buoni: dato invece che il voto contrario non importa sfiducia al Governo, le Camere si sentiranno più indipendenti, libere e garantite nella loro piena sovranità.

La seduta termina alle 20.10.

Erano presenti: Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Rossi Paolo, Tosato, Vanoni.

Assenti: Bordon, Codacci Pisanelli, Cannizzo, De Michele, Einaudi, Finocchiaro Aprile, Grieco, Piccioni, Terracini, Zuccarini.

ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 7 GENNAIO 1947 (Prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

5.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI MARTEDÌ 7 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL DEPUTATO PERASSI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Tosato, Relatore – Fabbri – Mortati – Fuschini – La Rocca, Relatore – Rossi Paolo – Nobile – Lussu – Vanoni.

La seduta comincia alle 10.45.

(Nell’assenza dell’onorevole Terracini, la Sezione invita il Segretario onorevole Perassi ad assumere la Presidenza).

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE fa presente che la discussione odierna verte ancora sugli articoli 19, 20 e 21 del progetto. All’articolo 20 l’onorevole Fabbri ha proposto il seguente emendamento:

«Il Primo Ministro, a seguito dell’adesione dei vari Ministri al programma del Governo da lui presieduto, precisa ed enuncia le direttive di politica generale del Governo stesso, delle azioni ed omissioni del quale sono responsabili solidalmente tutti i Ministri».

Da parte sua, nell’articolo anzidetto propone di sostituire, alle parole: «Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo», le seguenti: «Il primo Ministro dirige la politica generale del Governo»; e all’ultimo comma propone un emendamento sostitutivo così concepito:

«Il Primo Ministro ed i Ministri sono solidalmente responsabili della politica generale del Governo e ciascuno di essi individualmente degli atti di sua competenza».

L’onorevole Mortati poi ha proposto di sostituire all’articolo 20 un altro del seguente tenore:

«Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo. Egli cura il tempestivo adempimento degli impegni da questo assunti, nonché il mantenimento dell’unità di indirizzo politico ed amministrativo dei Ministeri e, a questo scopo, vigila sull’attività dei Ministri e la coordina, individualmente ed in Consiglio dei Ministri, risolvendo i conflitti che sorgano fra essi».

L’onorevole Mortati ha infine proposto un articolo 20-bis così concepito:

«I Ministri sono responsabili degli atti o omissioni relativi ai compiti dei loro Ministeri, nonché degli atti di politica generale cui concorrono».

TOSATO, Relatore, osserva che non è facile mantenere l’unità di indirizzo politico in un Governo formato da una coalizione di più partiti fortemente differenziati fra loro. Affinché tale unità di indirizzo possa essere assicurata, occorre dare, secondo il suo avviso, al Primo Ministro quei poteri che sino ad oggi non gli sono stati mai attribuiti. Ciò, s’intende, nell’ambito e per l’attuazione di un determinato programma politico esposto dal Primo Ministro al Parlamento e da questo approvato.

Da questo particolare punto di vista non gli sembra che con il testo dell’articolo 20 del progetto si attribuisca al Primo Ministro il potere necessario per attuare un dato programma politico governativo dopo che questo sia stato approvato dal Parlamento. Nello stesso tempo la formula proposta dall’onorevole Perassi per il primo comma dell’articolo 20 non gli sembra la più opportuna, perché potrebbe far pensare che debba essere soltanto il Primo Ministro a fissare la politica generale del Governo, la quale, invece, è fissata in un accordo dei diversi partiti chiamati a far parte del Governo e viene poi approvata dal Parlamento. Non gli sembra neanche opportuna la formula proposta dallo stesso onorevole Perassi per l’ultimo comma dell’articolo anzidetto, secondo la quale il Primo Ministro ed i Ministri dovrebbero solidalmente essere responsabili della politica generale del Governo. Con ciò, dopo l’accordo generale fra i diversi partiti sull’indirizzo politico del Governo, si renderebbero necessari, per l’attuazione del programma governativo, accordi particolari in seno al Consiglio dei Ministri. Si ritornerebbe, così, al sistema del Governo di Gabinetto, con gli inconvenienti da tutti oggi lamentati, ossia di un Governo che, pure avendo formulato un suo programma politico, non sempre svolge con la dovuta tempestività e efficacia la sua azione politica. In un sol modo si possono evitare simili inconvenienti, accentuando, cioè, la responsabilità politica del Governo nella persona del Primo Ministro. Dopo che il Parlamento abbia approvato il programma politico governativo concordato fra i ministri dei diversi partiti, soltanto il Primo Ministro dovrà avere il potere di attuarlo; e di ciò senz’altro egli deve essere tenuto responsabile.

In considerazione di quanto ha già esposto, propone che al primo comma dell’articolo 20, fra le parole: «Il Primo Ministro è responsabile», e le altre: «della politica generale del Governo», siano incluse le seguenti: «della attuazione». Il resto del comma potrebbe restare invariato, o al più potrebbe subire una lieve modifica, se si ritenesse opportuna, aggiungendovi le parole: «Il Primo Ministro vigila sull’attività dei Ministri», contenute nel testo sostitutivo dell’articolo 20, proposto dall’onorevole Mortati.

Propone infine che l’ultimo comma dell’articolo in questione, in cui si stabilisce che i Ministri sono responsabili degli atti dei loro Ministeri, sia soppresso.

Ritiene che, con l’accoglimento di tali emendamenti, il testo dell’articolo 20 attribuirebbe una maggiore responsabilità e quindi un maggiore potere al Primo Ministro nell’attuazione della politica generale del Governo.

PRESIDENTE dichiara che la parola «dirige» contenuta nel primo emendamento da lui proposto non dev’essere interpretata nel senso che sia il Primo Ministro a fissare la politica generale del Governo. Il programma politico governativo non può essere fissato che con l’accordo tra i vari partiti chiamati a far parte del Governo e dev’essere poi approvato dal Parlamento. Il compito del Primo Ministro, quindi, è soltanto quello di curare che quel programma sia attuato. È in tal senso che egli deve avere la direzione della politica generale del Governo.

Non ritiene, poi, che la responsabilità dei Ministri debba essere limitata agli atti dei loro Ministeri, secondo quanto dispone l’ultimo comma dell’articolo 20. A suo avviso, i Ministri devono anche essere responsabili, solidalmente con il Primo Ministro, della politica generale del Governo. Di qui la proposta del suo secondo emendamento.

FABBRI fa presente che la sua proposta di emendamento risponde agli stessi criteri esposti dal Presidente. Difatti, una volta ottenuta l’adesione dei vari Ministri al programma del Governo, il Primo Ministro precisa ed enuncia le direttive della politica generale del Governo stesso: ciò costituisce il suo compito specifico.

Relativamente però alle azioni e omissioni del Governo riguardo all’attuazione del programma governativo, si dovrebbe avere la responsabilità solidale di tutti i Ministri.

MORTATI non crede che, rispetto al potere da attribuire al Primo Ministro, esista una notevole differenza di significato tra l’espressione: «dirige la politica» e l’altra: «è responsabile della attuazione della politica». In ogni modo, per meglio precisare il fatto che la politica di cui dovrà essere responsabile il Primo Ministro non può essere che quella approvata dal Parlamento, si potrebbe apportare al primo comma dell’articolo 20 il seguente emendamento:

«Il Primo Ministro è responsabile della attuazione della politica generale del Governo approvata dal Parlamento».

Non ritiene poi opportuno che non si faccia alcuna menzione della responsabilità dei vari Ministri, secondo quanto ha suggerito l’onorevole Tosato, proponendo la soppressione dell’ultimo comma dell’articolo anzidetto.

TOSATO, Relatore, fa presente che, con la formula dell’articolo 20, si mira a dare al Primo Ministro una posizione quale finora questi non ha avuto mai nella storia politica del nostro Paese.

Difatti, al secondo comma dell’articolo in questione si stabilisce che il Primo Ministro può assumere un Ministero soltanto ad interim. Il Primo Ministro, quindi, dovrà essere soltanto tale, perché, per un’espressa norma della Costituzione, normalmente non sarà preposto ad alcun Ministero. Ciò trova conferma nella disposizione del primo comma dell’articolo 21, secondo cui si dovrà provvedere con legge all’ordinamento della Presidenza del Consiglio per il coordinamento delle attività di tutti i vari Ministeri. È per questo che, a suo avviso, si dovrebbe parlare soltanto della responsabilità del Primo Ministro; ciò infatti servirebbe a porre in maggior rilievo la posizione di preminenza, non soltanto formale, che si vuole attribuire al Primo Ministro nei confronti degli altri Ministri. Circa la responsabilità di questi ultimi, non occorre che essa sia menzionata, in quanto i Ministri fanno parte del Governo, sono preposti a determinati dicasteri e quindi non possono non essere responsabili di tutte le deliberazioni alle quali concorrono e di tutti gli atti che essi emanano.

PRESIDENTE osserva che la parola «responsabile» può dar luogo ad equivoci. Gli sembra che nell’articolo 20 essa sia usata per significare «ha il compito di», non già per ammettere una responsabilità in senso proprio. Pertanto, se nell’articolo anzidetto, alla parola: «responsabile» fosse sostituita l’espressione: «ha il compito di», o altra equivalente, si potrebbe accedere alla proposta dell’onorevole Tosato di non fare alcuna menzione della responsabilità dei vari Ministri, che implicitamente viene ad essere determinata dall’articolo 19 in rapporto al primo comma dell’articolo 22, in cui si stabilisce che il Primo Ministro e i Ministri debbono godere la fiducia dell’Assemblea Nazionale. Se invece l’articolo 20 dovesse avere inizio con l’espressione: «Il Primo Ministro è responsabile», sarebbe necessario, a suo avviso, affermare il principio che anche i Ministri sono responsabili della politica generale del Governo, nonché, naturalmente, degli atti dei loro Ministeri. Ciò per evitare l’incongruenza di avere un Primo Ministro responsabile della politica generale del Governo e gli altri Ministri responsabili soltanto degli atti relativi ai compiti dei loro Ministeri.

TOSATO, Relatore, fa presente che, con la parola «responsabile», effettivamente si vuole significare «ha il compito», o «ha il potere di», come giustamente ha osservato il Presidente. Pertanto il Primo Ministro dovrebbe avere un determinato potere, che però verrebbe meno, ove si prescrivesse una responsabilità solidale di tutti i Ministri per ciò che concerne la politica generale del Governo.

FUSCHINI ritiene che, per meglio risolvere la questione in esame, sarebbe opportuno aggiungere all’articolo 19, come ultimo comma, il primo comma dell’articolo 22, in cui si stabilisce che il Primo Ministro ed i Ministri debbono godere la fiducia dell’Assemblea Nazionale. Si potrebbe così accedere alla prima proposta di emendamento, fatta a proposito dell’articolo 20 dal Presidente, secondo cui è il Primo Ministro a dirigere la politica generale del Governo.

Sopprimerebbe, poi, l’ultimo comma dell’articolo anzidetto, in cui si stabilisce che i Ministri sono responsabili degli atti dei loro Ministeri, per accogliere, come articolo 20-bis, quello proposto dell’onorevole Mortati, in cui si afferma che i Ministri sono responsabili degli atti od omissioni relativi ai compiti dei loro Ministeri, nonché degli atti di politica generale cui concorrono: infatti, non si può non ammettere una responsabilità solidale di tutti i Ministri per gli atti di politica generale che siano il risultato di una deliberazione del Consiglio dei Ministri. Una responsabilità dei Ministri per la politica generale del Governo occorre sia prevista, anche se essa in un certo senso sia di secondo ordine di fronte a quella del Primo Ministro, e ciò per non accentuare troppo il potere del Primo Ministro stesso. Bisogna far sì che questi sia sempre responsabile di una politica collegiale di Governo, non già di una politica propria. Occorre assolutamente evitare che il Primo Ministro possa incorrere in quelli che una volta erano detti «vizi di dittatura», per cui prima del fascismo furono chiamati dittatori uomini politici insigni nella storia del nostro Paese, che pure erano dotati di un profondo spirito liberale.

MORTATI osserva che, con il sistema finora seguito, il Primo Ministro, in effetti, non ha alcun potere per coordinare con la dovuta tempestività i vari provvedimenti adottati dai diversi Ministri. Difatti, secondo una disposizione del decreto del 1901 che regola la posizione del Primo Ministro, i Ministri sono tenuti ad informare il Presidente del Consiglio di tutti i provvedimenti che saranno discussi in seno al Consiglio dei Ministri il giorno prima della riunione di questo. Con ciò il Primo Ministro non può accertarsi con la necessaria tempestività se i provvedimenti presentati dai Ministri siano, oppur no, conformi all’indirizzo generale della politica governativa. Il coordinamento fra i provvedimenti presentati dai Ministri, così, non è più opera del Primo Ministro, ma è demandato al Consiglio dei Ministri, che è l’organo meno adatto ad attuarlo. Di qui i numerosi inconvenienti che oggi tutti lamentano, specie in riferimento alla lentezza, alla inefficacia e alla contraddittorietà dell’azione politica svolta dal Governo.

Ritiene quindi che il potere di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo debba essere senz’altro attribuito al Primo Ministro. È per questo che egli aveva proposto di creare un vero e proprio Ministero della Presidenza del Consiglio: con tale organismo il Primo Ministro avrebbe avuto a sua disposizione il mezzo più adatto per agire tempestivamente ai fini del coordinamento dei provvedimenti adottati dai vari Ministri. In ogni modo, prescindendo dalla proposta anzidetta, ciò che è necessario stabilire è che soltanto il Primo Ministro dovrà avere i poteri necessari per agire tempestivamente allo scopo di mantenere l’unità di indirizzo politico e amministrativo dei Ministeri. Ogni eventuale dissenso fra il Primo Ministro ed uno o più Ministri, a proposito di un dato disegno di legge, già dovrebbe essere composto prima della riunione del Consiglio dei Ministri. Se ciò non fosse possibile raggiungere e il dissenso in seno al Consiglio dei Ministri dovesse permanere, il Primo Ministro dovrebbe sempre avere la possibilità di far prevalere il suo punto di vista. Il Ministro dissenziente, in tal caso, potrebbe appellarsi al Parlamento che solo può giudicare se l’azione politica del Primo Ministro, relativamente a una data questione, si sia discostata, oppur no, dal programma politico del Governo, approvato dal Parlamento stesso. Con ciò è possibile non solo evitare quei pericoli di dittatura a cui ha accennato l’onorevole Fuschini, ma anche, salvaguardando le fondamentali esigenze della libertà e della democrazia, dare al Governo una certa stabilità, cosa che non sempre è stata raggiunta negli ultimi tempi del parlamentarismo italiano.

TOSATO, Relatore, fa presente che, tra una direzione soltanto formale e un’altra veramente sostanziale della politica generale del Governo, da parte del Primo Ministro, si è adottato col progetto in esame il criterio intermedio di rendere il Primo Ministro responsabile dell’attuazione del programma politico governativo già approvato dal Parlamento. Si tratta quindi ora di attribuire al primo Ministro il potere, non già di fissare, bensì di attuare la politica generale del Governo che è stata approvata dal Parlamento.

PRESIDENTE ha già osservato come, con la disposizione del secondo comma dell’articolo 20, per cui il Primo Ministro può assumere un Ministero soltanto ad interim, il Primo Ministro venga veramente ad essere tale: le sue funzioni, quindi, saranno effettive ed egli non avrà soltanto quella di presiedere il Consiglio dei Ministri. Ciò considerato, con la formula «dirige la politica generale del Governo», gli sembra che si metta in sufficiente evidenza la posizione preminente del Primo Ministro nei confronti dei Ministri, senza tuttavia arrivare ad un ordinamento in cui la responsabilità di questi ultimi debba essere intesa come responsabilità limitata.

Nella Costituzione francese recentemente approvata si dice che i Ministri sono collettivamente responsabili davanti all’Assemblea Nazionale della politica generale del Governo ed individualmente dei loro atti personali. Rinunciare a tale principio non gli sembra conveniente, perché, così facendo, ogni Ministro sarebbe indotto a interessarsi soltanto dell’attività relativa al proprio Ministero, estraniandosi dalla politica generale del Governo. Occorre, invece, che ogni Ministro si senta parte di un’unità, sapendo di essere responsabile con tutti gli altri dell’azione politica svolta dal Governo. Ciò non toglie che il Primo Ministro debba emergere come una figura preminente, dotata di sufficienti poteri per mantenere l’unità di indirizzo del Governo.

LA ROCCA, Relatore, dichiara di essere contrario all’attribuzione di un potere preminente al Primo Ministro per i motivi già prospettati dall’onorevole Fuschini. Osserva, poi, come non sia possibile tradurre in una formula costituzionale il potere preminente goduto dal Primo Ministro in Inghilterra, Paese assai diverso dal nostro per storia, abitudini e tradizioni. In ogni modo, sarà bene non dimenticare che il potere di cui è investito il Primo Ministro in Inghilterra deriva dal fatto che egli è sempre il capo del partito della maggioranza. Ciò in Inghilterra è imposto dal costume e non già da una norma costituzionale.

Ora, con l’adozione del sistema inglese, si vuol mirare a creare in Italia condizioni che qui non esistono. È stato affermato che per un certo periodo di tempo si avranno nel nostro Paese Governi di coalizione; ed è da ritenere che una tale previsione sicuramente si avvererà. Con i Governi di coalizione, però, non è possibile attribuire un potere preminente al Primo Ministro e mettere in sottordine di fronte a lui gli altri Ministri, altrimenti sorgerebbero irreparabili contrasti e dissidi nella compagine stessa del Governo.

Naturalmente il Primo Ministro dovrà avere il compito di coordinare l’attività dei Ministri per mantenere l’unità di indirizzo politico, ma non potrà, né dovrà dirigere da solo la politica generale del Governo. Tale politica è appunto politica del Governo e il Primo Ministro non ne può essere responsabile che insieme agli altri Ministri.

ROSSI PAOLO ritiene che un certo potere preminente sia da attribuirsi al Primo Ministro, proprio in vista dell’eventualità di Governi di coalizione. Difatti, nei Governi di maggioranza non è necessario determinare il potere preminente del Primo Ministro, perché, se questi non l’ha di diritto, lo ha sempre di fatto. La difficoltà maggiore, quando si è sicuri di avere per un periodo di tempo più o meno lungo Governi di coalizione, consiste nel tradurre in pratica questo potere preminente da attribuirsi al Primo Ministro. Si tratta, in altri termini, di determinare i limiti di un tale potere.

È del parere che debba senz’altro essere affermata la responsabilità politica di tutti i Ministri di fronte al Parlamento. Ciò si rende indispensabile nei Governi di coalizione, perché altrimenti tutta la responsabilità della politica generale del Governo graverebbe soltanto sulla persona del Primo Ministro e per conseguenza soltanto sul partito che egli rappresenta; il che potrebbe creare situazioni di vantaggio e di svantaggio, a seconda dei casi, per tutti i membri del Governo stesso. Ammesso, però, il principio della corresponsabilità politica dei Ministri, è necessario stabilire, secondo le modalità che sembreranno più opportune, anche l’altro principio di un certo potere preminente del Primo Ministro, senza di che i Governi di coalizione sono destinati a svolgere una non sempre efficace azione politica.

NOBILE ritiene che sia necessario attribuire una posizione preminente al Primo Ministro. Ciò già avveniva, di fatto, quando i Governi erano di maggioranza; ma con i Governi di coalizione è venuto meno ogni potere preminente del Primo Ministro e così è venuta a mancare anche l’unità di azione governativa. Per riparare a questo inconveniente, trova inutile fissare in una norma costituzionale il potere preminente del Primo Ministro. Tale potere, infatti, resterebbe lettera morta con i Governi di coalizione, perché nessun partito sarebbe disposto a riconoscerlo, specie se i vari partiti, chiamati a far parte del Governo, dovessero avere un’eguale importanza politica. Un rimedio a tale inconveniente potrebbe aversi nella nomina del Primo Ministro da parte, non già del Presidente della Repubblica, bensì del Parlamento a maggioranza assoluta; ciò che varrebbe a conferire al Primo Ministro maggiore prestigio e autorità. Ma potrebbe avvenire che nel Parlamento i gruppi politici importanti avessero la medesima forza, nel qual caso si potrebbe non giungere ad un accordo. Se ciò si verificasse, si potrebbe studiare un meccanismo, per cui, dopo due o tre votazioni nulle, si fosse obbligati a nominare un Primo Ministro fuori dei partiti politici. Questa proposta, naturalmente, sarà accolta con scetticismo dai componenti la prima Sezione, ma egli sente il dovere di farla, perché la risoluzione del problema in esame si presenta quanto mai ardua e qualsiasi suggerimento in proposito, anche se audace, potrà forse non essere del tutto inutile.

LUSSU dichiara, per l’esperienza da luì fatta negli ultimi tempi come uomo di Governo, di essere favorevole a che il Primo Ministro abbia un potere preminente nei confronti degli altri Ministri. Rileva del resto che a tale conclusione sono giunti più o meno tutti i vari componenti la prima Sezione. Il Primo Ministro attualmente non ha la possibilità di fare un esame tempestivo dei diversi problemi interessanti la vita politica dei Paese e non può quindi coordinare l’attività dei Ministri e mantenere l’unità di indirizzo del Governo. Di qui i gravi inconvenienti da tutti lamentati. Occorre pertanto precisare i poteri da attribuirsi al Primo Ministro, ed a questo fine gli sembra che la formula proposta dall’onorevole Tosato possa senz’altro essere accettata. Ciò non toglie che si possa trovare una formula per stabilire, anche indirettamente, la responsabilità collegiale dei Ministri nei riguardi della politica generale del Governo.

PRESIDENTE osserva che si potrebbe adottare per il primo comma dell’articolo 20 la seguente dizione: «Il Primo Ministro dirige l’attuazione della politica generale del Governo». Con tale dizione, risulterebbe evidente che il compito di fissare la politica generale del Governo non spetta al solo Primo Ministro: questi avrebbe soltanto il potere di dirigere la realizzazione pratica della politica governativa approvata dal Parlamento.

D’altra parte, poiché ritiene che il principio della responsabilità collegiale dei Ministri debba essere affermato nella Costituzione, propone che il testo dell’emendamento già da lui presentato all’articolo 20, in cui si dispone che il Primo Ministro ed i Ministri sono solidalmente responsabili della politica generale del Governo e ciascuno di essi individualmente degli atti di sua competenza, sia aggiunto come ultimo comma all’articolo 19. Conseguentemente nell’articolo 20 dovrebbe essere soppresso l’ultimo comma, in cui si stabilisce che i Ministri sono responsabili degli atti dei loro Ministeri.

ROSSI PAOLO osserva che sarebbe meglio dire, anziché «dirige l’attuazione», «assicura l’attuazione».

VANONI rileva che, con le varie formule proposte, si può correre il rischio di non dare il dovuto rilievo alla figura del Primo Ministro. A suo avviso, è indispensabile, per la salvaguardia della futura democrazia, che sia assicurata un’azione di Governo tempestiva, concorde e efficace. Se non si vuole ricadere nei difetti del passato parlamentarismo, occorre senz’altro stabilire che il Primo Ministro debba essere l’effettivo dirigente della politica governativa.

Quando ci si richiama all’autorità di cui goderono alcuni eminenti capi di Governo nella vita politica del nostro Paese, si fa riferimento ad una situazione politica che era profondamente diversa da quella attuale. Allora non esistevano nel Paese grandi partiti organizzati e l’uomo politico che formava un Gabinetto aveva la preminenza di fatto, se non di diritto, di fronte agli altri uomini politici che egli chiamava, perché aveva fiducia in loro, a far parte del Governo. Oggi, invece, i Governi sono costituiti per accordo tra i grandi partiti che formano la maggioranza dell’Assemblea Nazionale, e i Ministri non sono scelti dal Capo del Governo, ma sono imposti al Capo del Governo stesso dai vari partiti. Inoltre la stessa fissazione del programma governativo è frutto di una pattuizione tra i partiti. Ciò costituisce una situazione estremamente pericolosa per la democrazia, perché comporta la formazione di Gabinetti costituiti da uomini di Governo che non hanno fra loro reciproca fiducia. A questo grave inconveniente bisogna appunto cercare di riparare, attribuendo al Primo Ministro un potere preminente rispetto ai Ministri.

Si è espresso il timore che, stabilendo un potere preminente del Primo Ministro, si possa favorire il sorgere di un regime dittatoriale. Non ritiene che un tale timore sia giustificato, perché, nel caso in cui il Primo Ministro con i suoi poteri andasse al di là della volontà della maggioranza del Parlamento, il Parlamento stesso potrebbe sempre negargli la fiducia e il Governo potrebbe essere sostituito, secondo quanto normalmente avviene in ogni Stato basato su un sistema parlamentare. Non si deve avere paura di dare al Governo una struttura efficiente, quando si hanno gli strumenti per impedirne gli arbitrî. Si deve piuttosto temere di creare Governi inefficienti, perché ciò, specialmente in un Paese tormentato come il nostro, può favorire il sorgere di aspirazioni dittatoriali.

A suo avviso, il Primo Ministro dovrebbe avere il potere di esonerare dalla carica ogni Ministro che non volesse conformarsi alle direttive da lui impartite. Raccomanda che i più esperti di lui in materia tengano presente la necessità di fissare in una norma costituzionale il potere preminente del Primo Ministro nei confronti degli altri Ministri, per poter avere un Governo stabile ed efficiente.

La seduta termina alle 12.30.

Erano presenti: Fabbri, Fuschini, Lami Starnuti, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Rossi Paolo, Tosato, Vanoni.

Assenti: Bordon, Codacci Pisanelli, Cannizzo, De Michele, Einaudi, Finocchiaro Aprile, Grieco, Piccioni, Terracini, Zuccarini.

POMERIDIANA DI SABATO 4 GENNAIO 1947 (Prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

4.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA POMERIDIANA DI SABATO 4 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Bozzi – Tosato Relatore – Perassi – Mortati – Lussu – Fu– schini – Fabbri – Nobile – Einaudi – La Rocca Relatore.

La seduta comincia alle 17.25.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE apre la discussione sull’articolo 17:

«Responsabilità. – Il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per violazione della Costituzione.

«In questo caso, su accusa dell’Assemblea Nazionale, sarà giudicato dalla Corte costituzionale».

BOZZI risolleva una questione già discussa in seno al Comitato di redazione, osservando che con questo articolo si ammette la irresponsabilità del Presidente soltanto per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, di modo che non sarebbe coperto da alcuna garanzia se, per esempio, commettesse un reato, laddove invece i membri delle due Camere sono esenti da perquisizioni domiciliari e non possono essere arrestati, senza l’autorizzazione a procedere della Camera di cui fanno parte. Se non si stabilisce qualche cosa del genere anche per il Presidente della Repubblica, egli avrà un trattamento di immunità inferiore a quello dei membri del Parlamento.

TOSATO, Relatore, fa presente che non si è inclusa nell’articolo alcuna disposizione riguardante la responsabilità penale per i reati comuni del Presidente della Repubblica, per ragioni di opportunità e convenienza.

PRESIDENTE rileva che tra le due ipotesi non v’è una perfetta analogia, in quanto per i membri delle due Camere l’autorizzazione a procedere viene concessa dalla Camera di cui l’accusato fa parte, mentre per il Presidente della Repubblica occorre determinare l’organo competente a concederla.

PERASSI cita il seguente articolo della Costituzione cecoslovacca, in cui il reato, compiuto a titolo privato dal Presidente, gode di un trattamento speciale: «Il Presidente della Repubblica non ha alcuna responsabilità politica per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. La sua responsabilità non è impegnata se non in quanto egli si renda colpevole di alto tradimento o di violazione volontaria della Costituzione e delle leggi penali, ed è giudicato dal Senato costituito in Corte di giustizia».

TOSATO, Relatore, dà notizia della formula che ha sottoposto al Comitato e che questo non ha approvato: «Il Presidente non può essere sottoposto a procedimento penale, senza previa autorizzazione dell’Assemblea Nazionale».

BOZZI preferirebbe stabilire che, durante l’esercizio delle sue funzioni, il Presidente della Repubblica va esente da procedimento penale. Ritiene opportuna questa forma di esenzione processuale, ad evitare che il Presidente della Repubblica possa essere costretto a sedere sul banco degli accusati, sia pure in seguito ad autorizzazione dell’Assemblea Nazionale.

MORTATI informa che il Comitato ha omesso intenzionalmente ogni regolamentazione della responsabilità ordinaria del Presidente. Si tratta quindi di una lacuna volontaria della Carta costituzionale.

PRESIDENTE si rende conto delle ragioni politiche che possono aver consigliato a seguire questo criterio, ma personalmente è contrario a lasciare questa lacuna nella Costituzione, in quanto ritiene che il Presidente della Repubblica, come ogni altro cittadino, debba essere sottoposto, sebbene con certe cautele, alla legge. Né crede che il fatto che venga evitato il procedimento giudiziario possa essere sufficiente a salvaguardare il prestigio della carica, quando sulla persona del Presidente grava un’accusa o un sospetto di colpevolezza. Consiglia, pertanto, una disposizione del seguente tenore:

«Le norme previste nei confronti dei membri delle Assemblee legislative… ecc., sono applicabili al Presidente della Repubblica, sostituendo l’Assemblea Nazionale alle singole Assemblee».

LUSSU ricorda che in seno al Comitato egli è stato uno di quelli che hanno maggiormente sostenuto l’opportunità politica di tacere su questo argomento, per quanto si possa essere tutti d’accordo che il Presidente della Repubblica, qualora commetta un reato, debba essere chiamato a risponderne come qualsiasi altro cittadino.

BOZZI conviene con l’onorevole Lussu; ma fa osservare che, oltre all’ipotesi di reati dolosi, bisogna considerare anche quella dei reati colposi e dei reati perseguibili a querela di parte. È necessario, pertanto, circondare di garanzie la figura del Presidente della Repubblica anche in questi casi, mentre la questione non sorge per i reati che investono la sua figura morale, per i quali sarà travolto dall’opinione pubblica.

FUSCHINI concorda con coloro che sostengono che la Costituzione debba mantenere il silenzio sull’argomento.

FABBRI, premesso che i reati di lieve entità potrebbero essere coperti dalla prescrizione durante il periodo di durata in carica del Presidente, mentre quelli di una certa entità, per i quali l’azione non si prescriverebbe, potrebbero essere perseguiti quando il Capo dello Stato avesse cessato dalle sue funzioni, propone la seguente formula:

«Durante l’esercizio delle sue funzioni, il Presidente della Repubblica non può essere sottoposto a procedure penali, tranne che per violazione della Costituzione, nel qual caso, su accusa dell’Assemblea Nazionale, sarà giudicato dalla Corte costituzionale.

«La deliberazione di accusa dell’Assemblea Nazionale implica decadenza dalla carica».

Così nell’ipotesi, per esempio, di omicidio colposo – a meno che non sia di tale natura da intaccare la personalità morale del Presidente – il Procuratore della Repubblica potrebbe tenere in sospeso il procedimento fino alla cessazione dalle funzioni presidenziali.

Ritiene che al Presidente della Repubblica non si possano accordare le immunità concesse ai deputati senza alterare l’essenza di queste, che sono guarentigie inerenti ad una funzione sostanzialmente diversa da quella di carattere eminentemente rappresentativo del Capo dello Stato.

PRESIDENTE dichiara di preferire una lacuna ad una disposizione che conferisca un privilegio troppo grande al Presidente della Repubblica, il quale è sempre un cittadino fra i cittadini, anche se ricopre il più alto ufficio politico. Non ammetterebbe, infatti che per sette anni il Presidente della Repubblica non rispondesse alla giustizia del suo Paese.

NOBILE propone la seguente dizione:

«Il Presidente della Repubblica non può essere sottoposto, durante il tempo che è in carica, a giudizio penale senza l’autorizzazione dell’Assemblea Nazionale».

FABBRI ripete che non gli sembra che possa giovare nei confronti del Capo dello Stato il principio che vale per ogni parlamentare. Occorrerebbe che l’Assemblea Nazionale pronunciasse contemporaneamente un giudizio di revoca – il che è da escludere, dato che non può essere revocato un mandato a termine – in quanto è inammissibile che un Capo dello Stato resti tale, pur essendo posto nella condizione di imputato.

LUSSU ricorda la dizione dell’articolo 59 della Costituzione francese: «Il Presidente della Repubblica non è responsabile che nei casi di alto tradimento. Egli può essere messo in istato di accusa dall’Assemblea Nazionale e rinviato all’alta Corte di giustizia, nelle condizioni previste dall’articolo 43».

Questa disposizione, tratta da una Costituzione ricca di esperienza, dovrebbe, a suo avviso, consigliare di accogliere la formula proposta dal Comitato.

FABBRI obietta che la Costituzione francese, con l’espressione: «non è responsabile che nei casi di alto tradimento», copre il Presidente dalla responsabilità per reati comuni.

NOBILE osserva che l’eventuale procedimento penale nei confronti del Presidente della Repubblica potrebbe essere considerato come uno di quegli impedimenti che comportano la sua sostituzione.

FABBRI insiste sul concetto che alla messa in stato d’accusa debba seguire la decadenza dall’ufficio, in quanto è inammissibile – data la speciale figura dell’imputato – che il Presidente della Repubblica continui ad esercitare le sue funzioni, o ne venga semplicemente sospeso, mentre è pendente contro di lui un procedimento penale.

MORTATI propone di sopprimere l’inciso: «per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». In conseguenza, il primo comma dell’articolo 17 risulterebbe così concepito:

«Il Presidente della Repubblica non è responsabile tranne che per violazione della Costituzione».

FABBRI preferisce la sua formula, che per i reati comuni implica soltanto una sospensione della procedura e l’archiviazione degli atti fino a quando il Capo dello Stato non decada dalla sua carica. Fa notare che, in sostanza, la sua formulazione è quella che conferisce minori privilegi al Capo dello Stato.

NOBILE, aderendo ad uno dei concetti espressi dall’onorevole Fabbri, modifica la sua proposta originaria come segue:

«Il Presidente della Repubblica non può essere sottoposto a giudizio per reati comuni, senza autorizzazione dell’Assemblea Nazionale.

«Egli non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per violazione della Costituzione.

«In ambedue i casi, su accusa dell’Assemblea Nazionale, decadrà dalla carica e sarà giudicato dalla Corte costituzionale».

PRESIDENTE, riepilogando, avverte che la Sezione si trova di fronte a quattro diversi testi: quello del progetto del Comitato, in cui non si parla di responsabilità penali per reati comuni, ma si stabiliscono soltanto le responsabilità in cui il Presidente della Repubblica può incorrere politicamente nell’esercizio delle sue funzioni; quello dell’onorebole Nobile, a tenore del quale il Presidente della Repubblica non può essere sottoposto a giudizio per reati comuni senza la previa autorizzazione dell’Assemblea Nazionale; quello dell’onorevole Fabbri, per una sospensione del procedimento penale; e quello dell’onorevole Mortati, con cui si sopprime l’inciso: «per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni».

PERASSI nota che, secondo la proposta dell’onorevole Nobile, la messa in stato di accusa produce la decadenza dalla carica. Non vede perché, una volta decaduto dalla carica, il Presidente della Repubblica debba essere sottratto al giudice comune e giudicato dalla Corte costituzionale.

FUSCHINI replica che è il reato (violazione della Costituzione) che implica la giurisdizione speciale.

PRESIDENTE obietta che in questo caso, se mai, non è la natura del reato, ma quella del reo che determina il ricorso alla giurisdizione speciale, perché, se così non fosse, tutti i cittadini colpevoli di violazione della Costituzione dovrebbero essere chiamati a comparire di fronte alla Corte costituzionale. Aggiunge che quanto ha osservato l’onorevole Perassi vale anche per la proposta Fabbri.

FABBRI spiega che, secondo il suo testo, la decadenza consegue unicamente alla violazione della Costituzione. Insiste, quindi, sulla sua formula, rilevando che non è concepibile la qualità di imputato, nei confronti del Capo dello Stato, se non dopo decaduto dalla carica, e nello stesso tempo non è giusto farlo decadere, se il suo reato non è tale da impressionare l’opinione pubblica. D’altro canto, non trova nemmeno logico che debba comparire per i reati comuni al cospetto della Corte costituzionale, anziché dinanzi al giudico ordinario.

PRESIDENTE è contrario alla formula dell’onorevole Fabbri, in quanto crede che dia l’impressione che il Presidente della Repubblica sia immune da ogni azione penale. Qualora la Sezione accogliesse il concetto dell’onorevole Fabbri, consiglierebbe di tradurlo in una formula più comprensibile, in cui si precisasse che il Presidente della Repubblica risponderà degli atti non attinenti alle sue funzioni una volta cessato dalla carica.

Comunque, rilevato che il dissenso dei colleghi verte sull’opportunità di ritenere il Capo dello Stato responsabile anche per i reati comuni, ovvero di sospendere la relativa procedura per tutto il periodo della sua durata in carica, pone ai voti la proposta dell’onorevole Fabbri:

«Durante l’esercizio delle sue funzioni il Presidente della Repubblica non può essere sottoposto a procedure panali, tranne che per violazione della Costituzione, nel qual caso, su accusa dell’Assemblea Nazionale, sarà giudicato dalla Corte costituzionale.

«La deliberazione di accusa dell’Assemblea Nazionale implica decadenza dalla carica».

Personalmente dichiara che voterà contro, perché ritiene che il Presidente della Repubblica in un regime democratico vada considerato come un cittadino fra i cittadini, e come ogni altro debba osservare le leggi e rispondere alla giustizia del proprio Paese.

(Con 5 voti favorevoli e 5 contrari, non è approvata).

Pone in votazione la prima parte dell’articolo proposto dall’onorevole Nobile:

«Il Presidente della Repubblica non può essere sottoposto a giudizio per reati comuni senza autorizzazione dell’Assemblea Nazionale.

«Egli non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni, tranne che per violazione della Costituzione».

(Non è approvata).

Pone ai voti il testo del primo comma dell’articolo 17, con la soppressione dell’inciso: «per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni». Tale testo risulta, quindi, così formulato:

«Il Presidente della Repubblica non è responsabile tranne che per violazione della Costituzione».

(È approvato).

BOZZI domanda che cosa si intenda per «Costituzione»; se la Carta costituzionale soltanto o tutto il complesso delle leggi costituzionali.

TOSATO, Relatore, risponde che si allude a tutte le disposizioni aventi valore costituzionale, anche se non contenute nella Costituzione.

MORTATI, a proposito del capoverso, prospetta l’opportunità di stabilire che la decisione di porre in stato di accusa il Presidente della Repubblica debba esser presa con una maggioranza qualificata dell’Assemblea Nazionale, anziché a maggioranza semplice. Ciò costituirebbe una maggiore garanzia nei confronti di un’Assemblea desiderosa di sbarazzarsi del Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE nota che una certa garanzia è già data dal fatto che si tratta di una deliberazione dell’Assemblea Nazionale e non di una Camera sola.

MORTATI fa rilevare che per l’elezione del Presidente della Repubblica è richiesta una maggioranza qualificata; la stessa procedura dovrebbe quindi seguirsi per deliberarne la decadenza.

BOZZI si associa.

TOSATO, Relatore, propone l’espressione: «dichiarata a maggioranza assoluta dei suoi componenti».

FABBRI insiste sul concetto che non si può ammettere che un Presidente della Repubblica resti in carica, nonostante che sia stato posto in stato d’accusa dalla maggioranza dell’Assemblea Nazionale. Ritiene che la deliberazione dell’Assemblea debba corrispondere ad un atto di revoca.

BOZZI fa rilevare che l’espressione «violazione della Costituzione» è piuttosto vaga, in quanto la violazione potrebbe riferirsi ad una norma secondaria, anche di carattere procedurale, della Carta costituzionale. In questo caso la disposizione diverrebbe di una gravità eccessiva.

PRESIDENTE risponde che anche la violazione di una norma procedurale è una grave mancanza quando è intenzionale.

Pone ai voti il secondo comma dell’articolo 17, così modificato:

«In questo caso, su accusa dell’Assemblea Nazionale, dichiarata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, sarà giudicato dalla Corte costituzionale».

EINAUDI, in quanto non ha fiducia nell’efficienza della Corte costituzionale, formula le sue riserve su tale disposizione.

(È approvato).

PRESIDENTE pone in votazione l’articolo 18:

«Concorso e responsabilità del Governo per gli atti del Presidente. – Nessun atto del Presidente della Repubblica è valido, se non controfirmato dal Primo Ministro e dai Ministri competenti che ne assumono la responsabilità».

(È approvato).

Apre la discussione sul Capo «Il Governo della Repubblica», dando lettura dei seguenti articoli del progetto:

«Art. 19. – Composizione del Governo e nomina dei Ministri. – Il Governo della Repubblica è composto del Primo Ministro e dei Ministri. (Variante: Il Governo della Repubblica è composto dal Primo Ministro, Presidente del Consiglio, e dei Ministri).

«Il Primo Ministro è nominato e revocato dal Presidente della Repubblica.

«I Ministri sono nominati e revocati dal Presidente della Repubblica su proposta del Primo Ministro».

«Art. 20. – Il Primo Ministro. – Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo. Mantiene l’unità d’indirizzo politico e amministrativo di tutti i Ministeri, coordina individualmente, e in Consiglio dei Ministri, le attività dei Ministri, presiede il Consiglio dei Ministri.

«Il Primo Ministro può assumere un Ministero soltanto ad interim.

«I Ministri sono responsabili degli atti dei loro Ministeri».

«Art. 21. – Presidenza del Consiglio e Ministeri. – La legge provvederà all’ordinamento della Presidenza del Consiglio.

«Il numero, le attribuzioni e l’organizzazione dei Ministeri saranno pure stabiliti con legge».

Informa che l’onorevole Mortati propone di sostituire agli articoli 19 e 20 del progetto i seguenti:

«Art. 19. – Il Governo della Repubblica si compone del Primo Ministro, Presidente del Consiglio dei Ministri, e dei Ministri».

«Art. 19-bis. – All’inizio della legislatura l’Assemblea Nazionale è convocata per procedere alla formazione del Governo.

«La persona designata dal Capo dello Stato per la carica di Primo Presidente espone innanzi all’Assemblea le direttive politiche dell’azione governativa ed i principali mezzi proposti per la loro attuazione.

«Nel caso che tale programma sia approvato con il voto nominativo della maggioranza dei componenti l’Assemblea, il Capo della Stato investe nella carica il designato, e, su proposta di questi, procede alla nomina dei Ministri.

«Se entro un mese da tale nomina l’Assemblea non revoca la fiducia al Governo, questo rimane in carica per la durata di due anni, salvo non sia stata elevata accusa contro il Primo Ministro e salvo il caso di accettazione delle dimissioni da questo presentate.

«Durante tale periodo il Capo dello Stato, su richiesta e designazione del Primo Ministro, può procedere alla sostituzione di uno o più Ministri».

«Art. 19-ter. – Il Capo dello Stato potrà procedere allo scioglimento delle Camere, su deliberazione del Consiglio dei Ministri, fino a 3 mesi prima della scadenza del termine di cui al precedente articolo, quando si determini tra il Parlamento e il Governo un persistente conflitto ritenuto gravemente lesivo dell’interesse nazionale.

«La decisione di procedere allo scioglimento deve essere preceduta dalla convocazione dell’Assemblea Nazionale, la quale dovrà formulare espressamente, su appello nominale e con il voto della maggioranza dei suoi membri, il motivo del dissenso con la politica governativa».

«Art. 20. – Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo. Egli cura il tempestivo adempimento degli impegni da questo assunto, nonché il mantenimento dell’unità di indirizzo politico ed amministrativo dei Ministeri, ed a questo scopo vigila sull’attività dei Ministri e la coordina, individualmente ed in Consiglio dei Ministri, risolvendo i contrasti che sorgano tra di essi».

«Art. 20-bis. – I Ministri sono responsabili degli atti od omissioni relativi ai compiti dei loro ministeri, nonché degli atti di politica generale cui concorrono». (Oppure: «I Ministri dirigono con piena autonomia, nell’ambito dell’indirizzo politico fissato dal Primo Ministro, gli affari dei loro ministeri e ne sono responsabili»).

MORTATI fa presente che i problemi che si pongono in questo Capo sono due: quello dei rapporti fra Governo e Parlamento (nomina del Presidente del Consiglio, fiducia, ecc.) e quello dell’ordinamento interno del Gabinetto. Posto che il primo richiederà un esame più approfondito, ritiene che per il momento la discussione dovrebbe essere limitata al secondo, nel senso di stabilire se debba farsi luogo ad una distinzione fra il Primo Ministro ed i Ministri agli effetti della responsabilità e se, nell’interno del Gabinetto, debba conferirsi una posizione di preminenza al Primo Ministro.

PRESIDENTE concorda.

NOBILE, premesso che con le norme proposte dal Comitato, in quanto si conferisce al Presidente della Repubblica la facoltà di scegliere il Capo del Governo, si torna ad un sistema parlamentare il cui ricordo è poco confortante, per le frequenti e lunghe crisi da cui è stato funestato, rileva che, ad evitare il ripetersi degli inconvenienti lamentali e ad assicurare al Governo quella stabilità che è nei voti di ognuno, la scelta del Primo Ministro dovrebbe avvenire attraverso il voto dell’Assemblea Nazionale. Propone, quindi, i seguenti emendamenti ispirati alle disposizioni della Costituzione francese:

Art. 19. – Sostituire al 2° e 3° comma: «Il primo Ministro ed i Ministri sono nominati dal Presidente della Repubblica su designazione dell’Assemblea Nazionale, dopo che egli abbia esposto all’Assemblea stessa il programma e la politica del Gabinetto».

Aggiungere in fine il seguente articolo:

Art. 24. – «Se nel corso del periodo normale della legislatura saranno intervenute due crisi ministeriali, il Presidente della Repubblica scioglierà l’Assemblea legislativa».

PRESIDENTE nota che nel terzo comma dell’articolo 19 del Comitato, si indica non solo chi provvede alla nomina dei Ministri, ma anche la persona che fa le relative proposte (il Primo Ministro).

TOSATO, Relatore, pone in evidenza che il Comitato ha proposto gli articoli di cui il Presidente ha dato lettura, richiamandosi alla prassi tradizionale, cioè a dire: il Presidente della Repubblica dà l’incarico di formare il Ministero dopo le consultazioni di rito; la persona che accetta forma il Gabinetto e lo presenta al Parlamento chiamato ad accordare o negare la fiducia. Quindi, la nomina del Primo Ministro solo formalmente è affidata al Presidente della Repubblica, perché sostanzialmente egli fa una proposta che le Camere sono libere di approvare o meno.

FUSCHINI dubita dell’opportunità del sistema innovatore suggerito dall’onorevole Mortati, a tenore del quale il Presidente del Consiglio espone il suo programma di Governo di fronte all’Assemblea Nazionale, per ottenerne la fiducia, prima ancora di aver composto il Gabinetto. Teme che, ove si segua tale criterio, possa accadere che l’Assemblea Nazionale approvi le direttive politiche dell’azione governativa, ma neghi poi la sua fiducia al Governo, non trovando di suo gradimento la composizione del Gabinetto, in quanto non rispecchiante esattamente la situazione politica del Paese.

A suo avviso, il parere dell’Assemblea Nazionale dovrebbe riguardare anche la scelta dei Ministri.

MORTATI nota che le osservazioni dell’onorevole Fuschini concernono il problema dei rapporti tra il Parlamento ed il Governo e, perciò, rientrano nella materia che formerà oggetto di discussione in una successiva seduta. Richiama, quindi, l’attenzione dei colleghi sull’opportunità di pronunciarsi in merito alla posizione giuridica del Primo Ministro: se, cioè, questa debba essere diversa da quella dei Ministri che verrebbero nominati in un secondo momento e su proposta, appunto, del Primo Ministro. A questo proposito fa presente che, sia negli articoli che ha proposto personalmente, sia in quelli del Comitato, la nomina del Primo Ministro ha un carattere pregiudiziale rispetto a quella dei Ministri, che dovrebbero, quindi, godere della fiducia tanto del Presidente della Repubblica che del Primo Ministro. Si concede, cioè, a quest’ultimo una maggiore discrezionalità nella scelta degli uomini che debbono consentirgli di realizzare un determinato indirizzo politico, appunto in quanto lo si considera responsabile della politica generale del Governo.

PRESIDENTE è contrario alla determinazione di una responsabilità esclusiva del Primo Ministro per la politica generale del Governo, per varie ragioni e principalmente per le conseguenze che ne possono derivare in un Governo di coalizione. In questo caso, concedere una simile prerogativa al Presidente del Consiglio dei Ministri, equivarrebbe ad autorizzarlo a condurre una politica di carattere personale, ossia a fare la politica di un partito della coalizione, anziché quella della coalizione nel suo complesso. L’esperienza insegna quale danno ciò possa rappresentare per il Paese, particolarmente nel campo della politica internazionale, in cui il Primo Ministro condurrebbe la politica che riterrebbe migliore, senza impegnare il Gabinetto a concretare le proprie direttive o senza sottoporgli le sue decisioni.

Disapprova, quindi, qualsiasi sistema che renda il Primo Ministro non solo il responsabile, ma addirittura l’ideatore della politica del Governo ed i Ministri suoi collaboratori unicamente nella realizzazione e non anche nella direzione della stessa.

LUSSU, una volta scartata l’idea di un Governo presidenziale – che personalmente non crede utile, nel nostro Paese – ritiene che occorra quanto meno dare al Primo Ministro una posizione che garantisca una omogeneità nelle direttive e nell’azione del Governo. È convinto che chi esamini obiettivamente l’attuale esperimento governativo non possa non notare la mancanza di ordine, di prestigio, di autorità, di direttive, non imputabili a colpa né del Primo Ministro, né dei Ministri. Poiché anche in avvenire non può escludersi la necessità di Governi di coalizione, bisogna per lo meno preoccuparsi che essi abbiano la necessaria omogeneità, nel senso che i partiti che ne facciano parte, pur avendo diversa struttura politica e diverse aspirazioni, concorrano con la loro volontà al raggiungimento di determinati obiettivi. A questo scopo è necessario che il Capo del Governo abbia l’autorità necessaria per convogliare tutti gli sforzi nella giusta direzione e tutte le correnti in un’azione univoca.

Non condivide la preoccupazione del Presidente, che il Capo del Governo possa essere portato a imporre una sua politica personale, in quanto si è previsto che non possa assumere alcun Ministero: la sua sarebbe un’azione di impulso, di coordinamento e di vigilanza dell’operato dei singoli Ministri, ciascuno dei quali sarebbe responsabile, per la parte che lo riguarda, della propria azione politica.

Conclude affermando che il tipo di Governo proposto dal Comitato è quello che più risponde all’esigenze della nostra democrazia.

TOSATO, Relatore, rileva che l’onorevole Lussu ha esposto molto bene gli intendimenti del Comitato, il quale si è preoccupato soprattutto di dare alla Nazione un Governo che sia veramente tale, e non un Governo parlamentare sul tipo di quelli che in passato hanno determinato la crisi della democrazia.

In Italia, un tempo, come nella Francia della terza Repubblica, non si avevano partiti politici organizzati, ma gruppi di uomini attorno a personalità eminenti, pronte a rivestire la carica di Primo Ministro, con possibilità illimitate di formule governative che erano, in fondo, formule personali diverse. Ma quando in uno Stato si ha la presenza di forti partiti organizzati, la possibilità di combinazioni parlamentari è molto limitata, se non addirittura unica. Il problema, quindi, che si pone per la vitalità del Governo parlamentare in Italia, non è tanto quello della stabilità – della quale si preoccupa soprattutto l’onorevole Mortati nelle sue proposte – quanto quello dell’unità e dell’efficienza del Governo. Il Governo non deve essere come un’Assemblea o una Commissione parlamentare, in cui le discussioni possono protrarsi all’infinito senza essere costrette dalla necessità di arrivare rapidamente ad una decisione; è necessaria per esso l’azione che, a sua volta, implica l’unità d’indirizzo. D’altra parte, l’esempio di quasi tutti gli Stati consiglia di dare una posizione preminente al Primo Ministro, se si vuole che il Paese abbia un Governo.

All’onorevole Terracini che paventa i pericoli di una preminenza del Primo Ministro, responsabile della politica generale del Governo – pericoli che sarebbero particolarmente gravi nel campo della politica estera – osserva che, se si manifestasse un contrasto tra i Ministri e il Primo Ministro sulla politica, seguita da questo e in un primo momento approvata da quelli, si avrebbe una crisi ministeriale. Conferendo una posizione di preminenza al Primo Ministro, non gli si consente di imporre la sua politica; gli si dà soltanto la possibilità di svolgerla, una volta che è stata approvata dalle Camere.

MORTATI conviene con quanto hanno sostenuto gli onorevoli Lussu e Tosato circa l’esigenza di un’unità nell’indirizzo politico del Governo, il quale deve svolgere un’azione armonica e coordinata che segua una linea direttiva e non sia affidata alle oscillazioni del momento. Soggiunge che proprio questa esigenza ha portato in tutti i Paesi ad una evoluzione del diritto costituzionale, nel senso di attribuire una preminenza al Capo del Governo rispetto ai singoli Ministri. La legislazione fascista sul Capo del Governo – a cui oggi in parte ci si ispira – non ha fatto altro che copiare dal diritto inglese che è stato l’antesignano di questa evoluzione; ciò perché in Inghilterra il Primo Ministro è il Capo del partito che ha ottenuto la maggioranza nelle elezioni, e questa qualità gli conferisce un prestigio particolare.

La questione che può far sorgere qualche perplessità è se in un Ministero di coalizione si possa affidare al Capo del Governo la stessa preminenza che ad un Premier. Personalmente ritiene che, appunto in un Ministero di coalizione, sia maggiormente sentita l’esigenza di garantire un’armonia e un’unità di indirizzo politico. Se si lasciasse che ogni Ministro attuasse una propria particolare politica, si avrebbe non un Governo ma il caos, il discredito degli organi statali e la dissoluzione dello Stato stesso. Un Governo di coalizione può essere utile, in quanto i vari partiti si accordino veramente, consapevolmente e pubblicamente su di un programma e sui mezzi per attuarlo. Bisogna dunque escogitare gli espedienti per la realizzazione armonica di tale programma, reso pubblico e forte dei consensi non solo delle direzioni dei partiti, ma anche del Paese attraverso il Parlamento, affidando ad un organo il compito di mantenere l’omogeneità e l’unità dell’azione rivolta a corrispondere agli impegni solennemente assunti.

Premesso che in questo problema il punto cruciale è quello della posizione dei Ministri, esprime il suo dissenso dall’ultimo comma dell’articolo 20 del Comitato, ove questi vengono fatti apparire come dei semplici funzionari, responsabili unicamente degli atti dei loro Ministeri ed esonerati da ogni responsabilità per la politica generale. Se l’organo propulsore e direttivo rimane il Primo Ministro, i Ministri conservano tuttavia la figura di organi costituzionali e partecipano nel Consiglio dei Ministri alle deliberazioni intorno alle direttive generali del Governo. Perciò nel suo schema propone la formula: «I Ministri sono responsabili degli atti od omissioni relativi ai compiti dei loro Ministeri, nonché degli atti di politica generale cui concorrono».

Circa la preoccupazione del Presidente, osserva che, qualora il Primo Ministro tendesse a fare una politica personale, troverebbe anzitutto un ostacolo nel Consiglio dei Ministri per gli atti che sono ad esso sottoposti e, quindi, nell’azione dei partiti che lo richiamerebbero alle sue responsabilità e all’obbligo di mantenere gli impegni.

PERASSI aderisce al concetto di dare una preminenza alla figura del Primo Ministro, e rileva che la sua funzione di coordinamento e di mantenimento dell’unità di indirizzo politico non si esplica soltanto mediante un’azione personale, ma anche in Consiglio dei Ministri; il che implica che tutti i Ministri concorrano all’attuazione della politica generale del Governo ed esclude che egli possa tendere ed imporre una sua politica personale. Aggiunge che, il fatto che viene accennata la posizione particolare del Capo del Governo, non significa che i Ministri vengano trasformati in collaboratori subordinati, responsabili solo degli atti dei rispettivi ministeri, in quanto in realtà risponderebbero collegialmente della politica generale del Governo.

Pertanto, mentre sostanzialmente approva gli articoli 19 e 20 del Comitato, propone di migliorare la dizione dell’ultimo comma dell’articolo 20, nel senso di precisare la responsabilità dei Ministri.

TOSATO, Relatore, non ritiene necessaria questa modifica, essendo implicita nella dizione dell’articolo 20 la responsabilità dei Ministri per la politica generale del Governo. Il Primo Ministro ha solo il compito di mantenere l’unità d’azione, ma non compie atti propri; un atto di politica si concreta sempre in un atto di un Ministro. Evidentemente quando un Ministro compie un atto d’accordo col Capo del Governo ne assume anche la responsabilità.

EINAUDI, premesso che dalla discussione è già emerso il criterio che al Governo sia necessaria un’unità d’azione e che il Primo Ministro non è un personaggio a sé, con una propria volontà diversa da quella dei Ministri, osserva che gli articoli 19, 20 e 21 del progetto potrebbero considerarsi pienamente soddisfacenti, qualora l’articolo 20 fosse sfrondato di due frasi, che hanno un carattere didattico, relative all’azione concreta del Primo Ministro e dei Ministri; la prima e l’ultima: «Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo», e: «I Ministri sono responsabili degli atti dei loro Ministeri». Se queste due frasi fossero soppresse, i tre articoli risponderebbero tra l’altro alla caratteristica di tutte le buone Costituzioni di non contenere norme a carattere didattico.

Per quanto concerne le citazioni dei passati esperimenti costituzionali che consigliano di dare una preminenza al Primo Ministro, rileva che l’ammaestramento viene soprattutto dalla Costituzione inglese. Peraltro in Inghilterra non si è arrivati a questo risultato come conseguenza di norme scritte, bensì per una evoluzione naturale. Soltanto da poco il Primo Ministro rappresenta colà uno dei primi personaggi dello Stato, e non perché la Costituzione lo abbia stabilito: questo sviluppo naturale della figura del Primo Ministro trae origine dal fatto che la scelta viene compiuta dagli elettori. Crede, quindi, inutile cercar di ottenere attraverso articoli più o meno bene elaborati quello che può essere il frutto soltanto di un costume; meglio sopprimere le espressioni ricordate ed augurarsi che lo stesso fenomeno evolutivo si verifichi anche in Italia.

Altro esempio di funzionamento omogeneo di un Gabinetto si ha in Svizzera, laddove egualmente la Costituzione tace sull’argomento.

Aggiunge che, con la soppressione proposta, non si fa sorgere l’idea che il Primo Ministro sia qualche cosa di più degli altri Ministri, in quanto tutti sono collettivamente responsabili nella politica generale del Gabinetto. Ciò non toglie che un Primo Ministro possa assumere un particolare prestigio, in quanto abbia eccezionali doti personali di coordinatore e di propulsore dell’azione del Gabinetto, come è accaduto con Cavour.

Conclude augurandosi che per l’avvenire, a rendere più efficace l’azione del Governo, il numero dei Ministeri sia ridotto a 7 od 8 al massimo.

NOBILE insiste sulla sua proposta, che la designazione del Primo Ministro sia fatta dall’Assemblea Nazionale; alla quale proposta dà un valore pregiudiziale, in quanto ritiene che soltanto in questo caso si potrebbe ammettere per il Primo Ministro una posizione preminente nel Gabinetto.

LUSSU risponde che in pratica la scelta del Primo Ministro viene fatta sempre attraverso ai partiti e all’Assemblea Nazionale, anche se formalmente la nomina compete al Presidente della Repubblica.

LA ROCCA, Relatore, avverte di aver già fatto in sede di Comitato le sue riserve sulle disposizioni in esame, le quali cercano di tradurre in atto la pratica inglese e più esattamente quella pratica che, senza essere sancita dalla Costituzione, è possibile in Inghilterra per il particolare clima politico che ivi esiste e che non è facile riprodurre in altri Paesi.

In Inghilterra l’autorità del Primo Ministro – che lo pone quasi sullo stesso piano del Presidente degli Stati Uniti – è la conseguenza non di una norma scritta, ma del valore personale di alcuni uomini di Stato e del fatto che tale carica è ricoperta dal leader del partito di maggioranza. Finché una tale situazione non potrà riprodursi in Italia e finché non si affacceranno sulla scena politica personalità di primo piano, è inutile illudersi che si possa ottenere lo stesso risultato attraverso una disposizione costituzionale.

Si dichiara, pertanto, contrario alla espressione: «Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo», con cui, a suo avviso, si rischia di dare poteri eccessivi ad uomini che potrebbero non meritarlo, col pericolo cui ha accennato il Presidente.

MORTATI fa osservare, in risposta alle considerazioni degli onorevoli Einaudi, Fuschini e La Rocca, che l’espressione: «il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo», è la logica conseguenza di quanto è detto poi nell’articolo 20. In quanto mantiene l’unità dell’indirizzo politico e coordina le attività dei vari Ministri, il Primo Ministro deve avere questa preminenza e questa maggiore responsabilità nella politica generale. Ciò non toglie che anche gli altri Ministri abbiano la loro parte di responsabilità, che potrà meglio farsi risaltare dando una forma più precisa all’ultimo comma dello stesso articolo. Del resto, non è una innovazione il fatto che si conferiscano al Primo Ministro i poteri necessari per sindacare l’operato dei Ministri ed accertarsi che corrisponda agli impegni solennemente assunti, perché già si trova una disposizione del genere nel decreto del 1901 sul Consiglio dei Ministri.

All’obiezione che non è il caso di conferire tali poteri a persone che potrebbero non avere le qualità per esercitarli, replica che la Costituzione non può fare riferimento alle attitudini ed alle capacità personali. Essa prevede un determinato funzionamento ed un rapporto di forze; s’intende che i poteri che essa conferisce al capo di un organo potranno giovare soltanto in quanto questi sia una persona di valore.

Soggiunge, quindi, che, se una determinata situazione politica è la risultante di un costume, non va dimenticato peraltro che la Costituzione è uno degli elementi che possono influire di più nel determinare un costume. La Carta costituzionale viene approvata dalla maggioranza delle forze politiche del Paese e quindi una norma in essa contenuta costituisce un impegno, garantito dalle forze stesse, a promuovere quelle lente modificazioni del costume che possono condurre alla realizzazione di un sistema politico.

Nega, quindi, che le prescrizioni dell’articolo 20 possano risultare del tutto inefficaci. Consentiranno invece un perfetto funzionamento del meccanismo, se a capo del Governo vi sarà un uomo che abbia le doti necessarie, mentre daranno risultati meno buoni in caso contrario.

EINAUDI fa rilevare all’onorevole Nobile che la disposizione dell’articolo 19, per cui i Ministri vengono nominati dal Primo Ministro, non è ispirata al desiderio di accentuare – come l’onorevole Nobile sembra ritenere – la differenza esistente fra il Primo Ministro e gli altri Ministri, ma è suggerita da una necessità tecnica. Infatti, il Presidente della Repubblica nomina il Primo Ministro e non può nominare contemporaneamente i Ministri, perché non può sapere quali persone godano la fiducia di quello. Nelle due nomine è dunque necessario procedere gradualmente, in quanto una caratteristica del Gabinetto è data dalla fiducia reciproca tra Primo Ministro e Ministri.

Rispondendo all’onorevole Mortati, dichiara di dubitare che l’espressione: «Il Primo Ministro è responsabile della politica generale del Governo» giovi a creare quel tale costume che è nell’aspirazione di tutti. Teme piuttosto che possa costituire un ostacolo al raggiungimento di siffatta meta, ed un mezzo offerto ad uomini di secondo piano per fare una politica personale.

Il Primo Ministro, a suo avviso, non deve essere personalmente responsabile della politica del Governo; né deve esistere una politica del Primo Ministro o una politica dei singoli Ministri. Deve esistere esclusivamente una politica generale del Governo, di cui il Primo Ministro non è che l’interprete.

FABBRI si dichiara favorevole alla soppressione dell’ultimo comma dell’articolo 20, ritenendo che vi debba essere una responsabilità collegiale di tutti i Ministri nella politica del Governo, e propone di sostituire al primo comma dello stesso articolo il seguente:

«Il Primo Ministro, a seguito dell’adesione dei vari Ministri al suo programma, precisa e dichiara le direttive della politica generale del Governo, delle azioni e delle omissioni del quale sono responsabili solidamente tutti i Ministri.

«Il Primo Ministro mantiene quindi l’unità d’indirizzo politico, ecc.».

La seduta termina alle 20.15.

Erano presenti: Einaudi, Fabbri, Fuschini, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Terracini, Tosato.

Intervenuto, autorizzato: Bozzi.

Assenti: Bordon, Castiglia, Codacci Pisanelli, De Michele, Finocchiaro Aprile, Grieco, Lami Starnuti, Piccioni, Rossi Paolo, Vanoni, Zuccarini.

ANTIMERIDIANA DI SABATO 4 GENNAIO 1947 (Prima sezione)

ASSEMBLEA COSTITUENTE

COMMISSIONE PER LA COSTITUZIONE

SECONDA SOTTOCOMMISSIONE

(PRIMA SEZIONE)

3.

RESOCONTO SOMMARIO

DELLA SEDUTA ANTIMERIDIANA DI SABATO 4 GENNAIO 1947

PRESIDENZA DEL PRESIDENTE TERRACINI

INDICE

Potere esecutivo (Seguito della discussione)

Presidente – Nobile – La Rocca, Relatore – Lussu – Bozzi, Relatore – Perassi – Fuschini – Fabbri – Mortati.

La seduta comincia alle 10.55.

Seguito della discussione sul potere esecutivo.

PRESIDENTE apre la discussione sull’articolo 13:

«Il Presidente della Repubblica ha il comando di tutte le Forze armate».

NOBILE dichiara di essere favorevole alla dizione dell’articolo, la quale, del resto, riproduce una disposizione comune alla maggior parte delle Costituzioni.

LA ROCCA, Relatore, pur riconoscendo che il concetto fissato nell’articolo in esame è accolto da numerose Costituzioni (Stati Uniti, Inghilterra, nuova Costituzione francese, Costituzione di Weimar), non nasconde le sue perplessità al riguardo, perché molte volte le Forze armate, le quali hanno, o dovrebbero avere, un compito determinato, sono state adoperate a tutela di interessi di un solo settore della Nazione e non dell’intero Paese.

Nulla ha da obiettare circa l’opportunità di stabilire nella Costituzione quanto è sancito dall’articolo in esame; ma sarebbe, a suo avviso, consigliabile fissare, come norma cautelativa, il principio che, sia in tempo di guerra che in tempo di pace, venga sottoposta all’approvazione preventiva dei due rami del Parlamento la nomina di quella o di quelle persone le quali, per il fatto di avere praticamente il comando delle Forze armate, danno ad esse un determinato indirizzo e le educano in un determinalo clima. Osserva che un simile concetto, che ad alcuni può apparire una novità, comincia a farsi strada nelle Costituzioni più progredite dal punto di vista democratico: esso è infatti accolto in certo senso dalla Costituzione sovietica, ed anche quella jugoslava stabilisce che il comando supremo, affidato allo Stato Maggiore, è nominato dagli organi popolari.

Dichiara di limitare la sua proposta alla richiesta di approvazione preventiva, da parte dei rappresentanti del popolo, della nomina dell’organo supremo tecnico di comando delle Forze armate, perché è, a suo avviso, opportuno che generali ed ammiragli non siano depositari di un potere così grande e così decisivo indipendentemente dalla volontà del popolo, il quale, a sua volta, ha il diritto di sapere in che modo le Forze armate sono educate.

LUSSU è favorevole al testo del progetto, il quale stabilisce in modo incontrovertibile che il Presidente della Repubblica è il capo delle Forze armate. A parte il fatto che il circondare questa sua attribuzione di ulteriori limitazioni potrebbe essere interpretata come una limitazione del suo prestigio, rileva che le garanzie, a cui ha accennato l’onorevole La Rocca, sono insite nell’organizzazione stessa dello Stato e nella natura stessa delle attribuzioni conferite al Capo dello Stato, in quanto quest’ultimo non potrà fare nulla senza la firma dei ministri responsabili, i quali sono a loro volta espressione del Parlamento.

Conclude quindi affermando l’opportunità – dal momento che non sarà possibile in nessun caso avere delle garanzie in senso assoluto – di mantenere il testo del progetto.

NOBILE osserva all’onorevole Lussu che in questo caso non si tratta tanto del prestigio del Capo dello Stato, quanto di una vera e propria misura di cautela di carattere politico.

Pur rendendosi conto delle preoccupazioni manifestate dall’onorevole La Rocca, miranti a porre un freno al potere del Capo dello Stato, il quale, secondo la vecchia legislazione, poteva dichiarare la guerra senza alcuna deliberazione delle Assemblee legislative, dichiara di insistere nella opportunità di approvare l’articolo nel testo proposto, tanto più che ora è stata fissata una garanzia prima inesistente, e cioè che in pratica la guerra è dichiarata dal Parlamento.

Si domanda poi, per il caso che la proposta dell’onorevole La Rocca sia presa in considerazione, se il Parlamento abbia la competenza di procedere alla scelta del Capo di Stato Maggiore e se, una volta ammesso che il Ministro della guerra è il responsabile di fronte alle Assemblee legislative, sia opportuno agire su di lui, così che possano essere nominati capi che non diano affidamento, per esempio, dal punto di vista politico.

BOZZI, Relatore, premesso che una discussione sull’argomento potrebbe farsi con maggiore cognizione di causa, se si avesse una idea più precisa di quello che è il Consiglio supremo di difesa nazionale di cui parla l’articolo 15, dichiara di essere anch’egli favorevole al mantenimento dell’articolo 13 nella forma proposta, perché non vede come, nella Costituzione che si sta elaborando, il Presidente della Repubblica possa prendere iniziative di carattere militare che non siano rigorosamente controllate. D’altra parte, ritiene che la funzione del Capo dello Stato, che è essenzialmente politica, debba essere tenuta separata da quella del Capo di Stato Maggiore, che è esclusivamente tecnica; e che affidare al Presidente della Repubblica il comando delle Forze armate (ritiene inutile l’aggettivo «tutte») risponda ad un concetto non solo decorativo, ma anche sostanziale ed all’esigenza di unificare nella persona del Capo dello Stato tutti i poteri.

Concorda con l’onorevole Lussu nel ritenere che il Presidente della Repubblica non possa prendere alcuna deliberazione, se non impegnando la responsabilità del Governo; mentre è contrario alla proposta dell’onorevole La Rocca, la quale darebbe origine ad una contaminazione del criterio politico con quello tecnico.

PERASSI dichiara di essere favorevole al testo proposto, con l’emendamento di forma accennato dall’onorevole Bozzi. Rileva poi come la soluzione proposta dall’onorevole La Rocca – le cui preoccupazioni possono essere in certo senso apprezzabili – non sia scevra di pericoli, come, ad esempio, quello gravissimo di carattere politico che una elezione di capi militari fatta dal Parlamento possa rafforzare troppo la loro posizione; e, d’altra parte, osserva che le garanzie relative all’impiego delle Forze armate sono date da altri organismi, quali, ad esempio, i Ministeri, che sono politicamente responsabili di fronte al Parlamento, e gli organi tecnici, che devono essere anch’essi subordinati al potere politico.

LA ROCCA, Relatore, insiste nella sua proposta, la quale non muta in alcun modo l’essenza dell’articolo 13 del progetto; ma, tenuti presenti i numerosi casi di conflitto tra Governo e Stato Maggiore, mira a stabilire un controllo politico anche su questi organi tecnici, i quali, appunto perché tali, potrebbero considerarsi staccati dai poteri legislativo ed esecutivo.

FUSCHINI dubita che un’Assemblea di 550 persone possa dare giudizio sicuro sulle capacità tecniche di un uomo.

LA ROCCA ritiene che ciò sia possibile, dal momento che delle Assemblee legislative faranno parte anche tecnici ed esperti militari.

FABBRI rileva come il nocciolo della questione sia nella soluzione del seguente dilemma: se la nomina del Capo di Stato Maggiore generale sia di competenza del Parlamento o del Consiglio dei Ministri. Considerata la natura di questi due organi, non v’è dubbio che tale nomina debba esser fatta dal Consiglio dei Ministri, fiduciario del Governo, del quale fanno parte i ministri delle Forze armate.

È favorevole a stabilire nella Costituzione una definizione del genere di quella proposta; e crede che l’esigenza fatta presente dall’onorevole La Rocca non sia traducibile in formule costituzionali. Quanto ai conflitti tra Capo di Stato Maggiore generale e Governo, osserva che sono inevitabili e non facilmente regolabili con legge, soggiungendo che soltanto il costume politico e l’educazione dei cittadini potranno eliminare questa situazione.

NOBILE propone il seguente emendamento aggiuntivo all’articolo 13:

«In tempo di guerra egli esercita tale comando per mezzo di un capo militare designato dal Parlamento».

PRESIDENTE, all’esempio delle Costituzioni sovietica e jugoslava, citato dall’onorevole La Rocca, aggiunge quello della Costituzione svizzera, la quale stabilisce che, in tempo di guerra (in tempo di pace non esiste un comando delle Forze armate e quindi non si pone il problema della nomina del Capo di Stato Maggiore generale), il Comandante supremo dell’esercito sia nominato dal Parlamento.

Concorda con l’onorevole La Rocca nel ritenere che non si possa chiedere al popolo di accettare un padrone che altri sceglie; e ciò anche nella considerazione che la catena di successivi legami di responsabilità (Parlamento e Governo, Governo e Stato Maggioro) finisce col ridurre a nulla il legame fra Parlamento e Comando dello Stato Maggiore, il quale può essere considerato un quarto potere dello Stato, in quanto, oltre alla volontà, ha anche i mezzi per tradurre in alto i suoi disegni.

Concludendo, dichiara di essere favorevole alla proposta dell’onorevole La Rocca, la quale risponde ad una esigenza profondamente sentita.

LUSSU ritiene che gli esempi citati dall’onorevole La Rocca e dal Presidente non siano probanti, perché tanto la Russia quanto la Jugoslavia sono due Stati organizzati autoritariamente, mentre il caso della Svizzera è basato su una tradizione sorta in un clima politico speciale ed appunto perciò non trasportabile in un altro Paese.

Rileva come, nel caso in esame, non si possa prescindere dal controllo che le forze politiche esistenti nel Parlamento esercitano sul Governo; e d’altra parte osserva che in pratica una disposizione del genere di quella suggerita dall’onorevole La Rocca esporrebbe al pericolo di rovinare il prestigio delle Forze armate, perché in una discussione parlamentare non si mancherebbe di fare critiche molto serie agli uomini destinati a ricoprire una carica così alta. Si dichiara perciò contrario alla proposta fatta dall’onorevole La Rocca e favorevole al testo dell’articolo proposto dal Comitato.

MORTATI fa anzitutto presente che non è necessario specificare che il Presidente della Repubblica esercita le funzioni di comando per mezzo di capi militari, dal momento che l’articolo 17 del progetto stabilisce al primo comma che «il Presidente della Repubblica non è responsabile per gli atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni».

Quanto alla nomina del comando delle Forze armate in guerra, è del parere che non sia opportuno istituire un dualismo tra Ministro e Capo di Stato Maggiore, poiché il responsabile della condotta della guerra è il capo tecnico, ossia il Capo di Stato Maggiore.

Ritiene che non si possa uscire da uno di questi due casi: o il Governo ha la fiducia del Parlamento, ed allora la nomina cadrà sulla persona designata dal Governo stesso; o non ha tale fiducia, ed allora il Governo non potrà continuare a dirigere la politica dello Stato, perché un Parlamento che non approva la scelta del Capo di Stato Maggiore, non darà evidentemente un voto favorevole ad un Governo così formato.

Concorda poi nelle considerazioni fatte dagli onorevoli Perassi e Lussu; ed osserva che – approvato l’articolo 13 nella forma proposta, alla quale è favorevole – si potrebbe trasferire in questa sede la parte dell’articolo 15 che stabilisce che il Presidente della Repubblica presiede il Consiglio supremo di difesa nazionale.

FUSCHINI si associa alle considerazioni degli onorevoli Lussu e Mortati.

PRESIDENTE, tenendo presente la proposta dell’onorevole La Rocca, alla quale egli si è associato, formulerebbe l’articolo 13 nel modo seguente:

«Il Presidente della Repubblica ha il comando delle Forze armate e in tempo di guerra egli lo esercita per mezzo di capi militari designati dal Parlamento».

NOBILE fa presente l’eventualità che un capo militare, eletto dal Parlamento, finisca con l’avere un potere tale da sovvertire tutti gli organi dello Stato; il che potrebbe anche essere contrario agli interessi del Paese.

Per questa ragione dichiara di astenersi dal voto.

PRESIDENTE pone ai voti la prima parte dell’articolo:

«Il Presidente della Repubblica ha il comando delle Forze armate».

Dichiara di astenersi dalla votazione.

(È approvata).

Mette ora ai voti la seconda parte dell’articolo:

«…e in tempo di guerra egli lo esercita per mezzo di capi militari designati dal Parlamento».

LUSSU riconosce che in tempo di guerra l’investitura del Parlamento dà all’eletto un più grande prestigio ed è un indice della fiducia del Paese. Dichiara perciò di essere favorevole a tale proposta.

(Non è approvata).

PRESIDENTE apre la discussione sull’articolo 14 del progetto:

«Il Presidente della Repubblica può convocare le Camere, e, sentito il parere dei loro Presidenti, può scioglierle».

MORTATI propone il rinvio dell’esame dell’articolo al momento in cui si discuteranno gli articoli 19 e seguenti, ai quali è connesso.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Mortati.

(Così rimane stabilito).

FUSCHINI rileva come nel progetto non sia stata tenuta presente una funzione importantissima del Presidente della Repubblica: quella di nominare alle alte cariche dello Stato.

MORTATI osserva che si potrebbe fissare la norma generale, rinviando la determinazione delle cariche ad una legge successiva, perché potranno essere istituite cariche che ora non è possibile prevedere.

FUSCHINI propone la seguente dizione, come emendamento aggiuntivo all’articolo 10:

«Il Presidente della Repubblica nomina alle alte cariche dello Stato che saranno indicate dalla legge».

PRESIDENTE pone ai voti l’emendamento proposto dall’onorevole Fuschini.

(È approvato).

Apre quindi la discussione sull’articolo 15:

«Il Presidente è tenuto informato dal Primo Ministro degli affari dello Stato.

«Presiede il Consiglio Supremo di difesa nazionale, il Consiglio Superiore della Magistratura, ed ha facoltà di presiedere il Consiglio dei Ministri».

MORTATI ritiene superfluo il primo comma.

PERASSI fa presente che la frase va intesa nel senso che è obbligo del Primo Ministro informare il Presidente della Repubblica.

PRESIDENTE osserva che tale disposizione potrà, se mai, trovar posto all’articolo 20, là dove si parla del Primo Ministro.

Pone ai voti la proposta di soppressione del primo comma.

(È approvata).

Pone quindi ai voti la prima frase del secondo comma:

«Presiede il Consiglio supremo di difesa nazionale».

(È approvata).

Considera poi la seconda frase: «…il Consiglio superiore della Magistratura», osservando che sarebbe opportuno attendere le decisioni al riguardo della seconda Sezione.

LUSSU ritiene più opportuno decidere ora anche questa questione, salvo a ritornarvi sopra se la seconda Sezione sarà di parere contrario.

PRESIDENTE mette a partito la frase: «…il Consiglio superiore della Magistratura».

(È approvata).

Apre quindi la discussione sull’ultima frase del secondo comma dell’articolo 15: «…e ha facoltà di presiedere il Consiglio dei Ministri».

MORTATI dichiara di essere contrario alla disposizione, la quale tra l’altro non stabilisce se abbia o meno in seno al Consiglio voto deliberativo.

LUSSU ritiene che abbia voto consultivo, non essendo egli responsabile.

PRESIDENTE concorda con l’onorevole Mortati. Infatti la disposizione è inutile se ha soltanto lo scopo di tenere il Presidente a giorno della situazione politica, perché esso potrà essere sempre informato dai ministri; ed è anche in contrasto con la norma dell’articolo 17, perché se il Presidente, partecipando alla discussione, interviene nelle deliberazioni – anche senza votare – argomentando e influendo sulle convinzioni di coloro che debbono deliberare, assume necessariamente delle responsabilità.

FABBRI è anch’egli d’accordo con l’onorevole Mortati.

LUSSU non crede che la presenza del Capo dello Stato in seno al Consiglio dei Ministri possa influenzarne le decisioni. Anche in Francia, in cui i partiti politici si sono voluti difendere dal pericolo di un’eccessiva influenza del Capo dello Stato nella vita del Paese, il Presidente della Repubblica presiede sempre il Consiglio dei Ministri. Ritiene all’opposto che la presenza del Capo dello Stato, specie nella trattazione di affari internazionali, consenta di aggiungere la sua autorità a quella dei membri del Governo, senza per questo che l’una sia confusa con l’altra.

PRESIDENTE osserva che, nel caso che una determinata decisione del Governo sia combattuta dal Parlamento, diverranno inevitabilmente argomento di discussione le opinioni manifestate dal Capo dello Stato in seno al Consiglio dei Ministri. Ritiene quindi che tale norma possa costituire una catena attraverso la quale il Presidente della Repubblica sia trascinato nella lotta politica, alla quale dovrebbe rimanere estraneo.

LUSSU ritiene che la presenza del Presidente della Repubblica in seno al Consiglio dei Ministri possa dare carattere di maggiore obiettività alla discussione; del resto, questi dovrà limitarsi a porre i problemi in termini obiettivi, senza mai prendere posizione.

È favorevole al testo proposto che lascia il Capo dello Stato arbitro di intervenire o meno alle riunioni.

MORTATI, alle considerazioni fatte contro la norma in esame, ne aggiunge un’altra. Poiché, innovando rispetto alla tradizione precedente, si è affidato l’indirizzo politico generale al Primo Ministro, mentre al Consiglio dei Ministri è stata affidata una funzione esecutiva di questo indirizzo, il Capo dello Stato potrà far conoscere il proprio punto di vista in occasione dei contatti col Primo Ministro, che è arbitro della politica generale.

PRESIDENTE pone ai voti l’ultima frase dell’articolo 15: «…e ha facoltà di presiedere il Consiglio dei Ministri».

(Non è approvata).

Apre la discussione sull’articolo 16 del progetto:

«Il Presidente della Repubblica può concedere grazia e commutare le pene».

Ricorda che in proposito era stata formulata la seguente proposta aggiuntiva: «L’amnistia è concessa con legge dell’Assemblea nazionale», la quale non ha più qui la sua sede, dal momento che la materia dell’amnistia è stata trasferita al potere legislativo.

Pone ai voti l’articolo 16 nel testo del progetto.

(È approvato).

La seduta termina alle 12.20.

Erano presenti: Fabbri, Fuschini, La Rocca, Lussu, Mortati, Nobile, Perassi, Terracini, Tosato.

Intervenuto autorizzato: Bozzi.